L.o.c.k.e.d. di HuGmyShadoW (/viewuser.php?uid=38035)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quella Mattina... ***
Capitolo 2: *** Shopping! ***
Capitolo 3: *** L'Ascensore ***
Capitolo 1 *** Quella Mattina... ***
L.o.c.k.e.d.
1^
Parte
No, quella in cui mi trovavo decisamente non era una situazione
normale. Anzi, era l’impossibilità fatta persona.
Eppure, pensai torturandomi il piercing che occhieggiava dal mio labbro
inferiore, mi trovavo proprio lì. E con
“lì” intendevo bloccata in un ascensore
del centro commerciale da quasi un’ora, sommersa di borse
stracolme, in compagnia di Tom Kaulitz. Se di
“compagnia” si poteva parlare. Non è che
avessimo fatto questa grande conversazione.
Comunque io l’avevo detto all’inizio che non era
una circostanza da ricercare sotto la categoria
“ordinaria”. Ed ero abbastanza
vicina da sentire il suo profumo...
Ma forse è meglio cominciare dall’inizio.
*
Quel giorno mi svegliai. Dato che circa sei miliardi di persone ogni
giorno trovano la forza di aprire gli occhi e di trascinarsi lungo la
giornata la potrete ritenere un’informazione irrilevante. Il
mio risveglio però non è un avvenimento
così ordinario. Per me il giorno equivaleva quasi sempre
alla notte, da anima nottambula quale sono, per cui spesso mi
addormentavo alle sei di mattina per svegliarmi alle sei di sera.
Quando andavo a scuola non potevo permettermi questi ritmi di vita
(anzi, mamma non me lo permetteva) e mi toccava immergermi a mia volta
nella massa di pendolari diurni ooogni giorno. Ma adesso che era estate
e avevo finito anche l’ultimo anno, potevo permettermi di
diventare un tutt’uno col mio letto anche per tre giorni di
fila, e guai a chi protestava! Quella Mattina fu la classica eccezione
che confermava la regola.
La sveglia trillò per circa venti minuti prima che la mia
mano intorpidita trovasse la forza di riemergere da sotto il cuscino
per scaraventarla a terra e poi gettare all’aria le coperte.
Sbuffando come un ciminiera mi misi seduta strofinandomi gli occhi e
cercando le pantofole contemporaneamente: non sopportavo il pavimento
gelato appena sveglia.
Mi alzai in piedi tutt’altro che cosciente cercando un buon
motivo per non tornarmene a letto di filato e, probabilmente per pura
inerzia, presi a zigzagare con l’andatura di uno zombie fra
le innumerevoli cianfrusaglie che disseminavano il suolo
tutt’attorno.
In origine, tutti quegli orsacchiotti sventrati, riviste
scarabocchiate, libri e fumetti strappati e bambole mutilate abitavano
innocentemente gli scaffali della mia cameretta color azzurro cielo, ma
col tempo sembravano chiaramente aver designato il linoleum graffiato
come loro nuova casa. E io non gliel’avevo certo impedito,
anzi, mi andava bene così. Chiunque fosse entrato in
qualsiasi momento nella mia stanza avrebbe, a ragione, pensato che come
domestica avessimo un tornado impazzito al posto della nostra cara
Ines.
Ines era una bella donna nera sulla cinquantina, tarchiata e molto
materna, a cui avevo sempre invidiato quel sorriso caldo che sembrava
avvolgere tutti; la sua voce profonda e autorevole aveva
incondizionatamente fatto rigare dritta la sottoscritta, almeno fino
all’indomabile età di diciotto anni. Negli ultimi
tempi infatti aveva rinunciato a chiedermi di risistemare almeno
quell’accozzaglia di roba sparsa sul pavimento al loro posto,
forse stanca di ricevere come risposta le mie imprecazioni bofonchiate.
Da mesi ormai si rifiutava di mettere piede nella mia stanza che,
abbandonata a se stessa, ormai era governata dal caos e dalla polvere
perenne.
Quella Mattina stavo appunto cercando di guadagnare la porta senza
ruzzolare a terra affidandomi solo su quattro dei cinque sensi (senza
contare il “sesto”), ma quando ormai sentivo di
essere vicina alla meta inciampai in qualcosa di rigido e ingombrante,
che quando fui col culo per terra identificai come uno scatolone colmo
di vecchie foto. Foto che mai e poi mai avrei permesso abitassero in
camera mia! Il colpevole poteva essere solo uno...
Ringhiai e imprecai per dei buoni minuti massaggiandomi il punto
dolente, lasciando che la rabbia mi desse di nuovo la forza per alzarmi
e scaraventarmi giù per le scale. Gli ultimi tre scalini li
saltai direttamente ma persi l’equilibrio e per poco non mi
ruppi l’osso sacro; fortunatamente, trovai come appiglio
l’attaccapanni sovraccarico che sostava vicino alle scale e
riuscii a riprendere la mia marcia furiosa senza danni.
Attraversai l’ingresso e quasi scardinai la porta della
cucina per entrare e ruggire:
«Daniel!».
Una veloce occhiata alla stanza linda mi permise di individuare la mia
“vittima”. Lasciai scivolare gli occhi lungo il
frigo lucente, i fornelli incrostati, il forno ammaccato, la tavola
strisciata e... eccolo!
Seduto tranquillamente su una sedia scassata, i gomiti appoggiati al
ripiano di legno a sostenersi la testa, il pestifero bimbo biondo
sogghignò socchiudendo gli occhioni verdi.
«Non ti è piaciuto il mio... regalino? Sai,
dovresti trovare una sistemazione per quello scatolone: ficcarlo nel
mio armadio non è stata una buona idea, lo sapevi, no? Certo
che siete venuti proprio bene tu e il tuo ex ragazz...».
«Sei morto, pulce!» strillai saltandogli al collo
per impedirgli di finire la frase. In uno scatto fulmineo, quello
scarafaggio socialmente riconosciuto come il mio adorabile fratellino
di nove anni sparì sotto al tavolo e le mie mani riuscirono
solo a graffiare l’aria. Ringhiai come un animale ferito e mi
tuffai anch’io in una sorta di battaglia sotterranea.
Già pregustavo la prossima punizione che avrei inflitto a
quella specie di serpe che stava cercando di divincolarsi
dalla mia stretta ferrea quando... suonò il telefono, ovvio.
Non so come riuscii a sentirlo sopra gli strilli di quella peste, ma ad
un certo punto, forse quando gli ficcai un pugno in bocca per farlo
tacere, udii un familiare squillo in lontananza. Ansimante per la
combattuta lotta, e pure un po’ contrariata (stavo vincendo!)
mi spostai i lunghi capelli scuri dietro le orecchie e schiacciando
Daniel a terra con un ginocchio per impedirgli di filarsela, gli
mormorai:
«Questa volta sei stato fortunato, piccolo mostro, ma alla
prossima che mi fai ti ritrovi appeso per i piedi al tetto.
Nudo».
Rotolai in piedi con l’agilità di un gorilla e
corsi a rispondere lasciando mio fratello pietrificato sul pavimento;
stavolta la sua espressione sembrava sinceramente terrorizzata,
constatai con piacere arricciando l’angolo del tappeto
persiano durante una scivolata per una curva troppo stretta.
Il telefono riuscì a trillare impaziente un’ultima
volta prima che lo afferrassi e me lo portassi all’orecchio.
«Pronto» esclamai chiaramente scocciata. Odiavo
qualunque genere di telefonate mattutine, anche se ormai ero in piedi
da un pezzo.
«Volevo solo assicurarmi che fossi riuscita a
svegliarti».
«Ciao Kat!» cinguettai sorridendo come
un’ebete.
Kat, anzi Katia, straordinario incrocio tra madre russa e padre
italiano, era, ed è tuttora la mia migliore amica. Tra di
noi c’è qualcosa di veramente forte, che ci lega a
filo doppio, la mia vita alla sua. Non so dire cosa sia,
però c’è! Ci conoscevamo
dall’asilo e ancora dopo tutti questi anni non ci eravamo
ancora stufate l’una di trascorrere ogni singolo minuto
libero con l’altra; a lei potevo perdonare qualsiasi cosa,
anche le odiate telefonate mattutine! Katia era così, mi
bastava sentire la sua voce melodica per cambiare completamente
atteggiamento e ritrovarmi a pensare che il mondo era meraviglioso.
«Sai, stavo per partire verso casa tua con
l’artiglieria pesante ma credo che a questo punto non ce ne
sia più bisogno», sghignazzò
metallicamente dall’altra parte del filo.
Potevo immaginarmela perfettamente, appoggiata al tavolino traballante
del corridoio, la cornetta bianca dal modello superato in una mano e
una ciocca color miele attorcigliata nell’altra.
Probabilmente stava anche masticando un chewingum alla fragola. Katia
aveva sempre una gomma alla fragola in bocca, che fosse mattina o notte
inoltrata, con la quale si divertiva a soffiare palloni profumati dalle
dimensioni considerevoli che io puntualmente le scoppiavo.
Adoravo Katia ma non mi era mai piaciuto quel suo continuo lavorio di
mascelle ovunque e in presenza di chiunque.
Anche la Mattina sentii in lontananza, attutito dai tre isolati che ci
separavano, lo scoppio di una bolla alla fragola. Cercai di ignorare
quel rumore fastidioso che mi faceva rabbrividire e mi concentrai sulle
parole della mia amica.
«... e devo andarci al più presto! Mi
accompagni?».
«Scusa Kat, non ti stavo ascoltando. Puoi
ripetere?».
La sentii sbuffare sonoramente.
«Lisa, svegliarti presto è così
terribile per te da farti spedire il cervello su un altro
pianeta?».
«Puoi ben dirlo! Sto ancora cercando un motivo per non
tornarmene dritta filata a letto».
«Uhm, vediamo, te lo trovo io? Dunque, c’era
qualcosa che dovevi fare oggi, forse andare in qualche posto, ma che
cos’era... oh, già, il concerto dei Tokio Hotel
forse?!».
Alzai gli occhi al cielo. Odiavo quel suo sarcasmo pungente.
«Grazie Kat, ma lo ricordavo da sola».
«Non ci metterei la mano sul fuoco... Comunque, se fossi
riuscita a registrare il senso delle mie parole, stavo dicendo che non
trovo più quella maglia che ho usato alla festa di quel
tizio la settimana scorsa, non mi ricordo come si chiamava... Un certo
Marco Qualcosa, mi sembra... Hai capito quale maglia intendo, no?
Sì, dai, quella nera, scollata, con i fiocchetti! Non so
dove l’ho messa, ho rivoltato la casa come un guanto, non la
trovo!, e visto che il concerto è stasera e non ho niente da
mettermi volevo che mi accompagnassi al centro commerciale vicino al
palasport, so che ci sono i saldi o comunque uno sconto di un tot
percento sui capi d’abbigliamento del secondo piano. Devo
andarci al più presto quindi non puoi dirmi di
no!».
Io, rimasta zitta per tutto il tempo di quel monologo improvvisato, non
potei trattenermi dallo scoppiare a ridere.
«Che hai tu da sghignazzare tanto?», mi
esclamò in un orecchio perforandomi i timpani con la sua
vocetta da soprano.
Finalmente mi ripresi e anche se a scatti a causa dei singhiozzi,
riuscii a risponderle.
«Kati, ma respiri mai quando parli?!».
«Ah, era solo per questo che ridevi come una scema?! Pensavo
ti stesse venendo un attacco di Nonsocosa, una malattia che ti fa
ridere ininterrottamente per dei giorni interi, ne devo aver letto in
qualche rivista la settimana scorsa...».
Sorridendo fra me e me, lasciai che il timbro piacevole della voce di
Katia si infrangesse nelle mie orecchie e lì si fermasse,
lasciando i pensieri liberi di vagare.
Perché d’accordo che ero sveglia da un pezzo, ma
per affrontare gli sproloqui di Kat dovevo prima riempire lo stomaco!
Finsi di ascoltare i vaneggiamenti della mia amica per qualche altro
minuto, poi però mi stufai e decisi di troncare la
conversazione usando come scusa un bisogno impellente del bagno.
Un po’ scocciata, Kat mi congedò dandomi
appuntamento a quel pomeriggio davanti a casa mia per partire alla
volta del centro commerciale alla ricerca di qualcosa da mettere che
avrebbe stupito perfino quei quattro figoni dei Tokio Hotel.
M’incamminai verso la cucina, sollevata di trovarla vuota e
silenziosa, rivolgendo i miei pensieri solo al barattolo di Nutella che
mi fissava maliziosamente aperto sopra al ripiano del lavello. Raccolsi
col dito una dolce goccia viscosa che scivolava testardamente lungo il
vasetto e me la portai alla bocca, assaporandola come fosse
l’ultima.
Mmm, buona. Troppo buona.
Afferrai il barattolo e mi sedetti a tavola, pregustando un altro pasto
di solo pane e cioccolata. Se quella sera avessi assistito al
più meraviglioso concerto della mia vita, tanto valeva
assumere un po’ di zuccheri per prevenire svenimenti o
tachicardie. No?
La mattinata scappò via in fretta, forse troppo velocemente,
così come il primo pomeriggio, passato quasi interamente a
sonnecchiare per recuperare le ore perse, e prima ancora che avessi
potuto mandare giù la peperonata di zia Lidia (mamma alla
fine mi aveva brutalmente strappato dalle mani il barattolo di
Nutella), Katia era sotto le mie finestre a suonare a trombe spiegate
il clacson della sua Panda Young bianca scassata.
Con solo la vecchia maglietta grigia extralarge che usavo come pigiama
corsi fuori ad aprirle il cancello.
In due manovre Kat parcheggiò nel mio vialetto e scese con
grazia dall’auto, masticando sfrontatamente a bocca aperta la
solita gomma alla fragola.
«Ehilà, cricetina! Ci si rivede finalmente! Mi
sembra una vita che... Ma non sei ancora pronta? Te l’avevo
detto che arrivavo verso quest’ora, non puoi essertene
già dimenticata! Su, forza, non ho tutto il
giorno!» esclamò vedendomi impalata sulla porta di
casa, assonnata, a piedi nudi e con i capelli tutti arruffati. Ridendo,
mi raggiunse a lunghe falcate e prese a spingermi dentro.
«Su, su, animo! A lavarsi e cambiarsi, il look sonnambula non
ti dona affatto! A meno che tu non voglia lanciare una nuova moda...
Forza, i vestiti te li scelgo io, tu vai!» mi disse
irrompendo nella mia stanza e lanciandosi a saccheggiare il mio
armadio.
Per qualche minuto rimasi ad osservare la maggior parte del mio
guardaroba volare per tutta la stanza sforzandomi di capire chi ero e
cosa ci facessi lì, quando Kat, dall’aria
soddisfatta, riemerse con una maglia della Reds di traverso sulla testa
e un paio di Converse in mano.
«Be’?» sbottò accorgendosi
della mia presenza. Io la fissai di rimando, senza capire. Lei si
alzò e mi trascinò in bagno sbuffando come una
locomotiva.
«Vai a farti una doccia, no? Dai, Lisa, collabora per una
volta!» miagolò cacciandomi in mano un asciugamano
bianco e chiudendomi la porta in faccia.
«Ma...» provai finalmente a protestare.
«Sbrigati!» mi urlò Kat dal corridoio.
Dopo qualche secondo di riflessioni decisi che sì, potevo
farmi una doccia veloce, così lasciai cadere a terra la
maglia grigia e mi infilai nello stretto cubicolo. Il forte getto di
acqua calda mi rianimò completamente e mi permise di
imprecare con lucidità contro Katia e la sua maledetta
irruenza per dei buoni minuti. Ogni volta che prendeva a parlare mi
trovavo con dieci borse di Dolce&Gabbana in mano o peggio, a
ballare sul cubo in discoteca! Era impossibile schiacciare lo stop, e
prima che te ne rendessi conto, tac!, ti trovavi davanti al fatto
compiuto.
Chiusi l’acqua e uscii dalla doccia avvolgendomi subito
nell’asciugamano che mi aveva preparato Katia; odiavo
avvertire anche il minimo soffio d’aria sulla mia pelle
bagnata. Presi un altro asciugamano più piccolo, stavolta
rosa, e mi frizionai velocemente i capelli. La mia sosia allo specchio
imitava alla perfezione ogni mio movimento, fissandomi con aria assorta
dall’altra parte del vetro. Mi avvicinai, appoggiandomi al
lavandino.
Non sono brutta, ma neanche nulla di speciale: i miei capelli sono
banalmente castani e lunghi, e se fossero lisci e setosi potrei anche
accettarlo, invece sono ribelli e tutti ondulati; ho un viso
ordinariamente ovale su cui spiccano, per un puro caso genetico, un
paio di occhi verdi e una bocca piccola e spesso corrucciata; sono alta
nella norma, forse un po’ di più, e ho un fisico
asciutto, in quel momento fatto risaltare ancora di più
dall’asciugamano. Ragazze così però ne
avrete viste a milioni, e a parte la voglia a forma di cuore che ho
sulla mano destra io non differisco da loro in niente...
Sbuffai e allontanai quei pensieri che potevano affondare la mia
autostima come una barchetta di carta e uscii dal bagno, rivolgendo
solo un’ultima occhiata distratta al mio riflesso
imbronciato. E quando per quei pochi attimi incrociai i miei stessi
occhi, ebbi l’impressione di scorgere uno strano luccichio,
quasi che loro sapessero, conoscessero già qualcosa a me
negato.
Ma sapessero cosa?, mi chiesi tornando nella mia stanza.
«Kat?», chiamai incerta affacciandomi dalla soglia,
indecisa se entrare oppure no.
«Mm-mm?», mugugnò una voce vagamente
localizzata dalle parti del mio armadio. Perfetto...
«Tutto bene?», chiesi seriamente preoccupata,
cominciando a muovere i primi passi nella stanza. Mi guardai intorno.
«Ma che cazzo è successo qui? Che hai
fatto?», gridai.
La mia stanza, se possibile, era ancora più disordinata
dello standard massimo. Maglie, jeans, gonne, scarpe, camicie,
pantaloni, canottiere, shorts, stivali e ciabatte erano sparsi in tutta
la stanza, da sopra al lampadario a sotto il letto, ma principalmente
sul pavimento.
Mi avvicinai all’epicentro di quello sterminio, raccogliendo
man mano i caduti di guerra che incontravo lungo il mio cammino e
spolverandoli amorevolmente con le mani.
Aggirai l’anta aperta dell’armadio, scavalcai una
pila di riviste e piombai come una furia sulla causa di quel genocidio.
«Katiusha Kalinin!», tuonai con le mani sui
fianchi. Sapevo quanto Kat odiasse il suo nome completo, e io mi
divertivo a sfoderarglielo davanti ogni volta che mi faceva
imbestialire.
Difatti, la mia amica sospirò lasciando cadere una maglia
gialla che non sapevo neanche di avere e mi guardò facendo
una smorfia. «Lisa, sai quanto odio il mio nome
completo».
Dentro di me sorrisi. Oh, sì lo sapevo bene.
«Non me ne frega un tubo! Mi spieghi a cosa è
servito scaraventare il mio armadio per la stanza? So ancora come
infilarmi una maglietta decente, e sicuramente l’avrei
trovata prima di te!», le strillai indicando il disastro che
aveva combinato. Kat si alzò in piedi guardandosi intorno
con la fronte aggrottata.
«Io non vedo alcuna differenza rispetto al disordine che
c’era prima».
Ruggii e saltai al collo di Kat che, ridendo, mi schivò. Mi
ripresi evitando di spiaccicarmi col muso a terra e tentai un nuovo
placcaggio, riuscendoci stavolta. Atterrammo entrambe di peso sul
letto, scompisciandoci dalle risate, e la finta rissa
terminò lì.
«Che sceme che siamo, eh?», singhiozzai
asciugandomi le lacrime.
«Soprattutto tu!», replicò Kat facendo
una linguaccia. Stavolta non ribattei: era inutile, contro di lei. Solo
in quel momento mi accorsi di essere avvolta solo in un misero
asciugamano bianco.
«Accidenti, devo cambiarmi!», esclamai saltando
giù dal letto. Con lo sguardo percorsi l’intera
camera. E ora, come avrei fatto a raccapezzarmi in quella baraonda?
Prima di aver capito dove mettere la mani sarebbero passati almeno
qualche decennio! Presa com’ero dall’orrenda
prospettiva di mettere tutto a posto prima di riuscire a recuperare i
capi d’abbigliamento che cercavo, ovviamente gli ultimi sui
quali avrei posato gli occhi, non mi accorsi di Kat che, silenziosa
come una pantera, mi si era avvicinata, e sussultai dallo spavento
quando mi posò sul petto una maglia.
«Che ne dici? Va bene questa?», mi chiese
ridacchiando. «Sai, credo proprio che per il concerto sarebbe
perfetta, insomma, tu ci stai da dio e in più è
nera e dark, proprio come i Tokio Hotel, è perfetta ti dico,
perfetta! Non la provi?».
La guardai inarcando un sopracciglio, stupita ancora una volta di come
riuscisse a parlare così in fretta senza mangiarsi neanche
una parola. Kat sembrò non notarlo, e anzi, sorrise
sventolandomi sotto la naso la maglia, euforica. Sbuffai e afferrai
rudemente la prossima causa del mio esaurimento nervoso, consapevole di
aver acceso la miccia della bomba a scoppio immediato imbottita di
commenti e gridolini eccitati su come sarei stata per-fet-ta per il
concerto e baggianate simili.
«Io esco, tu vestiti e truccati e poi fatti vedere, nel caso
serva qualche ritocchino... A dopo!», trillò Kat
senza lasciarmi possibilità di replica. Quando finalmente
rimasi sola, sospirai e mi stesi sul letto, stanca come non mai. Non
aveva senso mettere adesso i vestiti che avrei indossato questa sera,
si sarebbero spiegazzati e probabilmente li avrei macchiati, come
facevo di solito quando aveva addosso qualcosa da tenere da conto. E
poi, a pensarci bene, non ero sicura che la maglia che aveva scelto
quella pazza della mia amica fosse davvero adatta per il concerto.
D’accordo, era nera, stretta sotto il seno e poi libera, come
andavano di moda adesso, e aveva un sacco di nastri e fiocchetti,
però non riuscivo ad immaginarmela addosso. Io volevo
distinguermi, volevo dimostrare di essere diversa da tutte le altre fan
che mettono solo abiti neri per fingersi emo, dark o gotich. Volevo far
vedere la vera me stessa a quei quattro sul palco, se mai mi avessero
notata. Avevo il mio stile, non mi attirava l’idea di
confondermi con la massa pur di dire “a me piacciono i Tokio
Hotel”, anzi, non dovevo mostrarmi come tutte le altre!
Mi alzai dal letto e seguendo solo il mio istinto mi diressi verso la
maglia gialla, abbandonata per terra; rimasi a fissarla un bel
po’ prima di decidermi a prenderla in mano. La studiai: non
era niente male, in fondo. Chissà perché non la
mettevo mai... Sorrisi fra me e me mentre me la infilavo, immaginando
la faccia scandalizzata di Kat quando mi avrebbe vista uscire combinata
in quel modo: avrei sconvolto i suoi piani! Chissà, poteva
essere la volta buona che rimanesse senza parole!
Risi forte e mi accucciai sotto la scrivania per recuperare il paio di
jeans più frusto, graffiato e strappato che possedevo.
*
» Fine prima parte.
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Capitolo 2 *** Shopping! ***
2^
Parte
«Kat, se
non la smetti di fissarmi così manderai a
fuoco il mio specchietto. Non vuoi che ci schiantiamo e facciamo un
incidente, vero?».
Kat non rispose,
si limitò a lanciarmi un’ennesima
occhiata fiammeggiante da dietro il mio sedile prima di voltarsi
dall’altra parte come una bambina di cinque anni.
«Su,
smettila di fare la vittima! Ti ho già detto
che adoro il tuo stile e che hai un ottimo gusto, ma se proprio non mi
andava di mettere quella maglia, non mi andava, insomma!».
Nessuna risposta.
Sospirai per la decima volta in dieci minuti e tornai
a concentrarmi di nuovo sulla strada liscia e regolare, scoccando di
tanto in tanto un’occhiata supplichevole al passeggero
corrucciato del sedile posteriore. Svoltai a una curva e il sole caldo
e luminoso di mi accecò, tanto che dovetti frugare nel
cruscotto alla ricerca dei miei occhiali da sole. Li infilai e riuscii
per un pelo a intercettare un’occhiata sprezzante di Kat
rivolta ai riflessi di luce dorati della mia maglietta che si
riflettevano sugli interni dell’auto prima che questa
tornasse a fissare il paesaggio fuori dal finestrino.
“Pacchiana!” le si vedeva svolazzare nella testa.
Alzai gli occhi al
cielo. Quando a Kat non andava bene qualcosa era
praticamente impossibile distoglierla dalle sue macchinazioni per
rigirare ogni sensata controbattuta in suo favore, finendo per
esasperare la “vittima” e costringerla ad
assecondarla.
Rallentai in
prossimità di un segnale di stop e non appena
la mia Peugeot 206 si arrestò docilmente, mi voltai
ostentando sul viso la mia più efficace espressione da
“ti-sto-chiedendo-scusa,-non-vuoi-un-dolcetto?” e
affrontai di nuovo la belva, approfittando del breve momento in cui
potevo guardarla negli occhi.
«Kat»
chiamai dolcemente togliendomi gli occhiali
da sole. «Lo sai che mi fa star male vederti
così... Ti prego, facciamo la pace! Non sopporterei di
andare al concerto con un pezzo di pietra, dai!».
Il viso della
bionda rimase girato di lato, impassibile. Mi scostai una
ciocca di capelli dagli occhi e riprovai.
«L’avrei
di certo macchiata o sgualcita, o le avrei
potuto appiccato fuoco rovesciandole addosso una birra e facendo cadere
l’accendino mentre mi fumavo una sigaretta...». Kat
mi fissò ad occhi sbarrati perciò capii di aver
esagerato.
«Ok, ok,
è praticamente impossibile anche per me,
ma come minimo avrei potuto strapparla! E come posso andare al concerto
con la maglia a brandelli? Non posso, esatto». Vidi un angolo
della bocca di Kat tremare nel tentativo di non scoppiare a ridere e
sorrisi, sicura di riuscire a farla cedere a breve.
«Ti
immagini la faccia di Bill? Il signorino
“devo-stare-attento-che-non-mi-si-spezzi-un’-unghia”
farebbe un colpo se mi vedesse! Cadrebbe sicuramente ai miei piedi,
anche se privo di conoscenza...».
Kat
sbuffò forte dal naso mordendosi le labbra per non
lasciarsi sfuggire nemmeno un risolino e io, approfittando della
ridarella facile della mia amica, rincarai la dose.
«E Tom?
Ah, per lui non farebbe differenza, anzi, se mi
presentassi al concerto direttamente in reggipetto scoppierebbe di
gioia! O di qualcos’altro...».
Ormai non ci
trattenevamo più, ridevamo come imbecilli!
«Aspetta,
aspetta! E non hai pensato a Georg?
Lui...». Un clacson mi fece sobbalzare, distogliendomi dalle
mie allegre fantasie. Mi girai di nuovo verso il semaforo, accorgendomi
seccata che era già verde. Il tipo dietro, un ometto sulla
cinquantina abbarbicato al volante della sua Multipla grigia,
continuava a suonare, incapace di aspettare anche solo che infilassi di
nuovo gli occhiali e ingranassi la marcia, mi stava facendo
innervosire! Stavo per aprire il finestrino per fargli ammirare lo
strato di smalto nero accuratamente steso sull’unghia del mio
dito medio quando Kat mi precedette. Premette con violenza il tasto che
regolava l’abbassamento dei finestrini e si sporse fuori con
tutta la testa e perfino le spalle.
Nei secondi che
seguirono cercai di ricordarmi più volte che
Kat era mia amica e che le volevo bene, eppure non riuscii a non
sprofondare sempre più nel mio sedile fin quasi a
schiacciare col naso l’acceleratore, tentando invano di
ignorare il fiume in piena di improperi e maledizioni che il mio
passeggero sputava addosso all’ignaro conducente dietro di
noi. Infine, dopo una grandine di accidenti che avrebbe ridotto in
macerie tutta Bologna, Kat ritirò la testa e si sedette
composta borbottando qualcosa come “certa gente dovrebbe
girare solo in triciclo”, mentre io mi raddrizzavo quel tanto
che bastava per riuscire a vedere la strada. Senza aspettare nemmeno
che chiudesse il finestrino, misi la prima e mi allontanai sgasando,
terrorizzata che l’uomo alla guida della Multipla grigia
riuscisse a prendere il mio numero di targa.
«Lisa,
dove sei finita?» sentii chiedere da dietro
il mio sedile. Aspettai di essermi allontanata ancora qualche metro
prima di agitare una mano per segnalare la mia posizione e riemergere.
«Che ci
facevi là sotto?».
«Mi
erano caduti gli occhiali» borbottai. Inutile
discutere della spiacevole faccenda appena conclusasi.
«Ma hai
visto quel tipo? Chi si credeva di essere?! Meno male
che gliene ho dette quattro, altrimenti avrebbe di certo aggredito
altre povere fanciulle innocenti al semaforo, e non avrei potuto
tollerarlo, sai quanto odio i tipi così!, mi fanno venir
voglia di...».
«Kat, ci
ha solo suonato dietro perché il semaforo
era verde» bofonchiai senza riuscire ad attirare
l’attenzione della mia amica, troppo infervorata del suo
racconto.
«... e
non ha nemmeno saputo rispondere! Un codardo, quindi,
oltre che un molestatore di donzelle indifese!».
Ecco, ci mancava
pure la donzella indifesa. E Kat si stava accanendo in
quel modo solo perché quel tizio non aveva avuto troppa
pazienza! Se mai un qualcuno dalla disperata voglia di suicidarsi
l’avesse superata alle casse del supermercato, sarebbe
scoppiata una guerra atomica!
La giornata era
splendida, non c’era nemmeno una nuvola in
cielo. Il concerto sarebbe stato fantastico, lo sentivo. Provai a
continuare a prestare attenzione ai vaneggiamenti di Kat, ma la mia
mente si rifiutava di collaborare e il dolce dondolio
dell’auto induceva meravigliosamente alla meditazione. Ancora
una volta mi ritrovai a fantasticare su di Loro, attendendo impaziente
ogni curva come se dietro di essa fossero appostati tutti e quattro con
un cappellino a cono in testa pronti a farmi
“buh!”. Lo ammetto, la mia immaginazione
è decisamente infantile e assolutamente fuori controllo. Un
difetto dovrò pur averlo, no?
Così,
persa nella mia testa, lasciavo che fosse la macchina
a guidarmi invece del contrario, permettevo alle ruote di svoltare su
vie familiari, congeniali ai pneumatici e rilassanti per il motore.
Senza rendermene conto imboccai la solita strada che facevo per andare
a scuola.
«Fermati,
Lisa! Dove stai andando? Dovevi andare dritta
invece che girare a destra! Il centro commerciale è per di
là!» sbraitò immediatamente Katia,
allungandosi a scrollarmi una spalla. Tornai alla realtà
così bruscamente che d’istinto inchiodai e per
poco non tamponai la vettura che mi precedeva. Non stavo guidando a
velocità troppo sostenuta eppure il contraccolpo della
cintura di sicurezza mi tolse il fiato per un momento. Anche Kat fu
sbalzata all’indietro ma non ebbe troppi problemi a
recuperare altra aria da espellere.
«Porca...
Ma dove hai la testa? Volevi farmi morire di paura?
Cazzo, se vuoi che sia io a guidare non farti problemi a dirlo, metti
da parte un momento il tuo orgoglio, ma non farci ammazzare tutte e
due!».
Non la stavo
ascoltando. Avevo lo sguardo fisso nel vuoto e il
cervello, compresso e narcotizzato, sparato alla velocità
della luce nello spazio. Prima di riuscire a formulare di nuovo un
pensiero mi ci vollero alcuni minuti, durante i quali Kat non la
finì un momento di blaterare e la coda di auto dietro di noi
di suonare i clacson all’impazzata. Infine, lo stesso lampo
che mi era balenato nella testa, la causa della mia frenata
così brusca, riaffiorò dalle pieghe della mia
memoria.
“Ho
visto qualcosa...”, fu la prima cosa che mi
passò per la mente. Non appena accettai questo fatto, il mio
cervello, schizzato indietro a velocità ancora
più elevata dall’universo alla mia scatola
cranica, parve decomprimersi e sospirare di sollievo. Misi di nuovo a
fuoco la realtà che mi circondava e trovai perfino la
lucidità per aprire la portiera a Kat, che prese il mio
posto da guidatore, e infilarmi, malferma, di nuovo in macchina,
stavolta dalla parte del passeggero posteriore. Prima di ripartire
accennai un gesto di scuse attraverso il lunotto alla donna corrucciata
e impaziente che guidava una Mini verde polveroso a pochi centimetri
dalla mia Peugeout 206.
Con uno scatto
rabbioso, Kat ingranò la prima e si
lasciò alle spalle la coda insofferente di uomini in scatola.
Nei seguente dieci
minuti nell’auto non volò una
mosca. Poco più avanti, Kat scovò un
parcheggiò e praticò una disinvolta inversione a
U che ci riportò nella direzione giusta, imboccò
con decisione la svolta adatta e proseguì ad
un’andatura meno sciolta del solito ma in ogni modo naturale.
Il tutto nel silenzio più assoluto. Per un certo verso non
mi dispiaceva: avevo il tempo e la concentrazione adatta per pensare e
cercare di ricordare quello che avevo visto, un’immagine
sempre più sfocata e confusa che man mano si stava ritirando
verso gli angoli della mia memoria, ma d’altra parte sentivo
il bisogno di parlarne con Katia, e subito, nonostante ancora non me la
sentissi di aprire bocca.
«Insomma,
che ti è successo?»
sbottò di punto in bianco Kat mantenendo la testa
rigidamente voltata in avanti. Provai inizialmente un tiepido moto di
gratitudine verso la mia amica dovuto al sollievo che fosse stata lei a
prendere la parola, un sollievo che subito la fiamma fredda della
risposta che mi bruciava dentro spense.
«Non mi
crederesti» mugugnai spremendomi il
cervello per ricavarne ancora almeno un invisibile filamento di
ciò che stavo lentamente dimenticando.
«Prova a
spiegarmelo lo stesso. Un colpo di sonno? Hai
riposato male? O forse un malore?». Lo sguardo azzurro che si
rifletteva nello specchietto anteriore si fece improvvisamente cupo.
Scossi la testa.
«Sei
fuori strada. Io sto bene. È stato come... un
flash. Un lampo. Un’immagine, credo, che si è
sovrapposta alla realtà e mi ha spaventato. Non so come
descriverlo, faccio fatica a riviverlo...». Un gemito di
frustrazione mi rimase incastrato tra i denti mentre
strizzavo gli
occhi, concentrata al massimo. Un dolore acuto alla
tempia mi perforò il cranio da parte a parte. Mugolai.
«Cioè,
hai avuto una specie di visione?
Giusto?» azzardò Kat, strascicando le parole una a
una come se dovesse ricredersi subito dopo.
«Sì,
probabilmente. Un’apparizione, una
manifestazione di un qualcosa fottutamente trascendentale, che ne so.
Non riesco a ricordare bene...».
«Smettila
di pensarci, allora. Vedrai che ti
tornerà in mente prima o poi» consigliò
saggiamente la mia amica. Sospirai volgendo il mio sguardo al paesaggio
sfocato fuori dal finestrino, in cerca di qualcosa che potesse
tamponare quel buco nero che era la mia memoria a breve termine.
Centinaia di automobili sfrecciavano al mio fianco, chi più
chi meno veloci, o nuove, o sfasciate, o impolverate, o tirate a
lucido, ognuna comunque attirava su di sé i raggi di sole e
rifulgeva di essi... rifulgeva... riful...
Una fitta alla
testa. Luce. Tanti piccoli dischi di luce. Anche dei
numeri, forse. Pareti luccicanti... Ah, se solo non mi fosse girata
tanto la testa! Annaspavo. Delle mani mi tiravano, mi toccavano con
prepotenza, mi martellavano nella testa con le loro calde voci
silenziose...
Buio.
_
Lisa! Lisa! Oh,
Santissimo... Lisa!».
Riemersi
sputacchiando e inspirando profondamente. Due mani mi
schiaffeggiavano leggermente le guance e due occhi azzurri mi fissavano
preoccupati. Katia.
Mi rizzai a sedere
tanto in fretta che mi girò di nuovo la
testa.
«Che
è successo?» domandai con un filo
di voce. Mi accorsi di essere stesa sul sedile anteriore della
Peugeout. La macchina era ferma ad una piazzola di servizio con le
quattro frecce accese e tutte le porte aperte. Kat mi
ricacciò indietro.
«Per
piacere, stai giù! Hai avuto un mancamento
perciò ho mi sono fermata il prima possibile. Hai gridato
qualcosa mentre eri svenuta, sembravi posseduta! Mi hai fatto morire di
paura...». E per la prima volta dopo anni e anni, Kat non
seppe più cosa dire. Rimase senza parole, un avvenimento
talmente raro cui temevo non assistere mai.
Nota: svenire
più spesso. Se portava a quegli effetti...
Sbattei gli occhi,
confusa, tentando di ricostruire
l’accaduto.
“Allora,
cominciamo dall’inizio. Stamattina svegliata presto, andata
in cucina per terrorizzare Daniel, mangiato nutella con peperonata di
zia Lidia, preso macchina per andare al centro commerciale con Kat,
avuto visione allucinante... Ecco, ci siamo. È stata quella
visione! L’ho avuta di nuovo. O forse era solo una specie di
richiamo, come col vaccino... L’ho dimenticata e per questo
loro me l’hanno fatta ricordare. Efficace, certo... Ma... Un
attimo... ‘Loro’ chi?”.
«Come
stai? Lisa, ti prego, parlami, sono davvero
terrorizzata!» mormorò Kat con un filo di voce. Mi
sollevai, più lentamente di prima, su un braccio e la
fissai. Aveva gli occhi sbarrati e lucidi, il mento le tremava e
sembrava non riuscire a smettere di arrotolarsi un lembo della sua
maglia bianca Hello Kitty attorno al dito. Mi faceva una tenerezza
incredibile.
«Kat,
tranquilla. Sto bene. Ho avuto un mancamento, mica sono
morta. Capitano a tutti, giusto? E poi con questo caldo è
più che normale... Contando che stasera andiamo al concerto,
poi, era praticamente inevitabile!». Tentai di sorridere per
sdrammatizzare e i muscoli del mio viso si tesero dolorosamente, come
se fossero stati anni che non aprivo bocca.
«Vuoi
tornare a casa?» mi domandò
apprensivamente Katia, tastandomi la fronte per sentire se avevo la
febbre. Scostai dolcemente la sua mano, mettendomi dritta.
«Ma no,
sto bene. A te serve una maglietta nuova e quindi
andiamo a comprarti una maglietta nuova!».
«Però...».
«Taci!
Niente ‘però’! Non
voglio sentirti protestare! Non ho niente che m’impedisca di
consigliarti a dovere come una buona amica dovrebbe fare,
perciò metti in moto prima che ti spedisca al centro
commerciale a pedate!».
Kat mi sorrise,
mormorò un grazie e corse a sedersi al posto
del guidatore asciugandosi di nascosto le lacrime.
_
«Sai,
non lo ricordavo così grande».
Kat
seguì il mio sguardo lungo la costruzione scrostata fino
ad arrivare alla cima in vetro, che ammiccava invitante agli affannati
compratori. Finalmente, dopo tutte le peripezie che avevamo affrontato
durante il viaggio, eravamo arrivate a destinazione. Quasi non ci
credevo!
«Già,
anch’io me lo ricordavo
più piccolo... Sarà perché non ci
veniamo mai. Dobbiamo organizzare più spesso missioni
esplorative qui dentro, che ne dici?», ridacchiò
la biondina punzecchiandomi i fianchi con le dita. Mi scansai di lato e
le afferrai i polsi per impedirle di attaccarmi di nuovo.
«Sono
perfettamente d’accordo, ma se ora non ci
sbrighiamo non troveremo nemmeno un calzino bucato! Muoversi,
dentro!», ordinai fingendo imperiosità.
«Agli
ordini, mio despota!», esclamò Kat
mettendosi sull’attenti. Ci prendemmo a braccetto e ridendo e
barcollando come una coppia di ubriache attraversammo le doppie porte
scorrevoli.
«Allora,
è di là, vero?».
«Be’,
se non hanno scambiato i reparti,
sì, è di là».
«Eccoci.
Ah, il mio paradiso... Dunque, io avevo in mente un
qualcosa come questa qui. Che ne pensi?».
«Non
male, non male... Ma non ti sta meglio qualcosa di
più chiaro, con la tua carnagione?».
«Nooo,
questa va benissimo! Perfetto, poi ques... Oh mio Dio,
Lisa! Guarda chi c’è!».
«Chi?».
«Marco!
Il tipo della festa! Quello moro, davanti al
camerino, hai capito chi, no? Oh, cazzo. Si è girato da
questa parte! Vieni qua, scema, nascondimi!».
«Ahia,
Kat, che mi tiri?! Si può sapere
perché non vuoi vederlo?».
«Alla
festa è successo un casino, ti
spiegherò più tardi. Ti dico solo che
è colpa sua se non ho più la mia maglia
nera...».
«Vuoi
dire che ha provato a...?».
«Shhhh!
Shhh! Smettila di parlarmi! Oh, no, viene verso di
noi... Ecco, è stata tutta colpa tua!».
«Scusa,
ma non è tanto facile comportarsi
naturalmente con una che ti tira tutta la maglia da dietro!».
«Insomma,
ti lamenti sempre! Adesso comportati con
naturalezza, mi raccomando, non voglio far brutte figureeecciaaaaaaao,
Marco!».
«Salve
ragazze! Anche voi a far compere?».
«Sì,
ci dobbiamo addobbare per bene per il
concerto di stasera, giusto, Lisa?».
«Ahiu!
Eh, eh sì, abbiamo tante cose da
comprare...».
«Allora
vi lascio, ci vediamo in giro. Ciao!».
Non appena Marco
sparì alla vista, mi voltai con uno sguardo
che uccideva (letteralmente) e fulminai Katia.
«Che
bisogno c’era di darmi un pizzicotto del
genere? Mi avrai lasciato il livido, cretina!» piagnucolai
massaggiandomi la schiena. Katia incrociò le braccia al
petto e mi polverizzò con un’occhiata altrettanto
letale.
«Sembravi
un baccalà, ho dovuto farti reagire!
Sapevi che avevo bisogno di aiuto, e...».
«Sì,
tu e il tuo “addobbare”,
mica siamo alberi di natale!».
«Insomma,
ero in imbarazzo, per la miseria! E tu non mi hai
dato una mano per niente!».
«Ok, ok,
time out. Stare a litigare per quello non ne vale la
pena. Dobbiamo concentrarci sulla nostra missione!».
«Hai
ragione, pace... Dunque, ti dicevo, una maglietta del
genere...».
. .
.
[Moooolto
tempo dopo]
«Kat...
Uff... Una mano...».
Katia si
girò guardandomi innocentemente dall’alto
del suo metro e settantatre. In una situazione normale io superavo la
mia amica di qualche, fondamentale, centimetro, ma sotto il peso
eccessivo di cinque borse stracolme mi sentivo nettamente
più bassa. Katia, dicevo, si osservò le mani
pallide e affusolate.
«Cos’ha
che non va la mano? È per la
forma strana del pollice della destra, vero? Non ci posso fare nulla,
ho cercato di correggerne la direzione, ma quello non ne vuole
sapere!».
Sbuffai e mi
sostenni al parapetto delle scale, riprendendo fiato.
«No,
Kat, le tue mani sono bellissime. Ti stavo chiedendo se
potevi darmi una mano a portare le borse. In fondo è roba
tua» spiegai con pazienza. Inspirai a fondo e tossii. Ero
tutta sudata e l’aria condizionata mi stava irritando la
gola. Acqua, acqua!
«Lo sai
che ti aiuterei volentieri, Lisa, ma sono appena
andata a farmi la manicure, mi si creperebbe lo smalto. E non posso
rischiare di avere un’unghia diversa dalle altre, non
stasera!» spiegò la bionda con decisione.
Certo. Lei non
doveva rovinarsi la manicure, ma io potevo
tranquillamente già segnarmi sull’agenda tre anni
di ginnastica correttiva per l’accenno di scoliosi che ero
sicura mi fosse venuto quel giorno.
«Avanti,
energia, andiamo!», trillò Kat
saltellando giù per le scale. Una lunga rampa di scale. Una
lunghissima rampa di scale. Un peso mi precipitò in fondo
allo stomaco. Mai, mai ce l’avrei fatta ad affrontare quelle scale! Le
conoscevo bene, e avevo già avuto la mia brutta esperienza
dovuta a un gradino inspiegabilmente scivoloso e a un corrimano di
cartapesta. Ma questa è un’altra storia.
Mai, mai ce
l’avrei fatta ad affrontare quelle scale.
«Ehm,
Kat?», chiamai, impalata sul primo scalino.
Solo al secondo richiamo, più forte del precedente, Katia e
circa qualche decina di persone si girarono. «Senti, sono
distrutta, non credo di riuscire ad affrontare anche le scale...
Facciamo così, io prendo l’ascensore e poi ci
troviamo fra due minuti all’uscita, davanti alla macchina.
D’accordo? Bene, ciao» affermai dirigendomi verso
le due porte argentate che s’intravedevano fra un negozio di
articoli sportivi e uno di alimentari.
«Ma dai,
aspettami vengo con te!»,
esclamò Kat scapicollandosi di nuovo su per raggiungermi.
«No!»
la fermai. Kat era deliziosa, una bella
persona e molto piacevole, ma un intero pomeriggio non-stop con lei
induceva a pensieri allettanti di lamette e cornicioni mooolto alti.
Insomma, stavo rischiando l’overdose, e quei cinque minuti di
silenzio dondolante nell’ascensore sembravano essere la mia
unica cura.
«Stai
tranquilla, vado da sola! Tu sei già a
metà scala, non ha senso tornare indietro! E poi forse devo
fermarmi anche in quella fumetteria...». Era la parola
magica. Per Katia, la fumetteria del centro equivaleva
all’acqua santa per il diavolo. Difatti, la sua espressione
mutò completamente.
«Ah,
devi passare in fumetteria? Perché non me
l’hai detto subito? Allora ci vediamo fra dieci minuti alla
macchina, ok? Ciao!». Svanì ancora prima che
registrassi completamente il senso delle sue parole.
Più
leggera di dieci chili (senza contare borse e borsette
varie, ovviamente), trotterellai verso l’ascensore. Premetti
il bottoncino luminoso e osservai deliziata le porte aprirsi, come per
magia. Era vuoto. Mi infilai dentro il più agilmente
possibile, stiracchiandomi deliziosamente non appena potei mollare le
borse a terra, felice di essere felice. Schiaccia il bottone del piano
terra, e aspettando che gli ingranaggi si mettessero in funzione, presi
a guardarmi attorno, lieta che le pareti rivestite di metallo argentato
non apparissero claustrofobiche come avevo immaginato e che le sbarre
fissate ai lati sembrassero così sicure; presa dal mio test
sulla solidità dei sostegni, quasi non notai che un attimo
prima che le porte si chiudessero un altro passeggero s’era
introdotto frettolosamente nella fessura rimasta aperta.
Riuscì a passare per un pelo, perse l’equilibrio e
si aggrappò alla sbarra dal lato opposto al mio imprecando
in una lingua sconosciuta. Mi trattenei a stento dallo scoppiare a
ridergli in faccia.
Era vestito in
modo particolare, ricercato, mezzo rapper e mezzo
metallaro, con quegli occhiali da sole che parevano coprirgli tutta la
faccia, il cappuccio in testa e degli abiti in cui sarebbero potute
entrare comodamente almeno altre due persone. Un tipo interessante, a
mio parere. Magari, in un’altra occasione non avrei esitato
ad attaccare bottone, ma scossa com’ero non mi pareva proprio
il caso. Rimasi ad osservarlo mentre si lisciava frettolosamente la
felpa e si rintanava disinvoltamente nell’angolo
più lontano da me. Mi resi conto di ricredermi riguardo le
mie supposizioni di conquista. Non era molto più alto di me,
e nemmeno più grande o più intelligente (certe
cose le capivo alla prima occhiata), eppure riusciva ad incutermi una
paura quasi reverenziale nei suoi confronti. Non sarei mai riuscita a
rivolgergli la parola.
L’ascensore
fece un tremito e il piacevole senso di vuoto
allo stomaco mi segnalò che finalmente stavamo scendendo.
Scrollai le spalle per scacciare il brivido freddo corsomi lungo la
schiena e mi affrettai a radunare tutte le borse rimanendo saldamente
attaccata al corrimano.
Neanche un minuto
dopo, quando più o meno ci trovavamo a
metà strada, sentimmo dei rumori sinistri e preoccupanti, e
fra cigolii e scossoni l’ascensore si bloccò.
*
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Capitolo 3 *** L'Ascensore ***
3^ parte
All’ennesimo scossone le mie gambe cedettero e caddi di peso
sopra la piccola montagna di borse, le quali attutirono il colpo anche
se non tanto quanto mi aspettavo. Provai a tirarmi su, ma i continui
sussulti mi facevano perdere l’equilibrio, perciò
mi arresi e decisi di aspettare, frustrata. Finalmente, la piccola
gabbia di metallo cigolò lamentosamente un’ultima
volta e si fermò. Mi rialzai sbuffante, tremando e
barcollando, piegata in due dal dolore al mio povero sedere,
più volte vittima di un’ennesima dimostrazione
della giustezza della forza di gravità. Mi massaggiai il
punto dolente lamentandomi e gemendo in maniera indecente per parecchio
tempo prima di ricordare di non essere sola. Il mio compagno di
viaggio, ovviamente, mi stava fissando. Che scena patetica, patetica!,
pensai, rossa d’imbarazzo, tentando invano di ricompormi. Il
misterioso passeggero non sembrava contrariato, o scandalizzato, anzi,
mi osservava con curiosità, tranquillo, ostentando sul viso
un sorrisetto malizioso.
“Anzi,
irritante”, mi corressi. A uno così avrei
volentieri dato una bella lezione in un parcheggio solitario, se solo
non fossi stata bloccata in quell’ascensore che... Oh,
giusto! L’ascensore!
Un brivido di
panico mi scese giù per la schiena; come aveva potuto il
semplice sorriso di uno sconosciuto farmi dimenticare tutto il resto?!
Mantenendo a freno l’agitazione che mi scorreva nelle vene
come adrenalina mi avvicinai alla pulsantiera (che, guarda caso, si
trovava di fronte al mio passeggero) cercando il bottone di allarme.
«Proprio
a me doveva capitare» borbottavo. «Come se oggi non
fossi già abbastanza agitata di mio per il concerto e per
Kat... Ma perché cazzo non c’è il
bottone d’allarme?», urlai tirando un pugno alla
parete dopo un ennesima perlustrazione dei minuscoli pulsantini
scoloriti. Il mio misterioso compagno sobbalzò per la
sorpresa. Nemmeno lo guardai.
In preda a una
paura cieca, cominciai a schiacciare tutti i bottoni dai numeri
indecifrabili, uno per uno, senza ricevere risposta. Oddio, se non
fossi uscita subito da lì sarei impazzita! Ma
dov’era, dov’era quel bottone fottuto?
Tirai un calcio
alla parete ruggendo per il disappunto e improvvisamente due mani forti
e grandi mi presero i polsi. Dietro il vetro protettivo degli
occhialoni neri, il ragazzo mi guardò con tenerezza (era
quello che potevo solo supporre) prima di chinarsi sulla pulsantiera
con un’espressione impassibile e mettersi a studiarla con
attenzione e sistematicità. Respirai forte, tentando di
calmarmi mentre mi ripetevo ossessivamente che sarebbe andato tutto
bene e che sarei uscita subito. Dopo qualche secondo il giovane
sospirò e mormorò qualcosa che assomigliava a
“scheisse” prima di voltarsi a cercare il mio
sguardo e stringersi nelle spalle, allargando le braccia. Anche lui
aveva fallito.
Lo stomaco mi
precipitò fino alle caviglie. Le labbra cominciarono a
tremarmi.
«Non
è possibile. No... Non dirmi che rimarremo chiusi qui
dentro! No! No! Non oggi! No! Non io!». Il respiro mi era
diventato affannoso, le pareti mi comprimevano, sempre più
vicine, sempre più vicine, il soffitto mi sembrava
lontanissimo e la luce girava, girava, girava...
Caddi a terra,
prendendomi la testa fra le mani. Un ronzio soffocante mi rimbombava
nelle orecchie, quasi sovrastato dai miei stessi ansiti, pesanti e
faticosi di nausea. Non immaginavo di essere claustrofobica, non lo
sapevo. Cioè, gli ascensori mi avevano sempre messa a
disagio, come le piccole stanze, i tunnel e gli sgabuzzini, ma non
avevo mai creduto di poter arrivare a questo punto! Aria, avevo bisogno
d’aria!
Il ragazzo si
inginocchiò accanto a me, sinceramente preoccupato,
facendomi vento con le mani. In pochi secondi riuscii ad aprire la
morsa delle mia mani e a tornare a respirare quasi tranquillamente. Lo
sconosciuto, più pallido di un cencio, mi sorrise,
sollevato. Mi sembrava impossibile che un ragazzo con cui ero in
ascensore da neanche cinque minuti e che non aveva ancora aperto bocca
si preoccupasse tanto per me.
«Sto
bene, sto bene» biascicai appoggiandomi al pannello metallico
dietro di me per alzarmi. Vi abbandonai contro la testa e chiusi gli
occhi, ansimando, il petto schiacciato da un peso troppo opprimente
perché potessi sopportarlo a lungo.
«Are you
ok?».
In un primo
momento, credetti di aver solo immaginato quella voce calma e profonda
al mio orecchio. Solo poi mi resi conto di aver udito parlare per la
prima volta il ragazzo misterioso.
«Oh, you
aren’t...! Sorry, I thought... Yes, I’m...
fine» balbettai, troppo imbarazzata dall’aver
conversato animatamente con uno straniero che non capiva
un’acca dei miei vaneggiamenti per ricordare le nozioni
fondamentali della lingua inglese.
«Are you
English?» domandai timidamente per distrarmi dal dolore acuto
che mi attorcigliava le budella. Lo sconosciuto sorrise, scoprendo due
file di denti bianchissimi. Uno sfavillio metallico
occhieggiò dal suo labbro inferiore.
«No,
I’m German».
Con uno scatto di
ingranaggi che finalmente cominciavano a girare per il giusto verso, il
mio cervello si accese e in un nanosecondo fece due più due.
Ricapitolando. Il
ragazzo era tedesco, non dimostrava più di diciotto anni,
alto un metro e un lampione, vestiva abiti esageratamente larghi e
aveva un piercing al lato sinistro della bocca.
I miei occhi si
sgranarono all’inverosimile quando, tanto per completare il
puzzle, da sotto il cappuccio mimetizzante della felpa-tendone, scorsi
un rasta biondiccio.
Ok.
Ok.
Non. Era.
Possibile.
Ok. Calma.
Lanciai un urlo
che per poco non perforò le porte blindate
dell’ascensore e che fece fare al ragazzo un salto
all’indietro dallo spavento. Le ginocchia, già
molli di natura, mi cedettero di nuovo e scivolai sul pavimento gelato.
«T-t-tu...
tu...». Con il dito tremante indicai il poveretto.
«Tu... tu sei...». La bocca mi rimase spalancata e
cascante.
L’ormai
non più sconosciuto sospirò, rassegnato
all’inevitabile, e lentamente si tolse occhialoni e cappuccio.
Una pioggia di
dread color miele cadde sulle sue spalle magre. Uno sguardo nocciola
caramellato mi trafisse da parte a parte. E il piercing
scintillò ancora, ancora e ancora, riflesso cento, mille
volte dalle pareti, tutt’attorno a me.
Cazzo.
Ero bloccata in
ascensore con Tom Kaulitz. Tom Kaulitz!
Ora sì
che avevo bisogno d’aria.
_
{Per
comodità, tutti i dialoghi descritti qui di seguito, anche
se in lingua tedesca, li scriverò in italiano, essendo io
l’esatto contrario di una poliglotta xD}
«E
così...».
Non completai la
frase. Troppa fatica.
«Già»
rispose Tom.
Ce ne stavamo
entrambi stesi a terra con la testa appoggiata al pannello metallico di
fronte alla porta, indolenti. Era passata quasi un’ora da
quando eravamo rimasti chiusi lì dentro e ancora nessuno si
era fatto vedere. Dopo un’ennesima ispezione alla pulsantiera
avevamo scoperto il pulsante d’allarme, un minuscolo
bottoncino praticamente a livello soffitto che, ovviamente, era stato
sfasciato da qualche irresponsabile teppista.
A un certo punto
Tom aveva avuto l’illuminazione di tirare fuori il cellulare,
che però, non appena aveva avviato una chiamata, si era
spento. Batteria scarica. E il mio, per paura dei ladri al concerto,
l’avevo lasciato a casa. Che sfiga bestiale.
E così,
eccoci lì, in maniche corte, accaldati, sudati per la
forzata permanenza sotto il calore della luce sopra la nostra testa,
costretti ad appoggiarci alle pareti gelate per trovare un
po’ di refrigerio. Almeno la nausea era passata.
Dopo i primi
minuti di imbarazzanti gridolini, occhi sgranati e luccicanti, bavetta
alla bocca e domande biascicate, reverenziali fino
all’assurdo, a cui, fra l’altro, Tom aveva reagito
piuttosto bene, io e il chitarrista di fama mondiale ci eravamo
lasciati cadere a terra, vicini ma troppo sfiniti anche solo per alzare
una mano.
Ogni tanto mi
veniva in mente una domanda che non gli avevo ancora rivolto, gliela
proponevo e lui decideva se rispondere (sempre esaustivo anche se senza
entusiasmo), o tacere, facendomi capire di essermi permessa troppo.
Il tempo passava e
io avevo sempre più sete e fame. Il luccichio delle
paillettes che adornavano la mia maglia m’ipnotizzava,
rendendo difficile tenere ancora gli occhi aperti.
«Come
conosci il tedesco?».
Ancora una volta,
quella voce setosa, baritonale, così piacevole
all’udito, mi fece rabbrividire e battere fortissimo il cuore.
Deglutii e la
lingua secca mi raschiò la gola.
«Mio
padre è di Berlino. Quando si è sposato
è venuto a vivere qui, in Italia, anche se a malincuore.
È stato lui che fin da piccola insisteva per farmi
apprendere il tedesco. Amava troppo la sua città,
però, e troppo poco mia madre. Dopo qualche anno, quando
mamma era incinta di mio fratello, svanì nel
nulla».
Raccontai di mio
padre senza tristezza né rimpianti, mantenendo senza fatica
la voce ben ferma. Per me, quell’uomo era solo un bastardo
che non meritava nemmeno di essere chiamato genitore: lo odiavo.
«Mi
dispiace» mormorò Tom voltandosi a guardarmi.
«A me
no». Il sussurro che mi scivolò fuori dai denti
suonò come un ringhio. Lo odiavo. Lo odiavo. Lo odiavo!
Fissai le mie
scarpe da ginnastica fino a renderle sfocate e indistinte, cercando di
concentrare l’odio che mi bloccava la mascella nei miei
occhi, fino a friggere i lacci delle sneakers; ovviamente non ci
riuscii, allora mi calmai.
«Anche
mio padre non era il massimo, sai?», disse Tom. «Ha
lasciato mamma quando io e Bill eravamo piccoli».
«Lo
so» sorrisi debolmente.
«Ah,
già. Tutti sanno tutto, ormai». Fece una smorfia.
«Dici che cronometrino anche quanto tempo passo in
bagno?» e mi abbagliò di un altro sorriso
mozzafiato. Dopo qualche secondo, indispensabile per riprendere a
respirare, sorrisi:
«Magari
ci stanno provando!». Entrambi ridemmo sommessamente.
«Mi
parli ancora un po’ di tuo fratello e dei tuoi
amici?» supplicai, bruciante di curiosità. Tom
sbuffò, ma bonariamente, e anche se probabilmente aveva la
gola più secca della mia, si lanciò nel resoconto
completo della loro ultima tappa a Roma.
Ad un certo punto,
com’è normale, cambiò posizione, e la
sua spalla sfiorò la mia. Il cuore mi andò a
mille, facendomi rimbombare il sangue nelle orecchie. Mio Dio, potevo
sentire il suo profumo... sapeva un po’ di sudore, dopo tutto
quel tempo sotto il neon, ma era indescrivibilmente buono.
Ignorando il caldo
soffocante, anch’io mi spostai impercettibilmente
più in là, trovando la sua mano proprio sotto la
mia. Trattenei il fiato, combattuta se spostarla o no: osavo troppo?
D’altronde, un’occasione così non
sarebbe mai più capitata. A liberarmi dal peso dei dubbi ci
pensò Tom, il quale si zittì, osservò
con curiosità le mie dita posate sulle sue e sorrise
dolcemente; poi riprese a raccontare come se nulla fosse accaduto.
Non
spostò la mano di un centimetro.
In quel preciso
momento, ebbi la chiara e travolgente sensazione di essere la persona
più felice del mondo.
«Ma
ancora non mi hai detto che ci fai qui, in questo centro commerciale
sperduto e desolato. Non hai un concerto fra poche ore?» gli
domandai per non cominciare a costruire troppi castelli in aria. Tom si
batté una mano sulla fronte.
«Merda,
il concerto! Me ne stavo dimenticando!».
«Come
puoi dimenticarti di dover fare un concerto?». Ero piuttosto
scettica all’idea che ciò fosse possibile.
Il ragazzo mi
guardò come se fossi una contadinotta che non sapevo nulla
di show business (ed effettivamente era vero) prima di fare una smorfia
buffissima.
«Quando
devi salire sul palco un giorno sì e uno no non è
poi così difficile confondersi con le date o sperare di
avere una serata in più di riposo. Anche se, a dire la
verità, sei stata tu a farmi dimenticare tutto: sto troppo
bene qui con te per pensare ad altro».
Il viso mi si
colorò all’istante di una sfumatura violacea.
Aria, aria, aria!
«Guarda
che non mi incanti con le tue belle frasi fatte» balbettai
con decisione, nonostante la mia espressione gridasse a lettere
lampeggianti il contrario.
«Dico
sul serio» rincarò Tom sorridendo sornione.
«Sei la persona più piacevole che mi è
capitato di incontrare nelle ultime ventiquattr’ore, e anche
di aspetto non sei affatto male». I suoi occhi scivolarono
lungo il mio corpo rannicchiato, scintillanti di una fame che non sarei
mai riuscita a saziare. Gli schiaffeggiai lievemente il braccio.
«Perdi
tempo a flirtare con me, bello: non riuscirai a portarmi a
letto». Di nuovo, la mia espressione di venerazione non
troppo nascosta smentì tutto lampeggiando ancora
più luminosa.
«Scommettiamo
che prima che vengano a recuperarci ti avrò
convinta?» mormorò con voce di velluto il ragazzo
facendosi più vicino. Come reazione io mi allontanai,
stringendo le mascelle per resistere all’istinto bruciante di
avvicinarmi che, nascosto in un parte imprecisata del mio stomaco, mi
tirava dall’altra parte. Se qualcuno non fosse arrivato
subito, mi sarei spezzata in due, era sicuro!
«Provaci»
mugugnai a denti stretti. Tom ridacchiò, tranquillissimo, e
scivolò lungo la parete fino a trovarsi all’angolo
opposto contro il quale mi ero raggomitolata io.
«Non mi
sforzerò neanche, tanto sarai tu a venire da me».
E rise, cristallino.
Il tempo passava e
i suoi occhi erano sempre lì. Non mi lasciavano un istante,
mi tenevano loro prigioniera, gentili di una cieca
brutalità, pesanti come pietre, ammalianti come cristalli
dalle più lucenti sfaccettature.
Ed erano sempre
lì.
Come poteva
restarsene immobile per così tanto tempo? Non sembrava
nemmeno battere le palpebre, come fosse stato una statua dai lineamenti
angelici, immutabile quanto bella. Era irritante!
«Hai
intenzione di fissarmi e non dire niente ancora a lungo?»
sbottai dopo fin troppo tempo passato a cacciarmi di nuovo
giù in gola quella domanda. Tom sorrise e non rispose.
«Sarebbe
carino ribattere se qualcuno ti interpella». Tom non rispose
e sorrise.
«Sto
parlando con te, sai. In un’altra circostanza magari potresti
fare finta di nulla, ma qui e ora
no» sibilai, altezzosa.
Tom sorrise. E
basta. I miei occhi si tinsero di rosso sangue.
«Che
cazzo c’è da ridere, coglione che non sei
altro?» strillai facendo per alzarmi in piedi ed andare a
suonargliele. Minaccia gettata al vento. La statua-Tom non
batté ciglio.
Perché
non si muoveva, non parlava, non dava segno di vita? Perché?!
Mentre gli
ingranaggi del mio cervello lavoravano per trovare una risposta, una
freddezza non mia s’impadronì a poco a poco del
mio corpo irrigidito, spingendomi gentilmente a sedermi. Ed ecco, il
suo piano mi si delineò nella mente.
Altro che
coglione, quel tipo era una vera e propria macchina!
“Non
mi sforzerò neanche, tanto sarai tu a venire da
me”.
Quella frase non
era stata buttata lì a caso: lui sapeva.
Se mi fossi
avvicinata, gliel’avrei data vinta, e io non volevo, oh no,
mai.
Non avrei ceduto,
a costo di impazzire. Mai.
{Poco tempo dopo}
«Parla,
porca puttana!» strillai tirando un pugno alla parete; mi
feci male, ma ciò che più mi irritò fu
la vibrazione ridondante del metallo, un suono tanto potente da farmi
tremare la cassa toracica. Ringhiai, e prima di aver solo finito di
pensarlo, ero in piedi. Cercai di sfogare la mia rabbia camminando
avanti e indietro, ma ad ogni giro dello stretto cubicolo, questa
aumentava. Ero in trappola. Ero in trappola!
«Voglio
uscire, cazzo! Non ce la faccio più, fatemi
uscire!». E ancora pugni e calci dati alla cieca alle pareti,
al pavimento, alle porte dell’ascensore serrate come
tenaglie. La testa riprese a girare, il respiro a farsi sempre
più secco e doloroso. Aria, aria, ARIA!
Stavo perdendo le
forze, non mi rimaneva più niente oltre alla sete che mi
lacerava la gola, un improvviso senso di freddo e il ronzio ovattato
del mio ansare.
E ad un certo
punto, anche l’aria finì.
Non quella
presente nell’ascensore, ce n’era ancora in
abbondanza, finì invece quella nei miei polmoni, incapaci di
incamerarne di nuova.
Boccheggiai a
caddi a terra. Il dolore alle ginocchia non era niente, niente a
confronto del bruciore raschiante della mancanza d’ossigeno
nel mio petto e nella mia gola. Tutto era appannato e distorto.
Allora presi la
mia decisione.
La mia inutile
dignità, il mio stupido orgoglio, il mio corpo, la mia
mente... avrei gettato tutto in pasto a una belva feroce se solo questa
avesse potuto liberarmi. E lo feci.
Con gli occhi
pieni di lacrime strisciai fino all’angolo dov’era
inginocchiato Tom, teso e pronto a venirmi in soccorso.
Ero troppo stanca,
troppo sfiancata, troppo debole per lottare ancora.
Non ebbi
esitazioni nel gettarmi fra le braccia della fiera affamata,
m’importava solo di veder sciolte le mie catene, solo questo.
Ero troppo stanca, troppo...
Mi lasciai cadere
fra le sue braccia, nuda ed inerme, pregavo. E la belva mi sorrise.
Il suo petto era
caldo, le sue braccia forti ; gli occhi scintillavano, il profumo mi
stordiva.
«Ti
prego...» mormorai aggrappandomi alla felpa enorme del
ragazzo. Vedevo le sue labbra muoversi, ma nessun suono riusciva a
sovrastare il fischio che mi trapanava le orecchie. Nemmeno io riuscivo
a sentirmi.
«Ti
prego... Fuori. Bisogno... aria», biascicai. Mi ero arresa.
Mi ero arresa a lui.
Inspirare,
espirare, mi ripetevo. Inspirare, espirare, inspirare, espirare,
inspi...
Annaspai alla
cieca in cerca d’ossigeno. Le labbra che ormai percepivo solo
come una forma sfocata, ripresero a contorcersi in grida mute. Forse
chiamavano il mio nome, lontano lontano. E come danzavano le luci sul
soffitto...
Qualcosa dietro i
miei occhi esplose e tutto divenne buio.
_
Nella mia testa si
stavano affollando tante cose. Per lo più si trattava di
masse indistinte di luci, colori e suoni, anche se ogni tanto uno di
loro emergeva per pochi secondi, mi passava davanti e poi si dissolveva
nell’oscurità. A tratti udivo il mio nome, un
sussurrio così debole da poterlo scambiare per un soffio di
vento se solo non avessi saputo di trovarmi nella mia mente, e
lì dentro di aria non ne poteva circolare.
Non è
che si stesse male, no, affatto, ma tutto quel buio cominciava a
stancarmi, perciò con fatica provai a dirigermi verso
l’agglomerato pulsante di pensieri. Pareva di camminare nel
fango, ero invischiata nei ricordi... A poco a poco lo raggiunsi, e
quando lo toccai con una mano un’immagine ben precisa mi
esplose davanti, la stessa immagine della “visione”
che avevo avuto ore prima. La contemplai, stupefatta, e capii. In quel
momento, tossendo e inspirando forte, ripresi i sensi.
_
La prima cosa che
vidi aprendo gli occhi fu il soffitto dell’ascensore,
decisamente troppo lontano; quindi ero ancora intrappolata
là dentro. Merda. Sospirai, abbattuta.
La seconda cosa
che entrò a forza nel mio campo visivo fu il viso
meraviglioso di Tom.
«Meno
male che ti sei svegliata» mormorò affannosamente.
Chissà se era a causa delle luci che mi abbagliavano o
davvero era così pallido...
«Sono
stati i dieci secondi più lunghi della mia vita»
confessò accennando un sorriso. Ancora disorientata, battei
le palpebre un paio di volte per scacciare il torpore che mi impediva
di afferrare il senso delle sue parole. Ad un certo punto mi accorsi di
essere racchiusa tra le braccia gentili del ragazzo, perciò,
imbarazzata, mi liberai della sua stretta per alzarmi a sedere. Non
appena mi mossi le pareti argentate cominciarono a vorticarmi intorno.
«Scusa»
biascicai prendendomi la testa tra le mani: che male mi faceva! Mi
schiarii la gola troppo secca e ci riprovai.
«Scusa.
Non sopporto la tensione, e i luoghi piccoli e chiusi mi terrorizzano;
lo so che avrei dovuto cercare di controllarmi, ma è stato
più forte di me, e...».
Tom mi
posò un dito sulle labbra.
«Non
devi scusarti di nulla. Sarebbe capitato a chiunque» e
sorrise.
Lo fissai. Davvero
voleva cavarsela così?
«Ok, ok,
odio dirlo ma adesso mi sembra necessario se non voglio finire bruciato
vivo da quello sguardo» e finse di tremare di paura. Non mi
mossi di un centimetro e lo fissai più intensamente.
Finalmente, dopo qualche esasperante secondo di tentennamento, Tom
abbassò lo sguardo e soffiò:
«Scusami
tu, non dovevo comportarmi così, è stata colpa
mia. Ecco, sei contenta?» sbuffò voltandosi per
sfuggire al mio sguardo troppo vicino; un leggerissimo rossore gli
colorò le guance. Ammutolii. Wow, non mi aspettavo lo
facesse davvero... Questa sì che era una vittoria! Risi:
«Aspetta,
aspetta, aspetta! È uno scoop! “Tom Kaulitz chiede
scusa”, me lo vedo già su tutti i giornali. Ha!
Chi l’avrebbe mai detto? Puoi ripeterlo di nuovo davanti ad
una telecamera, stavolta?».
«Mai»
borbottò il ragazzo alzandosi e trascinandosi fino al lato
opposto dello stretto cunicolo, dove mi diede le spalle.
«Dai,
cercavo di sdrammatizzare» esclamai. Ancora aspettavo a
dirgli della promessa della mia resa totale a lui, perché
sapevo che l’avrebbe rispettata, in qualunque modo.
Provai ad alzarmi
a mia volta, ma con mio disappunto scoprii di non riuscirci: non appena
mi muovevo la testa mi girava come una trottola. Rimasi seduta.
«Senti»
cominciai, strascicando ogni lettera. «Credo di doverti
dire... grazie. Per... prima» balbettai. Tom non si
voltò.
«Intendo,
durante la mia “crisi”» e mimai le
virgolette con le dita, oltre che con la voce. «E ancora
prima, per essere riuscito a sopportarmi». Pronunciando
ultima parola feci una smorfia. La schiena del ragazzo,
però, rimase muta. Imperterrita, io continuai.
«Sei
stato molto gentile con me, davvero, non me lo sarei mai aspettata
da...»
«Da uno
come me?» concluse Tom voltandosi a guardarmi. Non era
arrabbiato, anzi, pareva divertito,
ma in un suo particolare modo perverso.
«Non
intendevo...».
«Dovresti
sapere ormai che quello che scrivono le riviste non è tutto
vero» m’interruppe ancora, e stavolta non riuscii a
ribattere: un bagliore magnetico, acceso, vivo, che ora definirei felino mi fece
perdere il filo del discorso.
«È
questo che più odio di questa vita, tutti credono di sapere
tutto di me, credono di poter prevedere ogni mia mossa, ogni mia
parola, ogni mio comportamento basandosi solo su quello che io ho
deciso di mostrare loro, perché tanto ormai sono un
cliché, roba vecchia... e invece cosa sanno? Niente»
esclamò tutto d’un fiato.
Rimasi interdetta,
sconvolta da questa sua confessione inaspettata.
«Io non
ho mai pensato di poterti conoscere solo da...»
«Tutti
lo pensano, l’hanno pensato e continueranno a pensarlo,
perché mai tu non dovresti essere come loro?».
«Perché
io sono diversa».
Per un momento
vidi i suoi occhi sgranarsi e mi chiesi se non l’avesse
già capito da sé; poi però il suo viso
ritornò una maschera impassibile, e all’istante
persi ogni sicurezza.
Il silenzio,
pesante, ci avvolse. Fu Tom a romperlo per prima dopo un infinito gioco
di sguardi.
«E in
cosa saresti diversa, di grazia?», mi schernì.
«Beh, se
non te ne sei ancora accorto, temo di non potertelo spiegare»
ribattei, stizzita. All’istante volli tapparmi la bocca: da
dove cavolo saltava fuori quella sicurezza?
Un’aria
superba deformava i lineamenti semplici e dolci del ragazzo. Quasi
sicuramente, la sua espressione era lo specchio della mia.
Ci stavamo ancora
guardando in cagnesco quando l’ascensore ebbe uno scossone e
di nuovo, fra cigolii e lamenti, prese a salire.
*
«Allora?
Non sono semplicemente p-e-r-f-e-t-t-a?».
Sorrisi.
«Sei
bellissima, Kat».
La mia amica fece
una piroetta davanti allo specchio, ammirando l’effetto
svolazzante della gonna nera che da quando aveva addosso non riusciva a
smettere di stropicciare.
«Però
la gonna ancora non mi convince... E nemmeno questa bandana rossa al
polso. Sei sicura che sto bene così?».
«Ma
certo. Sei semplicemente p-e-r-f-e-t-t-a!» le risposi
facendole il verso e una linguaccia. Kat rise, poi, una volta calma, si
accigliò.
«Davvero
non vuoi venire, stasera?» mi chiese fissandomi intensamente
coi suoi occhioni azzurri cerchiati di nero. Annuii.
«Sono
molto stanca, non me la sento. E poi ho già avuto la mia
dose di Tom Kaulitz, direi che sono a posto per tutta la
vita» scherzai.
Kat
alzò gli occhi al cielo.
«Avercela
avuta una fortuna simile! Se fossi stata in te non l’avrei
più lasciato andare!» e zompò ad
afferrarmi la gamba. Ridendo, mi liberai della sua stretta e saltai
giù dal letto.
«Non
è così mitico come tutti ne parlano,
anzi» mugugnai mentre afferravo la borsa sulla scrivania, di
spalle alla mia amica.
«Che hai
detto?» mi chiese quella distogliendosi dalla contemplazione
del proprio riflesso nel grande specchio a muro della mia stanza. Mi
raddrizzai con un sorriso stampato in faccia.
«Ho
detto che devi muoverti se vuoi arrivare in tempo al concerto,
su!» e le diedi una pacca sulla gamba alla quale lei rispose
con entusiasmo, fin troppo.
Due minuti dopo
ero già alla guida della mia Peugeout e sfrecciavo verso
Parco Novi a tutta velocità per poter stare dietro ai miei
pensieri.
_
«Tom,
sei pronto?».
Alzai la testa
dalla mia chitarra, infastidito.
«È
la terza volta che me lo chiedi, Bill, e la risposta è
sempre quella: per niente».
A quella risposta,
mio fratello riprese a torcersi le mani camminando avanti e indietro
lungo quei due metri per tre di camerino; dopo cinque passaggi
tentò anche di fare qualche vocalizzo, ma ciò che
gli uscì fu una specie di lamento stridulo perciò
si limitò solo a passeggiare, o meglio, a girare in tondo.
Io pizzicai
distrattamente le corde della mia Gibson ripensando a quel pomeriggio:
sarebbe venuta davvero? L’avrei rivista? Speravo tanto di
sì.
Giusto per farmi
ancora del male, ricordai la sua espressione vuota quando aveva perso i
sensi in ascensore, alla paura appiccicosa che avevo provato durante
quei maledetti dieci secondi... Era per il terrore istintivo di vedere
qualcuno star male o il panico cieco causato dal veder star male lei? Probabilmente
la seconda opzione. Cazzo, in che casino mi ero cacciato...
Per distrarmi
ripensai a quando, finalmente, qualcuno si era accorto di noi, poveri
ragazzi, bloccati in ascensore da ore. Forse, se non avessimo
cominciato a litigare così forte, la donna delle pulizie che
passava in quel momento non avrebbe nemmeno notato la lucina rossa che
disperatamente lampeggiava dalla pulsantiera esterna
dell’ascensore, e a quest’ora saremmo stati ancora
lì dentro. In poco tempo erano stati radunati tecnici
specialisti che avevano fatto ripartire l’ascensore e noi
eravamo stati tirati fuori.
Mi risparmiai la
scena a dir poco stucchevole del ricongiungimento con Bill, prontamente
avvisato dalla polizia, e volai subito a riassaporare il dolce viso di
Lisa. Lisa, Lisa...
«Tutto
bene?» le avevo chiesto sedendomi accanto a lei, appoggiata
alla vetrina del negozio di alimentari; osservava
l’andirivieni dei tecnici con un’aria spiritata,
assente.
«Sì.
Adesso sì» e mi aveva sorriso. Riconoscevo i segni
della fatica sul suo viso e nei suoi occhi, ma non feci commenti.
«Ascolta»
avevo cominciato, titubante. Gli smeraldi che aveva al posto degli
occhi si erano posati immediatamente sul mio viso: difficile
concentrarsi con quei fari addosso. Deglutii.
«Ascolta,
mi chiedevo se per caso tu non volessi venire al nostro concerto,
stasera... Ci terrei a rivederti, in una situazione un po’
meno drammatica, magari» risi, sfregandomi le mani sudate
sulle cosce foderate di jeans. La sua risposta poteva significare vita
o morte.
«Avevo
intenzione di venirci, in effetti». M’illuminai.
«Però
sono davvero molto stanca, non credo...». Il mio viso si
adombrò. Lei lo notò e sospirò.
«E va
bene. Verrò lo stesso, visto che ci tieni tanto»
acconsentì facendo la sostenuta. Che balzo fece il mio
cuore, in quel momento! Ricordavo benissimo la sensazione, era stato un
momento meraviglioso.
«Come mi
riconoscerai in mezzo a quel marasma?» continuò
abbracciandosi le ginocchia. Già, come avrei fatto? Ci
pensai su.
«Che ne
dici di legarti al polso una bandana rossa? Basta che alzi il braccio
durante l’esibizione, i miei bodyguard ti riconosceranno e ti
accompagneranno nel mio camerino. A fine concerto,
naturalmente». Sorrisi della genialità della mia
idea.
«D’accordo».
In quel momento,
una specie di tornado dai lunghi capelli biondi ci interruppe piombando
addosso alla ragazza senza smettere di singhiozzare e strillare
brandelli di frasi senza senso. La scena tragica non durò
che qualche interminabile minuto, e prima ancora che me ne rendessi
conto Lisa era scomparsa, trascinata via da quella sua amica. Di lei,
era rimasta solo la debole scia del suo profumo.
«Tom,
è ora!».
Sospirai, nervoso.
L’avrei rivista. Non potevo crederci.
Imbracciai la mia
chitarra e seguii Bill fuori dal camerino col cuore che pompava molto
più sangue del normale. Già da lì si
sentivano gli strilli isterici delle centinaia e centinaia di fan; non
appena aprirono la porta, tutto l’entusiasmo di un palazzotto
stracolmo di adolescenti ci stordì. Per noi era
un’unica massa viva e vibrante, non erano tante ragazze,
bensì un’unica ragazza che possedeva mille volti,
sorrideva con mille sorrisi diversi e ci guardava con mille occhi
lucidi e cangianti. Fra i tanti volti che si mescolavano in quella sola
entità io ne scelsi uno, l’unico al quale quella
sera mi sarei rivolto e l’unico al quale avrei dato tutto me
stesso.
Sistemai gli
in-ear monitor, controllai la tracolla della chitarra, sistemai i
jeans, raddrizzai il cappello e senza sapere come o perché
mi ritrovai a correre, no anzi, a fluttuare lungo il palco sconfinato
fino alla mia postazione, sempre con il sorriso sulle labbra e le mani
che già si muovevano da sole, domando il plettro.
Magicamente, le prime note di “Break away”
scivolarono lungo le corde della mia Gibson e si amplificarono in tutto
lo stadio fino alle ultime file, e mano a mano che la melodia
raggiungeva le ragazze, queste urlavano, saltavano, piangevano.
Un’unica entità.
Durante il
concerto cercai forsennatamente quel piccolo spruzzo di rosso che mi
avrebbe dimostrato che ciò che quel pomeriggio era successo
non era stato solo frutto della mia immaginazione, invano.
Le canzoni si
susseguivano una dietro l’altra e neanche a farlo apposta,
nemmeno una delle ragazze nelle prime file indossava qualcosa di rosso;
strizzavo gli occhi fino a dove la luce arrivava, ma nemmeno una delle
migliaia di mani alzate portava la bandana rossa.
E poi, quando meno
me lo sarei aspettato, la vidi.
Dovevo cominciare
a suonare gli accordi di “Forgotten Children” e mi
stavo spostando verso la pedana, quando quel bagliore scarlatto che
tanto avevo cercato quella sera aveva scintillato verso di me, piccola
macchia di colore in mezzo a quell’oceano di nero e grigio a
contrasto col biancore etereo della pelle del braccio, di quel braccio. Non
avevo dubbi, era lei.
La mia
felicità in quel momento fu indescrivibile, travolgente,
irresistibile, e così forte come mai l’avevo
provata in una volta sola! Con un cenno della testa attirai
l’attenzione di Tobi, appostato discretamente dietro le
quinte, e gli mimai con le labbra di andare a prendere la ragazza in
quarta fila col fazzoletto rosso legato al braccio. Lui capì
immediatamente, abituato com’era ai mie capricci,
annuì e scivolò via come un’ombra.
Un fascio di luce
accecante mi venne puntato addosso perciò capii di dover
contenere momentaneamente la mia euforia e trasferire quella sensazione
di adrenalina pura nelle dita. Questa canzone la dedicavo a lei, solo a
lei...
Con la luce
puntata in viso non riuscivo a vedere nulla più in
là del mio naso, perciò provai ad immaginare il suo sorriso mentre
Tobi le chiedeva di seguirlo, il suo
cuore che batteva forte; e quelle braccia pallide, quei capelli
morbidi, quel piercing praticamente invisibile al lato sinistro della
bocca, quegli occhi disarmanti... E presto sarebbe stata mia per
sempre. Non poteva che finire così, con un lieto fine.
Sorrisi, e risi, e
mi sembrò di impazzire di felicità: ce
l’avevo fatta. Ce l’avevo fatta!
Avevo catturato la
mia sirena dagli occhi smeraldo.
*
Così
ora conoscete com’è andata.
Immagino ormai
abbiate capito di che trattava la mia visione. Lo so che può
sembrare impossibile, però io avevo previsto ogni cosa, dal
pulsante d’allarme rotto, alle luci al neon troppo calde,
alle pareti scintillanti, fino all’abbraccio di Tom.
Ovviamente, essendosi trattato di un secondo, non avevo fatto in tempo
a decifrare i segnali, almeno finché non ero entrata dentro la mia testa
e avevo potuto rivedere il tutto. Non so come sia successo, non so
perché a me, non so chi sia stato, so solo che è
successo. Punto.
Vi starete
chiedendo se mi sono pentita di aver mandato Kat al concerto al mio
posto. No, non mi sono pentita di aver mandato Kat al concerto al mio
posto, se proprio volete saperlo, nemmeno per un secondo. Lei si
meritava di incontrare i Tokio Hotel, era da sempre il suo sogno; e poi
l’espressione di Tom quando aveva scoperto che la ragazza
dalla bandana rossa non ero io... posso facilmente immaginarla, e vi
assicuro che ogni volta scoppio a ridere.
Stesa a letto, lo
sguardo inquieto che vaga lungo il soffitto incapace di prendere sonno,
ripenso alla telefonata isterica di Katia di solo poche ore prima: mi
aveva raccontato di essere stata chiamata nel backstage e che non
appena Tom l’aveva vista aveva cominciato a inveire contro le
sue guardie del corpo e a blaterare che lei era la ragazza sbagliata.
«Lisa,
dimmi la verità, aspettava te?» mi aveva chiesto
Kat.
«Non
credo proprio» avevo risposto io sorridendo sotto i baffi.
Dopo poco, la mia
amica era stata lasciata andare, frastornata e sconvolta, con in mano
un cd autografato da tutti e quattro: immagino volesse dire che doveva
tenere la bocca chiusa su quello che era successo.
I fari di una
macchina sfiorano la mia finestra e poi scivolano via come se nulla
fosse. Le stelle occhieggiano qui e lì sotto la coltre
sfilacciata di nuvole. Mi giro su un fianco per incontrare gli occhi
patinati dei Tokio Hotel appesi accanto al letto, e sorrido nel buio.
Povero Tom. Quasi
mi dispiace per lui. Pensava di avermi finalmente acciuffato, e
invece.. Chissà se verrà alla mia ricerca, poi.
Oh, lo so che mi
sono fatta una promessa, e ho giurato che la rispetterò. Ma
perché proprio stanotte?
Fine.
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