Holding on to you

di AsanoLight
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quando l'erba danza e i grilli cantano ***
Capitolo 2: *** Incendio di ghiaccio ***
Capitolo 3: *** La Luna di carta ***
Capitolo 4: *** Il cuore solitario ***



Capitolo 1
*** Quando l'erba danza e i grilli cantano ***


Avvertimento: Azana non ha ancora lasciato la torre di ricerca. Il suo tradimento è solo sospettato.


Torre di Ricerca, ore 23.02

 

Non ricordava di essersi mai dato tanto da fare per ultimare le ricerche su Nai e sull'amnesia di Karoku. Con gli avvenimenti che avevano turbato nei recenti giorni la prima e la seconda nave e i ripetuti e inarrestabili attacchi dei Varuga, non aveva neppure avuto il tempo di raccogliere nuovi dati né di richiamare i due pazienti per poter effettuare qualche nuovo esperimento, nella speranza di riuscire a svelare l'arcano mistero, che da mesi oramai -da quando avevano preso sotto l'ala protettiva il ragazzo dai cerulei capelli, aleggiava sulla Torre di Ricerca, divenuto uno dei principali oggetti di studio.

Appoggiò le secche labbra sul levigato orlo di ceramica della tazza e sorseggiò cautamente il caldo caffè, riempiendosi le narici del soave aroma esotico che, più che tenerlo sveglio, lo invitava piuttosto a deporre penna, carte e documenti, spegnere ogni macchinario e coricarsi sul divano almeno dieci minuti, arrotolato come un involtino nel plaid a quadri. Nessuno avrebbe minacciato la sua quiete, né comandanti presuntuosi o fastidiosamente impiccioni di navi galleggianti nell'aria né ministri della difesa piagnucoloni. Sarebbe stato solo con se stesso, nel suo angolo di felicità, tra il pulviscolo depositato sui vecchi trattati di medicina -quando ancora insegnava a Chrono Mei, il silente riposare di Hearty, la creaturina che aveva strappato al bosco e che sembrava esserglisi misteriosamente affezionata e la fragranza del caffè che impregnava i bianchi muri della stanza.

Quel desiderio restava tuttavia lì, nel cuore di Akari, ma non ne voleva sapere di essere esaudito. Il dottore continuava a tenere gli occhi di pesca prepotentemente inchiodati ai documenti, noncurante della notte incombente che lo attendeva, ricurvo sulla scrivania d'acero, come già molte volte aveva fatto, con la silente luna che, dall'alto del cielo, come una fetta di ricotta sospesa nel telo indaco dell'oscurato etere, sola nella sterminata via Lattea, lo osservava incuriosita. Indifferenti gli giungevano i richiami di un gufo, celato tra chissà quali fratte di un albero, e i pianti dei grilli e l'ondeggiare sinuoso dei corti fili d'erba, che assecondavano il leggero vento danzando un ballo che solo loro potevano conoscere ma che non avrebbe certo rubato lo sguardo di un umano.

«Dannazione. Dove sono i documenti su Karoku?», sollevò appena il mento delle carte che stava consultando, ricadde l'attenzione in un rimbalzo sullo spicchio di prato che si poteva intravedere di scorcio dalla finestra del primo piano, ma già, i fili d'erba, timidi, avevano cessato la loro danza, e ad Akari poco interessava conoscere le loro vere intenzioni o apprendere di quello stupendo ballo che li aveva tenuti, fino a qualche istante precedente, in vita. Frugò scocciato nei cassetti della scrivania, infilava con stizza la mano e si assicurava di tastare l'intero vano fino in fondo, per assicurarsi che fosse effettivamente vuoto. Il setaccio era completato e il dottore, a malincuore, s'era già arreso alla dura realtà.

Afferrò il camice dalla gruccia dell'attaccapanni e lo indossò con un fiero orgoglio; in ogni ricamo e filo di stoffa di quel bianco capo d'abbigliamento era stata intessuta la fatica che aveva impiegato per giungere fino a lì e conquistare la sua bella posizione. Quel camice raccontava la sua vita, nel bene, quando era un tirocinante ed era Ryoushi a insegnargli le basi del suo mestiere, e nel male, quando troppe volte era dovuto accorrere in soccorso degli ufficiali al servizio di Circus, quando li aveva visti spirare tra le braccia sebbene le cure somministrate -quando davanti alla morte, si era sentito impotente.

E forse, era proprio quella sensazione di impotenza, di impossibilità, di debolezza -proprio quella, che lo spingeva a studiare di più, a passare notti insonni tra le carte e i documenti, a fare ricerche su ricerche ed esperimenti a non finire, ad onta di risultare agli occhi altrui una seccatura ed uno dei dottori più burberi che fossero mai esistiti sulla faccia della Terra.

Ma anche così, non se ne curava.

'Gli altri' non potevano capire le sue ragioni.

Se lo sarebbe ripetuto in eterno, se fosse stato necessario, mentre camminava con passo spedito per gli interminabili corridoi, nitidi e spogli, diretto verso il reparto vita, dove già sapeva che ad attenderlo c'era un solare Azana, impicciato tra provette e vetrini, indaffarato come solo lui poteva essere a quell'ora della notte. Le luci artificiali illuminavano la lunghezza sterminata dell'atrio di un abbaglio bianco ma abbacinante, pitturava di una candida tinta ogni mattonella o parete colpisse e ora, perfino la sua camicia, che pure era di un alterato azzurro, pareva essersi fatta lilla sotto quel bagliore.

«Azana!», urlò il nome del ricercatore, intravedendo in fondo all'accecante corridoio una scura sagoma. Ma l'ombra non parve prestare attenzione al suo richiamo, non si voltò né esitò, accelerò piuttosto il passo e, approfittando del bianco splendore del corridoio e della lentezza del dottore, si fece trasparente all'improvviso, miscelandosi in quelle stesse, monotone, tinte. Akari si strizzò gli occhi, guardò ancora una volta davanti a sé, realizzò con stupore che la luce che aveva creduto tanto abbacinante era in realtà quella di sempre. Nessun candore l'aveva avvolto, nessun bagliore l'aveva accecato. "Devono essere gli scherzi del sonno", pensò recalcitrante, e riprese a camminare con la medesima andatura, impaziente di raggiungere Azana e ritornare poi ai suoi fedeli uffici, seppellendo tra le profondità dell'inconscio ogni bisogno o vizio contingente.

Si trascinò fino al reparto vita, unica sua compagnia lo schioccare delle suole sulle mattonelle di marmo, l'udito per un attimo fenduto da un meccanico rumore e la mente tuttavia troppo rivolta alle carte che doveva consultare per potersi curare di altro. Bussò cortesemente alla porta scorrevole dell'ufficio e Azana lo accolse con modesto calore, un sorriso insolitamente spento e smunto ma ripieno fino all'orlo di cordialità e opportuna cortesia.

«Mi servono i dati che abbiamo raccolto l'ultima volta che abbiamo visitato Karoku. Devo averli accidentalmente lasciati qui»

«Mi dispiace, Akari-sensei... Ma qui non ci sono dati»

Il dottore inarcò perplesso un sopracciglio, tradì dalle paonazze gote della sana impazienza e si precipitò agli scaffali alla ricerca di quello per cui aveva fatto tanta strada, scomodandosi dalla sua posizione di pace e ristoro, abbandonando l'ufficio pregno della dolce fragranza di caffeina.

«Cerca meglio, Azana. Sono sicuro di averlo lasciato qui, da qualche parte»

Un secondo rumore metallico gli giunse all'orecchio.

«E' caduto qualcosa?», domandò destandosi innocuamente.

Ma Azana continuava a conservare quell'espressione minuta, alienato dalla realtà che lo circondava e dalle pretese del superiore, che pure tanto ammirava e da troppo tempo meditava di tradire, passando dalla parte dei Varuga. Rispose sovrappensiero, come già era stato accordato che rispondesse, e prolungò la presenza del dottore nel suo ufficio anche quando già Akari aveva deposto completamente le armi, demorso nel suo intento di ricercare dati in una stanza in cui era matematicamente certo che non fossero presenti, e tornare sulla propria via.

«Non troverà quello che cerca, Akari-sensei», con un melanconico ghigno, facendo affondare una mano nella tasca del consunto giubbino lucertola, Azana prese le sue distanze dal dottore, «Né ora, né mai più. Perché, vede, quei dati sono già tra le mani del Kafka. Loro sapranno per certo dirci e spiegare l'origine di Nai e quello che è successo a Karoku, essendone loro stessi gli artefici, non pensa?»

Ma non ci fu spazio per altre parole.

Il mesto allievo aveva già previsto le crudeli parole che il dottore avrebbe sollevato contro di lui e, senza esitazione, lo afferrò per la stretta cravatta e lo invitò a guardare fuori dalla finestra, a scrutare ogni dettaglio di quella notte.

«La ricordi -questa notte, perché non ce ne saranno mai più di simili. Un Varuga, in questo preciso momento, sta già prendendo in cura ogni nostro dato ed esperimento e manca oramai poco al grande spettacolo»

«Lo spettacolo?!», Akari rabbrividì, facendosi d'un niveo pallore, e gli venne inutile opporre resistenza alla folle presa dello studente.

«Sì! Lo spettacolo! I Varuga distruggeranno la Torre di Ricerca di Circus, solo così potrà sorgere una nuova potenza!»

Azana ora rideva esaltato, la lunga e malconcia chioma argentata gli ricopriva con le lunghe frange il viso, si tastò le braccia e s'apprestò allora a chiudere la finestra in un istrionismo che pareva rasentare la follia. «Fa freddo, non crede anche lei?», domandò impendendo all'aria fresca e rigenerante della soave notte di fluire liberamente nella stanza, e sembrò per un attimo ad Akari che stesse escludendo da quel reparto ogni essere vivente che gli competeva, la danza dei fili d'erba che pure non aveva potuto vedere, il gufo che rotea la testa, imboscato chissà dove tra le fratte sempreverdi degli alberi, i rami sospesi nel vuoto che portano la vita di tante piccole foglie, «E' meglio chiudere. Non si sa mai»

Ma i muscoli del serio dottore non osavano muoversi, l'acido lattico li frenava con ostinazione pur non avendo fatto alcuno sforzo nel macinare quei pochi metri che distanziavano l'ufficio dal reparto vita; Akari era impalato, le scarpe ben salde al pavimento di marmo come le radici di una quercia secolare, impossibilitato a reagire e, senza comprendere, se ne stava come una statua di marmo in piedi, immobile, irrigidito dal continuo ticchettare di quel rumore metallico, che, insidioso, gli era in maniera serpentina entrato nelle cervella, e ora aveva l'impressione stesse scandendo perfino i ritmi del battito cardiaco. Quei meccanici ticchettii l'avevano cortesemente accompagnato a quel reparto, c'erano stati perfino prima che lui vi si recasse e adesso, senza il bisogno di prestare attenzione al tuono spaventoso di un'esplosione, che rapidamente si propagava per la torre di ricerca, il crollo delle macerie di un reparto e l'improvvisa folata di nube, cenere e caldo vento omnipervasiva, ora sapeva già da sé che stava per arrivare l'inferno.

Azana sorrise, disse delle parole che Akari non riuscì neppure volendolo ad intendere, e dandogli le gelide spalle, se ne andò con gelata quiete dalla stanza, chiudendo il dottore al suo interno, solo oramai con il salire della caliginosa coltre dai sottili spifferi dell'aria condizionata, e con l'odore di cenere e morte che impregnava il tessuto del bianco camice e sporcava di tristo pulviscolo la profumata stoffa.

Non era un sogno.

Non poteva restarsene con le mani in mano.

Si scosse, mosso da una rabbia e da un fervore che bussavano prepotentemente alla porta del cuore, ringhiavano come un leone infuriato, con la stessa energia che adesso sfoderava per aprire la finestra, che sembrava opporre un'umana resistenza e tutto voleva saperne meno che di aprirsi -sebbene Azana l'avesse richiusa con tanta semplicità.

"Non c'è altro modo", bofonchiò estraendo un fazzoletto dal taschino e subito se lo portò davanti alla bocca e al naso respirando quieto, cercando di non inalare la fuliggine, che lentamente saliva al soffitto, sospinta da quel cirro dall'ambiguo odore, che con difficoltà avrebbe detto fosse 'proprio' quello di un'esplosione. Chiamare Azana, giunto a quel punto, non avrebbe avuto senso. Se quello che diceva era vero, il Kafka non aveva ancora preso tutti i dati. C'erano ancora dei documenti che poteva salvare, quelli più preziosi, quelli che non erano digitali ma semplicemente cartacei.

Si fece coraggio, strinse i denti e con una tenacia inaudita, diete una spallata alla porta, una volta, due volte, alla terza si accorse del pass del ragazzo caduto a terra, probabilmente gli era scivolato nella fretta. Si chinò a raccoglierlo e, rapido come una scheggia, si precipitò fuori dal reparto correndo verso la sua unica destinazione. Si fiondò famelicamente all'interno del proprio ufficio, la nuvola di fumo sembrava meno densa, ma si potevano già sentire, dal piano superiore, mobili crollare, libri cadere per terra, oggetti che venivano spostati e provette che finivano infrante sul pavimento; anni di lavoro e di dure ricerche in frantumi.

Il tempo stringeva, Akari lo sapeva perfettamente.

Non aveva un posto dove mettere i documenti e ancora doveva capacitarsi di come i Varuga fossero riusciti a superare gli stretti sistemi di sicurezza della Torre di Ricerca e ad infiltrarsi con una tale perfezione, tanto da riuscire ad operare indisturbati nella notte senza che nessuna delle guardie se ne fosse accorta -ammesso e concesso che ci fossero rimaste delle guardie ancora vive, dopo il passaggio di quei mostri. Avevano messo delle bombe, e il metallico ticchettare di un ordigno imboscato chissà dove nella fitta nebulosa, gli suggeriva sinistramente all'orecchio che la morte fosse più vicina di quanto avesse mai pensato, quella morte gli aveva fatto compagnia mentre il gufo fuori ruotava la testa, l'erba danzava, lui si struggeva alla ricerca di quei documenti su Karoku, quei dati tanto importanti quanto preziosi, che mai sarebbero dovuti finire tra le mani del Kafka e Hearty, nella sua gabbietta, dormiva indisturbato.

"Hearty!"

Raccolse i fogli con i risultati degli esperimenti su Nai, sfilò dalla parete di libri un raccoglitore e li ficcò poi precipitosamente nella bustina trasparente di plastica assieme ai segreti più oscuri custoditi dalla torre di ricerca, i dati sull'Inkyuna e le statistiche dei combattenti della prima e della seconda nave. Si voltò poi verso la rosea gabbietta e, deglutendo amaramente alla vista della creaturina appallottolata, un batuffolo di zucchero filato, la sottrasse alla scatola di plastica e l'infilò frettolosamente nel taschino interno del camice. "Non ti muovere da lì, stupido animale. E' già troppo se ho deciso di portarti con me", si morse le labbra in un rimorso, gli solleticava le ciglia la polvere che cominciava insolitamente a cadere dal soffitto. Odiava arrendersi alla realtà, odiava quel senso ricorrente di impotenza davanti alle catastrofi, l'impossibilità di poter difendere tutto quello per cui aveva lottato da sé, dell'essere solo davanti alla realtà, al nemico.

Il countdown della bomba e il suo scandire i secondi erano divenuti parte di lui.

"Non posso andarmene. Ci sono ancora troppe cose che devo prendere"

Continuava a pensarlo, ma restava ancorato, tra polvere e nebbia, al suo ufficio, al morbido divano e la coperta di plaid a scacchi, alla finestra e la sua vista su uno squarcio di prato e a quei libri, che erano stati tutta la sua vita. E non voleva spostarsi, anche sapendo che quei mostri sarebbero arrivati, presto o tardi, e l'avrebbero ammazzato per avere quelle informazioni, perché nessuno l'avrebbe potuto difendere. Strinse a sé il pesante fascicolo, s'affrettò ad appropriarsi anche del quaderno di Karoku, ancora da decifrare, e lo fece scivolare sotto la camicia, diede una mesta ultima occhiata alla ricca libreria e, grugnendo di dolore, le volse le spalle, affrettandosi verso la porta.

Ma proprio quando fece per richiudersela alle spalle, si sentì travolto da una potente ondata di calore, un vento improvviso che lo scaraventò con forza lontano dalla stanza, il boato dell'esplosione lo rese sordo per lunghi attimi, cieco davanti alla impalpabile nebbia. Bruciava all'inverosimile la schiena e lui stesso non trovò la forza di rialzarsi, aggiaccato oramai a terra, tentennante, come se un macigno gli stesse in quello stesso momento gravando sulla schiena. Ma non c'era alcun sasso sulla spina dorsale, nulla che gli potesse impedire di rialzarsi.

C'erano solo le sue silenti lacrime, quel coraggio di piangere che gli era sempre mancato, e la cui causa veniva ingiustamente imputata alla polvere sulle ciglia; s'era oramai fatto d'amaranto nel volto al pensiero che tutta la sua vita era stata là dentro, e quello che aveva perso non l'avrebbe più recuperato, neppure tra le macerie. I finemente ricamati volumi che gli erano stati lasciato da Ryoushi, i dati e gli esperimenti che aveva raccolto in tanti anni di insegnamento e di applicazione, niente di quello sarebbe più tornato.

Con lui, di questi studi, c'era solamente il quaderno di Karoku, nascosto sotto la camicia, il fascicolo, stretto nel petto e Hearty, risvegliato dal boato, che si agitava minutamente nella tasca del camice.

 

Un secondo rimbombo giunse da una moderata distanza nell'interminabile corridoio. Akari non riuscì ad alzarsi da terra per poter scorgere lo scenario con più attenzione né fuggire e, prima che se ne potesse accorgere, un branco di macerie del soffitto gli erano cadute davanti agli occhi, sollevando una fitta coltre. Si portò ancora una volta con mano tremolante il fazzoletto al naso e alla bocca e tossì pesantemente senza lasciare il fascicolo, vicino al cuore, nella cieca speranza che anche le persone i cui dati stava cercando di proteggere, da qualche parte, avessero potuto sentire quella vicinanza e accorrere in suo soccorso. Agghiacciò raggelato alla vista di vermiglie tracce di sangue sul fazzoletto dove aveva tossito, aumentarono impazziti i battiti del cuore al pensiero di non essere stato nemmeno cosciente del suo malessere.

Ma ora che aveva tentato di rialzarsi, l'aveva sentito con il suo stesso corpo, la salute se ne stava lentamente andando, abbandonava quell'ammasso di carne impenetrabile qual'era sempre stata la sua, si faceva debole e fiacca, grondava il sangue dalla schiena, bruciava terribilmente la pelle lungo l'intero dorso, ancor più al sentire la polvere caliginosa depositarvisi. Akari arrancò i respiri, uno dietro l'altro, affannosamente, avrebbe voluto chiamare aiuto ma la voce gli veniva meno, la gola era insolitamente secca e la strada era completamente desolata, i reparti esplodevano uno dopo l'altro e terremoti improvvisi scuotevano sino nelle fondamenta la torre di ricerca -era una caccia serrata quella dei Varuga, provette e liquidi potenzialmente pericolosi venivano rovesciati per terra; era forse da considerarsi una fortuna che la torre di ricerca, quella notte, fosse insolitamente desolata?

Con gli occhi, ricercò nelle nubi tossiche l'uscita di emergenza o le scale, ma aveva perso ogni punto di riferimento e, non importava dove dirigesse lo sguardo, riusciva esclusivamente a vedere grigio. L'urlo di Azana gli giunse tuttavia nitido alle orecchie, un grido che echeggiò sinistro nell'infinità del corridoio, unendosi ai molesti boati della notte.

La preoccupazione gli salì al cuore e glielo strinse in una morsa, Hearty stesso si accorse di quel cambiamento d'umore nel dottore e si raggomitolò nel taschino atterrito; se solo Akari avesse potuto, avrebbe soccorso il suo studente, che pure l'aveva tradito, che pure era passato dalla parte del Kafka -non poteva negare di serbare per lui quel genere d'affetto e di amore che era più da considerarsi un privilegio riservato a pochi uomini sulla faccia della Terra. «A-zana...», rantolò stringendo della polvere in un pugno, si morse a tal punto il labbro da farlo sanguinare, «p-erché...».

«'Perché' cosa, Akari-sensei?»

Il ragazzo dagli argentei capelli lo scovò, tra le macerie, aggiaccato a terra, e subito gli si mise accanto in ginocchio, girò il volto del dottore per poterlo imprimere a tempo indeterminato nella memoria, quel viso che conservava un patetico sapore di sconfitta, paonazzo per lacrime di rabbia e di dolore, che richiedeva disperatamente delle spiegazioni che il giovane ricercatore non avrebbe certo dato, un'implicita richiesta alquanto inopportuna.

«Povero Akari-sensei... si è ustionato. Conoscendola, non mi meraviglio del fatto che abbia tentato di salvare il salvabile»

Akari aggrottò la fronte e cercò, sebbene la voce rantolante e il bruciore delle lesioni, di parlare con Azana, nella speranza di poterlo salvare, strapparlo a quelle malsane convinzioni in cui aveva cominciato a credere, persuaso da chissà chi.

«A-zana... ti prego, ascoltami... t-tu ti stai sbagliando», sibilò, «pensi che se non riusciamo a vincerli è perché fanno la cosa giusta ma- ma ti sbagli»

L'aveva tradito, ma restava pur sempre il suo pupillo, il ragazzo che conosceva da quando era fanciullo, quello dalle buone intenzioni, dal sorriso solare e gentile.

"E' stato manipolato", si continuava a ripetere, nel tentativo di convincere la mente, che tutto voleva meno che ascoltare le ragioni del cuore. Anche se era passato dalla parte del nemico, quel ragazzo restava pur sempre un essere umano come lui, fatto di carne e con un cuore che batte, un individuo che lui stesso aveva visto crescere per lungo tempo, un povero orfano che aveva deciso di immolare la vita per lo studio e la ricerca proprio come aveva fatto a sua volta lui quando aveva avuto la sua età. Un umano capace di sbagliare.

«La odio, Akari-sensei»

«Che cos-»

«La odio, la odio!», Azana lanciò un acuto grido, gli urlò queste e molte altre ostili parole che echeggiarono senza fine per l'intera torre di ricerca, oramai devastata dalle esplosioni e dall'incendio dei laboratori; sfilò dal giubbino lucertola un affilato pugnale e, senza esitazione, lo piantò deciso sulla scoperta schiena del dottore, colpi di coltellate ininterrotti, uno dopo l'altro, finché il raptus e la furia non si esaurirono, lavati dalle lacrime di rancore e di sofferenza, lacrime per il suo superiore, che tanto stimava quanto detestava, perché nonostante le sue capacità, piuttosto che ricercare la via della salvezza tra le braccia del Kafka, aveva preferito restare a morire per il Circus, fidandosi ciecamente del suo assistente, anche sapendo che lo aveva tradito, anche sapendo che quel ragazzo che aveva visto crescere, gli stava togliendo la vita.

Il dottore aveva già cessato di accusare i colpi in rantoli, era già a terra stremato, con la testa improvvisamente pesante e le gambe stanche, il fascicolo stretto a sé nella nebbia, il quaderno di Karoku nascosto sotto la camicia, Hearty tutto un tremito nel taschino. Il traditore s'era già rialzato tentennando, i capelli sciupati, la rigidezza di un morto nel volto, gli occhi ricolmi di scelleratezza, le prove del delitto che, lentamente, stillavano una ad una dal pugnale. Non si liberò dell'arma, ignobile trofeo di guerra e, rompendo il ghiaccio che gli bloccava le membra, prese a correre, alla ricerca delle scale, e Akari, in un barlume di lucidità, poté solamente ringraziare la fitta coltre grigia per aver celato agli occhi del povero ragazzo il pregiato fascicolo.

Si facevano confusi i contorni del mondo tra i nembi dell'incombente incendio, si inibivano soavemente i sensi e tutto sembrava innocuamente svanire inghiottito dal nulla, soffocato dal fumo e bruciato dal fuoco. E per quando aveva realizzato il lento grondare dalla schiena di un fiume di sangue e la natura di quelle lancinanti fitte, già un pannello era precipitato dal soffitto e lo aveva colpito sulla nuca imperlata di sudore.

Polvere, nebbia, nubi di gas e miscugli dei laboratori lemme lemme prendevano possesso dei polmoni, che già probabilmente annaspavano di sangue.

Ma pur riconoscendo che quel torpore improvviso poteva essere dato dal soffocamento o dall'avvelenamento o dalle pugnalate, non riusciva a pensare ad altro in quell'istante se non all'asfissiante affetto di Hirato, omnipervasivo, proprio come i fumi tossici che gli riempivano il corpo, e alle sue trapassanti occhiate, che scavavano tanto a fondo quanto il pugnale di Azana era riuscito a perforargli la pelle.

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Capitolo 2
*** Incendio di ghiaccio ***


Rinol, Seconda Nave, ore 22.51

 

Hirato, quella stessa notte, si trovava in missione a Rinol. Non era la prima volta che ci capitava; molte esperienze lo legavano a quel luogo nevoso, al suo freddo di montagna, al tepore delle coperte e ai fugaci risvegli al fianco di Akari, quando con qualche scusa riusciva a trascinarlo nella propria stanza e a convincerlo di rimanervi l'intera nottata, e al sorgere del sole, con un cappotto sulla testa e i passi felpati alle cinque del mattino, quand'era certo che nessuno fosse in giro, lo rispediva nella camera che gli competeva, dov'era invece giusto che riposasse. Quei sogni erano andati in mielosi frantumi quando Akari, giorni prima, aveva declinato l'invito di recarvisi, con la piena intenzione di restarsene alla torre di ricerca, dove il clima non era rigido tutto l'anno. E così, per sventura, si era dovuto ritrovare nello stesso luogo con Tsukitachi, non di certo la migliore delle compagnie. Ma poteva andargli peggio; poteva anche finirci con suo fratello. Quindi, anche quell'opzione, che sembrava una delle più terribili, si rivelava tollerabile se confrontata con il vero 'peggio'.

L'ultima volta che aveva controllato il cellulare, l'orologio segnava le dieci e cinquantuno minuti, per lui, relativamente tardi, per Akari, relativamente presto. Non avrebbe sbagliato di una virgola dicendo che il dottore, in quell'istante, si fosse messo a studiare. Nel suo pigiama di flanella, ametista come le iridi che gli occhiali non più schermavano, riposti sul comodino, si trascinò fino al comodo letto della camera, e si adagiò tra le calde coperte, guardando malinconicamente il posto a lui accanto, vuoto, scavato tuttavia da una forma ben conosciuta, da un corpo che da tempo non sentiva più suo ma che aveva la consapevolezza di desiderare con fervore.

"Ci sono dei momenti in cui questa distanza è intollerabile", detestava perfino ammetterlo, ma era così, e neppure l'accarezzare la conca scavata dal corpo del dottore sul materasso era in grado di coprire quel vuoto nel cuore, "Stare giorni interi senza sentire la voce di Akari-san o ricevere sue notizie, è piuttosto straziante".

Scrutò il lento fioccare fuori dalla finestra, la neve si adagiava sul paesaggio già bianco e baciava secchi rami e vallate candide e laghi tesi dal ghiaccio. Tutto quello era semplicemente meraviglioso, e ancora più bella era la luna quando la si contemplava, sospesa nel cielo come appesa ad un filo, chiara come la porcellana, se non fosse stata percorsa da quei profondi crateri che sembravano più che altro la prova schiacciante che non fosse fatta di carta ma fosse reale, ed avesse perfino un suo spessore. "Chissà che emozione deve aver provato Galileo, osservandola per la prima volta", si ritrovò a pensare mirando alla luna, ma si ricordò poi d'un tratto che Galileo, la luna, l'aveva vista molto diversa da come gli appariva a lui, alterata dalle lenti del telescopio, e subito s'accoccolò sotto le coperte in un sorriso.

Stava per prendere sonno, non sapeva neppure se fosse stato in un effettivo stato di dormiveglia o se si fosse trattato, più che altro, d'una illusione, ricordava solamente che prima la stanza era buia e sulla piazza di Akari riposava la luna e ora, invece, la luce era stata accesa turbando la quiete della notte e Tsukitachi lo scuoteva frettolosamente infilandogli nelle orecchie delle notizie che non era neppure in grado di comprendere, uno scorrere impetuoso e logorroico di parole che non era capace di intendere data la velocità e il torpore del sonno.

Ma dopo aver teso le orecchie ed indossato gli occhiali, bastò la vista della faccia del compagno, insolitamente seria e preoccupata, per capire la gravità della situazione, e le parole 'torre di ricerca' e 'incendio', si connessero automaticamente nella mente del comandante della seconda nave.

Hirato si precipitò giù dal letto liberandosi del groviglio di pesanti coperte e trapunte, fece apparire lo scettro e scansò rapidamente Tsukitachi e, senza indossare i regolari vestiti, con quel solo pigiama addosso, fece scivolare i piedi negli stivali e s'apprestò all'uscita della seconda nave.

«Hirato-san!», Tsukumo per prima lo notò fiondarsi all'uscita e cercò di ottenere delle informazioni che il comandante non osò sganciare.

Ordinò alla pecora robotica di aprire l'uscita che dava sull'ampio terrazzo, si affacciò alla tempesta e, ignorando ogni domanda dei presenti, volò via, in testa una sola destinazione.

Tsukumo strinse nei pugni i lembi della pesante vestaglia da notte e, ignorando l'infantile piagnucolare di Yogi -il quale già veniva prontamente sgridato da Gareki, che lo invitava a tacere per non svegliare anche Nai, cercò una risposta negli occhi di Tsukitachi.

«Questa notte, i Varuga hanno attaccato la torre di ricerca», rispose coinciso il comandante della prima nave, grattandosi il mento con un'indicibile serietà.

«Com'è stato possibile?! Non ci sono delle persone a servizio addestrate quanto noi che dovrebbero proteggerla?!»

, berciò Yogi, gli occhi lucidi dalle lacrime.

«Sì. Ma se i sistemi di sicurezza vengono infranti, è difficile fermare da soli i Varuga»

«Il Kafka è capace di superare i nostri sistemi di sicurezza?», domandò accigliata Tsukumo, cercando invano di celare la crescente preoccupazione, «E cosa ne sarà dei ricercatori?»

Tsukitachi si prese una lunga pausa di riflessione.

«Qualcuno dall'interno deve averli fatti passare», mormorò allora, dopo essersi raccolto, «Ho intenzione di seguire Hirato, non lo lascerò andare da solo. Tsukumo, tu resta a fare la guardia alla seconda nave, e prenditi cura di Gareki e Nai. Yogi, tu verrai con me e Kiichi. Chiama anche Eva. Se sarà necessario, avremo bisogno del suo scudo»

«Tsukitachi-san! Aspetta! Io-», Tsukumo fece per replicare ma il rosso le carezzò con affetto il capo strizzandole l'occhio.

«Tranquilla, ritorneremo presto. Eva se la caverà anche senza di te. E poi...», guardò Gareki e sorrise divertito, «Non me la sento di lasciarli tra le mani di Yogi. Farebbero più danni che altro. Di te invece, mi fido per certo»

Così disse il comandante e, andando incontro alla tempesta, si lasciò alle spalle la docile Tsukumo, paonazza dall'imbarazzo ma dolcemente rassicurata, di una tenerezza che per un istante molse perfino il duro cuore di Gareki.

Hirato era già sulla via per la torre di ricerca, volava sotto la tempesta, il viso raggelato dall'ininterrotto fioccare della neve, che durante il suo leggero sonno aveva imperversato in ogni dove, tramutatosi in una violenta procella. Ogni chicco che cadeva gli bagnava gli occhiali e, per quando aveva raggiunto il perimetro della torre di ricerca, era bagnato fradicio e la brina e il gelo gli facevano insolitamente brillare la pelle scoperta del collo rifrangendo la luce dell'incendio che proveniva dall'edificio. Fuori c'erano solamente alcune infermiere e due giovani ricercatori, erano stati loro a dare l'allarme e a mettersi in contatto con Tsukitachi.

«Comandante!», una di loro si voltò subito alla sua vista, nessuno sembrò sollevare obiezioni per l'insolito abbigliamento del comandante, ma se lui stesso non si era neppure curato di tali piccolezze e non sfoggiava neppure il solito sorriso sornione, doveva essere più che ovvio che la faccenda era di un'inestimabile pericolosità.

«Chi è rimasto dentro?», con voce fredda, Hirato interrogò la donna, che subito arrossì d'impaccio.

«Il dottor Akari dev'essere ancora dentro. E il ragazzo del reparto vita... Avevano detto che sarebbero rimasti fino a tardi. Quando abbiamo sentito l'esplosione, abbiamo cercato di metterci in contatto con le guardie ma non ci rispondeva nessuno. Abbiamo provato ad avvertire il dottore ma le scale erano inagibili! Per quando siamo fuggiti lui-»

L'infermiera alzò il capo singhiozzando in un fiume di lacrime di coccodrillo ma il comandante era già scomparso dalla sua vista e ora, solo un'ombra sembrava stagliarsi tra le lingue di fuoco della torre di ricerca.

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Capitolo 3
*** La Luna di carta ***


Torre di Ricerca, ore 23.29

 

Hirato si precipitò rapidamente all'interno dell'edificio. Aveva già tentato di entrare dai piani superiori ma ogni finestra era stata prontamente chiusa.

Non c'era maniera di infiltrarsi, inutile dire che, senza ossigenare la stanza, chiunque vi si fosse trovato dentro avrebbe rischiato il soffocamento. Il pensiero gli scosse in un raggelante brivido l'intera colonna vertebrale, dall'osso sacro fino all'ultima vertebra cervicale, e il comandante stesso ammise malvolentieri che quei tremiti non fossero dati dal gelo che gli aveva attaccato il collo durante il volo o dallo zuppo pigiama che si ritrovava addosso e che, tra le fiamme dell'incendio in cui si faceva strada senza mai poggiare piede per terra, si stava pazientemente asciugando. La reception della torre di ricerca era completamente distrutta e riusciva già a percepire l'energia dei Varuga -si dovevano essere moltiplicati.

Volò più rapido lungo il corridoio del piano terra, i panelli, uno ad uno precipitavano dal soffitto, bastava talvolta un soffio di vento, niente di più, per farli cedere.

Finalmente le riuscì a trovare, le scale che le infermiere non erano riuscite a salire.

Hirato le sorvolò con fretta, le lingue di fuoco gli solleticavano il corpo, sentiva ora il gelo fondersi con le bruciature che gli procurava l'incendio -non era un fuoco normale quello, ora ne aveva più che la certezza. Atterrò al primo piano e corse a perdifiato per il corridoio, scuro dalla fuliggine, illuminato solo dal fuoco, le luci completamente fulminate, l'impianto elettrico saltato, il blackout che aveva dato alla torre di ricerca la stessa morte di una notte senza stelle. Un'ombra emerse dall'oscurità, correndo nella direzione opposta del comandante, e gli sbatté accidentalmente contro.

«Comandante Hirato!», Azana gridò di stupore, strabuzzò gli occhi per quell'incontro inaspettato, gli si strinse nell'addome lo stomaco a quella statura imponente e quegli occhi che, al solo guardarli, già sentenziavano morte.

«Cosa ci fai con quel coltello insanguinato nella mano, Azana», Hirato omise volutamente il tono interrogativo alla domanda, prese il ragazzo per il giubbino lucertola, con un solo pugno lo sollevò da terra, l'ira gli ribolliva nel sangue, trasudava spaventato odio da ogni poro della pelle, mescolati nel suo animo c'erano lo spietato desiderio di uccidere, regalando una morte fredda ma rapida, e quello di ferire, deturpare, distruggere e lasciare morire tuttavia in agonia. Ma già sapeva che qualunque punizione Azana avrebbe scontato, non sarebbe stata sufficiente a pagare per l'offesa fatta ad Akari -qualunque essa fosse stata, e, prima d'ogni altro individuo, a lui personalmente.

Azana s'agitava, bianco di gesso dalla paura, e ora non aveva neppure più il coraggio di sostenere lo sguardo del comandante.

Un'ombra incombette alle spalle dei due, viscida si attorcigliò attorno alle caviglie del comandante e lentamente risaliva il corpo. Hirato si voltò di scatto e, senza mollare la presa sul ragazzo, che sentiva più come un coniglio catturato e tenuto per le orecchie, colpì con lo scettro il Varuga, sussurrò con fredda determinazione "Vacuum" e per un istante, la luce che produsse l'arma si rifranse sulle mille particelle di fumo.

«E' stato un azzardo lasciarti fare», le fredde parole di Hirato gelavano il sangue del giovane ricercatore, «Anche sapendo che eri un traditore, avevamo bisogno di tenerti d'occhio. Non credere che non pagherai. Non sarà Circus a perseguitarti e a darti la morte»

Azana tremò, gli occhi di ametista brillarono su uno sfondo di fiamme e nero pulviscolo, scintille che volteggiavano nell'aria.

«Sarò io stesso ad ammazzarti!»

Hirato gli portò in un impeto le mani al collo e ignorò i rantoli di opposizione del ragazzo.

«Non- non le interessa sapere dov'è A-Akari?», Azana trascinò quelle sole parole, raccogliendo l'aria necessaria per respirare, che già gli veniva meno tra i fumi dell'incendio. Percepì tuttavia il sussultare del comandante a quelle parole, una bestia che viene improvvisamente riportata alla ragione -ricordava finalmente il motivo per il quale si era recato lì? Hirato era la furia fattasi persona e Azana sorrideva di quella folgorante debolezza, la cui prova erano stati gli occhi sbarrati che il corvino aveva fatto alla vista delle gocce di sangue stillare dalla lama del pugnale.

«Dimmelo. E poi ti sentenzierò a morte»

«E' sicuro di riuscire ad uccidermi così facilmente?»

Hirato digrignò i denti.

«Se non si affretta, chi lo dice che il dottor Akari non muoia da un momento all'altro...?»

Lo odiava. Odiava quel ragazzo con tutto se stesso, e se c'era qualcuno per cui nutriva più ripudio in quell'istante, era la sua stessa persona.

"Voglio ammazzarlo", si ripeté, eppure, anche convincendosene, aveva lasciato che gli sfuggisse di mano, che si liberasse della sua presa e corresse come un ratto tra le fognature. L'aveva fatto, l'aveva davvero lasciato libero, ed ora si ritrovava senza la più pallida idea di dove cercare Akari e strapparlo a quella morte che gli pareva d'un tratto terribilmente incombente, e gli scuoteva le membra fino alle unghie delle mani. Si tolse il cappello e liberò le banshee, ordinando perentoriamente di inseguire Azana, ovunque fosse andato.

Calavano a picco le energie del comandante, controllare le banshee era più difficile di quanto pensasse, specialmente nello stato di tensione in cui si trovava, arrancando passi tra il fumo, il fuoco e le macerie, cercando di farsi disperatamente strada in quell'incendio infernale, che distruggeva il fulcro della nazione, la torre di ricerca, ciò su cui Circus faceva più affidamento. Si guardava disperatamente intorno, setacciava ogni luogo e angolo con affanno, maniacalmente tastava per terra, incapace di vedere nella fosca oscurità vermiglia, e sperava sempre di trovare qualcosa di umano da qualche parte, ancora respirante. Ma più arrancava a tastoni nel buio più sentiva il panico salire, il cuore scoppiare dalla paura nel petto, incontenibile, irrefrenabile, il sudore grondare a fiotti dalla fronte, il sangue gelarsi nell'incendio in cui si trovava.

«AKARI!»

E finalmente, la voce trovò la forza di uscire dal profondo della gola, sino dalla trachea, posseduta da un timore che proprio non gli apparteneva. Scorse una sagoma accasciata al suolo, sul polveroso pavimento, in fondo al corridoio, e con il viso imperlato dalla fatica, con la consapevolezza che le banshee che nel frattanto controllava stessero quasi per raggiungere Azana, si gettò ai piedi della figura e scostò il pannello dalla nuca della vittima.

«Akari

Urlò una seconda volta il suo nome, paonazzo dalla rabbia, e quando ne scorse il volto neppure si rese conto di quanto terrorizzato fosse da quel viso caliginoso dalla polvere e teso forse perfino più del solito, quel corpo rigido e quella pozza di sangue ancora fresco e di un opaco vermiglio, lo stesso che adesso lordava lo splendido camice, la schiena paurosamente cremisi e la pelle traforata dai ripetuti colpi di pugnale. Hirato tremava, un miscuglio di emozioni si agitava nel cuore e lui tuttavia se ne stava ancora lì, inerte, senza sapere cosa fare, senza sapere dove andare, tra le braccia la persona che amava, tra le mani mille poteri e la consapevolezza che nessuno di quelli avrebbe, nonostante ciò, potuto salvarlo.

Era troppo tardi per rimproverarsi di non aver intrapreso lo stesso cammino di Akari e divenire medico anziché combattente.

Era troppo tardi per tutto.

Strinse a sé il dottore, che ancora tratteneva, con una stanca presa, al petto, il fascicolo di preziosi documenti.

«Sei un idiota», mormorò flebilmente il comandante, accarezzando i rosei e polverosi capelli del dottore, «Sei un incosciente. Sempre a pensare agli studi, e mai un po' di riguardo per te stesso».

Akari tossì sangue, cercò di inalare aria in un conato ma non riusciva a far altro che esitare, rantolare senza neppure trovare il fiato per parlare, la gola strozzata da un nodo e le vie respiratorie completamente bloccate. Con la poca energia rimasta, raggiunse la camicia da notte del comandante e vi si aggrappò con tutte le sue forze, sebbene lesioni e abrasioni gli stessero logorando ogni tessuto e muscolo, tanto le sentiva vicine al cuore e ai polmoni.

«A-aria-», disse in uno strozzato gemito, ma non seppe neppure se era veramente di aria che aveva bisogno in quella situazione.

Hirato sgranò gli occhi, mise comodo -nel limite del possibile, il dottore sul pavimento, gli strappò dalle deboli mani il ripieno fascicolo e vi adagiò la rosea testa. Si riempì poi della satura aria i polmoni e senza esitazione si fiondò sulle sue labbra, secche e disidratate, sporche di polvere e sangue ma pure morbide e invitanti. Trascurò tuttavia ogni desiderio carnale e, tappandogli le narici, lasciò che l'aria trattenuta entrasse nel ferito corpo, nella speranza che potesse dare, per un istante, respiro ai muscoli, ai tessuti dell'organismo già lesi e ai gracili polmoni. Il torace del medico s'alzò lentamente, le pupille gli si mostrarono lucide, fulgide di gratitudine, stordite ma felici di quell'intervento, che gli aveva regalato l'illusione di poter sfuggire alla morte.

Hirato prolungò quel contatto, avrebbe donato ogni molecola d'ossigeno trattenuta dai suoi polmoni per lui. Spinse le labbra con più intensità contro quelle di Akari e, dopo secondi che parvero eterni, se ne staccò riprendendo respiro, più affaticato di prima e giù, ancora una volta, a donargli aria e amore, perché potesse il respiro regolarizzarsi.

Il torace di Akari riprese con ritmo lento ad alzarsi e abbassarsi, piano piano ingranava il respiro, e ora, ogni cinque o sei secondi, l'aria fluiva sommessamente dal corpo del dottore.

Hirato s'asciugò il sudore dalla fronte, ritornarono a lui le banshee e riassunsero la forma del magico cilindro. Il comandante, rosso dalla fatica, tentennò perfino a rialzarsi, sentendo il greve della debolezza cadergli su ogni osso del corpo, sui muscoli e perfino sui tendini.

Strinse i denti; poco importava il dolore.

Quello che contava adesso era salvare Akari, anche a costo della propria vita.

I muscoli doloranti, le stanche membra e le mani tremanti, tutto quello era marginale, contingente.

Hirato lo sollevò da terra tremando, ignorò la natura delle convulse contrazioni dei muscoli, se fossero veramente dovute allo sforzo che gli imponeva o piuttosto alla sua sofferenza interiore.

«Andiamo, Akari-san. Non posso permettere che un SSS, un pilastro dello stato, si mostri al comandante della seconda nave in questo stato pietoso»

Akari tossì ancora una volta sangue, cercava invano un po' d'aria pulita nell'intossicante fumo dell'incendio, abbandonandosi a peso morto tra le braccia del corvino. Avrebbe voluto troppo protestare, ribellarsi, infuriarsi alla vista di quella maschera di compostezza inaccettabile che ancora Hirato si ostinava a sfoggiare, come se la morte imminente del superiore, la persona con cui aveva oltretutto speso miriadi di notti assieme, fosse semplicemente stata quella di un estraneo, un mero impiegato di Circus, un ricercatore che valeva una vita umana, niente di speciale ai suoi occhi. E forse, era proprio la sofferenza per quella maschera di gelo che non fece altro che togliergli il respiro che con tanta fatica si era guadagnato, rallentargli il battito cardiaco e rendere più acuto ogni dolore.

Ma da qualche parte nel suo cuore, Hirato stesso era il primo ad avere paura di vedere il mondo senza la sua maschera, senza gli occhiali che lo distorcevano rendendo tutto più semplice.

Intanto, fuori dalla finestra, i fili d'erba non danzavano più, il gufo spiava atterrito l'incendio, nascosto nella cavità di un tronco e dall'alto del cielo, la luna di carta taceva, assistendo impotente alla triste tragedia.

 

 

Torre di Ricerca, ore 23.46

 

«Eva!»

«Agli ordini!»

Eva si schierò davanti a Tsukitachi e creò una barriera con il suo scudo di diamanti, che fulgido brillò nell'oscuro atrio della torre di ricerca. Il Varuga indietreggiò abbacinato da quell'intenso bagliore, si contorse quando le banshee di Tsukitachi lo attaccarono e, agitandosi sempre più nella notte, lasciò andare strozzati rantoli.

«Ci siamo quasi», mormorò la donna dalla fastosa acconciatura turchese, adornata da una corona imperlata di pregiate pietre, «Se riusciamo a farlo fuori, potremo recuperare buona parte dei dati persi!». Tsukitachi asserì deciso, in un mezzo ghigno, e legò a sé la bestia dagli indefiniti contorni, divertito dalla piega che stava prendendo quello scontro, ove la bestia si ribellava al domatore come una tigre infuriata.

«Ci vorrebbe Jiki-kun, qui»

«Come se avessimo bisogno di quel buono a nulla», ribatté stizzita Kiichi, che con la falce di metallo già aveva provveduto a uscire dalla protezione di Eva e squarciare in due la bestia, roteando a mezz'aria con la leggiadra delicatezza e la soave grazia di una danzatrice, con le sue ballerine cerulee e le culottes a palloncino a motivi cuoriformi. Sorrise al rantolo del Varuga e al suo contorcersi, come un bruco indifeso, e approfittò di quella improvvisa debolezza per sferrargli il colpo di grazia. "E' tenace, eh", pensò tra sé e sé, ma non rese nessuno dei presenti partecipe di quella sua impressione, confidando che i tre pendessero esclusivamente dalla lama della sua falce di metallo, Yogi già s'era preparato ad attaccare qualora il Varuga avesse tentato di ribellarsi.

Kiichi incalzò la lama, la belva spirò dissolvendosi in nera polvere e il suo grido di morte riempì l'intero atrio.

Poi, il silenzio cadde, e della sciagura, nulla rimaneva se non una torre di ricerca a pezzi, macerie in ogni dove e da qualche parte, Hirato, che vagava di reparto in reparto alla ricerca di materiale per il primo soccorso, medicine o qualunque altro oggetto si potesse prestare alla medicazione del dottore e lo potesse curare dall'intossicazione data dai fumi inalati.

«Non posso credere che un Varuga solo sia stato capace di mettere in ginocchio l'intera torre di ricerca», disse Yogi perplesso, riponendo la spada nel fodero.

«Che ti frega. Quello che c'era da fare l'abbiamo fatto. Torniamo sulla nave, sono stanca morta»

Eva guardò la ragazzina con un'occhiata di puro rimprovero, e con serie intenzioni mirò invece Tsukitachi, pensieroso e raccolto come mai l'avevano visto.

«Tsukitachi», lo chiamò, ma attirarne l'attenzione si rivelò più difficile del previsto, «Dove sono Hirato e il dottor Akari?»

Ma il comandante della prima nave non scostò gli occhi di opale dal fondo del corridoio né rispose alla donna.

«Lo sapevo che un solo Varuga non ce l'avrebbe fatta da solo», commentò amareggiato evocando le banshee, «Non mi sbagliavo, che c'eri tu dietro a tutto questo»

 

«Azana»

 

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Capitolo 4
*** Il cuore solitario ***


Torre di Ricerca, ore 23.49

 

Adagiò il corpo del dottore sopra una barella e aprì la finestra forzandola perché la stanza arieggiasse quanto dovuto. La luce non c'era ma fortunatamente era possibile sfruttare il barlume dello scettro per illuminare quanto dovuto il piccolo tugurio. Il volto cinerino e spaventosamente teso, le rosee sopracciglia e la fitta e folta chioma ora scompigliata e ricoperta di polvere, ogni stilla dell'essere di Akari sfioriva inafferrabile sotto i suoi occhi e lui non poteva far altro che tentare l'impossibile per salvarlo. Il respiro era relativamente regolare -troppo lungo per poter essere definito normale, e ogni tanto si bloccava, e in quei momenti pareva ad Hirato che anche il suo cuore smettesse di battere e i polmoni di arricchirsi d'aria. La macchina del suo organismo sembrava arrestarsi quando sentiva la sincronia con quella di Akari venire meno.

«Akari», lo chiamò, posando la nuda fronte su quella del dottore, e lasciò scorrere i nudi polpastrelli lungo la sporca carnagione.

Akari sibilò con le secche labbra il nome del comandante ma non trovò la voce né l'energia necessarie per poter dare forma e tono a quel nome eppure per lui tanto sublime quanto detestabile; se c'era uno stato d'animo che gli competeva in quel momento, era di sicuro la rabbia. Se avesse avuto forza a sufficienza, se non avesse sentito la morte così vicina, tanto da non sapere fino a quanto sarebbe stato capace di celare ad Hirato quei rantoli di agonia, l'avrebbe scaraventato contro il muro a suon di sonore testate, quel solo sentimento gli rievocava la faccia meschinamente tranquilla del comandante e l'indecifrabile sorriso che non aveva smesso di sfoggiare.

"Davvero ti importa così poco di me?", avrebbe voluto domandargli, ma il cuore gli si stringeva nel petto e le ferite gli facevano ancora più male quando pensava a quelle esatte parole, e nel suo malessere, aumentava inesorabilmente la sensazione di pateticità.

Hirato lo guardò con freddi occhi e, dandogli le algide spalle, si mise a frugare tra i cassetti dei banconi alla ricerca di un qualche kit che si prestasse alla medicazione.

«Akari, ti prego, dimmi qualcosa»

Akari non rispose, cominciava già a svanire il calore dalle tese membra, si fecero rigidi e severi più del solito i connotati, si corrucciarono impercettibili le sopracciglia del comandante a quell'intollerabile silenzio. Davanti al tacito muro del dottore, non faceva altro che sentire l'agonizzante melodia della morte, quella tragica cantilena di rantoli strozzati e agonizzanti mugolii che fecero correre folli le sue pupille tra i vari cassetti del bancone, ripiano per ripiano, passando al vaglio ogni scomparto.

"Dove diavolo sta il kit di pronto soccorso?!", tradiva del terrore quel solo mormorio, mentre spostava le medicine una ad una, verificandone il contenuto con molta superficialità, sperando che almeno una di quelle si potesse prestare alla situazione come calmante o analgesico, "Paradossalmente, i Varuga non hanno attaccato affatto questa zona. Davano per scontato che avrebbero fatto tutti fuori".

Il sorriso di Azana gli ritornò all'improvviso nitido alla memoria, il ghigno che aveva follemente sfoggiato, quel ghigno che sembrava ridere di lui e del dottore, dei suoi compagni, dei sogni e delle speranze di ciascuno di loro, sputare sul destino dei propri genitori e della propria famiglia e su quello di centinaia altri sventurati, vittime dei Varuga. Gli ribollì il sangue nelle vene, spaccò involontariamente una provetta, stringendone troppo il fragile vetro tra le mani.

Storse la bocca, colarono lente le stille di sangue dalla ferita ma non destò il dottore quel chiaro rumore. Hirato si sistemò la montatura degli occhiali sul setto e, sollevato, trovò finalmente nel pianale garza, bende e disinfettante e si apprestò frettolosamente a medicare il dottore, steso sulla barella. Rimosse con delicatezza il camice e lo adagiò sopra il bancone assieme al prezioso fascicolo di dati. Quando fece per slacciare la camicia, vide intatto il quaderno di Karoku, fulcro dei suoi recenti studi, protetto minuziosamente, neppure fosse stato un bambino in fasce. «Era questo che avevi cercato di salvare?», disse in una risata, estraendo il consunto quaderno dalla camicia e lo depose assieme al fascicolo, solo allora si accorse di Hearty, che spaventato se ne uscì dal taschino, vide il volto contratto di Hirato e subito se ne ritornò al caldo, «Non posso crederci... Per loro, avresti messo a repentaglio la vita? Sei davvero-»

Si portò la mano, tagliata dal vetro della provetta e insanguinata, al volto, Akari dischiuse appena le palpebre e si portò con caduca forza un palmo allo sterno, tossendo altro sangue.

"Perché piangi?", avrebbe voluto sussurrare, vedendo Hirato, perdendo oramai la poca lucidità che gli poteva rimanere, ma le parole ancora una volta non gli uscirono dalla bocca, neppure incrociando le sincere iridi di ametista del comandante, lucide nella penombra della stanza, il naso fattosi d'un tratto umido e la piega delle labbra increspata, come mai le aveva viste prima ad ora.

«Non sto piangendo», Hirato si difese a denti stretti, ricercando una compostezza che aveva oramai perso, «Mi lacrimano gli occhi per lo sforzo di vedere con così poca luce». Lavò via con la manica del pigiama oramai asciutto le prove della sofferenza e, rigirando il dottore di schiena, che aveva ripreso a rantolare, tossendo gravemente sangue, cercò di applicare la medicazione.

Le mani tuttavia gli tremavano, non riusciva neppure a trovare la forza per tenere fermo con la pinzetta il soffice batuffolo di cotone, imbevuto di disinfettante -neppure il pensiero che la vita di Akari potesse dipendere dalla sua determinazione riuscì a conciliarlo e a dargli la forza. Akari continuava a sputare sangue agonizzante, non aveva più l'energia materiale per risollevarsi, per parlare, e ora gli veniva meno perfino il respiro. Davanti a sé, Hirato aveva quella schiena di abrasioni, lesioni e sangue, scavata dalle pugnalate e incrostata di sangue e polvere.

Ripercorse più e più volte quello scenario di disperazione, cercando di pianificare come avrebbe dovuto agire, ma più i secondi venivano scanditi inesorabili più la confusione saliva, il sudore scendeva a fiotti, Akari si faceva rigido. Più quel corpo sfioriva, si allontanava inafferrabile proprio come quando, ancora giovani, lui insegnante sfuggiva irraggiungibile ai suoi occhi di ametista e alle insistenti richieste di attenzione, e costringeva quel ragazzo dai corvini capelli ad inseguirlo ora nella biblioteca, ora per i corridoi della scuola, cercando di afferrarlo dapprima per un lembo della giacca, poi per un polso.

E adesso che da tempo l'aveva fatto suo, Akari fuggiva di nuovo, e non ci sarebbe stato più verso di legarlo a sé, una volta andato.

Si portò esasperato una mano tra i capelli, dov'era la sua infallibile maschera?, dove la sua calma? Mai come in quell'istante comprendeva le sensazioni e gli stati d'animo di Gareki.

Afferrò dal bancone una siringa e prelevò dell'anestetico che aveva fortunatamente ritrovato tra i tanti medicinali, tastò tremando l'avambraccio del dottore e, senza detergere la zona, cercando esclusivamente la vena giusta nella penombra, iniettò il liquido nella vana speranza di non procurargli ulteriori dolori. Akari increspò appena la fronte alla sensazione viva dell'ago sotto la pelle ma poi la bocca rimase semi aperta, il respiro rallentò paurosamente e il corpo cadde vittima di un fatale torpore.

Hirato attese infiniti secondi, li scandì e ne contò trenta ma si convinse di essersi ingannato, perché per essere trenta secondi, erano decisamente stati troppo lunghi.

Trovò il coraggio di brandire con decisione la pinzetta e, facendo scorrere il cotone sulle profonde ferite -e subito il batuffolo si faceva d'uno scuro cremisi che gelò il sangue nelle vene del comandante, cercò di detergere al meglio l'intera schiena. Strappò poi alcune bende e cercò di legarle con quanta più cura possibile attorno al torace del dottore. Passò il bendaggio più e più volte attorno allo stretto petto, cercando di prestare attenzione perché non gli rendessero difficile il respiro una volta risvegliatosi. Nella mente, lo perseguitavano come demoni maligni le immagini di quella pelle, che aveva baciato, adorato, amato, quella schiena così perfetta tanto deformata eppure.

«Akari», si chinò sulla nuda nuca del medico e sibilò il nome tremando, «Akari», ancora una volta lo chiamò, e non si accorse neppure dello strazio nella voce.

 

«L'hai fatta male», dopo un eterno silenzio, giunse finalmente la risposta che tanto Hirato agognava, il pensiero che Akari fosse finalmente riuscito a trovare il fiato per mormorare quelle sole parole caustiche, pregne di rimprovero a quel ragazzo che molto tempo prima fu uno dei suoi studenti e che adesso era lì, solo nella stanza con lui, gli riempì il cuore di un'anomala gioia. Lo guardò con occhi stupiti -gli aveva parlato, non se l'era sognato.

«Akari. Ti sei risvegliato dall'anestesia-»

Ma Akari aveva già chiuso gli occhi, ritornando al suo innocuo torpore, all'arrancato respiro e ai battiti cardiaci che ora rallentavano pericolosamente, ora acceleravano inarrestabili, a quel viso che ora si faceva teso e ora spaventosamente rosso. "E' colpa dei fumi che ha inalato", pensò il comandante, osservando freddo i mutamenti nel suo corpo, "Deve aver respirato qualche fumo strano, o forse i Varuga hanno approfittato dell'incendio per sollevare una nube di gas intossicante".

«Hai fatto un'iniezione pessima», ancora una volta, Akari parlò, con voce moderata, che rimbombava insolitamente ovattata nel tugurio che era stato improvvisato infermeria. Ma Hirato gli sorrise sornione, recuperando il solito, identico temperamento, mirando a quelle fasciature fatte tanto bene che erano state capaci di restituire la vita alla morte, «Spero tu ora capisca come mi sento ogni volta che faccio i tuoi controlli di routine», disse allora scherzando, non azzardò a toccare quel corpo, fragile, debole, tanto bisognoso di cure.

«Tra i tanti momenti in cui farmela pagare, proprio questo, Hirato?!», berciò il dottore; già il comandante, senza vederla, poteva immaginare l'espressione che gli animava il volto, quel piglio crucciato che solamente un orso poteva sfoggiare, «Che diavolo mi avresti iniettato -oltretutto...?»

«Non te l'ho detto? E' un anestetizzante. L'ho trovato tra i vari medicinali»

«Come sapevi che si trovava qui?», chiese puntiglioso Akari, che aveva misteriosamente recuperato l'acida vitalità e la mortale impetuosità di sempre, ma non osò ciò nonostante regalare uno sguardo al comandante, rimaneva piuttosto composto nella sua prona posizione, a pancia all'ingiù come Hirato l'aveva lasciato, «Non sono un genere di farmaci che saresti convinto di ritrovare in un'infermeria»

Hirato abbassò adagio il capo e diede le spalle al dottore, intenzionato a non rilasciare le ragioni del suo agire.

Raggiunse il bancone e osservò piuttosto il quaderno di Karoku, ancora integro, e il fascicolo dalla ruvida copertina blu con i dati sui membri dell'equipaggio della prima e della seconda nave.

"Ha rischiato di morire per salvare questi dati, quando sapeva perfettamente che se c'avesse lasciato la pelle sotto le macerie, i Varuga sarebbero venuti comunque a riprendersi quello che avevano disperatamente cercato", accarezzò la copertina del consunto quaderno e, senza possibilità alcuna di frenarla, lasciò scendere ostinata una lacrima, "Da' sempre la precedenza agli studi. Dieci anni fa erano gli enzimi, poi c'erano gli esperimenti sugli animali a Vantnam e adesso il quaderno di Karoku. Ogni elemento, possibile oggetto di studio o di ricerca, ha sempre avuto la precedenza rispetto alla sua vita, che pure è tanto preziosa per ciascuno di noi"

«Hirato»

«Cosa c'è»

«Girati»

Hirato si morse il labbro, la corvina testa inghiottita dalle rialzate spalle.

«Girati», ordinò perentoriamente Akari, che senza sforzo si mise a sedere sulla barella, ne scese poi tentennando e gli si prostrò innanzi senza sfiorarlo, «Girati e lascia che veda questo bastardo piangere come si deve»

«Non sto piangendo», si ripeté Hirato, ma le lacrime che scendevano lungo gli zigomi tradivano lo spavaldo sorriso che gli ornava il volto, Akari se ne stava impalato, severo davanti a lui e non trovava nonostante ciò, parole necessarie per confortarlo, c'erano solamente quegli occhi di pesca, ricolmi di un paterno rimprovero, che sembravano volergli dire tutto e al contempo niente. Hirato cercò di sfiorargli il mento, afferrarlo in qualche maniera e legarlo a sé, non importava se avesse significato macchiarlo con la mano insanguinata o con quella tremolante con la quale l'aveva tentato di curare, Akari tuttavia aveva già compreso le sue intenzioni ed era prontamente indietreggiato di un passo sfuggendo a quella presa.

«Non piangerei mai davanti all'uomo che mi ha visto crescere», disse Hirato, con il cuore in frantumi, accorgendosi dell'impossibilità di raggiungere il dottore, neppure volendolo.

 

«Preferisci piangere dandogli le spalle?», domandò il medico con stizza, «Quando imparerai a crescere e a camminare con le tue gambe, razza di un deficiente?»

«Sarei io il deficiente? E tu, che preferiresti morire per un quaderno ancora da decifrare piuttosto che salvarti la pelle, cosa saresti allora?»

«Ne ho abbastanza delle tue provocazioni, Hirato», bofonchiò il dottore, «Tu parli, parli, ma non riesci mai ad essere onesto con te stesso. Cosa dovrei dire io?, che ti vedo partire per giorni, mesi interi in missione negli angoli più sperduti della terra e non mi posso opporre?»

«Non vuoi opporti»

«Non parlare come se sapessi tutto», le gote di Akari si fecero insolitamente di carminio, un segno di buona salute agli occhi del comandante della seconda nave, «Tu sei un bastardo egoista, non mi stancherò mai di ripetertelo, neppure dopo dieci anni. Sei la persona più individualista che esista sulla faccia della terra, non ti importa niente di quello che provano quelli che restano, tu pensi solo a startene lontano, te ne sbatti del tuo lavoro e di ogni altra cosa e intervieni solo se strettamente necessario. E ora, all'ultimo, vieni qui e speri di salvarmi la pelle, recuperandomi in extremis! E hai anche il coraggio di rimproverarmi il fatto che abbia voluto difendere i miei studi! E quando mai io ti ho invece rimproverato le missioni che intraprendi? Quando mai mi sono lamentato della tua lontananza?»

Hirato chinò il capo riluttante.

«Sei un vigliacco», grugnì il medico con voce impastata, «Un insopportabile bambino incosciente e invidioso. Se muoio, non la sconterai mai abbastanza. Lo sai, vero?»

Il comandante si coprì il viso con gli ampi palmi, lordò di sangue le pulite lenti.

«Non sarebbe già da sé una punizione la tua morte, Akari?»

«Ti farei un piacere»

«E a chi cederò poi la calda piazza del mio letto?»

Il medico sorrise a quel dolce ricordo.

Hirato avrebbe voluto dire tante parole, avrebbe parlato a lungo finché la voce non gli si fosse consumata, finché l'alba non sarebbe giunta e anche fosse giunta, avrebbe atteso la notte, avrebbe lasciato le lune salire al cielo, crescere e calare, i grilli cantare, i gufi roteare la testa, i fili d'erba volteggiare e danzare balli segreti. Avrebbe atteso mille giorni e mille notti, e se neppure quelli sarebbero bastati, sarebbe invecchiato in quel tugurio, mirando il rigido corpo di Akari e le riposanti ciglia, nella patetica speranza che un giorno si sarebbero schiuse ancora una volta, come un'ostrica, rivelando quelle preziose perle di pesca qual'erano i suoi occhi.

Ma quella speranza era scemata con ogni suo proposito.

L'infermeria era rimasta un vuoto tugurio, illuminato fiocamente da quel caduco barlume di speranza nutrito dal suo cuore. La fatale iniezione aveva già rapito Akari, l'aveva strappato per sempre dalle braccia del comandante e le sue lacrime, seppellite nell'oscurità, che ora bagnavano il prezioso bendaggio del dottore, non bastavano a colmare la pateticità che gli inondava il cuore, l'idea che niente di tutto quello che era stato 'Akari' sarebbe più stato raggiungibile. Non ci sarebbero stati più lembi del camice da afferrare, morbide stoffe o calde piazze da riscaldare, nessun proposito per lottare, nessuno per fare ritorno alla torre di ricerca, niente di tutto quello sarebbe più esistito.

La sua incoscienza, la sua ingenuità, il suo essere infantile glielo avevano strappato via.

E nella vuota stanza, restavano solamente quelle parole, quella conversazione che c'era e non c'era stata, quelle parole rivolte a delle orecchie che già non lo ascoltavano, quei rimproveri che erano stati solamente la voce del suo cuore.

Quel cuore, che adesso era solo.

Solo come Hearty, raggomitolato oramai sulla nuca del dottore.

Solo come lui, inghiottito dall'abisso del suo dolore, stretto al camice del dottore, affogato in quelle lacrime di odio e di paura che non sarebbero mai bastate a colmare l'abisso che li separava.


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Eccomi, dopo un anno di silenzio stampa, con quest'ultima Hirakari, fresca fresca di block notes. In realtà doveva essere un tutt'uno, ma ritrovarsi a leggere un muro di parole interminabili non è proprio il massimo quindi meglio spezzarlo in capitoli. Se tu, lettore/lettrice/fangirl incallita o non di Karneval, sei arrivato/a fino a qui, ti ringrazio per la pazienza ^^"
Questa storia è stata un'impresa più per decidere la morte di Akari e la sua sofferenza che altro!!
Grazie a Flavia per il sostegno durante questa impresa e i continui suggerimenti su come far fuori questo povero disgraziato!
Per chi è arrivato fino a qui, regalo questa piccola variazione del manga, non avendo saputo resistere alla somma utilità di Gareki.
A presto con un'altra storia!


Asanolight


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