Ho ancora la forza

di _Arika_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1) La fiammata 2) Il sole ***
Capitolo 2: *** Parte terza e quarta ***



Capitolo 1
*** 1) La fiammata 2) Il sole ***


HO ANCORA LA FORZA By Chiara ( lealidiicaro@libero.it http://lantrodidedalo.iobloggo.com)

DISCLAIMER: Bulma, Vegeta e Trunks sono personaggi del manga Dragon ball di Akira Toriyama. Alissa e il commissario Red invece sono personaggi della fan fiction “soffia il vento” di proprietà dell’autrice. La canzone citata in questa fan fiction è “Ho ancora la forza” di Ligabue, contenuta nell’album Secondo Tempo.
E’ permesso citare, riprodurre o utilizzare parti del racconto solo con il consenso dell’autrice

Nota dell'autrice: La nascita di questa storia è stata un po' travagliata, perchè la canzone si presta più ad un video che non ad una fan fiction, ma visto che non sono capace di fare i video mi sono messa a scrivere.
Spero che la storia vi piaccia ^^

PARTE PRIMA: LA FIAMMATA

Il corpo esanime del cyborg mi fissa di sbieco attraverso l’unico rimasto degli occhi vitrei. E’ bastato un colpo, un flash di luce, una breve fiammata, per porre fine all’incubo di una vita.
Una fiammata, una bella fiammata, per tagliare la testa alle mie chimere.
Mi stupisco della mia forza. E’ bastato un colpo, dato con la foga di chi non sapeva se avrebbe vinto o meno e nel dubbio colpisce con potenza, per porre la parola fine a questa storia.
E’ bastato uno di quei colpi dati dal Sayan che vive in me, per porre fine alla tragedia del terrestre che vive in me.
E’ bastato così poco, che forse se avessi lasciato libero il mio istinto tempo indietro sarei riuscito a salvare molte vite. Forse sarei riuscito persino a salvare Gohan.
-Il sangue di tua madre ti ha inquinato. Sei troppo terrestre per essere un vero guerriero.
Le parole che mio padre mi rivolse nella stanza dello Spirito e del Tempo mi fecero male come un colpo ai reni.
Avrei potuto essere più forte se avessi conosciuto prima cosa significa essere un Sayan, e so che questo pensiero non potrò scacciarlo tanto facilmente dalla mente.
Stare nel passato mi ha fatto conoscere un tipo di forza che pensavo in me non esistesse, un istinto tutto sayan che porta ad attaccare prima che il nemico possa attaccarti.
Vedere mio padre e vederlo combattere all’inizio mi ha spiazzato, non capivo perché si ostinasse a combattere con la convinzione che avrebbe vinto anche quando il nemico era palesemente superiore. Pensavo fosse testardaggine, brutto carattere, arroganza, e in parte era così, ma c’era qualcosa di più profondo a spingerlo in quei colpi.
Vedendolo allenarsi nella stanza dello Spirito e del Tempo ho capito che un Sayan non combatte per difendersi, non combatte per sconfiggere, non combatte per sopravvivere.
Un Sayan combatte.
Combatte soltanto, senza cercare di darsi spiegazioni.
Mio padre si allenava combattendo contro un ipotetico nemico, che non era Goku, non era Freezer. Era chiunque avesse mai osato lanciargli una sfida.
Il suo nemico era una persona generica, un qualunque sfidante arrivato per trastullare il suo orgoglio.
Avevo osservato mio padre per lungo tempo, ma restando sempre convinto di non essere come lui. Ogni giorno che passavo mi convincevo sempre più di non avere nulla a che fare con quell’uomo, che se non fossi stato certo di essere suo figlio non l’avrei mai immaginato.
Mia madre diceva che quando mi trasformo assomiglio tanto a lui, ma non le avevo mai creduto.
Eppure quando Cell ha raggiunto il corpo perfetto e ho visto mio padre cadere sotto i suoi colpi, dentro di me ho sentito covare un istinto sanguinario tanto forte da lasciarmi esterrefatto.
Io non sono cresciuto combattendo per combattere, ma l’istinto distruttore dei sayan covava in me anche se per scatenarlo serviva di più che la mera voglia di combattere.
Se avessi scoperto la forza che alberga nel mio corpo tempo addietro, molto probabilmente avrei sconfitto i cyborg già da anni.
Avrei evitato tante sofferenze, e forse sarei davvero diventato molto simile a mio padre, ma questo non potrò mai saperlo.
Se fossi stato più forte forse avrei sconfitto i cyborg già da tempo, ma ogni persona ha i suoi rimpianti, e penso che se non avessi mai avuto dubbi non avrei imparato nulla. Se posso dire di essere cresciuto, è perché ho saputo imparare sempre da quello che mi accadeva.
So che il pensiero che avrei potuto vincere i cyborg tempo fa non mi lascerà in pace e sarà difficile liberarmene, ma preferisco combattere con dei fantasmi che possono nuocere soltanto a me, piuttosto che con dei mostri che posso nuocere anche agli altri.
In fondo chi non ha fantasmi è perché non ha mai vissuto intensamente. L’ho capito dallo sguardo di mio padre, che un Sayan ha i suoi fantasmi perché combatte soprattutto per istinto, anche quando esso porta a compiere gesti senza pensare.
E compiere gesti senza pensare porta ad averne molti, di fantasmi.
Ognuno deve combattere i suoi fantasmi.
Ma se ho sconfitto i cyborg reali, sento di poter sconfiggere anche loro.

.Ho ancora la forza
che serve a camminare
picchiare ancora contro
e non lasciarmi stare.

-Mi raccomando, stai attento- ricordo lo sguardo di mia madre.
Mia madre.
Coi capelli lunghi e fini raccolti in una coda senza pretese.
Mia madre.
Senza rughe quando sorride, perché le rughe vengono a sorridere troppo spesso.
Mia madre.
Così simile all’altra.
-E falli fuori quei dannati androidi- un sorriso malizioso e un pollice alzato in mia direzione. L’altra Lei. Mia madre prima che il mondo le risucchiasse il cielo via dagli occhi.
E’ bastato un niente, un colpo così infinitamente banale da lasciarmi insoddisfatto alla fine dello scontro. A farmi desiderare di essere stato un po’ più debole per provare l’ebbrezza malsana di vincere dopo uno strenuo combattimento.
Da un giorno all’altro di questo mondo sono diventato infinitamente più forte di quanto io non sia mai stato. Sono diventato più alto, più robusto, più adulto, nonostante che nel mio pianeta non sia trascorso neanche un giorno dall’inizio del mio viaggio.
-Oh mio Dio Trunks, ma quanto sei stato nel passato?- ho visto mia madre avvicinarsi, vedere la spanna che ora separa la mia dalla sua testa, e toccarmi la giacca ormai troppo corta, con un’espressione tra lo stupore e il rammarico per aver perso quella mia crescita.
Le ho spiegato della camera dello Spirito e de Tempo, le ho parlato degli androidi, di Cell, di questo passato che in così poco tempo ha lasciato un segno che cambierà ogni giorno del mio futuro.
Non gli ho parlato di mio padre, ma ho visto i suoi occhi risplendere di una muta gioia nel non vedermi ritornare con la tristezza dipinta in volto.
Mamma.
Avrei voluto portarti con me e ritornare al giorno in cui sono andato via dal passato. Avrei voluto farti vedere la scena di mio padre che sorrideva. La reazione che ha avuto alla mia morte, e avrei voluto vederla anche io.
Anche se istintivamente mi sento insoddisfatto che uccidere i miei incubi sia stato così facile, nel più profondo di me stesso so che ucciderli non è stato per nulla un gioco. Ci sono voluti anni, e anni passati con Gohan ad allenarmi sapendo che non sarei mai riuscito a vincere, un anno passato con mio padre in quel luogo senza tempo che era molto simile all’inferno, un concentrato dei miei incubi.
Quello di oggi è il giorno che segna la fine di un me stesso, del Trunks cresciuto con la paura e la tristezza sempre affianco. E’ il giorno in cui si inizia una nuova vita. Dove tutto ormai sembra possibile, se abbiamo sconfitto i cyborg e io e te siamo ancora qui.
Mamma.
Guardando la città distrutta in lontananza e l’espressione meccanica degli androidi senza vita, penso che questo è l’inizio di un nuovo mondo.
E che ho mantenuto la mia promessa.
-E falli fuori quei dannati androidi.
Una promessa fatta a te anche se in un’altra vita.
Ma comunque una promessa.

Ho ancora quella forza che ti serve
quando dici: “Si comincia”

PARTE SECONDA: IL SOLE

Il supermercato non è ancora stato ricostruito, ma vedere le bancarelle dell’ortofrutta piazzate ai lati della strada fa sembrare la città un villaggio di montagna, con le macerie a fare da montagne.
Mi avvicino al banco degli ortaggi e prendo in mano una melanzana. Accanto a me una signora sui sessant’anni sta chiedendo un chilo di cipolle per preparare uno stufato al marito congestionato.
-Sa signora- la sento dire, guardando ogni cipolla che Vivian infila nel sacchetto –mio marito sta lavorando alla ricostruzione della torre di osservazione, e non sa che vento che tira su quei ponteggi. E pensi che l’altro giorno lui voleva mandarci mio figlio a lavorare al suo posto, visto che è giovane e robusto e quindi non si ammala, ma io gli ho detto che non se ne parlava neanche, siamo sopravvissuti a quegli androidi e mi manca solo che mi muoia un figlio cadendo da un ponteggio.
Vedo le mani sottili e ancora giovani di Vivian chiudere il sacchetto e pesare la verdura scrivendo il prezzo sulla carta oleata, e la sua testa piena di ricci rossi fare sì sì per supportare un “Ha fatto bene, è pericoloso lavorare su quei ponteggi”.
La signora si allontana mentre io ho già riempito il mio sacchetto.
Vedo Vivian seguire la donna con lo sguardo poi sospirare leggermente. –Adesso sarà un problema riabituare la gente all’idea che si può morire anche per pura sfortuna.
Porgo a Vivian il sacchetto e lei lo pesa e scrive il prezzo. –Bhè, anche morire ucciso dai cyborg non era porprio un terno al lotto.
Vivian sorride impercettibilmente con quel modo schivo che ci ha fatte diventare amiche solo dopo la fine delle scuole superiori. Eravano in classe assieme al corso di biologia del terzo anno, ma non le avevo mai parlato, prima di ritrovarla tanti anni dopo a gestire quel banchetto in mezzo alle macerie.
Vivian era una ragazza timida, l’esatto opposto di com’ero io, e sapevo che era orfana e abitava in una specie di casa famiglia.
Era l’unica che conoscevo ad avere ancora il marito, e a non avere figli non per colpa di una disgrazia. Intanto aveva accolto in casa propria la nipote Alissa, una ragazzina schiva e timida esattamente come lei, figlia della sorella e del cognato, entrambi morti per mano dei cyborg.
Alissa è la migliore amica e confidente di Trunks, ed è anche l’unica a conoscere il segreto di mio figlio.
Vivian mi ripassa il sacchetto e sorride nuovamente. –Alissa mi ha detto che Trunks l’ha invitata ad andare a vedere un concerto. Era davvero felice.
Sorrido di rimando pensando che questo sarà il primo concerto della loro vita. –Già. Anche Trunks è molto contento. Sono felice che ci vada con Alissa.
Questo sarà il primo concerto della vita di molti ragazzi, senza più la paura di radunare insieme tanta gente e rischiare così un attacco degli androidi.
Sarà la prima attività da ragazzi come tutti gli altri, senza più paura o sofferenza.
Mi allontano dal banchetto e guardo in lontananza il cimitero.
Appeso al cancello di ferro battuto, un cartello dei lavori in corso ricorda ancora l’attacco di quest’inverno. {N.d.A. leggi Soffia il vento]
Non hanno avuto il coraggio di scavare in quel terreno. Di tirare fuori le bare mezze marce e cercare di ridare decoro a quelle salme.
Sono quattro mesi che c’è appeso quel cartello, e non ho mai visto nessuno varcare quella soglia.
Nella leggera brezza di primavera mi rendo conto di aver acceso una sigaretta senza nemmeno farci caso.
Aspiro il fumo denso e che sa di menta guardando la brace sulla punta illuminarsi di un rosso acceso.
-Morirai se continui così- sento una voce maschile alle mie spalle.
Non ho bisogno di voltarmi, perché il Commissario Red mi appare accanto con un sorriso e un cenno infastidito alla sigaretta.
Abbasso il bastoncino e a sentire quella frase mi viene in mente che quella frase non mi è nuova.
Me l’hanno detta tante volte in questi anni. Le mille volte in cui mi hanno detto di lasciare la città dell’Ovest. Di smettere di lavorare alla mia invenzione. Di andare in un posto sicuro e abbandonare quell’inferno. Le mille volte che non ho ascoltato.
Senza voltarmi a guardare Red, ancora gli occhi fissi sul cimitero, mi porto la sigaretta alla bocca e aspiro profondamente.

-Sono vent’anni che me lo dicono. Eppure sono ancora qui.

Vedo Red fermarsi un attimo poi mutare espressione in un sorriso sconsolato.
Lo scorgo fissare il cimitero. So che lì era sepolta la sua compagna.
-Sei davvero incredibile- mormora Red, senza scomporsi.
Faccio un cenno affermativo e in quel momento lui mi informa che tutti avranno bisogno delle Capsule per ricostruire la città. Per trasportare materiali, nascondere macerie. Per fare molte cose, avranno bisogno del mio aiuto.
-Domani riapriremo gli impianti di produzione- dico –ho tardato qualche giorno per via dell’archivio distrutto, ma da domani tutto tornerà com’era prima.
Mentre Red mi saluta e mi augura una buona giornata, continuo a guardare il cimitero e penso che alla riunione del consiglio di amministrazione della Corporation questa mattina eravamo solo 5 dei 30 di vent’anni fa.
Vent’anni fa il più vecchio era mio padre. E il più vecchio dopo di lui aveva solo pochi anni in più di me allora.
Adesso sono rimaste solo due donne che all’avvento dei cyborg sono fuggite su un atollo tropicale, un uomo che vent'anni fa era un giovane stagista occupato a fotocopiare documenti, e quello che allora era un mio ex compagno di liceo, che Dio solo sa come abbia fatto a salvarsi con tanto di moglie e quattro figli.
Quella di stamattina è stata una riunione imbarazzata, dove in ogni sedia vuota sembrava esserci seduto un essere orripilante che tutti cercavano di ignorare.
Sapevano tutti che saremmo stati solo in cinque, ma erano anni che non vedevo i miei colleghi, ed erano ancora più anni che non facevamo una riunione.
Una delle cose che ho capito in questi anni è che la gente non realizza la morte di qualcuno dalla notizia, ma da un particolare che improvvisamente stona con quello che era il suo quadro mentale. Una sedia vuota, un libro lasciato a metà, un paio di scarpe in meno vicino all’ingresso di casa.
Quando morì Vegeta io non piansi. La mia vita continuò normalmente tra il lavoro e guardare Trunks come se nulla fosse accaduto. Non avevo realizzato che non avrei mai più visto quel Sayan. Poi un giorno, passando accanto alla camera gravitazionale, il mio orecchio di sintonizzò sul silenzio che ne scaturiva, e pensai che erano due mesi che quel locale era deserto. E che Vegeta non ci sarebbe mai più entrato ad allenarsi.
Quel giorno presi tutti i piatti dalla credenza e li fracassai contro la porta del gt, scoppiando a piangere poco dopo tra le braccia di mia madre.
Allo stesso modo oggi, quando ho incontrato i miei colleghi nel corridoio, tutto era impregnato di una felicità sottile, un gioioso senso di ritrovamento. Ma quando siamo entrati in sala riunioni, e i posti erano così tanti rispetto ai partecipanti, tutti hanno cambiato espressione, e nessuno ha più parlato di felicità e liberazione.
Getto in terra la sigaretta schiacciandola con la punta della scarpa.
Domani riapriranno gli stabilimenti e la Capsule Corporation tornerà a produrre capsule.
Sarà il giorno di un nuovo inizio.
Anche se la riunione dei miei colleghi è stata più numerosa al cimitero che in azienda.

Ho ancora la forza
di guardarmi attorno
mischiando le parole
con due o tre vizi al giorno
di farmi trovar lì da chi mi vuole
sempre nella mia camicia.

-Trunks! Sono a casa!
Getto le chiavi nella ciotola sulla cassettiera e chiudo la porta con un piede. I manici della borsa mi segano le dita tra la seconda e la terza falange.
Mi rendo conto del silenzio in casa solo quando le mie mani sono ormai libere e i segni rossi sulle dita pulsano vistosamente.
In cucina non c’è nessuno, ma la maglia a maniche lunghe di Trunks è appesa allo schienale della sedia, la tv accesa davanti al tavolo.
-Trunks! Dove…
Il grido mi muore in gola quando guardo la finestra.
Trunks è immobile in cortile, accanto alla lapide di suo padre. Mentre osservo mio figlio che osserva la strada tra il gt e il muretto che protegge le lapidi dal sole, mi rendo conto che in casa mia ormai c’è un altro uomo, non più un ragazzo.
E che tiene la schiena dritta esattamente come Vegeta, con il solco della colonna vertebrale visibile anche sotto la maglietta, i muscoli delle spalle sempre tesi nonostante l’apparente calma.
Esco dalla portafinestra della cucina cercando di capire che cosa stia guardando.
Sembra soltanto che stia guardando il sole.

I passi di mia madre suonano leggeri sull’erba fresca del cortile. Ha il passo felpato della persona che ha paura di disturbare, forse perchè mi vede vicino a queste pietre, che fino a poco tempo fa per erano solo incisioni di persone sconosciute.
Ora so chi sono Yamcha, Junior, Goku. So che faccia aveva mio padre, in che modo camminava, ricordo il suono della sua voce come se fosse ancora qui.
Mia madre si avvicina piano e si ferma a pochi metri dalla mia schiena.
-Ciao Trunks...
Ha la voce dolce di mia madre, il tono squillante modulato dagli anni. Una voce così diversa da quella della ragazza dell'altro mondo.
Quando ero nel passato mi sono trovato spesso a pensare a mia mamma, alla mia vera mamma, quella lasciata nel mio mondo. E mi sorprendevo di quanto fisicamente fosse uguale a quella ragazza, ma in certi frangenti sembrasse un'altra, con quella prorompenza che in mia madre veniva fuori solo qualche volta e quasi per caso.
Davanti ai miei occhi c'è un cielo che non avevo mai notato. Il sole della sera ha tinto il cielo, la sua luce lambisce piano il portello del gt alla mia destra e il muretto alla mia sinistra.
E' un cielo assolutamente triste, ma anche infinitamente bello. Non mi ero mai fermato a guardare il sole tramontare.
E' un tramonto evanescente, di uno splendore che toglie il fiato, perchè l'arrivo della notte non è più qualcosa da temere.
Ora che ci penso non mi sono mai goduto un tramonto perchè poco prima del crepuscolo ci chiudevamo sempre in casa. Fingevamo di non esserci, di essere dei fantasmi nel caso i Cyborg fossero arrivati nella notte.
Non sono mai uscito di sera. Qualche volta ho invitato Alissa a vedere un film, ma anche quelle volte siamo stati chiusi in camera, con le imposte serrate e il volume al minimo.
Oggi invece, mentre stavo seduto in cucina a guardare il telegiornale appena tornato da scuola, mi sono voltato per un momento e mi sono accorto che mia madre era uscita senza chiudere le finestre.
Mi era già sembrato che ci fosse una luce strana, ma solo al crepuscolo ho capito che era proprio la luce quella cosa che non quadrava.
In lontananza il sole stava tramontando, così mi sono alzato e sono uscito per osservarlo.
Adesso mia madre è ancora ferma dietro di me e punta gli occhi verso il sole come sto facendo io.
-E' la prima volta che possiamo fermarci a guardare il tramonto- la sento dire, con una nota di malinconia nella voce.
Malinconia perchè guardare il sole tramontare è una cosa così infinitamente banale, così inflazioneata nella letteratura e nel cinema, che il pensiero di aver passato vent'anni senza potercelo permettere sembra quasi come ammettere di essere vissuti sotto terra.
Starà pensando a quante cose mi sono perso, a quante cose il Trunks dell'altro mondo non dovrà rinunciare grazie al nostro sacrificio.
A quanto sia profondamente triste avere un figlio che per baciare una ragazza non le abbia mai mostrato un bel tramonto.
-Il tramonto nell'altro mondo era diverso- dico, continuando a guardare il sole.
E mia madre mi viene affianco. Mi prende per mano senza guardarmi.
Sotto il cielo rosso fuoco le macerie sembrano profili di montagne.
-Tutto qui è molto diverso.
Non c'è gioia nella sua voce.
-Non soltanto il sole.

Abito sempre qui da me
tra chi c’è sempre stato
e chi non sai se c’è
Ho sempre pensato che mia madre avesse le mani troppo lisce per il lavoro che faceva. Quando ero bambino e stavamo guardando la tv le chiedevo sempre di accarezzarmi una guancia, e il profumo delle sue mani è sempre stato il mio odore preferito.
Adesso mi fa uno strano effetto riuscire a stringere tutta la sua mano nella mia. Sentire che ora il suo palmo è grande quasi quanto la mia guancia, ed è la mia faccia ad essere diventata ruvida anche se le sue mani sono rimaste lisce come seta.
Il sole che tramonta è ormai passato dietro le macerie. Sopra di esse non si scorge altro che una leggera sfumtura che rende il cielo da rosso a blu.
Sta calando la prima notte senza cyborg.
E in città c'è lo stesso silenzio delle altre notti, ma questa volta le finestre delle poche case ancora abitate sono aperte, da qualcuna si sente persino il rumore di una tv.
Non voglio che mia madre si senta triste. Non voglio che la normalità faccia nascere in lei un senso di inadeguatezza per quello che secondo lei mi sono perso.
Mentre i cyborg uccidevano non c'era tempo per pensare. Per rendersi conto di quante cose ci eravamo persi.
Ma non voglio che questa vita ritrovata la faccia diventare triste. Non voglio che la lei stessa del passato diventi una chimera intenta a tormentarla.
Voglio che lei sappia che io sono felice, anche se nell'altro mondo un me stesso avrà tante cose che io non ho potuto avere.
Lo sguardo mi cade sulla lapide con quel Vegeta mezzo raschiato inciso sopra.
Non voglio che mia madre sia triste perchè incapace di combattere i miei fantasmi.
Le stringo ancora un po' la mano e mi volto verso di lei.
-Mamma?
-Sì?
I suoi occhi sono quasi blu invece che azzurri come quelli dell'altra Bulma.
Hanno un briciolo di buio in più.
Come mio padre a forza di tornarle in mente le avesse lasciato parte di sé stesso dietro gli occhi.
-Ti va di venire al concerto con me e Alissa, la settimana prossima?

Mio figlio mi guarda con un' espressione che quando era piccolo arrivavo a detestare. L'espressione delle persone con cui non riuscivo a mascherare le mie emozioni. Quelle che volevano aiutarmi ma non sapevano come farlo.
Quando era bambino era un'espressione che in Trunks detestavo, perchè leggevo nei suoi occhi che tutti i miei tentativi per sembrare allegra non erano altro che miseri mezzucci. Trunks capiva sempre.
Eppure il sorriso che gli vedo in volto è un sorriso di sincero affetto. Non è il sorriso di una persona triste, ma il sorriso di un ragazzo che ha appena visto un bel tramonto.
Mi rendo conto che per lui quell'altro mondo non sarà mai un mondo di fantasmi, e che anzi lui è contento perchè senza quel mondo adesso non avrebbe visto il sole.
Sono quasi commossa dal suo gesto così dolce, e così fiera dell'uomo che è diventato.
Ero presuntuosa quando ero giovane, molto più che non adesso, ma neanche nei miei sogni più bello avrei mai pensato che mio figlio sarebbe stato così stupendo.
Penso che sono fortunata, e non devo essere triste.
Penso a Red e alla sua compagna morta con il loro figlio in grembo, penso a Vivian e a suo marito che non sono mai riusciti ad avere un figlio.
Penso anche a quel mio collega che è riuscito a salvare se stesso moglie e figli dalla furia degli androidi.
Ma lui li ha nascosti da qualche parte.
Io ho un figlio che per anni si è scontrato contro i nemici.
E adesso è ancora qua insieme a me.
Mentre con un pollice percorro il polso forte di Trunks penso che non è il mio collega ad essere stato fortunato.
-Sì, ok- rispondo.
Mio figlio ha combattuto per vent'anni.
Sono stata io a vincere il destino.

Ed è sempre tornato a casa.


nel mondo sono andato
dal mondo son tornato sempre vivo.

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Capitolo 2
*** Parte terza e quarta ***


PARTE TERZA: DETERMINAZIONE

-Dannazione!
L’imprecazione mi esce di bocca nell’esatto istante in cui il mordente della gru perde presa sul cilindro di metallo e le tonnellate di acciaio inossidabile si schiantano al suolo con un boato.
La lastra rimbalza due volte emettendo due tonfi sordi, poi rotola fino a schiantarsi contro i cingolati della gru, che barcolla leggermente ma rimane in piedi.
Mollo un pugno al pannello di comando e per tutta risposta l’aggeggio emette una serie di lampeggiamenti rossi e blu prima di spegnersi.

Riavviare il sistema

-Merda…
Sento i passi dei miei colleghi capicollare nel corridoio mentre mi rovisto freneticamente nella tasca del camicie alla ricerca di una sigaretta.
-Bulma! Che è successo?! Abbiamo sentito…
Kyle e Fiona si bloccano sull’uscio sopraelevato rispetto al pavimento del magazzino, in piedi su una passerella di metallo.
Davanti a loro il cilindro ha sfondato il pavimento del magazzino creando un’infossatura che sembra l’impronta fossile di una balena preistorica, e il mordente della gru oscilla ancora emettendo ad ogni colpo un cigolio sinistro e insopportabile.
Immobile con la sigaretta finalmente in mano, non la accendo con la stessa foga con cui la mia mano l’aveva cercata, anzi la rigiro tra le dita come fa certa gente quando tamburella la dita sopra il tavolo per placare il nervosismo.
-Bulma Ti sei fatta mal….
Se mi voltassi so che vedrei Kyle proteso oltre il corrimano di metallo gesticolare come una scimmia nella gabbia di uno zoo.
Quel dannato mordente…
Con un gesto meccanico prendo l’accendino nella tasca dei pantaloni.
-Andate via- sibilo.
-Ma…
-Via!
Sento gli sguardo smarriti di Kyle e Fiona sfiorarmi una spalla, i capelli, fermarsi sulla mano nervosa che rigira la sigaretta. Poi i loro passi ordinati che lasciano la stanza.
Due fottutissimi metri troppo in alto, si trovava il mordente. Quella macchina crede che io non l’abbia visto, ma so bene che erano solo due fottutissimi metri.
Fisso la gru pensando ai milioni che mi costerà far rilivellare il pavimento.
Quando lo sguardo mi cade nuovamente sul pannello di controllo della gru, mi rendo che nella mia mano ormai non c’è altro che il cadavere della sigaretta appena presa.
Lasciandomi cadere sulla poltrona di comando del gabbiotto, prendo un’altra sigaretta e questa volta me l’accendo.
Continuo a guardare la gru con un astio che forse non ho mai provato nemmeno per le persone.
Era il quinto tentativo che facevo di sollevare quel sollevare quel cilindro, e so benissimo che se fossi riuscita a sollevarla di altri cinque metri essa si sarebbe trasformata in una capsula toccando il suolo, invece che distruggere il pavimento del mio dannato laboratorio.
Era tutto perfettamente calcolato. Quei cilindri sono fatti apposta per trasformarsi in capsule quando qualcosa li fa crollare. Un modo per evitare che un edificio cadendo sotterri le persone.
Ma quella dannata gru è riuscita a rovinare tutto.
Mollo un altro calcio al pannello di controllo come se così facendo potessi far del male alla macchina.
E penso che è tutta colpa degli androidi se sono in quella situazione. Se tutti si aspettano che faccia l’impossibile, che lo faccia bene e che lo faccia in fretta. Se non riesco a trovare qualcuno di sufficientemente sveglio per condurre gli esperimenti al posto mio.
Prima c’erano quei due dannati androidi a rendermi la vita impossibile.
Spengo la cicca sul sedile in pelle della gru premendo bene perché soffra.
Adesso anche le mie stesse macchine non mi stanno più a sentire.

-Pronto?
La voce sottile di Fiona risponde al telefono dopo appena un paio di squilli.
-Ciao Fiona, sono Trunks. C’è la mamma?
Mentre pronuncio queste parole guardo l’orologio appeso sopra il frigo. Mamma è ancora al lavoro.
Sono le sei e un quarto e il concerto è alle otto e mezza. All’inizio pensavo di non telefonarle, poi ho realizzato che poteva benissimo essersi dimenticata che il concerto era oggi, e io mi ero dimenticato di ricordarglielo.
All’altro capo del telefono sento una nota di indecisione.
-Sì Trunks, tua mamma c’è. Però non credo che sia in vena di parlare…
Oddio…
-E’ ancora nel magazzino a provare il nuovo materiale che si incapsula quando cade in terra?
-Sì.
-Da sola?
-Già.
Ecco perché non rispondeva al cellulare. Saranno almeno quattro giorni che non parla d’altro che di questo materiale indispensabile per costruire i nuovi palazzi. E anche se sembra che tutta la città non veda l’ora di darsi da fare, fino ad adesso non è riuscita a trovare qualcuno che conduca gli esperimenti al posto suo.
La notte scorsa l’ho persino trovata addormentata sul divano con un braccio ciondoloni e le istruzioni di manovra della gru malamente poggiate in terra.
Fisso di nuovo l’orologio e penso che Alissa arriverà alle sette.
-Fiona, voi chiudete gli uffici alle sei e mezza, vero?
-Sì.
Annuisco tra me e me.
-Allora niente, grazie mille dell’aiuto. Ciao.
Metto giù la chiamata e prendo la giacca dallo schienale della sedia. Se faccio in fretta potrei riuscire a fare in tempo, e a quest’ora non dovrebbe neanche esserci tanto traffico dato che gli uffici chiudono tutti alle sei e mezza e mancano ancora una manciata di minuti. Nessuno dovrebbe vedermi mentre volo verso il magazzino.
Mentre esco in cortile e mi chiudo la porta alle spalle, fisso la strada non tanto trafficata. Nascondendomi dietro il gt convengo di nuovo con me stesso che ottimo, nessuno dovrebbe vedermi.
E mi alzo in volo il più in fretta possibile. Diretto verso il magazzino della Capsule Corporation.

Questa scena non mi è nuova. Anche se non l’ho vissuta in prima persona, la scena di una persona incazzata nera e scoraggiata seduta nella gabbia di comando di una gru l’ho già vista tanti anni addietro.
Avevo poco più di vent’anni. Lui si chiamava Jake, o Jared, non ricordo, ed era addetto agli esperimenti di poco più di due settimane.
Ricordo la zazzera di capelli neri che aveva in testa e il volto assurdamente cosparso di lentiggini sulla pelle bianca come burro.
Era un ragazzo in gamba, ma di quelle persone che cercano di far bene non per soddisfare il capo, ma per dimostrare a sé stessi di essere in grado di compiere un gesto.
Un ragazzo che avrebbe fatto carriera, molto probabilmente, dalla determinazione con cui portava avanti gli esperimenti finchè non aveva testato ogni nuova invenzione contro tutti i mali possibili e immaginabili.
Ai tempi in cui lui lavorava in Capsule io ero poco più che una ragazzina, Goku si era appena sposato e io trascorrevo i pomeriggi in cui Yamcha era occupato facendo shopping o bighellonando per il magazzino intenta a osservare i test.
Ricordo persino che Jake, o Jared, arrossiva tutte le volte che mi vedeva, e la cosa ai tempi mi lusingava e divertiva al tempo stesso.
Era un ragazzo sui venticinque anni, non proprio di bell’aspetto ma comunque alto e dalla postura diritta, un gran barlume di determinazione nello sguardo. Sembrava sempre in lotta con le invenzioni che stava testando, come se stesse cercando in tutti modi il punto debole per distruggerle.
E ricordo anche che quando falliva un test, magari il muletto andava troppo avanti e rovinava la fiancata di una nuova auto, o lasciava cadere un oggetto che si rompeva, oppure semplicemente si distraeva per un istante e la macchina che stava controllando dava di matto senza motivo, lui chiedeva a tutti di lasciarlo solo, e si sedeva sulla poltrona di comando della gru osservando con astio la macchina traditrice.
Avrebbe davvero avuto una brillante carriera. Mio padre era intenzionato ad affidargli l’intero reparto test già dai primi mesi della sua permanenza.
Lessi della sua morte una mattina per caso, sulla banda luminosa in cima al palazzo del municipio che il sindaco aveva deciso di adibire a testo scorrevole di aggiornamento dei morti della giornata.
Stavo andando a fare la spesa in auto, e al semaforo così, senza un motivo preciso, avevo alzato gli occhi alla banda e avevo visto scorrere il suo cognome e poi una foto formato tessera.
Aveva soltanto trentacinque anni.
Sul server dei decaduti lessi che da anni si stava dedicando a costruire un’arma in grado di uccidere anche i cyborg.
Ma che qualcosa durante il testing era andato storto e l’oggetto era esploso, uccidendolo sul colpo.
In tutti questi anni ci sono stati migliaia di persone assassinate, milioni persino, talmente tante vittime dei cyborg che i morti per incidenti “normali” erano quasi stati declassati a morti di serie B.
Quando io ero più giovane se morivi in un incidente d’auto si parlava di tragedia, quando c’erano i cyborg di poco criterio e sbadataggine.
-Certo che morire così…
Come a dire che una persona se lo sarebbe potuto risparmiare, di morire in un incidente d’auto, quando là fuori c’erano già così tanti morti a causa degli androidi.
Io non ho mai parlato a nessuno di Jake, o Jared, di quel ragazzo che io vedevo sempre testare le macchine infinite volte, con la dedizione di un cavaliere che controlla di non avere buchi nella cotta della maglia.
Forse non ne ho mai parlato perché non volevo vedere la gente roteare gli occhi con finta compassione, o forse non ne ho mai parlato perché la morte di quel ragazzo, avvenuta quando Trunks era ancora piccolo, fu la prima di una persona che conoscevo dopo la morte di Vegeta.
Uno psicanalista da quattro soldi direbbe che Jake rappresenta il mio trauma mai superato, è che è per questo che mi rifiuto di assumere qualcuno che faccia il lavoro di testare i macchinari.
Lo psicanalista direbbe anche che guardando i giovani che vengono a chiedere di essere assunti, è come se io cercassi in qualche modo una traccia di quel ragazzo, un barlume di caparbietà negli occhi coperti da lenti troppo spesse.
Più o meno come uno psicanalista direbbe io respinga gli uomini perché in essi ricerco quel qualcosa che Vegeta aveva di diverso e non riesco mai a trovarlo.
Il che a pensarci fa anche ridere.
Cercare in un uomo il principe superstite di un mondo estinto.

La posizione di mia madre arroccata in quel gabbiotto ha una nota bellicosa che farebbe sorridere se non si vedesse la sua espressione.
Mia madre ha un dualismo che nell’altra Bulma non ho mai visto. La Bulma dell’altro mondo era come la giusta via di mezzo tra i due estremi della Bulma del mio mondo. La Bulma del passato è una ragazza giovane e solare, un po’ cocciuta e un po’ sensibile. Mia madre invece è una madre sensazionale, e al tempo stesso una donna che ha sconfitto la solitudine.
Mia madre quando è sola ha un’espressione che mi ricorda quella di mio padre quando sedeva sul promontorio roccioso dopo la batosta presa da c-18.
Ha l’aria di una combattente che non importa per quale motivo continua a combattere, ad andare e menar fendenti, salvo certi momenti fermarsi con l’espressione amara di chi scopre di essersi fatto terra bruciata attorno ai piedi.
La donna che vedo mentre entro nel magazzino è Bulma Brief, una donna che in vent’anni ha vinto il mondo reale e ha visto l’inferno. La donna che solleva gli occhi e mi vede vestito di tutto punto ricordandosi di che serata sia quel giorno invece è la mia mamma.
Quella che da piccolo mi metteva il mercuro cromo sulle sbucciature. E me lo metteva disegnando sopra il sangue un grande sole rosso.
Ha una dolcezza negli occhi che da piccolo riusciva a rendermi orgoglioso. Orgoglioso di essere l’unico a poterlo suscitare.
Orgoglioso di essere l’unico e ricevere le sue carezze. Come solo un bambino egoista poteva esserne felice.
Il suo volto si apre in un leggero sorriso, come se si fosse scossa da un pensiero.
Eppure non si alza, così mi alzo in volo e la raggiungo.
-Mi sono proprio dimenticata- dice lei, con la voce da madre stanca di combattere che le sentivo sempre quando ero bambino.
-Non ti preoccupare.
-E’ che stavo provando a lasciar cadere il cilindro del nuovo materiale per vedere se si incapsulava e il mordente della gru ha perso la presa… Era tutto il giorno che…
-Mamma?
Lei si volta. Vedo quegli occhi blu che trasmettono stanchezza loro malgrado.
-Cosa?
Io la guardo dritta negli occhi. –E’ solo uno stupido cilindro.
La sua è una risata lieve. Lancia uno sguardo al cratere nel pavimento. –Già, probabilmente è così.
Fisso anch’io lo stesso punto e vorrei dirle qualche cosa.
Che non m’importa del concerto, che posso chiamare Alissa e dirle che non andiamo.
Che mi fa male rendermi conto che anche se i Cyborg sono morti la vita per noi non sembra essere più facile. Che mi piace vederla sorridere, ma detesto vederla accorgersi che attorno al suo tanto amato figlio c’è solo un mondo di macerie.
Che io posso combattere i miei fantasmi, ma mi fa male non potere nulla contro i suoi.
Che mi fa male saperla sola. Anche se questo mi rende l’unico che lei ami per davvero.
Mia madre continua a fissare il cratere con sguardo assorto. Senza distogliere gli occhi prende una sigaretta nell’ampia tasca del camicie. L’accende con un gesto che conosco bene.
-Sai Trunks, quando avevo vent’anni in questo magazzino lavorava un ragazzo che si chiamava Jared.
Nel pronunciare quel nome la sento incerta. Non dico nulla perché prosegua. Lei aspira il fumo e poi espira un’ampia nuvola.
-Era un ragazzo in gamba. Ricordo che era capace di fare anche 30 test sulla stessa macchina, e ogni volta ne trovava di nuovi come se di notte non facesse che pensare al suo lavoro.
La sigaretta va di nuovo verso la bocca. La brace sulla punta brilla un attimo.
-Non ho mai parlato a nessuno di questa cosa, ma credo che continuare a tenermela dentro non serva a nulla. Ci sono già troppe cose che in questi anni non ho mai potuto raccontare a nessuno, e non voglio avere più pesi sulle spalle di quanto non sia strettamente necessario.
Mia madre solleva il capo e pianta gli occhi dentro i miei.
-Jared morì testando un’arma che avrebbe voluto usare contro i cyborg. Fu la prima persona che conoscevo a morire dopo tuo padre e i miei amici.
Si arresta un attimo. Nei suoi occhi leggo smarrimento, come se stesse cercando dentro di sé di trovare la verità.
-Per anni sono stata convinta che anche noi saremmo morti così. Cercando un modo per sconfiggere quei mostri.

Per questo mi rifiuto di assumere qualcuno che cerchi di sostituire quel ragazzo.
Perché sarebbe come ammettere dei ragazzini a studiare Karate nel gt in cortile.
Questo magazzino è di quel ragazzo, del terrestre testardo che sarebbe potuto scappare ma è restato perché consapevole che scappare in qualche isola non avrebbe scacciato il pensiero degli androdi. Esattamente come ho fatto io. Esattamente come hanno fatto pochi altri.
Non permetto a nessuno di entrare in questo posto perché la sua presenza è ancora qui.
Esattamente come la presenza di quel Sayan nell’aria stantia del Gravital trainer.

Ho ancora la forza
di starvi a raccontare
Le storie che ho già visto
e quelle da vedere
e tutti quegli sbagli che per un motivo o l’altro so rifare.

Mia madre spegne la sigaretta e guarda il cratere un’ultima volta.
-Dici che se vengo al concerto col camicie mi dicono qualcosa?
E io le faccio di no pensando che sembra più serena.
E che amo il suo sapersi rialzare sempre così in fretta.


Ho ancora la forza
di chiedere anche scusa
e fare la partita
giocando fuori casa
E dirvi che comunque la mia parte, ve la voglio garantire.

PARTE QUARTA: IL CONCERTO

-C’è davvero tanta gente.
Alissa si guarda attorno con l’espressione meravigliata di una bambina in un parco giochi. Ha uno sguardo di assoluto stupore, come se tutto fosse nuovo.
Io sono vent’anni che non vedo un palco in una piazza, quindi per loro forse è vero, che tutto questo è qualcosa di nuovo.
Trunks cammina al mio fianco e sta fra me e Alissa tenendoci entrambe per mano come se temesse di smarrirci. I ragazzi in questa piazza sono silenziosi, parlottano tra loro, ma come se non sapessero che ai concerti è concesso urlare e parlare ad alta voce.
Una generazione cresciuta spenta, abituata a non disturbare.
Il cantante che si esibirà è famoso da una decina d’anni. Ha cantato diversi inni ai caduti per via dei Cyborg. Bellissimi testi e una gran partecipazione con il pubblico, e sembra strano dirlo ma credo questo sia il suo primo live.
Quando ci sistemiamo abbastanza avanti per poter comodamente vedere il cantante mi rendo conto che i ragazzi si sono scostati tutti per farci passare. Quando ero giovane e andavo a vedere gli idoli del momento ricordo che sgomitavo e comunque rimanevo indietro. Adesso sembra quasi maleducazione non far passare chi vuole andare avanti.
E’ una bella sera di inizio giugno, comincia a fare caldo, e l’emozione sui volti dei ragazzi è tanto palpabile da essere commovente.
E’ il primo concerto di una generazione. La prima volta in cui tutti loro vedranno qualcuno suonare dal vivo le canzoni che più amano.
Anche Trunks è emozionato. Lo sento tamburellare le dita sul dorso della mia mano con la stessa impazienza con cui da bambino aspettava di aprire i regali di Natale.
Nel momento in cui si spengono le luci e parte un lento corollato da effetti luminosi blu e oro, vedo sulle guance di Alissa scorrere una lacrima di commozione.
Il cantante ha la mia età, capelli lunghi che si riavvia ogni tanto indietro con la mano.
Ha un’espressione emozionata, forse ancora più del suo pubblico.
Trunks e Alissa si lasciano trasportare dalla musica. A un certo punto vedo che Trunks non la sta più tenendo per mano, bensì le cinge un fianco con il palmo.
Questa è la stessa piazza in cui tanti anni fa io vidi Goku combattere contro Junior. La stessa piazza dove si tenne il primo torneo combattuto da Goku, Yamcha e Crilin.
La piazza cui si sono legati molti dei miei ricordi in maniera involontaria.
Guardo questa piazza piena di giovani e penso che è esattamente come per quei tornei. Ragazzi giovani, che trattengono il fiato e poi sospirano quando vedono il cantante intonare un nuovo bravo come un guerriero che si rialza dopo una caduta. La stessa vibrante energia che scaturisce dai corpi e dalle voci che poco per volta si lasciano andare e immergere nell’atmosfera.
E’ una notte di giugno mite e stellata.
Quasi trent’anni fa mi trovano in questa piazza a vedere Goku trasformarsi in Ozaru sotto l’influsso della luna. Oggi il mondo è così cambiato che sembra di essere in un altro mondo.
E accanto a me c’è un ragazzo dagli occhi che in questi mesi sono diventati chiari come il cielo invece che freddi come il ghiaccio.
Stringo con forza la mano di Trunks come se avessi paura di perderlo, come a voler esser sicuro che lui sia qui, e non sia soltanto un sogno.
Il cantante sul palco a un certo punto si ferma, intima al pubblico di fare silenzio e di prestare un attimo di attenzione.
Dice che la prossima canzone la accompagnerà a una serie di immagini che gli stanno molto a cuore, e che vuole che il pubblico stia in silenzio e osservi lo spettacolo.
La canzone è un insieme di strofe iniziate con la frase “ho ancora la forza”, e su un enorme telone bianco una serie di spezzoni di filmati ci ricordano quello che era il mondo prima che arrivasse il nostro inferno.
Si vedono bambini che giocano in un prato, i primi passi di un neonato, un fiore che sboccia e due giovani che si baciano. E noi tutti vediamo che il cantante ha il volto rigato di quello che lui dirà essere sudore, ma che è troppo opalescente per non essere commozione.
Le note invadono l’aria come le eco di mondi lontani, di mondi in cui si può smettere di pensare e stare all’erta. L’eco di mondi che questi ragazzi non conoscono.
E io mi rendo conto di essere viva come non mi sentivo da anni.
Una superstite con tanta voglia di ricominciare.
Una donna che ha commesso molti errori, e che è stata salvata dal più grande di essi.
In questa piazza, questa stessa piazza in cui si celebra il mondo che non è morto, alzo gli occhi al cielo e mi sembra di scorgere una falena, che si dirige verso un riflettore ma poi all’ultimo si allontana.
E anche se sono vecchia, anche se ormai sono passati tanti anni e ho visto così tante cose, penso che nulla sia mai stato più bello di quell’insetto.
E del cielo stellato che lo sovrasta. E della mano di mio figlio che stringe con forza la mia mentre le lacrime gli inondano le guancie.

Ho ancora la forza
e guarda che ne serve
Per rendere leggero
il peso dei ricordi
E far la conta degli amici andati e dire
“Ci vediam più tardi…
…più tardi”

Sono passati tanti anni.
Ma vedere di esserci ancora, è qualcosa di impagabile.
E di essere capaci di piangere non soltanto di dolore.

Abito sempre qui da me
fra chi c’è sempre stato
e chi non sai se c’è
col mondo sono andato
col mondo son tornato sempre vivo
sempre vivo.

[FINE]


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