L.o.c.k.e.d.

di HuGmyShadoW
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quella Mattina... ***
Capitolo 2: *** Shopping! ***
Capitolo 3: *** L'Ascensore ***



Capitolo 1
*** Quella Mattina... ***




L.o.c.k.e.d.



1^ Parte

No, quella in cui mi trovavo decisamente non era una situazione normale. Anzi, era l’impossibilità fatta persona.
Eppure, pensai torturandomi il piercing che occhieggiava dal mio labbro inferiore, mi trovavo proprio lì. E con “lì” intendevo bloccata in un ascensore del centro commerciale da quasi un’ora, sommersa di borse stracolme, in compagnia di Tom Kaulitz. Se di “compagnia” si poteva parlare. Non è che avessimo fatto questa grande conversazione.
Comunque io l’avevo detto all’inizio che non era una circostanza da ricercare sotto la categoria “ordinaria”.  Ed ero abbastanza vicina da sentire il suo profumo...
Ma forse è meglio cominciare dall’inizio.

*

Quel giorno mi svegliai. Dato che circa sei miliardi di persone ogni giorno trovano la forza di aprire gli occhi e di trascinarsi lungo la giornata la potrete ritenere un’informazione irrilevante. Il mio risveglio però non è un avvenimento così ordinario. Per me il giorno equivaleva quasi sempre alla notte, da anima nottambula quale sono, per cui spesso mi addormentavo alle sei di mattina per svegliarmi alle sei di sera. Quando andavo a scuola non potevo permettermi questi ritmi di vita (anzi, mamma non me lo permetteva) e mi toccava immergermi a mia volta nella massa di pendolari diurni ooogni giorno. Ma adesso che era estate e avevo finito anche l’ultimo anno, potevo permettermi di diventare un tutt’uno col mio letto anche per tre giorni di fila, e guai a chi protestava! Quella Mattina fu la classica eccezione che confermava la regola.
La sveglia trillò per circa venti minuti prima che la mia mano intorpidita trovasse la forza di riemergere da sotto il cuscino per scaraventarla a terra e poi gettare all’aria le coperte. Sbuffando come un ciminiera mi misi seduta strofinandomi gli occhi e cercando le pantofole contemporaneamente: non sopportavo il pavimento gelato appena sveglia.
Mi alzai in piedi tutt’altro che cosciente cercando un buon motivo per non tornarmene a letto di filato e, probabilmente per pura inerzia, presi a zigzagare con l’andatura di uno zombie fra le innumerevoli cianfrusaglie che disseminavano il suolo tutt’attorno.
In origine, tutti quegli orsacchiotti sventrati, riviste scarabocchiate, libri e fumetti strappati e bambole mutilate abitavano innocentemente gli scaffali della mia cameretta color azzurro cielo, ma col tempo sembravano chiaramente aver designato il linoleum graffiato come loro nuova casa. E io non gliel’avevo certo impedito, anzi, mi andava bene così. Chiunque fosse entrato in qualsiasi momento nella mia stanza avrebbe, a ragione, pensato che come domestica avessimo un tornado impazzito al posto della nostra cara Ines.
Ines era una bella donna nera sulla cinquantina, tarchiata e molto materna, a cui avevo sempre invidiato quel sorriso caldo che sembrava avvolgere tutti; la sua voce profonda e autorevole aveva incondizionatamente fatto rigare dritta la sottoscritta, almeno fino all’indomabile età di diciotto anni. Negli ultimi tempi infatti aveva rinunciato a chiedermi di risistemare almeno quell’accozzaglia di roba sparsa sul pavimento al loro posto, forse stanca di ricevere come risposta le mie imprecazioni bofonchiate. Da mesi ormai si rifiutava di mettere piede nella mia stanza che, abbandonata a se stessa, ormai era governata dal caos e dalla polvere perenne.
Quella Mattina stavo appunto cercando di guadagnare la porta senza ruzzolare a terra affidandomi solo su quattro dei cinque sensi (senza contare il “sesto”), ma quando ormai sentivo di essere vicina alla meta inciampai in qualcosa di rigido e ingombrante, che quando fui col culo per terra identificai come uno scatolone colmo di vecchie foto. Foto che mai e poi mai avrei permesso abitassero in camera mia! Il colpevole poteva essere solo uno...
Ringhiai e imprecai per dei buoni minuti massaggiandomi il punto dolente, lasciando che la rabbia mi desse di nuovo la forza per alzarmi e scaraventarmi giù per le scale. Gli ultimi tre scalini li saltai direttamente ma persi l’equilibrio e per poco non mi ruppi l’osso sacro; fortunatamente, trovai come appiglio l’attaccapanni sovraccarico che sostava vicino alle scale e riuscii a riprendere la mia marcia furiosa senza danni.
Attraversai l’ingresso e quasi scardinai la porta della cucina per entrare e ruggire:
«Daniel!».
Una veloce occhiata alla stanza linda mi permise di individuare la mia “vittima”. Lasciai scivolare gli occhi lungo il frigo lucente, i fornelli incrostati, il forno ammaccato, la tavola strisciata e... eccolo!
Seduto tranquillamente su una sedia scassata, i gomiti appoggiati al ripiano di legno a sostenersi la testa, il pestifero bimbo biondo sogghignò socchiudendo gli occhioni verdi.
«Non ti è piaciuto il mio... regalino? Sai, dovresti trovare una sistemazione per quello scatolone: ficcarlo nel mio armadio non è stata una buona idea, lo sapevi, no? Certo che siete venuti proprio bene tu e il tuo ex ragazz...».
«Sei morto, pulce!» strillai saltandogli al collo per impedirgli di finire la frase. In uno scatto fulmineo, quello scarafaggio socialmente riconosciuto come il mio adorabile fratellino di nove anni sparì sotto al tavolo e le mie mani riuscirono solo a graffiare l’aria. Ringhiai come un animale ferito e mi tuffai anch’io in una sorta di battaglia sotterranea.
Già pregustavo la prossima punizione che avrei inflitto a quella specie di serpe che  stava cercando di divincolarsi dalla mia stretta ferrea quando... suonò il telefono, ovvio.
Non so come riuscii a sentirlo sopra gli strilli di quella peste, ma ad un certo punto, forse quando gli ficcai un pugno in bocca per farlo tacere, udii un familiare squillo in lontananza. Ansimante per la combattuta lotta, e pure un po’ contrariata (stavo vincendo!) mi spostai i lunghi capelli scuri dietro le orecchie e schiacciando Daniel a terra con un ginocchio per impedirgli di filarsela, gli mormorai:
«Questa volta sei stato fortunato, piccolo mostro, ma alla prossima che mi fai ti ritrovi appeso per i piedi al tetto. Nudo».
Rotolai in piedi con l’agilità di un gorilla e corsi a rispondere lasciando mio fratello pietrificato sul pavimento; stavolta la sua espressione sembrava sinceramente terrorizzata, constatai con piacere arricciando l’angolo del tappeto persiano durante una scivolata per una curva troppo stretta.
Il telefono riuscì a trillare impaziente un’ultima volta prima che lo afferrassi e me lo portassi all’orecchio.
«Pronto» esclamai chiaramente scocciata. Odiavo qualunque genere di telefonate mattutine, anche se ormai ero in piedi da un pezzo.
«Volevo solo assicurarmi che fossi riuscita a svegliarti».
«Ciao Kat!» cinguettai sorridendo come un’ebete.
Kat, anzi Katia, straordinario incrocio tra madre russa e padre italiano, era, ed è tuttora la mia migliore amica. Tra di noi c’è qualcosa di veramente forte, che ci lega a filo doppio, la mia vita alla sua. Non so dire cosa sia, però c’è! Ci conoscevamo dall’asilo e ancora dopo tutti questi anni non ci eravamo ancora stufate l’una di trascorrere ogni singolo minuto libero con l’altra; a lei potevo perdonare qualsiasi cosa, anche le odiate telefonate mattutine! Katia era così, mi bastava sentire la sua voce melodica per cambiare completamente atteggiamento e ritrovarmi a pensare che il mondo era meraviglioso.
«Sai, stavo per partire verso casa tua con l’artiglieria pesante ma credo che a questo punto non ce ne sia più bisogno», sghignazzò metallicamente dall’altra parte del filo.
Potevo immaginarmela perfettamente, appoggiata al tavolino traballante del corridoio, la cornetta bianca dal modello superato in una mano e una ciocca color miele attorcigliata nell’altra. Probabilmente stava anche masticando un chewingum alla fragola. Katia aveva sempre una gomma alla fragola in bocca, che fosse mattina o notte inoltrata, con la quale si divertiva a soffiare palloni profumati dalle dimensioni considerevoli che io puntualmente le scoppiavo.
Adoravo Katia ma non mi era mai piaciuto quel suo continuo lavorio di mascelle ovunque e in presenza di chiunque.
Anche la Mattina sentii in lontananza, attutito dai tre isolati che ci separavano, lo scoppio di una bolla alla fragola. Cercai di ignorare quel rumore fastidioso che mi faceva rabbrividire e mi concentrai sulle parole della mia amica.
«... e devo andarci al più presto! Mi accompagni?».
«Scusa Kat, non ti stavo ascoltando. Puoi ripetere?».
La sentii sbuffare sonoramente.
«Lisa, svegliarti presto è così terribile per te da farti spedire il cervello su un altro pianeta?».
«Puoi ben dirlo! Sto ancora cercando un motivo per non tornarmene dritta filata a letto».
«Uhm, vediamo, te lo trovo io? Dunque, c’era qualcosa che dovevi fare oggi, forse andare in qualche posto, ma che cos’era... oh, già, il concerto dei Tokio Hotel forse?!».
Alzai gli occhi al cielo. Odiavo quel suo sarcasmo pungente.
«Grazie Kat, ma lo ricordavo da sola».
«Non ci metterei la mano sul fuoco... Comunque, se fossi riuscita a registrare il senso delle mie parole, stavo dicendo che non trovo più quella maglia che ho usato alla festa di quel tizio la settimana scorsa, non mi ricordo come si chiamava... Un certo Marco Qualcosa, mi sembra... Hai capito quale maglia intendo, no? Sì, dai, quella nera, scollata, con i fiocchetti! Non so dove l’ho messa, ho rivoltato la casa come un guanto, non la trovo!, e visto che il concerto è stasera e non ho niente da mettermi volevo che mi accompagnassi al centro commerciale vicino al palasport, so che ci sono i saldi o comunque uno sconto di un tot percento sui capi d’abbigliamento del secondo piano. Devo andarci al più presto quindi non puoi dirmi di no!».
Io, rimasta zitta per tutto il tempo di quel monologo improvvisato, non potei trattenermi dallo scoppiare a ridere.
«Che hai tu da sghignazzare tanto?», mi esclamò in un orecchio perforandomi i timpani con la sua vocetta da soprano.
Finalmente mi ripresi e anche se a scatti a causa dei singhiozzi, riuscii a risponderle.
«Kati, ma respiri mai quando parli?!».
«Ah, era solo per questo che ridevi come una scema?! Pensavo ti stesse venendo un attacco di Nonsocosa, una malattia che ti fa ridere ininterrottamente per dei giorni interi, ne devo aver letto in qualche rivista la settimana scorsa...».
Sorridendo fra me e me, lasciai che il timbro piacevole della voce di Katia si infrangesse nelle mie orecchie e lì si fermasse, lasciando i pensieri liberi di vagare.
Perché d’accordo che ero sveglia da un pezzo, ma per affrontare gli sproloqui di Kat dovevo prima riempire lo stomaco!
Finsi di ascoltare i vaneggiamenti della mia amica per qualche altro minuto, poi però mi stufai e decisi di troncare la conversazione usando come scusa un bisogno impellente del bagno.
Un po’ scocciata, Kat mi congedò dandomi appuntamento a quel pomeriggio davanti a casa mia per partire alla volta del centro commerciale alla ricerca di qualcosa da mettere che avrebbe stupito perfino quei quattro figoni dei Tokio Hotel.
M’incamminai verso la cucina, sollevata di trovarla vuota e silenziosa, rivolgendo i miei pensieri solo al barattolo di Nutella che mi fissava maliziosamente aperto sopra al ripiano del lavello. Raccolsi col dito una dolce goccia viscosa che scivolava testardamente lungo il vasetto e me la portai alla bocca, assaporandola come fosse l’ultima.
Mmm, buona. Troppo buona.
Afferrai il barattolo e mi sedetti a tavola, pregustando un altro pasto di solo pane e cioccolata. Se quella sera avessi assistito al più meraviglioso concerto della mia vita, tanto valeva assumere un po’ di zuccheri per prevenire svenimenti o tachicardie. No?

La mattinata scappò via in fretta, forse troppo velocemente, così come il primo pomeriggio, passato quasi interamente a sonnecchiare per recuperare le ore perse, e prima ancora che avessi potuto mandare giù la peperonata di zia Lidia (mamma alla fine mi aveva brutalmente strappato dalle mani il barattolo di Nutella), Katia era sotto le mie finestre a suonare a trombe spiegate il clacson della sua Panda Young bianca scassata.
Con solo la vecchia maglietta grigia extralarge che usavo come pigiama corsi fuori ad aprirle il cancello.
In due manovre Kat parcheggiò nel mio vialetto e scese con grazia dall’auto, masticando sfrontatamente a bocca aperta la solita gomma alla fragola.
«Ehilà, cricetina! Ci si rivede finalmente! Mi sembra una vita che... Ma non sei ancora pronta? Te l’avevo detto che arrivavo verso quest’ora, non puoi essertene già dimenticata! Su, forza, non ho tutto il giorno!» esclamò vedendomi impalata sulla porta di casa, assonnata, a piedi nudi e con i capelli tutti arruffati. Ridendo, mi raggiunse a lunghe falcate e prese a spingermi dentro.
«Su, su, animo! A lavarsi e cambiarsi, il look sonnambula non ti dona affatto! A meno che tu non voglia lanciare una nuova moda... Forza, i vestiti te li scelgo io, tu vai!» mi disse irrompendo nella mia stanza e lanciandosi a saccheggiare il mio armadio.
Per qualche minuto rimasi ad osservare la maggior parte del mio guardaroba volare per tutta la stanza sforzandomi di capire chi ero e cosa ci facessi lì, quando Kat, dall’aria soddisfatta, riemerse con una maglia della Reds di traverso sulla testa e un paio di Converse in mano.
«Be’?» sbottò accorgendosi della mia presenza. Io la fissai di rimando, senza capire. Lei si alzò e mi trascinò in bagno sbuffando come una locomotiva.
«Vai a farti una doccia, no? Dai, Lisa, collabora per una volta!» miagolò cacciandomi in mano un asciugamano bianco e chiudendomi la porta in faccia.
«Ma...» provai finalmente a protestare.
«Sbrigati!» mi urlò Kat dal corridoio.
Dopo qualche secondo di riflessioni decisi che sì, potevo farmi una doccia veloce, così lasciai cadere a terra la maglia grigia e mi infilai nello stretto cubicolo. Il forte getto di acqua calda mi rianimò completamente e mi permise di imprecare con lucidità contro Katia e la sua maledetta irruenza per dei buoni minuti. Ogni volta che prendeva a parlare mi trovavo con dieci borse di Dolce&Gabbana in mano o peggio, a ballare sul cubo in discoteca! Era impossibile schiacciare lo stop, e prima che te ne rendessi conto, tac!, ti trovavi davanti al fatto compiuto. 
Chiusi l’acqua e uscii dalla doccia avvolgendomi subito nell’asciugamano che mi aveva preparato Katia; odiavo avvertire anche il minimo soffio d’aria sulla mia pelle bagnata. Presi un altro asciugamano più piccolo, stavolta rosa, e mi frizionai velocemente i capelli. La mia sosia allo specchio imitava alla perfezione ogni mio movimento, fissandomi con aria assorta dall’altra parte del vetro. Mi avvicinai, appoggiandomi al lavandino.
Non sono brutta, ma neanche nulla di speciale: i miei capelli sono banalmente castani e lunghi, e se fossero lisci e setosi potrei anche accettarlo, invece sono ribelli e tutti ondulati; ho un viso ordinariamente ovale su cui spiccano, per un puro caso genetico, un paio di occhi verdi e una bocca piccola e spesso corrucciata; sono alta nella norma, forse un po’ di più, e ho un fisico asciutto, in quel momento fatto risaltare ancora di più dall’asciugamano. Ragazze così però ne avrete viste a milioni, e a parte la voglia a forma di cuore che ho sulla mano destra io non differisco da loro in niente...
Sbuffai e allontanai quei pensieri che potevano affondare la mia autostima come una barchetta di carta e uscii dal bagno, rivolgendo solo un’ultima occhiata distratta al mio riflesso imbronciato. E quando per quei pochi attimi incrociai i miei stessi occhi, ebbi l’impressione di scorgere uno strano luccichio, quasi che loro sapessero, conoscessero già qualcosa a me negato.
Ma sapessero cosa?, mi chiesi tornando nella mia stanza.

«Kat?», chiamai incerta affacciandomi dalla soglia, indecisa se entrare oppure no.
«Mm-mm?», mugugnò una voce vagamente localizzata dalle parti del mio armadio. Perfetto...
«Tutto bene?», chiesi seriamente preoccupata, cominciando a muovere i primi passi nella stanza. Mi guardai intorno. «Ma che cazzo è successo qui? Che hai fatto?», gridai.
La mia stanza, se possibile, era ancora più disordinata dello standard massimo. Maglie, jeans, gonne, scarpe, camicie, pantaloni, canottiere, shorts, stivali e ciabatte erano sparsi in tutta la stanza, da sopra al lampadario a sotto il letto, ma principalmente sul pavimento.
Mi avvicinai all’epicentro di quello sterminio, raccogliendo man mano i caduti di guerra che incontravo lungo il mio cammino e spolverandoli amorevolmente con le mani.
Aggirai l’anta aperta dell’armadio, scavalcai una pila di riviste e piombai come una furia sulla causa di quel genocidio.
«Katiusha Kalinin!», tuonai con le mani sui fianchi. Sapevo quanto Kat odiasse il suo nome completo, e io mi divertivo a sfoderarglielo davanti ogni volta che mi faceva imbestialire.
Difatti, la mia amica sospirò lasciando cadere una maglia gialla che non sapevo neanche di avere e mi guardò facendo una smorfia. «Lisa, sai quanto odio il mio nome completo».
Dentro di me sorrisi. Oh, sì lo sapevo bene.
«Non me ne frega un tubo! Mi spieghi a cosa è servito scaraventare il mio armadio per la stanza? So ancora come infilarmi una maglietta decente, e sicuramente l’avrei trovata prima di te!», le strillai indicando il disastro che aveva combinato. Kat si alzò in piedi guardandosi intorno con la fronte aggrottata.
«Io non vedo alcuna differenza rispetto al disordine che c’era prima».
Ruggii e saltai al collo di Kat che, ridendo, mi schivò. Mi ripresi evitando di spiaccicarmi col muso a terra e tentai un nuovo placcaggio, riuscendoci stavolta. Atterrammo entrambe di peso sul letto, scompisciandoci dalle risate, e la finta rissa terminò lì.
«Che sceme che siamo, eh?», singhiozzai asciugandomi le lacrime.
«Soprattutto tu!», replicò Kat facendo una linguaccia. Stavolta non ribattei: era inutile, contro di lei. Solo in quel momento mi accorsi di essere avvolta solo in un misero asciugamano bianco.
«Accidenti, devo cambiarmi!», esclamai saltando giù dal letto. Con lo sguardo percorsi l’intera camera. E ora, come avrei fatto a raccapezzarmi in quella baraonda? Prima di aver capito dove mettere la mani sarebbero passati almeno qualche decennio! Presa com’ero dall’orrenda prospettiva di mettere tutto a posto prima di riuscire a recuperare i capi d’abbigliamento che cercavo, ovviamente gli ultimi sui quali avrei posato gli occhi, non mi accorsi di Kat che, silenziosa come una pantera, mi si era avvicinata, e sussultai dallo spavento quando mi posò sul petto una maglia.
«Che ne dici? Va bene questa?», mi chiese ridacchiando. «Sai, credo proprio che per il concerto sarebbe perfetta, insomma, tu ci stai da dio e in più è nera e dark, proprio come i Tokio Hotel, è perfetta ti dico, perfetta! Non la provi?».
La guardai inarcando un sopracciglio, stupita ancora una volta di come riuscisse a parlare così in fretta senza mangiarsi neanche una parola. Kat sembrò non notarlo, e anzi, sorrise sventolandomi sotto la naso la maglia, euforica. Sbuffai e afferrai rudemente la prossima causa del mio esaurimento nervoso, consapevole di aver acceso la miccia della bomba a scoppio immediato imbottita di commenti e gridolini eccitati su come sarei stata per-fet-ta per il concerto e baggianate simili.
«Io esco, tu vestiti e truccati e poi fatti vedere, nel caso serva qualche ritocchino... A dopo!», trillò Kat senza lasciarmi possibilità di replica. Quando finalmente rimasi sola, sospirai e mi stesi sul letto, stanca come non mai. Non aveva senso mettere adesso i vestiti che avrei indossato questa sera, si sarebbero spiegazzati e probabilmente li avrei macchiati, come facevo di solito quando aveva addosso qualcosa da tenere da conto. E poi, a pensarci bene, non ero sicura che la maglia che aveva scelto quella pazza della mia amica fosse davvero adatta per il concerto. D’accordo, era nera, stretta sotto il seno e poi libera, come andavano di moda adesso, e aveva un sacco di nastri e fiocchetti, però non riuscivo ad immaginarmela addosso. Io volevo distinguermi, volevo dimostrare di essere diversa da tutte le altre fan che mettono solo abiti neri per fingersi emo, dark o gotich. Volevo far vedere la vera me stessa a quei quattro sul palco, se mai mi avessero notata. Avevo il mio stile, non mi attirava l’idea di confondermi con la massa pur di dire “a me piacciono i Tokio Hotel”, anzi, non dovevo mostrarmi come tutte le altre!
Mi alzai dal letto e seguendo solo il mio istinto mi diressi verso la maglia gialla, abbandonata per terra; rimasi a fissarla un bel po’ prima di decidermi a prenderla in mano. La studiai: non era niente male, in fondo. Chissà perché non la mettevo mai... Sorrisi fra me e me mentre me la infilavo, immaginando la faccia scandalizzata di Kat quando mi avrebbe vista uscire combinata in quel modo: avrei sconvolto i suoi piani! Chissà, poteva essere la volta buona che rimanesse senza parole!
Risi forte e mi accucciai sotto la scrivania per recuperare il paio di jeans più frusto, graffiato e strappato che possedevo.

*

» Fine prima parte.

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Capitolo 2
*** Shopping! ***



2^ Parte


«Kat, se non la smetti di fissarmi così manderai a fuoco il mio specchietto. Non vuoi che ci schiantiamo e facciamo un incidente, vero?».
Kat non rispose, si limitò a lanciarmi un’ennesima occhiata fiammeggiante da dietro il mio sedile prima di voltarsi dall’altra parte come una bambina di cinque anni.
«Su, smettila di fare la vittima! Ti ho già detto che adoro il tuo stile e che hai un ottimo gusto, ma se proprio non mi andava di mettere quella maglia, non mi andava, insomma!».
Nessuna risposta. Sospirai per la decima volta in dieci minuti e tornai a concentrarmi di nuovo sulla strada liscia e regolare, scoccando di tanto in tanto un’occhiata supplichevole al passeggero corrucciato del sedile posteriore. Svoltai a una curva e il sole caldo e luminoso di mi accecò, tanto che dovetti frugare nel cruscotto alla ricerca dei miei occhiali da sole. Li infilai e riuscii per un pelo a intercettare un’occhiata sprezzante di Kat rivolta ai riflessi di luce dorati della mia maglietta che si riflettevano sugli interni dell’auto prima che questa tornasse a fissare il paesaggio fuori dal finestrino. “Pacchiana!” le si vedeva svolazzare nella testa.
Alzai gli occhi al cielo. Quando a Kat non andava bene qualcosa era praticamente impossibile distoglierla dalle sue macchinazioni per rigirare ogni sensata controbattuta in suo favore, finendo per esasperare la “vittima” e costringerla ad assecondarla.
Rallentai in prossimità di un segnale di stop e non appena la mia Peugeot 206 si arrestò docilmente, mi voltai ostentando sul viso la mia più efficace espressione da “ti-sto-chiedendo-scusa,-non-vuoi-un-dolcetto?” e affrontai di nuovo la belva, approfittando del breve momento in cui potevo guardarla negli occhi.
«Kat» chiamai dolcemente togliendomi gli occhiali da sole. «Lo sai che mi fa star male vederti così... Ti prego, facciamo la pace! Non sopporterei di andare al concerto con un pezzo di pietra, dai!».
Il viso della bionda rimase girato di lato, impassibile. Mi scostai una ciocca di capelli dagli occhi e riprovai.
«L’avrei di certo macchiata o sgualcita, o le avrei potuto appiccato fuoco rovesciandole addosso una birra e facendo cadere l’accendino mentre mi fumavo una sigaretta...». Kat mi fissò ad occhi sbarrati perciò capii di aver esagerato.
«Ok, ok, è praticamente impossibile anche per me, ma come minimo avrei potuto strapparla! E come posso andare al concerto con la maglia a brandelli? Non posso, esatto». Vidi un angolo della bocca di Kat tremare nel tentativo di non scoppiare a ridere e sorrisi, sicura di riuscire a farla cedere a breve.
«Ti immagini la faccia di Bill? Il signorino “devo-stare-attento-che-non-mi-si-spezzi-un’-unghia” farebbe un colpo se mi vedesse! Cadrebbe sicuramente ai miei piedi, anche se privo di conoscenza...».
Kat sbuffò forte dal naso mordendosi le labbra per non lasciarsi sfuggire nemmeno un risolino e io, approfittando della ridarella facile della mia amica, rincarai la dose.
«E Tom? Ah, per lui non farebbe differenza, anzi, se mi presentassi al concerto direttamente in reggipetto scoppierebbe di gioia! O di qualcos’altro...».
Ormai non ci trattenevamo più, ridevamo come imbecilli!
«Aspetta, aspetta! E non hai pensato a Georg? Lui...». Un clacson mi fece sobbalzare, distogliendomi dalle mie allegre fantasie. Mi girai di nuovo verso il semaforo, accorgendomi seccata che era già verde. Il tipo dietro, un ometto sulla cinquantina abbarbicato al volante della sua Multipla grigia, continuava a suonare, incapace di aspettare anche solo che infilassi di nuovo gli occhiali e ingranassi la marcia, mi stava facendo innervosire! Stavo per aprire il finestrino per fargli ammirare lo strato di smalto nero accuratamente steso sull’unghia del mio dito medio quando Kat mi precedette. Premette con violenza il tasto che regolava l’abbassamento dei finestrini e si sporse fuori con tutta la testa e perfino le spalle.
Nei secondi che seguirono cercai di ricordarmi più volte che Kat era mia amica e che le volevo bene, eppure non riuscii a non sprofondare sempre più nel mio sedile fin quasi a schiacciare col naso l’acceleratore, tentando invano di ignorare il fiume in piena di improperi e maledizioni che il mio passeggero sputava addosso all’ignaro conducente dietro di noi. Infine, dopo una grandine di accidenti che avrebbe ridotto in macerie tutta Bologna, Kat ritirò la testa e si sedette composta borbottando qualcosa come “certa gente dovrebbe girare solo in triciclo”, mentre io mi raddrizzavo quel tanto che bastava per riuscire a vedere la strada. Senza aspettare nemmeno che chiudesse il finestrino, misi la prima e mi allontanai sgasando, terrorizzata che l’uomo alla guida della Multipla grigia riuscisse a prendere il mio numero di targa.
«Lisa, dove sei finita?» sentii chiedere da dietro il mio sedile. Aspettai di essermi allontanata ancora qualche metro prima di agitare una mano per segnalare la mia posizione e riemergere.
«Che ci facevi là sotto?».
«Mi erano caduti gli occhiali» borbottai. Inutile discutere della spiacevole faccenda appena conclusasi.
«Ma hai visto quel tipo? Chi si credeva di essere?! Meno male che gliene ho dette quattro, altrimenti avrebbe di certo aggredito altre povere fanciulle innocenti al semaforo, e non avrei potuto tollerarlo, sai quanto odio i tipi così!, mi fanno venir voglia di...».
«Kat, ci ha solo suonato dietro perché il semaforo era verde» bofonchiai senza riuscire ad attirare l’attenzione della mia amica, troppo infervorata del suo racconto.
«... e non ha nemmeno saputo rispondere! Un codardo, quindi, oltre che un molestatore di donzelle indifese!».
Ecco, ci mancava pure la donzella indifesa. E Kat si stava accanendo in quel modo solo perché quel tizio non aveva avuto troppa pazienza! Se mai un qualcuno dalla disperata voglia di suicidarsi l’avesse superata alle casse del supermercato, sarebbe scoppiata una guerra atomica!

La giornata era splendida, non c’era nemmeno una nuvola in cielo. Il concerto sarebbe stato fantastico, lo sentivo. Provai a continuare a prestare attenzione ai vaneggiamenti di Kat, ma la mia mente si rifiutava di collaborare e il dolce dondolio dell’auto induceva meravigliosamente alla meditazione. Ancora una volta mi ritrovai a fantasticare su di Loro, attendendo impaziente ogni curva come se dietro di essa fossero appostati tutti e quattro con un cappellino a cono in testa pronti a farmi “buh!”. Lo ammetto, la mia immaginazione è decisamente infantile e assolutamente fuori controllo. Un difetto dovrò pur averlo, no?
Così, persa nella mia testa, lasciavo che fosse la macchina a guidarmi invece del contrario, permettevo alle ruote di svoltare su vie familiari, congeniali ai pneumatici e rilassanti per il motore. Senza rendermene conto imboccai la solita strada che facevo per andare a scuola.
«Fermati, Lisa! Dove stai andando? Dovevi andare dritta invece che girare a destra! Il centro commerciale è per di là!» sbraitò immediatamente Katia, allungandosi a scrollarmi una spalla. Tornai alla realtà così bruscamente che d’istinto inchiodai e per poco non tamponai la vettura che mi precedeva. Non stavo guidando a velocità troppo sostenuta eppure il contraccolpo della cintura di sicurezza mi tolse il fiato per un momento. Anche Kat fu sbalzata all’indietro ma non ebbe troppi problemi a recuperare altra aria da espellere.
«Porca... Ma dove hai la testa? Volevi farmi morire di paura? Cazzo, se vuoi che sia io a guidare non farti problemi a dirlo, metti da parte un momento il tuo orgoglio, ma non farci ammazzare tutte e due!».
Non la stavo ascoltando. Avevo lo sguardo fisso nel vuoto e il cervello, compresso e narcotizzato, sparato alla velocità della luce nello spazio. Prima di riuscire a formulare di nuovo un pensiero mi ci vollero alcuni minuti, durante i quali Kat non la finì un momento di blaterare e la coda di auto dietro di noi di suonare i clacson all’impazzata. Infine, lo stesso lampo che mi era balenato nella testa, la causa della mia frenata così brusca, riaffiorò dalle pieghe della mia memoria.
“Ho visto qualcosa...”, fu la prima cosa che mi passò per la mente. Non appena accettai questo fatto, il mio cervello, schizzato indietro a velocità ancora più elevata dall’universo alla mia scatola cranica, parve decomprimersi e sospirare di sollievo. Misi di nuovo a fuoco la realtà che mi circondava e trovai perfino la lucidità per aprire la portiera a Kat, che prese il mio posto da guidatore, e infilarmi, malferma, di nuovo in macchina, stavolta dalla parte del passeggero posteriore. Prima di ripartire accennai un gesto di scuse attraverso il lunotto alla donna corrucciata e impaziente che guidava una Mini verde polveroso a pochi centimetri dalla mia Peugeout 206.
Con uno scatto rabbioso, Kat ingranò la prima e si lasciò alle spalle la coda insofferente di uomini in scatola.

Nei seguente dieci minuti nell’auto non volò una mosca. Poco più avanti, Kat scovò un parcheggiò e praticò una disinvolta inversione a U che ci riportò nella direzione giusta, imboccò con decisione la svolta adatta e proseguì ad un’andatura meno sciolta del solito ma in ogni modo naturale. Il tutto nel silenzio più assoluto. Per un certo verso non mi dispiaceva: avevo il tempo e la concentrazione adatta per pensare e cercare di ricordare quello che avevo visto, un’immagine sempre più sfocata e confusa che man mano si stava ritirando verso gli angoli della mia memoria, ma d’altra parte sentivo il bisogno di parlarne con Katia, e subito, nonostante ancora non me la sentissi di aprire bocca.
«Insomma, che ti è successo?» sbottò di punto in bianco Kat mantenendo la testa rigidamente voltata in avanti. Provai inizialmente un tiepido moto di gratitudine verso la mia amica dovuto al sollievo che fosse stata lei a prendere la parola, un sollievo che subito la fiamma fredda della risposta che mi bruciava dentro spense.
«Non mi crederesti» mugugnai spremendomi il cervello per ricavarne ancora almeno un invisibile filamento di ciò che stavo lentamente dimenticando.
«Prova a spiegarmelo lo stesso. Un colpo di sonno? Hai riposato male? O forse un malore?». Lo sguardo azzurro che si rifletteva nello specchietto anteriore si fece improvvisamente cupo. Scossi la testa.
«Sei fuori strada. Io sto bene. È stato come... un flash. Un lampo. Un’immagine, credo, che si è sovrapposta alla realtà e mi ha spaventato. Non so come descriverlo, faccio fatica a riviverlo...». Un gemito di frustrazione mi rimase incastrato tra i denti mentre
strizzavo gli occhi, concentrata al massimo. Un dolore acuto alla tempia mi perforò il cranio da parte a parte. Mugolai.
«Cioè, hai avuto una specie di visione? Giusto?» azzardò Kat, strascicando le parole una a una come se dovesse ricredersi subito dopo.
«Sì, probabilmente. Un’apparizione, una manifestazione di un qualcosa fottutamente trascendentale, che ne so. Non riesco a ricordare bene...».
«Smettila di pensarci, allora. Vedrai che ti tornerà in mente prima o poi» consigliò saggiamente la mia amica. Sospirai volgendo il mio sguardo al paesaggio sfocato fuori dal finestrino, in cerca di qualcosa che potesse tamponare quel buco nero che era la mia memoria a breve termine. Centinaia di automobili sfrecciavano al mio fianco, chi più chi meno veloci, o nuove, o sfasciate, o impolverate, o tirate a lucido, ognuna comunque attirava su di sé i raggi di sole e rifulgeva di essi... rifulgeva... riful...
Una fitta alla testa. Luce. Tanti piccoli dischi di luce. Anche dei numeri, forse. Pareti luccicanti... Ah, se solo non mi fosse girata tanto la testa! Annaspavo. Delle mani mi tiravano, mi toccavano con prepotenza, mi martellavano nella testa con le loro calde voci silenziose...
Buio.

_

Lisa! Lisa! Oh, Santissimo... Lisa!».
Riemersi sputacchiando e inspirando profondamente. Due mani mi schiaffeggiavano leggermente le guance e due occhi azzurri mi fissavano preoccupati. Katia.
Mi rizzai a sedere tanto in fretta che mi girò di nuovo la testa.
«Che è successo?» domandai con un filo di voce. Mi accorsi di essere stesa sul sedile anteriore della Peugeout. La macchina era ferma ad una piazzola di servizio con le quattro frecce accese e tutte le porte aperte. Kat mi ricacciò indietro.
«Per piacere, stai giù! Hai avuto un mancamento perciò ho mi sono fermata il prima possibile. Hai gridato qualcosa mentre eri svenuta, sembravi posseduta! Mi hai fatto morire di paura...». E per la prima volta dopo anni e anni, Kat non seppe più cosa dire. Rimase senza parole, un avvenimento talmente raro cui temevo non assistere mai.
Nota: svenire più spesso. Se portava a quegli effetti...
Sbattei gli occhi, confusa, tentando di ricostruire l’accaduto.
“Allora, cominciamo dall’inizio. Stamattina svegliata presto, andata in cucina per terrorizzare Daniel, mangiato nutella con peperonata di zia Lidia, preso macchina per andare al centro commerciale con Kat, avuto visione allucinante... Ecco, ci siamo. È stata quella visione! L’ho avuta di nuovo. O forse era solo una specie di richiamo, come col vaccino... L’ho dimenticata e per questo loro me l’hanno fatta ricordare. Efficace, certo... Ma... Un attimo... ‘Loro’ chi?”.
«Come stai? Lisa, ti prego, parlami, sono davvero terrorizzata!» mormorò Kat con un filo di voce. Mi sollevai, più lentamente di prima, su un braccio e la fissai. Aveva gli occhi sbarrati e lucidi, il mento le tremava e sembrava non riuscire a smettere di arrotolarsi un lembo della sua maglia bianca Hello Kitty attorno al dito. Mi faceva una tenerezza incredibile.
«Kat, tranquilla. Sto bene. Ho avuto un mancamento, mica sono morta. Capitano a tutti, giusto? E poi con questo caldo è più che normale... Contando che stasera andiamo al concerto, poi, era praticamente inevitabile!». Tentai di sorridere per sdrammatizzare e i muscoli del mio viso si tesero dolorosamente, come se fossero stati anni che non aprivo bocca.
«Vuoi tornare a casa?» mi domandò apprensivamente Katia, tastandomi la fronte per sentire se avevo la febbre. Scostai dolcemente la sua mano, mettendomi dritta.
«Ma no, sto bene. A te serve una maglietta nuova e quindi andiamo a comprarti una maglietta nuova!».
«Però...».
«Taci! Niente ‘però’! Non voglio sentirti protestare! Non ho niente che m’impedisca di consigliarti a dovere come una buona amica dovrebbe fare, perciò metti in moto prima che ti spedisca al centro commerciale a pedate!».
Kat mi sorrise, mormorò un grazie e corse a sedersi al posto del guidatore asciugandosi di nascosto le lacrime.

_

«Sai, non lo ricordavo così grande».
Kat seguì il mio sguardo lungo la costruzione scrostata fino ad arrivare alla cima in vetro, che ammiccava invitante agli affannati compratori. Finalmente, dopo tutte le peripezie che avevamo affrontato durante il viaggio, eravamo arrivate a destinazione. Quasi non ci credevo!
«Già, anch’io me lo ricordavo più piccolo... Sarà perché non ci veniamo mai. Dobbiamo organizzare più spesso missioni esplorative qui dentro, che ne dici?», ridacchiò la biondina punzecchiandomi i fianchi con le dita. Mi scansai di lato e le afferrai i polsi per impedirle di attaccarmi di nuovo.
«Sono perfettamente d’accordo, ma se ora non ci sbrighiamo non troveremo nemmeno un calzino bucato! Muoversi, dentro!», ordinai fingendo imperiosità.
«Agli ordini, mio despota!», esclamò Kat mettendosi sull’attenti. Ci prendemmo a braccetto e ridendo e barcollando come una coppia di ubriache attraversammo le doppie porte scorrevoli.
«Allora, è di là, vero?».
«Be’, se non hanno scambiato i reparti, sì, è di là».
«Eccoci. Ah, il mio paradiso... Dunque, io avevo in mente un qualcosa come questa qui. Che ne pensi?».
«Non male, non male... Ma non ti sta meglio qualcosa di più chiaro, con la tua carnagione?».
«Nooo, questa va benissimo! Perfetto, poi ques... Oh mio Dio, Lisa! Guarda chi c’è!».
«Chi?».
«Marco! Il tipo della festa! Quello moro, davanti al camerino, hai capito chi, no? Oh, cazzo. Si è girato da questa parte! Vieni qua, scema, nascondimi!».
«Ahia, Kat, che mi tiri?! Si può sapere perché non vuoi vederlo?».
«Alla festa è successo un casino, ti spiegherò più tardi. Ti dico solo che è colpa sua se non ho più la mia maglia nera...».
«Vuoi dire che ha provato a...?».
«Shhhh! Shhh! Smettila di parlarmi! Oh, no, viene verso di noi... Ecco, è stata tutta colpa tua!».
«Scusa, ma non è tanto facile comportarsi naturalmente con una che ti tira tutta la maglia da dietro!».
«Insomma, ti lamenti sempre! Adesso comportati con naturalezza, mi raccomando, non voglio far brutte figureeecciaaaaaaao, Marco!».
«Salve ragazze! Anche voi a far compere?».
«Sì, ci dobbiamo addobbare per bene per il concerto di stasera, giusto, Lisa?».
«Ahiu! Eh, eh sì, abbiamo tante cose da comprare...».
«Allora vi lascio, ci vediamo in giro. Ciao!».
Non appena Marco sparì alla vista, mi voltai con uno sguardo che uccideva (letteralmente) e fulminai Katia.
«Che bisogno c’era di darmi un pizzicotto del genere? Mi avrai lasciato il livido, cretina!» piagnucolai massaggiandomi la schiena. Katia incrociò le braccia al petto e mi polverizzò con un’occhiata altrettanto letale.
«Sembravi un baccalà, ho dovuto farti reagire! Sapevi che avevo bisogno di aiuto, e...».
«Sì, tu e il tuo “addobbare”, mica siamo alberi di natale!».
«Insomma, ero in imbarazzo, per la miseria! E tu non mi hai dato una mano per niente!».
«Ok, ok, time out. Stare a litigare per quello non ne vale la pena. Dobbiamo concentrarci sulla nostra missione!».
«Hai ragione, pace... Dunque, ti dicevo, una maglietta del genere...».

. . .

[Moooolto tempo dopo]

«Kat... Uff... Una mano...».
Katia si girò guardandomi innocentemente dall’alto del suo metro e settantatre. In una situazione normale io superavo la mia amica di qualche, fondamentale, centimetro, ma sotto il peso eccessivo di cinque borse stracolme mi sentivo nettamente più bassa. Katia, dicevo, si osservò le mani pallide e affusolate.
«Cos’ha che non va la mano? È per la forma strana del pollice della destra, vero? Non ci posso fare nulla, ho cercato di correggerne la direzione, ma quello non ne vuole sapere!».
Sbuffai e mi sostenni al parapetto delle scale, riprendendo fiato.
«No, Kat, le tue mani sono bellissime. Ti stavo chiedendo se potevi darmi una mano a portare le borse. In fondo è roba tua» spiegai con pazienza. Inspirai a fondo e tossii. Ero tutta sudata e l’aria condizionata mi stava irritando la gola. Acqua, acqua!
«Lo sai che ti aiuterei volentieri, Lisa, ma sono appena andata a farmi la manicure, mi si creperebbe lo smalto. E non posso rischiare di avere un’unghia diversa dalle altre, non stasera!» spiegò la bionda con decisione.
Certo. Lei non doveva rovinarsi la manicure, ma io potevo tranquillamente già segnarmi sull’agenda tre anni di ginnastica correttiva per l’accenno di scoliosi che ero sicura mi fosse venuto quel giorno.
«Avanti, energia, andiamo!», trillò Kat saltellando giù per le scale. Una lunga rampa di scale. Una lunghissima rampa di scale. Un peso mi precipitò in fondo allo stomaco. Mai, mai ce l’avrei fatta ad affrontare quelle scale! Le conoscevo bene, e avevo già avuto la mia brutta esperienza dovuta a un gradino inspiegabilmente scivoloso e a un corrimano di cartapesta. Ma questa è un’altra storia.
Mai, mai ce l’avrei fatta ad affrontare quelle scale.
«Ehm, Kat?», chiamai, impalata sul primo scalino. Solo al secondo richiamo, più forte del precedente, Katia e circa qualche decina di persone si girarono. «Senti, sono distrutta, non credo di riuscire ad affrontare anche le scale... Facciamo così, io prendo l’ascensore e poi ci troviamo fra due minuti all’uscita, davanti alla macchina. D’accordo? Bene, ciao» affermai dirigendomi verso le due porte argentate che s’intravedevano fra un negozio di articoli sportivi e uno di alimentari.
«Ma dai, aspettami vengo con te!», esclamò Kat scapicollandosi di nuovo su per raggiungermi.
«No!» la fermai. Kat era deliziosa, una bella persona e molto piacevole, ma un intero pomeriggio non-stop con lei induceva a pensieri allettanti di lamette e cornicioni mooolto alti. Insomma, stavo rischiando l’overdose, e quei cinque minuti di silenzio dondolante nell’ascensore sembravano essere la mia unica cura.
«Stai tranquilla, vado da sola! Tu sei già a metà scala, non ha senso tornare indietro! E poi forse devo fermarmi anche in quella fumetteria...». Era la parola magica. Per Katia, la fumetteria del centro equivaleva all’acqua santa per il diavolo. Difatti, la sua espressione mutò completamente.
«Ah, devi passare in fumetteria? Perché non me l’hai detto subito? Allora ci vediamo fra dieci minuti alla macchina, ok? Ciao!». Svanì ancora prima che registrassi completamente il senso delle sue parole.
Più leggera di dieci chili (senza contare borse e borsette varie, ovviamente), trotterellai verso l’ascensore. Premetti il bottoncino luminoso e osservai deliziata le porte aprirsi, come per magia. Era vuoto. Mi infilai dentro il più agilmente possibile, stiracchiandomi deliziosamente non appena potei mollare le borse a terra, felice di essere felice. Schiaccia il bottone del piano terra, e aspettando che gli ingranaggi si mettessero in funzione, presi a guardarmi attorno, lieta che le pareti rivestite di metallo argentato non apparissero claustrofobiche come avevo immaginato e che le sbarre fissate ai lati sembrassero così sicure; presa dal mio test sulla solidità dei sostegni, quasi non notai che un attimo prima che le porte si chiudessero un altro passeggero s’era introdotto frettolosamente nella fessura rimasta aperta. Riuscì a passare per un pelo, perse l’equilibrio e si aggrappò alla sbarra dal lato opposto al mio imprecando in una lingua sconosciuta. Mi trattenei a stento dallo scoppiare a ridergli in faccia.
Era vestito in modo particolare, ricercato, mezzo rapper e mezzo metallaro, con quegli occhiali da sole che parevano coprirgli tutta la faccia, il cappuccio in testa e degli abiti in cui sarebbero potute entrare comodamente almeno altre due persone. Un tipo interessante, a mio parere. Magari, in un’altra occasione non avrei esitato ad attaccare bottone, ma scossa com’ero non mi pareva proprio il caso. Rimasi ad osservarlo mentre si lisciava frettolosamente la felpa e si rintanava disinvoltamente nell’angolo più lontano da me. Mi resi conto di ricredermi riguardo le mie supposizioni di conquista. Non era molto più alto di me, e nemmeno più grande o più intelligente (certe cose le capivo alla prima occhiata), eppure riusciva ad incutermi una paura quasi reverenziale nei suoi confronti. Non sarei mai riuscita a rivolgergli la parola.
L’ascensore fece un tremito e il piacevole senso di vuoto allo stomaco mi segnalò che finalmente stavamo scendendo. Scrollai le spalle per scacciare il brivido freddo corsomi lungo la schiena e mi affrettai a radunare tutte le borse rimanendo saldamente attaccata al corrimano.
Neanche un minuto dopo, quando più o meno ci trovavamo a metà strada, sentimmo dei rumori sinistri e preoccupanti, e fra cigolii e scossoni l’ascensore si bloccò.

*


Fine seconda parte.


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Capitolo 3
*** L'Ascensore ***




3^ parte



All’ennesimo scossone le mie gambe cedettero e caddi di peso sopra la piccola montagna di borse, le quali attutirono il colpo anche se non tanto quanto mi aspettavo. Provai a tirarmi su, ma i continui sussulti mi facevano perdere l’equilibrio, perciò mi arresi e decisi di aspettare, frustrata. Finalmente, la piccola gabbia di metallo cigolò lamentosamente un’ultima volta e si fermò. Mi rialzai sbuffante, tremando e barcollando, piegata in due dal dolore al mio povero sedere, più volte vittima di un’ennesima dimostrazione della giustezza della forza di gravità. Mi massaggiai il punto dolente lamentandomi e gemendo in maniera indecente per parecchio tempo prima di ricordare di non essere sola. Il mio compagno di viaggio, ovviamente, mi stava fissando. Che scena patetica, patetica!, pensai, rossa d’imbarazzo, tentando invano di ricompormi. Il misterioso passeggero non sembrava contrariato, o scandalizzato, anzi, mi osservava con curiosità, tranquillo, ostentando sul viso un sorrisetto malizioso.

“Anzi, irritante”, mi corressi. A uno così avrei volentieri dato una bella lezione in un parcheggio solitario, se solo non fossi stata bloccata in quell’ascensore che... Oh, giusto! L’ascensore!
Un brivido di panico mi scese giù per la schiena; come aveva potuto il semplice sorriso di uno sconosciuto farmi dimenticare tutto il resto?! Mantenendo a freno l’agitazione che mi scorreva nelle vene come adrenalina mi avvicinai alla pulsantiera (che, guarda caso, si trovava di fronte al mio passeggero) cercando il bottone di allarme.
«Proprio a me doveva capitare» borbottavo. «Come se oggi non fossi già abbastanza agitata di mio per il concerto e per Kat... Ma perché cazzo non c’è il bottone d’allarme?», urlai tirando un pugno alla parete dopo un ennesima perlustrazione dei minuscoli pulsantini scoloriti. Il mio misterioso compagno sobbalzò per la sorpresa. Nemmeno lo guardai.
In preda a una paura cieca, cominciai a schiacciare tutti i bottoni dai numeri indecifrabili, uno per uno, senza ricevere risposta. Oddio, se non fossi uscita subito da lì sarei impazzita! Ma dov’era, dov’era quel bottone fottuto?
Tirai un calcio alla parete ruggendo per il disappunto e improvvisamente due mani forti e grandi mi presero i polsi. Dietro il vetro protettivo degli occhialoni neri, il ragazzo mi guardò con tenerezza (era quello che potevo solo supporre) prima di chinarsi sulla pulsantiera con un’espressione impassibile e mettersi a studiarla con attenzione e sistematicità. Respirai forte, tentando di calmarmi mentre mi ripetevo ossessivamente che sarebbe andato tutto bene e che sarei uscita subito. Dopo qualche secondo il giovane sospirò e mormorò qualcosa che assomigliava a “scheisse” prima di voltarsi a cercare il mio sguardo e stringersi nelle spalle, allargando le braccia. Anche lui aveva fallito.
Lo stomaco mi precipitò fino alle caviglie. Le labbra cominciarono a tremarmi.
«Non è possibile. No... Non dirmi che rimarremo chiusi qui dentro! No! No! Non oggi! No! Non io!». Il respiro mi era diventato affannoso, le pareti mi comprimevano, sempre più vicine, sempre più vicine, il soffitto mi sembrava lontanissimo e la luce girava, girava, girava...
Caddi a terra, prendendomi la testa fra le mani. Un ronzio soffocante mi rimbombava nelle orecchie, quasi sovrastato dai miei stessi ansiti, pesanti e faticosi di nausea. Non immaginavo di essere claustrofobica, non lo sapevo. Cioè, gli ascensori mi avevano sempre messa a disagio, come le piccole stanze, i tunnel e gli sgabuzzini, ma non avevo mai creduto di poter arrivare a questo punto! Aria, avevo bisogno d’aria!
Il ragazzo si inginocchiò accanto a me, sinceramente preoccupato, facendomi vento con le mani. In pochi secondi riuscii ad aprire la morsa delle mia mani e a tornare a respirare quasi tranquillamente. Lo sconosciuto, più pallido di un cencio, mi sorrise, sollevato. Mi sembrava impossibile che un ragazzo con cui ero in ascensore da neanche cinque minuti e che non aveva ancora aperto bocca si preoccupasse tanto per me.
«Sto bene, sto bene» biascicai appoggiandomi al pannello metallico dietro di me per alzarmi. Vi abbandonai contro la testa e chiusi gli occhi, ansimando, il petto schiacciato da un peso troppo opprimente perché potessi sopportarlo a lungo.
«Are you ok?».
In un primo momento, credetti di aver solo immaginato quella voce calma e profonda al mio orecchio. Solo poi mi resi conto di aver udito parlare per la prima volta il ragazzo misterioso.
«Oh, you aren’t...! Sorry, I thought... Yes, I’m... fine» balbettai, troppo imbarazzata dall’aver conversato animatamente con uno straniero che non capiva un’acca dei miei vaneggiamenti per ricordare le nozioni fondamentali della lingua inglese.
«Are you English?» domandai timidamente per distrarmi dal dolore acuto che mi attorcigliava le budella. Lo sconosciuto sorrise, scoprendo due file di denti bianchissimi. Uno sfavillio metallico occhieggiò dal suo labbro inferiore.
«No, I’m German».
Con uno scatto di ingranaggi che finalmente cominciavano a girare per il giusto verso, il mio cervello si accese e in un nanosecondo fece due più due.
Ricapitolando. Il ragazzo era tedesco, non dimostrava più di diciotto anni, alto un metro e un lampione, vestiva abiti esageratamente larghi e aveva un piercing al lato sinistro della bocca.
I miei occhi si sgranarono all’inverosimile quando, tanto per completare il puzzle, da sotto il cappuccio mimetizzante della felpa-tendone, scorsi un rasta biondiccio.
Ok.
Ok.
Non. Era. Possibile.
Ok. Calma.
Lanciai un urlo che per poco non perforò le porte blindate dell’ascensore e che fece fare al ragazzo un salto all’indietro dallo spavento. Le ginocchia, già molli di natura, mi cedettero di nuovo e scivolai sul pavimento gelato.
«T-t-tu... tu...». Con il dito tremante indicai il poveretto. «Tu... tu sei...». La bocca mi rimase spalancata e cascante.
L’ormai non più sconosciuto sospirò, rassegnato all’inevitabile, e lentamente si tolse occhialoni e cappuccio.
Una pioggia di dread color miele cadde sulle sue spalle magre. Uno sguardo nocciola caramellato mi trafisse da parte a parte. E il piercing scintillò ancora, ancora e ancora, riflesso cento, mille volte dalle pareti, tutt’attorno a me.
Cazzo.
Ero bloccata in ascensore con Tom Kaulitz. Tom Kaulitz!
Ora sì che avevo bisogno d’aria.

_

{Per comodità, tutti i dialoghi descritti qui di seguito, anche se in lingua tedesca, li scriverò in italiano, essendo io l’esatto contrario di una poliglotta xD}

«E così...».
Non completai la frase. Troppa fatica.
«Già» rispose Tom.
Ce ne stavamo entrambi stesi a terra con la testa appoggiata al pannello metallico di fronte alla porta, indolenti. Era passata quasi un’ora da quando eravamo rimasti chiusi lì dentro e ancora nessuno si era fatto vedere. Dopo un’ennesima ispezione alla pulsantiera avevamo scoperto il pulsante d’allarme, un minuscolo bottoncino praticamente a livello soffitto che, ovviamente, era stato sfasciato da qualche irresponsabile teppista.
A un certo punto Tom aveva avuto l’illuminazione di tirare fuori il cellulare, che però, non appena aveva avviato una chiamata, si era spento. Batteria scarica. E il mio, per paura dei ladri al concerto, l’avevo lasciato a casa. Che sfiga bestiale.
E così, eccoci lì, in maniche corte, accaldati, sudati per la forzata permanenza sotto il calore della luce sopra la nostra testa, costretti ad appoggiarci alle pareti gelate per trovare un po’ di refrigerio. Almeno la nausea era passata.

Dopo i primi minuti di imbarazzanti gridolini, occhi sgranati e luccicanti, bavetta alla bocca e domande biascicate, reverenziali fino all’assurdo, a cui, fra l’altro, Tom aveva reagito piuttosto bene, io e il chitarrista di fama mondiale ci eravamo lasciati cadere a terra, vicini ma troppo sfiniti anche solo per alzare una mano.
Ogni tanto mi veniva in mente una domanda che non gli avevo ancora rivolto, gliela proponevo e lui decideva se rispondere (sempre esaustivo anche se senza entusiasmo), o tacere, facendomi capire di essermi permessa troppo.

Il tempo passava e io avevo sempre più sete e fame. Il luccichio delle paillettes che adornavano la mia maglia m’ipnotizzava, rendendo difficile tenere ancora gli occhi aperti.
«Come conosci il tedesco?».
Ancora una volta, quella voce setosa, baritonale, così piacevole all’udito, mi fece rabbrividire e battere fortissimo il cuore.
Deglutii e la lingua secca mi raschiò la gola.
«Mio padre è di Berlino. Quando si è sposato è venuto a vivere qui, in Italia, anche se a malincuore. È stato lui che fin da piccola insisteva per farmi apprendere il tedesco. Amava troppo la sua città, però, e troppo poco mia madre. Dopo qualche anno, quando mamma era incinta di mio fratello, svanì nel nulla».
Raccontai di mio padre senza tristezza né rimpianti, mantenendo senza fatica la voce ben ferma. Per me, quell’uomo era solo un bastardo che non meritava nemmeno di essere chiamato genitore: lo odiavo.
«Mi dispiace» mormorò Tom voltandosi a guardarmi.
«A me no». Il sussurro che mi scivolò fuori dai denti suonò come un ringhio. Lo odiavo. Lo odiavo. Lo odiavo!
Fissai le mie scarpe da ginnastica fino a renderle sfocate e indistinte, cercando di concentrare l’odio che mi bloccava la mascella nei miei occhi, fino a friggere i lacci delle sneakers; ovviamente non ci riuscii, allora mi calmai.
«Anche mio padre non era il massimo, sai?», disse Tom. «Ha lasciato mamma quando io e Bill eravamo piccoli».
«Lo so» sorrisi debolmente.
«Ah, già. Tutti sanno tutto, ormai». Fece una smorfia. «Dici che cronometrino anche quanto tempo passo in bagno?» e mi abbagliò di un altro sorriso mozzafiato. Dopo qualche secondo, indispensabile per riprendere a respirare, sorrisi:
«Magari ci stanno provando!». Entrambi ridemmo sommessamente.
«Mi parli ancora un po’ di tuo fratello e dei tuoi amici?» supplicai, bruciante di curiosità. Tom sbuffò, ma bonariamente, e anche se probabilmente aveva la gola più secca della mia, si lanciò nel resoconto completo della loro ultima tappa a Roma.
Ad un certo punto, com’è normale, cambiò posizione, e la sua spalla sfiorò la mia. Il cuore mi andò a mille, facendomi rimbombare il sangue nelle orecchie. Mio Dio, potevo sentire il suo profumo... sapeva un po’ di sudore, dopo tutto quel tempo sotto il neon, ma era indescrivibilmente buono.
Ignorando il caldo soffocante, anch’io mi spostai impercettibilmente più in là, trovando la sua mano proprio sotto la mia. Trattenei il fiato, combattuta se spostarla o no: osavo troppo? D’altronde, un’occasione così non sarebbe mai più capitata. A liberarmi dal peso dei dubbi ci pensò Tom, il quale si zittì, osservò con curiosità le mie dita posate sulle sue e sorrise dolcemente; poi riprese a raccontare come se nulla fosse accaduto.
Non spostò la mano di un centimetro.
In quel preciso momento, ebbi la chiara e travolgente sensazione di essere la persona più felice del mondo.

«Ma ancora non mi hai detto che ci fai qui, in questo centro commerciale sperduto e desolato. Non hai un concerto fra poche ore?» gli domandai per non cominciare a costruire troppi castelli in aria. Tom si batté una mano sulla fronte.
«Merda, il concerto! Me ne stavo dimenticando!».
«Come puoi dimenticarti di dover fare un concerto?». Ero piuttosto scettica all’idea che ciò fosse possibile.
Il ragazzo mi guardò come se fossi una contadinotta che non sapevo nulla di show business (ed effettivamente era vero) prima di fare una smorfia buffissima.
«Quando devi salire sul palco un giorno sì e uno no non è poi così difficile confondersi con le date o sperare di avere una serata in più di riposo. Anche se, a dire la verità, sei stata tu a farmi dimenticare tutto: sto troppo bene qui con te per pensare ad altro».
Il viso mi si colorò all’istante di una sfumatura violacea. Aria, aria, aria!
«Guarda che non mi incanti con le tue belle frasi fatte» balbettai con decisione, nonostante la mia espressione gridasse a lettere lampeggianti il contrario.
«Dico sul serio» rincarò Tom sorridendo sornione. «Sei la persona più piacevole che mi è capitato di incontrare nelle ultime ventiquattr’ore, e anche di aspetto non sei affatto male». I suoi occhi scivolarono lungo il mio corpo rannicchiato, scintillanti di una fame che non sarei mai riuscita a saziare. Gli schiaffeggiai lievemente il braccio.
«Perdi tempo a flirtare con me, bello: non riuscirai a portarmi a letto». Di nuovo, la mia espressione di venerazione non troppo nascosta smentì tutto lampeggiando ancora più luminosa.
«Scommettiamo che prima che vengano a recuperarci ti avrò convinta?» mormorò con voce di velluto il ragazzo facendosi più vicino. Come reazione io mi allontanai, stringendo le mascelle per resistere all’istinto bruciante di avvicinarmi che, nascosto in un parte imprecisata del mio stomaco, mi tirava dall’altra parte. Se qualcuno non fosse arrivato subito, mi sarei spezzata in due, era sicuro!
«Provaci» mugugnai a denti stretti. Tom ridacchiò, tranquillissimo, e scivolò lungo la parete fino a trovarsi all’angolo opposto contro il quale mi ero raggomitolata io.
«Non mi sforzerò neanche, tanto sarai tu a venire da me». E rise, cristallino.

Il tempo passava e i suoi occhi erano sempre lì. Non mi lasciavano un istante, mi tenevano loro prigioniera, gentili di una cieca brutalità, pesanti come pietre, ammalianti come cristalli dalle più lucenti sfaccettature.
Ed erano sempre lì.
Come poteva restarsene immobile per così tanto tempo? Non sembrava nemmeno battere le palpebre, come fosse stato una statua dai lineamenti angelici, immutabile quanto bella. Era irritante!
«Hai intenzione di fissarmi e non dire niente ancora a lungo?» sbottai dopo fin troppo tempo passato a cacciarmi di nuovo giù in gola quella domanda. Tom sorrise e non rispose.
«Sarebbe carino ribattere se qualcuno ti interpella». Tom non rispose e sorrise.
«Sto parlando con te, sai. In un’altra circostanza magari potresti fare finta di nulla, ma qui e ora no» sibilai, altezzosa.
Tom sorrise. E basta. I miei occhi si tinsero di rosso sangue.
«Che cazzo c’è da ridere, coglione che non sei altro?» strillai facendo per alzarmi in piedi ed andare a suonargliele. Minaccia gettata al vento. La statua-Tom non batté ciglio.
Perché non si muoveva, non parlava, non dava segno di vita? Perché?!
Mentre gli ingranaggi del mio cervello lavoravano per trovare una risposta, una freddezza non mia s’impadronì a poco a poco del mio corpo irrigidito, spingendomi gentilmente a sedermi. Ed ecco, il suo piano mi si delineò nella mente.
Altro che coglione, quel tipo era una vera e propria macchina!
“Non mi sforzerò neanche, tanto sarai tu a venire da me”.
Quella frase non era stata buttata lì a caso: lui sapeva.
Se mi fossi avvicinata, gliel’avrei data vinta, e io non volevo, oh no, mai.
Non avrei ceduto, a costo di impazzire. Mai.

{Poco tempo dopo}

«Parla, porca puttana!» strillai tirando un pugno alla parete; mi feci male, ma ciò che più mi irritò fu la vibrazione ridondante del metallo, un suono tanto potente da farmi tremare la cassa toracica. Ringhiai, e prima di aver solo finito di pensarlo, ero in piedi. Cercai di sfogare la mia rabbia camminando avanti e indietro, ma ad ogni giro dello stretto cubicolo, questa aumentava. Ero in trappola. Ero in trappola!
«Voglio uscire, cazzo! Non ce la faccio più, fatemi uscire!». E ancora pugni e calci dati alla cieca alle pareti, al pavimento, alle porte dell’ascensore serrate come tenaglie. La testa riprese a girare, il respiro a farsi sempre più secco e doloroso. Aria, aria, ARIA!
Stavo perdendo le forze, non mi rimaneva più niente oltre alla sete che mi lacerava la gola, un improvviso senso di freddo e il ronzio ovattato del mio ansare.
E ad un certo punto, anche l’aria finì.
Non quella presente nell’ascensore, ce n’era ancora in abbondanza, finì invece quella nei miei polmoni, incapaci di incamerarne di nuova.
Boccheggiai a caddi a terra. Il dolore alle ginocchia non era niente, niente a confronto del bruciore raschiante della mancanza d’ossigeno nel mio petto e nella mia gola. Tutto era appannato e distorto.
Allora presi la mia decisione.
La mia inutile dignità, il mio stupido orgoglio, il mio corpo, la mia mente... avrei gettato tutto in pasto a una belva feroce se solo questa avesse potuto liberarmi. E lo feci.
Con gli occhi pieni di lacrime strisciai fino all’angolo dov’era inginocchiato Tom, teso e pronto a venirmi in soccorso.
Ero troppo stanca, troppo sfiancata, troppo debole per lottare ancora.
Non ebbi esitazioni nel gettarmi fra le braccia della fiera affamata, m’importava solo di veder sciolte le mie catene, solo questo. Ero troppo stanca, troppo...
Mi lasciai cadere fra le sue braccia, nuda ed inerme, pregavo. E la belva mi sorrise.
Il suo petto era caldo, le sue braccia forti ; gli occhi scintillavano, il profumo mi stordiva.
«Ti prego...» mormorai aggrappandomi alla felpa enorme del ragazzo. Vedevo le sue labbra muoversi, ma nessun suono riusciva a sovrastare il fischio che mi trapanava le orecchie. Nemmeno io riuscivo a sentirmi.
«Ti prego... Fuori. Bisogno... aria», biascicai. Mi ero arresa. Mi ero arresa a lui.
Inspirare, espirare, mi ripetevo. Inspirare, espirare, inspirare, espirare, inspi...
Annaspai alla cieca in cerca d’ossigeno. Le labbra che ormai percepivo solo come una forma sfocata, ripresero a contorcersi in grida mute. Forse chiamavano il mio nome, lontano lontano. E come danzavano le luci sul soffitto...
Qualcosa dietro i miei occhi esplose e tutto divenne buio.

_


Nella mia testa si stavano affollando tante cose. Per lo più si trattava di masse indistinte di luci, colori e suoni, anche se ogni tanto uno di loro emergeva per pochi secondi, mi passava davanti e poi si dissolveva nell’oscurità. A tratti udivo il mio nome, un sussurrio così debole da poterlo scambiare per un soffio di vento se solo non avessi saputo di trovarmi nella mia mente, e lì dentro di aria non ne poteva circolare.
Non è che si stesse male, no, affatto, ma tutto quel buio cominciava a stancarmi, perciò con fatica provai a dirigermi verso l’agglomerato pulsante di pensieri. Pareva di camminare nel fango, ero invischiata nei ricordi... A poco a poco lo raggiunsi, e quando lo toccai con una mano un’immagine ben precisa mi esplose davanti, la stessa immagine della “visione” che avevo avuto ore prima. La contemplai, stupefatta, e capii. In quel momento, tossendo e inspirando forte, ripresi i sensi.

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La prima cosa che vidi aprendo gli occhi fu il soffitto dell’ascensore, decisamente troppo lontano; quindi ero ancora intrappolata là dentro. Merda. Sospirai, abbattuta.
La seconda cosa che entrò a forza nel mio campo visivo fu il viso meraviglioso di Tom.
«Meno male che ti sei svegliata» mormorò affannosamente. Chissà se era a causa delle luci che mi abbagliavano o davvero era così pallido...
«Sono stati i dieci secondi più lunghi della mia vita» confessò accennando un sorriso. Ancora disorientata, battei le palpebre un paio di volte per scacciare il torpore che mi impediva di afferrare il senso delle sue parole. Ad un certo punto mi accorsi di essere racchiusa tra le braccia gentili del ragazzo, perciò, imbarazzata, mi liberai della sua stretta per alzarmi a sedere. Non appena mi mossi le pareti argentate cominciarono a vorticarmi intorno.
«Scusa» biascicai prendendomi la testa tra le mani: che male mi faceva! Mi schiarii la gola troppo secca e ci riprovai.
«Scusa. Non sopporto la tensione, e i luoghi piccoli e chiusi mi terrorizzano; lo so che avrei dovuto cercare di controllarmi, ma è stato più forte di me, e...».
Tom mi posò un dito sulle labbra.
«Non devi scusarti di nulla. Sarebbe capitato a chiunque» e sorrise.
Lo fissai. Davvero voleva cavarsela così?
«Ok, ok, odio dirlo ma adesso mi sembra necessario se non voglio finire bruciato vivo da quello sguardo» e finse di tremare di paura. Non mi mossi di un centimetro e lo fissai più intensamente. Finalmente, dopo qualche esasperante secondo di tentennamento, Tom abbassò lo sguardo e soffiò:
«Scusami tu, non dovevo comportarmi così, è stata colpa mia. Ecco, sei contenta?» sbuffò voltandosi per sfuggire al mio sguardo troppo vicino; un leggerissimo rossore gli colorò le guance. Ammutolii. Wow, non mi aspettavo lo facesse davvero... Questa sì che era una vittoria! Risi:
«Aspetta, aspetta, aspetta! È uno scoop! “Tom Kaulitz chiede scusa”, me lo vedo già su tutti i giornali. Ha! Chi l’avrebbe mai detto? Puoi ripeterlo di nuovo davanti ad una telecamera, stavolta?».
«Mai» borbottò il ragazzo alzandosi e trascinandosi fino al lato opposto dello stretto cunicolo, dove mi diede le spalle.
«Dai, cercavo di sdrammatizzare» esclamai. Ancora aspettavo a dirgli della promessa della mia resa totale a lui, perché sapevo che l’avrebbe rispettata, in qualunque modo.
Provai ad alzarmi a mia volta, ma con mio disappunto scoprii di non riuscirci: non appena mi muovevo la testa mi girava come una trottola. Rimasi seduta.
«Senti» cominciai, strascicando ogni lettera. «Credo di doverti dire... grazie. Per... prima» balbettai. Tom non si voltò.
«Intendo, durante la mia “crisi”» e mimai le virgolette con le dita, oltre che con la voce. «E ancora prima, per essere riuscito a sopportarmi». Pronunciando ultima parola feci una smorfia. La schiena del ragazzo, però, rimase muta. Imperterrita, io continuai.
«Sei stato molto gentile con me, davvero, non me lo sarei mai aspettata da...»
«Da uno come me?» concluse Tom voltandosi a guardarmi. Non era arrabbiato, anzi, pareva divertito, ma in un suo particolare modo perverso.
«Non intendevo...».
«Dovresti sapere ormai che quello che scrivono le riviste non è tutto vero» m’interruppe ancora, e stavolta non riuscii a ribattere: un bagliore magnetico, acceso, vivo, che ora definirei felino mi fece perdere il filo del discorso.
«È questo che più odio di questa vita, tutti credono di sapere tutto di me, credono di poter prevedere ogni mia mossa, ogni mia parola, ogni mio comportamento basandosi solo su quello che io ho deciso di mostrare loro, perché tanto ormai sono un cliché, roba vecchia... e invece cosa sanno? Niente» esclamò tutto d’un fiato.
Rimasi interdetta, sconvolta da questa sua confessione inaspettata.
«Io non ho mai pensato di poterti conoscere solo da...»
«Tutti lo pensano, l’hanno pensato e continueranno a pensarlo, perché mai tu non dovresti essere come loro?».
«Perché io sono diversa».
Per un momento vidi i suoi occhi sgranarsi e mi chiesi se non l’avesse già capito da sé; poi però il suo viso ritornò una maschera impassibile, e all’istante persi ogni sicurezza.
Il silenzio, pesante, ci avvolse. Fu Tom a romperlo per prima dopo un infinito gioco di sguardi.
«E in cosa saresti diversa, di grazia?», mi schernì.
«Beh, se non te ne sei ancora accorto, temo di non potertelo spiegare» ribattei, stizzita. All’istante volli tapparmi la bocca: da dove cavolo saltava fuori quella sicurezza?
Un’aria superba deformava i lineamenti semplici e dolci del ragazzo. Quasi sicuramente, la sua espressione era lo specchio della mia.
Ci stavamo ancora guardando in cagnesco quando l’ascensore ebbe uno scossone e di nuovo, fra cigolii e lamenti, prese a salire.

*


«Allora? Non sono semplicemente p-e-r-f-e-t-t-a?».
Sorrisi.
«Sei bellissima, Kat».
La mia amica fece una piroetta davanti allo specchio, ammirando l’effetto svolazzante della gonna nera che da quando aveva addosso non riusciva a smettere di stropicciare.
«Però la gonna ancora non mi convince... E nemmeno questa bandana rossa al polso. Sei sicura che sto bene così?».
«Ma certo. Sei semplicemente p-e-r-f-e-t-t-a!» le risposi facendole il verso e una linguaccia. Kat rise, poi, una volta calma, si accigliò.
«Davvero non vuoi venire, stasera?» mi chiese fissandomi intensamente coi suoi occhioni azzurri cerchiati di nero. Annuii.
«Sono molto stanca, non me la sento. E poi ho già avuto la mia dose di Tom Kaulitz, direi che sono a posto per tutta la vita» scherzai.
Kat alzò gli occhi al cielo.
«Avercela avuta una fortuna simile! Se fossi stata in te non l’avrei più lasciato andare!» e zompò ad afferrarmi la gamba. Ridendo, mi liberai della sua stretta e saltai giù dal letto.
«Non è così mitico come tutti ne parlano, anzi» mugugnai mentre afferravo la borsa sulla scrivania, di spalle alla mia amica.
«Che hai detto?» mi chiese quella distogliendosi dalla contemplazione del proprio riflesso nel grande specchio a muro della mia stanza. Mi raddrizzai con un sorriso stampato in faccia.
«Ho detto che devi muoverti se vuoi arrivare in tempo al concerto, su!» e le diedi una pacca sulla gamba alla quale lei rispose con entusiasmo, fin troppo.
Due minuti dopo ero già alla guida della mia Peugeout e sfrecciavo verso Parco Novi a tutta velocità per poter stare dietro ai miei pensieri.

_


«Tom, sei pronto?».
Alzai la testa dalla mia chitarra, infastidito.
«È la terza volta che me lo chiedi, Bill, e la risposta è sempre quella: per niente».
A quella risposta, mio fratello riprese a torcersi le mani camminando avanti e indietro lungo quei due metri per tre di camerino; dopo cinque passaggi tentò anche di fare qualche vocalizzo, ma ciò che gli uscì fu una specie di lamento stridulo perciò si limitò solo a passeggiare, o meglio, a girare in tondo.
Io pizzicai distrattamente le corde della mia Gibson ripensando a quel pomeriggio: sarebbe venuta davvero? L’avrei rivista? Speravo tanto di sì.
Giusto per farmi ancora del male, ricordai la sua espressione vuota quando aveva perso i sensi in ascensore, alla paura appiccicosa che avevo provato durante quei maledetti dieci secondi... Era per il terrore istintivo di vedere qualcuno star male o il panico cieco causato dal veder star male lei? Probabilmente la seconda opzione. Cazzo, in che casino mi ero cacciato...

Per distrarmi ripensai a quando, finalmente, qualcuno si era accorto di noi, poveri ragazzi, bloccati in ascensore da ore. Forse, se non avessimo cominciato a litigare così forte, la donna delle pulizie che passava in quel momento non avrebbe nemmeno notato la lucina rossa che disperatamente lampeggiava dalla pulsantiera esterna dell’ascensore, e a quest’ora saremmo stati ancora lì dentro. In poco tempo erano stati radunati tecnici specialisti che avevano fatto ripartire l’ascensore e noi eravamo stati tirati fuori.
Mi risparmiai la scena a dir poco stucchevole del ricongiungimento con Bill, prontamente avvisato dalla polizia, e volai subito a riassaporare il dolce viso di Lisa. Lisa, Lisa...
«Tutto bene?» le avevo chiesto sedendomi accanto a lei, appoggiata alla vetrina del negozio di alimentari; osservava l’andirivieni dei tecnici con un’aria spiritata, assente.
«Sì. Adesso sì» e mi aveva sorriso. Riconoscevo i segni della fatica sul suo viso e nei suoi occhi, ma non feci commenti.
«Ascolta» avevo cominciato, titubante. Gli smeraldi che aveva al posto degli occhi si erano posati immediatamente sul mio viso: difficile concentrarsi con quei fari addosso. Deglutii.
«Ascolta, mi chiedevo se per caso tu non volessi venire al nostro concerto, stasera... Ci terrei a rivederti, in una situazione un po’ meno drammatica, magari» risi, sfregandomi le mani sudate sulle cosce foderate di jeans. La sua risposta poteva significare vita o morte.
«Avevo intenzione di venirci, in effetti». M’illuminai.
«Però sono davvero molto stanca, non credo...». Il mio viso si adombrò. Lei lo notò e sospirò.
«E va bene. Verrò lo stesso, visto che ci tieni tanto» acconsentì facendo la sostenuta. Che balzo fece il mio cuore, in quel momento! Ricordavo benissimo la sensazione, era stato un momento meraviglioso.
«Come mi riconoscerai in mezzo a quel marasma?» continuò abbracciandosi le ginocchia. Già, come avrei fatto? Ci pensai su.
«Che ne dici di legarti al polso una bandana rossa? Basta che alzi il braccio durante l’esibizione, i miei bodyguard ti riconosceranno e ti accompagneranno nel mio camerino. A fine concerto, naturalmente». Sorrisi della genialità della mia idea.
«D’accordo».
In quel momento, una specie di tornado dai lunghi capelli biondi ci interruppe piombando addosso alla ragazza senza smettere di singhiozzare e strillare brandelli di frasi senza senso. La scena tragica non durò che qualche interminabile minuto, e prima ancora che me ne rendessi conto Lisa era scomparsa, trascinata via da quella sua amica. Di lei, era rimasta solo la debole scia del suo profumo.

«Tom, è ora!».
Sospirai, nervoso. L’avrei rivista. Non potevo crederci.
Imbracciai la mia chitarra e seguii Bill fuori dal camerino col cuore che pompava molto più sangue del normale. Già da lì si sentivano gli strilli isterici delle centinaia e centinaia di fan; non appena aprirono la porta, tutto l’entusiasmo di un palazzotto stracolmo di adolescenti ci stordì. Per noi era un’unica massa viva e vibrante, non erano tante ragazze, bensì un’unica ragazza che possedeva mille volti, sorrideva con mille sorrisi diversi e ci guardava con mille occhi lucidi e cangianti. Fra i tanti volti che si mescolavano in quella sola entità io ne scelsi uno, l’unico al quale quella sera mi sarei rivolto e l’unico al quale avrei dato tutto me stesso.
Sistemai gli in-ear monitor, controllai la tracolla della chitarra, sistemai i jeans, raddrizzai il cappello e senza sapere come o perché mi ritrovai a correre, no anzi, a fluttuare lungo il palco sconfinato fino alla mia postazione, sempre con il sorriso sulle labbra e le mani che già si muovevano da sole, domando il plettro. Magicamente, le prime note di “Break away” scivolarono lungo le corde della mia Gibson e si amplificarono in tutto lo stadio fino alle ultime file, e mano a mano che la melodia raggiungeva le ragazze, queste urlavano, saltavano, piangevano. Un’unica entità.
Durante il concerto cercai forsennatamente quel piccolo spruzzo di rosso che mi avrebbe dimostrato che ciò che quel pomeriggio era successo non era stato solo frutto della mia immaginazione, invano.
Le canzoni si susseguivano una dietro l’altra e neanche a farlo apposta, nemmeno una delle ragazze nelle prime file indossava qualcosa di rosso; strizzavo gli occhi fino a dove la luce arrivava, ma nemmeno una delle migliaia di mani alzate portava la bandana rossa.
E poi, quando meno me lo sarei aspettato, la vidi.
Dovevo cominciare a suonare gli accordi di “Forgotten Children” e mi stavo spostando verso la pedana, quando quel bagliore scarlatto che tanto avevo cercato quella sera aveva scintillato verso di me, piccola macchia di colore in mezzo a quell’oceano di nero e grigio a contrasto col biancore etereo della pelle del braccio, di quel braccio. Non avevo dubbi, era lei.
La mia felicità in quel momento fu indescrivibile, travolgente, irresistibile, e così forte come mai l’avevo provata in una volta sola! Con un cenno della testa attirai l’attenzione di Tobi, appostato discretamente dietro le quinte, e gli mimai con le labbra di andare a prendere la ragazza in quarta fila col fazzoletto rosso legato al braccio. Lui capì immediatamente, abituato com’era ai mie capricci, annuì e scivolò via come un’ombra.
Un fascio di luce accecante mi venne puntato addosso perciò capii di dover contenere momentaneamente la mia euforia e trasferire quella sensazione di adrenalina pura nelle dita. Questa canzone la dedicavo a lei, solo a lei...
Con la luce puntata in viso non riuscivo a vedere nulla più in là del mio naso, perciò provai ad immaginare il suo sorriso mentre Tobi le chiedeva di seguirlo, il suo cuore che batteva forte; e quelle braccia pallide, quei capelli morbidi, quel piercing praticamente invisibile al lato sinistro della bocca, quegli occhi disarmanti... E presto sarebbe stata mia per sempre. Non poteva che finire così, con un lieto fine.
Sorrisi, e risi, e mi sembrò di impazzire di felicità: ce l’avevo fatta. Ce l’avevo fatta!
Avevo catturato la mia sirena dagli occhi smeraldo.


*


Così ora conoscete com’è andata.
Immagino ormai abbiate capito di che trattava la mia visione. Lo so che può sembrare impossibile, però io avevo previsto ogni cosa, dal pulsante d’allarme rotto, alle luci al neon troppo calde, alle pareti scintillanti, fino all’abbraccio di Tom. Ovviamente, essendosi trattato di un secondo, non avevo fatto in tempo a decifrare i segnali, almeno finché non ero entrata dentro la mia testa e avevo potuto rivedere il tutto. Non so come sia successo, non so perché a me, non so chi sia stato, so solo che è successo. Punto.
Vi starete chiedendo se mi sono pentita di aver mandato Kat al concerto al mio posto. No, non mi sono pentita di aver mandato Kat al concerto al mio posto, se proprio volete saperlo, nemmeno per un secondo. Lei si meritava di incontrare i Tokio Hotel, era da sempre il suo sogno; e poi l’espressione di Tom quando aveva scoperto che la ragazza dalla bandana rossa non ero io... posso facilmente immaginarla, e vi assicuro che ogni volta scoppio a ridere.
Stesa a letto, lo sguardo inquieto che vaga lungo il soffitto incapace di prendere sonno, ripenso alla telefonata isterica di Katia di solo poche ore prima: mi aveva raccontato di essere stata chiamata nel backstage e che non appena Tom l’aveva vista aveva cominciato a inveire contro le sue guardie del corpo e a blaterare che lei era la ragazza sbagliata.
«Lisa, dimmi la verità, aspettava te?» mi aveva chiesto Kat.
«Non credo proprio» avevo risposto io sorridendo sotto i baffi.
Dopo poco, la mia amica era stata lasciata andare, frastornata e sconvolta, con in mano un cd autografato da tutti e quattro: immagino volesse dire che doveva tenere la bocca chiusa su quello che era successo.
I fari di una macchina sfiorano la mia finestra e poi scivolano via come se nulla fosse. Le stelle occhieggiano qui e lì sotto la coltre sfilacciata di nuvole. Mi giro su un fianco per incontrare gli occhi patinati dei Tokio Hotel appesi accanto al letto, e sorrido nel buio.
Povero Tom. Quasi mi dispiace per lui. Pensava di avermi finalmente acciuffato, e invece.. Chissà se verrà alla mia ricerca, poi.
Oh, lo so che mi sono fatta una promessa, e ho giurato che la rispetterò. Ma perché proprio stanotte?


Fine.



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