A Never Ending Night

di Leia
(/viewuser.php?uid=310)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima Parte ***
Capitolo 2: *** Seconda Parte ***



Capitolo 1
*** Prima Parte ***


PREMESSA

 

Non voglio dilungarmi sui significati che questo racconto ha, per me.

L’ho scritto semplicemente per ricordare una persona che per me è stata veramente importante, anche se, forse, tale persona non l’ha mai nemmeno sospettato… ma, dopotutto, poco importa.

Ormai A Never Ending Night parla solo di ricordi, ricordi belli, piacevoli, allegri o tristi, ricordi di un tempo che è finito da tanto. Io, però, volevo imprimerli su carta, per far sì che non sbiadissero. Certo, molte cose sono romanzate e modificate, ma è l’essenza che conta, e quella è reale, vera.

Quindi… che dire? Spero proprio che i lettori di A Never Ending Night riescano ad afferrarla, questa essenza. E spero anche che riescano anche ad afferrare il messaggio - se così vogliamo chiamarlo - finale. In due parole, quello sulla fiducia. Per fiducia intendo quella “cosa” che ti fa andare avanti, quella voce interiore che, anche se non sai perché, ti dice: “Il tuo futuro sarà meraviglioso”. Naturalmente so benissimo che magari è una convinzione labile, che dopo poco tempo si allontana, ma… è comunque una forza incredibile. E credo sia proprio questa a farci vivere. L’uomo ricerca la felicità, la gioia totale, è naturale. Anch’io sono pienamente convinta che l’obiettivo della mia esistenza sia questo, e voglio inseguirlo. Anche se mi lascio abbattere, anche se a volte cado, piango, voglio rialzarmi, voglio vincere. Voglio essere ottimista, e credere in un futuro bellissimo, nonostante tutto mi suggerisca il contrario. Ci crederò, e avrò fiducia, proprio come Mara e Stephen.

Lasciamo il dolore dietro di noi, e viviamo una notte senza fine insieme ai nostri sogni.

Leia, 26 Agosto 2002

~

Cosa importante, vorrei ringraziare le persone presenti in questa storia… o meglio, le persone che in A Never Ending Night appaiono “nascoste” da nomi fasulli, inventati dalla sottoscritta. Nonostante la superficie, se così possiamo dire, diversa, nella sostanza sono tutte vere, verissime, identiche a come sono nella realtà. Insieme ad altre, sono la mia realtà, ed è anche a loro che dedico questa storia, perché sono tutte insostituibili, e meravigliose…

Vi voglio bene.

 

Grazie a:

 

Teo, mio fratello Fabio, che in realtà è più grande di me ma sempre un tesoro rimane (o quasi);

Mia mamma, insostituibile, e mio padre, meraviglioso come un sogno e ormai solo un sogno da dieci anni;

Mio nonno Luigi, o meglio Aristide, che è andato via anche lui troppo presto, prima che mi potesse insegnare tutto quello che sapeva;

Noemi, la mia pazza amica Mikina, incredibile e ineguagliabile;

Serena, ispirata ad una persona alla quale ho voluto bene ma che, purtroppo, col tempo è molto cambiata;

Elena, cioè Mara, una persona che ammiro e a cui voglio bene come a una sorella maggiore;

Rachele, la mia sorellina virtuale Giulia, una ragazza fantastica che ha tantissimo da dare agli altri e che merita di ricevere molto di più;

Stephen, Paolo, un mio “caro, vecchio, giovane amico”. Se lui leggesse queste parole le capirebbe.

 

E grazie a tutti i miei amici e a tutti quelli a cui voglio bene. Grazie perché esistete, grazie infinite.

 

Le canzoni presenti in A Never Ending Night possono essere considerate una vera e propria colonna sonora. Sono brani che ci tenevo molto a inserire. Sarebbe veramente bello ascoltarle mentre si legge il testo… questo è un consiglio naturalmente! Se potete, procuratevele.

In modo particolare, diciamo che la canzone principale della storia è Replay, a mio avviso un vero e proprio capolavoro, e che non per nulla amo profondamente. E’ intrisa della stessa malinconia percepibile nel racconto, e spero che possa comunicare delle belle sensazioni anche ai lettori. Nonostante la tristezza, infatti, c’è anche molta speranza.

~

Cadono le stelle e sono cieco
e dove cadono non so
cercherò, proverò, davvero
ad avere sempre su di me il profumo delle mani
riuscire a fare sogni tridimensionali
non chiedere mai niente al mondo
solo te
come una cosa che non c'è
cercando dappertutto anche in me
ti vedo

 

****

 

Certe volte, anche solo per un attimo, ciò che è sempre sembrato immutabile e costante appare tutto ad un tratto incerto, sospeso, come bloccato in un lasso di tempo esterno alla realtà, ai nostri pensieri quotidiani, a ciò che ci risulta normalmente comprensibile.

E ciò che di solito è chiaro e rassicurante ci rende improvvisamente inquieti, turbati, piccoli e fragili. Diventa vago, e avvolto da una sorta di manto onirico, di un colore indefinito ma bellissimo. Un velluto fatto di sogni, morbido e gentile, che ricopre i ricordi conservati là, da qualche parte nel nostro cuore. Quei ricordi che, senza saperlo, fanno ancora parte di noi.

Sono le memorie di qualcosa che deve ritornare. Le memorie di un passato che non è concluso, e che si farà, un giorno, come neve chiara e soffice, per ricadere dolcemente sul presente.

Imprigionata in questa sensazione insolita, sento nostalgia.

La luce dei lampioni cade trasversale sulla strada, creando isole circolari e solitarie sull’asfalto lucido. Passa qualche auto, senza far nemmeno troppo rumore. Le persone camminano frettolose, fermandosi qualche volta davanti a quelle vetrine illuminate e coloratissime che sanno tanto di atmosfere soffuse, capaci di donare un calore così intenso da riuscire a  scaldare anche l’animo più freddo.

Le osservo, dapprima incuriosita. E’ come una necessità disperata, penso poco dopo, mentre il respiro mi si condensa in nuvolette di fumo. Chi non sente il bisogno di calore e di amore in questo periodo? L’uomo ne va alla loro disperata ricerca in ogni momento della sua vita, figuriamoci a Natale. Tutto è talmente luccicante e sfavillante che risulta quasi impossibile non struggersi dal desiderio di possedere ognuna di quelle piccole luci colorate anche dentro di sé. Ogni singola, calda luce.

Ecco, ancora.

L’ ho provato un’altra volta.

Che cosa succede? Qualcosa… mi sfugge.

Alzo la testa per cercare un indizio, un qualunque aiuto, ma il cielo grigio e plumbeo non mi suggerisce nulla, rimanendo silenzioso e tristemente scuro. Un po’ delusa, riabbasso lo sguardo.

Sembra che tutto si sia davvero fermato. Io stessa non riesco a proseguire nei miei pensieri, come se qualcuno avesse tirato un freno nascosto nel cervello, che solitamente faccio lavorare anche troppo.

Ce n’è però uno. Un solo pensiero che indugia sulla soglia della mia mente, senza però venire avanti, senza prendere forma.

No, non riesco a visualizzarlo.

Non riesco. 

 

****

 

A Never Ending Night

 

Dedicato ad un pilota  & alle persone della mia vita

 

con una dedica speciale a Trinity

“Devi essere più forte del dolore. Più grande della situazione”

Te lo ripeto anch’io. E spero che questa storia sappia infonderti forza e calore nei momenti difficili…

 Non mollare mai.

 

... e se vogliamo, è anche un racconto di Natale…

 

* Replay, di Samuele Bersani, è © degli aventi diritto.

** Moon River, da Breakfast at Tiffany’s, scritta da Henry Mancini e Johnny Mercer, è © degli aventi diritto.

*** Sóra, da Escaflowne, a Girl in Gaea, cantata da Shanti Snyder, è © degli aventi diritto.

 

 

****

 

“Maraa!”.

“Ciao piccolo, come è andata oggi?”.

“Benissimo! Abbiamo decorato le classi!”.

“Davvero? Eh eh… ti aspetta un bel lavoretto anche a casa allora!”.

“Davvero? Yuppi!”.

Guardo mio fratello, mentre, con una mano, gli scompiglio i suoi fini riccioli biondi. Ha appena compiuto nove anni, e anche se praticamente l’ho visto crescere, non mi capacito ancora del fatto che faccia parte della mia famiglia. Teo è nato proprio nel momento in cui mi stavo convincendo che sarei rimasta figlia unica, con il peso esclusivo di tutte le responsabilità e gli obblighi che i miei mi avrebbero addossato da adulta. Al tempo, un po’ la cosa mi faceva rabbia, un po’ invece mi piaceva. Chissà, forse perché sotto sotto pensavo egoisticamente che sarei stata anche l’unica a godere di ogni privilegio e concessione.

E poi, un angelo biondo come Teo proprio non me lo sarei proprio aspettato. Quando era in fasce mi chiedevo spesso se fosse davvero sangue del mio sangue. Mia madre è bruna di capelli e di occhi, anche mio padre lo era. Io invece, per qualche strano scherzo di madre natura sono rossa, con gli occhi color verde opale. Mi ci è infatti voluto qualche anno prima che mi convincessi che sono proprio figlia dei miei genitori, e quando vidi mio fratello per la prima volta, così piccolo, bagnato come un pulcino e con quei pochi, scompigliati fili dorati in testa, mi dissi che anche per lui c’era sicuramente stato qualche errore. 

E poi io sono così diversa da Teo. Così complicata, così odiosamente contorta. Ma non c’entra il fatto che io sono più grande… anche da piccola ero la disperazione dei miei e di tutti gli insegnanti. Diciamo che sono una di quelle persone che pensano alla stessa cosa per almeno dieci volte al giorno, effettuando un’analisi maniacale e quasi scientifica su ogni dato. Eppure non mi ritengo per nulla una mente matematica, anzi, i numeri li odio… se non fosse così non avrei scelto di frequentare un Liceo Artistico. Mh, sono un’artista io, già. Anche se incredibilmente pigra nei lavori manuali, sono un’artista. Ma pigra. Non è quindi difficile intuire perché lascio l’onore di decorare ogni Natale albero e presepe al mio ingenuo e iperattivo fratellino. Ah, che belli i bambini… se non ci fossero bisognerebbe proprio inventarli.

“Ti ho tirato fuori tutti gli scatoloni dalla cantina”, gli dico, sistemandogli per bene la sciarpa intorno al collo. Be’, un piccolo sforzo sono anche in grado di farlo… l’idea di entrare in una cantina buia e piena di ragni, poi, non attira esattamente i marmocchi.

“E non c’erano ragni?”, mi chiede, con uno squittio terrorizzato.

Ecco, appunto. Ridacchio, girandomi verso di lui mentre camminiamo sul marciapiede.

“No, non ce n’erano. Però, chissà… magari te li ho infilati nel letto!”

“Nooo!”.

“Sì inveceeee!”.

“No, no!”.

“Ti dico di sì!”.

Continuiamo così per cinque minuti buoni, fino a che lui, sfinito, si arrende. Mi fissa con due occhioni abbattuti, mentre io, dentro di me, sono semplicemente compiaciuta dal mio stile-diabolico-da-sorella-maggiore.

“Dai, scherzavo”, aggiungo però poi, prendendolo per mano.

La parte buona di me ha ripreso sorprendentemente il sopravvento. Dev’essere il Natale.

“Non fare quella faccia”.

Teo mi fissa preoccupato.

“Davvero?”.

“Davvero, scemetto”.

Mentre è indeciso se offendersi per lo ‘scemetto’ o rilassarsi per il pericolo-ragni scampato, mio fratello viene attirato dalla colorata vetrina di un negozio di giocattoli, all’angolo della strada. Estasiato, lo fissa con la bocca spalancata, appiccicata al vetro.

“Mara, mi ci porti oggi? Ti prego ti pregooooo!”.

“Oggi? Ma…e l’albero?”.

“Lo faccio staseraaaa! Ti prego ti pregooo!”.

“Uff, e va bene. Ma solo perché ancora non mi hai detto cosa vuoi per Natale”.

“Che bello che bello!! Grazie!”.

Il mio cuore tenero. E dire che pensavo di uscire con Sere e Noe. Che tristezza… è questa la vita di una diciottenne? Vedo più mio fratello che le mie amiche. 

“Prego. Ma ora andiamo a casa”, concludo tirandolo per un braccio, visto che non sembra intenzionato ad allontanarsi dalla vetrina. Le sue manine già hanno lasciato due belle impronte sulla superficie trasparente. Con un mugolio di protesta, riusciamo ad andarcene.

Torniamo a camminare. Osservo il suo viso, che improvvisamente si è fatto raggiante. I grandi occhi blu, dalle lunghe ciglia chiare, brillano come non mai. Certo che basta poco per farlo felice. Provo una vaga fitta di invidia…

Ah, che belli i bambini. Anzi, che bello essere bambini.

 

****

 

“Ma dove cavolo sei?”.

La voce squillante e allo stesso tempo supplichevole di Sere mi fa sobbalzare. Per puro caso avevo sentito suonare il cellulare, in mezzo al frastuono di quell’immenso negozio di giocattoli.

“Hem… ciao… mi sono dimenticata di avvertirti, scusami! Non possiamo incontrarci, purtroppo… Teo mi ha trascinata in centro a comprargli il suo regalo di Natale… senti, per caso c’è lì Noe?”, grido, cercando di superare il rumore della sala.

“Uff…”. E’ chiaramente delusa. “Sì, sì, è qui… te la passo”.

Serena è una mia compagna di scuola fin dai tempi delle medie. Ne abbiamo passate talmente tante insieme… diciamo che possiamo considerarci quasi sorelle. Adesso, frequentiamo lo stesso Liceo. Le discipline artistiche sono una delle passioni che abbiamo sempre avuto in comune, e che ci ha legato sin dall’inizio.

Ricordo ancora la prima volta in cui la vidi. Magra, pallida, con due incredibili occhi neri, magnetici e inusuali nonostante la sua timidezza.

 

“Ti piace disegnare?”

 

Con un cenno del capo, aveva annuito.

 

“Anche a te?”

 

Per risposta, le avevo mostrato un mio disegno, fatto nell’ora prima su un foglio da quaderno a quadretti.

La grafite, stesa sulla carta in modo ancora pesante e impreciso, raffigurava l’idolatrata eroina dei cartoni che, in quel periodo, andava in onda in TV.

 

“Che bello! Sei bravissima!”

“Grazie, ma scommetto che anche tu lo sei!”

 

Aveva sorriso, e io, contenta, avevo fatto altrettanto.

In quel momento avevamo capito entrambe che non ci saremmo più divise, e così è stato, anche se adesso Sere è completamente cambiata. Dall’insicura e timida ragazzina che ricordavo, è diventata improvvisamente spigliata e vivace, combattiva e assolutamente unica. Beh, questo lo era anche prima, ma ora la forza con la quale vivo la attingo anche da lei. Sì, è un flusso inesauribile, il suo.

“Ehi, Marucciaa! Allora, il Teo è sempre il solito, eh? Peccato tu non possa raggiungerci… uhm, ma forse è meglio che faccia il tuo dovere da brava sorella maggiore!”, sento risuonare nuovamente nel mio orecchio. Il tono ironico è quello di Noemi.

“Sei proprio simpatica, GIOIAAA!”.

“Aaah! Non chiamarmi gioia! E poi è un mio copyright! Che fai? Mi rubi le mie frasi migliori?”.

“Ah! Ah! Ovviamente sì! Ma ascolta un secondo… ”.

“Dimmi”.

“Ci pensi tu a comprare il regalo per Sere? Poi ti darò la mia parte… sai, credo che oggi non riuscirò a liberarmi tanto facilmente da questa peste… ”. Getto un’occhiata affettuosa a mio fratello, che, fisso nel reparto Mazinga & Vari, sta analizzando meticolosamente le superfunzioni di ogni robot. Di certo, per un bel po’ non si schioderà da lì.

“Sì, tranquilla, ci penso io!”.

“Ok, grazie infinite. Ahh, un’altra cosa”.

“What?”.

“Mhh… vai in montagna anche quest’anno?”.

A quella domanda, Noemi sospira sconsolata. Ahia, tasto dolente…

“No, purtroppo… i miei vogliono festeggiare il Natale a casa di amici, e naturalmente non intendono assolutamente lasciarmi andare da sola con Ale in una romantica baita in cima a una vetta innevata per due settimane”.

Divertita, sorrido.

“Non hanno tutti i torti. Di te non ci si può fidare per queste cose”.

“Ehh??”.

“Massì… sappiamo benissimo che razza di depravata sei…”.

“Mara, tesoro, ringrazia il cielo che non sei qui, altrimenti a quest’ora ti avrei già spezzato le braccine”, risponde Noemi in falsetto.

Segue un attimo di silenzio. Ma, subito, scoppiamo a ridere entrambe.

Noemi è un’altra delle mie più grandi amiche, conosciuta da me e Sere al primo anno di Liceo. Non c’è un termine unico per definirla, in quanto risulta una delle persone più strampalate, simpatiche e assurde che abbia mai incontrato. Una di quelle che, appena ci fai per la prima volta quattro chiacchiere, ti lasciano sconvolta per una giornata intera.

Noe è così. Ineguagliabile, grandiosa, e la medicina migliore contro la depressione. 

“Ah ah… ehi, c’è Sere che sbraita per sapere cosa abbiamo da ridere… mollaaa… molla il cellulareeee!”.

Sento le voci delle mie migliori amiche sovrapporsi fra loro con frasi non esattamente gentili, mentre continuo a ridere, quasi con le lacrime agli occhi. Provo a immaginarmele, dall’altro capo della città, prendersi cordialmente a pugni.

Quanto voglio bene a quelle due…

Ad un tratto, Noemi ritorna a parlare.

“Mara! Rieccomi… aehm, scusa, c’è Sere che è impazzita… ”.

“Mhh… eh eh, non è una novità, quella è sempre fuori… ”.

“Sì, ma dovresti vederla ora… saltella come un canguro perché vuole il gelato… ”.

“Il gelato?? Con questo freddo?”.

“VOGLIO IL GELATOOO!”. La vocina di Serena attraversa la barriera del mio delicato timpano con la dolcezza di un trombone. Allontano di scatto il telefonino dalla guancia.

“Ehm… ”.

Intuisco che la telefonata sta per concludersi. Improvvisamente, però, folgorata da un’idea non certo originale ma che mi pare decisamente carina, chiamo una delle due… sperando appunto che almeno una delle due mi senta.

“Sereee! Noeee! Ci siete ancora?”.

“Sììì!” esclama col suo tono più acuto quel cartone animato vivente di Sere, impadronendosi finalmente di nuovo del suo cellulare.

“Ascoltate… visto che Noemi non va via quest’anno, che ne pensate di organizzare una piccola festa di Natale? Per una volta potremo festeggiarlo tutte e tre assieme, non ci siamo mai riuscite! E poi… beh, si invita altra gente!”.

“Uooh! Mi piace!”, risponde Sere entusiasta, seguita in sottofondo dall’approvazione di Noe.

“Davvero?”.

“Sìsì! Ahh… Noemi dice che si porterà dietro l’Ale”.

“Ovvio! E tu Fede se vuoi!”.

“Okay! Ma… dove la facciamo questa festa?”.

Rimango un attimo a pensare. Fra me, Sere e Noe sicuramente sono io ad avere la casa più grande… e mia mamma non può avere nulla in contrario se per un anno decido di passare le feste invitando qualcuno a casa. Da anni si lamenta perché tutto “è diventato troppo monotono e sempre uguale”.

“Mhh… senti, da  me credo non ci siano problemi!”, assicuro.

“Bene! Allora è deciso! Magari ci sentiamo domani per organizzarci, ok? Io intanto ne parlo un po’ a tutti”.

“Perfetto!”.

“Ora ti saluto… devo estorcere a Noemi un gelatino, me lo deve da tre anni”.

“Cosa ti devo io da tre anni??”, sento per risposta, coperta dalla voce di Sere.

“Guarda che i tuoi debiti me li segno tutti… ho una lista infinita nel portafoglio! Beh, Mara, meglio che vada!! Un bacione!”.

“Eh eh… ok, ciao a tutte e due e non fatevi troppo male”.

“Mmh, non contarci!”.

Abbasso il cellulare, e, dopo aver bloccato la tastiera, lo rimetto nella borsa.

Che matte. Delle adorabili matte, ma comunque matte.

 

****

 

Ore 23.56. La missione al negozio di giocattoli si è conclusa felicemente, e adesso quella peste starà buona fino a Natale. O almeno, lo spero.

Scosto la tenda del balcone, mentre, a basso volume, le note dell’ultima canzone di uno dei miei cantanti preferiti viaggiano nell’aria calda della mia stanza. La radio è infatti accesa, e sulla solita stazione c’è la classifica italiana delle canzoni migliori degli anni novanta.

Sento un intenso profumo di rosa. Deve essere un nuovo vasetto di poutpourri che la mamma ha lasciato sul comodino. Buono…

Alzo la testa. La luna, piccola e pallida sopra la metropoli, risulta un insignificante bottone bianco, appena visibile in questa notte senza stelle. Non so se sia colpa della presenza di nuvole, ma anche se il cielo fosse sereno sicuramente non si vedrebbe un tubo in mezzo a tutto questo inquinamento elettrico. Le vive, colorate luci della città illuminano il cielo quasi a giorno, tanto sono intense… e poi, a Natale, l’illuminazione urbana è circa il doppio di quella solita. Quanta, quanta luce…

Mi ritrovo a fissare quel bagliore. Proprio come quel pomeriggio, mi fa ricordare qualcosa. Appoggio una mano sul vetro freddo, in netto contrasto con la temperatura della mia camera. Lascio un’impronta dai contorni precisi, mentre gli occhi mi si inumidiscono improvvisamente. Un déjà-vu?

 

* [Dentro al replay
fra miliardi di altri ci sei
e non hai scia
luminosa d'auto
anche di periferia
come i sogni che farai
o prenderai a noleggio
quando ti addormenterai
con le scarpe sul letto]

 

Porto un attimo lo sguardo verso lo stereo. Chissà perché Bersani fa emozionare tanto? Colpisce al cuore come nessuno… o forse, solo il mio cuore.

Ho come l’impressione di tornare indietro. Non so dove, ma… indietro.

Quando ancora ero sicura di ogni cosa. Quando sapevo che tu…

Tu…

 

[Dentro al replay
con la testa girata un po' in su
da fotografia
ci sei anche tu prima di andare via]

 

Sì, sei tu. Nella mia mente. In quelle luci. In questo Natale, come un fantasma che non trova la pace.

Ma dovrei essere felice…

Sei diventato ciò che desideravi…

Sicuramente, è così.

Mi giro ancora verso la città.

 

["se rimango ancora qui
è come se morissi
e guardandomi allo specchio
ad un tratto sparissi"]

 

Le mie labbra si atteggiano in un lieve sorriso. Lo posso vedere, riflesso nel vetro. E mi osservo.

Come estraniata, lascio la Mara della giornata che è appena trascorsa. E guardo indietro, ancora più indietro.

Indietro.

 

“Vai!”.

 

Sono stata io a volerlo. Io, che credevo tanto in te, ti ho detto di andartene. Volevo vederti felice. Vittorioso, trionfante… e vedere il tuo trofeo, le tue dita alzate al cielo…

 

“Vedrai, ce la farò. Lassù”.

 

Già, lassù. Libero.

E io… qui. A scandagliare la mia vita, il mio passato, il mio presente, il mio futuro… mentre tu… tu sapevi già tutto.

Ma era quello che anch’io desideravo. Volevo che le tue certezze diventassero reali. Non mi importava nient’altro. Eri imprigionato, e desideravi soltanto volare.

 

“Sì, tu ce la farai”.

 

[Cadono le stelle e sono cieco
e dove cadono non so
cercherò, proverò, davvero
ad avere sempre su di me il profumo delle mani
riuscire a fare sogni tridimensionali
non chiedere mai niente al mondo
solo te
come una cosa che non c'è
cercando dappertutto anche in me
ti vedo]

 

Non può fare a meno di scendere. Sì, è una lacrima, lo ammetto… ma non c’è motivo di piangere, cavolo. E’ la malinconia… è solo la malinconia…

Sei… sei tu che mi manchi?

Oppure… è l’amarezza per quello che non sono riuscita a diventare?

Quello che non sono… e quello che tu, invece, hai sempre saputo essere.

Un sognatore.

Già.

Io, mi ero accontentata di poco.

Che i tuoi sogni, fossero anche i miei.

 

[Dentro al replay
per un attimo c'ero e anche lei
ma in quel momento
qualcosa ho cancellato
si è fermato il tempo, la sua regolarità
e come se morissi
è sparita anche la luna,
è cominciata l'eclissi]

 

Cinque anni fa vedevo queste stesse luci. Ma le vedevo con te. Le vedevo con la fiducia che il futuro sarebbe stato come nelle tue… anzi, nostre utopie. Chissà, forse perché eravamo solo dei ragazzini.

Ma allora… allora perché ancora adesso quel tuo rassicurante sorriso mi rincuora?

“Va tutto bene, Mara”, sembri dire, calmo. Impresso nella mia mente.

 

[Cadono le stelle
allora è vero
e io non so se ci sarò
dove andrò
non lo so se lo merito o no]

 

Quel tuo viso dai lineamenti delicati, puliti. Quell’espressione un po’ ingenua ma infinitamente dolce… sì, era così che ti ricordavo. I radi capelli castani, la pelle abbronzata, le maniche della t-shirt arrotolate sopra le spalle, muscolose al punto giusto, modellate dalla palestra. I jeans neri, il portafoglio nella tasca posteriore, legato a quella catena per cui ti prendevo tanto in giro.

Non avevo mai conosciuto un ragazzo come te.

Così candido dentro, e fuori.

Nulla stonava, nulla sembrava fuori posto. Eri perfetto.

Una creatura non terrena.

Ed è per questo che ti ho sempre immaginato là, fra quelle stelle.

In alto, e ancora oltre, come i tuoi sogni.

 

[e più sarò lontano e più sarò da te
dimenticato e muto
come uno che non c'è
tornerò, tornerò davvero
a sentire su di me il profumo delle mani
di notte io farò sogni tridimensionali
senza chiedere mai niente al mondo
neanche a te
senza chiedermi perché
ti vedo dappertutto
anche in me
ti vedo]

 

Una volta credevo di sapere come vivere. Ti ho visto andar via, sicura che un giorno ti avrei ritrovato o che… tu avresti ritrovato me, sul podio.

Entrambi. Saremmo saliti entrambi sul podio, non è vero? Me lo dicevi sempre…

Ma adesso…

Adesso non è tutto così semplice. Ci illudiamo tutti di crederci vincenti, ma sappiamo che non è così.

Anche se io ci credevo, sul serio. Come potevo non farlo, dopo averti conosciuto?

 

“Cosa ci fai qui tutta sola?”.

“Eh?”.

“Dai, resto io con te. Non voglio vederti così, con quel faccino triste. D’accordo?”.

 

Il tuo sorriso aveva spazzato via tutto. Il dolore, la tristezza, l’amarezza. La solitudine.

Tu, tu… solo tu.

Solo tu ci eri riuscito.

 

“Diventerai la migliore… e io potrò dire di conoscerti, quando diventerai famosa!”.

“Ah ah, ma dai, smettila!”.

“E invece sarà così, scommetti?”.

 

Con il passare del tempo, l’ho capito. Questo valeva solo per te. Tu eri un angelo, io una comune mortale… come potevo raggiungerti?

Lottavo solo con te. Solo per te. Ma, per me stessa, non ho mai combattuto.

Ora mi nascondo dietro ad una nuova facciata. Nascondo i ricordi, nascondo le delusioni. Ho cercato di dimenticare, ho cercato di vivere…

Di vivere ancora, già.

Forse mi basta questo. Il passato non potrà più tornare, perché ormai sei lontano. Non tornerai più da me, pulcino che deve ancora spiccare il volo. Ma che tu hai salvato.

Ti auguro di essere felice, perché te lo meriti. Ovunque tu sia.

 

La canzone, ormai, è finita.

 

[…tornerò, tornerò davvero
a sentire su di me il profumo delle mani
di notte io farò sogni tridimensionali
senza chiedere mai niente al mondo
neanche a te
senza chiedermi perché
ti vedo dappertutto
anche in me
ti vedo]

 

Sorrido e, tristemente, richiudo la tenda.

 

“Ovunque tu sia, Stephen”.

 

[… ti vedo].

 

****

 

Scendo furtivamente in soggiorno, convinta che tutti siano già a dormire. Ho bisogno di qualcosa da mettere sotto i denti. Il ricordo di Steph mi ha aperto una voragine nella pancia, che ora si lamenta rumorosamente… pensare troppo fa spendere parecchie energie.

Bah, diciamola giusta. Il ricordo si Steph mi ha depresso.

E così, con una faccia sicuramente inguardabile - fortunatamente non mi sono specchiata - mi dirigo in cucina, vestita con un osceno pigiama costellato da coniglietti sfoggianti un’espressione piuttosto ebete (ma quando l’ho comprato?) e con le mie adorate e rispettabilissime pantofole-orsacchiotto ai piedi. Se qualcuno dei miei amici un giorno o l’altro mi dovesse vedere in questa tenuta, ho come l’impressione che gli farei crollare per sempre l’idea di ragazza seria che si era fatto da me. Ma anche se accadesse, non so quanto me ne importerebbe.

“Al diavolo quei maledetti ricordi… ”, mormoro. “Al diavolo Bersani, al diavolo… ”.

Mi fermo, inginocchiata davanti al frigo aperto. Abbasso la testa, e sospiro.

“No, non posso mandarti al diavolo”.

Prendo il tetrapak del latte, versandone un po’ in una tazza. Dopo essermi armata di cereali e cucchiaio, torno in soggiorno, progettando una seratina svaccata davanti alla Tv a guardare qualche vecchio film con Audrey Hepburn. Magari Colazione da Tiffany. Così, per deprimermi ancora di più, visto che sono notoriamente masochista.

Avvicinandomi al divano osservo l’albero di Natale che, con tanta buona volontà e spirito natalizio, Teo ha addobbato con l’aiuto della mamma.

“Bello… ”, commento, mentre il mio pensiero torna disgraziatamente verso Steph.

 

“… Bello questo albero. Ogni anno lo fanno sempre più alto, tra l’altro”.

“Già”.

Silenzio.

“Steph… ”.

“Dimmi”.

“Domani sera te ne andrai, vero?”.

Ancora silenzio.

“Te l’ ha detto mio padre?”.

“Sì”.

“Capisco. Sì, partirò per Atlanta”.

“Ah… beh, allora… mille auguri per una brillante carriera!”.

“No”.

“Come… no?”.

“Volevo dire… non ancora. Rimandiamo i saluti e gli auguri a dopo… ti prego, a più tardi. La notte è ancora lunga”.

“Steph, io… ”.

“Sssh. La notte di Natale non deve conservare cose tristi. Non deve assistere a degli addii”.

“E’… è un addio?”.

“Non lo so”.

Abbassi la testa, ti stringi in un elegante cappotto scuro che non ti avevo mai visto addosso. Proprio tu, che adoravi quei piumini che io, invece, odiavo tanto…

Porto una mano al viso, pronta ad asciugare una lacrima traditrice. Poi, però, tento di mostrarti il migliore dei miei sorrisi, seppur con fatica.

“Allora… cerchiamo di rendere questa notte infinita. Ok?”.

Tu mi guardi. Con quel tuo sguardo così adulto, così inusuale per un ragazzo della tua età, ma che improvvisamente sa anche cambiare, e diventare dolce, infantile, ingenuo. Quel tuo viso così bello, da sembrare modellato da uno scultore classico per realizzare il busto di un Dio.

Dopo, insieme alle labbra, anche i tuoi occhi sorridono.

Vero, semplice, chiaro. Ecco come sei. Un’anima pura, e trasparente.

“Yes, a never ending night”, ripeti, con l’accento americano.

Ti prendo sottobraccio, avvicinandoti a me.

“A never ending night”.

 

Audrey Hepburn ha già fatto la sua apparizione sullo schermo. Bellissima come sempre, con i suoi grandi occhi scuri, lucenti come perle nere, sta per incontrare l’affascinante George Peppard.

Io, intanto, sonnecchio con una mano sotto la tazza di latte, e l’altra impegnata nell’utilizzare in un modo corretto e logico il cucchiaio. Sdraiata sul divano, ho le gambe coperte da un plaid.

“Uff…”.

In quel momento, un brusio proveniente dalla porta dello scantinato, oltre la cucina, mi fa sobbalzare. Ecco, ci mancavano i ladri, perfetto. Nemmeno la mia storia lacrimevole preferita posso vedere in santa pace, anzi, in sacrosanta depressione.

Mi alzo e, appoggiato sul tavolino il nutrimento con aria profondamente scocciata, arrivo con pochi, precisi movimenti felini al ripostiglio, dove afferro una scopa. Pronta a calarla sulla testa del sospetto rapinatore, attendo che la porta della cantina si apra. I passi si fanno sempre più vicini all’uscita.

“Kyaaaah! Fermo lì o ti spalmo sulle piastrelle!”.

“Aaah! Mara, ma sei pazza?! Dio santo, ma si può sapere che ti salta in mente?”.

Mia madre, evitata per pura fortuna l’asta di legno sul cranio, mi sta fissando tra il terrorizzato e l’irritato.

“Ah… ehm… mamma!“.

“E chi credevi che fossi?“.

“Ma… beh, mi spieghi che ci facevi in cantina a quest’ora?? Mi hai fatto prendere un colpo!”, tento di dire a mia discolpa.

“Mhh, potrei chiederti la stessa cosa. Che cosa ci fai ancora alzata?”.

Abbasso la scopa e, alzando le spalle, ritorno verso il divano.

“Beh, non… non riuscivo a dormire. E tu?”.

“Risistemavo gli addobbi che Teo non ha usato per fare l’albero”.

“Ah. Uhm, a proposito, quest’anno è venuto proprio bene”.

Mi sdraio nuovamente, tornando a concentrarmi sul film. Mia madre quasi certamente mi sta ancora fissando, in piedi dietro di me. Ci scommetterei qualunque cosa.

“Colazione da Tiffany?”, chiede puntuale, con la sua voce incredibilmente calma.

“Esattamente”.

“Quasi quasi mi fermo a vederlo con te”.

“Figurarsi se non lo facevi”.

Silenziosamente, si siede nella poltrona a lato. Strano, ha già smesso di parlare. Senza preoccuparmene più di tanto, continuo a guardare lo schermo. Le battute degli attori sono gli unici suoni nella stanza.

“Te lo sei vista un sacco di volte questo film”.

“Anche tu”.

Mi volto a fissarla, divertita. “Anzi, se mi piace così tanto è solo colpa tua. Mi hai istigata ad assistere a tutto il repertorio cinematografico americano del trentennio ’40-’70 fin da quando ero in fasce, se non prima”.

Lei ridacchia. “Oh, beh… a parte il fatto che io non ti ho mai costretta a rimanere a vedere i film con me… ”.

“Sai che scelta avevo, abbiamo una sola TV ed eri tu che decidevi sempre”, controbatto, guardandola storto.

Per un pochino non dice più niente. Poi si volta ancora verso di me e, sorridendo, incrocia le braccia, mettendosi comoda.

“Ne valeva la pena però. O sbaglio?”.

Sorrido.

“Vero”.

Rimaniamo così, a guardare la Audrey con un po’ di malinconia, ma forse al punto giusto. E un’ora dopo lei è ancora lì, con la sua chitarra in mano a suonare le note di Moon River, fissando, con gli occhi velati dai ricordi, un punto imprecisato davanti a sé.

Io, ormai semiaddormentata, non posso far altro che ascoltare quella dolcissima voce provando una quieta, inspiegabile serenità.

 

** [Moon river, wider than a mile,

I'm crossing you in style some day…

Oh, dream maker, you heart breaker,

Wherever you're goin', I'm goin' your way…

 

Two drifters, off to see the world,

There's such a lot of world to see…

We're after the same rainbow's end, waitin' 'round the bend,

My huckleberry friend, Moon River, and me…]

 

****

 

Fortunatamente, sotto le feste, la maggior parte dei negozi sono aperti anche di domenica. Questo risulta particolarmente utile per chi si ritrova a dover fare spesuccie di vario genere all’ultimo momento, in extremis diciamo. Io, per l’appunto, come ogni anno ovviamente mi fiondo in centro tre giorni prima di Natale, armata dell’immancabile lista dei regali in tasca.

Ah, ecco, se c’è una cosa che odio è proprio la lista di Natale. Diciamo che è uno dei miei incubi ricorrenti, che, puntuale, ritorna tutti i dicembri: preparato l’estate prima in un momento di noia apatica, mentre, semisvenuta sulla sdraio, assaporavo - per modo di dire, la mia pelle si ustiona anche in inverno - il calore dell’implacabile sole di agosto, il famelico foglietto finisce successivamente in qualche cassetto della mia scrivania, pieno zeppo di cose assolutamente inutili e abbandonato al suo destino da secoli. Tra carte appiccicose e colorate di qualche caramella gommosa, bic ormai consumate, bigini di un antico compito in classe di italiano su Petrarca e ai più svariati omaggini Made - in - Taiwan trovati in riviste sceme comprate in un momento di pura follia - ho come l’impressione di iniziare ad assomigliare pericolosamente a Sere, quando si curiosa in uno dei cassetti si rischia la morte - la lista compilata con tanto… studio, risulta ormai dispersa per sempre. Tra l’altro ho una pessima memoria, e ricordare quello che avevo scritto è stato praticamente impossibile.

Ma visto che ho invece molta fantasia, ne ho fatta un’altra senza problemi. Certo, ci ho messo dieci minuti d’orologio, ma credo possa andar bene lo stesso.

Non fa molto freddo. Credo che questo sia il Natale con la temperatura più decente che ricordo. Poi, se è detto da me che soffro decisamente di più il freddo che il caldo, deve essere proprio vero. 

Nell’aria si diffondono melodie natalizie, provenienti dagli altoparlanti di qualche centro commerciale lontano magari chilometri, mentre i proprietari delle bancarelle ferme ai lati delle strade richiamano le persone parlando di caldarroste, dolci e zucchero filato.

Cammino, le mani guantate nelle tasche del cappotto color crema, passando a fianco dei venditori con un’insolita indifferenza. Devo avere per la testa altro, anche se non riesco a capire bene che cosa. Forse, sono semplicemente preoccupata dal fatto che ho molti meno soldi di quanti ne avessi messi da parte per fare i regali, nonostante la lista supereconomica con la quale ho rimpiazzato quella vecchia.

Lo sapevo, non avrei dovuto prendermi gli ultimi tre numeri - che costano, l’uno, una cifra esagerata - di quel manga magnifico uscito di recente in fumetteria. Finisce sempre così. Non sono per niente una tipa previdente, e spendo e spando di continuo. Soprattutto in fumetteria.

“Cavolooo… ”, sospiro, stringendomi la sciarpa intorno al collo e ficcando la lista in borsa. “Meglio cercare un posticino economico per comprare le ultime cose”. Detto ciò, mi infilo in una via laterale, molto meno chiassosa e illuminata del viale che stavo percorrendo.

Pochi addobbi intorno a porte costruite in un tempo ormai passato, un paio di festoni alle finestre e alle vetrine polverose dei negozi. Gli intonaci delle case sono scrostati e vecchi, i balconi in ferro battuto ormai corroso, ma posso provare, riesco a sentire un’intima e precisa sensazione.

Ecco, sono questi i posti che fanno per me. Semplici, senza pretese, con un fascino antico e con un’anima. Un’anima percepibile. Dei ricordi ancora vivi che scorrono nei materiali grezzi, consumati dagli anni.

Con passo deciso, mi dirigo in fondo alla strada chiusa ai veicoli, puntando ad una bottega di mia conoscenza. E’ sul lato destro, seminascosta da un pilastro di un caseggiato risalente, forse, all’inizio del secolo.

Rimango per qualche minuto a guardare da dietro il vetro impolverato l’interno, immerso nella penombra, poi varco la soglia, aprendo la decennale porta fatta per la gran parte in legno. E’ intagliata, e reca incisioni ispirate alla natura, ricordanti vagamente l’art nouveau.

Dopo un tintinnio prodotto dalla campanella fissata all’anta do un’occhiata in giro, sbottonandomi il cappotto.

“C’è nessuno?”.

Non sento nulla, se non il rintocco di un vecchio pendolo, di fianco ad uno scaffale mangiato dai tarli. L’odore è quello delle case vecchie, umide e silenziose. Legno, cuoio, e un vago, rilassante profumo di lavanda.

Con una mano tiro fuori dal collo della giacca un ciuffo di capelli rossi, e li lascio ricadere sulle spalle. La bottega è gestita da un antiquario, un vecchio amico di famiglia, o meglio, amico di mio nonno. I prezzi qui non sono certo bassi, ma ci sono anche cosine alla portata di tutti. E poi, Gustavo mi fa sempre tantissimi sconti.

Proprio come nella più classica delle fiabe, questo luogo - che conserva soprattutto antichi giocattoli, come bambole dagli abiti fatti a mano, pieni di ornamenti e pizzi, e splendidi cavallini di legno lucido - mi ha sempre comunicato qualcosa di inspiegabile, fin da quando ero piccola. Anzi, una volta, per me, mettere piede qui era come entrare nella Bottega Fantastica, direttamente dall’opera di Gioacchino Rossini. Credevo che tutte quelle piccole meraviglie la sera si animassero, e iniziassero a danzare, proseguendo poi per tutta la notte. Mio nonno mi ci portava quasi ogni settimana, e alla fine mi comprava sempre qualcosa. Qualcosa che aveva, dentro di sé, una storia antica, affascinante, misteriosa e bellissima, che parlava di fate, elfi e principi. Le ricordavo tutte, ognuna veniva registrata nella mia mente, e non la lasciavo più scappare. Adoravo ascoltare mio nonno parlare. Quando narrava quei racconti ero completamente rapita dalla sua voce, una di quelle tipiche voci da nonno, rassicuranti e calde. Sembrava lui stesso provenire da un altro mondo, un mondo fantastico in cui aveva vissuto tutto quello che mi diceva. Gustavo, l’amico del nonno, ascoltava anche lui compiaciuto e interessato le leggende legate a tutti gli oggetti del suo negozio, e certe volte potevo anche osservarlo stupirsi.

 

“Ehi, Luigi, perché non me le hai mai dette queste cose?”.

“Perché tu non sei bravo e simpatico come Mara, e non te le meriti!”.

 

Scoppiavano entrambi a ridere, e io ridevo con loro, contenta dei complimenti che il nonno mi faceva. Stavo sulle sue ginocchia, mentre la sua mano rugosa stringeva una lunga pipa di legno scuro. Come ricordo l’odore del tabacco. Lo amavo, infinitamente. E ogni volta che vengo a trovare Gustavo, lo posso ancora sentire, nell’aria, mescolarsi a quello della lavanda. E’ come se il nonno fosse ancora qui.

“Oh… mi pareva di aver sentito qualcuno… come stai, cara?”, dice improvvisamente una voce, bassa e un po’ gracchiante.

Dal fondo del negozio, dietro una cristalliera e un comò distanti un paio di metri dal muro, viene avanti Gustavo. Sull’ottantina, magro, con pochi e candidi capelli in testa, ha un paio di occhiali dalla montatura nera appoggiati sulla punta del naso e, leggermente incurvato, cammina con un po’ di fatica. E’ sempre bello rivederlo. Per me, è come fare un tuffo nel passato, e riavere, anche se per poco, quel nonno che se n’è andato troppo presto.

“Bene, grazie. Piuttosto, come stai tu? Mi raccomando, non strapazzarti. Credo che lavori un po’ troppo”, rispondo con tono di rimprovero, avvicinandomi a quell’adorabile vecchietto e chinandomi per abbracciarlo.

Lui mi stringe, poi alza le spalle, sorridendo.

“Eh, ormai sono un rottame, Mara. Ma il mio negozio ha bisogno di me, quindi non posso proprio permettermi di abbandonarlo”.

“E chi ha detto che lo devi fare? Dicevo solo di darti una regolata, Gustavo”.

“Eh eh, va bene, ci proverò… ”.

Lo guardo ancora per qualche secondo, poi giro la testa, volgendo gli occhi verso quell’ambiente che è ancora capace di affascinarmi. Montagne di strani aggeggi, bamboline deliziose, soldatini il legno laccato, curiosi soprammobili e orsi di pezza sono ovunque, insieme a milioni di altri, svariati oggetti facenti parte di un passato nemmeno molto lontano. Inizio a curiosare pur conoscendo a memoria ogni angolo di quella bottega, per cercare di trovare qualcosa di carino da comprare.

“Do un’occhiatina, ti dispiace? Sono in piena crisi pre-natalizia… mi mancano alcuni regali da fare… ”.

“Oh, ma certo, fai pure”.

Mentre passo davanti a una fila di specchi impolverati, dalle cornici lavorate e impreziosite da sottili foglie d’oro e smalti brillanti, sento Gustavo cominciare a fischiettare un motivetto natalizio. Sorrido e, prendendo delicatamente in mano una sveglia con il quadrante dipinto a mano, mi volto nuovamente verso di lui.

“Sei sempre allegro, eh?”.

Con grande cura, appoggia il soprammobile in giada che sta pulendo seduto al bancone con un pennello dalle setole fini, e mi guarda. Ha sempre gli stessi occhi azzurri di quando ero bambina, e lo sguardo gentile.

“E come potrei non esserlo? Natale è tra pochi giorni, e domani arriveranno i miei nipotini da Roma”.

“Davvero? Sono proprio contenta! Non mi avevi mica detto che il più piccolo è nato poche settimane fa?”.

“Proprio così. Sai, è una femmina, e sembra che abbia gli occhi verdi e grandi, proprio come i tuoi. Non vedo l’ora di vederla… mio figlio è così felice”.

Si ferma un attimo, sembra che stia pensando a qualcosa. Posa il pennello, poi solleva ancora la testa.

“Però negli occhi della mia nipotina preferita, la mia Mara, vedo una strana malinconia. E a Natale non bisogna assolutamente essere tristi”, mormora con un tono paterno, dolce.

Io, che avevo ripreso ad osservare gli scaffali, mi blocco improvvisamente.

Mi sembra di rivedere Steph…

 

“Sssh. La Notte di Natale non deve conservare cose tristi. Non deve assistere a degli addii”.

 

Scuoto il capo. Non posso nascondere nulla a Gustavo, proprio nulla.

“Cosa c’è, Mara?”.

Abbasso gli occhi.

“Credo… ricordi”.

“Mhh. I ricordi ci aiutano a continuare a vivere, ma non devono essere un tormento”.

“Lo so. Ma non so cosa mi prenda in questo periodo. Non riesco a staccarmi da certi pensieri. Io ci provo, ma… ”.

Faccio un grande sospiro. Nonostante tutto, Steph è ancora lì, nella mia testa, e non accenna a voler andarsene. Perché? Accidenti…

Gustavo non dice più nulla. E’ tornato a pulire quel vecchio elefantino di giada. Anzi, credo lo stia facendo, visto che ho appena girato intorno allo scaffale, e non posso più vederlo.

Improvvisamente, però, un rumore sordo mi fa sobbalzare. Spaventata, corro al bancone, con la paura che il mio nonnino acquisito possa essere caduto, scivolato, o qualcosa del genere. Ho l’impressione che gli basti poco perché si rompa qualcosa.

“Ehi! Tutto bene?”.

Fortunatamente non è successo nulla di grave, sono solo crollate alcune scatole che erano appoggiate su degli scaffali, in un angolo dell’ingresso. Gustavo è in piedi di fianco ad esse, e ne tiene una fra le mani.

“Cosa… cosa stai facendo?”.

“Cercavo una cosa. Peccato che abbia fatto cadere tutto. Speriamo non si sia rotto nulla… sono proprio un imbranato, eh eh”.

Ride, poi avanza verso di me, che lo fisso un po’ sorpresa.

“Ecco, tieni”, mi dice, porgendomi il contenitore di cartone pesante.

“Cos’è?”.

“Oh, quante domande… aprilo e vedrai”.

Nonostante il materiale, la scatola è abbastanza leggera. La soppeso un paio di volte, poi guardo Gustavo, per cercare di capire. I suoi occhi color cielo sono però indecifrabili.

“Ok, vediamo un po’”, mi decido quindi, sospirando. Con qualche difficoltà, sollevo il coperchio, dopo aver reciso i pezzi di skotch che lo tenevano ben sigillato alla parte inferiore. Il contenuto è avvolto da numerosi strati di carta plastificata, ma che in pochi secondi riesco a togliere.

Rimango a fissare l’oggetto rettangolare che mi è apparso davanti. Non riesco proprio a capire cosa sia.

“Tiralo fuori”, mi suggerisce Gustavo.

“Eh?”.

Si vede che sono un po’ addormentata. Con estrema lentezza, estraggo dal contenitore un cofanetto in legno chiaro con, sopra, un delizioso fregio in argento lavorato, annerito dal tempo. Ci metto un bel po’ di tempo, ma credo sia per la paura di rovinarlo.

Lo osservo, capendoci meno di prima.

“E’ un portagioie?”.

“Guardalo bene”.

Me lo rigiro tra le mani. Noto una serratura e, sul retro, una specie di manovella in miniatura, fissata al fondo. Credo di intuire qualcosa. Inizio a girare quella che mi sembra una carica a molla, fino a che questa non si blocca.

“Un carillon?”, mormoro, accingendomi a sollevare la parte superiore del cofanetto, che non è chiuso a chiave.

Gustavo annuisce.

Non appena viene aperto, dal rettangolo in legno comincia a provenire una melodia sconosciuta, che non mi pare aver mai udito prima. Completamente rapita, e senza quasi accorgermene, chiudo gli occhi, per lasciare entrare quelle note leggere nella mia mente. La musica è dolcissima, onirica, anche se molto particolare. Non so perché, ma non posso fare a meno di immaginare un cielo terso, alcune, soffici nuvole candide e i raggi di un sole splendido che mi scaldano il viso. Non è più dicembre, ma un bellissimo giorno primaverile. La primavera di un altro mondo, di un paradiso.

“Che… che canzone è, Gustavo? Da dove viene?”, balbetto.

Lui abbozza un sorriso, poi raccoglie la scatola. Dentro ad essa, senza che io l’avessi visto, c’è ancora un foglietto ingiallito.

“Questa è una di quelle bellissime leggende che amava tanto raccontarti il tuo nonno, Mara. Io non sono certo bravo come lui, ma si dice che questo carillon inglese, della metà dell’800, riproduca la melodia di un’antica canzone celtica. Una canzone che era in grado di guarire le ferite, e portare alla rinascita gli esseri viventi. La cantavano gli spiriti delle foreste”.

Detto questo, mi mostra il foglio che c’era nel contenitore del carillon.

“Qui è riportato il testo di quella canzone. E’ scritto in una lingua sconosciuta, a quanto pare. Non è riconducibile nemmeno alla lingua parlata dai celti, e ancora oggi è un vero mistero per gli studiosi che hanno provato a tradurla”.

Guardo il pezzo di carta. Sembra così fragile, come se bastasse un niente per ridurlo in briciole. Le parole, scritte forse più di un secolo fa dalla punta di un calamaio, mi appaiono inspiegabilmente rassicuranti, anche se incomprensibili.

 

*** [Win dain a lotica

En vai tu ri

Si lo ta

Fin dein a loluca

En dragu a sei lain

Vi fa-ru les shutai am

En riga-lint

 

Win chent a lotica

En vai tu ri

Si lo ta

Fin dein a loluca

Si katigura neuver

Floreria for chesti

Si entina

 

Fontina Blu Cent

De Cravi esca letismo

De quantian

La Finde reve

 

Win dain a lotica

En vai tu ri

Si lo ta

Fin dein a loluca

En dragu a sei lain

Vi fa-ru les shutai am

En riga-lint…]

 

“Incredibile…”.

“Vero?”.

“Ma… ”.

Rialzo gli occhi dal testo della canzone, per posarli su Gustavo.

“… perché l’ hai dato a me?”.

Rimaniamo in piedi l’uno di fronte all’altra per qualche secondo, poi lui si scosta, tornando verso il banco su cui stava lavorando. Si siede sullo sgabello e, pennello alla mano, ricomincia a spolverare i soprammobili in giada. Non mi risponde.

Mi sento un po’ scombussolata. E’ forse colpa della melodia? Abbasso il coperchio del carillon che ormai, comunque, ha terminato la carica. Faccio per rimetterlo a posto, riportando la scatola verso l’ingresso, quando Gustavo mi ferma.

“No, Mara, è tuo. Te lo regalo. Carillon e canzone”.

Ehh? Deve essere proprio rimbambito. Ma no, forse sono io che non ho capito bene…

Mi rischiaro la voce.

“Ehm, senti, deve valere un mucchio di soldi, non credo proprio che… ”.

“Prendilo. Sono sicuro che ti aiuterà”.

Gustavo mi sorride tranquillo. Un sorriso sereno, incredibilmente sereno. Sembra ringiovanito di trent’anni.

“E… a fare cosa?”.

“A guarire le ferite. Credi ancora nelle leggende”.

 

****

 

E’ davvero deprimente ritrovarsi fra le mura scolastiche il 23 dicembre. Altamente deprimente.

In cinque anni che lo frequento, nel mio Liceo non si è mai organizzato nulla di più complesso dei colloqui con i professori, e adesso, improvvisamente, toh… una bella festicciola - o quello che sembra abbiano cercato di organizzare - di Natale. Così, per chiudere felicemente il millennio. Ah, che depressione.

Sono in piedi davanti al tabellone con, riportato, il programma della giornata. E’ appeso al muro dell’atrio. Assonnata in un modo disumano, cerco di focalizzare le lettere spalancando gli occhi, ma senza grossi risultati. Datemi un caffè…

“Ma guardaaaa, la Maruccia è già arrivata!”, sento ad un tratto alle mie spalle. Chissà perché, so perfettamente a chi appartiene quella voce…

Sento Serena aggrapparsi alla mia schiena con il suo dolce peso - oddio, è un fuscello da nemmeno 40 chili, ma chissà per quale strano mistero sembra pesare come un bue - mentre, da destra, vedo arrivare Noemi, vestita insolitamente con una gonna e non dei pantaloni. E’ abbastanza corta, sotto ha dei collant scuri. La mini, sul viola con piccoli lustrini luccicanti qua e là, mi lascia un attimo sconvolta, e anche se dovrei essermi abituata già da molto tempo alle originalità di Noe, non posso resistere dal farle i miei crudeli commentini in merito.

“Uellaaaa gioia… e questa pacchianata nuova dove l’ hai pescata? Però, devo ammettere che le paiettes ancora mancavano alla tua fornita collezione… ”, le dico con un sorrisone largo tutta la faccia. Lei, come sempre, mi restituisce un’espressione offesissima, ma che non riesce a tenere per più di un secondo e mezzo. Ridacchia, poi, risoluta, controbatte.

“Non è pacchiana, è bellissima!”.

“Se lo dici tu… l’importante è crederci!”.

“Sere, a te piace, vero?”.

Noe, in cerca di consensi, getta disperata un’occhiata a Serena che, ancora attaccata alle mie spalle tipo bradipo, ci guarda divertita.

“Mmmh… sì sì, ma ti assicuro che in pacchianate non mi batti! Ricordi la magliettina fuxia-shocking che mi ero messa questa estate per il diciottesimo di Mara?”.

A quelle parole, fulminata dal ricordo dell’immagine di Serena con quell’orrore addosso, mi piego letteralmente in due, trattenendo a stento le risate. Prendo spessissimo in giro quelle due per i loro gusti discutibili, ma la verità è che sono assolutamente convinta che, qualunque cosa si mettano, la sappiano portare sempre e comunque benissimo. Ma di certo, non glielo dirò mai… mmh, è troppo divertente, così.

“Ehiiii, non ridereee!”, mi urla Sere battendomi sulle schiena le mani chiuse a pugno.

Io continuo a sghignazzare, mentre Noe inizia a studiarsi interessata il programma della mattinata. Intorno a noi parecchi studenti e studentesse hanno cominciato ad affollare l’atrio, e ad allestire alcuni dei settori preparati per la giornata.

Sbadiglio, mentre, lentamente, mi trascino verso il muro per appoggiarmici. Serena, come un’appendice del mio essere fisicamente distrutto, mi segue fedelmente. L’unica differenza sta nel fatto che lei si accascia sul pavimento.

“Mi spieghi perché sei così assurdamente assurda?”, chiedo a Noe, fissando la sua espressione assorta.

Lei sembra non sentirmi, e solo dopo qualche secondo mi risponde.

“Uhm… guarda qui… quelli di quarta fanno una rappresentazione teatrale… ’Il Canto di Natale’ di Dickens… Poi c’è anche un coro alle 10.45… ”.

Io e Sere ci scambiamo un’occhiata, capendoci al volo. Sorridiamo rassegnate…

“Noe, ma non ti stanchi mai di essere sempre entusiasta e interessata ad ogni singola, piccola grande cosa, fatto, manifestazione, iniziativa di questa terra? Come dire… mi metti in una certa agitazione… è preoccupante”.

La mia stramba, adorabile amica mi guarda, ridendo.

“E’ preoccupante cosa?”.

“Ehm… casomai te ne fossi dimenticata, tutto questo è stato organizzato dal nostro liceo. Dal nostro liceo, capisci?? La scuola più avvilente dell’universo… cioè, stringendo… sei sicura di sentirti bene?”.

Sere, dal basso, si trova pienamente d’accordo con la mia considerazione.

“Maruccia ha ragione. Rimarrai per sempre un mistero anche per me… solo tu puoi pensare di divertirti oggi, qui. Uffiii, l’ultima cosa che vorrei fare il 23 dicembre è stare a scuola… in questa scuola, soprattutto”.

Noemi guarda Serena, poi sospira.

“Mmmh, credo solo di essere un tipo che cerca i lati positivi in tutto, sapete? Insomma… qualcosa di buono ci sarà pure qui… o almeno lo spero… ”, ci dice con un sorriso non troppo convinto. Da’ un’occhiata al tabellone, poi al salone. Infine, ritorna con gli occhi su di noi. Alza le spalle.

“Ok, lo ammetto. E’ decisamente squallido”.

Tutte e tre ci guardiamo in silenzio, poi scoppiamo insieme a ridere. Ancora una volta.

 

****

 

“Ehi, Mara, ma lo sapevi?”.

Alzo la testa dal cappuccino che, con tanto impegno, sto rimestando con un cucchiaino. Un cucchiaino d’acciaio, non di plastica, per di più. Che lusso. Sì, è proprio da non credere, per la festa hanno allestito perfino un bar.

Comincio a pensare che ci sia sotto qualcosa. Non riconosco più la mia scuola… un altro miracolo del Natale?

“Che cosa sapevo?”.

“Ecco… tu mica avevi partecipato a quel concorso di fumetto per autori esordienti, a settembre?”.

“Ah… sì, ma poi non mi hanno detto più nulla. Era quello in cui dovevo presentare una storia breve, formata da un massimo di otto tavole. La prof. di Grafica aveva insistito tanto perché partecipassi… non so se poi, però, ne è valsa davvero la pena”.

“Uhm… ”.

Scruto Sana, mentre lei, con la faccia affondata nel programma delle manifestazioni ospitate dal nostro liceo, continua silenziosamente nella lettura, senza dirmi più nient’altro.

“Alloraa? Yu-huu!”, esclamo, passandogli una mano davanti agli occhi.

“Eh?”.

“Uhm… cosa??”.

La mia amica, dai lunghi capelli neri, mossi e dai riflessi rossicci, alza finalmente la testa. Mi fissa con gli occhi spalancati, tanto che quasi salto per lo spavento.

“Ah, ecco… ”.

Mi tiro indietro di una decina di centimetri.

“Mamma, fai paura… Serenuccia, non farmi preoccupare… che c’è??”, mormoro.

“Mara… ”.

“S-sì?”.

“Qui c’è scritto che sei arrivata prima”.

“COSAAAA??”.

Ho bisogno di reggermi a qualcosa. Subito. Adesso. Immediatamente.

Ah. Che idiota, sono già seduta. Calma… stai calma.

Ahah… ma no, no… ci deve essere stato qualche errore, sicuramente… mi avranno confusa con un’altra… avranno scambiato le tavole… che so… quelle dell’ultima classificata con la prima… per forza…

“Mara, riprenditi… ”.

“Sto benissimo”.

“Non mi pare, sai?”.

“Ohh, non preoccuparti, certamente avranno sbagliato. Non posso assolutamente… ”.

“Guarda che c’è proprio il tuo nome, dubito che possano avere sbagliato”.

“Il mio… nome?”.

“Yes, nome e cognome associati al titolo dell’opera presentata… poi la città, e… ah, guarda!! Dicono anche che la premiazione avrà luogo a mezzogiorno all’ultimo piano! Fantastico! Strano che i prof non lo sapessero… ma lo non sanno mai niente quando dovrebbero sapere qualcosa, quindi… ”.

Serena rialza la testa. Mi mostra un sorrisetto compiaciuto. E affettuoso.

“E’ inutile che cerchi di trovare errori che non ci sono. A quanto pare ce l’hai fatta, e questa volta sul serio. Cerca di mettertelo in testa, ok?”. Mi strizza l’occhio, poi, allungando un braccio sul tavolino, posa la sua mano sulla mia, coprendola con le sue dita affusolate.

“Sei la migliore, amica mia. E anche se io già lo sapevo da tempo, adesso ne avranno la conferma tutti”.

La guardo. Guardo una Serena stranamente seria. Già, è raro vederla così.

E io? Io… sono sorpresa, esterrefatta, shockata. Ma anche felice.

Ho una voglia pazza di abbracciarla, ma credo di non averne la forza, in questo momento. Dovrei riprendermi per qualche minuto…

Forse, però, riesco a dire solo una parola.

“Grazie”.

Sorride ancora, poi mi passa il programma, indicandomi l’elenco dei vincitori.

Fisso i caratteri stampati. Li fisso a lungo, ma non serve a nulla. Nonostante tutto, sono sempre incredula…

Non credevo di potermi commuovere. Non credevo di poter piangere per me, ma… lo sto facendo…

Lo sto facendo.

Lo so… è… una piccola cosa, ma…

 

“Mara, mi prometti una cosa?”.

Senza spostare la testa, ti rispondo.

“Che cosa?”.

“Mi dedicherai la tua prima opera? Intendo, la tua prima opera seria… ”.

Alzo gli occhi dalla tavola che sto ultimando. E’ un’idea che mi è venuta la sera prima, guardando un film. Mi pulisco le mani dalla tempera dei pastelli, poi ridacchio.

“Eh eh… puoi contarci, Stephen. Ma credo che nessuno vedrà mai nei miei disegni opere serie, nemmeno se li farò con l’intenzione che lo siano… ”.

Passa qualche secondo, poi ti appoggi al mio banco, fino a che il tuo viso non si trova a pochi centimetri dal mio. Appena me ne accorgo, presa alla sprovvista, mi sposto all’indietro alla velocità della luce. Che imbarazzo…

“Cosa vuoi che faccia per convincerti che sei brava?”.

Mi parli con tono di rimprovero, tono che, però, torna subito dolce. “Certo che sei proprio dura di comprendonio…”.

Appoggi una mano sopra la mia testa, senza muoverti ulteriormente. Non so se sia una specie di carezza. Mi schiarisco la voce.

“Mhh, quando riuscirò a vincere un premio ci crederò… eh eh!”, dico con un sorriso, tentando di mascherare la vergogna. La classe per fortuna è deserta, è l’intervallo. Una sola finestra è aperta, ma posso sentire ugualmente il profumo della primavera, trasportato nell’aula da una leggera e tiepida brezza. E’ così buono… e io sto… così bene…

“D’accordo”.

Mi circondi il viso con le mani e, alzandomelo, appoggi le labbra alla mia fronte. Al profumo dei fiori, si aggiunge il tuo. Fresco, rilassante, buonissimo. Mi sento mancare…

“Ecco il tuo primo premio… ok?”, precisi , staccandoti solo di poco. Quel tanto che basta per mormorare quella frase dolcissima.

Io, senza più voce, non posso fare altro che alzare gli occhi, guardarti, e annuire.

Suona la campanella.

 

E’ il 14 maggio, e il tempo sembra essersi fermato.

 

Riapro gli occhi. Oggi, 23 dicembre di cinque anni dopo. E’ l’antivigilia di Natale, e sto piangendo.

 

****

“Vuoi restare qui ancora per molto?”.

“Solo un altro po’… ”.

E’ sempre così bello, così confortante. L’albero di Natale in centro… quest’anno sembra brillare più che mai. La coppa argentata vinta al concorso, per terra di fianco a me, riflette sulla sua superficie lucida le luci colorate fra i rami dell’abete.

“Senti… ”.

Sere mi si siede accanto, nascondendo le mani nelle braccia. Inizia a fare un po’ freddo.

Io, assente, ho lo sguardo fisso in alto, dove c’è la stella. E’ formata da tante piccole lampadine bianche, e sovrasta la piazza. C’è un sacco di gente in giro e noi, sedute sul margine delle aiuole che circondano l’area pedonale, strette goffamente nei nostri cappotti, sembriamo proprio fuori posto.

“Vuoi sapere che ho, vero?”.

“Beh… è da stamattina a scuola, dopo che hai vinto il premio che… ecco, ti comporti in modo strano”.

Mi volto verso la mia amica. Ha un’espressione un po’ preoccupata.

Inizio a giocherellare con dei sassolini vicino ai miei piedi, poi mi decido a parlare.

“Ti ricordi di Stephen, vero?”.

Per un attimo lei non risponde, forse per l’effetto di risentire quel nome dopo tanto tempo.

“Stephen… ”, ripete, gli occhi persi nei ricordi. “… il nostro Stephen?”.

“Già”.

Il brusio che riempie il centro della città occupa, per qualche attimo, il silenzio che si viene a creare fra di noi. Non c’è bisogno di parlare di Steph per ricordarlo. Basta solo pronunciare il suo nome, e lui è di nuovo qui, davanti ai nostri occhi. Ai miei, e a quelli di Sere.

“Sono già cinque anni che è andato in America”, mormora, con un sorriso dolce sulle labbra. “Dio, sembra ieri quando scherzavamo seduti sui banchi, alle medie… ”.

Chiude gli occhi, assorta.

“Steph era fantastico. Un ragazzo come ce ne sono pochi”.

Forse vuole un qualche commento da parte mia, ma non riesco a dire niente. Posso solo ritornare a fissare le luci dell’albero. Non so se sia per la luminosità intensa o per il freddo che, improvvisamente, si è fatto pungente, ma i miei occhi sono ancora lucidi. Che fastidio…

Mi sfrego le palpebre col dorso di una mano, togliendomi un guanto. Serena si gira verso di me.

“Tu gli volevi un bene incredibile”.

Nascondo il viso nelle braccia appoggiate sulle ginocchia. Se parlassi adesso, le parole mi rimarrebbero mozzate in gola. Dannazione, perché sono così sensibile? Perché queste maledettissime lacrime spuntano sempre fuori? Per ogni cavolata, per ogni ricordo. Sono proprio un disastro. Con un grande sforzo, le ricaccio indietro. 

Lei, però, si limita a guardarmi, senza insistere per farmi parlare. Legge i miei pensieri. Lo fa sempre quando non voglio risponderle, e, sempre, mi capisce alla perfezione. Ha sempre compreso tutto di me. Anche che volevo bene a Stephen. Che gli volevo bene in modo diverso da come gli poteva voler bene un’amica…

“Sai”, continua poi imitandomi, affondando il viso nel cappotto. “Quando noi tre stavamo insieme, a quei tempi, io ho sempre visto voi due, come dire… beh,  praticamente uniti. Avevo difficoltà nel considerarvi separatamente. Eh eh… eravate proprio in simbiosi”.

Ridacchia, riuscendo a strappare un sorriso anche a me.

“Ero sicura che prima o poi vi sareste messi insieme”.

“Ma non è successo”.

Lei sorride tristemente.

“Solo perché se n’è andato. Se fosse rimasto qui… ”.

“No, non sarebbe successo comunque nulla”.

Serena si volta di scatto.

“Perché dici così?”.

Scuoto lentamente la testa.

“Io e lui eravamo molto diversi. Steph aveva grandi aspirazioni, e dei sogni che io non potevo nemmeno immaginare di raggiungere. Non sono mai stata forte e determinata come lui, e di sicuro non era una come me che cercava. Così… debole. E infatti io sono ancora qui, mentre lui è ad Atlanta”.

Il cielo si è fatto veramente scuro, sono ormai le cinque passate. Sana alza la testa.

“Sei proprio una stupida”.

Con un mormorio, le rispondo.

“Lo so”.

Sospira, rassegnata. “Uff… questo discorso me l’hai già fatto un’altra volta, Mara, e so che, qualunque cosa ti dica, non riuscirò mai a convincerti del contrario. Comunque… ”. Torna a guardarmi. “… se lo vuoi sapere, credo proprio che se Stephen fosse qui, adesso, sarebbe molto, molto orgoglioso di te”.

Io la guardo a mia volta, senza capire.

“E per cosa?”.

“Per il concorso. Ricordo che ti incitava di continuo perché, un giorno, ti facessi conoscere da tutti… ti trovava bravissima, e lo sai bene. Credeva in te, e per un po’ anche tu avevi iniziato ad aver fiducia in te stessa”.

Abbasso gli occhi. No, no… perché parlare di questo? Sere… perché mi stai dicendo proprio queste cose?

“… poi, però, dopo che se n’è andato, tu hai mollato. E sei tornata ad essere la vecchia Mara. Insicura, e triste”.

Si avvicina, posando una mano sul mio braccio. Cerca di incontrare il mio sguardo, ma io non voglio.

“Stephen tirava fuori il meglio di te, questo è certo. Ma io so che anche ora potresti usare tutte quelle doti che ti rendono Mara - al – massimo. Sempre, non solo in pochi, rari momenti. Ecco… ”. Immagino che stia continuando a fissarmi.

“… io non pretendo di essere una gran filosofa, so di non conoscere nulla della vita, sono solo una pazza patentata, ma… credo che bisogni sempre continuare a lottare, a insistere, per avere dei risultati. Ai sogni ci si arriva poco alla volta, ma con costanza. E tu non puoi lasciarti abbattere da dei fallimenti, o dai cambiamenti. So che sei capace di essere forte se lo vuoi, forte come quando c’era Steph”.

Forse è inevitabile, ora, che sollevi la testa.

“Sere… ”, dico piano. “Tu… sei cambiata molto”.

Lei pare non capire il senso delle mie parole. Poi, però, un raro, malinconico sorriso compare sulle sue labbra, mentre gli occhi scuri si abbassano. Era… era qualcosa che volevo dirle da tanto. Da tanto, tanto tempo.

“Già, sono cambiata. Non so nemmeno perché, e come. Credo che… sia stata una specie di rivelazione, se così vogliamo chiamarla. Sai quando ti svegli, una mattina, accorgendoti di come sia meraviglioso il calore del sole o… che so, di come sia buona la colazione? So che sono stupidate, ma sono cose del genere che hanno iniziato a farmi vedere la vita con entusiasmo. In un attimo, mi sono resa conto di stare buttando via i miei anni migliori. Non era di certo una gran cosa continuare a vivere passivamente. Mi ero stufata, e volevo essere felice di vivere. Volevo avere fiducia, volevo avere speranza, volevo avere tanto da dare. E così… sono diventata quello che sono oggi”.

Annuisco silenziosamente. Bastasse così poco anche a me, e andrebbe davvero tutto da favola.

“Sei incredibile, Sere”. La guardo con affetto, stringendole una mano. “Grazie per tutto, per… tutti questi anni. Sei tu che mi hai sempre sostenuta”.

“Ma piantala!”, esclama lei, ridendo. “Non ho fatto nulla per cui tu debba ringraziarmi, cicci! Lo sai che sei davvero uno stress con tutti i tuoi grazie?”.

Si alza, stiracchiandosi verso l’alto. Appoggia le mani sui fianchi, poi si gira ancora verso di me.

“Mhh, forza, credo sia ora di andare… mica hai detto di dover comprare un po’ di cose per domani sera? Dai, ti aiuto a fare la spesa! Ma prima penso che dovremo passare a casa tua per lasciare la coppa… sarebbe un po’ ingombrante da portare in giro!”, mi dice, tendendomi una mano.

Contagiata dal suo buonumore, sorrido. Stringo le sue dita e lei, facendo leva sulle gambe, mi tira su.

“Ehi, ma che sei, ingrassata? Pesi un sacco!”.

Le do un leggero pugno sulla spalla, fingendomi offesa.

“Ma davvero?”.

“Direi proprio di sì!”.

“Che odiosa… ”.

Le faccio una linguaccia, e lei mi risponde allo stesso modo.

Per qualche secondo rimaniamo in piedi tenendoci ancora per mano, sembrando probabilmente due sorelle. Poi, quando i soliti ritornelli natalizi, come ogni sera, iniziano ad essere diffusi per le strade tramite gli amplificatori montati intorno all’albero, ci abbracciamo.

Le note di White Christmas, cantata da Armstrong, volano nell’aria, leggere. Mi viene voglia di cantarla, come per chiamare la neve.

La neve. Chissà se quest’anno nevicherà, per Natale?

 

[…I'm dreaming of a white Christmas,
Just like the ones I used to know.
Where those tree-tops glisten,
And children listen
To hear sleighbells in the snow.

I'm dreaming of a white Christmas,
With every Christmas card I write,
"May your days be merry and bright,
And may all your Christmases be white".

I'm dreaming of a white Christmas,
Just like the ones I used to know.
May your days be merry and bright,
And may all your Christmases be white].

 

Chissà…

E mentre mi allontano dalla piazza con Sere , me lo chiedo ancora.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Seconda Parte ***


Non mi è mai stata bene la gonna. Anzi, non capisco proprio come mi sia saltato in mente di comprare anche solo quelle poche che ho nell’armadio.

Devo segnarmelo assolutamente da qualche parte, “mai più gonne”… magari distribuisco anche qualche promemoria fra i parenti, così, giusto per non ritrovarsi regali indesiderati ai compleanni e alle feste, cosa che a me capita spessissimo, naturalmente.

Bleah, lo specchio mi dice decisamente “no, per carità, levatela”. Così, seguendo il suo consiglio, mi sfilo velocemente anche quell’orrore, lanciando insieme un’occhiata all’orologio appeso al muro. Come sempre, sono in ritardo. Gli ospiti arriveranno a momenti, e io non ho nulla addosso.

“Ok, vada per i pantaloni”, mi dico quindi, aprendo l’ultimo cassetto leggermente agitata. La mia ultima spiaggia.

Dopo aver rovistato per cinque minuti fra varie paia, propendo per i miei preferiti: neri, svasati, comodissimi. Perfetti quando non sai cosa mettere, vale a dire sempre per me.

Soddisfatta, scelgo in pochi secondi cosa abbinarci sopra. Un maglioncino morbido, di non so quale strano tessuto chimico, corto, scollo ampio a v e leggermente aderente, regalatomi l’anno prima da Noemi. Per una volta, il suo gusto pacchiano non ha avuto il sopravvento.

Aggiungo un girocollo in oro bianco, sottile, e un paio di orecchini molto semplici. Spendo gli ultimi quindici minuti in bagno, uscendo puntuale come un orologio svizzero al primo campanello alla porta. Che donna che sono, penso sorridendo, per poi infilarmi un paio di scarpe dal tacco non troppo alto, sobrie, semplici ma eleganti. Voilà, sono a posto.

Scendo le scale, dirigendomi in soggiorno. C’è uno strano profumo nell’aria. Devono essere le candele che ho comprato due mesi fa, al muschio bianco. La mamma deve averle accese, spargendole per tutta la casa. Beh, meglio così, sicuramente a me non sarebbe proprio venuto in mente. Però… non ricordavo più quanto amo questo odore. Mi rilassa, incredibilmente. E mi fa pensare solo a cose belle.

“Incredibilmente puntuali… non ci avrei mai scommesso!”, esclamo, scendendo i due scalini che mi separano dal salotto. Serena e Noemi, in piedi fra le poltrone, stanno chiacchierando con mia madre. Appena sentono la mia voce si girano.

“Ma come siamo eleganti!” mi dice Noe, squadrandomi. Sorride, poi mi punta un indice al petto.

“Sbaglio o questo ha qualcosa di familiare?”.

“Chissà chi me lo ha regalato!”, rispondo, abbracciandola. Anche lei stasera è in pantaloni: dalla vita bassa, di un bordeaux scuro. Sopra ha una magliettina dagli strani disegni tribali, sempre su toni caldi, che le lascia scoperta un po’ di pancia. Brr, mi viene freddo solo a guardarla. Noto che fortunatamente si è portata anche un golfino, ora abbandonato sul mio divano. Nonostante tutto sta veramente bene. Si è anche rinnovata il taglio, e i riflessi rossi delle corte ciocche sfilate le illuminano il viso, facendolo sembrare più abbronzato.

Sere, invece, si è messa un vestito scuro, semplice ma che fa decisamente la sua figura. Lungo fino alle ginocchia, ha un fantastico spacco laterale. Quando si veste seriamente - evitando strane pacchianate - sembra più grande di almeno cinque anni. Tra l’altro si è lisciata i capelli, e truccata alla perfezione devo ammettere che è davvero bella. Come dice sempre il suo ragazzo, Federico, ha un fascino d’altri tempi, di quelli che ti mettono addosso malinconia e un timore quasi reverenziale, come se ti trovassi davanti a una di quelle attrici bellissime e perfette degli anni ’40. Che sembrano rompersi come bambole di porcellana al solo pensiero di sfiorarle, insomma. Sia chiaro, io riesco a provare suddetto timore solo per un paio di secondi… poi la solita e pazza Sere si sostituisce all’immagine della Cleopatra dagli occhi da gatta che tanto adora Fede, e finisco per scoppiare a ridere. A proposito di Fede, non vedo né lui né Ale.

“Scusate, ma i vostri ragazzi?”, chiedo, dopo aver abbracciato anche Sere.

Noe alza le spalle, scocciata.

“Ci hanno detto che arrivavano più tardi. Sembra che siano stati costretti a passare almeno due terzi della serata in famiglia”.

“Traditori…”, sbuffa Sere.

Guardo per un po’ tutte e due, poi stendo improvvisamente le braccia verso l’alto, aprendole con aria gloriosa.

“Coraggio, non è una tragedia! Avete me, dopotutto!”.

Loro mi fissano inespressive, poi Serena guarda Noemi.

“Che fortuna, eh, Noe?”.

“Già! Morivo dalla voglia di passare una serata con Mara! Tu no?”.

“Eccome!!”.

Scuoto la testa, fingendomi delusa.

“Stasera siete adorabili, davvero”.

Dopo avermi insultato per circa una decina di minuti, le mie dolcissime amiche si offrono di aiutarmi a sistemare gli ultimi addobbi. Tanto, a quanto pare, tutti sembrano in ritardo, e io come sempre ho fatto il tour de force per niente. Intanto, mia mamma si è già rinchiusa di nuovo in cucina, felicissima di poter finalmente sperimentare tutte quelle strane ricette che io gli avevo naturalmente proibito di testare sui miei amici.

Ormai sono quasi le otto e mezza. Finalmente, uno dopo l’altro, tutti gli ospiti si riversano in casa mia, che lentamente si fa sempre più rumorosa. Era da tanto che non sentivo più così tante voci fra queste pareti. Da molto tempo.

Anche se mi sembra ieri quando, prima i miei nonni, poi mio padre, se ne sono andati, senza che quasi me ne rendessi conto.

Improvvisamente triste, faccio un lungo respiro. Il muschio bianco, l’aromaterapia e tutte quelle cose lì fanno per fortuna il loro effetto e, dopo aver recuperato il sorriso, vado ad accogliere gli ultimi amici.

“Eleeee!”, grido, gettando le braccia al collo della ragazza dai lunghi capelli biondi e un po’ mossi che è comparsa davanti a me, dietro alla porta. 

“Che accoglienza, eh eh!”, riesce a dire lei con la sua voce cristallina, prima di restare quasi soffocata dal mio abbraccio. Era veramente da molto tempo che non vedevo Elena, e quasi non potevo crederci quando, mesi prima, mi aveva assicurato che sarebbe venuta a trovarmi per Natale.

La conosco praticamente da sempre. Per me è come una sorella maggiore, o una seconda mamma, se vogliamo. E’ più grande di me di parecchi anni, ma ci intendiamo alla perfezione, come se fossimo gemelle. Mia mamma ha una casa vicino Roma e da sempre, ogni estate, io e la mia famiglia andiamo a passarci le vacanze. Elena è, praticamente, la figlia dei nostri vicini. Purtroppo, però, quando io avevo quattordici anni sono stati costretti a traslocare a Firenze, e da allora noi due siamo riuscite a vederci solo poche volte durante le tre estati seguenti. Comunque, siamo sempre rimaste in contatto.

“Mara! Come stai? Cavoli, non ti riconosco più… ”.

“Ma dai, sono passati solo due anni”.

“Ti assicuro, mi fai sentire meno vecchia… ”.

Ridacchia. Mentre la faccio entrare, le lancio un’occhiatina.

“Cosa vuoi dire?”.

Lei continua a ridere ancora un po’.

“Beh, che ora i nostri dieci anni di differenza sembrano essersi dimezzati… ”.

“Ah, ma davvero sembro così grande?”.

“Mh, sì sì… ”.

Io scuoto il capo, mettendole un braccio intorno alle spalle. “Non so se prenderlo come un complimento o altro… ”.

Faccio velocemente le presentazioni, decisa a trascorrere almeno tre quarti d’ora a chiacchierare ‘dei vecchi tempi’ con Elena. Proprio quando sto per dirigermi verso il divano con lei, però, il campanello suona ancora.

“Vuoi che vada iooo?”, cerca di gridarmi Sere qualche metro più in là, in punta di piedi, nel tentativo di superare il baccano prodotto da un qualche CD di musica pop che uno dei miei amici deve aver fatto partire sullo stereo. Cerca di raggiungermi, ma una ventina di persone che ballano, mangiano e parlano ci dividono, e non sembrano essere intenzionati a spostarsi. Non sembra più un festa natalizia… okay la casa piena e l’atmosfera allegra, ma ho l’impressione che forse avrei dovuto invitare meno gente. Soprattutto, dire esplicitamente ai miei amici di non portare i loro amici. E gli amici dei loro amici.

“No no, non preoccuparti, vado io!”, le urlo quindi con tutto il fiato che ho in gola, facendole dei segni con le mani, sopra la testa. Mi scuso con Elena e, sospirando, mi dirigo nuovamente all’ingresso.

Questa volta, però, quando apro la porta non posso proprio credere ai miei occhi. Un fantasma, .o quasi.

“Ra… Rachele?”, balbetto.

La ragazza davanti a me, avvolta in un lungo cappotto rosso deliziosamente natalizio, mi guarda, poi annuisce lentamente. Ferma sulla soglia, rimane in silenzio fino a che non scoppio in lacrime. Meno male che mi ero promessa di non piangere, almeno oggi.

“Se sapevo che ti avrei fatto questo effetto, non avrei chiesto a mio zio di ospitarmi fino a metà gennaio… ”, mormora quindi lei, stringendomi forte. Io sorrido, e dopo essermi asciugata gli occhi, prendo le sue mani, gelate, fra le mie.

“Ma smettila, se mi dicevi che venivi ti ospitavo io!”.

“Scusa, ma se te lo dicevo che sorpresa era?”.

Mi passo ancora una mano sulla guancia umida, poi conduco Rachie in casa. Rachie… già, è così che l’ho sempre chiamata. Chiudo la porta alle nostre spalle.

“Io… non ci posso credere”, continuo, tornando a osservarla sempre più convinta di avere davanti un ectoplasma.

La mia amica mi sorride dolcemente, come solo lei sa fare, poi volta la testa verso il salotto. E’ identico a come l’ho lasciato prima di andare ad aprirle, purtroppo.

“Ehm… scusa il casino, ho organizzato una piccola festa che mi è un attimo sfuggita dalle mani… ”, dico, un po’ imbarazzata.

Lei però ride, divertita.

“Non preoccuparti, capita spesso con le feste… eh eh. E poi sono piombata qui, sono io che mi dovrei scusare con te, Mara”.

Scuoto il capo con decisione. “Non pensarci nemmeno!”.

Ci allontaniamo dal soggiorno. Mi dispiace lasciare Elena così, ma una sorpresa del genere proprio non me la sarei mai aspettata. Mai.

“Mi avevi detto che non ti saresti potuta muovere da Londra per ancora un paio di mesi… il tempo di finire il libro… ”, dico, riempiendole un bicchiere di Coca-Cola e porgendoglielo. “Come hai fatto a trovare il tempo per venire in Italia?”.

Rachele beve un sorso, poi torna a guardarmi.

“L’ho finito”.

“Cosaa?”.

“Già, prima del previsto. Si vede che ero molto ispirata”.

A quelle parole, spalanco le braccia, felice. La abbraccio. 

“Ma è grandioso! E quando sarà pubblicato?”.

“Non lo so ancora con esattezza. Ma entro l’anno prossimo di sicuro”.

Mentre continuo a parlarle, vado a versarmi anch’io un bicchiere di Coca. Rachele è rimasta sempre uguale. Nonostante abbia ormai ventun’anni, il suo viso è sempre quello di una ragazzina, una ragazzina che solo pochi anni prima avevo conosciuto via Internet. Era la webmistress di un sito dedicato interamente alle opere e ai racconti di autori esordienti, che lei si preoccupava di raccogliere e diffondere per la rete. Di molti ne era l’autrice, e fu proprio dopo aver letto una delle sue storie che, entusiasta, decisi di scriverle per farle i miei complimenti. Da quella mail e da quelle che seguirono, io e Rachele iniziammo a diventare amiche inseparabili. E nemmeno tanto lontane, visto che poi scoprimmo che ci separavano solo pochi chilometri.

Sì, Rachele è davvero una scrittrice eccezionale. Leggere le sue storie è come leggere dei sogni, tanto belli, luminosi e chiari quanto reali, veri. Dei sogni incredibilmente concreti, ma non per questo tristi, noiosi o prevedibili, come lo sono oggi quasi tutte le cose terrene. Sono semplicemente ritratti vivi e palpitanti di persone, di ragazzi, di vite. Io, a quel tempo, ne ero rimasta semplicemente incantata, convinta che quella scrittrice in erba, giovanissima e incredibilmente dotata di talento, un giorno sarebbe arrivata lontano. Molto lontano.

Alla fine del liceo, lottò per conquistare una borsa di studio per andare a studiare lingue all’estero, vincendo anche in modo definitivo alcuni disturbi fisici che da sempre erano stati per lei come delle catene. E alla fine, ce la fece davvero. Partì per l’Inghilterra, e in questi tre anni non ha fatto altro che impegnarsi al massimo. Per studiare, e per scrivere. L’anno scorso, finalmente, un editore a cui aveva mandato i suoi racconti si è fatto sentire, accettando di pubblicarglieli. Visto il successo riscosso, non elevato ma comunque molto buono per una scrittrice sconosciuta e per di più così giovane, l’ha poi pregata di scrivere ancora. Un romanzo, però, non dei racconti. Roba grossa, mi aveva detto in una mail.

Sono veramente felice per Rachele. Veramente, veramente felice, perché di sicuro si merita questo e altro. E ora, che dopo tanto tempo è di nuovo qui, davanti a me, lo sono ancora di più.

“Voglio che tu sia la prima a leggerlo. Anche perché sei una dei protagonisti”.

Detto questo, tira fuori dalla grande borsa che ancora porta in spalla un corposo blocco di fogli stampati, tenuti insieme da una fascetta di carta. Lo appoggia sul tavolino di fronte a noi, poi alza nuovamente gli occhi su di me.

Io, incredula, la fisso.

“Io… cosa sono?”.

“Su, non fare quella faccia. Ti assicuro che ti ho resa bene, simpatica e con pochi difetti”.

“Non è per questo, è che… non credo di essere un soggetto interessante su cui scrivere”.

“Maruccia, non ti conosci abbastanza”.

Mi guarda con i suoi magnetici occhi nocciola, poi la sua espressione cambia. Si fa più dolce, forse anche più seria, per poi iniziare a parlare pacatamente.

“Ho scritto molto su di te. Sentivo che dovevo farlo, e quando ho iniziato non mi sono più fermata, fino alla fine. Sai, credo che sia anche merito tuo se sono arrivata fin qui”.

Per poco non scoppio a ridere.

“Ma io non ho fatto proprio nulla… senti, Rachele… ”.

“Lo so”.

Fa una piccola pausa, chiude gli occhi. Dopo pochi secondi sorride.

“… lo so. E’ grazie alle mie capacità e alla mia volontà se ce l’ho fatta… me lo dicono tutti. Ma ti posso assicurare che tu mi hai dato qualcosa. Forse si sarà trattato solo di qualche parola, o di una stupida sensazione che ho provato io, ma è andata così. Mara, mi sei stata vicino come da tempo nessuno aveva più fatto per me… nessuno ha mai creduto veramente che sarei riuscita a diventare qualcuno, e a vincere i miei limiti. Solo tu. Sei stata un’amica meravigliosa, e lo sei ancora. Ma, soprattutto, sei una ragazza con tanti sogni. E questo, è bellissimo”.

Alzo gli occhi. “Anche tu lo sei”.

“Tu sei speciale”.

Rimango in silenzio un po’. Non riesco a capire fino in fondo le parole di Rachele e, inspiegabilmente, divento un po’ triste.

“Chissà… forse, in un’altra vita, eravamo legate in qualche strano modo, eh eh… ”, mormoro, senza guardarla negli occhi.

Non posso vederla, ma credo che lei, invece, mi stia fissando.

“Devi avere più fiducia in te stessa”.

Continuo a restare in silenzio, non sapendo bene che dire. Non serve, Rachie… me l’ha già detto Sere, questo…

Per un po’ non diciamo entrambe più nulla, poi lei, forse intuendo il mio stato d’animo, decide di cambiare argomento.

“Sai, ho già qualche idea per il mio prossimo libro”.

“Davvero?”. Finalmente riesco a dire qualcosa.

Rachie annuisce, contenta del mio interessamento.

“Sì. Ho deciso che tratterà una storia d’amore. Però… sinceramente, mi manca un’idea originale. E non so proprio dove trovarla”.

Rimango qualche secondo a pensare, poi le sorrido.

“Non preoccuparti, vedrai che quando meno te l’aspetti ti verrà la giusta ispirazione. Sei un asso nel trovare la giusta ispirazione… ”. La guardo, ironica.

Lei mi ricambia l’occhiata.

“Mhh, già, soprattutto se del buon materiale a disposizione…”.

Mentre ridiamo, sento il campanile a pochi passi da casa mia suonare. Strano che riesca a sentirlo, in mezzo a tutto questo chiasso. Uno, due, tre, quattro, cinque. Sei, sette, otto, nove… dieci. Dieci rintocchi.

Sono solo le dieci, ma mi sembra di avere trascorso un secolo a parlare con Rachele.

Questa notte… questa notte non è ancora nemmeno iniziata.

Chiudo per un attimo gli occhi, concentrandomi sul battito del mio cuore, mentre il tempo sembra perdere i suoi confini per estendersi verso l’infinito. L’unica cosa che conta davvero, adesso, è quello che sento. Un presentimento. Lo stesso che, pochi giorni fa, mi aveva fatto alzare gli occhi al cielo per cercare delle risposte.

Provo ancora nostalgia, ma allo stesso tempo, mi sento bene. Mi sento veramente bene.

 

****

 

L’agitazione in soggiorno si è leggermente pacata, e io posso portarci Rachele per presentarle Elena, Noemi e Serena, più qualche altro amico. Incominciamo a chiacchierare, fino a che, verso le undici, arrivano sia i ragazzi di Noe e Sere che alcuni miei parenti. C’è anche Teo, che per tutto il giorno è rimasto a casa del mio cuginetto più piccolo, con cui va, inutile dirlo, d’amore e d’accordo. L’abbiamo spedito dagli zii giusto per evitare che intralciasse i miei piani festaioli, ma a quanto pare ne è stato felicissimo, visto l’infinito numero di giocattoli con cui è tornato a casa.

C’è qualche scambio di regali, poi, fortunatamente, tutta la gente che era per me semi-sconosciuta se ne va. Rimaniamo in pochi, e io posso finalmente tirare un sospiro di sollievo.

“Mara, l’anno prossimo una cena fra pochi intimi, d’accordo?”, mi dice Sere, lanciando un’occhiata critica alla sala. In effetti è ridotta in uno stato più che pietoso. Mi porto una mano alla fronte.

“Spiritosa, come se non me lo fossi già detto”, mormoro, tirandomi indietro una ciocca di capelli. “Beh, pazienza… ”.

Tutto ad un tratto mi rendo conto di quanto mi facciano male i piedi. Non riesco a portare i tacchi per più di qualche ora.

“Sentite, se non mi metto al più presto qualcosa di più comodo potrei anche morire”, dico, andando verso le scale. “Scendo subito, voi fate pure come se foste a casa vostra”.

“Io ho voglia di mangiarmi una fetta gigante di panettone”, esclama Noemi lanciando un’occhiata famelica al tavolo della cucina, dove è in bella mostra una forma familiare avvolta da carta argentata e da un nastro rosso. Mia madre e l'Ale si mettono a ridere, dopodiché la guardano.

“Ho capito, ho capito. Vado subito a dividere le cibarie”, le dice poi mia madre, sorridendole.

“Mhh, la adoro quando fa così, signora”.

Anche Elena e Rachele ridacchiano. “Sbrigati Mara, oppure non ti resterà niente!”, aggiunge poi Ele, mentre mio fratello le si butta sulle ginocchia per essere preso in braccio. Mentre mi allontano, sento mia mamma ricordargli che forse è diventato un po’ troppo grande per queste cose. Teo immancabilmente strepita.

Salgo i gradini lentamente, e ad ogni passo le voci dei miei amici si fanno sempre più lontane, come ovattate. Credo di essere un po’ stanca.

Arranco fino alla porta della mia camera. Dentro respiro un'aria strana, assomiglia un po’ a quella del negozio di Gustavo, come se fosse rimasta chiusa da giorni. Un profumo dolce, di cose passate e preziose.

Sarà un caso, allora, che proprio nel momento in cui penso a lui, cercando nella penombra gli stivaletti, il carillon che mi ha regalato si metta improvvisamente a suonare?

Mi volto di scatto, lanciando un'occhiata alla finestra. E' lì, sulla mia scrivania, a pochi centimetri dal vetro. Il giorno prima l'avevo caricato, ero rimasta tutta la sera ad ascoltare quella musica…

Poi la carica era finita. L'avevo lasciato aperto, ma la carica era finita… me lo ricordo bene.

Eppure…

 

[Win dain a lotica…]

 

Adesso sta suonando.

 

[... En vai tu ri... si lo ta...]

 

Sta suonando. E le parole della canzone mi compaiono nella testa, una lettera dopo l'altra.

 

[... Fin dein a loluca... en dragu a sei lain...]

 

Rimango nell’oscurità, immobile, a fissare la sagoma del carillon che si staglia contro il chiarore proveniente dalla finestra. E' molto buio, ormai, eppure c'è luce. Fioca, tenue…  ma non può essere quella dei lampioni, giù in strada…

E' una luce diversa. Una luce che ho già visto, cinque anni prima. In quella notte.

Quella notte senza fine.

Mi avvicino, quasi con timore. Non so definire con esattezza cosa sto provando, non ci riesco, ma qualcosa, o qualcuno, mi sta dicendo che devo guardare.

Cerco di mettere a fuoco qualcosa che si muove, attirata da una forza misteriosa. Sì, c'è qualcosa che si muove, lì dietro. Piccoli fiocchi, piccoli e fitti, cadono veloci oltre la superficie trasparente, quasi volessero inseguirsi. Brillano come lucciole, tanti bagliori candidi nella notte nera che mi assicurano, con un sussurro, che un ricordo è tornato.

Mi stringo nelle braccia, ma non ho freddo. Anzi, sento un calduccio piacevole, come quello che si prova nelle notti di temporale, sotto le coperte, in compagnia del proprio libro preferito. Nel mio caso, mi basta questa musica da fiaba, e la neve di una notte di Natale.

Non so se, sotto sotto, provi anche un po' di dolore. Forse, ma è di gran lunga superato da questa sensazione di incredibile pace, di serenità, che avvolge e penetra ogni fibra di me. E' quasi struggente, trascendentale. Non credo di aver mai provato nulla del genere, di così lancinante, forte e lieve allo stesso tempo.

Mentre rimango a contemplare quello spettacolo silenzioso, rapita perfino dal mio respiro, all'improvviso un rumore sordo mi fa sobbalzare.

Rimango qualche secondo a cercare di capire cosa possa essere stato, col cuore a mille per lo spavento, poi, voltandomi verso il corridoio, mi rendo conto che qualcuno deve aver suonato alla porta. Il fatto è che non mi sono mai abituata al suono che produce il campanello al piano di sopra.

Chiudo il carillon, spezzando con la melodia anche la magica atmosfera che si era creata dentro di me. Pazienza, mi dico, mentre mi infilo gli stivaletti. E' stata una cosa strana, però. Bellissima.

Scendo le scale, sentendomi tutta ad un tratto completamente sveglia. Le ragazze a quanto pare si sono trasferite in cucina, probabilmente a mangiare. Che morte di fame, proprio non mi hanno aspettato, penso, mentre i miei zii, dall'altra parte della sala, chiacchierano animatamente fra di loro. Sento una risata di mia madre, inconfondibile, poi le voci di Elena, Rachele e di Noemi. Faccio per dirigermi verso di loro, quando noto la porta all'ingresso spalancata. Ah, già, il campanello.

Arrivo sulla soglia, e scendo i due gradini che mi separano dal viale. La neve ha già ricoperto ogni cosa di uno strato leggero, appena un paio di centimetri. L'aria non è particolarmente fredda, non tira nemmeno vento.

Alzo lo sguardo. A qualche metro da me, vicino al cancello, scorgo una figura di spalle. Sembra Sere, e sta certamente parlando con qualcuno, anche se non riesco a vedere chi.

Mi incammino verso di lei con passo veloce, curiosa di sapere chi è arrivato. Tanto, ormai, stasera non mi stupisco più di nulla, mi dico mentalmente.

"Ehi!", li chiamo, tirandomi sulle mani le maniche della maglietta. "Perché non venite in casa?".

Nel momento in cui sente la mia voce, Serena si irrigidisce, e smette di parlare. Il misterioso interlocutore sta esattamente davanti a lei, e non posso ancora vederlo. Anche lui non dice nulla.

"Mara…", mormora poi Sere, ad un tratto.

Il suo tono è serio, così serio che mi fa paura. Sento un brivido percorrermi la schiena. Per un attimo, quello che ho provato pochi minuti prima in camera, davanti al carillon di Gustavo, ritorna violentemente dentro di me, concentrandosi in un solo, unico istante, così denso e luminoso da farmi quale male. E' amplificato, e cento volte più forte.

Sere si sposta.

"Ciao, Mara…".

Forse…

Forse è solo un sogno.

Si spiegherebbe tutto, sì.

E' sicuramente un sogno…

"Ne è passato di tempo".

Davanti a me, il paesaggio cambia improvvisamente, facendosi bianco e nero, come in un vecchio film.

Come quel pomeriggio, quando andai a prendere Teo a scuola. Tutto è immobile, come in un fermo immagine, ed io non riesco a proseguire. Prima, ho bisogno di ogni piccolo particolare, di ogni elemento di questa scena, perché voglio che rimanga per sempre nel mio cuore. E' troppo bella da lasciare andare, come una farfalla rara. Bella, unica e fuggevole.

Porto le mani alla bocca, e quello che può uscirvi è solo un nome sussurrato.

"Steph".

 

****

 

I fiocchi di neve son sempre più fitti. Ringrazio quel velo chiaro e opaco che mi separa da lui, a qualche metro da me. Almeno, così, non può vedere i miei occhi, lucidi.

Sere mi osserva. So cosa significa, il suo sguardo mi dice di parlargli, di non lasciar passare nemmeno un minuto, un secondo. Eppure ancora non ci credo. Come… come potrei farlo?

Un’apparizione…

E se fosse solo un’illusione della mia mente?

Penso ad ogni cosa. Mi passano per la testa mille scemate, poi tento di riacquistare un minimo di razionalità.

Inizio a studiarlo, senza fare un passo, ferma in mezzo al viale, stretta nelle braccia ma non più per il freddo. Tremo senza sapere perché, e solamente dopo qualche istante mi rendo conto che qualcuno, lassù, deve aver ascoltato dei desideri che non avevo mai creduto si potessero realizzare.

Far tornare un ricordo. Una notte di cinque anni prima. Una lunga, interminabile notte, insieme a dei sogni grandi come quel cielo stellato, i desideri di due persone che andavano incontro all’ignoto, lungo strade diverse. Una piena di fiducia nel futuro, l’altra terrorizzata da ciò che avrebbe portato. Terrorizzata di proseguire da sola, senza l’altra. Terrorizzata all’idea di non rivederla più.

“Steph… ”, ripeto ancora, felice, puramente felice di risentire il suono di quelle lettere, di risentirlo nell’aria fredda della sera, fra la neve, di vedere il suo nome diventare vapore col mio respiro, ancora una volta.

Lui sembra aver capito. Si è accorto di quello che provo, e non dice nulla. Mi guarda sorridendo, in un modo così dolce, così lieve che non posso fare a meno di provare il desiderio di gettarmi su di lui.

La sua figura è slanciata, avvolta da un cappotto color seppia, del tutto simile a quello che indossava l’ultima volta che ci eravamo visti. A quanto pare, per mia gioia, ha davvero abbandonato i piumini degli anni delle medie.

“Io… io torno dentro… ”.

Sento appena la voce di Serena, che con discrezione si allontana da noi. Chiude piano la porta.

Steph tossisce, e abbassando un poco gli occhi accenna un sorriso.

“Lei… ”, prende a mormorare.

“… ci ha voluto lasciare… da soli, sì”.

Riesco a parlare di nuovo. Però una frase migliore la potevo anche dire…

“Ehm, cioè… ”. Tento di correggermi, ma è troppo tardi. Spero ardentemente che lui non abbia capito male.

Ma in fondo chissene frega, mi dico poi. Stephen è qui. Qui. Davanti a me.

Cos’altro può importare?

“… sì?”.

“Beh… volevo dire che… che… tu… ”.

Non balbettare come un’idiota… dio santo, parlagli!!

Avanti! Diglielo… digli che lui ti è mancato e…

“Anche tu mi sei mancata, Mara. E molto”.

Il suo tono è cambiato, d’improvviso. E’ una di quelle cose che non ti aspetti… no, che decisamente non prevedi. O che prevedevi solo nelle tue fantasie più belle.

Che ti fanno avvampare nonostante gli zero gradi, e l’aria gelida che ti graffia il viso.

Come se non bastasse, ci sono anche quei venti, miseri centimetri che distanziano il suo viso dal tuo. Si sono ridotti a venti dai novanta buoni che erano fino a poco prima grazie ad un rapido avvicinamento da parte sua, di cui tu non ti sei resa minimamente conto. Ovviamente.

“I-io… ”.

Dio santo… sento il suo profumo.

E appena mi abbraccia, percepisco anche il suo calore.

“Sei sempre la stessa. Non sei affatto cambiata”.

Mi stringe con forza, ed io, col naso nel suo petto, sento le parole arrivarmi ovattate ma dolci, scandite in un mormorio rassicurante, un tono soffice, morbido, che da tanto non sentivo. Mentre chiudo gli occhi, la sua mano affonda fra i miei capelli.

“Ehi… ”.

Mi allontana, e io, un po’ delusa, lo guardo.

“Che… che c’è?”.

“I capelli… ecco cosa c’è di diverso!”.

“Eh?”.

Mi tocco la testa, senza capire a cosa si riferisce. Probabilmente cinque anni fa non li avevo così. Ma anche se ricordo benissimo com’era lui, non riesco a visualizzare me.

Steph mi vede sorpresa, e ridendo prende una ciocca fra le dita.

“Una volta non eri rossa. Eri bionda. Ma nonostante questo ti ho riconosciuta subito quando ti ho vista”.

Mi rivolge un altro dei suoi sorrisi dolcissimi. Io mi sento di nuovo andare a fuoco, ma  stando fuori, di sera, non dovrebbe notarlo. Lo spero. O forse lo spero.

“Non… non ricordavo di averli tinti dopo che te n’eri andato”, dico, la voce un po’ tremante. “Sai… alla fine, dopo un po’ che li tieni così, ti sembra di averli sempre avuti rossi. Cioè… per me, è così”.

“Ehehe, immagino. Comunque stai benissimo. E sei anche più alta”.

“Ah… grazie. S-sì, anche tu… in fondo son cinque an… ”.

“E più carina”.

Altro colpo inaspettato. Se non avessi diciotto anni e non fossi in piena salute, crederei di stare per morire d’infarto.

Carina?? Carina, io?

Ma… ma… ma ci vede?? Forse col tempo ha iniziato a soffrire di miopia.

La verità è che… che non riesco a tirare fuori una sillaba. Insomma, questa era meglio se non la diceva. Cioè, è bello che l’ha detta, anzi, bellissimo, però io…

Io…

“Perché… sei tornato?”.

Giusto. Perfetto. Allontaniamoci abilmente dall’argomento prima che la cosa si faccia davvero troppo emozionante per il mio povero cuore… e comunque, questa è la prima cosa che voglio sapere. Che ho bisogno di sapere.

Inizio a camminare, ficcando le mani nelle tasche dei pantaloni. Dopo qualche secondo, però, non ricevendo risposta da Steph, mi fermo.

Lui è ancora immobile, sul vialetto. Sembra concentrato, sta pensando a qualcosa.

“Senti… ”. Mi restituisce lo sguardo, serio. “Che ne dici di… fare una passeggiata?”.

Io annuisco, leggermente preoccupata dal suo cambio d’espressione.

“Ok. Entro… a prendere il cappotto”.

 

****

 

Le vie sono piuttosto animate. Dalle mie parti festeggiare il Natale significa stare tutti insieme per le strade fino a notte fonda, a cantare e a scambiarsi regali. Una tradizione che adoro, e che ho sempre rispettato, tranne per l’appunto quest’anno. O magari posso dire di starla rispettando in parte visto che adesso sono a braccetto di Steph, illuminati dalle luci appese ad ogni angolo dell’ampia strada che stiamo attraversando. E’ una bella sensazione, magica.

“Mi è mancato tutto questo”.

“Cosa?”.

“Questa atmosfera. C’è solo qui”, dice, come se mi avesse letto nel pensiero. Mentre una nuova melodia natalizia si diffonde nell’aria, improvvisamente mi sento le gambe molli, senza forze, e sorreggendomi a lui cerco di stare in piedi. Credo di essermi resa conto solo adesso della reale situazione in cui mi trovo.

Del fatto che siamo io e lui, ancora una volta, sotto la neve, sotto le stelle, e le luci del Natale.

Io, e lui…

Come una volta.

“Mara… ?”, mi dice ad un tratto, fissandomi sorpreso. “Sei sbiancata…”.

“Eh? No, no… t-tranquillo… è solo un po’ di stanchezza”.

Ricomponiamoci. Assumi un’espressione normale… calma… perché dovresti agitarti?

Attimi di silenzio. Steph torna a guardare davanti a sé. Tiro un sospiro di sollievo.

“Sai… in America… era tutto molto diverso”, riprende. “La gente… beh, sì, era gentile, allegra… ma non poteva darmi lo stesso calore del posto in cui ero nato. E poi, anche se ero con la famiglia di mio padre, non mi sentivo a casa”.

Si ferma, e alza il viso. Nei suoi occhi castani si riflettono i bagliori delle luci intorno a noi.

“Ed è per questo che sei tornato?”, domando.

Lui si gira, e scuote debolmente la testa. Sorride con una lieve malinconia.

“Oh, no. Anche se spesso avrei voluto farlo, per questo”. Fa una pausa. “Non sai quante volte”.

Dicendolo, mi trapassa con un’occhiata. Un’occhiata intensa.

“Sul serio?”.

“Certo”.

Non mi accorgo di essere persa negli occhi di Stephen finché delle grida festose non giungono da dietro. Ci scostiamo per far passare una comitiva che sta cantando allegramente, forse fin troppo. Alcuni sono infatti un po’ brilli, e ridono come pazzi. Nemmeno fosse l’ultimo dell’anno, penso, squadrandoli severa.

All’improvviso uno di loro mi urta, facendomi quasi cadere a terra. Fortunatamente, Steph mi afferra al volo. Con mia grande gioia, in tutti i sensi.

“Gra… grazie”, mormoro, rimettendomi in posizione eretta.

“Figurati”. Ridacchia. “Ecco, questa è una delle cose che mi sono mancate. Mara imbranata!”.

Lo fisso.

“Mi stai prendendo in giro o è solo una mia impressione?”.

“Mh, da cosa lo intuisci?”.

Scoppiamo di nuovo a ridere entrambi, poi riprendiamo a camminare.

“Avanti. Fai il serio per un attimo”, dico, tornando ad essere agitata.

Lui non risponde subito, ma fa un profondo sospiro.

“Ecco… cinque anni fa, come sai, me ne sono andato per poter frequentare l’Accademia Aeronautica… ad Atlanta, dove abitavano i parenti di mio padre. E dove mio nonno aveva realizzato il mio stesso sogno”.

A quelle parole, pronunciate in modo lento, cauto, inizio a ricordare. Già. Era stato grazie a suo nonno se Steph aveva iniziato ad amare il volo, fin da bambino. Ricordo bene di come mi raccontava entusiasta di lui, delle imprese che aveva compiuto in guerra e dei guinness che aveva battuto prima per divertimento, poi per sfide personali. Era stato un uomo fantastico, di sicuro. E che per Stephen aveva rappresentato moltissimo.

“Si… ricordo che me l’avevi detto”, mormoro, osservandolo. Improvvisamente mi sembra che si sia intristito.

E credo anche di sapere il motivo, di quella tristezza.

“Era per mio nonno che dovevo farcela. Dovevo… ”.

“Ti è mancato molto… vero?”.

“Moltissimo”.

Mi viene da stringermi ancora di più a lui. So che è forte, ma so anche che ancora oggi prova un grande dolore per la morte di suo nonno. Lo so, perché è lo stesso dolore che provo ancora io per quella del mio, e per quella di mio padre.

La sofferenza per la perdita di una persona amata, di un punto di riferimento, è immensa. Soprattutto se è inaspettata, improvvisa. Ti logora dall’interno, porta via una parte di te, e fa male. Anche se all’inizio sei convinto di poterla superare, non ne sarai mai capace davvero. Sì, magari un giorno si trasformerà in qualcos’altro… ma molto difficilmente sarà un sentimento diverso dalla malinconia.

E poi, quando crederai che sia finita, essa muterà in rimpianto. In mille rimpianti. E quelli, sono ancora più terribili.

“Steph, tutto bene?”.

Cerco i suoi occhi, ma lui li chiude, scuotendo la testa.

“Si… si. È stato un attimo… così, ora mi passa”.

“Ok… ”.

“E’ che… lui non doveva andarsene in quel modo. E’ stato un errore dei meccanici, non è stata colpa sua, però non… lo saprà mai”.

“Steph, io non credo che abbia pensato a… ”.

“Ma è morto credendo di essere stato tradito dalla sua stessa passione. E anche mio padre ha sempre pensato la stessa cosa, pur sapendo la verità. Il volo aveva ucciso mio nonno, e avrebbe fatto lo stesso con me, se avessi seguito le sue orme. Una folle ossessione, secondo lui”.

La sua voce non trema, ma per un attimo si ferma.

“… Avrei… avrei voluto imparare tutto da lui. Tutto quello che sapeva”.

Si porta una mano alla bocca, come per impedirsi di continuare a parlare.

Io sono sorpresa. Non credo di aver mai visto Steph parlare di suo nonno in questo modo, anche se non è la prima volta che mi racconta di come è morto. Forse… forse c’è qualcosa in più, che non so.

L’unica cosa che spero è che… non sia ancora più dolorosa.

Ma devo saperlo. Assolutamente.

“Tu… sei riuscito comunque a diventare come lui… ”, dico con voce incerta e bloccandogli il passo. Lo fisso. “… vero?”.

Un sospetto, nella mia testa.

Terribile.

Guardami Steph. Guardami.

Ti prego.

“… vero?”, ripeto, a voce più bassa, prendendogli un polso.

Lui reagisce al mio tocco. Leva la mano dal viso, e nella penombra riesco a vedere un sorriso triste. Tirato.

“Mara… ”.

“… sì?”.

“Grazie. Hai sempre creduto in me. Sempre”.

Solleva finalmente la testa, e quando noto il modo con cui mi sta guardando, sento una corrente calda che mi attraversa il corpo.

 

Vero, semplice, chiaro. Ecco come sei. Un’anima pura, e trasparente.

 

Nella mia mente si riformano le stesse parole che pensai nella notte in cui partì. Ricompaiono d’improvviso, nitide. E mentre osservo i suoi occhi castani per la prima volta lucidi di lacrime trattenute con fatica, mi rendo conto che forse il futuro che aspettavamo con tanta fiducia anni fa aveva fregato entrambi. Aveva deluso entrambi, e ci aveva feriti.

Sì… lo so. Adesso lo so.

I tuoi occhi non possono dire il falso…

Non hanno mai detto il falso.

“Ti prego… non piangere… ”.

La sua mano è calda… e la pelle talmente liscia, morbida…

Dio… sei davvero un angelo.

Con estrema delicatezza asciuga le lacrime scese sulla mia guancia.

“… Mara… ti prego… ”.

E per questo… non doveva succedere.

No, non a te.

Non tu.

 

Volevo che le tue certezze diventassero reali.

Non m’importava di nient’altro. Eri imprigionato, e desideravi soltanto volare.

 

“Per… perché… ”.

Tutto si è fatto silenzioso, non c’è nemmeno una canzone nell’aria. E la neve ha ripreso a scendere, più fitta.

Cade sul mio viso, su quello di Steph. Si confonde con le mie lacrime, diventando acqua.

“Mio padre… lui, alla fine ha ceduto, e mi ha lasciato entrare nell’Accademia. L’ho frequentata per quattro anni, e sembrava che tutto andasse bene, ma poi… ”.

Delle note lievissime ricominciano a diffondersi, molto debolmente. Cerco di capire cosa siano, ma non riesco a concentrarmi su nient’altro che la voce di Stephen.

Sul suo respiro, sui suoi occhi. Sulle sue labbra bellissime, che so stanno per dirmi qualcosa che non vorrei mai sentire, ma che ho bisogno di conoscere.

“… sei mesi fa… ho dovuto andarmene. Sono stato male… durante un’esercitazione”.

Ecco cos’è…

Silent Night.

Sì… è Silent Night.

Quest’anno… non l’avevano ancora suonata.

I rintocchi del campanile risuonano nella città. Manca mezz’ora alla mezzanotte. La melodia si fa più alta, unendosi al rumore prodotto dalle campane.

“Stato… m-male… ?”.

Porto le mani al viso, mentre dei singhiozzi che non riesco a fermare mi bloccano le parole in gola.

Non dovrei piangere io.

Perché… lo sto facendo?  

“… io… ho una malattia al cuore, Mara. Una malattia che mi ha impedito di raggiungere il mio sogno, il sogno a cui mio nonno aveva sperato che arrivassi. E’ per questo che sono tornato. Rimanere lì… non aveva più alcun senso, ormai”, mi sussurra, stringendomi improvvisamente a sé, come per proteggermi dalla violenza di quelle orribili parole.

Il suo cappotto è un po’ ruvido, ma fra le sue braccia riesco a smettere di piangere. Con la testa appoggiata sul suo cuore, un cuore che, anche se malato, batte…

Batte…

Sembra così forte, questo petto. Così ampio, resistente. E la sua stretta così calda, sicura.

 

Volevo vederti felice. Vittorioso, trionfante.

Vedere le tue dita alzate al cielo.

Volevo che le tue certezze diventassero reali. Non mi importava nient’altro.

 

“Steph… tu… hai sofferto”, mormoro,  continuando a stringerlo. “Mi dispiace… non lo meritavi… tu non lo meritavi… ”.

“Ma che dici… ”. Dolcemente, mi passa ancora una mano tra i capelli. “Non è questione di meritarlo o non meritarlo. E’ capitato, e basta”.

Mi scosta piano da lui, poi mi guarda. Sta tentando di calmarmi, lo so, e lo adoro per questo. E’ sempre stato così. Voleva essere sempre sicuro che io stessi bene…

Mi asciugo le lacrime, ma non alzo la testa. Non ci riesco, ancora.

“Sai… ci ho pensato a lungo”, riprende, con tono apparentemente sereno. “Quando mi sono risvegliato in ospedale, in quella stanza asettica… dai muri bianchi, da essere quasi accecanti… è stata la prima cosa che mi è venuta in mente. Davvero. Stava andando tutto troppo bene… mio padre non aveva più cambiato idea, ed io ero il primo del corso. No, era tutto troppo perfetto. Proprio come avevo sognato”.

Socchiude un po’ gli occhi, in modo infinitamente malinconico.

“La vita però non è sempre un sogno, e ti riserva un’infinità di sorprese… anche brutte. Qualcosa che non prevedi. E quando capitano, non ci puoi fare nulla”.

Fa una pausa, poi mi alza il mento con una mano, costringendomi a fissarlo.

“L’unica cosa che si può fare è reagire. Crogiolarsi nei propri guai non serve. Mi dispiace solo che… beh, forse ti ho deluso. Di certo ti aspettavi molto di più da me”.

Rimane in silenzio, guardandomi. Forse attende una risposta, ma io non so cosa dire.

Mi sembra che trascorra un tempo interminabile, mentre sono lì, in piedi davanti a lui, in mezzo a quella strada semideserta, con i capelli inzuppati di neve e il viso gelato.

Penso al perché non mi sento sollevata da quello che ha detto. Perché provo un’amarezza profonda, nonostante le sue parole.

 

Io, mi ero accontentata di poco.

Che i tuoi sogni, fossero anche i miei.

Entrambi… saremmo saliti entrambi sul podio.

Non è vero?

 

Già.

Il suo sogno era anche il mio. La sicurezza sulla sua realizzazione era diventata una mia certezza incrollabile. Qualcosa che mi aveva rincuorata e confortata quando i miei, di sogni, non si erano realizzati.

Più precisamente, quando non avevo nemmeno provato a raggiungerli. A credere che ce l’avrei fatta.

 

Eri perfetto. Una creatura non terrena.

 

Credevo ciecamente in Steph.

Avevo fatto affidamento solo su di lui, il mio idolo, il mio angelo, la persona che amavo… caricandolo inconsapevolmente della responsabilità sulla mia felicità. Ed è stato questo il mio errore. Un mio madornale, egoistico errore.

Senza saperlo, aspettavo il giorno in cui sarebbe tornato, vincente, per potermi sentire finalmente vincente anch’io.

E intanto? Intanto che avrei fatto? Probabilmente avrei vissuto una vita passiva, monotona, tranquillamente seduta dietro ad un finestrino dove avrei guardato il mondo scorrere via, senza mai provare a scendere dal mio sicuro autobus per esplorarlo.  

 

Lottavo solo con te. Solo per te. Ma, per me stessa, non ho mai combattuto.

 

Era stato comodo. Ecco com’era stato…

Comodo.

Convincermi che non sarei mai stata felice se lui non fosse tornato da me, insieme al suo sogno, realizzato. Non ci avevo mai pensato, prima. 

E se lui non fosse riapparso così, all’improvviso… con questa notizia, io… forse, l’avrei aspettato per sempre. Senza vivere davvero, senza fare il minimo sforzo per realizzarmi, per cercare la mia felicità… e senza rendermene conto.

Perché avrei aspettato di condividere la sua.

Avrei aspettato di mettermi il cuore in pace.

 

A quei tempi, io ho sempre visto voi due… come dire… beh,  praticamente uniti.

Avevo difficoltà nel considerarvi separatamente… eh eh, eravate proprio in simbiosi.

 

Sere se n’era accorta. Già allora. Io non mi separavo mai da Steph…

Sì, gli volevo bene, e gliene voglio ancora adesso, dio se gliene voglio… ma forse avevo confuso troppo spesso la mia ammirazione per lui con ciò che amavo di lui. Credevo che mi spettasse di diritto una parte della sua felicità perché sostenevo le sue aspirazioni, ma mi sbagliavo.

Io…

Io non avevo il coraggio di vivere la mia vita senza Steph.

I miei fallimenti e i miei errori, le mie conquiste e le mie vittorie. Anzi… credevo che le seconde non ci sarebbero mai state, per me.

 

Io e lui eravamo molto diversi.

Steph aveva grandi aspirazioni, e dei sogni che io non potevo nemmeno immaginare di raggiungere.

Non sono mai stata forte e determinata come lui, e di sicuro non era una come me che cercava.

 

Avevo passato questi anni a denigrarmi, a ripetermi che non sarei mai diventata nessuno. Perché lui era troppo in alto, ed io sarei sempre rimasta indietro.

Eppure mi piaceva vivere nella sua ombra. Sempre inconsapevolmente, ma mi piaceva.

Solo adesso lo so…

Sono un’egoista. Una schifosa egoista.

L’aria si è fatta ancora più gelida. Ha smesso improvvisamente di nevicare, probabilmente perché la temperatura è scesa sotto lo zero. Ma io non ci faccio caso.

“Mara… ?”.

Non m’importa.

“… Mara, perché piangi?!”.

Saranno passati uno, forse due minuti, da quando ho smesso di parlare. Uno o due minuti da quando mi son resa conto di che razza di persona ero stata. Di che razza di persona sono.

Forse lui non potrà mai capirlo. E di certo nessuno si sarebbe mai accorto di nulla, anche se non me ne fossi accorta io.

Ma adesso, in questo preciso momento, vorrei sparire. Non essere mai nata.

“Mara??”.

Sono una persona fallita. Morta dentro.

Che non ha voglia di vivere, che non ha voglia di lottare per se stessa.

Chi potrebbe volermi accanto?

Sento le mani di Steph circondarmi il viso, la sua voce mormorarmi di guardarlo, chiedermi se sto sento bene, se ha detto qualcosa che non va. Io scuoto la testa, ma non so cosa dirgli per spiegargli cosa c’è, che non va…

 

Steph credeva in te, e per un po’ anche tu avevi iniziato ad aver fiducia in te stessa…

Poi, però, dopo che se n’è andato, tu hai mollato. E sei tornata ad essere la vecchia Mara… insicura, e triste.

Stephen tirava fuori il meglio di te, questo è certo.

 

Io… ho davvero bisogno di lui per convincermi di poter diventare qualcuno?

Di vivere come un parassita, attaccata alla sua schiena, per trarre la forza che mi serve per vivere?

 

Ma io so che anche ora potresti tirare fuori tutte quelle doti che ti rendono Mara - al - massimo, sempre…

E non solo in pochi, rari momenti.

 

“Steph… i-io… ”.

Deglutisco, cercando di finire la frase.

“… scusami. Scusami, se puoi. Non… non sei tu che mi hai deluso. Sono io… che probabilmente ho deluso te”.

A quelle parole, lui aggrotta la fronte.

“Ma cosa dici… perché tu mi avresti deluso?”.

“P-perché… ”.

La voce mi si incrina. Scoppio a piangere di fronte a Stephen, pensando di essere veramente troppo debole per stare a questo mondo. Non voglio sapere con che occhi mi sta guardando…

“… io… in tutto questo tempo, non ho fatto nulla per raggiungere ciò che desideravo. Non ho lottato. Non ho nemmeno provato a farlo, mentre tu… ”.

Mi fermo un attimo per prendere aria. Mi arriva in gola con violenza, pesante e pungente, facendomi male, ma a questo punto non posso più fermarmi.

Se lo facessi, sarei costretta, ogni giorno, ad incontrare negli occhi di Steph i miei sensi di colpa.

La mia inutilità. La mia codardia.

Continuerei a rivedere come l’ho ingannato… come mi sono illusa, io, di poter essere felice.

“… tu sei arrivato fin qui… da solo, senza arrenderti mai. E anche adesso… non ti scoraggi, nonostante tutto, sei capace di riprenderti, mentre io… non ce l’avrei mai fatta. Mi sarei lasciata andare, subito, al primo ostacolo. Alla prima delusione”.

Mi copro gli occhi con una mano. Non riesco a tenerli aperti.

Le lacrime, queste maledette lacrime non mi fanno più vedere nulla.

“Quando… quando prima mi hai detto della tua malattia, mi son… sentita morire. Credevo in te. Ho sempre creduto solamente in te, perché io… in prima persona, n-non avevo la forza di mettermi in discussione. Sono stata un’egoista, Steph… l’ho capito solo adesso, e ti chiedo di perdonarmi, se puoi. In un certo senso… ti ho usato, e per di più… ”.

Scuoto la testa, sfregandomi le palpebre violentemente.

“… non sono riuscita ad arrivare sul podio come una volta dicevi avrei fatto… non sono arrivata in alto insieme a te. E non credo nemmeno che riuscirò a farti quella dedica che… che ti avevo promesso nella mia prima… opera seria. Perché non ci sarà mai”.

Mi fisso le mani. Le apro, poi le richiudo, continuando a guardarle come se non le avessi mai viste prima. Il colore della mia pelle è chiaro, quasi cadaverico.

E’ tutto così triste. Talmente triste.

“Sono una persona vuota, Steph. Non ho sogni, non ho la forza di realizzarli. Non ho nulla da mostrarti con orgoglio. Non ho il tuo coraggio. Non ho nulla”.

Sento i capelli, ormai simili a pezzi di ghiaccio, continuare a sfiorarmi la pelle del viso, chino a fissare il terreno. Chino a fissare le mie mani, che si stagliano sull’asfalto nero della strada.

Non dovrebbe fregarmene nulla, ma invece quelle maledette ciocche scompigliate mi danno fastidio. Faccio per scostarle, ma prima che le mie dita, diventate quasi insensibili, raggiungano la testa, altre arrivano a bloccarle.

“Stai gelando”.

Sento a malapena il suo contatto.

“Ma dentro so… che sei calda. E coraggiosa. E piena di sogni bellissimi”.

Steph accosta lentamente le mie mani alla sua guancia, e chiude gli occhi. Come se sentisse fluire qualcosa dal mio corpo, rimane così per un lungo, lunghissimo momento, mentre io, probabilmente con un’espressione da pesce lesso dipinta sulla faccia, sono immobile. Noto con la coda dell’occhio una coppietta che ci fissa, e mi viene da ritirare il braccio.

Sto andando a fuoco per l’imbarazzo, ma non so, in realtà, se mi importi davvero.

Perché qualcosa, dentro di me, ha cominciato a sciogliersi.

“Non è sbagliato sostenersi. Non è sbagliato attingere forza da chi hai accanto”.

Ha riaperto gli occhi, e sta continuando a tenermi le mani fra le sue, anche se ora le stringe al petto.

“Non è… sbagliato?”, balbetto. “Ma… ”.

“Ciò che è sbagliato è non tirare fuori il meglio di sé”. Scuote la testa con un sorriso. “Tu… hai così tante qualità, Mara. Credi di non essere forte, di non saper lottare, di non saper camminare con le tue gambe, ma ti sbagli. Semplicemente, non hai mai voluto rischiare provandoci. E questo è umano. Tutti hanno paura… di non riuscire, di non arrivare, di non realizzare ciò che han sempre voluto. Di deludere chi li ama, se i livelli che raggiungono non sono i più alti. Nonostante quello che hai sempre pensato, tutto questo è successo anche a me”.

Fisso le nostre mani, e sollevo timidamente gli occhi.

“Sul serio?”.

“Sì. Prima che mio padre mi permettesse di entrare in Accademia. Era lui che avevo paura di deludere, allora. E credevo di non essere abbastanza forte per continuare ad insistere”.

“Ma io… ”.

“Serena”, mi interrompe, alzando di poco la voce. “Mi ha… detto una cosa”

Lo fisso, stavolta stupita. Che diavolo gli hai detto Sere, penso con un certo timore, ma venendo subito consolata dal fatto che son sempre in tempo dopo a spezzarle le braccia.

“Che… che cosa?”.

“Del concorso. Il premio che hai vinto qualche giorno fa”.

Mi libero dalle sue mani con uno scatto, e i miei pensieri lasciano subito Serena. Faccio qualche passo in strada nel tentativo di allontanarmi, di non guardarlo negli occhi, ma lui mi trattiene. Mi abbraccia da dietro d’improvviso, ed io mi ritrovo bloccata.

Sento il mio cuore iniziare a battere di nuovo come un tamburo. Forse so, forse credo di capire cosa sta per succedere. E’ una di quelle cose che non si possono spiegare. Uno dei miei soliti presentimenti, così tanti, infiniti in questo periodo, e dei quali ho imparato a non stupirmi più.

Percepisco il suo respiro caldo che mi sfiora il collo, e di colpo mi sembra tutto ovvio. Così naturale, e giusto.

Perfino la mia solitudine negli anni passati, i miei egoistici errori, la mia passività verso una vita che non avevo saputo come prendere mi sembrano in un istante semplicemente tasselli, pezzi di un gioco. Un gioco che era stato deciso da tempo, e nel quale, ora, mancava un unico elemento.

Perché, probabilmente, mi serviva solo un piccolo aiuto per capire qual era l’ultimo passo da fare.

La malattia di Steph, e il suo ottimismo.

Il suo ritorno.

 

Ai sogni ci si arriva poco alla volta, ma con costanza.

So che sei capace di essere forte, se lo vuoi.

 

Mi ero solo fermata. Una piccola pausa durante la mia scalata.

Alla fine, anche senza Stephen avevo raggiunto qualcosa. Ma solo per me. Inconsapevolmente, avevo partecipato a quel concorso perché lo volevo, perché desideravo provare a me stessa che avevo volontà, passione, voglia di mettermi in gioco.

Per provare a me stessa che ero viva, e che volevo vivere davvero.

Non avevo mai smesso di avere sogni. Un essere umano non può vivere senza sogni, è questa la verità. E se è solo, disperato, angosciato, sono l’unica cosa che gli rimane, la sua unica forza e l’unica che gli può permettere di risollevarsi da terra dopo una caduta.

Lo sapevo già. L’avevo sempre saputo, e mi mancava solo chi me lo facesse ricordare.

“Adesso…”.

E’ così vicino al mio orecchio, così tanto che il suo è solo un bisbiglio. Mi allontana i capelli dal viso con una mano, ed io cerco il suo braccio intorno alla mia vita per stringerlo ancora di più a me. Dopo pochi secondi, però, entrambi capiamo che non ci basta. Mi giro lentamente. Non voglio che la stretta si allenti, ma Steph non sembra intenzionato a fare nulla di simile.

“… adesso, potrai dedicarmi la tua opera pluripremiata, non è vero?”, mi chiede piano.

Io sollevo il viso, sorridendo divertita, anche se col cuore in gola. Sull’orlo delle lacrime.

“Davvero vuoi una dedica su quella? Guarda che è una storia piuttosto stupida… comica direi. Di serio non ha molto…”.

Lui mi sfiora la fronte con le labbra e socchiude gli occhi facendo una piccola risata, che mi solletica la pelle.

“Uhm, allora non posso proprio perdermela. E se proprio devo scegliere…”.

“S-sì?”.

Mi prende il viso tra le mani. I suoi occhi luminosi, leggermente allungati, mi penetrano fin nel profondo dell’anima. E mentre penso che non avevo mai, mai provato una sensazione del genere, vengo scossa da un brivido.

“… preferisco conferire un altro premio a questa deliziosa autrice esordiente”, mi sussurra malizioso. Avvicina la bocca al mio zigomo, poi, con una lentezza esasperante, inizia a scendere e a spostarsi verso il centro.

“Anche se non per il suo talento… ”.

Deglutisco.

“Ah… no?”, mormoro. La voce mi trema.

“No”, ripete lui. “Ma per qualcosa … di molto più importante”.

Finalmente le sua labbra raggiungono le mie, e non mi stupisco di sentirle morbide, perfette. E’ un bacio dolce, lungo e dolcissimo, ed il suo profumo mi entra nella testa, facendomela girare.

Mi sembra di essere tornata agli anni delle medie. Ad un preciso, particolare e meraviglioso pomeriggio di primavera.

Anche lui deve aver pensato lo stesso, visto quello che mi dice quando si stacca.

“Uhm, tutto questo mi ha ricordato qualcosa…”.

“Anche a me. Ma meno male che non mi hai dato un altro bacio sulla fronte, se no me ne sarei andata, te lo assicuro”.

Ride, poi mi copre di nuovo le labbra più volte, con piccoli baci leggeri.

“Questi vanno decisamente bene… ”, sussurro “… molto, molto bene”.

“Quindi la signorina è soddisfatta del premio?”.

“Mh, direi di sì”.

“Bene… perché questo è solo l’inizio”. Fa un’altra risata. “Mancano ancora i regali di Natale”.

A quelle parole abbasso lo sguardo, e affondo il viso nel suo collo. Devo essere più rossa del Babbo Natale all’angolo della strada.

“Sono felice”. Sento gli occhi inumidirsi di nuovo, e le guance scottano, anche se l’aria è sempre gelida. “Ma tu… insomma, la tua malattia non… ”.

“Posso guarire”.

Torno a guardarlo.

“Davvero?”.

Stephen sorride. Annuisce.

“In America mi hanno detto che ci sono delle probabilità che un intervento possa rimettere a posto le cose. E se tutto va bene, potrà anche farmi tornare a volare. Non è detto che riesca, ma è comunque una speranza. Non voglio buttarla”.

Rimango in silenzio, dicendomi che poteva anche dirmelo prima. Ma anche che, visti gli ultimi sviluppi, posso anche perdonarlo.

“Resterò qui in Italia per un lungo periodo, penso”, continua poi, interrompendo i miei pensieri. Mi passa una mano tra i capelli, ed io lo fisso speranzosa.

“Quanto… quanto lungo?”, mormoro.

“Mesi… probabilmente anni. Il tempo di vedere se posso fare l’operazione, eventualmente di riprendermi e di… ”. Si ferma un attimo, portando una mano al mio viso. Lievemente, mi accarezza una guancia con le dita, e con i suoi occhi da cucciolo prende ad osservarmi come si mi stesse guardando per la prima volta.

“… decidere cosa fare con le… novità del mio ritorno qui. Con una, in particolare”. Allunga le labbra, scoprendo i denti bianchi e perfetti in un sorriso allusivo.

Io gli stringo il polso, non potendo fare a meno di ricambiargli quello sguardo.

Mentre rimaniamo così, inizio a convincermi che i miracoli di Natale possano avvenire sul serio. Non so perché, ma mi ritrovo anche a pensare che forse, a casa, si staranno preoccupando per la mia improvvisa scomparsa.

Ridacchio. Chissà a che starà pensando Sere… uhm, probabilmente che io e Steph ci siamo imboscati da qualche parte. Anzi, scommetto che sarà pure andata a raccontare tutto a Noemi.

Le immagino sedute sul divano, impegnate a prendermi in giro e, rassegnata, scuoto la testa con un sospiro.

Steph cambia invece espressione, fissandomi senza capire.

“Perché ridi?”.

“Niente, niente… ”.

Fa per replicare, ma io lo prendo per mano e tirandolo per la strada torniamo a camminare.

“Dove vuoi andare?”, mi domanda ridendo. Io non dico nulla. Allora comincio a correre senza preavviso, e Steph a ridere più forte. Fra una falcata e l’altra, rischiamo continuamente di cadere.

Sento il vento freddo sulla pelle. La musica farsi alta, chiara, arrivando ovunque in quella strada piena di luci colorate, vive, calde. Dentro di me, una sensazione stupenda, e la voglia incontenibile di gridare.

Mi giro ancora e con tutta la voce rimasta finalmente gli rispondo.

“Dove avevamo fermato il tempo!”

 

****

 

Dieci minuti a mezzanotte, la piazza è in festa.

Stephen fa due passi avanti. Piano, con lentezza… quasi con timore.

“L’albero…”.

Sposto gli occhi da quella pioggia di luci.

“Non… l’avevi ancora visto?”.

Si volta e scuote piano la testa con, sulle labbra, un sorriso che solo un ragazzo che non ha dimenticato di non esser stato bambino è in grado di fare.

“No… sono tornato solo ieri, e non… non ero ancora passato di qua”.

Il suo sguardo si sofferma solo un istante su di me, troppo desideroso di tornare subito allo spettacolo davanti a noi, ed io prendo allora ad osservarlo con tenerezza, una tenerezza infinita. Intorno a noi famiglie, coppie, fiumi di persone parlano, ridono, camminano. Guardano l’albero con lo stessa espressione che, poco prima, ho visto sul volto di Steph.

Stringo le sue dita, ancora imprigionate nella mia mano, e appoggio la guancia sulla sua spalla. Di colpo mi sento totalmente, completamente serena, anche se, inspiegabilmente, ho una voglia matta di piangere.

Quanto sei stupida, mi dico poco dopo. Oggi hai già pianto abbastanza. Ti sembra il caso, adesso?

“Ehi… ”. Le sue labbra mi sfiorano una guancia, e passandomi un braccio attorno alla vita mi stringe a sé. “Che succede?”.

Io scuoto la testa, portando le dita agli angoli degli occhi. Faccio una piccola risata.

“Niente… ”.

“Come niente? Non fai altro che ripetermelo, e… ”.

“Ooh, insomma… mi sto commuovendo. Tutto qui”.

“Uhm. Per l’albero o per il mio ritorno?”.

“Mhh”. Lo fisso per un attimo. “Non lo so… ”.

“Guarda che potrei anche offendermi… ”.

Al colmo della gioia, mi butto al suo collo. Dio, quanto è bello essere felici…

E quanto è bello poter ripensare ad un vecchio ricordo senza starci più male. Senza quel dolore insopportabile, straziante, nel petto. Poterci ripensare piangendo, ringraziando il tempo perché, quella memoria, è tornata a far parte del presente.

E perché, adesso, si è in grado di renderla davvero infinita.

 

“Allora… cerchiamo di rendere questa notte infinita. Ok?”.

 

Quella lunghissima notte.

La notte in cui Steph mi aveva detto addio, in cui entrambi avevamo creduto che non ci saremmo più rivisti.

“Smettila, anche tu stavi per piangere!”, gli dico, farfugliando tra le lacrime. “Ti ho visto, sai!”.

“Uh, non è vero… è solo colpa di tutte queste luci! Mi bruciano gli occhi… ”.

“Bugiardo!”.

Un bambino passa accanto a noi, cominciando a guardarci incuriosito. Prendo ad inseguire Steph in mezzo alla gente, e facciamo per ben due volte il giro della piazza fino a che, stremati, non finiamo a terra, immersi nella neve fino alla vita. Siamo bagnati, ci gira la testa, non abbiamo più voce.

Io ho anche freddo, ma non mi da fastidio. Amo questo freddo. Adesso sono certa che lo amerò per sempre, così come amerò questo manto soffice, morbido, che accarezza la città come una coperta ricamata con cura da una mano materna.

Steph si rialza, e mi allunga un braccio per aiutarmi. Ritorno anch’io in piedi, e risollevando la testa dopo essermi scrollata dal cappotto la neve, noto che il bambino di prima è ora davanti a noi. Ha i capelli scuri e ricci, gli occhi di un blu intenso, da cielo primaverile. Si mette a saltellare e a battere le mani, poi scoppia in una gran risata entusiasta.

Io e Stephen ci guardiamo e, non riuscendo a trattenerci, torniamo a ridere con lui.

La madre osserva la scena con un sorriso benevolo, poco distante. Le faccio un cenno salutandola, e prendo il piccolo tra le braccia.

Mi butto ancora tra la neve. Lui ride. Ride e ride ancora, ed io penso che non ho mai sentito un suono più bello.

Poi, all’improvviso, i rintocchi.

Mezzanotte.

Nella piazza si ferma tutto per un attimo, un istante stupendo. Anche il mio cuore avverte quel pezzetto di tempo che si dilata e alzo gli occhi al cielo, assaporando il suono delle campane che si diffonde nell’aria.

Steph torna invece a sedersi fra la neve, come se fosse la cosa più normale del mondo. Poi, dopo aver preso dalle mie ginocchia il bimbo per sollevarlo in aria strappandogli un’altra risata, mi fissa con i suoi occhi meravigliosi.

“Buon Natale, Mara”.

Io lo guardo a mia volta. Mi avvicino al suo orecchio, e posandogli un piccolo bacio gli sussurro i miei auguri.

“Buon Natale, Steph”.

Il bambino inizia a rotolarsi nella neve, ma poco dopo la madre lo richiama. Lui si alza, ci saluta con la mano, poi corre via.

Rimaniamo in silenzio.

“Senti, mi prometti… ”, mormoro, dopo qualche secondo.

“Cosa?”.

Stephen mi attira a sé, e spostandoci di poco ci appoggiamo con la schiena al muretto di un’aiuola.

“… che… ci impegneremo tutti e due?”. Mi accoccolo contro il suo petto. “Per realizzare quello che vogliamo, intendo. Che non ci tireremo indietro, mai. Che continueremo a sperare e a lottare, anche se sarà difficile”.

Vedo una nuvoletta d’aria uscire dalla sua bocca, e la sua stretta intorno a me farsi più salda.

“Certo, non intendo rinunciare. E questa volta, non lo farai nemmeno tu”.

Il suo tono è quasi un comando, ma so che in realtà vuole solo incoraggiarmi.

“Ma se per caso non dovessi…”, inizio comunque a dire.

“Ti rialzerai”.

Si scosta dal muro, e cerca i miei occhi.

“Ci sarò io, se avrai di nuovo paura. Se cadrai. E tu sarai vicino a me, se sarò io ad inciampare”. Mi prende il volto tra le mani, e sorride. “Okay?”.

Annuisco, rendendomi conto, di colpo, che l’amore che sento intorno a me in quel preciso momento, mentre fisso il suo viso d’angelo, potrebbe riempirmi fino a farmi scoppiare.

Subito dopo una melodia dolcissima mi torna alle labbra. Senza chiedermi come sia possibile, ho la netta impressione che, nella mia stanza vuota, il carillon abbia ricominciato a suonare.

Tutto, nel giro di un istante, si fa certezza dentro di me.

Abbasso gli occhi, li chiudo. Ci sarebbero mille cose che, conoscendomi, dovrebbero passarmi per la mente dopo le parole di Stephen, ma, stranamente, non penso a nessuna di esse.

Non penso che sarà solo lui a farcela.

Non penso di essere troppo debole, di non essere in grado, di non poter riuscire.

Non penso che il suo sogno diventerà anche il mio, perché non ho abbastanza coraggio per inseguire quello che ho nel cuore.

No, non penso a niente di tutto questo.

Sorrido, risollevando lo sguardo su di Steph.

“Okay…”. Mi avvicino alla sua bocca e con un dito gli disegno una linea sulla guancia. “…speriamo solo di non farci troppo male”.

Lui ride, ma non gli lascio il tempo di continuare. Poso le mie labbra sulle sue e non facendo caso all’acqua che, ormai, ci ha inzuppato completamente i vestiti, continuiamo a stare stretti fino a che riprende a nevicare.

Seguo con lo sguardo la caduta dei fiocchi, affascinata, poi sollevo la testa al cielo. Ma questa volta, a differenza di quel pomeriggio, ho le risposte che cerco.

Quel podio… lo raggiungeremo in due.

Ci saliremo io e Steph, insieme, iniziando la nostra corsa in questa notte luminosa.

Una notte chiara, più abbagliante del giorno, infinita come l’eternità.  

E dove i miracoli, qualche volta, possono accadere.

 

[Cadono le stelle e sono cieco
e dove cadono non so
cercherò, proverò, davvero
ad avere sempre su di me il profumo delle mani
riuscire a fare sogni tridimensionali
non chiedere mai niente al mondo
solo te
come una cosa che non c'è
cercando dappertutto anche in me
ti vedo]

 

~

 

Esistono sempre ricordi, memorie di qualcosa che deve ritornare.

Le memorie di un passato che non è concluso, e che si farà, un giorno, come neve chiara e soffice, per ricadere dolcemente sul presente.

 

FINE

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2719