Araag delle Terre di Morwen

di Ookami_Kirai
(/viewuser.php?uid=487886)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** L'urlo del fulmine ***
Capitolo 3: *** L'urlo del fulmine, parte 2 ***
Capitolo 4: *** L'urlo del fulmine, parte 3 ***
Capitolo 5: *** L'urlo del fulmine, parte 4 ***
Capitolo 6: *** Il giovane ***
Capitolo 7: *** Il giovane, parte 2 ***
Capitolo 8: *** Le parole non dette ***
Capitolo 9: *** Le parole non dette - parte 2 ***
Capitolo 10: *** La fuga ***
Capitolo 11: *** Il Risveglio ***
Capitolo 12: *** Il Risveglio - parte 2 ***
Capitolo 13: *** La mattina dopo l'incubo ***
Capitolo 14: *** Eviscerazione di un abbandono ***
Capitolo 15: *** Eviscerazione di un abbandono - parte 2 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo


“Vi fu un tempo in cui tenebre e luce, per la prima volta,
combatterono fianco a fianco.
Furono tempi dolorosi.
Tempi vuoti.
Tempi bui.
Un' epoca in cui l'amore stesso
riuscì a distruggere tutto.

A seguito della sanguinosa guerra dell' Epoca dei Draghi,
i regni di Shireet, Tabenor e Minthal
vivevano ora in un periodo di pace e armonia.
Le popolazioni dei vari regni collaboravano l'una con l'altra
senza il timore di dover affrontare una nuova minaccia
e la vita trascorreva tranquilla.
Queste erano le Terre di Morwen ed è qui,
in una lontana era passata,
che ha inizio la nostra storia.”

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** L'urlo del fulmine ***


NOTA AUTRICE:
Buonasera popolo di Morwen (si, da oggi in poi chiamerò così chi sta leggendo questa storia!).
Innanzi tutto, vorrei farvi sapere che questo racconto è destinato, fortuna permettendo, a diventare un libro. Per tale ragione, mi auguro che voi possiate darmi il miglior aiuto possibile tramite recensioni e/o messaggi privati, perchè ne ho davvero bisogno. Amo scrivere tanto quanto amo leggere, ma purtroppo non mi ritengo una vera scrittrice, perciò ho bisogno di consigli, critiche costruttive, insulti se strettamente necessario, apprezzamenti, se vorrete farmene, e pareri che mi facciano capire realmente cosa sbaglio e cosa, invece, può volgere a mio vantaggio.

PS: Putroppo, causa tempo-non-troppo-libero, quest'opera verrà sicuramente aggiornata in maniera casuale/discontinua. Ci tengo a scriverla bene e non di getto, per tale ragione devo impegnarmi molto e non posso promettervi un aggiornamento con scadenza precisa. Spero che questo non vi blocchi nella lettura.

PPS: Le linee del testo rimarranno staccate per motivi Windowsiani a me ancora sconosciuti, scusate per il disagio ragazzi. Se qualcuno sa come risolvere la cosa è pregato di contattarmi. Davvero, mi dispiace.
Benissimo, dopo questo papiro, vi auguro una buona lettura. Spero vivamente che questa storia possa evolversi in qualcosa di grosso, non la prima volta su Fp, dopotutto.

 


L'urlo del fulmine - capitolo I

Fu una notte di molti, molti anni fa, quando la gente del villaggio si svegliò di soprassalto, sorpresa dalle imprecazioni del cielo.

Era buio, le nuvole oscuravano tutto, non vi erano stelle, non vi era luna e tutto si muoveva con insistenza. Le porte sbattevano, gli oggetti volavano in lungo e in largo, per poi schiantarsi al suolo con fragore. I bambini piangevano, le donne urlavano in preda al panico, poiché la tempesta li stava prendendo e la speranza li stava lasciando.

Tutto era frenetico, rombi e tuoni, vento e fuoco, luci accecanti, urla assordanti. In quella buia e spaventosa notte, l'angoscia stava prendendo il sopravvento.

Gli abitanti della cittadina non sapevano che fare in una situazione simile, non erano preparati, niente del genere era mai successo ai porti di Belfeth. Quello era sempre stato un paesino tranquillo, tutti vivano le loro vite senza aver timore che un qualsiasi male avrebbe potuto colpirli. Le giornate passavano serene, lente, per il duro lavoro nei campi o nei negozietti, ma mai, mai turbate da un problema. La gente, ospitale e cordiale, non aveva mai avuto sospetto nei confronti di uno straniero, né era mai scaturita una lite tra gli abitanti stessi. Eppure, quella notte, il violento canto del fulmine aveva risvegliato i loro animi nascosti, le loro paure, la loro bestialità. In preda al terrore, ognuno cercava di cavarsela come poteva, lasciando da parte chiunque altro, pur di non farsi catturare dalla violenza del cielo.

Solo le guardie cittadine, le poche rimaste con un minimo, ma puro, senso di giustizia cercavano di aiutare chi potevano a scappare verso le colline.

“Prendete coperte e cibo! Dirigetevi verso il maniero in cima al colle! L'acqua non potrà raggiungervi lassù, fate presto.”

“Baster, Dron, aiutate i bambini e gli anziani. Prendete carri e cavalli. Muovetevi!”- gridava il capo delle guardie.

Sir. Findo, vado a controllare le capanne del dirupo.”

“Vai Sten, cerca di sbrigarti, ma sii cauto! Non voglio che nessuno di voi muoia questa notte.

Sono stato chiaro?”
“Mi occuperò io delle donne, Signore. Le scorterò con quel carro laggiù.” - disse un'altra guardia, indicando una casa ai piedi del sentiero che dal mare portava al paese.

“Sì, sì, ben fatto. Fai attenzione Gerald!”

Tutto era in trambusto, la pioggia cadeva violenta, brutale, ma nonostante questo Gerald si allontanò, una mano sulla fronte per cercare di vedere un po' più lontano del suo naso a punta, nell'altra stringeva una corda. Corse più in fretta che poteva e raggiunse il carretto. La legò stretta e tirò, ma le ruote erano sommerse dal fango. Tirò così forte che ebbe l'impressione che il braccio gli si potesse staccare da un momento all'altro, ma nessuno poteva vederlo. Nonostante il carro fosse solo a pochi metri dal punto in cui si trovava prima, con quel vento e quella pioggia fitta che tagliava il viso con lo stesso dolore di mille aghi incandescenti, non c'era modo di vedere nulla.

Urlò, ma nessuno lo udì.

Nello stesso momento, altre urla echeggiavano nell'aria, altre urla impercettibili, quelle di una donna. Una giovane donna che si era staccata dal gruppo e stava cercando di attirare l'attenzione. Pestava i piedi, si agitava, ma nessuno riusciva a notarla in un momento simile. Così decise di correre verso le poche ombre che riusciva a scorgere in lontananza e trovò Sir. Findo.

“Findo, Findo! Una cosa, una cosa terribile!”

“Dimmi donna, che cosa succede?”

“C'è una..una na..” - cercava di parlare, ma il pianto le spezzava la voce.

Isneth parla, non ho tempo da perdere! Fai in fretta! Tu non dovresti nemmeno essere qui. Che cosa c'è? Che cosa hai visto?”

“Oh Findo, è terribile. C'è..c'è una nave...una all'orizzonte! Stavo prendendo il necessario per la notte quando un lampo mi ha permesso di...”

“Sì, sì, ho capito, ma .. ora non abbiamo tempo anche per questo. Lo capisci? Lo capisci Isneth? Come posso occuparmi anche di loro in questo momento?” - esclamò il capo delle guardie asciugandosi la fronte per la fatica.

“Noi dobbiamo aiutarli! Siamo forse meglio perché qui ci abitiamo da sempre? Non è così e lo sai meglio di me! Abbiamo sempre aiutato chi ci ha chiesto aiuto!”

“Ma.. Loro non ci hanno chiesto aiuto, Isneth!”

“Loro non ci hanno chiesto aiuto? Non starai cercando di scappare vero? Loro non hanno bisogno di parole per farlo. Come potrebbero? Senti, non m'interessa cosa farai tu. Aiuta pure tutti gli altri, ma io penserò a loro.”

“E che cosa credi di fare? Eh? Credi forse di poterti gettare in mare?”- gridò agitando una mano, per poi lasciarla cadere lungo il fianco. - “Corri alla torre di vedetta, accendi il fuoco, gli forniremo una luce.”

“Ma io..”

“Corri! O potrei ripensarci!”

Isneth fece per ringraziare Findo, ma lui la zittì, così lei tornò sui suoi passi e camminando più veloce che potè, nonostante quella strada le sembrò durare un secolo, arrivò alla torre di vedetta.

Nel frattempo, Findo riuscì a raggiungere la sponda. Trovò Gerald steso a terra. Le mani insanguinate, la faccia increspata da un'espressione di dolore. Lo aiutò a rialzarsi, lo portò in acqua e gli lavò le ferite.

“Gerald, dobbiamo raggiungere quella nave. Te la senti?”

“Nave? Quale nave?”

“Da qui non si riesce a scorgere, ma si trova ad est della scogliera, non è lontana.”

“Non credo che potremo....” - notando l'espressione di Findo, non potè far altro che ricredersi, poiché l'uomo lo stava guardando con fare rassegnato, ma, in quei suoi occhi, Gerald riuscì a scorgere un barlume di spensarza. Così, anch'egli si rassegnò all'idea e disse: “P-penso di potercela fare capo.”

“Sarà pericoloso, sicuro di stare bene?”

“Non sono al meglio delle mie forze, ma non riusciresti mai a farcela da solo. Verrò con te.”

“Sei un uomo leale, Gerald. Ti ringrazio. Forza, non c'è un minuto da perdere.”

Gerald s'incamminò verso una piccola imbarcazione posto sulla riva; questa volta, senza troppi sforzi, riuscì a spingerla in acqua, prese i remi e si allontanò di poco. Findo lo raggiunse e presero il largo. Le onde erano alte e aggressive, come non si erano mai viste.

Per pochi, ma interminabili metri, dovettero attraversare il minaccioso e oscuro Mare di Heleg, così chiamato per via delle profondità dei suoi abissi, un luogo in cui sinistri e feroci mostri marini rimanevano ad osservare, cauti, pronti ad attaccare qualsiasi nave cercasse di entrare nel territorio delle Terre di Morwen. Sempre in agguato e pronti a fare strage di intere ciurme, in un solo boccone, queste creature erano state scelte come minaccia per gli estranei, per gli Uomini-Tardi, gli sconosciuti, i Pazzi, coloro che solo agli albori della civiltà avevano messo piede in quel luogo e mai avrebbero potuto tornarci. Troppo stolti erano stati gli Uomini-Tardi, troppo avidi, rudi e pigri e, in un'era ancora più lontana di quella in cui gli Uomini di Morwen vivevano ora, erano stati esiliati, costretti ad attraversare quello stesso, immenso mare, che al tempo aveva ancora il nome di Relel, il Ponte Calmo, per non poter mai più fare ritorno, salvo finire in pasto a quelle agguerrite e fameliche bestie marine, tanto temibili e mostruose da non poter ancora essere descritte.

Gerald e Findo, ora si trovavano accanto alla nave, troppo spaventati per poter fare qualsiasi cosa.

Ormai era tardi, troppo tardi, il fuoco stava divampando, mentre i due, girovagando nei pressi della nave cercavano di trarre in salvo i pochi superstiti, l'odore di corpi bruciati e salsedine

s'innalzava verso il cielo oscuro. I due uomini lo sapevano, di speranza ne rimaneva ben poca, poiché conoscevano la poesia dell'urlo del fulmine:

L'empia voce richiama vento e paura. Tutto si spegne, tutto si oscura.” - disse Findo con voce spezzata, e Gerald, in lacrime rispose: “Quando del fulmine l'urlo si effonde nel cielo, la vita si spegne e la fiamma s'accende.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** L'urlo del fulmine, parte 2 ***


L'urlo del fulmine, parte 2

Nel lontano e freddo villaggio di Brofost, situato lungo le coste dell' Isola di Shireet, Le Terre Bianche, i cittadini erano in agitazione. Al calar del sole - l'ora in cui il freddo era solito iniziare a nutrirsi dei loro corpi, feroce quanto una bestia selvaggia - dopo circa un mese di preparativi, si stavano apprestando a salpare in cerca di una vita migliore, di un luogo più ospitale in cui vivere. Volevano salpare e dirigersi nell' Isola Maggiore delle Terre di Morwen, Minthal, dove, ne erano certi, sarebbero stati accolti come fratelli. Di tanto, in tanto, la fredda gente del posto era venuta in contatto con viaggiatori erranti, esploratori, commercianti, compagnie di saltimbanchi e si erano ritrovati a discutervi, ad udire le loro storie su quelle Terre lontane; con piacere li avevano ascoltati, sempre seduti accanto al fuoco, idealizzando un benessere che, sapevano fin troppo bene, era rischioso da raggiungere. In quei rari momenti, passati con gli stranieri, quella morsa gelida che ogni giorno pesava sulle loro spalle, poteva sciogliersi e rivelare i desideri dei cittadini, le loro menti diventavano calde quasi quanto le fiamme innanzi a loro. Le dita congelate e la brina sui loro visi andava diradandosi, per rivelare la dolcezza di sorrisi e occhi pieni di voglia di vivere.

Ora, finalmente, si sentivano pronti, emozionati, e anche spaventati dal viaggio che li aspettava, ma con vivida speranza di poter ottenere una vera, nuova casa. Troppo a lungo avevano sopportato il gelo, la scarsità di cibo, troppo a lungo avevano cercato di tirare avanti solo grazie al commercio del ghiaccio e del pesce, troppo, troppo a lungo avevano combattuto le austerità di quel clima così insostenibile ed ora, d'innanzi a loro, potevano scorgere un futuro migliore. Potevano vedere, all'orizzonte, il loro destino, e sperare nella rinascita delle loro vite, come i fiori fanno in primavera. Potevano, finalmente, allontanare quella neve che da sempre li seppelliva e vivere! Ma era il coraggio a mancargli.

Quella sera tutti erano raggruppati nei dintorni della scogliera ghiacciata, aspettando l'arrivo del Capitano Calendol, l'uomo che li avrebbe portati via, lontano da quell'inferno di ghiaccio, un'inferno che fino all'ultimo non smetteva di tormentarli, pechè persino in quel momento, la neve non dava segno di volersene andare.

Quella sera, nel piccolo porto, però, non si udirono i tipici schiamazzi ridondanti, coperti da rumori assordanti di scatoloni, casse e tutto ciò che occorre per un viaggio, venir sballottato da questa o quella parte. Quella sera, nel piccolo porto, ci fu silenzio. Ovviamente le persone, come di consuetudine prima di una partenza, avrebbero dovuto riguardare più e più volte le loro bisacce, i loro carri, per esser certi di aver portato con loro almeno lo stretto necessario, ma questo per oramai, non era più un problema. Si erano preparati da tempo a questo lungo viaggio e ora erano lì, seduti attorno al fuoco, come erano soliti fare, a combattere l'ultima seragelida della loro vita, ad aspettare l'inesorabile partenza. Scaldandosi le mani attorno alla fiamme, parlando tra loro, aspettavano.

Una madre stringeva il suo bambino al petto, cercando di scaldarlo, e gli parlava piano.

“Andrà tutto bene amore, non devi avere paura. Una volta arrivati andrà tutto meglio.

Dove stiamo andando c'è il sole, lo sai tesoro? Questo brutto posto non lo vedrai più. E la mamma è con te.” Il bambino si lasciò cullare, ma non fiatò. Poco più in là, un uomo batteva i pugni sulle sue ginocchia: “Perché dobbiamo farlo? Perché siamo costretti ad andarcene?” - ripeteva senza freno.

“Sarai costretto ad abbandonare la tua casa Jora. Ma almeno non dovrai abbandonare la tua vita.” - gli rispose un vecchio dalla irta barba candida.

“Cosa ne può sapere un vecchio come te? Eh?”- sbraitò l'uomo - “Tu, tu che non hai mai dovuto abbandonare nulla. Oh sì, staremo meglio sotto quel sole cocente, a Minthal, ma io non sono pronto a ricominciare da capo tutto quanto. Hai almeno una vaga idea di cosa significhi, vecchio? Lasceremo pure il freddo, lo lasceremo per sempre, ma io non sono pronto a lasciare tutto il resto!”

“Ma Jora, non puoi agitarti così. Qui non rimarrà nulla. Porterai tutto con te, dovresti esserne felice. Tua moglie ti seguirà e i vostri figli faranno altrettanto.”

“Non m'importa se loro vengono con me! Qui ho sempre avuto un lavoro, un letto, gli amici, qui io mi ci so arrangiare. Ora taci vecchio, è inutile cercare di farti capire.”

Detto questo, l'uomo chiamato Jora si alzò bruscamente e se ne andò. Il vecchio, dal canto suo non poteva biasimarlo. Sapeva cosa comportasse tutto ciò, conosceva il significato della parola “abbandonare”, forse meglio di chiunque altro in quella città. Pensieroso e afflitto da quelle parole, si chiuse nel suo mantello scuro e, dopo qualche attimo, si rintanò in un angolino lontano dal fuoco, vi si accucciò e, come un bambino in castigo, rimase in silenzio.

Nel frattempo, i marinai, ai piedi della fregata, infreddoliti come non erano mai stati, stavano finendo di caricare gli ultimi bagagli ed il bestiame.

“Sem, il Capitano ancora non si vede! Devo mandare qualcuno a cercarlo? O devo per forza smuovere il mio di culo? Qui c'è gente che ha fretta di partire!” - urlò un uomo ad un altro sul ponte dell'imbarcazione.

“Un po' di movimento non farebbe male a quelle chiappe flaccide, Denk! Me se proprio insisti ci mando tuo fratello, tu finisci di caricare quella roba, brutto fannullone!” - rispose l'uomo dall'alto. Poi, si incamminò alla ricerca del ragazzo. Quando lo trovò gli disse: “Va subito a cercare il Capitano. A sentire tuo fratello, giù in città muoiono dalla voglia di partire. Muoviti!”

Il ragazzo s'incamminò scattante e raggiunse la locanda in cui era situato il suo Capitano.

Quando arrivò alla porta, Calendol era già pronto e stava per uscire.

“C-capitano, g-giù al porto la stanno aspettando. Sono venuto a c-chiamarla.” - disse, con un po' di fiatone causato dalla corsa e, soprattutto, dall'aria gelida che gli aveva congelato il viso.

“Come vedi sono già in piedi. Ci ho messo un po', lo so, e di sicuro vorrai sapere perché.”

Disse Calendol guardando il ragazzo negli occhi con sguardo furbo.

Non udendo risposta, continuò dicendo: “Avanti, non devi essere timido...timido...emmmm...puoi ricordarmi il tuo nome, ragazzo?”

“Ghen, mio capitano. Il mio nome è Ghen.”

“Oh, ora ricordo, il fratello impacciato di Denk il Burbero!” - disse scherzosamente - “Certo, certo. Allora, vogliamo andare, Ghen?”

Tra loro ci fu una lunga pausa, poi il ragazzo, con fare indeciso, disse:

“P-Posso portarle qualcosa?”

“P-posso portale qualcosa?” - lo rimbeccò il Capitano - “Certo che sì, e di sicuro mi eviterai di udire quel fastidioso balbettio una seconda volta. Anzitutto l'altro mantello, quello di pelliccia, qua fuori si gela. Prendi la mia bisaccia e l'altro borsone. Oh, anche la mia pistola, certo. Tu hai una buona mira, Ghen?”

“Una discreta mira, Signor Capitano.” - disse il giovane mentre si caricava in spalla le borse.

“Ottimo. Ottimo. Perché dovrai guardarmi le spalle.”

“Agli ordine, Signore. Posso farle una domanda, Signore?”

“Certo. Certo.”

“Ha davvero bisogno che io le guardi le spalle? Voglio dire, Ghen l'Impacciato. Chi si fiderebbe mai di uno con un nome così?”

“Oh no, no, ti sbagli ragazzo. Molto spesso le persone come te sono quelle che meritano maggior fiducia.” - disse il Capitano, ammiccando.

“Lei dice, Signore?”

“Certo, certo.”

“L- La ringrazio, Signor Capitano. Vedrà che non la deluderò.”

“Sicuro che non lo farai, Ghen. Tranne se parliamo del tuo balbettio, cosa ti ho detto poco fa a proposito? Sappi che è veramente fastidioso.”

“Mi perdoni, Signore.”

“In ogni caso, ti spiego il motivo per cui non dovrai affatto deludermi, e la questione è semplice: se uno di quei cittadini dovesse aggredirmi, che mi uccida o che mi tramortizzi, noi non potremmo partire, e sia io che te vogliamo tornarcene a casa. Sbaglio, forse?”

“No Signore, ha perfettamente ragione.”

“Bene, benissimo. Se non hai altre domande da porre ce ne possiamo andare.”

Detto questo, stando attenti a dove poggiavano i piedi, per evitare di capitombolare sul ghiaccio, s'incamminarono con passo deciso verso il piccolo porto.

Lo raggiunsero dopo qualche istante. Il Capitano si annunciò ai cittadini e li invitò a seguirli a bordo della nave. Tutti si sistemarono nelle loro stanze, per poi tornare sul ponte, dove il Capitano, come ti consuetudine, tenne un breve discorso con i migliori auguri di bordo. Una volta assicuratosi di essere udito da tutti, iniziò a parlare:

“Scusate, scusate l'attesa, ma prima della partenza, ho ritenuto necessario discutere, per l'ultima volta, col mastro navigatore a proposito della rotta. Mi rincresce di avervi fatti attendere, ma ora, se voi siete pronti, possiamo salpare. Premetto, a tutti voi, che questo non sarà un viaggio facile.

Non un viaggio breve. Non un viaggio tranquillo. Non un viaggio di lusso.

Io e i miei uomini, amici e compagni, siamo pronti ad accompagnarvi in questa rotta, e vi preghiamo di una cosa soltanto: non fateci saltare i nervi.

Noi siamo uomini di mondo, coraggiosi e impavidi. Certo, certo, abbiamo affrontato avventure che neanche vi potreste immaginare. Siamo uomini dal sangue freddo e per questo vi chiedo, in questo viaggio, qualunque cosa dovesse succedere, di fare come noi e di non essere un peso.

Niente paura, niente panico, niente sciocchezze.

In ogni caso, per chiunque avesse bisogno di qualcosa, non esiti a cercarmi. Un saluto dal vostro Capitano Calendol. Buon viaggio.”

La folla accalcata sul ponte della fregata Bluette non rispose. Rimasero tutti muti, attoniti, freddi. Lo erano sempre stati, freddi, come il ghiaccio che per un'intera vita li aveva accompagnati, come la morte che accompagna l'esistenza di ogni uomo, come la neve che in quell'istante non cessava di cadere sopra le loro teste. Silenziosi e tristi erano pronti a salpare, lontano dalla loro terra, lontano dalla loro casa. Spaventati, piangevano la loro terra natia perché sapevano, nonostante il freddo, nonostante le difficoltà, nonostante la sofferenza, che loro lì erano nati e lì sarebbero rimasti per sempre i loro cuori. La speranza li accompagnava? Certamente, ma non poteva reprimere i loro sentimenti. Come la luce genera ombra, quella stessa speranza rivelava i loro più profondi rimpianti e la notte non li rassicurava di certo.

Dopo minuti di silenzio che parvero ore, la prima voce che si udì fu quella di una donna, ella mormorò tristi parole e, poco a poco, una nota alla volta, coloro che ormai non era più cittadini di Brofost, accompagnarono il suo canto nella fredda notte. I raggi di luna li illuminavano e il dolce suono delle onde accompagnava la loro triste melodia:

 

Dalla notte giunge il vento.

E rimane il pensiero

di ciò che più non avrò.

Così, con tristezza,

dovrò lasciarti andar.

Ma tu marinaio? Tu dove andrai?

 

Moglie mia, non pianger,

non pianger per me,

se questa notte è giunto un vento dall'est.

Con rammarico e panico, noi ce ne andiam.

Noi dalla terra salpiam.

 

Oh marinaio perché te ne vai?

Dammi una ragione,

e non un dolore.

 

Tu sei la terra, la casa, e non lo posso negar,

ma la serenità è lontana da qui.

Ho un sogno più grande, e non lo scorderò.

E non mi odiare se non resterò.

 

Vattene, fuggi, abbandonami qui,

sono sola oramai, e mi mancherai.

Con te porterai quel vuoto che mai,

mai ti lascerà andar.

 

Prendo la mia spada per mai più tornar,

solo il mar, d'ora in poi, mi scalderà.

Un dì toccherò terra e ti saluterò.

Se vuoi salpa, o rimani,

forse un dì tornerò.”

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** L'urlo del fulmine, parte 3 ***


L'urlo del fulmine, parte 3

Il mastro navigatore Krant, si trovava al timone, intento a fronteggiare la marea e a dare ordine a tutto l'equipaggio. Mentre gli uomini scorrazzavano da una parta all'altra per eseguirli, i passeggeri trascorrevano il tempo quietamente, bevendo e mangiando, giocando a carte o leggendo qualche buon libro nella biblioteca della fregata Bluette.

Sul ponte della nave, gli ufficiali ed altri, meno indaffarati del resto dell' equipaggio, tentavano di scambiare quattro chiacchiere con i passeggeri.

“E così siete dovuti salpare eh?” - chiese il Nostromo ad un uomo di Brofost.

“Già, con la storia del Principe Kharèl è andato tutto in malora nelle nostre Terre.” - rispose questi.

“Sì, Kharèl, il Principe Bastardo, chi non conosce la sua storia?” - ribatté il Carpentiere.

“A dire la verità, credo che nessuno sappia veramente ciò che è accaduto.” - disse l'uomo di Brofost lasciando tutti ad occhi sbarrati e in un silenzio tombale. “Voglio dire...” - proseguì - “girano voci, si cantano storie, il Principe Bastardo odiato da tutti, le Terre di Shireet in malora, e così via... Ma ciò che credo io è che forse Kharèl non era poi così bastardo.” - rivelò l'uomo di Brofost, grattandosi il capo per l'imbarazzo - “Non crediate signori che io sia dalla sua parte!” - esclamò quasi in segno di scusa - “Ciò che voglio dire è che Kharèl non l'ha fatto con intento malvagio. Ha sbagliato e alla grande, ma...”

“Come puoi non definire bastardo un uomo che ha affondato la tua terra natale? Se fossi al posto tuo l'avrei preso per il collo e gettato nello sterco bello fresco!” - lo interruppe nuovamente il Carpentiere, trascinando con se una fragorosa risata che poterono udire fin nella stiva.

“Cercherò di essere il più preciso possibile.” - continuò l'uomo. “Dunque, Kharèl, si è trovato semplicemente in una situazione che non ha saputo affrontare. Tutto ciò che è venuto in seguito può essere definito con epiteti poco...pacifici, se così vogliamo definirli, ma ciò che avvenne prima, nessuno lo saprà mai e nessuno vorrai mai crederci. Noi cittadini di Brofost abbiamo conosciuto il principe che nelle vostre Terre chiamate Bastardo. Eppure, egli era una persona comune. Quando Re Ynger ha lasciato questo mondo, che gli Dei lo cullino sempre.”

“Che gli Dei lo cullino sempre.” - ripeterono all'unisono tutti gli uomini presenti.

“Insomma, quando Ynger se ne andò, lasciò tre figli soli, tra cui Kharèl, il più piccolo, che si ritrovò le redini in mano di Terre che non conosceva affatto. Come potreste voi, Nostromo, gestire una nave senza aver mai messo piede neanche in una tinozza?” - disse l'uomo guardando dritto negli occhi quest'ultimo. Ricevendo come risposta solo un piccolo cenno, continuò dicendo:

“Bene, allora come poteva Kharèl assicurarsi il nostro futuro? Non era preparato.”

“Ma se non è stato capace di fare il suo lavoro, avrebbe dovuto parlare, chiedere aiuto, non giocare a fare la guerra con i suoi due fratelli! Da quanto ne so io, è entrato in conflitto con Raphèl e Lionèl solo per un capriccio: ottenere Imlach, la nostra amatissima città! Questo solamente perché scegliere fra le Terre ghiacciate di Shireet e quelle di Minthal, le nostre amate Terre del fuoco, era sicuramente meno faticoso!” - sussultò adirato il Medico di bordo.

“Questo perché voi parlate della storia per come la conoscete, signor Medico.”

“Ne ho abbastanza di tutte queste fandonie!” - sbraitò il Carpentiere. - “Che principe è costui? Il mastro Carpentiere ha ragione! Ma per ciò che posso dirvi io, egli non ha giocato a fare la guerra, ha giocato a fare il principe! Che vi sia una storia più vera o più udibile dell'altra, poco importa. Kharèl ha sbagliato e siete voi a pagarne le conseguenze. Il Principe Bastardo doveva essere bandito come fu fatto per gli Uomini-Tardi, ecco tutto!”

“Sì, era uno di loro! Perché I suoi fratelli non l'hanno esiliato invece di ucciderlo sul campo di battaglia?! Sarei stato più contento sapendolo al di là del Mare di Heleg, per tutti i fulmini!”

“Adesso se ne starà tranquillo sottoterra invece, non è vero? Un premio troppo onesto per ciò che ha fatto” - sentenziò il Nostromo.

“Signori, quello che sto cercando di dirvi è che Kharèl ci ha sempre aiutati al meglio delle sue possibilità! All'inizio, quando lo proclamarono Re delle Terre di Shireet, lui ci aiutò.

Kharèl non se ne stava rintanato nel suo bel palazzo di ghiaccio a trastullarsi tutto il tempo, egli scendeva in paese, nei campi, tra i poveri e i bisognosi, quasi tutti I giorni. Ha fatto così tante cose per me e per la mia gente che a dirle tutte farei prima a contar le stelle!

Noi cittadini di Brofost lo abbiamo conosciuto bene, ma qui da voi rimane il Principe Bastardo.”

Dopo un paio di minuti di silenzio che parvero ore, uno degli uomini esclamò perplesso:

“Ha fatto davvero tutto questo?”

“Lo ha fatto eccome! Che un cane rabbioso mi morda la lingua se vi dico il falso! Kharèl il Re era buono in principio...” - affermò l'uomo interrompendosi di colpo.

“Appunto, in principio, e poi d'un tratto è impazzito? Secondo me non è mai stato capace di fare il suo dovere, ecco tutto.” - ribadì per l'ennesima volta il Carpentiere.

“Proprio così, signore, Kharèl impazzì. Sia chiaro, non successo da un giorno all'altro, ma successe. Egli era turbato! Faceva tutto ciò che riteneva necessario per il bene del suo popolo e questo non bastava mai. A fatica noi abitanti delle Terre di Shireet ci siamo arrangiati in passato e a fatica lo abbiamo fatto fin prima delle guerra, pur con tutto l'aiuto del Re. Ora stiamo viaggiando perché Re Raphèl ha deciso in invitarci nelle sue Terre.”

L'uomo s'interruppe e dopo un lungo, faticoso respiro, ricominciò a parlare.

“Re Ynger ci inviava soldi, medicine, aiuti. Quando egli ancora era sovrano di tutte le Terre conosciute, sapeva fare il suo dovere, ma credete che costui fosse meglio del figlio? Neanche per sogno! Mai una volta il nostro buon Re Ynger si è fatto vedere. Neanche una sola. Perciò la domanda resta la solita, meglio apparire o agire?

Cos'è meglio per un sovrano? Apparire buono d'innanzi a tutto il mondo e rimanere rinchiuso nella propria bolla o cercare di fare tutto il possibile, agendo all'oscuro del resto del regno? Sappiate che ancora me lo chiedo.”

Così il discorso si concluse, gli uomini si rintanarono nei loro alloggi, pervasi da mille pensieri e molti di loro non riuscirono a chiudere occhio, nonostante la stanchezza, la mattina seguente, il viaggio ricominciò col solito ritmo.

I bambini scorrazzavano da una parte all'altra della nave e i loro schiamazzi, troppo rumorosi, facevano sorridere le persone più tranquille e infuriare quelle più scorbutiche, e un piccolo fanciullo di due anni appena, piangeva fra le braccia della madre infastidito da tutto quel baccano. Il piccino strillava e si dimenava, mentre la donna cercava di consolarlo.

“Buono, buono. Va tutto bene, sono solo i bambini che giocano.” - disse, mentre lo cullava

dolcemente. Il suo sguardo era rivolto al mare, i suoi pensieri divagavano, accarezzati dalle dolci onde di quell'immensa distesa d'acqua che sembrava non finire mai.

Nonostante fosse passata ormai una settimana dalla partenza, la donna era ansiosa, voleva semplicemente scendere da quella nave, stanca di dover sopportare il frastuono e le risse continue che scoppiavano tra gli uomini della ciurma o tra i passeggeri, stanca di doversene occupare, col bambino a cui pensare non aveva certo tempo di rimbeccare anche persone già vissute! Sebbene avesse più volte riferito le sue lamentele al capitano, egli non poteva far molto per quella situazione, se non starle vicino. Dopotutto, Lady Mayo era pur sempre sua moglie, ma pensare all'amore durante i viaggi era cosa assai dura a quei tempi, solo i passeggeri potevano concedersi degli svaghi, non un capitano importante come Calendol, anche se egli, di principio, era ben lungi dall'essere lontano dalla famiglia e faceva di tutto per spendere quei pochi attimi con loro.

“Vieni amore” – disse Lady Mayo interrompendo il flusso dei suoi pensieri - “Adesso ce ne andiamo da papà, vediamo cosa sta combinando.”

“Sìì papà” - rispose il piccino.

“Sì amore, andiamo!” - esclamò la donna cercando di poggiare il bambino a terra, ma lui subito la rimbeccò dicendo:

“Braccio, braccio.”

“Vuoi stare in braccio eh? Piccolo furfantello. Dai, vieni qua.” - esortò la donna.

Così, ripreso tra le braccia il figlio, uscì dalla sua stanza per raggiungere la cabina in cui sapeva stesse il marito. Una volta giuntavi, incontrò un mozzo che le disse:

“Mia Signore, mio signore” - ribadì al bambino - “ i miei ossequi. Come procede la vostra giornata?”

“Ammiro la tua galanteria, ma non ce n'è bisogno, ti prego. Sono venuta a cercare mio marito, sai dove si trova?”

Il mozzo prontamente le rispose: “Si è appena diretto sul ponte, mia signora, credo l'abbia chiamato il mastro Krant. Provate a cercarlo lì.”

“Ti ringrazio, ragazzo.”

“Non c'è di che, mia signora. Le auguro una gradevolissima giornata.”

“Altrettanto, caro.” - concluse la donna, poi rivolgendosi al piccino disse:

“Forza, vieni tesoro, hai sentito cos'ha detto quel ragazzo? Papà è andato dallo zio Krant, lo vuoi vedere lo zio Krant?”

“Sì, andiamo dallo zio!” - assentì lui.

Detto ciò, Lady Mayo e il piccolino s'incamminarono verso il ponte a passo svelto.

Quando arrivarono notarono un grande trambusto, gente che correva da una parte all'altra, schiamazzi, e, senza avere il tempo di rendersi conto di cosa stesse succedendo, videro spuntare la sagoma del loro amato Capitano dietro l'albero maestro. Quest'ultimo non li aveva notati, così i due lo raggiunsero di tutta fretta.

“Oh ciao, ciao!” - esclamò Calendol quando li vide - “Ciao cara, ciao piccoletto” - continuò baciando entrambi sulla fronte. “Che ci fate qua? Non è proprio un bel momento per venirmi a cercare, sapete?”

“Sta succedendo qualcosa?” - asserì Lady Mayo con voce preoccupata.

“Non saprei dire, la sentinella ha avvistato strane nubi all'orizzonte. Ma niente di grave, niente di grave, ne abbiamo passate tante con la ciurma!” - proruppe Calendol cadendo in una sonora risata.

“Io non me ne starei così tranquilla. Mi fido di te, ma..”

“Certo, certo che ti fidi!” - la interruppe Calendol - “Ti sei scordata di quante ne abbiamo passate io e la ciurma? Sai anche tu che gli uomini si dividono in: vivi, morti e marinai.

“Ma questo non c'entra nulla! Posso almeno essere preoccupata, sono tua moglie no?”

“Certo, certo che lo sei, ma nulla cambia e il fatto è non te ne devi preoccupare affatto. Krant è il miglior navigatore che io conosca, e, ad essere sincero, io credo di saperne un po' più di lui ancora.” - ribatté l'uomo, ammiccando al figlio mentre terminava la frase.

“Ma allora lo zio Krant non sa tutto!” - affermò il bambino.

“No furfantello, sa un po' di cose così, no e sì, qua e là, ma è un segreto, capito?” - sussurrò Calendol.

“Cos'è segreto?”

“Il segreto è quella cosa che non devi dire figliolo. E tu non dire mai che il papà è più bravo dello zio Krant!” - esclamò ridendo.

“Shhh.” - rispose il bambino, cercando invano di ammiccare al padre.

“Certo, certo! Mayo, adesso devo andare. Cercate Ghen e fatevi fare un bel thè, tornerò in cabina il prima possibile.”

“D'accordo ma, chi è Ghen?” - domandò la donna sorpresa.

“Oh, certo, certo, non te ne ho ancora parlato! E' un ragazzo che ho conosciuto a Brofost, uno della ciurma, fratello del Bruto. Adesso l'ho assoldato come garzone, è proprio un bravo ragazzo sai?”

“Si, ma dove lo trovo? Com'è fatto?”

“Non ho tempo per questo adesso. Scusa, scusa, devo correre! Vai ai miei alloggi, lo trovi lì.”

Così, Lady Mayo e il piccolo si allontanarono dal ponte in cerca del fantomatico Ghen.

 

 

“Capitano! Capitano!” - urlava la sentinella dall'alto dell'albero maestro. - "Quelle strane nubi si avvicinano! Si fanno più scure! Stanno... stanno...” - balbettò la sentinella, incredula - “Stanno girando su loro stesse! Sono veloci! ”

“Avete sentito ciurma? Non abbiamo tempo da perdere!” - urlò a gran voce il capitano. - “Muovete quelle chiappe e fate il vostro dovere!”

“Sì, signor capitano!” - rispose in coro la ciurma.

“Cavalcheremo questa assurda tempesta, sia l'ultima cosa al mondo che facciamo! Ammainare le vele!”

“Avete sentito il Capitano, stupida marmaglia?! Ammainate quelle vele!”

“Muoversi, branco di smidollati!” - ricapitolò il Nostromo.

“Tu, mozzo! Assicurati che le cime di sicurezza siano ben fissate! Controllale tutte!” - urlò il capitano ad un ragazzo.

“Sì, Signor Capitano!”

Il ragazzo si avviò scattante a controllare le cime, i marinai più forzuti si preparavano a remare, il mastro Navigatore Krant osservava il cielo e calcolava, i più agili si arrampicavano sulle sartie e tiravano corde, facevano nodi, per assicurarsi di aver ammainato le vele a dovere.

Il mozzo tornò: “Cime controllate, Signore!”

“Vele ammainate!” - assicurò il Nostromo.

“Uomini, cominciate a remare!” - urlò a gran voce il Capitano, ed il Nostromo ribadì:

“Remare! Branco di bifolchi, remare! Voglio vedere braccia spezzate dopo questa tempesta! Non osate lavorare come femminucce!!”

“Capitano! Il vento ci spinge indietro!” - urlarono gli uomini mentre cercavano di remare con tutte le loro forze.

“Allora fatelo tornare da dove è venuto!” - sbraitò il Nostromo, agitando nervosamente il suo cannocchiale.

“Calendol, Calendol!” - chiamò a gran voce Krant, con fare impaurito. “Muoviti e vieni qui!”

“Per tutti gli abissi, che cosa succede Krant?”

“Brutte notizie. Una tempesta così non si era mai vista prima.”

“Certo, certo. Le nuvole girano in modo assurdo, si avvicinano talmente veloci che sembra gli abbiano messo del pepe dove non batte il sole, e questo stupido ventaccio non ci sta lasciando in pace. Ma cosa cambia? Ormai ci siamo dentro.”

“Calendol, la nave affonderà se continueremo per quella rotta!”

“Questa nave...non...affonderà!” - urlò Calendol, scandendo le parole una per una con fare minaccioso.

“Fa come credi Calendol. Ma sono o non sono io il Navigatore di questa nave? Se la tempesta continua così non ci resterà altro che fare dietro front o andare dritti verso la morte.”

Calendol si sentì mancare il fiato. Non aveva parole, stentava a crederci. Lui e la sua nave sarebbe svaniti per sempre se non si fosse deciso a fare qualcosa.

“Quanto tempo ci rimane per tornare indietro?” - disse dopo qualche istante.

“Non molto purtroppo. Bisogna sbrigarsi o non ce la faremo mai.”

Calendol si allontanò, riprese il suo posto al timone e incominciò a gridare alla ciurma:

“Uomini! Issate quelle vele!”

“Per tutti i fulmini! Abbiamo appena finito di ammainarle!” - sbraitarono in coro i marinai.

“Muovetevi se non volete morire!” - li rimbeccò lui.

Gli uomini avevano appena ricominciato ad issare le vele che un fulmine li colpì. La vela maestra andò in fiamme. I marinai caddero a picco sul ponte, ferendosi gravemente. Iniziavano a perdere colpi, ma a causa di quell'incidente, ora non gli rimaneva altro da fare che combattere il loro nemico.

Così, tra un ordine e l'altro, la ciurma della fregata Bluette cominciò a fronteggiare la tempesta. Le onde si alzavano, e con loro il vento, d'un tratto la pioggia cominciò a cadere incessante. Dopo un settimana di viaggio, dopo aver abbandonato quel terribile inferno di ghiaccio, ora erano costretti ad affrontare la tempesta che sembrava volerli inghiottire.

I passeggeri erano rintanati nelle loro camere, spaventati come non mai. Lady Mayo e il piccolino, chiusi nella cabina del Capitano insieme a Ghen, nascosti nell'ampio armadio. Il legno del soffitto era sottile, riuscivano ad udire ogni singola parola, ogni ordine, ogni suono sgradevole, ed erano terrorizzati, come mai lo erano stati nelle loro brevi vite. Per un attimo cercarono di tranquillizzarsi, sembrava che, nonostante tutto, il Capitano se la sarebbe cavata, quando d'un tratto, senza che se ne potessero accorgere, una parte del soffitto crollò, l'albero maestro si era spezzato, colpito da un fulmine.

“E ora che cosa facciamo?!” - sentirono urlare da sopra. Lady Mayo e il garzone si guardarono negli occhi, senza bisogno di dir nulla. Che cosa facciamo? Era il pensiero di entrambi.

“Devo uscire da qui.” - urlò Lady Mayo.

“Non può signora, la fermerò a tutti i costi. Non può andare lassù, è troppo rischioso!”

“Devo raggiungere mio marito!!”

“E Signora non pensa a suo figlio? Non può portarlo con sé!” - sbraitò Ghen. Poi, calmandosi, disse: “La prego, rimanga. Non voglio che vi accada qualcosa.”

“Ghen, ti ho detto che devo andarmene. Ora lasciami uscire. Tieni mio figlio, mi fido di te.” - disse abbracciando il fanciullo che in quel momento era in lacrime.

“Ma Lady Mayo...”

“Fa come ti ho detto, ragazzo!” - lo interruppe lei, spintonandolo.

Lady Mayo uscì e si diresse sul ponte. Quello che trovò era raccapricciante. Il fulmine che aveva spezzato l'albero maestro aveva scatenato un incendio, metà della nave stava andando a fuoco e una gran parte della ciurma era intrappolata tra le fiamme. Corpi carbonizzati, uomini che si gettavano in mare incapaci di fare qualsiasi cosa, i passeggeri avevano iniziato a radunarsi verso le scialuppe. Quando la donna notò tutto questo, si calò nel buco fra il ponte e la cabina, e riferì tutto a Ghen.

“Dobbiamo andarcene tutti.” - gli disse.

“Che cosa sta succedendo?”

“Il fulmine ha fatto scoppiare un incendio. I passeggeri se ne stanno andando. Corriamo Ghen!”

“Prenda il bambino!”

“Vieni qui amore.” - sussurrò la donna al figlio, mentre lo prendeva in braccio.

“Ghen, esci da qui! Muoviti! Ci sono delle cose che devo prendere. Aspettami, non ci metterò molto.”

“D'accordo Signora, la aspetterò vicino alle scialuppe.”

Così dicendo, il ragazzo attraversò il buco nel soffitto e se ne andò.

“Rimani qui un secondo tesoro” - disse la donna al bambino, lasciando che rimanesse dentro l'armadio - “Resta fermo, capito? Un minuto solo.”

Lady Mayo si allontanò di pochi passi all'interno della cabina per cercare oro, provviste, e tutti gli altri averi del marito. Non poteva permettere che andasse tutto perduto. Mentre si chinava per raccogliere un vecchio libro, la nave s'inclinò di colpo e lei ruzzolò fino alla parte opposta della stanza. Non riusciva a rialzarsi, aveva battuto la testa contro il muro e perdeva sangue.

Passarono un paio di minuti prima che potesse riprendersi, e, con le poche forze che le rimanevano, scombussolata per via della botta, cercò di ritornare alla scrivania, buttando un occhio all'armadio per assicurarsi che fosse ancora intatto. Prese tutto ciò di cui avrebbero potuto aver bisogno. Barcollò fino a metà della stanza, quando una nuova scossa la fece rotolare. La testa le girava troppo e così non riuscì ad aggrapparsi a nulla. Sbatté la testa di nuovo, ma non fu altrettanto fortunata. La scossa era stata più violenta, l'aveva nuovamente riportata in fondo alla stanza, questa volta dalla parte dell'armadio, ma Lady Mayo non si riuscì più ad alzarsi. Forse era morta, forse svenuta, ma nessuno poteva saperlo. Suo figlio, chiuso ancora nell'armadio, non si accorse di nulla. Piangeva, strillava, ma nessuno poteva udirlo.

 



NOTA AUTRICE:
Buongiorno cittadini di Morwen! Sono sinceramente colpita di aver avuto così tante visite. Mi avete fatta davvero felice! Ancora non ci sono recensioni, ma forse è troppo presto, chissà. In ogni caso, spero ne arriveranno. Scusate se mi sono fatta attendere, ma questa terza parte del capitolo I è andata un po' a rilento causa "blocco dello scrittore". In ogni caso, eccomi qui. Spero che la storia vi stia piacendo e attendo con ansia critiche, pareri, giudizi, domande, e chi più ne ha più ne metta.

PS: Mi sono permessa, sotto consiglio del mio amico Max, di modificare giusto qualcosina-ina-ina della parte 2 del capitolo. Per chi volesse ributtarci un occhio, accomodatevi!

Vi saluto, alla prossima e ultima parte!

Ookami Kirai

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** L'urlo del fulmine, parte 4 ***


L'urlo del fulmine, parte 4

Sulla nave si era venuto a creare il caos più totale. La gente spintonava per potersi assicurare un posto sulle scialuppe, alcuni contrattavano persino i prezzi con altri, cercando di comprarselo quel posto. Le madri lanciavano i figli su quelle scialuppe, cercando di assicurarsi che qualcuno potesse trarli in salvo al posto loro. Gli anziani si angosciavano, i malati ed i feriti piangevano i loro destino, sapendo che nessuno avrebbe potuto fare nulla per loro. Il fuoco divampava, ormai l'intera nave era andata in fiamme. Era ferma, nel buio delle tempesta, mentre il mare si tingevs di un color rosso sangue. Tutta quella gente rimasta a bordo, non poteva fare altro che disperarsi, guardavano con disprezzo le coste innanzi a loro. Abbandonati alla morte a soli pochi metri dalla riva che avrebbe potuto salvarli, se solamente il fato, quella notte, avesse scelto di essere gentile con loro, almeno per una volta.

Gerald e Findo, in quel momento si trovavano accanto alla nave, troppo spaventati per poter fare qualsiasi cosa. Ormai era tardi, troppo tardi, il fuoco ardeva, mentre i due, girovagando nei pressi della nave, cercavano di trarre in salvo i pochi superstiti, l'odore di corpi bruciati e salsedine s'innalzava verso il cielo oscuro. L'urlo del fulmine li aveva presi tutti.

“Gerald! Torniamo indietro! Non possiamo procedere oltre!” - gridava Findo, cercando di sovrastare il rumore assordante, provocato dal continuo scoppiettio delle fiamme.

“Findo, non possiamo lasciarli! Sono sicuro che a bordo ci sia ancora qualcuno!” - replicava Gerald.

“Vacci da solo, se ci tieni! In quella voragine di fuoco non ci metto piede!”

“Bene, e così sia. Tornatene a riva se ci tieni, ma io vado a salvarli.”

Detto questo, Gerald decise di gettarsi in mare. Nuotava, nuotava, con tutte le forze che aveva in corpo. Cercava di trovare un apertura , ma invano. Dopo mille tentavi e quasi stremato dalla fatica, era finalmente riuscito a trovare una falda nella chiglia della nave. Tuffatovisi, raggiunse a fatica quella che sembrava essere una cabina, ma le condizioni in cui era ridotta non la facevano apparire tale. A terra vi era una donna e, accanto a lei, da un vecchio armadio di legno, provenivano le lacrime di un fanciullo spaventato. Gerald non voleva perdere un solo, prezioso minuto, poiché la stanza, a poco a poco, stava imbarcando acqua. Cercava di rinvenire la donna, ma non succedeva nulla. Quando i suoi occhi, all'improvviso, notarono un buco nel soffitto. Gerald lo attraversò e, sbucato sul ponte, iniziò a chiamare Findo.

“Findo! Se ancora non te ne sei andato vieni subito! Ci sono una donna e un bambino!”

Findo non si era allontanato, era rimasto fermo sulla barchetta a remi. Non riusciva ad udire molto bene la voce del compagno, ma un fremito ribolliva in lui. Decise di raggiungerlo, dopo qualche minuto arrivò da Gerald.

“Presto, presto! Prendi il bambino Gerald!”

“Subito Findo! Scendi, ho bisogno di braccia robuste per quella donna, credo sia ancora viva!”

Uno dopo l'altro entrarono nella stanza, Gerald aveva portato sul ponte il bambino ed ora era pronto a rituffarsi nella stanza per sollevare la donna.

“Prendile le braccia Findo! Tirala su!” - disse al compagno.

Findo aveva ormai trascinato la donna sul ponte fino alla vita, mentre Gerald spingeva da sotto per aiutarlo. Quando il soffitto, d'un trattò si ruppe sotto i loro piedi. Findo era salvo, ma Gerald era precipitato nella stanza e il legno l'aveva sommerso, con sé aveva trascinato anche la donna.

“Gerald!” - si mise ad urlare il compagno. “Gerald! Stai bene?”

Findo non riusciva a capacitarsene, com'era potuto succedere? Il suo amico stava bene?

L'uomo cercava di farsi sentire, ma senza ricevere alcuna risposta. Le travi di legno avevano ostruito completamente l'entrata nella stanza e passare dalle altre camere sarebbe stato inutile, poiché sommerse dall'acqua o carbonizzate. Findo iniziò a disperarsi, il bambino piangeva al suo fianco, senza smettere di chiamare la madre.

Passarono molti minuti prima che Findo riuscisse a fare qualcosa. Minuti interminabili, forse un paio d'ore. L'uomo era fermo, accasciato a terra, incredulo. Gerald era scomparso dalla sua vista nel giro di un istante e per sempre. Nemmeno con le sue braccia possenti era riuscito a spostare quella catasta di legno. Non aveva potuto fare nulla per il suo amico.

L'uomo si alzò di scatto dal terreno. Quella notte non avrebbe permesso che altri innocenti morissero. Portando il bambino con sé, perlustrò tutte le stanza accessibili, ma riuscì a trovare solamente carcasse di gente morta nei modi più atroci. Un uomo giaceva disteso a fianco del timone, un'enorme scheggia gli aveva trafitto il cranio, il suo cappello nero da capitano penzolava ancora dalla punta di quell'infernale cosa appuntita.

Nella cabina retrostante, quasi interamente carbonizzata, un uomo era riverso a terra, la schiena verso il soffitto. Findo aveva cercato di ribaltarlo credendo fosse svenuto, ma ai suoi occhi comparve la scena di un volto tumefatto dalla fiamme, nella mano stringeva ancora la carta di navigazione. Ancora decise di cercare nelle stanze vicine, ma non trovando molto altro più gradevole alla vista, tornò a prendere il bambino, per tornarsene a casa.

Mentre Findo si allontanava verso la riva, stringendo il piccolo fra le sue braccia, ripensava alle ultime parole di Gerald: Grazie Findo, per essere venuto lo stesso. Lo so, eri spaventato, lo capisco.

 

L'inverno, per i vecchi abitanti di Brofost e per tutto l'equipaggio, quella notte si tramutò in inferno. Pochi furono i superstiti, troppe le vittime. Dei cinquecento uomini salpati da quel vecchio porto ghiacciato, dopo quell'interminabile settimana di viaggio, ne sopravvissero solamente una trentina.

I cittadini di Belfeth si assicurarono di dare vitto e alloggio ai loro compagni di disavventura, accogliendoli come una grande famiglia.




NOTA AUTRICE:
Perfetto, il capitolo 1 è finalmente, interamente concluso!
In totale, le pagine in A4 sono 13, direi un bel numero! Qui su Efp, però, ho preferito suddividere il capitolo "L'urlo del fulmine", in quattro parti, invece che con il classico spazio * * *, che tutti sicuramente conoscete.
Che dire in conclusione? Spero che, a livello globale, questo capitolo vi sia piaciuto. Lasciatemi i vostri commenti, dubbi, richieste, recensioni, etc. se ne avete voglia (fatelo, ci tengo!)
.
Spero di essere riuscita ad esprimere a dovere il tutto, sia a livello descrittivo, sia a livello emotivo.
Ci rivediamo con il prossimo capitolo! ----> Il nome non lo so ancora!

Un abbraccio,
Ookami

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Il giovane ***


Il giovane

Quindici anni dopo

 

Era un caldo pomeriggio di Mest ( nella lingua degli Uomini-Tardi viene chiamato Maggio) e la giornata volgeva già verso il crepuscolo. La brezza viaggiava leggera nei campi antistanti la città di Imlach e sottile pioggia primaverile, di come se ne vedono poche, batteva pian piano sul sentiero di ghiaia. I sassolini, dalle forme più varie e colori più varie, tracciavano la via che dalla città portava alla campagna e sempre, sempre più in là, dove questi, ad un certo punto del loro percorso, si tramutavano in terra e poi in sentieri battuti che percorrevano le foreste circostanti, e molto, molto più in là, sparivano nelle dolci colline che circondavano l'isola di Minthal.

Ritornando più indietro, nella campagna, appena fuori dalle mura delle città di Imlach, un giovane cavalcava sul sentiero col suo magnifico destriero, un frisone nero, se non vado errando. Galvorn era il suo nome, Araag quello del suo padrone. Quella mattina, il ragazzo di era alzato di buona lena , pronto ad affrontare un nuova, splendida giornata. Spesso decideva, senza preavviso, di prendere e andare. Si svegliava, sellava Galvorn e poi via, verso un'altra avventura. Amava girovagare, quel giorno scelse di recarsi al lago vicino, per affrontare dubbi e perplessità che la notte prima l'avevano turbato. Era da parecchio tempo ormai che, ogni notte, un sogno lo tormentava, sempre lo stesso.

Sulle sponde fiorite di quel lago, appoggiato al tronco d'un salice, Araag pensava.

Quegli occhi gialli...Quella voce. Chissà perché faccio sempre lo stesso sogno.

Mi sveglio, in un posto che non conosco e quel vecchio mi osserva, con quegli occhi gialli, senza dir nulla. Cosa vorrà significare?

Turbato, da giorni il ragazzo tentava di rilassarsi, trascorrendo le giornate a fare questa o quella cosa, cercando di non pensarci, ma quegli occhi gialli continuavano a tormentarlo senza tregua.

Incominciò a leggere, la brezza era piacevole, quasi le pagine si voltavano da sole, lui seguiva quelle parole, come trascinato dalla dolcezza di un ruscello che, piano, piano, lentamente, ti trasporta e ti accompagna sulla sua via. Questa era l'emozione di Araag ogni volta che prendeva fra le sue mani un concetto, una poesia, un racconto. Leggeva senza tregua quella bella grafia, quei fiumi di parole che, da pagina pagina, scorrevano senza sosta, una dopo l'altra, una dopo l'altra, senza tregua, senza prender fiato, dolci e graffianti e profonde. Le frasi lo arricchivano, poteva sentire le scienze nelle sua mente, le favole dentro il suo cuore, come un vortice, come un tornado che ti prende e ti porta via con sé, senza che tu possa far nulla per uscirne. I suoi occhi correvano, correvano, senza fermarsi mai, sulle quelle pagine rese immense, come un cielo stellato troppo ampio da poter conoscere, come il mare ed il suo orizzonte. I suoi occhi danzavano, parola dopo parola, riga dopo riga e, d'un tratto, si spezzavano e lasciavano il vuoto. I libri erano l'unica cosa a tirarlo su di morale, perché, se troppo preso da altre storie, Araag riusciva a lasciarsi alle spalle, almeno per quelle poche ore, sé stesso e il suo piccolo mondo.

All'apparenza, se voi foste passati di lì, l'avreste scambiato per un qualsiasi viandante dormiente, ma Araag, invece, s'immergeva nei suoi pensieri e al tramonto si ridestava, come quel giorno.

Come svegliatosi da un lungo sonno, Araag rivolse un ultimo sguardo alla superficie increspata del lago, in cui il sole stava immergendosi per lasciar spazio alle prime stelle della sera. Volgendo i suoi ultimi pensieri all'immensità di quel magnifico cielo primaverile, pensando a come e perché le volte celesti fossero tanto lontane, tanto belle e luminose, si alzò, dirigendosi verso il suo cavallo che, per tutto il tempo, si era divertito a girovagare nei dintorni e a brucare l' erba.

“Galvorn! Bello mio.” - disse il giovane - “Oramai si è fatto tardi. Le stelle tra non molto saranno ancor più di quelle che già vediamo brillare.”

E così dicendo, saltò in groppa allo splendido frisone nero e si preparò a cavalcare, verso casa.

Mentre si allontanava, volse ancora i suoi occhi verso il panorama, lanciando un bacio all'orizzonte .

La pioggia ora cadeva incessante, danzando tra le foglie degli alberi che costeggiavano il sentiero principale. Gli era sempre piaciuta la pioggia, ne aveva un ricordo strano, un grande mistero, e questo era il motivo per cui l'apprezzava tanto. Sapeva che la pioggia aveva qualcosa da nascondere, brutto o bello che fosse, ad Araag non interessava. Gli piaceva così tanto che avrebbe voluto starsene lì, dov'era stato per tutto il giorno, ad ammirarla, ma si stava facendo tardi ormai e sapeva che la madre se la sarebbe presa, non vedendolo rincasare.

Mentre volgeva al galoppo verso la città di Imlach, l'aria s'insinuava nei suoi capelli nero corvino, facendoli ondeggiare ad ogni passo, allo stesso modo in cui accarezzava gli steli dei campi di granturco e i petali di gelsomino selvatico in fiore, riempiendo la via d'un soave e rassicurante profumo. I colori accesi del cielo, in contrasto con i contorni scuri delle nuvole, lasciavano ancora un poco di immaginazione al giovane, a cui piaceva viaggiare con la fantasia, tanto che a volte si aveva l'impressione che potesse viverci lassù, molto più che lì, sulla strada dove batteva i piedi.

Araag respirava a pieni polmoni la freschezza della natura e dell'essenza della vita stessa, forse, ma avvertendo l'intensificarsi della pioggia, decise di affrettare il passo.

“Forza Galvorn! Più veloce, più veloce!” - urlò al destriero e così procedettero senza sosta.

Galvorn si era lanciato al galoppo già da un po' di tempo, a questo punto i due si ritrovavano ad una manciata di metri dalle Stalle di Imlach, quando d'un tratto, il destriero s'imbizzarrì, disarcionando il ragazzo.

Fortunatamente, Araag si rialzò, nessuna ferita, niente di grave. Si avvicinò all'animale e gli sussurrò:

“Galvorn, che ti succede?”.

Il maestoso cavallo, per tutta risposta, continuò a girare sul posto, battendo il passo senza motivo, agitato in maniera insolita.

“Potrai scordarti la tua razione di carote, se non mi porterai a casa come si deve!” - esclamò Araag, innervosito, ma Galvorn era fermo, batteva la zampa, fisso in un punto, insistentemente. Era irrequieto come un giovane puledro innamorato.

“Va bene, ho capito, cerca almeno di fermarti un po'! Fammi salire no?” - disse il giovane.

Come se il destriero avesse percepito per filo e per segno la richiesta del suo padroncino, fece qualche passo verso di lui e si fermò, le zampe fisse. Prese in mano le redini, si lasciò trasportare per un pezzo, procedendo con calma, e consapevole di star ritardando ancor di più il suo ritorno a casa.

Per un bel po' di metri, Galvorn era stato buono, Araag era abbastanza seccato per la faccenda della caduta, ma non fece in tempo a formularne il pensiero, che già Galvorn aveva iniziato ad agitarsi di nuovo.

“E ora che ti prende, si può sapere?” - disse il giovane, questa volta stringendo le redine il più forte possibile. Iniziò a guardarsi intorno insospettito, poi la risposta divenne chiara. Sussultò all'improvviso, infatti, quando nel fitto della boscaglia, distinse chiaramente un grande paio di occhi gialli. Luminosi come quelli d'un gatto nella notte, ma più grandi e più spettrali. Decise di avvinarsi, smontò da cavallo, per evitare una nuova caduta, e si avvicinò piano, lentamente. Dopo solo un paio di passi, non fece in tempo a batter di nuovo ciglio, che gli occhi erano spariti. La pioggia intensa copriva la visuale, così Araag iniziò a guardare in giro, ma degli occhi nessuna traccia.

Ma dopotutto, li aveva davvero notati? Erano davvero occhi? Erano davvero così grandi? O forse il giovane li aveva solo ingigantiti più del dovuto per l'ansia causata dal sogno? Non riusciva a spiegarselo. La pioggia e il timore, insieme, potevano avergli giocato un brutto tiro, dopotutto, ma Galvorn cosa poteva centrare in tutto questo? Erano occhi o qualcos' altro? E cosa, se non occhi?

Sicuramente poteva essere un qualche animale un po' troppo timido, o, probabilmente, molto solitario, ma la cosa non gli tornava. Gli animali erano socievoli con gli abitanti di Morwen, tutti gli animali, perché quello no? Nemmeno un piccolo e indifeso topolino di campagna, né un uccellino troppo giovane per volare, osavano nascondersi alla vista di un abitante delle Terre di Morwen. Quello che pensava essere un animale, però, lo aveva fatto. Come mai? Qual era il motivo?

Araag non riusciva a smettere di pensarci. Non smise finché non si rese conto di essere giunto sino alla porte della città, Imlach. La città più grande, bella e potente dell'Isola di Imlach, forse la più maestosa nelle intere Terre di Morwen. Le sue mura erano alte e bianche, imperscrutabile era la città al suo interno. La campagna, con le sue piantagioni di grano, segale, riso, orzo e tabacco, circondava interamente la cinta muraria. In quegli ampi spazi, si poteva scorgere, qua e là, qualche belle fanciulla arare i campi, potare le erbacce, o tessere. Araag spessa aveva sorriso loro, un sorriso sempre ricambiato.

Ora, col suo fido destriero, si trovava sul ponte che sovrastava il fossato, e stava dirigendosi all'interno della fortezza. Era ancora immerso nei suoi pensieri, dopo tutto. Quegli occhi l'avevano terrorizzato. Che il suo sogno stesse diventando reale? No, impossibile. Pensava. Come potrebbe essere? Sarà meglio smettere di pensarci, né va della mia salute. Ormai, quegli occhi l'avevano turbato talmente tanto che, solo dopo aver percorso un numero considerevole di metri, si ricordò di Galvorn. Doveva lasciarlo nelle stalle del paese! Così tornò indietro e cominciò subito a cercare lo scudiero.

“Findo!” - chiamò a gran voce - “Findo dove ti sei cacciato?”

In lungo e in largo lo cercava, ma non riusciva a trovarlo da nessuna parte. Non era nelle stalle, non nel cortile, e non era neppure nel suo piccolo ed incasinato studiolo, dove era solito rintanarsi per lungo tempo. Per finire, Araag si decise ad uscire dalla costruzione e a recarsi nel frutteto sul retro, portando con sé anche Galvorn.

“Findo! Sono Araag! Sei qui per caso?” - non smetteva di urlare.

Per qualche tempo rimase in silenzio, poiché gli era sembrato di aver udito qualcosa, ma si rese presto conto che quel rumore era dovuto ad una semplice mela marcia appena caduta. Passò tra quegli alberi, poi si spostò un po' verso i castagni e, infine, andò dirigendosi verso i peschi ed i vigneti.

“Findo!” - chiamava ancora. Per sua fortuna, questa volta ricevette risposta, se così si può dire. Infatti, non lontano dal punto in cui si ritrovava, si sentiva arrivare un soffocato mormorio, quasi una specie di grugnito. Il giovane si avvicinò, trovando, finalmente, il tanto cercato Findo.

“Ah, eccoti qui mascalzone!” - esultò il ragazzo, sorridendo. Il vecchio era steso a terra, sommerso da centinaia di mele. “Non hai altro di meglio da fare che cascare come un allocco tra le cassette di frutta?” - detto questo, il giovane aiutò l'anziano a rialzarsi alla bell' e meglio. Appena questi riuscì

a rimettersi un poco in sesto, abbracciò il ragazzo calorosamente.

“Ciao Araag, piccolo furfante!” - esclamò - “Non sono io che ho perso tempo quest'oggi, sbrigando i miei affari.

“Tu piuttosto, non dovevi rientrare per il tramonto? Tua madre sarà furibonda, vedendoti rincasare a quest'ora.

“Povera donna, tanto bella e tanto cara, non dovresti permetterti di darle tante preoccupazioni, figliolo. In passato l'ho fatto anch'io, ma ho pagato a mie spese le conseguenze di questo mio caratteraccio!”

“Oh, Findo! Caro, vecchio, Findo, come potrei fare senza le tue raccomandazioni? Sbrigati a dirmelo, o non riuscirò più a restare in piedi! Potrei addirittura rischiare di cascare fra qualche cassetta di splendida frutta!” - rivelò il ragazzo, con tono un po' troppo sarcastico.

“Non rimuginare troppo sulla cosa, Araag Bran, o potresti non vedere più frutta bella come questa per qualche anno.” - rispose il vecchio, col suo solito fare impulsivo.

“Suvvia, vecchio mio, stavo solo scherzando.” - si giustificò il giovane.

“Va bene, va bene. Scherza con me quanto ti pare, ma guai a te se oserai raccontare qualcosa su questa faccenda del capitombolo!”

“Non preoccuparti di me, ma del mio cavallo.” - concluse Araag.

Così dicendo, tese le redini al vecchio custode, congedandosi e avviandosi verso l'uscita.

D' improvviso, di sentì chiamare. Era il vecchio che lo stava rincorrendo come meglio poteva, dopotutto aveva circa settant'anni, e il peso di quella lunga vita iniziava a farsi sentire dalle sue povere gambe. In mano, come se non bastasse, stava portando una gran cassa di mele gialle.

“Porta queste a tua madre” - disse al ragazzo, affaticato. “Vorrei scusarmi per averti trattenuto più del necessario. Se poi la incontrerò in città, le racconterò del tuo piccolo aiuto pomeridiano.” - esclamò, ammiccando con fare compiaciuto.

“Pomeridiano?” - esultò Araag - “Vecchio Findo, forse ci vedi ancor peggio di stamattina. Quando ho prelevato Galvorn, prima di uscire per passare la mia giornata in riva al lago, avrei dato la tua vista ancora per buona!”

“Ma cosa diavolo hai capito, sciocco?” - lo rimproverò il vecchio. “La mia vista è la medesima di stamane!” Poi, tranquillizzatosi, disse: “Ciò che volevo dire è che, nel caso incontrassi quella santa donna che t'ha cresciuto, le racconterò che hai passato il pomeriggio da me, aiutandomi a raccogliere queste belle mele!

“Il tuo ozio rimarrà un segreto fra noi. Intesi? Anche se con la tua insolenza me ne fai passar la voglia, di aiutarti.” - concluse il vecchio.

“Ah, Findo, Findo, Findo. Vecchio volpone! Grazie di cuore. Dopotutto, la tua lingua viaggia ancora bene, meglio del tuo udito! Grazie per il favore, arrivederci!”

“Arrivederci, marmocchio, grazie a te per il tuo aiuto. Queste vecchie ossa non sarebbero riuscite a tirarsi in piedi da sole. Avrei anche potuto passarci la notte, nel mio frutteto. Arrivederci!”

Araag, di nuovo, s'incamminò verso l'uscita, dirigendosi verso casa, questa volta, senza bisogno di ulteriori interruzioni.




NOTA AUTRICE:
Ta ta taa! Eccoci giunti all'inizio del Capitolo II del mio libro, che andrà a suddividersi in 2 parti, un po' come il precedente. Questa tecnica mi sta aiutando molto a gestire la scrittura di un testo tanto lungo e, modestamente, me ne compiaccio! Ahhahaha. A parte gli scherzi, lo ritengo un buon metodo, spero che a livello  di lettura non vi infastidisca la suddivisione in sottoparti.
Comunque, nel secondo capitolo, ecco che inizio a parlare del protagonista che da il nome a questo "romanzo fantasy". Spero che proceda bene, sono proprio curiosa!

Un abbraccio, Ookami


PS: Voglio i vostri pareri! Aiutatemiiii

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Il giovane, parte 2 ***


Il giovane, parte 2

 

Isneth si trovava in piedi davanti alla finestra della cucina, fissando la pioggia cadere fitta sui tetti delle case e sulle cime delle colline in lontananza. Il suo sguardo era perso, un po' triste, forse ancor più si dimostrava preoccupata. Quel piccolo disgraziato è sempre in ritardo – pensava – la cena si sta anche raffreddando. Chissà a quale assurda ora deciderà di tornarsene a casa. E poi guarda che tempo!

La donna si spostò i capelli dal viso, sbuffando, poi decise ad alzarsi e andò verso il tavolo della cucina; si mise a sistemare le posate ed i bicchieri, non sapendo che altro fare durante l'attesa. Spostò la sedia in legno, posta a capotavola, si sedette in maniera scomposta ed iniziò a sospirare, rimuginando sui propri pensieri e versandosi del vino nel bicchiere. Ne bevve un gran sorso, poi si alzò, riempiendo nuovamente l'intera brocca, ormai mezza piena (o mezza vuota, che dir si voglia).

Successivamente, tornò a sbirciare dalla finestra, ma mentre spostava la candida tenda di lino, sentì bussare alla porta.

“Apri madre, sono io!” - disse Araag, dall'esterno.

“Meriteresti di passarci la notte in veranda, dopo tutte le pene che mi hai fatto passare oggi!” - disse lei, irritata.

“Ma madre, ho portato un regalo! Per cortesia, fammi entrare!” - rispose il giovane.

Isneth aprì leggermente, trovando davanti ai suoi occhi la figura del figlio con grandi occhi color ghiaccio, teneri e stanchi, i capelli scuri erano bagnati ed arruffati, tutti appiccicati alla sua giovane fronte, sulle labbra portava un sorriso dispiaciuto e in mano la grande cassa di frutta, lasciatagli da Findo.

“Scusami tanto, madre, credevo sarei riuscito a tornare in tempo per la cena, ma si stava così bene fuori. Ho perso un po' di energie aiutando Findo, nel raccogliere queste mele e...”

“Mi racconterai tutto non appena ti sarai sistemato” - lo zittì lei.

Isneth si girò di scatto e si sedette al tavolo. Araag non riuscì ad aprir bocca che, di nuovo, arrivò il rimprovero della madre: “Non osare entrare con quegli stivali sudici. Abbandonali lì, davanti alla porta, come fanno gli Uomini-Stretti. Li luciderai dopo cena. Ora vieni a sederti per cortesia, senza perdere tempo.”

Isneth, per tutta la conversazione, aveva mantenuto un tono fermo, deciso, ma pressoché gentile, poiché, a suo parere, alzare la voce non era un comportamento che s'addiceva a una signora.

Ella era, di fatto, una donna a modo; di media statura, magra, ma non esile, con vita stretta e fianchi larghi. I suoi capelli di rame, le scivolavano fin sopra le spalle in una folta treccia; i suoi occhi erano grandi e dolci, come quelli d'un cerbiatto e cangianti, poiché di giorno catturavano la luce del sole, diventando di un nocciola-ambrato, mentre la sera, riuscivano a catturare la bellezza della fioca luce, che solo in pochi sanno apprezzare, colorandosi d'un castano pallido, simile a quello della corteccia d'un albero accarezzato dai raggi lunari. In quei begli occhi, non vi era mai stato un segno d'odio, o rammarico, nulla di vero, nemmeno nei momenti in cui, sapeva bene, doveva tener testa a qualcuno.

Ora, i due sedevano a tavola, cingendo fra le mani una grande ciotola di zuppa di funghi ciascuno, ormai tiepida. Davanti agli occhi, una tavola imbandita poveramente.

“Allora, cosa volevi raccontarmi?” - chiese Isneth al figlio.

Questi, inghiottito l'ultimo sorso di zuppa, disse:

“Ti dicevo prima che, dopo una piccola escursione al lago, di stamane, verso il Mezzodì, mi sono recato da Findo che mi ha trattenuto a dovere per farmi sgobbare. Hai gambe e braccia forti, mi ha detto, dovresti aiutarmi più spesso nel frutteto, così l'ho aiutato finché non mi sono accorto dell'ora tarda.”

Araag, inventandosi di sana pianta tutta la falsa vicenda pomeridiana, come di comune accordo col saggio stalliere Findo, cominciò a raccontare ogni cosa per filo e per segno, cercando di rendere credibile il tutto. Non tralasciò un solo dettaglio, soprattutto riguardo alla faccenda del capitombolo. Sapeva di doverlo tenere segreto, Findo, in fin dei conti, era un tipo parecchio orgoglioso, ma con sua madre non ce la faceva a trattenersi, doveva per forza raccontarle tutto! Ridendo e scherzando, la donna e suo figlio conclusero il pasto.

“Ora dammi una mano tesoro.” - fece richiesta Isneth.

“Vorrei madre, ma prima mi hai chiesto di occuparmi dei miei stivali, una volta finita la cena, ed è ciò che voglio fare. Mi ci sono affezionato. Ti dispiace?” - rispose lui.

“Già, gli stivali...” - sospirò lei, pensando a chissà cosa. “Vai pure, ci penso io qui.” - concluse la donna con fare abbattuto.

Come mai fa così? Iniziò a pensare Araag, senza dir nulla alla donna. Di solito, ogni volta che pensa a papà ride.. Bah, sarà solo una mia illusione, meglio lasciar perdere.

“Grazie, madre” Rispose, per rompere il silenzio.

“Non credere di scamparla però! Domai toccherà a te fare tutto quanto. E con questo intendo dire cucinare, apparecchiare, sparecchiare, pulire. Dubito che alla tua età le braccia possano stancarsi facilmente.” - lo rimbeccò lei.

Il rapporto tra madre figli era un po' strano, dopotutto. Spesso si creavano divergenze, battibecchi, incomprensioni, ma una delle loro giornate, potete star certe, non finiva mai senza che, prima, non avessero fatto pace. Il giovane era stato istruito bene, una donna come Isneth sapeva il fatto suo e l'aveva cresciuto bene. Araag Bran, nei suoi diciassette anni di età, aveva sviluppato, anche tramite il suo naturale istinto, un interesse molto acceso per le scienze, principalmente, ma anche in tutti gli altri campi. Grazie a tutto questo, aveva capito sin da bambino come distinguere ciò che era giusto, da ciò che era sbagliato. Era cresciuto bene, in armonia col natura e le nozioni, e sempre con un barlume di felicità sul volto. Non era facile cancellare, sopprimere o anche solo far sbiadire quel suo bel sorriso, perché, dopotutto, non era mai forzato, o ricercato, ma piuttosto creato, creato dalla sua bontà. I suoi pensieri viaggiavano sempre, in lungo e in largo. Era buono, tranquillo rispettoso, soprattutto era loquace, anche fin troppo, fino a cadere nella logorroicità, ma, sebbene questa potesse essere considerata, da molti, un'imperfezione, il suo peggiore difetto era in realtà quello di essere ritardatario e Isneth lo sapeva fin troppo bene. Per questo cercava di cambiarlo, ma ormai quella mancanza s'era insinuata nel carattere del ragazzo e non sarebbe più cambiato. Spesso lo “puniva”, lo rimproverava, come quella sera, del resto, ma non serviva mai a nulla.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Le parole non dette ***


Le parole non dette
 
Araag, stava mettendosi un giacchetto di lana ed un berretto, poiché fuori era calato il freddo ed egli doveva ancora lavorare sui propri stivali, sudici per via del pantano lasciato dalla pioggia.
Mentre prendeva i vari attrezzi – grasso, paglia, coltellino e quant'altro – non riusciva a staccare gli occhi dalla volta celeste che illuminava il paesaggio con la sua luce tenue e brillante. La scia di Layna risplendeva limpida e alta fra le sottili nuvole della notte lasciate dall'acquazzone. La luna era piena, lattescente, distante; si sedette e la osservò. La sua mano destra scorreva su e giù per lo stivale, come per inerzia, poiché, in quel momento, erano i suoi occhi ad essere vivi, accecati da quello splendore e, con quello sguardo, si perse per minuti interminabili, finché una folata di vento gelido non lo riportò alla cruda realtà. Stringendosi nel giacchetto più forte che potè, si riscaldò e, per distrarsi, decise di chiamare la madre. Molto probabilmente non fu solo per avere un po' di compagnia, in effetti Araag era preoccupato per lei, poiché lo sguardo di sconforto che ella portava in viso, già da qualche attimo, non gli era affatto piaciuto.
 
“Madre!” - chiamò a gran voce - “Vieni a vedere questo meraviglioso cielo!”
 
Isneth all'inizio non lo udì, o non lo volle ascoltare, poiché era ancora indaffarata nel rimettere a posto la sala da pranzo, ma Araag continuava a chiamarla con insistenza e così dovette rassegnarsi. Abbandonando i piatti, per metà ancora sporchi, nella tinozza, uscì e si sedette accanto al figlio.
 
“Guarda, è stupendo non è vero?”
 
La donna alzò lo sguardo, i suoi cangianti occhi avevano già iniziato a cambiare colore, immersi sotto quella luce fioca, ma allo stesso tempo accecante. Vi si riflettevano le stelle e lei vi si perse, come il figlio.
Una vastità di emozioni contrastanti iniziarono a prendere possesso della sua mente e del suo cuore. La bellezza di quella splendida notte stellata, la compagnia del figlio, cresciuto con tanto amore, la illuminavano di gioia. Mentre i suoi occhi fissavano quell'immensità, la sua mente rimaneva ancorata ai pensieri più tristi, pensieri mai rivelati, che da un po' di tempo ormai l'affliggevano.
Dovrei dirglielo, pensava, dovrei parlargli e raccontargli tutto. Quale momento migliore di questo? Ma io dovrei.. dovrei davvero farlo?Gli stivali di suo padre, certo… che stupida che sono. Non avrei dovuto raccontargli tante fandonie. Forse lui sarà più felice venendo a conoscenza della verità. O forse no? Se dovesse turbarlo? E se poi dovesse rinnegarmi come madre? Ma no, no , cosa sto farneticando.. Araag deve conoscere la verità.
Pensando, rimase in silenzio, i suoi occhi ancora rivolti alla volta celeste, ma senza accorgersene, una lacrima scivolò lungo la sua candida guancia, ed Araag la stava guardando.
Il ragazzo non seppe cosa pensare. Mentre osservava sua madre, la sua ansia crebbe. Non sapeva se parlare, se abbracciarla e tacere, o semplicemente, si chiedeva se non dovesse rimanere semplicemente fermo, a far finta di nulla. Ma no, lui non poteva, le voleva troppo bene per evitare di preoccuparsene, e così parlò:
 
“Madre, che ti succede?” disse.
 
“Eh? Cosa? No io.. nulla tesoro. Sono solo stanca.” – disse Isneth.
 
“Parla.” – proruppe il ragazzo.
 
“Araag, non insistere, te ne prego. Sono solo stanca.” – ripetè lei.
 
“Parla.” Insistette lui.
 
Dopo qualche attimo di silenzio, Araag non riuscì più a trattenersi e disse:
 
“Madre, ascolta, io non ho il coraggio di vederti piangere senza sapere il motivo per cui lo fai. Non cercare d’ingannarmi, perché non ci casco. Dimmi cos’hai, te ne prego.”
 
“Araag… tu sei solo un ragazzo, non potresti capire”- rispose Isneth, cercando invano una scusa  per sviare il discorso, pur sapendo, in cuor suo, che, agendo in tal modo, la sua situazione sarebbe potuta solo peggiorare.
 
Il ragazzo non sapeva più come comportarsi e, ahimè, quella fu una delle rare volte in cui il sorriso di Araag si spense. I due rimasero in silenzio per un po’, mentre le loro menti venivano pervase da mille pensieri. Isneth, dal canto suo, sapeva che, prima o poi, avrebbe dovuto dire la verità al giovane e che, forse, non ci sarebbe stato momento migliore di quello per potersi sfogare, per lasciarsi andare e allontanare quel peso che, da quindici anni, si portava sulle spalle, ma le mancava il coraggio.
Araag d’altro canto, non aveva idea di cosa stessa turbando la madre, da un po’ di tempo a questa parte, e non riusciva a trovare una via di fuga. Come doveva comportarsi? Avrebbe dovuto cercare la calma e la diplomazia, come era solito fare, o sarebbe stato meglio cercare di estorcerle una risposta? Questo non lo sapeva. In quell’attimo, Araag, ragazzo assai colto ed arguto, si accorse di non sapere poi molto sulla vita. Ma forse – pensava – anche gli adulti tendono ad andare in crisi in momenti del genere? Nemmeno a questo sapeva dare risposta e, l’unica cosa che dopo minuti riuscì a dire, così velatamente da apparire sussurrata, fu:
“Mamma, ti voglio bene, dimmi cos’hai.”
 
E Isneth lo udì. Lei, così turbata nella sua situazione di madre sola, decise infine di parlare:
 
“Io stavo solo ripensando a quella notte di tempesta.” – disse, in lacrime. Dopo ciò, ella si alzò dallo scalino dove si era seduta e, senza dire più nulla, rientrò in casa e si chiuse nella sua stanza, lasciando che la notte trascorresse.
Forse domani staremo meglio entrambi – si disse – e Araag potrà smettere di preoccuparsene, ma io… io cosa dovrei fare?




NOTA AUTRICE:
Scusatemi, cari lettori, per la mia, piuttosto prolungata, assenza. Spero che abbiate potuto godervi questo capitolo senza odiarmi! Purtroppo, l'ispirazione non viene sempre, ma, quando arriva, cerco di sfruttarla; per questo sono piuttosto lenta nello scrivere.
Mi auguro che possiate perdonarmi e darmi un parere positivo su questo capitolo!

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Le parole non dette - parte 2 ***


Le parole non dette
- parte 2 -


Il mattino seguente, Araag e la madre si recarono al mercato, poiché quest’ultima gestiva, nel corso della settimana, una locanda chiamata La Fornace del Drag  e, durante la giornata del mercato, che cadeva in Tirs-de, poteva mostrare la sua arte culinaria ed i suoi preziosi al paese e agli altri abitanti del feudo, cercando di vendere quanta più merce poteva. Tra lei e il figlio, dopo quella nottata trascorsa nell’affrontare i più terribili dubbi, non vi era più stato modo di riprendere la questione, ma forse la cosa poteva giovare ad entrambi.
La mattina trascorse lentamente alla bancarella, Isneth era riuscita persino a racimolare una cospicua somma di denaro e, poiché nel giorno di Tirs-de la Fornace del Drago rimaneva chiusa al pubblico, i due vi si recarono per pranzare in tranquillità, lasciando che il loro amico Sven si occupasse della bancarella.
“Madre, hai voglia di parlare?” – chiese Araag.
 
“Non credo che sia necessario, Araag.” – rispose lei.
 
“Io invece credo di sì. Sappi che la tua reazione, ier’ notte, non mi ha lasciato dormire, per questo credo che tu mi debba un favore.”-  rispose il ragazzo, sorridendo.
 
“Ora no, sto cucinando come vedi.”
 
“Madre, potresti cortesemente evitare di cercare scuse?”
 
“Ho detto basta, ragazzino. Non è il momento, né il luogo.”
 
“Siamo soli, come vedi. Per giunta, nella nostra locanda, se ancora non te ne sei accorta.” – la rimbeccò lui.
 
“Io… Sì, hai ragione. Siamo da soli, nella locanda. Ma questo discorso non si può affrontare a viso aperto e, prima che tu mi interrompa, sappi che non sono tenuta a darti alcuna spiegazione. Sei mio figlio e mi devi ubbidire.”
“Ora mangia, per cortesia, e non discutiamone più.” – concluse Isneth.
 
Allora Araag si zittì, perché altro non poteva dire.
 
 
 
 
Qualche tempo dopo, una volta tornati alla bancarella, Findo arrivò da loro per comprare una di quelle deliziose torte alle erbe di Loon che solo Isneth sapeva fare.
 
“Buongiorno Isneth, ciao ragazzo.”
 
“Buongiorno Findo” – risposero i due.
 
“Cara donna, ne hai ancora di quella buona torta alle erbe di Loon?”
 
“Sei fortunato, Findo, questa notte ne ho preparate un bel po’.” - disse Isneth, porgendogli il dolce.
“Ier’ notte? Che pazza donna che sei!”
 
“Non riuscivo a prendere sonno e ho deciso di cucinarne qualcun in più.”
 
“Bhe, allora qualcosa ti avrà sicuramente turbata. Puoi parlarmene, se vuoi; nel frattempo dimmi quanto ti devo.”
 
“Prendila pure in regalo, amico mio. Ieri, dopotutto, Araag mi ha portato un’intera cassa di mele da parte tua. E’ il minimo che io possa fare per ricambiarti.” – lo allietò lei.
 
“Bhe, lieto che tu le abbia apprezzate, cara Isneth. Ma ora dimmi, per quale motivo non dormivi?”
 
“No, no, non iniziare anche tu con questa storia, vecchio mio. Sto bene, non preoccuparti.” – disse lei, cercando di far capire all’uomo di non volerne parlare in presenza del figlio.
 
“D’accordo, non insisto” – disse Findo per tutta risposta – “Se vorrai parlamene lo farai senza che io debba chiedertelo.”
 
 
 
Qualche ora più tardi, all’incirca dopo cena, Findo si recò alla casa di Isneth, portando con sé, come era solito fare, un cesto di frutta di stagione. Ella lo invitò ad entrare, offrendogli una tazza di delizioso thè Natif, coltivato solo alle pendici delle Montagne di Hara.
 
“Araag! Scendi, è arrivato Findo!” – urlò la donna verso il piano di sopra.
 
Allora, il ragazzo, che era rimasto nella sua stanza sin dal rientro dal mercato, scese di tutta fretta le scale, per andare a salutare il vecchio amico di famiglia; anche lui degustò una bollente tazza di thè di Hara e una pera appena portata dal vecchio.
 
“Allora Findo, come ti vanno le cose?” – chiese garbatamente.
 
“Non c’è male, ragazzo. Sono venuto perché, col permesso di tua madre,” – disse, sorridendo alla donna – “vorrei chiederti di aiutarmi alle stalle, domani.”
 
“Se per lei non vi è problema, io non ho altri impegni.” – ripose lui.
 
“Nessun problema per me. Domani dovrò servire alla locanda, ma se Araag preferisce aiutare te, che ad esser franchi hai più bisogno di me, di braccia forti, allora vedrò di chiedere un aiuto a Sven.” – dissela donna. Poi, tutt’a un tratto, Isneth s’interruppe bruscamente.
 
“Mi dispiace Findo, io non ….” – proseguì lei, ma l’uomo la interruppe subito dicendo:
 
“Non preoccuparti, sto bene. Ragazza mia, ho settant’anni suonati, oramai ci ho fatto il callo, non credi?”
“Quella notte di tempesta successe quel che successe. Mi piacerebbe solo che le persone la smettessero di essere nostalgiche al posto mio.”
 
“Mi dispiace, giuro che non lo farò più.”
“Allora, domani Araag verràa da te.”
 
“Non vedo l’ora.” – esclamò Findo, sorridendo al ragazzo.
“Per che ora?” – chiese quest’ultimo?
 
“Bhe, prevedo che di lavoro ce ne sarà parecchio, altrimenti non avrei chiesto l’aiuto delle tue giovani braccia, nevvero? Perciò, per Mazzamane dovrebbe andare.”
 
“Nona ora?”
 
“Accordato.”
 
“Bene, allora sarebbe meglio che tu andassi a dormire, non trovi?” – disse Isneth al figlio.
 
“Sì sarà meglio. Buonanotte.” – disse Araag.
 
“Buonanotte” – riposero i due adulti.
 
Araag, detto fatto, salì le scale che portavano alle sue stanze. Dopo il saluto, non aveva più udito alcuna parola, ma, d’un tratto, sentì la madre sussurrare qualcosa all’amico. Il ragazzo, allora, muovendosi silenzioso, tornò indietro di qualche passo e tese l’orecchio. Nella sua mente sapeva che origliare era cosa sbagliata da farsi, ma il suo cuore voleva sapere, perché forse, inconsciamente, sperava che la verità potesse venire a galla, e così essa fece.
 
“…mi dispiace, davvero Findo. Non volevo turbarti di nuovo e , invece, l’ho fatto. Che sciocca che sono. Comprendo la responsabilità che quella notte portasti, e ancora porto il peso della richiesta che ti feci.”
 
“Basta, Isneth.” – la interruppe lui – “Gerald è morto, oramai l’ho accettato da anni e, di sicuro, non ti sarei rimasto amico, né ti avrei aiutata a crescere il ragazzo fino ad ora, se avessi pensato, anche per un solo istante, di darti la colpa per ciò che successe quella notte.”
 
“Io… semplicemente dovrei imparare a tacere più spesso.”
 
“Parlare di Sven o tacerne il nome, non cambierà le cose, credimi. Probabilmente, quel poveretto soffre molto più di me; dopotutto, noi eravamo amici, ma Sven e Gerald erano fratelli.” – disse l’uomo – “C’è altro di cui dovresti parlare, invece, e riguarda il presente.” – concluse l’uomo, abbassando bruscamente il tono della voce.
 
“Lo so, ma non ne ho il coraggio. Come posso anche solo pensare di dirgli che io non sono sua madre?”
 
“Araag deve sapere! Ormai ha diciassette anni e tu hai aspettato troppo a lungo.”
 
Nella mente di Araag, subito quel dialogo si tramutò in incubo.
Madre? Non… non è mia madre? - pensava Araag, sconvolto.
 Cosa significa tutto questo? Io, allora chi sono? Da dove vengo? Perché non ho mai saputo nulla? - continuava a chiedersi, afflitto e turbato.
Quella rivelazione, celata in un sussurro, l’aveva sconvolto; come immobilizzato, imperterrito di chiedeva il perché di tutto ciò.
Allora mio padre… chi è davero? Non Findo, no, no, no, no, sarebbe troppo strano. Lei mi aveva detto che mio padre era morto in battaglia, invece … invece mi ha mentito. E allora, chi è? Chi sono io? E soprattutto… chi è la mia vera madre?
 
 
Per minuti interminabili, Araag rimase impietrito; lo sguardo era fisso sui due adulti che, al piano di sotto,  stavano ancora parlando tra loro, ma il ragazzo non voleva più sentire una sola parola; ’unico suono che udiva era quello dei mille pensieri che ora l’affliggevano. Senza fiatare, lentamente, si alzò e si diresse nella sua camera.
Che cosa avrebbe potuto fare, ora che la verità era finalmente venuta a galla?
Avrebbe dovuto discuterne, oppure…?

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** La fuga ***


La fuga

Araag stava correndo, correva, correva, senza freno. Nella fitta boscaglia, d'innanzi alle porte di Imlach, le ombre si facevano sempre più tetre. Lupi ululavano alla luna nel fitto della foresta. I rami secchi si spezzavano sotto i suoi piedi ad ogni passo. Araag correva. Fra le chiome degli alberi, solo pochi passi prima, si poteva vedere una fioca luce irrompere nel bosco. Ora nulla. Tutto era nero. Volse lo sguardo alle sue spalle, la sua casa, la sua città, tutto era ora così lontano. E sempre più si allontanava.

Buio, sempre più buio. E mentre Araag correva, senza fermarsi, ecco sopraggiungere il freddo che si celava, nascosto, e con folate improvvise s'insinuava nei suoi vestiti. Poi ancora più sotto, sin sotto la carne. L'aria, gelida, si fece allora stagnante, ed il ragazzo si sentì mancare il fiato, ma doveva procedere. Araag doveva scappare. Ricominciò a correre. “Non fermarti” si diceva. “Combatti. Resisti”.

Mentre proseguiva nelle tenebre, annaspando in quell'aria restia, le gambe iniziarono a dolergli. Rallentò il passo, ma proseguì. Trascinandosi seguì il sentiero innanzi a lui.

Lo sguardo rivolto ai suoi piedi per controllare che non si staccassero dal corpo, le mani strette a pugno, inermi. “Cerca la risposta” - ripeteva la voce - “Cammina. Cammina!” - gli gridava.

“Se non continui non saprai mai.”

Dopo minuti di interminabili di passi trascinati, Araag ricominciò a scorgere, a stento, barlumi di luci fra le alte cime. Sulla sua testa, fiocchi di neve cominciarono a cadere. “Ma è estate!” - si disse. “In effetti, perché tutto ciò?” Il giovane, riflessivo, iniziò a dubitare di quella situazione. Come poteva nevicare a Minthal? Nelle Terre del Fuoco, ove giaceva l'eterna estate, la neve si vedeva di rado, tanto da procurare al popolo terribili crisi scaramantiche. La neve, a Minthal, veniva vista come oscuro presagio. Ma il giovane non vi badò troppo. La neve era bella. Cadeva regolare, limpida, cauta. Allorché s' accorse, d'un tratto, di non star più correndo. Era fermo, lo sguardo rivolto agli spazi fra le cime degli alberi. Si adagiò sulle grandi radici di un pino e osservò. “Com'è bella, la neve.” - pensò. Per un po' rimase immobile, osservando quei delicati petali di freddo cadere tra le fronde del fitto bosco. Come ipnotizzato, infine, si addormentò.

Quando riaprì gli occhi, si ricordò di cosa stesse facendo. La neve gli aveva annebbiato la mente. “Non devi perdere tempo” - disse la voce - “Devi andartene, il più in fretta possibile”.

Si accorse, rialzandosi, che l'aria non si presentava così rarefatta quanto prima, ma, inspirando profondamente, s'accorse anche che essa portava con sé uno strano odore. Tutto sembrava però tranquillo, nonostante Araag non riuscisse a spiegarsi la presenza della neve che, ancora, cadeva incessante.

“Si tratterà di magia” - pensò - “Non è raro incontrare guardiani dei boschi. Che qualcuno mi voglia cacciare? Ma no, sciocchezze, non mi faranno alcun male. Staranno sicuramente esercitandosi nella pratica della magia elementare. Acqua ed aria. Ecco tutto. Che cosa magnifica può nascere combinando i poteri di questi elementi!” - concluse infine.

 

Guardò alle sue spalle, per salutare nuovamente la sua casa. Tutto ciò che vide furono alberi, come racchiusi su loro stessi, in un morsa glaciale di freddo e tenebra. Guardò innanzi a sé, la stessa immagine si presentò. Allora si volse da una parte e da quell'altra, ma tutto era muto, buio, tetro.

In preda al panico guardò in basso, come per riflettere, quand'ecco che vide il sentiero svanire. Cosa stava succedendo? Dove doveva andare? Quale direzione prendere?

Iniziò ad agitarsi ancor di più. Ricominciò a correre. Prima a destra, poi a sinistra, poi ancora a destra. Quale direzione? “Pensa, pensa, pensa!” - si disse. “Il muschio! Cerca il muschio” - gli rispose la voce. “Ma certo! Muschio!”

Si volse verso un albero e ne analizzò il tronco. Il muschio indicava il nord e Imlach si trovava all'estremo sud delle Terre di Morwen. Allora lo seguì. Corse tra le fratte. Corse, ignorando il dolore alle gambe, schivando ogni grosso ramo scaduto, scansando i tronchi degli alberi. Mentre correva, sentì un rumore. Si fermò di colpo. Cosa stava succedendo ancora? Tese le orecchie, trattene il fiato per qualche secondo. Eccolo ricomparire. Un fruscio animalesco. “Lupi?” - si chiese. Li aveva sentiti ululare appena addentratosi nella foresta, che fossero ricomparsi? Araag si accucciò, cauto e silenzioso, in ascolto. Proveniva dagli arbusti, vicino a lui, troppo debole per la stazza di un lupo.

Osservò. Gli occhi sbarrati, la mascella serrata. Osservò. Vide nel cespuglio una luce strana, fioca, simile a quella d'un fiammifero. “Che sia fuoco? Mi pare assai strano.” - pensò. Si avvicinò guardingo, come un animale in attesa di ghermire la preda. Le luci divennero due, molto più definite e lucenti. Osservò ancora. Poi li riconobbe. Quel gran paio di occhi gialli. Gli stessi visti sul la strada del ritorno per Imlach, pochi giorni prima. Araag aveva paura. Ora era solo. Persino Galvorn si era spaventato nel vederli, quella volta. Ora lui li aveva d'innanzi a sé. Fissi e spaventosi.

Il giovane si sentì immobilizzato. Cosa avrebbe dovuto fare? Scappare? Fingersi morto? Proprio non lo sapeva. “Avvicinati.” - gli disse ancora la voce. Araag era turbato, impietrito. Avrebbe dovuto farlo? Infine si decise. Lentamente, rannicchiato si avvicinò. Un passo alla volta, silenziosi, piccoli passi. Ecco che anche gli occhi gli si avvicinarono, si fecero più grandi e più temibili. Infine, scomparvero. Cosa poteva essere se non un animale? Ma, quando li vide scomparire, non udì alcun suono. Com'era possibile che un animale non facesse alcun tipo di rumore?

Rimase immobile ancora per qualche istante, basito. Poi, da quello stesso cespuglio ove aveva fissato lo sguardo per interminabili minuti, ecco volare via una farfalla gialla. “Strana cosa, si disse. Le farfalle non hanno occhi così grandi. Non può essere, no, no. Che io stia impazzendo?” - si chiese - “Che io abbia scambiato ali per occhi? Impossibile, non sono mica così rincitrullito.”

Decise di alzarsi. Rimanendo guardingo aggirò il cespuglio e, una volta passato dall'altro lato, ne fissò con la coda dell'occhio la base, per accertarsi che non ci fosse nulla.

Proseguì, a passi lenti e ampi. Controllando il suolo mentre camminava, si accorse che il sentiero era ricomparso. “Da non credere” - pensò. E, così, ricominciò a correre fino a che, finalmente, vide una luce in fondo al sentiero. Proseguì diritto, senza freno, correndo sempre più forte.

Una volta uscito dal bosco, in un impeto di gioia dopo le ore trascorse in tutto quel buio, fece fatica a riabituare gli occhi alla luce. Non era ancora giorno. Una luna piena e luminosa era alta nel cielo, ma questo bastò ad accecarlo per un istante. Si rese conto di trovarsi in una radura completamente imbiancata, un enorme mare d'erba. Un sottile strato di nebbia copriva quell'enorme distesa. Non vi era più un sentiero da seguire, solo un campo aperto. Contemplando quella visione così onirica, Araag si rilassò. Un brezza lieve era nell'aria, quanto bastava per smuovere la fitta nebbia e per portare, ancora una volta al suo naso, quell'odore nauseabondo che aveva percepito nella fitta boscaglia. Si tappò il naso ed iniziò a camminare diritto. Non aveva meta, né direzione. Araag doveva solo andarsene. Via da Imlach, via da Minthal, lontano verso nord.

Mentre muoveva i passi in direzione del nulla, ecco che vide spuntare lontano una sagoma nera, grande, fra la nebbia. All'apparenza pensò potesse trattarsi di Devlerji, giganti dalle sembianze umane, ma con braccia lunghe e sottili, mani più simili a zampe, magri, scheletrici, ma non per questo meno forti, perché dotati di gambe molto più lunghe rispetto al resto del corpo e possenti. I Devlerji erano i giganti guardiani di Minthal, assoldati sin dai secoli passati come guardie protettrici del reame. Esseri non belli all'apparenza, ma buoni e gentili.Affrettò allora il passo per tentare di raggiungerli. Sapeva che i Devlerji non giravano mai soli, ma sempre in coppia. Raro era vedere un Devlerjo solitario.

Eppure, più si avvinava e più il gigante gli appariva alto, più del normale e largo, cosa assai strana. Non sembrava avere braccia, somigliava più a un'enorme tronco d'albero. Le gambe non erano visibili, per via della nebbia. In quell'immensa coltre bianca, mentre fissava lo sguardo sull'enorme, nera figura, gli sembrò d'intravedere una luce. Più si avvicinava e più l'ombra diventava grande e la luce con sé. “Ma” - pensò - “i Devlerji possono vedere al buio, perché mai avrebbero bisogno di una torcia?” Ancora non capiva cosa poteva essere ciò che stava vedendo. Uno scherzo degli occhi? Araag ne dubitava. Nonstante non potesse vederne il di sotto, la parte alta della figura gli appariva piuttosto nitida. Preso dal dubbio di cosa potesse o non potesse essere, si accorse solo grazie ad una folata di vento che, ancora, quell'odore lo perseguitava. Prese il fazzoletto dalla sua tasca e se lo portò al viso, cercando di non percepire quel fetore. Purtroppo esso era troppo forte. La luce infuocata che vedeva, inoltre, si era fatta ancor più grande e sembrava tendere all'aria, come la figura in lontananza. Decise, infine, di correre.

Man mano che si avvicinava, la figura si faceva più minacciosa, l'odore sempre più forte e nauseabondo, la fiamma più accesa e viva. Quello che prima appariva un gigante, ora era indescrivibile. Araag non riuscì a credere ai propri occhi. Una nave! Una nave solcava quell'enorme distesa d'erba. Sembrava però fermo, fluttuante. Ma cosa ci faceva una nave così lontana dal mare? Come poteva essere arrivata fin lì? Ma , queste domande, smisero ben presto di preoccuparlo, poiché ciò che vide pochi attimi dopo fu lo scenario terribile di una nave in fiamme. Di un fumo denso e arido che saliva al cielo, minaccioso. Si udivano voci agghiaccianti provenire da essa. Quella che aveva creduto una torcia era, in realtà, un incendio. Quell'olezzo che aveva continuato a sentire fin pochi attimi prima, ora non poteva essere aggirato. Il fazzoletto era consunto, sporco, nero e inefficace contro quel fetore. La neve ancora cadeva sulla sua testa. Scostò il fazzoletto, fece per metterlo in tasca quando, in un piccolo spazio bianco , un piccolo fiocco si posò, trapassando il tessuto. Araag iniziò ad urlare e a delirare. Cadde a terra terrorizzato. Quella non era affatto neve.



NOTA AUTRICE:
Perdono. PERDONO. P-E-R-D-O-N-O! Spero non mi odierete per essere stata via così tanto a lungo! Questa storia prosegue a rilento, lo so, ne sono consapevole.
Però questa volta sono stata brava, vi ho voluto regalare un capitolo degno di nota (in tutti i sensi) ! Spero possiate apprezzarlo, come lo apprezzo io (a discapito forse di tutti gli altri) e che possiate dedicarvici per qualche attimo.
Ho bisogno di sapere cosa ne pensate! Vi preeeeeeego  *-*

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Il Risveglio ***


IL RISVEGLIO - parte 1



Quando Araag si svegliò, grondante di sudore ed infreddolito, ancora udiva nella sua testa le voci di

quegli uomini dilaniati dalle fiamme. Le sue mani erano gelide, i suoi occhi sbarrati, il volto

divenuto di un bianco pallido, quasi cadaverico. Cosa significava quel sogno? Perchè proprio

quella notte? E quegli occhi gialli che ancora lo perseguitavano. Araag li sognava sempre, fin da

quand'era un bambino. Quasi ogni notte quegli occhi venivano a fargli visita, come mostri risorti

dalle tombe, di giorno silenti e di notte misteriosi, spaventosi e invincibili. Non riusciva a

sbarazzarsene. Da anni continuava a chiedersi il perché di quell'oscura presenza. Ma di cosa poteva

trattarsi? Il ragazzo iniziò a rimuginare, chiedendosi, soprattutto, perché di quell'entità non avesse

mai visto la forma. Poteva trattarsi di un animale posto in agguato, ma che mai, nei suoi sogni,

l'aveva aggredito. Oppure era un uomo? O forse ancora, uno spirito? Araag non lo sapeva, ma li

temeva. Come il giovane cervo rimane guardingo, drizzando le orecchie al minimo rumore,

sospettando di ogni fischio, di ogni ramo caduto o spezzato, perché spaventato dall'idea che possa

trattarsi di un cacciatore, così il giovane sospettava di quegli oscuri occhi gialli. Non importava

che l'entità non lo avesse mai sfiorato. Lui la temeva. Ansioso e terrorizzato, la osservava, temendo

che, d'un tratto, prendesse il sopravvento su di lui. Certe volte, nei suoi sogni, si faceva coraggio e

vi si avvicinava, ma senza trovare nulla. Cosa poteva significare tutto ciò? Il ragazzo aveva letto

libri, cercato informazioni.

 

Si ricordò di una notte di parecchi anni prima. Dopo aver svolto le ultime faccende alla Fornace

del Drago, si era attardato nella piazza della Città Bassa, passeggiando. Nelle vie non si udiva altro

rumore che non quello dell'acqua della fontanella. Tutto era silenzioso, quasi come se le persone

fossero scomparse.

Le altre taverne erano chiuse. Il mulino era muto, poiché non vi era vento. Gli animali nei recinti

giacevano beati tra fieno e fango. La luna risplendeva bassa nel cielo, poco sopra la collina del

cimitero. Un sottile strato di nebbia si muoveva rada, a filo del selciato. Araag, ancora era turbato

dal sogno della notte precedente, volendo approfittare del silenzio, decise di recarsi nella biblioteca

del castello. Camminò rasente al muro, temendo che, proprio a causa del cauto silenzio, le guardie

sulle torri potessero avvistarlo molto più facilmente.

Fortunatamente, il colore che gli donava di più era sempre stato il nero, perciò l'abbigliamento era

adeguato alla situazione.

 

Muovendosi a passo felpato, era giunto infine in una piccola, stretta via, innanzi le porte del Bianco

Castello. Nonostante la posizione potesse apparire agiata, in quanto vicina a una reggia reale, quel

viottolo era sporco, consunto e puzzava di piscio. Rasenti al muro vi erano barili rovesciati,

contenti chissà quale orrido liquame e sporcizia. Probabilmente si trattava di vino divenuto rancido

e scarti di cibo raffermo, o peggio, ammuffito, a giudicare dalla puzza. Araag era piuttosto magro

come ragazzo, perciò non trovò grossi problemi nel passare rasente al muro, evitando così di

avvinarsi troppo a quella sozzura. Mentre muoveva i passi, svelti e sicuri in quel piccolo spazio

ristretto, udì uno strano rumore.

“Psss. Hei tu.” Era una voce! Il ragazzo sentì il cuore esplodergli nel petto. Se qualcuno l'avesse

visto aggirarsi in quella zona, a quell'ora poi, sicuramente l'avrebbe scambiato per un ladruncolo e

lui questo proprio non se lo augurò.

“Hei, ragazzo. Non scappare, non ti voglio fare male.” - incalzò la voce.

Intimorito, Araag volse lo sguardo alle sue spalle. Vide allora spuntare una testa da dentro un barile.

Si avvicinò cautamente e chiese: “Tu chi sei?” Un ragazzo rinsecchito, sporco e vestito di stracci

logori sedeva rannicchiato. Le mani ossute a cingere le ginocchia ancora più scarne. I capelli

arruffati, quasi fossero un nido di scoiattolo, apparivano di un color biondo cenere, ma il giovane

non si arrischiò ad affermare la cosa, poiché la sporcizia li rendeva quasi nerii. Il viso del bambino

scheletro era infossato fra le gambe, la frangia che gli ricopriva il volto spigoloso. Quando Araag

si accovacciò di fronte a lui, il ragazzo macilento alzò leggermente lo sguardo.

“Mi chiamo Zhin, ma tutti mi chiamano Z. All'inizio pensavo che era bello, che era per chiamarmi

più facilmente, ma poi mi hanno detto che è perché sono tutto a spigoli.” - enunciò con voce flebile.

“Perchè allora non ti sei presentato col tuo solo nome, Zhin?” - chiese Araag incuriosito dalla

faccenda.

“Perchè penso che se tu sei venuto a parlare, allora diventiamo amici e allora ti posso dire tutto.

La gente mi tratta sempre male. Hanno paura di me.” - rispose il ragazzo, singhiozzando.

Araag si sentì imbarazzato. Amici? - pensò – Come possiamo essere amici se nemmeno ci

conosciamo? Che ragazzino ingenuo questo Z.

“Cosa ci fai qui tutto solo, Zhin?” L'emaciato lo guardò con sospettosi, occhi tristi.

“Puoi dirmelo, sai? Io non ho paura. Devo ammettere che inizialmente mi hai spaventato,

c'è troppo silenzio questa notte e non mi aspettavo di trovare qualcuno.”

“Sono scappato.” - confessò Zhin, singhiozzando.

“Da qualcuno o da qualcosa?”

“Da mio padre.” - ammise. “Lui beve sai? La mamma è morta. Lui allora mi picchia perché

le manca, penso io.”

Poveretto, chissà quali violenze è stato costretto a subire. Non posso lasciarlo qui tutto solo.

Morirà se non faccio qualcosa - pensò il giovane. Però non posso arrischiarmi a portarlo con me

nel castello. Cosa farei se mi scoprissero? Troppo, rischioso. Non posso permettermi di

coinvolgere anche lui.

“Sai Zhin” - disse infine - “Questa notte ho deciso di fare una cosa molto pericolosa. C'è un sogno

che mi tormenta e devo scoprire di cosa si tratta. Però sono dispiaciuto nel vederti qua fuori tutto

solo.”

“Cosa devi fare?” - chiese Z, curioso.

“Una cosa pericolosa. Non puoi venire con me, ma se vuoi puoi aspettarmi.”

Il ragazzo scheletro non rispose. Rimise la testa fra le gambe e tacque.

“Non m'importa.” - bisbigliò mugugnando - “Tutti scappano da Z tanto.”

“Ma io non sto scappando, Zhin. Ti chiedo solo di aspettarmi.”

“Mm – mm” - fu la sua unica risposta.

“So che ti preoccupa. Pensi che anche io voglia scappare da te, ma non mi fai paura. Non mi

interessa se ti chiamano Z e ti temono. Io sono diverso.”

Zhin sgattaiolò fuori dal barile. Dispiegò gli arti macilenti e si alzò. Quelli che ormai non erano

più vestiti, gli ricaddero sul corpo scheletrico, palesemente più grandi di lui di almeno tre taglie.

Con denti neri sorrise ad Araag in piena innocenza: “Davvero sei diverso?”

“Lo sono, Zhin.” - si apprestò a ribattere Araag.

“Allora... dimmi cosa devi fare.”

Araag si sentì dannatamente turbato. Capiva che quel ragazzino scheletrico era buono di cuore,

ma poteva spingersi a dirgli la verità? Ci rimuginò sopra per qualche istante, dicendo a se stesso

che, infondo, Z non avrebbe potuto fargli alcun male e che, nel caso in cui non avesse potuto

aiutarlo in alcun modo, gli avrebbe chiesto di aspettarlo pazientemente.

“Un terribile incubo mi ha tormentato la scorsa notte.” - confessò infine- “ E' un sogno ricorrente che mi spaventa. Voglio capire di cosa si tratta, al più presto. Voglio cercare di combattere le mie paure, per questo devo recarmi al castello, ma nessuno dovrà saperlo. “

Il ragazzino, con un tonfo, si lasciò cadere sul selciato. Le braccia rinsecchite dietro il capo, lo sguardo fisso verso il cielo stellato. Ma che?! Ma cosa diamine sta combinando? - si domandò Araag, scosso da quel suo gesto improvviso.

“Zhin?” - si accennò a chiamare il ragazzo.

“Sì? Guardo le stelle.” - ammise lui, come fosse consuetudine lasciarsi cadere a quel modo sul terreno. “Spesso ti aiutano, sai?”

“Come potrebbero aiutarmi le stelle a fare ciò di cui ti ho accennato poco fa?”

“Se non vuoi che ti aiutano, non lo fanno.” - rispose, in modo grammaticalmente osceno. Temo non abbia ricevuto alcuna istruzione. - pensò Araag. Quel ragazzo mingherlino non fa altro che sbagliare verbi. Mi dispiace per tutto ciò che ha dovuto subire, ma la cosa inizia ad irritarmi parecchio. Ma forse non è così importante, dopo tutto.

“Magari possono aiutare me, sai?” - continuò Zhin, sfacciatamente. “Aspetta che sto pensando.”

Ed Araag si mise a fissare il ragazzo scheletro. Nel viottolo non vi erano torce. Solo una debole, fioca luce proveniva da una casa distante. Probabilmente il fuoco di un caminetto rimasto accesso.

Nel silenzio tombale che si creò fra i due, Araag si mise in ascolto. A pochi metri da loro, le guardie passeggiavano avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro, lungo la bianca cinta muraria del castello. Zhin ancora sdraiato sul ciottolato. Araag, in piedi, le braccia conserte, la schiena poggiata al muro, aspettava. Infine non ne potè più di tutta quella attesa e fece per andarsene.

“Fermati... emmm... Hei! Ma, non me l'hai detto il tuo nome!” - disse Zhin, perplesso.

“Senti Zhin, vorrei davvero fermarmi e tenerti compagnia, ma se rimarrai sdraiato per un altro po', io non avrò il tempo necessario per fare ciò che devo. Quindi, se hai qualcosa da dirmi, fallo ora, altrimenti me ne vado.” - sentenziò Araag con fermezza.

“Non ti volevo fare arrabbiare...mmmm... eeem...”

“Araag. – disse il giovane, sospirando. “Non sono affatto arrabbiato, anzi, credo che tu abbia davvero bisogno di compagnia, Zhin. Ma ti ripeto che io non ho tempo per mettermi a giocare a questo modo. Devo sbrigare una faccenda importante, quindi, se vuoi scusarmi, me ne andrei.” - concluse, sforzandosi di apparire meno adirato possibile.

“Aspetta... Araag. Conosco un passaggio segreto per il castello.”

Araag si sentì costernato. Quel ragazzino emaciato aveva passato tutto quel tempo sdraiato a terra, immobile e zitto, per cosa? Per poi prorompere con una sorpresa del genere. Dal nulla! Perchè diamine l'aveva tenuto nascosto? Un passaggio segreto... e io dovrei fidarmi? - si chiese - Questo qui nemmeno conosce il significato di sotterraneo e ora vuole persino farmi da guida. Matto. Matto. Sto diventando matto. Mancano poche ore all'alba e adesso scopro questo. Ma cosa diavolo mi viene in mente. Dovrei anche starlo a sentire? Ma per piacere.

“Fidati di me, Araag.” - disse Zhin con fare dispiaciuto. “Se passiamo da quel buco” - continuò, indicando un buco ai piedi della cinta muraria - “ poi entriamo e passiamo da giù. C'è qualche topo, ma conosco la strada. Ormai sto in questo barile da mesi, ogni tanto riesco a prendere da mangiare nel castello. Non mi succede tante volte, ma ci sono notti come questa qui che è più facile.”

Araag, stupefatto, continuò ad ascoltare Zhin che, incredibilmente, gli illustrava il percorso da compiere per giungere all'interno del castello, pur con quell'orrendo, insopportabile modo di parlare.

“...alla fine arriviamo nella cucina.” - concluse il ragazzo scheletro.

Il giovane, dubbioso, si mise per qualche istante a rimuginare su ciò che l'ossuto gli aveva poc'anzi rivelato. Infine, decise di non farsi prendere dal panico e tentare la sorte seguendo il consiglio di quell'innocente ragazzino disperato. Probabilmente era l'unica cosa sensata da fare. Dopotutto, chi mai avrebbe potuto conoscere quel passaggio senza esserci mai stato? Chi mai glielo avrebbe rivelato senza desiderare nulla in cambio? Zhin aveva perso già molto nella sua breve vita. Unico suo desiderio era ricevere un po' di compagnia. E, dopotutto, Araag era un ragazzo poco più grande di lui, forse d'un paio d'anni. Perchè mai un ragazzo senza nulla avrebbe dovuto mentirgli? Nemmeno aveva cercato di derubarlo. Avrebbe potuto farlo, Zhin, ma si era dimostrato onesto. Quindi, perché mai voltargli le spalle?

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Il Risveglio - parte 2 ***


Il Risveglio
- parte 2 -

 

 

Dopo un percorso rapido nelle fogne del castello, camminando fra liquame nauseabondo e ratti, inerpicandosi su di una scala in ferro pericolosamente precaria, erano infine giunti nelle cucine del castello, passando per una botola che Araag scoprì sbucare sotto il tavolo.

“Guarda” - bisbigliò Z ad Araag - “La vecchia cuoca sta riposando di la.” Zhin indicò un letto nascosto, in penombra, sul fondo della stanza. “Di notte c'è solo lei.”

“Ora cosa facciamo Zhin? Come arriviamo alla biblioteca dalle cucine?”

Zhin si mise a riflettere per qualche istante, poi, puntando il soffitto col suo indice ossuto, disse: “La biblioteca è due piani sopra la cucina. Ora noi prendiamo due ceste.” - spiegò, facendo notare ad Araag due enormi ceste di vimini contenti ingredienti per la cucina. “Ci nascondiamo dentro e andiamo fuori dalla porta. C'è un lunghissimo corridoio, e un cane.”

“Un cane?” - esclamò Araag - “Come ci liberiamo di lui?”

“Porta nella cesta la carne secca. Se si avvicina troppo gli dai un po'.” - spiegò Zhin.

“Bene, il cane è sistemato. Ma, Zhin, sicuramente ci saranno delle scale ampie in questo castello, come possiamo arrampicarci senza che le guardie ci vedano?”

“Le scale sono dopo il corridoio. In cima ci stanno sempre le guardie, non ci possiamo passare. Ma...” - rivelò il ragazzo scheletro - “al centro del corridoio c'è una piccola scaletta dietro una tenda. E' li dentro che c'è il cane. Lo cacciamo via con la carne e saliamo.”

“Zhin...” - disse Araag. L'emaciato lo fissò con occhi vibranti di curiosità. “Sei un genio!”

Il ragazzo scheletro ricambiò con un sorriso a trentadue denti, o sarebbe meglio dire trenta, visto che un paio di questi avevano lasciato il posto a due grandi, sporche voragini nere.

“Andiamo, Araag.”

“Va avanti...amico, io ti seguo.”

Zhin, sorpreso di sentirsi chiamare a quel modo, corse silenziosamente a prendere le due ceste. Dopo averle svuotate del contenuto, carote, cipolle, pomodori, sedano, e varie altre verdure, andò a cercare due bei pezzi di carne essiccata. Portò il tutto ad Araag e insieme si diressero all'esterno.

 

Il lungo corridoio del castello era coperto da un altrettanto lungo tappeto color blu notte, ricamato con sottili fili d'oro che ne percorrevano i bordi. Innanzi la porta delle cucine dalle quali erano appena usciti, vi era un corrimano in marmo bianco, dal quale cataste di fiori azzurri, posti in vasi d'oro, calavano verso il basso. Tra di essi si poteva intravedere la Sala Grande del Castello Bianco, posta al piano sotto di loro. Era una sala immensa, colonne bianche e altissime sorreggevano un soffitto egregiamente dipinto da maestri artigiani, ricco d' illustrazioni di cavalieri e dame. Nel centro, la figura di un anziano uomo sembrava osservava guardingo, con severi occhi ambrati, il tavolo dei banchetti. Inflessibile, fiero ed imponente sembrava giudicare, letteralmente, dall'alto in basso l'intera sala. La lunga barba bianca andava ad intrecciarsi con i fregi sovrastanti le colonne di marmo, nelle quali proseguiva, ciocca per ciocca, ponendosi come una linea scolpita che le percorreva dal capitello al fondo. Ai piedi delle colonne, vi era una fila di guardie. Le armature bianche e le loro lunghe lance d'oro scintillavano sotto la luce delle torce poste lungo le pareti.

Rimanendo accucciato ad osservarle, Araag notò che la fila proseguiva sino a delle ampie scale che dalla sala culminavano ad una grande porta blu, con ornamenti dorati.

“Araag...” - chiamò Zhin. “Non c'è tempo di mettersi a guardare. Vieni.”

Il ragazzo, abbandonando quella magnifica visione, seguì l'emaciato. Percorrendo silenziosamente il corridoio, arrivarono circa a metà. Sulla sinistra, proprio come aveva detto Zhin, Araag notò delle ampie tende di seta blu con decorazioni, anch'esse d'oro, che sembravano ricordare il cielo stellato. Tendendo le orecchie, riuscì ad udire un flebile respiro affannato.

“Quelle è il cane. Dorme.” - bisbigliò Zhin, come se gli avesse letto nella mente. Dopo di ciò, il ragazzo scheletro scostò con le dita ossute la tenda e, muovendosi lentamente, allungò la mano nella quale stringeva il pezzo di carne esiccata. Infine, sparì dietro la tenda. Araag lo seguì, muovendosi allo stesso modo. Sovrastate le sfarzose stoffe, venne sommerso dal buio. Continuando a muoversi con circospezione, poté sentire il fiato del cane sulla sua gamba. Cercò di muoversi ancor più lentamente, scostandosi verso le pareti, seguendo Zhin, il quale, come se si fosse dimenticato di lui, era già arrivato verso il fondo del piccolo atrio. Una debole luce proveniva dall'alto. Probabilmente si tratta della luce della biblioteca – pensò Araag. Vi si diresse e ci mancò poco che non inciampasse nelle ossute gambe di Z. “Shhh” - gli fece eco lui. “Saliamo.”

Proseguirono per due intere rampe, sempre muovendosi con profondo silenzio. Una porta di legno massiccio gli si parò d'innanzi agli occhi. Dal buco della serratura proveniva una luce intensa. Araag provò a girare il pomello in ferro con mano ferma. Chiusa. La porta era chiusa.

“Questa proprio non ci voleva” - bisbigliò il giovane, incredulo. “Che cosa diavolo facciamo adesso, Zhin? Tu avresti dovuto saperlo! Io credevo che non ci sarebbero stati problemi di questo genere.”

“Infatti. Nessun problema, amico.” - rispose Z, fiero.

“Ma che cosa diamine stai blaterando? Non lo vedi che la porta è chiusa a chiave, idiota?” - sbraitò Araag sommessamente. Zhin lo fissò con fare agitato.

“Mi hai appena chiamato idiota. Dimmi perché ancora ti devo aiutare. Io pensavo fossimo amici, io e te.” - mugugnò il ragazzino.

Araag lo fissò, pensieroso. Aveva sbagliato, lo sapeva. Non avrebbe dovuto, in fondo non era colpa di Zhin se la porta era chiusa a chiave. Lui gli aveva offerto il suo aiuto e come lo stava ricambiando? Insultandolo per un errore che non aveva commesso.

“Mi... mi dispiace, Zhin. Sono stato sgarbato. Tu non hai alcuna colpa.”

Zhin riflesse sulle parole di Araag. Dopo pochi secondi si voltò di scatto verso di lui esibendo il suo grigio sorriso a trenta denti. “Scuse accettate” - esordì. “Ora sta a guardare il tuo amico Z.”

Così dicendo, l'emaciato si rannicchiò. Chiuse gli occhi, ponendo le secche mani, a palmo aperto, innanzi a sé. Quando li riaprì i suoi occhi s'illuminarono. Gialli. Le mani vibrarono e poi... clack. Araag sentì la serratura scattare. Come per incanto, la porta ora era aperta. Ma quando? Occhi gialli. Che fosse quello che pensava? No, cosa poteva avere in comune Zhin con lo spettro dei suoi incubi?

Un ragazzino esile, fragile, buono di cuore. Non avrebbe potuto terrorizzare neppure una mosca, salvo prenderla in contropiede in una buia via nel pieno della notte.

“Co..come ci sei riuscito Zhin?” - domandò il giovane.

“Magia. E' un segreto.” - disse ponendo l'indice sulla sottile bocca. “Andiamo.”

“Aspetta, aspetta, aspetta!”

“Cosa?”

“Io.. Tu.. Zhin, i tuoi occhi hanno cambiato colore quando hai fatto quella... quella...cosa.”

“Magia. Simpatia. Trucchi antichi. Arti arcane dei Natif. Vuoi altri nomi? Non si chiama ''cosa''.” - precisò l'emaciato.

“Va bene, va bene, ma... dove hai..?”

“Imparato? Non l'ho fatto. Nessuno ha spiegato a Zhin come si fa. Lo so e basta.” - spiegò Zhin. “Quella della mia mamma era una bugia. Scusa.”

“Cosa c'entra tua madre ora, Zhin? Di che bugia stai parlando?”

“Ti ho detto che mio padre mi picchia per la mamma, ma non è vero. Lui mi ha visto. Io pensavo che era bello per lui, se sapeva che sono un mago. Invece no.”

“Capisco.” - sospirò il ragazzo. “Io non ho paura di te. Anzi, sono curioso. Non credevo tu fossi in grado di fare magie. In realtà, credevo che solo i Natif ne fossero capaci.”

“Io questo non lo so. Conosco solo me. Nessun'altro.”

“Ma, ma Zhin che mi dici degli occhi?”

“Occhi? Perchè, che fanno gli occhi?”

“Quando hai fatto quella magia hanno cambiato colore, te l'ho detto. Hai anche tremato.”

“Quello lo so. Che ho tremato, dico. Quando faccio magia mi viene sempre un graaan caldo.” - rispose. “Degli occhi boh, non so cosa succede. Non sento niente.”

“C-capisco....” - sospirò Araag. Ora che finalmente era riuscito a trovare un probabile nesso tra la presenza dei suoi peggiori incubi e il mondo reale, la luce in fondo al baratro si era dissolta in pochi attimi. Magia. Questo potrebbe avere senso, ma lui dice di non saperne nulla e io, in fondo, mi fido. Ma se non può dirmi nulla, come posso fare? E va bene, ricominciamo da capo. Ricominciamo dal nulla.

“Forza amico, andiamo.” - incitò il giovane.

 

La biblioteca del castello puzzava di vecchio, di polvere e di cavolo. Subito dopo l'entrata si trovava un tavolo stracolmo di scartoffie, calami, piume e lumi consumati. Sul lato destro un vecchio calvo sonnecchiava beato, bofonchiando incomprensibili parole nel sonno. Le mani giunte sopra la vita. Un lume poggiato a terra. Araag si chinò lento e lo raccolse, portandolo con sé attraverso immensi scaffali di libri impolverati. Più saliva con lo sguardo, più aumentava la polvere sopra di essi ed iniziava a sentirsi un acre odore di muffa e stantio. Una piccola finestra dava sul cortile interno del Castello Bianco, ma era talmente sommersa di ragnatele, polvere e materiali depositati vari che risultava impossibile da aprire, sicuramente già da parecchi anni. Perlustrando i tesori di quella vecchia stanza, con Zhin nei pressi a reggere il lume, Araag trovò dopo parecchio tempo un piccolo, consunto libro. Copertina nera, pagine rinsecchite, polvere praticamente incrostata lungo tutta la rilegatura. Il mito della Confraternita della Mortalità e degli Oscuri Segreti, s'intitolava. Araag lo sfogliò da inizio a fondo. Nulla.

Da un altro scaffale, ancor più impolverato, prese un altro libro, palesemente antico. La breve storia della Magia dell'Era dei Giganti. Ancora nulla. Così fece per “Incantesimi Oscuri”; “La storia di Behrn, il mago dell'inverno”; “Grumfht: mago antico, oscuro presagio”; “Natif”; “Spettri”; “Incubi e Magia”; “La Magia Nera”; “La Magia Bianca”; “La triste storia di Nin il mago”; “Paura nel buio”;... Non trovò nulla. Niente, di niente, di niente. Aveva provato con titoli di magia, antica e moderna, ma anche con libri inerenti a sonno ed incubi. Niente. Non aveva trovato niente.

Il lume si era quasi del tutto consumato e, da quella piccola, sommersa finestra, si poteva già notare il sole spuntare da dietro le alte colline che circondavano la città.

 

Sconsolato, Araag se ne andò. Da quella notte, Zhin divenne il suo migliore amico che, però, nulla aveva potuto fare per lui, se non donargli una debole, falsa speranza. Occhi che cambiano colore non se ne vedevano tutti i giorni, indi per cui ad Araag risultò strano che nessuno ne avesse mai scritto in qualche testo. Forse era un dettaglio trascurabile? Forse nei tempi antichi qualcuno aveva potuto constatare che i Natif, patriarchi della magia più antica, erano in grado di farlo, ma che nessuno ne aveva scritto? O forse era una cosa che succedeva solo a Zhin? Probabilmente lui era speciale, o forse nessun mago lo era. Probabilmente si trattava di uno sciocco, insignificante dettaglio. Eppure Araag li aveva visti, quegli occhi. Li aveva visti nei suoi sogni e ora persino nella realtà. Zhin era reale. Araag era reale. Quindi, anche quegli occhi gialli lo erano. Non si era immaginato nulla. Come avevi visto le mani del ragazzo scheletro tremare, aveva visto anche i suoi occhi tramutarsi. Allora perché? Perchè nessuno ne aveva mai parlato nei libri? I maghi esistevano sin dai tempi più remoti e, persino leggendo la biografia di Behrn, il misterioso mago dagli enigmatici occhi ambrati, che riconobbe essere lo stesso rappresentato nella Sala Grande del Castello Bianco, non era stato in grado di scoprire un singolo dettaglio. L'unica magia a lui conosciuta era quella dei Natif, l'antico popolo nativo delle Terre di Morwen. Non credeva potessero esistere Uomini-Stregoni, ma ora che l'aveva scoperto? Non era cambiato assolutamente nulla. Nulla. Che cosa avrebbe potuto fare Araag per scoprire di cosa si trattava?




NOTA AUTRICE:
Salve ragazzi! Avete notato? Mi sono data una svegliata! Nonostante i miei impegni non siano diminuiti, ho ritrovato l'ispirazione in questo periodo (per fortuna!) e, di conseguenza, sto cercando di scrivere il più possibile. Modestamente, mi sento piuttosto soddisfatta di questi ultimi capitoli pubblicati. La fretta non mi ha dato tempo di correggerli come si deve, ma avverrà in seguito, non disperate!
Lasciatemi una recensione (o un breve commento), vi prego. Ho bisogno di sapere cosa ne pensate!

Ookami

 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** La mattina dopo l'incubo ***


NOTA AUTRICE: Hola amigos! Scusatemi tanto per la mia assenza, il blocco dello scrittore si è fatto risentire, ma non temete, sono di nuovo in circolazione! Ho apportato alcune modifiche al romanzo (sempre in corso d'opera) spostando un paio di capitoli nel formato word del mio computer, non su Efp. Però devo avvertirvi che l'ho fatto per rendere al meglio lo spazio temporale, per non perdersi via nei discorsi, quindi il capitolo che seguirà sarà un collegamento al sogno inquietante di Araag e non al flashback di lui e Zhin all'interno del castello. Spero sia tutto chiaro, buona lettura :3
 

La mattina dopo l'incubo
 

Quando Araag si svegliò, grondante di sudore ed infreddolito, ancora udiva nella sua testa le voci di

quegli uomini dilaniati dalle fiamme. Le sue mani erano gelide, i suoi occhi sbarrati, il volto

divenuto di un bianco pallido, quasi cadaverico. Cosa significava quel sogno? Perchè proprio

quella notte? E quegli occhi gialli che ancora lo perseguitavano. Araag li sognava sempre, fin da

quand'era un bambino. Quasi ogni notte quegli occhi venivano a fargli visita, come mostri risorti

dalle tombe, di giorno silenti e di notte misteriosi, spaventosi e invincibili. Non riusciva a

sbarazzarsene. Da anni continuava a chiedersi il perché di quell'oscura presenza. Ma di cosa poteva

trattarsi? Il ragazzo iniziò a rimuginare, chiedendosi, soprattutto, perché di quell'entità non avesse

mai visto la forma. Poteva trattarsi di un animale posto in agguato, ma che mai, nei suoi sogni,

l'aveva aggredito. Oppure era un uomo? O forse ancora, uno spirito? Araag non lo sapeva, ma li

temeva. Come il giovane cervo rimane guardingo, drizzando le orecchie al minimo rumore,

sospettando di ogni fischio, di ogni ramo caduto o spezzato, perché spaventato dall'idea che possa

trattarsi di un cacciatore, così il giovane sospettava di quegli oscuri occhi gialli. Non importava

che l'entità non lo avesse mai sfiorato. Lui la temeva. Ansioso e terrorizzato, la osservava, temendo

che, d'un tratto, prendesse il sopravvento su di lui. Certe volte, nei suoi sogni, si faceva coraggio e

vi si avvicinava, ma senza trovare nulla. Cosa poteva significare tutto ciò?

Araag si sciacquò il viso, si diede una veloce, e non troppo accurata, spazzolata ai capelli ribelli, neri come cenere, ed, infine, scese le scale, frastornato. Il sole mattutino si stava affacciando all'interno della casa, facendosi spazio tra le imposte delle finestre lasciate chiuse durante la notte. Le spalancò e gettò un occhio oltre il vetro, lontano. Lontano dove quella notte era fuggito. Lontano dove i pensieri l'avevano condotto. Oltre il giardino che circondava la sua umile dimora, vide la lunga ed impenetrabile cinta muraria di Imlach. Ancora più in là, sin dove il suo sguardo riuscì a spingersi, vide le colline dove si trovava il bosco in cui, quella notte, si era perduto. Ma perché pensarci ancora? - si disse. Sono scappato, nei miei sogni. Sono fuggito via da tutto il male che mi è stato fatto. E ora? Sono di nuovo qui. La casa alla quale appartengo da che ne ho memoria. La città. La gente. Mia madre. L'incancellabile ricordo della sera precedente gli si presentò vivido, fresco, brutale. “Io non sono la sua vera madre...” Questo aveva detto lei. Ma che cosa poteva significare? Che stesse scherzando, Isneth? Che fosse solo un gioco? No. No, era seria. Anzi, serissima, quando Araag la sentì pronunciare quelle oscure parole. Doveva ricevere delle spiegazioni. Non importava come, ma doveva farlo.

 

Arrivato in cucina, Araag trovò sul massiccio tavolo di legno la colazione già pronta. Eppure era solo. Mangiò in fretta, quasi per necessità, senza assaporare un solo boccone. Infine, si precipitò fuori dalla porta. Isneth, illuminata in tutta la sua dolce bellezza dalla luce del sole, stendeva i panni. Quando il giovane chiuse la porta alle sue spalle, la donna nemmeno si accorse di lui. Allora Araag la raggiunse.

“Buongiorno” - disse lui.

Isneth sobbalzò per lo spavento. “Oh ciao Araag. Io... io non ti avevo visto. Credevo fossi ancora a letto.”

“Mi dispiace, non volevo spaventarti.” - rispose lui.

“Oh bhe, visto che sei in piedi perché non mi dai una mano?” - chiese la donna, chinandosi per baciare la fronte del figlio.

“No.” - scattò lui. “Non farlo, per favore. Sono cresciuto per queste cose.”

La madre lo guardò con sguardo afflitto. Prese un lenzuolo dalla cesta ai suoi piedi e, quasi meccanicamente, lo distese sul filo di lana teso a mezz'aria. “Sai, non credevo fossi già troppo uomo per occuparti del bucato.” - lo sbeffeggiò lei.

“Io non parlavo di quello.”

“Lo so, lo so. Mi pare strano però, sai figliolo? Solo ieri mattina ti sei lasciato baciare la fronte. Oggi sei già troppo vecchio. Mi ci dovrò abituare.” - continuò Isneth, sarcastica.

Araag si andò a sedere sui gradini innanzi alla porta. Le mani giunte sulle ginocchia. “Io ti dovrei parlare... madre.”

“Bhe, sputa il rospo allora.” - sogghignò lei.

“Lascia perdere, non importa.”. Araag si alzò e s'incamminò lungo il giardino. “Vado in paese. Ti occorre qualcosa?” - domandò, quasi per obbligo.

Isneth scosse il capo. “Non mi occorre nulla. Ma se vuoi parl..”

“Ho detto che non importa!” - sbottò lui, correndo via.

Isneth lasciò cadere a terra il lenzuolo pulito che aveva in mano e lo seguì. “Araag! Araag aspetta!”

Il ragazzo si fermò e la donna lo raggiunse, affaticata. “Cosa c'è che non va?” - chiese. “E' forse per il mio comportamento di questi giorni? So che non sono una madre perfetta, ma ho buone orecchie. Se vuoi parlarne possiamo farlo.”

“Grazie, ma non credo sia il caso.”

“Invece lo è, Araag. Dov'è andato a cacciarsi il tuo bel sorriso stamattina, eh?” Il giovane si girò di scatto, sbuffando. Isneth gli mise una mano sulla spalla, dolce e delicata come solo lei sapeva essere. “Vieni figliolo. Torniamo in casa.” Araag , rassegnato, la seguì.

Si diressero in cucina. Era domenica, non c'era lavoro da svolgere, solo faccende domestiche.

Isneth si recò al lavello per pulire i piatti lasciati dal ragazzo dopo il fugace pasto mattutino. Purtroppo per Araag, nonostante l'impegno preso con Findo, i due avrebbero avuto tutto il giorno per poter parlare. E figuriamoci se poteva andarmi bene.pensò lui.

“Forza ragazzino, fai uscire qualche suono!” - lo incitò lei.

Araag non poteva più scappare. Doveva superare le proprio paure. “Quando il mondo ti affronta, semplicemente, affrontalo a tua volta.” - aveva letto in uno dei suoi amati libri. Ed era ciò che doveva fare. Prendere la situazione di petto, cosa difficile per un ragazzo di quell'età. Ma Araag non era come tutti gli altri. No, Araag Bran era speciale. La sua testa così confusa e frastornata dagli incubi, conteneva la stessa voglia che ogni giorno gli aveva permesso di imparare, crescere e giocare d'astuzia. Non si sarebbe fatto corrompere dalla tristezza o dalla rabbia.

“Madre.” - disse freddo. “In questi giorni il tuo atteggiamento non mi ha dato pace. Quando ieri sera ne abbiamo discusso... tu hai pianto e io non ho potuto fare a meno di notarlo. Non sapevo cosa ti stesse succedendo e tu non mi hai voluto spiegare. Quando hai deciso di farlo hai infine mentito. Come mi dovrei sentire?”

“Mentito? Io non ti ho mentito Araag. Ti ho solo parlato della...”

“Tempesta. Lo so, me ne hai parlato molti anni fa ormai, ma ora so che non era la verità.” - continuò il ragazzo, sospirando. “Ti ho sentito parlare con Findo, madre. Ho sentito tutto.”

Isneth fece cascare a terra il bicchiere che teneva in mano che, con un tonfo, si schiantò a terra. Lei lo seguì, cascando immobile sul pavimento di sasso.

“Io...” - mugugnò la donna, incredula.

Araag la aiutò a rialzarsi e la fece sedere. Raccolse il bicchiere e le versò dell'acqua.

“Credimi Araag, io non avrei voluto che lo scoprissi così. Non ti ho mentito sulla tempesta, mai! Io... ho solo voluto nasconderti che.. che...” Isneth si mise le mani fra i capelli e scoppiò in lacrime.

“Smettila di piangere. Non è necessario. Vorrei solo capire... perché?”

“Oh Araag... sono una pessima, pessima madre. Come ho potuto tenertelo nascosto?! Che stupida sono stata!”. Isneth sembrava irriconoscibile. I capelli arruffati, mani e voce tremanti. Le lacrime che cadevano a dirotto come pioggia lungo il suo viso.

“Non piangere, madre, o fra poco avrai ruggine sulle guance.” - disse Araag ridacchiando.

Isneth prese un lembo della sua ampia gonna e vi si asciugò il viso.

“Araag, io non ho voluto... No. Io non ho potuto dirtelo prima. Non avevo idea di come fare per non rischiare di ferirti. E guarda cos'ho combinato. L'hai saputo nel modo peggiore.” - bofonchiò lei con voce spezzata. “Mi....mi dispiace, mi dispiace tanto.”

Araag, incredulo, stava ad ascoltare quello che la madre tentava di dire con affanno. Sentiva, ma non capiva. Come aveva potuto crescerlo e tenergli nascosto un tale segreto? Perchè farlo? Temeva che lui non avesse potuto capire? Nulla aveva più senso nella mente del giovane.

“Per quanto mi riguarda” - disse infine lui - “Tu sei ancora la donna che mi ha cresciuto con amore e lo rimarrai per sempre, ma non posso continuare a pensare a te come una bugiarda. Me l'hai tenuto nascosto e per troppo tempo. Findo lo sapeva, tutti lo sapevano! Tutti tranne me. Mi dispiace.. ma ho bisogno di stare solo. Sono cresciuto senza sapere nulla della mia vita!”

“Araag, ti prego, cerca di calmarti” - continuò lei - “Io, io posso raccontarti tutto. Mi sono trattenuta dal farlo per non spaventarti, se ti avessi raccontato la verità ...”

“Cosa? Tu cosa?”

“Beh, tu.. io.. non osavo immaginare che reazione avresti potuto avere. Eri troppo piccolo per sapere e solo ora mi accorgo di quanto tu sia cresciuto. Sei un ragazzo meraviglioso, bello, forte, sei intelligentissimo e avventuroso, ma io sono fragile. Temevo che potessi diventarlo anche tu, crescendo. Ora mi accorgo che non è così. Tu sei molto meglio di quanto io potrei mai essere.” - disse Isneth, lasciando che le lacrime continuassero a scorrere senza sosta.

“Non devi dire così. Tu sei stata per me una madre meravigliosa e un'amica, soprattutto. Eppure, ora che so di non essere davvero tuo figlio e di essere stato illuso, ho bisogno di capire. Io devo sapere chi sono, devo sapere chi erano i miei genitori, io... io devo sapere!”

- dopo un gran respiro interrotto dal magone, Araag riprese a parlare - “Ho bisogno di riflettere. Voglio staccare per un po'. Non disturbarmi e se Findo dovesse venire a cercarmi digli che ho la febbre.”

Cos'ì dicendo, Araag si diresse nella sua stanza e, una volta sdraiatosi sul letto, fatto solo di materassi di lana e coperte di lino intrecciate, rimuginò sul discorso tenuto con la madre. Non si sarebbe smentito, no di certo. Non poteva perdonare un torto così grande. Lui doveva scoprire la verità. Pensando e ripensando alla cosa giusta da fare e cercando di dare una giustificazione razionale a tutto quanto, il giovane si addormentò e gli incubi ricominciarono, come sempre.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Eviscerazione di un abbandono ***


Eviscerazione di un abbandono


Ma certo! Pensò Araag, alzandosi bruscamente dal soffice letto. Zhin potrebbe aiutarmi! Chi altri se non lui? Che io sappia dovrebbe ancora trovarsi nella villaggio dei Natif dell'Acqua, a Sud. Partirò con Galvorn, stanotte. Voglio capire chi sono io e sapere se sono in grado di affrontare la verità. Devo trovare Zhin, devo andare da lui. Araag si sedette allora al banchetto di legno nella sua stanza. Era ancora notte fonda, ma il sonno stentava a ritornare. Ormai era completamente sveglio, afflitto dai pensieri che lo avevano investito nuovamente, eccitato e pieno di speranza per via del sogno. Con un calamaio colmo di denso inchiostro nero sulla destra, foglio innanzi a sé e penna d'oca nella mano, il giovane si mise a scrivere. Ora sapeva cosa doveva dire. Ora sapeva cosa doveva fare. Finalmente riusciva a trovare le parole adatte per chi lo aveva ferito. Araag era tanto bravo con il suo sarcasmo, con il suo atteggiamento da ribelle narcisista, ma allo stesso tempo così ben educato. Araag riusciva sempre a sopraffare le persone con intelligenza e charme da intellettuale, chiunque diveniva vittima del suo modo di fare così particolare, così piacevole. Ma non sua madre, non lei. Quando il ragazzo era in sua presenza non osava mai ricercare la sfida, ma diveniva lui la vittima della situazione, stregato da quella gentilezza con la quale Isneth arricchiva ogni cosa. Il suo modo di cucinare, i suoi abbracci improvvisi, la sua tenacia anche nelle situazioni più disperate. Araag si sentiva combattuto: sua madre era la persona che non gli avrebbe mai voltato le spalle, avrebbe dato la sua vita pur di proteggerlo, questo lo aveva sempre saputo, lo notava nell'atteggiamento e nel fatto che lei non desiderasse mai nulla in cambio, la donna che lo aveva accudito e che non poteva fare a meno di sentirsi fiera di lui; ma, allo stesso tempo, quello stesso ragazzo si sentiva offeso ed umiliato profondamente, senza più dignità, senza più integrità. Tenuto all'oscuro dalla sua vera storia. Lui che aveva sempre ricercato la logica alla base delle cose, lui che non credeva in nulla di superiore, lui che ricercava sempre la causa e la conseguenza in ogni frangente. Lui che ora non riusciva a capire e che, in un'infinita tristezza, stava ora scrivendo di getto ogni suo pensiero più recondito. I sentimenti scorrevano come un fiume in piena: prima pagina, seconda pagina, terza pagina. La lettera era diventata infinita, ricolma di sbavature, lacrime e scarabocchi. Ma Araag doveva farsi ascoltare, almeno questa volta doveva vincere. Quando i suoi occhi cominciarono a bruciare, gettò la penna sul tavolo e si fiondò verso l'armadio, preso un sacco di tela, alla rinfusa vi scaraventò dentro i primi vestiti che gli capitarono sottomano. Prese il materiale usato per scrivere, i pochi soldi riposti nel cassetto e, muovendosi di soppiatto, se ne andò.

_ _ _

Isneth si svegliò molto più tardi del solito quella mattina, quella lunga discussione l'aveva stremata. Aveva passato gran parte della notte insonne, rigirandosi continuamente sotto le coperte, cercando di non pensarci, di non piangere più. Sbirciò dalla finestra della sua stanza e vide che il sole era già alto nel cielo, nascosto dietro fitte nuvole. Malinconica e profondamente dispiaciuta scese le scale. Si aspettava di trovare Araag nel cortile, o in cucina, poiché egli era solito alzarsi tardi. Sarà andato in città, pensava, o da Findo. Probabilmente avrà bisogno di stare solo. Così si mise a sbrigare le solite, noiose faccende domestiche in attesa di recarsi alla locanda qualche ora più tardi. Mentre raccoglieva le foglie nel cortile davanti casa le sembrò di sprofondare in una deprimente solitudine. Spazzava, spazzava e spazzava, poi riponeva il tutto in un grande cesto, e così via. Una volta che ebbe raccolto tutto il possibile, prese un grande secchio d'acqua ed iniziò ad innaffiare le varie piante presenti: rose, ortensie, rosmarino, finché, in un attimo di completo silenzio, le sembrò di udire uno strano rumore, qualcosa si muoveva tra le foglie. Pensò che fosse il vento e si spostò verso un' altra pianta, ma poi, sentito nuovamente quel forte rumore di fratte muoversi, si voltò e rimase ad osservare. Quello che vide fu talmente spaventoso che per qualche attimo non riuscì a muoversi. Una sagoma alta e nera si proiettò sulla facciata della casa, un'ombra grande ed agghiacciante. Per un attimo vide il sole spegnersi al passaggio delle nuvole ed essa si fece ancora più immensa. Sembrava che volesse inghiottirla. Dal cespuglio sentì ancora provenire quel fastidioso rumore e quando si voltò li vide: occhi gialli, spaventosi e profondi come l'abisso, circondati da qualcosa di informe e nero, ma molto più piccolo. Quando il sole si fece di nuovo spazio fra le nuvole tutto sparì. Sarà stata la mia immaginazione. Devo essere davvero, davvero stanca per pensare a presenze oscure. Stupido sole che gioca a nascondino, stupidissime nuvole che glielo permettete! Va bene, sì, devo sedermi un attimo. Quello che Isneth non sapeva, però, era che quel gioco d' ombre non era stato causato da un fenomeno atmosferico, né tanto meno dalla sua immaginazione. Ciò che aveva visto era reale, vivo, ma se n'era andato con tempismo perfetto.

Spaventata e tremante come un foglia, Isneth tornò in casa. Le ci volle qualche minuto per ritrovare la lucidità e, solo allora, si accorse di quanto tempo fosse passato. Pensò a che cosa stesse facendo Araag in quel momento, a dove si trovasse, pensò che avesse fatto colazione prima di lei, ma, quando andò al lavello per cercare stoviglie sporche da lavare, si accorse che non vi era nulla. Né un cucchiaio, né una ciotola. Tutto era rimasto com'era la sera precedente, pulito ed ordinato nella dispensa. Nella casa il silenzio tombale della solitudine si fece ancora più opprimente, i sottili spifferi d'aria che entrava dalle finestre erano glaciali, nonostante il tempo fosse mite. Fu in quell'attimo di brivido e di completo silenzio che ad Isneth balenò un pensiero ancor più glaciale: Araag non aveva messo piede in cucina quella mattina. Lo sentiva nelle viscere, quella era la verità. Preoccupata salì le scale e si mise a bussare alla porta. Toc toc toc... Silenzio. Toc toc toc. Nessuna risposta, nessun rumore. Con il tempo che scorreva alle sue spalle, Isneth delicatamente poggiò la mano sulla maniglia della porta. Se solo aveste potuto vedere con che estrema pazienza si mosse. La sua mano sottile lentamente si abbassava, portando la maniglia con sé. E quando, con un leggero cigolio la porta si aprì, Isneth non poté far altro che muoversi ancor più prudentemente. Cercò sul muro di destra la piccola lanterna che vi era in ogni stanza, sempre al solito posto. Con dolcezza l'accese, poco a poco, tanto quanto bastava ad illuminare il pavimento. Si recò verso la finestra e, sempre con estrema cura, fece penetrare quanta luce bastava per spegnere la lanterna e avere una chiara veduta della stanza. Fu allora che capì. Fu allora che vide ciò una madre non dovrebbe mai vedere: la stanza di Araag era un completo disastro, i suoi affezionati libri gettati ovunque assieme ad altrettanti vestiti, carte sparse ovunque, lenzuola ripiegate su loro stesse come se qualcuno avesse lottato nel letto. E poi, sul tavolo di legno piccolo e gracile, fogli riposti uno sull'altro, senza più nulla intorno. Con efferata calma li raccolse e, fattasi spazio sul materasso disordinato, si mise a leggere. Nonostante i fogli fossero molti, le parole erano assai poche. Parole che, ahimè, nessuno vorrebbe mai sentire. In un disperato pianto Isneth si lasciò cadere, eviscerata e svuotata da qualsiasi felicità. Lo avevo deluso e lui se n'era andato, nulla avrebbe potuto consolarla.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Eviscerazione di un abbandono - parte 2 ***


Eviscerazione di un abbandono

- parte 2 -

 

“Findo!” - gridava Isneth all'interno delle scuderie - “Findo, è successa una cosa terribile! Dove ti sei cacciato?”. Fra il puzzo di letame e fieno, Isneth cercava Findo all'interno delle scuderie.
Non era alle stalle, ma ben presto lo trovò nel suo studiolo. “Findo! Findo, caro, meno male che sei qui!”

“Isneth, ma cosa ti è successo?” - proruppe sorpreso il vecchio.

La donna non se n'era accorta, ma dopo la gran corsa fatta da casa sua alla periferia della città, aveva i capelli in completo disordine; spettinati e bagnati di sudore le ricadevano sul viso in un gran ciuffo che le rimaneva incollato sulla guancia. La verde blusa che indossava come di consueto era anch'essa logora di sudore, come gli altri suoi capi.

“Findo” - continuò - “non immagineresti mai. Ti prego, dimmi che è con te. Findo dimmi che è qui!”

“Isneth, dolcezza, si può sapere di chi parli? Cosa stai farneticando? Dai, saliamo in casa. Ti preparo una tazza di thè.”

La donna, preso un bel respiro, si avviò nell'appartamento del vecchio amico. Il suo salotto profumava di buono, un odore accogliente di fiori che risaliva dal frutteto nel retro del casolare. Era incredibile la differenza che si poteva sentire fra le stalle ed il suo salotto. Grazie a quella fragranza Isneth si rilassò quanto bastava per poter parlare.

“Ecco il tuo thè, siediti ti prego e racconta. Cosa è successo?”

“Findo, amico mio, io non so davvero come spiegarlo. Credevo di essere stata chiara con lui, lo speravo. Invece lui non c'è più… Findo se n'è andato! Possibile che tu non ti sia accorto di nulla?!”

“Isneth, tesoro calmati, te ne prego. Parli di Araag? Sarà al fiume, come di consueto. Non vedo perché dovresti preoccupartene. Questa mattina all'alba è passato e ha portato con sé Galvorn. Non vedo quale sia il problema, nemmeno fosse la prima volta.”

“Tu non capisci! Araag… Araag se n'è andato.”

“Se n'è andato, è scappato, è fuggito. Isneth, trovo che tu stia esagerando. Posso prestarti un cavallo per raggiungerlo al fiume se sei davvero così preoccupata. Ma non ne vedo il motivo. E' forse successo altro?” - chiese Findo con quanta più gentilezza possibile, porgendo alla donna un fazzoletto si stoffa, poiché ella era già in lacrime.

“No Findo, non ho bisogno di nessun dannatissimo cavallo! Lui… lui ci ha sentito discutere l'altra sera, nel mio salotto. Sa tutto. Lo capisci?!”

Findo che fino a quel momento credeva si trattasse di una stupida paranoia dell'amica, ora era impietrito. Per qualche minuto restò in silenzio. La tazza di thè nelle sue mani si andava man mano raffreddando. Impossibile, pensava, no, no, no! Questo è un incubo! Non può essere fuggito. Lui! No, non Araag.

“Non temere, andrò a cercarlo.” - disse infine all'amica, cercando di apparire il più calmo possibile. “Tu aspetta qui. Andrò da solo, non hai bisogno di altre preoccupazioni” - continuò il vecchio prendendo soprabito e cappello dall'appendi abiti.

“No aspetta!” - lo rimbeccò Isneth - “Io… io temo sia troppo tardi. Guarda, mi ha lasciato questa.”

Findo vide nella mani della donna la lettera. Non poteva credere ai suoi occhi. Quel blocco di carta consunto era un messaggio d'addio. Deluso e malinconico Findo lo raccolse.

“Io… io non ce l'ho fatta a leggerlo tutto. Ti prego, fallo per me.”

L'anziano dispiegò i vari fogli riposti uno sull'altro e lesse.

 

 

 

Cara madre, sono ben consapevole del bene che mi vuoi.

Perdonami, ho bisogno di stare solo. Non seguirmi, non cercarmi. Non potresti trovarmi tanto. Nessuno saprà dove sono.

Io ti ringrazio, non potrei desiderare madre amica

migliore di te.

Mi fai arrabbiare, mi chiedi sempre aiuto anche quando vorrei occuparmi dei miei affari, anche quando vorrei solo starmene a leggere un buon libro.

Mai ti ho rimproverato di trattarmi come non vorrei.

Io ti voglio bene, ma non posso continuare così.

Ho deciso di andarmene per sempre finché non avrò scoperto tutto ciò che in questi anni mi hai tenuto nascosto.

Prenderò Galvorn con me e insieme ce ne andremo dove nessuno potrà più mentirci.

Sono stanco delle bugie, stanco di dover dar retta a chi non segue i miei consigli a chi

fa finta di rendermi partecipe della sua vita, quando invece non è così.

Ti chiedo un ultimo favore: saluta Findo da parte mia, non credo ci rivedremo più.

 

Il vecchio omone si accasciò sul divano. Gli abiti che aveva appena preso si accasciarono con lui, sgualcendosi. Vi furono attimi di interminabile silenzio. L'uomo non si mosse, guardò il vuoto cercando di comprendere il perché di quel terribile gesto. Isneth, invece, accucciata dal lato opposto, crollò, nuovamente sconvolta e furiosa. Si strappava i capelli, piangeva, sbraitava.

“Perchè?! Perchè sono stata così stupida. E tu che me lo dicevi sempre. <> Ma come potevo Findo? Come potevo?! Il mio bambino… il mio bambino se n'è andato.” Il silenzio si fece sentire di nuovo, questa volta molto più forte. Piombò nella stanza come un uragano, distruggendo ogni felicità. Il loro rapporto di amicizia che negli anni era proseguito nel ricordo di quella terribile notte di tempesta, ora non bastava più. C'era un vuoto nel cuore del vecchio, una voragine nel petto di Isneth. Eviscerati fino al midollo non avevano più parole. Nulla che potesse cancellare quel terribile sbaglio.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2719146