Discarica di Anime

di G K S
(/viewuser.php?uid=663730)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Caduta ***
Capitolo 2: *** 1. Diagnosi ***
Capitolo 3: *** 2. Ascesa ***
Capitolo 4: *** 3. Rivelazioni ***
Capitolo 5: *** 4. Primo Passo ***
Capitolo 6: *** 5. Falso ***
Capitolo 7: *** 6. Precipizio ***
Capitolo 8: *** 7. Scelta ***
Capitolo 9: *** 8. Giudizio ***
Capitolo 10: *** 9. Certezza ***
Capitolo 11: *** 10. Schema ***
Capitolo 12: *** 11. Bivio ***
Capitolo 13: *** 12. Tradimento ***
Capitolo 14: *** 13. L'inevitabile ***
Capitolo 15: *** 14. Antitesi ***
Capitolo 16: *** 15. Dialogo ***
Capitolo 17: *** 16. Intromissione ***
Capitolo 18: *** 17. Separazione ***
Capitolo 19: *** 18. Lo sconcerto dell'ombra ***
Capitolo 20: *** 19. Promessa ***
Capitolo 21: *** 20. Ingiustizia ***
Capitolo 22: *** 21. Coraggio ***



Capitolo 1
*** Prologo - Caduta ***




 
Prologo // Caduta


Avere paura è comunemente considerato un sinonimo di debolezza. Sei hai paura, sei debole.
Non era forse quello il suo problema? 
Si. Era arrivata ad annullare sé stessa, pur di non sembrare debole davanti agli altri.
Ma era peggio avere paura o essere considerati deboli? 
Kell sospirò nel suo letto aprendo gli occhi, stufa dei discorsi auto-trattativi con la sua coscienza. 
Era costantemente in gabbia, tramortita e impaurita, aveva accettato da tanto tempo quella condizione ma essere considerata debole era molto, molto peggio.
Se una persona ha paura di tutto e non può venirne fuori, non è più sensato essere in grado di nasconderlo? 
La sua coscienza sbuffò sonoramente rispondendo per lei che sì, certo stupida, ovviamente, imbrogliando.
Quei discorsi contorti nel cuore della notte alla fine cominciarono a darle la nausea, la sua coscienza aveva ragione. Di sicuro, è meglio avere paura ma avere la forza di nascondere di essere deboli. 
Se lo ripeteva quasi ossessivamente a volte, le dava forza.
Ma alla fine, si rigirò nel letto sorridendo un tantino: la vita non cambiava. Rimaneva sempre uguale. 
Sarebbe rimasta sempre la stessa; anche perché, ora non aveva più nessuno a cui dimostrare di poter resistere oltre che alla sua famiglia, non si sentiva più così bisognosa di nascondersi. Dopotutto, i suoi genitori sapevano perfettamente che lei aveva delle fobie, un sacco di fobie, da un po’ si sentiva stranamente tranquilla; si era sepolta dentro di lei.
Kell aveva sedici anni, quell’anno ne avrebbe fatti diciassette e se li sentiva tutti addosso, uno dopo l’altro e nonostante questo dormiva ancora con la luce accesa. 
Perché? 
Aveva una raggelante e attanagliante paura del buio e di quello che questo conteneva. Quindi, molto semplicemente era acluofobica. Il suo psicologo gliel’aveva detto in tutte le salse. 
Non usciva di casa da quasi otto mesi. 
Perché? 
Era agorafobica e demofobica, terrorizzata dagli spazi aperti e da quelli affollati.
Aveva paura persino della sua ombra e non riusciva in nessun modo a venirne fuori, ci aveva provato per troppi anni. 
Da un mese aveva smesso di fare terapia. 
Il suo psicologo le aveva confessato in via del tutto confidenziale di aver trovato altre fobie da cui era affetta, tra cui una molto importante: la sociofobia, una paura assolutamente immotivata  dei contatti sociali e umani.
Quella fobia, era il massimo della debolezza, praticamente l’apice dell’apice della peggiore paura che conoscesse; forse la odiava così tanto perché ne aveva paura. Kell non ne aveva idea.
Si alzò in piedi arcistufa di sentirsi riflettere sul passato.
Aprì la porta azzurra di camera sua pensando che in effetti non riusciva a pensare al futuro perché non ne vedeva ancora nessuno, ma d’altra parte faceva fatica a ricordare un giorno in cui si era alzata felice.
Attraversò il corridoio bianco passando davanti a camera della sua sorellina, come al solito, sua madre aveva lasciato tutte le luci di sorveglianza accese per il corridoio, molto saggia. 
Se si fosse messa a urlare nel pieno della notte avrebbe svegliato tutto il palazzo, era già successo, difficilmente i loro vicini avrebbero dimenticato quelle urla. 
Tante, troppe, terribilmente acute, incredibilmente forti. 
Ricordava ancora le riflessioni flemmatiche di una vecchietta loro vicina: “Santo cielo, pensavo che stessero ammazzando qualcuno!”, e pensare che aveva soltanto avuto un attacco di panico...
Arrivata in cucina prese un bicchiere dalla mensola sopra il lavello e lo riempì d’acqua fresca, bevve e poi insoddisfatta riempì il bicchiere nuovamente.
Non aveva voglia di tornare a letto, non sarebbe riuscita a dormire, ne era certa, in effetti la sera prima aveva scordato “accidentalmente” di prendere la medicina per dormire, come la chiamava sua madre.
Depositò il bicchiere dentro il lavello d’acciaio e si incamminò verso camera sua. 
Tutto sommato poteva fare qualcosa di più interessante.
Annoiata, con lo sguardo un po’ appannato decise di dare un’occhiata alla sua sorellina, aveva appena sei mesi, dormiva ancora dentro la culla, in fin dei conti sarebbe stato divertente cullarla nel caso si fosse svegliata...
Convinta della sua decisione, arrivò davanti alla vecchia porta di legno della cameretta di Sam, abbassò la maniglia e... 
e niente.
La porta non si apriva.
Sentì il suo cuore accelerare di un battito non appena il suo cervello recepì la notizia. 
La porta era chiusa a chiave.
Una forte delusione amara la invase.
Scosse la testa trattenendo una risata smorzata e arrabbiata.
Non riusciva a capacitarsi di quello che aveva appena scoperto.
Tentò di nuovo di girare la maniglia della porta, a vuoto. La porta doveva essere chiusa da fuori, i suoi genitori avevano chiuso Sam dentro la sua camera. Ricacciò dentro l’idea di dare un calcio alla porta; in quel caso avrebbe dato prova ai suoi genitori che avevano avuto un’idea intelligente a chiudere il loro bambino di sei mesi dentro la sua cameretta. 
Dopotutto, avevano una figlia che non ci stava con la testa...
Digrignò i denti così infuriata da spaventarsi, i pugni stretti e le nocche bianche ben in vista; fece un passo indietro, e poi un altro e poi un altro ancora dirigendosi svelta verso camera sua, improvvisamente facendosi seria.
Era troppo anche per lei, un rifiuto simile, una mancanza così colossale di rispetto, non era mai stata violenta con nessuno, neanche una volta, nonostante il fatto che credesse con tutto il cuore che certe volte avrebbe davvero voluto esserlo.
Si ributtò i capelli dietro la testa angosciata.
C’era qualcosa che poteva fare, qualcosa a cui aveva pensato saltuariamente durante certe noiose notti insonni nei mesi passati, ma che non aveva mai avuto il coraggio di mettere in pratica. Le era sempre mancato, il coraggio.
Qualcosa di definitivo quanto un punto fermo alla fine di un libro, veloce, incredibilmente facile, semplice, qualcosa che avrebbe risolto in un istante tutti i suoi problemi.
Entrò in camera ancora scossa da un tremore persistenze; aprì la finestra di camera sua con un gesto brusco. 
I suoi genitori non avevano mai pensato di metterci le sbarre e avevano fatto male, pensò Kell senza però riuscire a sorridere.
Si sollevò di peso e finì seduta sopra le mattonelle del davanzale, le tegole del tetto dell’ultimo piano sotto i piedi nudi.
Si vedeva il mare, il porto era vicino e l’odore salato delle onde  e della notte per un attimo sconvolse le sue narici, la luce della luna illuminava il buio, troppo poco affinché lei fosse tranquilla. A farla calmare c’era il faro che ogni tanto tornava a illuminare quella parte di costa con la sua luce bianca.
Il suo pigiama congelato ondeggiava spostato dal vento, in un momento del genere, alla fine non serviva essere tranquilla, e neanche importava il fatto che facesse freddo da morire.
Non pensare Kell, se ci riesci. Smetti di pensare per un momento.
Non era facile, anzi, forse le era impossibile. 
Si convinse di non volerlo fare, pensò corrucciata e stranita che in effetti, in fin dei conti le sarebbe piaciuto non dimenticare quel momento.
L’attimo fatidico in cui finalmente metteva fine alla sua vita.
Si lasciò scivolare giù dal davanzale, ignorando fermamente l’oscurità raggelante in cui sarebbe piombata cadendo sull’asfalto della strada.
Tutto sommato, era un bel modo di andarsene.


Sentì delle urla mentre scivolava e poi un dolore lancinante... sentì qualcosa afferrarla così forte che dovette girarsi a guardare dietro di se per rendersi conto che non era stata pugnalata.
Una mano, poi due mani, poi tre mani, poi quattro.
L’afferravano, la tiravano su, le urlavano in faccia parole senza senso dal suono scomposto e gutturale.
Non era caduta eppure si sentiva come se stesse per morire, senza più avere aria in corpo, sentendo il suo cuore battere all’impazzata dalla vergogna, era stata scoperta.
La paura, ce l’aveva fin dentro i polmoni e le faceva trasudare dolore ad ogni movimento come paralizzata. 
Finì sul tappeto di camera sua tremando come una foglia, i suoi genitori urlavano il suo nome, riusciva a leggere il labiale perché nonostante tutto aveva ancora gli occhi sbarrati ma non voleva capire le loro parole.
Non potevano proprio lasciarla morire?
Appoggiò la testa sul tappeto e sentì la solita sensazione di nulla che avvertiva mentre stava per svenire. 
Così, il nero la avvolse.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 1. Diagnosi ***


- Minuscolo spazio autrice -
E' la prima storia che pubblico su efp, nonostante il fatto che abbia parecchia altra roba nel cassetto :3
Se vi piace la storia oppure se vi va semplicemente di farmi sapere cosa ne pensate ve ne sarei enormemente grata, adoro scrivere e sapere cosa pensano del mio modo di scrivere persone che... non mi conoscono direttamente (e non posso subire i miei sproloqui) sarebbe molto interessante ;)
Beh, buona lettura, ora vi lascio al primo capitolo!
 








 
PARTE PRIMA


1. Diagnosi


La psicologa di mezza età che l’aveva esaminata si schiarì la voce portandosi una mano alla gola: «Allora Kellan.» Sentirsi chiamare con il suo nome completo dopo tanti mesi faceva un certo effetto...
«Abbiamo trovato tutte le tue fobie.» Sorrise e gli mise sotto il naso un foglio ruvido con delle grosse scritte nere in stampatello maiuscolo.
Alzò lo sguardo verso la donna dall’altra parte della scrivania di vetro, la guardò con aria di sufficienza, facendole capire che non le importava proprio niente delle sue fobie.
La psicologa lesse ad alta voce: «Agorafobia, demofobia, acluofobia, sociofobia, fobofobia e agyrofobia.» Poi attaccò a spiegarle, come se ce ne fosse stato bisogno: «L’agorafobia come sai è la paura degli spazi aperti.
La demofobia è la paura dei luoghi affollati.
La acluofobia è la paura del buio... la più grave che hai.
La fobofobia è la paura della paura stessa, ne è affetto chi come te ha paura del giudizio degli altri quindi va a braccetto con la sociofobia.
La agyrofobia è la paura delle strade, direi che è chiaro che il tuo è un problema fisicamente fastidioso.»
«Qualcos’altro?» Domandò ironicamente Kell.
La psicologa sospirò: «I tuoi genitori in realtà pensavano che tu soffrissi prevalentemente di un disturbo d’ansietà generalizzato, ma non è così, tu hai delle vere e proprie fobie, tu...» Esitò un momento vedendola aggrottare le sopracciglia: «Tu lo sapevi?»
«Sì.» Lo sapeva eccome.
«D’accordo.» Si schiarì di nuovo la voce intimorendola: «Ti hanno detto per quale motivo ti hanno portata qui a farti esaminare in questa struttura?»
«Per capire esattamente quali fobie ho.» Rispose senza esitare, ma lo sguardo della psicologa le fece capire che non era proprio così che era andata.
La donna scosse la testa e iniziò a spiegare: «Tanto per cominciare, era importante capire se hai delle vere fobie com’è risultato invece di un disturbo d’ansietà generalizzato.» Fece una pausa per permetterle di fare cenno di aver afferrato il concetto: «Nel caso non fosse stato così non avrebbero potuto fare quello che adesso faranno.»
«Si, cioè?» Chiese Kell sempre più irritata, quei discorsi vaghi non erano esattamente il modo più adatto per convincerla che non sarebbe rimasta sconvolta e poi, non potevano dirglielo direttamente i suoi, mancava loro il coraggio forse?
La dottoressa parlò: «Vogliono iscriverti a un programma di terapia di gruppo di esposizione, tramite questo programma potrai confrontarti direttamente con le situazioni che temi, fino a quando più avanti nel tempo non avrai superato del tutto il tuo problema.»
Ispirò cercando di contenersi, aveva detto terapia di gruppo?
«C’è un’altra cosa, la cosa più importante.» Sorrise leggermente come se servisse ad addolcire il sapore di uno sciroppo al gusto di evidenziatore: «Si tratta di un istituto privato psichiatrico che si chiama Quattrocentoventisette. Ed è un istituto a tempo pieno, il che significa che studierai quattro ore al giorno allo scopo di conseguire un diploma e farai terapia di pomeriggio, vivrai e dormirai lì ogni giorno con altri ragazzi come te.»
E lei non aveva neanche la forza di urlarle contro.
«Sta scherzando vero?» La donna scosse la testa e Kell non riuscì a resistere, si portò le mani alla bocca appoggiandosi al tavolo.
Gli adulti li sopportava, avevano pena di lei, ma...
Era risultata sociofobia e volevano mandarla in mezzo a ragazzi della sua età, si sarebbe messa a ridere se non fosse stata così infuriata.
Non può essere vero, adesso mi sveglio e mi ritrovo nel mio letto a casa mia, sicuramente è un sogno non poteva essere vero.
«Fate tutti così inizialmente, quando capirai che i nostri professori e i nostri psicologi sono lì semplicemente per aiutarti ti ricrederai.
Mi sono accorta sai...» Disse la donna con un’aria maliziosa: «Tu ostenti sicurezza, questo ti aiuterà, potresti essere fuori prima del diploma, le tue fobie sono perfettamente superabili.»
Sciocchezze era debole.
«Sciocchezze.» Ripeté seguendo l’esempio della sua coscienza: «Ostento un sacco di belle cose da parecchio tempo e la mia situazione è peggiorata di giorno in giorno.»
«Senti...» Disse la psicologa addolcendo un altro po’ il suo sguardo già troppo zuccheroso: «Ti va di dirmi perché hai cercato di... si beh, di fare quello che hai fatto?»
Kell sbuffò sonoramente cercando di irritarla: «Perché ho cercato di uccidermi vuole dire?» La sua interlocutrice annuì pazientemente.
«Sono stufa di questa vita.» Rispose semplicemente.
«Potresti cambiarla.»
«Si, potrei morire.»
Al posto dello sguardo docile la sua interlocutrice divenne tutto a un tratto seria e decisa: «Voglio dirti una cosa Kellan.»
Kell abbassò lo sguardo, non voleva che pensasse che le importava qualcosa delle sue parole, non era così.
«Non puoi opporti alla decisione dei tuoi genitori, loro sono assolutamente disperati, è anche per loro che devi accettare di trasferirti nel Quattrocentoventisette, non fargli anche questo, non farli sentire in colpa.»
Kell scosse la testa arrabbiandosi sempre di più; la rabbia saliva fin dentro i suoi occhi, difficilmente la psicologa avrebbe potuto ignorarla: «Scusi, prima dice che non posso oppormi, poi dice che devo accettare la loro decisione, non le pare un tantino contraddittorio?» L’aria derisoria era la sua preferita, potevi provare a ferire la gente, forse qualcuno ci sarebbe persino cascato.
Lei la ignorò fermamente: «Se ti opponi Kellan, non cambierà niente, sarà solo più difficile per te. Per questo è meglio se te ne fai una ragione.»
«Come posso farmene una, non uscivo di casa da otto mesi prima di venire qui.»
Uscire di casa era stato un trauma abnorme, non sapeva neanche come facesse a essere ancora cosciente: «Mi viene la nausea al solo pensiero di vedere delle persone, di camminare in posti nuovi, di dormire in un altro letto, di tornare a scuola...» Fece una smorfia di dolore, poi la donna si alzò in piedi facendole segno di alzarsi.


I suoi genitori attendevano in sala d’aspetto, le bastò fare pochi passi per vederli comparire davanti ai suoi occhi, seduti e accigliati.
Si fermò davanti alle loro sedie imbottite di tessuto rosso e parlò tentando di avere una voce ferma: «Voglio mettere bene in chiaro una cosa.» Sua madre cominciò già da subito a scuotere la testa sconsolata, ma a Kell non importava, continuò imperterrita: «Non intendo mettere piede in un istituto per gente fuori di testa, è chiaro? Sarebbe il primo passo verso la pazzia.»
I suoi genitori però la guardarono come se fosse pazza già da un bel pezzo.


Non era mai stata viziata per questo opporsi non era esattamente il suo forte, riusciva a controllarsi si, ma opporsi era una cosa completamente diversa, mancava il coraggio.
Era stato un errore interrompere la terapia, sua madre disse che era per quello che lei aveva avuto quel tracollo mentale; per quello aveva deciso di buttarsi dalla finestra di camera sua.
Se avesse avuto un po’ più di coraggio si sarebbe opposta, avrebbe detto che sarebbe andata allo stesso modo anche tre mesi prima, non appena avesse abbassato la maniglia di camera di Sam per andare da lei scoprendo che non era abbastanza sana di mente per stare con sua sorella.
Da quel punto di vista non era del tutto scontenta di andarsene, era evidente quello che avevano visto i suoi genitori trovandola intenta a scivolare giù dalla finestra.
Forse, una nuova possibilità di avere una vita normale con il loro bambino di appena sei mesi. Visto che la prima figlia non era venuta sù bene, meglio tentare con il secondo.
Lei era di troppo, avrebbe dovuto rendersene conto molto tempo prima, forse sarebbe riuscita a buttarsi di sotto senza che nessuno se ne accorgesse, senza sbattere quella stupida finestra...
Sua madre frugava in camera sua alla ricerca degli oggetti da mettere in valigia, con il regolamento d’istituto in mano, c’era scritto cosa poteva e cosa non poteva portarsi da casa.
Sarebbe voluta andare via, era vero, ma non da quella casa, avrebbe semplicemente voluto morire e lasciarsi alle spalle il presente il passato e il futuro.
L’idea del Quattrocentoventisette la rendeva ancora più agitata, quasi come se stesse per tornare nella sua vecchia scuola.
«Hai sempre detto che odiavi che ti guardassero come se fossi pazza.» Le disse sua madre sorridendole riferendosi alla vecchia scuola e alla gente che c’era dentro: «Adesso non sarà più così.»
«Già.» Fece Kell buttandosi a peso morto sul suo letto: «Perché saranno tutti pazzi, molto acuta.»
«Non dirlo neanche per scherzo! Non sono pazzi, sono affetti da fobie, possono capirti, hanno gli stessi identici problemi che hai tu.» Sbottò, facendo un gesto sbrigativo con la mano, i capelli castani svolazzanti ad amplificare il gesto: «Cerca almeno di essere gentile, ti prego Kell.»
«Gentile? Non sono capace di essere gentile, sai, nessuno della mia età è mai stato gentile con me.»
Sua madre sospirò chiudendo la valigia, mollò il regolamento d’istituto sul letto e si sedette al suo fianco: «E’ tutto pronto, adesso va a vestirti.» Inghiottì la saliva indicando il bagno con gli occhi.
Kell lo raggiunse con i vestiti ben stretti tra le mani e sentì sua madre bisbigliare: «Dio... sono così preoccupata.»
Faceva bene a esserlo.
Talaltro non poteva portare veri effetti personali da casa per evitare spiacevoli inconvenienti diceva il regolamento... non sia mai che qualcuno avesse messo una spilla da balia dentro il portacipria. Niente libri, album, ipod, cellulare, forbici... sorrise di gusto al suo riflesso nello specchio. Molto saggi quelli della sicurezza, niente oggetti appuntiti in un posto per gente fuori di testa, immaginava già le sbarre alle finestre di una cameretta angusta, quasi riusciva a vedersi da sola dentro la sua stanza.
Si sbrigò a indossare la divisa con i pantaloni lunghi. C’erano diverse combinazioni come in ogni istituto di lusso che si rispetti, tutto rigorosamente stemmato da un numero: 427 dorato. Una gonna a quadretti bianca e nera (che non avrebbe mai e poi mai indossato), pantaloni neri a tinta unita e a quadretti, un maglione nero, una maglietta dal taglio brutalmente giovanile, una a maniche corte... insomma, un’infinita possibilità di combinare la divisa con i propri vestiti. Il regolamento parlava chiaro, l’importante era indossare almeno uno dei capi offerti dall’istituto ogni giorno, la cosa la irritava già solo dal modo forbito con cui era stata scritta nel regolamento, roba da ricchi.
Non aveva ancora scoperto quanto costasse la retta per il Quattrocentoventisette ma Kell già sapeva che avrebbe fatto impallidire i conti di casa, poco le importava, l’avevano voluto loro, tanto valeva che pagassero visto che avrebbe giovato solo e unicamente a loro. Chissà cosa ci andava a fare... sarebbero dovuti venirla a riprendere una settimana dopo.
Si lavò la faccia sciogliendosi i capelli, si osservò allo specchio valutando quanto fosse cambiata dall’ultima volta in cui si era guardata attentamente.
Stessi occhi scuri quasi neri. Stessi lunghi capelli lisci, troppo lisci, marrone scuro. Stessa faccia ovale, pallida, si dava da sola l’impressione di avere lo sguardo perennemente corrucciato, come se stesse continuamente a rimuginare, figurarsi che impressione potesse fare agli altri. Ecco, era proprio quello il problema, si strinse nelle spalle e uscì dal bagno.
Preferiva decisamente non pensare all’impressione che di solito faceva agli altri e all’impressione che avrebbe fatto...
Ragazza chiusa, cupa, , spocchiosa, con la puzza sotto il naso e il pensiero fisso a parer di tutti che nessuno fosse meritevole di starle accanto perché troppo normale, troppo stupido, troppo semplice. Era lo zimbello di tutti, la ragazza pazza che non voleva stare con nessuno.
Valigia ai piedi e sguardo basso Kell attraversò il corridoio, salutò quella cretina della baby sitter che sarebbe rimasta a casa con Sam e uscì di casa con i suoi genitori, di nuovo.
Scese le scale appoggiandosi al muro con una mano per darsi sostegno, l’aria fresca della mattina a solleticarle il viso: «Non riesco a crederci...» Borbottò più a se stessa che agli due mentre saliva in macchina imbronciata.
Kell mise i piedi nell’abitacolo nell’auto di suo padre, il suo cervello era una triste tempesta in corso di svolgimento.
Sapeva di non volere andare al Quattrocentoventisette, sapeva anche che suo padre aveva appena messo le sicure all’auto, a tutte e quattro le portiere, pure quella sua e di sua madre, le venne da ridere, tutta la vita costretta.
Anche in quel momento costretta, non era difficile da prevedere.
«Non fare quella faccia, lo facciamo per il tuo bene.»
La voce permissiva, compassionevole e benevola di sua madre, le faceva venire il vomito, perché non si infilava una racchetta da tennis in bocca?
«Per il mio bene?» Ripeté basita: tutta la vita da sola e ora in un istituto per ragazzi fuori di testa, quella era la sua idea di bene?
«La tua idea di bene, lasciatelo dire, fa schifo.» Diede libero sfogo ai suoi pensieri, ne valeva la pena, chissà se almeno sarebbero venuti a trovarla... «Ma non ti vergogni neanche un po’ a parlare così?»
«Non parlare così a tua madre Kell!»
«Sta zitto!» Gridò infuriata senza riuscire più a trattenersi.
Suo padre si voltò a guardarla stupefatto: «Non rispondermi in questo modo Kell! Sono tuo padre!»
«Lei è tua madre, io sono tuo padre! Non sai dire altro eh? L’unica cosa che siete in grado di fare a quanto pare e lavarvene le mani. Almeno smettila, fammi questo piacere! SMETTILA.» Scandì a tutta voce: «E’ così squallido, dovreste solo vergognarvi, vi state disfacendo di me, come si lascia un cane su un’autostrada, avete davvero coraggio, devo ammetterlo, un coraggio che io non avrò mai, sottoscrivo!» Gridò, con la fronte a toccare il vetro freddo del finestrino. «Mi mandate da quello da cui sto scappando da tutta la vita, almeno accettatelo, NON starò zitta, non questa volta!» Il suono nella sua voce si alzava e abbassava, era furibonda, avrebbe voluto semplicemente ferirli con le parole, perché tanto sapeva che non sarebbe riuscita a fare altro, ne a dire altro.
«Kell...» Sussurrò sua madre abbassando la testa sulle proprie mani.
«Non parlarmi, lasciatemi in pace.»


«Sto bene a casa.» Disse dopo qualche minuto, le mani ancora tremanti strette in grembo.
«Certo, si vede da quello che è successo come stai bene a casa, ti credo sulla parola.» Quel tono ironico.
Il sangue le ribolliva nelle vene, riusciva quasi a sentirlo.
Rimase zitta, forse avrebbe dovuto dire la verità... rimase ancora zitta, ma sapeva di non volerlo dire e si rispettò.
Certe volte è bello avere un segreto, è bello essere furiosi, arrabbiati, feroci, ti fornisce l’impressione di essere viva.
Un segreto è qualcosa da nascondere, e qualcosa da nascondere rappresenta un motivo di interesse verso se stessi e Kell non era certa che le importasse ancora qualcosa di se stessa.


«Manca poco ormai.» Si sbilanciò a dire sua madre.
Da qualche chilometro erano usciti dall’autostrada: «Siamo stati straordinariamente fortunati ad avere il Quattrocentoventisette qui vicino.»
«Vicino?» Ripeté suo padre irritato guidava già da tre ore...
«Relativamente lontano.» Si corresse sua madre.
A Kell venne un’improvvisa voglia di saltare giù dall’auto in corsa ma vista la sicura alla portiera, preferì chiedere con il voluto intento di metterli in difficoltà: «Da quanto tempo esattamente progettavate di portarmi in questo manicomio giovanile?» Il tono più fastidioso possibile.
«Non è un manicomio giovanile.» Disse per prima cosa suo padre come da prassi: «E non stavamo progettando proprio un bel niente.» Era cauto, quasi impaurito.
«Si certo.» Non ci avrebbe creduto neanche morta. «Davvero Kell, come ti viene in mente? Te ne avremmo parlato.»
I sedili blu della macchina le urlavano: sta mentendo! Sta mentendo! E lei credeva ai sedili piuttosto che a quei due.
«Me ne avreste parlato allo stesso modo in cui mi avete chiesto il permesso di portarmici vero?»
«Quello che hai fatto...» «Intendi cercare di ammazzarmi?» Li irritava un sacco quand’era così franca.
«Si, ha cambiato tutto Kell, non pensiamo più che tu sia in grado di prendere delle decisioni da sola, non avresti mai dovuto smettere di andare a scuola tanto per cominciare.»
Suo padre si rese conto che sua moglie non avrebbe proprio dovuto dirlo visto quanto Kell fosse paranoica: «Oh, ecco, siamo arrivati!» Fece sollevato, contendo da cambiare discorso.
Il gelo la avvolse.
Era fatta.
La bocca di Kell istintivamente si aprì, quella struttura era... mastodontica, quante persone ci saranno state là dentro? Più di seicento? Le saltarono di mente tante di quelle domande che dovette contenersi per non cominciare a parlare ad alta voce.
Quante facce e quante vite diverse c’erano lì in mezzo?
Suo padre suonò il campanello e una vocina squillante chiese: «Si?»
«Siamo gli Hall, per nostra figlia Kellan.»
Il cancello appuntito grigio topo si scostò da solo di qualche centimetro, era inquietate. Chissà perché Kell pensò che un cancello alto di quel tipo non sfigurasse affatto con l’edificio che aveva di fronte. Bianco candido, con tante minuscole finestrelle ad adornarlo come tanti piccoli occhi.
Suo padre spazientito lo aprì lasciando entrare sua moglie e sua figlia dopo di lui.
Sua madre la prese per un braccio e se la accollò addosso: «Non pensarci Kell, guarda in basso.»
Diceva così per via della grandezza del parco esterno che costeggiava tutta la struttura, era enorme, e la parola enorme per un’agorafobica come lei non è mai un fattore positivo.
Faceva ancora freddo nonostante fosse gennaio inoltrato e il cappotto non riscaldava Kell abbastanza, scocciata si strinse al braccio di sua madre.
Tenne lo sguardo basso e non alzò gli occhi neanche un momento.
Ancora troppo colpita dalla visione di quella struttura bianca con le sbarre alle finestre, tanto simile a una prigione quanto a un manicomio.
Delle finestre lo ricoprivano da una parte all’altra, sopratutto sulla parte superiore dove le finestrelle erano talmente tante che contarle sarebbe stato impossibile per lei, finestre con sbarre sporgenti, si sarebbe potuto definire a prova di salto.
C’erano parecchi alberi alti, non troppi, non abbastanza per farla sentire al sicuro, e Kell ebbe l’impressione spaventosa che fosse voluto. Che quel parco servisse anche per la terapia di esposizione degli agorafobici? Kell si diede della stupida, certo che si.
Per arrivare al portone di legno massiccio servì loro un tempo che le parve un’eternità, era spaventata ma si sforzò di non darlo a vedere come al suo solito. Adesso avrebbero parlato con il dirigente, il signor Rang a detta di sua madre.
Dopo aver messo un piede dentro l’istituto per prima cosa sentì l’odore tipico di deodorante per ambiente alla menta, poi si accorse di trovarsi in un atrio, le casette della posta dorate (meno di quelle che Kell si sarebbe aspettata) attaccate alle pareti da entrambi i lati, una scrivania di legno in fondo con una donna che si sbracciava per attirare la sua attenzione.
«Qui signori Hall!»
Attraversando la lunga sala d’entrata Kell si rese conto di un’altra porta legnosa, dall’aspetto molto meno pesante sulla parte laterale del corridoio; la superarono fino ad arrivare alla scrivania della segretaria. Tutta sorridente e con uno chignon ingombrante in testa indicò loro l’ufficio del dirigente: «Il dirigente Rang vi sta aspettando.»
Sua madre la spinse a entrare e Kell si ritrovò davanti a un’altra scrivania di legno; il marrone e il bianco regnavano sovrani, il dirigente si alzò in piedi e andò a stringere la mano a entrambi i suoi genitori, e infine a lei.
Aveva l’aspetto aspro di un giovane vecchio, occhialetti dorati pacchiani a parte non era ne acciaccato ne tanto meno aitante, non le piaceva affatto, era troppo contento.
«Oh santo cielo!» Esclamò tutto sorridente: «Visto il nome mi aspettavo un ragazzo, forse c’è stato un errore...» Si gettò sulla scrivania e prese un mucchio di carte iniziando a sfogliare un fascicolo.
«No, no, si chiama Kellan davvero.» Maledetti i suoi genitori che avevano avuto la brillante idea di darle un nome da maschio, era la prima e l’ultima cosa che le persone dicevano di lei. Si sedettero tutti davanti alla scrivania mentre il dirigente Rang prendeva posto dietro.
Ecco che ricominciavano a raccontare la storia del suo nome, interminabile, imbarazzante, tristissima: il dirigente la adorò.
I suoi genitori avevano un amico in comune al collage, si erano conosciuti proprio grazie a lui, erano rimasti molto legati e Kell aveva ascoltato ogni genere di racconto possibile sulle loro scorribande da grandi amici. Certe volte si era chiesta che cosa volesse dire avere degli amici così importanti, sarebbe stato sicuramente il suo padrino se non fosse morto, sua madre diceva sempre che con sua moglie si trovava benissimo, sarebbero stati una grande famiglia allargata e Kell non sarebbe mai diventata quello che era circondata da tanto amore. Nessuno dei due voleva dargli la colpa, era più una scusa.
Avevano deciso di chiamarla Kellan nonostante fosse un nome maschile come tributo a loro amico.
Aveva raccontato la storia del suo nome a tutti gli psicologi che aveva avuto, per non parlare degli altri, chiunque altro che magari incuriosito da quella ulteriore stranezza si spingeva a chiedere spiegazioni.
«Molto bene Kellan.» Disse il dirigente estraendo da uno zaino in cuoio che aveva sulla scrivania una piccola tessera plastificata. Sopra c’era una foto con la sua faccia, risalente a circa un anno prima, la scritta camera: 185, il suo nome e... tutte le sue fobie messe in fila.
«Agorafobia, demofobia, acluofobia, sociofobia, fobofobia e agyrofobia.» Il dirigente annuì alla scheda passandogliela: «Sono in ordine, dalla più forte alla più debole.»
Kell pregò silenziosamente che non si mettesse a spiegare il significato di ogni fobia, ci sarebbe mancato solo quello per coronare il quadretto.
«Portala con te ovunque tu vada, sarà utile ai professori.
Ah, inoltre anche i tuoi compagni probabilmente ti chiederanno di vedere la tua tessera, quindi se vuoi essere gentile...» Molto improbabile«Sarebbe carino che tu acconsentissi.»
«Certo.» Mentì Kell, il dirigente le sorrise passandole lo zainetto: «E’ tuo, ci sono dentro i tuoi libri scolastici.» Kell infilò una mano dentro per sbirciarci, c’era un libro di lettere, uno di matematica, uno che comprendeva sia geografia che storia, uno d’artistica, uno di psicologia e uno di scienze, insomma il minimo indispensabile.
Meglio così, evitò di sudare freddo per degli stupidi libri.
«Farai parte della 4°C. E’ l’unica quarta classe con ancora un posto libero, ogni classe è composta al massimo da venti studenti, se non ci fosse stato un posto libero in una delle quarte non avremmo potuto accettarti.»
Ma che peccato... Kell per un attimo ebbe paura che le si fosse letto in faccia.
«Per ogni classe ci sono quattro sezioni diverse, A, B, C e D, in tutto ospitiamo circa quattrocento ragazzi.»
SOLO? Quel posto era una reggia e ospitavano solo quattrocento ragazzi, assurdo.
«Ci teniamo che ogni studente abbia la propria privacy.» Spiegò il dirigente: «Ogni camera è accessorista di un bagno personale, un letto da una piazza e mezza, una scrivania e un armadio spazioso.» Esitò un momento: «E ora, ti consegno gli orari che dovrai seguire durante la giornata.» Il foglio, altrettanto plastificato era molto chiaro e semplice.
Il dirigente cominciò uno sproloquio interminabilmente noioso sull’orario fittissimo e precisissimo che avrebbe dovuto seguire, concluse con: «Si cena dalle 20:00... uh, devi sapere anche che il coprifuoco scatta alle 22:10, se non sarai in camera tua da sola per quell’ora...» Il direttore sospirò: «Dovremmo ricorrere in sanzioni, vale lo stesso discorso per ritardi durante l’intero arco della giornata, sono tollerati al massimo 5 minuti di ritardo. C’e scritto tutto...»
Il suo vecchio orologio da polso avrebbe patito le pene dell’inferno, già lo sapeva.
Seguì il discorso dal suo foglio plastificato su cui era scritta per filo e per segno ogni cosa con gli orari e gli avvisi.
«Ho un paio di domande se non le dispiace.» Dovette raccogliere tutta la sua sfrontatezza per farle davvero.
«Dimmi pure Kellan.»
«In cosa consistono queste sanzioni?
«E’ scritto tutto dietro.» Kell girò il foglio plastificato accorgendosi di alcune scritte in un grigio slavato: «Sono tollerati massimo tre ritardi gravi ingiustificati, al quarto scatta la sanzione che consiste in una punizione di una settimana in cui il paziente dovrà lavorare insieme alle donne di servizio.»
«E succede spesso?»
«No.» La cosa non la stupì affatto, con un programma così dettagliatamente spaventoso difficilmente qualcuno affetto da fobie comportamentali si sarebbe arrischiato a disubbidire.
«Domenica non c’è lezione, cosa succede?»
«Lo vedrai.» Il dirigente sorrise orgogliosamente, Kell non chiese altro, l’avrebbe scoperto presto.
Ma c’erano ancora delle altre cose che voleva “sapere”, ad esempio: «Chi è che controlla che tutti siano sempre puntuali?»
I suoi genitori cominciavano a spazientirsi, Kell ne era perfettamente conscia, quello che non sembrava affatto irritato era il direttore Rang.
«Durante l’orario regolare delle lezioni ovviamente ci pensano i nostri professori; invece, per quanto riguardo l’orario dei pasti abbiamo un sistema che seguono le nostre inservienti. Ci sono esattamente quattrocento posti a sedere in mensa, ne rimangono vuoti solamente nove visto che abbiamo esattamente trecentonovantuno studenti, se rimangano vuoti più di nove posti qualcuno non c’è, ecco spiegato l’arcano.»
Molto acuto pensò Kell.


«Oh, naturalmente a sorvegliarvi durante l’orario notturno ci pensa la signora Patricks, è la sorvegliante da circa due anni, veglia tutta la notte in una cabina posta lateralmente al sesto piano.»
La cosa le metteva ansia al solo pensiero, passò oltre aggrottando le sopracciglia: «Ho un altro dubbio.» Disse Kell.
Sua madre alzò gli occhi al cielo. Ormai era partita, meglio non fermarsi: «Le camere non saranno mica...» Il direttore Rang la lesse nel pensiero: «Insonorizzate, come tutte le altre aule dell’istituto, ti senti sufficientemente soddisfatta?»
«Direi proprio di si.» Era irritata, era riuscito darle fastidio rimanendo comunque immancabilmente cortese in quel momento le stava passando un terzo foglio plastificato con la piantina stilizzata dell’edificio, era così dannatamente irritante, avrebbe voluto tirargliele in faccia quelle sue stupide piantine plastificate.
Talaltro, utilissime visto che non sarebbe riuscita a parlare con nessuno neanche per chiedere indicazioni.
Il dirigente Rang sorrise orgogliosamente ai suoi genitori e lei venne indirizzata verso i dormitori dove avrebbe dovuto disfare il suo bagaglio.
La segretaria con l’ingombrante chignon le sorrise e domandò a suo padre e a sua madre: «Sapete tutto sugli orari di visita e i permessi d’uscita?» «Ah già.» Disse Kell avvicinandosi alla scrivania: «Non posso uscire fuori dall’istituto vero?»
«No, a meno che non ci sia un professore con te, e in quel caso comunque sarebbe un’uscita didattica di gruppo, altrimenti no, ovviamente non puoi uscire.»
Kell fece un passo indietro, lo sguardo pressante della segretaria si spostò su suo padre; ricominciò a spiegare rivolgendosi a lui.
Già non ne poteva più di tutti quei contatti; per rivolgere quelle due stupide domande al direttore si era quasi slogata la mandibola, colpa della sociofobia? Le venne il dubbio che forse quella fobia era realmente lì solo per merito suo, immotivata come tutte le altre, stupida come le altre.
Sua madre le si avvicinò cacciando un pugno chiuso da dentro la borsetta: «Sul regolamento c’è scritto che è vietato prendere pasticche di ogni tipo, la terapia di esposizione non ne necessita.» Aprì la mano mostrandole il suo ciondolo argentato con il porta pillole a forma di uovo. Durante la sua altalenante carriera scolastica era stata salvata molte volte da un paio di pillole.
Kell lo prese e sua madre la aiutò ad agganciarlo: «Che ci hai messo dentro? Antidepressivi?»
«No, certo che no.» Estrasse dalla borsa il regolamento dell’istituto e glielo infilò dentro la cartella marrone ancora aperta. «Ci ho messo solo un paio di calmanti, nel caso ne avessi urgente bisogno, non si sa mai.»
Giusto, per prevenire attacchi di panico erano l’ideale.
Non disse niente, non voleva ringraziarla.
Si ritrovò stretta dalle braccia di entrambi i suoi genitori senza riuscire ad opporre resistenza: «Kell non fare sciocchezze, ti prego.» A Kell venne da ridere, come siamo sentimentali...
«Sta tranquillo.» Disse a suo padre sciogliendo l’abbraccio bruscamente, scocciata da quel contatto fisico indesiderato: «Scommetto che hanno il sistema anti-suicidio migliore di tutto il paese.»
Nessuno dei due naturalmente rise e Kell ancora una volta non riuscì a dire niente riguardo quello che aveva scoperto della porta di camera di Sam.
Quello che fece dopo testimoniava la sua natura codarda.
Ancora con lo sguardo basso, assolutamente terrorizzata, si girò verso la porta, la aprì e la oltrepassò senza voltarsi indietro, ipocrita quanto cinica, tipico di lei.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 2. Ascesa ***













- Minuscolo spazio autrice -
Non ho granchè da dire, solo, benvenute al Quattrocentoventisette, in questo capitolo il primo step importante e qualche incontro particolare... ehehe, non fatemi parlare.



 
2. Ascesa


Attraversò il corridoio andante per la mensa seguendo il tragitto, descritto e delineato dalla piantina stilizzata. Adocchiò l’entrata dell’infermeria di sottecchi, delle voci vagavano nell’aria dietro quella porta. Kell affrettò il passo.
Quando il lungo corridoio giunse al termine si ritrovò davanti la mensa del Quattrocentoventisette.
La visione raccapricciante di quella distesa interminabile di mattonelle bianche inizialmente la stordì.
Erano quasi le 13:00. Ancora qualche minuto e le sue due più grandi fobie si sarebbero manifestate insieme come non succedeva da otto mesi a quella parte.
Agorafobia e Demofobia insieme, spazi aperti e tanta gente pronta ad assistere a un suo attacco di panico forte quanto un uragano.
Fece un respiro profondo. 
Quand’era con persone che conosceva o di cui non le interessava il parere non aveva alcun problema a mostrarsi sfrontata, ma quei ragazzi... la maschera si stava crepando, velocemente, tutto quello che aveva fatto fino a quel momento nella sua vita perse ogni senso, non c’era più niente a separarla dal futuro da cui scappava da sempre, era lì, lo stava vivendo, lo sentiva in ogni fibra del suo corpo, era rotta, vulnerabile...
Non c’era più niente da controllare, e questo la irritava da morire.


Dovette rimanere ferma vicino allo stipite della porta, guardando nel vuoto della distanza per cercare di calmarsi, doveva regolare il respiro.
Uno due tre, uno due tre, uno due tre, respira.
Prima di tutto, respinse il desiderio di tornare sui suoi passi, sarebbe stato umiliante far sapere ai suoi genitori che era troppo debole per riuscire a vincere una distesa di mattonelle bianche, un passo alla volta, un piede dopo l’altro.
Faceva terapia di esposizione ancora prima di entrare in classe.
Iniziò a camminare, e prima di riuscire a pensarlo finì per correre verso le scale, infischiandosene dei bagagli che le rimbalzavano contro le scapole facendole male.
Quell’interminabile sala era arricchita da un’innumerevole sfilza di tavoli di legno circolari, perfettamente allineati uno dopo l’altro. Cercò di non guardarli continuando a correre fino a quando non si infilò nella nicchia che mostrava le scale, altrettanto bianche, con un corrimano di legno al lato destro.
Era impressionata dall’ordine, dalla disciplina dell’aspetto di quel luogo, lei doveva riuscire a scappare da se stessa e stava pensando all’arredamento, si DIEDE della stupida senza rendersi conto che almeno, per un momento si era distratta.
Sei piani a piedi pensò e poi si sarebbe potuta chiudere in camera.
La sua era la camera 185, era scritto sulla tessera.
Ripetersi quel numero la aiutò a non pensare che di lì a due minuti tutti e trecentonovanta, gli studenti fobici di quell’istituto, si sarebbero riversati sulle scale calpestandola.
Rimpianse casa sua e i suoi genitori; chi l’avrebbe mai detto che un luogo chiuso per quanto spazioso potesse essere così impervio, era stata mesi a pensare di non voler uscire più di casa, proprio mai più e in quel momento... no, non sarebbe voluta stare ne al chiuso ne all’aperto...
Si appoggiò al corrimano di legno appena riuscì a superare il secondo piano illesa per darsi maggiore sostegno.
Paura immotivata si ripeteva. 
Ma paura immotivata un corno.
Il sesto piano le sorrideva, il numero dorato a caratteri cubitali le sorrideva sghembo da un lato. Kell fece appena in tempo a lanciare un’occhiata alla cabina della sorvegliante notturna poi sentì la campanella suonare.
Perse il controllo insieme alla presa della sua borsa, la lasciò cadere, i libri finirono a terra, le ginocchia sorrette dalle sue gambe non riuscirono a farla rimanere in piedi.
Un chiacchiericcio indistinto prese a vagare per i corridoi.
Cadde in ginocchio, desiderava strapparsi il ciondolo con il porta pillole dal collo, stava per mollare e non era neanche arrivata in camera sua, tutte quelle voci, tutte quelle persone...
Non seppe mai dove trovò la forza di rialzarsi, raccolse i libri, e sgusciò nel corridoio correndo verso la camera 185.
Forse era stata la paura a salvarla, inutile dire che respinse quel pensiero facendo finta di nulla. Le porte erano tutte quante azzurre, azzurre come la porta di camera sua, quand’era ancora a casa.
Infilò la chiave con la mano tremante dentro la serratura argentata e la girò un paio di volte, entrò dentro e si chiuse la porta alle spalle.
Aveva dieci minuti per riprendersi e scendere di sotto per pranzo; era tentata, voleva prendere un calmante, ma di nuovo si costrinse a reprimere quell’impulso da codarda. 
Ce l’avrebbe potuta fare, un sacco di ragazzi con i suoi stessi problemi anche più piccoli di lei erano riusciti a stare senza calmanti e antidepressivi per mesi, perché lei no?
Kell cercò di distrarsi per qualche momento, concentrandosi per qualche secondo solo sulla stanza.
Era piccola, cupa, buia, esattamente come l’aveva immaginata, non a caso erano appena le 13:00 e dalla finestra con le sbarre non passava abbastanza luce. 
Decisa, accese la luce dall’interruttore principale ignorando  le inutili lampade da salotto poste vicino al letto e alla scrivania.
Il pavimento era costellato di pietra bianca proprio come tutto l’edificio, i muri erano altrettanto bianchi, color panna montata. 
Il letto come aveva detto il dirigente era morbido e da una piazza e mezza, ci si sedette sopra disfacendo ansiosa il bagaglio; mise tutto in ordine nell’armadio di legno, prima di andarsene andò a dare un’occhiata al bagno, un cubicolo minuscolo, ma, stranamente funzionale.
Lasciò la cartella sulla scrivania già familiarmente legnosa e uscì fuori dalla stanza con una sensazione di sporco addosso, come se le si fosse attaccato qualcosa di appiccicoso e non si volesse proprio staccare; appiccicoso come la nuova realtà ad esempio, appiccicoso come il presentimento che aveva paura e in un certo qual modo quello che aveva sotto gli occhi non le dispiaceva del tutto.
La tessera dentro la tasca sinistra dei pantaloni, lo sguardo fermo, solamente cento scalini di pietra bianca a dividerla tra il tutto e il niente. 
Scese le scale aggrappata al corrimano di legno con una mano e al suo porta pillole con l’altra.
Aveva fatto sei piani di scale correndo per sfuggire a una sala piena di gente e ora? Ora stava tornando volontariamente, ironico a dirsi.
L’ultima rampa di scale fu la peggiore. Sentiva il chiacchiericcio nient’affatto trattenuto, ne tantomeno timido degli studenti dell’istituto Quattrocentoventisette, si fermò sull’ultimo gradino indugiando volontariamente sullo spazio aperto direttamente nella sala.
Le prese un colpo quando una ragazza con un andamento saltellane la superò dandole le spalle. Con che coraggio saltellava verso un tavolo a quel modo? 
Kell indietreggiò sul penultimo scalino. Non ci riesco.
Trattenne il respiro e poi ispirò ed espirò un paio di volte per calmarsi, tutti i suoi tentativi di darsi una regolata furono resi vani dall’entrata in scena di una cameriera tutta defilata con tanto di grembiule: «Tu sei la ragazza nuova?»
«Si.» Rispose Kell abbassando lo sguardo intimorito sulle sue scarpe di pelle nuove. «Bene, vieni con me, non aver paura.»
La prese per un braccio e fino a quando non entrarono nella sala non la lasciò: «Ti troviamo un posto libero immediatamente.»
La sala era gremita di ragazzi, se non fosse stato per il soffitto relativamente alto sarebbe svenuta al quinto passo, era spaventoso a livelli cronici e a Kell mancava il respiro.
«Sei del 4°C giusto?» Annuì alla cameriera senza alzare lo sguardo verso di lei. «Preferisci stare con qualcuno della tua classe?» Ci pensò su un momento... non l’avrebbe mai retta, aveva bisogno di riposare prima: «No, preferirei di no.»
«Okay.» Prima che se ne accorgesse si ritrovò davanti a uno dei legnosi tavoli rotondi.
Si sedette alla svelta non appena si accorse di essere arrivata a destinazione, sperava tanto che almeno non le rivolgessero la parola.
Sembravano persone perfettamente normali, Kell era molto irritata e cominciò a sentirsi come una vecchietta nel mezzo di un branco di giovani, quando invece avrebbe dovuto trovarsi in tutt’altro posto...


Lei era in una 4°, se fossero stati tutti in via di guarigione tranne lei che cosa si sarebbe inventata? L’avrebbero fatta retrocedere di una classe? Kell ispirò lentamente, gli altri erano lì da anni, quanto sarebbe stata indietro rispetto a loro? Si zittì mentalmente, tanto l’avrebbe scoperto molto presto.
Fece le scale lentamente, lasciandosi superare, arrivò in camera sua più calma ma soprappensiero. La prima volta che era passata non ci aveva fatto caso, notò che c’erano due finestre di vetro che dividevano l’ala femminile da quella maschile, sia a destra che a sinistra, come se fossero altre due camere aggiunte pronte a portare nel vuoto.
Se non ci fossero state le sbarre si arrischiò a pensare Kell.


Prese la borsa con i libri con se, si avviò con cinque minuti di ritardo alla lezione di terapia di esposizione.
Non c’era un attimo di tempo per prendere fiato in santa pace che i dieci minuti per raggiungere l’aula erano già finiti.
Diede una sbirciata all’orario con le classi e si ritrovò davanti all’aula giusta, la H2.
La porta era chiusa, perfetto, odiava aprire le porte, l’aveva sempre odiato, a scuola la gente si gira a guardarti, ti scruta, ti giudica e tu non riesci a zittirli.
Abbassò la maniglia della porta scocciata e si ritrovò dentro.
La stanza era grande, c’era un’immensa vetrata che lasciava la vista aperta sulla città, era enorme, probabilmente era antiproiettile e antigraffio, strano che non fosse sbarrata.
Non se ne accorse per quant’era distratta, ma uno strano individuo le stava venendo incontro.
«Sei Kellan Hall?» Kell annuì di nuovo con i piedi per terra.
«Vieni.» Non la toccò e questo le fece pensare che fosse una professoressa; quando la indirizzò dentro un cerchio fatto di sedie già occupate si rese conto che quella era la psicologa.
Si sedette e le fece cenno di mettersi di fianco a lei, all’unico posto ancora libero: «Questa è Kellan Hall, una vostra nuova compagna.» Kell si sforzò di alzare lo sguardo dalle sue ginocchia piegate, diede un rapido sguardo davanti a se e poi tornò al punto di partenza.
«Lasciamole un po’ di tempo per ambientarsi.»
Un coro di assenso piuttosto teso autorizzò la psicologa a cominciare a spiegarsi: «Io sono la professoressa Strins, faccio per la H2 psicologia e terapia di esposizione, in queste ore tutti e venti siete sotto la mia tutela.»
La professoressa sorrise da dietro i sottili occhiali neri, Kell non riusciva a staccarle gli occhi di dosso, aveva il viso un tantino troppo scavato per essere bella e portava un’assurda bombetta sulla testa, sembrava calva, forse portava solo i capelli troppo corti, complice anche il fatto che fosse una professoressa: la cosa fece mettere Kell sulla difensiva.
Era così tragicamente eccentrica che Kell temette che stesse per saltare sulla sedia e mettersi a cantare.
«Sei in questo gruppo perché hai delle fobie in comune con loro...» Fece una pausa come se si fosse ricordata di qualcosa: «Loro non sono tutti della 4°C, solo alcuni, gli altri sono delle altre 4°, capisci?» Kell annuì assentendo con un movimento abbastanza brusco della testa.
«Loro naturalmente usufruiscono anche di altre terapie ancora più specifiche anche con altri psicologi, ma per adesso ho bisogno di conoscerti meglio quindi per te non sarà da subito lo stesso.»
Buona parte dei ragazzi che erano in cerchio si rilassarono sul posto, era chiaro a tutti, anche a Kell, che quella seduta sarebbe stata incentrata su di lei.
Era necessario che non si mettesse in imbarazzo davanti a tutti quei ragazzi, e assolutamente indispensabile che mantenesse la calma e un certo contegno.
«Kellan, elencaci le tue fobie, così cominciamo a conoscerci.»
Kell ripassò mentalmente l’ordine in cui erano state messe sulla sua tessera e cominciò a dire la prima sollevando lentamente la testa ancora china: «Agorafobia.»
«E’ quella più forte.» Disse la professoressa rivolta ai ragazzi: «Abbiamo un sacco di agorafobici qui, quasi tutti in questa classe. Dopo andiamo sotto a fare un giro nel parco.» La cosa non aiutò a tranquillizzarla ma proseguì: «Demofobia.»
«Va a braccetto con l’agorafobia.» Disse la Strins sorridendo continuando a dire proprietà risapute sulla demofobia, smise di ascoltarla e alzò finalmente lo sguardo da terra.
Non l’avesse mai fatto. La invase una fortissima sensazione di vertigine attanagliante e incontrollabile, sapeva anche perché  e non poté nasconderselo. 
Il ragazzo che stava seduto affianco alla professoressa.
Sconvolgente, uno sconvolgente deja-vu arrivò troncarle la respirazione, stava chino su se’ stesso, un po’ ripiegato, come a volersi nascondere, proprio come lui
Quello che sentiva era facilmente accostabile a una botta in testa, forte, come se un martello pneumatico le avesse perforato il cranio, aveva il cuore in gola, che scalciava per gettarsi fuori dal suo petto, non riusciva a capacitarsene, non riusciva a credere che stesse succedendo davvero.
Si trattenne per un secondo dallo spalancare la bocca e indicarlo  in preda all’ansia come una bambina.
Il ragazzo che stava guardando non aveva le sembianze di una persona qualsiasi, lui era tutti i particolari di quella persona. Aveva un occhio di vetro, attraversato da parte a parte da una profonda cicatrice bianca che andava dal sopracciglio sinistro alla guancia, fino ad accarezzargli il mento passando pericolosamente vicino alla bocca, arrivava fino al collo, in quel punto sembrava più leggera, poi tornava calcata e spariva sotto la maglietta. Agghiacciante, ma non quanto la prima volta che l’aveva visto in quelle condizioni, quando la cicatrice sembrava combattere contro di lui, ora sembrava che stesse bene.
Invece, l’occhio vivo, era grigio e stranamente meno luminoso di quello artificiale. Creava un contrasto estremamente strano con i capelli neri, corvini, un tantino arricciati, disordinati, un sacco di sfumature di colore, scure, vivide e pallide in un solo viso.
Aveva creduto per qualche momento che non potesse essere proprio lui, ma quanti altri con il lato sinistro della faccia  ridotto in quella situazione aveva visto prima? No, ne era certa. 
L’aveva già visto, Kell lo ammise a se stessa, fortunatamente lui non poteva ricordarsi di lei, era passato troppo tempo. Fece un rapido calcolo mentale e si rese conto che erano passati praticamente dieci anni. 
Scostò un momento lo sguardo per dire: «Acluofobia.» La sua odiata paura del buio e poi tornò a guardare il ragazzo, che aveva abbassato un momento lo sguardo. Non poté fare a meno di notare che la cicatrice proseguiva anche sopra la palpebra delineando una linea continua che lasciva intuire senza cerimonie cosa gli fosse successo: era stato sfregiato.
Ma... l’occhio di vetro sembrava così vivo, prima non era così, seguiva l’altro a tempo, si alzava insieme agli zigomi, vagava in giro per la stanza come se ci vedesse, ma era morto, bianco, vetroso, quasi trasparente. Le immagini passate e quelle presenti le sfilavano davanti agli occhi una dopo l’altra, i ricordi, i pensieri, sembrava tutto incredibilmente vicino, lui era sempre stato così inspiegabile, lo era ancora.
Come aveva fatto, come faceva, ridotto ancora in quello stato, spezzato, divorato, ad essere così straziatamente bello? 
«Davvero sei acluofobica?» Kell annuì alla svelta, distogliendosi dai suoi pensieri e la Strins si voltò a guardare inaspettatamente il ragazzo con l’occhio di vetro tutta sorridente.
«Sentito Jesse?» Jesse Larey avrebbe poi appreso in seguito.
Ma, proprio Jesse si chiese? Il suo nome era davvero Jesse? Non se ne capacitava neanche, dargli un nome era qualcosa che non aveva mai potuto fare.
«Effettivamente Jesse attualmente è l’unico acluofobico in tutte le 4°, ci serviva qualcuno come te, un confronto diretto è la cosa migliore in assoluto per persone con il vostro problema.»
Lui la guardò indifferente studiandola un momento, forse ci lesse qualcosa, abbassò lo sguardo storcendo leggermente la bocca, non poteva in alcun modo ricordarsi di lei; stranamente la cosa la rincuorò, ma poi si sentì in colpa, non era una bella cosa essere fissati quando si ha... una cosa come quella che si vorrebbe poter nascondere.
«Sociofobia.» E a quel punto riuscì ad alzare la testa del tutto, quella fobia era il suo cruccio più grande: «Ma non me la sento tanto.» «Ah no?» Buona parte degli studenti alzarono le sopracciglia scettici; di certo il modo in cui si era presentata non lasciava intendere che fosse una persona molto spigliata.
«Buona parte, se non tutti i nostri studenti sono sociofobici, è una conseguenza abbastanza comune.»
Kell la ignorò: «Fobofobia.»
«Oh, interessante, hai paura della paura stessa, molto saggio.»
«Grazie.» Disse Kell con un tono un po’ strozzato.
«Agyrofobia, e lo ammetto.»
Qualcuno rise, la professoressa Strins li guardò piuttosto male.
Paura delle strade, anche a Kell venne da ridere, com’era finita ad aver paura persino delle strade?
Kell ci pensò un attimo e poi disse: «Non gli avevo mai dato grande importanza.» 
La Strins sospirò come se fosse insoddisfatta di quello che aveva appena detto: «Ci sono persone, ad esempio gli Xantofobici che hanno paura della parola ‘giallo’ che dovrebbero dire loro?»
Kell evitò di commentare quello strano appunto.
Sperò con tutto il cuore di essere riuscita a non sembrare una debole, si sentiva sufficientemente spigliata, forse l’aveva data a bere anche agli altri.


La Strins convenne che fosse venuta l’ora di andare sotto a fare una “rilassante” passeggiata all’aria aperta.
Non appena suonò la campanella, Kell non riuscì a trattenersi dal rabbrividire per tutto il tragitto.
Camminare da sola non era esattamente divertente, ma in effetti in cuor suo sapeva che non sarebbe riuscita a reggere una conversazione in quel momento, specialmente dopo i recenti sviluppi, il suo cervello stava collassando dai troppi pensieri. 
La professoressa stava al suo fianco e non pareva per niente vogliosa di farla socializzare con qualcuno.
Per essere una psicologa allora doveva essere davvero molto accorta con i propri studenti; lanciò un’occhiata al suo viso candido e fermo, sovrastato dalla bombetta e convenne che probabilmente era una professionista un tantino anti-convenzionale.
La maggior parte dei suoi ex psicologi le dicevano che era necessario che si aprisse con il prossimo, lei non aveva neanche provato ad avvicinarla a qualcuno.
Quando furono fuori Kell le si fece più vicina, di solito sua madre se la stringeva su un fianco, invece quella era terapia di esposizione, doveva fare tutto da sola.
Stava fissando intensamente uno degli alberi lì davanti per tranquillizzarsi: «Kellan?» Si voltò bruscamente verso la Strins: «Si professoressa?» 
«Volevo solo dirti, che solitamente la terapia di esposizione viene fatta al chiuso per lunghi periodi all’inizio, poi si mette il paziente a confronto con la situazione temuta, lo sapevi?» «No.» Disse Kell: «Ma non mi pare di trovarci al chiuso...» «E’ questo il punto.» Fece la Strins finalmente soddisfatta: «Qui non farai terapia su carta, usiamo mettere subito in pratica la situazione che temete, quindi adesso rimani calma e cominci a camminare qui intorno.»
La sua spiegazione aveva distratto Kell ma la paura persisteva, non sapeva se sarebbe riuscita davvero a muoversi, a calpestare le foglie secche e l’erba del prato, a seguire gli altri...
«Non c’è un altro modo per stare meglio, superarlo è possibile.»
Kell cominciò a camminare, non poté fare a meno di chiedersi se dicesse quella frasetta fatta a tutti i nuovi studenti, di sicuro era la prassi. 
Camminava lentamente di albero in albero con i respiro come sempre accelerato e il chiodo fisso in testa che se fosse successo qualcosa, qualsiasi cosa, non avrebbe saputo da che parte correre.
Voleva tornare a fare psicoterapia sdraiata su una comoda poltrona, in un salotto ben arredato, in completa tranquillità, lontana da tutti i pericoli del mondo.
Sentì che qualcuno le si stava avvicinando da dietro, impallidì sconcertata: «Dimenticavo...» Fece la Strins, Kell si appoggiò a un albero vicino per non perdere l’equilibrio. «Tu ricordi di un trauma che ti ha portata a questo?»
Domanda di rito, strano che non gliel’avesse posta prima: «Sì.» 
Il ragazzo con l’occhio di vetro si era seduto a terra con altri ragazzi, in cerchio, li stavano raggiungendo tutti.
«Ti va di riassumerlo in poche parole?»
Non le andava proprio no, che storia era? Non consegnavano un fascicolo plastificato con la loro storia personale a tutti i professori? Digrignò i denti, Kell affondò le unghia nella corteccia dell’albero, forse senza neanche scalfirla, sarebbe dovuta andare a sedersi con gli altri non voleva parlare con lei, ma parlò lo stesso, raccontava quella storia quasi automaticamente, la storia che l’aveva resa quello che era.
«Quando avevo sei anni e mezzo, ero al parco con mia madre, credo che...» Si incespicò: «Lei si è distratta e delle persone...» Scosse la testa una e più volte, la Strins era ferma impassibile a guardarla un po’ meno famelica di prima: «D’accordo, basta così, credo di aver afferrato.»
Beh, era una psicologa, se non avesse afferrato Kell avrebbe voluto, oppure dovuto picchiarla. 
Per quello aveva paura di uscire di casa e dei luoghi affollati, la causa si spiegava da se orribilmente comprensibile.
Ricordare quei momenti, quegli attimi, quell’angoscia, quella paura, era stata costretta a riportare alla luce tutto quello che era accaduto a intervalli regolari, come per controllare se avesse dimenticato e ricordato qualcosa.
Ma Kell ricordava tutto, ogni cosa e sapeva che non sarebbe stata in grado di dimenticarlo, mai.
I posti erano gli stessi di prima, la professoressa attaccò a farli parlare delle loro sensazioni, uno alla volta, come agli alcolisti anonimi nei film.
Una ragazza con una voce monotona e triste stava parlando della difficoltà che aveva di muovere le gambe nelle sensazioni di panico. 
Si sentiva gli occhi dei suoi compagni addosso, forse si aspettavano che avrebbe dato di matto dopo neanche un paio di minuti; le dispiaceva davvero deluderli...
Kell si concentrò sulle foglie secche, ne prese una in mano, sorrise, c’era una coccinella sopra, per evitare di infastidire il ragazzo con l’occhio di vetro con i suoi sguardi corrucciati era intenzionata e fissare la coccinella per il resto della seduta.
Quella cicatrice e quell’occhio bianco... forse doveva solo farci l’abitudine, ma in realtà era proprio come una volta, attirava talmente tanto l’attenzione che...
«Oh mio Dio!» Urlò la ragazza che era affianco a lei saltando in piedi come se le avessero appena tirato uno schiaffo.
«Che succede Bernadette?» 
Bernadette, lunghi capelli castani fino alle costole, corse dentro l’istituto agitando le braccia come una forsennata. La professoressa la inseguì lasciandosi una scia di foglie secche e svolazzanti alle spalle.
«Bernadette è insectofobica.» Esordì la ragazza che era al suo fianco: «Le coccinelle sono insetti, fai due più due...»
Per qualche momento il cerchio di ragazzi si limitò a rimanere zitto e ad attendere l’arrivo della prof, poi una ragazza esordì piccata un tantino troppo sottovoce: «Finisce sempre così, non sa proprio contenersi...» «Oh.» Fece un ragazzo con l’aria da sbruffone stampata in faccia: «Perché tu credi di essere messa meglio?»
Kell abbassò lo sguardo sulla coccinella, la lasciò scivolare dalla foglia in mezzo ai fili d’erba del prato, aveva quasi paura che qualcuno si alzasse in piedi e la calpestasse.
«Se la Strins non si muove a tornare io vado a cercarla.» Disse la ragazza che stava accanto a Bernadette: «E’ migliorata tantissimo...» Disse ancora, questa volta rivolta a Kell stessa: «Prima non riusciva neanche a stare seduta sul prato.»
Se fosse riuscita a parlare avrebbe detto che prima di arrivare lì si sarebbe aspettata di ritrovarsi in una gabbia di matti, invece, sembravano perlopiù quello che erano, ragazzi con fobie.
Quando la Strins e Bernadette tornarono Kell fu costretta, come richiedeva il suo turno, a dire come si sentiva in quel posto, in quel momento. Fece un respiro profondo e si limitò a dire che era desiderosa di scappare.
Altri ragazzi si limitarono a non dire niente passando il turno. Stessa cosa fece il ragazzo con l’occhio di vetro, quelli a detta di Bernadette erano tutti un branco di glossofobici fifoni.
Avere paura di parlare in pubblico non era una stranezza, ce l’avevano un sacco di persone senza saperlo, Kell stava pensando appunto a questo quando si accorse di tenere una foglia secca ancora in mano, nonostante fossero appena tornati dentro l’aula H2, se la mise in tasca e ascoltò i saluti e le raccomandazioni della Strins.
Stava per varcare la porta per uscire, un pensiero vago attraversò la sua mente naturalmente per ultima, ma venne trattenuta dal richiamo della professoressa.
«Senti Kellan, qui al Quattrocentoventisette...» Che poi, perché quell’istituto si chiamasse Quattrocentoventisette, per lei era ancora un mistero. «Ci sono ragazzi che hanno subito traumi molto radicanti e profondi, quindi per cortesia, te ne prego, non sottovalutare superficialmente neanche la più insignificante delle fobie, nessuno è superiore a qualcuno perché ha l’agorafobia invece dell’insectofobia, ci sono sempre delle storie dietro, storie che voi ragazzi non potete capire se siete armati di pregiudizi. Ti è chiaro questo?»
Kell annuì, la bombetta della Strins le ricadde leggermente sulla fronte: «Questo è un istituto privato...» Continuò lei sospirando: «Se siete qui significa che siete messi male psicologicamente e caratterialmente, suppongo tu abbia notato che non sembrano messi così male...» Kell annuì, chissà dove andava a parare la professoressa con quel tono contrito: «Non voglio spaventarti...» Addirittura spaventarla? 
«Ma ti voglio assicurare Kellan, alcuni dei tuoi compagni sono segnati a vita.» Alcuni, segnati letteralmente: «Quello che hanno subito mai verrà cancellato dalle loro menti, neanche con l’ipnosi o altre tecniche sperimentali, non sono fatti che possiamo estirpare, noi ci occupiamo di aiutarvi a superare il lato fisico e attutire quello mentale, tutto qui.»
Kell non sapeva cosa dirle, per un attimo le sembrò che volesse... giustificarsi.
Riusciva solo a pensare di aver compreso un lato della faccenda a di cui non aveva tenuto conto.
«Sta dicendo che sono tutti gravi quanto me, anche se non lo danno a vedere?»
La Strins annuì aprendo la porta della H2: «Tu sei stata rapita giusto?» 
E a quel punto toccò a Kell annuire.
«Beh.» Fece la professoressa sorridendo appena: «Neanche tu lo dai a vedere.»


Si pentì immediatamente di essere uscita fuori dalla porta, una ragazza e una professoressa stavano parlando, o meglio, gridando, nel mezzo del corridoio.
Dopo quello che le aveva detto la Strins non si sarebbe fatta cogliere così facilmente alla sprovvista dagli abitanti dell’istituto Quattrocentoventisette.
Kell si appiattì contro la porta sperando che l’insenatura la nascondesse abbastanza da non permettere alle due litiganti di notarla.
Forse ce la poteva fare, doveva solo aspettare che smettessero di gridare e poi sgattaiolare via in camera sua.
«Cecely!» Gridò quella che doveva essere la professoressa: «Non puoi continuare così, quanto pensi che andrà avanti questa storia? Un altro anno ancora ed è finita, te ne dovrai andare anche se non sei guarita! Vuoi che io dica ai tuoi genitori che sei un caso disperato?! Dopo tutti i soldi che hanno speso per te!»
Kell rabbrividì e ascoltò la ragazza replicare con voce squillante: 
«Ma che diavolo dice? Ormai nessuno esce di qui prima del quinto anno! Sono fatti miei! Lei si limiti ad aiutarmi in terapia, non ho bisogno d’altro!» Era troppo sbrigativa, non aveva voglia di litigare, la ragazza di nome Cecely era desiderosa di andarsene almeno quanto lei.
Ma a quel punto era proprio curiosa di sapere di che stessero parlando quelle due; Kell si appiattì di più contro la porta.
«Non devi pensarci da sola! Ci siamo noi qui che dobbiamo sostenerti, lo sai. Solo che non puoi continuare a chiuderti nei tuoi limiti. Se una persona ha i problemi psicologici che hai tu, non dovrebbe per alcun motivo evitare con tutte le forze la compagnia femminile!»
«Non voglio avere delle amiche femmine!» Esclamò Cecely in un urlo ancora più acuto dei precedenti: «Non me ne faccio niente! Sono un branco di smorfiose che mi guardano dall’alto in basso perché sanno per cosa soffro! Non posso stare con loro!»
«Ma non sono tutte così!» Gridò la professoressa sconsolata: «Continuerai a chiuderti sempre più dentro te stessa se non smetterai di frequentare solamente quei due, devi cercare di superarti Cecely!»
Cecely sputò un mucchio di parole sulla professoressa, più arrabbiata che mai: «Che cosa ne sa lei! Quei due dice lei! Oh, oh professoressa si da il caso, che quei due siano i miei amici!»
La professoressa abbassò i toni, capì semplicemente che continuare a gridare addosso a una persona arrabbiata come Cecely non avrebbe portato a niente: «Lo so, e va benissimo se piacciono a te, non lo metto assolutamente in dubbio.»
«Grazie tante.»
Kell si fece forza, era praticamente finita, la professoressa aveva abbassato i toni, più o meno, era il momento giusto di sguisciare fuori dal suo nascondiglio.
Camminò dritta verso le scale, anche se era costretta a passare davanti a quelle due... senza arrischiarsi a guardare le litiganti. «Solo, dovresti cercare di trovare una ragazza che...» La professoressa smise di parlare tutto a un tratto.
«Hey! Hey tu!»
Kell ghiacciò all’istante.
Fece appena in tempo a fare un altro passo poi, a malincuore si ritrovò voltata verso di loro.
«Vieni qui.»
Cecely scuoteva già la testa come se avesse perfettamente compreso cosa la aspettava.
«Tu sei la ragazza nuova della 4°C giusto?»
«Si.» Rispose semplicemente Kell.
«Perfetto. Problema risolto signorina Marson.» Fece la professoressa Dorles con un tono ostentatamente solenne.
E lei che pensava che nessuno le avrebbe fatto pressione.
«Ti chiami?» «Kellan... Hall.» 
Lo sguardo di Cecely era talmente infuriato che probabilmente se la professoressa non le avesse liquidate con poche parole, si sarebbe ritrovata le mani di Cecely attorno al collo.
«Dici che non hai bisogno di nessuno, e va bene, hai ragione, ma lei è nuova, non conosce nessuno, quindi lei sicuramente ha bisogno di qualcuno.» Kell si ritrovò a inghiottire la saliva contrita, senza riuscire a dire niente, in realtà no, non aveva davvero bisogno di nessuno grazie mille lo stesso.
«Facciamo una scommessa. Se la prossima settimana a quest’ora deciderai di volerla lasciare non ti dirò niente, altrimenti, se volessi tenerla con te... beh! Tanto meglio per tutti. Siamo d’accordo Cecely? Accetti?»
La ragazza esitò: «Quindi lei giura che dopo non mi infastidirà più con questa storia?» La professoressa annuì. Non ci voleva un genio per capire che Cecely non aveva alcun dubbio su cosa avrebbe detto e fatto. 
Kell si incupì, a quanto pareva Cecely aveva intenzione di spiegarle le equazioni di secondo grado.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 3. Rivelazioni ***





- minuscolo spazio autrice - 
Rieccomi con un capitolo interminabilmente lungo, (mio dio, spero che la cosa non vi stanchi) tanto per cambiare, spero che l'ultimo vi sia piaciuto e vorrei farvi sapere che apprezzerei e sopratutto considererei qualsiasi vostra curiosità, domanda o appunto come un piccolo tesoro personale :3 davvero, se qualche anima volesse esprimere la propria opinione farei i salti di gioia... ehm ehm e magari aggiornerei con maggiore velocità... 
Comunque, quanto al capitolo, è piuttosto importante perché apre nuove prospettive sulla storia che fino ad adesso non avevate ancora considerato probabilmente.
Uhm, questa è una storia molto romanzesca, la considero un libro a tutti gli effetti in realtà e forse per questo non è molto adatta a efp, nonostante questo spero possa piacervi lo stesso, tengo tantissimo ai miei personaggi, Kell, Jeh, Vic, Cely ora sono ancora incuranti del proprio destino... al prossimo aggiornamento!!!! :D




3. Rivelazioni


«Allora, hai capito come si fa?»
Cecely girovagava nella sua stanza con gli occhi rivolti al soffitto ripassando sulla scrivania – sul quale lei stava cercando di capire le equazioni – soltanto un paio di volte al minuto.
Un buon modo per lasciarle tregua, un pessimo modo per capire le equazioni di secondo grado.
La ragazza doveva aver spostato la scrivania dal lato del muro al centro della stanza, in quel punto si riusciva a godere meglio della flebile luce pomeridiana proveniente dalla finestra.
«Ci sto provando.» Sembrava impaziente di farle capire lo svolgimento dell’operazione ma non si impegnava per aiutarla.
Kell non sarebbe rimasta stupita dallo scoprire che stava aspettando qualcuno: «Non ti va proprio di avermi tra i piedi eh?» Cecely si girò a guardarla con tanto d’occhi, forse era stata troppo schietta, aveva il vizio di dire sempre quello che pensava e se ne rendeva perfettamente conto, non le importava, le persone schiette danno l’impressione di avere più carattere...
Cecely, bassa, forse poco più di un metro e cinquanta portava i capelli corti, castano chiaro che le arrivavano più o meno al mento e gli occhi, – che aveva guardato bene quando si era chinata su di lei – erano di un verde muschio interessante, la scrutavano pensierosi senza però guardarla mai dritto negli occhi. «Ho imparato a non apprezzare la compagnia femminile Kellan.»
Dirle di chiamarla Kell era fuori discussione, lei non voleva neanche averla lì con lei, tra una settimana non le avrebbe neanche più rivolto la parola.
Ad un tratto però si rese conto che non aveva chiesto che tipo di fobie avesse, meglio rimediare, allenarsi con l’interazione sociale, dopotutto era una delle regole della sua psicologa che aveva sempre ignorato; mollò la penna sul foglio a quadretti e chiese: «Che fobie hai?»
Cecely si sedette sul letto cacciando il tesserino da dentro la tasca della camicetta, snocciolò le sue fobie una dopo l’altra, togliendosi il pensiero: «Sociofobia, caligenofobia, ommetafobia, dismorfofobia e eisoptrofobia.»
Non sapeva se fare finta di aver capito o chiedere che diavolo significassero quelle parole apparentemente senza nessun senso logico, inghiottì la saliva indecisa.
Cecely diede un’occhiata alla porta azzurra e cominciò a parlare: «Ho paura dei contatti sociali, delle ragazze molto belle, di guardare negli occhi le persone, anche se dall’inizio dell’anno sono molto migliorata...» Cecely per provarglielo si avvicinò e si potò una mano al viso fissandola dritto negli occhi; un secondo dopo però si scostò bruscamente. Fece una pausa e inghiottì la saliva, le mani strette sui fianchi, già un po’ rossa in viso: «Ho anche una...» Esitò, come se non sapesse neanche come spiegargliela, senza sembrare una pazza: «Beh, dicono che per essere corretta dovrei dire che la mia è una preoccupazione esagerata per un certo difetto inesistente nella mia parvenza fisica.»
Stava ripetendo a bacchetta le parole che qualcuno le aveva detto di dire per definirsi, assurdo, forse Cecely non pensava che il suo difetto fosse inesistente, riflettendo, Kell arrivò a capire che era ovvio che fosse quello il suo problema più grande.
«Ah, e ho anche una fobia specifica, ho paura degli specchi... posso vedere le tue invece?»
Kell estrasse la sua tessera dalla tasca dei pantaloni, Cecely si avvicinò e la prese portandosela vicino agli occhi.
Guardandola meglio, Kell si ritrovò a pensare che forse, il suo difetto fisico non era poi così tanto inesistente come lei veniva spinta a credere.
Si rese conto in quel momento, passandosi la penna nera tra le dita, che Cecely portava un gran bel paio di stivali alti di pelle, allacciati con le stringhe, di evidente ricca fattura, tacco e plantare rialzato, in tutto guadagnava almeno dieci centimetri buoni.
Si avvicinò alla scrivania ridandole la tessera, sollevò un tacco e sorrise imbarazzata: «Vorrei che tu non fossi così alta.»
Kell alzò le spalle desiderosa di rassicurarla, lei non era così alta. Però, pensò osservandola ancora meglio, in effetti era bassa, molto bassa, sarebbe potuta sembrare una bambina senza quegli stivali, ma appunto, senza, e lei li portava. Quindi di cosa si preoccupava?
Una domanda le attraversò la mente, cominciava ad avere mal di testa e aveva voglia di lasciare andare del tutto quella penna.
Forse era solo un disperato, minuscolo tentativo di avvicinarsi a Cecely: «Per questo ti da fastidio la compagnia femminile? Ti paragoni alle altre?» Sei invidiosa? Avrebbe voluto chiederle, ma quello era un lato ovvio della faccenda, Cecely magari poteva essere invidiosa di lei, di Kell, non era assolutamente normale, nessuno, dico proprio nessuno, era mai stato invidioso di Kell prima. E la cosa non la fece affatto inorgoglire.
«Senti Kellan.» Disse Cecely ignorando fermamente la sua domanda: «Non sono proprio la persona più indicata a spiegarti matematica. Ma tra poco arriva Victor, se è di buon umore ci metterete cinque minuti a finire quelle.» Il suo tono di voce non lasciò intendere a Kell che fosse contenta della cosa. «E poi sicuramente arriverà anche Jeh, non guardarlo troppo in faccia.» Si sedette di nuovo sul letto: «Anzi, sarebbe meglio se tu cercassi di non parlargli...»
«Certo.» Disse Kell cercando di frenare l’entusiasmo, finalmente avrebbe incontrato qualcuno fuori sul serio, non come Cecely la complessata e i suoi stivali da ricca. 
Certamente, vedere, senza poter vedere con i propri occhi era più interessante. Aveva ascoltato il discorso della Strins, e non dubitava che la sua nuova conoscente fosse problematica almeno quanto lei, ma non riusciva a evitare pensieri simili, avrebbe voluto poter toccare con mano il disagio.
Se Cecely non avesse indossato quegli stivali, si ritrovò a pensare Kell, forse l’avrebbe guardata con occhi diversi...
«E Victor?» Chiese: «Qualche indicazione su di lui?»
Cecely spalancò la bocca per risponderle, lo sguardo di chi si è dimenticata di dire qualcosa di importante, ma non fece in tempo a dire una sola lettere, se non un: «Vic!» Rivolto al nuovo arrivato.
La sconcertata espressione del ragazzo lasciò intendere a Kell che vedere una ragazza in camera di Cecely era un’evento più unico che raro. «E lei chi è?» Fece rivolto alla sua amica a occhi sbarrati. 
Niente scrupoli, fantastico proprio quello che le ci voleva.
«Me l’ha affidata la Dorles, è fissata con il fatto che sto sempre con te e Jeh lo sai, vuole che socializzi con delle ragazze e ecco qui la nuova arrivata.»
Victor, ancora una volta, sorprendentemente sano fisicamente, alzò gli occhi al cielo; per un attimo Kell temette che le fosse sfuggito qualcosa, ma capì ben presto perché Cecely aveva scelto proprio uno come lui.
Per prima cosa, era alto almeno trenta centimetri più di lei.
Secondo, era davvero accorto. Le si sedette a fianco e cominciò a parlare senza guardarla negli occhi, con lo sguardo vacante per la stanza, come a non volerla forzare, ogni tanto però si fermava a guardarla e poi riprendeva il giro. 
Le cose erano due, o Victor era anche lui ommetafobico o era la persona più meticolosa di tutto il Quattrocentoventisette, Kell si insospettì.
Terzo, difficile non invidiare i riccioli dorati e gli occhi azzurri che la guardavano sorridendo, Cecely cercava quell’aspetto negli altri, quasi a volersi fare del male forse.
Rifletté osservandolo di sottecchi, forse sbagliava, nonostante questo, una ragazza difficilmente l’avrebbe invidiato. 
Se non avesse avuto un viso così acuminato da poterci tagliare le pagine di un quaderno anche abbastanza femminile per altro si sarebbe potuto dire che fosse piuttosto bello, un vero peccato... quindi si era sbagliata, Cecely non cercava di essere invidiosa... forse il contrario invece.
A quel punto era proprio curiosa di vedere Jeh, chissà com’era.
Kell si era ancora una volta distratta nei suoi pensieri, e infatti, quando vide Victor avvicinarsi alla scrivania con un sorriso gioviale ci mancò poco che non saltasse in piedi: «Credevo che Cecely avesse capito come si fanno.» Si sedette al suo fianco e si mise a cercare qualcosa nel quaderno dell’amica; si presentò, Victor Rixon era il suo nome, Vic per gli amici.
«Infatti ero convinta di aver capito.» Esclamò Cecely interrompendolo, riuscì a mettere su il broncio senza il minimo sforzo.
Victor intanto le mise sotto gli occhi un esempio dal libro e attaccò con una spiegazione abbastanza particolareggiata dell’equazione, Kell riuscì a afferrare il senso a grandi linee.
«Tu intanto prova a farne una.»
Si alzò tornando sul letto al fianco di Cecely: «Allora, in cosa consiste la scommessa con la prof?»
Cecely si scroccò le dita e poi disse: «Se per la prossima settimana non voglio continuare ad averla intorno torna tutto come prima e ho vinto io. Altrimenti ha vinto lei.»
Victor, che se ne stava appoggiato con la schiena al muro da sopra al letto di Cecely, parve apprezzare: «Ci è andata bene, poteva sempre proibirti di stare con Jeh e me.»
La ragazza sbuffò sonoramente fissandolo con sguardo truce: «Deve solo provarci. Finché si tratta di una settimana con una persona più o meno discreta come questa qui la posso anche reggere, ma non può togliermi te e Jeh.»
Questa qui. Con Victor era diventata improvvisamente questa qui.
Kell si ritrovò a sospirare in silenzio, neanche Victor con il suo portamento angelico e i suoi tratti femminei osava dubitare del fatto che Cecely si sarebbe presto liberato di lei.
Rimase abbastanza sconvolta quando Victor gli diede la sua tessera per permetterle di leggere le sue fobie.
In pratica il dirigente aveva ragione, era tradizione.
Sociofobia, venustrafobia... 
Venustrafobia? Kell si fermò a fissare la letterine della parola con il cuore in gola. Paura delle donne? Com’era possibile? Victor tutto sorrisi e accortezze era venustrafobico?
Continuò a leggere per non fare la figura dell’idiota: afefobia, cainofobia, monofobia, ommetafobia.
«Sono fobie specifiche.» Fece Victor riprendendosi la tessera.
«Ne ha già superate diverse.» Disse Cecely.
Forse avrebbe aggiunto altro, ma fu’ costretta ad interrompersi.
La porta azzurra della stanza di Cecely si aprì.
A Kell sembrò per un momento di vedersi passare davanti agli occhi tutti gli eventi più devastanti della sua vita. Il rapimento, gli sguardi degli altri, la porta chiusa di camera di Sam...
Il ragazzo con l’occhio di vetro fece il suo ingresso nella stanza, assolutamente in tema fu costretta ad ammettere Kell.
Dovette trattenere l’impulso di tirare una manata sul tavolo. 
Te l’avevo detto! Urlava la sua coscienza vittoriosa.
A Kell non servì molto per capire che il famoso Jeh che era meglio non guadare era proprio Jesse, quello che aveva fissato con tanto d’occhi a terapia, quello che per altro si era accorta di ricordare...
Si sdraiò sul letto senza salutare ne dire una sola parola ai tre ragazzi, Victor gli sorrise placidamente e Cecely soddisfatta dal suo arrivo si sdraiò al suo fianco mettendogli un braccio attorno al collo, lui non la respinse ma non fece niente per avvicinarsi di più.
Kell, – senza riuscire a capire se lui l’avesse notata o no – era ancora seduta alla scrivania, in uno stato di imbarazzo atroce; ormai la stanza per lei era diventata delle dimensioni di una scatoletta di tonno, non osava parlare, aveva paura persino di muovere una gamba sotto il tavolo, si sentì più sociofobica che mai.
Si sforzò di pensare a qualcosa che riuscisse a distrarla; Cecely si era tenuta a distanza da Victor in modo abbastanza studiato e ora con Jeh, che sprizzava “stammi alla larga o ti spezzo il collo” da tutti i pori non si faceva alcun problema.
Afefobia eh? Non era la paura del contatto fisico? Sì, Kell si applaudì mentalmente per aver smascherato Victor da sola, quel silenzio imbarazzante almeno non viveva anche nel suo cervello.
«E le tue fobie Kellan?» Alzò gli occhi dal foglio e guardò Victor come se non avesse capito assolutamente niente di quello che gli aveva chiesto.
«No ti prego!» Fece Jeh sconsolato, aveva parlato. 
La sua voce la colpì come una pallottola nello sterno.
Non l’aveva mai sentito parlare prima. Mai.
Jeh non si fermò anzi: «Le ha già elencate tutte con la Strins che le commentava una alla volta, ancora me le ricordo.» Jeh strascicava le parole, come a voler mettere più enfasi su ogni sillaba, parlava come se gli pesasse dover condividere quei pensieri con tutti loro.
Le sue parole le pesavano in testa.
Cecely lasciò cadere il braccio mollemente sul cuscino.
«Sei nell’H2 anche tu?» Domanda retorica da parte di Cecely.
Si ritrovò ad annuire poco convinta.
«E’ acluofobica anche lei.» Disse Jeh fissando il soffitto, evidentemente non era felice della cosa, la cicatrice formava un’ombra scura sull’angolo sinistro del suo viso
«Davvero?» Esclamarono Cecely e Victor contemporaneamente quasi spaventati.
«La Strins ci farà fare terapia di esposizione insieme sicuramente.» Si passò una mano sulla parte di faccia sfregiata.
Cecely cercò di rassicurarlo: «Lo sai che non ci mettono niente a superarla, massimo tre sedute ed è fatta.»
Kell stava per scuotere la testa ma si bloccò di colpo, forse era meglio non farglielo sapere; per lei la paura del buio era radicata e profonda, non l’avrebbe mai potuta superare in tre sedute, era assolutamente impensabile. 
Ma lei era l’estranea e doveva trattenersi.
«Comunque, che cosa ci fa lei qui?» Dallo sguardo impassibile che Jeh le rivolse, Kell pensò quasi che lui la odiasse, non gli aveva neanche mai parlato direttamente e lui sembrava odiarla, straordinario, si applaudì mentalmente di nuovo, un ottimo modo per mettere in chiaro di stare alla larga. 
Cecely intanto attaccò subito a spiegare la storia della scommessa con la Dorles, neanche Jeh chiese se lei avesse intenzione di tenerla o meno, manco fosse stata un gatto randagio poi. 
Molto, alla larga.
Non appena si accorse di un consistente tremore alle mani scattò in piedi salutò con un unica frase tutti e scappò furente in camera sua, non riusciva proprio a non sentirsi triste.
Non voleva stare lì, a farsi guardare con astio da lui, in un posto dove non aveva neanche il coraggio di parlare, era così tremendamente degradante...


Il bagno profumava di ammorbidente stantio e le mattonelle scivolose della doccia per poco non la fecero finire sul pavimento.
Si ritrovò a scendere le scale con diversi ragazzi al seguito. 
Dopo essere entrata nella sala ancora completamente avvilita finì per sedersi a un tavolo vuoto. Accorgendosi due minuti più tardi che Cecely, Victor e Jeh avevano occupato un tavolo poco distante e parlavano tra loro tranquillamente.
Almeno Cecely avrebbe potuto chiederle di sedersi con loro, così per illudere la Dorles che almeno stesse perlomeno pensando se tenerla o no.
Tenne gli occhi sul piatto e le dita occupate a rigirarsi tra le mani la forchetta.
Quando sentì che le sedie erano state occupate il suo cuore perse un battito.
Lo sentì dalle loro voci che erano ragazze; Kell era paralizzata, non riuscì ad alzare lo sguardo dal piatto per l’intera durata del 
pranzo, quasi le scoppiava la testa dall’ansia che aveva addosso.
«Sono stata così fortunata Nikki!» Gridò per la settantesima volta una ragazza di nome Catherine con una propensione spropositata per l’egocentrismo. «Se ti hanno permesso di ridare l’esame è perché meriti di uscire di qui, non è una questione di fortuna.» 
Catherine fece un versaccio irritato: «Io mi sono impegnata con tutte le mie forze, ma il primo l’ho fallito miseramente...»
«Va bene.» Disse pazientemente la terza ragazza di cui non conosceva il nome: «Ma non hai più le fobie no? Le hai superate. Ti premieranno, non sarà uno stupido esame di routine a impedirti di uscire di qui, non a questo punto.»
«Talaltro...» Continuò Nikki: «Mancano solo cinque mesi alla fine della scuola, dopo tutto questo tempo... sarebbero davvero dei bastardi!»
A quel punto Kell ebbe chiaro di che cosa stessero parlando quelle tre: Catherine evidentemente aveva dato un esame per uscire dal Quattrocentoventisette prima del tempo, e l’aveva fallito. I professori si erano accordati che fosse il caso di farglielo rifare e Kell sentendo la sicurezza delle sue amiche pensò proprio che Catherine avesse ottime possibilità essere riuscita a superarlo e di andarsene questa volta.
Quando si alzò in piedi per andare via non riuscì a fare a meno di notare la cascata di capelli biondo lucente arricciati sulle punte che ricadevano sulla schiena della ragazza di nome Catherine.
Chissà che fobie aveva...


Neanche a dirlo non chiuse occhio per tutta la notte. Il silenzio che si respirava in quella stanzetta era assolutamente raggelante, la lampada vicino al letto formava ombre lunghe e sottili che si trasformavano lentamente in figure orrende dall’aspetto più vivo di quanto fosse lei in quel momento.
Kell si chiese come facesse Jeh a non tenere la luce accesa tutta la notte, il meccanismo della lampada era chiaro; per un ora la lampada rimaneva accesa, poi, si spegneva da sola.
Kell la riaccese da se per tre volte, poi crollò dal sonno.


Il mattino dopo si mise in marcia per andare in classe con dieci minuti d’anticipo, la sera prima aveva messo i libri per il giorno dopo dentro la cartella seguendo l’orario scritto sul foglio plastificato.
Due ore di geografia e due di matematica.
Arrivò al quarto piano e entrò in classe defilata.
«Hai saputo di Catherine Yeferson?» Stava chiedendo una sua compagna a un’altra.
«Si! Pazzesco, tu ci credevi che l’avrebbe passato? Sono cinque anni che qualcuno non esce di qui più di due mesi dalla fine dell’ultimo anno.»
Catherine? La ragazza di ieri a cena? Ah. Le avevano dato i risultati e ce l’aveva fatta; non si sentì granché stupita, solo un po’ invidiosa.
Kell attraversò un paio di file di banchi, Cecely era già seduta in quarta fila, una gonna rossa e gli stivali con le stringhe sotto il banco: «Ti puoi mettere vicino a me.» Kell non avrebbe voluto accettare ma si ritrovò costretta, non ce la faceva più neanche a restare in piedi in mezzo agli altri, le altre compagne di classe, un paio ne aveva anche viste a terapia la fissavano con tanto d’occhi, l’atmosfera scolastica era pressante.
Doveva essere comprensiva, era chiaramente una grossa stranezza vedere Cecely accanto alla tizia nuova, si sentì quella sensazione addosso persino lei.
A interrompere i suoi pensieri ci pensò la professoressa di geografia arrivò in classe e sorrise ai suoi studenti fermando gli occhi su Kell qualche secondo: «Oh, stavo quasi per dimenticarmene, abbiamo una nuova ragazza con noi.»
Tutta la classe si girò a guardarla. 
Kell fissò intensamente la lavagna bianca alle spalle della professoressa come se fosse la cosa più interessante che avesse mai visto in tutta la sua vita, dannazione...
La prof si buttò sul registro: «Kellan Hall è il tuo nome giusto?»
Non racconterò la storia del mio nome, se lo può proprio scordare.
«Sì.»
«Ti è già stato dato un tutor?»
«Ehm...» «Si, professoressa, sono io.» Rispose Cecely già appoggiata con la schiena al muro. «Grazie Cecely.» Sussurrò Kell non appena la professoressa si fu girata. «Non ringraziarmi, sono davvero la tua tutor.» Questa poi...


La professoressa iniziò a fare l’appello.
Il ragazzo con l’occhio di vetro, Kell si appuntò mentalmente di smettere di chiamarlo così nella sua testa, attraversò la classe velocemente senza fare un cenno di saluto a nessuno, neanche alla professoressa che lo guardò sospirando un po’.
L’occhio buono e l’occhio di vetro vagarono verso Cecely, ecco, Kell immaginava già lui che diceva alla sua amica se poteva fare scambio posto, tanto per mettere in chiaro le future dinamiche tra loro. Ma... assurdo, non disse proprio niente, si sedette al terzo posto libero accanto a Kell e rimase zitto, forse semplicemente non gli importava.
L’occhio buono era dall’altra parte, Kell era un po’ rincuorata, almeno non avrebbe potuto vederla mentre supplicava Cecely di mettersi al suo posto.
«No, non fa niente Kellan.»
Non faceva niente per lei forse.
Victor arrivò subito dopo, si sistemò velocemente vicino a Jeh, ma a dispetto dell’altro si sporse oltre lui per salutarle.
«Giornataccia oggi.»
Non così insopportabile, la professoressa di geografia in fin dei conti sembrava simpatica, si ritrovò a pensare. 
Insomma, era carina, non era più venuta a parlarle. Si limitò ad assegnare le pagine da studiare e ricordare di leggere i riassunti per quanto riguardava storia l’altra sua materia.
Kell segnò le pagine attenta a non scontrarsi con il braccio di Jeh, fa che lui avesse ritrovato il suo sguardo impassibile.
«Detesto la matematica.» Fece Jeh.
La tentazione di sillabare anch’io era fortissima, si morse la lingua per sicurezza, non aveva idea di come comportarsi con lui, così ascoltò Cecely e Victor ridere senza osare emettere un solo suono.
«La professoressa è una strega.» Fece Victor sporgendosi di nuovo oltre il banco di Jeh: «Menti spudoratamente alle sue domande se non ti va di dire la verità.» Le suggerì Victor, era più angelico del giorno prima, nonché il più gentile di tutti loro.
La professoressa, capelli corti, giallo tinto, e occhi piccoli attraversò la classe a piccoli passi, nonostante l’altezza era piuttosto brutta e capì perché Victor l’aveva definita una strega.
Certamente, non era una visione gradevole, anzi.
Si guardò intorno e fermò, proprio come la professoressa di geografia, lo sguardo su Kell, a differenza sua però, questa iniziò ad avvicinarsi fino a quando non la raggiunse.
Si chinò sul banco di legno sorridendo vagamente; le sfuggì uno sguardo verso Jeh, poi disse: «Sono la professoressa Soan, insegno matematica e tu sei Kellan Hall giusto?»
Parlava a bassa voce, ma Kell si rese conto che sia Cecely che Jeh che Victor si erano girati in modo da guardare tutta la scena.
«Sì.» 
«Ho letto che sei agorafobica, da quanto tempo non andavi a scuola?»
«Circa dall'inizio dell’anno scolastico, quindi quattro mesi.» La Soan si lasciò sfuggire un sospiro: «Mh, allora devo assegnarti degli esercizi per ripasso, di solito qui non ne assegnamo moltissimi.» La informò.
Davvero? Quattro ore di scuola al giorno e niente compiti? Se non ci fosse stata terapia di esposizione nel pomeriggio sarebbe stato quasi sopportabile, pensò Kell.
La professoressa prese a sfogliare il suo libro di testo, mise dei post-it ad alcune pagine chiedendole di fare degli esercizi.
«Eri brava in matematica?»
Ricordandosi delle parole di Victor rispose semplicemente: «Più o meno.» La Soan annuì e le sorrise fissando uno degli esercizi che il giorno prima aveva fatto con l’aiuto di Victor.
Quanto si sentiva fuori posto lì in mezzo? Troppo.
«Vieni alla lavagna.» Si girò sui tacchi e si avviò alla cattedra.
Cecely si portò una mano alla faccia nascondendosi il viso.
Oh no. 
«Su, vieni Kellan.» Fece la professoressa. 
Sentì, quasi come se non fosse lei a comandare le proprie azioni.
Si stava alzando dalla sedia, lo sguardo di Jeh ancora puntato addosso.
Era proprio, proprio un incubo.
La lavagna, forse avrebbero potuto metterla nelle fobie di altri duecento studenti, Kell lo sapeva perfettamente, era quasi peggio che dover parlare.
Arrivata davanti alla cattedra procedendo lentamente prese dalla mano tesa della Soan il pennarello per scrivere sulla lavagna bianca e si avvicinò zitta ad essa. 
Se ci fossero stati i gessetti forse le sarebbe anche sfuggito di mano, peggio, l’avrebbe anche pestato per sbaglio, era successo si ricordò respingendo il ricordo.
Erano almeno due anni che un professore non le chiedeva di andare alla lavagna, sapevano tutti che aveva dei problemi, e guarda un po’ chi le dava il colpo di grazia? Proprio una professoressa della scuola dei fuori di testa.
Scriveva il testo dell’equazione fissandosi in testa con attenzione ogni numero.
«Bene, adesso prova a risolverla.»
Era davanti a tutta la classe, davanti a Cecely, Victor e a Jeh, persone con i suoi stessi problemi.
Non poteva mollare il pennarello e correre via dalla classe come aveva già fatto parecchie volte in passato.
Ma tutti la stavano guardando, si lamentò la sua mente struggendola.
Terapia di esposizione continua eh? Troppa paura per sentirsi arrabbiata. Finì per cominciare a risolvere l’operazione concentrandosi più in quel momento che nell’arco dei quattro mesi passati.
«Fino ad adesso sta andando bene.»
Un silenzio glaciale regnava nell’aula, riusciva a sentire solamente il suono del pennarello a contatto con la plastica della lavagna bianca, numero dopo numero e stava addirittura andando bene. Tutti gli occhi presenti in quell’aula la fissavano attentamente, aspettandosi qualcosa...
No... c’era qualcosa che non andava, si bloccò passandosi il pennarello nella mano sinistra, ritornò a guardare la riga sopra che aveva già risolto, come doveva andare avanti?
Non lo sapeva. Si sentì arrossire fino alla punta dei capelli.
Le mani scottavano e ormai il pennarello era quasi incandescente, stava quasi per crollare.
Era facile, incredibilmente semplice, bastava lasciare perdere la sua storia sul fatto che sembrare deboli è uno schifo e correre via, scappare.
Poi, ad un tratto, come a risollevarla dal baratro sentì una voce, la voce della prof suggerirle qualcosa.
Attaccò a scrivere respingendo una lacrima e non smise fino a quanto non le venne detto che, grazie al cielo, l’equazione era assolutamente corretta.
«Ti metto un più.» Disse la Soan: «Puoi andare a posto Kellan.»
Oh no.
Almeno prima era girata, ora tutti avrebbero visto la sua faccia contratta dalla paura e dall’ansia.
Per prendere tempo staccò il tappo del pennarello e lo richiuse, si avvicinò al porta cancellino e lo depositò dentro, poi, allora e solo allora, quando ebbe recuperato un po’ della sua aria spocchiosa riuscì a voltarsi verso la classe e camminare fino al suo banco.


La Soan chiamò un ragazzo a fare un’altra equazione e lei riuscì a mettersi seduta al suo posto.
In mezzo a Cecely e a Jeh si sentì rincuorata. «Brava.» Le disse la ragazza sorridendole un tantino, la vide prendere la penna in mano per copiare la nuova operazione.
Prese la penna in mano anche lei e... un’ondata di panico la travolse. Tremava come una foglia e le mani riuscivano a malapena a tenere la penna ferma tra le dita.
Aveva fatto tanto per evitarlo, era riuscita miracolosamente a risolvere quell’equazione e stava per avere un attacco di panico in mezzo a loro quando era tutto finito, lasciò la penna e si mise a braccia conserte, doveva respirare. Calma, doveva stare calma, quelle cose capitano anche quando si è tranquilli purtroppo non era colpa di nessuno. Vide Cecely scoccarle uno sguardo vagamente preoccupato.
Se avesse avuto un briciolo di coraggio le avrebbe chiesto di aiutarla.
E l’aiuto arrivò, ma non da lei.
Jeh, proprio il ragazzo con l’occhio di vetro si girò a guardarla; dato che dal suo lato aveva l’occhio bianco, dovette girarsi completamente verso di lei per guardarla veramente con l’occhio buono.
Jeh fece scivolare un foglietto sul suo quaderno.
Cecely lo vide e sorrise per poi tornare a scrivere.
Era una griglia a quadretti fatta a penna, che avrebbe dovuto farci? La risposta arrivò da Jeh, il suo quaderno di matematica arrivò all’ultima pagina, lo sfogliò al contrario fino a quando Kell non annuì facendo segno di aver afferrato il concetto.
Anche Jeh tornò a scrivere l’operazione.
Kell, ancora tremante, prese la penna in mano e come aveva visto sul quaderno di Jeh, cominciò a riempire i quadrati della griglia formando un motivo a scacchiera.
Con la mano che non voleva stare ferma era difficile seguire le linee, molto difficile; ma alla fine ottenne un risultato più o meno decente e, cosa ancora più importante, aveva smesso di tremare.


«Comunque grazie per prima.» Gli disse Kell.
«Figurati.» Fece Jeh, e non disse altro.
Cecely la costrinse a rimanere con loro anche durante il pranzo, a quanto pareva avevano un tavolo fisso, li aveva visti lì anche il giorno prima.
«Ieri tu eri seduta con Catherine vero?» Chiese Cecely sedendosi al suo fianco, lei annuì contrita, tutta colpa sua se aveva dovuto subire le chiacchiere di quelle tre fissando un piatto di carne al sangue. Non l’aveva mica voluta al loro tavolo solo per spillarle qualche informazione?
Era abbastanza chiaro che tutto l’istituto stesse parlando di lei e della sua miracolosa uscita fuori dal tempo, ma non gliene importava proprio niente; e a quanto pareva neanche a Jeh e Victor che stavano mangiando senza neanche guardarla.
Le dita di Cecely battevano sul tavolo di legno: «Hai sentito qualcosa di interessante? Ne stanno parlando tutti sai...»
Cercò di non mostrarsi scocciata, inutilmente: «No, non ho sentito niente di strano, ancora non sapevano se lei era passata o no, ma... perché ha fatto così scandalo?» Le venne da chiedere per non sembrare troppo scorbutica.
Cecely sbuffò e Victor che era davanti a lei le lanciò un’occhiataccia: «Oltre il fatto che nessuno esce di qui prima di due mesi dalla fine dell’ultimo anno?»
«Perché...» Fece Kell: «C’è dell’altro?»
«Si.» Cecely lasciò andare la forchetta nel piatto, si girò di scatto verso di lei facendo ondeggiare i suoi capelli corti: «Non lo sai?»
Non sai cosa? Kell scosse la testa.
«E’ arrivata ieri.» Disse Jeh alzando entrambe le sopracciglia allineandole stranamente alla perfezione; il suo tono lasciva intendere che c’erano ancora diverse cose che non sapeva di quel posto.
Cecely non gli diede retta: «Lei aveva fallito il suo esame, ma i prof in via assolutissimamente straordinaria le hanno concesso una seconda chance.»
«Si, fin qui c’ero arrivata, ne stavano parlando ieri.»
Cecely annuì soddisfatta: «Ma non era mai accaduto prima, mai, da quando c’è il dirigente Rang. Ora, la domanda è...» Fece una piccola pausa per mettere più enfasi alla cosa: «Perché?»
Già. Kell assentì capendo finalmente il motivo per cui si era creato quel clima estremamente curioso attorno a quella vicenda.
«Magari i suoi la volevano fuori prima, forse hanno pagato per darle la possibilità di andarsene, quando l’ha fallito, i prof si sono visti costretti a farle rifare l’esame.» Tentò Kell titubante.
«Hai idea di quanto costi la retta annuale per questo posto?» Chiese Cecely strabuzzando gli occhi verde muschio: «Non credo che sia semplicemente una questione di soldi, tutto qui gira intorno ai soldi. Ma questa volta c’è qualcosa di più sotto sotto, te lo dico io Kellan.» Lo sguardo della ragazza non le metteva molti dubbi sulla sua sincerità.
«Dal momento che capisci come vanno le cose in questo posto...» Cominciò Victor ottenendo l’attenzione di tutti e tre: «Difficilmente ti ritieni anche solo capace di uscire di qui prima dell’ultimo anno, Kellan tu dovresti saperlo, vogliono tenerci dentro fino all’ultimo e non è neanche difficile capire perché.»
«Non possiamo uscire prima? Neanche se siamo guariti?» Sbottò Kell scioccata, come se Victor le avesse appena dato un pugno dello stomaco. 
Cecely lo guardò scuotendo la testa, cercava di farlo stare zitto? «No. Deve saperlo, no ha senso tenerglielo nascosto.»
Kell rabbrividì, di che stavano parlando? Che cosa non dovevano nascondergli?
Victor ignorò lo sguardo accusatorio di Cecely: «E’ ovvio, se  non te lo dicessi finiresti comunque per arrivarci da sola: vogliono spillarci fino all’ultimo centesimo, lo sanno tutti, lo sanno anche i genitori.» Kell impallidì vedendo che Jeh sorrideva laconico a quelle parole.
«E’ equo, teniamo tuo figlio “psicologicamente instabile”» –mimò le virgolette con le dita – «Qui dentro fino a quando non è maggiorenne, anche se è guarito, anche se non ha nessun problema reale e tu dopo te ne potrai disfare.»  Abbassò la voce tutto a un tratto: «Se una persona ha delle fobie davvero in una clinica privata basterebbero tre o quattro mesi per ritenerlo quasi fuori pericolo in casi non radicati.» Si bloccò guardandola: «Le condizioni in cui quest’istituto versa da cinque anni sono queste, credo che dovresti saperlo visto che ci sei dentro anche tu.» «Ma com’è successo?» Chiese ancora troppo sconvolta per dire altro. «A causa del cambio di dirigente e dei professori, prima accoglievano solo casi gravi, ora accolgono chi paga.» Disse Jeh, il tono era sorprendentemente duro: «E’ entrato in carica Rang e le cose sono cambiate.»
«Significa che è tutto un complotto contro di noi?»
«Contro di noi?» Ripeté Jeh: «Non direi, io non ho davvero possibilità di uscire di qui prima dell’ultimo anno e neanche di superarlo a dir la verità.» Le servì un momento per registrare le sue parole: «Questo è un complotto a favore di chi paga la retta, per quello che sappiamo, niente di più.»
Per quello che sappiamo.
Sconvolta? Kell inghiottì la saliva. Sì.
Tra tutte le ingiustizie del mondo, nonostante quello che aveva pensato dei suoi genitori ancora prima di venire a sapere quella verità non si era domandata come sarebbe stato sapere che ci aveva visto giusto. 
L’avevano mandata lì sapendo. L’avevano voluto loro.
«Potrebbe esserci dell’altro dietro.» La campanella suonò e i ragazzi lasciarono le forchette nei piatti alzandosi in piedi: «Sì,  potrebbe, le voci che girano però non lasciano spazio a dubbi, è un complotto fatto per i soldi e a beneficio di chi paga ed è anche perfettamente legale visto che è scritto dettagliatamente tra le righe delle clausole del contratto da firmare per stare in questo posto, è assolutamente semplice.»
Stavano per raggiungere il primo scalino, Cecely al suo fianco.
Lo stomaco le si era stretto in una morsa dolorosa, era legale, era sbagliato, era contro di loro e non potevano fare niente per evitarlo.
Non poteva che quelle informazioni le passassero addosso senza fare niente, se c’era qualcosa che poteva fare almeno per se stessa, doveva agire.
Avrebbe avuto terapia di esposizione: «Arrivo con dieci minuti di ritardo.» Disse a Jeh, lui le fece cenno di aver capito, avrebbe dovuto avvertire la Strins.
Si girò e cominciò a camminare di nuovo nella sala da pranzo nella speranza che fosse creduta.


«Mamma?»
«Si tesoro!» Il suo tono al telefono suonava attutito: «Perché mi telefoni? E’ successo qualcosa, stai bene?»
Avrebbe risposto solo alla prima di domanda: «Ho bisogno di comunicarti delle cose che ho scoperto di questo posto.»
Aveva sospirato, lo sentì anche attraverso la cornetta del telefono: «Cioè?» Si impose con tutte le sue forza di suonare più concisa e chiara possibile: «Voglio credere che non ne sapeste niente, ma qui dentro si opera molto chiaramente un servizio ai genitori degli allievi. Paghi la retta (e tuo figlio non è più a casa tua) e fino a quando non diventa maggiorenne lo tengono qui dentro, problemi mentali o no, è uguale.
Come sai da maggiorenne non è più sotto la responsabilità dei genitori, e loro sono liberi di lasciarli a se stessi. Capisci?» Non aveva adoperato la prima persona apposta, non voleva che pensasse male di lei: «E’ abbandono programmato, come si può migliorare vivendo in una situazione del genere, sapendo di un simile complotto?»
Sentì sua madre ridere, al telefono era difficile dirlo, ma le sembrò quasi che si sforzasse di allungare la sua risata.
«Kell, tesoro, non dire sciocchezze.» Altre risate interruppero la sua stessa frase: «Non credevo che avessi tanta immaginazione!»
«Tu lo sapevi?»
«Kell... ma che cosa stai dicendo?»
«Rispondimi, lo sapevi o no?»
Una breve pausa, come se si fosse staccata il telefono dall’orecchio, e poi: «No, io non so di che stai parlando, e non credo che neanche tu lo sappia.» «E’ più semplice di come sembra.» Borbottò Kell scuotendo la testa. «Cosa?» «Niente, ci vediamo presto, adesso ho terapia e non preoccuparti per me, davvero mamma. Ho capito tutto.»





 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 4. Primo Passo ***


 
 

















 
- minuscolo spazio autrice -
Finalmente la prima vera ondata di novità dall'arrivo al Quattrocentoventisette, la verità sull'istituto vi ha stupito? Perché io l'ho creato sapendo già dove stavo andando a cacciare Kell e gli altri... adesso è il momento di passare dal lato mentale è ora di andare a fare un po' di terapia di esposizione, non credete? Ahahaha! 
Naturalmente sarei felicissima se mi faceste sapere cosa pensate della storia e ovviamente del capitolo *minaccia* :D al prossimo aggiornamento!!









4. Primo Passo


Andò a sedersi vicino a Bernadette, il posto della Strins era ancora libero, un coro di saluti le riempì le orecchie come si usava fare con i ritardatari.
Un’ondata di tristezza la travolse.
Era arrivata pensando che i suoi genitori l’avessero portata in quell’istituto per sbarazzarsi di lei; non ci credeva veramente, si era limitata a pensarlo, nonostante la porta chiusa di camera di Sam, anche se la velocità con cui l’istituto era stato “trovato” era altrettanto improbabile, dentro di se aveva sempre sperato che non l’avessero fatto con quell’intenzione, non poteva crederci così facilmente, non i quei momenti.
Ora si ritrovava con la risposta in mano, in un altro mondo trasversale di ragazzi abbandonati da gente ricca e senza scrupoli, e cosa ancora più assurda: quasi tutti erano già guariti e non avrebbero più dovuto essere lì. Guariti e costretti a restare, costretti a non avere nessun potere decisionale sulla loro vita solo per aver creato... dei problemi.
Era in mezzo a un mare di truffe e approfittatori. 
Vivere o morire, piangere o gridare, che differenza c’era ormai?


I ragazzi che vedeva seduti in circolo le facevano pena, ma lei era parte del gruppo, lei ora sapeva di essere quasi come loro.
Se fosse stata bene, se non fosse stata davvero agorafobica... sarebbe stata uguale a tutti gli altri.
«Stai bene?» Le chiese Bernadette sorridendo, Kell annuì ricambiando, forse aveva una mezza idea di prenderla sotto la sua ala dopo che Cecely l’avesse rifiutata, Bernadette probabilmente aveva pena di lei, sorrise tra se, piuttosto si sarebbe fatta quattro ore di interrogazione di matematica alla lavagna, quella ragazza fingeva di essere persino insectofobica. Cecely gliel’aveva confidato quel giorno a lezione; che squallore, a cosa le serviva illudersi di essere malata.
Lo sguardo le ricadde su Jeh, erano passati cinque giorni dal suo arrivo al Quattrocentoventisette e non aveva ancora avuto il coraggio di dirgli che l’aveva già visto prima, non sapeva con che faccia gliel’avrebbe detto – soprattutto considerando quanto probabilmente fosse cambiato dall’ultima volta che l’aveva visto – ma sapeva di doverlo fare prima di martedì, la sua vita ormai era in funzione di quella stupida scommessa, dopo sarebbe stato impossibile trovare una scusa per parlargli, Cecely l’avrebbe praticamente bandita.
«Che c’è?» Chiese Jeh accorgendosi dei suoi sguardi: «Pensavo alla scommessa della Dorles.» Rispose lei.
Jeh annuì abbassando lo sguardo: «Okay, ed è proprio necessario che intanto mi guardi in quel modo?» Dimenticava sempre che lui tra le altre cose era anche oftamolfobico, aveva paura di essere fissato; era davvero una rarità sentirlo che le parlava direttamente, meglio sfruttare il momento.
«Io...» Bernadette si girò a parlare con Alice e lei trovò il coraggio di dirgli almeno qualcosa: «Dopo ti devo parlare.»
«Devi parlare con me?» Aveva sollevato le sopracciglia nere, così la cicatrice si stirò.
«Sì.» Rispose semplicemente, abbassando lo sguardo. 
Divertente. Ormai collegava ogni espressione del viso a un modo in cui la cicatrice di Jeh ci si adattava: «E’ una cosa che ti riguarda.»
Forse Jeh avrebbe azzardato qualche altra domanda se la professoressa Strins non avesse occupato il posto in mezzo a loro.
«Scusate per il ritardo ragazzi.» Sorrise loro lanciando un’occhiata indagatrice a Jeh, che prontamente, abbassò la testa.
«Come sapete oggi è la lezione più dura della settimana.» La bombetta che aveva sul capo quel giorno era fasciata da una linea di lino azzurro: «Dovrete dare il massimo.»
Le era stato anticipato qualcosa da quell’angelo di Victor, purtroppo ogni settimana toccava loro un trauma diverso, quindi era impossibile prevederli.
«La lezione di oggi sarà terapia di esposizione al chiuso per entrambe le ore: dovrete raccontare per filo e per segno a tutti i vostri compagni, uno per volta, l’esperienza traumatica che avete subito e che vi ha reso ciò che siete.» 
Kell si mise a braccia conserte, avrebbe dovuto raccontarlo anche a Jeh quindi, un brivido le percorse la schiena lentamente, e lui avrebbe raccontato il suo trauma a lei.
Certamente non era difficile immaginare di che si trattasse ma... fantastico, ora stava anche sudando freddo.
«Andiamo in ordine di fila.»
Bernadette si girò verso di lei sorridendo radiosa.
«Kell! Comincio io, va bene?»
Certo che andava bene, certo che avrebbe ascoltato pazientemente. Nonostante la sua promessa le ci volle una notevole dose di autocontrollo per non girarsi a controllare Jeh dieci o quindici volte al minuto.
Le storie poi, erano tutte una meno interessante dell’altra, le dipingevano come incredibilmente gravi e impossibili da superare, così dolorose e così radicate da non permettere a nessuno di loro di avere una vita normale. 
Era ridicolo, quelle cose... non erano niente e ora che sapeva la verità le vedeva irrimediabilmente sotto una luce diversa dal suo trauma o da quello di Jeh, la Strins aveva cercato di farglielo credere ma adesso non avrebbe più potuto fare niente per convincerla del contrario. Le cose erano diverse e a tutti loro, nessuno escluso, piaceva fingere.
Bernadette da bambina si era ritrovata con una cavalletta in bocca e per sbaglio le aveva dato un morso uccidendola.
Alice invece, tutta trafelata raccontava di aver subito delle percosse da un suo carissimo amico immaginario.
Oscar invece era quasi affogato nella sua vasca da bagno.
Darren era stato costretto dai suoi genitori a fare corsa campestre.
Sophie con i suoi grandi occhi marroni luccicanti raccontava di come un giorno di tanti anni prima aveva visto il suo gatto uccidere a artigliate un cane e mai l’aveva dimenticato.
Ci pensò su e arrivò alla conclusione che Bernadette, Alice, Oscar, Darren e Sophie avessero le fobie più complesse del gruppo; le altre erano veramente degradanti e sembravano solo frutto di una ridicola deviazione di un’idea bizzarra che avevano avuto per spacciarsi anormali.
Tutti rispondevano che erano lì da due, addirittura tre anni, che vergogna, non riusciva a quasi a crederci ma quella era verità di quel posto, tutto era, un’enorme, gigantesca, incommensurabile presa in giro.
Guardò la Strins con gli occhi ridotti a due fessure aspettando che la sedia davanti a se venisse occupata di nuovo da un altro suo compagno di corso
Kell gettò uno sguardo al soffitto bianco attendendo con ansia, non riusciva a smettere di pensare.
«Sei l’ultima.» La voce di Jeh lo precedette; Kell lo vide mettersi seduto, dentro di lei crescente agitazione. 
Si, in effetti anche a lei mancava solamente Jeh, se n’era completamente dimenticata, era stata troppo impegnata a rimuginare sulle storie altrui...
Così avrebbe sentito Jeh parlarle direttamente, un gran bel passo avanti, più o meno miracoloso visto gli sguardi truci che lui le lanciava a pranzo.
«Prima tu.» Jeh appoggiò i gomiti alle gambe sporgendosi in avanti con aria di sfida, era evidente che moriva dalla voglia di metterla in difficoltà, di farsi beffe di lei, di ridere della sua storiella.
Kell era indignata, si aspettava che avesse una storia stupida proprio come tutti gli altri? Bé, si sarebbe dovuto ricredere.
Avrebbe raccontato la sua storia, ancora, per l’ennesima volta
– da quanto l’aveva cercato di spiegare circa sei anni e mezzo agli uomini della polizia in braccio a suo padre – e non avrebbe tentennato, almeno in quello sarebbe stata coraggiosa.
«Quando avevo quasi sette anni...» Cercò di sembrare più dura e ferma: «Un pomeriggio ero al parco vicino a casa nostra con mia madre, andava tutto alla grande, mi stavo divertendo sull’altalena con altri bambini, niente di straordinario, lei però deve essersi distratta; solamente per un attimo mi ripete sempre quando deve raccontare questa storia, ma... quell’attimo è bastato. Qualcuno mi ha preso. Mi ha trascinato verso una macchina mettendomi un panno bagnato davanti alla bocca, sono stata drogata...» 
Lo sguardo di Jeh per quanto fermo si scurì, tra tutte le cose che aveva potuto pensare di lei non si aspettava di sentirsi dire niente del genere, non poteva credere che stesse mentendo. Anche lei ce l’aveva scritta in faccia la verità.
«Mi hanno messa dentro a una specie di cassa, nel bagagliaio di una macchina, ricordo di aver pensato stesa lì dentro che fosse inutile, non riuscivo a muovermi lo stesso, avrebbero potuto farne a meno.»
«Ti hanno rapita.» Jeh si passò una mano sopra la cicatrice coprendosi quasi del tutto l’occhio di vetro con la mano; Kell annuì: «Mi hanno rapita.»
«Davvero.» Disse Jeh in un sibilo, non le stava ponendo una domanda, le stava credendo, Kell inghiottì un po’ di saliva.
«Non mi davano da mangiare e continuavano a somministrarmi dosi pesanti di sonniferi, giravo per la casa tutto il giorno sbattendo di qua e di là. Sono sempre stata molto sveglia, in realtà vorrei non essere stata così sveglia; quando uno dei due uomini mi ha accoltellato al braccio ho pensato davvero che sarei morta.» Kell sbottonò una manica della camicia per sollevarla e permettere a Jeh di vedere le sue di cicatrici.
«Guarda.» Con gli altri non l’aveva fatto, ma con Jeh e l’antico fantasma bambino del suo passato valeva la pena fargli capire davvero, con tutti i mezzi che aveva a disposizione che lei non era come gli altri. 
L’idea che lui potesse avere avuto quell’idea fin dall'inizio la stava tormentando, lui doveva, doveva per forza, assolutamente cambiare idea.
Tre tagli e tre cicatrici lunghe e sbiadite, per l’intera lunghezza del braccio ricoprivano la sua pelle bianca, tanti mesi senza luce del sole dicevano la verità su quel pallore anomalo.
Lo sguardo di Jeh era cambiato, sembrava... no, non imbarazzato, ma abbattuto, aveva guardato e aveva abbassato lo sguardo subito dopo, sussurrando quasi impercettibilmente: «Mi dispiace...» 
E quella fu la prima volta dopo dieci anni in cui riuscì a vedere con i propri occhi quanto lui fosse vulnerabile.
Kell riuscì a sentirlo fin nelle fibre della sua pelle ma andò avanti con la storia imperterrita, quella che aveva davanti era una possibilità: «Sono rimasta lì due settimane, poi loro hanno chiesto un riscatto ai miei genitori e hanno pagato, quando avrebbero dovuto consegnarmi ai miei la polizia è entrata in scena e li ha arrestati.»
«Quanto gli hanno dato?»
«Sette anni, ma ne hanno fatti cinque.» Kell rise abbassando lo sguardo, Jeh invece fece una smorfia e la cicatrice si sollevò con lo zigomo.
Quelli che l’avevano rapita erano usciti e non passava un solo giorno senza che Kell vivesse pensando a quello che aveva subito in tutti quegli anni, solo perché due schifosi... Ah! Nel complesso le poteva andare anche peggio, vero, ma quell’avvenimento aveva finito inevitabilmente per condizionare tutta la sua vita, niente poteva restituirle quei dieci anni passati nel nulla, ne la giustizia, ne l’amore, ne nient’altro.
La testa bassa di Jeh le lasciava presagire che l’avesse convinto.
«Ti ho giudicata male.» Disse Jeh: «Mi dispiace.» 
«Non fa niente.» Si ritrovò a dire lei senza sapere neanche perché, le dava fastidio anche solo sapere che potesse sentirsi in colpa, assurdo, non era giusto avrebbe proprio dovuto sentirsi in colpa: «La mia non è una cosa che salta all’occhio come la tua.» Jeh rise sommessamente, non rideva spesso ed era bello che ridesse con lei, non l’aveva mai fatto prima, in realtà non avevano neanche mai parlato.
«Si, salta proprio all’occhio...» 
Anche Kell rise con lui vergognandosi un tantino.
«Hai sentito i traumi degli altri no? Non hanno niente, dico niente a che vedere con i nostri o con quelli di Victor e Cecely.» Di cui lei non sapeva nulla avrebbe voluto dirgli. 
«Eppure sono qui e vengono trattati esattamente come noi mentre fingono di avere qualcosa di sbagliato.» Adesso la guardava negli occhi davvero: «Prima che arrivassero loro due odiavo questo posto con tutto il cuore, sono i primi che ho trovato che riescono a capire quello che si prova nell’essere messi così in mezzo a tutto questo.»
Ripercorse mentalmente le fobie d Jeh: sociofobia, agorafobia, demofobia, glossofobia, oftalmofobia, scotobia...
«Mentre mentono, fingono e si disperano, loro non pensando a niente. Non mentirti, io non lo farò, sai perché? Tutto quello che hanno raccolto qui dentro, tutto quello che sanno, l’abbandono, il dolore... non è neanche la metà di questa verità.»
Non era del tutto sicura di aver capito, ma era vero, nessuno di loro soffriva come soffriva Jeh o come soffriva lei.
Jeh scosse la testa: «Tu hai detto la verità, se non mi avessi raccontato tutto questo ti rendi conto che io avrei continuato a pensarti come gli altri?» 
Kell indurì il suo noto di voce: «Sì.»
Jeh pareva un po’ combattuto: «Non fingere di essere diversa da quella che sei, qui dentro non serve a niente.»
Disse che l’avrebbe fatto o che ci avrebbe provato, non ricordava.
 
«Allora, sei pronta a sentire la mia storia?» Sorrise ancora, per attutire la domanda, come se stesse per somministrarle una dose elevata di uno sciroppo cattivissimo.
«La faccio breve non voglio traumatizzarti di nuovo.» Disse lui per cominciare: «Avevo appena compiuto sette anni, che coincidenza.» Non tanto, lei sapeva già che lui doveva avere sette anni, certo, non riusciva a dirglielo, ma dettagli. 
«Mio padre picchiava mia madre, era violento, l’ha sempre fatto da quanto riesco a ricordarmi, a volte se capitavo anch’io nei paraggi picchiava anche me.» Kell inghiottì la saliva prendendo aria nei polmoni mentre la storia cominciava orribilmente a schiarirsi. 
«Ha ucciso mia madre davanti ai miei occhi.» 
Kell spalancò la bocca e si costrinse a coprirla, un senso di nausea la invase per tutto il corpo, gli occhi di Jeh, quello bianco e quello grigio la scrutavano comprensivi, gli occhi stanchi di chi non dimenticherà mai: «Mentre lei moriva mio padre ha preso un coltello e...» Una mano arrivò lentamente all’occhio bianco: «Mi ha fatto questo.»
Non riusciva a parlare, sentiva gli occhi riempirsi a tratti da lacrime calde, a tratti da una rabbiosa nuova certezza e per evitare di mettersi a piangere li strinse più che poteva mentre si copriva la faccia tra le mani, quella storia era molto peggio di quello che aveva immaginato, molto peggio di qualsiasi ipotesi avesse mai fatto in passato, ma niente era peggio delle verità, niente come la realtà.
«Una cosa buona però l’ha fatta.» Aggiunse Jeh mentre Kell si nascondeva ancora dietro le sue mani, si aspettava che dicesse che aveva chiamato aiuto, ma no, sapeva in cuor suo che non poteva essere andata così.
«Subito dopo si è ucciso.»
Tolse le mani dagli occhi, ancora intenta a rendersi conto che adesso sapeva perché quel bambino che aveva visto da piccola da un giorno all’altro si era ritrovato fatto a pezzi, sfigurato, senza una mamma e senza un papà.
Prendere tempo, prendere tempo, si ripeté cercando di darsi un tono. Cercò di abbottonarsi la manica della camicia per distrarsi, per calmarsi, ma la mano aveva preso a tremare lievemente e non riuscì ad abbottonare il bottone, a Jeh bastò allungare la mano, le dita bianche, fredde, sfiorarono la sua pelle e misero a posto il bottone. Kell impallidì ancora di più a quel contatto, quello non era un passo avanti, quello era un salto nel vuoto. Quasi non riusciva a credere che ce l’avesse veramente lì davanti.
«Dove sei andato dopo?»
«A vivere con mia nonna, è lei che mi ha comprato il mio primo occhio di vetro.»
Kell annuì, tutte quelle informazioni... l’occhio grigio e l’occhio bianco che attiravano il suo sguardo, uno la vedeva, l’altro invece no, era troppo per lei in una sola volta.
Okay.
«Okay.» Non pensava di averlo detto davvero ad alta voce: «E adesso comunque stai bene?»
Il sorriso di Jeh attirò l’attenzione della Strins che girovagava per la sala, ma riguardo lei, non ci voleva un genio per capire che aveva bisogno di essere rincuorata: «Sì, adesso sto bene.»
Non le era mai sembrato fragile o indifeso, non lo era e non lo sembrava neanche, era solo che... quando l’aveva visto la prima volta in quello stato, con metà della faccia fasciata – sapendo che cosa c’era sotto – avrebbe dovuto avere il coraggio di chiederglielo, ma Kell non era mai stata una persona molto coraggiosa, una come lei non lo è mai.
«Sei l’unica che me l’ha chiesto, grazie, e tu, come stai?»
Kell abbassò lo sguardo: «Bene.» Le venne spontaneo vero o no.
Il viso pallido, i capelli neri mossi, le sopracciglia nere a ala di rondine, il naso dritto, le labbra carnose, l’occhio grigio, l’occhio di vetro, la lunga cicatrice che spariva sotto l’orlo della maglietta, tutto le ricordava il bambino che aveva visto nella sua infanzia, era completamente diverso e uguale allo stesso tempo; nonostante il fatto che fosse cresciuto, che adesso avesse dieci anni di più. Non aveva proprio più dubbi, ora era proprio a un palmo da lei e ne era certa; era lui, proprio lui.
«Mi dispiace per come ti ho guardato il primo giorno.»
«Non importa.» Alzò le spalle, sembrava davvero che non gli importasse più: «Tu sei come me.»
Se si fosse soffermata troppo sulle sue parole non avrebbe avuto il coraggio di dirgli quello che doveva.
«La cosa che ti dovevo dire...» Non esitò, quello che è fatto è fatto, quello che è stato detto è già stato detto, tanto valeva giocarsi tutto: «Io ti ho già visto prima, prima di venire qui.»
«Cosa?» Kell cercò di concentrarsi per trovare una risposta decente: «Non abbiamo mai parlato ma ho avuto modo di vederti un sacco di volte, molti, molti anni fa e... non ti ho mai dimenticato.» Jeh non riusciva proprio a crederci lo vide da come scuoteva la testa sorridendo lievemente come se fosse una storia assurda. «Avrei voluto dirtelo prima, ma non... non ho avuto il coraggio.» Ammise stufa anche delle sue parole, era stanca di parlare, avrebbe voluto solo andare in camera sua e mettersi a piangere fino a quando non avesse esaurito i liquidi che aveva in corpo ripensando alle scoperte della giornata, era chiedere troppo evidentemente.
Stava proprio vuotando il sacco: «Quando ti ho visto... è stato un colpo.»
La campanella suonò e la Strins cominciò a dire che potevano andare. Erano gli unici ancora seduti, una volta alzati Kell si sentì un’alunna indisciplinata che ha appena commesso un errore castigabile, gliel’aveva detto.
«E dove mi hai visto? Quanto tempo fa?» 
No, adesso non ce la faccio.
Camminarono verso all’uscita mentre Kell pensava a cosa dire.
«Non ti ricordi di me?» Sarebbe stato assurdo il contrario.
«No, non saprei adesso, ma devo pensarci su.» 
«Adesso non ce la faccio a dirtelo.» Disse Kell sospirando, passarono davanti alla Strins e la salutarono uscendo fuori dalla porta.
«Tutto bene ragazzi?» Forse aveva sentito un pezzo della loro conversazione, Kell si sbrigò a rassicurarla.
C’era ancora parecchio trambusto nella H3 la sala dove stavano Victor e Cecely.
Kell e Jeh si sedettero alla solita panca, lui aveva ancora gli occhi fissi in un punto indefinito ai suoi piedi, adesso che si erano improvvisamente avvicinati e era riuscita a dirgli almeno un pezzo della verità lui se ne stava così cupo...
«Jeh, non arrabbiarti.» Si trattenne a stento da aggiungerci un ti prego all’ultimo secondo, prima che lui la guardasse incredulo.
«Non sono arrabbiato, stavo solo pensando... chi potresti essere.»
Oh. Ma la domanda non è chi, non c’era nessun chi, non poteva ricordarsi di un’ombra.
«Te lo dirò, e non potrai non credermi.» Aggiunse: «Ho delle prove insindacabili.»
Jeh sorrise fissando il pavimento bianco e Kell si sentì molto meglio, quello era proprio quello che voleva.
Si trattenne dall’incupirsi; se solo Cecely avesse voluto tenerla...
La campanella era già suonata, perché Victor e Cecely non uscivano? Oh, ecco Vic.
Il ragazzo oltrepassò la porta chiudendosela alle spalle, quando li vide andò a sedersi di fianco a Jeh così scuro in volto che non le ci volle molto per capire che era successo qualcosa.
«Dov’è Cecely?» Chiese Kell incuriosita.
«E’ ancora dentro, sta parlando con la Dorles non so proprio cosa le sia preso, sta piangendo.» 
Kell convenne che fosse il caso di rimanere zitta.
«Che cosa vi hanno fatto fare?» Chiese Jeh mettendo una mano sulla schiena, ora ricurva, di Victor.
«Esercizi di esposizione contro l’ommetafobia: dovevamo fissarci l’un l’altro, facendo cambio ogni dieci minuti.» Lo sguardo assorto, come se stesse ripensando alle scena: «Cecely è andata alla grande fino a quando non siamo finiti insieme; credo sia stata colpa della Dorles, le ha tenuto la testa ferma verso di me, non è stata una bella cosa, dopo qualche minuto aveva cominciato a pingere. Non ha più smesso.»
«Non è colpa tua.» Gli disse Jeh scuotendo la testa: «Lo sai che Cecely è molto, troppo ommetafobica.»
Victor saltò in piedi come se Jeh l’avesse pizzicato: «Lo so! Ma mi conosce! Sono suo amico e ha avuto questa reazione solo con me! Non ha alcun senso.»
«Abbassa la voce.» Fece Jeh: «Non vorrai che ti sentisse...»
La frustrazione di Victor si poteva toccare con mano, era incomprensibile anche a Kell. 
Perché aveva avuto una reazione simile proprio con uno dei suoi amici, a cui insindacabilmentele voleva per altro molto bene.
«Che m’importa.» Fece Vicotor agitando una mano in aria: «Dovrà darmi una spiegazione razionale no?»
Jeh si lasciò andare contro la panca di legno sospirando: «Se non se la sente di dirtelo non la puoi costringere.» 
Che Jeh già lo immaginasse? Si chiese Kell osservandolo.
Oh, ecco la Dorles uscire fuori dalla classe, dare una pacca su una spalla a Cecely e mandarla di nuovo in mezzo ai suoi amici.
Un fazzoletto in mano che le aveva già strizzato gli occhi un paio di volte e la testa bassa, Victor era a mezzo metro da lei ma non abbracciò lui. Jeh si alzò in piedi e senza nessun tipo di esitazione la strinse tra le sue braccia. 
Lui sussurrava parole di cui non riusciva ad afferrare il senso,  le era parso crudelmente freddo all’inizio, anche lei l’aveva giudicato male. Victor prese a camminare verso le scale, in breve tutti loro li stavano seguendo in silenzio.


Arrivati davanti a camera di Cecely, Kell fece un passo indietro.
«Cely?» La chiamò con il nomignolo con cui la chiamavano i ragazzi appunto per sembrare un po’ meno acida del solito.
«Vuoi che vada?» 
Avendo focalizzato l’attenzione sulla sua faccia quando sentì Jeh dire prontamente che lei serviva ancora fece giusto in tempo a vedere l’espressione triste di Cecely indurirsi.
«Certo, vieni...»
Da quando aveva detto loro di chiamarla Kell le cose erano state tutte in discesa; certo non riusciva ancora a parlare con Cecely normalmente, prima di quel giorno Jeh a malapena la guardava e Victor era l’unico gentile, ma sentirsi chiamare Kell l’aveva rincuorata, era un invito a provare.
Ora Cecely era a pezzi e Kell si ritrovava con Jeh che voleva che restasse per qualche assurdo folle motivo.
Cecely si era messa il pigiama mentre loro aspettavano seduti un po’ dove capitava. Uscita fuori, in pantofole, Kell poté ammirarla in tutta la sua bassezza, piccola, davvero minuscola.
«Non fare commenti.» Le disse lei mettendosi sotto le coperte, aveva già avuto modo di conoscere la sua natura scostate e inacidita.
Un minuto dopo erano tutti sul letto di Cecely, Jeh era alla fine del letto, Victor dal lato esterno accanto all’amica, Kell in quello interno, erano lì, pronti; ad aspettare che lei dicesse qualcosa di quanto era accaduto a terapia.
Ma lei non diceva niente e tutto quel silenzio cominciava a parerle imbarazzante.
«Vi va di mangiare qui?» 
«Oh si per favore Vic.» Disse Cecely sforzandosi di sembrare contenta. «Vado a prendere la cena allora... uhm sabato sera bistecca.» 
Kell si trattenne dal chiedere che toccasse fare ai vegani o ai vegetariani che vivevano lì con loro.
Non appena il ragazzo uscì fuori dalla porta Kell ebbe subito chiaro che Jeh non aspettasse altro che interrogare Cecely.
«Allora che ti è preso?» 
Lei si portò le coperte fin sopra le orecchie: «E’ colpa della Dorles, stava andando tutto bene prima che lei mi mettesse le sue zampacce addosso.»
Come scusa era credibile si ritrovò a pensare Kell.
«Ti ha messo in difficoltà?» «Si.» Rispose lei subito: «Allora ti credo.» E anche Kell le aveva finito per credere.
«Victor non ha fatto niente.» Aggiunse Cecely: «Ma quando ho cominciato a agitarmi per colpa della professoressa... non lo so, mi sono resa conto di quanto mi infastidiscano certi suoi atteggiamenti.»  
Di Victor? La ragazza teneva lo sguardo fisso su Jeh, Kell poté manifestare con tutto il suo sdegno la sua affermazione.
Non esisteva persona più discreta e misurata di lui, Kell non riusciva neanche a pensare che un suo atteggiamento potesse aver irritato Cecely che per altro gli voleva anche molto bene.
«A che ti riferisci?» Chiese Jeh, non capiva neanche lui.
«Al fatto che quella bastarda della Dorles se ne stava lì a guardarmi come se fossi una bestia morente e lui... lui?»
«Lui?» Fece Kell per spronarla a proseguire.
«Niente. Se ne stava lì, senza dire una parola, capisci?» Si voltò a guardare Kell scuotendo la testa: «Non abbiamo niente qui dentro, questo posto è un’illusione, ma i miei amici, non posso pensare che anche voi due non...» Non finì la frase tamponandosi gli occhi con il lenzuolo.
Jeh era visibilmente dispiaciuto, il cipiglio che aveva assunto aveva portato la sua cicatrice a incresparsi un tantino.
«So che è difficile, è afefobico e va bene.» Paura del contatto fisico ripensò Kell arrivando a capire i motivi di Victor.
«Lo so che non è colpa sua, ma mi conosce da mesi, sono sua amica, credevo che fosse migliorato...» «Insomma ti aspettavi che lui facesse qualcosa?»
Cecely assentì, gli occhi pieni di lacrime: «Non sono mica l’unica che è scoppiata, ma tutti sono stati rassicurati. Tutti tranne me.» Era davvero indispettita e arrabbiata, delusa più che altro, Kell non sapeva che cosa pensare, guardò Jeh interrogativa.
Il ragazzo si reggeva la testa con una delle mani, la lasciò per trascinarsi vicino all’amica, appoggiò la schiena sul bordo del letto vicino a Kell ma non sembrava per niente confuso: «Lui non ha fatto niente perché c’era la Dorles, è perfettamente capace di reggere il contatto con te, lo so per certo, ma lei, lei è una donna adulta; da chi credi che Vic abbia subito quello che sai?» Cecely sospirò amaramente portandosi una mano alla fronte: «Non ci avevo pensato.»
Mistero risolto pensò Kell, cercando di non pensare alle conclusioni che aveva appena fatto sul trauma di Victor.
«Se ne sei tanto sicuro allora spiegami perché non mi da mai neanche una pacca su una spalla? Non so se l’hai dimenticato quello che è successo Jeh, ma certamente io non l’ho fatto...» Cecely guardò Kell e cominciò a spiegarsi: «Avevo conosciuto Vic da pochi giorni, non sapevo ancora che tipo di trauma avesse subito, ho dato poco peso al fatto che fosse afefobico e un giorno senza pensarci gli ho dato una spinta, così per scherzare.» Fece una pausa sfornando la miglior espressione allampanata che Kell avesse mai visto: «Ha fatto uno scatto indietro neanche l’avessi schiaffeggiato, aveva un’espressione orribile sulla faccia, non la dimenticherò mai.
E poi, poi ho scoperto che cosa gli era successo e mi sono sentita un verme per settimane... da allora non ho più cercato contatti.»
Storia interessante. «Sono passati sei mesi, so per certo che è migliorato tantissimo durante terapia, ma non è cambiato niente, con me è sempre uguale e non capisco per quale ragione.»
«Te lo dico io perché.» Disse Jeh e Kell pensò che lui stesse per fare una qualche rivelazione sconcertante su Victor, una di quelle cose che ti fanno venire voglia di tapparti le orecchie per non sentirti di troppo...
Ma invece no, Jeh aveva tutt’altro per la testa: «Non puoi pensare che lui cerchi un contatto spontaneamente, è ancora troppo fragile, non è neanche lontanamente capace di pensarlo, ma tu potresti, dipende da te Cely, io lo faccio già, prova anche tu.»
Già, prima Jeh gli aveva messo una mano sulla schiena, e lui non si era minimamente scomposto, pensò Kell. Cecely si passò una mano tra i capelli corti gettando la testa contro il cuscino stremata.
«Credi che sia così facile?»
Victor spalancò la porta proprio in quel momento, gli occhi stanchi frugarono nella stanza, le braccia sorreggevano un vassoio di plastica. Niente acciaio, niente di appuntito, casomai a qualcuno venisse voglia di prendere a vassoiate in testa qualcuno.
Jeh intanto annuì, evidentemente per lui era così facile.
«Di che parlavate?» 
Dal di sotto del vassoio Victor estrasse i piedini reggenti, lo posizionò sul letto, mostrando loro le bistecche che aveva preso, Kell evitò coscienziosamente di chiedere se si potesse davvero mangiare in camera, figurarsi se Victor avesse fatto qualcosa contro le regole.
Jeh rispose alla domanda di Vic prendendo la forchetta in mano: «Niente di che... in compenso c’è una novità.»
«Riguardo?»
«Kell.» Esclamò Jeh lanciandole uno sguardo allusivo: «Abbiamo dovuto raccontarci i nostri traumi oggi a terapia.» Disse e Cecely si tolse nuovamente la coperta da sopra le orecchie: «E?» 
«E lei è come noi.»
Ecco un buon modo per spingerli a chiedere che accidenti le fosse successo di così tanto sconvolgente da essere comparato ai traumi di Jeh.
«Devi assolutamente raccontarlo Kell.» Disse Jeh, senza però avere una nota di entusiasmo della voce, doveva davvero raccontarlo e per motivi seri talaltro.
«Per la milionesima volta.» Aggiunse Jeh sorridendo, e le sorrisero anche gli occhi; Kell si sentì stremata, ai limiti dell’esausto come poteva dirgli di no? Semplice, non poteva. 
Cominciò a raccontare e non smise finché non ebbe finito di parlare, troppo difficile scrutare le espressioni di Victor e Cecely, non sapeva neanche cosa fosse successo a loro figurarsi scoprire dalle loro facce che cosa ne pensavano.
Certamente non potevano rimanerle indifferenti, neanche Cecely che aveva intuito quanto fosse cinica.
Così a racconto ultimato: «E hai sentito le fobie degli altri?»
«Si, sono assurde, cucite addosso a loro come vestiti.» Rispose Kell a Cecely: «E’ incredibile come vengano messi sullo stesso piano di persone... come Jeh ad esempio.» «Come te.» Aggiunse prontamente Victor.
Kell preferì non commentare: «Ancora più assurdo è il fatto che  non riesco a odiarli, sono stati abbandonati come noi semplicemente perché mentalmente instabili.» 
«Questa è la cosa peggiore!» Esclamò Victor.
«Siamo tutti instabili.» Disse Jeh: «Instabili e attori nati.»


Per un paio di minuti cenarono in silenzio, la carne era già fredda, Kell non si era ancora ripresa dalle novità che aveva appreso su quella strana scuola, non era proprio pronta a sentire altro: «Vuoi sentire la mia storia?» Chiese Cecely, con gli occhi fissi sugli ultimi pezzi di carne.
«Se non te la senti...» «No.» Disse lei: «Hai detto la tua, e qui vige la regola...» Victor le sorrise continuando la sua frase: «Se qualcuno ti racconta il proprio trauma devi ricambiare.»
«Non è necessario.» Ma gli altri due la guadavano convinti.
Victor si incupì, forse aveva capito che se avesse voluto seguire le regole anche lui, avrebbe dovuto raccontare, Kell aveva intuito cosa potesse esserci sotto, ma sentirselo dire... non era sicura di essere pronta.
Quanto a Cecely, tutto sommato anche per lei non era complicato indovinare da dove fosse partito tutto.
«Sono sempre stata la più bassa della classe, da sempre, elementari, medie, liceo...» Mollò la forchetta pizzicandosi la bocca col tovagliolo. Jeh fece lo stesso, appoggiò di nuovo la schiena al muro oltre il bordo del letto, lui lo sapeva che si sarebbero sentiti costretti a raccontare.
Che l’avesse fatto apposta? 
Forse ora Kell aveva più chance di far perdere la scommessa a Cecely, di convincerla a tenerla, forse lo stava facendo per quello. La sola idea la traumatizzò, tutto quello che era successo era già troppo bello, non aveva senso raccontarsi altre storie...
«Ero insicura, vulnerabile, ho sempre cercato di fare quello che mi si chiedeva per adattarmi... la mia è una storia come tante altre, ne sono cosciente, è questo che ci fa differire dagli altri, ma non riesco a superarla.» Alzò lo sguardo verso di lei esitante, con gli occhi verdi che battevano velocemente.
«Diglielo Cely.» E Kell sentì che Victor avrebbe voluto dirgli semplicemente che stava solo indugiando.
«Sono stata picchiata dalle mie compagne di classe nello spogliatoio della scuola, mi hanno rotto un paio di costole, loro... mi avevano fatto credere di essermi integrata, di essere quasi come loro e poi, tutto a un tratto, senza che riuscissi a capirne il motivo, è successo.»
Era stata cruda e chiara, forse troppo sottile visto che la sua, come quella di Kell e di Jeh era una storia di violenza.
Quelle non erano storie fredde, ma storie calde, di sangue fresco raccontate in modo diverso, meno reale.
«Per questo non riesci a stare con altre ragazze.» Disse Kell annuendo mentalmente, Cecely si passò una mano sulla fronte e la guardò negli occhi per qualche secondo: «Per questo la Dorles ha scommesso su di te, conta sul fatto che adesso io sia cambiata.»
Gli altri due non commentarono.
Victor inghiottì un sorso d’acqua: «Riguardo me, non ci vuole un genio per capire cosa sia successo a un venustrafobico, afefobico.» Paura delle donne, paura di essere toccati, Kell assentì, ci sarebbe arrivata anche da bambina.
Era chiaro, ma Victor lo disse lo stesso, brevemente, restringendo al massimo ogni tipo di particolare, nessun discorso, solo pura e semplice verità, una grande dimostrazione di coraggio a sangue freddo ristretta in tre semplici parole: «Sono stato violentato.»
Se avesse saputo prima che sarebbe stato così chiaro, Kell si sarebbe preparata psicologicamente ad avere qualcosa da dire, ma così era impossibile, in mezzo secondo aveva dimenticato come fare uso della parola.
«Aveva otto anni...» Aggiunse Cecely per lui, e Kell ebbe l’assoluta certezza che non avrebbe scoperto chi gli aveva fatto quello. Non che fosse curiosa, ma aveva come il presentimento che la realtà fosse troppo orribile da riassumere in due parole.
Si parlò ancora del trauma di Kell, le vennero fatte le solite domande e lei si costrinse a rispondere educatamente, si sentiva stranamente fortunata che non le fosse accaduto quello che era capitato a Jeh o a Victor.
A Cecely piacevano proprio perché erano entrambi messi peggio di lei, non era difficile intuirlo.
«Dovrei riportare questa roba di sotto.» Disse Victor prendendo il vassoio tra le braccia, aveva l’aria affranta: «Tu stai bene?» Chiese a Cecely, che prontamente rispose: «Sì certo, ma sta per suonare il coprifuoco, potresti aspettare altri due minuti.»
Era passato così tanto tempo?
Victor mollò il vassoio sulla scrivania, riprendendo il suo posto di fianco a Cecely: «Se ho fatto qualcosa che ti ha ferito...»
Kell vide Jeh sbiancare di colpo, lo sguardo concentrato su loro due: «Non è niente.» Fece Cecely. 
La campanella la salvò da ulteriori spiegazioni e Victor se ne andò con il vassoio.
Stavano per lasciare Cecely anche lei e Jeh quando la trattenne per un braccio, costringendola a sedersi sul bordo del letto: «Hey, mi riferisco anche a quello che ci siamo detti prima su Victor, niente di quello che hai sentito uscirà di qui quando la scommessa sarà finita, non ti conviene mettermi alla prova, è chiaro?»
Kell si ritrovò ad annuire, non l’aveva conquistata, c’era poco da fare, si era confidata con Jeh davanti a lei e ancora non cambiava nei suoi confronti, con i rapporti umani era proprio la negazione.
Non si era resa conto che tutto quello che stava accadendo, Victor, Cecely, Jeh, le confessioni, la scommessa, quei momenti, le stavano facendo venire voglia di continuare; forse più semplicemente senza esagerare, era appena stata minaccianta, ma c’era qualcosa in questo che non le faceva paura, anzi... forse non voleva più morire.
«Ma ti sembra il caso?» Fece Jeh, l’occhio bianco brillava, mentre la cicatrice oscurava la parte sinistra del suo viso, distolse lo sguardo, era inutile continuare a sperarci, anche se Kell era come loro, anche se Jeh era cambiato nei suoi confronti... forse anche per questo a dire il vero, Cecely avrebbe sicuramente preferito non tenerla era stata piuttosto chiara.
«Notte Cely.» Le lasciò un buffetto sulla guancia; se ne andò con impressa in mente la sua espressione stupefatta.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** 5. Falso ***




- minuscolo spazio autrice -
rieccomi con un nuovo capitolo!! Non ho praticamente niente da dire, questa cosa che vi attende qui sotto questa volta parla da se.
Finalmente la storia entra nel vivo, i miei personaggi si fanno prepotentemente spazio con le loro identità, nel bene e nel male.
Oh, vi prannuncio di tevervi moooolto forte per quello che leggerete adesso e in particolare con il prossimo,
fate attenzione a quello che leggete adesso, tornerà utile in un futuro non troppo lontano.
Se volete farmi sapere cosa ne pensate ve ne sarei eternamente grata, a proprosito, ringrazio le ragazze che hanno recensito gli scorsi capitoli :3






5. Falso

«Dacci un taglio.» Le disse Cecely sbuffando sonoramente.
Era domenica, che voleva dire orario di visite, che a sua volta significava che c’era la possibilità che i suoi genitori venissero a trovarla.
Continuava a tamburellare con la forchetta sul bordo del piatto, a quanto pare la cosa irritava Cecely, piatto e forchetta erano entrambi di plastica, – solo quelli dell’ultimo anno erano autorizzati a usare posate vere – quant’era noiosa!
«Ti hanno detto che verranno?» Chiese Victor.
«Non parlo con mia madre dall’ultima telefonata.» 
«E allora non verranno, sta tranquilla.» Disse Cecely alzando le spalle.
«Come fai a dirlo con tanta sicurezza?» Le chiese Kell scocciata.
«Qui è normale, se un genitore ti viene a trovare puoi star certa che te lo farà sapere prima, in modo che la cosa non ti risulti scontata visto quanto poco vedrai i tuoi d’ora in poi...»
Avevano appena finito di fare colazione nella lunga sala bianca, Jeh era a un altro tavolo, parlava con sua nonna, quella che le aveva comprato il suo primo occhio di vetro rammentò osservando la vecchietta.
«Prendi la nonna di Jeh, non veniva da tipo un mese e mezzo.»
Certamente per averlo iscritto in un istituto di quel tipo, non doveva essere esattamente una nonna modello.
«Ma non giudicarla male.» Fece Victor lanciando un’occhiata  lunga alla vecchietta prevedendo i suoi pensieri. Aveva i capelli bianchi a nuvoletta che sembravano appena usciti da un casco per capelli.
«E perché non dovrei?»
Cecely si portò un mano alla tempia, era già stufa di lei, Kell si auto-complimentò con se stessa per l’impegno, ormai tutta la buona volontà del mondo non sarebbe bastata a farle cambiare idea anche se doveva ammettere di non essersi affatto impegnata come avrebbe dovuto, una parte di lei voleva subire passivamente la scommessa in cui era capitata.
«Perché lei è quella che ha evitato che Jeh finisse in un ospedale psichiatrico sul serio.»
La cosa non poté fare a meno di farle venire i brividi lungo la schiena: «E poi l’ha abbandonato...»
Victor scosse la testa: «Non sappiamo tutto neanche noi Kell,  non possiamo giudicare.» Frase tipica di Victor.
Jeh e sua nonna si scambiarono una stretta di mano neanche troppo calorosa e si salutarono; lui fu da loro in pochi secondi.
«Mia nonna ha scoperto qualcosa che noi non sapevamo.» Si sedette al tavolo quasi, dico quasi, sorridendo, evento più unico che raro a pranzo. Poi si rivolse direttamente a Cecely: «Tra poco Catherine terrà un discorso qui in sala, un discorso d’addio.»
«Non è ancora andata via?» Gli chiese Kell irritata.
«No, i suoi la vengono a prendere martedì, si sapeva.» Rispose Cecely per Jeh.
«Oh, mi è sfuggito.»
«Che novità, non mi ascolti mai!» Sbottò la ragazza.
«Ti ascolto eccome.» Si lamentò lei abbattuta. 
«Allora dovresti sapermi raccontare tutta la storia di Catherine da quando la conosco a ora.»
Già, Cecely aveva seguito con straordinaria costanza tutti gli sviluppi della sua storia, scoprire che sarebbe andata via, lasciandosi una scia di interrogativi dietro la rattristava parecchio da come aveva capito.
Voleva dimostrare a Cecely che era al corrente di tutto, quindi si diede da fare:
«E’ ipocondriaca.» Nel linguaggio comune, malata immaginaria.
«E oltre per la sua finissima bellezza...» Ripeté a pappagallo le parole di Cecely: «All’interno dell’istituto ha fatto parlare di se soprattutto per la lunga serie di battibecchi, ampiamente dibattuti in giro, con il suo caro e celebre amico, di origini francesi, Emeric Vattelappesca.» Victor rise di gusto, Jeh ridacchiò, si poteva dire soddisfatta del suo resoconto, ma Cecely la corresse scontenta a dir poco: «Emeric Allord, santo cielo Kell! Questo è tutto quello che ti ricordi, non ci posso credere.» A dir poco adirata adocchiò proprio Emeric che in quel momento stava attraversando la sala con lo sguardo fiero ritto oltre l’orizzonte... almeno per la terza volta. 
Era il tipo di persona che non pareva assolutamente essere affetta da qualsiasi tipo di fobia, il genere di persona che viene guardata per buoni motivi per così dire, o per gli splendidi occhi verdi a discrezione di chi osserva, non perché ha qualcosa che evidentemente non va’.
«Vi ho sentito parlare di un sacco di episodi interessanti, ma quello che mi ha colpita di più.» Ovvero quello che ricordava meglio era: «Quella volta che Catherine ha rovesciato un tazza di cioccolata calda addosso a Emeric, procurandogli un’ustione di primo grado e una bella visita in infermeria.» Aggiunse dopo essersi immaginata la scena: «Ma non si sa perché lei l’abbia fatto sfortunatamente.» Tentò di sembrare dispiaciuta.
«Non dire pare Kell, è accaduto davvero.»
«Ah. E tu eri lì?» Chiese, quasi per prenderla in giro.
Cecely sbuffò sonoramente: «Già, noi eravamo lì davanti, abbiamo visto tutto. Cos’altro ti ricordi?»
Interrogazione non superata, e pensare che ne aveva scampate per un pelo tante quella settimana... 
Era destinata a fallire la prova più importante, Kell sorrise un tantino divertita da quel pensiero, la finestra di camera sua gli aveva offerto solamente due possibilità: morire o andare al Quattrocentoventisette e com’era andata a finire? 
«Si vociferava anche che a intervalli regolari si siano messi insieme e poi lasciati. Tutto a discapito della ferrea regola che vige all’intero del regolamento d’istituto. Regola che per come ho capito io proibisce totalmente qualsiasi tipo di legame affettivo tra studenti... che screanzati non trovi?» Cecely annuì gravemente, i ragazzi risero, Jeh sommessamente, Victor come al solito più apertamente.
«E adesso? Come vanno le cose fra loro adesso?»
Quella proprio non la sapeva, beh, tanto valeva improvvisare: «Sono amici.» «Sbagliato.» Beccata.
«Non si parlano, da almeno un paio di mesi.» E a quel punto Cecely sospirò con foga: «Spero che almeno facciano pace prima che Catherine vada via, seguo questa storia da quasi un anno.» 
«Che fobie ha Emeric?» 
Jeh rise procurandosi un’occhiataccia da parte di Cecely: «Non ridere.» Poi si rivolse a Kell: «E’ eremofobico, paura di rimanere da soli.»
Kell annuì al vuoto soddisfatta e stupita allo stesso tempo: 
«Gli si adatta.»
Cecely non voleva amiche femmine ma cercava lo stesso qualcuno con cui spettegolare, Kell non era una stupida, non le ci volle molto per capire che cercava di vivere in quei pettegolezzi e per quei pettegolezzi, erano una distrazione tangibile, un modo per vedere con i proprio occhi quello che era al di là delle proprie possibilità.
Ed ecco Catherine, accompagnata da nientemeno che il dirigente Rang in persona, gli occhi benigni dell’uomo la scrutavano da dietro i suoi occhialetti dorati.
Si fermarono nel mezzo della sala; dietro di loro le cameriere cominciavano a uscire dalle cucine portando tra le braccia vassoi pieni di cibo fumante.
Minestrone alle verdure, con contorno di sorrisi zuccherosi da parte delle cameriere, non appena ogni alunno della scuola si ritrovò il proprio piatto pieno sotto il naso Rang iniziò a parlare.
«Catherine Yeferson tra pochi giorni lascerà definitivamente il nostro istituto.» Esordì con un ennesimo sorriso gioviale:  «Questa ragazza si è battuta con le unghie e con i denti per raggiungere questo risultato nient’affatto scontato, così vorrei approfittare di questo importante momento per la nostra Catherine per dirvi che ognuno di voi ha le stesse identiche possibilità di riuscire dove lei è già riuscita, ricordatelo sempre e come lei riuscirete a superare voi stessi e ciò che vi ostacola ancora sepolto dentro.»
«Se mamma sgancia la grana...» Borbottò un ragazzo non troppo distante da loro.
«Credo fermamente in ognuno di voi, io e tutto il corpo docenti. Siete insieme perché insieme siete la cura di ognuno; è questa è la più importante verità che possiamo offrirvi. La soluzione l’avete voi, dentro di voi, dovete solo trovarla.»
Kell si stupì rendendosi conto che nelle sue parole vedeva solo menzogne nonostante il poco tempo che aveva passato al Quattrocentoventisette proprio come gli altri: «Pessimo.» Disse Jeh: «Dimentica che siamo rinchiusi qui contro il nostro volere  almeno fino a diciotto anni. Qualcuno dovrebbe ricordarglielo.»
Non un’anima si azzardò ad applaudire il dirigente Rang.
Rang rimase lì in mezzo a loro senza apparentemente aspettarsi niente ma in realtà voglioso di ricevere un applauso da parte dei suoi cari e amabili studenti pronti a trangugiare altri acidi litri di menzogne gratuite.
Lasciò la parola a Catherine, lei che nel mezzo del brevissimo discorso del dirigente si era guardata intorno spaesata, alla ricerca di qualcosa o di qualcuno.
«Io...» Cominciò la ragazza, i lunghi capelli biondi raccolti in uno chignon elegantissimo: «Volevo ringraziare...»
Cecely boccheggiò, Victor alzò le sopracciglia sorpreso, Jeh rimase impassibile, Emeric dopo aver fatto la sua quarta comparsa dall’uscita delle scale attraversò la sala a lunghe falciate, con lo sguardo fisso davanti a se, sicuro, facendo pensare a tutti loro che se si fosse trovato davanti qualcuno a sbarrargli la strada non si sarebbe fatto problemi a calpestarlo senza neanche lasciargli il ricordo dei suoi begli occhi come rassicurazione.
Rang era già in apnea di pensiero, ma Catherine lo guardò sbalordita attraversare la sala fino al tavolo più lontano dalla scala da dov’era appena uscito; tutto sommato, si ritrovò a pensare Kell, era un modo abbastanza raffinato di attirare tutta l’attenzione su di se e rubarle la scena.
La ragazza con lo chignon biondo ci mise qualche secondo di troppo a riprendere l’uso dalla parola. 
Cecely la guardava angustiata, Kell pensava che avrebbe forse dovuto gioire, nella sua carriera al Quattrocentoventisette era sempre stata lei a rubare la scena.
«Mi piacerebbe che sapeste tutti che... io non sarei mai riuscita a uscire da qui prima del tempo se non fosse stato per i miei amici,  tutti i miei amici, nessuno escluso.» Il chiaro accenno a Emeric fece quasi sussultare Cecely dall’emozione, quanto a Kell, tanto valeva che Catherine si mettesse a dichiarargli amore eterno davanti a tutta l’istituto.
«Senza di loro qui dentro sarei stata persa, ed è per questo che...» Inspirò e disse: «Tornerò qui per salutarli appena potrò.»
Cecely, Victor e Jeh, tutti e tre, Kell li teneva d’occhio, sorrisero senza neanche rendersene conto, chi felicemente, chi tristemente, chi con una certa rabbia inespressa negli occhi... ma sarebbe davvero tornata?
Catherine inghiottì la saliva, stava per dire qualcosa di più, Kell se ne accorse da se: «Quello che dice il dirigente Rang è vero, siamo noi che dobbiamo muoverci per superare le nostre debolezze. Sapete che cosa voglio dire: nonostante i nostri genitori, nonostante i nostri limiti, i professori possono aiutarci ma alla fine sta a noi renderci conto che da un certo giorno in poi vivremo bene, come persone normali o perlomeno sembrando tali. Avete davvero intenzione di continuare a compiangervi per il resto della vostra vita? Nessuno di noi ha delle belle storie alle spalle, proprio nessuno, nonostante quello che alcuni di voi vorrebbe credere, è necessario combattere, cercare di riuscire lo stesso a venirne fuori, anche se sembra impossibile, anche se è impossibile, sta sempre a voi, a voi e a nessun altro perché si tratta della vostra vita e vale la pena cercare di riuscire per voi stessi.»
Da un gruppo abbastanza considerevole di ragazzi si levò un’ovazione di urla e applausi di approvazione, Catherine abbassò lo sguardo e sorrise quasi intimorita, di una timidezza sincera anche se non sua.
Un’ala della sala era congelata, l’altra strepitava.
L’altra ala si alzò in piedi perfettamente all’unisono e raggiunse Catherine trascinandola a un tavolo.
Kell abbassò lo sguardo sul suo piatto ascoltando il frastuono delle urla dell’altra parte d’istituto che aveva apprezzato, ma lei che non conosceva quella bellissima ragazza di nome Catherine  con quel bel sorriso sincero come poteva apprezzarlo?
Quello che aveva detto era tutto falso.
Lei non era riuscita a uscire grazie ai suoi amici, ci era riuscita grazie al portafoglio dei suoi genitori e niente avrebbe cambiato quella realtà.


Fù quel giorno in cui Kell si rese conto che in quel posto si passava il tempo a parlare di cosa fosse accaduto durante la giornata, di Rang, di Emeric, di Catherine, dell’ipocrisia delle loro parole...
«Dove stiamo andando?»
Le avevano fatto mettere il cappotto e l’avevano costretta a uscire, testa bassa aggrappata al braccio di Cecely si apprestavano a raggiungere un posto a lei sconosciuto con un altro gruppo di ragazzi; quindi almeno erano autorizzati...
Victor camminava davanti a loro ed era l’unico non attaccato a Cecely, anche Jeh era assicurato a lei, non teneva la testa bassa, visto che l’agorafobia in fin dei conti non era il suo problema maggiore, ma aveva bisogno del suo braccio.
«Allora? Dove andiamo?»
«Niente domande, sarebbe stupendo se riuscissi a tenere il becco chiuso una volta tanto.» Disse Cecely seccamente.
«Cely!» La riprese Jeh.
«Lascia perdere.» Gli disse Kell: «Ha ragione lei, non riesco mai a tenere il becco chiuso.»
Per restare calma si stava concentrando sulla loro tripla accoppiata di calzature camminanti illudendosi che a ogni passo Cecely avrebbe detto: “siamo arrivati” mentre i tacchi ticchettavano incessanti sull’asfalto grigio.
«No, non dire così Kell. Tieni il becco chiuso solo quando dovresti aprirlo, è piuttosto diverso.» Kell per un attimo temette di bloccarsi in mezzo alla strada.
«Jeh a che ti riferisci?» Chiese Cecely con le sopracciglia aggrottate, la facevano apparire ancora più arcigna con quella corolla di capelli corti a adornarle il viso.
Non gli aveva ancora detto dove l’avesse visto, e per il momento a dir la verità non aveva proprio intenzione di dirglielo.
«Niente.» Disse lui: «Non mi riferisco a niente in particolare.»
L’ingresso dentro la... sala di proiezione? La lasciò basita, sul momento era troppo concentrata nel trovare una frase abbastanza tagliente da dire a Jeh per soffermarcisi troppo, ma la visione di quella distesa interminabile di sedili rossi la intontì fortemente. 
Era una specie di cinema improvvisato a file rialzate, o meglio, non tanto improvvisato visto quanto probabilmente era costato...
Cecely aveva raggiunto Victor e i due si stavano domandando reciprocamente dove fosse meglio sedersi, i ragazzi occupavano posti a gruppi, se avessero aspettato ancora si sarebbero ritrovati seduti in ultima fila, o nelle ultime, visto quanto l’ultima fila fosse gettonata.
Jeh la vide sbarrare gli occhi stupefatta e di riflesso la spinse verso Cecely ancora occupata a indicare alcune file.
«Aspetta un secondo.» Lo bloccò impulsivamente: «Senti Jeh, non voglio che Cecely lo scopra, mi farebbe troppe domande, non ho nessuna voglia di condividere la cosa con lei.» «Ma riguarda anche me.» Tentò Jeh senza riuscire a bloccarla: «Riguarda te sì è così ma sono io che ho qualcosa da raccontare non tu, tu non ti ricordi di me, è una mia faccenda personale, quando lo saprai anche tu riguarderà direttamente anche te ma adesso...» 
Per altro non voglio traumatizzarti non in questa situazione, non ci sarebbe riuscita.
«Okay!» Sbottò Jeh, la luce oscurata gli sommergeva la faccia di ombre spigolose, complice la lunga cicatrice. «Volevo solo incoraggiarti.» Tentò di nuovo e questa volta non venne fermato: «Fatti venire l’ispirazione il più presto possibile.»
«Entro martedì ad esempio, che ne dici?» Fece Kell ironicamente, dirimpetto al suo sguardo fermo. 
Era sempre così duro, certe volte faceva fatica a pensare che fosse lo stesso bambino che ricordava, quel bambino era triste, non era ancora fatto di marmo scalfito.
«No, certo che no.» Lo sguardo gli si addolcì un tantino: «Martedì non cambia il fatto che per me, per noi.» Specificò infine: «Non sei come gli altri.»
Cecely lo afferrò per il braccio, Jeh si trascinò dietro lei, come una piccola catena umana raggiunsero una fila abbastanza in alto.
Non le piaceva il modo in cui ne parlava, con che coraggio sarebbe andata a raccontare che cos’aveva significato per lei quel bambino tanto tempo fa? Avrebbe almeno voluto conoscerlo meglio ma in realtà non sapeva quasi niente di lui.


Fece un respiro profondo. Le poltrone rosse erano così grandi e confortevoli che Kell pensò che ci si sarebbe potuta persino addormentare, meglio dormire che pensare però, certo.
Jeh la lasciò e si sedettero, ovvio, pensava, dopo che si erano raccontati a vicenda le loro fobie era finalmente cambiato, poteva parlare con lui, a differenza di Cecely Jeh non si sentiva minacciato da lei, non poteva, non ci voleva un genio per capire che a Kell lui era stranamente simpatico, non doveva più farsi grossi problemi, e non se ne fece neanche in quel momento, perché? Perché Jeh aveva appena detto che martedì non cambiava le cose, ed era... troppo, non se lo sarebbe mai aspettato.
«Vorrei essermi impegnata di più per convincere Cecely.» Abbassò gli occhi, avrebbe sempre ripensato sorridendo ai bellissimi stivali di Cely, ai riccioli di Victor...
Jeh si voltò verso di lei, completamente, l’occhio grigio era dall’altra parte e di conseguenza doveva girarsi del tutto per guardarla, quando non era impassibile era così umano... 
Ogni volta che la guardava voltandosi in quel modo, quel pensiero le tornava in mente, era più umano di quanto sembrasse.
«Non parlare al passato, puoi ancora convincerla.»
«No, non è vero, lo sai anche tu.» 
Avrebbe dovuto rimanere zitta, assentire, evitare di torturarsi ancora, lei poteva anche essere a pezzi, ma non aveva alcun diritto di coinvolgere anche Jeh.
«Hai ancora domani, Cely è molto lunatica, se domani riesci a farti valere può essere che...» «SSSH!» Sbottò Cecely.
A Kell venne sinceramente da ridere. Cecely lo aveva appena interrotto mentre lui le stava parlando. Avrebbe dovuto ritenersi contenta di quello che aveva già avuto. Dove trovava il coraggio di pretendere di più?
«Il film sta per iniziare.» Gridò la ragazza a bassa voce: «Basta chiacchierare... Kell non sarai una di quelle che parla continuamente al cinema vero?»
«No, non sono una di quelle...»
 
A spettacolo finito con ancora la trama del vecchio film anni 80’ nella testa Kell si ritrovò a scendere la scalinata con Cecely che le teneva il braccio stretto al suo, sperava con tutto il cuore che non avesse sentito niente di quello che si era detta con Jeh, ora voleva convincerla più di ogni altra cosa, anche se non aveva chance ma meglio tardi che a un minuto dalla fine.
Era così impossibile che riuscisse a convincerla?
Era stata troppo sfrontata, ma adesso era finita, una giornata ancora e sarebbe finita, Catherine sarebbe andata via, Cecely avrebbe vinto la scommessa; lei invece doveva... usare Catherine! E fare in modo che perdesse la scommessa.
Era un gioco e doveva cogliere ogni occasione al balzo e... 
lo fece.
«Oh Dio.» Disse Cecely stupefatta.
Catherine, due file dopo di loro, strattonava Emeric con la voce squillante in tono di scuse, il ragazzo dai brillanti occhi verdi non voleva sentire ragione.
«Sei solo un’ipocrita! Io...» Emeric sfuggì alla presa delle sue unghie e scivolò di un paio di scalini più giù senza dire una parola. «Ti detesto Cat!» 
«Oh no...» Sussurrò Cecely a mezza voce.
Si aspettava che lo rincorresse ma non con quella foga, un minuto e raggiunse Emeric di sotto, gli saltò addosso senza ritegno, parecchi ragazzi ridevano, Cecely l’aveva presa per un braccio e la trascinava giù, Kell ormai partecipe non si fece problemi a seguirla.
«Lasciami!» Urlò Emeric con gli occhi lampeggianti mentre spingeva Catherine via. «No, sono stanca di vederti senza poter fare niente, no! Non ti lascio Em!» Urlò la ragazza e in quel preciso istante entrò nel vivo la vera sceneggiata.
Persino Kell rimase di sasso a vedere la giovane Catherine aggrapparsi alle gambe di Emeric immobilizzandolo nel mezzo della sala di proiezione proprio davanti al telo.
Degli amici di Catherine superarono in fretta lei e Cecely tutti agitati con le braccia all’aria intenzionati a fermare quella brutta scena che i due ragazzi stavano mostrando a tutto l’istituto.
«Smettila Cat!» Le urlò da vicino una ragazza con i capelli rossi: «Lascia stare Emeric, lascialo, smettila di dare spettacolo così, chiarirete più tardi, adesso devi...» «NO!» Sbottò lei: «Sta zitta Nikki! Se tu mi lasciassi solo spiegare!» Rispose Catherine per le rime alla ragazza dai capelli rossi, conficcando contemporaneamente le unghie rosse e appuntite nelle gambe di Emeric, fortunatamente avvolte da un paio di jeans. Lui cercò di divincolarsi da lei inutilmente: «Sei così falsa Cath! Sono io che ho capito tutto! Sono io che so tutto, smettila di fare finta di niente! Io ti credevo e tu mi hai mentito, mi hai sempre mentito!» Fece una pausa per cercare di coglierla di sorpresa e liberarsi dalla sua stretta, ma fu tutto inutile, neanche la ragazza di nome Nikki riuscì a farla staccare. «Se non mi lasci lo dirò a tutti! Si renderanno tutti conto di quanto diavolo tu possa essere falsa! Lasciami razza di...» Cecely afferrò il suo braccio proprio mentre Catherine si lasciava sfuggire un singhiozzo smorzato tra le gambe di Emeric, il ragazzo ruggì di rabbia.
Sarebbe stato quasi comico se non fossero sembrati due pazzi furiosi.
Alcuni cercavano di tirare via la ragazza dalla stretta ma lei non faceva altro che urlare e strepitare di lasciarla in pace.
Kell colse l’occasione al volo, afferrò il braccio di Cecely e scese un altro gradino: «Cosa credi che volesse dire Emeric?»
«Ha scoperto la verità.» Sussurrò Cecely guardandola di sbieco: «Sa come ha fatto a uscire.»
«Lo sappiamo anche noi.» Fece Kell: «I suoi hanno pagato.»
«Vuoi che lo dica a tutti eh?» Urlò Emeric in quell’istante: «Vuoi davvero che lo vengano a sapere tutti quanti?»
«Emeric ti giuro che non è vero, te lo giuro, ti prego Em devi credermi, tu lo sai che non è così, non devi...»
Catherine era davvero fuori di se, un singhiozzo più forte degli altri le impedì di continuare, i capelli biondi scombinati e lo sguardo da pazza, mordeva, stringeva e digrignava i denti; sembrava prossima ad avere una crisi isterica di prima categoria, andava soccorsa da qualcuno di competente.
«Cecely, non c’è nessuno qui che può aiutare Catherine? Supervisori, qualcuno?» Chiese Kell cercando con gli occhi qualche adulto in divisa.
«Si, sono sopra, ma non verranno Kell.» 
«Come... perché?» Cecely indietreggio leggermente entrando dentro una delle file, costringendola a sedersi sopra una delle poltrone rosse vicino alla sua. 
«Perché non dovrebbero vedere tutto questo.» Cecely voltò la testa di lato permettendo a Kell di vedere tre uomini in giacca e cravatta uscire fuori dalla sala di proiezione defilati.
Kell saltò in piedi: «Possono farlo?»
«Mi pare che facciano anche di peggio.»


La porta si chiuse alle spalle dei tre uomini e Kell si vide costretta ad applicare una misura d’emergenza, che purtroppo andava contro il suo piano: «Vuoi rimanere qui?»
«Perché me lo chiedi?» Chiese Cecely ancora perfettamente accomodata sulla poltrona. «Ho paura.»
Aveva paura? No.
Aveva mentito? Sì, a fin di bene.
Cecely saltò in piedi e la guardò negli occhi qualche secondo con calma: «Andiamo, vieni Kell...» Le prese il braccio e fece segno a Jeh e Victor, ancora abbastanza sù di scendere da loro.
«Che succede?» Chiese Victor quando furono allo stesso scalino: «A Kell non piace quest’atmosfera, avviciniamoci all’uscita.» Non mollò la presa dal suo braccio neanche un secondo e se avesse avuto davvero paura la cosa l’avrebbe sicuramente aiutata, a Cecely evidentemente piaceva sentirsi importante, anche se per una stupidaggine.
Attraversarono tutta la fila e nel mentre, ecco la sceneggiata a pochi metri da loro, Catherine aveva lasciato le gambe di Emeric e ora stava in piedi davanti a lui a tirargli pugni a casaccio nella vana speranza di fargli male, era difficile pesare che quei due fossero mai stati amici.
«Emeric è...» «Invidioso.» Completò Jeh, che era proprio dietro di lei: «Invidioso del fatto che Catherine uscirà sei mesi prima di lui quando ha superato tutte le sue fobie da almeno quindici mesi.» «Esattamente.» Fece Cecely sorridendo: «Questa cosa ha rovinato la loro amicizia, ed è un peccato, prima erano molto uniti, volevano dare l’esame finale insieme e uscire prima.»
«Davvero?» Chiese Kell stupita senza neanche accorgersene. Erano arrivati all’uscita, sarebbero rimasti lì fino a quando Catherine non fosse riuscita a calmarsi: «Ma non è colpa di Catherine se i suoi hanno deciso di volerla fuori prima. Perché Emeric ce l’ha con lei?»
Sperava con tutto il cuore che il suo nuovo interesse per quei due potesse far piacere a Cecely, perlomeno fu lei a rispondere: «Ha scoperto che i suoi le hanno comprato l’uscita...» 
Kell ricordò le parole dei diretti interessati poco prima con un serio dubbio impresso in mente: 
«Vuoi che lo dica a tutti eh? Vuoi davvero che lo vengano a sapere tutti quanti?»
«Emeric ti giuro che non è vero, te lo giuro, ti prego Em devi credermi, tu lo sai che non è così, non devi...»
Ricollegò i fatti riordinandoli con attenzione: «E invece Catherine nega, dice che non è vero quello che pensa lui.»
«Come dovrebbe sentirsi Emeric?» Fece Victor spazientito tutto a un tratto: «Sanno tutti come Catherine uscirà di qui. Che motivo ha di negare, a lui poi, che era suo migliore amico.»
«Non ne ha.» Rispose Kell, soprappensiero.
I tre ragazzi la guardavano impensieriti dalle sue parole. «E’ questa la risposta.» 
C’era da riflettere su quello che era appena successo, pensò Kell, quando a un tratto arrivò l’idea.
«Non avrebbe senso minacciarla di dire davanti a tutti qualcosa di scioccante se si tratta del fatto che i genitori hanno pagato,; pensateci bene, tutto l’istituto la pensa già così!» Jeh, Cecely e Victor rimasero a bocca aperta, era assolutamente ovvio: «Emeric forse sa come ha fatto a ottenere l’uscita, probabilmente gliel’ha detto proprio lei, e ha minacciato di dirlo a tutti.»
«Dev’essere così.» Disse Victor, lo sguardo azzurro, quasi cristallino perso nel vuoto: «Stanno nascondendo davvero qualcosa, se non si stratta dell’uscita è comunque qualcosa che non si deve sapere per Catherine.» Disse, passando lo sguardo da Cecely a Jeh come a voler trovare conforto.
Ma c’era poco da confortare, martedì Catherine, la bella ragazza su cui spettegolare sarebbe stata a mille miglia di distanza, la scommessa chiusa, vinta o persa, i giochi finiti.
Evidentemente alla fine, tra le urla Catherine aveva lasciato andare Emeric, il ragazzo schizzò fuori dalla sala di proiezione, praticamente correndo, superò loro senza guardarli, a Catherine fu’ impedito di corrergli dietro, la ragazza dai capelli rossi di nome Nikki era scappata dalla scena seguendo Emeric. 
Degli amici di Catherine cercavano di convincerla a calmarsi ma lei non sembrava proprio intenzionata a dare ascolto a nessuno, non piangeva ancora ma continuava a dimenarsi sul pavimento  di moquette rossa su cui si era appena buttata ruggendo come una tigre contro tutti quelli che la avvicinavano.
Credevano tutti di sapere come aveva fatto a ottenere l’esame, invece non era vero, l’avevano giudicata tutti male perché era così che venivano portati a pensare, era quello che tutti volevano far credere loro, Emeric sapeva la verità ed era terribilmente arrabbiato con Catherine. Kell pensò che lei e Cecely avrebbero avuto parecchio di cui parlare il giorno dopo...


La mattina dopo Kell era più agguerrita e determinata che mai.
«Se Catherine avesse fatto del male a Emeric, o se lui le avesse rotto il naso, metti caso... che sarebbe successo? Non c’era nessuno che potesse evitarlo, i supervisori se ne sono andati.»
«Era un caso particolare. Catherine ieri avrebbe dovuto rimetterci l’uscita anticipata, solitamente intervengono non appena sentono un rumore sospetto, girano continuamente per l’istituto, li avrai visti in giro sicuramente.» Cecely sapeva il fatto suo, fece un sorso dalla tazza di latte. 
La colazione era proprio il momento migliore per cominciare a mettere in pratica il suo piano, magari Cecely intontita com’era dal sonno e ancora in pigiama non si sarebbe accorta di come il suo comportamento fosse improvvisamente mutato, da cinica menefreghista ad attenta osservatrice: «Quelli che lavorano qui, i professori, Rang loro sanno sicuramente come Catherine è riuscita a ottenere l’uscita, quindi devono anche coprirla.» 
«Questo è certo.» Disse Cecely.
Victor e Jeh non erano ancora arrivati, Kell si era messa d’impegno per parlarle seriamente delle sue distrazioni: «Secondo te è impossibile per noi scoprire qualcosa prima che Catherine vada via?»
Cecely sorrise timidamente come se l’avesse colta in fragrante a fare qualcosa di assurdo: «Ammetto che per me sarebbe davvero esaltante...» Esitò un momento sospirando nostalgica: «Mi dispiace un sacco sapere che se ne andrà senza che io possa fare niente per capire come tutto ciò è stato possibile... non lo faccio perché sono un’inguaribile pettegola, anche se potrà sembrarti così.» Abbassò lo sguardo imbarazzata, Cecely era molto meno sicura di se di quanto cercava di dare a vedere, forse quella era tra le cose che preferiva di lei, in fin dei conti si nascondeva proprio come Kell faceva da tutta la vita, erano completamente diverse, certo, ma infondo si somigliavano.
«No, ti sbagli, ho capito perfettamente perché lo fai, sei qui dall’inizio dell’anno?» Cecely sospirò: «Si, anche Vic, Jeh invece era qui già da metà dell’anno scorso.» Poi si bloccò come se si fosse resa conto di aver detto troppo.
Sapeva fin troppo bene che quello era l’ultimo giorno utile così 
Kell con il cuore in mano passò l’intero lunedì mattina a cercare di ingraziarsi Cecely, diverse volte la vide stupita dalle sue attenzioni, ma per pranzo l’aveva resa così contenta e esaltata grazie alle sue considerazione e alle sue teorie che alla fine aveva cominciato lei a fare domande, assurdo, visto che dopo il racconto del suo rapimento da bambina non le aveva più domandato niente.
Cecely non era forte e ne era cosciente, nascondeva di essere debole, come tutti loro, ed era esattamente quella caratteristica a renderla più forte; certamente non terapia di esposizione, si lasciò sfuggire Kell mentre accompagnava la ragazza in camera a poggiare la borsa.
«Sei così cinica!» Erano un paio d’ore che Cecely saltava sù con quella frase sorridendo come un ebete, guarnendola poi con uno spassionato: «Vorrei essere come te.» Disse mordendosi un labbro pensierosa: «Senza peli sulla lingua.» 
Kell alzò le spalle appoggiandosi alla porta di camera della ragazza: «Ti attacchi alle persone più di quanto credi, non puoi essere cinica con gli altri se fai così.» E non parlo solo di Jeh e Victor, ma anche di Emeric e Catherine avrebbe voluto aggiungere.
Cecely prese la sua borsa e si richiuse la porta alle spalle, la prese a braccetto e il familiare ticchettio di tacchi sul pavimento la calmò progressivamente via via che scendevano in sala da pranzo; non era abituata a parlare così apertamente con degli sconosciuti, certo, improvvisamente sentiva che neanche Cecely lo era ma anzi, con lei poteva dare per scontato alcune cose ed era quanto di più simile all’amicizia che le fosse capitato in tutta la vita.
Cecely poteva fare qualcosa che nessun altro prima di quel giorno aveva neanche tentato di fare: la poteva comprendere e non doveva neanche sforzarsi.
«Come va con Victor?» Le chiese tutto a un tratto quando mancavano appena tre rampe di scale: «Sei riuscita a fare qualcosa?» Meglio non scendere in particolari.
«No.» Disse seccamente, ma poi si riprese aggrottando le sopracciglia, quasi ripensandoci: «Non ci riesco e non è perché sono sociofobica, ci ho pensato bene e sono arrivata alla conclusione che quando se la sentirà farà lui la prima mossa.»
«Ma Jeh ha detto...» «Lo so.» Disse Cecely interrompendola: «Jeh forse ha ragione, ma resta il fatto che io non me la sento, non sono sicura della sua reazione, adoro Vic, lo sai sarebbe stupido pensare il contrario, ma certe volte lo prenderei sberle... che implicherebbe che lo toccassi certo ma... hai capito.» Si incespicò la ragazza. Ormai erano arrivate alla sala da pranzo, quindi l’argomento Victor doveva essere chiuso lì.
Sia Jeh che il diretto interessato erano già seduti al loro tavolo, sperava di poter continuare a definirlo così anche mezza giornata dopo.
Quel giorno durante la lezione di letteratura Jeh le aveva dato da fare un altro quadrettato, causa: un’interrogazione finita in tragedia di una loro campagna di classe che l’aveva quasi fatta sclerale, pensava a troppe cose e non era riuscita a controllarsi a lezione. 
A quadretti finiti Jeh si era ripreso il disegno e l’aveva messo insieme ai suoi, niente “come stai?” o simili, aveva appena accennato un lieve sorriso verso di lei e poi aveva seguito la lezione come se nulla fosse accaduto.
I suoi disperati tentativi di avvicinarsi ancora l'avrebbero portata a qualcosa? Non riusciva a rispondersi.
«Qualche siparietto in mia essenza?» Chiese Cecely, Victor scosse la testa e la ragazza gli fece cenno di scostarsi, Vic si era messo a capotavola e evidentemente quel giorno voleva starci lei. «Emeric non si vede, Catherine pare a terra.» Disse Victor, Cecely si guadò attorno in cerca del ragazzo dai brillanti occhi veri, era distratta, troppo distratta per rendersi conto che gesticolando per far spostare Victor aveva finito per urtare superficialmente il suo braccio.
Kell e Jeh li studiavano interessati.
Victor non fece una piega, Cecely si allontanò si scatto come se avesse appena preso la scossa, e dalla faccia che aveva appena fatto, sicuramente con il cuore in gola.
Victor prese posto e la guardò preoccupato: «Che hai?»
Sembrava lei quella afefobica.
«Niente.» La ragazza si mise seduta. 
Fortunatamente sfortunata la descriveva alla perfezione.
Cecely sembrava abbastanza serena tutto sommato, era come se si stesse trattenendo con tutte le sue forze dallo scoppiare a ridere. Kell per salvarle la faccia tentò un argomento più diretto: «Senti Jeh, oggi è lunedì c’è qualcosa di speciale a terapia?» Jeh sollevò gli occhi dal piatto: «Oh. Sì mi ero dimenticato di dirtelo, oggi c’è terapia specifica, niente di preoccupante difficilmente capiterà una fobia che abbiamo.»
«Bene.» Fece Kell stranamente soddisfatta. 
Già, perché quando avrebbe dovuto fare terapia di esposizione per la paura del buio sarebbero stati dolori, quella nota di amarezza non poteva mancare.
Mh, la sua nuova vita iniziava lentamente ad appartenerle, il giorno dopo con la stabilità della fine della scommessa sarebbe entrata nel vivo.
Molto presto, cercò di dirsi meno convinta di quello che voleva, avrebbe pensato alla porta chiusa di camera di Sam come a un ricordo lontano.
«Hey Kell, posso farti una domanda?» Chiese Victor candidamente come al suo solito. «Certo.» Rispose lei.
«Come mai sei qui?» 
Non ci pensò, rispose e basta, ormai era meglio non farsi più scrupoli abbandonando l’aria solenne: «Ho cercato di uccidermi.»


 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** 6. Precipizio ***




- Minuscolo spazio autrice -
Con questo capitolo sgancio definitivamente la bomba che.. credo tutti stavate aspettando. La storia vera parte da qui, da questo punto in poi e quindi da questo momento in avanti niente sarà più come prima, spero di darvi una bella scossa lo ammetto ahaha!
Ovviamente, come sempre vi invito a recensire il capitolo, anzi, per come si metteranno le cose direi che siete praticamente obbligatea farmi sapere un parere *sorride* ahahaha! Che cattiva che sono! A parte gli scherzi, a questo punto comincia a essere necessarioper me avere un parere su quello che scrivo, davvero, se vi piace o non vi piace qualcosa, io ve ne sarei ugualmente enooooormemente grata!
e ora vi lascio al capitolo... 






6. Precipizio


«Davvero?» Fece Jeh stupefatto, la cicatrice era tirata e gli occhi, quello vivo e quello morto scintillavano dallo stupore.
«Oh! Ti prego Jeh.» Disse Cecely facendo una smorfia disgustata, si girò a guardare Kell e la informò: «Jeh delle volte ne parla un po’ troppo volentieri... ecco tutto.»
«Del suicidio?» Chiese Kell tornando a guardare Jeh, lui alzò le spalle e sorrise sollevando appena un angolo della bocca: «Diciamo che non mi dispiace ascoltare l’esperienza altrui.»
Un’altra persona l’avrebbe trovato un individuo profondamente disturbato ma essendo anche lei profondamente disturbata non era il caso di Kell.
Certe volte era così menefreghista nei confronti dell’opinione altrui di sestesso, forse non se ne rendeva neanche conto, il modo in cui aveva sorriso, lo sguardo che aveva, a Jeh piaceva fare finta di essere ancora più mascherato di quanto non fosse in realtà.
Poi Kell si soffermò sulle sue parole. Esperienza altrui? Kell ignorò fermamente il fatto che quella frase volesse dire che certamente lui aveva già provato a farlo.
Si guardò intorno spaesata: «Mi stai chiedendo di raccontarlo?» 
«No.» Rispose Jeh, era diventato completamente sfrontato, e le venne sinceramente da ridere quando disse: «Non te lo sto chiedendo.»
«Oh, d’accordo.» Tanto valeva tentarle tutte già che c’era, Cecely forse avrebbe apprezzato.
Jeh non si scompose minimamente, anzi, sembrò addirittura piacevolmente sorpreso: «Non c’è problema, avete visto?» Chiese poi rivolto a Cecely e Victor: «E’ come noi.»
Fù Cecely a scomporsi, quella frase equivaleva a darle una spintarella in avanti proprio verso Kell; ma evidentemente la ragazza avrebbe preferito tapparsi le orecchie con dei pastelli colorati pur di non sentire una frase del genere.
«Praticamente tutta la scuola ha tentato il suicidio.» Disse Cecely, non se ne vergognava neanche lei e Kell non poteva credere che stessero parlando tra loro di una cosa del genere così, come se fosse normalissimo.
«Si, ma scommetto che lei ha un buon motivo, vero Kell?» Le chiese Jeh guardandola, aspettandosi sicuramente una risposta intelligente, ma lei era paralizzata, si rese conto tutto a un tratto ricordando la verità che non voleva dire per nessun motivo al mondo il motivo per cui aveva cercato di buttarsi dalla finestra di camera sua, forse... forse non era una poi così buona ragione. Ma a che andava pensare! Era ovvio che fosse un’ottima ragione, altrimenti non l’avrebbe mai fatto.
In tutti quegli anni, nonostante tutto quello che aveva passato non aveva mai provato quella voglia quasi accecante di mettere fine a tutto, la porta chiusa di camera di Sam era troppo persino per lei, era la goccia in bilico tra vita e morte.
«Si, ho un buon motivo, senz’altro però non me la sento di dirvelo, è passato troppo poco tempo da quanto è successo ed è una cosa molto personale.»
Victor annuì comprensivo, Cecely la scrutò pensierosa, Jeh invece le fece ricordare del suo sguardo vacuo di quand’era bambino, perso nel vuoto, come se vedesse qualcosa di troppo lontano per essere scorto dalla sguardo altrui.
«In ogni caso...» Deviò Kell prontamente: «Era notte fonda, ero arrabbiata e ho cercato di buttarmi di sotto, dalla finestra di camera mia, ho davvero creduto di essere praticamente già morta, la luce della luna, l’oscurità, l’aria fredda, lo spazio aperto che odio così tanto, sembrava tutto messo lì apposta per me ad accogliermi.» 
«E poi?» Chiese Jeh portandosi una mano al viso, sulla parte della faccia sfigurata come faceva continuamente come a volersi riparare dagli occhi degli altri.
«E poi i miei mi hanno bloccata, hanno sentito sbattere la finestra.» «Oh.» Sussurrò Cecely.
«Io... stavo già scivolando sulle tegole, mi sentivo già morta.»
Cecely raggiunse la sua spalla e la sfiorò con la mano, giusto appena, come un sospiro: «E’ una fortuna che ti abbiano fermata.» 
«Già.» Disse Victor fissando il suo piatto.
«C’è mancato davvero un soffio.» Ammise Kell a se stessa, indecisa nel dire che in cuor suo sapeva che avrebbe di gran lunga preferito morire che finire per essere abbandonata dai suoi genitori.
Ma non era il caso, proprio no, Cecely doveva decidere di tenerla con lei non di salvarla.
«Vuoi sapere... le nostre?» Chiese la ragazza esitante, una delle mani si insinuò sotto la manica della maglietta, Kell ebbe un flash.
Cicatrici sotto la maglietta a maniche lunghe di Cecely, l’ombra dietro i suoi occhi di qualcosa di appuntito e poi d’improvviso un’immagine reale: il dito di Cecely sotto la stoffa tutto a un tratto inceppato nel contatto di qualcosa che lei non può vedere: «Io... non so se mi sento pronta.» Si sentì rispondere come se fosse fuori dal suo corpo.
La ragazza annuì: «Certo, sei nuova di qui, non dobbiamo stressarti con questi discorsi cupi.» Sorrise lievemente e Kell si ritrovò ella stessa a sorriderle di rimando.
«Capito Jeh?» Jeh sorrise a Cecely continuando a reggersi la testa con la mano.
«Spero... spero che potrò sentirle prima o poi.»
Il sorriso di Cecely non si spense.
E neanche la speranza di Kell smise di bruciare sotto pelle.


«Che abbiamo?» 
«Guarda le teche.» Le fece Jeh indicandole le teche di vetro oscurate che si trovavano proprio nel mezzo della stanza.
«Insectofobia.» Kell sospirò camminando al suo fianco fino ad arrivare a guardare dall’alto quello che c’era dentro una delle teche.
«Povera Bernadette, guarda, ci sono anche delle cavallette.» 
La teca delle cavallette era ricoperta da una specie di reticolato di plastica in superficie, per evitare che gli insetti scappassero via.
Diversi loro compagni stavano già considerando la stessa cosa, Bernadette era l’unica ad avere l’insectofobia come prima fobia, sicuramente avrebbe finito per dare spettacolo.
La Strins comparve alle loro spalle, la bombetta fedelmente piantata sulla testa: «Voglio proprio vedere se qualcuno di voi si merita una fobia in più.»
A Kell vennero i brividi, in realtà non le piaceva proprio l’idea di tenere una cavalletta in mano.
Bernadette era dello stesso avviso, non appena mise il naso dentro la sala la Strins cominciò a combattere con lei. 
Insomma! Doveva dare l’esempio! Dov’era finito il suo spirito d’avventura? Non doveva fare la ragazzina viziata; era sufficiente che mettesse la mano sopra al reticolato per il momento, non aveva senso agitarsi, le cavallette non potevano farle del male.
Jeh rise: «Nessuna fobia può farti del male è la pura verità, è  questo il nostro problema, ma è anche vero che poi magari ti ritrovi come me.»
«Sceglietevi la teca che vi va più a genio e toccate uno degli insetti, da bravi ragazzi, la lezione è iniziata.»
Bernadette non era ancora in lacrime ma ci mancava poco, una mano era sopra il reticolato in plastica delle cavallette, l’altra spingeva via la Strins; perché se c’era una cosa che sapeva, diceva, era che voleva fare da sola, per quanto potesse essere inutile.
«Che insetto ti piacerebbe?» Le chiese Jeh, Alice a pochi metri da lui si voltò a guardarlo scioccata, sembrava un piccolo scoiattolo minacciato da un lupo. Erano un paio di giorni che lei e Jeh parlavano in classe e lei, sempre con quella deprimente aria scioccata li scrutava arcigna.
Jeh non parlava molto a terapia, per Kell non era una novità, ma l’espressione di Alice la divertiva: «Scegli tu.»
E scelse Jeh.
«Ah, millepiedi.» Constatò Kell osservando la teca con un quartetto di lunghi millepiedi che zampettavano lungo il vetro oscurato come se fossero in trappola, senza sapere dove andare, ne che cosa fare.
«Mi fanno pena.» Disse Alice, li aveva seguiti anche lei e con la mano tremante aveva toccato il corpo molliccio di uno degli insetti, dopo averla vista ritirare la mano la Strins si avvicinò lasciando Bernadette sola con la sua teca di cavallette.
«Fatemi vedere ragazzi.»
Alice allungò la mano e accarezzo uno dei millepiedi con un dito. «Lo puoi prendere in mano, se ci riesci guadagni più punti.» Alice si morse il labbro inferiore gettando un’occhiata di soppiatto al taccuino della Strins. 
Sollevò il millepiedi dal fondo della teca, dalla faccia che aveva in fondo non doveva essere così male. Jeh non la guardava, teneva gli occhi fissi sugli insetti e non sembrava averne paura.
«Brava.» Disse la Strins annotando qualcosa: «E voi?»
Kell e Jeh presero un l’insetto quasi contemporaneamente, lo sollevarono e poi lo fecero ricadere dolcemente sopra il fondo della teca, Kell si sentiva convinta, neanche lei aveva paura, non ne aveva motivo.
I millepiedi non erano tanto male. 
Poverini, cercavano solo di scappare, come tutti.


«Con una cavalletta non ci sarei mai riuscita.» Si confidò Kell non appena furono fuori dalla sala di terapia, Jeh sembrava sereno: «I millepiedi non danno l’idea di avere l’istinto omicida di una cavalletta, ti capisco.» Kell rise senza neanche sapere perché.
«Per te ho convinto Cecely?»
«Non lo so.» Disse Jeh scuotendo la testa: «Spero di si.»
Le bastò sentire quelle parole per recuperare la sua forza di volontà, doveva convincerla, non c’era altro modo, altrimenti avrebbe dovuto ricrearsi da capo nell’istituto e non era sicura che ci sarebbe riuscita.


Prima di andare a letto era rimasta a parlare con Cecely, di Emeric e di Catherine, il giorno dopo lei sarebbe andata via, lasciando per sempre il Quattrocentoventisette, si erano stilate mentalmente una serie di ipotetiche idee su come avesse fatto in realtà la ragazza dai lunghi capelli biondi a procurarsi la possibilità di fare un esame, o meglio, due esami visto che poi l’aveva anche dovuto rifare.
Non erano arrivate a nessuna conclusione e alla fine si erano salutate dicendosi che si sarebbero ritrovate il mattino seguente, nel pomeriggio Cecely avrebbe dovuto dare alla Dorles il responso della scommessa, se aveva vinto o aveva perso.
Per Kell la scommessa era persa, anche se negli ultimi giorni i sorrisi della nuova amica erano aumentati drasticamente, Cecely era troppo legata a Jeh e Victor per dividerli con lei, era quella la verità, cercare di imbrogliarsi non sarebbe servito a niente.
Se lei fosse stata al posto della ragazza con gli stivali stringati avrebbe agito allo stesso modo, forse avrebbe fatto anche di peggio. 
La luce si spense, alte ombre scure intersecate da strani disegni si manifestarono davanti ai suoi occhi, allungò una mano sulla lampada senza staccare gli occhi dalle pareti della stanza, il buio, il cuore e la luce si riaccese.
Andava sempre così, non c’era niente da fare.
Sprimacciò il cuscino constatando che erano giusto giusto  scoccata la mezzanotte, le bruciavano gli occhi, avrebbe dovuto chiuderli ma avrebbe significato stare al buio ed era troppo agitata per dimenticarsene come faceva ogni sera.
Si concentrò su un pensiero vicino, la mattina, bastava chiudere gli occhi, dormire e si sarebbe ritrovata sveglia, sarebbe saltata direttamente alla mattina dopo, con la luce del sole negli occhi, sua madre glielo diceva sempre prima di lasciarla in camera sua di notte, ogni giorno...
Infondo, aveva sonno.


Qualcosa l’aveva appena svegliata, la paura del buio la travolse e non riuscì a distinguere i suoni, la mano arrivò direttamente alla lampada e poi? Poi alla luce, con i sensi ristabiliti capì che cos’aveva appena sentito, un urlo, un urlo disperato, un urlo di morte, e poi un tonfo, un tonfo forte, molto forte, inaspettato, di quelli che non hai mai sentito in tutta la tua vita e che non ti aspetti di sentire nel tuo letto a notte inoltrata, un tonfo spezzato, di qualcosa caduto da troppo in alto a cui è stato interrotta la corsa.
Urla, urla in ogni dove, scalpiccio, porte che sbattono, paura, non sapere che cosa fare, sentimenti contrastanti la invasero in pochi secondi, non era ancora del tutto paralizzata ma non sapeva che cosa fare; si sentì le guance bruciare d’ansia, i ragazzi correvano giù per le scale a frotte, stavano scendendo tutti in massa ed erano passati appena pochi secondi da quando quel tonfo l’aveva svegliata.
Pensare lucidamente era un’impresa mastodontica, e forse neanche ci riuscì del tutto; dopo circa due minuti, quando smise di sentire la corsa dei suoi compagni per le scale e avvertì che ora le urla provenivano da sotto, un’idea attraversò la sua mente.
Resterò da sola? Se tutti stavano andando di sotto non c’erano dubbi, sarebbe rimasta da sola all’ultimo piano a marcire di paura nel suo letto.
Mise i piedi a terra sul pavimento di pietra, bianco, ghiacciato, cercò le pantofole con gli occhi e se le infilò mettendosi in piedi.
Le tremavano le gambe e anche le mani, raggiunse la maniglia della porta per miracolo, la sensazione di nausea familiare salirle in gola. A quel punto si rese conto che non ce l’avrebbe mai fatta, non da sola.
Si portò una mano al collo, scostando lo sguardo dalla sua ombra proiettata sul muro della camera da letto, le gambe cedettero facendola finire a terra. Quanto tempo avrebbe retto senza un aiuto? Non avrebbe retto affatto; ma non si sentiva sconfitta, la sconfitta arrivò quando toccò il pavimento con il suo corpo tremante, Kell fece semplicemente quello che doveva fare.
Ecco, il ciondolo con il porta pillole, grazie al cielo non se lo toglieva da una settimana ed era ancora agganciato al suo collo.
Sua madre alla fine aveva fatto una cosa giusta, l’idea in se della pasticca la calmò all’istante, per qualche secondo le mani smisero di tremare e con l’unghia aprì il ciondolo a forma d’uovo  osservando con occhi bramosi le minuscole pillole contenute dentro l’involucro di metallo.
Ne prese una, richiuse l’uovo e se la infilò con un dito in bocca, masticò assaporando il sapore aspro e ruvido della calma artificiale contro il palato. L’effetto fu’ assolutamente immediato, un’ondata di tepore la travolse e presto si ritrovò in piedi a chiudersi la porta di camera sua alle spalle. 
Gli ultimi ritardatari si affrettavano a correre verso le scale frettolosamente con lo sguardo impaurito; andavano verso quello di cui avevano paura? Se n’erano accorti?
Lei se n’era accorta?
«Kell?» 
Una voce distante attirò la sua attenzione; non aveva bisogno di guardare per sapere che si trattava di Jeh.
Sollievo fu la prima emozione che riuscì a provare poi: «Stai bene?» Lui annuì, era ancora attaccato alla porta di camera sua, Kell lo raggiunse in un battito di ciglia: «Hai visto Cecely e Victor?» Scosse la testa, era un Jeh diverso dal solito, l’oscurità non l’aveva ingannata. 
Al posto dell’occhio di vetro ad avvolgerlo per tutta la lunghezza dell’occhio e anche per il resto della testa c’era una striscia di stoffa rossiccia morbida, scostò lo sguardo velocemente, era calma non doveva agitarsi per una cosa simile ma sotto quella fascia c’era il vuoto, come faceva a non pensarci...
«Vuoi venire giù?» 
«Sì.»
Kell non se lo fece ripetere due volte, prese il braccio di Jeh e insieme raggiunsero la scalinata illuminata saltuariamente da lampade con la luce giallognola, evitare di pensare alle urla che giungevano dal piano di sotto era praticamente impossibile.
«La senti?» Le chiese Jeh a metà tragitto.
«Cosa?»
«La voce della Patricks.» La sorvegliante notturna...
«No.» Non ci aveva fatto caso ma in effetti c’era una voce di donna particolarmente forte che arrivava alle sue orecchie, non aveva ancora mai visto la Patricks, fino a quel momento aveva sempre rispettato diligentemente il coprifuoco.
Gradino dopo gradino, passo dopo passo la fonte del rumore si avvicinava sempre di più.
Erano arrivati all’ultima rampa di scale quando Kell si bloccò pentita, una coppia di ragazze li superò buttandosi nel vociare che proveniva dalla sala da pranzo.
«Sei sicuro? Se vuoi possiamo ancora tornare indietro.»
Si chiedeva se Jeh avesse capito che cos’era appena successo. 
Il suo sguardo era statico, quasi perso nel nulla: «Andiamo, voglio vedere.» Lui parve all’improvviso risvegliarsi dopo aver pronunciato quelle parole, il braccio di Kell prese a essere trascinato da lui, al contrario di com’era andata fino a allora.
Mentre camminava in mezzo alla folla spinta da Jeh non si era interrogata a sufficienza sulla gravità di quello che stava accadendo; ovunque per tutta la sala ragazzi urlanti in preda ad attacchi di panico degni di un ospedale psichiatrico vagavano, sbattevano contro altre persone, cadevano a terra, venivano rialzate e ricominciavano, unica fonte luminosa una luce soffusa proveniente da uno dei lampadari, era tutto così spettrale, così vuoto, perso, lamentoso, irreale.
Un ragazzo sbatte’ violentemente contro la spalla di Kell, era in lacrime e correva alla scala. Mentre camminavano verso il corridoio che portava all’uscita Jeh si voltò a guardarla preoccupato.
Come riusciva a rimanere calmo? 
Aveva preso anche lui qualcosa?
«Tutto okay?»
Inghiottì la saliva, aprì la bocca per parlare ma non uscì niente.
Jeh si voltò di nuovo a guardare davanti a se, il corridoio dell’infermeria almeno era quasi vuoto, ma... una ragazza era svenuta ed era sul pavimento priva di sensi.
Non c’era più distinzione tra chi mentiva e chi diceva la verità sulle proprie fobie, in quel momento erano tutti uguali, o quasi.
«Vieni, ci siamo quasi...» La voce di Jeh era semplice da codificare: era ansioso di vedere, diceva sul serio.
La stava portando dove l’avrebbe portato anche lei se fosse stata Kell a guidarlo, fuori dalla porta.
Gettò una fugace occhiata alla scrivania della segretaria del dirigente Rang che l’aveva accolta il primo giorno.
Appena fuori dalla porta...
«No!» Victor comparve davanti ai suoi occhi annaspante, con Cecely vicino, in ginocchio: «Jeh non deve...»
Ma era già andato. Kell non poté evitare di seguirlo fuori anche solo nel disperato tentativo di trattenerlo; l’aria era gelata, ghiacciata, riuscì a prendere Jeh per la manica della maglia ma non le fu possibile trattenerlo.
Per poco Kell non urlò, se avesse avuto ancora un po’ di voce in gola di sicuro l’avrebbe fatto.
La visione che si parò loro davanti era catastrofica.
Punto focale dell’immagine: Catherine a terra, con la schiena rivolta al cielo stellato in un bagno di sangue rosso carminio.
La testa frantumata contro l’asfalto, il viso quasi viola e l’espressione appena visibile del suo volto stirata e insieme contorta. Urla, troppe urla, lacrime, lamenti insanguinati, Emeric che gemeva accanto al corpo di Catherine contorcendosi nel tentativo di arrivare a toccarla mentre una donna adulta, molto possente lo spingeva via, le sue mani sporche di sangue non riuscivano a toccarla più. 
C’erano molti altri ragazzi a terra che piangevano, accartocciati su loro stessi, ma solo Emeric cercava di raggiungerla, ed era ingiusto pensò Kell, aggrappandosi con tutte le sue forze al braccio del ragazzo con l’occhio di vetro, Emeric avrebbe dovuto poterla toccare, al suo posto Kell avrebbe voluto fare lo stesso, respingere le lacrime e tirarsi su non era quasi possibile.
Kell inspirò, se ci fosse stata lei sull’asfalto, se lei fosse stata Catherine, non avrebbe voluto che una scena del genere si consumasse davanti al suo cadavere ancora caldo; una mano di Emeric raggiunse per un soffio la schiena di Catherine, un singhiozzo strozzato fuoriuscì dalle sue labbra, la Patricks lo allontanò ancora.
Se ne avesse avuto la forza, avrebbe cercato di aggredirla, per aiutarlo, almeno per aiutarlo.
Le cedettero le gambe, inevitabilmente di nuovo, Jeh era troppo debole, finì quasi contro di lei: «Si è buttata di sotto.» Gli sentì dire come se fosse un fischio in lontananza.
«Come ha fatto.» Non lo stava chiedendo, Jeh era sbalordito, esterrefatto, quasi in stato catatonico, l’occhio sbarrato, l’altro coperto, Kell avrebbe voluto smettere di pensare ma proprio non ci riusciva, se l’altro occhio fosse stato al suo posto avrebbe fatto lo stesso seguendo l’altro.
Gli prese anche l’altro braccio nel tentativo di trattenerlo vicino a se e guardò dentro la porta, Victor aveva le mani sulle spalle di Cecely in preda a una crisi di pianto incalcolabile, se Jeh fosse finito in quel modo non avrebbe potuto fare più niente.
Ma lui rideva, non piangeva, rideva, forse era anche peggio.
Cercava di trascinarsi verso gli altri ragazzi ma Victor aveva pienamente ragione, non doveva vedere, il motivo era insito, e aveva già visto troppo.
«Come ha fatto? Come avrà fatto?» La guardò ridendo, voltando la testa verso di lei, come se fosse davvero davvero molto divertente.
Avrebbe voluto che Victor mollasse Cecely e venisse ad aiutarla, Jeh le faceva quasi paura quando rideva in quel modo.
Sembrava pazzo.
Scacciò quel pensiero della mente e sentì Jeh ripetere nuovamente: «Come ha fatto?»
Fù in quel momento che sentì qualcosa smuoversi nella sua mente fragile e sconvolta, abbandonare Jeh, alzarsi in piedi, lasciarlo lì, scappare in camera sua, chiudersi in camera, accendere la luce, piangere, aspettare il mattino dopo...
No.
Non di nuovo.
Basta scappare.
Non aveva paura di Jeh, Jeh era il bambino con l’occhio di vetro, il ricordo più importante che possedeva. 
Comparve davanti ai suoi occhi vivido come non lo vedeva da anni.
La schiena di Jeh finì contro di lei, una delle sue mani gli coprì l’occhio sinistro, quello sano.
«Zitto, adesso ce ne andiamo.»
Faceva freddo, anche la pelle di Jeh era fredda, le ciglia nere a contatto con le sue dita chiusero l’occhio meccanicamente, quasi ritraendosi.
Si mise in piedi e Jeh fu’ costretto a imitarla, una mano oltre il suo collo lo spingeva a muoversi, l’altra lo privava della vista anche con l’occhio sano e senza che Kell riuscisse a pensare lucidamente un secondo di più si ritrovò dentro, sul pavimento vicino a Cecely intenta a singhiozzare.
«Cely ti prego, dai, vieni, non fare così.» Sussurrava Victor, una mano su una delle sue spalle: «Dobbiamo levarci da qui, assolutamente, devo portarti via.» 
Cecely non lo ascoltava, continuava a piangere, il suo sogno, pensò Kell, era infranto; aveva seguito Catherine per mesi, l’aveva odiata, l’aveva invidiata, l’aveva amata, aveva sofferto con i suoi più cari amici all’idea che se ne andasse via, aveva accettato la cosa; e lei? E lei ora era morta, si era infranta cadendo dall’alto, come una stella. 
Cecely aveva la faccia premuta sul pavimento di pietra bagnato di lacrime calde, soffriva come Emeric e lei non aveva mai rivolto la parola a Catherine in tutta la sua vita, avvertiva quanto fosse vero e sentiva quant’era orribile.
Jeh aveva smesso di dimenarsi, rideva e basta: «Smettila.» Gli disse all’orecchio, se non fosse stata così vicina forse avrebbe avuto bisogno di urlare per farsi sentire da lui.
«Come ha fatto.» Altra risata: «Come ha fatto Kell?» Rise ancora e i singhiozzi di Cecely si fecero più forti.
«Non ridere.» Strinse il braccio ancora di più oltre il collo del ragazzo con l’occhio di vetro: «Smettila di ridere.»
Non voleva arrivare a pensare che fosse schizofrenico, non voleva neanche pensarlo, sapeva di sbagliarsi.
«Altrimenti che fai?» La risata di Jeh divenne un ghigno, non l’aveva mai visto ridere così tanto prima di quel momento.
Victor scattò in piedi, Kell e Jeh che erano a terra accanto a Cecely, si ritrovarono a guardarlo attoniti, senza parole.
Victor si strinse nelle spalle, inghiottì la saliva, si avvicinò a Cecely e la sollevò di peso, tra le sue braccia, tra lacrime e singhiozzi, senza guardarla in viso, mentre lei gemendo strozzatamente lo guardava piangendo, forse in quel momento anche per lui oltre che per Catherine. 
Aveva davvero superato la sua fobia, Jeh aveva ragione.
Victor entrò nel corridoio laterale che portava alla sala da pranzo, un brivido percorse Kell da parte a parte: non li stava lasciando lì, vero?
«Vieni.» Disse Victor senza voltarsi, continuando a camminare.
«Costringilo a seguirti Kell.» E si allontanò dalla sua visuale scomparendo nel corridoio.
Jeh intanto non aveva ancora smesso di ridere, Kell cercò di ignorarlo inutilmente; di nuovo si rimise in piedi e trascinò il ragazzo su con lei: «Andiamo.» Gli disse meditando su dove si fossero fermati ad aspettarli Victor e Cecely. Perché si, di sicuro li stavano aspettando. 
Di nuovo Jeh non oppose resistenza, poteva farle paura, poteva anche sembrare pazzo ma non le avrebbe mai fatto del male, la sua stessa storia glielo impediva, e poi era Jeh, aveva finalmente Jeh vicino come aveva sempre desiderato e non si sarebbe mai e poi mai ridotta ad avere paura di lui, neanche se lui gliene avesse dato motivo, andava protetto – si stava spezzando – ed era quello che lei avrebbe fatto.
Camminare spingendosi Jeh davanti tenendo il braccio oltre il suo collo era un’impresa titanica ma se avesse provato a lasciarlo aveva troppa paura di vederlo scappare via da lei.
Individuò Victor e Cecely, erano quasi allo sbocco del corridoio nella sala da pranzo.
«Mi fai male.» Sussurrò Jeh; aveva stretto troppo. 
Lo ignorò fermamente e lo sospinse e sedere per terra, fino a farlo finire con la schiena al muro.

Non era convinta che lasciarlo libero di muoversi fosse una buona idea, non aveva ancora smesso di ridere e a Cecely non faceva bene ascoltarlo.
Si chinò anche lei accasciandosi esausta davanti a Jeh, artigliandogli un braccio tremante, questa volta anche per confortare se stessa.
Non c’era modo per lei di descrivere le sensazioni che stava provando, non era semplicemente angosciata, era anche succube dell’idea che dovesse proteggere le persone che aveva di fronte.
Cecely era avvinghiata a Victor tutta singhiozzi e tremori, sembrava un bambina, piccola e indifesa. La stupì la continua prontezza di Victor nel sapere sempre cosa fosse meglio fare per lei, cercava di rassicurarla inutilmente però, pensò Kell, se non ci fosse stato lui a supportarla in quel modo sarebbe stato anche peggio.
«Io...» Disse Jeh tutto a un tratto raggiungendo i suoi occhi: «Io... non capisco.» Kell inghiottì la saliva: «Cosa non capisci?»
Sperava solo che non dicesse ancora “come ha fatto” in quei dieci minuti l’aveva ripetuto centinaia di volte: «Non capisco... dal terrazzo, dalla porta.» A malapena riusciva a essere comprensibile ma Kell riuscì a capire che si riferiva al posto in cui Catherine doveva per forza essersi buttata.
«Sì, sicuramente.» Annuì mettendogli una mano sulla spalla,    tremava sotto la pressione delle sue dita.
Sapeva che stava per dire qualcosa, aveva già aperto la bocca: «Io...» Cercava di dire qualcosa, ma forse non gli venivano le parole, a un tratto si ridestò come se avesse avuto un lampo d’idee: «Io ci avevo provato.» Ispirò profondamente. 
Kell strinse gli occhi in una morsa, facendosi quasi male, non sapeva che cosa fare, non più.
L’occhio grigio e luminoso di Jeh non la guardava più. Una goccia, una lacrima di sangue oltrepassò il tessuto morbido della benda finendo sopra la sua guancia bianca vicinissimo alla cicatrice.
«Ma la porta è sempre stata chiusa.» Disse, come se quel dato di fatto bastasse a chiudere la questione. 
Non voleva ascoltarlo dire quelle cose, non in quel momento.
Arrivò con la mano al viso di Jeh, lui si ritrasse, la sua testa finì completamente sul muro del corridoio, era spaventato; Kell ignorò quelle considerazioni, con il pollice tolse la lacrima di sangue. Per un momento il suo dito scomparve sotto la fasciatura, per un momento sentì il contatto della sua pelle con l’increspatura della cicatrice, era così profonda? Non se n’era mai resa conto davvero.
Non aveva ancora staccato la mano dal suo viso, Jeh abbassò la testa e cominciò a tremare ridacchiando un pochino.
Victor le lanciò uno sguardo eloquente: «Kell, non perdere il controllo anche tu.» «Non lo farò.» Rispose, già sentiva il battito notevolmente accelerato, ci mancava anche la consapevolezza che se lei avesse perso la testa Victor si sarebbe ritrovato con altri due bei carichi sulle spalle. 
«Jeh, senti Jeh, adesso tu ti calmi, hai capito?» Cercò di scandire bene le parole in modo che lui potesse capirla nonostante le sue risate.
«Ce la fai ad alzarti in piedi?» Si voltò verso Victor: «Dobbiamo riportarli sopra Vic, per forza.»
La situazione di Cecely se possibile si era addirittura aggravata, continuava a piangere contorcendosi, producendo versacci e singhiozzi.
«Non ce la faccio.» Jeh si coprì l’occhio grigio con la mano: «Non ce la faccio proprio Kell.» 
Victor strinse Cecely contro il suo petto, aveva le sopracciglia aggrottate, Jeh non mentiva capì, non pensava davvero di riuscirci.
«Si che ce la fai.»  Jeh scoppiò a ridere e Victor scosse la testa sconsolato.
Non riusciva proprio a restare ferma; una sua mano, meccanicamente come succedeva da quando Catherine era caduta arrivò al porta pillole.
Si accigliò e si diede della stupida per non averci pensato prima.
«Okay, d’accordo Jeh.» Tirò fuori il porta pillole dal pigiama e con l’unghia aprì l’uovo metallico.
C’erano quattro lunghe pillole prima che lei prendesse la sua, dopo Jeh e Cecely ne sarebbe rimasta solo una, inspirò e prese la prima in mano.
«Apri la bocca.» Jeh scosse la testa serrando la mascella, Kell si pentì di averglielo chiesto: «E’ solo un calmante, starai maglio.»
Se non altro aveva smesso di ridere...
La lotta per fargli ingoiare la pillola non cessò fino a quando Jeh esausto smise di opporre resistenza e un paio di dita di Kell riuscirono a fargli finire quella benedetta pillola in gola: «La prossima volta non aspettarti un trattamento di favore.» 
Passò l’altra pillola a Victor che grazie al cielo non ci mise niente a convincere Cecely, la ragazza si era dimostrata molto meno remissiva.
Si appoggiò anche lei al muro in mezzo a Victor e Jeh, strinse le spalle del ragazzo con una delle sue braccia, la sua stretta poderosa l’avrebbe aiutato a calmarsi, dovevano aspettare che l’effetto del calmante desse i suoi frutti: «Adesso andiamo di sopra, sta tranquillo Jeh.»
Non se l’aspettava. La testa di Jeh si appoggiò sulla sua spalla; ma non con un contatto leggero, era come se cercasse di continuare a resistere al potere del calmante del farmaco opponendo resistenza all’aria con la pressione della testa.
Quando Jeh smise di stringere si lasciò finalmente andare. 
Mezzo minuto dopo Kell lo aiutò ad alzarsi in piedi, Victor invece sollevò di peso Cecely e senza evidenti sforzi fisici iniziò a schivare ragazzi nella sala da pranzo.
Kell camminava col cuore in gola spingendosi Jeh dietro, andavano più lentamente rispetto a Victor e Cecely, la cosa contribuiva ad aumentare la paura di restare indietro.
Se ne avesse avuto la forza avrebbe urlato di aspettare.
Ci pensò qualcun altro a bloccarli.
«Fermi! Fermi tutti!» E così fu’.
L’intera sala alle parole della donna ammutolì completamente.
Stava all’ingresso dal corridoio con le mani davanti: «Tornate tutti immediatamente nelle vostre camere!» Qualcuno fece per alzarsi in piedi ma venne interrotto dalle parole della Patricks: «Sta arrivando la polizia e anche l'ambulanza! Pretendo che mi obbediate immediatamente!»
Qualche altro minuto e il calmante, leggero com’era e in una tale situazione di stress, avrebbe smesso di fare effetto.
«Kell, prendi Jeh sbrigati!» La esortò Victor con ancora Cecely tra le braccia, erano di nuovo vicini e dovevano muoversi o la folla li avrebbe sommersi tutti e quattro.
Uno scalino dopo l’altro uno alla volta davanti a tutti gli altri, le braccia tremanti di Jeh a infrangersi contro le sue.
Passarono davanti al banco dalla Patricks, dietro, la porta che dava sul terrazzo.
Jeh si bloccò proprio quando ci arrivarono davanti, Kell lo strattonò forte scuotendolo: «E’ finita, non pensarci.» Di nuovo spalla contro spalla seguendo Victor a passo spedito che attraversava il corridoio del dormitorio.
«Kell? Dov’è camera tua?»
«Qui.» Si fermò proprio sulla porta con il numero 185.
Aveva lasciato la porta aperta e con un movimento deciso Victor entrò, accese la luce e si scaraventò a sedersi sul letto con Cecely nel tentativo (che avrebbe nuovamente fallito) di calmarla.
Si era scatenata di nuova una baraonda in corridoio, meglio del silenzio, pensò Kell facendo sedere Jeh al suo fianco.
Quello era proprio il momento giusto, ridacchiò sulle lacrime di Cecely per lasciarsi andare anche lei, si portò le mani alla faccia coprendosi gli occhi con le mani.
«Kell, ascolta, rimaniamo tutti qui in camera tua va bene?» 
Lei annuì automaticamente, ovviamente, certo, era ovvio, sarebbero rimasti tutti insieme.
Non riusciva assolutamente a sentirsi minacciata da quella circostanza, come poteva Cecely dire di no a lei quando aveva fatto tanto per loro quella notte?
Come poteva lei non mollare proprio in quel momento?
Il respiro accelerava, non aveva neanche bisogno di sentirsi il battito. Sentiva il cuore battere nelle tempie mentre Jeh tremava di fianco a lei, il suo braccio a contatto con il suo  mentre passava il tempo stringendosi le tempie in preda a sensazioni che neanche riusciva a definire nella sua mente, senza neanche cercare di calmarsi.
«Kell, Kell!» Victor la scosse per un braccio, Kell si voltò a guardarlo, Cecely singhiozzava sul suo collo tra i piccoli boccoli biondi del ragazzo: «Kell non mollare adesso, pensa a Jeh, ti prego.»
Pensare a Jeh? 
Se lei non riusciva neanche a pensare a se stessa, come poteva pensare a Jeh?
La sua mano scattò meccanicamente verso il porta pillole a forma di uovo, Victor si stava ancora occupando di Cecely, ma la sua crisi isterica sarebbe passata, quindi lei era per il momento era apposto. Invece di Jeh doveva occuparsi lei; non ne era felice della scelta che aveva fatto ma ignorò la sua coscienza e aprì il porta pillole con l’unghia del pollice.
Infilò la pillola in bocca e diede una scossa a Jeh per prepararlo a quello che avrebbe fatto: «Devi calmarti!» Gli disse sporgendosi verso la lampada per riattivare la luce, non sapeva quanto tempo avessero già passato lì dentro, la luce non arrivava a illuminare l’orologio ed era terrorizzata dall’idea che la lampadina potesse spegnersi proprio in quel momento. 
Lei e Jeh erano tremendamente acluofobici non immaginava neanche quali potessero essere le conseguenze in quel momento.
«Andiamo Cecely, non preoccuparti, è finita.» 
Victor le fece segno di mettere fine a quella tortura, il calmante aveva fatto effetto e lei costrinse Jeh, nell’angolo del letto, non vedeva l’ora di chiudere quella storia, vederlo in quel modo... era tra le cose peggiori che le fossero mai capitate. Spinse la testa del ragazzo sul cuscino, le fece pensare a quando qualcuno cerca di ficcarti le braccia in una camicia di forza; ignorò i propri pensieri, tremava come una foglia, non sarebbero bastate le sue mani a trattenerlo: «Ssh.» Si portò la coperta invernale sopra le gambe mentre Victor al suo fianco sussurrava a Cecely che era tutto finito, prese un bel respiro e appoggiò finalmente la testa sul suo familiare cuscino, si portò la coperta quasi fin sopra la testa, era dritta in mezzo a loro come uno stoccafisso.
«Kell.» Fece Victor ammutolendo per qualche momento persino Cecely: «Devi spegnere la luce, lo sai vero?»
«Sì.» Disse lei, eccome se lo sapeva, Victor e Cecely non potevano dormire con la luce accesa e di solito gli acluofobici non hanno problemi a dormire al buio se sono insieme a persone di cui si fidano.
«Lo so, solo un attimo...» Abbandonò lo sguardo dai due ragazzi  e lo spostò verso Jeh. Era nell’angolo estremo del letto, tremante, con l’occhio sano schiacciato contro il cuscino, quindi praticamente cieco; Kell allungò il braccio sinistro verso di lui. lo vide alzare lievemente la testa dal cuscino per permettersi di vedere il suo gesto, si appiattì contro il muro scioccato: «Non hai paura di me. Vieni, non ti faccio niente.» Non era in se, era chiaro come l’alba ma Kell si sentì ugualmente rincuorata dallo sguardo esitante che aveva mentre si avvicinava, lo rassicurava con il braccio che era riuscita a mettergli dietro la schiena, visto che il suo sguardo in quel momento certamente non poteva in alcun modo rincuorarlo.
Si avvicinò finché Kell non riuscì a vedere la sua mano sbucare da dietro la schiena ghiacciata di Jeh.
A quel punto spense la luce, sperando di riuscire in qualche modo a dormire o meglio, soprattutto che lui riuscisse a dormire, anche se aveva abbandonato il cuscino e aveva la faccia a contatto con il suo collo; se avesse ignorato i singhiozzi strozzati di Cecely, se magari fosse riuscito a concentrarsi su qualcos'altro che non fosse il suo battito cardiaco, allora, magari sarebbe riuscito a dormire.
Catherine, Emeric, tutto quel sangue, ogni cosa che aveva visto e sentito quella notte sparì seppur per poche ore, il giorno dopo sarebbe stato difficile, se lo sentiva sotto pelle, lo sentiva persino sotto la pelle di Jeh.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** 7. Scelta ***






- minuscolo spazio autrice -
Grazie mille a Mujmao e Crazy Lion che hanno recensito lo scorso capitolo! Vi ringrazio sinceramente, mi fa' davvero piacere sapere cosa pensate dei capitoli, come al solito invito tutti quelli che possono aver voglia a fare lo stesso.
Come preannuncia il titolo, in questo capitolo vi lascio al risveglio, ovvio, e alla scelta di Cecely, terra Kell, o no?



7. Scelta

La vedeva, con i suoi occhi, da sveglia. 
Era Catherine, era bella, alta, un’amazzone quasi, con il vento tra i capelli biondi, era viva sopra al terrazzo senza inferiate del Quattrocentoventisette ma i suoi occhi erano vacui, vuoti.
Si scagliava fiera dall’alto sopra la città, le parve di riuscire a vederla anche da sotto, come se la sua visuale le permettesse di vederla da tutti i punti di vista. Constatò la verità: sembrava invincibile, una creatura impossibile da scalfire neanche con la più potente delle armi.
In quel momento si rese conto di sapere la verità. 
Non si sarebbe buttata.
Invece lo fece, lei la vide cadere con i suoi occhi, passare proprio sopra la sua finestra, un sorriso piatto dipinto sulla bella faccia candida. 
Cadeva da sopra, dall’alto, dal basso, e finiva sull’asfalto disfacendosi in mille pezzi dorati, del colore dei suoi capelli...


Qualcosa l’aveva svegliata, delle voci, Cecely e Victor parlavano di Catherine e del sangue, di Emeric, di quella scena orrenda, Kell serrò la mandibola, respinse il ricordo e cercò di afferrare le immagini che aveva davanti agli occhi un momento prima che scomparissero ma dimenticò il sogno all’istante.


Quattrocentoventisette, quattrocentoventisette.
Non voleva pensare proprio a niente ora.
«Perché questo posto si chiama Quattrocentoventisette?»
Sentì qualcosa muoversi alle sue spalle: «C’era un ospedale psichiatrico in questa città.» La voce di Victor le arrivò alle orecchie chiara e nitida: «Pare che fosse uno tra i più rinomati della nazione, ma un giorno è scoppiato un incendio.»
A Kell venne quasi da ridere. 
«C’erano dentro quasi settecento persone e indovina?»
«Quattrocentoventisette sono morte?»
«Quattrocentoventisette sono sopravvissute.» Disse Jeh da sotto il suo mento, e non aggiunse altro.
Scelta quantomeno eccentrica, dedicare il nome un istituto di aiuto psichiatrico ai vivi.
Dietro la sua schiena sentiva Cecely e Victor che ora bisticciavano a bassa voce, quasi potessero disturbare il loro equilibrio. 
Lei si lamentava del fatto che Vic non le aveva mai fatto capire che la sua afefobia era ormai una cosa superata, lui invece insinuava che lei avrebbe dovuto capirlo da sola. Era realistico, diceva così: non poteva semplicemente dirglielo se non ne era neanche sicuro.
Kell passò qualche minuto così, a pensare al nome Quattrocentoventisette e a ascoltarli bisticciare. 
Quella storia assurda degna di un film horror neanche troppo studiato, il trabocchetto delle vittime sopravvissute e poi anche a un fatto altrettanto assurdo: e cioè che Jeh non si era ancora mosso, non si era mosso per tutta la notte e non lo stava facendo neanche allora. 
Ormai era martedì, i giochi erano chiusi e le venne voglia di giocarsi la sua ultima carta, di confessare a Jeh tutto quello che aveva promesso di dirgli anche se non era neanche sicura che fosse il momento giusto. Se non ci fossero stati con loro Cecely e Victor forse l’avrebbe fatto davvero ma non era disposta a condividere una cosa così personale con qualcun altro che non fosse il diretto interessato.
Ma qualcosa doveva pur dire, lo voleva...
Non seppe neanche lei con quale coraggio cacciò fuori senza che nemmeno le tremasse la voce: «Scuola elementare Mayterville.»
La testa di Jeh scattò all’insù, i capelli scompigliati dalla nottata, l’occhio grigio sbarrato: «Non dire niente.» Disse Kell, assolutamente categorica, guardando la sua bocca spalancata. 
La fasciatura rossiccia si era leggermente alzata, Kell raggiunse il suo viso con una mano e la abbassò, facendo intenzionalmente attenzione a non toccare la cicatrice: «No, non dirò altro per oggi.» 
Tanto Cecely mi terrà sicuramente.
Lui fece per dire qualcosa ma la piccola ragazza lo interruppe, sgusciò fuori dal letto saltellando, Victor fece lo stesso gridandole dietro: «Hey, dove credi di andare? Devi spiegarmi!» 
Kell sperava davvero che riuscissero a risolvere i loro problemi per pranzo, c’era bisogno di serenità, almeno, quanto possibile. Di sicuro con quello che era successo la notte scorsa, le lezioni annullate, la polizia, gli accertamenti e tutto il resto non ci sarebbe stato tempo per Cecely di preoccuparsi troppo della scelta che avrebbe dovuto fare di lì a poco...  
Tenerla con loro o bandirla per sempre.
Jeh si era messo seduto contro il muro, si teneva la coperta fin sopra il collo, sembrava ancora abbastanza scioccato, vista la situazione non sapeva neanche esattamente se per Catherine o per quello che gli aveva appena detto lei.
Bene o male tanto meglio distrarlo, Kell preferiva ancora non pensare a quello che era successo: «Cosa pensi che farà Cecely con me?» Jeh la sorprese ridendo con occhi un po’ stralunati.
«Tu che dici?» Scosse la testa come se fosse una cosa assolutamente ovvia.
«Deve tenermi.» Disse, quasi più a se stessa che a Jeh: «Dopo ieri notte se non lo facesse...» «Sarebbe una pazza.» Completò Jeh per lei: «E se la dovrebbe vedere con Vic e me.»
«Grazie, anche se, se non fosse successo niente ieri...» «Ma è successo.» La interruppe Jeh mettendosi a posto la fasciatura rossa: «Non è dipeso da te, hai dimostrato fin troppo.» Commentò stancamente: «Sei qui da una settimana, hai passato cose orribili e sei già messa meglio di Cecely e me; sei proprio coraggiosa, potrà sembrarti assurdo ma è così che lei ti vede...» Specificò: «C’è forza di volontà in te, e in questo posto non se ne vede molta in giro, a proposito...» E lo seppe, stava per dire qualcosa riguardo a se stesso: «Mi dispiace per ieri, io... non ero in me, ho perso completamente il controllo.»
«Sì.» Disse Kell cercando di ridere un po’: «Me n’ero accorta, non devi preoccuparti.» Il ricordo della notte precedente la invase rabbiosamente, lui, Jeh era stato semplicemente orribile, addirittura spaventoso, ma da una persona come lui, messo di fronte a qualcosa come quello, non c’era risultato diverso che riuscisse a vedere, neanche guardando la situazione da lontano.
E lei era riuscita a comportarsi bene, aveva persino tolto una lacrima di sangue dalla guancia di Jeh, infilando un dito sotto la fasciatura, se si concentrava riusciva ancora a sentire il contatto con la profondità della cicatrice sotto una delle dita, si guardò la mano destra, c’era ancora una leggera macchia di sangue.
«Oh si.» Disse Jeh abbassandosi nuovamente la fasciatura sull’occhio: «Fammi indovinare.» Era quasi sarcastico: «Quello è il mio sangue.» «Già.» Disse Kell ridendo, non poteva non sentirsi incredibilmente fiera per come si era comportata, il modo in cui aveva agito la notte prima era quasi una follia, un mese prima se qualcuno gliel’avesse raccontato avrebbe riso di gusto, ora invece sapeva che era la verità.
«Scusa, non sono riuscita a trattenermi.» Anche se in realtà non pensava di doversi scusare.
«Figurati, anzi...» Disse scuotendo la testa: «In realtà non so quante persone al tuo posto avrebbero fatto lo stesso, per tutto intendo.» Kell alzò le spalle, aveva probabilmente ragione, la gente reagisce in modo diverso di fronte a quel tipo di situazione... 
Anche per quanto riguarda un’innocua goccia di sangue; la terrificante bellezza di quella orribile cicatrice dopotutto non poteva fare lo stesso effetto a tutti no? Continua a sperare che sia così, le disse candidamente la sua coscienza.
«Ho fatto semplicemente quello che era giusto fare, niente di più.» Jeh scoppiò a ridere apertamente, cambiò argomento, e Kell non seppe se fosse stata lei a suggerirglielo oppure no: «Voglio sapere Kell...» 
Tono lamentoso a parte meglio muoversi.
Kell sorrise: «Vieni.» Si alzò in piedi e gli offrì una mano per aiutarlo ad alzarsi, Jeh la accettò, era freddo, se faceva freddo lui era sempre freddo: «Devo andare a mettermi l’occhio di vetro.» Kell scoppiò a ridere uscendo dalla porta: «Non ti fai proprio scrupoli eh?»
Jeh rispose con un’alzata di spalle: «Beh, neanche tu.»
Ora era proprio incerta se dirlo oppure no. 
Nel dubbio alla fine propese per la seconda: «Avrei voluto dover convincere te.» Lo disse quasi per scherzare, ma Jeh rispose seriamente come al suo solito: «L’hai già fatto.»


L’intero istituto si era ridotto in un pensoso frondoso silenzio.
Non parlare di Catherine tra loro era diventato praticamente d’obbligo da quel momento. Urtare Cecely non sarebbe servito a niente e tutto sommato pensare che in un posto come quello una studentessa si fosse buttata dall’ultimo piano uccidendosi beh, non era assurdo, la gente che viveva lì intorno avrebbe potuto trovarlo strano solo perché non succedeva spesso, non per il gesto in se. 
Solo che non sarebbe proprio potuto succedere.
Catherine era lì da più di due anni, era comprensibile che avesse sviscerato in tutti i modi possibili quello che poteva dividerla da quella porta, in fin dei conti non era un’idea così lontana dalla probabile verità. Sia che fosse stata lei a mettere in pratica quello che doveva essere un piano ben congegnato oppure qualcun altro al suo posto che aveva escogitato tutto apposta per lei...
Ma la gente che viveva lì fuori non poteva sapere che il Quattrocentoventisette era tenuto a tenere in vita i figli di quelli che pagavano. Non potevano sapere che Catherine ne stava uscendo praticamente indenne, ignoravano quanto la sorvegliante Patricks fosse attenta e diligente ai limite dell’ossessivo.
Non immaginavano quanto ci fosse dietro quell’edificio.


Si sentiva sicura di se per essere un tipo potenzialmente sociofobico; quella certezza la inquietava, era sicura di se stessa e non lo era da molto; forse non lo era mai stata così tanto, ma quel giorno, mentre camminava al fianco di Cecely per arrivare dalla Dorles non riuscì a dirsi incerta su quello che sarebbe accaduto di lì a poco.
La sua nuova amica le sorrideva un passo si e uno no, avrebbe detto che voleva tenerla, che ormai erano amiche, che Kell era come loro, non c’era possibilità di un no da parte sua. 
Se prima della caduta della sua amata ancora sia per Victor che per Jeh era scontato che la ragazza non avesse nessuna intenzione di tenersi Kell ora nessuno dei due aveva più dubbi dell’esatto contrario, Cecely si era ritrovata senza Catherine e quindi senza un appiglio psicologico importantissimo, Kell era un comodo rimpiazzo, almeno per adesso...
Kell sorrise fra se, sarebbe riuscita a far cambiare idea a Cecely su tutti i suoi punti di riferimento, glieli avrebbe sviscerati, se c’era qualcuno che poteva farlo era proprio lei, complici tutte quelle sedute dalla psichiatra.
Sembrava che lei e Victor fossero arrivati a un tacito accordo di pace dopo la litigata di quella mattina, pareva addirittura che fossero più affiatati prima, pareva che Victor avesse chiarito che la sua afefobia era tutt’altro che passata, ma ieri notte, vedendola in quello stato pietoso non aveva potuto fare altro che metterla da parte. La sua efefobia si era spenta per Cecely.
Arrivate davanti alla porta della H3, la classe di terapia di esposizione di Cecely, si salutarono: «A dopo!» Disse e così si diedero appuntamento al piano di sotto per pranzo. Tra pochi minuti nonostante l’annullamento delle lezioni sarebbe suonata la campanella che segnava l’inizio dell’ora di pranzo.
Kell bussò alla porta. Il battito cardiaco accelerò leggermente quando la Dorles aprì, le salutò e guardò attentamente entrambe studiando i loro sguardi: «Allora, hai deciso Cecely?»
«Sì.» Rispose lei, annuendo, prontamente, sicura delle sue parole.
«Bene.» Lo sguardo cupo della professoressa lasciava intendere molte cose, nemmeno lei credeva che Kell sarebbe riuscita a convincerla... se non fosse stato per Catherine, per la ragazza di cui Cecely era quasi ossessionata che si era dissolta come fumo nell’aria sull’asfalto forse non ci sarebbe stato davvero niente da fare per lei.
«Ma voglio dirti una cosa prima...» Kell avrebbe voluto dirle di stare zitta, l’espressione fiera di Cecely era già cambiata: «Secondo me dovresti cercare di renderti conto di quant’è bello e importante per te quello che puoi avere già, così semplicemente dicendo si invece che no, si tratta di un progresso, una vera e propria altra possibilità qui, a un passo da te.» Cecely annuì, Kell voleva urlarle di smetterla, sapeva già cosa stava per dire: «Sono tutti scioccati dopo quello che è successo ieri sera, nessuno si aspettava che Catherine, la perfetta Catherine, si uccidesse.» Aggiunse calcando sulle parole, fissando Cecely negli occhi che a tratti erano sul pavimento, a tratti reggevano lo sguardo della professoressa: «Ma l’ha fatto, e tu non puoi restare indietro con lei.»
A Kell venne da ridere... ci sarebbero state delle conseguenze per il Quattrocentoventisette. Come aveva fatto Catherine a andare sul terrazzo? Quella porta non deva forse essere chiusa? Kell sorrise, sì, e la polizia sarebbe venuta a interrogarli e lei sarebbe andata lì e avrebbe detto tutto il peggio che le fosse venuto in mente, pur di fare giustizia, non potevano scappare ma potevano mettere le cose a posto, forse il gesto brutale di Catherine in fin dei conti sarebbe stato utile a qualcosa...
«Io... non intendo restare indietro.»
Diglielo, dai Cely, diglielo, digli che non mi lasci.
«Lo spero per te, dovresti essere stufa di sentirti inferiore e diversa, basterebbe che ti rendessi conto quanto tu stessa ti sei costruita quest’alibi per non combattere, Cecely, se tu mi dessi anche la più piccola prova che stai cercando di reagire dal tuo stato uguale da anni...» Disse la Dorles: «Puoi stare certa che non lo dimenticherei, i cambiamenti non sempre fanno del male.» Lo sguardo severo fisso su di lei, Kell scosse la testa mentalmente, quello che stava dicendo non piaceva a Cecely d’accordo, ma lei non poteva dire di no, vero?
«Sei cosciente del fatto che rinchiuderti in una campana di vetro con Victor Rixon e Jesse Larey non porterà a niente, so che in realtà nei sei cosciente, ignori questo particolare ma presto, molto presto se continui a stare in questo posto come se costretta a fare te ne dovrai rendere conto da sola e pagarne le conseguenze.»
Non disse niente, rimase zitta.
«A te serve, ne hai bisogno, non lo sai ma è così, lo ignori ma è così Cecely. Allora? Che cosa intendi fare con Kellan?»
Cecely teneva la bocca aperta, stava per parlare, a Kell tremavano le tempie, voleva scuoterla, svegliarla, dirle che cosa doveva dire.
«Condividi o lasci andare?»
Condivido, dì condivido, dillo, avanti Cecely ti prego, non lasciarti trasportare dalla situazione così, avanti Cecely.
In quegli istanti riuscì quasi ad odiarla, a cosa le serviva lei? Aveva Victor e aveva Jeh lei era solo un intralcio sgusciato fuori dall’ombra a sbarrarle la strada dopo che tutte le sue certezze erano andate in pezzi.
I pensieri le scorrevano in testa veloci, tutta la sicurezza che aveva accumulato venne demolita completamente, le illusioni l’avevano portata per tutta la vita a pensare di potercela fare, ma la verità, pensò Kell – annuendo per davvero, sentendo le parole di Cecely – era che non poteva farcela, non affidandosi stupidamente ad altri.
«Lascio andare.»
La ragazza, con lo sguardo fisso sulle mattonelle fredde sotto i suoi piedi si allontanò da lei, velocemente, quasi fuggendo e raggiunse le scale, lasciandola lì, da sola, senza sapere se sarebbe riuscita a muovere un solo passo oppure no.


«Mi dispiace.» Le disse la professoressa porgendole un fazzoletto. Kell non si era neanche accorta che una lacrima era arrivata a bagnarle la guancia: «Non importa, me lo aspettavo.»
«Non sembrava...» 
L’aveva fatta accomodare alla sua scrivania nella stanza di terapia di esposizione: «Ho creduto che avrebbe detto di si, mi sbagliavo, mi sono soltanto illusa.»
«Beh, forse non tutto è perduto. La professoressa Strins mi ha detto che sembra che tu abbia legato molto con Jesse della H2, è uno degli amici di Cecely, potresti continuare a...» «No.» Disse lei seccamente: «Cecely non me lo permetterà, se vuole che tutto torni come prima non potrò neanche sperarci, ed è questo che vuole, capisce?» Lei annuì comprensiva.
«Kellan, vuoi che ti porto qualcosa da mangiare qui?» «No!» Sbottò Kell saltando in piedi: «Non c’è ne’ alcun bisogno, sono già in ritardo, è meglio che vada.»
Cacciò il fazzoletto in tasca prese su un respiro profondo e si preparò psicologicamente a vedere la sua occasione sprecata buttata al vento.


Sentiva una strana sensazione, era quasi... sollievo. Aveva provato ad avere degli amici come tutte le persone normali, aveva fallito e contro ogni recente supposizione positivista era stata semplicemente respinta. 
Doveva pensare a quello che la sua mente più di ogni altra cosa le suggeriva, ora non poteva nascondersi dietro il fatto che  avrebbe turbato Cecely, non più. La parte di lei fino ad allora sopita si risvegliò, ora doveva cavarsela da sola, e se credeva che Catherine non si fosse semplicemente buttata di sotto doveva continuare a crederlo. 
Perché sì era proprio quello che credeva, ed era anche piuttosto sicura di non essere l’unica a pensarlo.
Non aveva motivo di uccidersi e la Patricks era la persona più temuta del Quattrocentoventisette, era merito suo se non capitava mai nulla di male. 
Ne era più che convinta, aveva captato fin da subito che c’era qualcosa di strano e la polizia... se lei avesse parlato decentemente dei suoi dubbi le avrebbe dato retta, se ne convinse subito.
Così era ancora in procinto di rintanarsi di nuovo nella solitudine con quella matassa di dubbi a sconquassarle il cervello, ed era a dirla tutta sgradevolmente rincuorata.
Se non fosse stato per Jeh ovviamente.
Kell si zittì mentalmente. La polizia. Da quel momento era l’unica chance che aveva di fare qualcosa per se’ stessa, qualcosa che volesse davvero e non riusciva a uscirle dalla testa. 
Ma quando venne il momento di entrare nella sala da pranzo si fermò sull’ultimo scalino, sarebbe passata davanti al tavolo di Cecely, Victor e Jeh, che cosa doveva fare? Guardarli? Scoccare alla ragazza un’occhiataccia? Non credeva proprio di riuscirci, non poteva, risalì di uno scalino, poi di un altro, e poi di un altro ancora. Prese su un respiro cercando di farla breve, la gente scendeva e la superava, era spiacevole rimanere lì in mezzo, osservata.
Stanca perfino di se stessa risalì tutte le scale che aveva appena sceso sbattendo i piedi, indecisa sul da farsi, più per perdere un po’ di tempo che per altro varcò la soglia della H2 in cerca della Strins.
«Professoressa?» Chiamò nella stanza apparentemente vuota.
La professoressa con la bombetta ben piantata sulla calotta cranica comparve da dietro la porta.
«Volevo parlarle... se fosse possibile.»
«Certamente, siediti pure.»
Anche lei la fece sedere alla sua scrivania piantata vicino al muro, straripava di registri e appunti, qualche verbale forse, non lo sapeva. «Cecely cos’ha deciso?»
Era arrivata subito al dunque, le metteva quasi timore pensare che si fosse ricordata della fine della scommessa.
«Ha vinto la scommessa.»
La donna sospirò stancamente, aveva le occhiaie; immaginava la Patricks che le telefonava per dirle che una studentessa si era appena uccisa, vide lei che a notte inoltrata si metteva il cappotto sopra il pigiama e saltava in macchina per raggiungere al più presto il Quattrocentoventisette.
«E tu come stai?»
«Bene.» Mentì Kell.
«Non preoccuparti, avevo motivo di credere che Cecely non sarebbe riuscita a superarsi, è debole nonostante il fatto che abbia Victor Rixon e Jesse te ne sarai accorta; ma non preoccuparti ho in mente qualcosa per te.» La informò tamburellando con le dita sulla scrivania di legno. 
«Cioè?» Trovò finalmente il coraggio di chiedere.
«Ti piacciono Bernadette e Alice?»
Se le piacevano? La sua irritazione era palpabile.
«Alice mi detesta.»
«Nient’affatto!» Fece la professoressa sorridendo: «E’ solo un po’ gelosa, Jesse non prestava attenzione a nessuno del gruppo prima che tu arrivassi.»
Sì, certo, come no, meno parlavano di Jeh, meglio era.
«Ma tanto adesso lui non mi rivolgerà più la parola, quindi che importanza ha, giusto?» Non riuscì a trattenersi e stava dicendo esattamente il contrario di quello che aveva detto alla Dorles, fantastico, era anche un'inguaribile lunatica allora... 
«Non volevo dire questo.» 
«E cosa voleva dire? Che Alice e io diventeremo tutto a un tratto inseparabili anche se continuo a essere amica di Jeh? Perché mi sembra un’assurdità detta così.»
Non glien’era importato granché fino a quel momento, si era quasi sentita lusingata dal fatto che Alice potesse essere invidiosa di lei ma per la Strins non aveva significato niente.
Il fastidio di quell’insinuazione le bruciava dentro rabbiosamente, Jeh aveva promesso, forse non significava niente davvero, era prontissima ad accettarlo ma non voleva ascoltare la Strins che lo confermava, lei non ne aveva il diritto.
«Scusi se l’ho disturbata dal suo lavoro.» Disse Kell tirandosi in piedi: «Tolgo il disturbo.»
La Strins non la trattenne. Si sarebbe beccata un’ammonizione per non essere andata a pranzo, ma non gliene importava niente, si rintanò in camera sua e finì di fare tutti i compiti della settimana (che assegnavano eccome), riuscendo persino a capire, miracolosamente, un’assurda variante algebrica dell’espressione normale di cui non ricordava neanche il nome.
Quel pomeriggio si era quasi aspettata di vedere Jeh bussare  alla porta di camera sua, almeno per dirle che non poteva mantenere la promessa che le aveva fatto, oppure per dirle che non l’avrebbe lasciata solo perché Cecely era una schizzata,  insieme si sarebbero potuti confrontare su quello che era successo a Catherine, lui faceva attenzione a tutto magari poteva... invece niente. 
Chiuse il libro gettandolo contro il letto. 
Avrebbe almeno potuto disturbarsi, o il fatto che quella notte si fossero aiutati come se davvero fossero amici non contava più niente? Si diede della stupida da sola, non doveva pensarci, tanto era inutile. Lei forse neanche sapeva davvero cosa volesse dire avere degli amici.
Quando dovette scendere giù per andare a cena non prestò volutamente l’attenzione al tavolo dei tre ragazzi, passò avanti e si ritrovò con il gomito di Bernadette nello stomaco non appena riuscì a sedersi a un tavolo: «Ma che è successo?»
«Di cosa parli?» Chiese senza capire.
«Tra Cecely, Jesse e Victor, si sono arrabbiati con lei tu non... non lo sai?» Kell scosse la testa, l’arrivo di Alice l’aveva improvvisamente zittita.
«Se ne sono andati tutti e tre di sopra oggi a pranzo, lasciando i piatti intatti.»
Kell quasi involontariamente si ritrovò a guardare il loro tavolo, ancora vuoto: «Non so proprio niente, Cecely ha detto alla Dorles che non voleva tenermi.» Parlò chiaramente, la scommessa era ormai di dominio pubblico, Cecely non si era fatta problemi a spiegare a tutti perché si sorbisse la presenza di Kell. Al tempo stesso tutti erano al corrente delle loro vicissitudini in quella bruttissima notte e il fatto che si fossero aiutati a vicenda; se n’era parlato in lungo e in largo in classe e le voci correvano in fretta all’interno dell’istituto, specialmente tra le ragazze, Cecely soccorsa in quel modo da Victor, Jeh di cui si era occupata lei stessa e poi avevano trascorso la notte nella stessa stanza, insomma nessuno si aspettava che Cecely dicesse di no, a dir la verità neanche Cecely stessa.
Alice spalancò la bocca scioccata, Bernadette sputacchiò un po’ d’acqua: «Cosa? Stai scherzando vero?»
«Allora è per questo che Jesse e Victor si sono arrabbiati con lei.» Osservò Alice fissandola, Kell annuì, non c’era altra spiegazione, ma a cos’avrebbe portato?
«Devi andare a parlare con lei.» Esclamò Bernadette gesticolando: «Assolutamente!»
«No.» Fece Kell piccata: «Perché dovrei? Io non vado a parlare con nessuno, eventualmente è lei che deve, che doveva...»
«Kell?» 
Kell si girò bruscamente verso la fonte della voce: «Cos’è, lei ti permette ancora di rivolgermi la parola?» 
Jeh era proprio dietro di lei, gli si leggeva in volto lo sforzo che stava facendo per stare lì in mezzo, in piedi, in balia degli sguardi di tutti, per un aftamofobico come lui non era una cosa da poco.
«Cecely è molto dispiaciuta, non è riuscita a...» Ma non volle ascoltare, lo aggredì senza rifletterci un secondo: «Dispiaciuta, Cecely? Davvero? Lei, dici che LEI è dispiaciuta?»
Jeh impallidì, Kell aveva alzato la voce, altri sguardi avevano raggiunto quel tavolo; il ragazzo sedette accanto a Kell cercando di recuperare coraggio ma era già parecchio agitato, una mano arrivò meccanicamente a toccare la cicatrice.
«Si è lasciata prendere dal panico, quello che è successo stanotte... oggi non ci stava con la testa, non è colpa sua.»
La faccia di Alice, Kell dovette ammetterlo, era assolutamente impagabile, probabilmente non aveva mai sentito Jeh parlare tanto in vita sua fuori dalla classe di terapia. 
«Che stai cercando di dire?»
Jeh prese un respiro profondo gonfiando il petto, Kell sentì Bernadette e Alice trattenere il fiato: «Senti, Cecely ha avuto una delle sue crisi, per questo non sono potuto venire da te.» Colta nel segno, Kell impallidì, voleva sentirselo dire, ma non pensava che l’avrebbe detto davvero: «E’ andata dalla Dorles, le ha detto che ha sbagliato...»
Bernadette aveva un sorriso a trentadue denti. 
«Sono sceso a dirtelo, lei sta ancora parlando con la Dorles, Vic è rimasto con lei.»
«Non ne posso più» Si stropicciò un occhio anche lei, tutta la stanchezza accumulata da quella notte le crollò addosso, si sentiva esausta, l’idea di rivedere Cecely dopo il modo in cui l’aveva praticamente umiliata e presa in giro la mandava in bestia, ma che altro poteva fare.
Detestava il fatto che Jeh stesse giustificando il comportamento di Cecely, quella ragazza non era neanche padrona delle sue azioni, doveva rendersene conto ma anche lui che altro poteva fare?
Kell sbuffò sonoramente. 
«Aspettiamo che arrivino.»
Quando la vide camminare verso di lei con i suoi stivali alti con le stringhe ben stretti intorno alle gambe si sentì spiacevolmente meglio, ancora le sue emozioni facevano maldestramente a pugni con quello che avrebbe preferito sentire.
E in un battibaleno si ritrovò accerchiata da Cecely e Victor che le spiegavano a gran voce quello che purtroppo era accaduto, Kell si sentì rispondere che era tutto apposto, guardò Jeh un paio di volte, appariva notevolmente rassicurato, che altro avrebbe potuto fare, era quello che lei stessa voleva, la sua solita aria cupa le sembrò un tantino rischiarata ma forse era solo tutta quell’agitazione, si spostarono al loro tavolo, lasciando Bernadette e Alice con la bocca asciutta.


Saltò fuori che dopo il suicidio di Catherine occorreva ai genitori dei ragazzi del Quattrocentoventisette vedere i propri figli, il giorno dopo sarebbe arrivata anche la polizia, Kell allungò le orecchie il più possibile per captare più notizie non solo dal punto di vista di quel viscido di Rang: chiunque avesse avuto qualcosa da dire, rispetto a quello che era accaduto a Catherine poteva andare a parlare con la polizia, era indifferente la classe e persino lo stato mentale. 
Girava voce, diceva Cecely che una ragazza del secondo anno, dementofobica fin dentro l’anima avesse detto di aver udito litigare furiosamente due ragazzi nel corridoio dell’ultimo piano la notte prima. 
Jeh aveva commentato aspramente che una che ha paura di essere considerata una pazza aveva il 60% di possibilità di essere davvero pazza di qualsiasi ragazza comune all’interno dell’istituto.
Superato l’imbarazzo iniziale Cecely si era sciolta ed era partita in quarta dilungandosi fino alle dieci e mezza di sera su quanto accaduto la notte prima, nonostante il fatto che non aveva quasi chiuso occhio a causa di un odioso mal di pancia non aveva sentito niente di niente, nessun rumore sospetto, neanche un sibilo.
Kell era così contenta del fatto che nessuno avesse più parlato del no di Cely che quasi non poteva crederci, ora voleva solo sotterrare quel brutto episodio e andare avanti, ce l’aveva fatta e questo sarebbe dovuto bastarle, non sapeva perché, non voleva saperlo ma lei voleva ancora di più da tutti loro.
«Hai visto Emeric oggi?» Le chiese Cecely con la faccia di una che sa già la risposta. «No, nessuno l’ha visto.»
Annuì: «Sembra che sia ancora in infermeria, almeno così mi ha detto la Dorles.»
Non voleva parlare di lei, Kell volse lo sguardo verso Jeh e Victor entrambi accasciati sulla parte finale del letto di Cecely.
«E così domani conoscerete mia madre!» Disse, tanto per cambiare discorso.
Sarebbe certamente venuta, insomma, Catherine si era uccisa esattamente come aveva tentato di fare lei, era quasi obbligata.
Victor storse la bocca: «Tuo padre non verrà?»
«No, sicuramente, avrà da lavorare, domani è mercoledì.»
«Che tipo è? Tua madre dico.»
«Beh, dopo il rapimento è diventata dieci volte più apprensiva del normale, ovvio.» In uno sfogo momentaneo le venne anche: «E’ a causa sua che sono agorafobica, diceva la mia psicologa, mi ha tenuta chiusa in casa troppo a lungo.»
Cecely scosse la testa: «Sai Kell, certe volte dei genitori sono talmente disperati che è quasi giustificabile.» Annuì senza in realtà apprezzare una sola parola: «Sono stata tutta la vita a guardare il mondo fuori dalla finestra di camera mia, non ho mai creato il benché minimo problema.»
«Oh no certo.» Disse Jeh sorridendo appena, quasi come se quello che aveva appena detto lo facesse ridere, ma non in senso positivo: «Scommetto che lei era contenta di sapere che tu eri e sarai probabilmente per sempre una sociopatica di prima categoria che non può neanche mettere il naso fuori di casa senza la paura costante di avere un attacco di panico. Sono sicuro che la cosa la rassicurava...»
«Quasi.» Disse Kell sorridendo e Jeh ammutolì, doveva ammetterlo, le piaceva quel suo modo di parlare, così duro e sarcastico, le ricordava vagamente se stessa. Fuori era duro, freddo, immobile, furioso, quando si creavano quelle situazioni invece cambiava come se qualcuno l’avesse spinto a cacciare fuori ogni idea, qualsiasi cosa gli passasse per la testa, tutto.
«Non ero più una persona normale dopo quello che è successo questo è ovvio, ma ero una bambina e potevo tranquillamente smaltire la paura ma lei non l’ha mai preso in considerazione, era preoccupata per me, certo, ovviamente era terribilmente in pena, ma non pensava che potessi tornare come prima, per questo si sentiva più sicura a sapermi... lontano da tutto, io c’entravo ben poco»
Quella confessione butta lì come se nulla fosse lasciò per un attimo basiti i ragazzi, a Kell mancavano le sedute di psicoterapia da sola, lei, la sua psicologa e il suo cervello, lì poteva essere se stessa ma adesso... adesso aveva qualcuno anche lei, forse non ne aveva più bisogno. 
Jeh indossava già la fascia rossa, Kell non poteva vedere come si spiegazzava la cicatrice sotto la pressione del suo sorriso direttamente sotto l’occhio bianco ma sapeva già che piega c’era sotto, una strana sensazione di familiarità la rassicurò.
Alzò le spalle esausta: «Vi ringrazio...» Quell’esternazione entusiastica buttata lì fece saltare in aria le braccia di Cecely che la abbracciò scusandosi ancora e ancora, storse la bocca, non era abituata a quel tipo di contatto fisico... e pensare che voleva scappare da quel posto ancora prima di metterci piede.
Era giusto che fosse felice? Catherine era morta, Cecely si era ritrovata costretta a sceglierla, lei non aveva più fatto pensieri spiacevoli da quando le cose erano cambiate, non si sentiva più morta ma si sentiva in colpa, non sapeva se sarebbe stata all’altezza delle aspettative di tutto, di tutti.


Suonò la campanella del coprifuoco Kell stava ripassando a penna un’equazione fatta con l’aiuto di Victor, si intristì di colpo, era straziante, ma la stanchezza la fece tremare, non voleva andarsene, avrebbe voluto chiedere a Cecely se poteva rimanere con lei, o ancora meglio, si sentì ridicola soltanto per averlo pensato, far rimanere anche Vic e Jeh.
Sospirò.
«Tu come stai Cely?» La guardò attentamente, si era messa in piedi, metteva a posto la sua cartella piena dei libri risalenti ancora al giorno prima, portava ai piedi solo le pantofole, i suoi stivali erano stati depositati accuratamente dentro il suo armadio, sembrava quasi che non le importasse, aveva tolto lo scudo.
Ognuno di loro ne aveva uno, Kell il suo porta pillole, Victor il sorriso, Jeh la fasciatura, il tentativo di nascondersi era un desiderio irremissibile, Kell non poteva rinunciarci, Victor neanche e Jeh... Jeh era disperatamente attaccato alla speranza  irrealizzabile di non essere notato, Cecely invece... in quegli istanti a nasconderla non c’era niente.
«Benissimo.» Disse scherzando tristemente: «Sto bene, davvero.» Divenne d’improvviso seria: «Non preoccuparti per me.» 
«Cely, Catherine per te era...» «Si, lo so, lo era.» Confermò Cecely interrompendola, gettò la cartella sulla scrivania e si andò a sedere sul letto. «Lo era e domani noi tre conosceremo tua madre. E’ finita, è un cerchio che si chiude, è andata così ed è una cosa che devo accettare.» Scosse la testa convulsamente, una mano le raggiunse l’altezza del cuore, era visibilmente stremata: «Ho bisogno di tempo Kell, potrai capire. Potrà sembrarti assurdo visto perché siamo finiti al Quattrocentoventisette, ma io ho trovato Jeh e Victor, ed era più di quanto potessi immaginare, e mi sentivo quasi al sicuro, ma adesso Catherine è morta, Emeric è chissà dove a soffrire in silenzio, io... è terribile pensarci ma devo continuare a equilibrare la mia vita.»
Kell tentennò, non sapeva che cosa dirle, non si aspettava una confessione del genere. «Mi dispiace.» Sussurrò.
Cecely non si sforzò neanche di rincuorarla, anzi: «Quello che le è successo, tu non capisci, per me, è inspiegabile.»
Inspiegabile. Davvero inspiegabile.
Lo era? Era comprensibile? Qualcuno se lo aspettava? Qualcuno pensava che dopo aver ottenuto il permesso di andare via, l’attestato e il diploma incontrovertibili prove che lei era mentalmente ristabilita, – proprio all’apice di quello che doveva essere l’inizio – lei potesse uccidersi? Erano domande a cui Cecely poteva rispondere solo negativamente, glielo stava dicendo in quel momento, perché? 
Perché la verità, nonostante tutto appariva nitida e cristallina oltre le ombre del giorno, la visione inquieta della verità le si formò nella mente com’era in egual misura in quella di Cecely: Catherine in effetti non aveva avuto nessun motivo, neanche il minimo più piccolo motivo, per buttarsi dall’ultimo piano dei Quattrocentoventisette.
«L’unica cosa che poteva turbarla, oltre il rapporto con Emeric  andato allo scatafascio era il modo in cui è riuscita a ottenere l’esame per uscire.» 
Cecely annuì, si tamponò l’occhio sinistro, quello che Jeh non aveva più, con un fazzoletto: «Lo sai Kell? Se Catherine si è realmente suicidata l’ha fatto per una buona ragione ne sono sicura e qualcuno sa come ha fatto a ottenere l’esame.» Disse lei.
Anche se avrebbe voluto dirle un’altra cosa.
Qualcuno forse l’ha uccisa per questo ma non ce ne fu bisogno.
«E Emeric custodisce questo segreto.»





 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** 8. Giudizio ***




- minuscolo spazio autrice -
Andate a leggere la prima frase del capitolo.
No, non soo il tipo di scrittrice che mette il link con i vestiti della ragazza di turno.
Bene, in questo capitolo, vi consiglio di prepararvi psicologicamente, avrete di tutto e di più. Non vi anticipo niente tranne che... probabilmente alla fine avrete una gran voglio di ammazzarmi :3 
Al prossimo aggiornamento!










8. Giudizio


Kell scelse i vestiti accuratamente. Quel giorno non solo avrebbe rivisto sua madre, avrebbe anche avuto la possibilità di avere un colloquio con la polizia, la cosa non poteva fare a meno di agitarla, per un giorno accantonò il suo “stile” svogliato.
La sera prima, dopo aver perso il sonno completamente aveva messo in ordine mentale tutte le informazioni che aveva sui fatti avvenuti due giorni prima; sussurrando nel buio della sua camera asettica e fredda Kell si era ripetuta ciò che si era scritta; voleva essere impeccabile.
Non sono glossofobica, pensò, chiudendosi la porta di camera sua alle spalle, ma non poteva permettersi il lusso di andare nel panico per due domande da parte di un uomo in divisa, ne tanto meno di guardare con disprezzo sua madre, quello era un gioco che valeva la pena giocarsi, non avrebbe ceduto ai vezzi del suo carattere, ne alla furia, aspiravano solo a commettere atti avventati, il controllo era il tema della giornata, non doveva perderlo per niente al mondo.
Cecely era appena arrivata e si stava sedendo al loro tavolo, nell’angolo estremo della sala da pranzo assieme agli altri, erano già arrivati, stavano ricurvi sul tavolo così Kell cercò di stare dritta, l’ansia per gli eventi del giorno era fortissima.
Disseminati per i tavoli un sacco di ragazzi erano con i propri parenti, alcuni visibilmente scossi, altri più fermi, tutti ugualmente vulnerabili.
«Quella donna, è la madre di Emeric.»
Le sopracciglia di Cecely si aggrottarono, identificò la persona che Kell aveva individuato e si buttò a capofitto sulla sua cioccolata. Una donna, ancora abbastanza giovane girovagava per la sala, abbracciando studenti e parenti, i tratti del viso e gli sfolgoranti occhi verde accesso non lasciavano spazio a dubbi. «Deve portarlo via, Emeric non può rimanere qui.» Cecely difendeva il suo parere; Jeh scosse la testa: «Per fargli passare gli ultimi mesi dell’ultimo anno in una scuola dove non conosce un anima? Fuori sarebbe addirittura peggio.»
Aveva ragione, ora, la domanda era un’altra: «Starà aspettando lui?» Victor disse di no: «Non verrà, non è sceso ieri, non lo farà neanche oggi, sempre che non sia ancora in infermeria.»
«Ma...» Fece Cecely guardandolo dall’altra parte del tavolo: «Potrebbe essere l’ultima persona che l’ha vista, avrà qualcosa da dire alla polizia...» «Ma non capisci?» Sbottò Jeh. «Cosa dovrei capire?» Al ragazzo con l’occhio di vetro la risposta pareva assolutamente ovvia: «La sua migliore amica si è buttata dal tetto della scuola l’altro ieri, dev’essere sconvolto, lui non è mai stato molto stabile mentalmente, questo è un ottimo modo per tappargli la bocca...» Disse Jeh con amarezza: «Sicuramente non sarà in grado di parlare con la polizia, era prevedibile, questa storia per Rang deve chiudersi in fretta, è una pessima pubblicità per l’istituto, può fare in modo che non sappiano che era amico di Catherine e se non lo interrogano davvero abbiamo la prova che è andata così.» Jeh scosse la testa ancora continuando imperterrito a cacciare fuori pensieri: «Sai cosa sta pensando adesso Rang? “La gente penserà che una nostra studentessa potrebbe essere riuscita a suicidarsi”. Niente di più.»
Ed era vero, soprattutto se come Kell pensava fermamente avessero qualcosa da nascondere, più di un suicidio.
«Io andrò a parlare con la polizia spontaneamente.»
Comprensibilmente la guardarono sbigottiti.
«So che non mi crederebbero mai per quanto riguarda il motivo per cui tutti noi siamo qui, non si tratta di questo.» In realtà, parvero quasi sollevati, la verità era che ce la vedevano Kell a commettere azioni avventate.
«Ci sono troppi punti oscuri su quello che è accaduto l’altro ieri notte, ho bisogno di sapere che qualcuno ha detto loro la verità di come sono andate le cose quella notte in modo quanto meno oggettivo; sono estranea alla vicenda, sono qui da neanche due settimane.»
«Potrebbero darti retta.» Victor la guardò annuendo, non servì che dicesse loro che cosa voleva dire alla polizia, non servì e non ne ebbe neanche il tempo...
«Kell?» La chiamò Cecely dal suo fianco: «Mh?» Con gli occhi la ragazza le indicò un punto più vicino di quello che avrebbe voluto, tutto sorridente e sempre più vicino, aveva una busta tra le mani ed era sua madre.
«Kell!» Esclamò, la costrinse ad alzarsi in piedi per farsi abbracciare: «Mi sei mancata tantissimo!» 
Nessuna traccia di risentimento per come si erano lasciate le scorsa settimana; evidentemente la retta per l’istituto si pagava a fine mese, abbracciarla le dava il voltastomaco: «Allora che fai, non mi presenti i tuoi amici?»
Amici. Naturalmente le venne da ridere. Non sembrava affatto stupita dal vederla circondata da ragazzi della sua età, come poteva non se lo spiegava. Non a caso quella parola inizialmente la stordì: i miei amici, loro sono i miei amici. Suona troppo bene per essere reale, ma è così.
«Allora.» Cominciò diligentemente: «Lei è Cecely.» Sua madre si sporse oltre il tavolo per stringerle la mano: «Sei adorabile, piacere davvero.»
«Lui invece è Victor.» Strinse la mano anche a lui commentando i suoi, a sua detta bellissimi riccioli biondi con un sorrisetto dei suoi, così finta, così frivola, così comoda. Comodo avere una figlia solo quando ti va. 
Dopo quello che era capitato con Catherine si era aspettata che la sua natura oppressiva risaltasse fuori, che magari la costringesse a tornare a casa, un tempo ne sarebbe stata capace e invece no, era tranquilla, rilassata, riposata, non aveva neanche più le occhiaie che solitamente incorniciavano il suo viso, parecchio simile a quello di Kell.  Davvero si aspettava che lei stesse bene?
«E lui è Jesse.» Meglio usare il nome per intero.
Kell si bloccò a guardare la scena tramortita. 
Per un secondo aveva completamente dimenticato che sua madre sapeva del bambino con l’occhio di vetro della sua infanzia, forse ricordava di Jeh, inghiottì la saliva mettendosi a sedere; pregò che non fosse così.
Gli strinse la mano, un sorriso cordiale, le sopracciglia leggermente alzate, forse, forse ricordava.
Oh, ti prego non dire niente. 
Si risparmiò il commento che aveva fatto per Cecely e Victor, la cosa la imbarazzò, e imbarazzò anche sua madre le parve.
Era stata stupida, avrebbe dovuto dirglielo, Jeh non voleva essere guardato e lei lo stava squadrando da capo a piedi neanche fosse un esperimento botanico riuscito male, Kell riuscì a sentire che si stava domandando se quel ragazzo potesse essere quella persona che ricordava oppure un sostituto che la sua cinica figlia aveva adocchiato.
«Dev’essere stato tremendo per voi, com’è andata esattamente?  Raccontatemi.»
Dopo qualche minuto di dialogo incessante sembrò proprio che lei non volesse dire niente sull’argomento “ricordo”, era un ottimo segno oltre che un sollievo, quando voleva dire qualcosa di solito non si perdeva in chiacchiere o ripensamenti, lo diceva e basta, forse l’aveva scordato o aveva dato per scontato che Jeh non fosse quel bambino.
Esaurito l’argomento Catherine, ampiamente descritto dalla voce calma di Kell, ecco comparire tra loro anche la zia di Victor, nonché sua tutrice, una donna simpatica, infagottata in una sciarpa di lana azzurra. Fece mille raccomandazioni a tutti e si complimentò amorevolmente con Cecely per il nuovo acquisto, ovvero Kell, che a quanto disse sembrava incredibilmente differente dall’amica di suo nipote.
«Kell è un po’ come noi.» Disse Victor sorridendo tacitamente come al suo solito, tra loro c’era uno strano accordo di segretezza, avevano protetto i loro amici insieme, si erano aiutati e Kell non avrebbe certamente dimenticato.
La zia di Victor si era messa a parlare con gli altri delle materie scolastiche; sua madre le stava spiegando cosa le aveva portato.
«So che non si potrebbe, ma ho parlato con altri genitori, pare che non sia un problema se vi consegniamo degli oggetti particolari.» Kell annuì, bastava sborsare dei quattrini, niente di straordinario, evidentemente avevano molti più soldi di quanto credeva. «Ti ho portato il tuo iPod.» Lo estrasse dal fondo della busta, era nascosto accuratamente da alcuni maglioni, glielo mostrò e basta, senza toglierlo dalla busta completamente, le cuffie bianche ancora attorcigliate attorno: «Non devi usarlo a un volume troppo alto in camera tua, se succede qualcosa potresti non sentire e allora...» «Lo so mamma.» 
Non aveva neanche voglia di litigare, e pensare che in passato, prima della porta chiusa di camera di Sam avevano sempre avuto una coesistenza quasi ideale, non le aveva mai fatto pesare le sue fobie, le ignorava e sopravvivevano. Kell respinse il rimpianto.
«Allora, ti trovi bene? Dimmi la verità.»
«Benissimo.» Rispose Kell piccata: «Se non sapessi cos’è realmente questo posto.» Borbottò tra se. «Cosa?» Fare finta di non aver sentito, uno dei trucchi migliori di sempre: «Niente, niente.»
A sorpresa appena due minuti dopo arrivò tra loro anche la nonna di Jeh, Kell osservandola da vicino non poté evitare di immaginarla dietro le rughe, era ovvio, da giovane doveva essere stata probabilmente più di una bella donna, sotto la faccia ora sottilmente grinzosa e i capelli bianchi stretti nell’acconciatura castigata c’era qualcosa di sofisticato e anomalo, regolare e armonioso, quell’aspetto di lei le piaceva.
«Jeh?» Lui la guardò interrogativo, era proprio di fianco a lei ma dal lato di sinistra, per vederla era costretto a girare il viso verso di lei, la cicatrice era tirata all’insù, accentuata da un’espressione curiosa; sua nonna era vecchia, se fosse morta, lui con chi sarebbe stato?
«Oltre tua nonna c’è qualcun altro della tua famiglia?»
Non si aspettava una domanda del genere, ma disse di si: «Lontano, però sì, ho i parenti nord, se lei dovesse...» Abbassò la voce per non farsi sentire: «Morire, io andrei a vivere con loro sicuramente, non ho nessun altro.»
Il modo in cui aveva pronunciato il verbo “morire” la colpì, non avrebbe neanche abbassato la voce se non fosse stato a pochi centimetri dalla diretta interessata, era un’idea che evidentemente aveva già preso in considerazione, se lei muore, Jeh se ne andrà dal Quattrocentoventisette, era solo questo che voleva sapere e aveva capito che era proprio così.
Si lasciò sfuggire uno sguardo apprensivo osservando la vecchietta, beh sembrava sana come un pesce.
La famiglia di Jeh da parte di sua madre era molto ricca, quando era successa la grande tragedia la nonna di Jeh aveva ottenuto la sua custodia ma mai era stato negato aiuto a lei o al nipote, quanto alla famiglia del padre, durante terapia di esposizione Jeh le aveva confessato altro, sua madre aveva sposato suo padre contro il volere della sua famiglia e lui le aveva sempre detto di non avere più nessuno.


«Vieni Kell?»
Prima di andarsene sua madre le chiese di accompagnarla all’uscita, lei voleva chiederle di portare Sam la prossima volta, era la sua sorellina, moriva dalla voglia di riabbracciarla, ma non ci riuscì, le mancava il coraggio, dicevano che aveva carattere, ma certe cose non riusciva a reggerle. Sam era il motivo per cui lei era lì, il motivo per cui camminava speditamente per la sala da pranzo in mezzo a quei tavoli di legno con lo sguardo basso per non fare troppo caso alla grandezza del posto.
«Ti trovo veramente bene.» Disse sua madre: «In tutta onestà ero preoccupata, non sapevo come avresti preso quello che è successo a quella ragazza, ne come te la stavi cavando a scuola o nei rapporti umani.» Sorrise alzando le sopracciglia radiosa: «Non ti ho mai visto così tranquilla in mezzo alla gente in vita mia, mai.» Kell annuì, rispetto a com’era ridotta prima, chiusa in casa, con i contatti sociali di un orso polare durante la stagione del letargo doveva esserci stato un bel cambiamento: «Si, sto meglio.» Il che voleva dire che non aveva più pensato al suicidio e sua madre lo capì: «Splendido, sapevo che ti saresti fatta valere, hai una tempra morale che fa spavento ragazza mia.» Commossa, le prese le spalle tra le mani e la fissò entusiasta, sembrava quasi ringiovanita, stare lontano da lei faceva quell’effetto evidentemente: «E tu come stai?»
«Benissimo, a casa ci manchi un sacco Kell, ma sto davvero bene, è così.» Avrebbe almeno potuto contenere la sua felicità, evidentemente credeva che erano stati soldi ben spesi, Kell sbuffò scostandosi dalla madre, non poteva dire di stare male, ma certamente quello che era davvero quel posto era un particolare che non sarebbe mai potuto passare in secondo piano, stava bene grazie a Victor, a Cecely, a Jeh, certamente non grazie alla Strins.
Ormai si trovavano sulla porta dell’istituto ma sua madre si fermò: «Kell, prima di andare... devo farti una domanda.»
«Okay.» Non le interessava, rispose senza pensarci avrebbe risposto volentieri a qualsiasi sua curiosità.
«E’ lui?» Lui?
«Lui chi?» Sua madre la guardò spazientita per la prima volta quella mattina: «Non fare la finta tonta.» Vedendo che l’espressione atterrita di Kell non cambiava sua madre decise di essere più chiara: «Il bambino con l’occhio di vetro.» 
Kell fissò il pavimento bianco cercando di contenersi, aveva capito perfettamente di che stava parlando e ora... doveva rispondere.
«E’ Jesse?»
Non aveva motivo di negare e doveva aspettarsi che lei non l’avesse dimenticato, da un lato le sarebbe piaciuto nasconderlo ma non poteva, avrebbe voluto darle motivo di pensare che Jeh fosse suo amico solo perché somigliava a qualcun altro, e non era assolutamente così.
«Sì.» 
Sua madre alzò gli occhi al cielo: «Com’è piccolo il mondo!  Ho visto quel bambino solo un paio di volte lo sai ma ho ripensato a lui all’istante, è difficile dimenticarlo...»
In passato gliel’aveva ripetuto spesso. «Direi impossibile.»
«E lui lo sa? Gliel’hai detto?»
«Io... non ancora.» 
Lei prese un bel respiro: «Beh, sono contenta per te, so quant’era importante, hai fatto la cosa giusta a parlargli, ma appunto per questo stammi a sentire, faresti meglio a non dirglielo. Lo faresti scappare, già non mi sembra molto... normale, non ti conviene proprio.»
Si sforzò di guardare da un’altra parte, quello si che era sgradevole, niente a che vedere con la mezzora precedente, quasi spregevole in realtà: «Va bene.» Altre due parole e l’avrebbe colpita, niente da aggiungere.
La abbracciò e quella volta Kell dovette trattenersi davvero per non spingerla via: «E’ come l’avevi immaginato?»
«No.» Rispose Kell, le disse che doveva andare via, che i suoi amici la stavano aspettando e alla fine aggiunse: «E’ meglio.» E non avrebbe saputo zittirla in modo migliore.


«Sei pronta?» Cecely le sorrise indirizzandola verso la porta di una delle aule del terzo piano, adibita ai colloqui con la polizia quel giorno: «Eccome.» Annuì prontamente.
Cominciò ancora prima di rendersene conto.
«Signorina Hall, lei è venuta qui senza richiesta, è interessante, crede di avere qualcosa di rilevante da comunicare ai fini dell’indagine?» La poliziotta, priva di qualsiasi sorriso di cortesia, teneva in mano un videoregistratore di quelli di una volta, Kell non si perse in chiacchiere.
«Sì, credo di avere un parere oggettivo della vicenda essendo entrata appena una settimana fa e ci sono delle cose nei fatti di due giorni fa che non mi convincono, sicuramente lo saprete già, ma forse è meglio ribadirlo.» Nel caso certe cose fossero state taciute.
«Parla pure liberamente.»
«Bene, l’altra notte è successo quello che sapete, Catherine si è buttata giù dal balcone di questo istituto.» «Esatto.» La poliziotta, capelli raccolti dentro il cappello la osservava interessata. «Ma ci sono delle cose che sono successe sicuramente prima di questo: vale a dire Catherine che apre la porta del balcone, porta da sempre sbarrata e chiusa a chiave, quindi la domanda è, come ha fatto?»
Vide la poliziotta annuire contrita: «E’ uno degli elementi più importanti, c’è una guardia notturna qui, lo sai?»
«Sì, avrebbe dovuto essere di guardia, anzi, era di guardia, ma non ha visto Catherine che apriva (con una chiave che lei non poteva avere) la porta del balcone.»
«E sappiamo perché.» Disse la poliziotta: «Si è addormentata.»
«E la chiave?» La poliziotta sospirò: «Dal mazzo di chiavi della guardia Patricks.»
Kell si sentiva già ribollire di rabbia, dovette mordersi l’interno della guancia per frenarsi: «Quindi gli credete.»
«No.» Disse lei: «Prendiamo in considerazione la cosa come dichiarazione ufficiale visto che nessuno ha visto niente.»
«Catherine non aveva motivi per suicidarsi, sarebbe uscita appena il giorno dopo, la sua vita aveva prospettive rosee.»
«E tu che ne sai in che stato era, non la conoscevi.»
«Lo so perché altrimenti non le avrebbero accordato il permesso per uscire da qui con mesi d’anticipo.»
«Questo è vero, ottima osservazione.» 
Non era del tutto la verità, ma in ogni caso avrebbe dovuto esserlo. «Adesso dimmi, secondo te già che sei la personalità oggettiva del giorno.» La prese in giro la poliziotta: «Pensi che qualcuno abbia spinto Catherine di sotto?»
«Può essere, sì.» Rifiutava di credere che la polizia non ci avesse pensato: «Ma non è questo il punto; per me la Patricks ha mentito, ha mentito per coprirsi e per coprire qualcuno. Se non è mai successo niente di grave qui dentro è merito della Patricks.»
«Okay, spiegati meglio.» Le chiese la poliziotta molto meno propensa a prenderla in giro. «La Patricks c’entra sicuramente qualcosa, non può non aver sentito niente, le nostre camere sono insonorizzate e mi dicono che non si è mai fatta problemi a svegliare buona parte dell'istituto al minimo rumore sospetto, era lì, ed è umanamente impossibile che non si sia accorta di niente.»
«Bene.» Disse: «Ora, altra domanda per te, qual è il motivo per cui la Patricks non può dire la verità sui fatti della scorsa notte se sa qualcosa?» 
Era facile: «E’ implicata o più semplicemente ha visto o sentito, per comodità è meglio per tutti che non venga fuori; e sappiamo tutti qui che viene pagata bei soldi.» Specificò: «Il problema è che non conviene a nessuno che l’istituto si faccia pubblicità attraverso delle indagini per omicidio.»
La poliziotta abbandonò la sua aria spavalda e si disse soddisfatta se Kell aveva detto tutto, sì, l’aveva detto, molto bene, in quel caso il suo contributo era stato assolutamente utile, una testimonianza seria in più non fa mai male, la ringraziavano davvero, eventualmente l’avrebbero anche potuta richiamare per un altro consulto, andava bene? Certamente.
«Ti avranno dato retta?» Le chiese Victor quella sera, Cecely avrebbe voluto prendere una boccata d’aria fuori dal portone dell’istituto ma era ancora sbarrato agli studenti, così, spazientiti si erano rifugiati in camera di Cecely.
La cosa era andata a favore di Kell, uscire per lei da agorafobica doc non era proprio l’ideale, troppa tensione accumulata l’avrebbe fatta scoppiare.
«Ha registrato tutto quello che ci siamo dette, mi sembrava che avessero già pensato a quello di cui parlavo io ma l’ho colpita verso la fine, il fatto che la Patricks mente, è sicuro, lo pensano anche loro, l’ho letto sulle loro facce.»
«Magari lo pensano davvero.» Disse Jeh: «Ma non illuderti, può voler dire il nulla.»
Cecely si portò il cuscino sopra la testa: «Domani non voglio andare a scuola.» Tipico di lei cambiare discorso. «Ci sei già.» Disse Victor, scherzando tristemente: «Io non voglio fare terapia.»
«Oh.» Kell si strinse le tempie con le mani esasperata e esausta, tanto valeva accontentare la sua amica: «Neanch’io, l’ultima volta che ho visto la Strins l’ho trattata malissimo.»
«Non è vero.» Disse Jeh aggrottando le sopracciglia, la cicatrice si increspò sul suo viso.
«No, tu non c’eri, sono andata da lei dopo la storia di Cely e sono stata piuttosto sgarbata credimi.»
«Perché?» La domanda di Jeh era innocente, Kell si diede della stupida, quella giornata si era quasi conclusa decentemente; e ora si ritrovava costretta a dirgli almeno un pezzo di verità:
«Voleva che facessi amicizia con Bernadette e Alice.»
«Mio Dio.» Jeh lasciò cadere la testa sul cuscino di Cecely: «Posso anche capire Bernadette che certamente non brilla per intelligenza, ma Alice, si capisce che non ti sopporta.» 
Era sorprendente come lui vivesse costantemente nel tentativo continuo di proteggersi dentro se stesso. Non parlare, non alzare lo sguardo, non farsi notare... 
Però quand’era con loro era completamente diverso, non si nascondeva, non ne aveva bisogno, poter vedere quella parte valeva centinaia di Bernadette e Alice.
Il collo tirava la cicatrice tagliente e si vedeva alla perfezione quanto più andava giù più diventava profonda. 
«Infatti, gliel’ho anche fatto presente.» Meglio non approfondire l’argomento.
Victor e Cecely non conoscevano bene le tematiche della H2, era comprensibile che fossero curiosi: «Perché, che cos’hai fatto a Alice?» Chiese Victor.
«Niente.» Disse Jeh per lei: «Ma ti pare.» Alzò le spalle senza tornare a guardare i ragazzi.
«Non sono io, è lei che è fissata con Jeh.»
«Oh!» L’espressione della ragazza lasciò bene intendere che avesse compreso bene la situazione: «Questo si era capito.» Disse Cecely ridendo accondiscendente: «All’inizio dell’anno faceva la sostenuta anche con me e visto che io lo ero naturalmente era un bel connubio.» Interrogò il diretto interessato: «E tu non ci pensi proprio a darle una chance eh?»
Jeh scosse lievemente la testa da sopra al cuscino, Kell era seduta vicino a lui e poteva vedere la sua espressione disgustata. Quasi le venne da ridere. «Ma stai scherzando? Ha chiaramente fatto credere a tutti di essere una pazza furiosa con tanto di visioni per attirare l’attenzione, i suoi sono ricchi sfondati e hanno sborsato per gli psicologi, la sua storia parla per lei, mi imbarazza persino mettermi nei suoi panni.»
«Hai ragione.» Disse Cecely, quasi come se avesse voluto che lui le rispondesse esattamente in quel modo: «Non ha nessun diritto su di te.» Jeh non sembrava affatto scosso, solamente irritato: «Certo che no, non mi conosce, non sa niente di me, e a me non interessa sapere niente di lei.»
Molto duro per uno che non ci ha neanche mai parlato intuì Kell alla svelta, forse era successo qualcosa tra quei due tempo addietro, avrebbe voluto chiedere, ma non ci riuscì.


Suonato il coprifuoco e salutati i ragazzi stava per sgusciare in camera sua quando si accorse di un particolare precedentemente rimosso: la porta del balcone, quella da cui Catherine era uscita per poi buttarsi (presumibilmente) di sotto, era sbarrata e completamente incelofanata e... non c’era la Patricks, ma un’altra persona, un uomo, piccolo e grassoccio con una specie di divisa blu notte, dalla sua postazione scriveva sul cellulare, tranquillo.
Prima di mettersi a letto Kell svuotò la busta che sua madre le aveva portato, ripose l’iPod in un cassetto della scrivania di legno, ordinò alla svelta i nuovi vestiti dentro l’armadio e poi... sul fondo c’era una scatoletta, la guardò insospettita, per aprirla per poco il contenuto non ricadde tutto a terra; rimase piacevolmente sorpresa, c’erano delle altre pasticche, perfettamente uguali alle precedenti, calmanti.
E ne avrebbe presto avuto bisogno, poteva starne certa.
Mise tutto nel porta pillole, l’aveva ancora attaccato al collo,
solo un paio di minuti dopo si rese conto di aver dimenticato di aver toccato qualcos’altro sul fondo della busta, qualcosa che precisamente era rimasto incastrato tra la parte ripiegata.
Tornò a frugare all’interno e subito scovò quello che cercava: la catenella argentate era libera da costrizioni ma... il porta pillole argenteo era ancora incastrato; lo strappò via fissandolo con un disprezzo tale da rischiare di svenire. Che cosa diavolo avrebbe dovuto farne secondo sua madre? Ne aveva già uno! Lo prese e lo gettò in uno dei cassetti del comodino, si sarebbe dovuta mettere a distribuire calmanti quando in quel dannato posto era severamente vietato prendere qualunque tipo di farmaci secondo lei...
Ci mancò poco che si mettesse a ringhiare. Non sapeva neanche come le era salita al cervello tutta quella rabbia e meno avrebbe pensato a quello che quel nuovo “regalo” significava, meglio sarebbe stata.
Sorprendentemente la stanchezza la travolse e prima di accorgersene Kell era già in balia del sonno più profondo da settimane; aveva già lasciato il mondo reale per passare a quello dei sogni, la luce insostituibile accesa e attenta a sorvegliarla.


Terapia di esposizione, la scuola, la lezione scostante di una professoressa che ti fa desiderare felicemente di non essere mai nata, tutto quello che prima le sembrava importante ovvio e materiale adesso non aveva più il senso di prima; era abituata a preoccuparsi di se stessa, a controllare se stessa, ma consolare gli altri, aiutare gli altri, era qualcosa che non aveva mai fatto prima, le serviva tempo per trovare la verità sepolta dentro di lei e il tempo per certe cose era finito.
La Strins non aveva dato prova di essere arrabbiata, ottima notizia.
«Sceglietevi un compagno.» Ancora prima di recepire il messaggio Kell si era già ritrovata a guardare Jeh.
In breve il solito cerchio che si formava durante le sedute di terapia si sciolse, la cosa le ricordava il giorno in cui aveva raccontato del suo rapimento, giorno che aveva segnato per sempre la sua permanenza al Quattrocentoventisette, lui era davanti a lei, i gomiti appoggiati sopra le ginocchia proprio come allora se non ricordava male.
Solo che le cose ora erano molto più familiari, non ci trovava niente di fastidioso o imbarazzante nella prospettiva di farsi una chiacchierata con Jeh, la cosa la rese felice.
«Sembra passata un’eternità dall’ultima seduta.» «Già.» Commentò lui alzando lievemente lo sguardo su di lei: «Spero non ci faccia fare qualcosa di pesante.»
La risposta arrivò all’istante: «Sapete che in questa classe non ci sono ragazzi con fobie derivanti da vezzi vero?»
Ci fu un coro di assenso, Kell l’aveva intuito ma essendo a conoscenza della verità... molti di loro erano lì per tutt’altro che un trauma del passato, la cosa la irritò, esattamente come stava irritando Jeh. Jeh lo odiava, odiava la truffa, la copertura, ma non disse niente e ascoltò.
«Oggi vi chiedo di riesumare un altro trauma del vostro passato.» Cominciò la professoressa, quel giorno la bombetta  era blu velluto: «Ma non uno qualsiasi, il secondo più forte dopo quello che vi siete raccontati la scorsa settimana.» Jeh le sorrise, le sopracciglia nere leggermente aggrottate.
Alice che si trovava proprio vicino alla professoressa le chiese tutta ansiosa: «Dobbiamo raccontarlo a tutti?»
La Strins scosse la testa sorridendo: «Solitamente il secondo trauma (se così vogliamo chiamarlo) è qualcosa di più intimo, vi ho lasciato scegliere apposta, così che vi sentiate più a vostro agio.»
Oh no. 
Una mano arrivò a toccare il porta pillole appeso al collo, la tentazione era fortissima, dopo tutto quello che aveva dovuto fare il giorno prima ora... ancora.
Dopo la morte di Catherine, il suo viso bellissimo violaceo e imbrattato di sangue sull’asfalto del cortile del Quattocentoventisette, dopo sua madre, la sua odiosa, falsa madre, dopo il colloquio, adesso questo.
Tutta la serenità raggiunta si infranse come niente.
Quasi le veniva da ridere, quando convivi con la paura per tutta la vita e accetti che ormai ti scorre nelle vene insieme al sangue ci fai l’abitudine, ma ricordare, raccontare, spiegare, dire la verità senza riserve era diverso, non poteva proteggersi, e quella era l’unica cosa che sapeva fare.
Kell prese un respiro profondo. Non c’era neanche bisogno di domandarselo, lo sapeva già, il suo secondo trauma? Era lì, davanti a lei, a non guardarla intenzionalmente, per lasciarle il tempo di pensare, era Jeh e doveva dirglielo.
«Vuoi che comincio io?» Gli chiese nervosamente, pregando che dicesse di no. 
Intelligente com’era, intuendo i fatti infatti Jeh disse di no: «Comincio io, tanto è una cosa che prima o poi mi avresti chiesto tu stessa, credimi.» Si fermò, si scrocchiò le mani. 
Lo sguardo era vacuo distante, iniziò a raccontare una storia che Kell aveva già immaginato, forse nel passato recente, o in quello lontano, questo non lo sapeva. 
«Quando avevo undici anni ho cominciato a muovere l’occhio di vetro, ero predisposto e finalmente le ferite si stavano rimarginando del tutto, la cicatrice aveva un aspetto meno...» Si guardò in giro, come se non trovasse la parola giusta: «Invadente?» 
Kell annuì, per incoraggiarlo: «Ho subito molti interventi alla cicatrice, mi sembrava ogni giorno meno profonda e ho pensato davvero che se ne sarebbe andata, mi dicevano che sarei stato normale, ed era quello che volevo sentirmi dire quindi mi andava bene.» Una breve risata di schermo, verso il mondo forse: «Ma non si tratta di questo, anche se è il filo conduttore che mi lega... all’altro difetto.» Alzò le spalle una mano gli sfiorò la cicatrice: «Visto che ogni giorno il mio occhio rispondeva sempre meglio alle sollecitazioni il medico ha pensato bene di dirmi che era possibile farmi avere un occhio di vetro perfettamente identico all’altro, grigio come il mio, diceva che non si sarebbe notato,  e diceva anche che un giorno quando la cicatrice se ne sarebbe andata nessuno avrebbe potuto indovinare cosa mi doveva essere successo. Diceva la verità, più o meno.» Jeh annuì a se stesso: «Così, col passare del tempo, mi ha convito che sarei tornato a essere normale, almeno fisicamente.» Prese un respiro profondo, era chiaro, glielo si poteva leggere in faccia, il ricordo di quelle parole lo faceva soffrire. «E io ero felice.» Si fermò di nuovo e abbassò lo sguardo: «Mai stato così felice.»
Quelle parole la graffiavano.
«E... e poi cos’è successo?» Sì, quello sguardo graffiava quanto la lama di un coltello a serramanico: «Il medico diceva la verità, potevo avere un occhio di vetro grigio come il mio, che sembrasse vero, era ed è ancora possibile.» Si interruppe, stava per dire la verità Kell lo sentì in ogni fibra della sua pelle.
Questa è un’orrenda verità.
«Mia nonna era ricca, davvero ricca, lo è ancora oggi, sapeva che sarei stato felice se mi avesse reso, almeno un po’ normale, lo sapeva te l’assicuro, anche se ero già cosciente che non potevo e non avrei mai potuto cancellare quello che era successo, sapeva che era la cosa più importante al mondo per me. Sapeva che da solo non avrei mai superato tutto questo ma nonostante tutto mi ha detto di no.» 
Kell non riuscì a guardarlo negli occhi, non poteva crederci, non riusciva a capire: «Ma perché?»
«Perché non devo nascondermi, perché sarebbe da codardi, perché devo provare a essere coraggioso almeno in questo, a tenermi la mia faccia così com’è incollata addosso in modo che tutti possano vedere con i propri occhi quello che mi è successo, diceva che non dovevo vergognarmi...» Sembrava quasi che il ricordo di quelle cose orribili e così dure lo divertisse: «Anche se questo significa quello che già sappiamo.» Lo disse come se fosse ovvio, scontato, semplice: «Nessuno si interessa davvero a me per quello che sono, credi che io abbia colpito Cecely con il mio temperamento?» Questa volta rise davvero, con i denti scoperti, avrebbe potuto colpire chiunque con una constatazione del genere, Jeh non immaginava quanto fosse vero e sincero, non si rendeva conto di come la verità feriva gli altri.
Feriva anche Kell perché si stava riferendo anche a lei, lo sapeva, non era stupida...
«Loro, tutti gli altri, vedono quello che sembro, uno sfregiato sociopatico senza un occhio che ha paura anche della sua ombra.» Smise di reggersi la faccia con le mani, si sollevò, ora la stava guardando: «E sai cos’è la cosa peggiore?» Kell scosse la testa, aveva un groppo in gola, non poteva parlare: «Beh, adesso per me è scontato, com’è scontato un male incurabile da cui è impossibile sfuggire, mi capisci no? L’ho accettato. La cosa peggiore è che è la verità.» 
Per qualche insensata ragione non riuscì a togliergli gli occhi di dosso, farlo sarebbe stato doloroso, non poté ne negare, ne rassicurare Jeh, non riuscì a dirgli che tutto quello che aveva detto non corrispondeva davvero alla verità, non alla sua.
Rise di nuovo: «Sono davvero uno sfregiato sociopatico senza un occhio che ha paura anche della sua ombra, e volevo che gli altri non potessero vederlo guardandomi, ma... come puoi vedere lei la pensava molto diversamente.» 
«Anch’io.» Riuscì miracolosamente a dire Kell ma Jeh non era d’accordo: «No Kell, tu puoi nasconderti e ci riesci anche molto bene, io invece no, me l’hanno impedito.»
Era così doloroso...
Un altro dei traumi di Jeh, adesso lo sapeva anche lei.
Si guardò intorno, Alice e Bernadette li stavano scrutando da un po’ e lei, cosciente che fossero troppo distanti fra loro perché potessero sentire le parole di Jeh non si era sentita così preoccupata, ma ora, doveva parlare lei, e lei avrebbe avuto una reazione fisica, per non dire che sarebbe potuta scappare via...
«Te la senti?» Le chiese Jeh: «E’ una cosa così brutta?»
«No.» Rispose subito ma poi ci ripensò: «Si.»
Si sentiva così incordata, come se avesse avuto mani e piedi legati da una pesantissima catena, pronta a stridere a ogni suo singolo movimento, che la costringeva a stare seduta su quella sedia. Non poteva alzarsi, non poteva scappare, non poteva nascondersi, se non fossero stati in balia di tutte quelle persone e persino della Strins sarebbe riuscita a contenersi ma così...
«Avevo sette anni, e per la prima volta da quand’ero stata rapita, sono entrata a scuola, a metà anno.» Evitò di specificare quando esattamente, altrimenti lui avrebbe intuito subito un particolare importantissimo...
«Riesci a immaginare di che scuola elementare sto parlando?»
Lasciandosi alle spalle il primo ostacolo Kell sorrise, si rimboccò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Vide Jeh scuotere la testa incredulo: «Oh mio dio.» Gli occhi sbarrati di chi ha già capito tutto: «No. Non dirmi che...»
«Te lo dico eccome.» 
Parlava quella forza sfiancante e malevola nascosta dentro di lei non c’era altra spiegazione. 
«Ma non devi parlare di me, non sono io, vero?»  
Non sono il tuo trauma. 
Lesse sul suo viso che voleva sentirsi dire il contrario, che non era così, che quello era successo dopo, che non c’entrava niente, ma Kell non poteva farlo, ormai non sarebbe tornata indietro anche se voleva dire farsi del male o fargli del male.
Sapeva già che non sarebbe riuscita a descrivere tutto quello che aveva significato per quella bambina di sette anni che sarebbe rimasta per sempre, forse non lo sapeva neanche più. ma ci provò lo stesso, con tutte le sue forze, convinta della verità: «Invece si.»

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** 9. Certezza ***




- minuscolo spazio autrice - 
Questo capitolo qui, a parte alcune sconcertanti rivelazioni che vivrete qui di seguito è il classico capitolo di stallo in cui gli eventi si schiariscono e si muovono per come l'ho vissuta io, praticamente da soli. Ringrazio di cuore chi ha recensito l'ultimo capitolo, quella ragazzaccia di Mujmao e naturalmente NikBok, sorella di mille pragmatiche avventure virtuali (come direbbe qualcuno, no, non tu Nicla) beh, che dire vi lascio al capitolo, e poi vi sfido, avevate capito cosa nascondeva (taanto accuratamente) Kell riguardo Jeh? Leggete e scopritelo.










9. Certezza


Fece proprio come Jeh con la sua cicatrice, una mano arrivò meccanicamente a toccare il porta pillole senza che lei avesse neanche lontanamente pensato di farlo. Era la soluzione, la tirò bruscamente facendosi forza guardando in faccia quello che aveva cercato di raggiungere un tempo, con una mente diversa, senza mai riuscirci.
«Stiamo parlando di dieci anni fa’.» Disse Jeh scuotendo la testa: «Se non avessi questa faccia non ti crederei anche con tutte le prove del mondo.»
«Ma ce l’hai.» Kell alzò le spalle in segno di resa: «E ti avrei riconosciuto anche se avessi avuto due occhi grigi e non avessi avuto la cicatrice.» Stava per dire qualcosa, forse che non era così, ma Kell lo interruppe: «Per me non è facile quindi ti prego, lasciami spiegare.»
E lui che credeva ancora che... 
ah, ma che lo credesse.
«Ti ricordi di com’eri a quell’età?» Jeh annuì, assorto, una volta cominciata non avrebbe smesso, Kell lo sapeva e sperò che alla fine Jeh non ne fosse deluso.
«Per essere un bambino eri un caso a dir poco particolare. Eri cupo e malinconico è un eufemismo, con la testa sempre china verso terra. Mi sono accorta di te subito perché i bambini non sono così.» Prese ancora un respiro: «Mi chiedevo come facessi a andare in giro in quel modo, come... ripiegato, senza sbattere da nessuna parte. Ti ho notato perché avevi lo sguardo perso nel vuoto, costantemente, pensavi così intensamente che certe volte sono arrivata a credere che non fossi neanche più su questo pianeta, eri lontano da tutti, mi chiedevo dove fossi e mi chiedevo perché per tutti gli altri sembravi invisibile.» 
Jeh aveva lo sguardo basso, quel discorso era tremendamente invasivo per lui perché non stava parlando di lei, non ancora e non aveva ancora detto la cosa più importante.
«La prima volta che ho parlato di te alla mia psicologa le ho detto che pensavo che ci fosse un bambino invisibile nella mia scuola.» A Kell venne da ridere, a Jeh no, perché aveva capito.
«Lei mi diceva ogni volta, ad ogni seduta che dovevo andare a parlarti, mi avrebbe aiutato e forse avrebbe aiutato anche te, e io ogni volta le promettevo che l’avrei fatto e ogni volta pensavo che avesse ragione, che in qualche modo io dovessi aiutarti, lo penso ancora, avrei dovuto parlarti... ma poi quando ti guardavo da lontano con la testa bassa mi rendevo conto di qualcosa: è ovvio, ora che ci ripenso, mi mancava il coraggio, quella era l’unica cosa che non avevo, riguardo te ero...» Non sapeva neanche come spiegarlo senza usare termini troppo forti, non voleva dire troppo, ma neanche troppo poco e lui se ne stava con la testa bassa, abbastanza per non farsi guardare e poi per fortuna le parole tornarono e Kell continuò a raccontare, questa volta senza demordere: «Dopo il rapimento tu eri un chiodo fisso, il mio unico chiodo fisso, l’idea che avrei davvero dovuto parlati mi tormentava perché sentivo che era l’unica cosa che volevo.» Rise sommessamente: «Ti sembrerà assurdo, fissarsi così, con un bambino visto a scuola di sfuggita ogni giorno, senza sapere neanche di che colore sono i suoi occhi, non sapevo neanche il tuo nome.» 
Non disse niente e non alzò neanche lo sguardo, neanche quella volta.
«Comunque, un giorno sono arrivata a scuola convinta che ci sarei riuscita. La psicologa...» Rise ancora, più per farsi coraggio che per reale divertimento: «Mi aveva caricata tantissimo, dicendomi tutto quello che volevo sentirmi dire, cercare aiuto, dare aiuto, io volevo aiutarti, avevo l’età che avevo ma potevo sempre tentare, ero una bambina ma tu eri un bambino quindi ci siamo dette che potevo farlo davvero...»
«E...» La voce di Jeh era rotta: «E poi?»
«Quel giorno non sei venuto.» 
Il ricordo di quella delusione, di quel presentimento, il ricordo di quei giorni, di tutti quei giorni.
«E neanche il giorno dopo, e neanche il giorno dopo ancora, e neanche quello dopo ancora. 
Fino a quando un giorno sono andata a scuola e...» Kell si bloccò le lacrime con le mani, spazzandole via insieme a quello che disse: «Ho pensato che non saresti più tornato.»
Odiava il sentimentalismo drammatico, con tutta l’anima ma non aveva mai pensato a un modo differente di raccontare a Jeh la storia della sua conoscenza, non aveva mai pensato di poterlo fare a dir la verità.
E ora, stava per confermarlo, stava per dirgli la verità, e che avrebbe voluto dire la verità? Che lei non l’aveva visto come si vedeva lui? Si sarebbe ricreduto sull’impressione che faceva sulla gente? Probabilmente no, o comunque non lo sapeva, ma la disse lo stesso.
Ho pensato davvero che non saresti più tornato.
«Ma mi sbagliavo.»
Fermare le lacrime a quel punto non era possibile. Preferì cercare di tenere almeno la voce ferma, non troppo tremolante con scarsi risultati, togliendosi dalle guance le lacrime nel momento stesso in cui uscivano dagli occhi, guardando Jeh chino su se stesso come un tempo, il pensiero di quei momenti, di quegli sguardi persi nel nulla fermi ancora dentro di lui a sovrastare anche la sua volontà di smettere una buona volta di pensare, fu quello che la spinse ad andare avanti.
«Sei tornato, ed eri diverso, così diverso da essere spezzato. Sai com’eri, come una farfalla che guarda più lontano di quello che può a cui hanno strappato a morsi le ali.» 
L’immagine del suo viso frantumato di allora dietro agli occhi.
A quel punto e solo a quel punto Jeh la guardò sollevando lo sguardo da terra, era costernato, l’occhio bianco macchiato di sangue sul bordo dell’attaccatura delle ciglia inferiori.
«Tu... dici la verità.» 
Era un dato di fatto, una constatazione non glielo stava chiedevo sebbene a mala pena riuscisse a pensare che fosse possibile. «So già perché non sei venuta a parlarmi dopo...» Annuì a se stesso ma Kell lo disse, doveva farlo, doveva dire tutto: «La mia psicologa, quando le ho detto quello che ti era successo mi ha detto di non...» Non riuscì a finire la frase, non ci riuscì, era così difficile spiegarlo, dire perché dopo non aveva potuto farlo più così semplicemente; Jeh forse lo intuì.
«Mi hai visto prima, prima di questo.» Con una mano si sfiorò la  guancia su cui la cicatrice bianca era profonda, quasi quanto sotto il collo. 
«Io... non l’ho mai dimenticato, tu sei una di quelle cose che non posso dimenticare.» Ricacciò indietro le lacrime con forza, lasciandosene sfuggire una, e pensare che adesso non riusciva a trattenersi quando voleva dire qualcosa. 
«In te vedevo la mia speranza, sbiadita, imperfetta, lugubre. Non so come dirtelo, era tutte queste cose, era immotivata, era folle, non aveva neanche molto senso ma era pur sempre speranza.» Fece un respiro per prendere fiato: «Io... non sono come Cecely, che l’ha vista in Catherine perché lei era quello che lei voleva essere, non sono quel tipo di persona, non riesco a pensare mai che le cose andranno bene, a stento riesco a crederci quando succede, e non mi piace la perfezione.» Si tolse la lacrima dalla guancia lasciandone andare un’altra: «Quella speranza... l’ho vista in quel bambino, l’ho vista in te perché tu eri esattamente come me.» 
La faccia di Jeh, il modo in cui lui la guardò dopo quella sconcertante assurda confessione valeva quei dieci anni passati a aspettare?
No. 
Assolutamente no. 
Ne valeva molti di più.


Suonò la campanella e loro dovettero alzarsi in piedi, essere così distante dal suolo disorientò Kell, per poco non cadde a terra, percorse al fianco di Jeh il cammino verso l’uscita.
Vedere Alice e Bernadette lanciare loro quegli sguardi sospettosi però la fece sbottare; prese per la manica della maglia del ragazzo con l’occhio di vetro e uscì defilata fuori dall’aula, la panca davanti alla classe di Cecely e Victor li stava aspettando, con che faccia avrebbe detto loro che stava bene... ancora non lo sapeva.
Lui era di nuovo ricurvo e sconsolato in cerca di parole sensate: «Mi dispiace.» Disse. 
Kell non capì: «Tu non... non hai mai fatto niente di sbagliato, non è colpa tua.» 
E’ colpa mia.
«No Kell... per quello che ho detto prima, ti ho accusato di avermi notato solo perché sono così, lo so che l’hai pensato, era quello che intendevo dire.» Non staccava gli occhi dalla porta della H3.
«Non potevi saperloNon seppe neanche con che coraggio, arrivò con la mano a toccare la sua spalla, la strinse, era stata così lontana da lui da credere che non appartenessero più allo stesso mondo, col tempo, aveva sempre pensato a Jeh come a qualcosa di evanescente, un ricordo lontano, come se si trattasse di un vecchissimo sogno o le spoglie di un’altra vita, era stato a stento reale, forse se l’era semplicemente immaginato si diceva allora e ora... ora lo stava toccando.
«Non potevo saperlo ma mi dispiace lo stesso, tantissimo, se avessi saputo prima tutto questo mi sarei comportato diversamente con te, è così assurdo, io ero davvero invisibile, nessuno mi vedeva, ma tu... tu mia hai visto.>
Ancora, con un coraggio che evidentemente in tutto quel tempo aveva tenuto sepolto dentro di lei arrivò a toccare l’altra spalla di Jeh, quella più distante: «Lo sai...» Si schiarì la voce: «Da cosa ti ho riconosciuto?»
Jeh scoppiò a ridere girandosi per guardarla con l’occhio vivo,  si avvicinò un altro po’ tirandogli la spalla cercando un appiglio.
Disse semplicemente: «Non ho notato subito che avevi l’occhio di vetro, ma il modo in cui tenevi la testa bassa... proprio come quando avevi sette anni, come se volessi nasconderti dentro di te... sono passati dieci anni è vero ma in un attimo tu eri la persona che avevo perso.» Jeh rise annuendo: «Vorrei riuscire a ricordarmi di te, devo rifletterci bene, sento che c’è qualcosa che ho...»
La porta della H3 si aprì, gli sguardi attoniti di Cecely e Victor la stupirono.


Riuscire lei stessa a dire la verità anche a loro due non era un’idea concepibile, non in quel momento, sebbene avesse detto a Jeh in passato di non voler condividere la cosa con gli altri si lasciò convincere. Probabilmente se le avessero detto di trafugare una torta dalle dispense avrebbe tentato nonostante le scarse probabilità di successo. 
«Non c’è motivo di nasconderlo.» Le aveva detto Jeh tranquillamente: «Non preoccuparti. Dirò solo il minimo indispensabile...» E Kell ebbe il presentimento forte che stava per aggiungere per adesso.
Le facce attonite di Cecely e Victor erano qualcosa di indimenticabile, a Kell venne da ridere al solo pensiero ripensandoci, seppe all’istante che quell’immagine non le sarebbe passata di mente facilmente. 
Li guardavano come se fosse saltata all’occhio una qualche connessione mentale tra loro. «Voi due, tu, Kell ti ha... no, non ci posso credere.» Sussurrò Victor con uno sguardo allucinato; Cecely dal canto suo amplificò al mille per mille i sensi di colpa che aveva già per averla rifiutata dalla Dorles: «Tu non gliel’avevi ancora detto! Se non avessi ritrattato... ho fatto un macello.» «E’ vero.» Ammise Kell semplicemente: «Però, hai rimediato.» 
Non le andava proprio di ripensare a quei momenti d’incertezza, quando non sapeva se di nuovo non avrebbe potuto dire a Jeh la verità per mancanza di possibilità o di coraggio. 
Kell non avrebbe voluto che succedesse ma Jeh e Victor le lasciarono sole, Cecely pareva davvero traumatizzata, non ai livelli di Jeh ovviamente, ma faceva impressione. Le sopracciglia accartocciate, cruccia come non l’aveva mai vista, non riusciva a spiegarsi come avesse fatto a non accorgersene.
Adesso era andata, era una faccenda chiusa, chiusa, a Kell venne da ridere, non sarebbe mai stata davvero chiusa.
«Devi solo smetterla di pensarci, smettila di pensare a tutto.» Le posò una mano sulla spalla dandole quel suggerimento spassionato dalla regina delle pensatrici.
A tutto quello che è successo, a quello che succederà, a quello che senti dentro di te, tanto non cambierà niente, torturarti non cambia le cose, non ti rincuora non ti salva non ti placa non ti lascia lo spazio che vorresti, sei ristretta tra due muri che si stringono sempre di più, è così fino a quando non riesci più neanche a respirare e...
«E questa è una frase che ti ripeti continuamente Kell.» Le disse Cecely sorridendo stentatamente con quel suo divertente fare saccente: «Sì.» Ammise lei.
Quant’era vero! 
E’ così, per questo, per questa stessa realtà quando senti il panico che ti sale in gola e non riesci neanche più a parlare, in passato aveva trovato un fascino malvagio in quegli attimi, la perdita di controllo, la mancanza di coscienza, non riuscire neanche più a pensare: «Ti è mai capitato?» Le chiese.
«Sì.» Rispose lei: «Mi è capitato, e vorrei che non fosse capitato anche a te.» Kell scosse la testa, e come avrebbe potuto non capitarle? 
Stava bene, se lo ripeteva dieci volte al minuto per ricordarselo. Per lei sarebbe andata così allo stesso modo, tutto quello che aveva fatto nella sua vita, ogni istante l’aveva portata alla porta chiusa di camera di Sam, la maniglia fredda e il brivido lungo la schiena, poi la finestra di camera sua.
Destino contro destino? Cadere, morire, vivere, sopravvivere.
Arrivare lì, al Quattrocentoventisette, nel mezzo di un uragano, trovare il fantasma di un bambino della sua infanzia.
La speranza che aveva sepolto che grattava voracemente contro la sua anima per ribellarsi, combattere, fare quello che doveva. 


Come faceva a non essere grata di essere viva, come faceva a smettere di sperare dopo quello che era successo, non trovò risposta, non la trovò perché non c’è n’era una.
Jeh stava mettendo in ordine i libri, prendendo quelli per l’ora dopo, la lezione di psicologia con la professoressa Narell, se mai avessero parlato del destino... Kell si sarebbe mangiata le pellicine delle dita per tutta l’ora, pregando di non sapere che cosa dire, perché sapeva fin troppo bene che se l’avesse saputo l’avrebbe detto, persino ad alta voce davanti a tutti.
«Ma che fine avrà fatto Emeric?» Bernadette dal banco davanti al loro si sporgeva su quello di Alice: «Non si vede più.» «Già.» Disse Alice scoccando un’occhiata di sbieco a Cecely, che ovviamente stava ascoltando: «Rang vaga per l’istituto con un‘aria talmente soddisfatta che oserei dire che ha già messo a suo favore i fatti. E poi, vogliamo parlare della povera Nikki? L’hanno tenuta all’interrogatorio per più di quaranta minuti, mentre Emeric non ci è neanche andato, non ti sembra assurdo? E’ lui che aveva litigato con Catherine...» 
Kell era già saltata alle sue considerazioni, Nikki, come aveva saputo in seguito, era stata la migliore amica di Catherine nonché colei che aveva cercato di separarla da Emeric durante la sceneggiata in sala di proiezione. 
La ragazza con i capelli rossi, tutto sommato se era la sua migliore amica e se Catherine avesse avuto intenzione di uccidersi avrebbe dovuto aver un qualche tipo di sospetto, era comprensibile che la polizia l’avesse trattenuta a lungo.
«Ma perché non hanno ancora interrogato Emeric?» Saltò su Victor a bassa voce da di fianco a Jeh: «Non so, ma è assurdo, potrà essere sconvolto quanto vuoi, va bene, ma non può non essere interrogato, è coinvolto più di Nikki per certi versi.» Il ragazzo con l’occhio di vetro concordò fissando il suo libro di psicologia. «Beh, magari l’hanno fatto ma noi non lo sappiamo, sta alla polizia essere discreti o no...»
«Ma smettetela!» Sbottò la professoressa Narell entrando in classe: «Possibile che non siate in grado di parlare d’altro? E’ tutta la settimana che va avanti in questo modo! Sì! Nikki Dason è stata interrogata dalla polizia. Si! Emeric Allord non sta venendo a lezione e non ci verrà per un po’, piantatela di fare le civette pettegole voi due!» 
Bernadette e Alice ammutolirono all’istante davanti al tono perentorio dell'insegnante, avevano finito per alzare troppo il tono di voce. «Silenzio ragazzi e niente scuse. Oggi parliamo di schizofrenia, aprite i quaderni e prestate molta attenzione alla lezione, inserirò quest’argomento nel prossimo compito in classe, è chiaro?»
Rispose un tono sommesso d’assenso.
Era tutta la settimana che aspettavano che qualcuno dei professori parlasse di quello che era successo, invece, come volevasi dimostrare oramai Catherine era argomento tabù e non solo a lezione, anche a terapia.
Se solo le acque si fossero smosse... Kell non riusciva a demordere, sarebbe stata una liberazione.
Parlare di schizofrenia non era d’aiuto, la maggior parte di loro era chiaramente fobica solo per inscritto e lei si mangiava le unghie al pensiero di cosa fosse successo davvero quella notte.
E sarebbe riuscita a scoprirlo, doveva dare un senso a tutto quello che stava succedendo nel suo cervello, continuare a cercare una risposta era la cosa più giusta.


La professoressa Strins li stava salutando, Kell trattenne Jeh: «Andiamo a parlarle, proviamoci.»
«Ma che vuoi che ci dica?» Fece Jeh tirandola per il braccio, con l’intenzione di andare verso l’uscita.
«Non lo so, ma voglio metterla alla prova.»
Jeh scosse la testa spazientito: «Come vuoi.» Si lasciò dissuadere ad andare dalla Strins: «Ma non si può mai sapere, attenta a quello che dici.»
«Bene, andiamo.»
Se c’era una cosa che non poteva prevedere era proprio la reazione della professoressa nel vederli arrivare: «Kellan! Mi stavo completamente dimenticando.»
Jeh al suo fianco parve piuttosto allarmato. «Ho saputo che sei andata a parlare con la polizia spontaneamente.» Chissà come l’aveva saputo, si chiese Kell corrucciata: «Sì, è così.»
«Come mai? Credi di poter essere utile alle indagini?»
La Strins sembrava quasi spaurita: «Sono qui da appena due settimane, ho pensato di poter fornire un parere oggettivo.»
La Strins assunse un cipiglio più severo: «Dopo tutto quello che ti avranno detto non so quanto tu possa essere oggettiva.»
Kell rabbrividì, che si stesse riferendo alla verità sul Quattrocentoventisette? «Io credo di esserlo.»
La donna sospirò: «Ma non farti...» Poi guardò Jeh e aggiunse: «Non fatevi venire strane idee, quello che è successo è una terribile disgrazia.» 
«O qualcos’altro.» Sussurrò Kell spazientita attendendo una sua reazione, magari sperava addirittura che le avrebbe tirato il cappello addosso, chissà, purché facesse qualcosa.
La Strins afferrò le sue parole: «Proprio di questo stavo parlando. Non ti hanno parlato chiaramente durante l’interrogatorio? Catherine Yeferson si è uccisa.»
«E come ha fatto ad aprire la porta del balcone chiusa a chiave dall’interno?» 
Ogni volta che rispondeva svogliatamente a una professoressa nel Quattrocentoventisette si aspettava che questa le saltasse al collo e puntualmente questa non faceva niente, anzi, rimaneva calma: «Te l’avranno detto.»
Kell annuì: «Certo, dicono che la sorvegliante Patricks si è addormentata.» «Esatto!» Fece la Strins alzando le braccia al cielo: «E’ esattamente così, Catherine le ha tolto le chiavi da sotto gli occhi, non c’è niente di più.»
Non riusciva a capire perché si stesse comportando in quel modo, perché le interessava il suo parere, cercava di farle cambiare idea, la cosa la faceva persino arrabbiare pareva. La polizia non si sarebbe fatta degli scrupoli a chiudere il caso a causa di una studentessa di un istituto post psichiatrico con qualche grillo per la testa, no?
«E’ impossibile.» Disse Jeh dal suo fianco: «Non le metteva mai sulla scrivania, le portava in tasca e in due anni di servizio non si è mai addormentata, ha sempre beccato, o soccorso tutti. 
E’ la miglior sorvegliante notturna di tutto il paese diceva Rang durante il suo discorso all’inizio anno, almeno riguardo lei diceva la verità, per questo tutti la temevano.»
Aveva parlato. Davanti alla Strins come se fosse assolutamente normale, per difenderla. Ora si, Kell capì all’istante perché alla Strins interessava così tanto farle cambiare parere.
Era ovvio, scontato. 
«Jeh ha ragione.»
C’erano altre persone che la pensavano come Kell, anche Jesse, il ragazzo glossofobico e mezzo muto del posto affianco al suo aveva difeso la sua opinione, finché era in tempo le conveniva schiacciare quella piccola convinzione perché Catherine Yeferson sfortunatamente si era uccisa, e non era colpa di nessuno...
La Strins alzò le spalle: «Parere soggettivo Jesse.»
Kell scosse la testa: «No, parere oggettivo.» La rabbia le ribolliva dentro, si sentiva tradita: «E’ un dato di fatto.»
«No, non lo è.» Disse lei sorridendo: «E vi conviene convincervene.»
«Ci conviene?» Ripeté Kell mordendosi l’angolo interno della bocca, era... era una minaccia?
Jeh le prese un braccio: «Kell, vieni, andiamo.»
«Ecco, meglio che andiate, non vi conviene affatto comportarvi in questo modo.»
Kell respinse con forza l’istinto primordiale di ringhiarle addosso, la stretta di Jeh intorno al suo braccio si fece più forte; la girò e stavano per muovere i primi passi verso l’uscita quando la professoressa Strins li fermò parandosi davanti a loro.
«Ah, dimenticavo, vi trovo parecchio combattivi, vista la situazione direi che è il periodo adatto... comincerete terapia di esposizione per acluofobia, insieme quanto prima.»
Insieme. L’unica cosa che Kell afferrò del concetto.
Perlomeno, durante la punizione, perché di quello si trattava sarebbe stata insieme a Jeh, non le riusciva innaturale stare bene al buio quand’era in compagnia di qualcun altro, che conosceva bene. 
Però Kell sapeva che doveva preoccuparsi, la Strins li avrebbe costretti a convincersi che non sarebbe convenuto loro, stare dalla parte sbagliata.


«CHE COSA?» Urlò Cecely spalancando gli occhi verde muschio, la prese per un braccio trascinandola in un angolo del corridoio bianco.
«E’ troppo presto, tu non sei pronta!»
«Pare che dovrò esserlo.» Scosse la testa.
«Ma Kell, quella lo fa apposta, per te sarà durissima, non hai visto Jeh in che condizioni...» Poi si bloccò inspirando ansiosa: «Vi ha... minacciato te ne rendi conto?»
«Senti, qui c’è chiaramente qualcuno che cerca di manipolare la verità, Catherine non si è uccisa! E tu lo sai. Tutti qui dentro parlano di morte, non di suicidio.» 
Cecely non aveva ancora afferrato, le serviva un ulteriore conferma da parte sua: «Per questo non mi importa delle sue minacce, del buio e di tutto il resto, dobbiamo fare qualcosa.»
Gli occhi di Cecely si chiusero scostandosi dai suoi, la sua ommetafobia ancora seppelliva l’ascia di guerra: «E cosa? Dimmelo Kell!»
Kell scosse la testa, forse non lo sapeva neanche lei.
Forse non avrebbe potuto fare niente in tutti i casi, forse Catherine si era davvero uccisa buttandosi dall’ultimo piano del Quattrocentoventisette.
Ma se se ne fosse rimasta con le mani in mano non avrebbe concluso niente; è tutta la vita che me ne sto così senza fare niente.
Scoccò un’occhiata a Jeh che la guardava insieme a Victor un tantino allarmato, aveva chiuso una parte del quadro. Alla fine aveva detto la verità a Jeh ma non si sentiva ancora in pace con se stessa, non le andava bene comunque. 
«Voglio fare quello che la Strins teme più di ogni altra cosa.»


«E cioè?»
Kell alzò un sopracciglio contrita, decisione giusta o sbagliata? Sarebbe stata capace di farlo davvero? Probabilmente no ma... Jeh la guardava speranzoso: «Cely, noi non siamo gli unici che pensano che Catherine non si sia uccisa. Dobbiamo solo trovare gli altri.» La ragazza non riusciva quasi a credere alle sue orecchie: «Dobbiamo?»
Victor si avvicinò e le scompigliò i capelli corti sulla testa senza neanche sorridere un po’, non era mai stato così serio: «E’ tutta la vita che scappiamo dalla verità. Per una volta potremmo riuscire a trovarla; noi la aiuteremo.»


Allungava una mano in avanti, quasi riusciva a toccare con le dita la schiena di Catherine, gli occhi verdi spalancati pieni di dolorose lacrime trasparenti; Kell riusciva a ritrovare la scena davanti ai suoi occhi ma, c’era qualcosa che non andava...
Era sceso finalmente, ma Emeric non sorrideva più.
Pareva... morente.
Nikki la ragazza con i capelli rossi stava al suo fianco, ogni tanto gli metteva il braccio attorno al collo e lo stringeva, sussurrando parole al suo orecchio che nessuno eccetto loro due potevano sentire.
Cecely li guardava paralizzata, senza Catherine le sembravano due stecche di ferro senza l’aggancio, non sapeva perché le era venuto da pensare proprio al ferro, ma forse era il metallo più adatto a loro; le sbarre che sbarrano le finestre del Quattrocentoventisette erano di ferro.
Nikki. «Jeh?» «Mh?» Alzò gli occhi dai compiti di lettere e la guardò spaesato, era pomeriggio inoltrato, e mentre Kell rifletteva gli altri tre cercavano di studiare.
«Nikki. Ti ricordi di lei, quando Catherine è caduta?»
«No.» Disse semplicemente, e la guardò come se avesse già afferrato ciò a cui lei stava pensando: «Non c’era sotto.»
«Non puoi esserne certo.» Disse Cecely dall’altro lato del tavolo, era chiaramente irritata delle insinuazioni che stavano facendo. «Tecnicamente potrei.» Ribatté Jeh: «Io e Kell siamo rimasti fuori per almeno un paio di minuti, prima che lei mi trascinasse via, ho visto tutti quelli che c’erano.» Per poco non le venne da ridere, certo, Jeh in quei momenti era stato praticamente un pezzo di carne senza spirito ma... lo era solo sembrato probabilmente essere bloccati non vuol dire non riuscire neanche a vedere, anzi.
«Non c’era fuori, magari era dentro.»
Jeh guardò Kell come se avesse appena colto un passaggio nascosto della sua frase: «Se la tua migliore amica si era appena schiantata sull’asfalto della scuola, per quale motivo sei da un’altra parte. Perché non la stai piangendo con Emeric?»
Cecely alzò gli occhi al cielo lasciando lo sguardo vagare fino al ragazzo con gli occhi verdi e alle unghia smaltate e appuntite di Nikki che gli artigliavano la schiena.
«D’accordo, anch’io non l’ho vista quella notte ma non significa niente, potrebbe essere rimasta sopra.»
«Non ha nessuna fobia grave Cecely...» Disse Victor scoccandole un’occhiataccia: «Guardala, rispetto a Emeric sta benissimo, se tu non l’hai vista significa che non c’era davvero.»
Cecely si rese conto solo in quel momento di quello che aveva appena combinato: «Stai dicendo che c’entra qualcosa?»
«No, mi sto facendo delle domande.»
«Sei troppo prevenuta.» Intervenne Kell bloccando la discussione dei due sul nascere: «Dobbiamo cercare di capire su cosa è stato mentito, e soprattutto dobbiamo capire perché, probabilmente Nikki ha un motivo valido per cui non era presente ma in effetti non c’era. Dobbiamo tenerlo presente....»
Un minuto dopo Kell avrebbe dovuto desiderare di non aver mai detto quelle parole, Cecely poteva sopportare tutto, ma non i suoi amici che additavano gli eroi.


Un discorso; il dirigente Rang era seduto al tavolo dei ragazzi e li guardava cruccio, Kell si chiese cosa sarebbe stato detto e soprattutto se lui lo sapeva già, ma doveva essere così per forza era impossibile che qualcosa passasse sotto il suo naso senza che lui se ne accorgesse. Desiderò sentire Nikki dire qualcosa di scioccante, qualcosa sulla verità... 
Ottenne praticamente l’opposto.
«Io...» Incominciò Nikki, Emeric al suo fianco lo sguardo spento perso nel vuoto, probabilmente non si era neanche pettinato, Kell non l’aveva mai visto così trascurato.
A suo dispetto, la ragazza con i capelli rossi lisci e lo sguardo fermo era ineccepibilmente adornata persino da un’ombra di mascara sugli occhi, pronta a parlare, aveva l’aria di una che sa che cosa dire: 
«Voglio dire a tutti voi qualcosa.»
La mano di Cecely sopra il tavolo tramava impercettibilmente.
Rang, dietro i suoi occhiali dorati osservava Nikki soddisfatto.
«Questo, è il momento del dolore, l’unico momento in cui per tutti noi sarà lecito soffrire. Forse non ci permetteranno neanche di farlo, viviamo in questo posto e non ci sarà occasione più avanti, accerchiati da psicologici di ogni tipo, per il dolore. 
Loro sono qui per farci stare bene; ma adesso possiamo soffrire.» Mentre la ragazza parlava non riuscì a non dare una strana impressione a Kell, come di qualcuno che sta semplicemente temporeggiando. «Tutti noi amavamo Catherine, lei...» Esitò un secondo, a Jeh sfuggì di mano la penna nera: «Lei era un punto di riferimento per molti di noi.» Cecely aggrottò le sopracciglia volutamente, cercando di nascondere la smorfia convulsa che aveva assunto il suo viso: «Adesso lei non è più qui, lei è la nostra ferita, la ferita di tutti.»
Lo seppe in quello stesso istante, guardando Nikki che parlava convulsamente senza mai arrivare a quello che realmente voleva dire: Emeric non avrebbe detto niente, sarebbe rimasto zitto al suo fianco, a fissare il pavimento, pensando logorandosi di senso di colpa al giorno in cui aveva calpestato quelle mattonelle bianche con l’unico scopo di umiliarla, di rubarle la scena, come un ragazzino alle prese con un gioco troppo vecchio per essere riutilizzato. 
«Sapete io ero lì.» Le orecchie di Kell si tesero per ascoltare di nuovo: «Lei è caduta e io e Emer siamo corsi di sotto, e l’abbiamo vista e... è stato come morire con lei... Dio.» Si portò una mano al viso lisciandosi poi i capelli con le dita: «Se l’ambulanza non l’avesse portata via la Patricks non avrebbe potuto fare niente per evitare che noi...» Esitò, un po’ meno di quello che avrebbe dovuto: «Le cose sono andate così, e dire che è andata così non vuol dire che è andata bene, niente di quello che è successo quella notte è andata bene. Io e Emer ci sentiamo così in colpa per non esserci accorti prima che lei avrebbe potuto commettere qualche azione avventata.
Non sappiamo neanche se c’è una motivazione a tutto questo, ma vi prometto che se c’è la scopriremo, Catherine se lo merita, noi lo scopriremo.»
Cecely si coprì gli occhi con le mani. Nikki aveva appena mentito davanti a tutta la scuola, ne era certa, non poteva non esserlo, l’avrebbe vista. 
Era la pura verità, in quel momento, la notte in cui Catherine si era buttata lei in tutto quel trambusto era riuscita a chiedersi dove fosse, la cosa peggiore non era quella però, il problema era che avrebbe dovuto ammetterlo e questo l’avrebbe messa nei guai.
Pensava che avrebbe detto qualcosa di vero, invece aveva mentito su ogni cosa, senza paura.
Sospettare di Nikki, forse l’ultima cosa sensata sulla faccia della terra.
E fu così che Kell si scambiò uno sguardo complice con i ragazzi, decidendo in quell’istante il futuro delle loro sorti



 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** 10. Schema ***




- minuscolo spazio autrice - 
Eccovi il nuovo capitolo, capitolo di macchinazioni e qualche classica batosta tipica di me, uhm, e niente, spero vi piaccia :3









10. Schema


Venne fuori che Victor era l’unico del gruppo a non essere completamente asociale, incredibile a dirsi, aveva conosciuto un sacco di ragazzi durante le proiezioni in sala cinema, mentre Cecely si distraeva guardando noiosissimi film romantici, – a sua detta degni di una vecchia zitella – lui si ritrovava sempre con i soliti ragazzi alle ultime file a parlare del più e del meno, della scuola e di argomenti più seri, tipo quanto fosse falso tutto il mondo in cui erano costretti a vivere. 
«Quindi reputi questi testimoni dell’odio all’harmony persone serie?» Kell per combattere l’agorafobia stava agganciata al suo braccio destro, a Jeh invece era toccato quello sinistro, Cecely era ancora troppo combattuta, non le aveva neanche offerto il braccio, camminava davanti a loro impettita, rumoreggiando con il ticchettio dei tacchi sul lastricato che conducenva alla sala di proiezione.  
Nella testa di Kell, nonostante l’nasia si stava delineando una linea difensiva per il loro piano leggermente meno traballante di prima.
«Quando parlavano dell’istituto ho sempre visto in loro una certa dose di arrabbiatura che in questo caso è l’ideale.» 
Cecely spalancò la porta della sala di proiezione sbuffando copiosamente: «Non mi hai mai chiesto se volevo venire con te, magari anche a me annoiavano quegli stupidi film strappalacrime, ci hai mai pensato?» Non si girò neanche e Victor fissò le sue spalle con astio: «Se fosse stato così mi avresti seguito senza farti problemi, o sbaglio?» Si rivolse a Jeh che non si girò neanche per guardarlo con l’occhio grigio, la difese senza troppa convinzione: «Beh io non avrei mai potuto seguirti,  la cosa avrebbe implicato un coinvolgimento emotivo praticamente stentato, devi contare che neanche lei era messa molto bene quando questo succedeva.»
Cecely scoccò un’occhiata infuocata a Jeh che fece impallidire   Kell, storse il naso. 
«Bene! E che hai intenzione di fare se non li ritrovi? Li vai a cercare uno a uno porta a porta?»
Victor indicò con gli occhi il cartellone con il film della domenica di quel giorno, Cecely lo guardò e digrignò i denti disgustata, fece dietro front e prese Kell per un braccio trascinandola furiosamente su per le scale: «Non lo sopporto!» «Sì, quel film dev’essere una noia mortale.» Quando arrivarono all’ultima fila di poltroncine rosse Cecely la lasciò sedersi: «Non parlo del film...» 
Chissà perché Kell l’aveva intuito: «Per te non è facile, è normalissimo, però non possiamo farci niente, se c’è una cosa che possiamo fare per cominciare è capire come sono andate le cose dopo la caduta di Catherine e poi tornare indietro, te ne rendi conto?» Cecely annuì, Kell agguantò velocemente la sua mano: «Non devi prendertela con Vic, probabilmente Nikki non c’entra niente ma non possiamo lasciare questa possibilità intentata sarebbe un errore madornale, non dimenticare che  ha mentito davanti a tutta la scola, cerca di tenere duro, fallo per Emeric e per Catherine.» Cecely annuì distrattamente, giusto per farla stare zitta, i ragazzi ormai a due file di distanza da loro  e le scrutavano inquieti. «Perché Emeric l’ha coperta? Rang stava lì a guardarli e a guardare Nikki dire che era lì quando non c’era, Rang l’ha costretto?» Kell annuì: «A questo punto è molto probabile.»
Victor si sedette accanto a Cecely, con un’aria palesemente di scuse: «Potevano essere d’accordo, forse la Patricks ha testimoniato lo stesso, e ha voluto che Nikki dicesse la stessa cosa per farlo credere a tutti.»
«Esatto.» Disse Jeh, Kell lo tirò al posto vicino al suo per la manica della giacca mentre anche lui dava il suo contributo ai loro sospetti: «Ma dobbiamo tener conto che Emeric oltre a sentirsi in colpa per tutto quello che ha combinato nelle ultime due settimane sapeva anche qualcosa su come Catherine ha fatto a ottenere l’esame d’uscita, se Rang l’ha scoperto, potrebbe averlo minacciato.» 
Kell gli sorrise orgogliosamente: «E’ proprio quello che volevo, sono proprio fiera di voi.»  Cecely storse la bocca stravaccandosi esausta sulla poltrona: «Non hai idea in che guai ci stai cacciando.» «Non vuoi scoprire la verità?» Cecely annuì: «Ma certo che si.» «E allora non dare la colpa a me, io ti ho dato soltanto una spintarella.»
Cecely sorrise svogliatamente accasciata sulla poltrona. 
E Kell? Kell non stava dicendo la verità.


«Quante persone credi di riuscire a trovare?»
Alla fine Vic com’era prevedibile aveva avvicinato il ragazzo con cui con il passare dei giorni aveva raggiunto un certo grado di confidenza, nessuno di loro si aspettava una folla di ragazzi interessati ascoltare Vic parlare del loro folle piano.
«Dobbiamo esserne parecchi.» Aggiunse Kell, il ragazzo a cui stavano direttamente parlando grazie al cielo era abbastanza conosciuto all’interno del Quattrocentoventisette.
Anluan Lynch, era di origini chiaramente irlandesi fatta eccezione per i capelli scuri, veniva direttamente dalla 5°A, era maggiorenne da una settimana; e, fatto straordinariamente reale, era pirofobico a causa di un forte trauma avuto in passato: un incendio scoppiato in casa sua quando era più piccolo, fortunatamente risolto senza ustioni gravi. A Kell sembrava una persona abbastanza posata, aveva subito un vero trauma ed era come loro, non cosa da poco. 
Begli occhi da cerbiatto e uno sguardo sfrontato, conosciuto per essere un soggetto orgoglioso da trattare “preferibilmente” con i dovuti riguardi. Ogni due per tre Cecely le sussurrava all’orecchio frasi accusatorie rivolte ad Anluan. 
La ragazza era ancora piuttosto provata dalle nuove scoperte e ancora si rifiutava di unirsi alla sua idea. Kell non le diede retta, Anluan serviva a tutti loro, era un elemento importante, altrimenti avrebbero fallito ancora prima di cominciare. Talaltro a Cecely avrebbe dovuto piacere d’impatto, oltre a essere sicuramente una bella presenza non le dava l’impressione di non essere realmente interessato alle parole di Victor.
«Volete mettere a ferro e fuoco l’intero istituto, ho notato tutto quello che mi state indicando e bisogna ammetterlo se le cose vanno come volete voi, potreste persino riuscire a far cambiare dirigente e professori, anzi, voglio sbilanciarmi questo posto maledetto potrebbe anche chiudere... Mi piace.» Annuì scoccando un’occhiata ammiccante alla sua amica Itsuko Makashi, giapponese, della sua stessa classe che alzò al cielo gli occhi a mandorla: «Detto da te...»
Li guardava abbastanza affascinata; era la prima volta che Kell si rendeva conto della varietà di etnie all’interno dell’istituto, lo stesso Emeric aveva chiare origini francesi.
Anluan si voltò un attimo a guardare lo schermo luminoso che tutti stavano volutamente ignorando, come se stesse riflettendo un minuto: «Possiamo fare quello che ci chiedete, noi non crediamo che Catherine si sia uccisa, la conoscevo, credetemi se vi dico che lei non è in alcun modo il tipo di persona che cerca di suicidarsi; altrimenti vorrebbe dire che è riuscita nel suo intento al primo colpo visto che lei non ha mai tentato il suicidio: lei era nella mia classe di terapia di esposizione...» Si zittì come se si fosse reso conto di aver rivelato troppi particolari superflui: «Sono certo che se potesse anche Emeric farebbe questa cosa con noi...» «Hai detto bene, se potesse.» Commentò Itsuko sconsolata: «Ma secondo me non si tratta di Nikki, lei non può averle fatto del male.»
«E come fai a saperlo?» Disse Anluan scrutandola: «Tu eri con me, non con lei.» Itsuko alzò un sopracciglio scettica: «Ma non può essere Nikki.»
Stavano parlando con persone che la conoscevano davvero, quello sconcertante dettaglio infondeva a Kell il calore di una nuova speranza, chissà che cosa stava provando Cecely in quel momento.
«Neanche noi lo crediamo.» Disse Victor.
Parla per te Vic avrebbe voluto insinuare Kell; soffocò le parole tra i denti.
Il ragazzo dai riccioli biondi continuò: «Se mettere in difficoltà Rang servirà a qualcosa dobbiamo farlo.» Anluan annuì: «Siamo d’accordo, cercherò, cercheremo.» – scoccò un’altra occhiata d’intesa alla tenera Itsuko – «Io e Itsuko cercheremo quante più persone possibile disposte a testimoniare l’essenza di Nikki di sotto quella notte, se vogliamo fare le cose per bene dobbiamo ideare qualcosa tutti insieme, domani ci incontreremo in camera mia, che ne dite?» 
«Sì d’accordo e credo che saranno stupiti dallo scoprire che cos’altro vogliamo fare.» Anluan lo guardò incuriosito: «E cioè?»
Victor lo disse orgogliosamente, era qualcosa che Kell aveva capito solo di recente. Aveva compreso quale fosse l’altra cosa fondamentale da fare.
«Forse la persona che ha spinto Catherine di sotto è scesa giù praticamente subito dopo aver commesso il gesto, è un’ipotesi da tenere in conto, per arrivare sul tetto ha dovuto destreggiarsi attraverso diversi ostacoli: la Patricks sveglia, la mancanza della chiave... quindi attraverso questi frammenti di verità certa potremmo tranquillamente giungere alla conclusione che in ogni caso l’assassinio di Catherine dovrebbe essere stato un gesto premeditato. Non posso aver eluso la sorveglianza e trovato il modo di procurarsi la chiave del balcone per una tranquilla chiacchierata notturna. 
Quindi, se è stato un’atto premeditato...» Spiegò Victor sorridendo impercettibilmente: «La persona che ha spinto Catherine giù dal balcone magari è scesa di sotto e si è disperata con il resto del gruppo allo scopo di passare inosservata... è comprensibile ma c’è un ma, se non fosse riuscita a a scendere invece? Perché Nikki e Emeric si sono messi in mostra davanti a tutta la scuola, dicendo dove fossero? Chiunque sia stato verrà coperto. Dopotutto non deve essere così complicato mentire su un paio di persone, c’era parecchio trambusto quella notte in sala da pranzo, tutta la scuola al completo era a piano terra, ovviamente, con l'eccezione di alcuni individui...
L’avrete intuito, la nostra idea è questa: direi che sarebbe interessante capire chi non c’era quella notte sotto
Lo sguardo di Itsuko e quello di Anluan si illuminarono, Kell sorrise fra se, tutto sommato la sua idea non era poi così male.


Kell trascorse l’intera ora di educazione fisica del giorno seguente a scribacchiare scritte convulse sul suo blocco per gli appunti bianco, non le andava di fare lezione e aveva detto al professore che non si sentiva bene proprio come le aveva detto di fare Victor, doveva mettere in ordine i pensieri, e sopratutto capire cose voleva fargli dire quel giorno in camera di Anluan.
Era piuttosto contenta di essersi risparmiata un ora di corsa fuori nel giardino dell’istituto, disgraziatamente quel gennaio dava l’impressione di voler affrettare il passo e il sole aveva già asciugato l’erba dalla rugiada di quella mattina.
Ogni tanto alzava lo sguardo e si domandava guardando Victor se fosse il caso di farsi coraggio e dire lei quelle cose ai ragazzi che si sarebbero ritrovati davanti quella sera. Improponibile, non avrebbe mai avuto il coraggio, la demofobia era ancora troppo forte. Quando senti quello che sente lei se alzi lo sguardo dal tuo piatto e osservi quello che ti circonda nella spaziosa sala da pranzo e ti accorgi di perdere dei battiti e hai bisogno di cominciare a contare... forse hai ancora bisogno di terapia di esposizione.
Ripensava a quello che sapeva, fissando la bic nera andare su e giù componendo parole sul foglio bianco, se si fosse fermata e avesse guardato il foglio con una diversa intensità avrebbero perso il loro significato. Era quella la soluzione di tutto? Stava correndo verso il vuoto, trascinandosi dietro le uniche persone che mai l’avessero considerata non una semplice ragazza con problemi ma una persona? Oppure era la cosa giusta...
«Kell.» Era Jeh che si era ovviamente arreso prima dello scadere del tempo. «Ti facevo più battagliero.» Commentò aspramente cercando di non sembrare scontrosa.
«Scherzi vero?» Si buttò al suo fianco prendendo aria a pieni polmoni, appoggiò la testa al tronco dell’albero con lo sguardo vigile del professore e di Kell puntato addosso.
La cicatrice di Jeh andava dall’occhio sinistro fin sotto il bianco della maglietta che usava per educazione fisica. Ma c’era un ma,  un particolare non troppo difficile da notare. Sul collo era visibilmente più leggera, come se chi aveva affondato il coltello nella sua pelle avesse pensato che premendo troppo sulla sua gola l’avrebbe ucciso, strano, anche sulla fronte era visivamente meno percettibile allo stesso modo, arrivava persino a confondersi con i capelli neri. 
Suo padre non voleva ucciderlo, Jeh lo sapeva e ora lo sapeva anche lei. Il fatto che lui ne fosse cosciente aveva spinto Kell a pensare a un dato di fatto; sicuramente Jeh in multeplici occasioni aveva desiderato che suo padre avesse affondato il coltello con maggiore decisione. 
La guardò interrogativo? A disagio, neanche avesse intuito a cosa lei stesse pensando. 
Ignorò il suoi pensieri tornando a fissare il suo blocco bianco.
Qualche minuto dopo anche Cecely si gettò stremata davanti a loro: «Avete visto?» Entrambi annuirono fissando il punto che lei aveva indicato, la cosa non le piaceva affatto.
Dov’era caduta Catherine ora c’erano una distesa grottesca di vasi di fiori e di piante colorate. «Sono troppi, anche se molto belli.» 
Cecely la guardò stranita: «Perché troppi? Lei aveva un sacco di persone che l’amavano.» La rimproverò.
«Attirano un sacco di attenzione.» Disse. 
«E’ sconveniente.» Aggiunse Jeh bevendo un bel sorso d’acqua dalla bottiglietta che lei gli aveva appena passato: «E’ come se dicessero “ehi, è successo qui, non abbiamo niente da nascondere”.»
Per quella frase Kell venne sgridata: «Ma c’è qualcosa nella tua testa che non suoni sospettoso e contorto?»
Kell si sentì un po’ scoperta da quella domanda: «Temo di no.»
Per fortuna Jeh rise, altrimenti Cecely non si sarebbe placata.
Victor finì la corsa esattamente allo scadere del tempo, insieme a un altro paio di ragazzi che avevano resistito con lui, venne subito da loro, domandando se il piano aveva raggiunto un certo livello di adeguatezza da essere perlomeno tentato. Kell gli rispose di si, il suo portavoce era prontissimo a farsi valere, Cecely lo scrutava pensierosa.
«Non sei spaventato?» Gli chiese dopo un po’ a lezione.
«No.» Le rispose Victor dall’altro lato del banco.
«Ti sembrerà assurdo ma io credo nel nostro piano.»
Cecely si morse la lingua per non protestare, perché quello non era il loro piano ma solamente quello di Kell.


Il giorno dopo lei e Jeh avrebbero dovuto affrontare per la prima volta insieme terapia di esposizione da acluofobia, che cos’era a confronto dover stare in una stanza con un altro paio di persone?
Sapere che quel “paio” di persone erano mezza dozzina ad esempio avrebbe aiutato a rimetterla in riga.
Entrati nella stanza e chiusa la porta alle loro spalle dalla raggiante Itsuko, le ci vollero circa dieci secondi per rendersi conto che forse le conveniva afferrare di nuovo la maniglia della porta, aprirla e darsela a gambe. Era tutto sbagliato, stava buttando tutti e quattro in un vortice imprevedibile di eventi...
«Victor! Eccovi, che ne pensate, sono abbastanza?» 
Tutti quei ragazzi li guardavano parlottanti e incuriositi, Victor guardò Anluan a occhi sbarrati: «Onestamente non credevo che ci avresti preso così seriamente.»
Anluan rise schivando un cuscino che una ragazza gli aveva appena lanciato addosso: «Ho già anticipato qualcosa agli altri ma ora ti lascio campo libero.»
«Grazie.» Fece Victor, riusciva a percepire lo stomaco di Vic contorcersi dalla paura, tutti quegli occhi, tutti quelli sguardi puntati su di lui. Aveva già superato l’ommetafobia, vero?
Pareva che... sì, sembrava aver decisamente superato l’ommetafobia altrimenti in quale altro modo sarebbe riuscito a guardare dritto negli occhi Anluan, Itsuko e tutto il resto della loro armata? Victor era davvero quello messo meglio di tutti loro, il prossimo anno, se fosse venuto il momento, avrebbe potuto fare l’esame per uscire prima.
«Abbiamo bisogno che per quanto sia possibile ci diciate i nomi delle persone che siete certi di non aver visto quella notte.» Concluse infine deciso, senza un’ombra di tremore nella voce.
Kell era impressionata, Cecely seduta di fianco a lei in mezzo a un mucchio di cuscini sembrava più che altro atterrita.
Mentre Victor parlava con i ragazzi di Nikki e di Emeric Anluan si sedette proprio di fronte a loro, Itsuko come un’ombra lo seguì silenziosamente: «Ti chiami Kell giusto?» Kell annuì, storpiava il so nome con un comico accento straniero.
«Ti dispiace se ti chiamo Cellach?» Quella richiesta la stordì un secondo, disse che era una sottospecie di ‘Kelly’ all’irlandese molto, davvero molto storpiato; pazientemente scosse la testa: «No, no, fa’ pure.»
I suoi occhi marroni guizzarono come rintronati: «Ho alcune domande, ma non vorrei interrompere Victor inutilmente...»
C’era anche Jeh ovviamente, e a sorpresa stupì tutti con un categorico: «Chiedi pure a noi.» 
«Beh, ritengo che la presenza o l’assenza di persone che Catherine non conosceva neanche lontanamente, come studenti del primo anno sia inutile ai fini del nostro scopo comune, d’altra parte non potremmo neanche esserci accorti della presenza di persone che non conosciamo o che non notiamo, concordate?»
Kell assentì brevemente facendo presente a Anluan e a Itsuko che la possibilità del coinvolgimento reale di qualcuno del primo o del secondo anno era seriamente remota.
«Sì, di chiunque parleremo più nel dettaglio in seguito non c’è motivo per cui avrebbe dovuto coinvolgere qualcuno di così piccolo.»
«Per l’appunto, siamo assolutamente d’accordo allora.»
Eccome se lo erano.
«Allora!» Esclamò Anluan: «Cominciamo dalle cose più facili.»
Facili? Victor con il blocco per gli appunti di Kell girato al contrario era già pronto per scrivere: «Vi daremo un nome e voi ci direte se avete visto la persona oppure no.»
Kell diede uno sguardo di sbieco a Cecely; per cavarle fuori i nomi di tutti i conoscenti stretti di Catherine ci era voluta tutta l’ora dell’interrogazione di scienze di Mark, in quel momento le pareva abbastanza serena tutto sommato: «Kell...» Fece lei indicando Victor con gli occhi: «Si sta comportando davvero bene, sembra normale.»
«Quasi normale.» Specificò Jeh scuotendo la testa dubbioso: «Perlomeno sembra che questi ragazzi siano convinti di quello che dicono.» 
Confermarono tutti le parole di Cecely. Nessuno quella notte aveva visto Nikki non in sala da pranzo ne tantomeno fuori insieme a Emeric, certo era evidente che tra loro avessero già parlato ampiamente, tutti erano più o meno d’accordo sugli stessi nomi, ma c’era anche da dire che Cecely a tratti annuiva confermando: “anche secondo me” incredibile, era stata mezza svenuta per tutto il tempo e non si era lasciata sfuggire niente di quella sera. Kell, non poteva contribuire in nessun modo da quel punto di vista, era irrimediabilmente ammirata, quella ragazza aveva dovuto combattere contro se stessa per guardarsi in torno, già conscia di quale poteva essere stata la sorte di Catherine, e Kell non se n’era neanche accorta.
Vennero fuori diversi nomi, forse addirittura troppi nomi.
E quando Victor si era avvicinato per chiederle che cosa intendesse farne Kell si era ritrovata a non sapere cosa rispondere, non con certezza almeno: «Ho bisogno di pensare.» Aveva risposto, Victor un ricciolo biondo finitogli in mezzo agli occhi la guardò con rimprovero: «Si aspettano qualcosa da me, mi va bene essere il braccio, ma Miss Mente e co. devono lavorare per darmi una mano.» Kell lo ascoltò con attenzione, aveva irrimediabilmente ragione e ad Anluan furono ripetute le stesse parole per spiegare le circostanze.
«Cellach cosa ti spaventa?»
«Sopratutto le mie idee.» 
Jeh la guardava preoccupato, lo sguardo basso e cupo di chi non sa che cosa credere. 
«Il vostro contributo è stato impagabile, davvero, ma adesso devo capire se ho delle idee da folle oppure no.»
Itsuko si fece minacciosa: «Qualsiasi cosa vogliate fare con questi nomi...» Si riferì con lo sguardo a tutti e quattro: «Deve servire a qualcosa, mettitelo bene in testa.» Questa volta guardò Kell fisso negli occhi, più chiara di così avrebbe fatto paura.
«Okay, non vi deluderò.»
«So che non lo farai Cellach.» Disse Anluan, scostando Itzuko.
Vero. Era lei la mente, gli sguardi che riceveva di soppiatto da tutti gli altri e le parole di Anluan erano inequivocabili, era chiaro a tutti, sua l’idea sua la responsabilità.
E adesso che sapeva che davvero le cose stavano così, per qualche motivo il peso di quella responsabilità che tanto aveva agognato la fece titubare, aveva sete di vendetta verso tutti quelli che l’avevano spinta in quel posto, catturata e costretta lì, e ora? Ora che aveva mostrato un paio di carte non sapeva più se davvero avrebbe dovuto farlo, metteva in pericolo qualcuno, forse tutti, anche Cecely, Victor e Jeh.
C’era un’equilibrio in quella strana vita, era folle, era nuova, era falsa, ma perlomeno si sentiva viva, non sapeva neanche lei cosa avrebbe voluto ottenere. La parola giustizia troneggiava davanti ai suoi occhi mettendosi in mostra, voleva togliersi tutto quello che aveva di fronte? Sinceramente, voleva che tutto quello per cui aveva lottato con le unghie e con i denti finisse?
Kell zittì la sua coscienza, non era più una questione di scelte.
«Prenditi il tempo che ti serve, sono sicuro che andrà bene.»


«Andrà bene?» 
«Andrà bene.» 
Quel giorno nessuno dei due si alzò dai propri posti di terapia di esposizione, la Strins avrebbe finito di parlare con Darren e sarebbe stata subito da loro, con l’acluofobia in pugno pronta a toglierle di dosso tutta la sicurezza raggiunta in quei giorni.
«Allora, com’è? Tu l’hai già fatto.» 
Jeh soppesò le parole da usare con cautela: «Non ti mentirò.» Kell gli fu subito grata. 
«E’ orribile, ogni volta di più.»
«E come... come fai a resistere?»
«E’ semplice.» Disse Jeh, gli occhi che la scrutavano senza guardarla realmente: «Non resisto affatto, non ci riesco.»
Il numero 427 dorato cucito sulla sua felpa di cotone lo marchiava almeno quanto faceva la sua cicatrice, Kell avrebbe voluto strapparglielo via, Jeh non poteva avere un numero cucito addosso, nessuno di loro avrebbe dovuto portarlo.
La Strins sembrava di umore davvero ottimo quel giorno, congedati tutti gli studenti con le domande rimase qualche minuto a parlare con il sorridente Darren, poi rientrò nella stanza e li guardò annuendo, si aggiustò la bombetta sopra la testa: «Non sarà facile Kellan, te lo dico subito.»
«Lo so.» 
Era la sua punizione per averla sfidata, non poteva essere facile, se fosse stato facile non sarebbe stata acluofobica ma c’era anche Jeh e doveva farlo anche per lui. L’aveva fatto già durante la notte della morte di Catherine, quella era solamente una simulazione, demordere proprio adesso sarebbe stato da codardi e basta.
La Strins fece loro segno di alzarsi, poi, senza perdersi in inutili giri di parole, proprio com’era canone nella terapia di esposizione li mandò direttamente davanti alla situazione temuta.
Dietro la scrivania c’era l’ennesima porta azzurra, – porta che Kell da tempo aveva già adocchiato – nessun numero stampato sopra, niente lettere o parole, era vuota, spoglia, la Strins li guardò, già pronta a vederli soccombere,  aprì la porta e Kell si sentì mancare le mattonelle bianche sotto i piedi. 
Cominciò a fissare l’oscurità, certa del fatto che non sarebbe mai entrata lì dentro di sua spontanea volontà.
Forse Jeh non era del suo stesso parere, l’aveva fatto molte altre volte, sapeva cosa aspettarsi e sapeva come avrebbe reagito, la professoressa aspettò pazientemente che lui sparisse nel buio irreale di quella stanza, perso nel nulla, di nuovo distante anni luce, sentì i suoi passi per un po’, poi neanche più quelli ne il debole suono di un respiro costante, assolutamente niente, e non era neanche entrata.
La psicologa dal canto suo era soddisfatta, Kell aveva voglia di mettersi a urlare il nome di Jeh, di richiamarlo indietro ancora prima che tutto cominciasse e quella schifosa sembrava soddisfatta. Le passò una mano dietro la schiena, spingendola con appena una leggera pressione della mano dentro la stanza, sull’orlo della porta, le mattonelle erano le stesse sul pavimento constatò Kell osservandole, un altra leggera spinta, le dita della Strins la stavano quasi per lasciare, il buio soffocava ogni altro movimento, quella sensazione distruttiva, la voglia di girarsi verso la luce, guardarla un’ultima volta, l’impossibilità di riuscirci.
Un altro tocco e poi le dita estranee lasciarono la sua schiena, Kell si voltò bruscamente, quasi come se le avesse appena spezzato un braccio e si fosse voltata tramortita solo per costare chi fosse davvero il colpevole.
La porta si stava chiudendo, lo spiraglio di luce si assottigliava e quella volta Kell non poté niente contro la volontà inesorabile di paura che quella donna stava muovendo contro di lei.
La porta si chiuse. 
Il nero la accecò e lei spalancò gli occhi dallo stupore.
La porta, chiusa per un ora. 
Sessanta minuti da quel preciso istante.
Kell scivolò a terra.


Uno due tre, uno due tre, uno due tre, uno due tre, uno...
Un brivido le impedì di tenere fede alla conta, si fermò, respirando affannosamente, schiacciata contro il pavimento freddo come se potesse evitare di essere vista, gli occhi stretti in una morsa dolorosa, una mano stretta intorno al porta pillole.
Solitamente erano le ombre a farle paura, le figure che si mostravano diverse da quello che parevano alla luce del sole, ma quello che stava vivendo in quel momento, quello era peggio.
Mentre tremava osava sommessamente pensare a quant’era stata stupida, girerò per la stanza, non starò ferma. 
Non ci pensava neanche a muoversi, a malapena era in grado di spostarsi di tre centimetri, figurarsi girare per la stanza. 
Le faceva male il petto, una dolorosa morsa al cuore le faceva venire voglia di grattare sulla superficie esterna che proteggeva il suo cuore, voleva farlo lei, sì, con le sue mani, ma da una parte non poteva. Aveva anche paura di morire, una morte senza un senso mentre lentamente si sentiva soffocare da dita invisibili nere come il buio. 
Uno due tre, uno due tre. 
Sì quella stanza era grande, ma lei stava soffocando, scossa dai brividi freddi, con una guancia premuta ferocemente contro il pavimento, soffocava.
Quando cercò di muoversi però fu anche peggio, le sembrava di scalare una montagna, la superficie orizzontale pareva improvvisamente verticale, così distorta da non permetterle di riuscire a ricordare quale fosse la destra e quale la sinistra.
Provò a parlare, aprì la bocca, una, due, tre volte, la richiuse aspramente delusa, non ne usciva alcun suono... Ma diamine, il cuore le martellava nel petto così forte e così velocemente che Jeh avrebbe potuto trovarla schiacciando un orecchio sul pavimento.
Illudersi non sarebbe servito a niente, Jeh forse era a venti centimetri di distanza da lei, forse gli sarebbe bastato sporgersi da quell’enorme montagna distorta per arrivare a toccarle un braccio... o forse no; qualunque fosse la verità lui non si sarebbe mosso, non poteva, e con che coraggio si azzardava a pretendere il suo aiuto, quanto era lei, e soltanto lei che l’aveva costretto a ritrovarsi in quella situazione di nuovo.
Passarono altri minuti, altri secondi, altri istanti di debole, forte e costante terrore, Kell aveva smesso di tremare, la mano aveva lasciato il porta pillole, incapace di staccarsi dal pavimento, ormai riscaldato dal calore tiepido del suo corpo provò comunque a pronunciare una parola.
Non sarebbe mai riuscita a dire una frase di senso compiuto, quello no, mai, strinse gli occhi più che poté, facendosi volutamente del male, se non fosse uscito alcun suono quella volta avrebbe rinunciato.
Aprì la bocca, era distante anni luce dal momento in cui le dita della Strins avevano lasciato la sua schiena e per un momento quella situazione la fece tornare al passato.
«Jeh.» 
Tempo fa lui era distante anni luce, a malapena esisteva. In quel momento la situazione era totalmente identica, sapeva che c’era, doveva essere lì, ad aggrapparsi a qualcosa anche lui, ma non poteva sentirlo. «Jeh.» Disse di nuovo.
Nessuna risposta arrivò alle sue orecchie, ne un solo suono attraversò l’aria di quello spazio indefinito.


Aspettò e aspettò, senza più osare muovere un muscolo, immobile nel buio della stanza nera che la sommergeva.
L’unica cosa di cui poté rendersi conto di udire... non poteva in alcun modo essere quello che credeva che fosse.
La porta azzurra alle sue spalle, a pochi metri dal luogo in cui lei era accovacciata si aprì, uno spiraglio di luce ferì i suoi occhi, il viso della professoressa comparve alieno contornato dalla luce del giorno.
E’ finita. «Jeh?»
«Esci.» Sillabò perentoria la Strins, la prese per un braccio, la tirò su bruscamente e Kell si ritrovò in piedi, sbattuta malamente fuori dalla stanza nera.
Non si preoccupò della luce del giorno che le feriva gli occhi. Era di spalle alla porta, si girò, improvvisamente mille mila volte più leggera e centomila volte più pesante, il sollievo finì com’era tornato: «Jeh!» Ma della Strins non c’era traccia, stava ancora nascosta dentro la stanza nera, a cercarlo, a cercarlo come avrebbe dovuto fare lei.
Kell era in ginocchio, si alzò di nuovo in piedi, frastornata dalla forza della gravità che sembrava spingerla di nuovo a terra, aspettando, si avvicinò alla porta, si fermò sulla soglia, incapace di andare oltre.
«Finalmente!» Sentì dire dalla Strins con un tono talmente odioso da farle contorcere lo stomaco in una morsa di disgusto, eccola la vera Strins, ora si stava mostrando, e Kell era cosciente di essersi sbagliata, quasi l’aveva giudicata bene: «Muoviti, avanti Jesse, alzati in piedi, dai, non starò qui ad aspettare te.» 
Nessun verso di risposta. 
Allora la Strins fece sicuramente qualcosa, di rimando, veloce, nettamente, come la morsa della paura, Jeh biascicò un lamento attutito, un lamento di dolore.
«Non toccarlo.» Si sentì dire ancora prima di essersene resa conto, grata di avere di nuovo il dono della parola.
La Strins rise, di nuovo Jeh gemette, questa volta, accompagnato da alcune parole: «Lasciami.»
Kell digrignò i denti, e in quel momento si rese conto in uno sconcertante turbinio di nuove verità: la sua punizione non era terapia di esposizione. 
«Jeh?» No, aveva creduto che lo fosse ma non era così, la Strins era una psicologa, lei sapeva come manipolare le persone, come costringerle a fare quello che lei voleva.
Scivolò di nuovo nella stanza, oltre la luce, dritta nel punto in cui era certa si trovasse Jeh, nell’angolo a sinistra, da lì provenivano i suoni e le parole che aveva udito.
«Kell non...» Cercò di dire lui, ma non gli diede retta, in quel momento bruciava di rabbia, voleva prendere a pugni la Strins con tutte le sue forze ma non poteva, si concentrò su Jeh. 
Lo aiutò ad alzarsi, tirandolo su per le braccia, il contatto con la sua pelle la tramortì, non tremava, era semplicemente esanime.
Lo aiutò a uscire e fino a quel momento la donna non disse niente, poi, senza nessun motivo apparente la spinse via, prendendo il suo posto, facendo quasi cadere Jeh a terra di nuovo.
Kell si ritrovò di nuovo da sola attonita e sconvolta, dietro di loro, mentre la Strins lasciava cadere Jeh a terra a pochi centimetri dall’uscita della porta azzurra.
Chiuse la porta, finalmente potè precipitarsi di nuovo su di lui, era sdraiato, un po’ ripiegato dalla parte destra del corpo, l’occhio grigio sbarrato visibile, quello bianco schiacciato sul pavimento. «Jeh, è finita, non preoccuparti, adesso è finita.» Ripeté guardandolo fissare il vuoto spaventata, come se non vedesse più neanche dall’occhio vivo.
Si chinò su di lui, fece appena in tempo ad avvicinarlo alle sue gambe, mettergli una mano su una spalla e l’altra ad accarezzargli esitante i capelli, non aveva ancora capito cosa stava succedendole intorno.
Il suo sguardo le fece tornare in mente la notte di Catherine.
Ma intanto la Strins, la bombetta nera leggermente storta sulla testa la sollevò di peso da terra: «Mi lasci...» Tentò di dire ma lei la precedette: «Sta zitta.» Sibilò: «Stai guardando Jesse? Guarda con molta attenzione il tuo prezioso Jeh.» Lo indicò con gli occhi con un’aria talmente tanto disgustata che ci mancò davvero un soffio e Kell le avrebbe sputato in faccia. «Lo vedi?» Ripeté spingendole la schiena contro il muro: «Posso fare molto di peggio, molto molto peggio con il suo aiuto.» 
Un avvertimento?
No, una minaccia? 
Ancora no: un dato di fatto. 
Forse stava minacciando tutti quelli che le avevano fatto strane domande sotto ordine di Rang, forse era così, ma Kell tremò.
La considerazione più semplice e più ovvia le arrivò dritta in faccia come uno schiaffo in pieno viso: questo non è niente.
Jeh si stava tirando su, mentre la Strins le mimava parole di avvertimento sul futuro immediato delle sue azioni.
«Ci lasci andare.» Fece Jeh, ormai in piedi, tremante, tramortito: «Non faremo niente contro l’istituto.»
«Lo giuri?» Chiese la Strins, avrebbe dovuto capire prima che anche lei era una pazza, la cosa l’avrebbe aiutata: «Sì.» Disse Jeh sconsolato: «Ci lasci andare.»
Ma la donna ovviamente non era ancora soddisfatta, qualunque cosa le avesse chiesto di fare il dirigente Rang lei ci aveva preso gusto: «E tu?» 
E Kell non vedeva altre possibilità, vedeva Jeh, vedeva quello che sarebbe potuto succedere, i suoi occhi stanchi, i suoi occhi che le chiedevano di dire quello che doveva. 
Così Kell lo disse.
«Va bene.» Kell annuì con decisione: «Lo giuro anch’io.»
La Strins la lasciò, e lei si portò meccanicamente una mano al collo, le doleva terribilmente. Un braccio di Jeh era indirizzato verso di lei, un invito interpretabile.
In effetti aveva ragione lui, c’era qualcosa da sbattere in faccia alla Strins, altrimenti, forse, visto quant’era stata stupidamente combattiva, avrebbe dubitato della serietà del giuramento, perché nella stanza nera ci sarebbero tornati comunque... Anzi, avrebbe dubitato a priori forse, per il gusto di farlo.
Una frazione di secondo: strinse le braccia attorno al corpo freddo di Jeh, mentre lui gli si abbandonava addosso senza fare niente per incoraggiarla tranne che lasciarsi rassicurare, le braccia ancora inermi lungo i fianchi.
Per un momento chiuse gli occhi, e per un attimo avvertì l’increspatura della cicatrice a contatto con la sua pelle, lo strinse ancora più forte, Jeh nascondeva il viso nella sua spalla, le sue braccia stavano quasi per raggiungere esitanti la sua schiena, la Strins poteva ritenersi soddisfatta, quella era la sua scelta, gliel’aveva mostrata...
O forse no.
Sentì i capelli tirarla via dall’esile stretta di Jeh, così bruscamente che per un attimo pensò che le avesse strappato  anche una ciocca, la Strins la spinse di nuovo contro il muro: «Ricordati Kellan.» Il suo sguardo era di fuoco liquido: «So quello che stai cercando di fare inutile ragazzina viziata. Ti terrò gli occhi puntati addosso, quindi ti conviene stare molto attenta fino a quando non avrò l’assoluta certezza che non potrai più nuocere a nessuno.»
«Ha fatto così con tutti quelli come noi?» Temeraria Kell non poté e non volle zittirsi.
La Strins sorrise, il suo sguardo non era più complice come una volta ma crudelmente canzonatorio, guardò Kell con astio: «No, solo con quelli come te.»
La lasciò andare, che sapesse anche dell’incontro in camera di Anluan? Quanto erano corse velocemente quelle voci? Non le permise di fare domande, Kell neanche avrebbe potuto fargliele, la cacciò via, intimandole di portare via anche il suo stupido amichetto, come se avesse potuto lasciarlo lì, aveva usato Jeh per minacciarla, l’aveva maltrattato davanti a lei facendola ben capire che era unicamente colpa sua se era dovuto rientrare nella stanza nera e subire il suo piano sulla sua pelle, e adesso? Adesso era in trappola.




 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** 11. Bivio ***










- minuscolo spazio autrice -
Gnh non so davvero cosa dire, non aggiornavo da un'eternità e spero proprio di raggiungere nuovamente un certo equilibrio, spero che la storia vi sia mancata ahaha! Questo è un capitolo piuttosto ricco di eventi e... non voglio svelarvi niente leggete e giudicate voi. Naturalmente chiunque voglia farmi sapere come ha trovato il capitolo o voglia chiedermi qualsiasi altra cosa LO FACCIA.

:3










11. Certezza



L’aveva messa davanti ad un bivio avvolto nell’oscurità.
Continuare a far soffrire Jeh solamente perché la Strins voleva ferire lei e così insistere con la storia del non-suicidio di Catherine oppure lasciare stare Emeric, Nikki, il Gruppo Concordante (come lo chiamava Vic) e continuare a vivere la loro vita al Quattrocentoventisette, facendo finta che niente fosse successo e sopravvivere, farsi spiegare problemi di geometria da Vic e poi trascinare Jeh in giro per l’istituto in cerca di un’inserviente per avere un termometro per Cecely, godersi quella falsa verità fino a quanto fosse durata.
Doveva arrendersi...
Se non avesse saputo che avrebbe perso tutto in ogni caso avrebbe scelto la seconda opzione, ma le circostanze della sua vita non erano mai state facili, la vita non ti sconta la pena, non ti aiuta.
Così lei – reprimendo l’istinto padrone di strapparsi il porta pillole dal collo e infilargli il contenuto in bocca – portò Jeh fino alla sua camera e cercò di calmarlo, aspettando impazientemente che Vic e Cecely arrivassero per dire loro che erano stati minacciati, e che lei e Jeh, e quindi sicuramente tutti loro – a causa di quello che stavano cercando di scoprire – erano in pericolo costante, la differenza rispetto a prima era che ora sarebbero stati costretti a crederle.
Era necessario metterli in guardia, dovevano sapere veramente in che guaio li stava cacciando, perché non si sarebbe tirata indietro, no, al contrario.
Non doveva arrendersi?
Jeh dopo un po’ aprì bocca, steso sul letto con una coperta pesante addosso tremante come un animale ferito tutto a un tratto, senza alcun motivo apparente alzò leggermente lo sguardo, la cicatrice resa scura dalle ombre della sera gli deturpava il viso. 
«Non ti tirerai indietro.» Sibilò.
Era una constatazione, non una domanda, lui sapeva già tutto. 
E come sarebbe potuto essere il contrario? Lui era Jeh, sfregò una mano sulla sua spalla cercando di infondergli coraggio.
«E’ la strada più difficile.»
«Lo è sempre.» Disse Kell di rimando, era seduta a terra, la mano ancora sulla sua spalla, ma doveva sfogarsi, aveva assolutamente bisogno di dirglielo e infatti, come al solito Kell non riuscì a tenere la bocca chiusa: «Lei vuole farmi sentire in colpa. Sarebbe egoistico continuare con il mio piano mentre fa del male a quelli a cui tengo, vuole usarti contro di me perché tu sei senz’altro uno dei miei punti deboli.» Gli accarezzò la testa, insinuando le dita in mezzo ai ciuffi di capelli neri con cui Jeh aveva sempre vissuto, la cosa sorprendentemente la calmò, e forse calmò anche lui. 
Kell cercò di spiegarsi: «Ma non mi tirerò indietro no, hai ragione, per le stesse motivazioni per cui lei mira sul mio egoismo per farmi ricredere. E’ per tutti noi, ed è troppo importante.»
Jeh aveva capito, perfettamente, per quanto il suo discorso fosse contorto e forse quasi incomprensibile, le due cose si sfioravano.
«E’ quello che va’ fatto.» Disse, cos’è a un tratto era lui a infonderle coraggio?
Kell lo guardava apprensiva mentre aveva gli occhi chiusi, sentiva che c’era davvero il bambino sfigurato della sua infanzia sotto le sue dita, tangibile. 
Però, era così dannatamente furiosa, di una furia che ribolliva lentamente, piano, a fuoco lento, una furia nuova e vecchia al contempo, una furia che si sarebbe cristallizzata nel tempo.
«Non le permetterò di farti del male.» Jeh strinse gli occhi in una morsa dolorosa, un brivido lo scosse, si aggiustò la coperta addosso sommessamente e Kell prese un respiro profondo, non si era mai davvero resa conto di quanto lui potesse essere in balia del mondo, sopravviveva, andava avanti, ma non si proteggeva mai.
«Questo no, lei dovrà credere che abbiamo rinunciato, e sì Jeh, mi farò espellere piuttosto, ma quella dannatissima strega non ti toccherà più.»
«Lo so.» Disse Jeh di rimando, quasi ridendo, facendo perlomeno un tentativo, senza sapere neanche perché, senza neanche aprire gli occhi, ne quello vivo ne quello morto; così Kell ebbe l’assoluta certezza che lo sapeva davvero, il bambino della sua infanzia ne era cosciente e anche lei l’aveva definitivamente accettato contro ogni sua precedente aspettativa realistica: no, lei non si sarebbe tirata indietro.


Azzardato e senz’altro avventato, se si fosse messa a pensare troppo alla realtà dei fatti Kell non avrebbe mai spinto tutti quei ragazzi a mettere in pratica la sua idea remota di giustizia, il Gruppo Concordante era lì perché lei aveva voluto così, ma forse non ci sarebbe stata tanto presto un’altra possibilità e per Kell era ovvio, necessario, doveva fare qualcosa, e subito, anche per far sentire a Jeh che voleva davvero cambiare le cose, nonostante le minacce della Strins l’avessero convinta e fosse costretta ad andarci con i piedi di piombo, dovevano muoversi.
Così fu Anluan a bussare, essendo tra i maggiorenni del gruppo e ancora tra i più fervidi sostenitori delle loro idee avrebbe avuto un ruolo importante quel giorno, gli occhi dell’intero gruppo erano naturalmente puntati addosso a lui spaventati e angosciati, occhi di chi non sa cosa aspettarsi.
La porta si aprì e fece spazio all’entrata in scena di uno dei poliziotti, quando Kell era andata a farsi interrogare, non aveva parlato ricordò ma era rimasto nella classe allestita apposta per gli interrogatori a guardarla cupamente.
«Desiderate?»
«Rilasciare delle dichiarazioni spontanee.» Disse Victor, ultimamente, dopo quello che era successo a lei e Jeh era incredibilmente più sicuro di se, voleva proteggerli tutti anche se non era in suo potere farlo. Cecely lo guardava sempre più scontenta, non era incomprensibile il fatto che non fosse felice dei suoi progressi. Più Victor migliorava e si rendeva conto di stare meglio, più inevitabilmente era spinto ad allontanarsi da loro senza neanche accorgersene.
Il poliziotto li guardò quasi uno per uno, poi sillabò annuendo: «Se volete fare delle dichiarazioni unanimi dovete firmare tutti quanti prima.» 
La richiesta venne accolta e tutti i ragazzi presenti, firmarono il modulo che il poliziotto aveva messo sotto i loro occhi. Kell non riusciva a evitare di lanciare occhiate indagatrici a Jeh, dopo le vicissitudini avvenute con la Strins, dopo le sue minacce... 
Certamente, non era mai stato molto socievole, ne tantomeno sorridente però adesso era costantemente a capo chino, sempre a rigirarsi le mani e a nascondere la sua cicatrice, cercava di aiutarlo, ma Jeh non si sarebbe mai lasciato consolare, l’autocommiserazione non era cosa da lui.
Con tutto quello che le passava per la testa, aveva quasi dimenticato di ascoltare il brillante discorso di Anluan e Victor preparato prodigiosamente tutti insieme la sera prima.
«Nikki Dason tre giorni fa ha fatto un commovente discorso nella nostra sala da pranzo, ci comunicava tra le altre cose che lei e Emeric Allord il suo migliore amico erano stati praticamente costretti sotto minaccia della sorvegliante notturna Patricks a lasciare il corpo senza vita della ragazza mentre questo veniva portato via dall’istituto per ovvi motivi...»
Il poliziotto si sedette afferrando di malavoglia un taccuino: «Esattamente, la stessa Patricks ci ha comunicato durante l’interrogatorio questo particolare, giusto un paio di giorni fa, la ragazza Dason e il suo amico sono stati duri da mandare via, se lo ricorda molto bene.»
Ci fu un’attimo di confusione generale, Jeh si girò a guardarla sollevando appena un sopracciglio.
Kell non riuscì a evitare di parlargli: «Si coprono a vicenda.» Jeh strinse le mani a pugno, stingendosi sul bordo della finestra con più insistenza, Kell gli scivolò vicino riuscendo persino a non farsi notare da Cecely completamente in balia dei suoi pensieri. Gli sorrise rassicurante mentre lui abbassava lo sguardo di nuovo, come aveva cominciato a fare sempre più convulsamente da quand’era stato di nuovo nella stanza nera.
«Mentono entrambe.» Buttò fuori Victor con una sicurezza non sua: «Siamo qui proprio per smentire le loro parole.»
Il poliziotto tutto a un tratto parve risvegliarsi dal letargo di noia, ammiccò prudentemente ad alcuni suoi colleghi seduti sul fondo dell’aula: «Vale a dire?»
«Vale a dire che nessuno dei presenti ha visto Nikki Dason al piano inferiore quella notte, ne tantomeno al cospetto della povera Catherine, scommetto che se chiedesse in giro ci sarebbero molte altre persone ben disposte a parlarne; se la sorvegliante Patricks e Nikki Dason dicono che lei era lì sotto quella notte nelle medesime circostanze e i fatti non sono questi... beh, direi che dovreste farvi delle domande sulla veridicità delle loro dichiarazioni. Vorremo che la cosa venisse messa a verbale come dichiarazione ufficiale, tanto per cominciare.»
Jeh si ridestò: «Se accettano allora la Strins saprà che ci siamo in mezzo anche noi due Kell.»
Il poliziotto rincuorò Victor e Anluan sul fatto che stesse prendendo seriamente quello che avevano da dire, ma fu solamente quando Anluan cominciò a decantare i nomi di tutti quelli che secondo loro, quella notte non erano stati al piano inferiore che sentì l’intera stanza cominciare a muoversi.
Una poliziotta, precisamente, quella che aveva interrogato Kell, si accostò all’uomo: «E per quanto riguarda il ragazzo? Allord? Anche lui ha testimoniato la presenza della Dason quella notte.» A quel punto alzò la voce: «Avete qualcosa da dire su Emeric?» Chiese ai ragazzi interessata. Anluan ci pensò su un istante: «Difficile non notare lo stato in cui era Emeric quella notte, lui era lì, tutti noi l’abbiamo visto.» La poliziotta annuì: «E perché ci avrebbe mentito riguardo la presenza di Nikki Dason al pian terreno quella notte?»
La risposta era facile. Si rese conto Kell ed era interessante vedere come avrebbero reagito alla risposta.
«Noi siamo venuti qui.» Cominciò Victor cercando di essere il più chiaro possibile: «Ma ci sono molti altri che sanno dell’assenza di Nikki quella notte, allo stesso modo in cui sanno che la sorvegliate Patricks crollasse il mondo non si era mai allontanata dalla sua postazione di guardia notturna durante il lavoro. Ma stando così le cose come avrebbe potuto Catherine prendere le chiavi del terrazzo uscire e buttarsi di sotto? La risposta è semplice e risponderà anche alla sua domanda.»
Per un attimo tutta la sala si fermò e smise di respirare. Quant’è vero pensò Kell osservando orgogliosamente Victor.
«Il dirigente Rang ritiene, a parere di molti all’interno di questo Istituto che un omicidio consumatosi qui dentro porterebbe una pessima pubblicità all’interno del Quattrocentoventisette, se non un calo di iscrizioni perlomeno il ritiro di molti che in questo posto ancora adesso studiano. Hanno voluto infangare i fatti, Emeric sarà stato costretto a mentire sotto minaccia.»
La poliziotta lo fissò con tanto d’occhi: «Sono accuse pesanti.»
«Sì, pesanti ma fondate.»
«Sapete... la Patricks ci ha detto una cosa che ci ha stupiti molto, si tratta di qualcosa che posso dirvi perché verrete a saperlo comunque, durante il suo interrogatorio ha specificatamente detto spontaneamente che tutti gli studenti dal terzo anno in poi sono sicuramente tutti scesi di sotto quella notte.»
«Ma è assurdo.» Biascicò Itsuko scoccando un’occhiata d’intesa a Anluan: «Come avrebbe fatto a controllare? Non ha fatto nessun tipo di appello, è stata tutto il tempo fuori, a malapena ci ha guardati.»
Il poliziotto si ritrovò inaspettatamente d’accordo: «Esatto, ma se le cose stanno davvero andando come dite voi perché coprire tutti, nessuno escluso? Non ha alcun senso...»
A quel punto Kell non riuscì più a trattenersi.
Quella era la sua idea. Il suo piano, la sua storia:
«Non sa come sono andate davvero le cose quella notte, Rang non ha la più pallida idea, non ha modo di sapere chi abbia spinto di sotto Catherine, e non gli interessa saperlo. Ha fatto mentire la Patricks per tutti gli studenti di quest’istituto semplicemente per coprire chi deve essere coperto.» 
Gli occhi di tutti erano tutti a un tratto puntati su di lei e per alcuni interminabili istanti Kell si sentì sotto accusa, come se la Strins fosse stata dietro la porta, ad ascoltarla condannare Jeh a un’altra interminabile ora dentro la stanza nera.
«Ha senso.» Assentì il poliziotto, lo sguardo fermo su di lei.
«Noi...» Disse però Victor interrompendo le loro peripezie mentali: «Abbiamo una lista.»
«Una lista di chi?»
«Delle persone sospettabili che quella notte nessuno di noi ha visto di sotto.»
E quello era proprio tutto.
Tutto quello che Kell aveva ideato e pensato insieme a Jeh, Victor, Cely, Anluan, Itsuko e il Gruppo Concordante.
Doveva farsi condannare dalla Strins? 
Tanto valeva fare le cose per bene.
Anluan depositò la lista per esteso sulla scrivania.
Sarebbe stato un buon momento per dire che quel posto era un orfanotrofio a pagamento sotto mentite spoglie, ma avrebbero perso tutta la credibilità acquisita, nessuno prende troppo seriamente l’autocommiserazione altrui e quella parte della storia vista dell’esterno lo sarebbe stata sempre. 
Sarebbe stata  presa per tale, nonostante fosse indubbiamente la verità.
«Voi pensate che Catherine sia stata uccisa.» Disse il poliziotto osservando i nomi scritti sulla lista con uno sguardo mesto.
Anluan e Victor si scambiarono uno sguardo complice, Itsuko invece, fu’ la prima ad annuire, in seguito un coro di “si” si levò nella stanza.
«Ne terremo conto, questa testimonianza di tutti voi...» Il poliziotto osservò attentamente la loro lista: «Non può passare inosservata.»


Prendere una boccata d’aria fresca era un toccasana, ormai uscivano solo una volta a settimana, durante le ore obbligatorie di educazione fisica.
Se non fosse stata tanto agorafobica avrebbe cominciato a sentirsi oppressa proprio come Cecely, lei odiava essere rinchiusa lì dentro senza vie di fuga e anche a Kell ogni tanto serviva aria, aria fresca.
Chiuse la finestra e si gettò sul letto lasciandosi finalmente andare, aveva alzato il volume al massimo allo scopo di intontirsi per bene, quel suo stupido iPod doveva farle dimenticare per un po’ i suoi problemi... Kell si strappò di dosso la felpa con il 427 dorato cucito sopra gettandola su una sedia, basta pensare a quelle cose, la Strins non sarebbe venuta a sfondare la porta di camera sua a colpi di bombetta, neanche le era possibile sapere che lei e Jeh avevano testimoniato alla polizia e Nikki Dason non sapeva neanche che faccia avesse.
Poteva stare tranquilla, si ripeté stringendo il cuscino con eccessiva forza. Le rimanevano circa dieci minuti prima di ritrovarsi nella classe di terapia di esposizione, contò un paio di volte fino a tre meditando sul da farsi finché l’occhio non le cadde sul comodino a fianco al letto.
Aprì il secondo cassetto e ne tastò il fondo spostando tutto quello che intralciava il suo cammino, non era neanche sicura di sapere che cosa le sue dita stessero cercando, ma sapeva che c’era qualcosa che aveva dimenticato lì dentro. 
Il cantante dei My Chemical Romance intonò per l’ultima volta il ritornello di Welcome To The Black Parade, e puntualmente le dita di Kell ritrovarono l’oggetto perduto, così si ricordò che cosa aveva dimenticato nel fondo di quel cassetto.
Il secondo porta pillole che sua madre le aveva portato era nuovamente tra le sue mani, la catenella era molto più lunga rispetto alla sua, infondo... per quello che avrebbe dovuto farci era così. Si strappò le cuffie dalle orecchie, ripose l’iPod e cacciò il porta pillole in tasca uscendo fuori dalla porta con l’intenzione di sbrigarsi chiedendosi se avrebbe fatto in tempo.
Sì, Jeh era ancora in camera. 
Era da prima della stanza nera che Jeh non sfoggiava un sorriso sincero, Cecely sarebbe stata arrabbiata con lui se Kell non le avesse spiegato che la situazione era troppo difficile perché lui potesse essere tranquillo, ma aveva dimenticato. Ora aveva una possibile soluzione.
Era seduto alla sua scrivania e probabilmente stava ripassando per la verifica di storia di domani direttamente dagli appunti, la guardò con un cipiglio scocciato: «Non c’era bisogno che venissi a prendermi Kell. Ci vengo a terapia.»
«Lo so.» Non fece neanche caso alle sue parole, preferì mostrargli quello che doveva dargli. Depositò il porta pillole sugli appunti di storia e attese una sua reazione.
Jeh la aprì, c’erano 4 pasticche proprio come quelle che aveva lei, scosse la testa, ma Kell era già in grado di dire che non si sarebbe opposto con sufficiente fermezza, non ci sarebbe riuscito, constatò, senza sapere se esserne felice o no.
«Capisco, ma la Strins si accorgerà che sono troppo calmo.»
Su quel punto doveva dirsi d’accordo.
«Per questo ne prenderai una dopo essere entrato.»
«In quella situazione? Non ci riuscirò, sai perfettamente quant’è difficile anche solo muovere un muscolo.»
«Hai ragione.» Ammise, poi passò a spiegare: «Ma con questo attaccato al collo l’unica cosa che sentirai sarà la voglia di metterti una pillola in bocca, puoi credermi.»
«Okay.» Disse Jeh come se si fosse già stancato di combatterla,  e Kell aveva già paura di ritrovarla vuota il giorno dopo; richiuse il porta pillole e con un gesto deciso il ragazzo con l’occhio di vetro se lo mise al collo. 
«Ma l’effetto non è duraturo, me ne hai già data una, anche tu ne hai già prese, dobbiamo rimanere lì dentro un ora, dovrei prenderle tutte...» Kell l’interruppe e partì subito all’attacco con più forza di quanto avrebbe voluto: 
«No, ne prenderai una sola, e quella ti darà il tempo di trovare me, scommetto che se ti avrò vicino non avrò un attacco di panico come la scorsa volta, certo, non ho la stessa sicurezza riguardo te, non so se potrò aiutarti...» Non voleva darsi il diritto di dire che lui sarebbe stato meglio solo per merito suo, non voleva neanche costringerlo a aiutarla ma non aveva trovato un modo meno chiaro di spiegarglielo.
«No, no.» Jeh annuì guardandola stupito, stava già recuperando un po’ di colore, erano giorni che non facevano una conversazione decente: «Sei già riuscita a aiutarmi, la notte di Catherine, se non fosse stato per te...» Smise di parlare e infilò il porta pillole nello scollo a v della sua maglia, come se quello che aveva detto fosse sufficiente. 
Kell constatò che la catenella toccava e copriva la cicatrice sul collo di Jeh, ma non era molto appariscente, il porta pillole nonostante il collo a v per fortuna non si vedeva, distolse lo sguardo e si alzò in piedi. Terapia li aspettava, e il giorno dopo la stanza nera.


Vederli andare via, entrambi, splendente Nikki, spezzato Emeric fu’ come lasciarsi alle spalle la porta chiusa di camera di Sam una seconda volta; se avesse dovuto descrivere la sensazione l’avrebbe fatto seguendo alla lettera quello che aveva sentito guardandoli andare via con le valigie strette tra le mani.
«Riesci a crederci?» La chiese Victor: «Non riesco neanche a credere che stia davvero succedendo.»
Era appena entrata nella stanza quel pomeriggio e la prima cosa che vide, fu Cecely, semi distesa a terra, le stringhe degli stivali frusciavano sul pavimento a ogni suo movimento, avrebbe dovuto immaginare che Cecely come al solito avrebbe avuto una reazione esagerata.
«Non capisco come la polizia lasci che sia possibile.»
Victor si avvicinò a Cecely: «Credevo che avessimo fatto qualcosa di utile e sensato, forse è stata solo una nostra proiezione, Rang sa come giocarsi le sue carte.»
Cecely sfregò la mano a pugno chiuso contro le mattonelle della stanza di Victor: «Se ne vanno via, tutti e due.»
Anche Kell si avvicinò a lei, la scosse per le spalle cercando di darle sostegno.
«Nikki e Emeric, via, per dieci giorni, nel mezzo delle indagini.»
Cecely aveva uno sguardo così vacuo da far presumere a Kell che fosse già entrata nella fase delirio.
«Lo sapete che cosa significa, vero? E’ finita. Non ci hanno creduto.»
«No, non è possibile, devono averci creduto!» Esclamò Victor offeso: «Se hanno dato il permesso deve esserci un motivo, Cecely ragiona, tutto quello che abbiamo detto era vero... è comprensibile che li rivogliano a casa, hanno subito un forte trauma, ma torneranno.»
«E se non tornano?» Lo sguardo spiritato della ragazza si spostò su Victor.
Kell si bloccò, stava per sedersi ma... 
davvero, se non dovessero tornare?
«Torneranno, credimi.» E Victor stava parlando anche con lei.
L’ennesimo esaurimento nervoso, l’ennesimo Victor indaffarato a consolare Cecely.
«Torneranno forse... ma la polizia non farà niente, Rang non lo permetterà, lo sapete entrambi, non si lascia andare in giro come se niente fosse una persona sospettata per omicidio, la polizia avrà pensato che eravamo solo un branco di pazzi. Ecco che cosa significa, dovremmo accettare i fatti, siamo in un istituto psichiatrico o l’avete dimenticato? E’ stata una follia Kell.» Si voltò a guardarla bruscamente e lei credette per qualche secondo che l’amica le si sarebbe avventata contro: «Siamo andati dalla polizia e ci siamo scavati la fossa con le nostre stesse mani, dimmi Kell, quanto tempo credi che possa passare prima che la Strins venga a sapere che c’eravate anche tu e Jeh in mezzo a noi? Mi hai detto che la scorsa volta sembra particolarmente compiaciuta nel maltrattarvi e voi gli avete giurato di restarne fuori, Jeh ha avuto il buon senso di giurarlo, ma adesso andrà tutto a rotoli! La Dorles lo sa già, oggi mi ha detto che non credeva che io e Vic fossimo così stupidi. La notizia a quest’ora sarà già giunta alle orecchie della Strins.» Fece una pausa, per farle arrivare al cervello quello che voleva senz’altro dire: «Oggi vi massacrerà.»
«Non ho paura delle sue minacce.» Le disse Kell, non sapeva come comportarsi, non era in grado di metabolizzare tutte quelle verità e aveva la sensazione che quel dolore persistente all’addome non fosse semplicemente male... in effetti, tutte le cose che Cecely stava dicendo potevano essere la verità.
Cecely rise mettendosi seduta con l’aiuto delle braccia di Vic: «Non sono minacce Kell, non più di quanto lo siano state la scorsa volta. Può chiudervi lì dentro per ore. Potrebbe picchiarvi, non c’è niente che glielo impedisca, tua madre non ti crederebbe mai se tu glielo raccontassi, penserebbe che vuoi semplicemente andartene da qui e la Strins è abbastanza furba da farti male dove non si vedranno i lividi. Questa è colpa tua, ne sei cosciente e io sono assolutamente sicura che saresti in grado di tenerla testa, e lo farai... perché dovrai farlo.» La guardò dritto negli occhi, la sua ommetafobia in certi momenti la spingeva a esagerare con gli sguardi di fuoco, era arrabbiata e forse aveva anche ragione da vendere, era comprensibile che cercasse di urlarla, Kell non la biasimava, se la polizia non aveva creduto a nessuno era tanto per cominciare colpa sua, perché sua era stata l’idea di andare a testimoniare. 
«E Jeh? Spiegami. Lui che colpa ne ha?»
Quelle parole, nuovamente Kell si sentì scossa, scostò la mano dal braccio della ragazza come se si fosse scottata.
Non aveva detto a nessuno dei due del porta pillole perché Jeh non l’aveva fatto, aveva pensato che la cosa per qualche motivo sarebbe potuta essere imbarazzante per lui, quindi era rimasta zitta, e rimase zitta anche allora.
Cecely non lasciò il contatto i suoi occhi neanche per un’istante: «Hai tutto il diritto di accusare Nikki e chiunque altro; puoi andare a parlare con la polizia insieme a chi cavolo ti pare, potresti persino confessare che questo posto è un’orrenda truffa per quello che mi interessa... se i tuoi stupidi istinti autolesionistici te lo suggeriscono nessuno te lo impedisce, io non mi metterei mai tra te e le tue manie di protagonismo, ne tantomeno oserei mai costringenti a mettere da parte i tuoi gloriosi sogni di riuscire a incastrare a forza di ragionamenti  filantropici l’ipotetico assassino di Catherine. Fà tutto quello che vuoi, davvero la cosa non mi urta assolutamente!» Victor scosse la testa, facendole segno di smettere di gridare, ma Cecely ormai era partita in quarta e Kell non era neanche stupita, non riusciva neanche a offendersi, non era mai stata brava a farsi degli amici, le sfuriate erano molto più comprensibili degli abbracci e la storia dell’assassino di Catherine a Cecely non era mia andata a genio.
«Non fare quella faccia... come se mi compatissi, sei tu che dovresti compatirti; io non messo nei guai una ventina di studenti senza un motivo valido, tu l’hai fatto! Sono andati via Kell e potrebbero tranquillamente non tornare! E indovina chi ci va di mezzo? Purtroppo per te una persona che è anche mia amica! Già, forse ti sto confessando una sconvolgente verità ma è così: tu non sarai la sola a sorbirti le torture di quella pazza psicotica della Strins, ci sarà anche Jeh con te, e lui è il mio migliore amico e se non fosse stato per te non si sarebbe mai messo in un tale casino!» Victor la prese per la spalla: «Va bene Cecely adesso basta, hai detto quello che volevi.» «No! Sta zitto anche tu, se fossi nella H2 insieme a loro io mi ritroverei ad aspettare qui da sola che quella finisca di maltrattarvi, Victor sta zitto!» Lui ubbidì all’istante lasciandola andare, mancavano una decina di minuti e sarebbe sicuramente arrivato Jeh, e poi sarebbero dovuti andare a terapia di esposizione.
«Ma che cosa credi di fare? Pensi che ti permetterò ancora di mandare avanti questa tua malsana proiezione mentale? Scordati di portare ancora Jeh a quegli incontri con il gruppo concordante, Vic...» Disse poi rivolta al ragazzo dai capelli biondi che la fissava con gli occhi sbarrati: «Tu fa’ quello che vuoi ma non contare più su me e Jeh, la verità è sempre quella più semplice: Catherine si è buttata di sotto, non riuscirete a incastrare proprio nessuno.» Poi tornò a guardare Kell: «Ti è ben chiaro il concetto?»
Non lo pensi davvero avrebbe voluto dirle ma non ne ebbe la forza materiale; invece inghiottì la saliva e la sua voce, ridotta a un rantolo mortificato biascicò: «E’ stato Jeh...» Iniziò, non era abituata a scenate di quel genere, a quel punto preferiva di gran lunga degli sdolcinati abbracci, si schiarì la voce ancora attutita dall’ansia: «Jeh mi ha detto che avrei dovuto continuare, quel giorno con la Strins.» 
Cecely impallidì e scosse la testa, avrebbe dovuto saperlo: prima o poi sarebbe andata a finire in quel modo... la sua amica era stata per troppo tempo la direttrice di tutti e due i mondi dei ragazzi, poi era arrivata lei e Catherine si era buttata di sotto, e tutto era cambiato. 
Nonostante questo credeva che si sarebbe arrabbiata per Victor, non per Jeh, su di lui Kell poteva rivendicare un qualche diritto a causa di dieci anni prima, e invece... Cecely la colpiva proprio dove faceva più male.
«Lui non è in grado di decidere per se stesso.»
Victor era sempre più costernato: «Stai esagerando Cecely, se Jeh le ha detto così...» «Sì, e in che condizioni era quando ti ha detto quelle parole?» Kell deviò la domanda: «E’ libero di fare tutto quello che vuole, non puoi impedirgli di...» «Se è per il suo bene posso eccome.» Ringhiò Cecely mettendosi in piedi, fece su e giù per la camera a piccole falciate, i lacci neri degli stivali zampillavano sciolti. 
«Potrà anche averti detto che avresti dovuto continuare, ma per l’amor del cielo, devi avere il buon senso di fermati ora che sai... perché ora lo sai che stai combattendo una causa persa. Li lasciano andare a casa Kell, è finita. Quindi, te lo chiedo con tutta la tranquillità del mondo.» Ma quale tranquillità. «Lo dico per il tuo bene, non sai neanche tu che cosa significherebbe continuare per questa strada, ne con la storia di Catherine, ne con Jeh, e sia chiaro, so che non vuoi fargli del male.» Puntualizzò guardandola tutto a un tratto con meno astio: «Ma non ti permetterò di farlo finire ancora peggio rispetto a com’è già messo.»
«Cecely cosa dovrei...»
Puntualmente, come se l’avessero evocato Jeh si chiuse la porta alle spalle, guardò Cecely con un’aria talmente tanto tetra da spingere Kell a credere che per assurdo avesse sentito tutto.
«Andiamo?» Chiese a Kell senza sforzarsi neanche di apparire meno glaciale.
«Sì, sei pronto?» Per un attimo dimenticò tutto quello che l’amica le aveva urlato in faccia, la cicatrice di Jeh li sovrastava tutti quanti con la sua intensità, non credeva che Cecely avrebbe mai avuto il coraggio di dirgli che non era in grado di decidere per se, se lui l’avesse guardata in quel modo.
Forse quello che stavano facendo non aveva davvero senso, ormai quell’idea le si era insediata in mente, brancolavano alla cieca, nel buio, alla ricerca di rispose che forse non c’erano affatto.
Ma arrendersi no, questo mai.
Non quando aveva qualcosa per cui combattere.
Jeh la fece passare attraverso la porta, Kell credette che l’avrebbe seguita subito dopo, ma lui non la degnò neanche di uno sguardo, richiuse la porta e non appena Kell afferrò la maniglia per aprirla sentì lo scatto della serratura.
Le venne quasi da ridere, Jeh aveva davvero sentito tutto.


Passò dieci interminabili minuti con la testa premuta sulla porta di camera di Victor, aspettando da un momento all’altro la botta che l’avrebbe riportata al mondo reale.
Se avesse voluto ascoltare quello che si stavano dicendo lì dentro, avrebbe dovuto fare di più che premere l’orecchio contro la serratura. Quelle maledette camere insonorizzate...
Non c’era nessuno in giro, ma aveva paura di sentire qualcosa che non doveva.
Quando la porta la colpì alla tempia si scostò svelta, Jeh uscì, l’espressione del viso se possibile ancora maggiormente impietrita di prima.
Camminarono insieme per il corridoio, inizialmente lui rimase zitto, poi la guardò di lato e cominciò: «Potrà anche non avere senso.» Disse in un soffio: «Potremmo anche smettere di indagare su Catherine, vivere la nostra vita in questo buco infernale come se fosse la normalità, potremmo farlo.» Bisbigliò Jeh cominciando a camminare verso le scale con Kell che lo seguiva con il cuore che le martellava nel petto: «Ma a che prezzo?» 
Era proprio quello il problema, Kell non riuscì a rispondere.
«Rimanere con il dubbio di aver avuto ragione, pensare che questo posto sarebbe potuto cambiare... e intanto continuare a stare qui, ogni giorno, fingendo di non aver subito quello che abbiamo subito. No, Kell non andrà così, non lo faremo, e non m’importa proprio niente di ciò che dice Cecely, le serve troppo tempo per capire e non ne abbiamo mai avuto, tanto meno ora, bisogna continuare. Hai capito?»
Non era più così tetro, ora era caustico.
«Sì.»
«D’ora in poi ti aiuterò, te lo prometto.» 
«Io... grazie.» Lui scosse la testa, l’occhio di vetro scintillò della luce biancastra delle scale: «No Kell, sono io che devo ringraziare te, non voglio continuare ad avere paura, e tu mi hai dato una possibilità.»
Stava per dire che non era così, ma si morse la lingua per tenersi a freno, aveva sempre avuto il cervello predisposto a rovinare tutto, era nata con quella straordinaria dote.


In quel momento erano davanti alla porta della H2, sarebbero entrati e sarebbe cominciato tutto, questa volta davvero.
Kell aveva il netto presentimento che quel giorno sarebbero cambiate un sacco di cose, e infatti fu’ esattamente così.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** 12. Tradimento ***




- Minuscolo spazio autrice -
Okay, questo capitolo è l'ultimo della prima parte quindi preparatevi a un certo grando di sconvolgimenti (o forse no sta a voi giudicare) qualcosa mi dice che una mente particolarmente sveglia capirà subito leggendo dove i miei personaggi stanno andando a sbattere.
Uh, sono molto curiosa di sapere il vostro parere :3












12. Tradimento


Cecely la metteva alla prova ogni giorno, provocandola con quegli sguardi pieni di rimprovero, la cosa contribuiva a farle ingarbugliare lo stomaco. La verità era che non pensava davvero che Cecely potesse pensarlo davvero.
La piccola amica era diventata un mistero per lei, pareva sapere sempre tutti i loro piani prima di venirne a conoscenza e la guardava scocciata ogni volta che cercava di cavarle qualche informazione poco chiara su Catherine, come se invece le avesse appena rivelato di sapere un qualche segreto scottante su di lei.
Jeh, deciso a mettersi alla prova cercava in tutti i modi di essere d’aiuto, non era facile viste le difficoltà di comunicazione che incontrava a ogni passo avanti, ma per Kell già il fatto che non se ne stesse zitto in un angolo della stanza era abbastanza. 
Il fatto in se non era sorprendente: il ragazzo sociopatico con l’occhio di vetro aveva parecchie idee e controidee per mettere nel sacco la Patricks, il suo cervello la ingabbiava in automatico, il cervello di Jeh pareva ingabbiasse qualsiasi cosa anche Nikki e chiunque altro c’entrasse con la morte di Catherine.
Alcune ipotesi di Jeh erano anche piuttosto azzardate, la cosa stupì non poco Itsuko e Anluan, lo vedevano come qualcuno di profondamente razionale ovviamente, invece… 
Si respirava un’atmosfera a metà tra il teso e il sereno; davvero un peccato per Victor; inizialmente non fu’ da meno, ma la verità era che si sentiva ancora troppo in colpa per il modo in cui Cecely se l’era presa sia con lei che con Jeh. Si stava convincendo di avere delle colpe che neanche avrebbero dovuto toccarlo, diceva che sarebbe dovuto essere lui a farle cambiare idea, in tutto quel tempo evidentemente si era solamente illuso di esercitare questo potere, quella che era la sua migliore amica non voleva sentire ragioni, non voleva che parlassero dei loro intrighi davanti a lei ma appena qualcuno le faceva qualche domanda dimostrava di sapere alla perfezione ogni loro mossa.
Kell sospettava che avesse qualche confidenza che loro stessi ignoravano; la cosa non aveva grande importanza – visto che Cecely non aveva alcuna intenzione di confidarsi – anzi, forse non ne aveva affatto ma non riusciva comunque a fare finta di niente.
Ma certo, Kell si sarebbe aspettata di peggio, la loro era una convivenza civile e amichevole, Jeh era stato parecchio duro con lei, le aveva confidato Vic e così il gruppo concordante si incontrava senza che lei fosse presente, con il favore delle tenebre e i sussurri notturni di Anluan e Itsuko a sovrastare Kell, Vic e Jeh.


La Strins non aveva detto niente, si era limitata a smascherarsi dalla cortesia e fissarli con gli occhi pieni d’odio, un odio immotivato e profondamente disturbante; era diventata talmente cruda che la testa rasata avrebbe potuto caderle sulla scrivania e Kell non ci avrebbe neanche fatto caso.
Stava ripensando passivamente a quel particolare da giorni.
Poi ovviamente li aveva sbattuti dentro la stanza nera uno alla volta, lontani, divisi, congelati nei loro gusci, nella solitudine devastante di quell’ora di buio senza neanche dire una parola.
La paura come al solito, ovviamente si era immediatamente impossessata di lei, in un baleno si ritrovò attaccata al pavimento, incapace di muovere un muscolo, gli occhi sbarrati, il terrore di scoprire che cosa li aspettava non appena fossero usciti di lì.
Aveva una paura talmente angosciante persino di sentire Jeh avvicinarsi a lei che si diede più volte della stupida per avergli dato le pillole, se lui fosse riuscito a raggiungerla, forse si sarebbe messa a piangere, o a ridere in preda a una forma talmente deviata di isteria da spingerlo a scappare.


Quanto ai professori, erano talmente inferociti per le azioni deplorevoli di alcuni alunni (un gruppo sfrontato di studenti era persino andato in gruppo dalla polizia!) che l’indignazione per poco non aveva fatto fare loro tre compiti in classe a sorpresa nell’arco di quattro ore.
«Forse concentrandovi sullo studio la smetterete di riempivi il cervello di frottole.» Li aveva avvertiti la professoressa di lettere consegnando loro il test di filosofia fresco di fotocopiatrice.
Era stato un problema persino incontrarsi da Anluan di sera con il gruppo concordante per colpa del gravoso carico di compiti e verifiche che pesava sulle loro spalle.
Ma non erano soli, no, c’erano anche Mary, Nick, Louisa, Peter, Jim, Dave, Pamela, Fanny, tutti loro stavano muovendo il gruppo, anche se la parte principale del lavoro era dei pochi con cui Kell aveva maggiore confidenza.  Poco importa, quel gruppo era opera sua, stentava persino a credere all’idea che tutti seguissero con zelo glaciale ogni appuntamento nella speranza di riuscire a scoprire qualcosa, di trovare coraggio, o di farsi degli amici. Era diventata una vera terapia. Una fortuita terapia comportamentale per ragazzi non davvero malati, sorrideva all’idea di aver comunque fatto qualcosa di buono per tutti, anche se le cose non fossero andate male.
Ci avevano messo la faccia, e questo valeva più di qualsiasi scottante informazione.
Dal canto suo Victor era talmente preoccupato a causa di quello che stavano facendo che non riusciva neanche più a concentrarsi; dovevano fare le cose per conto loro e Vic era uno degli addetti alla fase orale, così il suo ruolo in breve finì tra quelli più marginali, lui non ne sembrò rattristato, Kell lo invidiava, troppo preoccupato persino per pensare. 
Mentre a me scoppia la testa
Jeh invece era onnipresente, aveva smesso di nascondersi nella penombra ed era uscito allo scoperto: «Non pensavo che avesse tanto materiale su cui arrovellarsi.» Disse Anluan mentre Itsuko scribacchiava degli appunti sul blocco per gli appunti di Kell. Ne era già cosciente, fin dall’inizio, dopo averli conosciuti meglio non si sarebbe fatto problemi a aprirsi con Anluan e Itsuko, non era abituato a parlare con degli estranei, no meglio, lui non parlava affatto con gli estranei e per questo era necessario che questi smettessero di essere tali; stava superando un mucchio di ostacoli e neanche pareva rendersene conto.
Così Anluan non credeva che Jeh avesse tanto materiale in testa, ironico: «A me preoccupava il fatto che ne avesse troppo.» Gli confessò Kell sorridendo affettuosamente. Dopotutto che Jeh fosse una macchina da guerra di cristallo era sempre stata una costante nella sua mente, non esisteva archetipo migliore per definirlo, era stato distrutto e lui aveva raccolto i cocci e si era ricostruito come poteva con le sue stesse mani. 
Non poteva fare altrimenti.
Ma adesso Kell poteva aiutarlo.


Metà parte del suo corpo quella volta formicolava dormiente, per quella ragione quando Jeh le aveva sfiorato la schiena aveva pensato che fosse stata solo la sua immaginazione. 
Se non avesse sentito la sua voce si sarebbe costretta a pensare di aver visto solo un miraggio in mezzo a un deserto sconfinato di buio.
Mentre Jeh cercava di farla rinsavire insieme ai suoi sussurri perentori e alle rassicurazioni stentate delle sue mani, un po’ alla volta Kell aveva recuperato le forze.
C’era Jeh, e se c’era Jeh non poteva essere poi così male.
Avevano cercato di tenersi occupati trascinandosi insieme per la stanza, il tutto fino a quando Jeh non toccò con mano lo spigolo superiore di destra, a quel punto era d'obbligo fermarsi a respirare qualche minuto.
La spalla di Jeh toccava la sua, la sua testa toccava la sua spalla, la sua mano sinistra toccava la sua destra, non c’era nient’altro da fare oltre che rendersi conto che ormai era fatta e aspettare.


In breve fu’ chiaro che una delle strategie più ovvie da adoperare che avevano ignorato fino a quel momento era constatare chi mentiva tra quelli che loro avevano dato alla polizia come possibili sospettati.
Indagare la faceva stare meglio, forse quello fu il periodo più sereno di tutta la sua permanenza al Quattrocentoventisette.
Interrogare i ragazzi era un’attività perfetta per non lasciare Victor nelle retrovie, lui e Anluan insieme erano un portento, e mentre Cecely si crogiolava nei suoi trattati di pace con la prof. di lettere loro evitavano a Victor di sentirsi in colpa per averla lasciata in disparte per così lungo tempo.
Scoprirono poco e niente, la maggior parte degli amici e stretti conoscenti di Catherine era ben disposta a parlare con loro ma naturalmente rifiutava di ammettere di non essere stata al piano inferiore dell’istituto quella notte.
«Solo io continuo a credere che la chiave sia la Patricks?» Domandò Anluan, passandosi aggraziatamente una mano rosea tra i lisci capelli castani.
Tutto il gruppo concordante scosse la testa, l’unico punto certo delle indagini oltre la morte di Catherine dovuta certamente all’impatto contro l’asfalto era proprio la Patricks, aveva aperto la porta del balcone a Catherine e alla persona che l’aveva spinta di sotto, sapeva chi era... oppure no? 
«Ci abbiamo già pensato.» Disse Kell sicura: «Rang si è preoccupato di coprire tutti i possibili assassini, le dichiarazioni che scagionato tutti i sospettati non lasciano praticamente spazio a dubbi, la Patricks non sa chi ha spinto Catherine di sotto, forse nessuno lo sa, nessuno eccetto Catherine.»
«A meno che...» Cominciò Jeh fissando con l’occhio grigio e con quello bianco il soffitto bianco: «Non sia stata lei a spingere Cat di sotto.» Itsuko annuì apertamente: «In quel caso però scaglionare tutti gli altri la renderebbe la sospettata numero uno e avrebbe avuto poco senso.»
«E’ improbabile.» Constatò Victor aggrottando le sopracciglia scettico: «Se Rang sapesse che è stata la Patricks allora avrebbe adottato una strategia diversa.»
«Vero.» Ammise Jeh: «Sanno che la polizia non intende perdere tempo su un caso di suicidio poco chiaro, quindi non è nelle intenzioni di Rang creare di propria iniziativa degli stratagemmi ulteriori per confondere la polizia.»
«Non è stata la Patricks.» Azzardò Anluan: «Però Rang l’ha rimossa dall’incarico mettendo al posto suo un’incompetente che si addormenta tutte le notti nel cubicolo della guardia...» Itsuko appuntò qualcosa sul suo blocco: «Cosa vorrà dire?»
Kell aveva già la risposta: «Gli interessa farci credere che è sempre stato così, anche prima del suo arrivo, senza che noi ce ne accorgessimo.»


Mentre tutto era fermo e immobile, pieno di possibilità ancora da scoprire nessuno aveva pensato alle prospettive future del gruppo.
Non sentiva di avere la soluzione a portata d’orecchio, ma sentiva di poterla raggiungere, era distante ma non inespugnabile. Stavano combattendo per trovare una soluzione, per Kell era sufficiente a tenerla occupata.


Quando avevano sentito la porta aprirsi e la chiave aveva finito di girare nella serratura si erano separati più veloce che potevano.
Jeh si era diretto verso la zona da cui era venuto, accovacciandosi in un angolo, Kell era tornata nel punto in cui il ragazzo con l’occhio di vetro l’aveva trovata e aveva fatto del suo meglio per sembrare il più possibile distrutta, non che non lo fosse affatto…
Scoprì, o meglio, scoprirono che non era complicato fingere di stare male. Il panico era una sensazione che provavano da sempre, da prima che la memoria cominciasse a fare il suo corso nei loro cervelli bastava anche solo ripensare alla volta precedente e il meccanismo scattava puntuale trascinante e al tempo stesso quasi confortante.
La professoressa Strins l’aveva presa per i capelli e trascinata fuori di forza, aveva detto sibilando esattamente quello che si era aspettata di sentirle dire.
Vigliacca, mentitrice, manipolatrice solo alcuni degli aggettivi tutt’altro che positivi che la donna con la bombetta le aveva rifilato nel tentativo di scuoterla. 
Le erano scivolati addosso come acqua. 
La Strins era solo l’ennesima pedina in una scacchiera infinita e non poteva farle del male, non davvero, non fisicamente e cosa poteva esserci di peggio, oltre quello che era successo a Jeh?
Aveva portato fuori il ragazzo trascinandolo, dando per scontato che lui non riuscisse a camminare, l’aveva insultato, l’aveva preso in giro, l’aveva minacciato ma niente di quello che la donna aveva detto poteva ancora scalfire Jeh. 
Una delle cose migliori di lui, una delle uniche cosa buone, le aveva detto il ragazzo con il viso spezzato appena qualche ora dopo, era che era già rotto, e se una cosa è già rotta non puoi spezzarla ancora.
In precedenza si era chiesta se sarebbero riusciti a tenerle testa... non ce ne fu bisogno, l’impossibilità di avere ragione con la Strins era pura verità, bastò loro abbassare la testa e subire passivamente; Jeh era maledettamente bravo in questo.


«Siamo usciti dalla H2 pensando di essere praticamente sul punto di superare l’acluofobia.»
«E?» Chiese Cecely dopo il racconto di Kell, sprimacciando il cuscino con eccessiva forza.
«E non era così.» Fù costretta a dire lei: «Non eravamo da soli.» Spiegò Kell, anche se in realtà eravamo soli, eravamo anche insieme.
«Domani mattina torna la polizia.» Tentò Cecely cambiando argomento.
«Lo so.» Fu tentata dal dire lo sappiamo.
«Porterà delle novità.»
Kell la osservò in silenzio. 
La piccola ragazza si stava allacciando gli stivali con le stringhe troppo stretti persino per i gusti asettici di Kell, che stesse ripensando alla sua sfuriata? Alla verità?
«Sarebbe ora.»
Cecely le diede una mano ad alzarsi in piedi, sapeva che si aspettava qualcosa da quel giorno, ma qualsiasi cosa si aspettasse, qualunque cosa avesse attraversato la sua mente contorta, non era quello che si era ritrovata davanti agli occhi quella domenica.


Nel corridoio del dormitorio del Quattrocentoventisette disseminati in giro c’erano agenti di polizia che con sguardo attento, esaminavano lo strano spettacolo che si era manifestato davanti ai loro occhi:
delle gigantesche x rosse ricalcate più volte erano sulle porte delle stanze, apparentemente senza un ordine preciso, presa inizialmente da uno strano panico silenzioso Kell si era sporta oltre Cecely per controllare che sulla sua porta non ci fosse alcuna lettera, non sapeva a chi appartenessero quelle stanze, onestamente non ne aveva idea.
Guardò Cecely cercando un appiglio, o conforto, non lo sapeva e poté invece dedurre che la ragazza aveva afferrato molto più di lei, sembrava sconvolta dalla constatazione della verità dei fatti.
Non le ci volle niente per constatare con i suoi occhi che non c’era nessuna x ne sulla porta di Victor, ne su quella di Jeh.
Inizialmente provò sollievo, poi le parole di Cecely la colpirono come un pugno in pieno stomaco.
«Kell... sono le porte di quelli sulla nostra lista.»
«Sei sicura?»
Annuì: «Assolutamente si.»
«Dobbiamo trovare gli altri, devo parlare con...» «No.» La fermò Cecely trattenendola per un braccio: «La cosa migliore che puoi fare per capirne di più è rimanere qui.»
«Cosa?» Inizialmente Kell non capì, troppo frastornata dai pensieri, poi ricollegò stancamente i fatti, annuì e si appiattì pazientemente contro il muro del corridoio. «Devi ascoltare quello che dicono.»
Non osò replicare anche se concentrarsi sulle parole bisbigliate dei poliziotti era quantomeno complicato.
«Stanno prendendo i numeri delle porte e i nomi dei ragazzi che le occupano.» Le spiegò Cecely mordendosi il labbro inferiore.
Sotto pressione Kell se la cavava bene, le servì qualche altro istante per smettere di provare l’impulso involontario di cercare gli altri ma alla fine riuscì a tenere i nervi saldi.
«Quanti sono?»
«14.»
«Presi tutti?»
«Sì.»
«Posso vedere la lista dei nomi?»
Il poliziotto strappò di mano alla collega la lista, la guardò con le sopracciglia talmente aggrottate da diventare un’unica linea castana, alzò lo sguardo e incontrò quello della collega che gli aveva passato la lista: «Dove ho già visto questi nomi?»
«Non se ne ricorda neanche.» Bisbigliò Kell all’orecchio di Cecely: «Questo dovrebbe farci capire quanto abbiano preso sul serio la nostra indicazione, ci sono volute due settimane per...» Cecely la zittì con un gesto brusco della mano facendole segno di ascoltare ancora.
«Stai dicendo che sono esattamente gli stessi?»
«Esattamente signore.» Disse la poliziotta: «Sono fatte con un pennarello indelebile rosso e...» «Aspetta! Non ci sono dubbi, questo significa che devono averle fatte il gruppo di ragazzi che ci ha dato i nomi, non può essere altrimenti.»
Kell impallidì.
«Certo, la coincidenza è davvero sorprendente.» Tentò un altro.
«Ma qualche coincidenza! Questo è chiaramente un modo per attirare l’attenzione, ve l’avevo detto, questi ragazzini non aspettano altro, stanno accusando i loro stessi compagni di nascondere qualcosa, o peggio, di aver spinto quella povera ragazza...» «Signore.» Lo fermò la poliziotta con un gesto sbrigativo che voleva indicare tutti quelli che stavano ascoltando, Kell, Cecely e tanti altri ragazzi appena usciti per fare colazione.
«HEY! Non c’è niente da guardare, fate largo!» 
Kell si ritrovò così a provare antipatia per una persona che non aveva mai visto, in realtà non era una grande novità per lei: «Se le indagini si svolgono in questo modo sotto le direttive di incompetenti del genere direi che non mi stupisce che non siano neanche lontanamente vicini alla verità.»
Nessuno si smosse di un millimetro, il poliziotto, infastidito chiese la presenza di Rang in corridoio. «Sono solo delle x su delle porte, lascia perdere.»
«X indelebili su delle porte, visibili a tutti. Fai andare via tutta questa marmaglia!» 
Cecely indietreggiò accanto a Kell: «Finirà per svegliare tutti.»
Ci aveva preso in pieno.
In un paio di minuti gli schiamazzi proveniente da fuori fecero riversare una quantità indefinibile di ragazzi fuori dalle stanze, ma nessuno pareva intenzionato a scendere di sotto.
I proprietari delle stanze con le x fortunatamente non vennero informati praticamente su niente, non si sapeva ancora chi con precisione avesse dato alla polizia una certa lista e nessuno venne informato del fatto che i nomi erano gli stessi, anche se un’attenta ascoltatrice mattiniera avrebbe potuto sentire tutto. «Presto le voci cominceranno a girare.» Disse Cecely inspirando: «E presto cominceranno a venire fuori i nostri nomi.»
Kell preferì non commentare, aveva ragione da vendere già da sola.
Una ragazza particolarmente esuberante, si era fatta delle gran belle risate, altri se n’erano andati indispettiti a fare colazione, Kell cercava ancora Jeh o Victor, o perlomeno Anluan o Itsuko con lo sguardo.
Quando vide gli ultimi due venire verso di loro con un’aria arrabbiata si sentì subito rincuorata. Erano più grandi, popolari, di carattere, non avevano veri e propri problemi psichici e avrebbero certamente saputo cosa fare.
Le parole di Anluan la colpirono come una pallonata in testa.
«Qualcuno ci ha tradito.» «An!» Sbottò Itsuko.
Kell si ritrovò a fissare il pavimento senza convinzione, ovviamente ci aveva già pensato, ovviamente avrebbe preferito che quella possibilità rimanesse nell’ombra più tempo possibile.
«Cosa? Non è forse così?» Era furioso: «Cecely, sei stata tu?»
Per un attimo Kell credette che la piccola ragazza l’avrebbe schiaffeggiato brutalmente.
«No.» Disse invece convenzionalmente serena: «Non l’avrei mai fatto.» Anluan non le staccò gli occhi da cerbiatto di dosso finché non fu certo che dicesse la verità.
«Appena prendo quest’idiota traditore non so cosa...» «An, abbassa la voce.» Gli disse Itsuko agitata e calma insieme.
«Ne parleremo in un altro momento, adesso è meglio...»
«Che recuperiate gli altri pezzi del puzzle e veniate nell’aula B2 immediatamente, vi aspetto lì.»
La poliziotta che aveva appena pronunciato quella frase clamorosa sgusciò via dalla calca senza neanche voltarsi a guardare le loro facce sconvolte.
Anluan la guardò allontanarsi pallido come un lenzuolo: «Ma... sono tutti completamente impazziti?»
Nessuno gli rispose. 
Tutti insieme cominciarono a cercare gli altri, ci sarebbe stato bisogno di ognuno di loro, altrimenti, che fosse una prospettiva irrealistico o no smascherare il traditore sarebbe stato impossibile.


Potevano chiederlo in qualsiasi modo, scongiurare, strepitare, minacciare; tutti loro si trovavano in un posto che non avevano scelto, un posto odiato da tutti; senza coraggio e senza onore, un posto dove dire la verità dopo aver tradito sarebbe stato semplicemente irrealistico.
Kell se ne rese conto dopo una quindicina di minuti, smascherare il traditore non sarebbe stato impossibile, era impossibile.
Kell sedeva con la testa tra le mani al primo banco, un banco estraneo, alla sua destra Cecely scuoteva la testa piena di rancore. La ragazza era stata nuovamente indicata come colpevole, e fatto ancora più irritante non mentiva, in breve l’ipotesi che fosse Cecely la traditrice venne accantonata.
Quanto agli altri sospetti, non li conosceva abbastanza da accusarli, ne tanto meno da garantire per loro.
Una strana nuova certezza le si era annidata nel cervello...
«Sapete che è finita vero?» Insinuò a braccia conserte la poliziotta, tutta severa nella divisa da lavoro.
Jeh, dalla sua sinistra annuì abbassando lo sguardo amaramente sulle mani strette a pugno sul grembo, la stessa cosa fecero molti altri, e come negare?
«In tutti i sensi; se anche potevate aver attirato un po’ di attenzione su di voi grazie alla lista che ci avete fortino, vi dovete rendere conto da soli della verità, adesso è tutto perduto.» 
Kell purtroppo non poteva dirsi più d’accordo.
«Avete dimostrato ai miei superiori che la vostra è stata solo una trovata per fare scalpore, o peggio, una denuncia fatta con malvagità contro i vostri stessi compagni.»
Anluan digrignava la mascella e lei non era abbastanza lontano perché potesse ignorare la cosa.
«La persona che ha marchiato le porte dei vostri compagni che sapesse o no a cosa andava incontro ha messo la parola fine al vostro gruppo di ribelli.» Raccontava quella verità come se fosse qualcosa su cui aveva attentamente riflettuto in passato, ma com’era possibile, quella poliziotta non ne aveva avuto il tempo materiale, o no?
«Certo.» Disse Anluan sbuffando: 
«Nessuno di noi potrà più fidarsi dell’altro.»
«Esatto.» Quella era la cosa peggiore, Kell lo sentì in ogni fibra della pelle, la loro forza per quanto vanifica, non organizzata,   priva di costruzioni era numero, qualunque cosa avessero scoperto, dietro ci sarebbero stati tutti loro; era forse, l’unica cosa studiata, quello che aveva chiesto a Victor in sala di proiezione tempo prima. Un gruppo di ragazzi schizzati fa un certo effetto, una sola ragazza un altro, soprattutto in un posto del genere. 
Lei aveva avuto il coraggio di proporre a Jeh l’idea delle pillole solo grazie alla sicurezza che aveva raggiunto stando in testa al gruppo. Senza lo scudo di facce, privi di guscio, non avevano niente.
La sua creatura, la terapia comportamentale naturale e senza filtri che era il rapporto sociale e disinteressato che ognuno di loro aveva con l’altro, infranto, in mille pezzi dispersi in un mare di scaglie.
«Ci è stata fatta pressione dal dirigente Rang...» 
Tutta l’aula trattenne il respiro.
«Il caso verrà chiuso e archiviato nel giro di due giorni. Catherine, la vostra Catherine ha scelto di suicidarsi quella notte di un mese fa, adesso è il momento. Dovreste accettarlo.
Quindi sì, vi rispondo in anticipo io nel caso ve lo stiate chiedendo, è finita da tutti i punti di vista la stiate vivendo. Mi dispiace.»
Mi dispiace? Si era fatta chiudere a chiave dentro una stanza nera per sentirsi dire mi dispiace, il dispiacere era un sentimento distante da quel momento. La rabbia aveva molto più senso.
Kell avrebbe preferito rimanere arrabbiata per tutta la vita, piuttosto di rimanere dispiaciuta per altrettanto tempo e su questo punto non aveva alcun dubbio.
La poliziotta, occhiali squadrati e sorriso all’insù li salutò dicendo che sperava con cuore sereno di non doverli incontrare in spiacevoli situazioni nuovamente.
Kell sperò ardentemente il contrario, senza sapere se fosse male o bene, quello l’avrebbe saputo solo in futuro.
Due giorno dopo sarebbero tornati Emeric e Nikki pensò,mentre usciva fuori dalla B2. Forse c’era ancora qualche speranza, se non fosse stata da sola ovviamente.
Dovremmo pur riuscire a fidarci di noi stessi, altrimenti tutto questo che senso può aver avuto? 
Non l’ho fatto per me, l’ho fatto per la giustizia, e per tutti noi.
Nessuno salutò nessuno, l’uno contro l’altro, con il gene del sospetto attaccato fin dentro le viscere. 
Era la voce della ragione di ognuno di loro a dire la verità candidamente, al loro posto, non si sarebbero più fidati, il Gruppo Concordante aveva quindi cessato definitivamente di esistere.


Metà di loro era già andata via, l’altra metà riusciva a stento a guardarsi in faccia, Kell vide il dubbio con i suoi occhi, e vide anche la poliziotta venirle incontro, trattenendo lei e Jeh per il rotto della cuffia mentre imboccavano le scale: «Hey, mi sembrate tutti ragazzi a posto.»
Lo sguardo le cadde sbadatamente sulla parte sinistra della faccia Jeh, la parte di viso che non si poteva definire sicuramente a posto. La parte di Jeh che doveva essere ignorata.
Neanche a dirlo Jeh abbassò lo sguardo, mentre la poliziotta si dava dell’idiota senza saperlo.
Kell avrebbe riso, in un altra vita.
«Se doveste scoprire qualcosa, di veramente rilevante...» Consegnò a Jeh un biglietto da visita con aria di scuse. 
«Ora siete liberi da eventuali traditori e forse la chiusura del caso e un po’ di pace non farà male a quelli che di voi sono rimasti.»
Lanciò uno sguardo alle sue spalle, uno sguardo molto allusivo.
Automaticamente Kell e Jeh si voltarono a guardare chi c’era ancora sulle scale, e non ebbero alcuna sorpresa.
Victor, Anluan, Itsuko... e Cecely, naturalmente.


Ma erano sempre stati loro, Kell lo seppe in quel momento esatto, numero a parte non avevano mai avuto davvero bisogno di aver paura dei traditori.


Era buffo, prima dei segni sulle porte aveva sempre avuto l’impressione di stare facendo qualcosa di utile.
«Abbiamo fatto questo disastro tra noi senza cavarne niente.» Disse Victor il giorno dopo, non si era ancora perdonato di non essere riuscito più a essere realmente utile alle indagini.
Kell se ne stava con la testa sotto il suo cuscino, quella riunione in camera sua le sarebbe servita solo perché lei facesse l’ennesima “sparata” che non avrebbe poi portato a nulla.
Di ostacoli ne era disseminato il mondo, di sabbie mobili solo dove camminavano loro.
«Io non credo che qualcuno di noi ci abbia tradito.»
A quelle parole, qualcuno, Jeh, tentò di toglierle il cuscino dalla faccia: «Che cosa stai dicendo?»
«Sto dicendo una delle tante verità.» Tentò di spiegare: «Non ne abbiamo mai cavato niente, non ne avremmo mai cavato niente, pensateci.» Disse rivolta anche a Cecely, Anluan e Itsuko: «Che cos’abbiamo fatto fino ad adesso oltre pensare e poi ipotizzare
Le costava dirlo, era stato anche terapeutico, utile, appagante, ma la verità era un’altra.
«Niente.» Ammise Jeh tirando di nuovo il cuscino: «Ma non capisco cosa c’entri con quello che hai detto: cosa vuol dire che nessuno ci ha tradito?»
«Quello che hai sempre saputo.» Rispose Kell: «Questa storia non verrà mai a galla, dobbiamo farcene una ragione, ma ora che lo sai chiediti perché non verrà mai a galla? La risposta è una sola. Perché ci sono troppi che ci ostacolano.» Basta tergiversare, Kell ne aveva piene le tasche. Non si sarebbe più parlato di Catherine – come di una ragazza assassinata, magari si era immaginata tutto – in quel loro strambo gruppo, meglio dimenticare, ma c’era quel netto presentimento che le si era annidato in testa che aveva bisogno di venire fuori:
«Non siamo stati traditi. Qualcuno sotto le direttive di Rang ha fatto le x sulle porte di quelli sulla nostra lista, è pieno di psicologici qui, era assolutamente ovvio che questo ci avrebbe impedito di far rimanere insieme il gruppo e di fidarci l’un l’altro.»
Per un po’ la stanza tacque.
«Non siamo mai stati un grosso problema.» Disse invece Anluan, Kell riusciva quasi vederlo accigliarsi.
«Forse, o forse lo eravamo e ci hanno solo fatto credere di non esserlo.»


Tutta la sicurezza raggiunta venne così spazzata via in pochi istanti, perché qualunque fosse la risposta, qualsiasi idea si fossero creati gli altri difficilmente sarebbe uscita dalle loro teste.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** 13. L'inevitabile ***



- minuscolo spazio autrice -
Uh bene, ci tengo a rigraziare Fra_99 che ha recensito lo scorso capitolo (sperando di non deluderti sul più bello), grazie mille cara!
E ora siamo finalmente giunti all'invevitabile punto atopico (che esagerata che sono oho) che aspettavamo da tanto e direi che era ora, beh spero di non avervi annoiati fino ad adesso e ora vi lascio, (e vi lascerò nuovamente alla fine del capitolo con una chiusura bastardissima ma vabbè) alla prossima. 

 







PARTE SECONDA





13. L'inevitabile.


L’ennesima interminabile lezione di matematica, quanto tempo era passato? Venti minuti forse; in realtà era un’eternità.
Sapeva che la professoressa Soan non l’avrebbe chiamata quel giorno, doveva interrogare quelli insufficienti in vista della pagella; unicamente merito di Victor se lei non era tra quegli sfortunati, la matematica sarebbe sempre rimasta un mistero per lei, era troppo logica e Kell si sentiva tutto benché meno logica nonostante quello che avevano cercato di fare con il gruppo Concordante.
Jeh le fece finire una striscia di carta sotto gli occhi.
Perché perdesse tempo a scrivere quando avrebbe potuto più semplicemente bisbigliare Kell lo attribuiva alla sua nuova e ritrovata mancanza di voglia di comunicare, per quanto le riguardava, avrebbe anche potuto evitare di chiedere ma qualcosa le disse che lo faceva più perché si stava annoiando che per altro. Jeh non si annoiava facilmente.
Dopo andiamo direttamente fuori. Vieni?
Sotto scrisse velocemente una risposta affermativa che non fosse troppo fredda e bisbigliò a Cecely il piano degli altri due, anche lei era d’accordo.
Usciti dalla classe si erano incamminati fuori dall’istituto come una banda di ladri, con gli occhi bassi; in effetti a nessuno di loro piaceva particolarmente stare all’aperto, forse neanche a Cecely. Presero qualcosa per pranzo dalle cuoche e come avevano concordato occuparono l’ombra di un albero sul retro del Quattrocentoventisette, era diventato una specie di rituale quando c’era bel tempo.
Era meno deprimente di come potrebbe sembrare, il tempo era passato in fretta e l’equilibrio sostanzialmente ricomposto, c’era il sole e tutto sommato Kell non aveva motivo di lamentarsi della normalità della vita quotidiana vissuta giorno per giorno.
Persino la Strins aveva smesso di stare loro col fiato sul collo, terapia di acluofobia procedeva, Jeh si impasticcava, raggiungeva Kell, il calvario finiva. 
Era sorprendentemente piacevole sentire quella sicurezza intermittente nel mezzo del buio, terapeutico quasi
Anche la Dorles con gli altri due si era notevolmente addolcita, le cose sembravano essere tornate alla normalità.
Forse era proprio quell’oppressione malsana a mancarle un po’, aveva sempre avuto una predilezione un po’ malata per i casi senza speranza; e aveva sempre ignorato puntualmente di ammetterlo.
E poi, così, come se fosse qualcosa di assolutamente normale, Nikki e Emeric, seguiti da un altro paio di ragazzi passarono davanti a loro, mano nella mano, con due sorrisi ovvi da copertina patinata e, accessorio immancabile in una giornata come quella erano rivestiti da occhiali da sole.
Cecely li guardò mordendo il panino con meno rabbia di quanto si sarebbe potuto azzardare. 
Kell non poté fare a meno di scrutare Emeric dubbiosa, sorrideva in modo così vuoto e inconsistente da farle sperare che smettesse di farlo subito, la metteva a disagio.
«Guardateli.» Disse Cecely con un rancore nuovo nella voce: «Vorrei essere come loro, indifferenti ai mali del mondo.»
Victor sibilò il proprio dissenso: «Credevi che sarebbero rimasti in lutto per sempre?»
«Credevo che avessero maggiore rispetto di lei.»
Jeh lasciò andare il panino, come al solito non aveva fame, si stese sul prato verde appuntito chiudendo gli occhi, la cicatrice sommersa quasi per intero dai fili d’erba.
«E in che modo le avrebbero mancato di rispetto?»
Cecely alzò le sopracciglia come se tutto a un tratto non avesse avuto più la più pallida idea di cosa rispondere neanche avesse appena insultato Victor o detto qualche bestialità: «Ah non lo so. Forse sono io che vedo le cose ingabbiate in regole morali troppo strette... non saprei.»
Kell sia appoggiò al tronco dell’albero stancamente – anche se in realtà non aveva alcun motivo di esserlo – rifletté silenziosamente.
E poi Cecely aveva dovuto sapere fin dall'inizio che le cose tra Emeric e Nikki avrebbero preso quella piega.
«Non dire sciocchezze Cecely, le regole morali qui non c’entrano niente...» Disse Victor tutto d’un fiato.
Si chiedeva perché nessuno avesse il coraggio di dare voce ai proprio reali pensieri. Kell avrebbe voluto urlargli in faccia di dire quello che pensava davvero ad alta voce se ne aveva il coraggio. Non lo fece, non si parlava di quella ragazza caduta giù dal balcone del Quattrocentoventisette da quando il gruppo concordante si era placidamente sciolto, non le importava un fico secco di urtare la sensibilità di Cecely, non avrebbe parlato a quello scopo.
«Il fatto è che se davvero le cose stanno come noi pensavamo... come sicuramente tu credi Cecely.» Cominciò Kell direttamente rivolta a lei: «Emeric in questo momento si sta consolando allegramente con l’assassina di Catherine, quindi sta tranquilla Cely, la moralità non c’entra niente, si tratta solo di avere un minimo buon gusto.»
La corteccia dell’albero le graffiava leggermente la schiena, sospirò, aveva detto la verità.
Jeh rise. Rideva sempre quando si faceva qualche battuta un po’ di cattivo gusto come quella, Victor la guardò pietrificato, Cecely invece... sorprendentemente annuì dando un altro morso rabbioso al panino: «Non lo sopporto proprio... sapete, io ne sono certa, per quanto questo sia raccapricciante.» Annuì a se stessa come per infondersi coraggio: «Emeric deve saperlo, lui sa qual è stato il ruolo di Nikki in questa storia, qualunque ruolo abbia avuto, ha fatto quel discorso davanti a tutti per crearsi un alibi come sicuramente ha voluto Rang e nonostante questo, ecco cosa ci ritroviamo davanti.»
Si girò e guardò deliberatamente il gruppo di ragazzi seduti sul prato, i sorrisi sereni e riposati, gli occhiali da sole luccicanti...
Anche Kell, Victor e persino Jeh che era ancora steso a terra si voltarono a guardarli. C’era qualcosa di perfetto nella normalità che sfoggiavano su quel prato pieno di studenti, con noncuranza, come se quella normalità fosse effettivamente normale.
Nikki gettò la testa di capelli rossi all’indietro, ridendo a una battuta con troppa foga. Si sentì un suono che fece voltare buona parte del prato dalla loro parti, quasi un grido: “Catherine” un nome uscito fuori dalle labbra di Nikki con un’inflessione scherzosa.
Un’inflessione che forse non venne apprezzata.
Successe tutto in un attimo.
Talmente veloce di non dare il tempo ne a Cecely, ne a Victor di fare assolutamente niente.
Successe e basta, quel Qualcosa che doveva succedere, il taglio della tela già tagliata in passato, lei lo seppe in quell’esatto momento, inevitabile, assolutamente senza scampo, accadde.
Però... 
no.
Cecely si portò una mano alla bocca, Victor si trascinò un po’ più dietro, preso da un un ultimo moto di movimento prima di cadere nel nulla dell’incontrollabile afferrò il polso di Cely.
Kell invece confermò a se stessa i propri timori, quelli che soppesava mentalmente da tempo orami: non le importava più niente di proteggere se stessa dagli altri.
Riuscì a coprire Jeh affinché non potesse vedere con l’occhio buono, lo trascinò vicino al tronco dell’albero, mentre lui rimaneva immobile, fermo con entrambi gli occhi, quello grigio e quello bianco, sbarrati in una maschera d’orrore.


Erano in quattro. 
Nikki, Emeric, e poi una ragazza e un ragazzo. Quest’ultimo  appunto con una calma quasi spaventosa prese il coltello con cui fino a un minuto prima aveva tagliato silenziosamente la sua fetta di carne e l’affondò nella gola scoperta della ragazza dai capelli rossi.
Kell si rese conto subito di non essere in grado di salvare se stessa, immediatamente. Così dopo aver messo in salvo Jeh, la sua testa contro la sua gamba sinistra, alzò lo sguardo e continuò a guardare la scena, ininterrotta.
Due volte, Kell si sentì svenire, tre volte, forse stava per vomitare, quattro volte, non riusciva neanche più a contare ne tantomeno a respirare, la quinta coltellata fu come se l’avesse ricevuta lei al posto di Nikki, distesa a terra, in mezzo all’erba, con la gola macchiata di sangue, il ragazzo che la sovrastava con gli occhi accecati di odio, l’odio più puro che avesse mai visto negli occhi di qualcuno in vita sua.
Emeric guardava la scena con la bocca spalancata, l’altra ragazza era assolutamente pietrificata, immobile, Kell voleva solo che finisse, ma sarebbe finita solo molto tempo dopo, quando finalmente qualcuno cominciò a urlare guardando fissamente quella carneficina silenziosa attirando l’attenzione delle guardie.
Arrivarono correndo, mentre Kell stringeva convulsamente la spalla di Jeh, strapparono il ragazzo dalla gola di Nikki.
Mentre finalmente lo portarono via disse qualcosa, o meglio, urlò qualcosa, qualcosa che difficilmente al Quattrocentoventisette sarebbe stato dimenticato: «E’ stata lei, e con lei Emeric. L’hanno uccisa perché sapevano che i genitori di Cat non potevano più pagare la retta. L’hanno uccisa perché non avrebbero mai potuto scappare dai loro soldi, perché si invidiavano a vicenda, si mentivano a vicenda...»
Piangeva convulsamente, i capelli scuri sul volto, con le mani sporche del sangue di una ragazza che dichiarava essere stata sua amica. Forse avrebbe aggiunto dell’altro, ma non gli fu permesso, le guardie gli tapparono la bocca. 
Jeh cercò di alzare la testa, Kell riuscì a impedirglielo spingendolo di nuovo sull’erba, non voleva che guardasse, non ne aveva bisogno.
Cecely si era presa la testa fra le mani respirando affannosamente e Victor nello stato in cui era non poteva in alcun modo aiutarla.
Una delle guardie colpì bruscamente il ragazzo, lo ammanettò, come se tutto a un tratto si fosse accorto che quello stava parlando troppo per essere un ragazzo muto. 
Lui smise di parlare, chino e a testa bassa venne portato via.
Scrutò ogni minimo particolare della condizione in cui era, ma senza riuscire in alcun modo a registrare i dettagli del suo volto, era una macchia nel mezzo del nulla.
Kell non lo rivede mai più.


«E’ stata lei, e con lei Emeric. L’hanno uccisa perché sapevano che i genitori di Cat non potevano più pagare la retta. L’hanno uccisa perché non avrebbero mai potuto scappare dai loro soldi, perché si invidiavano a vicenda, si mentivano a vicenda...»
Quelle parole riecheggiavano nelle teste di tutti gli studenti del Quattrocentoventisette persino quelli che non erano lì fuori quel giorno le aveva sentite.
La polizia aveva messo a soqquadro l’intero istituto.
Perquisendo, cercando, ascoltando, tutto quello che potesse aiutarli a fare ordine nelle loro cartellette.
Il tutto mentre Rang non poteva fare assolutamente niente per evitarlo, neanche accusarli di essere pazzi.
Rang in quei momenti non poteva sapere quante persone erano state ascoltate, ne quanti avessero detto la verità che tutti sapevano su quello che Micheal Poole aveva detto dopo aver accoltellato Nikki.
Appena venne a saperlo Rang volle avere un colloquio approfondito con il capo della polizia e persino due investigatori, loro se ne stavano in attesa, in sala da pranzo, senza sapere assolutamente niente ne sulle condizioni di Nikki ne sulle indagini.
I rimasugli del gruppo concordante erano tutti seduti al solito tavolo, l’atmosfera era tesissima, ormai le briglie che li costringevano a stare zitti per non dire troppo tra loro erano andate via insieme al resto del gruppo, non aveva più senso rimanere zitti e Kell aveva troppa voglia di sapere...
«Io...» Fece invece Cecely, come se avesse appena sentito i suoi pensieri, alzò gli occhi dal quaderno di psicologia e li guardò uno per volta come per accertarsi che ci fossero anche Anluan e Itsuko: «Ora, mi rendo conto di quanto sia profonda questa storia.» Sperò ardentemente che nessuno commentasse malamente le sue parole, e così fu. 
«Pensavo che Catherine non potesse essersi uccisa, credevo anche che purtroppo Nikki avrebbe potuto farle del male, è sempre stata invidiosa di lei, non è un movente abbastanza forte ma poteva essere un inizio, ho voluto ignorare questa verità, lo sapete tutti, non mi è mai piaciuta l’idea di mettere le mani nella vita di Catherine e scavare fino a quando l’ultima menzogna non fosse venuta fuori, era importante per me, la sua vita mi era familiare, distruggere questo voleva dire distruggere di proposito il mio equilibrio.» Inzuko e Anluan la ascoltavano parlare interessanti, Kell non sapeva dove esattamente volesse arrivare con quel discorso, certo, tutto quello che stava dicendo corrispondeva alla perfezione alla verità però, aveva come l’impressione che lei volesse dire di più.
«E ora, Micheal Poole.» Sospirò come se le fosse difficile continuare a parlare: «Uno degli amici più stretti di Catherine accoltella Nikki davanti a tutta la scuola e come se non bastasse dice anche che Emeric e Nikki sono stati complici nella sua morte.» Si lasciò sfuggire una risatina nervosa: «Non posso rimanere ferma davanti a tutto questo, nessuno di noi può farlo.»
«Che cosa pensi di questo, Cely?» Le chiese Kell, sapeva e aveva sempre saputo che il parere di Cecely sarebbe stato spesso determinante ai fini della risoluzione del caso, perché lei conosceva tutti quelli implicati.
«Penso che abbiamo visto tutti che cos’ha fatto Catherine quando Emeric – quello che era stato incontrovertibilmente il suo migliore amico – l’ha minacciati di dire a tutta la scuola il vero motivo per cui lei aveva potuto andare via. Avrei dovuto aprire gli occhi allora, ma non avevo un tassello importante: i suoi non potevano più pagare la retta, Emeric… come ha potuto! Avete visto tutti la sua freddezza quel giorno, il modo in cui la spingeva via mentre lei lo supplicava di lasciarla spiegare, di parlarne.» Scosse la testa sconsolata: «Avete visto tutti che Emeric non ha mosso un muscolo quando Micheal ha accoltellato Nikki...»
«Cecely.» Kell prese un respiro profondo: «Credi alle parole di Micheal?»
«L’hanno uccisa perché sapevano che i genitori di Cat non potevano più pagare la retta. L’hanno uccisa perché non avrebbero mai potuto scappare dai loro soldi, perché si invidiavano a vicenda, si mentivano a vicenda» Ricordò Kell amaramente, ma Cecely rimaneva sempre Cecely e lei si aspettava un no come risposta.
Non avrebbe potuto sbagliarsi di più.
«Sì.» Disse, solo in quel momento Kell notò le occhiaie scure che le solcavano gli occhi verde muschio: «Emeric è diverso da come pensavo che fosse non è la persona che credevo, non me n’ero mai accorta ma avevate tutti ragione, lui non è… ma non è importante quello che credo io, quello che crede la polizia invece si.» Si voltò a guardare indietro, verso la porta distante anni luce dell’ufficio di Rang dove ora era rinchiuso il futuro delle indagini.
«E non crederanno alla verità di Michael a meno che non abbia fortino delle prove schiaccianti, fatto piuttosto remoto scommetto.»
La durezza delle sue parole non colpirono solo Kell, ma anche gli altri. Anluan era stato amico di Catherine per un po’, o meglio, la conosceva di persona e la stessa cosa poteva dire Itsuko, forse nessuno dei due avrebbe accusato Emeric come sottilmente stava facendo Cecely, ma entrambi erano scossi e pieni di parole non dette, intenti a mordersi le labbra convulsamente come se fossero indecisi.
«Probabilmente hai ragione.» Convenne Anluan con gli occhi bassi mentre intanto Itsuko annuiva.
Victor le sorrise: «Hai... aperto gli occhi, o sbaglio?»
Cecely trovò la voglia di farsi una risata: «Era ora, non credi?»
«Era ora.» Disse Victor ridendo anche lui, orgogliosamente si accorse Kell.
Allungò la mano dall’altro lato del tavolo e strinse la sua con una ritrovata gentilezza che tanto aveva colpito Kell quando l’aveva conosciuto.
Guardandoli intenti a consolarsi con lo sguardo, orgogliosi in realtà l’uno dell’altra una serie di pensieri più che ovvi la investirono.
Da tempo, era chiaro come le cose progressivamente stessero lentamente cambiando, sia in Victor che in Cecely. Lei aveva tolto da davanti agli occhi la benda che le permetteva di guardare solo al di là del suo naso. Lui faceva la cosa migliore che una persona come lui potesse fare: superare il suo trauma. Ed era impossibile ignorare quella verità, tutti avevano dovuto ammettere che le paure di Victor con il passare del tempo stessero finalmente scomparendo. La Dorles si era complimentata con lui, Vic stesso parlava liberamente, conosceva liberamente chiunque gli interessasse e se doveva arrivava persino a toccare o a lasciarsi toccare con mano dalle altre persone, certo, per prima Cecely, poi le altre.
Davanti agli occhi di Kell passò ancora un’immagine nitida come il foro di un proiettile su una fronte bianca; la notte in cui ogni cosa era cambiata Victor aveva consolato Cely e dopo averla trascinata di peso per farla rientrare nell’istituto l’aveva presa tra le sue braccia, fregandosene di tutto quello che avrebbe potuto e forse dovuto impedirglielo.
Kell lo riconosceva diverso e anche Cecely si era resa conto del cambiamento, l’aveva sempre vista guardare oltre, ora sembrava come se stesse cercando di grattare la superficie, la sua amicizia con Vic, nata per necessità, diventava qualcosa di... differente?
Fu proprio in quei momenti in cui si decise un’altra parte determinate della vicenda, Kell si alzò in piedi, determinata ancora a andare a telefonare a casa, aveva bisogno di rassicurazioni, vere o finte che fossero. 
Anluan si alzò con lei: «Vengo con te, voglio chiamare mio padre.»
Il pavimento a placche bianche sfilava sotto i loro piedi, fissare il pavimento la aiutava a non pensare alla vastità della sala e alla quantità di gente stipata in quelle quattro ed enormi mura.
Avrebbe potuto evitare di farlo, ormai quel posto era casa sua, – orribile a dirsi – ma continuava a fissare il pavimento come se potesse sfuggirle da sotto i piedi.
Anluan era al suo fianco, e quando finalmente arrivarono davanti ai telefoni appesi al muro davanti all'ufficio di Rang si resero conto che i toni all’intero dell’ufficio erano piuttosto alti.
«Vuole far chiudere il caso.»
«Il caso è già chiuso, lo sai Cellach.» 
Anlaun prese il mano il telefono e cominciò a comporre un numero, gli altri ragazzi che stavano telefonando neanche si accorsero dal loro arrivo.
«Magari stanno litigando perché vogliono riaprirlo.»
Anluan si voltò a guardarla: «Facciamo quello che dobbiamo fare o poi andiamo via.»
Kell abbassò la testa contrita e afferrò il telefono ascoltando le proteste del ragazzo; forse era semplicemente stufo di tutta quella brutta storia, in quel momento realizzò che avrebbe dovuto essere lo stesso anche per lei.
Stava componendo l’ultima cifra del numero di casa quando una mano la scosse facendola voltare bruscamente.
Si ritrovò davanti una poliziotta. 
No, non una poliziotta qualunque, lei li aveva portati tutti in quella classe del secondo piano e spiegare perché la loro meravigliosa proiezione mentale fosse finita nella spazzatura.
«Devo parlarti.»
Anlaun si girò di scatto e strabuzzò i suoi begli occhi: «Ti richiamo stasera, adesso devo andare.» Riattaccò il telefono bruscamente e scosse la testa interrogativo, nessun altro era ancora uscito dall’ufficio di Rang, solamente lei. Per parlare con Kell, un’ondata devastante di speranza la travolse.
Si diressero insieme alla donna in divisa vicino alle cassette delle lettere, si guardava intorno come se fosse spaurita: «Ci sono delle cose che dovete sapere. Abbiamo interrogato Micheal Poole.»
«E?» Chiese Anluan, non era bendisposto nei suoi confronti, era ovvio, non quanto Kell, in caso contrario lo nascondeva bene.
«Ha detto che Emeric Allord e Nikki Dason hanno ucciso Catherine.» «Certo, questo lo sapevamo già.» Annuì Kell scoccando un’occhiata d’intesa a Anluan.
«La sua testimonianza è stata considerata inattendibile a causa dei suoi disturbi mentali, finirà in un riformatorio specializzato per alcuni mesi, questa cosa non vi verrà detta da nessun altro.»
Per qualche motivo ne lei ne tanto meno Anluan furono molto stupiti da quell’ennesima copertura voluta da Rang.
«E Nikki?»
«Sta bene, o meglio si rimetterà completamente, le rimarrà qualche bella cicatrice ma anche se quelli del quinto anno possono utilizzare coltelli veri non sono neanche lontanamente abbastanza taglienti da uccidere una persona, io e alcuni colleghi pensiamo che Poole non mirasse assolutamente a ucciderla, voleva solo attirare l’attenzione. E’ un peccato che ha scelto il modo sbagliato, con le fobie che si ritrova e i disturbi mentali che gli hanno diagnosticato non poteva essere considerato abbastanza sano per essere considerato attendibile.»
Parlava in fretta, con la voce roca un po’ rotta, era chiaro: non sapeva quanto tempo avessero e questo la spaventava.
«Dovete fare in modo che qui questo si sappia.»
«D’accordo.» Disse Kell per entrambi, Anluan annuì.
«Il caso è stato archiviato, ve l’ho detto e questa storia di Poole non porterà a niente, ma per me questo caso e tutt’altro che archiviabile.» Si scostò per guardare verso la porta dell’ufficio di Rang ansiosa: «Mi chiamo Diane Urlik, prendi.» Consegnò a Kell un pacchetto, che per poco nel le cadde di mano, lo infilò velocemente nella tasca della felpa. «Che cos’è?»
«Un telefono. Voi avrete bisogno di me e a me servite voi.»
«C-che cosa significa?» Chiese Kell, ormai aveva tanti di quei pensieri per la testa da non riuscire neanche più a sillabare una frase coerente.
Diane Urlik le rispose a sorpresa seriamente: «Significa che Rang se vuole può cacciare me, ma non voi.»
Anluan imbeccò subito: «Ma lei non è l’unica a pensarla in questo modo, vero?»
«No, no, non sono l’unica.»
«Il nostro gruppo non tornerà insieme, questo però dovrebbe saperlo.»
«Non mi serve il vostro gruppo, mi servite voi.» Li guardò con uno strano cipiglio un po’ apprensivo, come se non sapesse neanche lei che cosa stava chiedendo: «Allora, credete di poter accettare?»
Per un attimo le balenò in testa l’idea di dirle di no.
Si trattava di rischiare tanto, forse persino troppo; non le pareva neanche di ricordare più per quale motivo aveva desiderato così tanto fare giustizia.
Ma era giusto, e Anluan questo lo sapeva; accettò senza riserva, e così, come se niente fosse successo Diane Urlik annuì e si diresse verso l’ufficio di Rang senza neanche fare loro un cenno d’intesa e se qualcuno di quelli che erano al telefono si erano accorti della loro strana conversazione non sarebbe stata in grado di dirlo.


«Sarebbe stato meglio se avessi detto di no.» Disse Anlaun due minuti dopo, mentre stavano tornando al loro tavolo.
«Ma non sarebbe stato giusto.»
«Ma sarebbe stato facile.»
«La verità non è facile, è il suo prezzo.»
«Cellach, da dov’è venuta tutta questa ostinazione? Sinceramente non me lo ricordo più. Non è neanche una cosa che ci riguarda personalmente.»
Kell si fermò di colpo, qualcuno dal loro tavolo si era già accorto del loro ritorno, scosse Anluan per la spalla e lui si girò, aveva un’aria arrabbiata che non gli si addiceva, ora che lo conosceva meglio si era resa conto che tutte le voci che giravano sul suo conto erano più che infondate, profondamente normale e profondamente sano, non c’era proprio niente da temere da una persona come lui.
«La verità comprende la verità su Rang e su questo orribile posto e questo, mettitelo bene in testa An, ci riguarda tutti, ognuno di noi, indistintamente. Lo sai, non serve che te lo dica, perché non possiamo scappare e se avessimo deciso di starcene con le mani in mano ancora forse mi sarei chiesta per tutta la vita come sarebbero andate le cose se avessimo combattuto e non voglio che succeda, e non succederà.»
Anluan abbassò lo sguardo e riprese a camminare, non aveva dubbi sul fatto che avesse capito, dieci minuti prima anche lei, frastornata si era chiesta perché, se la risposta non fosse stata così facile sarebbe stato molto più complicato.
Kell era semplicemente tramortita.
Un’ora e diverse spiegazioni dopo, si ritrovarono tutti e sei in camera di Anluan, ne seguì l’estrazione del cellulare dalla tasca della felpa di Kell e l’ovvia ispezione dell’oggetto.
In rubrica c’era un solo numero, senza nome, se lo scrissero tutti quanti per ogni evenienza, e sempre per ogni evenienza evenienza tutti annotarono anche il numero dello stesso cellulare, forse non aveva senso, ma qualcosa le disse che andava fatto.
Nessuno insinuò che magari non fosse Kell a doverlo tenere, la cosa la tranquillizzò incredibilmente, forse perché neanche lei si sentiva poi così adatta.
«Ci dirà lei che cosa fare.» Disse Cecely: «Ci scriverà e sapremo, non può credere che possiamo farcela da soli, è impossibile, per come sono andate le cose fino ad adesso dovremo saperlo tutti.»
«Non proprio impossibile.» Disse invece Victor: «Forse ho un’idea che potrebbe funzionare.»
«E cioè?»


«E’ una follia, ci beccheranno.»
«Non ci beccherà nessuno, sta zitta Cely.» Sibilò Victor con un fil di voce, forse tremava persino ma Kell non poté esserne certa.
Il ragazzo stava trafficando con la serratura da dieci minuti buoni, senza che neanche per un attimo li avesse illusi di essere riuscito ad aprire la porta.
La guardia notturna, ora un uomo, era profondamente addormentato, russava persino.
Le tre cifre dorate che segnavano l’appartenenza della camera a Michael Poole scintillavano alla luce della luna, – la porta infatti pericolosamente vicino alla finestra a sbarre che divideva le stanze dei ragazzi da quelle delle ragazze –  la illuminava a metà, come indecisa su cosa illuminare e cosa invece lasciare nell’oscurità.
Avevano concordato che avrebbe avuto più senso entrare in camera sua, anziché in quelle di Emeric o di Nikki, erano tutti d’accordo su quel punto. Nessuno dei due era così stupido da tenersi qualcosa di incriminante in camera, poco ma sicuro.
Dopo un altro paio di minuti Kell sempre più ansiosa, minuto dopo minuto cominciò a dubitare delle abilità da scassinatore di Victor, proprio in quel momento, come se il ragazzo avesse avvertito i suoi dubbi ecco che la serratura scattò.
Cecely squittì di paura: «Oh no.»
I suoi dubbi vennero prontamente ignorati da tutti i presenti, in un attimo Itsuko li chiuse tutti dentro spingendo a dovere Cecely che era visibilmente tramortita.
Kell andò verso il lato sinistro della stanza cercando a tentoni il letto, che non trovò, per raggiungere la lampada, che invece accese senza esitazioni.
Lo scenario che si presentò davanti ai suoi occhi era quanto più diverso dalla sua stanza fosse possibile.
Era piena zeppa di fotografie attaccate al muro un po’ a casaccio, tre calendari, mensole applicate strapiene di libri e quaderni; il pavimento invece era contraddistinto da quattro diversi tappeti tra cui uno persino peloso!
I vestiti erano sparsi ovunque e il letto e la scrivania erano disposti trasversalmente alla finestra con le sbarre da cui passava a tratti la luce della luna a illuminarlo debolmente.
Cominciarono a cercare in giro, frugando nei cassetti, nell’armadio, sulle mensole, tra i quaderni, alla ricerca di qualsiasi cosa potesse essere considerata interessante.
Cecely sembrava essersi calmata e ora appariva semplicemente molto indaffarata, non quanto Victor che sfogliava due quaderni alla volta ma quasi, Itsuko guardava in giro con occhio attento, dopo qualche minuto bisbigliò: «Attenti a non fare qualche disastro.» 
Anluan naturalmente la seguiva a ruota stando attento ai vestiti sparsi a terra, secondo lui magari ce ne poteva essere qualcuno non suo o cose del genere.
Ormai erano le tre e mezza passate di notte, camminavano tutti di soppiatto, bisbigliando appena per comunicare, dando un’occhiata in giro ogni volta che trovavano un quaderno scarabocchiato... Jeh però era particolarmente silenzioso, portava ancora l’occhio di vetro, niente fascia rossa davanti a Anluan e Itsuko, Kell lo raggiunse, era di spalle e non si era accorta del fatto che stesse tenendo in mano uno spesso quaderno senza righe evidentemente costoso vista la copertina di pelle riccamente intersecata di giochi d’ombra.
«E’ un...» «Diario.» Completò prontamente Jeh.
«Un ragazzo che scrive un diario, uhm, forse gliel’avevano prescritta come terapia, prendilo.» Gli intimò: «E’ esattamente quello che cercavamo.» era sul punto di strapparglielo di mano ma si trattenne.
Gli altri li raggiunsero inciampando tra i tappeti. «Potrebbe rendersi conto che l’abbiamo preso.» Disse Victor, ovviamente nel giusto. «Sì, potrebbe ma le persone non mentono sul proprio diario, al massimo censurano qualcosa, è un’opportunità che non possiamo lasciarci sfuggire.» 
Ci volle un po’ per convincerli tutti, Anluan, Itsuko, Victor, Cecely, certe volte Kell sentiva l’opprimente sensazione che fossero in troppi, se fossero rimasti in quattro come tutto era cominciato magari sarebbe stato più semplice, forse però allora non si sarebbero ritrovati in quella stanza, quei pensieri sulla sua seconda vita falsata non erano una novità.
Se i suoi rapitori avessero preso la bambina con cui stava giocando anziché lei quegli eventi si sarebbero svolti addirittura senza la sua presenza; non avrebbe mai conosciuto Jeh, non sarebbe mai stata mandata al Quattrocentoventisette, se avesse trovato chiusa la porta di camera di sua sorella Sam avrebbe preso la chiave e l’avrebbe aperta.
Niente di tutto quello che stava per accadere sarebbe successo.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** 14. Antitesi ***












ATTENZIONE!
Avrete notato che questo capitolo aveva "qualcosa" che non andava, l'ho riesportato qui come nuovo e adesso è tutto a posto, naturalmente ringrazio quelli che me l'hanno segnalato, sinceramente non vi so dire cosa possa essere successo, problemi di efp visto che sul documento del libro il capitolo era (grazie al cielo) perfettamente intatto gh spero vi piaccia.







14. Antitesi



Il diario cominciava all’incirca due anni e mezzo prima, Micheal se l’era comprato con i suoi soldi quand’era entrato al Quattrocentoventisette. Era entrato sapendo a cosa serviva davvero quel posto e aveva preso quel diario perché non voleva dimenticare per nessuna ragione il vero motivo per cui era lì, neanche per un attimo.
La scrittura di Micheal, seppure in modo molto contorto le piacque molto, Anluan continuava a pregarla di andare direttamente ai giorni precedenti alla morte di Catherine e a quelli dopo, ma Kell non se ne spiegava il motivo, era necessari esaminarlo tutto da cima a fondo, e poi aveva delle spiccate capacità di lettura veloce accumulate negli anni, le ci sarebbero voluti a stento quattro giorni per finirlo e magari ne avrebbe persino cavato fuori qualcosa di più leggendolo tutto dall’inizio alla fine ma fu costretta a cedere.
Era pur sempre un diario personale anche se non ben nascosto, non era corretto insinuarsi nella vita di uno sconosciuto che probabilmente non avrebbe mai rivisto, se ne convinse anche se rimase restia ad accettare l’idea e cominciò la sua lettura.
Non avevano neanche deciso che dovesse leggerlo lei, sapevano solo che Cecely non voleva e gli altri sembravano più che altro inquietati all’idea di ficcarci il naso, forse avevano più che altro paura di leggere fatti “troppo” personali ma Kell non si sarebbe fatta problemi a smettere di leggere se fosse stato così.
Magari ad alcuni di loro non sarebbe neanche importato e avrebbero continuato lo stesso; forse anche per quello era toccato a lei.


E’ successo qualcosa di strano. 
Ieri sera la Patricks si è messa a parlare con Emeric di non so che cosa, lui e Nikki dopo si sono chiusi a chiave in camera sua lasciando me Cat e 
Lucy da soli, ci siamo divertiti a prenderli in giro ripassando per la verifica di scienze ma visto il modo in cui Em ignora Cat da settimane mi ha dato parecchio fastidio vedere che lei era ancora dannatamente mortificata, se vuole chiarire con lui perché non lo fa? Dovrebbe essere lei quella infuriata, non capisco proprio perché non si infuria con lui e basta, è probabile che tenda a giustificare il suo comportamento, o almeno così dice Lucy, in un certo senso sono d’accordo, è come se non potesse dargli la colpa delle sue colpe…


«Okay, chissà di cosa parlavano Emeric e la Patricks...» Le disse Jeh sedendosi di fianco a lei al solito posto davanti alla H3. 
«Difficile dirlo.» 
Parlavano a bassa voce, Emeric era tornato all’istituto e non potevano sapere chi ci potesse essere in ascolto, Cecely li aveva messi in guardia un sacco di volte “questo posto è pieno di occhi e orecchie al posto dei muri” aveva detto e a Kell era saltata in mente un’immagine spiacevole. Certe cose era meglio che non si venissero a sapere, soprattutto con uno dei potenziali sospettati più convincenti in giro per il Quattrocentoventisette.
«Beh, comunque adesso parlerà per forza dei motivi di questa furia.» «Vediamo.» Annuì Kell, lanciò uno sguardo di soppiatto alla porta della loro classe di terapia di esposizione, tra meno di dieci minuti la Strins sarebbe uscita e li avrebbe richiamati per sbatterli nella stanza nera.
Jeh aveva indossato il porta pillole, ne scorgeva il profilo sotto la maglietta verde, perfetto.
Lesse in fretta, stringendo la carta che aveva attaccato alla copertina del libro sulla rilegatura per coprirla meglio.


Sono passate due settimane e non sono ancora riuscito a capire perché Emeric e Nikki ce l’hanno così tanto con lei. Okay, Cat uscirà prima di tutti noi, ma i suoi non possono più pagare la retta, lei non ha nessuna colpa. Se Rang non le avesse regalato l’opportunità di andarsene con il diploma poi, che differenza avrebbe avuto? Era rinchiusa qui da due anni, era il minimo che potesse fare... certo, sto parlando di un diploma che effettivamente afferma che lei è guarita da disturbi che lei non ha mai avuto ma il 427 è anche questo...
Per altro, ricordo bene che Cat ha detto diecimila volte a Em che voleva che lui la raggiungesse non appena fosse uscito da qui ma non c’è stato niente da fare, si è chiuso in questo mutismo offeso e l’unico modo in cui loro due riescono a comunicare è la tramite Nikki.
Ma Nikki ha sempre avuto una fissazione spropositata per Emeric, è chiaro per quale delle due parti preferisce patteggiare, anch’io se fossi al suo posto sfrutterei la cosa a mio favore, in un certo senso la capisco.
A proposito di me, Emeric mi tratta sempre più freddamente, questa mattina ho beccato Nikki che gli bisbigliava nell’orecchio mentre lui mi guardava con uno sguardo a metà tra il disgustato e il tradito. Conoscendo Nikki gli starà sicuramente raccontando qualche idiozia sul mio conto, così poi, quando non avrà più nessuno sarà costretto a prendersi lei.
Un ottimo piano se non fosse che non penso che Cat voglia demordere, non ancora almeno.


«Quindi, ricapitolando.» Disse Kell chiudendo di scatto il diario, lo abbassò e fissò Jeh negli occhi.
«Michael si è accorto che Nikki faceva di tutto per isolare Emeric, non sappiamo ancora esattamente per quale ragione lui ce l’avesse tanto con Catherine ma a questo punto...»
«Non è il caso di escludere che sia stata Nikki a metterle qualche falsità in testa.» Disse Jeh sorridendo convinto delle proprie parole, Kell lo guardò soddisfatta lasciandogli il diario tra le mani.
«Lo ha istigato fino a quando lui...»
«Non ha fatto il suo gioco... parlava con la Patricks, tienila d’occhio nelle prossime pagine, lei non sa ma c’entra, in un ipotetico processo verrebbe condannata per complicità in omicidio colposo o roba del genere...» Lasciò andare la frase con un gesto della mano infilando il diario della sua borsa.
«Stai già considerando un ipotetico processo?» La cosa per qualche ragione la fece ridere.
«Sto considerando tutte le ipotesi.» Disse sorridendo.
Proprio in quel momento la Strins cacciò la sua testa adornata dalla solita bombetta fuori dalla H2 richiamandoli all’interno.
Quel giorno Kell si sentiva le gambe incredibilmente pesanti  causa di una corsa troppo lunga durante educazione fisica, aveva solo bisogno di stendersi sul suo letto e leggere un po’, e invece eccola lì, pronta a essere torturata.
«Mi dispiace per Emeric.» Sussurrò Jeh mentre camminavano verso la porta: «Forse ha davvero fatto tutto da solo ma comunque Nikki l’avrebbe istigato ed è orribile che lui non se ne sia reso conto.»
Grazie a Cecely a alla sua accettazione verso la verità, l’ipotesi che purtroppo Emeric potesse aver fatto “tutto da solo” si faceva sempre più solida e poi di che cosa stava parlando con la Patricks? La vicenda si schiariva e aveva letto appena una ventina di pagine.
Ma come diceva Jeh, c’era sempre Nikki di mezzo, e nessuno poteva ancora dire loro con certezza che lei non c’era quel giorno sul terrazzo, quando Catherine cadde nel vuoto.
«Se non ci fossi tu, non so come farei a sopportare tutta quest’ansia lo sai Jeh, a reggere tutto questo...» Ammise Kell facendo crollare le mani lungo i fianchi, Jeh la guardò di sbieco alzando un sopracciglio nero (non quello della cicatrice): «Tu dici? Hai una gran prontezza di spirito, tendi a sottovalutarti.»
Si rabbuiò, non poteva proprio dargli una riposta diversa?
Entrò nella stanza nera, spinta dalla mano poderosa della Strins con queste idee in testa. Poi finì subito in ginocchio, con la testa sempre più pesante e una voglia matta di mettersi a urlare, il panico era troppo più forte di lei, non sarebbe uscito alcun suono neanche quella volta e neanche per le volte a venire, l’unica cosa che poteva fare era aspettare l’ultima speranza, Jeh.
Quell’agonia era sopportabile solamente perché c’era lui. 
Anche solo evocare il suo viso scheggiato.
La irritava tantissimo, in modo praticamente insommergibile sapere che lui non riuscisse in alcun modo ad accorgersi di quanto fosse necessario.
Perché. Perché non riesce a capirlo?
Non c’era niente che non andasse in Jeh, lo pensava, l’aveva sempre pensato per quanto fosse assurdo ed era quasi decisa a urlarglielo in faccia al più presto in preda alla febbre del buio. 
Sì, gli erano successe delle cose tremende, mostruose ed era sopravvissuto e questo era quanto, punto.
Non c’era niente che avrebbe voluto cambiare di lui, niente per cui dovesse essere biasimato, niente che dovesse farlo stare male, no, assolutamente niente... Anche se una parte del suo cervello grattava contro la superficie e le diceva che lui non sarebbe mai riuscito a crederle ne tento meno a essere d’accordo, la ignorava, gliel’avrebbe detto. 
Ma era vero purtroppo, lui non sarebbe mai cambiato, aveva un’idea di se stesso e la sentiva come la sua verità, si vestiva di quell’idea ma a lei non importava, continuava a ignorarla.
E avrebbe anche potuto non rivolgerle la parola per giornate intere solo perché non le credeva, o perché odiava l’idea di essere giusto così e per lei non sarebbe cambiato niente, – si stese a terra, decidendo di aspettare quietamente con gli occhi chiusi un contatto – se gli fosse stato necessario avrebbe aspettato anche un miliardo di anni affinché capisse che la sua era la verità, ma Jeh non sarebbe cambiato – lo sapeva – e neanche lei.
Ed era devastante pensare a quanto quelle due verità sarebbero state sempre in perenne disaccordo, era devastante che non ci fossero possibilità di fargli davvero capire quanto fosse inutile fissarsi su qualcosa che per lei era solamente un’altra parte di lui, un altro innocuo dettaglio, l’ennesima ferita.
Prima o poi... si disse stringendo gli occhi, se lo promise senza neanche riuscire a ricordare perché fosse arrivata a pensarlo cosciente di non essere brava a mantenere le promesse, se lo promise credendoci.


Fù in quel momento che lo sentì sfiorarle debolmente la testa, se ne avesse avuto la prontezza di spirito avrebbe sussultato.
«Andiamo.» La spronò sussurrando tirandola su per le spalle.
Era talmente buio da non permetterle neanche di vedere a un palmo dal suo naso. 
«Mi sei mancato.» Ridacchiò Kell quasi in preda a un’isteria contenuta. Non tardò ad arrivarle alle orecchie il piacevole suono della risata di Jeh.
Appoggiati al muro c’era maggiore stabilità.
«Cosa pensi che penserebbe la Strins se ci sentisse ridere così?»
Bisbigliò profeticamente al suo orecchio.
«Penserebbe che siamo inspiegabilmente diventati pazzi da legare.» Jeh rise di nuovo e non è che la battuta facesse granché ridere. Inspirò cercando di appoggiare la testa sopra la sua, se perlomeno le avrebbe permesso di aiutarlo come aveva sempre voluto fare forse si sarebbe convinta di non poterlo convincere. 
Convincerlo a accettare la sua verità.
Jeh non oppose alcuna resistenza, anzi, si avvicinò a lei facendo un respiro profondo, gli passò un braccio dietro la schiena raggiungendo l’incavo del suo collo su cui posò la testa abbandonandosi, permettendogli persino di sentire l’increspatura della cicatrice. Si era tolto la felpa prima di entrare, sentiva la cicatrice persino sotto i suoi vestiti, una linea lunga, stremolante e irregolare.
«Ti stai ancora preoccupando di rifiutare il fatto che senza di te sarei stesa sul pavimento in uno stato di semi-coscienza comatosa... o no? Prima stavi scherzando vero?» E non lo disse con un tono ironico, anzi, il sussurro venne fuori sorprendentemente arrabbiato.
«Ti sembrerà stupido ma preferirei che non fosse così.»
Rise leggermente, Kell capiva quello che intendesse, non l’aveva vista da quel punto di vista, implicava che lei sarebbe potuta essere lì contro quel muro anche per conto suo, riuscendo.
«Non devi portarti sulle spalle il peso di tutto l’universo.» 
Jeh sospirò: «Sì lo so, ma io sono stato qui da solo, senza di te e non è stato bello...» Lo sentì persino inghiottire la saliva. «Non vorrei mai che a te dovesse succedere lo stesso, per questo non...»
Kell chiuse gli occhi contro la sua spalla e Kell parlò: «Non succederà, tu hai me e io ho te, ho te e anche se quello che dici è giusto le cose stanno così e non ha senso combatterle o rifiutarle, lo sai che ho ragione?»
«Sì.» Rispose Jeh: «Lo so.»
Abbattere la resistenza, abbattere la resistenza.
Non vedeva più resistenza e non si sentiva come se fosse lei a costringerlo, finalmente Jeh stava accettando l’idea che lui potesse essergli d’aiuto, e Kell si sentì felice perché magari era un passo avanti verso l’accettazione del fatto che a lei Jeh serviva esattamente allo stesso modo.


«Bene, basta così per oggi!»
Dopo una quantità di tempo che Kell avrebbe definito di parecchie nottate burrascose aprì gli occhi di soprassalto, in quel momento si rese conto di essersi addormentata.
Sentì la chiave scavare all’interno della serratura e fece appena in tempo a sentire il battito del cuore di Jeh accelerare prima di rendersi conto che era sgusciato via, fu come se le avessero staccato il porta pillole dal collo insieme a un pezzo abbondante del corpo. 
Si appiattì al pavimento chiudendo gli occhi completamente secchi e attese la luce.
«Kellan, ti sei addirittura allontanata di qualche metro dal punto di cui ti ho lasciata, sorprendente miglioramento.»
Kell si sforzò di fare un sorriso sarcastico per smorzare la tensione, non le riuscì troppo difficile, ma se non ci fosse stato Jeh era assai improbabile che si sarebbe trascinata per qualche centimetro.
Le prese la mano e la rialzò, insieme raggiunsero Jeh, dove la luce data dalla porta aperta non arrivava.
La Strins allungò una mano del buio: «Eccoti qui, appoggiato alla parete.» La Strins le scoccò un’occhiata divertita che Kell non poté vedere.
«Prima a poi vi ritroverò a un palmo l’uno dall’altra.»
Jeh non disse niente e si lasciò tirare su, tenendogli una mano piantata dietro la schiena accompagnò il ragazzo fuori dalla stanza nera.
«Sedetevi.» Intimò a entrambi indicando le sedie davanti alla sua scrivania.
Loro obbedirono, Kell a destra, Jeh a sinistra come sempre per consentire a lui di guardarla facilmente se avesse dovuto, era una specie di rituale fisso, se capitavano all’opposto si scambiavano come in un tacito accordo.
«Vi ho trattenuti una mezzora di più, la ragazza di cui dovevo occuparmi dopo sta poco bene...» Spiegò e Kell non capì a che punto volesse arrivare: «Non voglio parlare della vostra acluofobia, ci vorrà ancora parecchio tempo prima che riusciate a muovervi liberamente nella stanza.» Disse come se la cosa in se avesse poca importanza: «Ho notato che tu.» Disse rivolta direttamente a Kell: «Jesse, Cecely Marson e Victor Rixon avete allargato la vostra allegra combriccola.»
«In... in che senso?» Kell sapeva di dover parlare da sola, Jeh non parlava con gli estranei: «La polizia ha smantellato il vostro ridicolo gruppetto sappiamo tutti come.» Disse alla svelta riferendosi all’episodio delle x sulle porte di quelli sopra la loro lista, a Kell si attorcigliò lo stomaco.
«Ultimamente però ho notato che voi quattro e altri miei due pazienti Anluan Lynch e la sua amichetta Itsuko Makashi vi siete... come dire? Riuniti?»
Finalmente Kell capì a cosa la professoressa stesse alludendo.
«Vuole sapere se stiamo indagando ancora sull’omicidio di Catherine?» Domandò cercando di avere un tono di voce irritante.
«Beh.» Disse la Strins sorridendo allegramente: «Dal modo in cui definisci la questione direi che non ci sono dubbi.»
Kell scrutò per un secondo il viso di Jeh ma aveva un’espressione imperturbabile, pronto ad accettare qualsiasi sua decisione.
«Siamo semplicemente amici, non abbiamo proprio nessuna macchinazione per la testa.» Le comunicò, mentendo senza problemi, aspettando l’inevitabile esplosione d’ira della Strins.
«Non sai proprio mentire ragazza mia, faremo una lezione, presto sulle menzogne, sarà interessante esaminarti.»
«Non sto mentendo.»
Non avrebbe potuto farle niente di così orribile che non si potesse risolvere, si disse, sapeva che se la sarebbe presa con lei, non con Jeh e infatti andò esattamente così.
Ha capito che sto mentendo.
«Alzati Kellan.» Kell si alzò e Jeh fece lo stesso.
La Strins la prese per un braccio e lei si sentì divincolarsi automaticamente vedendo dov’era diretta.
Aprì la porta, ce la sbatté dentro senza riguardo, con tanta forza da farla cadere a terra com’era già successo in passato.
E l’unica cosa che poté fare fu ringraziare mentalmente la Strins di non aver preso Jeh al suo posto.
Riuscì ad alzare lo sguardo paralizzata mentre la professoressa – con Jeh attonito alle sue spalle – le sbatteva la porta della stanza nera in faccia, chiudendola dentro, di nuovo, al buio.
Si appiattì al suolo strisciando quanto più velocemente riuscì verso la porta fino a quando non arrivò quasi a scorgerla nell’oscurità.
«Faccia entrare anche me.» Gli sentì dire e gli occhi le si inumidirono di lacrime, ironico visto quello che dieci minuti prima Jeh le aveva detto lì nella stanza nera.
«No.»
«Perché no?» Lo sforzo che stava facendo per parlare era palpabile anche dietro la porta, avrebbe voluto gridargli di lasciare stare, di andarsene. 
Se quella schifosa della Strins gli avesse fatto qualcosa, i brividi la fecero tremare di paura, lei sarebbe rimasta lì dietro ad ascoltare.
«Perché questa è la sua punizione.» Puntualizzò la Strins.
«La tua è rimanere qui fuori.» 
Stupidamente, Kell commise il grave errore di spalancare gli occhi verso il buio che c’era dietro di lei, avrebbe potuto schiacciarsi contro la porta e aspettare e invece ora era di nuovo in stand-by.
A risvegliarla ci pensò il bussare della porta, o meglio, dell’altra porta e le seguenti urla di frustrazione della Strins.
«Kell.» Un suono netto, le dita di Jeh grattavano convulsamente contro la superficie della porta mentre i passi della Strins si allontanavano: «Vieni qui.» Il suono della sua voce rotta la scosse dal torpore del buio.
Aprì bocca per dire qualcosa, senza neanche sapere cosa ma fu comunque tutto inutile, aveva le parole dolorosamente incastrate nella gola.
«Kell, lo so che mi senti, avvicinati, sono qui.» 
Si sentiva così debole, per quale dannata ragione non riusciva a rendersi conto che il buio non poteva costringerla all’immobilità, c’era Jeh a pochi centimetri da lei, doveva aggrapparsi a quel dato di fatto, se non ci fosse stata la porta avrebbe potuto allungare la mano e toccarlo.
Era così dannatamente arrabbiata.
Ed era così impotente.
La Strins litigava con alcune voci cercando di mandarle via, ma queste parevano non demordere.
Neanche lei doveva arrendersi, non c’era niente su cui potesse lasciarsi andare lì dentro e Jeh continuava a chiamarla ed era così chiaramente disperato mentre diceva il suo nome che le si strinse il cuore in un’ennesima morsa di dolore.
Allungò con una smorfia spaventata la mano verso la porta, forse non ne aveva la forza ma la sbatté più volte contro il legno azzurro; per qualche momento non sentì niente e temette davvero di non essere riuscita a farsi sentire da Jeh.
«Oh Kell lo sapevo, non mi muovo di qui, sono qui, concentrato sulla mia voce.» 
Jeh. Quasi rise e anche Kell per un attimo credette di fare lo stesso...
La porta della H2 sbatté di nuovo rumorosamente e le scarpe col tacco della Strins si avvicinarono di nuovo, quasi di corsa.
«Jesse!» Una risata attutita ma ugualmente di schermo le riempì le orecchie, in quel momento riuscì a trovare la forza di mettersi per metà seduta con un panico sempre crescente dentro ai polmoni.
«Questa da te proprio non me l’aspettavo! Stai acquistando nuove frontiere di assurdità ragazzo.» Un’altra risata sprezzante e Kell si appiattì, questa volta contro la porta azzurra.
«Apra questa dannatissima porta.» Sibilò Jeh mentre con le dita grattava contro la superficie liscia del legno.
Sentì la Strins imprecare silenziosamente.
«Questa volta l’avete scampata bella.» Quasi riuscì a vederla mentre estraeva le chiavi dalla tasca grazie al tintinnio del metallo.
Le gettò in mano a Jeh, lui non si alzò neanche in piedi, infilò le chiavi nella serratura e aprì la porta.
Kell cadde sul pavimento senza peso, le sembrò di essere svenuta, poi sentì di nuovo quella strega della Strins ridere e Jeh che cercava di metterla seduta, avvertiva a stento la stretta delle sue braccia, ormai aveva perso tutta la sensibilità che fino a due minuti prima le esplodeva in corpo.
E non riusciva neanche a mettere a fuoco, si ritrovò in piedi, sorretta da troppe paia di mani perché potesse essere solamente Jeh ad aiutarla, le altre voci erano state fatte entrare dalla Strins evidentemente.
La chiamavano, la esortavano e a malapena le sentì.
L’unica cosa che riuscì a capire di tutte quelle parole?
Sentì la Strins lievemente ovattata dire: «Se quella stupida idiota di Fitzvellian si lascia sfuggire qualcosa con questi ragazzini...» A Kell fischiarono quasi le orecchie dalla contentezza mentre camminava sorretta da un migliaio di mani vero l’uscita. «Alla prossima ragazzi!» Esclamò, probabilmente sorridendo a quarantadue denti come se tutto quello che stava guardando fosse un episodio della sua routine quotidiana e non una cattiveria gratuita con cui si divertiva.
Chiuse gli occhi fino a quando non si sentì al sicuro. Sotto una coperta. In camera sua.
«Chi è Fitzvellian?» Aprì gli occhi e si ritrovò davanti la scena che aveva già vissuto con Jeh la prima volta che erano stati insieme nella stanza nera, solamente che ai tempi c’era lui sdraiato sul letto in preda a una crisi di panico.
Cecely comparì a fianco allo sguardo preoccupato di Jeh: «Lucy Fitzvellian, hai letto qualcosa su di lei sul diario di Micheal, era la quarta persona che era con loro quando sul prato lui ha accoltellato Nikki, una del loro gruppo insomma.»
«Dobbiamo parlare con lei.»
«Perché?» Chiese Victor comparendo alle spalle dei due.
«Mentre voi tre mi aiutavate ad alzarmi l’ho sentita dire qualcosa come: “Se Fitzvellian si lascia sfuggire qualcosa con loro...”»
«Okay.» Disse Jeh annuendo: «Lo diremo anche a An e Itsuko, ora cerca di riposarti.»
«Ho passato lì dentro appena dieci minuti, terapia di esposizione non sta servendo a un accidenti se ora sono ridotta così.» Si passò una mano tra i capelli togliendosi qualche ciuffo da davanti agli occhi. «Però sei riuscita a raggiungere la porta, ti sei messa seduta e ti sei mossa.» Constatò Jeh appoggiando la testa sul bordo del letto: «Ti sembra una cosa da poco?»
«No.» Disse lei: «Non mi sembrerebbe una cosa da poco se dietro quella porta non ci fossi stato tu, sono stati dieci minuti scarsi!»
Cecely alzò gli occhi al cielo: «Ma è sempre qualcosa. Non era nella stanza con te e ti sei spostata da sola, è solamente la terza volta Kell, devi avere pazienza.»
Rendendosi conto della situazione si affettò a mettere le cose a posto: «Hai ragione tu, scusa, scusa Jeh non volevo...» Si scusò. 
Se per caso lui avesse voluto smettere di raggiungerla dopo aver presto il calmante a causa delle sue parole, per farla “migliorare” per conto suo non l’avrebbe sopportato.
«Se non ci fossi tu sarebbe orribile.» Constatò e Cecely sorrise tirando un sospiro di sollievo tipico di lei.
«Beh, è lo stesso per me, se avesse chiuso me nella stanza nera...» «Io avrei sfondato a calci la porta, e lo so, lo so non dirmelo, devo reprimere questi istinti distruttivi.»
Anche Victor e Cecely scoppiarono a ridere insieme a loro, in quel momento guardando i suoi amici si rese conto che tutto sommato l’altra scelta, quella in cui lasciavano perdere l’omicidio di Catherine e vivevano la loro vita non era così distante da quella realtà.

 
*  *  *


Ottenere un incontro con Lucy Fitzvillian non sarebbe stato affatto semplice, Kell lo capì scrutando la sua esile figura che effettivamente già conosceva studiando un piano insieme ad Anluan. «E’ sfuggente, non ci ho mai parlato veramente e questa mattina quando ho provato a chiederle di incontrarci per parlare di quello che è successo è diventata bianca come un cadavere.» La cosa non la fece assolutamente demordere.
«Dobbiamo parlarle anche se non vuole, non abbiamo altra scelta, dal diario di Micheal si capisce che è una delle persone costantemente presenti nella vita di Catherine, non si è mai schierata con Nikki, poteva vedere entrambe le parti a differenza di Micheal e secondo lui gli nascondeva qualcosa.
Leggi qui.»
Mise il diario nelle mani di Anluan, si guardò intorno, gli altri non erano ancora arrivati per il pranzo, erano stati trattenuti in classe dalla professoressa di lettere per pianificare le loro future interrogazioni. 
Itsuko intanto in quel momento si trovava a una decina di metri di distanza da loro, intenta a parlare con un gruppo di ragazze del perché lei e Anluan trascorrevano un mucchio di tempo insieme al ragazzo con l’occhio di vetro e compagnia.
Kell allungò il collo e rilesse la pagina velocemente insieme a Anluan.


Dopo l’episodio in sala di proiezione (o meglio, dopo la sceneggiata in sala di proiezione) comincio seriamente a pensare che Emeric sappia più di quanto non dica in realtà, forse c’è qualcos'altro che avrebbe senso sbandierare a tutta la scuola sul conto di Cat.
Ma cosa? Non può trattarsi del fatto che i genitori di Cat non possono più pagare la retta, al massimo qualcuno potrebbe provare pena per lei, ma neanche, visto che se ne va via da questo posto, allora cosa?
Quindi, ancora una volta, tanto per cambiare credo si tratti ancora di Nikki, Lucy oggi mi ha colpito con un discorso sensatissimo su quanto Nikki stia surclassando completamente l’identità di Em, pensa che lei, con questa sua smania di possederlo, gli abbia raccontato cose come che Cat lo usasse solamente per divertirsi e che intanto avesse una storia con chissà chi altro, Lucy dice che queste due cose le ritiene assolutamente certe e sospetta anche che Emeric abbia anche un nome da dare a questa persona...
Lo sta spingendo della direzione in cui vuole lei e lui neanche se ne rende conto, vorrei poterlo aiutare in qualche modo ma con Nikki vicino è impossibile.


«Direi che abbiamo un movente.»
Kell aggrottò le sopracciglia: «E cioè?»
«L’ha uccisa perché non voleva che stesse con nessun altro.»
«Ma allora avrebbe dovuto prendersela anche con il tipo con cui Catherine aveva una presunta storia, non ti pare?» Anlaun la guardò scettico. 
«Dopo la morte di Cat Emeric ci ha messo parecchio per riprendersi, dubito che ci tenesse a mettersi nel sacco con le sue mani.»
«Stiamo accantonando l’idea che sia stata Nikki.» Constatò Anluan guardandola con astio.
«Stiamo facendo progressi.»
«Sì.» Assentì: «Ma finché non entreremo dentro la vicenda sarà impossibile trovare delle prove.» Si alzò in piedi: «Tu vai avanti a leggere, è ora di scoprire cosa ne pensava davvero Michael, dopo l’accaduto, io vado da Lucy, se necessario la sfiancherò finché non mollerà la presa.»
Visto che gli altri tardavano ancora Kell decise di seguire alla lettera le parole di Anluan e si mise a leggere.
Per un po’ Michael parlò oziosamente della sua vita, chiarendo a  Kell l’idea che aveva di lui, era un ragazzo come tanti, normale per quanto costretto a vivere una vita scostante e inadatta alla sua reale condizione mentale, con false fobie e falsi disturbi.
Per qualche minuto Kell dimenticò quanti giorni aveva davanti a se il diario di Michael prima della caduta di Catherine, poi il colpo arrivò dritto e preciso simile – per quanto potesse sembrare assurdo – alla coltellata che l’autore di quelle parole aveva inflitto a Nikki appena una settimana prima.
Kell alzò lo sguardo soltanto un attimo, per controllare Emeric, seduto vicino a un gruppo di ragazzi, intento a guardare il piatto che aveva davanti svogliatamente tutt’altro che intenzionato a metterci le mani sopra; Itsuko, sorridente in mezzo a ragazze normali, un po’ rossa in viso per qualcosa di cui era stata accusata; Anluan seduto vicino a Lucy, Lucy stessa, intenta a cercare di combattere contro la sua stessa volontà di arrendersi.
Avrebbe voluto che fossero lì con lei anche gli altri.
Stava per leggere un pezzo della vita di Michael che l’avrebbe portato a pugnalare Nikki, ignorare quel fatto era impossibile.
Fissò la pagina e lesse silenziosamente.


L’HANNO UCCISA.
CATHERINE E’ MORTA, SULL’ASFALTO, QUI FUORI, CON GLI OCCHI SBARRATI IMPREGNATI D’ORRORE.
Emeric era già sotto quando sono arrivato io ma questo non mi impedisce di vedere la verità per quella che è, avrebbe potuto correre giù per le scale a rotta di collo dopo averla fatta cadere dal balcone e sarà quello che ha fatto... 
con l’aiuto di Nikki ovviamente.
NON RIESCO A CREDERCI.
Se avessi avuto anche solo la più pallida idea che quella pazza fosse davvero COSI’ PAZZA... non lo so, avrei messo in guardia Catherine.
NON RIESCO A CAPIRE.
Emeric è sempre stata innamorato di lei, veramente, era assolutamente evidente, questo ha spinto Nikki a voler fare di tutto pur di metterglielo contro ma... cosa diavolo pensava di fare? Lei... non è neanche venuta sotto, forse Emeric si è reso conto dell’evidente fatto che per tutto questo tempo è stato preso in giro, raggirato, costretto a piegarsi a lei e ora ne dovrà pagare le conseguenze, è stato lui da solo?
Se è stato lui da solo allora farò in modo che anche Nikki venga condannata, se è davvero andata così e se lei c’era ieri notte sul balcone, cosa assolutamente certa, beh, è colpa sua, l’ha istigato, l’ha costretto e prego solo che lui si denunci, o che lo faccia lei se è stata lei...
Non so cosa pensare.
L’unica certezza è che uno di loro due ha spinto Cat di sotto e l’ha uccisa, con quelle intenzioni. 
L’idea che l’abbiano spinta di sotto insieme mi fa venire la nausea, non riesco neanche a dormire, vorrei che fosse così, mi piacerebbe accusarli entrambi ma non è andata i questo modo, non erano d’accordo, Nikki forse aveva un piano, forse voleva spingerlo a farlo ma non poteva sapere davvero come sarebbero andate le cose.
Me l’ha fatto capire Lucy questa mattina, quando mi ha portato la colazione, ha detto che Emeric ha perso la testa, io non ci parlo, non più, ma lei si, dice che riesce a malapena a respirare senza emettere singhiozzi strozzati, dice che è quasi scontato quanto Em si senta colpevole e se c’è qualcosa che Nikki non lascia trasparire è il senso di colpa.
Vorrei non essere così dannatamente confuso...


Qualcuno le toccò la spalla.
«Kell?» 
Sobbalzò come se le avessero appena strappato una ciocca di capelli. 
Era stata Cecely a toccarla, lei Victor e Jeh si sedettero, tutti e tre accomunati da un cipiglio estremamente preoccupato.
«Dovete leggerla, a mente fresca questo è quello che Michael era riuscito a pensare.»
E’ l’unica cosa a cui io riesco a pensare adesso, a distanza di un mese e mezzo. Decise di darsi una calmata, con lo sguardo furente arpionò con le dita il tavolo, come se avesse paura che persino questo le sfuggisse da sotto gli occhi, il freddo della superficie liscia la irritò, si sfregò le mani suoi jeans e alzò lo sguardo verso gli altri, intenti, attoniti a leggere il diario di Michael.
Passarono qualche minuto a ripetersi le solite cose, poi Cecely, – senza che Kell riuscisse a prevederne neanche lontanamente il motivo – allungò la mano sul tavolo e strinse la sua.
«Devo dirti una cosa.»
«Cecely!» Sbottò lei inghiottendo la saliva sconcertata: «Mi fai preoccupare così, che succede?» Guardò Vic e Jeh, per cercare un minimo di conforto.
«Si tratta di Nikki.»
«Non torna più?» Era l’ipotesi più plausibile, l’avevano accoltellata, i suoi genitori sarebbero stati dei pazzi a lasciarla tornare all’istituto, anche con Michael fuori gioco. Ma cosa c’era di strano? In un attimo capì.
«No Kell, è già tornata. E’ qui.»
«Stai scherzando?» Sbottò sconcertata, afferrò il diario e lo infilò di forza nella borsa anche se questo con le pagine piegate opponeva resistenza: «Ma i suoi sono completamente impazziti? Avete visto Emeric? Li avete visti insieme?» 
«Li abbiamo visti litigare per le scale.»
«E che stavano dicendo?» Chiese Kell ancora più sconcertata.
Cecely arrossì e Jeh rispose per lei: «Qualcosa su quanto sia stato stupido Michael, ma Emeric sembrava stravolto... le diceva che era tutta colpa sua, che se l’era meritato.» Cecely scuoteva la testa, quasi sull’orlo delle lacrime si rese conto.
«Ma come ha potuto?» Disse mettendosi il pugno chiuso davanti alla bocca per soffocare il singhiozzo: «Gliel’ha fatta uccidere e poi sono stati anche insieme, mio Dio, come ha potuto?» Ripeté respingendo le lacrime: «Michael ha fatto benissimo a...» E smise di parlare, prese il fazzoletto che Victor le porgeva e si asciugò un paio di lacrime che erano sfuggite alla sua attenzione.
L’espressione di Victor era completamente sconsolata con una mano si sorreggeva la testa dalla fronte come se avesse bisogno di un sostegno, con gli occhi guardava Cecely come si osserva un treno in corsa sul punto di schiantarsi, per qualche ragione la cosa la inquietò e basta. Victor voleva aiutarla, voleva abbracciarla ma non ci riusciva e vederlo così… guardarlo rodersi l’anima non era affatto divertente.
«Se le ha detto che se l’è meritato allora vuol dire che si sta rendendo conto che lei lo ha semplicemente usato.»
«E non solo.» Volle aggiungere Kell alle parole di Victor: «Rallegrati Cely, non sarà mai completamente colpa di Emeric, anche se probabilmente è stato lui a spingere Cat di sotto.»
«Che cosa vuoi dire?» Le chiese Cely.
«Sai già cosa vuole dire.» Disse Victor al posto suo.
«Cely sappiamo che ne sei cosciente.»
Jeh li guardava assorto come se si aspettasse qualcosa di più e Kell doveva ammettere che era così anche per lei, si chiedeva perché Cecely non azzardasse, ne aveva il coraggio; certo, anche Victor ne aveva ma visto quello che gli era successo purtroppo era chiaro che non avrebbe potuto essere lui a fare il primo vero passo avanti.
Voleva aiutarli. Forse, addirittura a costo di doversi intromettere tra loro...
«E’ colpa di Nikki se Emeric l’ha fatto.» Le diede una leggera pacca sulla spalla: «Emeric era la sua pedina.»
«Lo so.» Disse Cecely: «Ma non riesco a non odiarlo.»
Jeh distolse lo sguardo abbassando gli occhi sul tavolo e anche Cely fece lo stesso.
Ma Vic aveva già fatto il primo passo in avanti, semplicemente aiutando Cecely con tutte le sue forze la notte in cui Catherine era stata spinta di sotto…
Victor sospirò ancora: «Senti, lo so che per te è difficile, Emeric è stato quello che è stato per te ma adesso…»
Se Anluan e Itsuko non fossero piombati su di loro in quel momento forse sarebbe riuscita ad approfondire il discorso.
«Abbiamo ottenuto un incontro con Lucy.» Disse lui fieramente sedendosi con loro. «Ce l’abbiamo fatta.» Sorrise Itsuko: «Comunque An mi ha raccontato di quello che hai letto, dovresti fotografare le pagine del diario di Michael e mandarle alla Ulrik» Kell annuì stringendosi al petto la cartella con dentro il quaderno, era qualcosa che doveva fare assolutamente ma prima...
«Bene.» Convenne Kell: «Ma ci sono alcune cose che vorrei precisare...»

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** 15. Dialogo ***




- minuscolo spazio autrice - 
Rieccoci con un altro capitolo, questo in particolare è un po' la via di mezzo, lancia gli eventi che spazzeranno via tutto (comincia l'evoluzione) e quindi per questo è molto importante. Vi consiglio di fare molta attenzione alle parole di Lucy durante il suo interrogatorio, magari riuscirete persino a captare qualcosa a cui la mia Kell non ha neanche pensato. Baci baci.
















15. Dialogo



Lucinda Fitzvellian sedeva rigida dietro la sua scrivania. Portava i capelli castano chiaro ordinatamente stretti in una treccia, aveva delle occhiaie spaventose si rese conto Kell, le ricordò se stessa nel periodo nero in cui era stata costretta ad andare a scuola ogni giorno per evitare di perdere l’anno, era chiaramente distrutta.
Lucy li aveva fatti accomodare davanti a lei e dopo si era chiusa in un mutismo riservato scuotendo la testa ripetutamente ogni tanto, come per dissuadersi a non alzarsi e andare via.
Sapeva che Lucy era claustrofobica, non sapeva fino a che punto, osservando il modo in cui si muoveva e come intelligentemente aveva spostato i mobili della camera Kell capì che doveva averlo fatto per dare l’impressione che quel piccolo spazio fosse più largo.
Kell voleva che fosse lei a parlare, nessuno di loro doveva cercare di cavarle parole di bocca solo domande e osservazioni, niente di più.
«Allora.» Incalzò Anluan, era seduto accanto a Kell perché quel pomeriggio avrebbe avuto il suo pieno sostegno.
«Sai già perché siamo qui.»
Lucy annuì e il suo sguardo triste e insieme combattivo la spinse a proseguire.
«Vogliamo la tua versione, nel modo più insindacabile che ti riesca, la tua verità, quello che hai creduto, quello che sai, quello che hai sperato; non possiamo dirti il perché ma possiamo dirti che se ci aiuterai dopo non potrai pentirtene, ma di questo sei già cosciente, non è vero?» Era pur sempre la verità.
Lei non rispose.
«Non ti da fastidio se registro quello che dici vero?»
«No.» 
Kell fece finire il telefono nel mezzo della scrivania con un semplice gesto della mano, pronto a registrare il suo racconto.
Lucy annuì, ancora inghiottendo la saliva, si schiarì la voce e cominciò a parlare, placidamente, fin dall’inizio.
Mentre Kell, con in testa tutte le parole lette sul diario di Michael le confrontava sperando di riuscire a vedere le due facce di entrambi i punti di vista.
«Sono stata amica di Cat fin da quando è arrivata al Quattrocentoventisette ma nell’ultimo periodo... quando lei e Emeric avevano chiuso definitivamente... lei non è più stata la stessa. Certo, sapeva che Nikki stava macchinando contro di lei, non capiva come e infondo neanche perché...» Tirò su un respiro profondo e si schiarì la voce, c’erano cose che già sapevano ma era importante che lei senza esserne cosciente le confermasse o le smentisse da de.
«Nikki... lei voleva Emeric, ve ne sarete accorti anche voi ma... durante il tempo in cui era davvero amica di Cat deve essersi accorta del divarico abissale che Em metteva tra loro due, io gliel’ho detto chiaro e tondo prima che si mettesse a macchinare contro Cat. “Finché lei sarà presente nella sua vita nel bene o nel male Em non potrà vedere nient’altro che lei, sai come sono fatti e si corrispondono alla perfezione Nikki, hanno dei progetti, lo sai” così le ho detto.»
Kell si ritrovò a pensare all’aspetto “romantico” degli aventi che effettivamente si erano succeduti nei due mesi precedenti alla morte di Catherine. Attraverso il diario di Michael quell’aspetto era messo in luce dalla brutalità delle sue parole a volte anche ironizzata ed era difficile pensare che nonostante tutto Emeric e Catherine fossero innamorati, per un po’ quella verità le era quasi passata di mente.
«Poi è arrivata la rivelazione, il fatto che Cat dovesse andare via perché i suoi non potevano pagare la retta, ha distrutto tutti gli equilibri, lei stessa faticava a crederci all’inizio.
Se Rang non avesse voluto fare questa specie di regalo ai genitori di Cat a causa di questi tre anni di pagamenti ineccepibili forse a quest’ora non staremo qui a parlarne, per Rang Cat doveva uscire da questo posto mentalmente pulita, priva da strane fobie – che non aveva – da spiegare in giro, per questo hanno voluto farle fare il test e si è alzato un polverone indicibile, nessuno usciva da questo posto quattro mesi prima della fine della scuola da quando Rang è diventato dirigente, e poi inspiegabilmente Catherine fallì quel test, ve lo ricorderete, Nikki le aveva messo addosso un’ansia indicibile, Rang forse ci aveva ripensato, non lo so…»
Fece una pausa, lanciando uno sguardo al telefono che captava il suono della sua voce facendo rimbalzare la lineetta dei suoni costantemente, poi riprese a parlare, questa volta di fatti già più o meno noti: «Finito l’ultimo anno qui, Cat e Emeric volevano andare a farsi una lunga vacanza in qualche spiaggia sperduta ai limiti del fiabesco, per poi andare alla stessa università non appena l’anno scolastico fosse ricominciato, i loro genitori sapevano ed erano d’accordo. L’idea era quella, e sarebbe andata proprio così, potete credermi.» Lucy si rimboccò una ciocca di capelli dietro l’orecchio destro, Kell con la coda dell’occhio vide Cecely rigida sulla sedia accavallare le gambe, strette nei sui stivali di pelle stringati con troppa forza, distolse lo sguardo.
«E’ proprio in quei momenti – e solo in quei momenti in realtà – Nikki cominciava a rendersi conto che se avesse voluto avere davvero un’occasione con Emeric allora doveva essere proprio allora. Era lecito, secondo me, Cat doveva tornarsene a casa, Nikki poteva tentare di farsi notare davvero da Emeric, le consigliai di avere pazienza, dopo che Catherine fosse andata via avrebbe avuto la sua occasione.»
«Non pensavi che Emeric l’avrebbe respinta?» Chiese Cecely con un tono un po’ troppo irritato vista la calma con cui Lucy raccontava i fatti.
«Lo pensavo sì, ma non mi sembrava giusto ripeterle ancora che Emeric vedeva solo Cat, anche perché visto che lei non sarebbe stata fisicamente presente difficilmente Nikki poteva essere eclissata dal suo fantasma
Il suo fantasma non l’ha affatto eclissata, tutt'altro, Nikki alla fine aveva ottenuto quello che voleva, si ritrovò a constatare Kell.
«Prosegui.»
Lucy annuì schiarendosi la voce. 
«Tutto è iniziato circa cinque settimane prima della morte di Cat. Nikki era determinata, irremovibile e l’unico modo per fare quello che desiderava era mettere Cat in cattiva luce agli occhi di Emeric.»
«Se lo sai con questa certezza assoluta.» Disse Kell prendendo la parola: «Come mai non l’hai messo in guardia?»
Lucy scosse la testa come se non sapesse neanche lei che cosa fosse successo nel suo cervello in quei momenti: «A distanza di tempo non so esattamente quante falsità lei gli avesse raccontato, nel momento in cui succedeva non mi rendevo neanche conto di quanto Nikki lo influenzasse, avvertirlo non sarebbe servito a niente, le cose che lei gli raccontava potevano essere credibili, so che lui le credeva, ne ho la certezza.» Continuò: «Qualsiasi cosa cercasse di fargli credere era stata prima pensata a lungo.»
«Qualche esempio?» Chiese Anluan lanciando un’occhiata al telefono intento a registrare la conversazione.
«La famiglia di Em è veramente molto molto ricca, dopo gli sviluppi della vita di Cat la prima cosa che Nikki ha pensato di fare è stata fargli credere che Cat sapesse perfettamente che i soldi in casa sua stessero finendo e che quindi cercasse di ingraziarsi lui solo e unicamente perché poteva renderla di nuovo ricca, quindi in definitiva gli fece credere che lei non lo avesse mai amato. E poi, sapete, Cat era una splendida ragazza, da tutti i punti di vista, le persone la amavano, tutti, indifferentemente da cosa rappresentasse per loro, avrebbe avuto successo nella vita anche questo è vero ma i soldi erano importanti per lei.» Lucy fece spallucce come per lasciare intendere che ognuno poteva avere i propri difetti.
«So anche che gli fece credere che Cat avesse avuto una relazione con altri mentre stava con lui.» Alzò gli occhi al cielo: «E questa era un’assurdità! Nella rosa dei prescelti da Nikki c’era anche Michael, il migliore amico di Emeric.» Specificò Lucy scuotendo la testa tristemente: «Ha messo Em nella condizione di non potersi fidare di altri che di lei e lui è monofobico.» «Paura della solitudine.» Constatò Kell.
«Esattamente. Così, mentre tutti i punti fermi di Em crollavano  al suolo come mele mature Nikki era l’unica persona di cui credeva di potersi fidare e di cui si fidava... credo che nell’ultima settimana io e Em avessimo parlato e stento due volte, lui e Cat si guardavano a stento in faccia... era semplicemente mortificata,  io e Catherine pensavamo che Nikki avesse finalmente affondato gli artigli su Em, per questo non abbiamo fatto niente.
E sapete cosa registrò il cervello attento di Nikki pronto a passare il testimone a Em?» Domandò ridendo lievemente, preparandosi a rispondersi da sola: «Ammissione di colpevolezza, non lo cercavamo più non perché lei ci permettesse a stento di parlargli ma perché ci sentivamo colpevoli, lo ha convinto persino di questo. E’ affondato così.» 
Kell si sentiva abbastanza soddisfatta, stava quasi per allungarsi per afferrare il telefono e bloccare la registrazione, Victor però glielo impedì.
«Come hai appreso queste informazioni?»
«Le ho semplicemente dedotte, conoscevo bene Em e conoscevo altrettanto bene Nikki anche se non immaginavo... e riguardo le cose che ha raccontato a Emeric riguardo Cat, me le ha confessate Nikki in persona una settimana prima che Michael la accoltellasse. Io e lei non stavamo da sole insieme da non so quanto e dato che sapeva che io sapevo, non si è fatta problemi a confessarmi fieramente qualcuno dei suoi trucchi più brillanti.»
«Quindi non hai avuto possibilità di parlare con Emeric dopo la morte di Catherine?»
«Ne avrei avute se avessi voluto, ma sapete cosa?» E si rivolse a tutti loro staccando lo sguardo dagli occhi azzurri di Victor.
«Anche se è stata Nikki a spingerlo a farlo è stato lui a uccidere Catherine e non volevo parlare con l’assassino della mia migliore amica.»
«E quel picnic all’aperto quando Michael ha accoltellato Nikki cos’era?»
Lucy sbuffò, per la prima volta quel tardo pomeriggio:
«Michael aveva già deciso di accoltellare Nikki quando mi ha supplicato di andare a pranzo con quei due psicopatici sapevo o perlomeno immaginavo come sarebbe andata a finire, ci sono andata per questo.»
«Bene!» Si affrettò a dire Kell.
«Abbiamo finito? Sono molto stanca» Il suo sguardo lasciava intendere che non avesse nessuna intenzione di continuare quel discorso ma Kell non se la sentì proprio di opporsi, quello che aveva raccontato sarebbe stato più che utile.
Forte intuito, forte spirito critico, forte istinto di auto-conservazione, quella ragazza per quando gracile e apparentemente tranquilla celava una seconda faccia da cinica.
Quasi tutti loro erano già usciti fuori dalla sua porta verde, la ragazza stava dalla parte opposta, appoggiata allo stipite, Kell si fermò e fece bruscamente marcia indietro.
Aveva proprio voglia di togliersi una curiosità, qualcosa le disse che se non l’avesse fatto adesso difficilmente avrebbe scoperto qualcosa di interessane su Michael l’accoltellatore Mr Sangue Freddo e la sua amica pronta ad andare a un appuntamento con il Sangue Fresco.
«Posso farti una domanda? Non vorrei essere indiscreta...»
Lucy sorrise, alcune rughette d’espressione le colorarono il viso: «Chiedi pure, non preoccuparti.»
Kell vide gli altri allontanarsi e le sorrise di rimando, timidamente, come non era più abituata a fare da molto.
«Tu... e Michael?» Chiese Kell lasciando la frase in bilico.
Le rughette d’espressione si moltiplicarono sul viso di Lucy: «Magari.» Rispose lei: «Ma suppongo non lo rivedrò mai più quindi…»


«Ma perché gliel’hai chiesto?» Jeh sembrava talmente allibito che per un attimo a Kell venne voglia di tirargli una cuscinata in testa.
«Michael mi da l’impressione che Lucy gli piaccia. Lo sai, ora sono costretta a leggere anche delle loro chiacchierate personali per assicurarmi che non si dicano niente di utile alle indagini e lui mi ha dato quest’idea.»
Forse non era davvero così, si ritrovò a pensare Kell dubbiosa, ma il racconto di Lucy li aveva scossi tutti, sarebbe stata dubbiosa anche se avesse dovuto scegliere tra pistacchio e stracciatella.
«Anche secondo me, e io lo dico perché li ho visti.» Fece Cecely intervenendo. 
«Anch’io li ho visti.» Kell le sventolò il diario di Michael sotto il naso, Cecely alzò gli occhi al cielo.
«Anche se trovo sospetto il fatto che lui non abbia mai ammesso la cosa per iscritto...»
Jeh annuì come se lei avesse appena chiarito la faccenda da sola: «Tu non pensi che a Michael piacesse Lucy, tu vorresti che fosse così, è un concetto ben diverso.»
Cecely guardò il ragazzo con l’occhio di vetro sconcertata, in effetti neanche Kell capiva perché lui fosse così infastidito da quell’intromissione. 
«Niente ti da questa sicurezza.» Lo rimbeccò Cely.
Jeh non demorse: «Sto leggendo tutto quello che Michael ha scritto, se fosse stato fissato con Lucy sicuramente ne avrebbe  almeno, dico almeno parlato di più, non vi pare?»
Le parole di Jeh stupirono Kell ancora ma prontamente si preoccupò di non darlo a vedere, assunse un cipiglio scettico: «Ognuno di noi reagisce in modo diverso, non è detto, magari aveva paura che qualcuno leggesse il suo diario e non voleva che si sapesse.»
«E perché mai?» Persino Cecely pareva improvvisamente meno convinta.
«Magari non immaginava neanche lontanamente che Lucy ricambiasse.»
Cecely e Jeh la guardarono per qualche secondo, poi lui abbandonò mollemente la testa sul cuscino: «Non riesco a credere che ne stiamo davvero parlando.»
«Già.» Cecely si sdraiò al suo fianco per dargli una gomitata nelle costole: «Dovremmo cominciare a strizzarci il cervello con uno spremiagrumi per capire come incastrare Emeric e invece parliamo delle tragedie sentimentali altrui, deplorevole!»
Kell si ritrovò a risponderle seriamente: «Dai tempo al tempo, ho mandato le foto del diario alla Urlik con la registrazione della chiacchierata con Lucy, sarà lei a dirci cosa fare... non so neanche come farò a dormire stanotte, ho tanti di quei pensieri per la testa...»
Mandando i documenti alla poliziotta era stata certa delle sue parole, ora non ne era poi così tanto sicura, lei era fuori, loro erano dentro, chi meglio di loro avrebbe potuto farsi un’idea di come incastrare il ragazzo? Certo con Nikki nei paraggi però...
«Dovremo farlo confessare.» Suggerì Jeh. 
Lui e Cecely la guardavano speranzosi, a Kell venne da ridere.
«Ci pensiamo io e Jeh a farlo cantare. Tu potresti fare il poliziotto buono e io quello cattivo.» Cominciò Kell preparando una battuta in quattro e quattr'otto: «Sì, perché no? Potrebbe funzionare! Mi ci vedi con la benda da pirata sull’occhio?» La risata di Jeh intorpidì la stanza, le sue parole avrebbero potuto irritarlo, un tempo forse sarebbe stato così Kell ne era cosciente.
Cecely non si fece aspettare con il suo commento propizio: «Magari se nel gruppo avessimo l’erede della Strins potrebbe funzionare
E Vic fece finalmente irruzione tra loro, i suoi capelli biondi portarono un’ondata di freschezza nella stanza incupita dalla poca luce serale; era andando a prendere la cena sotto, sfruttando il permesso offerto dall’istituto di cui Kell la prima volta che avevano mangiato in camera non sapeva assolutamente niente.
«Argomento interessante?»
«Le tragedie sentimentali sono sempre interessanti.» Gli disse Cecely annuendo vistosamente, Vic alzò gli occhi al cielo, esasperato forse meditando già di fuggire via, era ormai chiaro come ci tenesse a tenere nascosto quanto più possibile delle sue di tragedie; per questo a Kell sembrò proprio come se si fosse ritrovato in mezzo a un mucchio di esaminatori con la lente d’ingrandimento in mano.
«Le tragedie sentimentali esattamente di chi di voi tre?» 
«Beh, ora è il momento di Cecely.» Rispose Jeh per tutti.
«Ah! Fantastico.» Vic lasciò il vassoio ai piedi del letto e si sedette di fronte a Kell a gambe incrociate, guardò Cely e Jeh stesi sul letto con un cipiglio ironico, incapace di scappare.
«Ditemi, era già arrivata al drammatico momento in cui si rese finalmente conto che Emeric Allord era l’uomo della sua vita?» Kell annuì causticamente: «Almeno venti minuti fa Vic, ormai te lo sei perso quel punto.»
Victor sfoggiò la miglior espressione finto-addolorata che Kell avesse mai visto: «Che sfortuna! Stavo giusto pensando di volere immergermi nelle atmosfere romantiche e drammatiche dei film con Sandra Bullock, la voce di Cecely che ci racconta i suoi struggimenti interiori la prima volta che ha visto Emeric e Catherine insieme: “Oh! Quale disgrazia! Come potrò mai competere? Non ho proprio speranze! Oh, lui è così perfetto, oh perché, perché perché!”»
Kell e Jeh cercarono di non ridere, ma l’interpretazione vocale di Victor con annesse le occhiate gravi lanciate alla povera Cecely erano una chicca troppo esilarante.
«Eri ridotta così male Cecely?» Domandò Kell, aspettandosi di vederla saltare seduta pronta a negare tutto.
«Qualcosa del genere.» Ammise. 
Jeh ancora trattenuto dal suo braccio si portò una mano in viso ridendo sommessamente.
«Anche se non ricordo di aver mai definito Emeric l’uomo della mia vita.» Aggiunse: «Se l’avessi detto ora sarei seriamente preoccupata per la mia già piuttosto traballante sanità mentale.»
«Non potevi sapere quello che sarebbe successo.» Tentò di rassicurarla Kell, ma Cely continuò imperterrita: «La verità è che non sapevo assolutamente niente di rilevante di Emeric, e quello che ha detto Vic, anche se non l’ho mai confessato ad alta voce...» Specificò guardandoli tutti e tre a turno: «E’ fondamentalmente vero, non me ne rendevo neanche conto nel momento in cui succedeva, non volevo ammetterlo ma era così.»
Jeh sfoderò un’espressione a dir poco soddisfatta: «E’ meraviglioso che tu l’abbia accettato, è un ottimo modo per pensare di ricominciare da capo, magari...»
«L’ho già fatto.» Fece Cecely: «Veramente ragazzi.» E a quel punto a Kell sembrò quasi che parlasse direttamente a Kell e Jeh lasciando Victor in disparte: «Non mi serve un’altra paternale, Emeric non significa più niente per me, ho ricominciato, ve ne siete accorti anche voi, ho aperto gli occhi finalmente, ci ho messo una pietra sopra e, cosa ancora più importante non crucciatevi, ho compreso la reale importanza di quello che invece ho già, qui con me.»
A Kell venne un improvvisa e abbastanza irriguardosa voglia di gettarle le braccia al collo, evitò di farlo con uno sforzo quasi sovrumano, sorrise imbambolata scrutando il sorriso soddisfatto di Jeh, quella di Cecely, glielo lesse praticamente in faccia oltre le increspature della lunga cicatrice era una specie di ammissione.
Per quello non avevano bisogno di confidarsi in quel tipo di discorso, erano abbastanza sveglie da capire da sole.
«E tu Vic?» Domandò Kell sorridendo giovale.
Lui aveva esattamente la stessa aria di uno che ha appena ricevuto una botta in testa, anche piuttosto forte: «Cosa?» Si infilò una mano tra i capelli come faceva sempre quand’era in ansia.
«C’è qualcuno per te?»
«Questo a lei non l’avete chiesto però...» Sbottò, già il fatto di metterlo in ansia a quel modo era un ottimo fatto se Cecely era presente.
«Non c’è ne stato bisogno.» Disse Jeh e poi lui e Kell tossirono rumorosamente mentre Vic teneva lo sguardo basso sul copriletto, mortificato quanto Cecely che immediatamente diede una gomitata nelle costole al povero Jeh.
«Allora, i tuoi struggimenti sono almeno al livello di quelli di Cely?» Gli chiese Kell, mentre lui faceva attenzione a non far vagare lo sguardo nella stanza come faceva di solito: «Sono venustrafobico, i miei struggimenti superano quelli di Cecely.»
Jeh gli lanciò un’occhiata ironica: «Forse volevi dire che ERI venustrafobico.» 
«No.» Disse Victor implacabile: «Lo sono ancora, solo perché   Itsuko, Kell e Cecely non mi vanno venire voglia di scappare via urlando non significa...» «Non significa neanche che solo perché sei venustrafobico non ti puoi inn...» «No, no certo.» Ammise Victor senza lasciar finire a Kell neanche l’ultima parola: «Lo sapete che non volevo dire questo anche se non credo che riuscirò...»
«Sappiamo perfettamente che non intendevi quello Vic, non c’è motivo per cui dovresti negare, anche per quanto riguarda altre cose...» Jeh lasciò la frase in sospeso così, Kell gli lanciò uno sguardo determinato, loro due insieme senza neanche dirselo avevano già deciso come agire.
«Quindi non c’è nessuno che ti interessa?»
Jeh faceva ancora una volta leva sulla mancata capacità del ragazzo di mentire facilmente su argomenti spinosi, tutto il contrario di lei, per lei era complicato evitare di mentire su argomenti spinosi.
«Io... non ho detto neanche questo.»
Kell annuì dandogli una pacca su una spalla: «Quindi c’è qualcuno che ti interessa.»
«Ma se lo sapete già perché me lo state chiedendo?»
«Per metterti in difficoltà.» 
Kell vide Cecely pescare una foglia d’insalata dal vassoio e sorridergli tranquillamente: «Non te la prendere, ne Kell ne Jeh sono messi meglio di te, e di me.» Dopo di che Cecely si mise seduta e sistemò il vassoio tra loro quattro.
Jeh e Kell impietriti la fissavano con la piena consapevolezza  ritrovata che a Cely non servisse il loro aiuto, neanche per schiarire le acque.
Sapeva già quanto tempo a Victor sarebbe servito, anzi, forse non lo sapeva e non sembrava importargliene.
«Che ci volete fare…» La ragazza alzò le spalle: «E’ adorabile che cerchiate di aiutare gli altri con le proprie tragedie sentimentali.» Cecely scrutò Kell e Jeh inghiottendo un boccone d’insalata appena condita: «Veramente, in un certo senso lo apprezzo, significa che non vi va di assistere imperturbabili…» Vic la guardava sconcertato, gli altri due non sapevano cosa dire. «Però non so che fareste voi, se io e Victor ci mettessimo a fare lo stesso...»
Kell alzò un sopracciglio scettica – aveva compreso a pieno la parole di Cecely, e anche Jeh visto lo sguardo corrucciato che aveva in quel momento – ma forse una mano non le avrebbe fatto proprio schifo ecco... 
Respinse quel pensiero così com’era venuto, una cosa del genere l’avrebbe quantomeno fatta contorcere dall’ansia, certamente non aiutata.
Cominciarono a cenare, silenziosamente, sfamandosi, con un milione di pensieri dubbi e certezze per la testa. Quel silenzio non infastidiva Kell ma forse metteva qualcun altro: Victor in difficoltà: «Imbarazzante.» Commentò, dando un morso al pezzo di carne che si era appena tagliato.
Cecely lo guardò, sembrava stranamente contenta, sicuramente in difficoltà in una situazione che la prendeva talmente in prima persona da non permetterle neanche di scappare ma comunque contenta, un nuovo dubbio si insinuò nella mente di Kell; forse lei non era certa che Vic avesse in testa la stessa cosa che sfiancava lei, ma ora...
«Già.» Fece Cecely dandogli una spilla con la spalla, lui sorrise, meno incordato di prima, i capelli biondi prudentemente rimessi a posto da una Cecely sorridente come Kell non la vedeva da parecchio tempo. 
Lei e Jeh ridacchiarono per tutta la sera, mettendo da parte le strategie “militari”, per fare gli adolescenti normali di un istituto psichiatrico. A Kell quella normalità piaceva, più di quanto fosse lecito forse.


Il suo sonno leggero non veniva destato con tanta violenza dalla “caduta” di Catherine. Le ci volle un momento per registrare nel suo cervello l’idea peggiore che le potesse passare per la testa: qualcun altro è caduto di sotto, qualcun altro è stato spinto.
Poi non capì come le fosse venuto in mente, in quei due nano secondi in cui non aveva registrato correttamente il suono fastidioso della suoneria del telefono.
Scattò in piedi mettendosi seduta, accecata dal buio si sbrigò a accendere la luce del letto, sul comodino la suoneria e la vibrazione inserite vennero brutalmente interrotte dall’entrata della chiamata.
Se qualcuno l’avesse sentita... ma le camere erano insonorizzate, che andava a pensare, se aveva sentito Catherine cadere era stato a causa dello schianto sfolgorante e della finestrella con le sbarre che andava per l’esterno, di solito gli studenti la lasciavano aperta.
«Si?» 
«Kellan, ti ho svegliata?» Kell diede un’occhiata all’orologio sul comodino, le tre e mezza di notte, che cosa avrebbe dovuto fare alle tre e mezza di notte se non dormire?
«Non importa, dimmi pure tutto, è...» Si rese conto in quel momento: «E’ successo qualcosa?»
La Urlik con la sua voce femminile e cortese sospirò: «Ho parlato fino ad adesso con una persona... non posso dirti di chi si tratta però, ha delle conoscenze all’interno del Quattrocentoventisette, e questa persona ha saputo dal suo informatore che Emeric Allord...» E il cervello di Kell guizzò verso l’apice dell’attività celebrale di quella notte: «Dovrebbe essere rimosso permanentemente dall’istituto entro la fine del mese.»
«Emeric se ne va?» 
«A meno che qualcuno non lo convinca a rimanere con la forza.» La Urlik sputò fuori la frase tranquillamente.
Kell, presa alla sprovvista rispose: «Fammi capire. Tu vuoi che lo convinciamo a rimanere?» La donna rise nervosamente: «No, ti sto dicendo che Nikki potrebbe “convincerlo”, spingerlo, costringerlo a rimangiarsi la sua decisione con la forza, forse è stato davvero Emeric a uccidere la ragazza come tutti state suggerendo ma certamente non propriamente di sua iniziativa, Nikki potrebbe fare qualunque cosa, è imprevedibile, sei stata tu stessa a dirmi che aveva un atteggiamento a dir poco possessivo nei suoi confronti, ho ascoltato la registrazione del vostro colloquio con Lucinda; mi rendo conto che per voi la faccenda possa essere quasi chiusa ma non abbiamo prove concrete, nessuna prova concreta eccetto le dichiarazioni opinabili di qualche ragazzo. No, non basta, e Emeric non deve rimetterci la vita a sua volta, se è stato lui dovrà pagare ma...» «Ho capito.» La interruppe Kell rannicchiandosi nel suo letto, la morsa allo stomaco si faceva sempre più forte: «Se Emeric se ne va come facciamo a incastrarlo? Come facciamo a estorcergli una confessione se non è più qui?»
«Non può andare via Kellan, neanche se Nikki non dovesse fare la pazza, se va via è finita, per noi, per le indagini, non potremo più corrergli dietro...»
«Mi stai chiedendo di entrare in contatto con lui, non era nei piani...» «Non c’è mai stato un piano Kellan.» La Urlik la riprese tristemente: «Niente arma del delitto, un movente puramente psicologico, testimoni coinvolti fino al collo. Se avessimo potuto fare un’indagine accurata Emeric avrebbe confessato la sua colpevolezza, ma la situazione non ci permette di arrivare a questo punto.»
«Lo sai che questo posto ha più segreti di quelli che sembra avere?» «Sì, lo so Kellan.» Il tono della Urlik d’improvviso divenne grave.
«Cerca di capire, so che l’idea non può piacerti ma è l’unico modo per andare avanti, entrare in contatto con loro, direttamente, conoscili, scoprili al meglio che puoi, che potete, ti prometto che non te ne pentirai anche per quanto riguarda gli altri segreti di questo posto... Se Emeric ha ucciso una volta in quel modo non lo farà di nuovo, non può esserne in grado, è emozionalmente distrutto è quello che dicono gli psicologi o sbaglio?»
«Non sbagli.» Di questo Kell era certa e una parte di lei si stava già muovendo per lanciarsi all’attacco come se quello che le stavano chiedendo non fosse un dato di fatto appena acquisito ma qualcosa di cui in realtà era stata cosciente fin dall’inizio.
«E come... dovremmo scegliere qualcuno di noi disposto a recitare questa parte.» Il pensiero corse veloce verso Anluan e Itsuko, poi addirittura verso se stessa.
«E Nikki, non dimenticare Nikki, dovrebbe essere più facile con lei, e se prendi Nikki prendi anche Emeric.»
«Giusto.» Kell annuì sempre più convinta.
«D’accordo, allora...»
E qualcuno bussò alla porta. 
Il battito cardiaco di Kell, in pieno tumulto fece una pausa spaventosamente lunga: «Aspetta.» Bisbigliò nella cornetta.
Infilò il telefono sotto la coperta e si alzò in piedi, con il cuore che neanche a dirlo ora batteva talmente forte da averla scossa da brividi di paura.
Afferrò la maniglia della porta azzurra. Aprì la porta, soltanto uno spiraglio, per permettersi di vedere chi fosse la persona che aveva bussato, mentre i suoi pensieri correvano già alla guardia notturna che nonostante le pareti insonorizzate poteva aveva udito gli squilli del telefono.
Ma si sbagliava.
Era Jeh.
Lo afferrò per la manica del pigiama e lo spinse nella stanza: «Mi hai fatto venire un colpo, maledizione Jesse!» Urlò sottovoce Kell sentendosi una specie di Cecely un po’ più alta, per altro, non lo chiamava mai Jesse.
Il sopracciglio nero coperto dalla benda rossa si sollevò leggermente oltre il bordo: «Ho visto la luce accesa e allora...» «Ssh!» Gli intimò Kell.
Raggiunse di nuovo il telefono frugando tra le coperte e mentre Jeh si sedeva sul letto guardandola confuso per poi appoggiare la testa al cuscino stancamente, intanto lei riprendeva a parlare con la Urlik mentre il ragazzo comprendeva.
«Capisco che volessi dirmelo subito ma la prossima volta chiama nel pomeriggio... magari dopo le cinque.» «Avevo bisogno dell’assoluta certezza di trovarti subito e non potevo aspettare, ogni minuto è prezioso, è arrivato qualcuno?»
«Tutto a posto, abbiamo finito?»
«Direi proprio di si, e mi aspetto di avere novità sul diario di Michael, domani spero.»
Si salutarono alla buona, poi Kell riattaccò.
Si sporse oltre Jeh per rimettere il telefono dentro al cassetto del comodino; buttò la testa all’indietro affondandola nel cuscino, in uno stato praticamente devastato, incapace di parlare.
«Sai che ora dovrai spiegarmi tutto?» Fece Jeh, tirando su un mucchio di coperte sotto suo preciso ordine manuale, ricoprendoli entrambi fino a quando l’ultimo lembo grigio di pigiama scoperto non sparì sotto il lenzuolo.
«Emeric vuole lasciare l'istituto, dobbiamo fermarlo, impedire a Nikki di cercare di ammazzarlo, spingerlo a confessare e se possibile farceli amici, altrimenti col cavolo che ci danno retta, il tutto entro la fine del mese... niente di straordinario.»
Jeh, steso dal lato sinistro del suo letto strabuzzò gli occhi, o meglio, l’occhio grigio brillante, la parte di cicatrice non nascosta dal cuscino gli si era stirata sulla faccia mentre sul collo si ripiegava in mille versi differenti.
«Scherzi Kell?»
Si seppellì alla svelta sotto il cuscino. 
Naturalmente era contentissima che lui fosse lì, ma magari se fosse arrivato due minuti dopo la fine della conversazione avrebbe potuto fare finta di niente.
Ecco, appunto, magari.
«Quindi...» Tentò lui, parlando a bassa voce: «E’ il momento di entrare nella vita dei sospettati.» Kell annuì togliendosi il cuscino dalla faccia e guardando il soffitto: «Non credevo saremmo arrivati a un punto così disperato, ma non possiamo lasciare che Emeric vada via, se lo fa, è finita.» Jeh sorrise appena: «Beh, ma pensaci un secondo, dovevamo estorcere la confessione a Emeric in qualche modo, entrarci in contatto direttamente in effetti era l’unico modo.»
«Jeh...» Kell saltò a sedere e lo guardò negli occhi, i tempi da ommeotafobico per lui erano finiti definitivamente: «Tu, Cecely e Victor non potete ficcarvi in questa faccenda, Cecely si arrabbierebbe di nuovo, Vic deve stare con lei per forza è troppo mentalmente confuso per esserci utile sul campo con tutto quello con cui ora deve combattere... e per quanto riguarda te, sai perfettamente che questo non è il tuo piano d’azione.» Jeh annuì abbassando lo sguardo: «E il tuo lo è?»
Kell si sforzò di sorridere: «Dovrà esserlo, da quando ti ho detto la verità su dove ti avessi visto prima, lo sai, le cose sono cambiate.» Jeh sorrise e le scoccò una leggera gomitata d’intesa, Kell rise: «Se voglio fare qualcosa lo farò e basta, non ti ho rivolto la parola dieci anni fa e per i dieci anni successivi ho pensato a come sarebbe stato se l’avessi fatto, quant’è assurdo?» Scompigliò i capelli neri e riccioluti del ragazzo spinta a liberare quell’impulso di moto d’affetto verso di lui che alle due di notte si trovava lì solo perché aveva visto la luce di camera sua accesa.
Se prima non sorrideva mai, specialmente con lei ora era quasi l’opposto: glielo disse perché ci credeva: «Ti assicuro che non si ripeterà più.»
Qualche minuto e diverse beccate dopo Jeh fece per alzarsi in piedi: «Kell, io vado...» era per metà già uscito dal letto e una parte di Kell in un certo senso era quasi sollevata, l’altra però le gridò le parole che lei stessa aveva detto al bambino sfigurato della sua infanzia appena un paio di minuti prima.
Arpionò il braccio di Jeh tirandolo con sicurezza mentre lui la guardava interrogativo, la cicatrice, orrenda e inquietante che spariva sotto la maglietta leggera del pigiama e le ombre scure che formava sul suo viso altrimenti pulito dovevano spaventarla, era un’increspatura profonda e non sapeva neanche in che punto esatto del suo corpo finiva ma in realtà a stento riusciva a vederla ora, a stento ne percepiva il male che tutti imbrogliava.
«Vuoi che...» Il suo tono di voce, sempre esitante la colpì, era diventato familiare: «Vuoi che rimanga?»
«Sì.» Rispose Kell e non ebbe nessuna paura del dirlo: «Rimani.» 
C’è troppo da cui scappare.









 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** 16. Intromissione ***










16. Intromissione



Fece un bel respiro profondo, tirando dentro aria, l’odore familiare di qualcuno, così stranamente simile al suo, le si insinuò nelle narici, non voleva aprire gli occhi non aveva voglia, non voleva ricominciare; strinse la nuca del ragazzo in modo da avvicinarlo di più a se. Un momento dopo sentì chiaramente il collo liscio contro la superficie del suo viso, la testa premuta contro la sua la circondava. Kell non si ricordava più l’esatta posizione in cui si era svegliata la mattina dopo la caduta di Catherine, ma ricordava quell’alone di perfetta coesistenza con le persone che la circondavano. 
Dieci minuti e sarebbe suonata la sveglia, segnalatrice della mezzora di tempo per prepararsi a una nuova estenuante giornata di scuola, di macchinazioni e di problemi.
A un tratto sentì lui che questa volta la stringeva di più, voleva parlare, voleva dire qualcosa, ma non sapeva cosa e non sapeva come sarebbe venuto fuori.
Alla fine aspettò pazientemente che quell’oasi di pace e mutismo avesse fine; anche se... la sveglia cominciò a suonare, Jeh non si staccò immediatamente da lei come credeva avrebbe fatto, sbadigliò quando lei si sporse oltre il bordo del letto – mentre lui era ancora aggrappato alla stoffa leggera del suo pigiama – per spegnere quella fastidiosa sventurata della sveglia.
«Dormito bene?» 
Jeh sfoderò un sorriso ironico dei suoi: «Guarda la mia faccia distrutta, non ti basta come risposta?»
«No.» Kell afferrò il cuscino con entrambe le mani facendogliela sfuggire da sotto la testa e gli rifilò una cuscinata in pieno viso.
«E a te questo basta come risposta o ne vuoi ancora?» Lo sentì ridere da sotto il cuscino mentre cercava di soffocarlo per divertimento, seppe in quell’esatto istante che la pace era finita.


Jeh, dopo averle rifilato a sua volta una cuscinata in testa per vendicarsi filò in camera sua a mettersi l’occhio di vetro, Kell ancora piuttosto assonnata si diresse direttamente in sala. 
Doveva fare colazione con gli altri come ogni giorno e spiegare; non appena riuscì a sedersi tra loro, ancora abbastanza intontita dal recente risveglio cominciò subito a raccontare della telefonata.
Prima di sedersi si sentiva ancora tranquilla, si guardava intorno in attesa della comparsa di Jeh, e pensò che avrebbe preferito aspettare che ci fosse anche lui ma dopo un paio di minuti saltò su con le parole che la Urlik quella notte le aveva scaricato addosso.
Anluan annuì almeno trenta volta nel giro di cinque minuti, Itsuko attaccò a parlargli, sembrava estremamente combattiva come al solito, proprio l’atteggiamento giusto. Cecely e Victor cominciarono a parlare fra loro: «Non spetta a te.» Le disse lui.
«E neanche a te.» Victor alzò gli occhi al cielo: «Ma potrei...»
«No.» Fece Kell, non voleva essere troppo dura ma assunse comunque un tono perentorio: «Tu ci servi fuori da questo, non possiamo buttarci tutti a capofitto nel piano della Urlik sarebbe anche piuttosto sospetto, no Vic.»
Unire due universi di Cecely: Victor e Emeric, equivaleva a fare andare in collisione il vecchio e il nuovo, non era quello che le serviva, non era necessario fare altro male. Voleva preservare.
«Stessa cosa tu Cely, e Jeh naturalmente.»
«Capisco.» Disse la ragazza, accavallò le gambe come al solito strette dei suoi costosissimi stivali con le stringe, un altro paio, Kell non li contava più ormai.
Guardò Victor con i suoi occhi verde scuro e un sorriso ironico: «Allora si torna ai vecchi tempi.»
Il sorriso forzatamente rassicurante sul viso di Kell per un secondo si affievolì: «Solo noi tre.»
«Hey.» Anluan le scoccò un’occhiataccia: «Dobbiamo solo sedurre un paio di persone, non partiamo per l’Alaska.»
L’espressione “sedurre” fece arricciare il naso a Kell: «Non dobbiamo sedurre nessuno.» Anluan rise da di fianco a lei, una fiancata lo riportò al mondo reale: «Dobbiamo semplicemente avvicinarci.»
«Bene.» Itsuko annuì: «So come fare.»
«Davvero?» Kell tirò un sospiro di sollievo, Jeh si sedette al suo fianco, arpionò una fetta biscottata con la forchetta che aveva appena preso e la depositò nel suo piatto già messo al suo posto come al solito.
«Sì, dobbiamo aggiornati Jeh, la Urlik...» Kell stava per intervenire ma Jeh la precedette con un gesto sbrigativo della mano: «Kell me l’ha già detto.» 
«Ah, bene, allora cominciamo a parlare del piano.»
«Lascio il diario da leggere a...» «A me.» Jeh glielo tolse di mano e lo aprì: «Okay?» Sapeva perfettamente di non poter rifiutare: «Okay.» Anche gli altri si dissero d’accordo.
«Che cos’hai in mente?» Chiese Kell a Itsuko, tutti i si voltarono a guardare la diretta interessata.
«Io e Anluan conoscevamo abbastanza Catherine, se diciamo a Nikki di sapere qualcosa come...»
«Come: “Catherine e Michael stavano insieme”?» Suggerì Kell.
«Perfetto.» Itsuko batté le mani: «Le diciamo che ce l’aveva detto Lucy, e poi chiamiamo Lucy a confermare, è abbastanza per farci entrare nelle sue grazie.»
«Credo proprio di si.» Disse Anluan «E poi dobbiamo cercare qualcosa con cui spingerla a dirci la verità quando Emeric non sarà presente, se è stato lui… lei meschina com’è potrebbe arrivare a...» «A vantarsene.» Completò Cecely inghiottendo la saliva: «Ci serve qualcosa come...»
Jeh puntò il dito su una pagina: 
«Come... “sappiamo che Emeric aveva le chiave del balcone”?»
«Oh no.»
«Oh si.» Jeh sorrise passandole il diario sotto il naso, la faccia di Itsuko non lasciava spazio a dubbi: «Qui dice proprio che Michael ha visto Emeric con le chiavi. Lo ha visto!»
Si ricordò di quando Micheal aveva scritto di aver visto Emeric parlare con la Patricks, ma nessuno le parlava mai solitamente, tutto cominciava ad avere un senso.
«Fantastico.» Kell si alzò in piedi: «Manderò una foto alla Urlik dopo le lezioni.» E ora era ora di andare in classe.
«Quando cominciamo?» 
«Proviamoci oggi stesso a cena.» Disse Itsuko: «Io, Anluan e Kell ci sediamo ad un tavolo, ci facciamo presentare, per il momento è il massimo, magari si siede con noi, poi arriva Emeric, a piccoli passi.» Disse Itsuko lasciando nel piatto un pancake fumante: «Può funzionare?»
«Potrebbe, sì.»


Un’ora dopo, durante l’ora di letteratura Cecely le passò un biglietto sotto gli occhi.
Hai detto che la Urlik ti ha telefonato alle tre di notte e tutti sappiamo che Jeh si sveglia sempre all’ultimo minuto, c’è qualcosa che non mi dici?
Ci mancava questa ora, le scoccò un’occhiataccia, aveva occhio Cecely, era innegabile: «Sono così socialmente inetta da non avere neanche il coraggio di venirtelo a dire se fosse successo qualcosa?» Scosse la testa e Cecely sospirò: «E allora dovrei presumere che questa mattina ti sei precipitata...» «Non presumere niente.» Cercò di tenere il tono di voce basso per evitare che lui la sentisse: «Ieri notte avrà avuto voglia di fare due passi e ha visto che c’era della luce sotto la porta di camera mia.»
La bocca di Cecely si aprì e si richiuse: «Ah, coincidenza fortuita.» Kell annuì, inghiottì e si decise a confessare: «E dopo è rimasto con me.»
Cecely prese il libro di geografia e lo usò per dargli una bella botta sulla spalla: «E perché cavolo non me l’hai detto?»
«Ssh! Vuoi farti sentire da tutta la classe?»
Jeh e Victor si girarono verso di loro interrogativi, Kell li liquidò con un gesto della mano, meglio chiudere il discorso.
«E allora perché tu non mi hai detto niente di niente di Vic?»
Cecely sospirò atterrita: «Non mi piace parlare di queste cose e poi non c’era proprio niente da dire.»
«Beh ti sei risposta da sola allora, neanch’io ho niente da dire.»
Cecely rise di gusto a sentirla dire quelle parole: «Se io e Vic avessimo dormito anche solo nella stessa stanza...»
«Sì, ma tu e Victor...» 
«Cosa c’è di diverso?»
Kell si sentì mancare l’aria, agguantò una bic e la strinse tra le dita, stappandola e chiudendola convulsamente: «Sai com’è fatto Jeh.» Abbassò la voce più che poté, Cecely sospirò improvvisamente era a terra: «Ascolta, con te lui è diverso, la storia dei ‘dieci anni fa’ ha cambiato tutto.» Kell scosse la testa: «Non cambia abbastanza e non posso farci niente.»
Cecely la picchiò di nuovo con il quaderno: «Non dire che non puoi farci niente razza di idiota!» Kell alzò gli occhi al soffitto, ancora: «Non posso farlo Cely.» Si ritrovò a dire, la sua verità, il suo limite massimo, la linea invalicabile: «Non chiedermelo, per favore.»
Cecely la scrutò interessata e rattristata insieme: «Lo so benissimo Kell, lui è difficile, non vuole accettare certe cose rivolte a se stesso, non ci riesce... ma non può evitare delle altre cose, che accadono inevitabilmente se devono succedere, ecco tutto.»
Kell la guardò, ringraziandola con gli occhi per non aver detto troppo: «Ne sono cosciente, fin troppo e onestamente vorrei non saperlo.»
Voleva non pensare.
La professoressa rientrò in classe, la lezione ripartì speditamente.


La consistenza delle polpette quel giorno aveva un che di lunare. Kell alzò lo sguardo verso il tavolo degli altri tre di loro rimasti “fuori” dal piano; Cecely le sorrise timidamente, visto che era di schiena Jeh si voltò seguendo il sorriso dell’amica con lo sguardo, sorrise anche lui nel modo un po’ severo che divertiva tutti quelli che gli volevano bene. Kell abbassò lo sguardo sulle polpette. Il loro tacito accordo di segretezza resisteva e visto che le parti non erano invertite non c’era il rischio che uno di loro tre saltasse in piedi e prendesse per il colletto della camicetta Nikki Dason con l’intenzione di rimetterle in ordine i connotati.
Erano a un altro tavolo, nel mezzo della sala, e aspettavano.
«Arriva.» Sussurrò Itsuko, saltando, come previsto però, in piedi: «Nikki vieni a sederti con noi dai!» A Kell, nonostante fosse seduta, mancò il terreno sotto i piedi, era lei, era lì, più vicina di quanto lo fosse mai stata prima di quel giorno.
Sorrise, abbassò lo sguardo su Anluan che ricambiò lo sguardo e poi il saluto con garbo, poi passò a Kell, si sedette, di fianco a lei, le strinse la mano, si presentò, lei fece lo stesso.
I capelli, evidentemente, ora se ne rendeva conto, tinti di un rosso scuro le facevano risaltare le sopracciglia quasi nere mentre i suoi occhi castani con sfumature verdastre le donavano un accenno ancora più particolare; ma Kell dovette riconoscerlo, non aveva un bel viso, quei nei, non la adornavano, la bocca carnosa stonava, pareva maldestramente contratta in ogni particolare.
Non reggeva il confronto con Catherine, la ragazza dorata, no, neanche lontanamente, sebbene Kell preferisse i tono più scuri pensava che Catherine ne avesse più dentro.
Intanto, la conversazione era già partita.
«Sì, assolutamente, dopo quello che è successo dubito che i professori ci faranno rimanere ancora per molto, Em è ancora... fragile ma si rimetterà e usciremo di qui prima possibile con il nostro diploma.» Kell registrò le informazioni: “Lei non sa che Emeric vuole andare via, lasciarla qui”.
Si chiese se fosse davvero così.
«E’ parecchio che non ci facciamo una bella chiacchierata tu e io eh?» Ammiccò a Anluan: «Che mi dici di quel ragazzo che avevi puntato un mese fa, pare che sia di nuovo single...»
Per un quarto di secondo Kell pensò che si stesse rivolgendo a Itsuko, sfoderò un’espressione quantomeno disinteressata, se doveva fare la parte della nuova amica intima dei due era ridicolo che non sapesse una cosa del genere di Anluan.
«Non mi interessa più.» Rispose lui alzando le spalle, volutamente si rese conto, evitò di guardarla.
L’aveva capito, Kell si schiaffeggiò mentalmente ricordandoselo, ma il fatto che tra Itsuko e Anluan ci fosse stata una storia rotta pochi mesi prima, rotta ma mai completamente, gliel’aveva fatto considerare un dettaglio superfluo.
«Starà arrivando.» Disse Nikki riferendosi a Emeric.
«Come vanno le cose fra voi?»
«Alti e bassi, dopo quello che ha fatto quel pazzo di Michael...» Nikki si sfiorò il collo con la mano sinistra, Kell si trattenne dal ridere, perlomeno evitava di mentire spudoratamente dicendo loro che folli risate si facessero insieme.
«Davvero un pazzo.» Disse Kell scuotendo la testa caustica, Nikki si voltò a guardarla come ricordandosi tutto a un tratto della sua esistenza, il tutto mentre Emeric compariva tra loro, cupo e smagrito come una rondine affamata con gli occhi verdi.
«Oh Em, guarda chi c’è, lei è Kallan Hall.» 
Sapevano chi era lei? Davvero? Seriamente?
Naturalmente si sentì sbiancare leggermente non appena Emeric fece segno di notarla, si sedette al tavolo con loro, annuì a Nikki, gli occhi ancora vacui, sempre vacui: «Tenta.» Disse a Nikki, Kell aggrottò le sopracciglia.
«C’è una mia amica, Sibille, non so se la conosci, ha le punte dei capelli celesti.» Spiegò, Kell annuì, ce l’aveva presente eccome, una bella ragazza, alta, con un sorriso splendente e bei denti bianchi, per essere in un posto come quello si faceva notare: «Beh Sibille ha una fissa colossale per quel tuo amico, quello con l’occhio di vetro, Jesse giusto? Da almeno un’eternità! Magari potresti aiutarmi a combinare qualcosa, tra loro due capisci...»
Vide Anluan e Itsuko irrigidirsi, Kell cercò un appiglio, si voltò a guardarli interrogativa, cosa fare?
«Ehm...» Non poteva dire di no, anche se voleva dire di no, anche se la sola idea di svendere Jeh la mandava in bestia, era necessario trovare qualcosa con cui interagire con loro con un motivo plausibile, era una buona idea; specialmente dopo aver parlato con Lucy e essersi sentita dire che non voleva rientrare in contatto con quei due, neanche per incastrarli, non avrebbe avuto carne la fuoco, senza appigli sarebbe stato ancora più difficile Itsuko glielo comunicò chiaramente con lo sguardo, Anluan annuì dandole l’okay.
«Lui sta con te?» Chiese Emeric, con l’aria di uno a cui non interessa un fico secco della risposta. 
Nikki invece si accese: «Ah, sta con te! Avrei dovuto...»
«No no.» Negò, forse con eccessivo ritardo, ma come scattavano quei due: «No, non sta con me, siamo solo amici, ehm, per quanto riguarda Sibille, potremmo presentarli tanto per cominciare.»
Jeh l’avrebbe ammazzata.
«Oh! Non so come ringraziarti, Sibille farà i salti di gioia.» Nikki scattò in piedi: «Chiama Jesse, io vado da Sibille.»
Chiama Jesse? Era più corretto dire: va a supplicare in ginocchio Jesse e pregalo di non ucciderti con le posate di plastica.
Pranzo finito, pranzo pronto per essere rigettato fuori.
C’era ancora Emeric lì, mentre Nikki zampettava tra i tavoli, non poteva neanche confessare la propria costernazione a Anluan e Itsuko, la ragazza per l’appunto si sporse verso Kell giusto un secondo: «Se la facciamo contenta sarà più facile dopo, va da Jeh, se glielo chiedi tu farà questo sforzo.»
Sforzo. Kell si alzò in piedi, gettandosi un’occhiata preoccupata alle spalle, Nikki aveva già arpionato il braccio della ragazza di nome Sibille, la ragazza la guardava sconvolta sorridendo a trentadue denti mentre Kell raggiungeva il tavolo a lei più familiare.
«Non ce la facevi più a stare senza di noi?» Scherzò Cecely, Kell la ignorò cercando di raggiungere di nuovo un certo contegno.
Si sedette di fianco a Jeh, gli piantò una mano sulla spalla, rassicurante sperava: «Ci servi tu.»
«Io?»
«Sì, per favore.» Jeh sorrise senza capire: «Perché?»
Kell prese un respiro di rincorsa: «C’è questa ragazza, si chiama Sibille, Nikki e Emeric vorrebbero...» «Oh mio dio.» Jeh smise di guardarla negli occhi, la sua mano sinistra raggiunse la cicatrice: «E’ la ragazza con le punte dei capelli turchesi, è carina, dai lo so che hai capito di chi parlo, gli piaci, devi solo scambiarci due parole, ci sarò anch’io e Anluan e Itsuko, è un buon modo per instaurare un rapporto con loro, si fideranno.» Jeh si prese la faccia tra le mani e Kell per un attimo temette solo il peggio.
«Hey Jeh.» Tentò Cecely: «Magari dopo ti lascia perdere.»
Lui si mise in piedi: «Ma certo che mi lascia perdere.» Sbuffò spazientito, chiaramente agitato, Kell si sbrigò a rassicurarlo guardandolo un po’ nel panico mentre lui si alzava in piedi per mettersi in marcia.
«Odio letteralmente dovertelo chiedere, non voglio che pensi che ti sto usando, gli avrei detto di no e basta ma Itsuko e Anluan vedono il bene superiore, loro non sanno abbastanza di te.»
Jeh prese il suo braccio camminando: «Sembri tu quella che deve sorbirsi le smanie di una riccastra rincretinita, Kell sta tranquilla, lo odio, mi disgusta ma posso fare finta di niente, o almeno ci proverò, se non altro si renderà conto che sono una causa persa.»
«Come puoi dirlo? Tu non sei una causa persa.»
«Per lei sarò una causa persa.» Rettificò lui.
«Magari lei non è...» «Mi ha notato solo perché non ho un occhio e ho una gigantesca cicatrice sulla faccia, tutto qui Kell, smettila di vedere il bene dove non c’è, è questa la verità e non pensare che io ci stia male.» Si fermò a meno di venti passi dal tavolo, Nikki e Sibille non erano ancora lì.
Lo sapeva che non ci stava male, non gli importava, lo odiava, lo disgustava e basta, e forse era ancora peggio.
«Non vedere eccezioni dove non ce ne sono.» Kell gli annuì in faccia amareggiata abbassando lo sguardo sul suo braccio. 
«Tu sei un'eccezione.» A Kell mancò ancora il pavimento sotto i piedi.
«Mi consideri un'eccezione?»
«Ma certo.» 
E all’improvviso le sembrò come se si fosse accorto di averla stupita quando non se lo sarebbe aspettato.
«Tu mi hai visto. Kell, ti senti bene?»
La stessa frase del secondo trauma, della post confessione, prima di ritrovarsi Nikki schiacciata addosso intenta a ridacchiare e a commentarle nell’orecchio i discorsi che Sibille e Jeh tentavano di lanciarsi a vicenda.
Anluan e Itsuko furono a dir poco colpiti dal modo in cui Jeh resse sulle proprie spalle l’ansia di dover parlare con una ragazza completamente sconosciuta, guardandola persino negli occhi a tratti. Sibille era una bella presenza, piacevole parlantina, sguardo curioso, per un po’ Kell temette che Jeh ci avesse preso gusto, a metà della prima mezzora, mentre Nikki e Sibille ridevano di un loro racconto troppo ricco di nomi e trascorsi sconosciuti in modo da far capire loro, si ritrovò davanti agli occhi lo sguardo di Jeh talmente annoiato da spingerla a pizzicargli il braccio e ridere insieme.
Lui forse non aveva capito che lei non voleva che cercasse persone come Sibille, non voleva che si rendesse conto troppo dell’esistenza delle ragazze che lo notavano semplicemente perché era un bel ragazzo con il viso sfigurato, non voleva che pensasse di se stesso di non essere nient’altro oltre che quella faccia scalfita, ma forse ora capiva.
«Allora domani sera ci riuniamo di nuovo!» Esclamò Nikki entusiasta, Sibille strinse la mano a Jeh, ovviamente ci sarebbe stata anche lei il giorno dopo.
«Fantastico.» Commentò Itsuko non appena si furono lasciati: «Direi che è già presissima da noi.»
«Non abbastanza da confessare un omicidio.»
«No.» Ammise Anluan: «Ma abbiamo altri assi nella manica o no?» Alludeva alla chicca della relazione tra Catherine e Michael e alla scoperta di Emeric con le chiavi del balcone.
«Ce la possiamo giocare.»


Jeh si girava i pollici con una certa ossessività da circa dieci minuti, Nikki, Emeric e la ragazza destinata a Jeh, Sibille, stavano per arrivare tra loro, niente cena insieme quel giorno, i ragazzi erano stati impegnati in una litigata all’ultimo sangue con Lucy, e di qualunque cosa si fossero detti, Nikki aveva un diavolo per capello a dir poco, di conseguenza, anche Emeric non era messo meglio.
«Ma quanto ci mettono?» Itsuko era a dir poco scocciata.
«Meglio, mi danno il tempo di prepararmi psicologicamente.»
Anluan scoccò a Jeh un’occhiata sconsolata e al tempo stesso irritata: «A me sembra simpatica oltre tutto il resto.» Disse Anluan accennando, quantomeno chiaramente alla sua bellezza, Itsuko sospirò guardandolo con la sua classica aria teneramente atterrita si rese conto Kell.
Jeh alzò il sopracciglio dell’occhio di vetro: «In realtà fa battute abbastanza stupide.» Itsuko rise di gusto, risollevandosi dall’umore tetro di quella sera, rendendosene conto Jeh continuò: «E il fatto che non abbia mai avuto il fegato di venire a parlare con me denota se non un disinteresse di fondo una passività assolutamente non concordante con il suo personaggio, insomma se davvero...» Si bloccò, come se fosse rimasto stupito dalle sue stesse parole, Kell le ripercorse velocemente, capì all’istante e scostò lo sguardo da lui. «Kell non volevo... la situazione è completamente diversa.» 
Kell sbuffò scuotendo la testa: «Te lo assicuro.» Gli disse: «Se non fossi stato amico di Cecely la cosa non mi avrebbe minimamente fermato.» Sapeva che era la verità, Jeh annuì che ci credesse o meno, situazione differente o no, quel pensiero le fece venire i brividi, al mondo non c’era davvero cosa peggiore di essere passivi, non riuscire a reagire, guardare inermi il mondo che va avanti mentre noi... ma era così che andava la sua vita prima inutile girarci intorno. La porta di camera di Anluan si aprì, interrompendo i suoi pensieri.
Emeric, Nikki scuri in viso e una Sibille radiosa si riversarono all’interno della camera di Anluan.


E una ventina di minuti dopo: «Lucy sta degenerando sempre di più.» Borbottò Nikki, pareva seriamente turbata, come se un ombra le fosse calata sugli occhi, il giorno prima a confronto pareva una creatura errante, raggiante, quasi come prima della sventura.  Emeric era sempre a un metro di distanza o più dalla ragazza con i capelli rossi, come se in qualche modo starle troppo vicino non fosse sicuro. Voleva andare via dal Quattrocentoventisette anche perché aveva paura di lei?
«Sto cercando di tagliare i ponti con lei.» Disse Itsuko, sempre la più centrata tra loro. «Anch’io.» Disse Anluan, «E fate bene.» Disse Kell cercando sempre di sembrare quantomeno spocchiosa, era appoggiata al bordo del letto, sapeva che Itsuko stava per attuare la prima parte del piano ma non riuscì a evitare di volgere lo sguardo per un attimo e Jeh e Sibille, erano sotto la minuscola finestra, distanti dai loro discorsi, esattamente come Nikki aveva voluto anche se con maggiore disinteresse rispetto a ieri. Lei lo guardava con occhi a dir poco sognanti,  neanche si fosse ritrovata davanti una scatola regalo straripante di diamanti, seduti sul tappeto l’uno davanti all’altra parlavano, se Kell avesse voluto avrebbe potuto sentire quello che si stavano dicendo, comprese le impacciate parole di Jeh, mentre con le dita giocherellava nervosamente con i fili del tappeto di Anluan senza guardare la ragazza, ora Kell escludeva completamente che in lei ci fosse anche una minima parte di disinteresse. Si passò una mano tra i capelli cercando di dare l’impressione di ravvivarli, era una giustizia ingiusta ma Sibille meritava una chance.
Itsuko partì con il piano e la sua attenzione venne deviata ancora: «Pensa un po’ Lucy ci ha persino detto che Catherine e Michael stavano insieme, da tipo due settimane e mezzo prima della sua morte.» Nikki strabuzzò gli occhi come se l’avessero schiaffeggiata in pieno viso, si morse il labbro inferiore, Kell non le aveva mai vista farlo.
Emeric sorrise, non sembrava minimamente stupito: «Vi ha detto questo?» Kell annuì per tutti cercando di sembrare nient’affatto colpita.
«Strano non ti pare?» Chiese Nikki direttamente al ragazzo con gli occhi verdi che le rispose subito per le rime: «Sì, ma tu lo sapevi già, no Nikki?»
Kell per poco non si sentì la mascella staccarsi e cadere sul pavimento freddo, Emeric la stava prendendo in giro, Emeric sapeva che Nikki gli aveva mentito, ora sapeva che Catherine non stava con Michael alle sue spalle...
«Già.» Nikki alzò le spalle fingendosi sorpresa dal suo tono.
Kell si tirò su le maniche mentalmente, quello poteva essere un buon momento per colpire e affondare forse, valeva la pena tentare: «E non è tutto, sentite questa!» Attirò la loro attenzione, Emeric come il giorno prima tendeva a ignorarla completamente mentre Nikki di tanto in tanto le lanciava occhiatine affettuose, forse perché era anche merito suo se Sibille sprizzava contentezza da tutti i pori, la cosa la inquietava e non poco. «Ha detto anche che secondo lei Catherine è stata uccisa, e indovinate chi è stato secondo lei?» Nikki e Emeric si scambiarono uno sguardo, si soppesavano a vicenda? Chi di loro era il più sospettoso, di chi si poteva dubitare sulla sincerità, forse nella loro mente nessuno dei due lo era abbastanza da sovrastare l’altro.
«Me o Emeric?» Chiese Nikki, pareva impaziente.
«Emeric.» Rispose Kell e poi si rivolse direttamente a lui, mentre persino Sibille si era girata a guardarli: «Dice di averti visto con le chiavi del balcone, dice che te le aveva date la Patricks sicuramente, che era una cosa... come ha detto?» Kell cercò dentro di se l’aria più spocchiosa che avesse mai fatto: «Premeditata? Sì, ha detto che secondo lei l’avevi premeditato tu Nikki, tutto quanto e poi Emeric aveva fatto il resto.»
«Ah davvero?» Emeric rise, gettò la testa all’indietro e rise, come Kell non l’aveva mai visto fare, forse come neanche Cecely doveva averlo mai visto fare; con lo stomaco invece che con la pancia, scrollandosi di dosso un po’ di ansia accumulata in quella lunga giornata, dopo la discussione con Lucy. In quel momento Kell vide che prima di chiudere la relazione con Nikki lui doveva aver passato settimane intere a subire passivamente quello che la ragazza voleva che facesse. Il senso di colpa, il male, sembrava attutito, sparito per una buona metà perché tutti ricordavano i momenti in cui bianco come un lenzuolo vagava per il Quattrocentoventisette probabilmente, Kell dovette capacitarsene ora, imbottito per la maggiore di psicofarmaci, mentre Nikki gli sorrideva poggiandogli la testa rossa sulla spalla. Kell aggrottò un momento le sopracciglia, quant’era anormale se Nikki era lì, se Nikki aveva voluto che Catherine morisse? 
«Mi delude.» Si lasciò sfuggire Emeric: «A te no Nikki?»
La ragazza annuì; Kell, Itsuko e Anluan si scambiarono uno sguardo per uno, poi si fermarono a osservare i due; lei allungò una mano, forse con l’intenzione di toccargli una spalla, ma lui la schivò finendo sdraiato sul tappeto. Era chiaro, il periodo che aveva preceduto questo – Nikki sbuffò sonoramente – era finito.
«Sta zitto Em.» Lo disse senza apparente rabbia, sembrava più che altro rassegnata, come se non si aspettasse niente di diverso da lui.
Chissà se Nikki si era pentita di quello che aveva tanto attentamente macchinato in silenzio, plagiando Emeric e l’idea che lui aveva di Catherine; lui non le dava quello che lei sognava, o aveva sognato, ma se era così era perché non se l’era meritato pensò Kell, se aveva spinto Emeric a uccidere Catherine non poteva aspettarsi niente di differente da lui.
«Sapete, io e Cat volevamo andarcene in qualche località sperduta all’estero, in vacanza, per tutta l’estate possibilmente, ero stato a casa sua per natale, persino i suoi genitori ci avevano dato l’okay.» Kell vide Nikki scroccarsi le dita, lo sguardo arrabbiato, deluso, vedeva persino rancore represso, dopo tutto quello che aveva fatto era ancora invidiosa. 
«Ricordo quando siamo tornati all’istituto dopo le vacanze di natale, è stato l’ultimo momento di felicità che abbiamo avuto insieme prima che tutto crollasse.» Nikki sbuffò, impaziente: «L’ultimo momento felice che hai vissuto prima che lei morisse.»
«E anche dopo naturalmente.» Continuò Emeric irritandola ancora di più, a Kell venne da pensare quasi volutamente, quella volta: «In realtà non credo che sarò mai più felice.» Alzò le spalle: «Non so neanche come ho fatto a sopravvivere.»
Kell inghiottì la saliva: «Come mai tu e lei avete rotto?»
Emeric fece uno sbuffo che suonò come una risata attutita: «Sono intervenute forze maggiori.» Disse, poi si voltò a guardare Nikki e sorrise, un’espressione che cozzava con le altre che aveva usato fino ad adesso, quasi affettuoso: «Non ti sto dando tutta la colpa; e tu lo sai.» Specificò, anche Nikki sorrise, si guardarono, complici, Kell ebbe l’impressione di assistere a un attimo privato, quasi intimo, quasi come se i ragazzi si fossero dimenticati della presenza di altre cinque persone.
«Sei troppo buono Emeric Allord, e questa sarà la tua rovina.»
Kell schiacciò contro il bordo dei pantaloni la superficie del telefono, stava registrando ogni singola parola per la Urlik grazie al cielo, di qualsiasi cosa stessero parlando quei due, poteva essere importante.
Era quasi come se volessero prendersi entrambi la colpa.
Nikki si alzò in piedi: «Ci rivediamo domani a cena, Lucy a parte è sempre divertente stare con voi.» Emeric diede un bacio per guancia a tutti e tre, la cosa irritò terribilmente Kell ma cercò di non darlo a vedere stampandosi in faccia un sorriso amorevole: «D’accordo?» «Certo.» Non riusciva a pensare, era ancora disgustata da quella manifestazione d’affetto, si era appena resa conto che Emeric non aveva nessuno oltre Nikki, e solo lui poteva sapere quanto quella ragazza gli ricordasse ogni singolo momento quello che era successo quella notte con Catherine, l’unico modo per spingere Emeric a rimanere, sempre che fosse possibile, cosa non da poco, era cercare di dargli un appiglio, lanciargli una scala di corda da salire, per redimersi, confessare, smettere di essere così disperatamente insofferente alla verità.
«Sibille, vieni con noi?» Le chiese Emeric vedendo la ragazza con le punte dei capelli celesti alzarsi anche lei in piedi: «Sì, facciamoci due chiacchiere eh Nikki?» La ragazza annuì, lei e Jeh si salutarono nel modo più impacciato e adorabile che Kell avesse mai avuto occasione di vedere in vita sua.
Meno di due minuti dopo erano tutti fuori.


«Non ci sto capendo niente.» Fece Anluan tutt’altro che ironico.
«Ascolta.» Kell si stropicciò stancamente gli occhi: «Se vogliamo che Emeric rimanga, ed è fondamentale perché il piano vada a compimento, dobbiamo aiutarlo.» «Aiutarlo?» Ripeté Itsuko allibita. Non era affatto un’idea nuova, nonostante i dubbi e la probabile colpevolezza di Emeric sapeva anche qual era la strada più semplice, quella più comoda, quella più giusta. 
«Già, esattamente.» Confermò Kell: «Dobbiamo rompere il guscio che Nikki gli ha costruito attorno, senza di lei potrebbe sciogliersi, oggi non si neanche lontanamente censurato come avrebbe dovuto, ha detto molto ma noi non possiamo capire perché non ci siamo ancora dentro, facciamolo, proviamoci.»
Itsuko non sembrava affatto convinta dalle sue parole ma Anluan invece si, la convinse con un paio di occhiate e assensi facciali, Kell gliene fu riconoscente, se si fosse dovuta mettere a convincere le persone ora sarebbero stati ancora al punto di partenza.
«Dovete stare attenti.» Jeh era già in piedi, intenzionato a dirigersi verso la porta: «Vuoi aiutare un assassino. Sarà anche una persona fondamentalmente bisognosa di aiuto ma resta sempre un assassino.» Kell si alzò in piedi, intenzionata a seguirlo. 
«E come tale verrà trattato.» Disse con la voce ferma; ma non stava dicendo la verità. 
No, non era quello che Kell aveva in mente, non davvero.


Emeric guardava fuori dalla finestra, era perso nel vuoto dei suoi pensieri e dei suoi ricordi. In quel momento, guardando il ragazzo dai brillanti occhi verdi non riconobbe lo spensierato protagonista che aveva sbagliato tutto credendo alla persona sbagliata; vide quello che era ora, qualcuno di sfiduciato, solo, qualcuno che vuole solo scappare.
Erano passati tre giorni da quando erano stati tutti insieme in camera di Anluan, tre giorni di niente e di pura macchinazione e arrovellamento. Aveva delle idee ma prima di quel giorno non aveva avuto la più pallida idea di come metterla in pratica, o forse aveva troppo timore di vedersi respinta. E ora c’erano solo lui e Kell: «Stai bene Em?» Le venne spontaneo chiamarlo in quel modo, Nikki non gli ispirava fiducia, Nikki era una traditrice senza scrupoli mentre lui era l’altra vittima, che fosse anche l’assassino di Catherine diceva Cecely era un’altra verità.
«Sì, sto bene.» Lui si voltò a guardarla, avevano parlato poco e niente ma da un’ora a quella parte, da quando Kell l’aveva portato via dalla sala da pranzo dicendogli di salire da lei per fargli vedere una stupida collezione di cd, erano sfuggiti insieme a Nikki, erano sfuggiti a Sibille e Jeh, stavano miracolosamente meglio così e il piano sotto procedeva.
«Sto bene.» Ripeté, poi si sfregò le nocche delle mani tra loro, come se fosse nervoso: «Dev’essere lo stress.»
«Già.» Si disse d’accordo Kell: «Ma starai meglio, vedrai.»
Lui scosse la testa, erano distanti, Kell non si sentiva a disagio a guardare quell’essere sconsolato, forse era veramente solamente una sua idea, forse era attratta davvero da quel cupo malessere che contraddistingue quella condizione.
«Non voglio stare meglio; voglio solo andarmene da qui.»
«Andartene da qui?» «Sì.» Emeric buttò fuori un lunghissimo sospiro, poi si passò le mani sulla faccia, stava con la schiena al muro, si era appena aperto con lei.
«Sarà difficile scappare da Nikki perché lei non vuole capire che dopo quello che è successo...» Kell si sentì rabbrividire: «Non c’è mai stata nessuna speranza, ma me ne andrò da qui e allora dovrà starsene alla larga da me, per sempre, capisci?»
Kell annuì, era notte, la luce della lampada appena arrivava a illuminargli il viso ma lei ne l’esse l’assoluta totale verità senza nessun problema.
«Tu sei stranamente sincero Emeric.» Lui sorrise stancamente, scosse la testa, Kell annuì di rimando: «Lascia che faccia lo stesso.» Emeric sospirò di nuovo, ma le fece cenno di parlare: «Em, Nikki è quello che è, ma tu sei quello che sei, penso che dovresti ricordati di quello che eri, la persona che Catherine amava...» 
Emeric rise di gusto, tristemente, drammaticamente, sapevano entrambi cosa si stavano dicendo, Kell sentì con certezza che quel ragazzo distrutto avesse capito cosa lei mimasse dietro quelle parole: «Emeric, lascia che ti spieghi perché scappare non è la scelta giusta.»

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** 17. Separazione ***


- minuscolo sparzio autrice -
mi scuso per l'enrome ritardo (o meglio per l'enrome pausa) ma ho finalmente finito di scrivere Discarica di Anime,
credo che aggiornerò una volta a settimana come prima della pausa ahaha scusate ancora.
Ringrazio umilmente le persone che hanno recensito gli scorsi capitoli e vi invito a farlo ancora,
ogni consiglio ora più che mai mi sarebbe enormemente d'aiuto :)








17. Separazione


Emeric stava peggio di due giorni prima, peggio per modo di dire, forse in realtà stava meglio, difficile dirlo. «Em, abbiamo fatto qualcosa di... che ti ha... non so.»

«No, no.» Biascicò Emeric premendo la faccia sul cuscino di camera sua, soffocò con un verso strozzato un singhiozzo con eccessiva forza, facendosi male, Kell ne riconobbe il suono.

Era girato dalla parte del muro, si copriva la bella faccia pulita con il cuscino usando le mani, strette a pugno intorno ai bordi della stoffa.

Lei, Anluan e Itsuko erano lì da quando Emeric aveva salutato  incredulo Nikki, Sibille e Jeh, di conseguenza sapeva perché lui si era ridotto in quel modo, Itsuko gli strinse le spalle un po’ commossa un po’ incredula, forse non credeva che lui fosse così fragile, non aveva guardato con sufficiente attenzione.

Kell sorrise, si avvicinò anche lei: «Lei non ti lascia...»

«No.» Rispose Emeric, Anluan sorrise, angosciato in realtà.

«Lei non mi lascia mai da solo con...» Si interruppe, respirando affannosamente, i muscoli della schiena così tesi da poter essere scorti guardando sopra il tessuto della maglietta: «Mai, solo con altre persone.»

«Perché Em?» Domandò Itsuko, lui si lasciò abbracciare da dietro, per un secondo sembrò quasi che si fosse calmato, poi Kell sentì le lacrime contornate dal male alla gola, neanche fosse lei quella in preda agli spasmi.

«Crede che io sia debole.» Singhiozzò. «E ha ragione, lo sono.»

Itsuko si lasciò andare, lo abbracciò con maggiore forza, scuotendolo leggermente.

«Aveva paura.» Bisbigliò a un tratto, come se temesse che Nikki li stesse ancora ascoltando mentre Kell pregava che parlasse abbastanza forte da farsi sentire dal registratore del telefono

«Paura di cosa?» Chiese Kell.

«Che potessi dire qualcosa che non avrei dovuto.»

Itsuko si irrigidì, ma Emeric non lo diede a vedere.

Cosa, cosa stava per dire?

«Adesso neanche questo, adesso mi vede morto, lei...»

«No.» Anluan intervenì spazientito: «E’ lei che è finita Em, è finita, hai capito? Ci siamo noi con te, non devi più scappare, non è necessario.» Lo raggiunse, gli accarezzò un secondo la testa: «Smettila di soffrire per Nikki, per tutto quello che ti ha fatto e che ti ha costretto a credere, non devi Em, lei non ha più il controllo su di te, gli sei sfuggito ora devi accettarlo.»

La maschera di Emeric cadette definitivamente, si mise seduto sul suo letto, si tolse le lacrime dalla faccia, le occhiaie gli adornavano gli occhi verdi lo rendevano vistosamente vivo al contrario di quello che lui aveva appena detto

«Em non devi andare via.» Gli disse Kell mettendogli un braccio intorno al collo, il ragazzo le sorrise, il respiro era ancora corto ma si era assestato.

«E’ orribile, sarà sempre orribile, ma questo posto ormai è casa mia, casa nostra, io non voglio andare via.»

 

Jeh e Sibille (consciamente e inconsciamente) distraevano Nikki, le facevano credere di avere dei nuovi amici visto che Emeric doveva senz’altro essere troppo a pezzi come sempre per interessarla come una volta, forse la sua gelosia si era definitivamente placata. 

Mentre la Urlik era rimasta senz’altro affascinata dalla portata di macchinazioni che avevano escogitato Kell, Anluan e Itsuko avevano portato Emeric di fronte a Cecely e Victor.

Lei gli aveva stretto la mano come si tocca lo stelo di una rosa spinata con cui si ha paura di pungersi (o con cui ci si è già punti), lui gli aveva sorriso accondiscendete come solo Victor sapeva fare, lo sguardo di chi saluta un vecchio amico ritrovato, e così la situazione si era lentamente stabilizzata.

Ma la situazione non si schiariva anzi tutt’altro, Emeric non dava segno di voler parlare, al contrario non pronunciava il nome di Catherine più di due volte al giorno e si guardava bene dal parlare di Nikki e del perché avesse una così perforante paura di avvicinarvisi.

«Insomma per separarli e farli stare meglio abbiamo ottenuto il risultato praticamente opposto, Em non si sogna neanche di dirci cos’è successo, sta davvero meglio.»

«Se è davvero stato lui chissà perché la cosa non mi stupisce.» Sussurrò Cecely al suo orecchio durante la cena. Emeric era salito a farsi una doccia, ora stava per scendere.

Kell, si sentiva profondamente angosciata per ogni istante del giorno, per Emeric, per il fatto che forse davvero avevano sbagliato, forse davvero dovevano lasciarlo affondare, e per Jeh, Jeh era ormai un assente punto fermo, il sacrificato invidiato.

Non si sentiva serena, neanche le rassicurazioni riuscivano neanche lontanamente a farla stare meglio.

«Ottimo lavoro.» Bisbigliò la Urlik al suo orecchio, ancora una volta nel cuore della notte: «I genitori di Emeric hanno ritirato definitivamente la domanda di uscita anticipata dall’istituto, ce l’avete fatta, non che ne dubitassi.» Specificò.

«No certo.» Accennò Kell coprendosi la bocca con la mano per attutire lo sbadiglio, si strinse il cuscino costosamente profumato al petto. 

«E adesso... adesso dovete convincerlo che può fidarsi di voi, dovete spingerlo a confessare senza dirglielo, ma lo sapevi già, non è vero?» «Sì.» Rispose Kell.

«Cosa c’è che non va?»

«Niente, è quello che stiamo cercando di fare e puoi contarci, ce la faremo.» «Certo.» Disse sicura la Urlik, aveva ancora la voce leggermente impastata di sonno, la notte chiamava.

«Cosa ti preoccupa?»

«Nikki.»

«Nikki... perché proprio Nikki, hai detto che...» «Sì.» Fece Kell sbrigativa, voleva attaccare, tornare a dormire, smettere di pensare: «Ma Nikki è imprevedibile, è come una granata, potrebbe esplodere in ogni dannato momento.» Si lasciò trascinare con eccessivo slancio forse, si zittì prima di dire troppo, avevano Emeric in loro balia, tutto era possibile, doveva solamente resistere ancora un po’.

 

«Quasi dimenticavo, non devi andare a fare terapia di esposizione nella stanza nera?» Emeric pigiava sui tasti del costoso computer portatile davanti ai suoi occhi e intanto Kell lo guardava interrogativa, il ragazzo aveva appena aperto un altro documento sulla scrivania del computer di ultima generazione dal nome “Negativismo” e ora stava scrivendo chiaramente di getto, si fermò per guardarla mentre Kell metteva i libri sulla sua scrivania, con l’intenzione di mettersi a ripassare la lezione per il giorno dopo. 

Da quando le cose erano cambiate Emeric le aveva intimato: “smettila di fare la dama spocchiosa cara Kell perché non la dai a bere a nessuno” e lei aveva annuito, era stata scoperta ed era tutt'altro che triste per questo. Tenere Emeric impegnato le piaceva, il diario di Michael aveva cessato di essere interessante in modo definivo, colmo di ripensamenti e odio, tantissimo odio nel confronti di Emeric che a lei irritava e basta.

Guardò il ragazzo che la scrutava interrogativo dietro lo schermo del computer, un computer che nel Quattrocentoventisette non sarebbe neanche mai dovuto entrare, si aspettava una risposta, Kell sospirò: «Ennesima giornata tranquilla, ha comunicato a me e Jeh che ha preso appuntamento con casi più urgenti.»

«Ancora?» Emeric schiacciò un paio di tasti a ripetizione.

«Non è la seconda volta?»

«Esattamente. Non entriamo nella stanza nera da due settimane.»

«Praticamente da quando sono arrivato tra voi.»

«Già.»

«E Jesse?» Non aveva ancora preso l’abitudine a chiamarlo Jeh, con tutte le buone ragioni in effetti ci aveva parlato a stento due volte.

«Sibille.» Disse solamente, cercando di alzare le spalle in modo tendente al disinteressato.

«Quindi loro due...» «Non ancora.» Disse Kell, non poteva mica dirgli che Jeh passava tutto quel tempo con Sibille per tenere Nikki alla larga da loro.

«Non ancora ma siamo lì.»

«Chissà.» Lasciò in sospeso, in tutta onestà non sapeva più neanche lei che cosa credere.

«Chissà? Un ragazzo non sta tutto questo tempo da solo con una tipa che non gli interessa in quel senso, suvvia Kell, non essere ingenua.»

«Tu non conosci Jeh.» Disse e basta sprofondando nel libro di letteratura, certo fu quello che disse ma i dubbi perduravano nella sua mente.

Jeh era distrutto, a stento lo vedeva sorridere tre volte al giorno, stava visibilmente male e ogni volta che qualcuno gli chiedeva come si sentisse deviava la domanda con una prontezza sconcertante ma dall’altra parte era sorprendente, riusciva a intrattenere dialoghi e conversazioni non solo con Sibille e Nikki ma persino con tutta la loro gang, migliorava sempre di più dal punto di vista sociale e nessuno di loro poteva prendersi il merito di questo, Cecely le aveva confessato quanto si fosse resa conto di aver ingabbiato Jeh per molto tempo, si era detta felice di vederlo interagire facilmente con altre persone e contemporaneamente come se quel bene tanto agognato fosse troppo da reggere per una persona sola stava sempre peggio, era ovvio che a Jeh piaceva quella gabbia, lui si sentiva quella gabbia, bramava quella gabbia e non sorrideva più perché l’aveva persa, in piena balia di una dispersione cosmica indifferente ai suoi bisogni Jeh guardava gli altri senza guardarli e andava avanti facendo finta di niente con Sibille e Nikki, soffrendo davanti alla porta chiusa della sua gabbia di anime.

«E’ un po’ giù di corda o sbaglio?» Chiese Emeric alzando nuovamente gli occhi dal computer, distogliendola dai suoi ragionamenti.

«Non è giù di corda, è a pezzi.»

Emeric si fece una sana risata, Kell lo guardò interrogativa: «Uno che cresce dentro una cicatrice deve essere a pezzi, o sbaglio?» «Non sbagli.» Kell in quel momento avrebbe volentieri tirato il suo volume di letteratura addosso a Em, ma si trattenne e lo guardò scontrosamente.

«Se questa cosa ti mette così di cattivo umore perché diavolo non vai da lui e non gli dici che i suoi amici dovrebbero avere la precedenza sulla sua nuova fiamma?» Sfoggiò un’espressione canzonatoria e Kell si sentì scuotere la testa, quasi contro la sua stessa volontà.

«L’hai uccisa tu Catherine?» Lo disse, non seppe neanche per quale ragione ne con quali speranze, forse solo perché l’aveva irritata; vide Emeric scuotere la testa di rimando, improvvidamente più pallido strinse le mani a pugno e poi le rilassò: «Se ti stai chiedendo se uccidere Jesse possa essere un buon compromesso tra dividerlo con quella strega di Sibille e vederlo ridotto come un fantasma piuttosto che farlo tornare tra voi... beh, lasciatelo dire, sei da rinchiudere cara ragazza.»

Nonostante tutto Kell sorrise: «Se lui vuole stare con Sibille e Nikki io non sono nessuno per dirgli che non deve farlo.»

Emeric annuì rifugiandosi nuovamente dietro lo schermo del computer. 

«Suppongo che tu abbia ragione.»

Non poteva tirare via Jeh da quella situazione, se lui si fosse mosso si sarebbe spostato tutto di conseguenza, tutto sarebbe caduto a picco chissà dove e purtroppo lui era forte abbastanza.

 

«Smettila.» Gli disse, scuotendolo per il braccio sinistro, l’occhio grigio la scrutava arcigno, guardava la parte della sua faccia che conservava dettagli indimenticabili del bambino della sua infanzia, la forma del viso, la linea del naso.

«Smettila tu.» Gli disse lui, il Jeh di due settimane prima avrebbe riso ai suoi punzecchiamenti, ora neanche l’ora di educazione fisica passata a poltrire lo metteva di buon umore.

«Raccontami qualcosa Jessie, dai.»

«Oh no, non chiamarmi Jessie.» Si passò una mano tra i capelli neri, guardava Victor e Cecely davanti a loro, intenti a analizzare un formicaio piuttosto attivo.

«Dai, almeno dimmi se sta scoccando la scintilla tra te e Sibille. O  forse è già scoccata?»

Jeh sfregò una mano nervosamente contro la corteccia castana dell'albero: «Sibille sta già organizzando il nostro matrimonio.»

«Fantastico.» Esclamò Cecely lanciandogli l’okay con il pollice all'insù, diede a Victor una pacca sulla spalla: «Idee per il discorso del testimone?»

Kell smise di osservarli e scoccò un’occhiataccia a Jeh, tentava di fare dell’ironia e non ne rideva neanche lui.

«Quanto a te?»

«Quanto a me sto pensando a una luna di miele in Antartide.»

«O anche in Lapponia.» Suggerì Victor.

«Sì, sto valutando.»

Cecely si sforzò di ridere, fu’ l’unica: «Scegli la meta che costa di più, i genitori di Sibille sono ricchi sfondati.»

Kell alzò gli occhi al cielo, cercando di non sembrare troppo irritata dai loro discorsi scherzosi di cui nessuno riusciva a ridere sul serio: «E’ una frase che viene fuori spesso quando sei rinchiuso in un istituto psichiatrico di lusso.»

«Se non era ricca col cavolo che sopportavo le sue idiozie dieci ore al giorno.» Strabuzzò gli occhi brillantemente diversi e alzò le spalle, un altro tentativo di essere divertente finito male, Kell scosse la testa: «Se comincia a comportarsi da pazza te ne tiriamo fuori.» Gli disse, Jeh sorrise, per la prima volta quel giorno, Cecely e Victor sostenettero la sua dichiarazione.

«Così dopo Nikki torna alla carica con Emeric e possiamo dire addio al nostro piano… dimmi, cosa intendi esattamente con pazza?»

Quello era il discorso più lungo intrattenuto con Jeh da settimane ormai. Allungò il braccio oltre il collo del ragazzo stringendolo con una certa forza; due minuti dopo non aveva ancora risposto alla domanda che lui le aveva posto, in compenso si era abbandonato sulla sua spalla. Il contatto fisico più diretto  e più lungo raggiunto da settimane ormai, a Kell venne voglia di trovare immediatamente una soluzione diversa, immediatamente, mentre Jeh era ancora fragilmente in sua balia.

«Non c’è altro modo, quindi per favore Kell, smettila di preoccuparti.»

Ma la verità era che avrebbe proprio dovuto farlo.

 

Abituarsi al male non può essere una cosa buona, Kell ripose il suo ipod nel cassetto; aveva ascoltato per un paio di minuti qualche pezzo di musica classica mentre controllava per l’ultima volta il diario di Michael; niente di niente.

Negli ultimi tempi aveva continuato a raccontare di se e di quanto fosse arrabbiato, niente di più oltre che parlare di aver cominciato a odiare tutto quello che gli stava intorno, e non aveva più cercato di scoprire niente di più sull’omicidio di Catherine, ne su Emeric ne su tutto quel brutto episodio.

Rilesse l’ultima cosa davvero rilevante che Michael aveva scritto dopo la morte di Catherine:

 

Non riesco più a vedere il lato positivo delle cose, a mala pena riesco a fare un discorso coerente con un professore, ormai l’unica cosa che mi rimane è la speranza che qualcosa in questo posto cambi, l’unica cosa che mi rimane è continuare a sentirmi sporco perché so qualcosa che non dovrei, ne sono certo, forse l’ho persino già scritto qui, quello che penso è la verità, ci credo e mi odio per questo. Ma non posso fare niente, non più, devo fare quello che conviene fare, stare in silenzio, aspettare.

Ma se non faccio qualcosa me ne pentirò, se non vendico Catherine, se non sveglio Emeric, se non disarciono Nikki so che me ne pentirò, e non voglio che succeda, voglio combattere per quanto questo sia assurdo e vano, voglio continuare a combattere.

Lucy dice che non sa cosa credere, non con certezza, il problema di molte persone è esattamente il contrario qui dentro, siamo tutti coscienti dei nostri mali, se non ne fossimo coscienti vivremo meglio, ma è troppo facile giungere a questa conclusione.

 

Il resto del diario erano dieci pagine sempre più dispersive, piene di discorsi incoerenti e macchinazioni assai poco chiare, quel discorso invece la ispirava, come se qualcuno avesse scritto quello che lei aveva in testa.

Il dubbio, l’incertezza, chi il colpevole, chi la vittima.

Erano passati due mesi da quando era arrivata al Quattrocentoventisette, da quando aveva abbassato la maniglia della cambretta di Sam scoprendola chiusa.

Ora erano altre le immagini familiari: Cecely e Victor stesi sotto un albero in un pomeriggio ventoso con le giacche a coprirli premurosamente; lei e Emeric sul verde del prato, si riuscì a vedere storcere il naso, accenni di momenti sbagliati andati a vuoto che girano l’uno sull’altro ripetendosi all’infinito.

Ora Cecely e Victor si sfioravano le dita delle mani tra loro scherzando su quella volta ormai distante anni luce in cui Vic si era ritrovato a guardarla sconvolto dopo una sua innocua spinta. Nello stesso tempo Emeric rimaneva fermo, una batteria scarica che cerca di ricaricarsi come può, somiglia ai vecchi sospiri di Jeh quando il ragazzo con il viso spezzato alzava lo sguardo dal pavimento due volte al giorno e il mondo era colorato da poche verità.

Attività quotidiane, monotonia, compiti in classe, equazioni, problemi di geometria incomprensibili, psicologia, sociologia, sorrisi vacui, l’ipod di Kell, l’attimo in cui riesce a vedere Sibille da sei tavoli di distanza artigliare con le sue unghia smaltate d’azzurro il morbido maglione di Jeh.

Si sentiva così frustrata che a malapena riusciva a dormire e la pioggia era l’unica cosa che riusciva a metterla di buon umore.

Erano passati due mesi ma si era accorta solamente quella sera a cena che Jeh teneva la testa leggermente piegata verso destra, più lo guardava più le pareva evidente e più ci pensava più le risultava assurdo accettare di non essersene mai accorta prima quando ce l’aveva di fronte tutta la giornata. Scosse la testa tornando a concentrarsi sugli appunti di storia, faceva troppa fatica a concentrarsi, davvero troppa.

Vedere Jeh entrare silenziosamente e ovviamente all’improvviso in camera e chiudendosi la porta alle spalle le procurò uno scompenso emotivo, chiuse il quaderno rassegnata all’idea che non sarebbe riuscita a ripassare affatto quel giorno: «Hey, che cosa ci fai qui?»

Jeh si sedette di fianco a lei prendendo posto alla sua scrivania: «Devo parlarti.» Si torturava con le dita bianche e sottili la catenella sfaccettata che teneva il porta pillole attaccato al suo collo. «Dimmi pure, si tratta del piano?»

«Esattamente.» Jeh confermò i suoi sospetti: «Ho bisogno di sapere cosa è meglio fare.» Jeh efebico e pallido come un lenzuolo si portò la mano alla cicatrice, sembrava incredibilmente esagitato, non lo vedeva in quello stato da troppo tempo capì subito che c’era qualcosa che non andava.

Lo spronò a continuare, Jeh fece un respiro profondo e infine cominciò a parlare. 

«Se smetto di fare questa cosa con Sibille adesso Nikki tornerà a… a fare quello che faceva prima?»

Kell lo scrutò dubbiosa: «Vuoi smettere?»

Jeh scosse la testa riducendo gli occhi a due fessure, quasi disgustato: «Tu rispondi semplicemente alla mia domanda.»

Perché? «Sì, se smetti di distrarre Nikki lei non si fermerà.»

«Benissimo, è quello che volevo sapere.» Si alzò in piedi, Kell fece lo stesso: «Dove vai?» «Io…» Lo trattenne per la manica della maglia pesante: «Non puoi venirmi a chiedere una cosa del genere e poi scappare via, sei ridotto uno straccio Jeh lo vedo non c’è bisogno che…» «Che mi nasconda?» Si diede una possente scrollata di spalle avvicinandosi alla porta.

«Non posso nascondermi Kell, mi stanno facendo rendere conto di cose che non avevo neanche lontanamente mai considerato, lo sai? Tutti qui dentro sanno come mi chiamo, sanno tutti il mio nome, sanno che il tipo strambo con la faccia sfregiata si chiama Jesse Larely, le voci girano, ho scoperto che buona parte dell’istituto sa persino come mi sono ridotto la faccia in questo stato, sanno persino questo, ma ti rendi conto!» Afferrò la maniglia appoggiandosi con la schiena sopra di essa: «E’ un’inferno, un vero inferno, per non parlare del fatto che a Sibille non importa un bel niente di me.» «Non dire così, non è così.» Cercò di accennare Kell, per quanto fosse deprimente forse quella ragazza se la meritava davvero una chance. «Perché non dovrei dire così? L’hanno capito anche i muri che cosa vuole da me, scommetto che lo sapete tutti, tu lo sai, vero?»

Kell strabuzzò gli occhi, Sibille era superficiale, cosa poteva volere da lui? Era scioccata da un tale discernimento così improvviso: «Certo che lo so, ma non sei costretto, lei non può obbligarti.» Jeh scoppiò a ridere, era chiaramente irritato, non voleva sentirla parlare in quel modo, la guardava come se si fosse appena contraddetta… 

«Bene, ti ringrazio, ora devo andare, ci vediamo domani.» «Aspetta, Jeh, se vuoi smettere…» Questa volta lo strattonò bloccandolo per le spalle quanto più forte riuscì a fare: «Ti ha messo le mani addosso?» Jeh rise ancora, la cosa le ricordò paurosamente la notte della morte di Catherine: «Se l’ha fatto, se si è permessa di fare qualsiasi cosa che tu non volessi…»

«No, non voglio smettere, non proprio adesso, non dopo tutta questo tortura, e no, non l’ha ancora fatto.» La prese in giro quantomeno chiaramente. La cosa la inquietò e non poco:

«Che cosa significa che non l’ha ancora fatto?»

«Significa: cercate di darvi una mossa con Emeric, significa muovetevi, oppure dimmi, ci hai preso gusto a fare la migliore amica del divo della scuola?»

Detto questo senza neanche lanciarle un’ultimo sguardo si chiuse aprì la porta e con una semplice mossa se la chiuse alle spalle.

 

Ritrovarsi Jeh a colazione il giorno dopo fu come beccarsi una botta in testa dal diretto interessato; non si sedeva al loro tavolo da due settimane, e vederlo seduto a capotavola sconquassò non poco il suo equilibrio.

Per altro accanto a lui c’era Emeric, praticamente niente era rimasto come prima. 

Vide Cecely scambiarsi un’occhiata d’intesa con Victor naturalmente al suo fianco per poi volgere le proprie attenzioni a Jeh, talmente dritto e impettito sulla sedia da costringerla a controllare di essere seduta bene. «Ehm… è veramente strano non averti più con noi così spesso.» Visto che a lezione si era chiuso in se stesso e a malapena li guardava: «Come vanno le cose con Sibille?»

Come vanno le cose con Sibille? 

Davvero Cely, questo è il meglio che sai fare?

«Non vanno.» Dichiarò Jeh mordendo con i suoi denti perfettamente dritti e impettiti da anni di apparecchio uno dei soliti biscotti con le gocce di cioccolato.

Purtroppo fu Emeric a esternare la propria costernazione per primo: «Come sarebbe non vanno?» Se non ci fosse stato Jeh l’espressione di Emeric l’avrebbe fatta ridere.

«Lei striscia praticamente ai tuoi piedi e non vanno? non ti facevo così…» Si girò a guardare Kell schioccando ripetutamente le dita come se si aspettasse che lei gli suggerisse la parola più adatta a descriverlo. «Mh, schizzinoso?»

Kell si costrinse a distogliere lo sguardo, cosa che le procurò ovviamene un certo disagio, bevve un po’ di latte mentre Emeric continuava a sproloquiare.

«Cosa c’è che non va?»

Jeh di tutta risposta alzò le spalle e abbassò ancora lo sguardo sulla sua colazione. Non lo sopportava proprio Emeric.

«Niente.»

Emeric come al solito lo guardò scettico: «Uh davvero? Perché secondo me ti mancano i tuoi veri amici.» Detto questo rifilò una debole fiancata a Kell sorridendo come uno stupido.

Jeh li guardò con un aria quasi disgustata.

«Non oso pensare che orrore possa essere Nikki, sono veramente felice di essermene liberato, sicuramente avrai capito perché.»

Assurdo visto quanto fosse impossibile liberarsi di lei.

Lo disse come se fosse merito suo, cosa che probabilmente contribuì a far arrabbiare Jeh ancora di più.

Niente fermò Emeric: «Tu e io ci siamo praticamente scambiati di posto non è vero?»

Sul momento nessuno ebbe il coraggio di ribattere la sua affermazione: «E’ ironico ma non rimpiango affatto quello che hai ora; mentre tu… beh.» Sorrise a tutti e poi neanche a farlo apposta si soffermò sulla persona con cui inaspettatamente aveva legato di più, Kell.

Così a lei per poco non andò di traverso un sorso di latte, dovette inghiottire bruscamente per evitare di tossire rumorosamente e far girare tutti i presenti verso di lei.

Si levarono un coro di “no” da Cecely e da Victor, se Anluan e Itsuko fossero già arrivati avrebbero fatto lo stesso, no ovvio che no, nessuno aveva sostitutivo nessuno, ci mancherebbe altro, Jeh è sempre Jeh.

Ma non era vero, Jeh era distrutto e niente le toglieva dalla testa l’espressione espressa sul suo volto, era marmo scalfito.

 

Si sentiva impotente, si sentiva triste e si sentiva come se le si fosse fermato il respiro in gola da giorni e giorni e la cosa peggiore era vedere come il resto del mondo respirasse perfettamente.

Anluan e Itsuko erano tornati insieme, quasi brutalmente dopo settimane di sguardi gelosi di Itsuko; Cecely le chiese se ci era rimasta male, se per caso non le interessasse Anluan: «Ma che cosa vai dicendo Cecely…» Liquidò la cosa con un gesto della mano scostante, sembrava a dir poco che si fossero messi d’accordo per accusarla di relazioni illecite, sbuffò, l’ora di psicologia non finiva più, Jeh al suo fianco era impassibile muto da più di due ore, rispondere a monosillabi era tornato ad essere il suo passatempo preferito e solo Kell poteva dire quanto fosse deprimente pensare ai progressi al passato.

«Ma dai, mi hai preso per una sprovveduta?» Le strizzò l’occhio. Kell la guardò più che scocciata, anche lei era perfettamente in pace con il mondo, non si sentiva irritata, era invidiosa di quella pace, fino a due settimane prima l’aveva respirata, ora voleva solo essere lasciata in pace con la sua sofferenza i suoi dubbi e Emeric che doveva dirle la verità, punto, e Cecely parlava.

«Forse non è il momento adatto…» Gettò un’occhiata a Victor assorto nel tentativo di anticiparsi i compiti di psicologia e poi continuò: «Ma non ce la faccio ad aspettare un minuto di più, devo dirtelo, mi sono censurata per troppo tempo.» Kell strabuzzò gli occhi incredula, l’intero universo ce l’aveva con lei allora, era ufficiale.

«Ieri sera sono andata in camera di Vic e abbiamo parlato molto… senti lo so che non dovrei dirtelo adesso visto quanto sei a terra per questa faccenda di Jeh.» Si bloccò abbassando il tono di voce più che poté vedendo l’espressione arcigna sul suo volto, in realtà non le aveva detto niente dei recenti avvenimenti ma non ci voleva un genio per capire cosa stava succedendo.

«Cos’è? Ti ha dato un bacio in fronte? No dimmi Cecely mi interessa.» La schermì, una volta tanto anche lei poteva prendersi il diritto di essere di cattivo umore, quello era proprio il suo momento adatto. Credeva che la piccola ragazza si sarebbe arrabbiata per la sua mancanza di sensibilità, invece scoppiò a ridere senza ritegno, tanto che la professoressa Narell le scoccò un’occhiataccia prima di concentrarsi di nuovo sul suo registro di classe. «Magari.» Fece Cecely ridacchiando.

«Ed è così divertente perché esattamente?»

«Beh.» Disse Cecely, il sorriso spento sul suo volto.

«So che non devo avere fretta è una delle poche cose su cui ho le idee chiare ma due settimane fa tu e Jeh avete messo in difficoltà Victor ti ricordi?» «Sì certo.» Rimpiangeva quei momenti di pace prima della venuta di Emeric, prima della telefonata della Urlick.

«Mi sono detta che non era stata proprio una brutta idea, insomma avrei potuto riprovarci e…» «Arriva al punto Cecely.»

Lei prese un bel respiro e si lasciò scivolare addosso tutta la tensione accumulata con una sola frase: «Gli ho detto che sono innamorata di lui… da un po’ di tempo.»

Kell strinse le gambe per evitare di farlo con le braccia, era proprio quello che si aspettava.

Forse avrebbe dovuto prenderla in giro o farsi una risata, ma non ci riuscì proprio.

«Brava Cecely.» Lei era sua amica, la prima vera amica che avesse mai avuto nella sua vita, quella che l’aveva scelta, quella che non avrebbe scambiato con tutte le Catherine del mondo.

Era stata brava ed era giusto dirglielo: «Sei coraggiosa.»

A quelle parole la ragazza rise di nuovo comprendoni la bocca con la mano, gli occhi verde muschio erano ridotti a due fessure: «Coraggiosa, questa mi è nuova.» 

«Non farmi rimanere sulle spine Cely.»

«Ma cosa pensi che sia successo?» 

Aprì bocca per rispondere ma Cecely la bloccò prontamente: «Preferisco non sapere; è rimasto zitto senza guardarmi per una paio di minuti, avrei solo voluto sotterrarmi, lo ammetto, poi mi ha chiesto se davvero stessi dicendo la verità, ovviamente gli ho detto di si. In tutta onestà mi si stavano già figurando scenari raccapriccianti quindi immagina in che stato mentale potevo essere…» 

Kell scosse la testa, preferiva non pensarci in effetti.

«Mi ha guardata negli occhi, sai che Victor è ommeotafobico e anch’io ma l’ha fatto lo stesso e anche per parecchio e sono riuscita a mantenere il contatto visivo ed è stato davvero sconcertante perché non ci eravamo mai guardati così a fondo prima.» Kell pensò a quella volta in cui Cecely era scoppiata a piangere a causa di un’episodio simile durante terapia d’esposizione.

«E?» 

«E ha detto: “non posso”.» 

Per poco a Kell non cadde la mascella sul banco.

«Cosa…» 

Cecely sorrise guardando la sua espressione sbigottita: «E ha aggiunto: “per ora”.»

«Per ora?» Ripeté Kell senza riuscire a sapere cosa pensare esattamente: «Gli serve troppo tempo Cecely, basta aspettare, colpisci.» La ragazza si lasciò scappare una risatina isterica: «Ho aspettato e represso questa cosa da quanto sono arrivata qui e ho conosciuto Victor costringendomi a guardare Emeric cosa sarà mai un’altro po’ di tempo?»

Certe volte era una cosa che si ripeteva anche lei, fu costretta a darle ragione ma aspettare era abitudine e l’abitudine non è mai qualcosa di facilmente reversibile. Alzò le spalle e si mise in spalla la cartella, era suonata la campanella, Victor lanciò loro due uno sguardo indagatore, Cecely gli sorrise a pieni denti in un modo che lo fece ridere e a Kell fecero molta tenerezza.

Li lasciò da soli non appena vide Emeric comparire in corridoio, era troppo a terra per guardare Jeh andare da Sibille, per lo meno Emeric sarebbe stato in grado di distrarla.

«Hai saputo?» Le chiese il ragazzo dopo un cenno del capo.

Il suo sguardo cupo la inquietò subito, qualcosa era successo se aveva perso la spensieratezza di quei giorni.

«Cosa?»

«Rang, è stato denunciato dai genitori di Cat.»

 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** 18. Lo sconcerto dell'ombra ***


- minuscolo spazio autrice -
salve a tutti, spero che lo scorso capitolo vi sia piaciuto, in questo ci sarà
qualche emozione forte per così dire eheh ma non voglio anticiparvi niente
buona lettura e ci vediamo la prossima settimana con il prossimo capitolo.
Se voleste lasciare una recensione sarei felice di sapere cosa pensate degli sviluppi xoxo








 
 






18. Lo sconcerto dell'ombra 




«Ma perché?» Anluan lasciò la mano di Itsuko per sedersi insieme a loro al solito tavolo in sala da pranzo, isolato proprio come necessitava essere.

«Danni fisici e morali nei confronti di Cat, dicono che è stato lui a istigarla al suicidio per dispetto ai genitori che non potevano più pagare la retta, si vocifera che per far fare l’esame a Catherine i suoi abbiano minacciato di raccontare la verità su questo posto e così Rang l’avrebbe…»

«Ed è vero?» Kell lo guardò torcendosi le mani, forse Emeric non era uno di quelli che potevano saperlo ma valeva la pena tentare: «E’ vero che i suoi hanno minacciato di spifferare la verità?»

«Non lo escludo.» Dichiarò Emeric scatenando il panico.

«Ma è una follia.» Esclamò Itusko sconcertata scambiandosi sguardi atterriti con Anluan.

«Prima ho parlato con Lucy Fitzvellian.» Disse Emeric, Kell lo esortò a continuare e i suoi occhi verdi saettarono verso di lei: «Sua madre vuole telefonare ai genitori di Cat, mi farà sapere non appena saprà qualcosa, Lucy era un po’ restia a rivolgermi la parola, come al solito, ma alla fine l’ho convinta.» 

«Come mai lei ce l’ha tanto con te?» Chiese Kell, assaporava già l’idea di Cecely gettata a capofitto in quel mucchio di novità e cercò di mettere in difficoltà Emeric per arricchire il piatto.

«Suppongo sia perché crede che io abbia spinto di sotto Cat.»

Anluan alzò le sopracciglia ad ala di rondine all’unisono: «Che assurdità.» 

«Già.» Fece lui: «Davvero un’assurdità.»

La cosa non la sorprese ma notò sul viso di Emeric un sorriso quasi assopito, come se fosse sul punto di ridere ma al contempo non avesse alcuna intenzione di farlo. 

Kell smise di spiarlo. L’ipotesi che Rang, il loro sfuggente e fuggevole dirigente avesse voluto spingere Catherine a suicidarsi per vendicarsi solo perché i suoi l’avevano dovuta rimuovere dalla scuola per mancanza di soldi era a dir poco allettante, avrebbe significato inquadrarlo come uno psicopatico in piena regola. Tutto sommato l’idea di un dirigente psicopatico in un istituto che avrebbe dovuto aiutare ragazzi psicopatici non era affatto male, avrebbe fatto scalpore e per quanto irrealistico sarebbe stato facile far chiudere l’istituto con Rang dietro le sbarre.

«Se Rang l’avesse istigata davvero sarebbe meraviglioso.»

Vide Emeric scurirsi in volto, scosse la testa e sorrise lievemente, agguantò la forchetta con la mano sinistra si mise in bocca un boccone di carne, masticò silenziosamente, nessuno ebbe il coraggio di aggiungere altro fino a quando lui non inghiottì.

«Hai ragione, sarebbero costretti a sbaraccare.»

Anluan e Itsuko si guardarono, i loro piatti erano ancora intatti, assentirono anche loro, avevano ragione.

«Sarebbe davvero un peccato se qualcuno lo incastrasse… e ora scusatemi un minuto.» Si alzò in piedi con aria di scuse: «Lucy mi sta chiamando, torno subito con le novità.»

Non appena si fu allontanato a sufficienza, anzi, non appena lo vide sedersi accanto a Lucy circondata da un gruppo di facce non troppo sconosciute Anluan aprì bocca: «Sta cominciando a capire a che gioco stiamo giocando.»

Kell si infilò le mani nella tasca della felpa azzurra, in lontananza vide Sibille mettere un braccio intorno alle spalle di Jeh, un brivido freddo lungo la colonna vertebrale interruppe per un secondo i suoi pensieri: «Ti sbagli, ha capito perfettamente a che gioco stiamo giocando.»

Itsuko sprofondò nella sedia scuotendo la testa come se le mancasse la voce per commentare la verità che aveva appena detto.

«Questo può significare solo due cose: 

a) vuole essere scoperto perché si sente in colpa. 

b) vuole mettere nel sacco il colpevole.»

«Hai anche una terza opzione?» «No.» Rispose Kell, vide Victor e Cecely arrivare defilati, avrebbero dovuto spiegare tutto anche a loro…

«Ma in entrambi i casi vuole che sia fatta giustizia.»




Quel giorno la Strins era particolarmente agguerrita, dopo una settimana di buio profondo in cui a malapena si era presentata a terapia entrò in classe con la bombetta con tanto di linea di velluto rosso, Kell capì all’istante che perlomeno qualcosa sarebbe tornato alla normalità.

«Viviamo in un mondo di folli ragazzi miei.» Scoccò un’occhiata indagatrice ad un paio di ragazzi e poi prese posto all’interno del cerco, proprio in mezzo a Kell e Jeh, come sempre.

«Avrete saputo, i genitori di Catherine Yeferson hanno denunciato Rang alla polizia per istigazione a suicidio/omicidio. Davvero una scelta oculata non trovate?» Qualcuno nel cerchio bisbigliò: “ma allora è vero” un paio di volte poi il silenzio si fece improvvisamente assordante, la Strins era visibilmente furiosa e Kell poté solo ringraziare il cielo che quel giorno non avessero terapia di esposizione da acluofobia.

«Come se non avessimo abbastanza problemi in questo posto infernale, ci mancava solo il dirigente sotto denuncia.» Scosse la testa: «Rifletteremo sull’importanza della verità quest’oggi che ne dite?» Nessuno osò proferire verbo: «Se proprio deve succedere un pandemonio qui dentro tanto vale che sia per la verità, atteniamoci al tema: oggi dovrete dire la verità.»

Kell non si scompose, vide Jeh non cambiare neanche lontanamente espressione apatica e questo la rincuorò.

«Vi conoscete tutti, ognuno di voi ha mentito almeno a una persona qui dentro, voglio darvi la possibilità di redimervi, la bugia peggiore che avete detto fissatevela bene in mente, oggi direte la verità davanti a me e questa persona, in modo da fare finalmente giustizia su voi stessi.» Qualcuno sussultò, la Strins strinse il blocco degli appunti tra le mani ossute, sorrise: «Avanti, componete le coppie.»

E le coppie si composero, il familiare rumore delle sedie trascinate sul pavimento la riscosse dai suoi pensieri, in quel momento particolarmente opprimenti. 

Jeh non si era mosso; portò la sua sedia davanti a quella del ragazzo con l’occhio di vetro, lui aveva l’espressione grave, seria e nient’affatto distesa di quelle settimane stampata sul viso fermamente impassibile.

«Io non ti ho mai mentito.» Per quello che poteva valere era senz’altro la verità, non aveva mai mentito a Jeh e non aveva mai avuto intenzione di farlo. 

Il suo occhio grigio mortalmente bello era l’unico colore sul suo viso, si immaginò Jeh davanti allo specchio, a cercare di immaginarsi diverso, completo, non rotto, mettendosi una mano davanti alla parte di volto scalfito guardandosi come sarebbe dovuto essere. Non pensarci si disse, sebbene non fosse la prima volta che sentiva quell’idea premerle contro la scatola cranica.

«Ho avuto difficoltà a dirti la verità ma non ho mai mentito, ci sono cose che non riesco a dirti sì certo, ma non ti ho mai mentito.» 

«La Strins non accetterà questa tua dichiarazione quindi cerca di inventarti qualcosa.»

«Cosa dovrei inventarmi Jeh?»

«Quello che vuoi, sinceramente non mi interessa.»

Avrebbe voluto tapparsi le orecchie: «E tu?»

«Io cosa?»

«Tu mi hai mai mentito?»

Non diede segno di averci minimamente pensato sopra: «Sì.»

A Kell non stupì la sua risposta, la stupì il modo in cui lo vide guardarla, come se fosse assolutamente ovvio, come se lei fosse cieca e non riuscisse a vedere la realtà celata davanti ai suoi occhi.

«Avanti Kell, dicci.» La gamba destra della Strins ricoperta da un sottile strato di calza nera era pericolosamente vicina a quella di Jeh e naturalmente la cosa non faceva altro che metterla in ansia come tutto il resto d’altronde.

Avrebbe tanto voluto sbatterle in faccia la verità, e cioè che lei non aveva mai mentito a Jeh perché non aveva mai avuto bisogno di farlo in nessun caso, ma gli avevano dato sufficiente tempo per pensare e sapeva bene quanto la Strins fosse una pessima nemica, ora li minacciava tutti perché in pericolo pareva esserci nientemeno che Rang in persona, era chiaramente fuori di se o meglio l’avrebbero vista fuori di se se non avessero abbassato la testa in silenzio.

Ne avrebbe approfittato per dire un’altra verità celata che non poteva più trattenere, inevitabilmente ne sgusciò via: 

«Ti ho fatto pensare che questa storia di Sibille fosse un’imposizione e basta, che dovessi farlo senza replicare perché è questo quello che ci aspettavamo da te ma ho mentito. 

Ho mentito perché dovevo… darei qualsiasi cosa per far tornare tutto com’era prima e anche se capisco perché tu non voglia farlo è giusto che tu lo sappia. Non ho mai voluto che lo facessi, avrei preferito gettare chiunque nelle sue grinfie ma non te, vedo il modo in cui ti guarda e lo odio con tutta me stessa. Lascia perdere quello che gli altri vogliono che tu faccia, lascia perdere e lascia Sibille a se stessa, per una volta pensa a ciò che vuoi e fregatene degli altri, per me ha perso significato, non significa più niente se fa stare male te.»

«Okay.» Disse la Strins, annuì, aveva l’aria di una a cui non importa assolutamente niente delle sue parole sofferte, e forse per questo la sua presenza la rassicurava, scrisse un’appunto veloce sul suo taccuino a poi passò la parola a Jeh senza lasciare intendere che gliene potesse importare qualcosa di quello che lei aveva appena detto. 

Intanto lui non si era praticamente mosso se non per alzare lievemente l’occhio grigio verso di lei. 

Parlare davanti alla Strins non l’aveva messa troppo a disagio ma Jeh, lui aveva aperto bocca, forse aveva anche sillabato una parola ma non era uscito niente, neanche un suono, niente di niente, e ora era lì, che non riusciva a parlare e lei aveva solo voglia di mettersi a gridare.

Guardò la Strins nella speranza che capisse, lei neanche la degnò di uno sguardo, si alzò in piedi, lanciò un’occhiata disgustata a Jeh e disse tranquillamente: «Sei senza speranza.» E se ne andò via, passando a un’altra coppia senza dire niente a Kell, lasciandoli nel vuoto profondo.

«Hai ragione.» Disse Jeh, schiarendosi la voce, d’improvviso guardandola dritto negli occhi, andata via la Strins aveva in fretta recuperato l’uso della parola, in modo quasi istantaneo anche se la rabbia era la stessa di prima: 

«Lo ammetto, ho mentito, non voglio continuare, farei di tutto anch’io per non continuare questa storia, lasciarmi tutto alle spalle facendo finta che niente fosse successo ma resta il fatto che se smetto niente di quello che ho fatto ha avuto senso, se smetto Nikki torna alla carica e avrò sulla coscienza l’orgoglio ferito di quella stupida di Sibille.» Lo disse con disprezzo guardandola aggrottare le sopracciglia spremendosi le meningi per trovare una soluzione ma Jeh era già al punto dopo.

«Lei vuole solo mettersi con me.» 

«No, non devi…» Kell tentò subito di frenarlo ma non ci fu nulla da fare: «Sì invece, è l’unico modo per portare avanti questa storia, altrimenti si renderà conto che la sto solo usando, forse ha già capito che non sono semplicemente un sociopatico, non lo so, ma questo è quello che farò, posso sopportarlo, ho sopportato di peggio e ho deciso.» Alzò le spalle, spalle di ghiaccio, in uno scatto quasi involontario, d’odio: «Ti rendi conto che è l’unica cosa da fare vero Kell?»

«Mi rendo conto.» Fù costretta ad ammettere lei: «Ma non devi, non sei obbligato, possiamo inventarci qualcosa, possiamo…» Jeh non mosse un muscolo: «Non possiamo fare niente.»

Kell strabuzzò gli occhi, un brivido le corse lungo la schiena: «Non dovevi dirmelo, se non ti interessa il mio parere, se non vuoi ascoltarmi allora non dovevi dirmelo.» Si alzò in piedi lo guardò scuotendo la testa, era a dir poco incredula, improvvisamente si era resa conto di avere le sue ragioni per poter stare male esattamente come lui e soprattuto che non voleva stare lì a farsi ignorare da Jeh.

Lui la guardò stringendosi le mani le une nelle altre: «Non dovevo dirtelo? Perché, sostanzialmente, sinceramente Kell, a te che cosa cambia?» 

Sentiva una specie di blocco in gola crescere di secondo in secondo, rimase a guardarlo, la cicatrice dritta e inflessibile non produceva ombre a quella luce, giusto il tempo di rendersi conto di quello che stava per accadere.

Sgusciò via, raggiungendo la Strins, dicendole che non si sentiva bene e doveva andare, la sentì assentire, scappò via, senza che nessuno le impedisse di andarsene e così non appena riuscì a varcare la soglia della classe di terapia e sentì la porta chiudersi alle sue spalle lasciò che il singhiozzo dolorosamente strozzato  che stava respingendo fuoriuscisse dalla sua bocca.




Emeric stava seduto davanti a lei sul suo letto, a gambe incrociate; le stava ripetendo la lezione di storia su cui il giorno seguente sarebbe stato interrogato ma Kell non riusciva a seguire davvero il suo discorso.

Era troppo impegnata a pensare a Jeh.

Ed era troppo indaffarata a cercare di distrarsi pensando al fatto che Rang fosse sotto denuncia e al fatto che la Urlink le aveva mandato un messaggio in cui le diceva che ora avevano tre sospettati invece che due. Si chiedeva come avessero potuto non pensarci affatto, dopotutto l’idea di incolpare l’istituto di ogni cosa sarebbe stata decisamene la cosa migliore da ogni punto di vista. Significava la chiusura dell’istituto praticamente certa ed era proprio quello che volevano e lei non voleva arrivare alla conclusione che fosse stato proprio Emeric, il ragazzo con gli occhi verdi di nuovo brillanti che amava quella povera ragazza morta.

«Kell, Kell mi stai ascoltando?» Alzò improvvisamente gli occhi dal libro e lo guardò, gli sorrise sforzandosi di sembrare tranquilla.

«Certo.» 

«Non è vero.» 

Il suo sguardo severo la fece ridere anche se un secondo dopo sentì il sorriso spegnersi da solo.

«E’ per Jesse o per la storia di Rang.»

«Per entrambe le cose.»

Emeric sorrise sentendola rispondere in quel modo: «So cosa state facendo, non credere che non lo sappia.»

«Non ho mai detto il contrario.» Non si lasciò prendere dal panico, farlo avrebbe voluto dire mentire a se stessa, sapeva che Emeric non era uno stupido, tutt’altro.

«Non siete troppo lontani dalla verità… forse dovreste solo allagare un po’ di più la vostra visuale.»

Kell annuì pesantemente, ora si che c’era panico.

«Tu sai chi è stato.»

Quando vide Emeric annuire si sentì mancare il soffitto sulla testa: «Sì, so chi è stato, so come ha fatto, so con che mezzi, so perché, io so tutto.»

Gliel’aveva già chiesto in passato: «Sei stato tu?» 

Emeric alzò le spalle: «Potrei essere stato io, non devi essere triste pensando a questo.»

«Non sono triste, le persone sbagliano, deve essere fatta giustizia.»

Vide Emeric scuotere la testa: «Vi fa onore, cercare di salvare tutta la scuola sacrificando una sola persona.»

«Ti sbagli non lo facciamo per questo.»

«E perché allora?» Domanda retorica da parte del ragazzo: «Lo fate perché nessuno pensa di essere al posto giusto chiuso in una gabbia, e lo capisco, ma non sempre le cose sono come sembrano, questo concetto non vi entra in testa e mentre voi cercate un assassino non sapete cosa potrebbe esserci sotto, grattando un po’ di più.»

Era così vicina a una denuncia o a una confessione che quasi le sembrò di riuscire a scorgerla negli occhi verde speranza di Emeric. «Cosa può esserci sotto un’assassino?»

«La verità.»

«La tua verità?» Emeric si stirò le braccia nonostante il fatto che fosse visibilmente in ansia, anzi, forse proprio perché era in ansia: «Probabilmente sarebbe la mia in ogni caso.»

Kell gli tolse il libro di storia aperto sul suo grembo e lo chiuse bruscamente: «Ascolta Em, in questo momento mi sto rendendo conto di un sacco di cose che non avevo considerato, mali stupidi e immotivati che sinceramente non credevo avrei provato nuovamente allo stesso modo, ed è una cosa che detesto perché potrei perdere più di quello che ho e non è mai una bella cosa per una sociopatica come me.» «Non sei una sociopatica.» Tentò Emeric con uno sguardo esagitato negli occhi.

«Sì che lo sono ma lasciami spiegare. Ho coniato io il piano, io ho deciso che dovevamo mettere nel sacco l’assassino di Catherine, il sottinteso era ovvio, così facendo questo posto avrebbe chiuso. Si fidano di me, fanno quello che io dico loro di fare e tu lo sai, sulla mia parola possiamo assicurarci la verità. Ora come ora, posso persino decidere io come sono andate le cose, sai perché?» Emeric scosse la testa, non capiva dove volesse arrivare con il suo discorso: «Ci siamo solo tu e io qui e nessun altro ad ascoltarci, possiamo metterci d’accordo Em, possiamo parlare, possiamo decidere prima cosa dire agli altri, possiamo decidere che è stato Rang e incolpare Rang e far chiudere questo posto e smettere di prenderci in giro a vicenda visto quanto questo sia inutile, ma sta a te.»

Emeric annuì distrattamente, capiva il suo discorso, voleva ascoltarla parlare, era come se non avesse aspettato altro, ora si stava preparando a dire quello che sapeva di dover dire per chiudere quel discorso, ora c’era un accordo basato sulle menzogne che si stava ergendo davanti ai suoi occhi ma solo perché lei lo voleva e lo desiderava.

«Sei stato tu?»

Lui alzò gli occhi verso di lei, sorrise, i suoi denti bianchi perfettamente dritti la prima volta l’avevano quasi inquietata, ora le parevano candidi, veri, inequivocabilmente Emeric.

«Sono stato io.»

Si passò una mano sulla faccia, la cosa le ricordò Jeh anche se Emeric non lo faceva come se volesse nascondersi, ma come se volesse mostrarsi grattando via la superficie.




Passarono i primi minuti in silenzio a guardarsi, valutandosi a vicenda, per la prima volta allo scoperto Kell si vedeva a osservare l’assassino di Catherine con i suoi occhi da sveglia.

«Durante il suo interrogatorio  Lucy ha detto qualcosa che mi ha colpita. Me lo sono scritta qui parola per parola.» Gli mise in mano il suo blocco per gli appunti, Emeric lo lesse con attenzione, ad alta voce nonostante il fatto troppo agitato per leggere speditamente, per la prima volta Kell riuscì a sentire il suo velato accento francese: «Se Rang non avesse voluto fare questa specie di regalo ai genitori di Cat a causa di questi tre anni di pagamenti ineccepibili forse a quest’ora non staremo qui a parlarne, per Rang Cat doveva uscire da questo posto mentalmente pulita, priva da strane fobie – che non aveva – da spiegare in giro, per questo hanno voluto farle fare il test e si è alzato un polverone indicibile, nessuno usciva da questo posto quattro mesi prima della fine della scuola da quando Rang è diventato dirigente, e poi inspiegabilmente Catherine fallì quel test, ve lo ricorderete, Nikki le aveva messo addosso un’ansia indicibile, Rang forse ci aveva ripensato, non lo so…»

Emeric tentò di sorridere ottenendo una smorfia stentata: «Hai intenzione di attaccarti a questa frase?»

«Potrei.»

«E’ un’ottima idea Kell.»

«Davvero?»

«Sì se ci aggiungiamo una storia credibile.»

«Ho delle idee.»

«Parla.»

«Lo sto già facendo.»




Rang era una persona viscida fin da quando era arrivato al Quattrocentoventisette le cose erano cambiate, lo sapevano tutti, non sapevano fino a che punto, non potevano sapere quanto Rang fosse la radice malata ne quanto potere aveva in mano.

Rang aveva spiegato tutto a Emeric e a Nikki, ogni cosa, quando i genitori di Catherine gli avevano detto di non poter più parare la retta l’avevano convinto a fare un bel gesto… l’unico della sua carriera, ma poi se n’era subito pentito. C’erano lamentele da parte dei genitori a cui in passato aveva detto di no nonostante avessero i soldi, professori in difficoltà, incapaci di spiegare perché un’alunna su cui puntavano il dito ora era magicamente guarita, gli alunni stessi, centro pulsante del problema odiavano l’idea che Catherine la ricca ragazza bionda aveva offerto una cifra così alta da poter uscire prima di tutti loro. Troppe chiacchiere, uno uomo solo  non poteva contenerle tutte ma fino a quando Catherine non fosse andata via poteva resistere; e poi, la ragazza chiedeva di poter finire l’anno sfuggendo alle occhiate dei suoi compagni più rancorosi e si era ritrovato a reggere sulle sue spalle il peso del fatto che dall’esterno sarebbe sembrato come se lui, Rang, avesse abbassato la testa, piegandosi ai troppi problemi, troppe chiacchiere.

Aveva incaricato la guardia notturna di sorvegliargli, niente era permesso davanti alla Patricks, temuta e più che ben pagata, ora le chiedeva di chiudere entrambi gli occhi. Anche nella speranza che la sua reputazione potesse essere un segnale per la polizia impossibile da ignorare e segretamente abbastanza forte da accusarla…

Il piano di Nikki alla fine le si era ritorto contro perché negli ultimi tre giorni di vita della ragazza Rang li aveva avvicinanti, convocandoli nel suo ufficio, aveva detto loro che se non avessero fatto ciò che lui stava per dire loro sarebbero stati espulsi, per essere mandati in un vero ospedale psichiatrico, causa, follia recidiva. 

Avevano dovuto trovare una scusa per convincere Catherine a venire fuori, sul balcone quella notte mentre la Patricks era voltata da un’altra parte, la scusa che Nikki aveva trovato era l’ultima chance, Emeric le dava un’ultima chance, lei non poteva sapere quello che sarebbe accaduto ne cosa la attendeva e così cadde nella trappola.

Sul tetto, nascosto, c’era anche Rang, avrebbe di certo voluto che loro facessero il lavoro sporco al posto suo, che uno dei due spingesse Catherine di sotto e loro gli avevano detto che l’avrebbero fatto, avevano giurato.

Ma anche loro avevano un piano e nonostante quello che avevano passato non avrebbero mai permesso che Catherine facesse quella morte ingiusta.

Davanti a Catherine ormai chiusa fuori dall’istituto insieme a loro avevano smascherato Rang mostrandole che lui era lì.

Speravano che ci ripensasse, che non avesse davvero la forza di spingere Catherine di sotto, ma lo fece, lo fece e la loro vita in quell’istante di immobilità cambiò per sempre, sapevano cosa li attendeva se avessero parlato.

Li aveva fatti rientrare, se n’era andato, Nikki era corsa in camera in preda al panico più totale, Emeric era sceso di sotto, spezzato in due da dolore di quel corridoio senza uscita, così era iniziata e così era finita.




Cecely era seduta ripiegata su se stessa, le gambe fasciate dagli stivali col tacco stringati, la mani poggiate sulle ginocchia e la testa in mezzo, quella strana posizione la faceva sembrare quasi una ginnasta. 

Ad un tratto dopo un paio di minuti dopo averla sentita spiegare la piccola ragazza aprì finalmente bocca: «Una conclusione: non era in alcun modo quello che mi sarei aspettata di sentirti dire.» Si alzò in piedi, traballò per la stanza e andò a sedersi sul letto vicino a Victor che annuì non appena sentì che lei gli aveva preso la mano: «No Cely okay non ce l’aspettavamo, ma è il meglio che potesse essere successo, dobbiamo incastrare Rang niente di meglio.» La rassicurò Victor. «Già.» 

Kell abbassò lo sguardo sul suo blocco degli appunti, scoccò un’occhiata di soppiatto a Anluan e Itsuko che seduti in poltrona non avevano ancora aperto bocca.

Poi, superato lo shock iniziale le chiesero se avesse già informato la Urlik, lei rispose che sì l’aveva fatto e che quello che dovevano fare adesso era far confermare Nikki, convincerla a testimoniare visto che Emeric ora aveva tutte le intenzioni di farlo. Insomma, dovevano lentamente smontare lo schema e rimettere tutto in ordine.

«Io ancora non riesco a crederci.» Sillabò Itsuko: «Ero praticamente carta…» «Il racconto di Emeric non fa una piega, o almeno non come lui me l’ha raccontato, credetemi, se ci fosse stato lui qui a raccontarvelo non avreste avuto il minimo dubbio.» Kell vide Anluan scuotere la testa alle sue parole: «Nessuno mette in dubbio il tuo giudizio Cellach, solo che devi ammettere che molto, se non tutto quello che abbiamo fatto è stato in funzione della sicurezza che l’assassino si nascondesse in Nikki o in Emeric, dobbiamo letteralmente radere al suolo tutto.

Lavorare d’astuzia con Nikki e Emeric per incastrarlo, è semplicemente…» Anluan si interruppe, come se si fosse ricordato all’improvviso di un particolare prima messo da parte: «L’hai detto a Jeh? Può lasciare perdere Sibille adesso, Nikki ci serve, deve tornare da noi.» Kell annuì e disse: «Non gliel’ho ancora detto, lasciate che sia io a farlo.» «Certo.» Victor alzò le spalle di risposta ma poi sembrò ripensarci: «Probabilmente si arrabbierà, sei sicura di volerlo affrontare da sola?»

«Sì.» Stava mentendo, d’ora in avanti se voleva mettere la parola fine a quella storia mentire sarebbe stato all’ordine del giorno. L’aveva fatto anche per Jeh, per farlo evadere da quella prigione invisibile, loro non avrebbero mai scoperto la verità, non era necessario che la scoprissero purché quel posto venisse chiuso.

Probabilmente se avessero continuato per la strada precedente non sarebbero mai riusciti a incastrare il colpevole, Kell aveva insistito ma l’unica cosa che aveva ottenuto da Emeric quando l’aveva pregato di raccontare la vera verità era che sia lui che Nikki erano lì quella notte e poi lui aveva spinto di sotto la ragazza che amava e odiava.

Con quelle poche parole come incastrarlo? Era impossibile. 

Non portava neanche il registratore addosso quindi non potevano neanche appellarsi a quello; Emeric era furbo, le aveva detto che non avrebbe ripetuto neanche una sola parola della vera verità dopo quel pomeriggio, mai più.

«Benissimo.» Sussurrò Anluan: «Itsuko andiamo a recuperare Nikki e Emeric, dobbiamo parlare tutti insieme.»

Kell sapeva che non avrebbero trovato la ragazza ma rimase zitta, sapeva che ora Em stava raccontando a Nikki del nuovo piano in un posto sicuro e lui le aveva detto che sarebbe stata contenta e non poteva fare a meno di credergli.

L’aveva cercato in camera sua, in camera di Sibille persino – in nessuno dei due casi bussando aveva ricevuto risposta – e anche sotto, in lungo e in largo ma quella sera Jeh sembrava essersi volatilizzato.

Era tornata nella sua stanza stremata senza essere riuscita a mettere sotto i denti neanche due foglie d’insalata, sentiva un enorme peso nel petto, niente di accostabile al fatto che stesse mentendo a tutti, miracolosamente non riusciva a sentirsi in colpa, anzi, era quasi una liberazione sapere chi era l’assassino e anche chi era meglio accusare.

Aveva preso un altra decisione da sola. No… era in quello stato di esagitazione perché non vedeva Jeh da quel pomeriggio a terapia, ancora peggio, non vedeva neanche Sibille da quanto l’aveva vista portarsi via Jeh quello stesso pomeriggio, quindi sicuramente erano insieme e lei doveva fare qualcosa, doveva ma non poteva. Era già notte, non sapeva con che coraggio di sarebbe messa a letto sapendo che non avrebbe chiuso occhio. Era in quello stato, pressoché vicina all’idea di lasciarsi prendere dal panico quando vide Jeh entrare in camera sua, traballante, inceppato in se stesso com’era Jeh la prima volta che l’aveva visto, con la gola stretta da entrambe le mani, dalla sua bocca provenivano suoni strozzati, sibili sordi, era fragile come non lo vedeva da mesi, era assolutamente scioccato come se l’avessero appena picchiato ma non con le mani. Raccontava se stesso, pallido come un cadavere, l’occhio bianco lievemente velato di lacrime di sangue le fermò respiro in gola, era successo qualcosa di grave. Si era accasciato contro la porta, praticamente svenuto e Kell non era riuscita in alcun modo a rimanere calma: «Che cosa ti ha fatto?» Forse aveva gridato, forse l’aveva ripetuto altre sedici volte, o forse no. Guardarlo tremare era la cosa peggiore che avesse mai visto nella sua vita, evocava terrore, se n’era accorta fin dalla prima volta in cui l’aveva visto in quello stato, raccontava la muta disperazione di chi non riesce a parlare e tremando completamente, con gli occhi, con le mani, con le braccia, con le gambe, con i denti, si muoveva a scatti come se potesse spezzarsi in due da un momento all’altro, fuori controllo, fuori di se, fuori se stesso. 

Anche le mani di Kell avevano preso a tremare, aveva raggiunto il porta pillole che portava agganciato al collo e ripiegata leggermente su Jeh nel tentativo di infondergli contatto umano era riuscita a estrarre una pillola con una mano sola. Con quella stessa mano, senza lasciarlo per un secondo aveva cercato di infilargliela in bocca o almeno tra le labbra, le aveva toccate con le dita, erano corpose, morbide e fredde ma non appena lui se ne era reso conto aveva cominciato a digrignare i denti stringendo gli occhi convulsamente, aveva lasciato cadere la pillola sul tappeto.

La cosa peggiore era essere impotenti, impotente di fronte alla verità che prima di entrare al Quattrocentoventisette lo era stata davvero.

Forse doveva andare a chiamare qualcuno, la testa di Jeh finì sul tappeto nuovo di zecca che sua madre le aveva portato la settimana prima, cercò di rassicurarlo sussurrando parole e stringendogli le spalle, lui non la respingeva, non opponeva resistenza, ora cercava di abbracciarlo, o almeno frenargli i movimenti con le proprie braccia ma era tutto inutile, era debole anche lei e doveva reprimere l’istinto di scoppiare in un attacco di panico, un attacco senza paura ma per la troppa paura. 

Lui era andato da lei perché voleva che fosse lei, aveva retto fin fuori dalla sua porta poi aveva smesso di combattersi e si era accasciato a terra, sapeva che lei non l’avrebbe giudicato per quello che era o… non lo sapeva, tutto quello che voleva era riuscire a calmarlo, parlargli.

«Jeh.» Disse dopo un po’ continuando a avvicinarlo ogni volta che lui si muoveva come cercando di rialzarsi: «Jeh è tutto a posto, non preoccuparti, è tutto finito, davvero, ci sono io qui con te.» Voleva spronarlo a parlare ma dubitava fortemente che fosse una buona idea, non fino a quando non fosse riuscito a smettere di tremare come una foglia; l’unica cosa certa era che immaginare perché fosse messo in quello stato non era certamente difficile, la cosa la faceva scuotere di rabbia e curiosità insieme.

«Sono uno stupido.» Balbettò Jeh, improvvisamente stringendo la testa sulle sue gambe ripiegate. «Non è così Jeh.» Il panico stava scemando, almeno in lei, sentirlo parlare era sempre un’ottimo segnale.

Aveva troppe cose da dirgli, voleva che sapesse che con Sibille poteva chiudere e che qualsiasi cosa lei gli avesse fatto non sarebbe accaduto più, ma c’era quella fitta che continuava e ghermirle dolorosamente il petto, sembrava troppo persistente, sembrava una paura nuova, mai provata, una paura ansiosa e ossessiva.

«Devo dirti un sacco di cose, buone notizie, è tutto okay Jeh, tutto okay.»

Cercò di farlo mettere in piedi, aveva smesso di tremare ma rinunciò ugualmente, era talmente incordato che quando sentì una sua mano stringerle convulsamente un polso la raggiunse con l’altra liberandola da dietro il suo collo per infondergli un coraggio che non aveva.

Ora erano contro il bordo del letto, seduti. Lo abbracciava lateralmente, aveva la testa sulla sua spalla, mentre lui la teneva china, gli occhi chiusi, mostrando la cicatrice anche sulla palpebra nitidamente. Attorno al suo collo avvertì con le dita la presenza metallica di una catenella, la riconobbe subito, era del suo porta pillole, in un paio di punti c’erano delle lievi ferite, gli occhi di Kell indagarono, forse l’aveva tirato con troppa forza, forse l’aveva fatto di proposito. 

Glielo sfilò dal collo gettandolo sul tappeto e Jeh si ricoprì di pelle d’oca tanto che Kell ebbe in quel momento la certezza che sì l’aveva fatto di proposito.

Sfiorò con le dita le ferite, alcune fresche, altre già cicatrizzate, si odiò con tutta se stessa incapace di smettere di toccarle, a tratti Jeh era sempre stato un interesse morboso, qualche volta sua madre gliel’aveva detto, ma non lo era mai stato tanto come allora.

Se solo avesse potuto aiutarlo con quello che aveva da dargli, se solo avesse avuto quella possibilità.

«Jeh.» 

Si calmò definitivamente quando la sua mano destra raggiunse la guancia della cicatrice, ne sfiorò l’increspatura per tutto il profilo del volto, esitò lievemente sulla gola, si fermò non voleva che la respingesse, forse lui la ignorava di proposito, continuando a tenere gli occhi chiusi oppure preferiva non guardarla negli occhi, forse lo stava odiando, forse gli piaceva, non lo sapeva.

«Non vuoi sapere le buone notizie?» Lo sentì sospirare e tutto il suo corpo si mosse di conseguenza. «Sì.»

«Devi prima dirmi che cosa ti ha fatto.»

Per un secondo aveva aperto gli occhi ma sentendola dire quelle parole si era come ritratto, ora aveva la testa sotto il suo mento, si era ripiegato, sospirò di nuovo, come prendendo fiato.

«Lei…» Forse disse qualcos'altro ma Kell non riuscì a sentirlo, sentiva ancora quella rabbia e quell’orrore; non riuscì ad aspettare: «Ti ha messo le mani addosso?» Sotto il mento sentì la sua pelle a contatto con la sua, l’aveva capito ma si sentiva comunque così furiosa da lasciargli perdere la schiena e accerchiargli il collo, strinse la testa sulla sua, lui si limitò a stringerle il braccio destro con la mano, Kell non volle trattenersi posò un bacio forse troppo pesante sui suoi capelli neri.

«Certo.» Rise Jeh: «Lo ha fatto, era quello che voleva, fin dall’inizio, ovviamente ha… ha cercato di baciarmi.»

Si aspettava anche questo ma non riuscì a evitare di imprecare contro di lei.

«Ma non l’ha fatto no? Sei riuscito a respingerla?»

«Sì.» Lo sentì alzare le spalle: «Sono solamente uno stupido, ridotto in questo modo per una cosa che non è neanche successa.» Lui stesso sapeva di non stare dicendo la verità, le cose in quel posto erano sempre state molto più complicate delle apparenze e la questione si estendeva anche agli occupanti.

«Non è colpa tua, sai che è così, lei non avrebbe mai dovuto avvicinarsi a te, sei diverso ma lei non può capire come, non sei venustrafobico Jeh, lo vedi?» La situazione parlava da se, lo sentì aumentare la presa sulla sua schiena a cui ora pareva essere aggrappato, Kell sentiva l’increspatura della cicatrice sulla gola, insieme al suo naso, dritto, le ciglia si chiudevano e si aprivano, sbattevano contro la pelle.

Kell aprì bocca e parlò: «E’ lei che è sbagliata, non tu.»

«O sei tu che sei giusta.»

Disse questo e alzò lo sguardo, la guardò negli occhi, tristemente ma senza paura, quasi ebbe l’impressione per la prima volta di vedere i suoi occhi uguali, entrambi grigi o entrambi bianchi, sangue, lacrime, non li distingueva.

«Questo è ovvio Jeh.» Lo sentì ridere, quasi sussurrando per paura di essere sentito da qualcuno che non c’era, Kell aveva sdrammatizzato, doveva, e seppe in quell’istante di poter cominciare a raccontare il motivo per cui l’aveva cercato con tanta insistenza, la porta in faccia a Sibille, Emeric innocente, Rang colpevole. Non sembrava stupito, ne tantomeno incredulo, pareva rassegnato all’idea dal primo istante in cui gliel’aveva detto; si erano raggomitolati sotto la coperta invernale nell’oscurità di camera sua e a Jeh quasi si chiudevano gli occhi, o forse non aveva voglia di tenerli aperti…

«Quindi ho scampato Sibille per merito tuo.» 

Kell scosse la testa sul cuscino. 

«Si invece.» Confermò lui: «Merito tuo e di Emeric e… non so, non ho idea di come fare per farmi perdonare… per la scorsa volta a terapia, io…» «Tu niente.» Lo fermò subito Kell: «Sono stata una stupida io.» Jeh cercò di negare, alla fine Emeric aveva confessato la verità su Rang anche perché non aveva Nikki tra i piedi, era necessario che qualcuno la tenesse fuori e quel qualcuno era lui, lui e Sibille.

Ma Kell non poteva essere d’accordo: «Ti ho fatto del male, ho fatto male a tutti, ho fatto male a me, non devi scusarti di niente Jeh.» Non riuscì a evitare di passargli una mano tra i capelli, ripiegandoli all’indietro sulla fronte. 

«Ma Kell, ti ho dato una responsabilità che non solo non era tua, ma che dovevo assumermi di mia spontanea volontà, potevo continuare a stare con voi, non l’ho fatto, ero arrabbiato, ero invidioso…» «Non importa Jeh, non ha importanza.»

Lo vide di nuovo chiudere gli occhi stancamente, sistemandosi svogliatamente la coperta sulla spalla, così Kell ad un tratto sapeva che quello era il momento giusto per spegnere la luce.

«Mi permetti almeno di ringraziarti per quello che hai fatto stanotte, oppure vuoi linciarmi anche per questo?» 

Erano stretti in un abbraccio totale, caldo, rassicurante ma anche esagitante e totalizzante, annuì rispondendo alla domanda di Jeh sorridendogli dritto in viso.

«Non andartene più.» Gli disse: «Non potrei sopportarlo.» Non suonò affatto drammatica, all’improvviso Kell sembrava a se stessa la Kell di sempre, si sentì dire qualcosa che avrebbe senz’altro detto la Kell di sempre ma in realtà… non era così, non avrebbe parlato in quel modo al ragazzo con l’occhio di vetro, ora poteva, ora sapeva che staccarsi da Jeh era stato come perdere una parte di se stessa che la manteneva a un metro da terra, distante dai mali del mondo, mai troppo vicina mai troppo lontana, indifferente e onnipresente e ora era lì, si sentiva quasi felice e lei neanche sapeva cosa fosse la felicità, ma voleva che lui promettesse, e lo fece.

«Non lo farò più Kell, non posso farlo.» 

Anche questa volta era serio, la sua mano che le stringeva la nuca le lanciava fievoli fitte fredde ogni volta che lui la toccava, non era abbastanza ma rimase zitta.

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** 19. Promessa ***


- minuscolo spazio autrice -
questo è un capitolo davvero importante, sebbene ovviamente ce ne siano stati altri in passato
dal punto di vista psicologico questo ne batte parecchi, fate attenzione
non mi piace lasciare le cose al caso, ci vogliono dettagli e qui ne abbiamo parecchi. Sono molto curiosa di sapere come pensate che finirà la storia, sia dal punto di vista del pericoloso piano di Kell che dal punto di vista tematico dei personaggi, con le loro fobie e drammi vari, in ogni caso grazie a tutti i lettori silenziosi che leggono questa folle storia..
Non  mancano molti capitoli alla fine della storia, un cerchio si sta forse chiuendo?
 











19. Promessa


Nikki sorrideva, guardava Emeric come si guarda un diamante grezzo appena estratto da una miniera, mentre lui fuggevolmente volgeva lo sguardo da un altra parte.
«Ogni volta che penso a quello che Rang ci ha fatto mi viene da vomitare.» Disse Nikki tranquillamente.
A Kell venne da ridere, quasi rise perché erano assurdamente credibili, se Kell fosse stata dall’altra parte avrebbe creduto alle loro parole.
Stare all’aria aperta, sul prato del brutti ricordi era però rinvigorente e i ragazzi ascoltavano parlare l’assassino e la sua complice interessanti.
Presto la Urlick avrebbe preso una decisione su come agire, presto si sarebbe saputa la vera verità, quella decisa.
Erano tutti lì, ad ascoltare quei due confessare, mentre Kell registrava con il cellulare ogni parola, pregando che nessuno si accorgesse che doveva sicuramente esserci qualcosa che non andava perché c’è sempre qualcosa che non va in racconti che non ammettono repliche o intoppi.
Cecely aveva l’aria a dir poco afflitta, sollevata ma afflitta, strappava fili d’erba congelati nervosamente con la mano destra, con la sinistra si torturava l’orlo della gonna di ciniglia che indossava quel giorno, guardava in basso, guardava Victor.
Victor invece aveva ascoltano l’intera storia con le sopracciglia aggrottate, ogni tanto si era passato le nocche della mano sulla bocca e non aveva praticamente proferito verbo, come Cecely d’altra parte.
Anluan aveva fatto parecchie domande, Itsuko inizialmente aveva tentato di fermarlo ma poi aveva seguito a fare lo stesso, si era arresa all’idea che avesse dei dubbi anche lei, ma si trattava di dubbi i quali Emeric e Nikki si erano esercitati a rispondere prontamente. Parlando e rispondendo non c’era stata alcuna esitazione da parte loro, tanto che Jeh appoggiato al tronco dell’albero a qualche centimetro da dov’era lei aveva sussurrato con entrambi gli occhi socchiusi: «Ti ricordi? Sul diario di Michael lui ha scritto che ha visto Emeric con le chiavi della Patricks, e lui non lo sa neanche… tutto torna e la cosa in realtà ci dovrebbe far insospettire.» 
Kell pensò bene a cosa rispondergli, aveva una tale confusione in testa da non riuscire più a distinguere Emeric assassino da Emeric accusatore, quale delle due era verità, quale finzione. «Concordo.» Kell sapeva che se fosse stata lei ad essere stata messa nel sacco avrebbe concordato con il ragazzo sfigurato: «Ma Emeric mi ha detto che ha voluto dirmelo subito, fin da quanto ha scoperto che cosa stavo cercando di fare, solo che voleva essere certo della mia sincerità, lo stai ascoltando, li senti, scommetto che cogli quello che cerco di dirti.»
Mezzora dopo i due confessori erano andati via insieme; perché? Avevano visto Sibille in evidente stato confusionale vagare per il cortile senza meta, le occorreva il loro aiuto. 
A Kell veniva da ridere.
«Sapete cos’altro mi stupisce?» Domandò Anluan.
Jeh lanciò uno sguardo a Sibille e poi scosse la testa con gli altri.
«Il comportamento di Emeric, va bene raccontarci i fatti con Nikki, lei era presente, è necessario, ma ora sembra tutto tornato alla normalità.»
Cecely si stese sull’erba sconsolata, non riusciva proprio a comprendere: «Lei lo ha completamente soggiogato, si sono ritrovati uniti da quest’orrenda vicenda e lui la odia, ma perché la odia?»
«Non lo so…» Victor si stese al suo fianco, le sorrise appena: «Forse non riesce a staccarsi da lei perché sa che l’unica cosa che lo mantiene attaccato a Catherine, lei l’ha soggiogato non può tornare a volerle bene.»
Kell annuì, avevano avuto bisogno di mettersi d’accordo, dovevano per forza riavvicinarsi oppure non si sarebbero mai fidati l’uno dell’altro per mantenere quell’orrendo segreto insieme ma Emeric la odiava lo stesso.
«Parlerò a Emeric.» Disse Kell: «Non ha senso da parte sua costringersi a tenere d’occhio lei nonostante tutte le sue ottime ragioni possiamo occuparcene noi.»
«Ottima idea.»
Quanto avrebbe voluto sentire qualche parola dalla Urlik… l’ultima volta che l’aveva sentita, quel pomeriggio dopo terapia le aveva detto che doveva contattare i suoi superiori seduta stante, non poteva scappare dell’evidenza del fatto che le parole di Kell sulla morte di Catherine fossero di sicuro più che credibili.


Ritrovarsi finalmente da sola con loro due la face sospirare di sollievo, da un certo punto di vista le era costato forse troppo separarsi da Jeh e dagli altri con una scusa campata in aria ma doveva, doveva ricordarsi la verità.
«Sai Kellan.» Cominciò Nikki: «Non ti avrei mai confessato la colpevolezza di Emeric se non l’avesse fatto lui.» 
Lei annuì sorridendole: «Ci tieni a lui, lo so.»
Emeric alzò gli occhi al cielo, era la sua prima volta in camera di Nikki, era un’ambiente austero, freddo, ordinato, la metteva a disagio.
«Non credere che non ti consideri colpevole quanto lui.» La avvertì Kell subito: «Sei tu che l’hai spinto a uccidere Catherine, ne sono perfettamente cosciente.» Ora era arrabbiata, si sentiva decisamente arrabbiata ma parlarle con tanta franchezza mettendo in chiaro le cose era quello che sentiva di voler fare.
«E quindi?» La rimbeccò Nikki riducendo gli occhi a due fessure castano verdastre; incrociò le gambe e a guardò come per dire che aspettava una risposta. 
Emeric intanto guardava d’ovunque nella stanza tranne che in direzione della ragazza, quando erano stati tutti insieme si era trattenuto, odiava ogni momento passato in sua compagnia, Nikki lo urtava fisicamente.
«E quindi, tieni a mente il fatto che se lui cade…» Dicendo questo Kell indicò Emeric con gli occhi cercando di creare un minimo di drammaticità: «Trascinerà sul fondo anche te.»
Emeric si lasciò scappare una risatina nervosa nient’affatto da lui, la ragazza con i capelli rossi sorrise accavallando le gambe sul divano: «Sta tranquilla Kellan, davvero, tu sei l’unica che potrebbe parlare, l’unica che potrebbe guadagnarci qualcosa e se non parli tu riusciremo a mettere Rang dietro le sbarre.» Si avvicinò, Kell poté vedere alla perfezione il suo viso squadrato e la ruga d’espressione in mezzo alla fronte contrarsi: «Riesci a comprendere? Se riesci a tenere la bocca chiusa ne ricaverai qualcosa, altrimenti…» Nikki alzò le spalle sfoggiando la sua miglior espressione finto addolorata: «Tu e i tuoi amici rimarrete rinchiusi in quest’orrenda discarica.»
Kell scosse la testa, il suo atteggiamento era sospetto, sarebbe stato sospetto probabilmente anche se non avesse parlato a affatto, allungò la mano e la strinse alla ragazza che aveva soggiogato Emeric, alla persona che aveva dato il via a tutto; se non fosse stato per lei molto di quello che era accaduto fino a quel momento avrebbe avuto difficoltà a verificarsi allo stesso modo. «Non succederà.» La rassicurò Kell: «Non lo permetteremo, giusto?»
«Giusto.» Rispose Nikki e questa volta sorrise.
Emeric la guardava, la giudicava forse: «Da dove la prendi tutta questa determinazione, non lo capisco, potevi accusare me, mi avrebbero incastrato, avrei confessato, invece vuoi rompere tutti gli schemi, volevi non permettere a Rang di comprare un assassino e ce l’hai davanti a te, l’hai trovato, certo, questo posto deve chiudere ma quello in cui ti stai cacciando coprendoci… potrebbe rovinare tutto quello che hai costruito fino ad adesso.» Disse Emeric scuro in volto, si torturava le mani con le unghia e alzò lo sguardo solo per un secondo.
Con la coda nell’occhio vide lo sguardo di Nikki ancora perso in direzione di Emeric.
«Quello che è successo è successo Em. Ma sei pentito.» Gli disse: «E non è stata colpa tua, qualcuno ha fatto il peggio non tu, non mi sembra giusto buttare al vento la tua vita, non è giusto che la giustizia si prenda te e permetta a Rang di continuare a farci questo Em. Lui fa credere a degli adolescenti di essere sbagliati, di essere malati, plagia le persone e continuerà a farlo se non lo fermiamo, tu non farai mai più del male a nessuno, o sbaglio?»
«No.» Rispose Emeric alzando il capo: «Non sbagli.»
Un ora dopo aveva cominciato a squillare il cellulare: una voce  maschile di un uomo adulto che Kell non ricordava di aver mai sentito prima le comunicò con voce ferma: «Grazie per le informazioni che ci avete fornito. La Urlik ora sta parlando con i nostri superiori. Domani in modo totalmente inatteso per i diretti interessati ci saranno gli interrogatori che aspettavate.»
Tre frasi, frasi secche, quasi scontate, Kell chiuse gli occhi aspettò ansiosamente il mattino dopo.


Nikki le sorrise mentre la porta si chiudeva alle sue spalle, dieci minuti prima silenziosamente Emeric aveva fatto lo stesso anche se decisamente con maggiore nervosismo. Era passata circa un’ora da quando la polizia aveva separato i due ragazzi per l’interrogatorio, ora Kell avrebbe pagato oro per vedere la faccia di Rang quando più tardi gli avrebbero detto che doveva seguirli alla centrale di polizia, si sarebbe ritrovato senza i suoi mille avvocati riccamente pagati senza sapere cosa fare, chiedendosi chi fosse la mente perversa che doveva averlo incastrato. Avrebbe incolpato Nikki e Emeric, non poteva sapere chi c’era dietro davvero.
Era un peccato, davvero un peccato perdersi tutto questo, ma una bella fetta dell’istituto si sarebbe ritrovato tra appena cinque minuti a fare terapia specifica, lei ad esempio sarebbe stata chiusa insieme a Jeh nella stanza nera. La Strins quel giorno era libera, non poteva proprio scegliere un giorno meno adatto per tornare all’attacco. Non sarebbero rimasti insieme agli altri ad aspettare notizie in trepidante attesa, avrebbero sofferto in silenzio da un’altra parte.
Quel giorno la Strins era di ottimo umore se n’erano già accorti durante terapia non specifica quel pomeriggio, ma ora era praticamente raggiante, chiaramente doveva aver ricevuto una buona notizia, non poteva immaginare che qualcosa stava per sconvolgere il suo equilibrio. Si aggiustò la bombetta sulla testa contornata da una striscia di organza e li fece sedere davanti alla sua scrivania. Per qualche minuto Kell si girò i pollici con lo sguardo basso, sfidandosi a non guardare Jeh, ascoltò la professoressa parlare dei loro colossali miglioramenti, degli spostamenti che facevano all’interno della stanza nera senza sapere dove andare, cercandosi a vicenda. Kell era stufa di sentirla parlare, per la prima volta voleva davvero chiudersi nella stanza nera, per la prima volta il fatto che fosse così profondamente spaventosa e scura non sembrava avere importanza.
Ora sentiva il pavimento freddo sotto la guancia sinistra, era stesa da qualche minuto, era stufa di stare ferma. Kell si sentì muovere quasi fuori dal suo corpo, si trascinò pigramente verso l’angolo di Jeh, incerta e tremante ma pur sempre in grado di muoversi da sola, non riusciva proprio a trovarlo, si sentiva confusa, afferrò con la mano il suo porta pillole, lo strinse tra le dita.
Poi sentì chiaramente una mano su un braccio, Jeh era proprio davanti a lei, sentiva il suo respiro sul viso: «Riesco a muovermi.» Gli disse Kell sorridendo al buio.
In qualche modo che Kell non si spiegava seppe che anche Jeh sorrise al buio di rimando: «Non ho preso la pasticca Kell.»
«Cosa?» Prima di poter esprimere la propria gioia o costernazione si rese conto che l’aveva abbracciata, ricambiò stringendogli con forza le spalle: «Sapevamo che sarebbe successo, no?» Cercava di sembrare rassicurante e forse questa volta lo era davvero.
C’era una stranissima atmosfera quel giorno, si sentivano entrambi spaesati; qualcosa oltre che il loro piano per incastrare l’assassino si era ripiegato su se stesso, quel qualcosa era l’idea che dal buio non ci si potesse difendere.
Kell si spiegava razionalmente i fatti, era stato graduale, lo sentiva sotto la pelle ma al tempo stesso solo in quel momento aveva avuto il coraggio di rendersene conto davvero.
Si sentiva stupida, ma anche felice, avevano fregato la Strins ma al tempo stesso erano riusciti a sbloccarsi a vicenda, la stavano superando insieme.
Così, quando la Strins comunicò loro direttamente da dietro la porta che doveva scendere sotto per delle questioni scolastiche oltre a gioire si erano anche resi conto che rimanere nella stanza nera senza supervisione era tutt’altro che spaventoso.
Sentì la porta sbattere, avvertì palpabilmente lo stato d’ansia con cui la Strins doveva averla chiusa. 
Chiuse gli occhi e sorrise: «Jeh, è cominciata, sta scendendo per Rang, è chiaro.» «Lo so.» Rispose Jeh, era attaccato con la schiena alla parete e la manteneva vicina tenendola agganciata con un braccio.
«Dimenticherà di averci chiusi qui dentro.» 
Kell rise sentendogli dire quelle parole: «Qualcosa mi dice che  eventualmente non ne moriremo.» Jeh annuì: «Hai ragione, sta succedendo davvero eh?»
«Cosa? Rang che viene arrestato o noi due che diventiamo persone normali?» 
Jeh rise sentendo quelle parole, poggiò la testa sulla sua spalla continuando a ridere: «Io non sarò mai una persona normale.»
«Non fisicamente ma…» «Niente ma, non sarò mai normale finché io non mi sentirò normale e so per certo che questo non accadrà mai.»
Un buon modo per far arrabbiare Jeh, contestare la sua verità.
Staccò la testa dalla sua spalla, a Kell vennero i brividi, inghiottì la saliva, infilò le unghia tra l’incavato di due mattonelle, freddo tra le dita, forse aveva voglia di farlo arrabbiare tutto sommato: «Vedere te stesso così non ti impedirà di essere normale, ti impedirà solo di accettarlo.»
Jeh si lasciò sfuggire una specie di suono strozzato, come una risata soffocata, tutt’attorno silenzio e buio: «E’ per questo che le persone mi guardano Kell, è l’unico motivo e non riuscirò mai a mentirmi illudendomi di credere il contrario.»
Avrebbe dovuto sentirsi spaventata all’idea che lui si stesse arrabbiando ma non ci riusciva in alcun modo era un discorso che voleva affrontare, sentiva che avrebbero dovuto parlarne da settimane, probabilmente era la prima cosa che gli avrebbe detto sentendolo ripetere quella cantilena se fosse stata un’altra persona.
«Credi davvero che sia per questo che Alice non riesce a dimenticarti, per questo che ti ha importunato e dopo mesi e mesi ti importuna ancora? Perché hai una cicatrice?»
«Sì, le persone hanno il gusto del macabro.»
Fù Kell a ridere in quel momento, appoggiandosi a lui senza venire respinta. 
«Ti sbagli Jeh, è molto più semplice.»
«E allora spiegami, sembra proprio che tu abbia tutte le risposte.»
Kell sospirò, gli passò una mano dietro il collo, sulla pelle, controllando che il segno della catenina fosse ormai sparito al tatto, sì, era sparito, e così si decise a parlare: «Le persone non ti fissano perché hai una cicatrice sulla faccia Jeh, se fosse così non avrebbero neanche il coraggio di guardarti. Le persone ti fissano perché sei stato sfigurato eppure sei bellissimo lo stesso, non lo dico in senso interiore no, sto dicendo esteriormente, fisicamente, tu sei bellissimo, ammetterlo significa essere oggettivi, è destabilizzante e questo urta le persone in senso positivo, le scuote. Con uno sguardo riesci a deviarle, le sconvolgi perché non riescono a vedere il male anche se ce l’hai sulla faccia, tu non riesci a essere brutto, non lo sei, non lo sarai mai, è questa la verità ed è per questo che le persone ti guardano.»
Sentì Jeh trattenere il fiato. 
Poi lo sentì riprendere a respirare. 
Non poteva essere d’accordo, in alcun modo, ma lo scopo di Kell non era in alcun modo farsi dare ragione.
Lo sentì appoggiarsi tacitamente di nuovo alla sua spalla, questa volta rimase a lungo così, chissà che stava pensando, quali domande si stava ponendo o quali risposte si stesse dando, Kell si sentiva fortunata, forse per la prima volta dopo averlo visto dopo dieci anni nella stanza affianco.
«Nessuno mi aveva mai detto una cosa del genere e non credo che nessun altro si azzarderà mai a provarci.»
«Sì, è probabile.»
Jeh ridacchiò, era strano, non si aspettava una reazione così contenuta, credeva che si sarebbe arrabbiato a causa dell’assurdità delle sue parole, invece apparentemente no.
«Non l’ho mai detto a nessuno…» Cominciò Jeh schiarendosi la voce: «Ma c’è un motivo se odio tanto Alice.»
«Perché ti piaceva?» 
A quel punto Jeh strusciò la faccia sulla sua spalla mentre Kell esausta di stare in tensione a quel contatto si abbandonò mollemente contro il muro e contro Jeh.
«Era l’unica persona che aveva il coraggio di venirmi a parlare, l’unica persona che potesse suscitare in me interesse, la Strins pretendeva che io le dessi corda, mentre Alice mi tirava verso di lei scostando chiunque provasse anche solo a parlarmi, la odiavo, mi disgustava perché sapevo che era solo perché… lo sai perché, e al tempo stesso mi odiavo perché stupidamente ero caduto nella sua rete, odiavo lei e odiavo me.»
«Che strano modo di amare che hai Jesse Larey.» 
Rise, e sul quel pavimento freddo ci fu un attimo di calore corporeo, qualche minuto, fino a quando Kell non parlò di nuovo: «Posso farti una domanda Jeh?»
«Sì che puoi.» 
Della Strins ancora nessun segno di vita, con quello con cui stava combattendo sotto e quello che stava necessariamente apprendendo la cosa non stupì nessuno dei due.
Si sentiva tranquilla, il muro su cui era appoggiata ora era tiepido come Jeh, gli aveva detto la sua verità, lui non l’aveva contestata, aveva ammesso qualcosa, si erano ascoltati a vicenda, era necessario continuare.
«Tuo padre ha ucciso tua madre, ma…» «Perché questo?»
Questo Kell capì immediatamente del fatto che si stesse riferendo alla cicatrice, al fatto che l’avesse sfigurato. 
Jeh emise un suono a metà tra una risata e un sospiro: «Lui la picchiava, questo lo sai, ma non sai che mia madre lo tradiva. Me l’ha detto mia nonna un paio d’anni fa, l’ha uccisa per questo, lei minacciava di andarsene e ovviamente di portarmi via con lei. Quello che mi hanno detto gli psicologi e quello che io stesso ho capito è che in realtà non avesse mai pensato di uccidermi. 
Ma non ero necessario, ero come mia madre, ero un traditore, ero un suo prolungamento e anche se non meritavo la morte, avevo… avevo esattamente i suoi occhi e meritavo di spezzarmi in due, meritavo di essere irreparabile. Lei aveva gli occhi grigi, esattamente come ce li avevo io.»
«Ne hai ancora uno e un giorno avrai anche l’altro proprio come hai sempre voluto.»
Jeh la abbracciò strettamente, lasciandosi sfuggire un altro suono strozzato dalla bocca, tremore, un singhiozzo soffocato, un sorriso sul bordo del cotone della sua maglia. 
«Non devi più torturarti Jeh, promettimi che smetterai di farlo, non intendo accettarlo ancora, ci sono io adesso, e io ti ho visto ricordi? Ti vedrò sempre, me lo prometti?»
Jeh smise di tremare dell’istante in cui sentì le sue parole.
«Sì, te lo prometto.»


Quando glielo dissero Kell neanche riuscì a crederci, lei e Jeh entrarono nella stanza e tutte le bocche presenti sorrisero dalla contentezza, i loro occhi parlavano, Rang era stato arrestato.
Era quasi assurdo ritrovarsi davvero a parlarne, a raccontarsi a vicenda dettagli sfuggiti all’altro sul momento in cui avevano visto Rang essere portato via.
I suoi occhi, il modo in cui teneva la testa china, proprio come uno di loro… proprio come fanno i colpevoli, avevano detto. 
Era stato assolutamente impagabile e sebbene Kell non avesse vissuto quella scena in prima persona le era impossibile evitare di visualizzare con gli occhi i colori di quella scena.
Cecely l’aveva guardata in modo strano dopo un paio di minuti aver dato la notizia, l’aveva presa in disparte mentre la confusione imperversava nella stanza e gli altri si scambiavano pareri e racconti sull’accaduto.
«Stai bene Kell? E’ tutto a posto?» Kell la scrutò interrogativa, vide Jeh di sottecchi scoccarle un’occhiata indagatrice, Cecely aveva parlato più con l’aria di chi ti stai chiedendo se stai nascondendo qualcosa.
«Sì, certo Cely, non sei felice?» Guardò Emeric in mezzo al gruppo, raggiante nella sua comune felpa azzurra, Kell non aveva alcun dubbio su cosa dirle.
«Certo, è ovvio che sono felice, se non fosse che ho sentito Emeric bisbigliare all’orecchio di Nikki: “hai visto? Tutto secondo i nostri piani.”»
A Kell mancò il pavimento da sotto i piedi, prepotentemente, tanto che fu’ costretta a tastare il letto con le mani per rendersi conto di avercelo davvero vicino, si sedette cercando di trovare una soluzione nel suo cervello: «Avrai capito male, Cecely sicuramente…» «No, tutt’altro, ho capito perfettamente, tu mi nascondi qualcosa è vero?»
«No, no che non è vero, che stai dicendo Cecely, non ti nascondo proprio niente, avrai semplicemente capito male.»
«Ti sei agitata, ho detto questa cosa e stavi quasi per svenire…» Le bisbigliò Cecely all’orecchio: «Credi che io sia stupida? Lo so che non permetteresti che…» «Hey Cely, che sta succedendo?» Era Jeh, con un cipiglio preoccupato sulle sopracciglia nere.
«Kell è distrutta da terapia credimi, qualunque cosa ti frulli per la testa farai meglio a calmarti, le cose cominciano ad andare bene finalmente, controllati Cecely.» Sentendosi bacchettare in quel modo dall’amico Cecely si calmò, lo guardò con tanto d’occhi, lanciò uno sguardo a Victor e agli altri ancora intenti a discutere animatamente degli sviluppi (tutt’atro che inaspettati) della vicenda.
Per un attimo Kell credette che Cecely avrebbe cominciato a urlare, ma non lo fece, abbassò lo sguardo sul copriletto e sussurrò un: “okay” stentato.
Merito di Jeh, certe volte Kell aveva avuto l’impressione che la sua piccola amica non pensasse che Jeh fosse in grado di mentire.
Lui la aiutò ad alzarsi, lasciando Cecely ai suoi dubbi, ora stesa sul letto.
«Ma che aveva Cecely?»
«Ansia credo.»
«Già, deve darsi una bella calmata.» Jeh lasciò la presa dal suo braccio, lei sorrise, stranamente sentì una sensazione pacifica, pace con se stessa e con il prossimo.
Era in mezzo agli altri, gli altri gridavano, gioivano, ridevano, avevano ottenuto un grande risultato, che non avrebbero mai immaginato di poter ottenere realmente. Avevano incastrato Rang, l’avevano visto cadere per la prima volta, l’avrebbero fatto cadere ancora con un po’ di fortuna.
I sospetti di Cecely sarebbero stati sedati, sentiva profondamente di poter controllare la situazione.
Jeh era la suo fianco, ogni tanto le sorrideva con gli occhi o con la bocca, non si sentiva in colpa.
Stava mentendo a quasi tutti i presenti, stava mentendo persino a Jeh, l’unica persona a cui non stava mentendo in quella stanza era Emeric, e Emeric era la persona di cui si fidava di meno dopo Nikki. 
Sospirò, represse un colpo di tosse, sorrise.
No, non si sentiva in colpa.
Minimanete.
E questo la spaventava.

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** 20. Ingiustizia ***


- minuscolo spazo autrice -
sconcertanti rivelazioni e colpi di scena in questo capitolo 
*musichetta da televendita televisiva*
novità soprattutto sul fronte Kell e Jeh, preparatevi psicologicamente
e sarei super felice di sapere cosa ne pensate xoxo 







20. Ingiustizia 


Era in piedi, appoggiata al suo albero preferito del giardino, guardava Emeric e Nikki. Rientravano perfettamente nel suo campo visivo ma erano a distanza; senza qualcuno vicino che le tenesse il braccio era difficile per lei non far accelerare il battito cardiaco, soprattutto se i suoi due interlocutori si imbeccavano nel modo in cui stavano facendo.
«E’ tutta colpa tua.» Sussurrò Emeric guardano la ragazza disgustato: «Se non fosse stato per te niente di tutto questo sarebbe successo…»
«Tante storie perché ho detto che la tua preziosa Catherine marcirà sicuramente all’Inferno, davvero Em? Sta tranquillo con un po’ di fortuna alla fine la raggiungerai anche tu.»
«Sei tu l’unica che merita di marcirci, e lo sai benissimo razza di subdola piccola…» «Ragazzi.» Lo frenò Kell senza servirsi di altri mezzi oltre la propria voce: «Non è il momento di litigare per queste scemenze.»
«Ti sembrano scemenze Kell?» Emeric la guardò contrito.
«A me sembra che tutto stia andando secondo i piani, non dovremmo più incontrarci in segreto come dei ricercati, qualcuno potrebbe capire che c’è qualcosa che non va.» Sussurrò a Nikki di rimando rimboccandosi una ciocca di capelli rossi tinti dietro l’orecchio sinistro.
«Voglio solamente sapere se siamo d’accordo sulla versione da dare se eventualmente le cose dovessero rovesciarsi e… andare male.»
«Certo.» Disse Nikki sorridendo: «La verità, Emeric ha spinto Catherine di sotto.»
«Perfetto.» Annuì Kell, si guardò le scarpe, di pelle, nere, in mezzo all’erba verde smeraldo, si sentiva in imbarazzo: «Allora siamo d’accordo.»
Girò sui tacchi, stava già camminando, si era già appoggiata a un altro albero per darsi sostegno ma non era completamente assorta, sentì Nikki pronunciare distintamente le parole: «Sta tranquillo,  a me toccherà lo stesso, tu e quella strega non sarete gli unici a bruciare all’inferno.» Kell sentì Emeric ridere, non capiva il loro rapporto, ogni giorno davanti ai suoi occhi era sempre più assurdo, più strano, sospetto.
E poi sentì le parole di risposta del ragazzo: «Mi prenderei la colpa al posto tuo se le cose dovessero andare male solo perché la colpa peggiore è la mia, non ho capito subito che razza di persona sei…»
Si era allontanata, ma non abbastanza da non distinguere le parole del ragazzo. 
A Kell si bloccarono le ginocchia.
Pensò che probabilmente non avrebbe più mosso un altro passo.
Rimase ferma, immobile, in mezzo al prato.
Si sentì aprire bocca, dire una parola, ma nessuno sentirla.
Presa da uno slancio di forza di volontà riuscì lentamente a girarsi verso i ragazzi:
«E’ stata Nikki?»
Vide Nikki sorridere: «Tu rispetterai il volere di Emeric.»
Il ragazzo abbassò lo sguardo al prato: «Lo farà, lo faremo tutti, vero?»


L’aula di terapia di esposizione di Cecely e Victor era identica alla loro; la professoressa Dorles li osservava guardinga annotando un paio di cose su un taccuino. 
Stavano aspettando tutti e quattro che il resto della classe finisse l’esercizio, mantenere il contatto fisico con un compagno per più di venti minuti; stranamente Cecely e Victor avevano appena battuto l’ultimo record, si sorridevano tranquillamente, come se la cosa in se fosse perfettamente normale.
Forse era proprio quello il trucco, si disse Kell, fingere che fosse normale.
«Sembri assorta.» Jeh si piegò leggermente in avanti. 
Lo scrutò smettendo di guardare due compagne di classe intente a tenersi le mani: «Lo sono.»
«Novità?»
Lo osservò, guardando negli occhi la scelta che aveva preso e che non aveva alcuna intenzione di spezzare. 
Scosse la testa silenziosamente, sorrise, tornò a guardare le due ragazze.
Forse Jeh stava per dire altro, Victor lo interruppe in ogni caso: «Ho proprio voglia di smettere di pensare a queste cose per un po’.» Vide Cecely aggrottare le sopracciglia a quelle parole; si stava aggiustando le stringe degli stivali di pelle, persino quel momento era familiare nella sua piccola vastità.
«Alle fobie o a tu sai cosa.»
«Tu sai cosa; dimenticare le fobie non ha molto senso a questo punto.» Il ragazzo con i capelli biondi porse una mano all’amica dalla parte del palmo, Cecely non sembrò stupita, la prese con calma, nient’affatto tremante, nient’affatto schiacciata da quel gesto.
Era qualcosa che non provava con Jeh, solitamente era impossibile che almeno all’inizio di ogni momento non cominciassero a tremargli le mani, la calma non era un concetto reale nella sua realtà, c’era la calma tempestosa ma quella non è autentica…
La vera calma la trovava nel secondo piano, in quello nascosto per il bene altrui, nella verità che aveva scoperto.
Emeric amava Catherine, non avrebbe mai ucciso la persona che amava ma Nikki, Nikki aveva ucciso per vendetta, dolore, gelosia, per ferire e lei la stava coprendo perché la chiusura dell’istituto era un fine superiore e… Jeh alzò gli occhi al cielo, a una battuta di Victor che lei non aveva sentito, sorrise anche lei; non si sentiva ne tremante ne in colpa, si sentiva nel giusto, si sentiva di proteggere, Kell sorrise abbassando la testa.
Si stava cacciando in qualcosa più grande di lei ma aveva quella strana sensazione addosso, la sensazione insinuava nella sua mente il dubbio che sapendo che il colpevole non era Rang gli altri avrebbero voluto far pagare il vero colpevole, Cecely per prima tanto attaccata all’idea moralmente giusta che l’aveva convinta ad unirsi a loro.
Emeric meritava di rifarsi una vita autonomamente combattendo da solo contro l’incubo che doveva essere Nikki. 
Quanto a Nikki, viveva comunque in un istituto psichiatrico e Kell le aveva letto negli occhi quanto l’idea di fare del male a qualcun altro fosse completamente distante dalla sua mente visto il male che si era procurata; Nikki stessa sentiva di non stare bene mentalmente parlando e questo era chiaro a tutti.
Forse cercava solo di giustificarsi.
Forse le sue azioni erano talmente ingiustificabili che l’unica cosa che poteva fare era cercare giustificazioni.
Quando uscirono si sentì tirare via da Jeh, stava andando a sbattere contro la porta, era talmente presa dai suoi pensieri che si stava addirittura dimenticando di essere insieme alle persone a cui stava nascondendo tutto. 
I suoi amici, gli unici amici che avesse mai avuto.
Kell non si comprendeva, non fino in fondo, ma ormai, si ripeté per la trentesima volta si era spinta troppo oltre e il bene superiore lo vedeva ancora e anche molto nitidamente, e forse era quello il lato peggiore, che il fatto di mentire agli altri, sapere di doverlo fare, rendersi conto della verità: non importava.
L’unica cosa importante era incastrare il vero colpevole di tutto, scosse la testa cercando di non pensare alle altre cose che in quel momento turbavano la sua mente.
«Kellan? Hall, stai dormendo a occhi aperti?» La predica della professoressa Soan la costrinse a tornare alla realtà, si ritrovò a guardare scocciata il suo stesso quaderno di matematica, alzò lo sguardo verso la professoressa: «Mi scusi.» Borbottò.
Da entrambi i lati Cecely e Jeh si girarono di sottecchi a guardarla interrogativi.
«Che ne dici di venire alla lavagna?» 
Mentre si alzava in piedi sentì le ginocchia tremare sensibilmente, come la sua mano mentre premeva il pennarello sulla lavagna bianca, sporadicamente fece qualche segno più storto del dovuto, ma tutto sommato se la cavò bene.
Quando tornò a posto fece un respiro profondo, prese la mano che Jeh le porgeva: «Tutto bene.» Disse.
«Lo vedo.» Sussurrò Jeh sorridendo.
Stava meglio, se stava meglio era soprattutto merito suo, gli sorrise a sua volta.
Jeh aveva scandito due tempi della sua vita.


Compose il numero della Urlink, chiusa in bagno a chiave, erano circa le quattro e mezzo di notte, nel pomeriggio erano corse voci all’interno del Quattrocentoventisette, voci non esattamente propizie.
Anluan e Itsuko erano arrivati correndo al loro tavolo, dicendo loro di aver parlato con genitori che con un inequivocabile chiarezza avevano loro comunicato che Rang aveva accusato Nikki e Emeric di aver mentito e non solo, li aveva anche accusati dell’omicidio di Catherine, niente di strano Kell si aspettava che avrebbe cercato di scolpevolizzarsi, come biasimarlo, non era direttamente il colpevole.
Ma aveva bisogno di certezze, per se stessa e per gli altri così sentire la voce della Urlik tentare di rassicurarla era tutto ciò di cui avesse bisogno in quel momento.
«Kellan?»
«Sì sono io.»
«Perché hai chiamato?»
«Per informarmi di Rang… si dice che abbia detto che sono stati Nikki e Emeric a uccidere Catherine.»
«E’ vero, l’ha fatto, niente di nuovo, insomma… c’era da aspettarselo, ovviamente entrambi i ragazzi verranno interrogati nuovamente e sta tranquilla, se non nascondono niente non avranno da temere, la loro storia regge.»
«Ha anche dei punti bui.»
«Ne ha, ma di rado nelle verità giudiziarie più semplici non restano punti oscuri.»
«Molto rassicurante.»
«Kellan… se nascondono qualcosa, qualsiasi cosa che non li porti a essere incriminati allora possono tenersela per se, per noi non è necessario sapere ogni cosa, i nostri criminologi troveranno da soli ciò che deve essere trovato, mi segui?»
«Ti seguo.»
«Non è affar nostro cos’è accaduto tra Nikki e Emeric se non c’entra con l’omicidio, è chiaro?»
«Chiaro.»
Però con l’omicidio centrava eccome, Kell riattaccò, si alzò in piedi, afferrò la maniglia della porta del bagno, fredda esattamente come quando due minuti prima l’aveva abbassata per entrare.
Era il momento di tirare le fila, si disse mentre metteva in ordine i libri da portare il giorno dopo a lezione, era la resa dei conti, sarebbero dovuti quadrare, a farli quadrare doveva essere anche lei o soprattutto lei a seconda di come volevano vedere i fatti gli altri.
Si infilò nel letto, il lenzuolo era freddo, non c’era Jeh, probabilmente non ci sarebbe più stato; respinse quell’idea come si respinge un insetto che ci si è fatto troppo vicino. Non poteva realmente aver pensato che sarebbe stato facile convincerlo a fidarsi di lei, buttò il cuscino a terra e si abbandonò mollemente sul materasso rigido, Jeh preferiva dormire senza cuscino, si mise a pancia in giù, per la maggiore a Jeh piaceva dormire a pancia in giù, si sentiva stupida, si sentiva come una ragazzina, una bambina, con un ossessione immotivata per qualcuno.
Ma la sua per quanto ossessiva non era semplicemente un ossessione; non lo era mai stata, probabilmente neanche in principio.
Non aveva sonno, mentre lui ora dormiva, era felice che dormisse, purché Jeh fosse felice stava macchinando un folle piano vendicativo; l’unica cosa che avesse senso fare era cercare di renderlo felice. 
Raccolse i cuscino dal pavimento e se lo mise sopra la testa, lei l’aveva visto subito, fin dall’inizio, con la testa china, lo sguardo perso nel vuoto, le braccia bianche, lunghe per la sua età pendere come steli di un fiore e gli occhi, entrambi grigi che sembravano volerti inchiodare all’asfalto di una strada.
Non era cambiato quasi niente pensò Kell, soltanto una cosa, e per lei non aveva mai avuto grande importanza.
Invece le cose tra loro erano cambiate, in meglio e non riusciva a descrivere come fosse felice di poterlo abbracciare, toccare, guardare, senza sentirsi in imbarazzo, almeno non del tutto, ma ora sapeva, ora lo sentiva con una rassegnazione e una consapevolezza nuovi.
Lei aveva visto lui, dal primo istante, in modo lampante, ovvio, totalizzante, e non aveva più visto nessuno dopo di lui. Era forse triste ammetterlo ma per tutti questi anni non aveva fatto altro che cercare negli occhi degli altri quella stessa cupezza rassegnata di chi sta aspettando. 
Magari me, magari…
Ma lui era rimasto com’era, migliorando, sorridendo, ma non l’aveva mai vista, e non l’avrebbe mai vista dopo; Kell conficcò un paio di dita nel materasso; tutto quello che aveva fatto l’aveva fatto per lui e lui non l’avrebbe mai ricambiata perché Jeh non era fatto per entrare in quei rapporti con le persone, spinse le dita un po’ più a fondo nel materasso, era quella la verità, perché scappare.
Poteva amare ciò che c’era, ed era poco, ed era vano, ed era niente forse, ma era pur sempre qualcosa e a lei non importava avere di più se l’alternativa era avere niente, come non importava a lui.


«E quindi è così.»
Cecely ora bisbigliava: «Sì.» Salirono una rampa di scale quasi correndo, si fermarono verso la terza quasi piegate in due dallo sforzo: «La Patricks…» Kell scosse la testa ripetendosi mentalmente ciò che la sua amica le aveva detto un paio di minuti prima: «Ammette di aver mentito.»
«Era ovvio Kell, era assolutamente ovvio.»
Kell si aggrappò al corrimano di legno, fresco e al tempo stesso già caldo a contatto con la sua pelle: «Ciò porterà a delle conseguenze, conseguenze gravi.»
«Cioè?» Ripresero a salire le scale, ormai col fiatone.
«Per la Patricks ammettere di non aver visto Nikki da nessuna parte… significa ammettere di aver mentito alla polizia per una ragione.»
Sul volto di Cecely si accese come una specie di lampadina: «Sì, è quello che mi ha detto mia madre: ha dichiarato che Rang l’ha convinta a dire che Nikki era sotto con Emeric perché a suo dire avrebbe creato delle sgradevoli pubblicità al Quattrocentoventisette e un’esposizione mediatica da cui voleva scappare fin dal principio, ti ricordi no?» Si fermò, la prese per un braccio, lasciarono passare un paio di persone; Kell annuì a se stessa: «Nikki, la ragazza amica stretta di Catherine…» Cecely assentì: «La ragazza che sul suo fascicolo ha evidenziati i principi di isteria e instabilità mentale, l’aveva coperta ma ora smentisce tutto, è chiaro, ora conviene a Rang ora vogliono accusarla.»
«Perfetto.» Kell ricominciò a camminare: «Mi aspetto un monologo della Strins dei suoi.»
Cecely sospirò: «E io della Dorles.»
Attraversarono il corridoio in fretta, Cecely in ritardo quanto lei la superò fiondandosi nella sua classe di terapia di esposizione e Kell fece lo stesso, limitandosi ad abbassare la testa e cercare di non guardare Jeh.
«Bene bene bene.» Esordì la Strins vedendola sedersi sulla sua sedia nera proprio di fianco a lei.
«Ma chi si rivede, la maggiore attentatrice alla sicurezza di questo posto stregato, dico bene?»
Qualcuno rise; gli occhi caddero inevitabilmente su Jeh, la stava guardando anche lui, per due secondi sentì l’idea dell’esistenza della Strins scivolarle completamente addosso: «Può essere.» Rispose forse con eccessiva sicurezza.
La Strins rise, la bombetta nera le ricadde sopra la testa arrivando a sfiorare gli occhiali, doveva essersi rasata i capelli da poco, erano ancora più corti del solito.
«Ma a chi vogliono darla a bere…» 
Sorprendentemente, Alice, supportata da una Bernadette intenta a applaudirle mentalmente davanti al naso aveva parlato.
«Cosa vuoi dire cara?» La Strins si vece docile.
«Non può essere stato Rang, è ridicolo, è stata Nikki, penso di averlo sempre saputo, è chiaro che lei è l’unica che aveva delle  buone ragioni per volerla morta.»
«E cioè?» Sussurrò Kell esitante: «Dubito che possano esistere “buone ragioni” per uccidere una persona.»
Alice rispose con un alzata di spalle e poi con una frecciatina spudorata disse: «Emeric non la voleva e lei voleva Emeric,   sappiamo perfettamente come gli amori non corrisposti per lungo tempo ignorati distruggano rapporti, persone e vite. Nikki è una pazza, qualcuno avrebbe dovuto aspettarselo.»
Alice lanciò a Kell uno sguardo eloquente e poi trafisse Jeh con un sorriso ironico, qualcuno nel cerchio di sedie rise di loro.
«Attenta a ciò che dici Alice.» La Strins sembrò gonfiarsi come un pavone per la propria acutezza, anche un idiota si sarebbe reso conto che Alice stava velatamente accennando a Kell e Jeh e lei stessa.
«Potresti essere facilmente incriminata in un futuro non troppo lontano.»
«Non ne dubito.»
Jeh teneva lo sguardo basso.
La travolse un ondata di disgusto in tutto il corpo.
Si sentiva la testa pesantissima, il peso dell’oppressione era difficile da contenere.
Ho bisogno di parlargli riuscì a pensare.
«Nikki deve marcire in prigione.»
«O in riformatorio.»
Tutta la classe scoppiò in una fragorosa risata.
Kell non capì, non rise, non ci trovò assolutamente niente di divertente, sapeva che ora la situazione era più difficile che mai e si sentiva oppressa dall’idea che la verità fosse sempre stata così ovvia.


Nikki e i suoi capelli tinti, con tanto di leggera ricrescita castano scuro, troneggiavano in sala da pranzo, Emeric al suo fianco a braccia conserte la guardava con l’aria di chi sta guardando un condannato a morte farsi largo tra la folla.
«Tutto ciò mi sta danneggiando il cervello.» Jeh chiuse il libro di letteratura e la scosse per un braccio, intenzionato a farle smettere di guardare Emeric e Nikki.
«Torno subito.» Il braccio di Jeh ricadde sulle sue ginocchia, lo sentì lasciarsi sfuggire un sospiro contrito; si allontanò in fretta.
Forse era ora di rendersi conto per lei che doveva smettere di pensare tanto a Jeh, non ce n’era davvero motivo, significava solo farsi del male all’interno della sua incapacità di vederla davvero; si sedette insieme ai ragazzi, non voleva essere come Nikki, disperata, annullata dal suo stesso desiderio.
Chiuse gli occhi strizzandoli con forza: «Ti incrimineranno Nikki.» La ragazza con i capelli rossi annì: «Lo so.»
«E?» 
«E? Ho Emeric, potrei lasciargli prendersi la colpa fin da subito, già da domani, ma voglio dare una chance a voi due di incastrare Rang, è la cosa più giusta.» 
Forse no. 
Kell assentì: «Sai cosa dire e cosa fare, quando verranno a prenderti, non dire niente e aspetta il tuo avvocato, ne hai uno vero? I tuoi ne hanno…» «Naturalmente.» Nikki annuì: «Costato un patrimonio, vedrai, riuscirò a tirarmene fuori, me l’aspettavo.»
Kell sfregò le mani sul tavolo.
«Perfetto.» Si alzò in piedi, realizzando che Emeric non aveva detto una parola, lo guardò, i suoi occhi verde smeraldo lo scrutarono pensierosi: «Vieni Em? Io ho quasi finito di studiare e…» «Sì.» Era chiaro che non vedesse l’ora di uscire da quella situazione e dallo sguardo della colpevole.
Nikki si dileguò un minuto dopo: «Io vado da Sibille.» Disse.
Emeric la guardò: «Quante persone credano che sia stato io?»
Kell si alzò finalmente dalla sedia del tavolo: «Poche.»
«Non voglio salvarla, ma devo.»
«Non devi.» Kell scosse la testa: «Se vuoi farlo è perché non hai potuto salvare Catherine.»


Vederla mentre veniva portata via fu un duro colpo per Emeric, Kell non riusciva a spiegarsene il motivo, al suo posto sarebbe stata sollevata, la fonte di tutti i suoi problemi fuori dal raggio d’azione, poteva finalmente dire addio, almeno per un po’ alle conversazioni tanto odiate in cui doveva sottoscrivere la sua colpa, fino a credersi colpevole. Se avesse protetto Catherine, se avesse capito prima che lei non l’avrebbe mai tradito ne usato, se avesse guardato Nikki con occhi diffidenti, se non si fosse fidato.
«Lui si fida troppo delle persone.» Le disse Cecely mentre aiutava Jeh a mettere a posto dei fogli nell’aula di arte con quel suo modo sempre molto eloquente di dire il giusto senza dire troppo: «Persino di te, sei la persona di cui si fida di più tra noi, non dovrebbe fidarsi di te fino a questo punto.»
Kell annuì: «Concordo.» «Già.» Sussurrò Jeh, le lanciò un sorriso ironico: «E la cosa va a nostro vantaggio.»
«Come al solito.»
Cecely scosse la testa, i fogli erano in ordine, era ora di fare un salto in camera e cambiarsi per la lezione di educazione fisica. «Con Nikki indagata le carte in gioco cambiano.»
«Senti…» Disse Kell a Cecely: «Me l’aspettavo, per quanto possa sembrarti un discorso astruso sia io che Emeric avevamo già pensato che Rang potesse servirsi della testimonianza della Patricks, le ha fatto dire che Nikki era sotto quando non c’era, siamo andati a denunciare la cosa persino noi, se fossi stata il suo avvocato avrei usato la cosa a loro favore.»
«Lo è già.» Commentò Jeh: «Non c’è alcun dubbio su questo, è vero che la Patricks ha mentito su dove si trovasse Nikki, è vero che l’ha fatto per coprirla e coprire l’istituto da qualsiasi brutta pubblicità.»
Era stufa di parlarne, non si sentiva neanche più sotto accusa, spudoratamente osservava la situazione con calma.
Lo scrutò indagatrice e poi disse: «In ogni caso ciò che possiamo fare è attenerci al nostro ruolo e stare a guardare, sono più che certa che la parte della storia in cui muoviamo le fila è pressoché finita.»
«Non ci giurerei.» Cecely chiuse a chiave l’armadietto con i fogli la guardò come se non credesse a una sola parola.


Correre intorno alla scuola era estenuante, soprattutto sull’erba curata da giardinieri che lei mai aveva visto, cercò di riprendersi da un momento di incertezza, per un attimo aveva creduto che si sarebbe fermata, cercava di raggiungere Jeh e quasi ci era riuscita. Ma ad un tratto lui sentendola arrivare con il respiro affannoso di un animale stremato aveva deciso di aiutarla andando più lentamente.
«Se ti fermi tu mi fermo anch’io.»
Sentendo le sue parole Kell aveva sorriso.
La professoressa disse loro di continuare a camminare ma poterono riposarsi tranquillamente mentre gli altri se ne stavano a sgobbare sotto il sole.
«Prima o poi la primavera dovrà arrivare non ti pare?»
«Si beh, non è ancora finito marzo, dai tempo al tempo.»
Jeh alzò gli occhi al cielo, entrambi, quello vivo e quello morto, quello grigio e quello bianco mentre la cicatrice tesa dallo sforzo spariva sotto la maglietta, Kell osservò la linea del tessuto, schiacciato contro il petto di Jeh, era possibile distinguere un impercettibile increspatura e non poté evitare di guardare; tempo addietro si sarebbe trattenuta, vergognandosi, ma ora no.
L’erba era umida e soffice, sfiancati dalla fatica ma dalla ritrovata pace dalla fine della corsa si guardavano lanciando sguardi al suolo e al cielo.
Senza nessuna ragione plausibile o giustificabile Kell si spostò proprio davanti a lui, gli prese una mano e poi l’altra, camminare al contrario guardandolo non la disturbava.
Se rimase stupito non lo diede a vedere, non accennò neanche a staccarsi e non sembrava minimamente infastidito.
Le sue mani erano belle, bianche, lunghe, affusolate, senza imperfezioni, perfino le unghie non erano mangiucchiate, ne si vedevano pellicine, mentre camminava al contrario guardandolo ogni tanto in viso Kell le stringeva.
C’erano cose che non poteva avere se si comportava come faceva, le diceva sempre sua madre prima del Quattrocentoventisette, prima che tutto accadesse, era un avvertimento ancora valido. Quello che aveva davanti, Jeh, le sue mani che esitanti stringevano le sue e ciò che bramava più di quanto bramasse giustizia per la morte di Catherine e dell’istituto non poteva essere suo, per programma, ovviamente, giustamente, come se fosse stato possibile il contrario, come se Kell avesse mai pensato davvero di potersi comportare come le altre ragazze.
Ma Jeh non era come gli altri ragazzi, da nessun punto di vista, era normale che non lo fosse neanche lei normale, sebbene riuscisse a coglierne l’idea perversa ora sapeva di quanto si era illusa in passato, e cioè più o meno al cento per cento.
Non si può possedere ciò che non è possedibile.
Kell sorrise.
«Io mi ricordo di te.»
«Che cosa?» Alzò gli occhi verso di lui, il suo collo, come quello di un giovane cigno battagliero si tese.
«C’era una ragazzina, durante la ricreazione andava sotto un salice piangente, l’unico nel cortile della scuola, da sola, non l’ho mai vista con nessuno, mai vista rivolgere la parola a un essere vivente, mai vista muoversi davvero; non so perché non riuscivo a dirtelo.» Strinse le sue mani, Jeh le strinse con più foga, tirandola un po’ e avvicinandola leggermente a se: «Ma non ho dubbi sul fatto che non potresti che essere tu.»
Avrebbe voluto abbracciarlo, ne sentiva il bisogno fisico, si limitò a stingergli le mani, se l’avesse abbracciato forse sarebbe crollata.
«Ero io.» 
Era confusa, non era programmato, ne scritto, ne deciso, ne ovvio che lui avrebbe detto questo, lo guardò, scavando nei pozzi senza fondo dei suoi occhi, le sue labbra sorrisero.
«Sono io.»


Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** 21. Coraggio ***



- minuscolo spazio autrice -
in questo capitolo succederà qualcosa di molto bello e qualcosa di molto brutto
non voglio anticiparvi altro ma vorrei sapere il vostro parere riguardo questi avvenimenti eheh

 







21. Coraggio


Lui si ricorda di te, lui ti ha vista, come tu hai visto lui, non c’è alcuna differenza, è così; no, sta zitta, non pensarlo, perché devi sempre pensare, smettila, smettila, smettila, come puoi credere che sia possibile, come puoi solo pensare di approfittarti della debolezza altrui, non devi pensare, non pensare, taci.


A Kell girava la testa mentre metteva in ordine lo scrittoio, doveva andare a terapia dalla Strins, tra circa 4 minuti, se solo avesse avuto il coraggio di andare da Jeh dopo quello che lui le aveva detto, si sentiva smascherata, un po’ tradita, sentiva di traboccare di espressioni non consone.
Non sarebbe servito a niente comunque, non sarebbe mai riuscita a concludere con lui, meglio metterci una pietra sopra prima di rendersi conto di aver immaginato troppo.
Era immeritevole, aveva detto a Emeric che con un po’ di fortuna avrebbero potuto incastrare anche Nikki oltre che Rang, era immeritevole.
Troppe ombre, le ombre sono troppo cupe unite con le loro simili. Era immeritevole.
Gli stava mentendo, gli aveva sempre mentito sulle sue intenzioni e sui suoi sentimenti, fin dall’inizio aveva scelto di mettere da parte la verità e continuava a farlo conscia del fatto che non c’era altra via d’uscita se non smetterla.
Prese una felpa dal suo armadio e senza pensare minimamente all’accostamento del colori, se la infilò dalla testa, subito dopo uscì dalla porta, un minuto dopo non ricordava neanche com’era vestita, abbassare lo sguardo era cosa noiosa.
La Strins la accolse sorridente, Jeh fece il suo ingresso circa mezzo minuto dopo, sorridendole prima di sedersi e di ascoltare la psicologa cominciare a sproloquiare su sentimenti e reazioni.
Kell riuscì a non parlare per l’intera ora; la seduta si era concentrata su Bernadette e Michael ma a un certo punto qualche parola del ragazzo irritò la Strins che si alzò in piedi e cominciò a girare attorno al cerchio di sedie: «Ora che Nikki ha accusato Allord di aver commesso l’omicidio non possiamo fare altro che inchinarci all’idiozia di questa situazione ridicola, Nikki Mason marcirà in un riformatorio e poi in prigione per il resto della sua inutile vita.»
«Qualcuno potrebbe denunciarla.» Alice abbassò il tono di voce finendo la frase ma questo non bastò a evitare che la Strins la sentisse, saltasse in piedi e minacciasse di portarla dal vicepreside, probabilmente solo una scusa per chiudere la seduta con dieci minuti d’anticipo, proprio quello che ci voleva per Kell vista la situazione.
Appena la Strins fece segno di andare via prese Jeh per la manica del suo maglione verde e lo trascinò fuori dalla classe: «Devo parlare con la Urlik.»
Era d’accordo con lei, per questo si fiondarono subito in camera sua, prese il cellulare dal fondo del cassetto e alla svelta compose il numero.
«È tutto vero?»
La Urlik le rispose per prima cosa con un sospiro.
La sentì frugare in un paio di cassetti, attirò la sua attenzione un altra volta, mentre Jeh si sedeva di fianco a lei sul letto per ascoltare la conversazione.
«Cosa?» Quel tono forzato da finta tonta non le piaceva.
«Sai benissimo cosa.» 
«La ragazza ha accusato Emeric, sì, è vero se è questo che intendevi.»
«Era quello che intendevo, esatto, e ora?»
«E ora aspettiamo.»
«Non puoi dirci cosa sta succedendo, cosa si pensa?»
«Nessuno pensa che sia stato Emeric, se vuole confessare qualunque cosa è il momento giusto, gliela scuseranno.»
«Non deve confessare un bel niente.»
«E allora prega che la richiesta di Nikki non venga accolta ma non ci giurerei…» Ecco, stava arrivando alla verità: «Anche Rang ha indicato Emeric come testimone oculare e quindi, come minimo di persona informata dei fatti, e Nikki dice che è stato lui, è tutto molto confuso.»
«Ma le credono? Credono a Nikki?»
«Non lo so, non credo… stanno rileggendo tutte le testimonianze e tutte le deposizioni, è complesso non è una sola persona a decidere, devi avere pazienza Kellan.»
Pazienza, unica colpa, unica distrazione.
Riattaccò dopo un paio di minuti di chiarimenti superflui; Jeh la guardava interrogativo, con gli occhi stanchi: «Davvero.» Cominciò: «Credo che dovremmo rilassarci tutti, soprattutto tu.» Si stese sul suo letto, molto tranquillamente, facendole segno di venire a fianco a lui.
Solo in quel momento, guardandolo sotto quella luce frontale Kell notò le occhiaie di Jeh.
Appoggiò la testa al cuscino, coperto dal copriletto: «Non riesci a dormire?» Non avrebbe dovuto ma infilò una mano sotto il suo collo spingendolo verso la sua spalla, si appoggiò su di lei, alzò le spalle persino in quella posizione: «Oh? Pensi che dovrei?» Kell rise, sentiva i suoi capelli sulle labbra, se avesse voluto avrebbe potuto baciargli la testa.
Per un po’ rimasero così, a chiedersi cose a vicenda, aspettando lo scoccare dell’ora in cui sarebbero stati di nuovo chiusi nella stanza nera, anche se di certo senza paura.
Kell non riusciva a pensare a niente, eccetto al fatto che Jeh dormiva senza cuscino e se fosse stato per lui, se questo l’avesse convinto a venire da lei tutte le sere il suo l’avrebbe squarciato in due con un paio di forbici.
«Se non riesci a dormire perché non vieni da me?»
Jeh sorrise alzando lo sguardo, dovette abbassare di un po’ il mento per guardarlo negli occhi: «Mi stai chiedendo davvero perché non vengo mai a introdurmi in camera tua durante la notte?»
Kell aprì bocca per ribattere, forse l’aveva stretto troppo, o forse no vista la tranquillità del suo sorriso e della cicatrice incurvata leggermente a causa di una ruga d’espressione che adornava il suo sorriso.
La sua risposta oltre che dall’esaminazione della faccia di Jeh venne interrotta dal suono della campanella.
«Dobbiamo andare.» Disse Kell, dimenticò all’istante il resto della frase o magari di un eventuale risposta, perché Jeh la abbracciò schiacciandosi addosso a lei, ricoprendo il freddo da una coltre d’ombra, l’ombra che a lei piaceva tanto.
Staccarsi sarebbe stato un trauma, non sarebbe stata lei a separarsene, aspettò che trovasse lui la forza di alzarsi, a prenderle le braccia e tirarla su mentre brontolava che non aveva voglia di stendersi sul pavimento.
Anche Jeh era d’accordo, mentre salivano le scale lui le prese la mano, a Kell tremarono le sue, si sentì stupida, non significava niente, lui era fatto così, era affettuoso al contrario, era normalmente propenso a atti di dolcezza.
Non meritava neanche di pensare che certe cose fossero possibili, gli stava mentendo, un brivido le corse lungo la schiena, se Jeh avesse saputo delle sue bugie non le avrebbe neanche più rivolto la parola.
«Comunque dicevi davvero?» Le chiese seriamente arrivati davanti alla classe di terapia, si appoggiò al muro stiracchiandosi le braccia. 
Kell ne approfittò per scrocchiarsi le mani con cura anche per mascherare l’agitazione ovviamente.
«Riguardo il fatto di venire da te, magari io…»
«Certo che dicevo davvero.» Kell rise nervosamente.
«Okay, allora verrò.» Alzò le sopracciglia, allungò un braccio verso di lei, Kell lo prese e lo scosse, un po’ stremava, un po’ era esitante ma non importava.
La Strins aprì la porta.


La Strins li guardò di sottecchi: «Sono quasi di buon umore oggi.» Il che era tutto dire. «Vi suggerisco di non proferire verbo e filare silenziosamente nella stanza nera di vostra spontanea volontà.»
Kell e Jeh l’uno al fianco dell’altra filarono dentro, niente spinte, niente urla, niente momento in cui Jeh deve prendere una pillola per cercarla, niente panico, niente di niente.
Direttamente le loro schiene contro il muro, lo scatto della serratura chiusa, silenzio buio.
«Mi sento al sicuro.» Bisbigliò Kell, aveva lo sguardo stralunato, non poteva vederlo ma ridacchiò ugualmente sottovoce.
Come se fosse una cosa assolutamente normale Jeh appoggiò la testa sulle sue gambe rannicchiandosi un pochino, sbadigliò o almeno così a Kell parve di aver sentito.
«Perché ho l’impressione che questa storia stia per concludersi Jeh?»
«Quale storia?» Chiese lui senza muovere un muscolo.
«La stanza nera.»
Rise: «E’ finita da un pezzo, è finita da quando non ho più paura.»
«Sì, neanch’io.» Se sei con me.
Lasciò cadere la mano sinistra sul suo torace, respirò profondamente, sentì la leggera increspatura sotto i punti più profondi; Jeh sussultò lievemente.
«Cosa stai-» Scostò la sua mano con la sua spingendola verso il pavimento senza lasciarla.
«Non farlo… non voglio che tu capisca…» La sua voce era esitante.
«Che capisca cosa Jeh?»
«Quanto… quanto è lunga.»
La cicatrice.
Non le sembrò vero, c’erano cose che non poteva dirgli, cose che non gli avrebbe mai detto per proteggerlo o perché si sarebbe rifiutato di ascoltarle, ma la sua cicatrice non era una di queste.
«Lo so già.» Sussurrò, lo ammise come si ammette di aver rubato qualcosa di molto importate a qualcuno che ne necessita terribilmente.
Aveva la schiena contro il muro, dritta, Jeh con la testa sulle sue gambe, la sua mano spingeva quella di Kell a terra oltre il petto del ragazzo
Non ebbe alcun bisogno di divincolarsi dalla sua stretta; lasciò la sua mano, gliela passò per lo sterno, era magro, sentiva distintamente le costole sporgere, sentiva la cicatrice quasi come se fosse qualcosa di fisico, un entità a se, quello che li divideva come divideva il viso di Jeh.
Passata sopra le costole la sua mano si fermò, sotto quella più sporgente, l’ultima, Jeh sussultò e questa volta la sua reazione fu assolutamente comprensiva; saltò seduto e si voltò verso di lei, sbalordito, con gli occhi scioccati di chi non ha idea di come quando o perché.
«Come fai a saperlo.» Non era neanche una domanda, esigeva di sapere, forse era solo sbalordito, forse era arrabbiato, Kell non tolse la mano dal punto in cui la cicatrice finiva, palpabilmente, nonostante la maglietta era riuscita a percepire che quel punto lievemente circolare era proprio il punto in cui suo padre aveva deciso di affondare il coltello.
«L’ho sentita, quando ti abbraccio…»
Lì doveva essere davvero molto, molto brutta, non era rassicurante sapere che forse non l’avrebbe mai vista. 
Avrebbe dovuto esserlo? Cercò di illudersi che fosse quello che voleva.
Jeh si lasciò sfuggire un sospiro sconsolato: «N-non ci avevo mai pensato.» Kell rise leggermente: «Non credo che avresti dovuto preoccupartene.»
Probabilmente aveva pensato che poteva avergli infilato una mano sotto la maglia del pigiama mentre dormiva, Kell sorrise all’idea mentre Jeh le si abbandonava addosso più tranquillo, oppure che potesse aver guardato…
Se era sbagliato mentire a se stessa e dirsi che non aveva neanche mai pensato di fare alcuna delle due cose allora lei non aveva alcuna intenzione di farlo.
«Quindi lo sanno…»
«No.» Disse subito Kell, parlare a bassa voce le metteva ansia, più quanta non ne avesse già: «Cecely mi ha detto che non lo sa, forse non ci ha mai fatto caso e Victor, dubito fortemente che abbia mai desiderato di scoprirlo.»
Jeh soppresse una risata nell’incavo del suo collo, lo sentiva per metà sulla pelle: «Mentre tu si, tu devi sempre accorgerti di tutto.» «Riguardo te.» Aggiunse Kell.
«Devi sempre vedere tutto.» «Che riguarda te.» Aggiunse di nuovo Kell.
Nessuna risata, Jeh alzò la testa, sentì la guancia del ragazzo con l’occhio di vetro, che aveva dimenticato avesse un occhio di vetro premere contro la sua.
Aveva il cuore letteralmente in gola; lo sentiva rimbombare nelle orecchie, pulsare nelle vene, scuotersi nelle dita che tremavano percettibilmente; aveva paura che lui se ne accorgesse, al buio, che percepisse il rossore persistente sulle sue guance sempre pallide, quel calore così prepotente e impossibile da nascondere contro il quale c’era la sua pelle, fredda, quasi ghiacciata.
Era immobile, ferma, tremante, vulnerabile nel buio totale della stanza nera, forse avrebbe voluto vedere i suoi occhi, forse sarebbe stato peggio; lui si mosse, strinse le sue gambe verso di lei incurvandole leggermente, Kell reagì senza poter fare niente per fermarsi, assecondando i suoi movimenti, per stare più vicini, ancora più vicini.
Si accorse che la guancia che aveva sulla sua era quella senza cicatrice quando Jeh si staccò, si lasciò scivolare sul suo collo e poi come se quello che stesse facendo avesse una logica spostò l’altra guancia, quella ferita su l’altra di Kell, ancora più calda dell’altra che la sua aveva raffreddato.
Sentiva la cicatrice sulla sua pelle, sentiva di non sapere più esattamente cosa pensare, incerta se aggrapparsi a lui o no riuscì a tirare dentro un respiro profondo per riprendersi.
Era una specie di abbraccio più solido, con la sua guancia appoggiata sulla sua per sottolinearlo, non significava niente, era ridicolo si accorse mentre lo stava pensando, era ridicolo che non significasse niente, era ingiusto che non significasse niente.
Assolutamente assurdo che lei volesse fare qualcosa, in quell’esatto momento e non potesse farlo, per mancanza di coraggio, perché ci sarebbe stato un dopo, perché avrebbe portato a delle conseguenze, perché Jeh era per natura una persona affettuosa al contrario di come si potesse credere e quindi quello che stava facendo, abbracciandola fermamente tenendogli stretta la vita poteva essere semplicemente un abbraccio e non una disperata richiesta di aiuto.
Si domandò se aveva il coraggio, si rispose che ne aveva; si domandò cosa stesse pensando di fare dopo che si era detta che Jeh era troppo attaccato a se stesso per aiutare sentimenti senza speranza come i suoi; si domandò come sarebbe stato se non si fosse fatta tutte quelle domande.
Spostò la testa di lato, senza lasciarlo, senza staccare la guancia dalla sua, di lato al punto di sentire il suo naso, il suo respiro, l’aria uscire e entrare senza sosta.
Voleva mettersi a urlare, voleva che lui urlasse, di smetterla, di fermarsi, di rendersi conto di ciò che stava facendo, di quello che avrebbe comportato, di cosa avrebbe potuto perdere.
Era affannato, il respiro di Jeh, come se avesse paura, aveva gli occhi chiusi mentre Kell li aveva aperti, sentiva il suo naso, si spostò ancora, scivolando più in basso, tremava davvero, ora, tremava al punto da non capire se anche lui stesse tremando.
Sentiva sulla pelle uno spicchio della sua bocca; ed era male fisico, male interiore, celebrale, mentale, era doloroso, quella paura la stava squarciando in due, prepotentemente, chiaramente.
Ancora, si spostò ancora, senza mai smettere di toccarlo, sperando con tutta l’anima che avesse capito che stava cercando di chiedergli il permesso senza sillabarlo a voce.
Represse le lacrime con una brutalità non sua quando sentì sulle labbra il bordo delle labbra di Jeh.
Il suo respiro, il suo profumo, così simile al suo da sembrargli cristallizzato in un attimo di tempo le inondava il cervello.
Era impossibile che non avesse capito, impossibile che non si stesse rendendo conto, impossibile che quella non fosse una risposta alla sua richiesta di permesso.
Jeh aveva gli occhi chiusi, lo sentiva. Li chiuse anche lei.
Socchiuse le labbra, spostò leggermente la testa di lato e delicatamente, come se avesse avuto paura di fargli male, toccò le sue labbra con le sue, piano, tremando dalla testa ai piedi, accorgendosi sentendolo mentre gli si stringeva addosso che anche lui stava tremando. Lo baciò solo dopo, quando sentì reagire a quel lievissimo contatto, si aggrappò alla sua nuca, lo spinse verso la sua testa e solo allora lo sentì mentre affondava un bacio… o forse era lei ad averlo fatto, non lo sapeva.
Aveva il coraggio, questa volta si, ce l’aveva.
Aveva bisogna di aggrapparsi ad ogni dettaglio, ogni più piccola inceppatura, erano labbra nuove, carnose, esitanti, fresche ma al tempo stesso  martoriate, morbide, corpose, soffici ma al tempo stesso sensibilmente ferite, mordicchiate. Morse il labbro inferiore, si accorse di averlo fatto solo dopo averlo fatto, sentì la bocca di Jeh incurvarsi in un leggero sorriso, le sue mani accerchiarono il suo viso, sentiva le sue ciglia, lunghe, sulle sue guance.
Sentiva imbarazzanti e fragili scocchi ogni volta che si staccava e poi riprendeva a baciarlo oppure lui a baciare lei.
Stretta nel buio a lui, non le sembrava neanche di essere se stessa, ne in quel posto, ne in quel mondo.
Sentiva Jeh e basta, una delle sue mani lasciò la schiena del ragazzo, finì sulla sua guancia, sul suo occhio, sulla cicatrice, sul suo collo, e lui la stringeva di più e la baciava più a fondo, come se volesse dirgli che aveva il suo consenso e poteva toccarlo.
La porta della stanza nera scattò in avanti, senza che lei si accorgesse di niente o che Jeh riuscisse a fermarsi prima di lei la Strins era nella stanza nera.
Cacciò un urlo, solo a quel punto spalancò gli occhi e la vide accerchiata dalla luce, Jeh sconvolto, con le guance arrossate quanto le labbra spalancò la bocca sconvolto, scostandosi da lei come se fosse lei la Strins, come se lei l’avesse costretto.
La professoressa dal canto suo, ovviamente scoppiò in una fragorosa e derisoria risata: «Fantastico, avete trovato il coraggio di confessarvi il vostro amore l’un l’altro, davvero lodevole.» Annuì continuando a ridere rumorosamente, poi come se le avessero dato una botta in testa smise di ridere.
La Strins fece una faccia talmente brutta che Kell si ritrovò a non sapere dove guardare: «Siete rivoltanti.» Disse.
Prese Jeh per un braccio e lo sollevò da terra: «NON NELLA MIA AULA DA TERAPIA DI ESPOSIZIONE.» 
Se possibile Kell si sentì arrossire ancora più di prima, venne presa e spinta fuori dalla porta come Jeh se non peggio.
La Strins acquistò un colorito violaceo: «CHIARAMENTE SIETE BANDITI DA QUESTA ATTIVITÀ.»
Scoppiò a ridere di nuovo, Jeh la guardava a occhi sbarrati, impossibile coglierne le sfumature in quel momento.
«Avete superato la vostra fobia brillantemente.» Smise di ridere: «Lo scriverò nei vostri profili psicologici.»
Indicò di nuovo la porta, girò sui tacchi e raggiunse con un paio di falcate la sua scrivania.
Kell e Jeh si ritrovarono con la porta chiusa alle loro spalle.


Camminarono in silenzio fino alle scale, avrebbero dovuto scendere per incontrarsi con gli altri ma Kell voleva parlare prima di…
«Scusa.» Disse Jeh.
A Kell mancò il pavimento sotto i piedi: «Cosa…»
«Mi dispiace non avrei dovuto…»
Aprì la bocca per parlare, Kell ci provò davvero ma non uscì niente, poté solo ascoltarlo, guardarlo mentre sulle scale, lo sguardo basso, contrito, arrabbiato, deluso persino, scuoteva la testa. Il solito Jeh, terribilmente il solito Jeh interdetto e amareggiato di fronte a lei, freddo addirittura: «E’ stato un errore, un terribile errore, mi dispiace avrei dovuto rendermi conto subito di… ma non voglio lasciare le cose in sospeso.» Improvvisamente si accorse, era tutt’altro che freddo, era disperato, sconsolato, forse stava per piangere, Kell guardò l’occhio bianco, sì, c’era del sangue.
«Sarebbe la cosa più dannosa al mondo per te stare con una persona come me, tu meriti di meglio, meriti qualcuno di normale, con una faccia normale e un cervello normale, qualcuno che non venga fissato in pubblico, non me Kell, assolutamente, sarebbe assolutamente sbagliato, stupido, io sono sbagliato per te io…»
Kell abbassò lo sguardo, smise di guardarlo, si girò verso destra, poi verso sinistra, si trattenne con tutte le sue forze dallo scuotere la testa, respinse le lacrime, non poteva riuscirci, strinse gli occhi con tutte le forze che aveva.
«Non… non voglio che tu ti senta in colpa, Kell ti prego… è stata colpa mia, okay, non fare così.» Allungò un braccio verso di lei, incerto, si tirò indietro, Kell si allontanò, lo sapeva, avrebbe dovuto capirlo, avrebbe dovuto rendersi conto che non poteva essere così facile, non poteva andare bene, quando mai in vita sua qualcosa era andato per il verso giusto e basta, senza complicazioni? Mai.
Avrebbero dovuto mettersi a ridere una volta usciti fuori dalla classe della Strins, avrebbe dovuto prendergli la mano e poi l’altra, avrebbe dovuto baciarlo in corridoio davanti a tutti, fregandosene della Strins o di Sibille o di chiunque altro, sarebbe dovuta andare così, non in quel modo.
Si allontanò, non riusciva a parlare, aveva la gola talmente arida e secca da non riuscire neanche a inghiottire la saliva, non riusciva neanche a rendersi conto che l’aveva ricambiata, baciata e ora la stava respingendo con quegli occhi.
Doveva scappare da lui, allontanarsi da ciò che voleva, tornare a pensare: no, non farlo, ti prego, ti prego, ti prego non farlo, lui non ti vedrà, non riesce a vederti, non vuole vederti, nessuno può vederti, perché lui, perché, smettila di pensarci, smettila smettila smettila.
Kellan Hall prese fiato.
«Non preoccuparti Jeh, è tutto okay.» Si tirò su, lo guardò dritto negli occhi, annuì: «Mi dispiace non… non sarebbe mai dovuto succedere.»
La bocca di Jeh, ancora arrossata dai suoi morsi e dai suoi baci si aprì leggermente stupefatta: «Perfetto.» Disse: «Okay, va bene, sono felice che tu abbia capito.» 
Guarda, guarda la sua bocca, memorizza quelle increspature, gliele hai procurate tu, ti sei concessa questo, ti ha consentito di fare questo e ora lo sa, sa che non scherzavi, sa la verità, sai che non te lo permetterà più.


Scesero di sotto, come se niente fosse accaduto si sedettero l’uno di fianco all’altra mentre Cecely la guardava con gli occhi interrogativi.
«Kell stai bene? Sembri una cadavere.»
«Sì.»
Forse se lo sarebbe tenuto per se, forse non l’avrebbe detto a nessuno. 
Mai.
«Abbiamo finito con terapia nella stanza nera, la Strins ha scoperto che stiamo bene.»
Si levò un coro stupefatto di risatine e di applausi attutiti.
Kell non aveva il coraggio di guardarlo, ora nessun suono usciva dalla sua bocca, sorrise quando la guardavano, era tutto ciò che poteva fare, nascose le mani sotto il tavolo, tremavano.


Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2715049