In bianco e nero

di Flami Destrangis
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il cielo è troppo alto per noi ***
Capitolo 2: *** Padre e figlio ***
Capitolo 3: *** E chi la capisce la vita ***
Capitolo 4: *** Human Nature ***
Capitolo 5: *** Fotogramma di una vita dimenticata ***
Capitolo 6: *** L'uomo oltre la cravatta ***
Capitolo 7: *** Strumenti del proprio mestiere ***
Capitolo 8: *** Fantasmi tra le vie di Beika ***
Capitolo 9: *** Rosso sangue su bianco immacolato ***
Capitolo 10: *** Cerchi sulla pelle ***



Capitolo 1
*** Il cielo è troppo alto per noi ***


Alla mia compagna di scritti, letture e deliri,
ben consapevole che nessuna delle mie pagine
potrà mai essere paragonata nemmeno ad una sola delle tue parole.
Ad Aya_Brea



 

In bianco e nero

 

“L'amore è una grave malattia mentale.”
(Platone)


 

1. Il cielo è troppo alto per noi


 

“Ricordiamo che questa sera il famoso romanziere Yusaku Kudo presenterà ufficialmente il suo ultimo libro, dal titolo “In bianco e nero”. La presentazione avrà luogo all'Haido City Hotel di Tokyo, nel corso di una serata di beneficenza organizzata proprio dall'autore stesso e dalla moglie, l'ormai ex attrice Yukiko Kudo. Ed è tutto per questa edizione, auguriamo una buona giornata ai nostri telespettatori e arrivederci al telegiornale della sera.”

La solita e ormai ben conosciuta sigla rimbombò tra le pareti dello studio di Kogoro Mouri, svegliando il detective che si era beatamente addormentato sul divano sorseggiando una birra fresca. Fece un sonoro sbadiglio, e si mise a sedere constatando con non poco disappunto che la bottiglia era ormai agli sgoccioli. Il volume della televisione si impennò improvvisamente, e la pubblicità delle nuove patatine al formaggio richiamò nello studio una Ran furibonda.
“Insomma papà, che diavolo combini? Starei cercando di studiare.”
In quattro balzi raggiunse la tv, e si mise in cerca del telecomando. Aveva i capelli legati in una crocchia tenuta perfettamente insieme da una matita, che lasciava sfuggire appena qualche ciuffo sulla nuca. Ran odiava avere i suoi capelli intorno mentre studiava: quelle ciocche che cadevano sul libro e davanti agli occhi la innervosivano togliendole la concentrazione. Appoggiò la penna che ancora teneva in mano sul tavolino e perlustrò ogni angolo del tappeto in cerca del telecomando che non si trovava. Nella fretta aveva dimenticato le pantofole in camera, e sui piedi scalzi scintillava lo smalto rosa perlato che aveva scelto per quella sera. Kogoro si mosse ancora, e questa volta il volume calò drasticamente. Ran, che gattonava sul tappeto, lo sguardo ben fisso a terra, alzò gli occhi, guardandolo con fare accusatore: “Non ti sarai di nuovo addormentato sopra il telecomando vero? L'ultima volta hai svegliato i vicini in piena notte alzando involontariamente il volume a dismisura.”
Kogoro assunse un'espressione seccata, come se fosse stufo di essere rimproverato costantemente da una figlia che diventava giorno dopo giorno più simile a Eri.

“Ma cosa dici, Ran?” sbuffò, alzandosi. “Lo sai che dopo quella volta sto attento a..”
Incastrato tra lo schienale e i cuscini, spuntava un piccolo parallelepipedo nero pieno di pulsati colorati. Ran si alzò, spolverandosi i jeans e stringendo i denti nel tentativo di non parlare. Prese il telecomando e premette con decisione il pulsante rosso. Lanciò un'ultima occhiataccia al padre, che aveva portato una mano dietro la nuca e si stava esibendo in una delle sue risatine sdrammatizzanti, e si incamminò verso la sua camera non dicendo altro che: “Io studio ancora altre due ore prima di iniziare a prepararmi. Sul tavolo c'è il pranzo per Conan. Vedi di non combinare altri guai in questa giornata libera che ti sei preso.” 
Si sentirono dei passi rimbombare per la casa, una porta sbattere e poi più nulla. Solo il ronzio di una mosca che era riuscita ad intrufolarsi dalla finestra dimenticata accostata. Il traffico della città era quel giorno più fastidioso del solito: i clacson non si facevano scrupoli a suonare e il rumore delle gomme sull'asfalto e dei freni messi in funzione all'ultimo tormentavano non solo le orecchie dei passanti, ma anche quelle di chi, come Kogoro e Ran, se ne stava tranquillamente a casa propria. Se tranquillamente si poteva dire, poi. Kogoro continuava a ciondolare tra lo studio e la camera, ispezionando ora l'armadio in cerca del vestito migliore da poter indossare quella sera, ora le cartelle degli ultimi casi affidatigli. Ma era talmente confuso dal sonno, dalla birra e dall'ansia che quando si trovava davanti all'armadio finiva sempre per pensare a chi poteva essere il rapinatore che infastidiva il quartiere, e quando sbirciava le foto e i fogli delle cartelle la sua mente vagava di qua e di là, alla ricerca della faccia che avrebbe fatto Eri vedendolo tirato a lucido e agghindato di tutto punto. Insomma, quel pomeriggio si prometteva inconcludente. Ran, dal canto suo, non appena tornata a casa da scuola non aveva perso tempo in chiacchiere. Aveva mangiato in velocità la prima cosa che aveva trovato in frigo e si era chiusa in camera a studiare: il giorno seguente aveva un compito in classe e le mancavano ancora pagine su pagine da ripassare, e troppo poco tempo per riuscire a completare tutto. D'altro canto, aveva bisogno di almeno due ore per prepararsi alla serata di gala in cui il padre di Shinichi avrebbe presentato il suo ultimo romanzo: aveva sentito che molti dei partecipanti sarebbero stati eleganti, e anche se non comprendeva tutto quello sfarzo per una serata di beneficenza, non voleva essere da meno. E inoltre, in fondo al suo cuore, sperava di incontrare Shinichi: certo, al telefono Yukiko le aveva detto che molto probabilmente Shinichi non sarebbe venuto, che era ancora troppo impegnato in quel caso a cui stava lavorando, ma che poteva farci lei se la speranza non le moriva dentro? Continuava ad ardere come una fiammella che si autoalimentava nel suo cuore. Non era solo per il compito in classe che era nervosa: era quell'ansia di non sapere se Shinichi sarebbe comparso, quella paura di vedere infrante le sue speranze ancora una volta. Forse avrebbe di nuovo cercato Shinichi tra gli sguardi della gente, tra gli smoking e le cravatte, avrebbe provato a riconoscere la voce di lui tra i frammenti di discorsi che l'avrebbero colpita, e forse tutto ciò l'avrebbe portata solo all'ennesima delusione: eppure era così bello sperarci, anche se quel fuoco le corrodeva le vene. Mentre cercava di scovare l'incognita di quella dannata equazione, le sembrava quasi che quelle y e quelle x somigliassero terribilmente ai tratti di Shinichi, e ogni minimo passaggio le riportava alla mente che c'era una piccolissima e remotissima possibilità di poterlo vedere quella sera: certo, così piccola da essere improbabile, ma c'era, e questo, solo questo, era l'importante. Si soffermò ad osservare lo smalto rosa perlato che aveva passato anche sulle unghie delle mani: le faceva risaltare le dita, rendendole più sottili e, se così si poteva dire, eleganti. Ma basta, non poteva permettersi di continuare a pensare ad altro, quell'equazione era ancora incompleta e pretendeva di essere risolta prima di un'ora a quella parte. Provò a riconcentrarsi: quei due termini potevano elidersi, ora poteva procedere in quell'altro modo, ma se Yukiko le aveva detto che Shinichi probabilmente non sarebbe venuto, perché non mettersi il cuore in pace una volta per tutte? Lanciò la matita dentro l'astuccio e richiuse il quaderno sbuffando. Era impossibile riuscire a concentrarsi. Appoggiò il capo sul libro, chiudendo gli occhi e lasciandosi schiacciare dal peso dei suoi pensieri. Il cuore le batteva troppo forte, cosa avrebbe fatto se si fossero incontrati? Non si vedevano da quella volta a Londra, quando.. quando Shinichi le aveva confessato i suoi sentimenti. E anche lei prima, sì, insomma, non esplicitamente, però gli aveva fatto capire di non essere indifferente a lui. E quanto era stato bella quella corsa per la città inglese, e lui che la inseguiva, che urlava il suo nome, e poi lui che la fermava tenendole ben stretto il braccio, e ancora le parole che le aveva detto, no, non avrebbe mai potuto scordare il salto mortale che aveva fatto il suo cuore in quegli attimi. Era stato come se una forza centrifuga l'avesse fatto schizzare improvvisamente ai confini dell'universo, poi aveva preso a girare, a roteare finché una forza centripeta non l'aveva di nuovo attratto verso il suo posto nel petto, ricordandogli che il suo compito era quello di battere e che non ci potevano essere sconti a quel lavoro che durava una vita. Si accorse di star fissando il vuoto oltre alla scritta “Lineamenti di Matematica” che occupava metà della copertina del libro. Non poteva continuare a lasciar vagare il cervello per conto suo: aveva bisogno di concentrazione, concentrazione, concentrazione. Ma come poteva trovarla, con quel tarlo continuo che le rodeva la mente? Lo sguardo le cadde sul cellulare che aveva lasciato appoggiato sul letto. Si alzò, convinta più che a quel punto la certezza di un no era meglio dell'incertezza di un sì. Digitò in fretta e furia il messaggio che aveva più volte ripensato in quei giorni, e che non aveva mai trovato il coraggio di scrivere, troppo spaventata di ricevere una risposta negativa. Scorrendo i numeri della rubrica, trovò quello che le interessava: Shinichi. Premette su “Invio” e portò il telefono sulla scrivania. E ora chi riusciva a studiare finché non arrivava la risposta. Con il cervello in panne, ritornò sulla sua equazione più volte ripresa e abbandonata. Mancava poco ormai, qualche calcolo ed eccolo lì il risultato: x = 2. Sì, certo, due. Il voto che avrebbe preso il giorno seguente in quel maledetto compito.



 

“E fu così che la sua vita finì, forse in maniera troppo stupida rispetto alla folle intelligenza con cui aveva preteso di viverla. Aveva sognato di qualcuno che gli parlava di un mondo spaccato tra bianco e nero, e lui aveva sempre creduto di essere un bianco esiliato dagli altri nel nero. Aveva visto la sanità mentale nella pazzia, e la pazzia nella sanità mentale, aveva rovesciato il mondo credendo di leggerlo nell'unica maniera giusta in cui potesse essere letto, e aveva ucciso per dimostrare la sua potenza, la sua forza, il suo concetto di giustizia, e la sua utilità. Guidato da un lucido squilibrio, alla fine aveva solo dimostrato al mondo l'unica grande verità che ci governa: l'essere umano, per quanto forte si creda, muore schiacciato dalla più stupida inezia.”
Conan tacque, continuando a camminare. Accanto a lui, Ai manteneva la sua espressione tranquilla, gli occhi leggermente più socchiusi del solito, come se fosse concentrata in un ricordo recondito, intrappolato dentro il suo animo: o come se stesse semplicemente ascoltando con attenzione. Le ultime parole pronunciate da Conan l'avevano turbata: l'uomo che si crede così forte da disporre della vita altrui finisce poi calpestato dalla più inutile e più inevitabile delle fini. Quella frase le rimbombava dentro, vibrandole in ogni tessuto del corpo, passandole da un neurone all'altro alla velocità della luce, rompendo il muro del suono nel suo cervello: cos'è che la turbava tanto? Forse il fatto che in parte lei si ritrovava in chi aveva disposto della vita altrui: le sue ricerche di un tempo l'avevano portata ai limiti della fantascienza, dove solo i registi, gli scrittori e i sognatori avevano osato spingersi. I suoi farmaci avevano probabilmente ucciso, avevano rimpicciolito lei e Conan, avevano sconvolto il ciclo naturale del sistema vitale: come moderni Frankestein venuti dopo Prometeo, lei e gli altri ricercatori dell'Organizzazione si erano spinti forse troppo in là, toccando un baratro da cui era impossibile darsi la spinta per risalire in superficie. Non c'era redenzione oltre il proprio limite: e il peccato mortale della tracotanza prima o poi travolgeva l'uomo che l'aveva commesso, sradicandolo dalla terra come un semplice ramoscello. Ai rabbrividì. Improvvisamente sentì di nuovo intorno a lei il fracasso della città, che si era prima zittito per lasciar parlare i suoi pensieri. Riaprì del tutto gli occhi, e portò le mani alle spalle, sistemandosi la cartella. Sentiva lo stomaco attorcigliato su se stesso come un serpente velenoso.
“Anche a te ha fatto un certo effetto, eh? Mio padre non aveva mai concluso un libro in questa maniera. L'ho letto solo una volta e non ho potuto fare a meno di imparare a memoria la parte finale. Penso proprio che sia uno dei migliori libri che abbia mai scritto. Che ne dici?”
Conan posò i suoi occhioni azzurri sull'amica che, dal canto suo, continuava a fissare il mondo davanti a sé. Piccole goccioline di sudore le imperlavano la fronte. Si limitò ad annuire.
“Va tutto bene, Ai?”
La bambina si schiarì la voce, tossicchiando. Più passava il tempo e più i suoi modi di fare da donna si rendevano evidenti. Shiho era troppo cresciuta per poter fingere di essere una bambina: Shinichi, invece, anche nei suoi panni di diciassettenne aveva mantenuto un che di infantile, quella curiosità e quella capacità di simulare, investigare, domandare e interessarsi di qualsiasi cosa, anche della più futile, che rendeva il detective tanto simile ad un bambino.
Ai annuì, abbozzando un sorriso. Si passò una mano sulla fronte, scombinando le ciocche di capelli che le ricadevano quasi sugli occhi.
“E' davvero notevole. Di cosa parla il libro?”
Conan non sembrò convinto dall'apparente tranquillità dell'amica. Decise comunque di non fare altre domande: Ai aveva sempre i suoi pensieri per la testa, pensieri che spesso risultavano incomprensibili alla maggior parte della gente comune. Forse stava semplicemente pensando a qualcuna delle sue ricerche, o il suo cinismo l'aveva portata ad un altro momento di acuta critica sul mondo in cui le era toccato vivere. Anche se il suo fiuto gli suggeriva che c'era qualcosa di più, si limitò a crederle.
“E' una storia strana, ambientata a New York. C'è un detective, il protagonista, che si trova ad investigare su un caso apparentemente più grande di lui. Per uno dei quartieri della città si aggira un killer che uccide senza un motivo: le vittime non sembrano avere alcun collegamento tra loro, hanno sesso ed età diversi, e vengono uccise ogni volta in maniera differente. Gli ultimi tre omicidi avvengono durante una serata di beneficenza organizzata in un prestigioso hotel: e durante questa serata un famoso romanziere presenta il suo nuovo libro.”
“Ma non è esattamente ciò che sta facendo ora tuo padre?”
Conan annuì.
“Ha voluto ricreare perfettamente l'atmosfera e la sala descritte in quei capitoli.”
Ai fece uno strano sorrisetto, come se non comprendesse quello sfoggio di eccentricità.
“A me sembra una cosa piuttosto macabra. Non vorrei che si ripetesse quello che avviene nel libro.”, aggiunse con ironia.
“Non c'è pericolo. Nessuno ha letto quel libro a parte mia madre, me, e l'editore. Mio padre è molto attento a non far girare i suoi manoscritti prima della pubblicazione.”
“E non usa il computer per scrivere?”
“A volte sì. Altre volte preferisce il cartaceo.”
“Qualcuno potrebbe intrufolarsi nel suo computer e sbirciare molto tranquillamente tra i suoi dati.”
Conan rise, portandosi le mani dietro la nuca e alzando gli occhi al cielo.
“Sei sempre la solita, Ai.”
Erano ormai quasi arrivati all'agenzia investigativa di Kogoro. Dovevano solo svoltare a destra e poi percorrere l'ultimo tratto di strada.
“E poi, che succede?”
“Che intendi?”
“Dopo la serata di beneficenza. E gli omicidi.”
“Davvero vuoi saperlo? Non voglio toglierti la sorpresa.”
Ai scosse la testa, e lo guardò con una curiosità malcelata. Si vedeva che, anche se cercava di nasconderlo, moriva dalla voglia di sapere cosa succedeva. Conan tacque ancora un poco, come se cercasse di riordinare i pensieri: probabilmente voleva solo tenerla sulle spine un altro po'.
“Il detective è casualmente presente a quella serata, e dopo il primo omicidio non riesce ad evitare la morte delle altre due persone. Per lui quel caso è una frustrazione continua. Sta di fatto che nel commettere l'ultimo omicidio il killer commette un errore, e il detective riesce ad identificarlo. Scappa, c'è un inseguimento. Sono solo loro due, il killer e il detective che si rincorrono per le vie di New York. Un paio di pagine è dedicato alla descrizione di questa scena.”
Fece una pausa, e Ai non mancò di incalzarlo.
“E poi?”
“Poi.. beh, stanno attraversando un ponte. Il killer è avanti, si gira per controllare a che distanza si trova il detective. Sa di essere braccato, ma non ha paura. E' come se tutto ciò lo divertisse: sta guardando indietro, sbatte sulla ringhiera laterale, inciampa, si sbilancia, e cade oltre la protezione non troppo alta. Fa un salto di quasi dieci metri, è buio, e il detective vede solo l'acqua che si increspa e poi risucchia quel corpo nero che da lì sopra sembra un semplice puntino. Poi più niente, il corpo del killer viene ritrovato il giorno dopo, trasportato quasi un chilometro più in là dalla corrente. E allora il libro termina con quel pezzo che ti ho citato prima.”
Rimasero entrambi in silenzio. Avevano svoltato, mancava poco alla casa di Conan. Ai era tornata a socchiudere appena gli occhi. Era di nuovo concentrata in se stessa.
“E questo killer, chi era?”
“Una persona apparentemente normale. Il profilo che si evince dalle righe è quello di uno squilibrato, il quale soffre di manie di persecuzione e crede che il resto del mondo lo consideri pazzo e non al livello altrui. Questo scatena la sua rabbia, che si manifesta nei suoi omicidi: per lui è un modo come un altro per mostrare il suo potere sugli altri, è la sua vendetta sul mondo.”
“E come si intitola questo libro?”
In bianco e nero. Il killer vede il mondo spaccato a metà: i bianchi sono i sani, gli uomini normali, quelli da cui lui crede di essere rifiutato. Pensa che tutti lo considerino nero, come una macchia nell'umanità. E un po' la vecchia divisione tra bene e male, rivisitata in chiave moderna. E' difficile parlarne, penso che dovresti leggere il libro per capirlo.”
Ai fece un sorriso amaro. Chiuse del tutto gli occhi, per poi riaprirli con un sospiro. Un velo di tristezza coprì per qualche secondo le sue iridi.
“Invece penso di aver capito perfettamente.”
Anche lei si era sentita per fin troppo tempo nera come la pece. E, per quanto avesse tentato di lavarlo via, quel nero le era penetrato dentro, marchiandole l'anima con un'ustione di quelle che non si cancellano più, di quelle che il tempo cicatrizza solo per rendere meglio visibili. Era stata per così tanto tempo in mezzo al nero che, quando si era ritrovata improvvisamente catapultata nel bianco, era stato come essere un pesce fuor d'acqua: eppure l'aria per vivere gliela forniva proprio il bianco, mentre il nero la soffocava. Era strana: forse era destinata a non sentirsi mai pienamente a suo agio.
“Ehi, Ai, siamo arrivati.”
La bambina fece quasi un salto. Si era di nuovo persa nei suoi pensieri, e la voce di Conan l'aveva sorpresa. Alzò lo sguardo e riconobbe le ben conosciute scale che portavano allo studio di Kogoro.
“Scusa, ero sovrappensiero. Allora ci vediamo domani a scuola.”
“Sei sicura di non voler venire stasera? Mio padre non ha voluto televisioni, ci sarà solo qualche giornalista delle testate principali. Non sarà un evento particolarmente mediatico, non penso ci siano pericoli.”
“No, preferisco non rimettere piede all'Haido City Hotel ancora per un po'. Troppi pessimi ricordi.”
Conan non osò biasimarla, in fondo Ai aveva rischiato la vita sul tetto di quell'hotel. Aveva le sue buone ragioni per non volerci tornare: forse era passato ancora troppo poco tempo, o forse non ne sarebbe mai passato abbastanza.
“Vorrà dire che ti procurerò io una copia del libro di mio padre. Mi sembra che ti piaccia.”
“Grazie, in effetti vorrei leggerlo. I libri che ci danno da leggere a scuola cominciano a diventare davvero troppo noiosi.” disse, con un che di disappunto nella voce. Ai e Conan odiavano davvero quei libri illustrati che la maestra dava loro da leggere: Shinichi li aveva già letti tutti a suo tempo e Shiho, abituata fin da piccola a vivere nel mondo dei grandi, aveva sempre tralasciato tutto ciò che piaceva ai più piccoli. “Ora vado, devo controllare che il dottor Agasa non si ingozzi troppo con quello che gli ho preparato ieri sera.”
Conan sorrise, immaginando la pena del dottor Agasa nel dover sottostare continuamente alle regole di Ai. La bambina gli preparava solo determinati cibi, scartando tutto ciò che non riteneva sufficientemente salutare e calibrando le porzioni con la precisione di un chimico che cercava di elaborare un nuovo e stupefacente composto. I due si salutarono senza tanti convenevoli, e Ai si incamminò verso casa. Le ultime parole di quel libro le avevano portato nell'anima una serie di sentimenti contrastanti. I ricordi si erano fatti di nuovo vivi, così come la paura di essere scovata dall'Organizzazione: il suo destino era costantemente appeso ad un filo, e alle volte si sentiva talmente in bilico da pensare che prima o poi sarebbe inevitabilmente caduta. Alzò gli occhi al cielo, e vide la scia di un aereo in quella piccola porzione di azzurro che i grattacieli le permettevano di vedere. Si sentì improvvisamente troppo piccola in confronto a quello sconfinato cielo e ai quei palazzi così alti. E poi c'era uno strano senso di impotenza: quei piedi così fissamente ancorati a terra incominciarono a pesarle. Guardo di nuovo il cielo, così alto e infinito. Non avrebbe mai potuto volare. Non avrebbe mai potuto essere libera.






Proprio mentre stava per alzarsi in punta di piedi nel tentativo di raggiungere il bottone del campanello, Conan sentì il cellulare vibrare in tasca. Aveva impostato degli avvisi diversi per i due telefoni, di modo da capire subito se la persona ricercata era Conan o Shinichi. In quel caso qualcuno aveva appena mandato un messaggio al detective liceale e non al bambino delle elementari un po' troppo intelligente per la sua età. Prima ancora di leggere il nome del mittente, sapeva già chi lo stava cercando. Aveva letto negli occhi di Ran la voglia di scrivergli per un'intera settimana.

“Ehi, Shinichi. Come stai? Probabilmente già lo saprai, ma questa sera io, mio padre e Conan andremo all'Haido City Hotel per la presentazione dell'ultimo libro di Yusaku. Mi farebbe piacere vederti, spero che tu riesca ad esserci.”

Conan lesse il messaggio, immobile davanti alla porta. Lo Shinichi dentro di lui ribolliva per uscire. Avrebbe fatto qualunque cosa per rendere felice Ran: si sarebbe strappato quella pelle di bambino di dosso, quel maledetto involucro che gli sdoppiava la personalità e lo teneva imprigionato come in una prigione di materiale indistruttibile. Ma non poteva, non poteva presentarsi quella sera. Certo, quello che aveva detto ad Ai era vero: non ci sarebbero stati inviati delle reti televisive, ma chi avrebbe potuto impedire ai giornalisti di scrivere sui loro articoli “anche il figlio dell'autore, il famoso detective liceale Shinichi Kudo, era presente.” ? La presenza di una bambina in più come era Haibara sarebbe di certo passata inosservata, ma quella del figlio di Yusaku Kudo no di certo. Aveva lottato tanto per tenere il segreto, per proteggere Ran e tutti i suoi amici da quella storia più grande di loro con cui non dovevano assolutamente venire in contatto. Non poteva rischiare ora, non poteva lasciare che i sentimenti lo trasportassero oltre il limite che la ragione e il buon senso gli avevano indicato. Shinichi Kudo doveva restare fuori dalla circolazione ancora per un po'. Ripose il cellulare in tasca, avrebbe risposto a Ran con più calma, chiuso nella sua stanza e lontano da occhi indiscreti. Starnutì, e suonò il campanello. Quando Kogoro venne ad aprirgli, starnutì di nuovo. Accidenti, forse stava prendendo il raffreddore.
“Ehi, piccoletto, tutto a posto? Hai fatto tardi oggi.”
“Mi ero fermato a parlare con Ai.” poi, guardandosi intorno e non vedendo nessuno: “Ran è di sopra?”
Kogoro ritornò alla sua postazione sul divano, su cui si era nuovamente abbandonato dopo aver scelto il completo da indossare quella sera. Stava sfogliando alcune cartelle, senza venirne come al solito a capo, ma, sempre come al solito, più sicuro che mai che l'illuminazione sarebbe prima o poi arrivata.
“Sta studiando. Ha detto che il pranzo per te è sul tavolo.”
Conan intanto si era avvicinato, saltando sullo schienale del divano e spiando le cartelle da dietro la spalla di Kogoro. Il detective alzò il sopracciglio, infastidito da quel bambino ficcanaso.
“La smetti di curiosare in cose che non ti riguardano? Vattene di sopra a studiare, e smettila di intralciare come al solito con le tue domande impertinenti!”
Conan saltò giù dal divano prima che Kogoro lo facesse sloggiare a forza. Che noia, e di cosa si lamentava poi? Se non fosse stato per Conan Edogawa, Kogoro Mouri avrebbe avuto un quarto dei clienti che aveva attualmente. Salì le scale due gradini alla volta. Sul tavolo trovò effettivamente quello che Ran gli aveva preparato: accidenti, erano onigiri, li adorava. E poi Ran sapeva dare loro un gusto particolare che lui non riusciva a definire. Mangiò due di quegli onigiri speciali, ricordandosi della prima volta che Ran gliela aveva preparati: erano alle scuole medie, tredici anni appena compiuti e i genitori fuori casa per un weekend alle terme insieme. In quei giorni avevano dormito dal dottor Agasa che, per le occasioni come quella, diventava per loro una sorta di nonnino acquisito. Una sera Ran aveva per la prima volta preparato gli onigiri, basandosi sul libro di ricette che Eri le aveva regalato per il compleanno: l'estetica non era granché, ma il sapore era assolutamente divino. Shinichi ricordò che erano stati svegli fino a tarda sera a mangiare, ingozzandosi come se non toccassero cibo da giorni; la notte, puntualmente, nessuno dei due aveva dormito per il mal di pancia. Ma il gusto di quegli onigiri Shinichi non l'avrebbe più dimenticato. In quattro balzi fu davanti alla camera di Ran e, mentre abbassava la maniglia, si accorse di avere un gran mal di testa. Doveva aver preso fresco sul serio, accidenti. Ran stava china sui suoi libri, facendo girare nervosamente la penna tra le dita. Quando Conan le parlò, ebbe un sussulto: forse era così presa dai suoi problemi da non averlo sentito entrare.
“Ti disturbo, Ran?” chiese lui, la sua vocina da bambino innocente impostata al massimo. Gli occhi di lei sembravano tristi, malinconici. Non era il problema di matematica ad assorbirla completamente. Mi dispiace, Ran, mi dispiace tantissimo.
La ragazza scosse il capo, provando a sorridergli.
“No, dimmi pure.”
“Gli onigiri che hai preparato erano buonissimi. Sei sempre la migliore cuoca, Ran.”
Le aveva fatto quel complimento nel tentativo di farla sorridere, e invece gli occhi della giovane non si illuminarono affatto. Le sue labbra si incresparono come tirate dai fili di una marionetta. Non era felice. Posò di nuovo lo sguardo sul suo libro.
“Sai, quegli onigiri piacciono molto anche a Shinichi. Ogni volta che li preparavo ne mangiavamo a bizzeffe. La prima volta ricordo che ci venne una mal di pancia bestiale: i nostri genitori erano alle terme e tornarono appositamente per noi da quanto si erano preoccupati.”
Conan avrebbe voluto rispondere, prendere parte a quei ricordi dai quali, in quel momento, si sentiva inevitabilmente escluso. Eppure quelli erano anche i suoi ricordi. Avrebbe voluto urlare: Ran sono io, Shinichi! Non mi riconosci? Sono qui davanti a te.
Invece non disse nulla. In silenzio, come sempre, per l'ennesima volta.
Ran tornò di nuovo a guardarlo. Si vedeva che si sforzava di sorridere.
“Scusami, Conan, magari questo a te non interessa. Dai, vai di là a studiare, che tra un po' dobbiamo iniziare a prepararci per stasera. Il tuo vestito è pronto nell'armadio.”
Si chinò e gli diede un bacio sulla guancia. Conan non divenne rosso, né reagì come al solito, quando lo stomaco gli si attorcigliava in pancia e il cervello andava in tilt. Questa volta, semplicemente, gli venne spontaneo abbracciarla.
“Ti voglio bene, Ran.”
Sentì lei ricambiare la stretta.
“Anche io, Conan. Dai, ora vai di là altrimenti non riuscirai a fare i compiti.”
Conan annuì, non potendole certo dire che i compiti li avrebbe fatti il giorno successivo, cinque minuti prima che la campanella suonasse. Non ci voleva molto tempo per fare quei semplici calcoli che la maestra assegnava loro. La cosa che più di tutto lo stupiva era che Ai ogni pomeriggio si metteva sempre di sana pianta e il giorno dopo portava a scuola tutti i compiti perfettamente svolti. Diceva che usava quei banali esercizi per riscaldare il cervello prima di mettersi al lavoro sui suoi farmaci. Conan non aveva mai capito se scherzasse o meno. Prima di uscire notò il cellulare di Ran poggiato sulla scrivania: lei stava attendendo una risposta, una risposta che era tardata già troppo. Il bambino si chiuse in camera e prese il cellulare di Shinichi. Lo impostò in silenzioso, e rilesse il messaggio. Come poteva risponderle senza farle troppo male? E come se non bastasse, il mal di testa aumentava. Si sdraiò sul suo futon, iniziando a digitare le prime parole. La solita vecchia e consunta scusa: era impegnato in un caso importante, non era in città e forse per quella sera non sarebbe riuscito a raggiungere Tokyo. Forse. Perché annientare subito ogni speranza? Inviò il messaggio e appoggiò la testa sul cuscino. Si addormentò senza nemmeno rendersene conto.
Dopo quelli che gli sembrarono cinque minuti, sentì battere alla porta.
“Ehi, Conan, sei qui? Va tutto bene?”
Era la voce di Ran. Perché bussava alla sua porta? Guardò l'ora: le cinque di pomeriggio passate. Accidenti, aveva dormito per quasi due ore, e l'aperitivo all'Haido City Hotel iniziava per le sette e mezza. In conclusione, era in ritardo. E per di più aveva scordato la porta chiusa a chiave. Fece volare il cellulare di Shinichi sotto al futon e corse ad aprire. Il mal di testa non gli era ancora passato. Sulla soglia trovò una Ran preoccupata, l'asciugamano a turbante che le nascondeva i capelli. Doveva aver da poco fatto la doccia.
“Conan, mi hai fatto spaventare. Quante volte dovrò dirti ancora di non chiudere la porta a chiave? E se poi non riesci più ad aprire?”
Ran si prendeva così cura di lui. In quel momento tutte quelle attenzioni e preoccupazioni non gli davano fastidio. Affatto.
“Mi sono addormentato, mi dispiace. Il bagno è libero? Corro a farmi una doccia.”
Sparì in bagno senza dire altro, cercando di impiegare il meno tempo possibile. Il cellulare di Shinichi era ancora sotto il futon, e probabilmente Ran gli aveva risposto. Non voleva del tutto piantarla in asso. Sentiva il rumore del phon provenire dalla camera della ragazza: per fortuna, non doveva essere entrata nella sua stanza. Uscì dal bagno ben stretto nel suo piccolo accappatoio, i capelli ancora bagnati che gli cadevano a ciocche disordinate sulla fronte.
Effettivamente Ran gli aveva mandato un messaggio. Gli diceva di non preoccuparsi, che se era impegnato e aveva altro da fare lo capiva. Solo le avrebbe fatto piacere rivederlo, dopo quanto era successo. Questa volta il bambino arrossì. Ran dunque voleva parlargli, come era ovvio che fosse. Non poteva scappare in eterno. Starnutì di nuovo e si soffiò rumorosamente il naso. Il suo raffreddore stava peggiorando. Si vestì in fretta, indossando il suo piccolo smoking comprato appositamente per l'occasione. A Ran era stato detto che era un regalo del dottor Agasa, mentre invece era stata la madre stessa a mandarglielo, sostenendo che vestito così sarebbe stato un vero e proprio amore. Si guardò allo specchio: in realtà, si sentiva a dir poco ridicolo in giacca e pantaloni eleganti. Starnutì ancora. Maledizione, forse si stava davvero prendendo un brutto raffreddore. Prese in mano il cellulare e nel frattempo aprì il cassetto dove teneva le medicine, in cerca di un'aspirina da portarsi quella sera, nel caso in cui il suo raffreddore fosse degenerato in influenza. Fu così che, in fondo al cassetto, trovò la scatola in cui teneva l'antidoto sperimentale all'APTX. Haibara gliene aveva dato uno di riserva, raccomandandogli di prenderlo in situazioni disperate. Secondo i loro patti, Ran non rientrava nelle situazioni disperate. Mentre cercava l'aspirina, digitò il messaggio da inviare.
Ci rivedremo presto, Ran. Te lo prometto.
Sperò che la ragazza avesse ancora la forze di credere alle sue promesse. Proprio allora sentì la porta aprirsi, e Ran fece capolino nella stanza. Conan lasciò cadere il cellulare nel cassetto, voltandosi. Aveva scordato di chiudere la porta a chiave. Ran aveva i capelli perfettamente lisci, doveva aver passato la piastra: quando gli si avvicinò, sentì che erano ancora caldi. Gli occhi erano truccati con un filo di matita che faceva risaltare le sue iridi azzurre, e del mascara che rendeva sinuose e lunghe le ciglia; il rossetto rosa e lucido dipingeva perfettamente le sue labbra. Era stupenda.
“Che stai facendo?”
“Oh, nulla.” disse Conan, “cercavo un'aspirina da portare. Mi sa che mi sono preso il raffreddore.”
Ripose la pillola in tasca, sperando che Ran non sentisse il battito del suo cuore.
“Il raffreddore? Fammi sentire la fronte.”
“Va tutto bene, davvero. Vai pure a vestirti, mi sa che Kogoro è già pronto.”
“E va bene, Conan. Non sembri caldo.” disse, passandogli una mano sulla fronte. “E guarda che bello che sei, vestito così. Questa sera dovrai farmi da cavaliere.”
Gli sorrise, e uscì. Alla luce di quel complimento, Conan si guardò nuovamente allo specchio, ma la brutta sensazione di essere ridicolo permaneva. Prese il cellulare di Shinichi e lo ripose in tasca, starnutendo di nuovo. Chissà come si sarebbe agghindata sua madre quella sera: conoscendola, si sarebbe probabilmente travestita secondo la descrizione di uno dei personaggi del romanzo. Ah, già: doveva anche ricordarsi di prendere una copia del libro per Haibara. Era sicuro che le sarebbe piaciuto.






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Salve a tutti! Ok, probabilmente nessuno di voi saprà chi sono dato che non pubblico una long vera e propria da quasi un anno a questa parte e per motivi di tempo recensisco solo un quarto delle storie che leggo o a cui mi capita di dare un' occhiata. Detto questo: l'idea per la storia è nata a partire da una shot che mi è venuta in mente una volta. Ho poi deciso di ampliarla e da lì è nata la storia vera e propria così come ho intenzione di farla evolvere. Devo ringraziare Aya_Brea, dato che l'idea per la shot iniziale mi è venuta per via di una scommessa fatta con lei :>
E' la prima volta che pubblico una long senza averla già scritta tutta, per cui per me questa storia è anche una sorta di esperimento e di prova.. speriamo che ne esca fuori una cosa carina e apprezzabile :) Non penso che gli aggiornamenti saranno velocissimi, soprattutto per via dello studio che spesso bisogna mettere in primo piano.. spero comunque che vogliate seguirmi :)
Ringrazio chi mi ha dedicato un po' del suo tempo. Un bacione <3
Al prossimo capitolo,
Flami



 

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Capitolo 2
*** Padre e figlio ***


In bianco e nero


 “I tuoi veri educatori e formatori ti svelano il senso originario e la materia 
fondamentale del tuo essere, qualcosa che non si può assolutamente né educare
né formare, ma in ogni caso di difficile accesso, perché legato, paralizzato:
i tuoi educatori non possono essere nient'altro che i tuoi liberatori.
E' questo il segreto di ogni formazione: essa non dà membra artificiali,
nasi di cera, occhi occhialuti - doni che solo la falsa immagine dell'educazione può dare.
Essa è vera liberazione.”
(F. Nietzsche)




2. Padre e figlio

 
Il primo passo che Ran mosse non appena scesa dalla macchina fu più incerto del solito. Non era abituata a camminare sui tacchi alti, e il rischio di cadere rovinosamente a terra la faceva arrossire al solo pensiero. Kogoro le offrì il suo braccio, a cui la ragazza si appoggiò sorridendo.  Camminarono sul tappeto rosso che conduceva fino all'entrata dell'hotel, posto appositamente per l'occasione. Era strano percorrere a braccetto con il padre quella passerella: le sembrava di essere una star, oppure una sposa emozionata al momento delle nozze. Conan era rimasto di proposito qualche passo indietro: osservava Ran ondeggiare su quelle scarpette da Cenerentola, splendente più che mai nel suo lungo vestito verde. Si ritrovò a fantasticare della vita che avrebbe voluto vivere. Lui, Shinichi Kudo, a braccetto con Ran, camminando insieme verso la sfarzosa entrata dell'hotel. Ran con il suo vestito scollato, stretto in vita e poi largo, giù, fino a coprirle le scarpe di vernice nera con il tacco. E quelle spalline sottili così facili da abbassare, coperte da un coprispalle anch'esso nero. Ran era semplicemente deliziosa e lui un bambino con uno smoking che lo faceva sembrare un idiota e il raffreddore: che disdetta la vita. Prima di salire gli scalini che conducevano all'entrata, la ragazza si girò: “Stammi accanto, Conan, o finirai per perderti. Guarda quanta gente.”
In effetti la hall era piena zeppa di invitati: gli uomini rigorosamente in giacca e cravatta o in smoking, e le donne in vestito e tacchi. Solo qualche audace si era presentata con un paio di ballerine ai piedi. Sembrava la tipica serata di beneficenza dei ricchi: mostrare i propri soldi e la propria attenzione per i più bisognosi. Semplice apparenza. Esattamente come descritto nel libro. Conan sorrise, partecipare a quella presentazione dopo aver letto il libro aveva senza dubbio un sapore diverso: per un attimo gli sembrò di vivere davvero in un'altra dimensione. Chissà se il padre avrebbe rivelato nel corso della presentazione che lo scenario ricreato nell'albergo era perfettamente uguale a quello del libro. 
Entrarono, mostrando il proprio invito. Un uomo in camicia bianca e pantaloni neri indicò loro la direzione da percorrere per arrivare fino alla sala dove si sarebbe svolto il rinfresco. C'era una strana fragranza nell'aria, dal profumo sembrava quasi incenso. Ai lati del corridoio delle piccole candele indicavano il cammino. La sala del rinfresco era la stessa dove, qualche mese prima, Conan e Ai si erano intrufolati seguendo le tracce dell'Organizzazione, eppure di quel grande salone ora come ora non rimaneva più nulla. Conan si guardò attorno estasiato: ai lati della sala vi erano moltissimi specchi, che creavano un gioco illusorio incredibile. Lo spazio e le persone si moltiplicavano, come se non esistessero più pareti né confini. Ran girò su se stessa, e ogni muro le rimandava indietro il suo vestito verde e il suo sguardo attonito.
“E' meraviglioso.” disse in un sussurro.
Il grande lampadario centrale era stato ripristinato, più splendente che mai, e illuminva la sala di una luce chiara e uniforme, senza ombre. Ai lati lunghe tavolate erano ricolme di antipasti e cibi di ogni tipo e nazionalità: dai piatti tipici giapponesi al riso alla cantonese, dal pesce alle verdure, davvero non si poteva non trovare qualcosa che piacesse. E, proprio come era descritto nel libro, accanto ad ogni vassoio vi era una piccola bandierina che indicava il luogo di provenienza della ricetta. Dei camerieri vestiti come l'uomo che li aveva ricevuti passavano tra gli invitati con grandi piatti da cui era possibile prendere un bicchiere di vino, un aperitivo alcolico o analcolico, o dei drink per chi non aveva intenzione di aspettare il dopocena. Lo spumante sarebbe stato servito solo in seguito, insieme ai dessert. Sul piccolo palco che era stato allestito in fondo alla sala, un uomo in giacca e cravatta, perfettamente rasato, ricordava ai gentili ospiti che era possibile lasciare le proprie offerte al banco vicino al palco. Già alcune persone erano effettivamente in fila. 
“Ehi, papà. Guarda, lì c'è la mamma.”
Eri Kisaki, stretta in un elegante tailleur nero, si trovava dall'altra parte della sala, e sorseggiava tranquillamente il suo aperitivo alla frutta. I capelli lasciati sciolti le ricadevano fluenti sulle spalle, ondeggiando ogni qualvolta muoveva il capo. Per quella sera aveva lasciato da parte i suoi occhiali, e ora i lineamenti del viso erano chiaramente distinguibili, gli occhi ricamati da una matita azzura e dal mascara che contrastava perfettamente con quel blu così puro. Ran si fermò a guardarla per un attimo, ammirata. Sua madre aveva davvero l'aria di una donna in carriera: era perfetta, elegante e terribilmente affascinante. Chissà se anche lei da grande sarebbe stata così. Con quel tailleur così azzeccato da sembrarle quasi cucito addosso e Shinichi accanto a lei, giacca, cravatta e camicia bianca: sì, sarebbero stati davvero una bella coppia. 
Nel frattempo Kogoro, senza perdere un attimo, era accorso a salutare. Quella sera, così brillantemente vestito, sembrava un'altra persona: era sicuro più che mai che Eri non avrebbe trovato niente da ridire. Anzi, sarebbe caduta ai suoi piedi, pur facendo di tutto per non darlo a vedere. 
“Kogoro!” esclamò la donna, vedendolo. Lo osservò per qualche momento, stupita: non ricordava davvero che suo marito fosse un tale bell'uomo. La barba rasata alla perfezione, i capelli pettinati, e i soliti immancabili baffetti che l'avevano sempre attirata. “Ti trovo in forma.”
“Non posso fare a meno di dire lo stesso di te.”
I due si guardarono ancora per qualche secondo e poi distolsero lo sguardo, imbarazzati. Davvero non bastava una vita per imparare a gestire certe situazioni. Si conoscevano da più di vent'anni, eppure ancora alle volte arrossivano nel guardarsi negli occhi: era questo il segno più grande del fatto che fossero perfetti l'uno per l'altra, ma solo loro sembravano non rendersene conto. Arrivò Ran a salvare la situazione, stroncando sul nascere la possibile banale conversazione che prima o poi sarebbe cominciata con qualche domanda del tipo “Come va il lavoro?”.
“Mamma! Come stai? Sei stupenda.”
“Ran, tesoro.” rispose la donna, abbracciando stretta la figlia. “Ma guardati, cresci di giorno in giorno e ti fai sempre più bella. Sei già una donna, e io devo ancora abituarmi all'idea.” 
Sul suo sorriso si appoggiò un velo di malinconia. Ran cresceva e lei non la vedeva di frequente come avrebbe voluto. Ran era maturata in fretta, questo era vero, però aveva solo diciassette anni, e ancora bisogno di una figura di riferimento nella sua vita. E invece cosa aveva fatto lei? Se n'era andata, lasciandola a gestire da sola una casa e un padre come Kogoro. Forse aveva sbagliato tutto. Se solo non fosse stato per Kogoro, lei.. ma no, non era quella la serata giusta per arrovellarsi il cervello. Quella sera non doveva più pensare a nulla, divertirsi e basta: e, più di tutto, stare un po' con sua figlia.
“Ehi, ciao, Conan. Ma guarda un po' che carino che sei con questo smoking. Un vero ometto.” Gli scombinò i capelli con fare affettuoso, mentre Conan ringraziava con ben simulato piacere. Ormai ci stava facendo l'abitudine a essere trattato come un bambino, anche se tutte quelle dimostrazioni d'affetto e di tenerezza continuavano a infastidirlo: inoltre, da quando era intrappolato in dei vestiti taglia sette-otto anni, si era accorto di come spesso gli adulti, forse involontariamente o forse no, parlino ai bambini come se fossero dei completi idioti. Ogni parola scandita, ogni concetto spiegato nel modo più semplice, oppure la solita domanda “Sai cosa vuol dire questo?”. Conan si stampò il suo sorriso da bambino in faccia, ben deciso a non toglierselo più. Ran sembrava meno sconsolata: sorrideva parlando con la madre, e solo di tanto in tanto si guardava intorno, alla ricerca di qualcuno che Conan sapeva non sarebbe arrivato.
“Prima ho parlato con Yukiko, vi stava cercando per salutarvi. Però ora non la vedo più..” diceva intanto Eri, voltando il capo di qua e di là e aguzzando lo sguardo, “Ah, eccola lì. Vicino al palco.”
Si avvicinarono e, non appena la donna li vide, venne loro incontro con un sorriso largo quanto il suo volto. Yukiko portava uno splendido vestito blu, lungo e privo di spalline. Una fascia lo teneva stretto in vita, accentuando la perfetta forma fisica della donna. La sua chioma castana era acconciata in una una treccia che scivolava sopra la spalla destra: sull'orecchio sinistro scintillava un grazioso orecchino pendente a forma di clown. Conan c'avrebbe giurato: gli orecchini con il clown erano quelli che, nel libro, indossava la moglie del romanziere. Ma come aveva fatto sua madre a trovarli? Forse se li era fatti fare appositamente per l'occasione. Che spreco di tempo e di soldi, pensò il piccolo detective.
“Ran! Kogoro! Da quanto tempo!” esclamò con il suo solito tono allegro. “Ma come, non state bevendo nulla? Permettetemi.” e chiamò uno dei camerieri che passava di lì in quel momento. “Un bicchiere di buon vino per il nostro famoso detective e un aperitivo alla frutta per la ragazza più bella della serata.”
Mentre pronunciava queste parole, Yukiko guardò Conan con la coda dell'occhio. Il bambino, che aveva alzato indispettito il sopracciglio al sentire la prima parte della frase, arrossì invece alla seconda, sbirciando la sua meravigliosa Ran.
“E per il piccolo Conan invece?” gli chiese affettuosamente.
Sua madre gli sorrideva complice. Era così strano essere madre e figlio e non potersi comportare come tali. Anche se, da una parte, Shinichi ne era contento: almeno avrebbe potuto evitare le solite ed esagerate dimostrazioni d'affetto della donna.
“Io non prendo nulla, grazie. Magari un bicchiere d'acqua.”
Il raffreddore gli aveva ammazzato del tutto l'appetito, e stava cominciando anche a sentirsi una terribile stanchezza addosso. Ma cercava in tutti in modi di non darlo a vedere: non voleva far preoccupare inutilmente Ran che doveva già avere tanti pensieri per la testa. 
“Ah, Ran.” aggiunse Yukiko, porgendo il bicchiere d'acqua a Conan, “Shinichi ti avrà scritto che probabilmente non riuscirà a venire. Purtroppo non è riuscito a liberarsi.”
La ragazza annuì, cercando di sorridere. Si vedeva che non era felice, ma stava pian piano accusando il colpo. Ormai si era abituata, per quanto ci si possa abituare a non vedere mai la persona che si ama. 
“Posso farti una domanda?” chiese, per tutta risposta. Conan alzò lo sguardo incuriosito.
“Certo, dimmi tutto.”
“Non sei mai preoccupata per Shinichi? Insomma, lui non si fa mai vivo, sempre ad indagare su questi casi pericolosi..”
Yukiko alzò gli occhi a guardare il soffitto, e portò l'indice sotto al mento, come se stesse cercando di portare ordine nella sua mente ed elaborare la risposta. Alla fine si sciolse in un sorriso pieno di tranquillità.
“Beh, penso sia naturale per una madre preoccuparsi per il proprio figlio. Però vedi, ho fiducia in lui e so che sa cavarsela da solo anche nelle situazioni più complicate. E poi, alle volte, è un po' come se sapessi sempre quello che fa o se lo avessi accanto. Non è così anche per te Conan, che non vedi mai i tuoi genitori?” Il bambino si affrettò ad annuire, con il solito sorriso stampato in faccia: ma che razza di domande gli faceva sua madre? “D'altra parte, se gli dicessi di non perdersi in tutti quei casi complicati su cui ama riflettere, so che non mi darebbe retta. E' un po' come se dicessi a mio marito di smettere di scrivere: ne morirebbe. Sono sicura che Shinichi tornerà presto a farsi vivo, Ran, e che ti pensa più di quanto tu possa immaginare. Fidati, certe cose le madri le capiscono!” concluse con una risatina maliziosa. Sentiva gli occhi infuocati del figlio puntati addosso, e questo la divertiva ancora di più. Ran, da parte sua, era diventata un peperone, mentre Eri rideva con Yukiko confermando le sue teorie, e Kogoro cerceva di negare, sbuffando: sua figlia con quel detective liceale da strapazzo? Ma per favore.
Approfittando di quel momento di totale imbarazzo da una parte, divertimento dall'altra e furia dall'altra ancora, Conan sgattaiolò via, perdendosi tra i lussuosi vestiti degli invitati e rischiando più volte di inciapare sullo strascico di qualche abito. Aveva intravisto una persona che voleva assolutamente salutare: non ci parlava da molto tempo, e lui aveva un paio di cose da chiedergli. Eccolo lì, con quei suoi occhiali tanto simili a quelli che portava lui nei panni di Conan. Forse così sembravano ancora di più padre e figlio.
“Papà.” lo chiamò, dopo essersi assicurato di essere lontano da orecchie indiscrete. Quella parola poteva tradirlo più di mille altre. L'uomo si guardò intorno e poi, non trovando nessuno alla sua altezza, abbassò lo sguardo. Non si era ancora totalmente abituato ad avere di nuovo un figlio alle scuole elementari. Non appena vide il bambino, un sorriso gli si dipinse sul volto.
“Shinichi!” bisbigliò piano. “Allora? Che te ne pare?” E alzò il bicchiere che teneva in mano, muovendolo a destra e a sinistra, come ad indicare quel luogo in cui si trovavano.
“Niente male. Hai riprodotto tutto in maniera perfetta: e la mamma ha dovuto dare il suo solito tocco di classe con quegli orecchini a forma di clown.” 
Yusaku rise, sorseggiando il suo vino bianco.
“Sai, com'è fatta: non appena ha letto il libro, si è innamorata di quegli orecchini. E ne ha voluti un paio uguali. E poi, che resti fra noi ma..” e si abbassò, come per sussurargli qualcosa all'orecchio “quegli orecchini e quel personaggio li ho ideati pensando a lei.” 
Fece l'occhiolino al figlio, e poi continuò: “E tu, invece?”
Il bambino spostò il suo sguardo, capendo a cosa il padre stesse alludendo. Fece comunque il finto tonto.
“Che intendi?”
“Dai, che hai capito. Ran?”
“Non ti ci mettere anche tu, papà.”
Il romanziere rise ancora, tornando in piedi. Alzò il suo calice e abbassò appena la testa, come in un cenno di saluto rivolto a qualcuno nelle vicinanze. Poi tornò a parlare con il figlio, prima che un qualche estreneo potesse venire a disturbarli e loro dovessero cominciare a recitare la solita commedia.
“Non mi hai ancora detto il tuo parere sul romanzo. Lo sai che ci tengo.”
Shinichi cercò di riassumere in una frase tutto quello che pensava sul nuovo libro del padre. Gli venne in mente quanto gli aveva detto Ai quel pomeriggio.
“E' davvero notevole.”
“Che ne pensi della figura del detective? Devo ammettere che questa volta mi sono divertito maggiormente a scrivere del serial killer: un uomo che uccide senza un motivo, e un investigatore troppo abituato alla razionalità che cerca per forza di cose di trovare un filo conduttore, e non riesce a comprendere il caos estraneo al suo cervello. Alle volte la realtà è più semplice di quel che ci si aspetta, non trovi?”
“Per alcuni non seguire un filo logico può essere più semplice. Io lo trovo maledettamente complicato.”
“Ahi ahi, figlio mio. Forse sei troppo razionale, come il nostro caro Holmes.”
“Finora la razionalità mi ha sempre portato dalla parte giusta.”
“E se dovessi imbatterti in un killer che non conosce razionalità? Non vi comprendereste a vicenda. Ognuno darebbe all'altro del folle.”
“Questo si chiama relativismo.”
Parlavano senza fissarsi. Entrambi guardavano oltre, immergevano i loro occhi nell'atmosfera di quella serata così surreale, e dal gusto così diverso dal solito. Si intendevano talmente bene: insieme erano davvero una bella squadra. Shinichi forse non gliel'avrebbe mai detto, ma era grazie a suo padre se lui era diventato quello che era. Grazie a come l'aveva cresciuto, grazie a come gli aveva sempre parlato, grazie all'autonomia che gli aveva sempre concesso. Non gli doveva solo la vita: gli doveva anche la ragione di vita
“Non cercare di sviare il discorso.”
“L'hai detto tu: ognuno vedrebbe l'altro come un folle. Vuol dire che nessuno è folle né sano: ognuno è semplicemente come lo vedono gli altri. Mi sembra una visione relativa della realtà.”
“E non ti è mai capitato di crederci?”
“Personalmente no. E poi.. beh, il tuo libro che parla di un mondo in bianco e nero è suggestivo, non c'è che dire. Però il mondo è così pieno di sfumature che...”
“Il bianco e nero si riferiscono alla visione che ne ha il killer.” lo interruppe Yusaku “E' una visione tra tante: vedi? La tua è diversa. Abbiamo tutti una percezione diversa. Chi potrà davvero dire com'è il mondo?”
“Questa filosofia può portarti lontano dalla scienza, papà. Troppa soggettività e poca oggettività.”
Yusaku sorrise, forse un po' amaramente.
“Cos'è l'oggettiva se non soggettività condivisa dall'intero genere umano? Sono sempre stato del parere che oltre un certo limite non saremo mai in grado di spingerci. Dove non può arrivare la scienza, ci porta la filosofia. Non trovi?”
Conan starnutì. Maledetto raffreddore. 
“Penso che la scienza prima o poi arriverà a un livello che oggi come oggi noi non saremmo nemmeno in grado di immaginare. Guardami: metà della sala non crederebbe alla mia storia.”
“Quindi affermi che la filosofia sia destinata ad estinguersi?”
“No, non penso. Anche se un po' nolente, devo ammettere che fa parte di noi. Nessuno è mai riuscito ad ammazzare la religione; a maggior ragione, nessuno riuscirà mai ad uccidere la filosofia. Alla fin fine, è da lei che è nata la scienza. Filosofia è pensare, e noi pensiamo per natura: siamo fatti così.” 
Lo sguardo del bambino cadde su Kogoro che, a qualche metro di distanza, stava bevendo il suo quarto bicchiere di vino, ridendo sonoramente. “O forse questo discorso non vale proprio per tutti.” affermò, con una risatina che sapeva di beffardo. Il padre capì immediatamente a cosa il figlio si stava riferendo.
“Non esagerare, Shinichi. Kogoro forse non sarà un genio come detective, ma ho sempre trovato che, in fondo, come persona abbia un gran cuore.”
Per tutta risposta il figlio alzò le spalle, come a dire: “Sarà.”
“Sai una cosa?”
“Dimmi.”
Yusaku vuotò il bicchiere e lo appoggiò sul tavolo.
“Se dovessi trovarti un difetto, direi che alle volte sei un po' troppo saccente e sicuro di te. In conclusione, sei tutto tuo padre.”
I due non poterono fare a meno di guardarsi e scoppiare a ridere. Era vero, erano così simili. Sempre persi nel loro mondo di gialli e deduzioni, tra fantasia e realtà. Forse erano un po' fanatici agli occhi degli altri, ma si intendevano alla perfezione, ed era quello che bastava. Entrambi volevano dimostrarsi forse più duri di quel che erano veramente, e per questo erano incapaci di dirsi chiaro e tondo quello che pensavano: ti voglio bene. Eppure leggevano l'uno negli occhi dell'altro quello che avevano dentro. Shinichi leggeva oltre gli occhiali del padre la soddisfazione e l'orgoglio di avere lui come figlio; Yusaku leggeva negli occhi tondi di quel bambino l'ammirazione sconfinata che nutriva per lui. 
Il loro momento di confessioni e chiacchiere fu interrotto da un'improvvisa comparsa. Una voce che si infiltrò di botto, rompendo la bolla di sapone che si erano costruiti, isolandosi dal resto del mondo.
“Signor Kudo.”
Padre e figlio si girarono contemporaneamente. Davanti a loro c'era un giovane che li fissava intimidito: teneva le braccia lungo i fianchi, i pugni chiusi e lo sguardo basso. Lo alzava solo di tanto in tanto, come se avesse paura di fissare le persone negli occhi e di scoprire di non andare loro bene. Portava dei semplici jeans e una camicia bianca, tanto che Conan si stupì di non averlo notato prima: in mezzo a tante persone così ben vestite, quell'abbigliamento semplice spiccava e non poco. Il giovane avrà avuto circa un venticinque anni. Portava degli occhiali spessi, probabilmente a causa di una forte miopia, e tutto ciò nascondeva in parte i veri lineamenti del suo viso, ma non riusciva a coprire le lentiggini sparpagliate per tutto il volto. I capelli castano chiaro erano perfettamente pettinati e tenuti in ordine. Aveva parlato con un forte accento americano, e quegli occhi dal taglio occidentale ne erano la conferma: non era giapponese. 
“Oh, Arthur, eccoti qui. Non ti avevo più visto, giusto prima ti stavo cercando.”
Yusako aveva parlato in inglese. Il giovane si fece ancora più timido, abbassando lo sguardo. Incrociò involontariamente gli occhi di Conan, e si affrettò a guardare da un'altra parte. Che strano tipo, pensò il bambino.
“Stavo ripassando la parte.” rispose quello, sempre in inglese. Sembrava quasi che stesse sudando freddo, come se avvertisse addosso un'enorme tensione. Notandone lo strano comportamento, lo scrittore si affrettò a chiedere: “Va tutto bene?”
L'altro annuì. Si vedeva chiaramente che voleva chiedere qualcosa, eppure continuava a tacere, quasi stesse cercando le parole più adatte da pronunciare. Aprì più volte la bocca per richiuderla subito dopo. Alla fine sparò tutto fuori come una mitragliatrice.
“Ecco io volevo chiederle se era possibile spostare il pezzo di una mezz'ora.”
Yusaku sembrò sorpreso, ma si affrettò a sorridere per tranquillizzare l'americano, che lo guardava timidamente. Gli diede una pacca sulla spalla, per cercare di sdrammatizzare un momento che trovava eccessivamente enfatizzato. 
“Ma certo, non preoccuparti. Salirai sul palco quando ti sentirai più sicuro, non c'è alcun problema. Comunque non pensarci troppo: non è certo l'interpretazione della vita.”
L'altro annuì solo con un mezzo sorriso. Poi scappò via senza dire altro, lasciando il salone. Conan, interdetto, guardò il padre: “Ma chi era quello? Che strano tipo.”
“Si chiama Arthur Newman, è un attore. L'ho incontrato a New York circa un mese fa, quando è stata resa nota la data di pubblicazione del mio prossimo libro ed è stata fissata presentazione.”
“E come hai fatto a conoscerlo?”
“Beh, in realtà è stato lui a cercarmi.” spiegò Yusaku, prendendo una tartina al salmone e offrendone una al bambino, il quale rifiutò starnutendo di nuovo, “Mi ha contattato tramite il suo assistente. Gli ha chiesto di potermi incontrare, dato che era un mio grande fan e aveva letto tutti i libri che ho scritto. Così ho accettato, e un giorno ci siamo incontrati in una caffetteria, e da lì poi abbiamo fatto una passeggiata per Central Park. Allora era ancora più timido di adesso: ricordo che mi avrà guardato negli occhi sì e no due volte.”
“Beh, nonostante sia così timido, è venuto comunque a parlare prima con il tuo assistente e poi con te.” constatò Conan. 
“E' quello che ho pensato anche io. Lui mi disse che era da molto tempo che aveva intenzione di chiedermi un favore, ma che aveva trovato solo adesso il coraggio.”
“E di che favore si tratta?”
“Mi ha detto che il suo più grande sogno era poter recitare parte di un mio libro ad un evento ufficiale, come poteva essere la presentazione di In bianco e nero.”
“E tu che hai risposto?”
Yusaku alzò le spalle: “Cosa potevo rispondere? Mi ha fatto davvero una gran pena, non so perché. Ho accettato.”
Ci fu un attimo di silenzio. Poi fu Conan a parlare. 
“Da che libro è tratto il pezzo che reciterà?”
“Beh, a dire il vero già allora avevo intenzione di ricreare l'atmosfera descritta nell'ultimo libro. Per cui, gli ho proposto un pezzo di In bianco e nero: ovvero, la descrizione della presentazione del libro del famoso scrittore. Così tutti gli invitati si sarebbero guardati attorno e, attoniti e istupiditi, si sarebbero trovati catapultati nel romanzo stesso. Ma..”
“Ma?” incalzò Conan, dato che il padre si era interrotto, indeciso se prendere o meno un'altra di quelle squisite tartine al salmone.
“Ma lui, dopo che gli ho parlato brevemente della trama del libro per esporgli la mia proposta, ha detto di essere rimasto totalmente affascinato dalla figura del serial killer. Ovviamente ha chiesto di poter leggere il romanzo. L'ha letteralmente divorato in meno di ventiquattro ore. Il giorno dopo era davanti alla porta di casa mia.”
“Che strano, papà. Di solito sei così geloso dei tuoi libri prima della pubblicazione.”
“Lo so, ma davvero l'idea di fargli recitare la parte della presentazione mi attirava troppo. Lo sai che alle volte io e tua madre pecchiamo di eccentricità.”
Aveva infine optato per un'altra tartina al salmone, accompagnata da un buon bicchiere di vino bianco.
“Cosa ti ha detto dopo aver letto il romanzo?”
Shinichi non avrebbe saputo dire se la sua fosse solo curiosità. Semplicemente, investigare su ogni fatto gli veniva naturale: in fondo, il detective deve stare attento anche a ciò che è apparentemente insignificante. 
“Ha confermato la sua prima impressione: il personaggio del serial killer è stato quello che l'ha maggiormente colpito. Ha insisto per poter recitare uno dei suoi soliloqui.”
“I soliloqui del serial killer, quelli sparsi per tutto il romanzo? Indubbiamente, lì hai raggiunto una certo livello artistico e mi hai dimostrato quello che penso: tutti i veri scrittori sono un po' filosofi.”
“Così mi lusinghi, figlio mio.” rispose l'altro, imitandondo il tono serio che aveva assunto Conan. Il bambino, percependo la presa in giro, incrociò le braccia imbronciato. Guardò il padre con la coda dell'occhio, incitandolo silenziosamente a continuare il suo racconto.
“Inizialmente gli ho chiesto di nuovo di recitare il pezzo sulla descrizione della presentazione. Ma lui ha insistito così tanto, diceva che quel personaggio lo trovava perfetto, e che sentir recitare un monologo sarebbe risultato più gradevole di un capitolo narrativo oppure di una semplice descrizione. Devo ammettere che all'inizio ero scettico.”
“Mi pare però di capire che alla fine tu abbia accettato la sua idea.”
“Sì, alla fine mi ha convinto. Sembrava così entusiasta e non sono stato in grado di dirgli di no. Ho rinunciato al mio sfoggio di eccentricità.”
“Come se tutto questo non lo fosse.” pensò Shinichi, ridacchiando tra sé e sé. 
“In realtà mi ha convinto grazie ad una constatazione che mi ha fatto riflettere. Mi ha detto che per un attore l'importante è entrare nel personaggio, diventare il personaggio. E che aveva un'incredibile capacità di immedesimazione nel personaggio del killer a cui avevo dato vita.”
Conan rimase per un momento interdetto.
“Certo che, detto così, non sembra un qualcosa del tutto normale.”
“Torniamo al discorso di prima, Shinichi. Cosa è normale per chi?”
“Sempre con le vostre conversazione indecifrabili voi due, eh?”
Una terza voce aveva fatto capolino in quel discorso a due che padre e figlio si erano creati. Hiroshi Agasa, i baffi più ordinati del solito e i capelli perfettamente pettinati, in giacca e cravatta sembrava tutto tranne l'inventore scapestrato che era. Con il suo immancabile sorriso bonario, salutava i due: un vecchio amico che non vedeva da molto tempo e la cavia di tutte le sue nuove invenzioni.
“Dottor Agasa! Da quanto tempo! Come se la passa? Shinichi mi ha detto che le sue invenzioni gli sono molto utili. Un bicchiere di vino? Oppure una di queste tartine al salmone: sono favolose.”
“No, grazie, meglio di no.” rispose l'altro, evidentemente tentato da quelle delizie. La gola era davvero il più grave dei suoi peccati, se così poi si poteva davvero definirlo.
“Suvvia, dottore, sono sicuro che anche Ai, per una volta, sarebbe d'accordo ad uno strappo alla regola.” intervenne Conan.
“Questa sera non c'è dieta che tenga, dottore. Ma è da solo? La bambina, quella scienziatina, non è venuta?” chiese Yusaku, guardandosi intorno e non vedendola.
Agasa scosse la testa.
“Ha preferito rimanere a casa: non ha dei bei ricordi legati a quest'hotel. E poi, se devo dirvi la verità, in questo periodo sta lavorando più del solito. Alle volte sta chiusa in laboratorio fino a notte fonda, e la mattina, prima di andare a scuola, si sofferma ancora a ricontrollare alcune cose. E' strano vedere una personacina di poco più di un metro e venti aggirarsi con così tanta familiarità tra provette e computer.”
“Lavorava anche stasera?” chiese Conan, visibilmente interessato. Che gli studi di Ai fossero ad una svolta? Forse le ricerche per un antidoto definitivo all'APTX stavano dando i loro frutti?
“Non saprei. L'ho lasciata che preparava la cena.” 
Conan stava per replicare, quando la voce di sua madre lo interruppe.
“Dottor Agasa! Sono così contenta che sia venuto!”
Il gruppo composto da Yukiko, Eri, Kogoro e Ran si era accostato a loro, e quest'ultima, abbassandosi fino a che il suo viso non raggiunse quello di Conan, disse: “Tu sparisci sempre, piccoletto. Ti avevo perso di vista.”
Il bambino ridacchiò: “Il signor Kudo mi stava raccontando del suo nuovo libro, e poi abbiamo incontrato il professore.”
Che strano effetto gli faceva chiamare suo padre il signor Kudo. Loro, che fino ad un momento prima erano stati così incredibilmente vicini, si ritrovavano improvvisamente quasi degli sconosciuti.
Ran sorrise, scombinandogli i capelli. Sapeva che Conan era un grande appassionato di gialli, tanto che Shinichi gli permetteva alle volte di sbirciare nella sua immensa libreria. Sospirò, assagiando le famose tartine al salmone che Yusaku andava proponendo. La serata era fantastica. Ma con Shinichi sarebbe stata semplicemente perfetta. 





“Vorrei ringraziare tutti voi per aver preso parte a questa serata, accettando l'invito che mi sono personalmente preoccupato di spedire. So che molti di voi hanno letto la maggior parte dei miei scritti, e perciò conoscete il mio stile e i personaggi che sono solito creare. Vorrei però spendere alcune parole su quest'ultima pubblicazione. Posso affermare senza pensarci due volte che In bianco e nero è stato per me una sorta di esperimento: l'ho scritto in cinque mesi, dedicandovi la maggior parte del mio tempo: ho passato notti intere su quelle parole, sorretto solo dalla voglia di scrivere e, lo ammetto, da numerosi caffé preparati frettolosamente uno dopo l'altro. Ecco, devo ammettere che in primo luogo questo libro ha fruttato molto a tutti i produttori di caffé.” 
Una risata generale sciolse l'attenzione della sala. Quando i camerieri avevano cominciato a servire i dessert, Yusaku Kudo era salito sul palco, per parlare contemporaneamente a tutti i propri ospiti. Conan, Ran, Eri e Kogoro erano in un angolino non troppo lontano dal palco: stavano gustando una buonissima torta alle mandorle: avevano scelto il tavolo dedicato alle ricette italiane.
“Se mi chiedessero perché ho scritto questo libro, penso che, di getto, risponderei: per me stesso. Per tutte le riflessioni che vi ho gettato dentro, per tutte le tecniche stilistiche che, forse inconsapevolmente, ho sperimentato. Nei volantini che avete trovato sul banco delle offerte è riportata a grandi linee la trama del libro, per cui suppongo che già l'abbiate scoperta. Perciò non vi annoierò oltre con ulteriori spiegazioni. Penso che In bianco e nero sia un libro che si legge solo per il piacere di farlo: ritengo che coloro che lo comprenderanno a pieno sono solo coloro che amano davvero la lettura. Questo perché il vero lettore, nel momento in cui legge un libro, è come un detective: lui investiga, analizza, osserva ogni parola, ogni frase, ogni sentimento che un capitolo gli suscita dentro. E cerca una spiegazione, matura una riflessione, trae fuori dalle righe tutto quello che lo scrittore vi ha, forse anche senza rendersene davvero conto, inserito. Credo che il vero lettore spesso riesca ad andare addirittura oltre le intezioni dell'autore. Questo libro, è vero, l'ho scritto principalmente per me: ho provato ad essere allo stesso tempo scrittore e lettore, a leggermi dentro mentre scrivevo. Alle volte troverete dei passaggi ambigui, ma penso che siano quelli i tratti che il vero lettore preferisce: perché è grazie a quelli che egli può fare la storia anche un po' sua. Detto questo, vi lascio all'interpretazione di un passaggio del libro da parte dell'attore newyorkese Arthur Newman. Successivamente, brinderemo tutti insieme. Vi ricordo inoltre che è possibile acquistare il libro a metà prezzo al banco delle offerte: il ricavato andrà interamente in beneficienza. Grazie ancora tutti.”
Un fragoroso applauso inondò la sala. Yusaku scese dal palco, alzando il braccio come in un gesto di saluto. Era stato senza dubbio un discorso memorabile. Conan batteva le sue manine, orgoglioso di quanto il padre aveva detto. Ran, cercando di parlare oltre il frastuono, disse: “Si vede che Shinichi è proprio suo figlio. Se fosse qui, penso che sarebbe orgoglioso più che mai di suo padre.”
Conan sorrise. Ran lo conosceva terribilmente bene. Nel frattempo li aveva raggiunti Yukiko, in compagnia di un uomo brizzolato, perfettamente vestito, come il resto degli invitati, in giacca a cravatta. Doveva essere alto quasi un metro e novanta, davvero oltre la media degli uomini giapponesi. I baffetti che spiccavano sul volto totalmente rasato gli conferivano probabilmente un'età maggiore di quella che aveva: dimostrava poco più di una cinquantina d'anni.
“Kogoro!” esclamò la donna, sistemandosi sulla spalla la treccia che stava lentamente scivolando sulla schiena. L'orecchino con il clown tornò di nuovo a brillare. “Vi stavo cercando. Volevo presentarvi il signor Koichi Sakamoto. Lavora in una casa editrice emergente, ed è un grandissimo fan di Kogoro il Dormiente.”
Kogoro, emozionato come ogni volta che qualcuno gli veniva presentato come suo ammiratore, gli strinse calorosamente la mano, affermando qualcosa del tipo: “Eh già, spesso la mia fama mi precede! Piacere di conoscerla! Mi dica, c'è qualcosa in particolare che vuole sapere?”
Eri lo fulminava letteralmente con lo sguardo: suo marito non sarebbe mai e poi mai cambiato. Conan, seccato, diede un ultimo assaggio al suo dolce. Ripoggiò poi il piattino sul tavolo, maledicendo il raffreddore che gli toglieva l'appettito e Kogoro che si vantava di meriti non suoi. Mentre i due uomini avevano cominciato a chiacchierare, le luci della sala si erano abbassate, e improvvisamente un fascio di luce bianca illuminò unicamente il palco. Con passi piccoli e inizialmente insicuri, Arthur Newman prese il suo posto esattamente al centro del cono di luce. Indossava gli stessi jeans e la camicia di qualche ora prima, e teneva lo sguardo ben fisso sulla sala. Attraverso quelle lenti spessi, non appariva nervoso. Al suo ingresso, cadde il silenzio. Più di un centinaio di pupille puntate su quell'esile figura. L'attore lasciò cadere le braccia lungo i fianchi: si prese ancora qualcosa attimo, prima di incominciare a recitare il pezzo da lui scelto, il monologo che voleva interpretare. I suoi occhi erano ora persi nel buio della sala: forse guardava dentro di lui, alla ricerca del personaggio in cui doveva calarsi.

“Quando da bambino vedevo la notte scendermi addosso avevo paura. Una terribile paura. Non c'era luna che reggesse il confronto del sole. Il nero mi avvolgeva, e mi sentivo perso, sì, lontano da ogni comprensione, scaraventato fuori da ogni tipo di compassione. La notte aveva sempre il fetore della morte, e a me faceva schifo, uno schifo da far accapponare la pelle, da far drizzare i capelli in testa, da far attorcigliare lo stomaco in una morsa inestricabile. Il campanile del paese suonava la mezzanotte, e io non potevo addormentarmi: quel suono sinistro sembrava presagio di un qualcosa destinato a giungere presto e che paradossalmente non giungeva mai. E avevo freddo, un freddo da farmi diventare pietra. Ora non c'è notte fredda che possa raffreddarmi. Sento il calore sulla pelle e dentro al mio corpo, sento il fuoco ustionarmi ogni singolo organo e lasciarmi cenere, per poi farmi rinascare e rivivere dall'inizio la stessa tortura. E' un dolore aspro e dolce, che provo dalla prima volta che ho visto il sangue di un uomo tingermi di rosso le mani e insinuarsi sotto le mie unghie. E' il desiderio di vendetta che si alimenta continuamente. Vendetta contro chi mi ha lasciato fuori.” 

Gli spettatori ascoltavano rapiti. Quel giovane aveva davvero un'incredibile capacità di immedesimazione. I tratti del volto, il tono della voce, tutto cambiava a seconda della parola che doveva pronunciare: era un gioco di suoni ed espressioni che catturava senza possibilità di fuga. 

“Voi, voi che mi avete confinato nel nero della notte, facendola diventare la mia prigione ormai tramutata in casa, voi avrete quel che vi spetta. Goccia dopo goccia berrete l'elisir che vi priverà dei raggi della vita e cadrete, disperati, nella bocca di quella notte infernale che brucia più di ogni fuoco. Non c'è scampo per chi è ignaro di essere braccato, non c'è salvezza per chi non sa di essere sull'orlo del baratro. Il destino casuale vi travolgerà, portandovi dove avete trascinato chi credevate pazzo. Pazzo, io? Pazzo! Pazzi, voi! Voi, che vivete nella vostra tranquilla città, voi che dormite nel vostro comodo letto, voi, a cui la vita passa davanti e la rincorrete urlando al mondo di essere felici! Felici di una felicità sintentica, che io vi farò ingurgitare a bocconi sempre più grandi, sempre più amari! E anche se mi implorete, se mi pregherete, se scongiurerete, se piangerete, se mi chiederete in ginocchio di risparmiarmi, non ci sarà parola di perdono che uscirà dalle mie labbra, non ci sarà cenno di intesa con l'antico nemico che mi ha ripudiato. A morte! Vedrete di cosa è capace colui a cui avete tolto tutto.”

I camerieri stavano intanto iniziando a girare per la sala, i vassoi ricolmi di bicchieri di spumante. Il brindisi era previsto proprio alla fine dell'interpretazione. Ran provò un brivido lungo la schiena: quella voce tuonante le stava facendo gelare il sangue nelle vene. Sembrava terribilmente convinto di quanto stava dicendo. Le parole apparivano spontanee, come se scaturissero direttamente dal cervello e non da una fasulla e insignificante recita. C'era qualcosa di più in quelle lettere. E quel qualcosa la faceva tremare. Strinse istintivamente la mano di Conan. Non si guardarono però negli occhi: erano entrambi troppo rapiti da quanto stava accadendo sul palco. Sentì il bambino che ricambiava la stretta.

“Nel silenzio più profondo risuonerà l'urlo disperato di colui che non si aspettava la propria fine. Macchierò il vostro bianco di nero, di un nero indelebile e sporco, come le vostre coscienze senza intelligenza. Il cammino è lungo e l'orizzonte sempre più distante, non c'è passo che possa raggiungerlo e vola via come un falco dalle ali spiegate. Non mi prenderete, mai. Sarò quella zanzara fastidiosa che vi si poggerà addosso e che voi scaccerete con un gesto di stizza: ma sarà tardi allora, perchè il veleno scorrerà già nel vostro sangue.”

Un cameriere si avvicinò al gruppo di Yukiko, porgendo loro il vassoio con lo spumante. La donna e Kogoro si servirono, e Ran allungò il braccio senza nemmeno guardare. Lo sguardo era sempre lì, fisso sull'attore. Quell'interpretazione aveva un che di magnetico. Sentì le sue dita urtare quelle altrui. Velocemente girò il volto, e notò che lei e il signor Sakamoto stavano per prendere lo stesso bicchiere. L'unico rimasto sul vassoio.
“Prego.” disse lui, offrendoglielo. 

“Si attaccherà alle vostre vene, risucchiandovi da dentro, stringendovi e stritolandovi, e poi nero, nero, nero, solo nero!”

Il tono di voce dell'attore si faceva sempre più alto. 
Ran disse solo: “No, lo prenda lei. Aspetterò il prossimo.” Si sorrisero, e l'uomo portò il bicchiere alle labbra. Lui e Kogoro si guardarono, bisbigliando qualcosa che la ragazza non comprese, ma che suonava come un: “Beh, nessuno noterà se ne beviamo un goccio prima del brindisi.”

“Bevete, bevete la vostra elisir di morte. Che le rughe facciano contorcere il vostro viso, che il bianco che tanto amate si impossessi della vostra pelle, che il nero che avete dentro e non volete mostrare vi inglobi! Che tutto finisca nell'unico modo in cui deve finire.”

Ran sentì un verso strozzato. Ma non ce la faceva, non voleva girarsi. Poi, improvvisamente un peso le afferrò il braccio. Lei e Conan si voltarono contemporaneamente. Il signor Sakamato stringeva l'avambraccio della ragazza, l'altra mano alla gola, la bocca spalancata nel provare a far uscire un grido che non si decideva a far vibrare le sue corde vocali. Gli occhi erano sbarrati. Poi, si accasciò al suolo come un peso morto, facendo crollare anche Ran. La prima a gridare fu Eri, seguita da Yukiko. Ran diceva solo: “Che le succede, che le succede? Mi parli, dica qualcosa, che succede, cos'ha?”
Conan e il padre erano accanto a lei, ma non sentiva più nulla. Poi ci fu un altro grido, qualcuno doveva essersi accorto di quanto successo. Improvvisamente le luci furono accese, e tutti si guardarono intorno, finché gli occhi non caddero su quell'uomo al suolo e quella ragazza che lo scuoteva, urlando qualcosa che nessuno capiva. Un brusio si diffuse per la sala, mentre Yusaku Kudo cercava di farsi largo, nel tentativo di capire cosa fosse successo. Nessuno badava più all'attore sul palco. Nessuno sentì le ultime parole.

“E quando cadrete uno dopo l'altro come birilli, non avrete il tempo di pensare. Mi spiace, signori: questa sera la ruota della fortuna non girerà dalla vostra parte.”




 
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Eccomi qui, dopo due settimane impiegate per buttare nero su bianco questo capitolo. Prima di tutto, vorrei dire che nel progetto originale tutto il prossimo capitolo doveva essere inglobato in questo: ma poi, scrivendo, mi è capitato quello che mi capita sempre: mi sono persa tra le frasi e i meandri delle conversazioni tra i personaggi. Ergo, ho deciso di concludere qui, altrimenti avrei aggiornato non so quando e alcune parti, come questa finale ad esempio, avrebbero avuto poco risalto. Spero che il capitolo vi sia piaciuto, nonostante mi renda conto che magari la storia proceda un poco lenta :) Ma ho idea che sarà così un po' per tutta la fanfiction.
La citazione iniziale è tratta dalla “Considerazione inattuale su Schopenhauer” scritta da Nietzsche: è l'unica opera integrale del filosofo che ho letto, ma l'ho trovata terribilmente interessante e alcune considerazioni, quale quella che ho scelto di riportare, mi sono rimaste dentro. Dovrei leggere qualcos'altro di Nietzsche :) 
Penso sia abbastanza chiaro il collegamento tra la citazione e il capitolo: diciamo che già il titolo lo spiega.
Per quanto riguarda il vestito di Ran, ho tratto ispirazione dal film “Espiazione” e dal magnifico vestito che indossa Keira Knightley nel ruolo di Cecilia. Se cercate “Espiazione” su Google immagini, la maggior parte delle foto ritrae l'attrice con quel vestito :) Comunque sia il libro che il film sono meravigliosi, quindi ve li consiglio entrambi. Il libro soprattutto *.*
Come al solito quello che ho scritto non mi convince per niente, anzi trovo che in alcuni tratti lo stile sia un po' duro -.- La parte meglio riuscita è a mio parere il dialogo Shinichi-Yusaku, la presentazione del libro da parte di Yusaku (lì ci sono davvero le mie opinioni, di cui ho parlato più volte con la mia filosofa Aya_Brea :>), e poi il monologo del serial killer, anche se mi è sembrato di poterlo scrivere 300 volte meglio :( uff, spero che abbiate comunque apprezzato anche perché il capitolo è lunghetto xD
Ma bastaaa, quanto vi sto stressando!
Buon ritorno a scuola per chi deve tornarci, buona fortuna per i test universitari (siamo sulla stessa barca!!), buona fortuna per eventuali esami e buon lavoro se lavorate!
Grazie a tutti coloro che hanno messo la storia tra le seguite o addirittura preferite, e grazie a chi ha recensito! Siete magnifici :)
Un bacione e al prossimo capitolo!
Flami

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Capitolo 3
*** E chi la capisce la vita ***


In bianco e nero
 
 
“Se la morte, signor mio, fosse come uno di quegli insetti strani, 
schifosi, che qualcuno inopinatamente ci scopre addosso... Lei passa per via; un altro passante, 
all'improvviso, lo ferma e, cauto, con due dita protese le dice: “Scusi, permette? lei, egregio signore, ci ha 
la morte addosso ”. E con quelle due dita protese, la piglia e butta via... Sarebbe magnifica! Ma la morte 
non è come uno di questi insetti schifosi. Tanti che passeggiano disinvolti e alieni, forse ce l'hanno addosso; nessuno la vede; ed essi pensano quieti e tranquilli a ciò che faranno domani e doman 
l'altro .”
(L. Pirandello, “L'uomo dal fiore in bocca”)
 


3. E chi la capisce la vita




“La vittima si chiamava Koichi Sakamoto, di anni quarantasei. Lavorava in un piccolo gruppo editoriale che si occupa soprattutto di scrittori emergenti, ed era qui su invito dello stesso signor Kudo, come il resto dei partecipanti alla serata. Dico bene, Takagi?”
L'agente annuì prontamente alle parole dell'ispettore Megure, appuntando sul suo taccuino quanto più poteva esser loro utile nelle indagini. L'ispettore, stretto nel suo immancabile impermeabile arancione, si piegò sulle ginocchia, alzando i talloni e rimanendo in equilibrio sulle sole punte dei piedi. Appoggiò i gomiti sulle gambe, lasciando penzolare le mani. Osservava con cura il cadavere, che, oltre a Kogoro che aveva provato a prestare un primo soccorso, nessuno poteva toccare se non gli uomini della scientifica. Gli occhi del malcapitato erano ancora spalancati, come alla ricerca di un filo di luce che non si decideva a mostrarglisi. La bocca aperta non lasciava fuoriuscire più alcun grido.
Si asciugò il sudore dalla fronte, sistemandosi il cappello. Il suo era un lavoro che non smetteva mai di riservare sorprese: doveva destreggiarsi attraverso casi apparentemente uno più inspiegabile dell'altro, muoversi in costante equilibro, camminare su un sottile filo rosso legato alle due estremità del baratro: percorrere fino in fondo quel filo voleva dire vincere; cadere lungo la corsa era la sconfitta, perché sotto c'era solo il buio dell'incomprensibilità e del fallimento. 
“Poveraccio.” commentò piano, tra sé e sé. Si accorse solo allora che accanto a lui si era chinato Yusaku Kudo.
“Non mi capacito di come un fatto del genere sia potuto avvenire, proprio qui, proprio ora. Era una brava persona. Che io sapessi, non aveva nemici. E' tutto così strano..” aggiunse infine, come rivolto a se stesso. Parlava perso nella propria mente, come sono soliti fare gli scrittori o, in generale, coloro che amano guardare un po' più in là rispetto a ciò che è apparentemente visibile. Megure inarcò le sopracciglia.
“Strano in che senso?”
Yusaku scosse la testa, alzandosi. L'ispettore lo osservava: lo vide guardarsi intorno, come ad ispezionare tutti i presenti: forse cercava qualcuno? Agli invitati non era stato permesso di uscire dalla sala dove era avvenuto il delitto. Erano ancora lì, riuniti in gruppetti, e parlottavano a bassa voce, innalzando un lieve brusio che pervadeva ogni centimetro cubo del salone. Alcuni, più spaventati di altri o forse più facilmente impressionabili, se ne stavano in disparte, per conto loro, non osando più toccare né cibo né acqua: un uomo era stato avvelenato, chi poteva garantire che non sarebbe accaduto di nuovo? La serata era decorsa in maniera così tranquilla, e poi, di botto, quel macabro avvenimento: e il tutto mentre gli invitati tenevano le orecchie puntate sulla straordinaria interpretazione dell'attore. Gli occhi di Yusaku si fermarono infine sul palco. Arthur Newman era accovacciato per terra, seduto a gambe incrociate. Fissava il pavimento, e di tanto in tanto alzava gli occhi a guardare ciò che gli succedeva intorno. Sembrava assolutamente tranquillo.
“Cerchi qualcuno?”
Yusaku si voltò, notando che l'ispettore Megure si era drizzato in piedi, e lo osservava con fare interrogativo. Scosse ancora il capo. Avrebbe voluto sradicare dalla testa dell'ispettore ogni dubbio, ma davvero in quel momento non ce l'avrebbe fatta a sciogliersi in un sorriso rassicurante. Megure lanciò un'ultima occhiata al cadavere e agli agenti della scientifica che vi lavoravano intorno. Takagi era sempre accanto a lui, come il più fido dei collaboratori. Incominciò a parlare lentamente e con tono quasi stanco, come se ogni singola parola pesasse più di una pietra.
“Al momento della morte, accanto a Sakamoto vi erano Ran, Conan, Kogoro, le signore Yukiko ed Eri. Il tuo arrivo si è verificato solo in un secondo momento, dico bene?”
Lo scrittore annuì e Megure sospirò: “Allora mi spiace, ma dovrò interrogarli in modo più dettagliato. Anche se immagino siano ancora provati per l'accaduto.”
“E' il suo dovere. Prego, la accompagnerò io.”
I due uomini si fecero strada tra gli ospiti, prontamente seguiti da Takagi. A lato del salone, vicino ad una delle grandi tavolate, c'era un piccolo divanetto su cui fino a poco prima gli uomini si erano comodamente adagiati per sorseggiare un bicchiere di vino, e le donne per dar sollievo ai loro piedi doloranti per i tacchi, così belli e assassini. Ora, su quel sofà perfettamente spolverato e lucidato, sedeva Ran, in mano una bottiglietta di acqua comprata ad un distributore automatico: si era preferito di non toccare più alcuna bevanda presente all'interno dell'hotel prima dell'omicidio. La ragazza era visibilmente pallida, e teneva lo sguardo fisso a terra: di tanto in tanto un brivido le attraversava la schiena, facendola tremare da capo a piedi. Ed era allora che Eri e Kogoro, seduti accanto a lei, le si facevano ancora più vicini, cercando di farle sentire che non era sola. All'ennesimo brivido, Kogoro si tolse la giacca, appoggiandogliela sulle spalle. Ran face un sorriso stanco, che conservava però i tratti della dolcezza. Yukiko stava  in piedi. Non appena vide il marito avvicinarsi, gli andò incontro, lasciando che lui la abbracciasse: quella serata non doveva finire così. Conan, in piedi vicino al divano, fissava la sala, assorto. Scrutava con sguardo imperturbabile, e osservava in silenzio le mosse del padre e dell'ispettore. Lanciava qualche occhiata al cadavere, e poi deviava lo sguardo, alla ricerca di un qualcosa che solo lui sapeva. Chi lo conosceva bene, chi lo conosceva come Shinichi Kudo, avrebbe potuto subito capire che qualcosa non lo convinceva a pieno. Di tanto in tanto si fermava e, il mento ben saldo tra l'indice e il pollice della mano destra, rifletteva. Poi, quando sentiva le voci di Kogoro ed Eri sovrapporsi per la preoccupazione, si girava con fare apprensivo, e guardava Ran, poggiandole una mano sulle ginocchia e sorridendole per rassicurarla. Quando infine ritornava nel suo mondo, sentiva una leggera rabbia che gli faceva formicolare il corpo: chi aveva colpito Sakamoto stava per colpire Ran. E lui l'avrebbe preso, ad ogni costo. 
L'ispettore fece un cenno a Kogoro, facendogli capire che desiderava parlargli. Dopo aver lanciato un'ultima occhiata alla figlia, l'uomo, che in quel momento si sentiva più padre che detective, si alzò.
“Come sta?”  chiese Megure, riferendosi chiaramente a Ran.
“Come vuole che stia. E' quasi sotto shock, quel bicchiere avvelenato stava per prenderlo lei. E poi invece l'ha ceduto al signor Sakamoto, dicendogli di non preoccuparsi, che avrebbe preso il prossimo..” la voce gli si strozzò in gola. Disse solo, in un soffio di fiato: “Chi avrebbe mai potuto immaginare.”
L'ispettore aspettò ancora qualche minuto prima di parlare, come in segno di discrezione o rispetto. O forse vera e pura preoccupazione.
“Dovrei parlarvi, per riepilogare ancora una volta la dinamica della morte del signor Sakamoto. Eravate con lui al momento del tragico avvenimento.”
Kogoro annuì, capendo le necessità che il lavoro di Megure gli imponeva. In quel momento lui non era un amico, né un conoscente: era l'ispettore che doveva svolgere le indagini, che doveva arrivare ad acciuffare il colpevole. Quello era l'obiettivo, il solo ed unico fine. Kogoro si avvicinò a Ran, dicendole piano: “L'ispettore dovrebbe farci qualche domanda. Te la senti? Vedrai che sarà questione di pochi minuto.”
La giovane alzò gli occhi, accorgendosi solo allora di Megure, di Takagi, di Yusaku e di tutti coloro che erano arrivati, o che le stavano intorno. Fino ad allora aveva visto solo il padre e la madre, e aveva sentito solo quel brutto animale velenoso che le stava divorando lo stomaco e il cuore con quello che avrebbe potuto definire un inconscio senso di colpa. Lei aveva ceduto quel bicchiere a Sakamoto. Non era di certo responsabile della fine dell'uomo, ma non riusciva a levarsi quel pensiero di torno. La morte le era passata accanto, l'aveva sfiorata, senza accorgersene le aveva quasi gettato addosso le sue spore. Improvvisamente ricordò le parole pronunciate dall'attore sul palco:

“Sarò quella zanzara fastidiosa che vi si poggerà addosso e che voi scaccerete con un gesto di stizza: ma sarà tardi allora, perché il veleno scorrerà già nel vostro sangue.”

Quella zanzara le era volata accanto. Incuriosita, aveva meditato se attaccarsi a lei, se nutrirsi del suo sangue giovane, e forse ancora un po' acerbo. E infine, aveva scelto di allontanarsi, attratta da altro nutrimento, aveva scelto una bevanda più matura, e che forse in quel momento riteneva più gradevole. L'aveva risparmiata, lasciandole addosso solo la sgradevole sensazione che lei, la morte, poteva posarsi sulla sua pelle quando più l'avrebbe ritenuto divertente e opportuno, senza che lei se ne accorgesse. 
Annuì alle parole del padre. Se c'era qualcosa che ancora poteva fare, era aiutare la polizia nelle indagini: lo doveva a quell'uomo morto in circostanze così assurde. 
“Prego, ispettore. Mi chieda pure qualsiasi cosa.”
Megure sorrise, felice di poter svolgere il suo compito in un clima di relativa serenità. Ran non era affatto così fragile come poteva sembrare. 
“Vorrei riepilogare brevemente i fatti, così come sono avvenuti. Interrompetemi se vi viene in mente qualcosa di nuovo, o per qualsiasi precisazione riteniate opportuno fare.”
Fece un attimo di pausa. I presenti non dissero una parola. Lo fissavano attenti, con due occhi che annuivano per il loro corpo.  L'ispettore tossicchiò, schiarendosi la voce.
“Durante l'interpretazione di uno dei passi del libro, i camerieri hanno incominciato a girare per la sala con i vassoi da cui i presenti potevano prendere i bicchieri con lo spumante, per il brindisi finale.” 
Si fermò. Nessuna obiezione.
“Un cameriere si è avvicinato al vostro gruppo, composto dalle signore Yukiko e Eri, dal detective Kogoro, da Ran e Conan, e infine dalle vittima, il signor Sakamoto. Sul vassoio vi erano tre bicchieri, dico bene?”
Yukiko annuì: “Io e Kogoro ci siamo serviti per primi. Considerando che sul vassoio era rimasto un solo bicchiere, direi di sì, all'inizio ce n'erano tre.”
Takagi annotò qualcosa sull'agenda, per poi commentare, un po' fra sé e sé, un po' rivolto agli astanti: “Dunque dal vassoio si erano già serviti altri invitati. Come poteva il killer capire quale bicchiere avrebbe preso Sakamoto?”
“Il cameriere potrebbe aver inserito il veleno una volta arrivato al nostro gruppo.” osservò Kogoro, lanciandosi in una delle sue solite deduzioni affrettate.
“Il problema non si risolve comunque. Abbiamo già interrogato il cameriere, e stanno controllando i suoi abiti, alla ricerca di possibili tracce. Per ora, nessun riscontro.” si affrettò a precisare Megure, stroncando sul nascere l'approssimativa deduzione.
“Ma continuiamo. A questo punto, come la signora Yukiko stessa ha confermato, lei e Kogoro si sono serviti. E' rimasto un solo bicchiere sul vassoio. Cos'è successo allora, Ran?”
La ragazza deglutì. Parlò piano, come se fosse confusa nei suoi ricordi.
“Io stavo guardando l'attore che recitava sul palco. Ed ero così concentrata, così rapita dalla rappresentazione.. insomma, ho allungato la mano verso il vassoio senza nemmeno guardare. Le mie dita e quelle del signor Sakamoto si sono scontrate. Lui ha preso il bicchiere in mano, e me l'ha offerto gentilmente. Ma io..” si fermò per qualche secondo. Era forse la parte che le pesava di più. “Io..gli ho detto di tenerlo, e che avrei aspettato il prossimo vassoio. Non c'era fretta. Come avrei potuto immaginare.. se avessi preso io quel...” Non ebbe la forza di continuare. Sentì le lacrime salirle agli occhi, e fece uno sforzo immane per trattenerle. 
“Grazie, Ran. Il brindisi era previsto dopo la fine dello spettacolo. Come mai il signor Sakamoto ha bevuto prima?” chiese l'ispettore, forse più a se stesso che a chi lo circondava.
“Anche io ho bevuto prima del brindisi.” ammise Kogoro. “Lo spumante aveva un aspetto così invitante, e quando il signor Sakamoto mi ha proposto si assaggiarne un goccio, dicendo che nessuno se ne sarebbe accorto, non ho saputo resistere.”
“Che voi sappiate, il signor Sakamoto amava degustare vini o spumanti?”
“Da quanto ne so,” intervenne Yukiko, “il signor Sakamoto era un appassionato di vini. Amava assaggiarne di diversi, e ricordo che l'anno scorso fece appositamente un viaggio in Italia, girandola in lungo e in largo per provare tutte le sue specialità.”
“Forse l'assassino immaginava che Sakamoto avrebbe bevuto prima degli altri, e ha posto il cianuro su più bicchieri?” propose Eri, rimuginando sulla situazione. “Ma anche a questo punto, qualcosa non quadra. Infatti Kogoro ha bevuto con lui, ma il suo spumante era pulito.” 
“Stiamo facendo controllare gli altri bicchieri.” disse Takagi, chiudendo l'agendina e sistemandosi i guanti che si stavano stropicciando sulle mani. “Attendiamo il responso.”
“Comunque, il problema rimane. L'assassino non poteva prevedere quale bicchiere avrebbe preso la vittima: tanto che lo spumante avvelenato stava per finire nelle mani di Ran.”
La ragazza fu scossa da un altro brivido. La madre fulminò Megure, intimandogli con un'occhiataccia di ragionare prima di parlare: Ran era ancora provata dall'accaduto, e di sicuro sentirsi ripetere che era stata ad un passo dallo stramazzare a terra non l'aiutava per niente. L'uomo arrossì leggermente, cercando di scusarsi per quanto detto con un cenno del capo. Poi tornò serio, e fece mente locale su quel caso all'apparenza davvero inspiegabile. Mentre squadrava la sala dall'inizio alla fine, l'occhio gli cadde su Yusaku Kudo, intento anche lui nei suoi pensieri. Ma certo, come aveva fatto a non pensarci prima? Ora che Kogoro, dimostratosi così eccellente in quell'ultimo anno, aveva assunto più il ruolo del padre protettivo che del detective lucido e imparziale, il famoso romanziere di gialli era la sua ancora di salvezza. Yusaku avevo risolto misteri inestricabili, e Shinichi aveva proseguito lungo la sua strada. Se solo anche quel detective liceale fosse stato lì.
“Yusaku.” lo chiamò piano, avvicinandosi a lui. Non voleva che gli altri sentissero. “Senti un po', per caso ti sei fatto una qualche idea su questo omicidio? Io davvero non riesco a spiegarmi come abbia fatto il colpevole a colpire Sakamoto nello specifico.”
Lo scrittore si soffermò un attimo nella sua mente. Poi rispose, con tono calmo.
“Aspettiamo i risultati delle analisi sugli altri bicchieri. Non bisogna trarre conclusioni affrettate.” 
Questo lo sapeva perfettamente anche lui. Mai parlare, mai accusare prima di avere elementi su cui poter provare le proprie parole. Ma era quegli elementi in più che sperava di poter trovare nelle osservazioni argute di Kudo. I giornalisti iniziavano ad accalcarsi fuori dall'hotel, le televisioni a trasmettere notizie riguardo al misterioso omicidio accaduto durante la più importante serata di gala della città. I mass media, affamati di audience e novità succulenti, premevano per sapere qualcosa in più: volevano risposte, risposte che in quel momento neanche un dio onnisciente avrebbe potuto loro dare. Nonostante l'età e l'esperienza, Megure ancora non aveva imparato a scacciarsi di dosso la loro fastidiosa pressione. 
“Che razza di fine. Andarsene via così, da un momento all'altro.”
L'ispettore aveva riflettuto forse più per se stesso che per continuare la conversazione. Non si aspettava nemmeno una risposta da Yusaku: sapeva che, sullo stile di Holmes, amava tenere tutto per sé, intuizioni e deduzioni, finché non aveva in testa un quadro chiaro della situazione. Solo allora avrebbe parlato, lasciando tutti a bocca aperta con una strabiliante ricostruzione. Presentare il puzzle completo era molto più efficace di mostrare i singoli pezzi per poi unirli in un secondo momento. Le menti che spesso peccano troppo di eccentricità amano fare tutto da sole. Ma, in contrasto con le aspettative di Megure, il romanziere rispose. Una constatazione che volò nell'aria, aleggiando tra i due uomini e poi, spinta dal fiato e dai respiri, fluttuò per la sala, andando a posarsi sul destino sconosciuto di quanti stanno al mondo.
“E chi la capisce la vita.”
Yusaku Kudo si incamminò, sparendo tra gli invitati. Megure capì che non voleva essere seguito, e lo lasciò andare. Prima o poi sarebbe tornato, portando con sé, se non la soluzione al problema, almeno il metodo giusto per arrivare a risolverlo. Non si accorse che, accanto a loro, un'altra figurina era scomparsa: il piccolo Conan, quatto quatto, era sgattaiolato via, inseguendo il padre. Di sicuro i due avevano la stessa idea che frullava nel cervello. Yusaku si muoveva a passo svelto, e Conan dovette correre per raggiungerlo. Ma si scontrò con un grosso pancione stretto dai bottoni precari di una camicia. Il dottor Agasa.
“Dottore! Dov'era finito?” chiese stupito il bambino. Nella confusione lo avevano perso di vista.
“Durante lo spettacolo mi sono allontanato dalla sala, per andare al bagno. Poi ho telefonato ad Ai, chiedendole se era tutto a posto. Se devo dirti la verità, quando l'ho lasciata mi sembrava un po' inquieta: ero preoccupato, e l'ho chiamata. Ma la sentivo tranquilla, mi ha detto di non preoccuparmi, di godermi la serata e di non mangiare troppo. Quando sono tornato ho trovato le luci della sala accese, e la polizia stava arrivando: mi sono messo a cercarvi, ma nella confusione non vi ho trovato. Cos'è successo di preciso?”
Conan, preoccupato, guardò oltre il professore: vedeva ancora il padre ma presto, piccolo com'era, avrebbe fatto fatica a rintracciarlo velocemente fra tutte quelle persone. La confusione non si sarebbe presto dispersa, in quanto era stato proibito di abbandonare la sala o comunque quell'ala dell'hotel. 
“Ora non ho tempo per spiegarle tutto, professore.”
Aggiunse velocemente dove poteva trovare sua madre e gli altri, e poi gli chiese solo: “Piuttosto, mi dica.. mentre è avvenuto il fatto lei si trovava fuori dalla sala? Era da solo?”
“S-sì..” rispose quello, spaesato dalle domande.
Che guaio. Il professore poteva trovarsi in una posizione di svantaggio, dato che le persone in sala, tutte in compagnia, erano in possesso di un alibi più saldo. Una persona come Agasa, da sola in giro per l'albergo, avrebbe avuto l'occasione di mettere il veleno nei bicchieri. Bisognava fare presto, trovare il colpevole, quello vero. Corse via, lasciando il professore senza una risposta ai suoi dubbi.
“Ehi, dove vai? Fermati, Shi..” si tappò la bocca da solo. Non poteva di certo pronunciare quel nome in pubblico riferendolo a Conan. 
Da parte sua, il bambino aveva già raggiunto la parte opposta del salone. Il padre era arrivato ad un angolo, vicino al palco. Si avvicinò ai tendoni che si trovavano in fondo, al lato del salone: guardandosi intorno per assicurarsi di non essere osservato, scivolò tranquillamente oltre la tenda, scomparendo. Conan fece altrettanto. Si ritrovò in una piccola stanzetta in penombra: fili di luce penetravano dai bordi della tenda, proiettando giochi di ombre sulle pareti. Il brusio della sala sembrava distante, e si udiva ovattato. Non appena i suoi occhi si abituarono all'oscurità, riconobbe il padre, appoggiato alla parete, le mani in tasca. Era pensieroso.
“Sapevo che mi avresti seguito.”
“Non ti sei allontanato per quello?”
Yusako sorrise: “Volevo un momento di tranquillità per riflettere. Questa stanzetta inutilizzata mi sembrava la più adatta.” 
“La cosa non convince neppure te, vero?”
“Per niente.” ammise l'uomo. “Questo delitto è troppo strano.”
“Quel bicchiere poteva capitare nelle mani di chiunque.”
“E' questo che mi ha fatto insospettire.”
“Pensi quello che penso io?” chiese il bambino, già certo della risposta.
“Penso quello che pensi tu. Ma per esserne sicuro, dimmi cosa stai pensando.”
Conan stava per parlare, quando starnutì di nuovo. Nel trambusto degli avvenimenti, si era scordato di quel pungente raffreddore.
“Dannazione, non si decide a migliorare.”
“Dovrei riuscire a procurarti una medicina per il raffreddore, se ne hai bisogno.”
“Non preoccuparti, l'ho portata con me. Dopo la prenderò. Ora è meglio non distrarci. La prima cosa che mi ha insospettito è la modalità del delitto. Senza dubbio è un metodo sicuro perché è difficile essere scoperti, ma ci sono troppe poche possibilità di riuscita. Se davvero l'assassino aveva intenzione di eliminare Sakamoto, perché usare questo metodo?”
“Mi sono posto anche io il problema. Avrebbe potuto eliminarlo in modo diverso, o in un'altra occasione. Perché scegliere questa serata? E' ovvio che il colpevole sia uno degli invitati o comunque delle persone presenti nell'hotel. In questo modo il suo nome cade direttamente nella lista dei sospettati, in quanto, per avere dei motivi di rancore nei suoi confronti, deve per forza essere una persona venuta in contatto con lui.”
“Osservazione perfetta. Per questo sto iniziando a convincermi che la vittima designata non fosse Sakamoto in particolare.”
“L'ho pensato anche io. Nel mio libro durante la serata di gala avvengono tre omicidi ad opere del serial killer. Uno dei quali con il veleno.”
“E' una delle prime cose che mi sono saltate all'occhio. Anche in quel caso, l'omicidio era apparentemente inspiegabile: e questo perché era del tutto casuale. Il killer non voleva colpire una persona nello specifico.”
“Qualcuno potrebbe aver voluto riprodurre qui, in quest'occasione, quanto avvenuto nel libro?”
“Non è da escludere, ma è solo un'ipotesi.”
“Nel libro però è il secondo omicidio ad essere compiuto con il veleno.”
“Non è detto che l'omicida voglia mietere tre vittime.”
“O forse voleva ucciderle tutte con lo stesso metodo e..”
“.. in questo caso, la polizia dovrebbe rinvenire altri due bicchieri contenenti spumante e cianuro.” concluse il bambino. I due ragionavano di pari passo e le parole scorrevano contemporaneamente nei loro cervelli.
“Ci sono ancora troppi pochi elementi.”
“Ma è una pista che dobbiamo considerare, data la modalità e il luogo del delitto.”
“Poniamo il caso che la nostra idea sia corretta: il cerchio si stringe notevolmente. L'assassino deve per forza aver letto il libro: nel volantino che è stato consegnato stasera la storia è solo introdotta e inoltre l'omicida non avrebbe potuto organizzare tutto all'ultimo. Non c'era il tempo.”
“Non è possibile che qualcuno abbia preso del materiale dal tuo computer, leggendo parte del libro o il romanzo intero a tua insaputa?” chiese Conan, ricordando l'osservazione che aveva fatto Ai quella mattina, e su cui lui era passato sopra scherzando e prendendola in giro per le sue eccessive paranoie.
“Il computer che uso è controllato ogni giorno da un esperto tecnico. Se avesse subito un hackeraggio se ne sarebbe accorto, o almeno nel buon novantacinque per cento dei casi.”
“Rimane un cinque per cento.”
“Consideriamo prima chi sicuramente ha letto il libro. Escludiamo Yukiko, me e te. Resta l'editore e..”
“.. e quel tale attore, Arthur Newman, che ha insistito tanto per recitare il monologo del serial killer.”
Conan aveva scostato appena la tenda, e osservava il giovane ancora seduto sul palco. Non si era mosso da lì, era immobile. E il mondo sembrava essersi scordato di lui. 
“Sospetti di lui?”
“Non appena gli hai detto del pezzo di In bianco e nero che volevi fargli recitare ed è venuto a sapere la trama, ha insisto per leggerlo e ha subito detto di essere stato colpito e affascinato dalla figura del serial killer.”
“Quella figura ha affascinato molti.” osservò Yusaku. Gli sembrava giusto porre una buona parola per quel ragazzo così timido e particolare. Davvero poteva essere lui il colpevole?
“Il giorno dopo è tornato da te, dopo aver divorato il libro. E ha insistito per recitare quel monologo. E poi lui stesso ha affermato di avere un'incredibile capacità di immedesimazione in quel personaggio, come ha dimostrato poco fa sul palco.”
“Ma perché l'avrebbe fatto?”
“E' solo un'ipotesi. Bisogna considerare il fatto che non è mai stato in sala, se non quando è venuto a parlarti. Inoltre per accedere dal palco è entrato dalla porta in fondo al salone, riservata allo staff. Avrebbe potuto mettere il veleno in un bicchiere (o forse in tre, come sospettiamo), e alla fine del suo monologo, tre persone tra gli invitati sarebbero stramazzate al suolo. Pensaci, è finzione che diventa realtà: non è l'obiettivo di ogni attore far diventare reale un personaggio? Lui avrebbe osservato tutto dalla sua postazione sul mondo: il trionfo della sua arte.”
“E' follia.” sussurrò Yusaku con un filo di voce.
“Non lo so, papà. Ma quel Newman non mi convince. Non sono ancora riuscito ad inquadrare il suo profilo psicologico, a capire che persona è. Tu cosa sai di lui?”
“Non mi ha detto granché.”
“Di sicuro avrai indagato in qualche modo.”
“Come fai a saperlo?”
“Al tuo posto io l'avrei fatto.”
Gli scappò una risatina. Suo figlio diventava di giorno in giorno più simile a Sherlock Holmes. O a lui.
“Hai indovinato. Ma non ho scoperto molto. So che sua madre è morta quando era molto piccolo. E' cresciuto con il padre, un attore. Lavorava per un compagnia teatrale di Chicago. Purtroppo anche il padre morì, e Arthur si ritrovò solo a otto anni. Crebbe in un orfanotrofio, e decise di seguire la carriera del padre. Ha lavorato per qualche compagnia teatrale, ma nell'ultimo periodo cambiava in continuazione. Un lavoro qui, uno lì. E dire che è bravo.”
“Com'è morto suo padre?”
“Un incidente sul lavoro.” 
“Recitando?” chiese Conan, stupito. Non era un mestiere granché pericoloso.
“Durante uno spettacolo. Interpretava un personaggio dotato di poteri magici, e dunque in una scena simulava di volare, tramite un meccanismo di ganci, fili e funi. Qualcosa è andato storto, e il meccanismo ha ceduto. Cadendo ha sbattuto la testa. E' morto sul colpo, davanti a più di un centinaio di spettatori e agli occhi di suo figlio. Il caso fece scalpore, ma ormai sono passati vent'anni e quasi nessuno lo ricorda più. Quando ho sentito il cognome di Arthur, però, mi è tornato alla mente.. e ho fatto qualche ricerca, collegando i due. Ho preferito non chiedergli mai nulla a riguardo.”
Rimasero in silenzio per qualche secondo. Entrambi guardavano il palco.
“La finzione che diventa realtà.” disse poi Conan, quasi pensando a voce alta.
“Non lo so, è tutto troppo strano.”
“Sei stato tu, prima, a dirmi che forse la razionalità non è sempre la via giusta. O ti dispiace sospettare di lui?” chiese il bambino, indicando Newman con un cenno del capo. L'attore aveva ora alzato lo sguardo, e i suoi occhi si muovevano febbrilmente tra le persone in sala. Stava cercando qualcosa? Infine, si posarono sul cadavere ancora per terra, con intorno gli agenti intenti a fare gli ultimi accertamenti. Conan lo osservò meglio. Sbatteva in continuazione le palpebre, le dita si attorcigliavano in un gioco di contorsioni. Non era più tranquillo. Era nervoso, deluso, infastidito? Non lo capiva: ma sapeva solo che c'era qualcosa sotto, che non lo convinceva. Se davvero il veleno fosse stato trovato in altri tre bicchieri, quello sarebbe stato un indizio in più. Avrebbero dovuto interrogarlo e controllarlo.
“Forse non voglio ammettere che la tua teoria possa corrispondere a verità.”
“Perché?”
“Significherebbe essere stato usato dall'inizio alla fine. E, peggio ancora, senza rendermene conto.” 
“Se davvero ha fatto quello che penso, era difficile capirlo. Ragionava in modo troppo diverso da noi, come comprenderlo?”
Guidato da un lucido squilibrio.” sussurrò il padre, citando una delle ultime frasi del suo libro.
“Teniamolo sotto controllo.”
“Non si è ancora mosso da lì. E' immobile.”
“Meglio esserne sicuri.” disse Conan, e poi, dopo un altro starnuto, “con un trucco proverò ad attaccargli addosso una delle microspie del dottor Agasa.”
L'altro annuì e basta, senza pronunciare una parola. Stava per passare oltre la tenda, quando il figlio lo richiamò.
“Papà.”
“Che c'è?”
“Dobbiamo ricordare solo una cosa. When you have eliminated the impossible, whatever remains, however improbable, must be the truth.” 
Il padre sorrise un po' amaramente, e sospirò.
“Lo sapevo che prima o poi avresti superato il maestro, Shinichi.”
Lasciò che la tenda oscillasse al suo passaggio e abbandonò il figlio lì, a riflettere su quella frase pronunciata con tono compiaciuto e malinconico allo stesso tempo. A chi si riferiva? Non ad Holmes. Quella frase si riferiva a se stesso, a lui in quanto padre, educatore, formatore. Shinichi stava andando oltre: era lui che lo stava guidando in questo caso, e non il contrario, come spesso avveniva. Il mondo si stava rovesciando quella sera.
“Non è vero, papà. Forse ti ho raggiunto: ma non credo di averti superato.” disse piano, e quella frase gli ritornò indietro, scontrandosi con le pareti e riassorbendosi nella sua pelle.
Non c'era tempo per pensare, non c'era tempo per nulla. Doveva attaccare quella microspia: il suo fiuto gli diceva che quella era la pista da seguire. Prima di uscire dalla saletta, impostò il suo viso e il suo atteggiamento sulla modalità bambino innocente. A quel punto salì di corsa la piccola scalinata che portava sul palco, e saltellando e blaterando qualcosa come: “Accidenti, da qui si vede proprio tutto!”, si avvicinò all'attore e, proprio quando fu quasi accanto a lui, finse di scivolare e cadere rovinosamente a terra. Arthur Newman girò lentamente il volto, sistemò gli occhiali sul naso e chiese con tono incolore: “Che ci fai qui?”
“Ah ah ah” improvvisò Conan, simulando una risatina, “Volevo vedere com'era la sala vista dal palco, e sono scivolato. Comunque le faccio i complimenti per l'interpretazione di prima: è stato davvero bravissimo. Avevamo tutti i brividi, sa? E poi..” disse ancora, rendendo più ingenua che mai la voce “quando quell'uomo è stramazzato a terra, eravamo tutti così spaventati, perché sembrava proprio accaduto quanto lei presagiva con le sue parole.”
L'attore tornò a guardare la sala, e non disse altro che: “E' l'arte. E' andata come doveva, ma non è stato perfetto.” 
Non sembrava più essere intenzionato a parlare, la sua voce ora atona si era richiusa in se stessa. Quanto doveva dire l'aveva ormai detto. Conan, ritenendosi congedato e essendo riuscito a porre la microspia sui vestiti del giovane, se ne andò così come era venuto, terminando la sua maldestra ma credibile recita. 
Che voleva dire l'attore con quelle parole? E' andata come doveva, ma non è stato perfetto? Se la sua ipotesi era esatta, allora davvero la polizia avrebbe trovato altri bicchieri avvelenati. E quell'attore non era estraneo ai fatti, ne era più che certo.
Starnutì di nuovo, e si ricordò della medicina per il raffreddore che aveva portato con sé. Per ingoiare la pillola aveva bisogno di un po' d'acqua, e poteva procurarsela allo stesso distributore dove avevano comprato la bottiglia per Ran. Ma era lontano dal salone, e avrebbe perso tempo, mentre invece preferiva restare in sala a controllare il comportamento dell'attore. Osservare il suo viso, i suoi movimenti su quel palco. Decise che sarebbe andato nel bagno più vicino, e avrebbe usato l'acqua del rubinetto. Di sicuro gli agenti della sala avrebbero fatto uscire un bambino piccolo come lui. In conformità alle sue ipotesi, meno di due minuti dopo si trovava nel primo bagno che aveva trovato, e cioè quello del bar dell'hotel. Con la mente ancora persa nel suo mondo di deduzioni, prese la pillola che aveva in tasca e, bevendo, la ingoiò. Stava per aprire la porta per uscire, quando improvvisamente sentì un dolore al petto. Si ritrasse, appoggiandosi al muro. Cos'era stato? Ansimò. Gli mancava il fiato. Uno spasmo lo fece pulsare, e incominciò a sentire un formicolio in tutto il corpo. Che gli stava succedendo?
Di botto un'immagine gli attraversò la mente. Lui con il mano l'antidoto all'APTX4869, mentre cerca la medicina per il raffreddore; Ran che entra nella sua camera, e lui che ripone una pillola in tasca, sicuro di aver preso quella giusta. Dannazione. Aveva commesso l'errore più stupido che poteva compiere. Aveva preso la pillola sbagliata. I muscoli cominciarono a contrarsi, mentre lui stringeva i denti, nel tentativo di non urlare. Pregò che non entrasse nessuno, mentre i dolori cominciavano a divenire lancinanti. Si morse la manica della giacca, mugolando. Non ricordava che facesse così male. 
Qualche minuto dopo, nel salone della festa, il cellulare di Yusaku Kudo vibrò. Non appena lesse il mittente, l'uomo inarcò le sopracciglia. Il messaggio era breve e conciso:

Papà, ho un problema. Vieni subito al bagno del bar, con il dottor Agasa e dei vestiti. Da uomo.





Il dottor Agasa era uscito ormai da un bel pezzo, e Ai già lo immaginava, nonostante tutte le sue raccomandazioni, in giro tra una tavolata e l'altra, a rimpinzarsi dei cibi migliori. Ma di andare con lui non se ne parlava. Quell'hotel le metteva i brividi: le ricordava la neve, il freddo di quella sera, il bruciore delle ferite sulla pelle, il rosso che macchiava il bianco candido accumulatosi sul tetto, la caduta lungo il camino, la trasformazione. Gin. I suoi occhi esaltati che la fissavano, puntandole contro la fedele pistola. Le aveva sparato più volte, godendosi ogni singola goccia di sangue che usciva dal corpo di lei: voleva ucciderla lentamente.
Ebbe un tremito. Tentò di scacciare i ricordi dalla mente, mangiando un po' dell'insalata che si era preparata per cena qualche ora prima e che alla fine, tra una cosa e l'altra, si era ritrovata a sgranocchiare solo allora. Non aveva molta fame, e poi voleva fare in fretta, e tornare a lavorare sull'antidoto all'APTX4869. Stava studiando dei nuovi componenti, e analizzando nuove reazioni. E sapeva che non era lontana dalla creazione di un nuovo farmaco: non quello definitivo, ma forse più forte e duraturo di quello precedentemente sperimentato. Aveva tenuto nascoste le sue ricerche persino al dottore, sperando che non si accorgesse del suo lavoro più intenso del solito. Il professore alle volte aveva la lingua troppo lunga: e anche se si lasciava scappare tutto in buona fede, Ai non voleva che Shinichi venisse a conoscenza dei nuovi studi sulla pillola che avrebbe potuto riportarli normali. Le avrebbe fatto mille domande, e lei amava lavorare in tranquillità. 
Stava riponendo i piatti sul lavello, quando qualcuno bussò alla porta. Trasalì. Chi poteva essere a quell'ora? Erano le dieci di sera passate, ma il dottor Agasa non poteva essere già di ritorno. Inoltre, aveva portato con sé le chiavi. Ayumi e gli altri erano fuori discussione, era tardi e il giorno dopo c'era scuola. Vide che le mani le stavano tremando: i ricordi le avevano cacciato dentro brutte sensazioni. Fece un bel respiro e decise di lasciare da parte la paura: magari era un semplice vicino bisognoso di qualcosa. Oppure poteva lasciar perdere e non rispondere. Ma probabilmente chi era fuori aveva già visto la luce accesa, e si sarebbe insospettito. Il campanello suonò ancora.
“Che insistenza.” pensò Ai, seccata. Prese la sedia e la portò fino all'ingresso. Vi salì e, prima di scostare la copertura dello spioncino, ebbe un attimo di esitazione, come se avesse paura di ciò che poteva scorgervi. Deglutì e strinse in pugni: basta comportarsi da bambina spaventata. 
Deformato dalle lenti dell'occhiolino, vide, sulla soglia, un giovane uomo con gli occhiali. Era Subaru Okiya. Che cosa voleva a quell'ora?
Scese dallo sgabello e lo spostò di lato, poi scostò la porta giusto per riuscire a sporgere la testa. 
“Salve, signor Subaru.” salutò, senza particolare entusiasmo.
“Ciao.” disse l'altro, con il suo solito sorriso tranquillo. Si aggiustò gli occhiali sul naso, come era solito fare, e poi chiese del dottor Agasa.
“Può parlare con me. Cosa vuole?” chiese senza tanti giri di parole la bambina. Voleva tornare in fretta al suo lavoro, e non desiderava perdite di tempo. Fu allora che notò la valigia che l'uomo portava accanto a sé. Fece scorrere il suo sguardo dalla persona alla valigia, dalla valigia alla persona. Non poteva davvero chiederle ospitalità.
“Quando ho saputo che i genitori di Shinichi avrebbero alloggiato in città questo weekend, ho deciso di prendermi una piccola vacanza, per non creare disturbo, anche se Conan mi aveva assicurato che potevo rimanere. Purtroppo però sono rientrato prima del previsto, e so che i signori Kudo lasceranno l'abitazione non prima di domani. Il professore mi aveva assicurato che, in caso di bisogno, avrei potuto alloggiare da voi.”
“Come mai è dovuto rientrare prima?”
“Motivi personali.”
Ai capì che non le avrebbe detto di più. Cosa poteva fare? La brutta sensazione che all'inizio provava in sua compagnia stava pian piano sparendo. E addirittura, a tratti, le sembrava quasi di potersi fidare di lui. In fondo, in più situazioni aveva aiutato lei e gli altri Giovani Detective; era stato sempre disponibile quando ne avevano avuto bisogno; e, anche se nella sua vita aveva imparato che delle apparenze non bisogna fidarsi, alla fine aprì del tutto e lo lasciò entrare.
“Prego. Deve ancora cenare?”
“No, grazie. Ho mangiato qualcosa ad un bar qui vicino.”
“C'è una camera inutilizzata in fondo a questo corridoio. Può dormire lì.”
Ai si stava dirigendo verso il lavello, per iniziare a lavare i piatti. Subaru, rimasto vicino al divano, aveva appoggiato la sua piccola valigia per terra. 
“Posso anche dormire qui senza occupare altre camere.”
“Non è un problema.”
“In tal caso, grazie. Prima di tutto, in realtà, avrei bisogno di fare una doccia.”
“Il bagno è lì.” glielo indicò la bambina, prendendo in mano spugna e detersivo. 
“Hai bisogno di una mano?”
“No.” rispose immediatamente. Forse si accorse di essere stata un po' troppo brusca, e aggiunse: “Grazie comunque.”
Non riuscì a sorridere, e non disse altro. Si rilassò solo quando l'uomo sparì in bagno, e fu davvero tranquilla quando sentì il getto della doccia. Anche se non era più come prima, comunque la presenza di lui la metteva in soggezione. Era una strana tensione che la teneva fra i suoi artigli, impedendole di muoversi come meglio credeva. Si asciugò le mani e  andò a sedersi sul divano. Cosa poteva fare? Di sicuro non andare in laboratorio, o almeno finché non era lontana da occhi indiscreti. Anzi, si ricordò che aveva lasciato la porta del suo personalissimo atelier aperta. La chiuse a chiave, e poi si ritrovò ancora sul divano. Il suo pensiero vagava di qua e di là, tra formule e provette. Si accorse solo allora di essere davvero stanca. Il lavoro degli ultimi giorni le aveva eccitato la mente, e la stanchezza si era protratta così in là da diventare una lucida forza di inerzia che la mandava avanti ogni singolo passo. Provò a chiudere gli occhi e, meno di qualche minuto dopo, sprofondò in una sorta di torpore fra il sonno e la veglia. Le sembrava di sognare ad occhi aperti, e riviveva pian piano la sua giornata, con calma e tranquillità, la scuola, il discorso di Shinichi, il libro di Yusaku Kudo, gli esperimenti. Si sentiva bene. Poi, improvvisamente, udì il suo nome. Qualcuno la stava chiamando ripetutamente, e Ai ripiombò di botto nella realtà. Aprì gli occhi e si sporse istintivamente avanti, cadendo con un tonfo dal divano. Accanto a lei Subaru Okiya le porgeva una mano per aiutarla a rialzarsi. Aveva i capelli ancora bagnati e profumava di bagnoschiuma e dopobarba.
“Scusami, non volevo spaventarti. Non ti vedevo più, e ti ho chiamata. Non mi ero accorto che ti eri addormentata qui sul divano.”
Ai si alzò da sola, rifiutando implicitamente l'aiuto offerto. Si spolverò i pantaloni, con solo un breve commento: “Non importa. Tanto ho ancora qualcosa da fare.”
“Devi fare i compiti?”
“Sì.” mentì lei, sperando di essere lasciata in pace. Ma, ormai, per quella sera poteva dire addio ai suoi progetti di studio del farmaco. Non poteva arrischiarsi ad operare con un estraneo in casa. Un estraneo, tra l'altro, che non la convinceva ancora del tutto.
“E' per questo che non sei uscita con il dottor Agasa?”
“Non le ho detto che non era in casa.” disse lei, subito sulla difensiva.
“Non ci ho messo molto a dedurlo. All'entrata ho visto le sue ciabatte. E di solito è abitudine venire a salutare un ospite, ma non è venuto, il che vuol dire che non è in casa. Inoltre quando sono entrato hai messo un solo piatto nel lavello. Ma devo ammettere di averlo capito anche prima: ci hai messo molto ad aprire la porta, come di solito fanno i bambini rimasti soli in casa. Poi, appena messo piede qui dentro, ho notato lo sgabello fuori posto: devi averlo usato per arrivare fino allo spioncino, dico bene?”
“Lei è un attento osservatore. Forse un po' troppo.”
“Non volevo essere indiscreto. Mi diverto a fingermi Sherlock Holmes, di tanto in tanto.” rispose quello, sorridendole e aggiustandosi di nuovo gli occhiali sul naso, come era solito fare.
“Sono sicuro che anche a te sotto sotto piaccia provare a investigare un pochino. In fondo, sei così amica di Conan, quel bambino sveglio.” aggiunse poi.
“Non particolarmente.”
“Facciamo un gioco?”
“Non mi interessa.”
“Vediamo cosa puoi dedurre su di me, solo guardandomi.” continuò imperterrito il giovane, non curandosi delle risposte negative della bambina. Ai sbuffò, e si voltò. Si fissarono per interminabili secondi. Strinse appena gli occhi, studiandolo  e fingendo disinteresse. Apparentemente aveva accettato la sfida solo per porre fine a quelle continue domande e dare a quell'uomo la soddisfazione che voleva. Ma forse c'era qualcosa di più, che in quel momento non avrebbe saputo definire.
“Lei porta gli occhiali da poco?”
Subaru per un secondo sembrò essere stato preso alla sprovvista. Poi si rilassò di nuovo.
“Perché me lo chiedi?”
“Ho notato che li aggiusta spesso, come se le scivolassero lungo il naso. Ma non mi sembra che i suoi occhiali siano larghi, per cui ritengo che non sia abituato a portali e non sappia quindi che la maggior parte degli occhiali tende a scivolare e non aderire perfettamente. Perciò le viene spontaneo, di tanto in tanto, tentare di riportarli nella perfetta posizione.”
“Ammetto che ti avevo sottovalutata. Perfetta deduzione, mia cara detective.” sembrò fermarsi, ma poi aggiunse, come a giustificarsi: “Ho portato le lenti a contatto per un lungo periodo, e non ero più abituato ad usare questi.” e indicò gli occhiali.
Ai non disse altro.
“E quindi hai notato solo questo?”
“Diciamo che per ora è tutto.”
“E il dottore si trova alla presentazione del nuovo libro di Yusaku Kudo?” chiese di punto in bianco lui, cambiando argomento.
La bambina annuì. Quante domande.
“E davvero tu non sei andata perché dovevi studiare?”
“Non ne avevo voglia, tutto qui. E non mi sentivo molto bene.”
“Ho capito. A me sarebbe piaciuto molto andarci.”
“Poteva farlo.”
“Ho sentito dire che si poteva partecipare solo se provvisti di invito.”
“Conan le avrebbe di sicuro trovato un posto tra gli invitati. O il dottor Agasa.” 
“Conan è molto amico di questo Shinichi Kudo.”
“Così pare.”
Con queste ultime parole Ai volle porre fine alla conversazione. Non le andava nemmeno di accennare ai presunti rapporti tra Conan e Shinichi. Cosa voleva quell'uomo? Chi si nascondeva dietro quegli occhiali? Era davvero possibile che lui fosse chi Ai sospettava?
“Ti spiace se accendo la televisione? Vorrei vedere il notiziario, in questi giorni non ne ho guardato nemmeno uno.”
La bambina alzò le spalle, come a dire: “Fa' come vuoi.” 
Ben presto la pubblicità invase la stanza. Il telegiornale stava per cominciare, ma mancavano ancora dieci minuti alle undici. Con grande sorpresa di entrambi, però, la sigla arrivò in anticipo. Un'edizione straordinaria, forse? Cosa poteva essere successo?


“Gentili telespettatori, buonasera. Ci è appena giunta notizia in redazione di un omicidio avvenuto all'Haido City Hotel durante la presentazione dell'ultimo libro di Yusaku Kudo. A quanto ci è stato riferito, un uomo è stato avvelenato, ma non è ancora chiara la dinamica dei fatti, e la polizia è all'interno dell'edificio, insieme a tutti gli ospiti. Ci colleghiamo ora con la nostra corrispondente che si trova all'entrata dell'hotel, Izumi Yoshimoto. Izumi, cosa sai dirci su quello che è avvenuto?”

Sullo schermo comparve una donna e, sullo sfondo, uno degli hotel più grandi di Tokyo, illuminato a festa. Vi erano delle macchine della polizia posteggiate davanti. Ai tremò, gli occhi che non riuscivano a staccarsi dalla televisione. I ricordi erano più vicini che mai.

“Qui è ancora tutto molto confuso, la polizia non ci lascia avvicinare, ma da quanto abbiamo saputo un uomo è stato avvelenato. Secondo le ultime notizie si tratta di un tale Koichi Sakamoto, dipendente di una casa editrice di minore importanza. Come dicevi tu, gli ospiti si trovano ancora tutti all'interno dell'hotel, i poliziotti bloccano tutte le entrate e le uscite: forse si sospetta che l'omicida sia uno di loro.”

“Non appena avrai altre notizie, provvederemo subito a darti la linea. E ora parliamo di politica..”

E la voce continuò seguendo la sua scaletta e la sua routine. Un omicidio, all'Haido City Hotel. Proprio come quella volta, come quella notte. E se ci fossero stati di mezzo di nuovo gli uomini dell'Organizzazione? Ma perché colpire due volte nello stesso luogo? No, probabilmente tutto questo non c'entrava nulla, ma lei davvero non poteva fare a meno di percepirla quella paura, la dannata paura che alle volte l'assaliva, e non riusciva mai a controllare. Il suo destino era sempre così incerto, i suoi inseguitori erano forse vicini e lei non lo sapeva, ogni scossone la faceva sussultare. Potevano saltarle addosso da un momento all'altro, senza preavviso, senza esitazione. Maledizione, perché la vita era così precaria. Alzò ancora lo sguardo verso lo schermo. Quella donna era così tranquilla, mentre raccontava i problemi e le disgrazie altrui. Niente sembrava toccarla. Sentì un brivido. Voleva stare da sola. Si alzò e corse in camera sua, infilandosi dentro al futon e scomparendo sotto la coperta. Non aveva freddo, ma tremava. Era ancora troppo fragile. 
Sentì dei passi concitati lungo il corridoio. Poi dei passi più lenti in camera. E infine delle mani poggiarsi sulla coperta.
“Ehi, stai bene? Che ti prende?”
Si rannicchiò su se stessa, cercando di mascherare la voce flebile e strozzata.
“Ho sonno. Mi lasci sola, per favore.”
L'altro non sembrò convinto.
“Non stai bene, dormo qui vicino a te.”
“NO.” reagì lei, quasi urlando. Subaru rimase interdetto, la bambina si era improvvisamente messa a sedere. Aveva i capelli scarmigliati e le pupille tremanti. “Va tutto bene, mi lasci sola.”
Lui capì che non aveva senso insistere. Si alzò, girandosi sulla porta e dicendo: “Sono nella stanza qui accanto, se hai bisogno chiamami.”
Annuì. La luce si spense. Il tono di lui era stato così apprensivo, quasi dolce. Per un attimo, come d'istinto, le venne da alzarsi, da correre, da abbracciarlo. Capì allora di avere un disperato bisogno di affetto. Si ributtò a letto, la paura si era in parte quietata. Nel buio della sua cameretta pensò a Conan, intento ad indagare su quel caso. Non aveva più sonno.
Poi, una folata di vento fece aprire di botto la finestra che aveva dimenticato accostata. Quando si alzò per chiuderla, le parve di sentire il gracchiare di un corvo in lontananza. Ed ebbe come la sensazione che presto il destino sarebbe tornato per farle pagare il suo pegno.




 
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Ok, lo so, sono in ritardo e vi porto un capitolo come questo, che non mi convince per niente.
Purtroppo da quando ho aggiornato non ho più toccato la storia per oltre una settimana, causa studio. Poi mi sono messa a scrivere, e in un settimana e qualcosa è venuto fuori questo: anche qui ho dovuto tagliare, come mi è successo nello scorso capitolo xD la parte finale della storia dell'hotel (qui non compresa) era quella che più fremevo per scrivere, ma alla fine ho posticipato, perché altrimenti davvero il capitolo sarebbe risultato troppo lungo e magari noioso. Vi ripeto che non mi convince proprio, quindi ogni consiglio o parere è il benvenuto.
Purtroppo non ho molto tempo per scrivere, vorrei solo dire un'ultima cosa: dalla prossima settimana comincio le lezioni, il che vuol dire che avrò molto meno tempo per scrivere.. se gli aggiornamenti dovessero diventare più lenti, non preoccupatevi, non ho intenzione di abbandonare la storia: anche perché presto entreremo maggiormente “nel vivo”. Al massimo rallento, ma non mollo! :) Ringrazio tutti per le splendide recensioni che mi avete lasciato, e che mi hanno spronata ed incoraggiata: grazie davvero. Grazie anche a chi legge, a chi segue la storia e a chi l'ha già messa tra le preferite!
Siete meravigliosi davvero :)
Al prossimo capitolo,
Flami

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Capitolo 4
*** Human Nature ***


In bianco e nero
 


La prima attrice: “E' morto! Povero ragazzo! E' morto! Oh che cosa!”
Il primo attore: “Ma che morto! Finzione! Finzione! Non ci creda!”
Altri attori da destra: “Finzione? Realtà! Realtà!E' morto!”
Altri attori da sinistra: “No! Finzione! Finzione!”
Il padre: “Ma che finzione! Realtà, realtà, signori! Realtà!”
Il capocomico: “Finzione! Realtà! Andate al diavolo tutti quanti! Luce! Luce! Luce!”
(da L. Pirandello, “Sei personaggi in cerca d'autore”)
 


4. Human Nature




“E' oltremodo incredibile come spesso siano le persone più intelligenti a commettere gli errori più banali, stupidi e impensabili. Non trovi, Shinichi?” 
Yusaku si era chinato per riporre in una borsa il piccolo smoking, ormai inutilizzabile. I polsini della camicia si erano del tutto sfasciati, i bottoni della giacca  erano sparsi per terra, i pantaloni erano in più punti scuciti. Le scarpe erano finite sotto al lavandino, schizzate via da piedi improvvisamente diventati troppo grandi.
Shinichi aveva appena indossato i pantaloni che il padre e il dottor Agasa gli avevano portato. Seduto per terra, la schiena nuda appoggiata alla parete e i capelli incollati alla fronte da quel sudore freddo che non sembrava intenzionato ad abbandonarlo, aprì appena gli occhi, deciso a non accogliere quella constatazione che alle sue orecchie sapeva terribilmente di provocazione. 
Con un filo di voce roca e un abbozzo di sorriso, disse solo: “Grazie per avermi detto che ho una notevole intelligenza.”
“Shinichi, come ti senti?” chiese a quel punto il dottor Agasa. Il ragazzo sembrava terribilmente debilitato, e il raffreddore, che permaneva, non era migliorato. 
“Questa trasformazione mi ha dato il colpo di grazia. Ma ora non c'è tempo per stare male. Mi passi la camicia, dottore.”
Quello obbedì, porgendogli una camicia che Yusaku aveva portato con sé per ogni evenienza. 
Shinichi si alzò piano, come se stesse compiendo lo sforzo più faticoso della sua vita. La camicia non gli calzava a pennello: anzi, era larga sia sulle spalle che sulle maniche, ma non era quello il momento per preoccuparsene. I pantaloni neri erano già più della sua misura, e le scarpe non eccessivamente grandi: entrambi questi indumenti erano stati, per così dire, presi in prestito da una delle divise per camerieri avanzate. Aprì uno dei rubinetti, buttando il suo viso sotto ad un getto di acqua fredda. L'unico risultato fu che si sentì più sveglio di prima. Sapeva che l'unico rimedio per quel suo raffreddore, in quel momento, era pensare. Darsi da fare, scervellarsi su un problema, essere coinvolto fino al collo nel rischio. Come Sherlock Holmes, la sua mente si ribellava all'inerzia: doveva avere qualcosa su cui spremere le meningi. 
“E' successo qualcosa in sala?”
“A breve dovrebbero arrivare i risultati delle analisi sui bicchieri.”
“Dottor Agasa, ho bisogno di un favore.”
“Dimmi, Shinichi.” 
“Dica a tutti che Conan non si sentiva bene, e che ha dovuto riaccompagnarlo a casa.”
“Ma come faccio?” ribatté quello. “A nessuno è permesso abbandonare l'hotel.”
“Allora dica che ha chiamato un taxi, che l'ha riportato a casa. O che qualcuno è venuto a prenderlo. L'importante è che Conan abbia lasciato questo albergo. Bentornato, Shinichi.” disse Yusaku sorridendo, e rivolgendosi al figlio. Gli passò un braccio intorno alla spalla, e si fermò a osservare lui e suo figlio riflessi allo specchio.
“Indubbiamente, mi assomigli sempre di più.”
“E con questi,” aggiunse il figlio, ridacchiando e ponendo sul naso gli occhiali di Conan, “siamo davvero quasi identici. Mi mancano solo i tuoi baffetti da intellettuale.” 
Nel frattempo, Agasa era uscito per fare quanto richiesto. Mentre camminava a passo svelto, per quanto il suo fisco poco atletico potesse concedergli, andava pensando a quello che avrebbe detto Ai non appena venuta a conoscenza della situazione. Shinichi, sovrappensiero, aveva confuso l'antidoto all'APTX4869, uno dei farmaci più astrusi mai creati e che sfiorava i limiti della fantascienza, con una banale pillola per il raffreddore. Davvero la piccola scienziata ci avrebbe creduto? Oppure avrebbe pensato che, ancora una volta, il detective innamorato aveva fatto di testa sua? Il dottore era più che convinto che il maldestro errore di Shinichi fosse stato commesso in buona fede: quel ragazzo teneva più di qualsiasi altra cosa alla vita altrui. Non avrebbe mai rischiato di mettere a repentaglio i suoi più cari amici comparendo ad un evento tanto importante, rivelando così a chi lo credeva morto di essere ancora vivo e vegeto. I pensieri che si affollavano nella mente del dottor Agasa erano più che fondati. Shinichi, infatti, mentre osservava la sua immagine allo specchio, pensava già a come avrebbe potuto mascherare la sua improvvisa e inaspettata apparizione. Doveva evitare di farsi vedere al di fuori dell'albergo, dove le telecamere e i giornalisti erano stanziati in attesa dell'uscita della polizia e di un eventuale assassino da fotografare. Cercò di non pensare a quello che avrebbe detto Ai, e l'immagine della scienziata fu scacciata via dal volto di Ran, che si materializzò nella sua mente. La ragazza sorrideva, vedendolo arrivare. Poi si avvicinava, prima a piccoli passi, poi di corsa, e infine gli gettava le braccia al collo, dicendogli che le era mancato, che non vedeva l'ora di vederlo, che con lui tutto aveva un sapore diverso e il mondo si colorava improvvisamente.
“Ehi Shinichi. Una chiamata da Megure.”
Il volto di Ran sfumò, e il giovane detective ritornò alla realtà. Un bagno, una camicia troppo larga, un caso da risolvere. Anzi, due casi da risolvere: ormai Shinichi considerava anche se stesso un caso estremamente complesso: nascondere ogni suo movimento da occhi indiscreti non era così semplice come poteva sembrare. Sentì solo allora la suoneria del telefono del padre.
“Rispondi.”
“Non possiamo tornare in sala?”
“Non sono ancora sicuro di voler comparire di fronte a tutti.”
“Ho capito. … Pronto, ispettore?”
Restò un attimo in silenzio. Probabilmente l'ispettore gli stava chiedendo dove fosse finito, perché rispose: “Sono dovuto uscire un attimo per andare al bagno.”
Ancora silenzio. L'espressione di Yusaku si fece dapprima stupita, poi preoccupata e infine pensierosa. Annuì, ma ricordandosi che l'ispettore non poteva vederlo, si affrettò ad aggiungere: “Arrivo subito.” , e bloccò la conversazione.
“Che è successo?” chiese Shinichi, ansioso di avere notizie. Megure doveva aver comunicato qualcosa di molto importante, a giudicare dall'espressione del padre. Yusaku ripose il telefono in tasca e si appoggiò al marmo del lavandino.
“Hanno controllato gli altri bicchieri.”
“E?” incalzò l'altro, intuendo già quale sarebbe stata la risposta. Era scritta lì, negli occhi sconsolati del padre.
“Il veleno era presente in altri due calici. Le vittime designate erano tre.” 
Stettero un attimo in silenzio. Yusaku aprì il rubinetto, passandosi dell'acqua sulla fronte. Le lenti degli occhiali si bagnarono di minuscole goccioline trasparenti.
“Le nostre ipotesi erano corrette. L'omicida ha letto il libro, ora ne sono più sicuro che mai.” 
“Sospetti di Arthur, vero?”
“Dico che è il caso di interrogarlo. Quando gli ho attaccato quella microspia addosso, ha detto una strana frase..” 
“Che cosa?” chiese subito Yusaku, interrompendo Shinichi.
“Ha fatto un commento, qualcosa del tipo: è l'arte. E' andata come doveva, ma non è stato perfetto.” 
“E' andata come doveva, perché qualcuno è morto. Perché l'interpretazione si è tramutata in realtà.”
“Non è stato perfetto, perché non sono morte tre persone, né gli omicidi sono avvenuti dopo la fine dello spettacolo. Ma è stato orribile comunque. Non è contro ogni sentimento, papà? Dobbiamo ritenere una fortuna che il signor Sakamoto sia morto, perché così facendo ha inconsapevolmente salvato la vita ad altre due persone. A che livello capita di ridursi.”
“Tutto quello che è accaduto stasera non è solo contro ogni sentimento, Shinichi. E' contro ogni logica. Mi sembra di essere caduto in un vortice senza fine, che ci spinge sempre più giù. E tutto è cominciato da quel libro.”
“Non fartene una colpa.”
“Non è facile non pensare di essere la causa di tutto.”
“Comunque sia, non abbiamo ancora provato le nostre ipotesi. Non è detto che Arthur Newman sia il colpevole.” Shinichi pronunciò quella frase con tono incerto, come se non ci credesse nemmeno lui. Un maldestro tentativo di smantellare un'ipotesi ben costruita, nel tentativo di alleviare il cervello martoriato del padre.
“Se non è lui, è stato comunque qualcuno che ha letto quel libro. Maledetto libro: non c'è niente che valga la vita di una persona.”
Calò il silenzio tra i due. Entrambi non stavano forse pensando a nulla: l'emozione era salita fino al cervello, e i sentimenti si stavano scatenando in un lotta furiosa per avere la meglio l'uno sull'altro. La ragione ne usciva sconfitta in partenza.
“Non cercare di convincerti, non riusciresti mai ad odiare quel libro.” 
Aveva parlato il cuore di Shinichi. Quello di Yusaku, colpito in pieno, non rispose. Un'altra freccia stava per arrivare.
“Potresti ficcarti in testa duemila pensieri, tremila convinzioni, quattromila sensi di colpa. Potresti pensare che nulla di tutto ciò è giusto, e avresti il mio pieno appoggio. Ma non riusciresti mai a odiare davvero quel libro: ne sei l'autore, ed è come tuo figlio. Le parole sono frutto della tua mente, fuoriuscite attraverso uno squarcio nella tua anima, e volate via fino alla carta. Ci sarà sempre un filo di incredibile complicità che ti legherà a In bianco e nero. E lo sai perfettamente, vero? E' forse questo ciò che ti pesa di più. Non riuscirai ad odiare quel libro, per quanto ti sforzi di farlo.”
Yusaku, immobile come una statua, continuava a fissare il marmo del lavandino. Non rispondeva, cercava di chiudersi, di allontanarsi dalla mente scrutatrice del figlio. Shinichi, come ritornando in sé, si accorse di aver esagerato. Ma che diavolo aveva detto? Non era certo quello il momento. Alle volte era davvero un pessimo appoggio per le persone che gli erano intorno. 
“Mi dispiace, io..”
“Lascia stare.”
“Ma..”
“Ho detto che non importa.” tagliò l'uomo, con voce imperiosa. Non voleva un'altra parola a riguardo, e il tono alto e potente ne era la testimonianza. Shinichi non osò replicare, e rimase zitto, facendo un passo indietro. 
“Scusa, non dovevo alzare la voce.” continuò Yusaku, rendendosi conto di aver esagerato. Il ragazzo scosse la testa, come a tranquillizzarlo. Tra loro due non dovevano esserci incomprensioni. 
“Ora sarò meglio andare a informare l'ispettore della nostra ipotesi, per interrogare Arthur. Dobbiamo togliere ogni dubbio dalla mente.” aggiunse ancora lo scrittore. La voce suonava affaticata. Quella serata sembrava lunga una settimana. Voleva solo che terminasse, non importava come: ormai al lieto fine ci aveva rinunciato da un pezzo.
“Ho paura che la notizia della mia comparsa possa finire sui giornali. Prima di sparire, le mie foto erano su tutte le testate principali.”
“Non ci sono giornalisti nell'hotel. Metteremo tutto a tacere in seguito, come sempre. Non preoccuparti.”
“E va bene. Però mi sa tanto che questi devo toglierli.” disse, sfilando dal viso gli occhiali di Conan. Involontariamente li azionò, e sulla lente comparve la schematica mappa munita dei punti cardinali. Un puntino rosso si muoveva illuminandosi a intermittenza.
“Cavolo.” bisbigliò.
“Che c'è?”
“Si sta muovendo. La microspia.. Arthur Newman si sta muovendo. E' fuori dall'albergo. Ma come ha fatto ad uscire, dannazione?”
“La stanzetta dietro la tenda.” disse Yusaku, come se avesse avuto un'illuminazione improvvisa. 
“Ma non c'era alcuna porta lì!”
“C'è una specie di passaggio a cui si può accedere. Sulla parete di destra di quella piccola saletta, in basso, vi è una piccola porticina, si apre come un'anta. Da lì vi è un corridoio che una persona sufficientemente bassa e magra può percorrere a gattoni, e che attraversa  il perimetro della sala: permette anche di uscirne. Il proprietario dell'albergo mi ha spiegato che è stato costruito di recente: spesso vengono fatte delle rappresentazioni teatrali, e quel passaggio permette, in caso di emergenza, di portare qualsiasi cosa sul palco o agli attori senza che il pubblico se ne accorga, in quanto è in collegamento diretto con il corridoio esterno ed è invisibile a chi è nel salone. Da lì può essersi intrufolato in un altro bagno, e fuggito dalla finestra.”
“E come faceva lui a sapere di tutto questo?”
Yusaku alzò lo sguardo, fissando il figlio negli occhi. Sembrava che gli fosse appena tornato in mente un'altra cosa, estremamente fondamentale.
“Era con me quando me ne hanno parlato.” 
Restarono un secondo in silenzio. Un interminabile attimo, prima che Shinichi sbattesse il pugno sul muro, urlando: “Dannazione, dobbiamo sbrigarci!”
Spalancarono contemporaneamente la porta del bagno e presero a correre, lasciando che sbattesse rumorosamente alle loro spalle. Shinichi continuava a controllare i movimenti di quel pallino rosso, mordendosi il labbro inferiore nel tentativo di scaricare i nervi. Quello li aveva fatti fessi, se l'erano lasciato sfuggire sotto il naso.
“Procede lentamente, è a piedi.”
“Bisogna avvertire l'ispettore, Shinichi!”
“Non c'è tempo ora per spiegargli tutto, rischiamo di perderlo. Io me la voglio giocare fino in fondo questa partita, e tu?”
Il padre rispose senza un attimo di esitazione. La voce sicura trasmetteva la certezza che ce l'avrebbero fatta.
“Ci puoi scommettere. Usciamo dal retro, eviteremo di incontrare i giornalisti.” 
Corsero a perdifiato lungo il corridoio, fino a raggiungere le uscite secondarie dell'albergo. Degli agenti presidiavano le porte, guardandosi intorno con espressione annoiata. Erano probabilmente delusi per il compito marginale che era stato loro assegnato: controllare delle uscite secondarie poco frequentate da cui nel novanta per cento dei casi non sarebbe passato nessuno. Furono quindi molto sorpresi quando si videro sfrecciare davanti due persone, di cui una che gridava: “Subito a destra dopo la porta!”
Non fecero in tempo a fermarli che quelli erano già fuori. Gli agenti, consultandosi con uno sguardo, si lanciarono subito all'inseguimento, elettrizzati per l'inaspettato avvenimento. Forse quei due erano i colpevoli che l'ispettore cercava all'interno della sala? Se li avessero acciuffati, allora sì che la loro carriera avrebbe preso una piega davvero positiva. Uno dei due agenti prese la ricetrasmittente dalla tasca, sputandoci dentro parole e saliva.
“A tutte le unità, stiamo inseguendo due individui sospetti che sono scappati dall'uscita sul retro numero quattro dell'albergo. Si stanno dirigendo verso il quartiere di Beika. Ripeto: stiamo inseguendo due elementi sospetti che hanno lasciato di corsa l'hotel varcando il nostro posto di guardia.”
Se avessero saputo che i due individui sospetti altro non erano che Yusaku Kudo e il figlio, uno dei più famosi detective del Giappone, probabilmente sarebbero arrossiti per la vergogna. Eppure, la loro azione non si sarebbe rivelata del tutto inutile. Shinichi e Yusaku stavano inseguendo il più importante sospettato per l'omicidio. I due agenti stavano inseguendo Shinichi e Yusaku. Per una sorta di proprietà transitiva stavano dunque inseguendo anche l'omicida.
“Ehi, ci sono dietro!” esclamò lo scrittore, osservando gli agenti che li rincorrevano. “Ma tu guarda: siamo riusciti a smuovere la polizia senza perdere un secondo di più.”
Shinichi sorrise nella sua corsa, guardandosi indietro e vedendo i due poliziotti che li rincorrevano cercando di stare al loro passo. Ad uno sguardo veloce, sembravano due uomini di mezza età. Uno aveva una ricetrasmittente in mano. L'altro sembrava già provato dallo scatto improvviso a cui era stato sottoposto.
“Sono dannatamente lenti. Rischiamo di seminarli.” 
Pronunciato queste parole, Shinichi stesso si accorse di avere il fiatone. Il raffreddore provava notevolmente il suo corpo, e anche la trasformazione appena subita di certo non doveva giovare alla sua forma fisica. E se non avesse retto lui per primo a quell'inseguimento? No, il puntino era sempre più vicino e si muoveva troppo lentamente per pensare di sfuggir loro. Ma non poteva permettersi rischi, il fiato gli si stava mozzando in gola. Vedeva il padre un passo avanti a lui, che si girava in continuazione in cerca di indicazioni. Ma sì, in fondo quella non era davvero la sua battaglia. Era la sfida terribile in cui Yusaku si era ritrovato catapultato.
“Papà!” urlò, per cercare di superare il frastuono delle macchine. Si trovavano ora in una strada principale. Si sfilò gli occhiali dal naso, e accelerando raggiunse il padre che correva poco avanti. “Prendili tu, fai strada. Questo raffreddore mi uccide il fiato e la trasformazione mi ha inferto il colpo di grazia. Se non dovessi più farcela a correre, allora vai avanti senza perdere altro tempo.”
Rimase zitto, per evitare di sprecare altre boccate d'aria preziose. Yusaku prese gli occhiali senza dire altro, stringendo forte la stanghetta della mano destra. Se gli fossero caduti sarebbe stata la fine.
“Di qua!” urlò, tagliando per una traversa laterale, con Shinichi dietro che lo seguiva. Il puntino rosso era davvero vicinissimo. E procedeva sempre più lento, come se si stesse fermando. Sentirono delle sirene in lontananza: forse anche delle auto della polizia si erano mosse? Ma quella via laterale era pedonale, troppo stretta per consentire il passaggio di un'autovettura. Li avrebbero irrimediabilmente persi, loro che scorrazzavano per la metropoli in cerca di due persone di cui non avevano nemmeno visto il viso. 
Yusaku sembrò intuire i pensieri del figlio: “Non preoccuparti, chiameremo l'ispettore e gli altri una volta sul posto. L'importante ora è prenderlo.”
Sbucarono in una delle grandi arterie che costeggiava il fiume. Più in là, illuminato dalle luci artificiali e dalle macchine che vi passavano, un imponente ponte metallico permetteva il passaggio. Le lucette sembravano tante piccole stelle al livello del mare: e, con le loro luci finte e accecanti, impedivano la visione di tutti quegli astri che maestosamente puntellavano il cielo.  La luce della luna filtrava appena attraverso un manto di nubi che la attraversava piano, coprendone i raggi fasulli. Di tanto in tanto se ne vedeva uno spiraglio, e una luce grigiastra che rifletteva le nuvole andava ad espandersi come diffusa con delicatezza. Era lo scenario perfetto per un film ai limiti dell'orrore.
“E' qui, da qualche parte.” disse piano Yusaku, osservando quel pallino rosso. Non poteva fermarsi, o ripartire dopo quella corsa sarebbe stato più difficile che continuare. “Ma dove? Su quel ponte, forse.. no..” 
Alzò gli occhi a guardare la metropoli che si estendeva davanti a lui. Arthur Newan era lì, a meno di un chilometro. Scrutò a destra e a sinistra, rallentando appena, cercando il posto dove il giovane poteva essersi fermato. Sì, perché quella luce rossa non si muoveva più. Solo qualche piccolo passo che la microspia rilevava appena. Si avvicinarono al ponte, ma la lucetta indicava un luogo successivo. Ed era alla loro destra, come se Arthur fosse in mezzo al fiume. E se si fosse suicidato? Se fossero arrivati troppo tardi? Fu allora che vide, a circa trecento metri, un ponte pedonale. Non particolarmente largo, e non molto frequentato, dato che il passaggio pedonale vi era anche sul ponte che si era appena lasciato alle spalle. Ma quello che aveva davanti era un trionfo dell'architettura, con le sue grandi arcate  e i lampioni che lateralmente lo illuminavano, sbucando dal muretto che permetteva ai passanti di fermarsi un attimo ad ammirare il cemento e i vetri dei grattacieli.
“Sul ponte pedonale!” urlò, accelerando ancora di più. “Shinichi, ti precedo!”
Non fu in grado di definire da dove le sue gambe trovassero quella forza per schizzare avanti, sempre più veloce. Sentiva l'aria sferzargli la pelle, scombinargli i capelli e cacciargli gli occhiali quasi sugli occhi: era come un maratoneta alle prese con lo scatto finale verso la vittoria. Verso il traguardo. Ma non c'era nessuna striscia da abbattere ad attenderlo; nessun applauso, nessuna fama, nessuna gloria, nessuna soddisfazione, nessun orgoglio. Solo un groviglio di pensieri da sciogliere. 
Man mano che si avvicinava vedeva una figurina esile stagliarsi appena al centro del ponte. Non c'erano altri passanti: era come se su quella stradina volante di pietra la confusione della città non potesse accedere. Le macchine che passavano poco distanti sembravano appartenere ad un altro mondo. Rallentando, Yusaku superò i paletti che delimitavano il ponte, impedendo l'entrata ai veicoli. Gli insetti svolazzavano intorno alla luce dei lampioni, di tanto in tanto sbattendo sul vetro. Insieme creavano un brusio appena percettibile, eppure chiaramente riconoscibile. Lo scrittore riprese fiato, camminando. Arthur era immobile, appoggiato al muretto che faceva da parapetto: fissava il fiume nero che si increspava appena sotto i loro piedi. Più lontano, il ponte metallico illuminato, il simbolo della città che si erigeva attorno a loro. Rimasero qualche minuto in silenzio. L'attore non sembrava intenzione a scappare, o a compiere qualche azione spericolata: era semplicemente lì, immerso in una surreale tranquillità. Teneva in mano, stretti al petto, alcuni fogli riuniti in un ordinato plico. 
Yusaku si chiese se si fosse accorto di lui. Arrivano delle parole a confutare ogni suo dubbio: “Non dubitavo che prima o poi qualcuno mi avrebbe trovato. Ma sono felice che sia stato tu.”
La sua voce non tradiva una particolare emozione. “Vorrei solo sapere come hai fatto a capire che ero qui.”
“Questo non ha importanza, ora.”
“Hai ragione.” ammise quello. “Non ha importanza.”
Yusaku si avvicinò ancora di più. Erano a circa un metro di distanza. Appoggiò una mano sul parapetto, e parlò più con la voce apprensiva di un padre che con il tono di un accusatore.
“Che cosa hai fatto, Arthur?”
Decise di usare l'inglese. Sapeva che Newman conosceva abbastanza bene il giapponese, ma usando la sua lingua madre avrebbero potuto conversare più fluentemente. Non voleva incomprensioni in quel dialogo.
Il giovane si girò a guardarlo. Gli sembrò quasi che le pupille gli tremassero, oltre quei vetri così spessi.
“Cos'ho fatto? Non lo so. Volevo far vivere la mia arte.”
“La nostra arte è già viva, e lo sarà sempre. E' dentro di noi, dentro ognuno di noi. Ed è per questo che è più reale di qualsiasi altra cosa.”
“Sarebbe stato lo spettacolo perfetto.” sussurrò l'altro, tornando a guardare davanti a sé. Yusaku si accorse che non lo stava ascoltando. “Sarebbe stato come il suo..”
“Come il suo? Di chi stai parlando?”
“Quello di suo padre.” 
Era intervenuta una terza voce. Shinichi, ansimante, li aveva raggiunti. Tossì, parlando a fatica. Rosso in viso e con i capelli attaccati alla fronte per il sudore che quell'influenza lo condannava a subire, si sforzò di non cedere.
“Tuo padre è morto sul palco in un terribile incidente. E' morto mentre recitava, e gli spettatori, attoniti, non capivano più se si trattasse di finzione o realtà. Era quello che volevi ricreare, vero? Volevi ricreare quell'episodio?”
“Volevo raggiungere il massimo. Toccare la vetta in cui realtà e fantasia si fondono in un unico plasma dai contorni indefiniti. E poi non mi sarebbe importato più di nulla. Sarei stato come papà.”
Il tono si stava incrinando. Gli occhi divennero lucidi.
“Lo so che è difficile, la morte di tuo padre, quell'infanzia così dolorosa.. non ti chiedo di dimenticare. Ma puoi provare a ricominciare.” Yusaku lo stava quasi implorando. Quel ragazzo gli aveva distrutto l'anima, era vero. Aveva ucciso. Ma sembrava così dannatamente fragile. 
“Non pensavo che avrei avuto paura dopo..” continuava quello. Era come se non li sentisse, come se stesse conversando con se stesso. L'ultimo disperato monologo della sua carriera. Un soliloquio delirante che si espandeva nell'aria come una melodia data dai tasti stonati di un pianoforte rotto.
“Dammi la mano. Ti aiuterò, te lo prometto.” 
Yusaku tese il braccio, ma il giovane sembrò non accorgersene. Shinichi li osservava, guardava il padre tentare di ricomporre i pezzi di quella serata distrutta. Ebbe ad un certo punto la strana sensazione di essere di troppo su quel ponte, ma non seppe spiegarsi perché. C'erano il regista e l'attore. Lui non aveva un ruolo preciso in quella scena della tragedia.
Arthur si girò per un attimo, e sbarrò gli occhi.
“Papà.” sussurrò soltanto.
Yusaku sentì gli occhi diventargli lucidi. Quel ragazzo si era macchiato di qualcosa di orribile: ma ora sentiva soltanto la tristezza dilaniargli il cuore. Non lo comprendeva, forse non l'avrebbe mai compreso. Riusciva a provare una terribile pena e compassione per quella mente che si stava sgretolando davanti ai suoi occhi.
“Sì, sono io. Dammi la mano, Arthur. Torniamo a casa, insieme.”
“Papà, mi dispiace...”
Piangeva silenziosamente. Le lacrime gli scendevano sulle guance, e andarono a bagnare i fogli che teneva stretti al cuore.
“Va tutto bene, va tutto bene. Dammi la mano, e non preoccuparti di nulla.”
Si avvicinava piano, un passettino alla volta. La mano sempre porta in avanti, verso quel ragazzo che aveva preso a tremare.
“Ho paura, papà.”
“Non devi averne, non ti succederà nulla.”
“Ho paura che sarà tutto buio. Ho paura che avrò freddo, e non smetterò più di tremare.”
Yusaku capì improvvisamente cosa presagivano quelle parole oscure. Sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Doveva fermarlo, subito. Ma al contempo doveva agire con calma.
“Dammi la mano, Arthur. Vieni con me.”
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo. 
“Vedo le stelle. Sembrano piccole, ma sono luminose.. come mi dicevi da piccolo, te lo ricordi?”
“Certo che me lo ricordo, Arthur. Le guardavano insieme, in quelle notti..” si fermò, non sapendo che altro inventare. Non poteva azzardarsi oltre, o avrebbe rotto quella complicità.
“Ma se andremo lassù, e sono così luminose, non avremo freddo. Non devo avere paura, è tutto finito.”
“No, Arthur, non farlo, dammi la mano, ti prego!” alzò improvvisamente la voce, incrinata dalla tristezza e dalla disperazione.
“Grazie di tutto, papà. Ti voglio bene. Sto arrivando.” 
Sorrise malinconicamente a Yusaku. Ma ora aveva smesso di tremare. Sembrava tranquillo, quasi rassegnato. Beatamente calmo. Lanciò in aria il plico di fogli che teneva al petto. Le pagine bianche si dispersero volteggiando nella notte. Poi si sporse oltre il parapetto, lasciandosi scivolare con grazia, quasi come una graziosa farfalla trafitta che tenti di spiccare il volo, e improvvisamente si accorga di non esserne più capace.
“Noo!” urlò Yusaku, balzando in avanti. Afferrò la camicia, ma tutto quello che ottenne fu di ritrovarsi un lembo di stoffa bianca  in mano. Arthur si era lasciato cadere in silenzio, sorridendo. 
“No...” disse ancora, appoggiandosi al parapetto. Si accorse solo allora che Shinichi era accanto a lui, ancora sporto in avanti oltre il muretto. Probabilmente aveva tentato di afferrare Arthur. 
Yusaku sentì le lacrime bagnargli le guance. Era finita nel peggiore dei modi. Non era riuscito a salvare nemmeno chi avrebbe potuto. Si portò le mani alle tempie, e cadde sulle ginocchia, avvertendo improvvisamente tutta la stanchezza accumulata. La tensione di ore gli era cascata addosso in un attimo. Qualcosa si era sciolto dentro di lui, scorrendogli improvvisamente dentro: e questo qualcosa bruciava da morire.
“Papà..”
Shinichi si era chinato accanto a lui, portandogli un braccio intorno alle spalle. Si inginocchiò, cercando di stargli il più vicino possibile. Sapeva che ora il padre stava soffrendo come non mai. Anche lui aveva avvertito una profonda tristezza durante quel dialogo fatto da frasi scomposte e lacrime silenziose, e anche lui ora provava una profonda rabbia per non essere riuscito a salvare nemmeno quella vita. Ma sapeva che per Yusaku tutto ciò doveva essere ancora più forte. 
“Quel maledetto libro. Se solo non lo avessi scritto...”
Nel momento stesso in cui lo disse, un foglio si poggiò sulla sua spalla. Lo prese in mano, e vi lesse il copione di quella serata. Il soliloquio del serial killer, tratto dal suo romanzo. Si accorse che era bagnato. Stava piangendo, senza una parola né un singhiozzo. Si alzò in piedi, protendendo il braccio in avanti, e lasciò cadere quella pagina, che andò a mischiarsi con quelle altre poche che ancora svolazzavano. Dovevano essere tutte le parti che Arthur aveva interpretato. In quel momento capì che Shinichi aveva ragione. Avrebbe potuto forse convincersene, ma avrebbe mentito a se stesso: non avrebbe mai potuto odiare quel libro, non avrebbe mai potuto odiare la sua arte. Perché era ciò che faceva battere il suo cuore e respirare i suoi polmoni. Uno strano silenzio li stava avvolgendo. Le vittime di quella notte non le avrebbe mai dimenticate.
“Riposate in pace.” disse piano.
Si chiese perché stesse piangendo le stesse lacrime per la vittima e l'assassino. Non seppe darsi risposta: forse non conosceva abbastanza a fondo se stesso.
Gli insetti continuavano a disegnare le loro traiettorie irregolari intorno alla luce dei lampioni. Sbandavano senza un apparente controllo. Yusaku si soffermò un attimo a guardarli: in fondo, la natura umana non era poi così diversa da quei cerchi insensati e privi di regole. Era così diversificata e così incomprensibile che non avrebbe mai smesso di affascinare, ma allo stesso tempo non sarebbe mai stata capace di dare risposta alcuna ai suoi misteri.




L'odore della nicotina era il profumo di quella vecchia macchina nera. Se vecchia la si poteva definire, poi. La carrozzeria sembrava appena verniciata e ripulita, e la luce la faceva scintillare come se fosse appena uscita dalla fabbrica. A guardala così, passeggiare lentamente per le vie notturne della città, ci si sentiva in un altro tempo e in un altro mondo, immersi improvvisamente in un passato dal gusto saporito e amaro allo stesso tempo. Il motore della  Porsche 356A borbottava, facendo scorrere le ruote di quel gioiellino avanti per le vie del quartiere di Haido. All'interno, due uomini stavano seduti in silenzio. Quello alla guida era di corporatura robusta, le grosse spalle larghe occupavano interamente la grandezza del sedile e le mani ampie e un po' callose tenevano saldamente il volante. Sul viso delimitato da un'imponente mascella quadrata e da lineamenti duri e marcati, portava un paio di occhiali da sole ormai fuori moda. Non sembrava importargli del fatto che guidare di notte con occhiali del genere di sicuro non favoriva la visibilità. Accanto a lui, un altro uomo dai lunghi capelli di un biondo particolarissimo, tra il cenere e il platino, si era appena acceso una sigaretta. Il colletto dell'impermeabile era completamente alzato, e gli copriva in parte il viso sottile e asciutto. Stringeva gli occhi verdi fino a farli diventare due fessure, che andavano assottigliandosi verso il naso leggermente appuntito. Era senza dubbio un bell'uomo: assieme a quella giacca nera, sembrava avvolgerlo un'aurea di fitto mistero. Di tanto in tanto guardava fuori dal finestrino o dal parabrezza, squadrando qualche passante con noncuranza e attenzione allo stesso tempo: era come se nulla potesse sfuggirgli, ma allo stesso quel senso di superiorità che era insito in lui lo faceva elevare più in alto, potendosi permettere, con una sola occhiata, di comprendere tutto un bel pezzo prima degli altri.
“Ehi, Aniki, che ne dici di quel tizio di prima?” chiese l'uomo al volante, rompendo il silenzio. La sua voce era grossa e roca. Tossicchiò, schiarendosela.
Il biondo fu lapidario: “Non penso ci darà seccature, è troppo stupido e poco idealista per mettersi contro di noi. Ci darà quei soldi. In caso contrario, vedremo di prenderceli in un altro modo.”
La sua voce trasmetteva un'estrema calda. Era imperturbabile come una statua di ghiaccio incapace di sciogliersi anche alle temperature equatoriali del deserto. L'altro ridacchiò, capendo l'allusione. In caso contrario, avrebbero dovuto fare quello che facevano sempre. Prendersi ciò di cui avevano bisogno e far sparire ogni traccia del loro passaggio. Questo implicava spesso lasciarsi qualche cadavere alle spalle, ma ciò non importava. I morti tornavano solo a tormentare la coscienza dei più deboli. Per i più forti rimanevano sottoterra, ossa e cenere quali erano.
“Perché non facciamo un brindisi per festeggiare la riuscita dell'affare?”
“Non abbiamo niente da festeggiare, Vodka. Era un'operazione che avrebbe potuto svolgere anche l'ultima ruota del carro. Passiamo alla base e poi per oggi abbiamo finito.”
Non sembrava intenzionato ad aggiungere altro. L'omone chiamato Vodka deglutì, forse un po' deluso o forse un po' spaventato. Il capo sembrava nervoso, nonostante l'uomo che aveva incontrato quella notte, un famoso imprenditore implicato in un traffico di stupefacenti e che tenevano costantemente sotto ricatto, avesse accettato di dare loro quei soldi senza fare storie. Decise che era meglio non contraddirlo e lasciarlo in pace, almeno fino a che la sigaretta non fosse riuscita a calmarlo.
“Come vuoi, Gin.”
Continuò a guidare in silenzio. Erano quasi giunti in prossimità della grossa arteria cittadina che costeggiava il fiume. Mancava ancora molto per arrivare alla base, e non si prospettava un bel viaggio. Non almeno con Gin così di malumore. Si immisero nella circolazione della strada principale, cominciando a procedere con il fiume al loro fianco. In lontananza si vedeva il grande ponte metallico di recente costruzione. E, un po' più vicino, accanto al ponte pedonale di solito deserto, una serie macchine parcheggiate e luci lampeggianti. Ora che erano più vicini, potevano distinguere chiaramente una piccola folla sul ponte: la maggior parte portava una divisa a loro ben nota.
“Accidenti, la polizia. Ma che diavolo staranno facendo qui?” sbottò nervoso.
“Calmati, Vodka. Non sono certo qui per noi. Non è nemmeno un posto di blocco. Guardali, qualche idiota deve essersi buttato nel fiume. Prima di incrociare il ponte c'è una traversa, gira e andiamocene. Non mi va comunque di passar loro accanto.” 
Gin aveva dato istruzioni come suo solito, e Vodka si apprestava ad ubbidire. Il biondo era la mente, l'omone accanto le braccia. Non mancavano di certo le volte in cui si sporcava personalmente le mani: anzi, c'erano casi in cui non avrebbe ceduto il lavoro sporco a nessuno per alcun motivo. Ma c'erano altre volte in cui non ne valeva davvero la pena, e in quel caso era Vodka ad agire. 
“Perfetto, capo. Meglio così, lo sai che sono allergico a questi dannati sbirri.”
Gin probabilmente non ritenne la constatazione degna di nota, e la lasciò cadere. Come da ordine, svoltarono nella piccola traversa laterale. Prima di girare, Vodka diede un'ultima occhiata alle figure sul ponte, ormai vicinissime. A parte gli uomini in divisa e un basso e grassoccio omone dall'impermeabile arancione, c'erano altre due persone. In una frazione di secondo focalizzò il volto del più giovane tra i due. Un ragazzo dai capelli castani che portava una camicia troppo larga per lui. Gli sembrò di averlo già visto da qualche parte: ma dove? Non riusciva a ricordare. Eppure quella faccia era conoscente, ed era sicuro di non confondersi con qualcun altro. Infine girò il volante e l'immagine sfocò.
“Ehi Gin, uno di quelli sono sicuro di averlo già visto da qualche parte.”
“Dei poliziotti?”
“No, sul ponte ce n'erano altri.”
“Chi era?”
“Un ragazzo, avrà avuto al massimo diciotto anni.”
“Di solito non abbiamo a che fare con i poppanti.”
“Sarà, ma..”
Vodka non fece in tempo a finire la frase. Gin lo interruppe, non curandosi più di quanto gli stava dicendo. 
“Tra poco c'è il notiziario alla radio. Sentiamo se il colpo messo a segno da Korn a Niigata riscuote ancora interesse.”
Accese la piccola radiolina portatile che tenevano sul cruscotto, sintonizzandosi sul canale giusto. La sigaretta di stava ormai consumando. Dopo qualche interferenza iniziale, il segnale si stabilizzò. Il notiziario doveva ancora cominciare, e un'ultima canzone si diffuse tra i sedili in pelle e l'odore del tabacco. Seccato, Gin premette il tasto di spegnimento. L'avrebbe riaccesa più avanti. Non poté però evitare che le prime note del ritornello, profuse da una voce limpida e malinconica, facessero vibrare l'aria.

 
“If they say
why, why, tell 'em that it's human nature,
Why, why, does he do me that way”



 
- - - - - - - - - - - - - - - 


Eccomi qui, in terribile ritardo. Chiedo perdono! Purtroppo però gli impegni fioccano, e non ho molto tempo per scrivere: quindi i ritmi di aggiornamento saranno più o meno questi, come già avevo anticipato. Spero vogliate seguirmi comunque :) Allora, in primo luogo devo ringraziare davvero tutti coloro che  hanno recensito, e hanno fatto sì che in questi giorni terminassi il capitolo: leggere e rileggere le vostre recensioni mi ha dato davvero molta carica :) Inoltre questo è un capitolo a cui tenevo particolarmente, quindi spero che vi sia piaciuto e mi farebbe davvero piacere sapere cosa ne pensate. La comparsa degli Uomini in Nero inizialmente non era prevista, ma.. non ho saputo resistere. Le mie dita fremevano per scrivere su Gin e Vodka <3 Deliri a parte.. una piccola comunicazione: nello scorso capitolo è comparso Subaru Okiya: sarà l'unico personaggio “recente” a comparire nella fanfiction. Insomma, non ci saranno né Sera né Bourbon. Lo dico prima che qualcuno poi possa rimanere deluso :( Mi dispiace, ma mi piace soffermarmi sui personaggi e cercare di caratterizzarli bene: non ho abbastanza tempo in questo periodo per poter gestire una storia con troppi personaggi e inoltre.. beh, fin dall'inizio l'intervento dei due non era previsto :) Poi va beh, non si sa mai, ma in linea di massima il progetto è questo. 
La citazione iniziale, come ho scritto, è tratta da “Sei personaggi in cerca d'autore”: qualsiasi persona che affermi di amare la scrittura e la lettura dovrebbe leggerlo: se non l'avete fatto, ve lo consiglio vivamente: mi ha davvero aperto un mondo nuovo :) La canzone finale, invece.. è “Human Nature” di Micheal Jackson. Secondo me è semplicemente meravigliosa, e metà del capitolo l'ho scritta ascoltandola. Non a caso il titolo è omonimo a quello della canzone :) E il perché.. beh, penso sia abbastanza chiaro.
Grazie ancora a tutti, davvero grazie! 
A presto,
Flami

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Capitolo 5
*** Fotogramma di una vita dimenticata ***


In bianco e nero

 

 

“I could stay awake just to hear you breathing

watch your smile while you are sleeping

when you are far away and dreaming.

I could spend my life in this sweet sourrender

I could stay lost in this moment, forever

Every moment spent whith you is a moment I treasure..”

(Areosmith, “I don't wanna miss a thing”)

 

 

 

5. Fotogramma di una vita dimenticata

 

 

 

 

 

Mentre i capelli ondeggiavano piano al suono del vento, Ran fissava la città illuminata di piccole luci, alcune delle quali apparivano così lontane da sembrare quasi puntiformi. Il suo cuore aveva fatto un piccolo tuffo quando Yusaku le aveva detto piano quelle parole all'orecchio.

 

“Vai all'uscita numero cinque, dall'altra parte dell'hotel. Non dovresti trovare né giornalisti né poliziotti. C'è una persona che vuole vederti.”

 

Yusaku era tornato da poco con l'ispettore, le facce stravolte di chi aveva vissuto una brutta avventura a cui avrebbe preferito assistere da spettatore. Chissà, se quella fosse stata la trama di un film o di un libro, forse l'avrebbero addirittura trovata appassionante. Sì, avrebbero tenuto gli occhi incollati allo schermo, una morbosa curiosità di sapere quello che doveva succedere che scorreva attraverso le iridi, sprofondando nelle pupille dense di un mare nero. E invece così, viverla sulla propria pelle, era travolgente e straziante. Dopo il finale ci si sentiva svuotati, la mente che lavorava a rilento per cercare di trovare un senso ad un'insensata storia che appariva quasi priva di realtà. Ran aveva saputo poco di quanto successo: tutto quello che aveva compreso era che quel piccolo e timido attore americano dallo sguardo basso e gli occhiali grandi era l'assassino, colui che aveva spezzato la vita del signor Sakamoto, vittima designata da uno strano gioco del destino. Ebbe di nuovo un brivido al pensiero che lì, sotto quel telo bianco, avvrebbe pouto esserci lei: i piedini piccoli che spuntavano da quel lembo di stoffa, la manina pallida appena visibile. Chiuse gli occhi, in un goffo ma deciso tentativo di scacciare quelle immagini dalla mente. Un altro alito di vento le scompigliò i capelli, facendole venire la pelle d'oca. Era uscita con addosso solo il suo vestito verde, e le spalle nude le tremarono appena. D'improvviso, sentì un calore ricoprirle la schiena. Qualcuno le aveva appoggiato dolcemente una giacca da uomo, regalando una dolce tregua al suo corpo scosso dai brividi. Si girò, per ringraziare il suo soccorritore. Nella penombra di quell'uscita secondaria, vide la sagoma che, in fondo al suo cuore, aveva sperato sin dal primo istante di trovare lì. Si erigeva fiera, sicura di sé come sempre, ma questa volta forse un po' più abbattuta, le parlpebre leggermente abbassate, gli occhi appena lucidi, un sorriso accennato che nascondeva a stento l'ombra di una triste serata. I capelli scompigliati dal vento, imperlati sulla fronte da piccole goccioline di sudore, e le gote rosse, come se fosse accaldato, affaticato.

“Shinichi..”

Tutto quello che le uscì fu un filo di voce. Gli occhi erano già bagnati dalle lacrime che tentava di non lasciar trasparire e le mani ora tremavano, ma non più per il freddo. Era l'unica cosa che nessuno al mondo sapeva controllare, quando si manifestava in modo improvviso e dirompente, come un fiume in piena che spezza gli argini e arranca per le strade, sul cemento e tu lo vedi, l'acqua sta per toccarti, e puoi provare a fuggire, scappare, ma lei sarà sempre più veloce di te. Era l'emozione.

“Ran.” disse solo lui, muovendo qualche passo. La vide portarsi le mani a coprire il volto, nel tentativo di asciugare le sottili lacrime salate che le stavano bagnando le ciglia.

“Shinichi, ma tu.. io.. dov'eri finito? Cosa ci fai qui? Io..”

“Ssshhh.” le disse piano, sussorrandole quasi all'orecchio. “Non serve parlare.”

L'abbracciò con dolcezza, senza più alcun timore. Sentì la camicia bagnarsi delle lacrime di lei, che ora era scossa dai singhiozzi. L'emozione l'aveva travolta, tutta l'attesa, la tensione e l'angoscia si erano liberate in quell'attimo, rompendole la mente e facendole scoppiare ogni ragionamento articolabile.

“Va tutto bene. Sono qui, adesso.”

Pronunciò quella parola, adesso, con l'amaro in bocca. In una situazione normale, per quanto questo termine possa essere orribilmente riduttivo e insensato, quell' “adesso” avrebbe significato “Sì, sono qui, non vado via.”. E invece per loro si trattava davvero di attimi, di quei secondi, minuti, di quelle poche ore che il tempo tiranno e subdolo concedeva loro. Perché in un solo secondo tutta quella magia poteva svanire, la felicità ritrasformarsi in attesa e il sorriso vero e sincero in una maschera che aspetta solo la persona giusta per essere tolta. Per loro era questione di attimi, e quegli attimi bisognava viverli al massimo.

“Scusami se non sono potuto arrivare prima.”

“Io ti stavo aspettando.”

“Sei arrabbiata?”

“Sì, sei uno stupido.” sussurrò lei, affondando ancora di più il capo e le lacrime in quella camicia bianca.

Shinichi sorrise. Le accarezzò piano i capelli. Quella ragazza era davvero un angelo. Il suo dolce angelo che, senza saperlo, lo proteggeva e accudiva costantemente.

Ci sono momenti nella vita in cui le parole non servono, in cui ogni suono è superfluo o addirittura fastiodamente in più, perché rompe quel flusso silenzioso di complicità che si instaura tra due anime. Quello era uno di quei momenti. E entrambi lo avevano capito benissimo.

Stettero lì per un tempo indefinito, avvolti da un silenzio surreale che bagnava loro la pelle fino a dentro le ossa. Poi, pian piano, Ran si staccò, asciugandosi le ultime lacrime con il dorso della mano. Un abbozzo di sorriso le tingeva di felicità il volto.

“Non ti fai mai sentire.” lo redarguì bonariamente.

“Sono stato molto impegnato.”

La solita patetica scusa. Abbassò per un secondo lo sguardo, come a vergognarsi lui stesso di quella frase. Era tornato il ragazzo impacciato di sempre.

“Per una volta potresti anche ammetterlo, dire qualcosa come sì, hai ragione. Mi dispiace.

“E' vero, hai ragione. Ma sai che faccio fatica ad ammettere di essere in torto.”

L'abbozzo divenne una risatina sommessa.

“Sì, lo so. Ti conosco fin da quando eri alto così.” E indicò, con il braccio proteso e la mano aperta, più o meno l'altezza di un bambino dell'elementari.

Lui annuì, sorridendo a sua volta. Ran non se ne rendeva conto, ma conosceva ancora uno Shinichi alto così. Ed era così strano, così brutalmente strano, che il rapporto con la persona a cui teneva di più fosse costellato soltanto di bugie. Il loro cielo non era limpido, non come avrebbe voluto. Il loro firmamento non brillava solo di ciò che avrebbe desiderato. Ti dicono che la vita bisogna prenderla come viene, senza domandarsi troppi perché: sarebbe inutile, ad essi non troveremmo mai risposta. Eppure alle volte era difficile prenderla semplicemente al balzo, come una palla impazzita che salta da un muro all'altro. Era difficile accettarla e basta, senza storie, senza proteste, senza lamentele.

“Ne è passato di tempo, eh.”

“Tu non sei cambiato per niente. Sempre uguale.”

“E cioè?” chiese, prevedendo la risposta.

“Sempre fanatico di gialli, sempre un po' saputello, alle volte anche un pochino presuntuoso.”

Shinichi incrociò le braccia, mettendo un broncio esagerato per farla divertire. Se Ran fosse stata solo un po' meno cieca, si sarebbe accorta che lui e Conan non potevano essere altro che la stessa persona. Ma quello non era il momento.

“Sei sempre la solita anche tu, a quanto vedo!”

La ragazza scoppiò a ridere: “In fondo, non si cambia davvero mai. Ma raccontami, cosa stai combinando? Hai aiutato tuo padre a risolvere il caso? E' per quello che sei venuto?”

Era così elettrizzata, così felice. Il mondo interno a lei si stava sgretolando, stava perdendo significato, ora era importate solo essere lì, con lui, in quel momemento di grazia che le era stato concesso. Quasi non ricordava più il rischio che aveva corso quella sera, il male ai piedi per le scarpe con il tacco, il trucco sbavato per la stanchezza e le lacrime. Il suo corpo ora reagiva ad ogni stimolo, pronto più che mai a non perdersi nemmeno un secondo di quanto sarebbe successo. Shinichi era lì, con lei. Non ci poteva credere. Era il miglior regalo che potesse desiderare, era la vita che si accedendeva e cominciava a bruciare. Anche se quella candela prima o poi sarebbe finita, abbattendosi su se stessa, non le importava: voleva solo quel calore che il suo cuore che bruciava le iniettava in tutto il corpo.

“Ehi, ehi, quante domande! Senti, perché non andiamo da me? Sul divano come da bambini, a raccontarci di tutto e di più, facendo a gara a chi si addormenta per ultimo?”

“Io perdevo sempre, te lo ricordi? E puntualmente la mattina sostenevo di essere crollata dal sonno insieme a te, e di aver pareggiato e non perso! Ero proprio una frana.”

“Guarda che ho intenzione di vincere anche stavolta.”

“E io non ho intenzione di perdere.” affermò lei, sicura. Al diavolo il compito di matematica della mattina successiva. Non valeva di certo quanto quegli occhi azzurri che le stavano davanti.

Shinichi le porse la mano, invitandola ad afferrarla.

“Allora andiamo, forza, la notte non è infinita. Prima che qualcuno venga a cercare la mia dama.”

Ran arrossì vistosamente, facendo quanto lui le aveva indicato. Sentì un brivido quando la loro pelle si sfiorò. Da quanto tempo.

“Non posso correre con queste..” disse, facendo sporgere il piede dal lungo vestito verde e mostrando le scarpe.

“Questo è decisamente un problema.” disse lui, prendendola in giro e facendo finta di scervellarsi.

“Sherlock Holmes del terzo millennio, devi risolvere assolutamente il mio dilemma.”

“Sai che amo le sfide. Aspettami qui, non ti muovere, sono da te in minuto.”

Senza dire altro, corse velocemente all'interno dell'edificio, sparendo oltre le porte di vetro. Ran rimase lì, ancora sorridente, la giacca di lui sulle spalle. Chissà con cosa sarebbe tornato. Non ebbe il tempo di elaborare una risposta che era nuovamente lì, un paio di ballerine in mano.

“Fortunamente dovrei aver trovato il tuo numero.”

Lei sgranò gli occhi: “Ma cosa sei, un mago? Da dove vengono fuori queste?”

Shinichi sfoggiò il suo solito sorriso soddisfatto.

“Mi è bastato rovistare tra le divise delle cameriere avanzate.”

Ran lo fissò penseriosa: “E come facevi a sapere che portavano delle ballerine? Non mi dire.. non mi dire che eri qui anche stasera! Ti eri forse travestito? Eri tra gli altri invitati?”

Aveva assunto un'espressione leggermente seccata. Perché se era lì, non era venuto prima da lei? Perché aveva aspettato tutto quel tempo?

Lui portò le mani avanti, come a difendersi da quello sguardo indagatore. Non era abituato a fare la parte di colui che era messo alle strette. Trovava molto più facile ed eccitante essere il braccatore.

“Ma no, no, cosa dici.. Ho solo immaginato che, dovendosi muovere in un ambiente così vasto, per le cameriere fossero più adatte scarpe basse e comode, ma al contempo eleganti, piuttosto che tacchi alti e traballanti. Mi è bastato rovistare un po' e ho trovato quello che cercavo.”

Ran sembrò accontentarsi della spiegazione. Si appoggiò saldamente al braccio di lui, sfilandosi le calzature e indossando quelle che Shinichi le aveva portato. Ecco che tornava ad essere decisamente più bassina di lui.

“Sono perfette.” gli assicurò. “Ma questo non è un furto?”

Le fece l'occhiolino.

“Ma no, cosa dici. E' solo un prestito a tempo indeterminato. E ora forza, abbiamo già perso abbastanza tempo.”

Le afferrò piano la mano e cominciò a correre, trascinandola dietro di sé. La sentì ridere. Cosa ne sarebbe stato di lui se, in quell'esatto momento l'effetto del farmaco fosse cessato? Se avesse incominciato a contorcersi e rimpicciolirsi proprio davanti a Ran? Se, dove fino a un attimo prima c'era Shinichi, fosse comparso Conan? Non ne aveva davvero la più pallida idea. Sperò solo che ciò non accadesse, non poteva davvero accadere. La vita era strana, sì, ma non così ingiusta. L'antidoto avrebbe resistito. E lui ce l'avrebbe fatta. D'improvviso si ricordò di aver scordato una cosa, forse la più importante. Una cosa che non vedeva l'ora di dirle con la sua vera voce. Che sbadato. Si girò, continuando a correre, mentre svoltavano sulla via principale.

“Ah, quasi dimenticavo. Sei bellissima.”

Era così rapito dalla piega che gli occhi azzurri di Ran assunsero, da non accorgersi del flash che, poco distante, aveva immortalato un fotogramma della realtà in cui lui non avrebbe mai e poi mai voluto comparire.

 

 

 

Conan sgambettò velocemente giù dalle scale che portavano al piano di sotto, sistemandosi gli occhiali sul naso. Era in terribile ritardo, doveva sparire da quella casa il prima possibile, e quella notte non aveva chiuso occhio. Ma non si sentiva stanco, questo no: perché si rendeva conto che ne era davvero valsa la pena. Lanciò un ultimo sguardo all'orologio: erano le sette e mezza. Aveva raccomandato alla madre di svegliare Ran di lì a cinque minuti, giusto il tempo di non farsi trovare lì accanto a lei. La ragazza dormiva ancora sul divano, dove, inevitabilmente, era crollata per prima. Shinichi non era riuscito ad addormentarsi. Era rimasto lì, fermo, a guardare la giovane respirare piano, persa tra un sogno e l'altro. L'aveva osservata sorridere leggermente nel sonno, inclinare appena la testa, e sprofondare in un dolce torpore. Non aveva voluto perdere nemmeno un attimo di quella notte, e per un attimo aveva sperato che la mattina successiva avrebbe potuto essere di nuovo lì con lei, come ai vecchi tempi. E invece no, verso le sei quell'orribile dolore che gli sfracellava le ossa e gli bruciava la pelle era sopraggiunto di nuovo. E aveva dovuto dire addio a Shinichi, per tornare il piccolo Conan. Un'ultima occhiata, un ultimo “Scusami, Ran.” sussurrato piano, ed uscì. Si fermò davanti al cancello del dottor Agasa, suonando al campanello. Di sicuro sia lui che Ai dovevano già essere svegli. Con grande sorpresa, invece, a rispondergli fu una voce maschile, giovane, profonda e pacata.

“Sì, chi è?”

“Sono Conan.”

“Oh, entra pure.”

Prima ancora di vederlo comparire sulla soglia, il bambino aveva già riconosciuto quell'uomo. La sua voce era inconfondibile, o almeno per quanto lo riguardava.

“Signor Subaru!” esclamò, sfilandosi le scarpe. “Come mai qui?”

“Sono rientrato prima del previsto, ma non volevo disturbare i proprietari che in questi giorni sono qui a Tokyo, e così ho chiesto ospitalità a casa del dottore, e mi è stata gentilmente concessa. Tu, piuttosto, come mai qui così presto?” chiese lui, con il suo solito tono calmo, sorridendo e preparando la colazione.

“Non ho dormito molto stanotte, e così ho deciso di passare a prendere Ai per andare a scuola. E' già sveglia, vero?” improvvisò.

“Sono qui.”

Ai era appena uscita dal bagno. Aveva la frangetta leggermente bagnata, e ancora qualche gocciolina di acqua sulla fronte, doveva essersi asciugata velocemente il viso non appena sentito dell'arrivo di Conan.

“Com'è finita stanotte? Avevo sentito al telegiornale dell'omicidio.”

“Giusto.” intervenne Subaru, “E' stato catturato il colpevole?”

“Il colpevole è stato individuato, ma purtroppo mi.. il padre di Shinichi” si corresse subito, tossicchiando, “non ha potuto evitare che si suicidasse proprio davanti ai suoi occhi, gettandosi da un ponte. La polizia era impegnata nelle ricerche del corpo, non so se sia stato trovato o meno. La serata era cominciata così bene, che nessuno avrebbe mai potuto immaginare un simile tragico epilogo.”

Conan lanciò un'occhiata ad Ai. Non aveva ancora deciso se confessarle o meno dell'errore commesso quella notte: come l'avrebbe presa la scienziata? Male, di sicuro molto male. La osservò più attentamente. La bambina aveva un'espressione accigliata e due profonde occhiaie come se non fosse riuscita a dormire bene. Forse la notizia di un omicidio all'Haido Hotel le aveva riportato alla mente brutti ricordì.

“Che c'è?” chiese lei, con tono tagliente, notando lo sguardo del piccolo detective. “Qualche problema?”

“No, no, assolutamente niente! Dai, sbrigati, è una bella giornata, e cammineremo con calma fino a scuola.”

“Mangio qualcosa e arrivo. Tu non vuoi niente?”

Conan fece segno di no con la testa. Tra raffreddore non ancora finito, postumi di una trasformazione fantascientifica, e dispiacere per non aver potuto nuovamente salutare Ran nella maniera che lui riteneva più consona, lo stomaco gli si era attorcigliato fino a bloccare ogni possibile languore.

“Come vuoi.”

“Che peccato!” esclamò Subaru, guardando l'ora. “Il notiziario è appena finito, e il prossimo è tra un'ora. Non potremo sapere nulla riguardo alle ricerche del corpo prima che voi andiate a scuola. Ma il movente dell'omicidio?”

“E' una storia lunga, e comunque troppo triste per cominciare la giornata.” disse solo Conan, il quale non aveva voglia alcuna di ricordare ancora quanto successo su quel ponte. Era rimasto profondamente scosso, e non osava immaginare quanto quella situazione dovesse aver colpito il padre.

Subaru sembrò capire, e non ribatté. Come a voler cambiare argomento per rammendare il suo piccolo peccato di curiosità, aggiunse: “Il dottor Agasa dorme ancora?”

Ai annuì.

“Stanotte è rientrato tardi.”

A Conan bastò quella semplice frase per confermare i suoi dubbi: la sua amica non aveva chiuso occhio quella notte. Decise che non era davvero il caso di raccontarle quanto accaduto. In fondo, nessuno doveva averlo notato, a parte Megure e altri poliziotti. Ma, come al solito, era stato attento a mettere a tacere la sua comparsa. Non voleva dare ulteriori preccupazione ad Ai, e, in fondo, anche se non lo avrebbe mai ammesso, non aveva davvero voglia di sentire una delle solite ramanzine della piccola scienziata. E fu così che uscirono in silenzio, camminando l'uno accanto all'altro. Conan di tanto in tanto sbadigliava, a tratti starnutiva per gli strascichi di quel maledetto raffreddore, ma era ancora del tutto immerso negli avvenimenti di quella notte. Quel caso di omicidio così particolare, le ricerche per il corpo, e, soprattutto, Ran che dormiva dolcemente sul divano, appoggiata alla sua spalla e abbracciando delicamente il suo braccio. Ai, da parte sua, sentiva una strana stanchezza nervosa scenderle sempre di più addosso. Il lavoro frenetico e nascosto degli ultimi giorni le stava togliendo ogni energia: i calcoli, la ricerca della sintesi conveniente per ogni composto, lo studio di tutti quei dati e, più di tutto, l'angoscia che si era insediata dentro di lei quella notte, da quando aveva sentito in televisione dell'omicidio commesso all'Haido City Hotel. Bastava così poco per far riaffiorare ogni ricordo e ogni paura: e anche se le piaceva mostrarsi forte, indifferente e sicura di sé, la sua anima era sempre scossa da un turbinio profondo, nero d'inchiostro che le macchiava l'anima schizzandole su ogni tessuto del corpo. Ai aveva paura del suo passato e, più di tutto, di quello che era stata. E avrebbe tanto voluto cancellarlo, tutto quell'orribile passato, anche se sapeva perfettamente che questo avrebbe portato ad una Ai diversa, anzi no, non sarebbe mai stata Ai, sarebbe stata sempre e solo Shiho. Non ci sarebbe stato nessun Conan, solo uno Shinichi Kudo sulla prima pagina di ogni giornale e una Ran Mouri che viveva felice con il suo amico d'infanzia; nessun Kogoro l'Addormentato, nessuna squadra dei Giovani Detectives. Si rese conto allora più di ogni altro momento di quanto le sue azione avessero influenzato la vita altrui: perché tutto quello che era successo, era accaduto solo e unicamente per quella piccola pillola a cui lei aveva dato vita. Se il suo passato fosse stato diverso, il presente e il futuro di molte persone sarebbe stato forse di gran lunga migliore. Ma in quel passato odioso, arrogante, tormentato e affilato come una lama appena forgiata, lei c'era stata dentro fin dalla nascita: il suo passato non era stato, in fin dei conti, una scelta. Questo non aiutò a confortarla. Arrivò invece a farle pensare che se lei non ci fosse stata, il presente e il futuro di molte persone sarebbe stato forse decisamente piu vivibile.

“A casa dovrei avere una copia del libro per te.” le disse Conan, rompendo il flusso confuso di quelle parole interiori.

“Di che parli?”

In bianco e nero. Ti ricordi? Me l'avevi chiesto tu.”

“Ah, giusto. Grazie.”

Ci fu un attimo di silenzio. Conan la osservava di sottecchi, mentre lei continuava a guardare dritto davanti a sé. Alla fine la domanda arrivò.

“Va tutto bene, Ai?”

“Perché non dovrebbe?”

“Non mi sembra che tu sia particolarmente rilassata o felice.”

“Sono come sempre.”

“Se lo dici tu.”

“Lo dico perché è così, e non c'è altro da dire.”

Conan non rispose. Per un attimo, Ai si pentì di essere sempre così scontrosa. Ma non poteva farci niente: era una sorta di difesa personale, era lei. Chiudersi a guscio per provare a non soffrire più.

Passarono davanti ad un rivenditore di giornali. C'era una piccola folla accalcata lì, persone che entravano ed uscivano con in mano le notizie fresche del giorno. Conan si avvicinò incuriosito: forse il caso dell'Haido City Hotel, sicuramente riportato in quei quotidiani, aveva destato un bel po' di scalpore. Si trattava di un omicidio insolito, apparentemente privo di un movente, e conclusosi poi con il suicidio dell'assassino. Il tutto ambientato in uno degli alberghi più lussuosi di Tokyo, durante la presentazione dell'ultimo libro di un noto romanziere. Era davvero una trama degna di un film d'azione, di quelli che Hollywood sfornava di continuo. Quelle storie, per quanto tragiche, appassionavano terribilmente la gente comune: ci si soffermava a cercare di capirle, ci si impersonava nel detective e si provava a trarre la conclusione. In pochi ne percepivano la reale tragicità, per i più era una sorta di gioco alienante. Sentire la realtà attraverso i giornali, le televisioni, i libri e il cinema, è sempre più facile: ci si sente protetti e lontani, perchè è accaduto a qualcun altro e il pensiero di fondo è sempre qualcosa del tipo perché dovrebbe accadere di nuovo? E perché dovrebbe accadere a me? A qualcuno prima o poi accade. E ritrovarsi faccia a faccia con la realtà è tutt'altra cosa. Perché il mondo è sempre più subdolo, sporco e voltafaccia di quanto ce lo si possa immaginare. Ai lanciò uno sguardo veloce a quella folla: lei non si esaltava più per niente, perché a faccia a faccia con la realtà ci era già cresciuta. Riteneva di aver visto abbastanza per aver imparato a vivere davvero nel mondo reale.

“Hai sentito? Durante la presentazione del libro di Kudo!”

“Pare che la vittima non avesse niente a che fare con l'omicida..”

“E l'assassino?”

“Sembra si sia gettato nel fiume, ma a quanto pare il corpo non è stato ancora trovato.”

“Sai che serata per gli invitati..”

“Sai che pubblicità per il libro!”

“Dicono che alla presentazione fosse presente anche il Detective Mouri, il famoso Kogoro l'Addormentato.”

“Davvero? Ed è stato lui a risolvere il caso?”

“Non viene detto niente a proposito.. secondo me è stato il signor Kudo! Tale padre, tale figlio.”

“A proposito del figlio, guarda un po' qui...”

“Shinichi Kudo?”

“E' tornato?”

“La salvezza della polizia giapponese! Forse si è sentito messo in disparte dalla fama acquisita da Kogoro l'Addormentato, e ha deciso di tornare..”

Queste erano le voci che gironzolavano davanti a quel giornalaio. Conan rimase esterrefatto da come, davanti ad avvenimenti del genere, ci fosse davvero persone in grado di pensare alla pubblicità che, in un modo o nell'altro, tutto questo avrebbe portato al libro del padre. Strinse i denti, indignato dalla superficialità di certa gente. Era così preso dai suoi pensieri che aveva perso le frasi finali, quelle che lo riguardavano direttamente, quelle che riguardavano il ritorno di Shinichi Kudo. Ai, che delle persone ormai non si stupiva più, aveva invece sentito ogni parola. Senza aggiungere altro, si infilò tra quell via vai di corpi, fino a quando non riuscì a scorgere il quotidiano che le interessava, e la prima pagina che non avrebbe mai voluto vedere. A caratteri cubitali, il titolo recitava:

 

“Il ritorno della salvezza della polizia giapponese: Shinichi Kudo risolve il misterioso caso dell'Haido City Hotel.”

 

Sotto, una foto leggermente sgranata di un ragazzo che correva, tenendo per mano una giovane dai capelli lunghi. Le bastò poco per riconoscerlo: era proprio Shinichi. La piccola scienziata sentì il mondo crollarle addosso. Era forse uno scherzo, un brutto sogno? Non poteva essere vero, Shinichi non poteva davvero essere sulla prima pagina di quel giornale. E la ragazza accanto a lui, così simile a Ran.. chi poteva aver scattato quella foto? Perché Shinichi era lì, dove avrebbe dovuto esserci Conan? Fu scossa da un brivido, e non si accorse nemmeno del sudore freddo che le scorreva lungo la pelle. Accanto a lei la gente continuava a chiaccherare. E quelle voci la riportavano alla realtà, le facevano capire che non era un incubo, che quella era la vita che aveva cominciato ancora una volta a girare nel verso sbagliato.

No, non dovevano leggere quel titolo, non dovevano vedere quella foto. Nessuno doveva farlo, non potevano scoprirli così, non in modo così stupido e idiota, non mettendo in pericolo anche Ran. Non ci pensò due volte, o forse non ci pensò proprio. Prese tutte le copie del quotidiano che erano esposte, le strinse tra le sue piccole braccia e scappò via più veloce del vento, incurante delle urla del rivenditore e dello scompiglio generale. Corse come una pazza per le vie della città, non sentendo altro che il battito del suo cuore strapazzato dalla paura e dall'angoscia. Perché quella foto era lì? E se ne avessero parlato anche i notiziari? La voce sarebbe girata, fino ad arrivare inevitabilmente a loro. E non si sarebbero fatti scrupoli: avrebbero cercato Ran, poi Kogoro, poi Yusaku e Yukiko, il dottor Agasa, e infine lei. Sì, non ci avrebbero messo molto a trovarla: erano i segugi più insistenti e tremendamente bravi che conosceva. Sentì il cuore batterle ancora più forte. Mio Dio, le mancava il fiato, doveva fermarsi o sarebbe scoppiata lì da un momento all'altro. Si arrestò di botto, ansimando. Poco più avanti, a lato della strada, intravide un cestino della spazzatura. Presa dalla foga, cominciò a strappare i giornali che teneva in mano, e a buttarli uno dopo l'altro, come se ciò avesse potuto in qualche modo evitare che quella dannata foto venisse ulteriormente diffusa. La carta era bagnata. Stava piangendo, e forse non se n'era nemmeno resa conto.

“Ai! Ai, che succede, ma cosa ti prende? Ma tu stai..”

Conan l'aveva afferrata per le spalle, costringendola a stare ferma. Ansimava, la fronte imperlata dal sudore e le occhiaie ancora più marcate. Ai si morse il labbro, e un impeto di rabbia la colse. In fondo al suo cuore, ci sperava ancora: sperava di svegliarsi, capendo che tutto quello che stava vivendo era in realtà solo una distorsione fantasiosa della sua mente angosciata.

“Cos'è questo? Cos'è questa roba? Cos'è successo ieri sera?” sbottò, asciugandosi gli occhi e cercando di riprendere fiato.

Conan prese in mano uno dei giornali. Quando lesse il titolo e si riconobbe nella foto, sentì le ginocchia cedere sotto il peso di quella notizia. Shinichi e Ran in prima pagina: come era potuto succedere? Aveva nascosto tutto nel migliore dei modi, era subito corso a casa scappando dall'uscita sul retro.. quando era stata scattata quell'immagine? Lui teneva per mano Ran, il profilo della ragazza era ben riconoscibile. Dannazione, doveva esserci un qualche giornalista in giro e, riconoscendolo, non ci aveva pensato due volte prima di scattare la foto dello scoop da prima pagina.

“Perché hai preso l'antidoto ieri? Perché non me l'hai detto? Lo sapevo che non dovevo darti quella pillola, lo sapevo che non dovevo fidarmi, ma ti rendi conto di cosa vuol dire questo? Per te, per me, per Ran, per tutti gli altri?”

La piccola scienziata era fuori di sé. Non era semplice rabbia, era la paura che la incatenava ad un nervosismo isterico che non riusciva a controllare.

“Ai, è stato un errore, ho preso per sbaglio l'antidoto..”

“Non mi importa di cos'è stato, sei stato uno stupido, come hai potuto..”

“Calmati, Ai!” le afferrò le spalle scosse dai singhiozzi e l'attirò a sé, stringendola forte. La sua amica era piccola e fragile, un uccellino spaventato e percorso dai brividi che vede il cacciatore in lontananza. Ora lui doveva cercare di stare calmo, di non lasciarsi prendere dal panico, di escogitare una soluzione. Ma prima di tutto doveva pensare ad Ai.

Stettero lì, immobili, finché la bambina non si acquietò. Stralci di carta sollevati appena dal vento ondeggiavano per il marciapiede, volteggiando fino alla strada, per venire infine calpestati dalle ruote di macchine incuranti.

“Scusami, non volevo aggredirti. Lo so che non sei uno stupido, Shinichi.” sussurrò piano lei, staccandosi e asciugandosi gli occhi. “Ma mi devi delle spiegazioni.”

“Ti spiegherò ogni cosa, ma ora andiamo a scuola. Per questa mattina non conviene fare nulla di sospetto. Comportiamoci normalmente. Al ritorno vedremo se la notizia è stata trasmessa in televisione, e se sì a quel punto dovremmo escogitare qualcosa. Se anche gli uomini dell'Organizzazione venissero a saperlo, per questa mattina siamo comunque al sicuro, noi come gli altri: sono veloci, non sovraumani. E poi è probabile che, se il caso desta scalpore, aspettino ad agire; così come è ugualmente probabile che la notizia venga presa come una bufala. Ora andiamo.”

Ai annuì, ma non sembrava convinta. E neanche Conan lo era. Ma non poteva fare altro che mostrarsi sicuro e calmo, per cercare di infondere coraggio ad Ai. Eppure lo sapeva benissimo anche lui. Gli uomini dell'Organizzazione sarebbero venuti a sapere e di sicuro avrebbero provato a controllare le carte in tavola. Bisognava agire con cautela, senza passi falsi. Bisognava pensare prima di ogni singola mossa. Bisognava avvertire i suoi genitori, il dottor Agasa, proteggere l'identità di Ai. Bisognava proteggere più di tutti Ran, che era con lui in quella maledetta foto. Era più che sicuro che, se non avessero trovato subito lui, sarebbero andati da lei. Chiuse gli occhi, nel tentativo di scacciare quell'immagine. Non poteva permetterlo. Tirò un bel respiro, e prese per mano Ai. La bambina teneva gli occhi bassi e tremava ancora. La scuola non era lontana.

“E se andassero all'agenzia Mouri?” chiese Ai, preoccupata.

“Ran non è stata identificata nell'articolo, non riucirebbero a trovarla così in fretta.”

“Bisogna fare qualcosa, Ran deve andarsene, tu non sai di cosa siano capaci, Shinichi. La inseguiranno, ovunque, instancabilmente, finché non la troveranno.. Non andiamo a scuola. Non andiamo, Shinichi. Dobbiamo andare dagli altri, avvertirli, fare qualcosa.”

“Pensi che io non abbia paura, Ai? Se pensi questo, ti sbagli. Ho paura, come ne hai tu. Ma non possiamo lasciare che questa abbia la meglio su di noi. Non dobbiamo fare nessuna mossa sospetta. Se Ran improvvisamente sparisse, la identificherebbero subito. Dobbiamo pensare prima di muovere anche un solo dito.”

Prese il cellulare. A quell'ora Ran doveva essere quasi arrivata a scuola. L'avrebbe chiamata con una scusa, per sentire come stava. Sentì l'ansia per lei contorcergli il cuore. Dopo tutte quelle bugie dette e ripetute solo per proteggerla, ora lei era lì, ignara e in pericolo più che mai. E lui non poteva fare niente, non poteva prendere e portarla via, perché era lui il pericolo più grande per lei. Maledizione. Il cancello della scuola era ormai a pochi passi. Ai era dietro di lui, attaccata saldamente alla sua spalla. Si sentiva nuda, scoperta, vulnerabile. Ogni rumore la faceva sobbalzare. Voleva solo stare nascosta, lontana da tutto.

Conan sentiva la presa della bambina, i brividi di lei che si trasmettevano al suo corpo. Alzò il viso a guardare la scuola elementare. Tra poco la campanella sarebbe suonata, e nel mondo di Ai e Conan tutto sarebbe ricominciato come al solito, come ogni mattina. Ma quel mondo si stava incrinando. Pensò a suo padre e sua madre, in quella casa dove prima o poi loro sarebbero giunti. Pensò a Ran nel suo stupendo vestito verde, mentre gli sorrideva con le lacrime agli occhi. Pensò al dottor Agasa che rideva sotto i suoi folti baffoni, mostrandogli la sua nuova invezione. Che senso aveva cercare di nascondersi? Era davvero la scelta giusta restare nell'ombra? E se si fosse sbagliato, se fossero andati quella stessa mattina da lui, se fossero venuti a cercarlo mentre era a scuola? Se davvero quello fosse stato l'inizio della guerra decisiva, perché non cominciare fin dall'inizio?

Guardò di nuovo l'edificio bianco, così protettivo, così sicuro. In quel momento, capì più che mai che quello non era più il suo mondo. Non c'era più posto per lui lì. Non per il momento, almeno. E Ai era al suo fianco: in quel destino di adulti intrappolati in corpicini loro due erano insieme. Strinse forte la mano di lei. Non avrebbero perso.

“Ai.” le disse, voltandosi e facendo marcia indietro, “Corri!”

Un soffio di vento sembrò spingerli ancora più avanti, come a volerli incoraggiare nella loro corsa. Oppure, li stava solo allontanando da quella vita precaria ma sicura che avevano vissuto fino a quel momento: sì, per loro non c'era più posto nella dolce culla dell'incolumità. Se lo scontro doveva cominciare, allora sarebbe cominciato. Non c'era posto per i vigliacchi e i codardi in quel mondo in cui il destino li aveva beffardamente catapultati.

 

 

 

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Emh... dire che non so da dove cominciare è poco. Spero che qualcuno si ricordi ancora di me, e di questa piccola storia che non ho più avuto tempo di aggiornare da ormai ottobre se non sbaglio. Chiedo davvero scusa a tutti coloro che la stavano seguendo, e lo so che non ci sono spiegazioni che tengano, ma sono stati dei mesi davvero pieni (soprattutto l'inifito periodo di esami) e anche al di là dell'università mi sono successe talmente tante cose da ottobre a questa parte, e davvero non ho più avuto tempo di toccare questa storia. Vorrei ringraziare davvero tanto Shin17, che mi ha scritto chiedendomi se avevo intenzione o meno di continuare. Non abbandonerò questa storia finché non l'avrò conclusa, solo che ho davvero il difettaccio di essere già lenta di mio a scrivere, in più con tutti gli impegni.. chiedo davvero scusa :(

So che questo capitolo non è chissà cosa, e soprattutto io mi sento davvero molto arrugginita nello scrivere. La storia ce l'ho già tutta nella mia testa, si tratta solo di metterla su carta. Se avete tempo e volete lasciarmi un commentino, mi farebbe davvero molto piacere: ho bisogno di riprenderci la mano, e ogni consiglio è utile. Vorrei ringraziare tutti coloro che hanno recensito, e chiedere scusa a chi non ho risposto: ho letto tutte le vostre recensioni, e mi hanno sempre spronata ad andare avanti. Grazie davvero di cuore.

Vorrei mandare un forte abbraccio ad una mia carissima amica (anche se purtroppo lontana) , e farle un grandissimo in bocca al lupo per l'esame che avrà a breve, e che sono sicura andrà benone :) Sei forte Mary, non farti mai abbattere da nessuno! Ti voglio tanto bene, e grazie per tutto <3

Detto questo.. Niente, spero solo che il capitolo vi sia piaciuto almeno un pochino :)

Aggiornerò il prima possibile, e so già che il prossimo capitolo mi divertirò molto a scriverlo ;)

Grazie ancora a tutti!!

Un grosso bacio,

Flami

 

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Capitolo 6
*** L'uomo oltre la cravatta ***


In bianco e nero

 

 

“...¿ Por qué me suenan tan mal

todas la cuerdas de mis deseos?..”

(Estopa, “Luna lunera”)

 

 

 

6. L'uomo oltre la cravatta

 

 

 

 

 

 

Yukiko schiuse appena gli occhi, la mente ancora assopita in una stanchezza che non si azzardava a scivolare in un tranquillo sonno ristoratore. Stropicciò il viso sul cuscino, consapevole, in fondo, che anche dormire qualche ora era un'utopia. Accanto a lei non c'era il marito: quella notte Yusaku non aveva fatto altro che girarsi e rigirarsi tra le lenzuola, e probabilmente non si sarebbe nemmeno steso accanto a lei se non avesse capito che, per quanto forte, sorridente, incosciente e coraggiosa, anche lei era rimasta scossa da tutti gli avvenimenti della serata. Erano stati destati, se mai davvero si erano addormentati, da uno Shinichi tornato Conan. Il bambino aveva chiesto alla madre di svegliare Ran, di dirle per l'ennesima volta che non aveva potuto fare altro che andare via, uscire di soppiatto e di fretta, senza poter rimanere a godersi ancora un altro minuto, altri sessanta secondi di vita vera. Non era stato un compito facile. Yukiko aveva richiamato alla coscienza una Ran che dormiva ancora con il sorriso sulle labbra, il volto disteso e rilassato nonostante tutti gli scossoni della notte. Alle volte basta qualche forte emozione personale per farci dimenticare, forse egoisticamente ma in fondo involontariamente, le sventure altrui. Il sorriso si era spento piano non appena aveva visto il divano vuoto, come una candela che si scoglie su se stessa le labbra si erano ripiegate e gli occhi rabbuiati. Yukiko ripensò a come la ragazza l'avesse salutata, scusandosi per il disturbo, nonostante ben sapesse di essere come una seconda figlia per lei. Ran era sempre stata così: educata, un po' riservata, ma con un cuore grande come quello di nessun altro. Non avrebbe potuto desiderare una ragazza migliore per il figlio: eppure il destino si rivelava così ingiusto con chi non avrebbe dovuto esserlo. Ran non aveva chiesto di Shinichi. Aveva capito dallo sguardo della donna che le stava davanti le parole che di lì a poco sarebbero arrivate: e aveva preferito non sentirle. Non ce n'era bisogno. Nonostante le insistenze di Yukiko, non si era fermata a colazione: non aveva fame ed era già in ritardo. Doveva correre a casa a cambiarsi, aveva un compito in classe quel giorno. Prima di varcare la porta, aveva sussurrato solo: “Ha lasciato detto qualcosa per me?”

Yukiko le aveva risposto sorridendole dolcemente: “Gli dispiace, non sai quanto. Prima o poi tutto questo finirà, vedrai.”

Ran aveva sorriso a sua volta, e poi era scappata via di corsa, pensando che forse, nella vita, l'arte di accontentarsi era quella che avrebbe assicurato la miglior cura, lenendo le più profonde delusioni.

Con il testa il volto di Ran e il pensiero di Yusaku che non aveva voluto tornare a dormire, aspettando piuttosto il telegiornale della mattina, Yukiko non era riuscita a prendere sonno. Si alzò, cercando a tastoni con i piedi le ciabatte mentre legava alla meno peggio i capelli. Vide il proprio riflesso nello specchio posto accanto all'armadio. Il volto tirato, il mascara ripulito alla meno peggio che le aveva annerito il contorno degli occhi. Si sorrise. La vita bisognava prenderla al volo, con lo spirito giusto.

Trovò il marito in cucina. Sul tavolo una colazione mai consumata, stava sorseggiando quello che, a giudicare dalla tazzina e dal profumo, doveva essere un buon caffè. La televisione, ora spenta, doveva essere stata accesa fino a poco prima, come indicava la lucetta rossa che ricordava al proprietario che con un piccolo gesto avrebbe potuto staccare ogni collegamento e risparmiare l'energia che tanto serviva al mondo. Ma, quella mattina, Yusaku non aveva nessuna energia da spendere per risparmiare energia altrui.

“Ma che buon profumino, penso proprio che prenderò anche io un caffè.”

Yukiko sorrideva, nel tentativo di portare un raggio di buon umore. Salutò il marito con un bacio leggero, non potendo evitare di notare le occhiaie scure che gli contornavano lo sguardo.

“Speravo che almeno tu riuscissi a dormire un pochino.”

La voce suonava stanca, eppure si sforzò di sorridere. Quel gesto bastò a rincuorare in parte Yukiko.

“Non importa. Insieme nel bene e nel male, ti ricordi?”

“Non potrei mai dimenticarlo.”

Yusaku aveva ancora indosso la camicia della notte prima, sbottonata e sgualcita. Aveva invece messo i primi pantaloni che gli erano capitati sotto mano, non preoccupandosi nemmeno di cercare le pantofole: era a piedi scalzi. I capelli disordinati stonavano con la barba perfettamente fatta e i baffetti al loro posto, in completo ordine. Accanto a lui Yukiko che, nonostante il volto stanco e il trucco ancora un po' sbavato, manteneva la sua solita eleganza, il corpo sottile e longilineo si muoveva agile nella leggera camicia da notte, e le mani senza ancora una ruga, con quelle unghie curate e perfette. Anche se i capelli non erano acconciati con cura, lei era perfetta e bellissima anche così.

“Hai guardato il telegiornale?”

“Si, ma non c'è nessuna novità. Non hanno ancora trovato il corpo di Arthur. Mentre vorrei incontrare personalmente la famiglia del signor Sakamoto, per far loro le condoglianze e per scusarmi per quanto successo.”

“Non devi addossarti colpe che non hai.”

Yusaku posò la tazzina sul tavolo, accanto al cibo dimenticato. Si sedette, lasciandosi scivolare sullo schienale.

“Ho portato io Arthur in quell'hotel.”

Yukiko percepì tutto il dolore e la sensazione di totale impotenza che attanagliava in quel momento l'animo del marito. Si avvicinò, sedendosi con grazia sulle ginocchia di lui. Gli prese dolcemente il volto tra le mani e lo guardò negli occhi, cercando di trasmettergli tutta la forza che in quel momento poteva dargli. Non le importava di poter rimanere senza energia alcuna, Yusaku ne aveva bisogno più di lei, e in amore non esiste la paura di regalare all'altro tutto quello che si ha.

“Tu non potevi sapere, nessuno poteva. Andrà tutto bene, vedrai. Ci sono qui io. Perché non fai una doccia per rilassarti? Ti sentirai meglio, fidati.”

Yusaku la strinse a sé, cingendole la vita con le braccia. Quella che aveva con lui era una donna meravigliosa. Si avvicinò fino a sfiorarle le labbra.

“Te l'ho mai detto che ti amo?”

Lei rise. Farla ridere era sempre la soddisfazione e la gioia più grande. La baciò, stringendola ancora di più a sé, mentre lei si divertiva a solleticargli la nuca con i suoi piccoli polpastrelli.

Fu allora che sentirono un rumore sordo, come se la porta di ingresso fosse stata chiusa con un tonfo. Si separarono improvvisamente, e Yukiko guardò d'istinto oltre l'entrata della cucina. Tutto quello che vide fu il muro del corridoio.

“C'è qualcuno?” chiese piano a Yusaku, balzando in piedi.

“Forse l'amico di Shinichi che abita di solito qui. Vado a vedere, resta in cucina.”

“No, vengo con te.” disse lei, seguendolo, attaccata al polsino slacciato della camicia di lui. I loro passi risuonarono per il corridoio. Sentirono delle voci familiari. Una maschile e una femminile. Le voci di due bambini.

Seduti sul gradino dell'ingresso, affannati e sudati, stavano Conan e Ai. La bambina sembrava sconvolta e impaurita, e continuava a guardarsi intorno, nonostante fosse ormai al sicuro.

“E se ci avessero visti?” diceva. “Avevo la sensazione di essere osservata e..”

“Non c'era nessuno, Ai, sta tranquilla.” le rispondeva Conan, mentre sfibbiava alla meno peggio le scarpe.

“Ma che ci fate voi qui?” irruppe la voce di Yukiko, stupita. A quell'ora le lezione scolastiche dovevano già essere cominciate.

I due bambini si girarono contemporaneamente. Conan cercò automaticamente lo sguardo del padre: bastarono quegli occhi per far capire a Yusaku che era successo qualcosa, e questo qualcosa non doveva essere nulla di buono.

 

 

 

 

 

Quando Conan finì di raccontare quella malaugurata storia, il silenzio calò gelido e teso sui loro volti. Ci fu un minuto in cui nessuno seppe cosa dire. Quale poteva essere la parola giusta per commentare quanto accaduto? In una notte il mondo si era rovesciato. E, oltre al danno causato dalla morte di ben due persone, si era giusta quest'ultima, insulsa e perfidissima beffa: una piccola foto che avrebbe potuto cambiare di molto le loro vite. Fu Yusaku che, alla fine, ruppe il mutismo che si era instaurato tra le loro menti.

“Di certo non avrei mai immaginato che, per quel banalissimo errore, ci saremmo ritrovati addosso anche questo problema. Hai semplicemente scambiato due pillole e ora eccoci qui.”

“Lo sapevo che non avrei dovuto darti quella pillola. Il rischio era troppo alto. E' colpa mia.” intervenne Ai.

“Sono stato io a scambiare i farmaci tra loro, è stata una dannata disattenzione che ora pagherò mettendo in pericolo non solo la vostra vita, ma anche..”

“Adesso basta.”

Oltre quei pensieri detti a metà, si levò perentoria la voce di Yukiko. Tutti continuavano ad addossarsi la colpa di qualcosa che era successo, come a voler, inconsciamente, scaricare il proprio animo ammettendo delle responsabilità vere solo in parte. Che colpa potevano averne se la vita era guidata dal caso, dalla fortuna cieca o bendata che stringeva la mano una volta ad uno, una volta all'altro? Farsi prendere dai rimorsi non avrebbe comunque aiutato la loro situazione.

“Non è colpa di nessuno, è chiaro? Ognuno ha fatto del suo meglio, ne sono sicura. Purtroppo spesso le cose non vanno come vorremmo, ma è allora che dobbiamo tirar fuori il meglio di noi. Le lacrime, i rimorsi, i sensi di colpa sono forse utili, ma solo all'inizio. Ci lasciano sfogare, ma dobbiamo imparare a metabolizzarli, a voltar loro le spalle e andare avanti. Non pensiamo a quello che è stato, pensiamo a quello che sarà.”

“Eppure è quello che è stato che ci farà essere quelli che saremo.”

Yusaku bisbigliò appena quella frase, e solo la moglie, seduta accanto a lui, fu in grado di sentirla. E capì che, per metabolizzare quanto accaduto, Yusaku ci avrebbe impiegato forse un tempo maggiore di tutti loro. Ma era il suo tempo fisiologico e, in fin dei conti, andava bene così. Ognuno vive le emozioni in modo differente.

Furono Ai e Conan che dalle parole di Yukiko trassero il maggior conforto. Entrambi capirono che, nonostante i loro errori, era giunto il momento di dire basta ai rimorsi del passato. Era giunto il momento di vivere solo il presente: perché era quello che dovevano giocare al massimo, se volevano avere la possibilità di vivere il futuro.

“Mia madre ha ragione. E' il momento di capire che cosa dobbiamo fare.”

“Dovete andare via, non c'è scelta. Altrimenti rischierete di venire coinvolti. Non abbiamo molto tempo. Loro non si fermano davanti a niente.”

La voce di Ai era sicura, a parte il leggero tremolio che l'aveva colta nel pronunciare quel loro. Non voleva trascinare con sé altre vite oltre quelle che erano già propriamente coinvolte.
“Che cosa proporresti?” le chiese Yusaku.

Era uno strano quadretto. Due adulti che sembravano seguire gli ordini di due bambini un po' troppo seri. O, comunque, sembravano tenere in gran conto la loro opinione.

“Dovete partire. Tornare in America. O forse in qualche altro luogo.. dove non possano rintracciarvi.”

“Ai ha ragione. Forse è meglio così. Ce ne occuperemo io e lei. Questa volta si fa sul serio.”

“Ma cosa pensate di poter fare da soli? Sono troppo forti, Shinichi. E tengono quasi tutti i coltelli dalla parte del manico.” intervenne Yukiko. Non appariva intenzionata a mollare l'osso.

“Contatteremo l'FBI. Con loro non saremo soli.”

“Io da qui non mi muovo.”

Yusaku aveva pronunciato quelle parole con estrema sicurezza. Non poteva fuggire ora, quando il corpo di Arthur non era ancora stato ritrovato. E, soprattutto, non poteva abbandonare suo figlio in una battaglia più grande di lui. Era un uomo ed era un padre: entrambi i suoi ruoli in quel mondo gli imponevano di rimanere lì, ancorato con tutte le sue forze a quella maledetta situazione.

“Se non troveranno me, cercheranno voi, e poi sarebbe la volta di Ran. Dovete fuggire, tutti.”

“Non scapperò lasciandoti qui. Né abbandonerò Tokyo fino a quando il corpo di Arthur non sarà ritrovato. Non lascerò la faccenda a metà: voglio andare fino in fondo.”

Yukiko strinse la mano dell'uomo che era seduto accanto a lei. Poi, guardando sicura i due bambini, disse solo: “Nemmeno io scapperò. Sarò con voi fino alla fine.”

Conan non replicò. Conosceva i suoi genitori: quando erano sicuri di qualcosa, allora distoglierli non era per nulla facile. In fondo, da qualcuno doveva aver pur preso. A non essere convinta, invece, era Ai.

“No, è troppo pericoloso.”

“Se andassimo via lo sarebbe comunque. E ancor più che voi.” replicò Yukiko.

Gli occhi di Ai tremarono. Abbassò lo sguardo, e si rannicchiò sul divano, stringendo le ginocchia tra le braccia.

“Ho già visto troppe persone morire in questa assurda guerra. Non voglio che qualcun altro muoia. Che qualcun altro perda la propria famiglia a causa di tutto questo.”

Yukiko si alzò, andando a posarsi accanto a lei. La strinse appena, ponendole il suo braccio leggero attorno alle spalle. Poi bisbigliò piano, dolcemente: “Nessuno di noi morirà, vedrai. Uniti saremo più forti di chiunque altro. Insomma, guarda questi due, li vedi?” e indicò Yusaku e Conan, “Sono due testoline niente male, e penso che tu lo sappia. E poi guarda qui,” e indicò se stessa, “con i travestimenti vado forte, non mi batte nessuno. E infine,” e le accarezzò la guancia, guardandola negli occhi, “abbiamo uno dei più grandi geni scientifici del terzo millennio! A meno di vent'anni hai creato cose inimmaginabili. Sei forte, Ai. Come nessun altro.”

Le strappò un debole sorriso. Quelle parole ebbero un grande effetto sul cuore di Ai, scaldandola e confortandola. Fu come se, per un attimo, avesse avuto di nuovo accanto la madre. Appoggiò la testa sulla spalla di Yukiko, mormorando solo: “Grazie.”

Conan e Yusaku si lanciarono uno sguardo di intesa. Yukiko, con la dote della femminilità che solo le donne possiedono, conosceva mondi e sentimenti che a loro erano in fondo ignoti. Nessuno di loro sarebbe stato, con poche parole, in grado di far ritornare il sorriso sul volto di Ai.

“Allora, uomini!” esclamò ancora la donna, giocherellando appena con i capelli della bambina. “Qual è il piano d'azione?”

“Per ora direi che non è il caso di agire. Dovremo aspettare una loro mossa, vedere se si risvegliano dal loro sonno. Meglio stare nell'ombra e non dare nell'occhio. Ma prima di tutto, sarebbe meglio cercare di mettere a tacere la notizia, per quanto ormai sia possibile. Fare in modo che i telegiornali non ne parlino molto. Hai delle conoscenze nelle redazioni, papà?”

“Sì, ma chiedere a loro servirebbe a poco. Il giornalista vuole fare notizia, e questo è un grande scoop. Sarà meglio sentire l'ispettore Megure e chiedere a lui di intervenire con discrezione. E' una persona fidata.”

Gli altri annuirono. Era la mossa giusta da compiere.

“Per quanto riguarda noi, invece,” continuò Yusaku, “è meglio non farci vedere per un po'.”

“Sono d'accordo.”

“E come faremo?” chiese Ai.

“E' semplice.” disse Conan, che aveva intuito il piano del padre, “Assumeremo una nuova identità. Come ha detto prima, la mamma è una maga dei travestimenti. Ce la possiamo fare.”

“Oh, si, questa è la parte che preferisco.” ammise Yukiko, in fondo elettrizzata per poter di nuovo essere la protagonista della scena. Recitare le mancava e anche se quella era la vita, poco importava. L'avevano sperimentato sulla loro pelle: il confine tra realtà e finzione era troppo labile per riuscire a non oltrepassarlo mai.

“Non sarà facile. Come faremo? Scomparire improvvisamente dalla circolazione per diventare delle persone diverse..” aveva iniziato Ai, ma fu interrotta da Conan.

“Non è niente di più rispetto a quello che abbiamo fatto finora.”

Il piccolo detective aveva ragione. Perché le sembrava tutto così diverso? Con un'altra identità aveva convissuto fino a quel momento.

“Dove andremo, che faremo?” chiese ancora.

“In qualche modo ce la caveremo.” rispose Yusaku. “Ma, a mio parere, per il momento sarebbe meglio non coinvolgere né l'FBI né la polizia. Dirò all'ispettore che torneremo in America.”

“Pensi sia meglio mantenersi il più possibile nell'ombra?” incalzò Conan.

“Sì. Almeno finché non avremo elementi in più, o non saremo comunque sicuri che la situazione sia sufficientemente tranquilla. Meglio non coinvolgere altre persone.”

Gli altri annuirono. Per essere un primo piano, era più che accettabile.

“Ci sono persone che, invece, andranno protette.”

Kogoro e Ran devono abbandonare la città, subito. Non ci metteranno molto a scoprire l'identità della ragazza che era con te nella foto.”

“Lo so perfettamente. Le parlerò io stesso e..”

“No, Shinichi, è troppo pericoloso.” intervenne Yusaku.

“Non posso non essere io a parlarle, lo capisci?”

“Certo che lo capisco. Ma capisco anche che significherebbe esporsi e mettere in pericolo ancora di più la sua vita. Vorresti parlare come Shinichi, vero?”

Conan non rispose. Quello che avrebbe voluto dire si poteva leggere nei suoi occhi.

“Tuo padre ha ragione, Shinichi. Meglio evitare. Hai fatto tanto per lei, fai anche questo. E' per il suo bene.” argomentò ancora Ai. Conan non rispose di nuovo.

“Vedrai, Shinichi, le parlerai quando sarà tutto finito. Andrò io stessa da Ran, le spiegherò la situazione. Penso sia meglio non mostrarti nei paraggi nemmeno come Conan. Ti fidi di me?”

Al sentire quella domanda da parte della madre, il bambino annuì. Sapeva perfettamente che gli altri avevano ragione. Quello che gli bruciava di più era ammetterlo e farsene un motivo.

“Quando ce ne andremo?” chiese solo.

“Per oggi direi di non muoverci. Studiamo la situazione, elaboriamo meglio il piano. Potremmo muoverci nella notte, o all'alba del giorno dopo, quando ci saremo assicurati che tutto sia tranquillo. Non penso comunque che agiranno subito, quando la situazione è ancora calda. Aspetteranno che l'interesse del pubblico si raffreddi un po'. Abbiamo del tempo.”

“Non sarebbe allora meglio non bloccare la notizia ai telegiornali?”

“Dobbiamo comunque evitare di dar loro troppe informazioni.”

“E per Ayumi e gli altri? Che cosa facciamo?” domandò Ai.

“Non sanno che siamo dei bambini. Finché non lo scoprono, sono al sicuro.”

La piccola scienziata annuì. “E il dottor Agasa?”

“Me ne occuperò io.” disse Yusaku, “Voi evitate il meno possibile di farvi vedere in giro.”

Cadde di nuovo il silenzio. In quel momento non c'era altro da dire. Avevano un intero giorno a disposizione per limare ogni punto di quella strana avventura. Conan balzò giù dal divano senza dire altro, e si allontanò. Aveva un amaro in bocca che non accennava a scomparire.

 

 

 

 

 

 

In quella stanza sufficientemente grande per potercisi muovere agevolmente, ma piccola abbastanza da poter instaurare un'atmosfera di intima e segreta confidenza, stava calando una sera in cui sembrava mancare l'aria. Forse era il venticello della primavera che prepotentemente entrava a sbuffi dalla piccola finestrella in alto, sfrecciando attraverso le grate che non le impedivano il passaggio. Forse era la luce soffusa che si arrampicava per le pareti rivelandone a tratti le imperfezioni piccole e nette, quelle macchie di nero e muffa che si estendevano agli angoli, come edera senza spessore fusa all'intonaco ormai vecchio. Correva fino a nascondersi dietro quei pochi mobili spogli che di tanto in tanto speravano di dare un tocco di vitalità alla camera, conferendole invece un'aria ancora più grigia e, se così si poteva dire, gelida. Una libreria senza libri, solo qualche foglio poggiato sopra senza cura, come se fosse di poca importanza. Un appendiabiti con solo un cappotto nero a coprirlo. Al centro, un tavolo di ferro, tremendamente stonante lì in mezzo, con qualche sedia intorno che scivolava con difficoltà sulle piastrelle bianche. Un uomo, le spalle larghe e il petto ampio, si lasciò cadere sopra ad una di esse. Si tolse il cappello nero, appoggiandolo sul tavolo, e si stiracchiò piano, cercando di sbadigliare il più silenziosamente possibile, come se fosse spaventato dell'improvviso arrivo di qualcuno da cui non poteva permettersi di farsi vedere stanco. Si sistemò gli occhiali sul naso e rimase lì, apparentemente tranquillo. Eppure il piede, che tamburellava sul pavimento, tradiva il suo nervosismo. Era stata un'altra giornata stancante, l'ennesima. La notte precedente non aveva dormito, le trattative con quell'uomo stupido e spaventato, e poi al ritorno le strade piene di macchine della polizia, e quel casino sul ponte. Chissà cos'era successo, poi. Non aveva più avuto tempo di interessarsene: tutta la mattina a sorvegliare una persona, il pomeriggio a intercettare le conversazioni di un'altra. E ora lì, alle undici di sera, ad aspettare il suo capo per parlare di non sapeva minimamente cosa. La vita era dura anche se recitavi la parte del cattivo, altroché. In fin dei conti era un lavoro come un altro, solo che la gente sembrava non capacitarsene. Socchiuse appena gli occhi oltre quelle lenti scure, e sciolse i primi bottoni della camicia. Pensò che avrebbe potuto addormentarsi lì, su quella sedia, senza bisogno di niente di più comodo. La mente stava già sprofondando pian piano nei fumi dell'inconscio, quando sentì un fastidioso e urtante cigolio. Ci mise un secondo per realizzare che l'uomo che stava aspettando era probabilmente arrivato. Si rizzò a sedere di botto, rischiando di cadere come un bambino. Credendo forse di non aver fatto abbastanza, si alzò in piedi, salutando l'altro uomo con un gesto del capo. Per tutta risposta, quello sembrò non curarsi minimamente di lui.

“Ti stavo aspettando, Aniki.” disse allora, sospettando addirittura che il suo interlocutore non l'avesse visto. Non aveva minimamente accennato ad un saluto.

L'uomo, dai lunghi capelli di quel biondo così particolare, camminò ancora, facendo rimbalzare i piccoli tacchetti delle scarpe sulle piastrelle. Un suono sordo che oscillava tra le pareti. Poi si appoggiò al muro, senza dire ancora una parola. Il cappello nero era ben calzato sul capo, e delle ciocche di capelli gli cadevano sugli occhi, andandone a coprire lo sguardo e lo stato d'animo. Si trascinava dietro l'odore intenso e pungente di una sigaretta appena finita: tuttavia non doveva essere soddisfatto, perché non appena si appoggiò al muro, se ne accese un'altra. Solo dopo aver inspirato profondamente, decise che era arrivato il momento di rispondere.

“Lo so perfettamente, Vodka. Non dirlo come se mi stessi facendo favore.”

La voce gelida sembrò condensare l'aria. L'uomo con gli occhiali si mise spontaneamente sull'attenti, e capì che era il caso di tacere fino ad un nuovo segnale. I nervi erano già distrutti di per sé, senza bisogno che il suo capo glieli strattonasse ulteriormente.

“Novità interessanti?” gli venne chiesto infine. Sembrava una domanda di rito, come se in realtà non gliene importasse più di tanto. In fin dei conti, che cosa interessava davvero a loro di quelle persone che ricattavano, di cui si servivano e con cui collaboravano fin tanto che era necessario? Niente, in sostanza niente. Questa ricognizione serale era per entrambi una gran pena: eppure dovevano farlo, era il loro ruolo, e non c'era scappatoia. Sì, in fin dei conti quello era soltanto un lavoro, per quanto particolare. E dietro ad ogni cravatta e cappotto nero, c'era un uomo a cui non interessava se quello avesse pagato il debito in tempo, o se quell'altro avesse fornito le armi giuste. Impersonavano un ruolo, come fanno tutti nella vita. Come l'avvocato che controlla le sue carte e progetta le sue arringhe, incastonando i termini giusti per creare il discorso più convincente, pensando a quando, la sera, potrà tornare a casa e riposarsi, facendo volare la mente oltre ogni noioso imprevisto quotidiano. A quanti di loro importa davvero della vita che si nasconde dietro quelle pagine? Quanti, in fondo al cuore, piangeranno per la sorte di un condannato da loro difeso? Non importerà invece ai più di aver personalmente perso, di non aver raggiunto un successo professionale, di non aver adempiuto al meglio al loro ruolo? Per quegli uomini vestiti di nero era esattamente lo stesso: c'era un ruolo, e bisognava impersonarlo. Nel loro caso, poi, la situazione diveniva ancora più semplice: i seccatori potevano essere eliminati con un semplice click. Nel loro lavoro c'era, alla fin fine, poco di esaltante: ma quando qualcosa del genere capitava, allora l'adrenalina scorreva come linfa nelle vene, e l'uomo andava a fondersi con il suo ruolo.

“No, niente di rilevante.” si limitò a rispondere il bestione chiamato Vodka.

Rimasero in silenzio, fintanto che il capo, o meglio Gin, avesse finito di fumarsi in pace il suo piccolo regalo quotidiano. Quando infine la sigaretta si spense per terra, il discorso riprese.

“Nessuna conversazione fuori dalla norma?”

“No.”

“Nessun movimento al di là di quelli consueti?”

“No.”

“Niente di niente?”

“Esatto.”

“Beh..” iniziò Gin. Aveva la voce roca. “Che giornata noiosa.”

Vodka avrebbe voluto rispondere qualcosa del tipo “A me lo dici?”, ma pensò che non era il caso. Si limitò a fare spallucce, come se quelle dodici ore una più uguale dell'altra non lo avessero minimamente toccato. Non aveva mai il coraggio di osare quel qualcosa in più: e probabilmente era per questo che era rimasto relegato in fondo, tra chi doveva sempre e solo obbedire. Per arrivare ai vertici, o anche solo un poco più in alto, ci volevano intelligenza, calma, sangue freddo, prontezza di riflessi e lui, lo riconosceva, non aveva pieno controllo di nessuna di queste. Se c'era una cosa che non gli mancava, quella era la forza fisica: ma, si sapeva, da sola faceva ben poco.

Gin si staccò dal muro, sistemandosi il capello sul capo. Il suo sguardo felino, fino ad allora nascosto dall'ombra delle ciocche bionde e disordinate, volò sul suo compare. Il volto era perfettamente disteso. Vodka si chiese come diavolo facesse a non essere mai turbato da una minima stanchezza fisica o mentale: davvero il suo capo era sempre impassibile nei confronti del mondo che gli scorreva davanti, oppure era in grado di celare alla perfezione ogni sentimento sotto quel cappotto nero e quegli occhi vitrei?

“Direi che possiamo porre fine a questa altrettanto noiosa conversazione.”

Vodka sentì un peso scendergli lungo le gambe, fino a posarsi delicatamente per terra liberando il suo animo. Quello di Gin non era certo un modo particolarmente garbato di augurargli la buonanotte, ma non si lamentava. L'importante era il concetto, non la forma: e il concetto diceva a chiare lettere che era libero di andarsene.

“Allora a domani, capo.”

Gin non rispose, mentre si incamminava verso l'uscita. Era ormai quasi arrivato alla porta, ancora un passo e per Vodka sarebbe iniziata una fantastica nottata di libertà: un drink in un bar, anche due, poi magari qualche bella ragazza e una notte di quelle che non viveva da troppo tempo. Mancava solo un passo, e poi sarebbe uscito dietro al suo capo e avrebbe staccato la spina da tutto il resto. Quando Gin si arrestò improvvisamente, quel peso che era prima scivolato sul pavimento risalì pronto come non mai fino a schiacciargli la testa.

“Quasi dimenticavo.” disse, con la sua voce impassibile. Vodka si chiese se il suo compagno fosse umano. Come poteva vivere senza un attimo di pausa? Scorreva davvero il sangue nelle vene di quel corpo statuario?

“Cosa c'è, Aniki?”

Gin rovistò in una delle tasche del cappotto e ne tirò fuori un foglio stropicciato di giornale. Lo stese fino a renderlo leggibile.

“Guarda qui.”

“Cos'è?”

Vodka non era realmente interessato, anzi. Ma il suo ruolo era di acconsentire, e così doveva essere.

“Raccontano dell'idiota che ieri si è buttato dal ponte. A quanto pare è stato un caso alquanto eclatante.”

Da oltre le sue lenti nere, Vodka lanciò un'occhiata distratta al giornale, mugugnando qualcosa del tipo: “Meglio così, si saranno già dimenticati del colpo di Korn a Niigata.” Avrebbe voluto aggiungere: “Possiamo andare, ora?”

“Ti ricordi di aver notato qualcuno sul ponte?” chiese Gin, socchiudendo appena gli occhi, come a scrutarlo meglio. Vodka si mise di nuovo involontariamente sull'attenti.

“A cosa ti riferisci, Aniki?”

Lottò per trattenere uno sbadiglio. Sperò di non aver fatto qualche strana smorfia nel suo goffo tentativo.

“Potresti provare a pensare almeno per un secondo? Non dirmi che sei come i mocciosi, che dopo le undici devono andare a dormire.”

La voce seccata di Gin lo trafisse da parte a parte. Si aggiustò il cappello e gli occhiali, come a darsi un tono di professionalità e si schiarì la voce. La notte di libertà era rimandata di almeno un'ora.

“Stai parlando del casino di ieri, con tutti quegli sbirri in giro per la città?”

“Hai detto di essere sicuro di aver già visto qualcuno che era lì.”

Vodka sembrò pensarci un attimo su. Sì, si ricordava di qualcosa del genere, ma quel volto gli sfuggiva dalla mente. Era un ragazzo, sì, un qualcuno di conoscente. Ma non ricordava dove l'avesse visto prima, né i tratti di quel viso. E se si fosse semplicemente sbagliato? Ebbe la sgradevole sensazione di star perdendo tempo per niente.

“Sì, era un ragazzo, mi sembrava di averlo già visto. Ma come mai te ne interessi tanto?”

Come al solito non capiva l'intricato groviglio di pensieri che si distendeva nel cervello del suo capo.

“Guarda questa foto.”

Prese in mano il giornale. Era la prima pagina di un quotidiano abbastanza noto, dedicata interamente a quello che veniva chiamato il caso dell'Haido City Hotel. Si mise a leggere qualche riga dell'articolo.

Yusaku Kudo? Noto scrittore? Io non l'ho mai sentito.”

“Lascia stare il testo, guarda la foto. E' quello il ragazzo?”

Le pupille si lasciarono cadere sulla figura accanto a quelle parole così fitte. Erano ritratte due persone, un ragazzo e una giovane dai capelli lunghi. Si tenevano per mano, e sembravano correre, i volti distinguibili senza particolare difficoltà. Si concentrò sul ragazzo. Mugugnò qualcosa, come se stesse pensando ad alta voce.

“Allora?” incalzò Gin, senza che la sua voce lasciasse però trasparire l'impazienza di volere una risposta da lì a qualche secondo.

Vodka osservò meglio la foto. D'improvviso ebbe come un flash. Un ponte, le luci, un ragazzo in piedi accanto ad un uomo con gli occhiali.

“Sì, capo, è lui, è lui ne sono sicuro. Sai chi è?”

“Era quello che volevo sapere da te.”

“Io l'ho già incontrato questo moccioso. A te non ricorda nessuno?”

“Sai che dimentico in fretta le persone che non vale la pena ricordare.”

Vodka non rispose: si stava concentrando sull'articolo, e non era abituato a fare due cose contemporaneamente. O meglio, non gli riusciva poi così bene. Scrutò la foto. La ragazza non gli diceva assolutamente niente, ma quel giovane, sì, l'aveva già visto. Lo sguardo cadde sul titolo, che fino ad allora aveva stranamente trascurato.

 

“Il ritorno della salvezza della polizia giapponese: Shinichi Kudo risolve il misterioso caso dell'Haido City Hotel.”

 

Shinichi Kudo. Un flash gli abbagliò la mente d'improvviso. Quella volta al Luna Park, quell'impiccione che li aveva seguiti e su cui avevano testato il nuovo farmaco. Un ragazzino delle superiori, che aveva risolto il caso dell'uomo sgozzato sulle montagne russe. Tutto sembrava combaciare. Ma com'era possibile che fosse ancora vivo? Avevano testato su di lui quello che doveva essere un potentissimo veleno.

“Capo, ho capito.” disse solo, alzando il volto a guardare Gin, che per tutta risposta fece un cenno con il capo, come a intimargli di sbrigarsi a parlare.

“E' quel ragazzino del Tropical Land, sarà passato ormai più di un anno.”

Gin socchiuse appena gli occhi. Si accese un'altra sigaretta. Il suo commento fu breve.

“Continua.”

“Aveva risolto un caso di omicidio, un uomo sgozzato sulle montagne russe se non sbaglio. Ricordo che si sentiva Sherlock Holmes mentre..”

“Non mi interessano particolari inutili.”

Vodka ebbe di nuovo l'istinto di mettersi sull'attenti, ma cercò di rimanere immobile. Meglio andare subito al sodo.

Shinichi Kudo dovrebbe essere morto da un pezzo. Ci stava spiando, tu te ne sei accorto e l'hai colpito alla testa. Poi gli hai fatto ingerire una pillola, il veleno che avrebbe dovuto ucciderlo senza lasciare alcuna traccia.”

Gin sembrò ricordare all'improvviso. Il volto si irrigidì e gli occhi si spalancarono, lasciando trasparire uno sprazzo di verde gelido. La sigaretta di scivolò dalle labbra, e la schiacciò a terra infastidito, come stizzito per aver mostrato un minuscolo e misero secondo di debolezza. Fece sprofondare le mani nelle tasche. L'uomo oltre il cappotto nero sembrava essersi destato.

“I fantasmi non esistono. Sarà un fotomontaggio dei giornalisti. Lo sai come sono: disposti a tutto pur di far notizia.”

Vodka non era davvero quello che può definirsi un uomo intelligente: ma, dopo averci lavorato accanto per anni e anni, poteva dire di conoscere bene il suo capo. Capiva perfettamente quando Gin aveva in mente qualcosa, quando aveva voglia solo di essere lasciato in pace e di riflettere lontano da rumori inconsistenti, quando era nervoso e l'unico rimedio era una sigaretta e quando, colto alla sprovvista, mentiva per non lasciare intravedere niente di più che la solita fredda schermata. E quella volta si trattava dell'ultimo caso. Cercò di calibrare la risposta più adatta a non ferire l'orgoglio dell'uomo che gli stava di fronte. L'illuminazione arrivò di colpo, inattesa quanto soddisfacente. Sapeva che toccando quel tasto avrebbe risvegliato l'interesse del capo.

“Capo.”

“Che c'è?”

“Mi è venuta in mente una cosa.”

Gin sembrò infastidito da tutto quel giro di parole. Fece solo un cenno con la testa, come ad intimargli di sbrigarsi a parlare: non aveva tutta la vita da dedicargli.

“Ricordi chi ha confermato la morte di Shinichi Kudo?”

Gin strinse appena le palpebre. Le immagini scorrevano a ritroso nella sua mente, fino a ormai molti presi prima, dove quella storia andava collocata. Il film si riavvolgeva veloce, e le scene si susseguivano una dopo l'altra, come un vivido viaggio indietro nel tempo. Era esattamente come leggere un libro al contrario, con la differenza che ad essere selezionate erano solo le pagine più importanti: le stupidaggini e le piccole cose non erano degne di essere tenute a mente. Per un attimo non ci fu Vodka davanti a lui: c'erano chiazze di vita che si spingevano l'una contro l'altra e poi, di colpo, fu come premere il piccolo tasto centrale che indicava la funzione play. I suoi occhi videro solo una ragazza, i suoi capelli castani, lo sguardo basso ma la voce sicura, il camice bianco che sembrava quasi dipinto addosso. Quelle iridi azzurre che a tratti si piantavano su di lui, tremando di paura e soggezione intorno a quelle pupille nere che invece esprimevano solo tutto l'odio che lei provava per lui, l'assassino di sua sorella. Ricordava le sue parole, quando gli aveva detto che la pratica era chiusa, che era tutto a posto. Per un piccolissimo secondo gli sembrò di sentire quel profumo che tanto gli inebriava la mente e offuscava i pensieri, ebbe come la sensazione di essere mesi indietro, quando lei era ancora davanti a lui, quando poteva divertirsi a stuzzicarla come meglio preferiva, prima che sparisse, volatilizzandosi come acqua nel deserto. Fu la sua stessa voce a riportarlo al presente.

“Sherry.” bisbigliò appena. Il sapore del sangue si diffuse nella sua bocca: doveva aver morso il labbro senza rendersene conto. Ma non dispiaceva, non gli era mai dispiaciuto. E in quel momento, poi, quella sensazione si accoppiava perfettamente ad ogni suo pensiero.

“Esatto, capo. E se ci avesse mentito?”

Gin lo guardò appena. Sembrava improvvisamente rinvigorito: il pensiero di quella donna aveva risvegliato l'uomo che stava al di sotto di quel cappotto, e ogni più piccola molecola che scorreva nel suo sangue andava ad alimentare nel suo cervello un solo, unico pensiero: ora sì che avrebbe cominciato a divertirsi.

“Sherry è sempre stata più furba di quanto pensassimo.”

“Beh, capo, è un cervellino niente male. E non solo quello, direi..” aggiunse, ridacchiando maliziosamente. L'occhiata lacerante che gli riservò Gin raggelò la sua risata. Forse aveva detto qualcosa di troppo. Tossicchiò, cercando di ricomporsi.

“Che facciamo?”

“Ridammi il giornale.” rispose l'altro, strappandoglielo di mano senza nemmeno attendere la risposta. Scorse in fretta l'intero articolo. Un istante dopo, sapeva cosa fare.

“Ho sentito per caso un notiziario alla radio prima di arrivare qui. Il corpo dell'idiota che si è buttato giù dal ponte non è stato ancora ritrovato. Non ti pare strano?”

“Potrebbe essere caduto in fondo al fiume.”

Vodka stesso si rese conto di quanto quella risposta suonasse stupida, ma in fondo era solo dettata dalla voglia di concludere quella conversazione il prima possibile. Aveva la netta sensazione che il suo capo avesse in testa per lui una nuova missione.  Gin non sembrò nemmeno considerarlo.

“Potrebbe essere ancora vivo. Quando vuoi morire, finisci sempre per non riuscirci.”

“E anche se fosse? Buon per lui.”

“Invece potrebbe tornarci utile. Segui il mio piano senza preoccuparti di elaborarne uno: comunque non lo adotteremmo.”

Vodka lasciò cadere la battutina nel vuoto, senza curarsene. Ormai era talmente abituato che aveva imparato a mettere da parte l'orgoglio.

“Che cosa credi che dovremmo fare?”

“Controllare che sia davvero morto. Se è vivo, lo voglio.”

“Ma come facciamo a trovarlo?”

“Come farai a trovarlo. Io ho altro di cui occuparmi.”

“Capo, io non capisco.”

“Non c'è molto da capire, devi cercare questo tale Arthur Newman, per verificare se sia davvero morto o meno.”

“Ma lo cercano da un giorno intero senza risultato, e..”

“Se ci mettessimo più di un giorno a trovare un latitante da quattro soldi, ci chiameremmo polizia. Capito il concetto?”

Gli scappò una risatina. Gin invece rimase impassibile.

“Dove potrei trovarlo?”

“Dove andresti se sapessi di avere il mondo alla calcagna e non te ne importasse nemmeno così tanto? Se è vivo, sarà come un gattino spaurito: starà cercando un posto solitario per morire in pace.”

Vodka annuì.

“Quando comincio?”

“Stanotte.”

Non ci sperava più in un’altra risposta. Eppure sentirla gli perforava le orecchie e gli tagliava le gambe. Quel lavoro non gli lasciava nemmeno un attimo di pausa e, anche se l'attenzione del capo si era improvvisamente destata, il suo interesse per tutta quella situazione dormiva ancora da qualche parte nel profondo del suo animo.

“E di quel detective che facciamo?”

“Una cosa per volta. Se troveremo questo attore, ho già in mente un piano che potrebbe permetterci di arrivare a Shinichi Kudo senza dare troppo nell'occhio. Altrimenti, dovrò rivedere tutto.”

“E la ragazza della foto? Chi sarà?”

“Scoprirlo non sarà difficile. Ma tutto al momento opportuno, Vodka. La notizia è fresca, il nostro piccolo detective è sulla bocca di tutti a quanto pare. Vediamo se questo stimolerà la sua vanità e si farà vivo di nuovo, oppure se deciderà di agire nell'ombra. Se tutta questa storia è vera e non è solo una montatura dei giornali, questo Shinichi Kudo è una preda più astuta di quanto pensassimo. Saprà che lo stiamo cercando, e agirà con cautela. Per cui dobbiamo essere ancora più pazienti, e attendere il momento giusto, per colpire senza possibilità di fallimento. E chissà che tutto questo non ci porti anche a Sherry: sono sicuro che non è estranea a questi avvenimenti. Ricorda: il trionfo si gusta meglio quando lo si assapora con calma, boccone dopo boccone.”

“Agli ordini, capo.” disse solo Vodka, preparandosi ad un'altra notte senza sonno.

“Ora possiamo anche separarci: entrambi abbiamo qualcosa da fare. Sai come contattarmi per qualsiasi novità.”

Si voltò e andò via senza dire un'altra parola. L'uomo con gli occhiali, rimasto solo, sospirò, riprendendo il suo cappotto che era rimasto appeso. Frugò nelle tasche, e ne tirò fuori un fazzoletto avvolto su se stesso. Lo aprì, facendo attenzione e non far cadere il contenuto per terra: vi erano alcune piccole pilloline. Ne prese una, e la inghiottì senza l'ausilio dell'acqua. Quella notte non poteva farcela ad andare avanti da solo. Si infilò il cappotto e uscì a sua volta, pensando che, almeno per un'ora, gli sarebbe piaciuto essere solamente l'uomo oltre quegli occhiali da sole: ma in fondo, c'era sempre quella terribile paura. La paura di scoprire che, in realtà, in lui non c'era altro che l'involucro di pensieri e mansioni che il suo ruolo gli aveva assegnato. Più avanti, nella notte, c'era un uomo che, invece, stava riprendendo piena coscienza di ciò che c'era oltre quel cappello nero. Un solo vivido, fervente desiderio. Questa volta non se la sarebbe lasciata scappare.

 

 

 

 

 

Nella vita ci sono cose che dobbiamo fare se vogliamo continuare a definirci dignitosamente uomini. Ci sono situazioni da cui non possiamo scappare, e storie che bisogna affrontare, anche quando la soluzione più facile e sicura sarebbe semplicemente quella di sgattaiolare lontano, fuori da un pericolo troppo forte o da una paura troppo grande.

Quel giorno, Yusaku Kudo si era trovato davanti ad una scelta di quel genere. E aveva deciso di poter continuare a guardarsi allo specchio senza nessun rimpianto, senza vedere persino riflessa sulla sua immagine una macchia nera e nitida nella sua coscienza. Non poteva lasciare Tokyo fino a quando il corpo di Arthur non fosse stato ritrovato: lo doveva a quel ragazzo, lo doveva al signor Sakamoto, che era morto senza nemmeno potersene rendere conto, lo doveva a se stesso e sì, lo doveva anche al suo libro, a quelle pagine che stava nervosamente sfogliando nella penombra di quell'enorme stanza ricolma di libri. Lo doveva a Shinichi, a suo figlio. Seduto sulla sedia, la luce della piccola lampada da tavolo accesa, le gambe scompostamente poggiate sulla scrivania, osservava l'atmosfera magica che lo circondava. Quell'enorme libreria, che anno dopo anno si era costruito, era davvero il suo mondo interiore. Amava passarci le giornate, e, quando si trovava a Tokyo, era quello l'unico posto in cui riusciva davvero a scrivere: alle volte, lontano dai suoi amati libri, tra i grattacieli di New York si sentiva un po' solo e spaesato. Provava nostalgia per il suo nido caldo e sicuro.

Rilesse l'ultima riga, per poi ripoggiare il libro sulla scrivania.

 

L'essere umano, per quanto forte si creda, muore schiacciato dalla più stupida inezia.

 

Nonostante le avesse solo pensate, nel silenzio surreale di quella stanza esse sembrarono quasi riecheggiare. Era passato lentamente un giorno dalla notte precedente. Ed erano successe talmente tante cose, come se la vita si fosse accanita di colpo. D'improvviso si era stufata di starsene quieta, e aveva cominciato a picchiare, lasciando lividi che non se ne sarebbero andati tanto facilmente. La scorsa notte avrebbe dovuto essere un vero sogno: ritrovarsi a vivere l'atmosfera del libro che lui aveva creato, respirare l'aria dei suoi stessi personaggi. Ma finzione e realtà si era fuse fin troppo, e non era più stato possibile separare una dall'altra e distinguerle. Sentì la testa pulsargli. Avrebbe voluto immergersi nel silenzio del vuoto, senza rumore alcuno, fino a sentire lo scorrere nel sangue dentro, fino a sentire solo se stessi. Si stropicciò gli occhi assonnati sollevando appena gli occhiali. Nonostante sentisse il fisico cedere pian piano, la mente non riusciva a riposare. Quando sentiva che stava per esplodere o che qualcosa stava per schiacciarlo, scrivere era sempre stato il miglior rimedio. Ci aveva provato anche quella notte, ma il suo tentativo di dimenticare, di immergersi in un altro mondo, era miseramente fallito. E quella era stata davvero la conferma: ora che finzione e realtà si erano fuse, non sarebbe stato possibile allontanarsi da quest'ultima, per sprofondare solo nella propria immaginazione. Quando l'arte diventa realtà, ne prende tutte le caratteristiche: perde ogni funzione catartica e lascia spazio solo ai martellanti rimorsi e sensi di colpa. E bisogna rialzarsi un poco alla volta, capire fino in fondo, smacchiarsi l'anima e accettare quello che è successo e che si è fatto perché tutto torni come prima. Yusaku, in cuor suo, sentiva che ci avrebbe messo molto ad accettare quel che era successo: sentiva chiaro e forte dentro di sé che, anche se fosse riuscito a scrivere, per un po' le sue parole non lo avrebbero convinto. Sarebbero state vuote, perché lui non sarebbe stato in grado di far involontariamente fluire il suo inconscio attraverso di esse. Non sarebbe stato in grado di perdere ogni controllo e lasciarsi andare: no, perché la realtà di tutto quello che era avvenuto e non si era ancora concluso sarebbe stata sempre davanti ai suoi occhi.

Ed era arrivato quel momento in cui ogni suo desiderio stonava con la vita che il destino gli stava lanciando addosso.

“Papà.”

Una vocina aveva fatto capolino tra lui e i suoi libri. Ma non era una voce invadente: era la voce di colui che tra tutta quella carta ci era cresciuto. Era la voce di colui con cui si era ritrovato immerso in quello strano gioco del destino. In quel pomeriggio avevano deciso come agire. Dato che nessuno si era fatto vedere né avevano riscontrato niente di sospetto nei paraggi, avrebbero abbandonato la casa la mattina presto, al sorgere del sole. Avrebbero preso una macchina in affitto sotto falso nome, e si sarebbero allontanati se non da Tokyo, almeno da quel quartiere. La mattina stessa Yukiko, abilmente travestita, si sarebbe presentata all'agenzia di Kogoro, e avrebbe spiegato ad entrambi la situazione. Alla fine, avevano convenuto che l'unica soluzione era quella di coinvolgere l'ispettore Megure per quanto riguardava la fuga di Ran e Kogoro: da soli non avrebbero potuto mantenere il segreto. Yusaku si era recato quel pomeriggio al commissariato, con la scusa di informazioni sulle ricerche del corpo di Arthur. Parlando in privato con l'ispettore, gli aveva spiegato una situazione vera solo a metà: Shinichi era coinvolto in un caso alquanto pericoloso, e non voleva rischiare di mettere in pericolo la vita della sua amica. Megure aveva strabuzzato gli occhi, affermando che, senza ulteriori informazioni, non avrebbe potuto aiutarlo. Yusaku aveva detto che il caso non coinvolgeva la questura di Tokyo, e di fidarsi di lui e basta, in nome di una vecchia amicizia. Non poteva aggiungere altro. L'ispettore, alla fine, aveva accettato con un profondo sospiro: in fondo, Yusaku Kudo non l'aveva mai deluso.

Shinichi. Non dormi?”

Il bambino gli si avvicinò, saltando agilmente sulla scrivania. Lanciò un'occhiata al libro sul tavolo: la piega fresca della copertina gli fece capire che era stato aperto da poco. Guardò gli occhi stanchi di suo padre e si chiese se anche i suoi apparissero così, spenti e desolati ma, in fondo, coraggiosi. Si strinse nel suo pigiama scolorito, incrociando le gambe.

“Potrei farti la stessa domanda.”

“Non ho sonno.”

“Dai tuoi occhi non si direbbe.”

“Nemmeno dai tuoi.”

“Dovremmo riposare almeno un poco. Il domani comincerà presto, e non sarà una pratica semplice.”

“E' proprio quando abbiamo questo pensiero fisso in testa che non riusciamo mai a chiudere occhio.”

La luce di quella piccola lampadina bastava appena ad illuminare i loro volti. Ma avevano la sensazione di potersi perfettamente scrutare anche nella penombra. Nessun angolo di quel luogo era per loro sconosciuto.

“Ho ascoltato il telegiornale della notte, ma non c'è nessuna novità.” disse Yusaku, con voce roca, quasi inceppata. Non si preoccupò di schiarirla.

“E' strano che non l'abbiano ancora trovato.”

“L'hanno cercato tutto il giorno, ma il fiume restituisce solo carta fradicia e parole scolorite.”

Silenzio. Poi Yusaku parlò di nuovo.

“E se fosse ancora vivo?”

“Non lo so.”

“Non posso andare via finché non lo saprò con certezza.”

“Lo so, l'ho capito. E penso di comprenderti.” ammise il bambino.

Fu ancora silenzio. Il legno di uno scaffale scricchiolò appena. Anche quel suono era terribilmente familiare. Sapeva di casa.

Shinichi.”

“Dimmi.”

“Sono contento che tu sia stato a fianco a me ieri. E sono contento pensando che affronteremo insieme quello che verrà.”

“Anche io, papà.”

“Ma?”

“Cosa?”

“Ti conosco. Quando la tua voce si appropria di quell'inflessione, c'è qualcos'altro che vuoi aggiungere.”

Conan sorrise. Non gli si poteva nascondere nulla.

“Ero indeciso se dirtelo o meno.”

“Ormai è andata.”

Esitò un attimo prima di cominciare, come se non sapesse esattamente quale fosse la parola giusta per iniziare. Ed essa sembrava rivestire un'enorme importanza. Alla fine, decise che era meglio parlare senza pensare: quando si trattava di esprimere sentimenti, era sempre la soluzione migliore, anche se non era quella che gli si addiceva propriamente.

“La scorsa notte, sul ponte, mentre tu ed Arthur parlavate.. ho provato una strana sensazione. Come se.. come se lì fossi di troppo. Non so spiegartelo. Per un attimo mi è sembrato che fra di voi si fosse instaurata un'intesa perfetta, e io ne ero tagliato fuori, ma non in senso negativo. Mi sono sentito paralizzato nel ruolo di spettatore.”

Sì, proprio così. Si era sentito estraneo ad un mondo che a tutti gli effetti non gli apparteneva. Lui era troppo razionale, troppo calcolatore per lasciar fluire l'immaginazione fino agli elevati livelli della fantasia.

Yusaku sorrise, reclinando il capo all'indietro. Sorseggiò un po' dell'acqua che aveva portato con sé. Sapeva che quella non era il tipo di confidenza per cui serviva una risposta. Quando c'è qualcosa che si vuole dire, alle volte basta dirlo e nient'altro. E il ruolo altrui è solo quello di ascoltare, lasciando liberare l'animo di chi vogliamo bene.

“Meglio così, allora. Perché penso che nei prossimi giorni ti toccherà il ruolo da protagonista.”

Conan sorrise. Eppure c'era una cosa che voleva sapere.

“E tu?”

“Cosa?”

“Non l'hai avuta questa sensazione? Non ti sei sentito, per un attimo, solo, con il resto del mondo lontano più che mai?”

Suo padre leccò appena le labbra ancora bagnate, come a prendersi il tempo per rispondere. Gli occhi lasciavano trasparire una mente ancora persa nel ricordo di quella notte troppo vicina.

“E' stata una sensazione strana, davvero strana.”

“Bella?”

“Definirla così mi sembrerebbe davvero un delitto.”

“Forse, ma lo sai che non ti giudicherei.”

Yusaku sospirò appena. Poi bisbigliò piano, in un sussurro: “Sublime. Sì, la definirei così.”

“Dicono che solo gli animi grandi e nobili siano in grado di percepire a pieno il sentimento del sublime.”

“Lo prenderò come un complimento.”

Conan prese in mano la copia di In bianco e nero che stava riposta in silenzio sul tavolino. Forse era giunto il momento di parlare anche per lei. La aprì alla prima pagina e lesse piano, scandendo le parole:

 

“Il giorno nasceva piano, scolorendo la luna dal cielo. Le nuvole si muovevano sospinte dal vento, sballottate di qua e di là, gonfie e boriose, come terribilmente sicure di loro stesse. La rugiada che scivolava sulle foglie..”

 

“Basta. Non ora. Quelle parole mi fanno male.” intimò la voce incrinata del padre. Il bambino non osò proseguire. Un tuono rimbombò facendo tremare le pareti della casa.

“Piove?” chiese Conan, rivolto non sapeva nemmeno lui a chi.

“Così pare. Forse dovrei dire una frase stupida e banale, del tipo anche il cielo oggi piange?”

Il figlio scosse il capo: “No, è troppo scontata. Da un grande scrittore come te mi aspetto di meglio.”

“Allora ti dirò che mi piacerebbe correre fuori, e lavarmi tutto di dosso. Lasciarmi scorrere sulla pelle ogni cosa, ogni problema, ogni preoccupazione, ogni maschera e ruolo ed essere soltanto l'uomo che c'è oltre questo paio di occhiali e quella cravatta che mi piace tanto portare. Che cosa resterebbe secondo te?”

Il padre sembrò lanciargli uno sguardo disperato, come a chiedere aiuto. Come se avesse davvero paura che potesse non rimanere più nulla oltre tutto quello che ogni giorno lo ricopriva. Conan sorrise appena e gli porse la copia di In bianco e nero che teneva in mano.

“Ma che domande sono, papà. Lo sai benissimo anche tu: resterebbero i tuoi libri.”

 

 

 

Al piano di sopra, avvolta da un lenzuolo candido e leggero, una bambina non riusciva ad addormentarsi, tormentata anche lei da una notte di pensieri e domande senza risposta. E, oltre i tuoni che padroneggiavano nel buio, le sembrava di sentire confuso con essi ma abbastanza nitido da essere percepito, il rombo del motore di una vecchia macchina scoppiettante. Cercò di non pensare, di avvolgersi in quel lenzuolo e sprofondare in quel cuscino morbido. Ma era tutto inutile. Non bastava un cuscino a proteggerla dai fantasmi. Facendosi coraggio, si alzò, camminando piano in punta di piedi fino alla finestra. La tapparella non era del tutto abbassata, quella sera aveva avuto paura del buio. Sbirciò oltre la fessura che aveva lasciato, ma la pioggia le appannava la vista. Sembrava scendere dal cielo come un torrente in piena, e scrosciava ininterrottamente sul cemento della strada. Fu allora che un lampo illuminò la via. I suoi occhi azzurri scorsero, parcheggiata poco distante, una macchina nera. In quell'istante di luce improvvisa, le sembrò di riconoscerla chiaramente. La gola si seccò, l'urlo impietrito non trovò la forza di uscire. Corse nel riparo labile del suo lenzuolo, cercando di calmarsi. Forse era tutto solo una grande, paurosa suggestione.

 

 

 

 

 

 

 

 

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E dopo ben due mesi, eccomi di nuovo qui! Anche questa volta in ritardo, anche se non c’è stato un solo giorno in cui non abbia pensato a questa storia. Purtroppo maggio è stato davvero un mese di inferno, ho dovuto affrontare un esame davvero difficile e ci ho messo tutta me stessa. E ora, che ho qualche giorno di “studio tranquillo” prima degli altri esami, ho ripreso in mano il capitolo, l’ho completato e l’ho corretto. Alcuni pezzi non mi convincono molto, ma lascio giudicare voi. E’ il più lungo dall’inizio della storia, spero non l’abbiate trovato annoiante. Mi piace “perdermi” a scrivere sulle emozioni dei personaggi, su quello che possono rappresentare e lasciarmi andare a qualche riflessione :) Per me la scrittura è il modo di evadere per un po’ dalla realtà quotidiana. So che in questo modo forse la storia potrebbe risultare lenta, ma è il mio modo di scrivere e vedere le cose, e penso non riuscirei a fare altrimenti.

Adesso la storia entra davvero nel vivo, dato che i nostri Gin e Vodka si sono svegliati dal letargo :) 

Che cosa dire.. spero che il capitolo vi sia piaciuto e che, nonostante i miei ritmi, continuiate a seguirmi :)

Ringrazio tutti, ma davvero tutti quelli che hanno letto, recensito, messo la storia tra le seguite, preferite e ricordate. Un grazie grande come al solito ad Aya_Brea che sopporta i miei deliri mentre scrivo u.u

Se avete tempo di farmi sapere cosa ne pensate, ne sarei felice :)

Concludo augurando a tutti la buona fortuna se anche voi siete in pieno periodo di esami, e buone vacanze a chi invece l’estate l’ha già cominciata.. e se lavorate, tenete duro in attesa delle ferie ;) E infine: coraggio Italia per questa sera!!! (Eh si, sono una fan sfegatata del calcio u.u)

Un bacione grandissimo,

Flami

 

 

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Capitolo 7
*** Strumenti del proprio mestiere ***


 

In bianco e nero

 

 

 

Se me ne restavo lì era perché cercavo di provare il senso di una specie di addio.

Voglio dire che ho lasciato scuole e posti senza nemmeno sapere che li stavo lasciando.

E' una cosa che odio. Che l'addio sia triste o brutto non me ne importa niente, ma quando lascio un posto mi piace saperlo, che lo sto lasciando.

Se no, ti senti ancora peggio.

(Salinger, “Il giovane Holden”)

 

 

 

7. Strumenti del proprio mestiere

 

 

 

Il cielo bagnato offuscava le luci dell'universo. Ora, nel pieno di una notte che scrosciava senza sosta, la metropoli sfavillante appariva oscurata, dormiva ripiegata su se stessa, avvolta da un sonno profondo. Le poche anime che barcollavano per le strade scivolose non bastavano a destarla. Ce n'era una di anima, piccola e invisibile nonostante fosse stata forse la più ricercata in quella giornata altalenante tra nuvole grigie e azzurri squarci di cielo. Leggera, quasi pattinava sull'asfalto bagnato, ogni attrito era scomparso e correre più forte avrebbe voluto dire solo continuare a cadere. L'anima sperduta si appoggiò all'intonaco zuppo di un palazzo, riprese il fiato che non aveva mai sprecato. Guardò in basso, le scarpe erano diventate due barche piene di acqua: aveva la sgradevole ma veritiera sensazione di affondare ad ogni passo. Si chinò e le sfilò a fatica, mentre la pioggia gli martellava senza pietà la camicia ormai fusa alla schiena magra e bianca. Era quando sentiva il peso di quella fatica che si accorgeva di essere ancora un ragazzo, e non un'anima smarrita vagante per la città fantasma. Quando il fardello delle emozioni e dei rimorsi lo schiacciava da dentro era come se il corpo stesse per scoppiare, ma non esplodeva mai e tutto finiva per collassare dentro di lui di nuovo, come in un enorme buco nero, scintillante nel suo oscuro mistero. Afferrò le scarpe e, prima di ripartire, alzò gli occhi sulla volta che lo sovrastava: non vide niente, se non acqua sulle pupille. Il cielo si illuminò, poi rombò, e lui si rimise in cammino. Non ci vedeva bene. La notte precedente aveva perso i suoi occhiali in quel fiume in cui aveva cercato rifugio, e che l'aveva crudelmente riconsegnato al mondo a cui lui aveva già detto addio. Trovare il coraggio di dire addio non è mai semplice: e quando la vita tradisce i tuoi sforzi, riportandoti nello stesso luogo che sai dover abbandonare di nuovo prima o poi, allora rincominciare a salutare è ancora più difficile. Una macchina gli sfrecciò accanto, ma parve non accorgersi di quella piccola figura oscillante a lato della strada. Era troppo sottile, infinitamente coperta da quel mantello di acqua. Continuava a barcollare appoggiata ad ogni cosa trovasse, in cerca di una piccola luce che potesse dargli la sua strada. Quando sbucò da quell'intrico zuppo di vie, i suoi piedi scalzi scivolarono appena sull'asfalto di un'enorme strada che correva a lato del fiume nero e traditore. Ebbe l'istinto di correre, ma quella poca fradicia lucidità che gli era rimasta gli suggerì che non sarebbe servito a niente. Si guardò intorno. In fondo al cuore, c'era qualcosa che stava cercando, il suo non era un vagare senza meta né sosta. Avrebbe ripetuto il suo copione, forse meno acclamato del giorno precedente, ma comunque ugualmente intenso. Sarebbe stato l'ultimo spettacolo senza pubblico, con solo una città ovattata intorno che, coperta da quella pioggia, non avrebbe comunque potuto vederlo. Ma non gli importava, tutto era già durato troppo a lungo, e non vedeva in quella fortuita coincidenza che gli aveva permesso di vivere più a lungo nessun segno del destino. Semmai quello era uno scherzo, e per niente divertente. Avrebbe riposto nuovamente fiducia in quelle acque torbide, e questa volta sarebbe andato tutto solo e semplicemente come doveva andare. Si incamminò, strizzando gli occhi per mettere a fuoco meglio quello che lo circondava. Cercava tante piccole lucette in fila tra acqua e cielo: nient'altro gli serviva per scrivere di nuovo la parola fine. Si accostò al fiume, e guardò prima l'acqua, poi i suoi piedi scalzi, poi le scarpe che teneva in mano, poi ancora l'acqua, poi l'asfalto, poi la città, poi tentò di scorgere le stelle, poi l'acqua sopra di sé, poi lanciò le scarpe nel fiume con un grido strozzato e provò a guardare dentro se stesso. Tremò, né di paura né di freddo. Forse di sconforto. Gli sembrò di distinguere una chiazza ancora più scura muoversi trasportata dalla corrente, e camminò nel verso opposto rispetto alle sue scarpe. In fondo, distante, gli parve di scorgere le lucette che andava cercando. Fu una lunga camminata, ancora più lunga di quel giorno passato all'ombra della luce. Ripensò a quando si era svegliato, con l'acqua che gli bagnava ancora le scarpe e il viso immerso nella rada erba che cresceva vicino al fiume. Si era guardato intorno, e per un attimo aveva creduto nell'aldilà. Poi era arrivato un rumore, un altro ancora, e appena la mente aveva recuperato i suoi sensi, aveva compreso che no, quella era ancora la vita che si era aggrappata a lui con tutte le sue potenti e incomprensibili forze. Ed era rimasto lì per un po', a chilometri di distanza dal luogo in cui aveva pronunciato il suo addio, steso nell'erba più rada delle sue forze ad ascoltare le lacrime silenziose che gli scorrevano sulla pelle e il sole che lo accarezzava, asciugandolo con dolcezza. Era stato come vedere improvvisamente il mondo prendersi cura di lui, e per un attimo era stato assalito da un amaro senso di colpa per aver rifiutato una natura che ora sembrava averlo accolto con tenerezza nel suo seno. Ma quando poi aveva mosso i primi passi nel mondo vero, aveva capito di nuovo che lì non c'era posto per lui. Non era quello che voleva, non era quello che desiderava. Si era nascosto, lontano da tutti, e aveva pensato a quanto migliore sarebbe forse stato quel pianeta senza l'uomo ad infestarlo con i suoi mostri di cemento. E aveva pianto, di nuovo e ancora. Forse era per quello che, quando si ritrovò a costeggiare di nuovo quel fiume, non versò neppure una lacrima: non ne aveva più.

Vide, finalmente, quello che cercava. Il maestoso seppur stretto ponte di pietra acceso dalle miriadi di lucette artificiali. Non accelerò, non spinse di più i suoi piedi sull'asfalto: non c'era nessuno, non c'era fretta. Sarebbe stato tutto molto più silenzioso, un'esplosione interiore che avrebbe travolto lui solo e di cui nessuno si sarebbe accorto. Constatò con una punta di disagio  come la sua morte non sarebbe stata molto diversa dalla sua vita. Ma anche allora non pianse. Continuò solo a camminare, guardando fisso verso quelle luci offuscate. Era quasi arrivato. Si fermò. C'erano delle sbarre, delle transenne che bloccavano il passaggio. Non era possibile percorrere il ponte. Eppure non c'era nessuno a controllare l'accesso, nessuno aveva voglia di bagnarsi fino all'ultima goccia di anima in quella notte tuonante. Che senso aveva preoccuparsi delle regole di una società da cui si era già congedato e a cui stava per dire di nuovo addio? Scavalcò le transenne, scivolando. Si rialzò, e continuò a camminare su quel ponte, calpestando con la propria pelle le pietre aguzze. Per un istante ebbe paura di morire solo, senza nessuno. C'era qualcuno, in quel momento, che stava pensando a lui? Gli tornò alla mente il viso del padre, poi l'immagine sfumò, e arrivò quella di un uomo con gli occhiali e i baffetti, una mano protesa e lo sguardo triste, triste per lui. Qualcosa gli scaldò il cuore, e l'ultimo barlume di paura scomparse. Ricordava il punto da cui si era lasciato andare la notte prima, e voleva tornarci, voleva chiudere ancora una volta gli occhi e immaginare le stelle che non avrebbe potuto vedere prima di cullarsi in un addio definitivo. Era convinto di essere solo, eppure scorse una figura. Non la distingueva bene, era un enorme chiazza nera, e per un attimo pensò solo che fosse una sbavatura di inchiostro in quel dipinto meraviglioso. Lì, esattamente tra i due lampioni, appoggiata alla balaustra, solo una piccola imperfezione. Si avvicinò, lasciando scivolare il palmo della mano sul muretto mentre camminava. E quando fu a pochi passi, percepì la vitalità di quello spruzzo di nero. Era un uomo. Un uomo che se ne stava sulle sue, vestito di nero, guardando di tanto in tanto l'orologio, bagnato fradicio, faceva tamburellare nervosamente il piede sul pavimento. Non si era accorto di lui? Non disse niente, stesse a guardarlo con gli occhi spalancati, chiedendosi se forse avrebbe potuto trovare una complicità in quell'altra anima solitaria che aveva trovato lì, esattamente dove aveva creduto di essere da solo. Per lo meno, qualcuno avrebbe assistito alla sua morte, e doveva ammettere che in parte questo lo confortava. D'un tratto, l'Uomo Nero si girò. Portava degli occhiali da sole, ma il ragazzo non lo trovò buffo. Non c'era niente di strano, tutto era una propria scelta. Poi l'Uomo Nero parlò, sovrastando la pioggia in una sorta di grugnito.

“Ma tu guarda.”

Il ragazzo capì all'istante che non avrebbe mai trovato complicità con una voce del genere. Ci mise un altro attimo a capire che quell'uomo non gli piaceva. Si sentì solo contro l'infinito.

“Buonasera.” bisbigliò. Si rese conto che non pronunciava parola alcuna da un giorno, e la voce era ridotta ad un soffio. Probabilmente l'Uomo Nero non aveva nemmeno sentito. Il bestione sfilò dalla tasca un cellulare, ben attento a coprirlo con la sua giacca per non farne bagnare lo schermo. Fissò il ragazzo, poi lo schermo, un altro grugnito e infine ripose il cellulare in tasca.

“Direi che sei proprio tu. Il nostro piccolo attore che si è messo in testa di recitare un copione troppo difficile per lui. Com'è che ti chiami? Arthur, dico bene?”

Il ragazzo mosse un passo indietro d'istinto. L'istinto della vita che non lo abbandonava anche quando aveva deciso di troncarla.

“No no, non devi di certo avere paura. Non fissarmi con quegli occhioni sbarrati. Non sai quanto sia contento di averti trovato senza tanta fatica. Sei venuto da solo da me, e non avresti potuto farmi regalo migliore.”

Si rizzò in piedi. Un lampo illuminò la loro conversazione.

“Ma tu guarda che tempaccio. Che ne dici di fare due chiacchere in un posto più tranquillo?”

Al ragazzo sembrò di vedere un sorriso sadico dipinto sul volto dell'Uomo Nero, ma forse era solo immaginazione. Il tuono rombò, e poi fu tutto nero e rumore di acqua, e infine solo nero e silenzio.

 

 

 

 

“Stai fermo un secondo Shinichi, altrimenti non riuscirò mai a fare un buon lavoro!”

Yukiko, china sul figlio, era intenta in una delle sue magistrali opere di trucco. Sorrideva compiaciuta nel vedere come, sotto le sue pennellate veloci e precise, il volto del bambino stesse a poco a poco cambiando fisionomia.

Conan non rispose, si limitò a cercare, per quanto possibile, di non muoversi. Stare lì, immobile, senza poter battere ciglio, era per lui una tortura quasi insostenibile: sentiva il corpo chiedergli a gran voce un piccolo movimento, anche il più impercettibile. Inoltre, doveva ammetterlo, vedere su di sé una persona che non aveva più l'aspetto di sua madre ma ne possedeva ancora la voce, lo faceva sentire un po’ in soggezione. La donna aveva ora lunghi capelli neri così perfettamente portati da sembrare quasi i suoi, e un trucco così ben studiato sugli occhi da rendere quelli dolci e vispi di Yukiko praticamente irriconoscibili.

Il figlio era il suo ultimo lavoro. Prima di lui, erano passati sotto le sue abili mani Yusaku e Ai, e ne erano usciti rispettivamente senza baffi, con un dito di barba e di fondotinta lui, e con un'adorabile caschetto biondo e un'abile passata di fard e mascara lei. Mentre Conan era sotto i pennelli, i due si guardavano straniti allo specchio.

“Non mi sono mai truccata tanto in vita mia, nemmeno quando avevo l'età giusta per farlo.” diceva Ai, forse più a se stessa che ad altri, osservando le ciglia rifinite. Doveva ammettere che, così, sembrava una ragazzina totalmente diversa. Quel trucco la rinvigoriva, rendeva rosse le sue guance pallide per la nottata insonne appena trascorsa, e copriva con una brezza di spensieratezza i pensieri cupi che portava dentro.

“Appena tutto questo sarà finito, mi occuperò personalmente di insegnarti qualche trucchetto.”

La voce compiaciuta di Yukiko preoccupò Conan, che temeva di ritrovarsi da un momento all'altro una striscia arancione di fondotinta fuori posto.

“Non ti distrarre.”

“Non ti fidi di tua madre? Lo sai che in certe cose non mi batte nessuno.”

“Direi che hai decisamente ragione.” affermò Yusaku. Si avvicinò con il viso allo specchio, come a guardarsi meglio. Lo strato di trucco nascondeva in parte anche le occhiaie marcate, ma ciò che lo colpiva di più era l'assenza dei baffi: li aveva portati per così tanti anni che non ricordava più come fosse essere senza. Toccò appena la barba finta, che gli dava non poco fastidio. Per fortuna presto o tardi la sua sarebbe cresciuta, salvandolo da quel tormento punzecchiante. Si accorse allora che Yukiko aveva lasciato per un attimo da parte il viso del figlio, e lo stava fissando nello specchio che aveva di fronte.

“Forse dovresti togliere gli occhiali, e portare le lenti a contatto. Sarebbe il tocco finale.”

Yusaku non rispose, si limitò a sfilare gli occhiali dal volto e guardarsi nuovamente. Di chi erano quegli occhi che lo stavano fissando senza battere ciglio? Non gli sembrarono i suoi. Ebbe un attimo di indecisione, e come a confortarsi disse piano: “Andrà tutto bene.”

“E' quasi l'alba.” intervenne Ai. “Dobbiamo sbrigarci. E' meglio andare via prima che sorga il sole.”

“Com'è la situazione fuori?”

“Ho controllato da ogni finestra della casa, in tutte le possibili angolazioni. Per strada non c'è nessuno. La città sembra deserta dopo il temporale di stanotte. Solo silenzio e pozzanghere.” rispose Yusaku. Poi aggiunse: “Mi ricorda un po' una poesia che ho letto una volta.”

“Che poesia?” chiese Yukiko, assorta nel curare ancora un po' gli zigomi del figlio.

“Fu scritta da un poeta italiano. La quiete dopo la tempesta. Il suo nome era Giacomo Leopardi. Un vero peccato non poterla leggere in lingua originale.”

La sua constatazione restò infine sospesa nel vuoto. La moglie era ancora troppo assorta negli ultimi ritocchi, il cervello di Conan lavorava solo sulle preoccupazioni di Shinichi, e Ai si chiedeva se, davvero, la macchina che aveva visto quella notte fosse stata solo frutto della sua immaginazione. Nessuno si soffermò più di tanto su quella poesia, che cadde dimenticata all'affermazione successiva. Forse nemmeno Yusaku ci pensava davvero, forse era solo un diversivo per immergersi ancora qualche minuto nel suo mondo d'arte, e lasciare da parte quello vero.

“Non c'era niente?” chiese titubante Ai.

“No. Solo qualche macchina parcheggiata a lato della strada, ma.. insomma, è una cosa normale. Non cadiamo nell'errore di cominciare ad allarmarci per qualsiasi cosa.”

“Mio padre ha ragione, Ai.” aggiunse Conan, osservando allo specchio il lavoro della madre, la quale se ne stava lì, accanto a lui, il piccolo pennello ancora in mano, e aspettava con la soddisfazione dipinta sul volto il responso del figlio. Ma Conan aveva tralasciato il suo viso per concentrarsi su quello della biondina, che lo specchio rifletteva esattamente dietro di lui. Ai teneva lo sguardo basso e di tanto in tanto si torturava senza pietà la dita, rigirandole e stuzzicando le unghie. Conan capì subito che c'era qualcosa che la preoccupava. Qualcosa in particolare.

“C'è qualcosa che devi o vuoi dirmi?” le chiese. Continuava a guardarla dallo specchio.

Ai alzò lo sguardo a fissarlo. I due adulti attendevano immobili la risposta.

“No.”

Il suo viso si distese, e cercò di tranquillizzarsi. Non voleva allarmare gli altri inutilmente: in fondo, se Yusaku aveva controllato più e più volte, la probabilità che quanto visto da lei fosse stata solo suggestione aumentava esponenzialmente. Non c'era niente di cui preoccuparsi: o meglio, non c'era niente per cui preoccuparsi più di quanto bisognava inevitabilmente fare.

“Bene, allora.” esclamò Yukiko un po' nervosamente, per spezzare l'ennesimo silenzio che si era instaurato in quella strana famiglia. Era dal giorno prima che quegli attimi di gelato, imbarazzato e nervoso silenzio si insediavano a tratti tra di loro, paralizzandoli come attori disorientati su un palcoscenico sconosciuto. Ognuno aveva i suoi pensieri in testa, ognuno sapeva che la situazione avrebbe potuto degenerare da un momento all'altro oppure risollevarsi come se niente fosse successo, e allora avrebbero dovuto ricominciare nuovamente da capo. Ma qual era la possibilità migliore? Prendere di nuovo la scappatoia oppure sperare che quella surreale condizione si concludesse una volta per tutte? In fondo, gran parte della loro normalità era già stata compromessa: se gli Uomini in Nero non si fossero fatti vivi, quale spiegazione avrebbe fornito Shinichi a Ran dopo averla strappata dalla sua vita a causa di un allarme poi rivelatosi inutile? Forse sarebbe arrivato il momento di dire la verità? E Ai e Conan sarebbero tornati di nuovo tra i Detective Boys dopo un'assenza forse estremamente prolungata? Che cosa avrebbero detto loro? Per il momento sarebbe stato simulato il ritorno in America di Yusaku Kudo e della moglie, e il dottor Agasa avrebbe detto che Conan e Ai li avevano seguiti, per un breve soggiorno negli Stati Uniti. La bugia era stata costruita in poco tempo, e non avevano potuto inventarne una migliore.

“Avete preso le vostre cose?” aggiunse ancora Yukiko.

All'ingresso, vicino alle scarpe ordinatamente riposte, vi erano due borse di media grandezza. In una vi era ciò che Yukiko e Ai avevano deciso di portare con sé, l'altra era quella di Yusaku e Conan. Qualche vestito, il minimo indispensabile e nessuna fatica per riuscire a chiudere la cerniera lampo, il che è un grande traguardo per qualsiasi valigia. Sembravano pronti per una breve partenza, una normale famiglia che decide di prendersi qualche giorno di pausa dalla città. Eppure non c'era niente di normale nella loro situazione. Prima di tutto, non erano propriamente una famiglia. In secondo luogo, i due bambini non erano realmente tali, e tutti e quattro non mostravano il loro vero volto, ma solo quello di una maschera abilmente costruita. Infine, non stavano assolutamente partendo per una vacanza: non sapevano quando e se sarebbero tornati, e questa era forse la sensazione peggiore che potessero provare. Guardando quelle mura, non sapevano se il loro fosse un addio o un semplice arrivederci. Non sarebbe stato giusto esserne consapevoli, se avessero dovuto dare un ultimo saluto all'orologio che ticchettava senza mai stancarsi su quel tavolo, avvertendoli quando erano stati in terribile ritardo, allo specchio che li aveva riflessi quando avevano avuto bisogno di un'ultima conferma, alla scarpiera che aveva sempre porto loro le scarpe adatte per il vestito adatto, a quell'enorme libreria che aveva offerto loro le pagine giuste per staccare dalla realtà, a quel divano che li aveva accolti quando erano troppo stanchi per camminare ancora, e a quella porta che per loro era e sarebbe stata sempre aperta? Erano lì, senza dire una parola, accanto a quei due borsoni appoggiati sul pavimento, in un silenzio complice che li avvicinava più che mai. E Ai, seppure avesse conosciuto da poco quelle mura, sentiva dentro di sé di provare le loro stesse emozioni: era una strana sensazione, così forte da stordirla e farla sentire cullata allo stesso tempo; farla sentire accolta, protetta, amata proprio da quelle persone che forse avrebbero dovuto odiarla più di tutti perché in fondo, sì, in fondo era partito tutto dal giorno in cui aveva completato quel dannato farmaco. Strinse istintivamente la mano di Conan e quando il bambino si girò a guardarla, lei si sciolse in un sorriso che era un involontario miscuglio di tristezza, gioia e malinconia. A Conan sembrò che quello sguardo e quelle labbra chiedessero solo perdono: ma da perdonare non c'era assolutamente nulla. Ricambiò la stretta e il sorriso, sicuro di sé. Non aveva paura di quello che avrebbe affrontato: non era da solo. Guardò suo padre, lì ritto accanto a lui. Stava riponendo un blocchetto e una penna nel taschino della camicia a quadri. Li portava sempre con sé gli strumenti della propria arte: una penna, un taccuino e la fantasia.

“Sarebbe meglio uscire dal retro.”

Gli altri annuirono. Yusaku e Yukiko presero le borse, e si incamminarono. Fu la donna a dire le solite frasi di circostanza, del tipo: “Abbiamo spento tutte le luci? Hai staccato la televisione del salotto?”

“Non stiamo partendo per un viaggio, mamma.”

“Oh beh, lo so.” disse lei, sorridendo. “Però è bello crederlo.”

“Sei sempre la solita, con te non ci si annoia mai.” le sorrise Yusaku, dandole un buffetto sui capelli.

“Ehi, attento alla parrucca!” lo ammonì, controllando immediatamente se fosse tutto a posto.

“Ops, scusa, mi devo ancora abituare ad essere conciato come un clown.”

Ci fu un istante di silenzio, in cui si guardarono l'un altro, e poi scoppiarono tutti e quattro a ridere. Una risata liberatoria, di sfogo, di ilarità di fronte all'assurdità di quella situazione che non faceva comunque perdere loro il piacere di stare insieme. Fu così che, alla fine, lasciarono quella casa, senza sapere se le stavano realmente dicendo addio. Ma in fondo che cosa potevano essere quelle mura, per quanto care? Era di gran lunga più importante essere insieme. Richiusero la porta sul retro senza dire una parola, in silenzio, ma comunque tranquilli in fondo al loro cuore. Avevano appena vissuto uno di quegli istanti in cui ci si rende conto che alla vita, per quanto imprevedibile e stramba, ci si tiene davvero. E nonostante tutto, la vita era bella, era bella sul serio. Non si voltarono indietro a riguardare quell'edificio, nessuno di loro lo fece. Ora come ora, bisognava solo guardare avanti, in direzione di un futuro ignoto che era lì, in attesa solo di essere vissuto.

Non si accorsero che, qualche metro più indietro, una sagoma avvolta in un paio di jeans e una felpa scura li stava osservando: il cappuccio ben calato sul viso, per non lasciar scorgere i propri occhi. Li fissò incamminarsi, ma non si mosse; affondò le mani nelle tasche della felpa e restò lì, immobile, come a riflettere sul da farsi.

 

 

 

La prima sorpresa per quell'insolito gruppo di viaggiatori arrivò appena svoltato l'angolo. C'era un uomo, basso e dal fisico robusto, appoggiato ad un lampione. Fissava l'orologio e si guardava intorno, vestito con abiti assolutamente normali (per quanto possa significare tale termine) e con l'aria di non essere lì per caso. Nessuno dei quattro l'avrebbe forse riconosciuto se non avesse notato i folti baffi nel viso tondo dell'uomo.

“Ispettore Megure?” bisbigliò Yusaku. Nella via regnava un silenzio surreale, e solo il cinguettare dolce degli uccelli che annunciavano il giorno lo rompeva. Era il suono della natura, e lo scrittore non volle intromettersi, per quanto sentisse forte dentro di sé di farne lui stesso parte. Ma c'era dell'altro, c'era anche la paura di avere addosso occhi e orecchie indiscrete a cui non volevano far percepire nemmeno una briciola dei loro pensieri.

L'ispettore sembrò riscuotersi e si voltò verso di loro. I suoi occhi stanchi e assonnati si fissarono sull'amico che, così truccato, non venne subito riconosciuto.

“Sono io, ispettore, Yusaku Kudo. Che ci fa qui a quest'ora?”

Megure sgranò le palpebre: quello era Yusaku? Perché era travestito in quella maniera? E la donna accanto a lui, era Yukiko? E quei due bambini, invece?

Quella notte non era riuscito a dormire: il pensiero della strana richiesta del suo amico scrittore lo tormentava. A che caso stava lavorando Shinichi? Perché una stupida foto che lo ritraeva in compagnia di Ran poteva compromettere tutto al punto da mettere in pericolo la vita della ragazza stessa e del padre? E Shinichi, dov'era finito? Era sempre al lavoro sullo stesso caso fin da quando era scomparso? C'era qualcosa che puzzava in tutta quella storia e, per quanto Megure si fidasse di Yusaku, non si poteva chiedere ad un ispettore di collaborare senza sapere niente di più. Lui doveva capire, comprendere almeno i punti cardine di quella storia. Il giorno precedente Yusaku gli aveva detto che sarebbero con tutta probabilità tornati negli Stati Uniti, e di occuparsi della fuga momentanea di Ran e Kogoro: ma l'ispettore non ci aveva creduto, almeno non del tutto. E così, dopo ore insonni a pensare ed ascoltare il respiro tranquillo e regolare della moglie in mezzo ai tuoni che devastavano la città, si era alzato piano, aveva preso in punta di piedi i primi vestiti che gli erano capitati, ed era uscito, tra le pozzanghere e  i rimasugli di quel terribile temporale. C'era qualcosa, in fondo al suo intuito da investigatore, che gli diceva: il tuo posto adesso è lì, vicino casa di Yusaku. O forse non era un ispettore in quel momento. Vestito in borghese, era solo un amico preoccupato che voleva aiutarne un altro. E il suo posto ora era lì, vicino a quella persona di cui si fidava ma che non aveva il coraggio di abbandonare.

“Ma come vi siete vestiti? Perché questo travestimento? Lei è.. Yukiko?” chiese di rimando e, senza aspettare risposta: “E questi bambini?”

Conan rifletté per un attimo se fosse il caso di mostrarsi o meno. In fondo, che pericolo poteva esserci? L'ispettore era senza dubbio una persona fidata. E comunque, anche a Ran avrebbero detto che lui si trovava con i genitori di Shinichi. Si stranì un attimo nel pensare di sé in terza persona, ma scacciò via quella sensazione che non poteva che distrarlo.

“Sono io, ispettore.” fece dire alla sua vocina da bambino. Di chi ci si fidava bisognava fidarsi del tutto. Erano pochi gli amici, e dovevano esserlo fino in fondo. Almeno, riguardo a quello che potevano dire. Il grande segreto da non rivelare per niente al mondo era la sua vera identità: quella no, quella andava tenuta nascosta, perché era il fulcro attorno a cui tutto ruotava. Non saperne nulla era fonte solo e soltanto di protezione.

“Conan? Ma.. cos'è questa storia? Dove state andando?”

Yukiko e Yusaku si guardarono un attimo prima di rispondere. Fu una strana scena: improvvisamente erano una famiglia come le altre, in cui spettava ai genitori prendere le scelte, mentre i figli, dal basso della loro posizione, con il naso all'insù aspettavano i responso degli adulti.

“E' una lunga storia.”

La solita, patetica scusa di quando non si vuole raccontare qualcosa.

“Non è un problema.”

“Non posso raccontarle tutto, ispettore, mi dispiace.”

“Perché?”

Yusaku si morse nervosamente il labbro inferiore, come a trattenere le parole. Sentiva che l'ispettore non voleva altro che aiutarlo, eppure allo stesso tempo sapeva che su certi spezzoni di quella strana storia era meglio tacere. Percepiva su di sé lo sguardo ferito di un amico. No, forse era peggio: era lo sguardo di un amico che non riusciva a comprenderti. E non c'è cosa peggiore.

“Io voglio solo aiutarvi.” aggiunse Megure.

“Lo sappiamo, lo sappiamo benissimo, ispettore.” intervenne Yukiko. Aveva la straordinaria capacità di capire quando il marito avesse bisogno di aiuto e di parlare esattamente allora, senza un minuto di ritardo né un attimo di anticipo. Si sorreggevano l'un l'altro, si aiutavano a vicenda, si sentivano sempre e comunque più vicini che mai: e se la coppia perfetta non esisteva in nessun metro quadro di quel pianeta, loro ci andavano comunque molto vicini.

“Però, vede..” continuò, e tentennò un attimo prima di concludere la frase: “Anche noi a modo nostro non vogliamo altro che aiutarla. Il caso in cui si è cacciato Shinichi è complicato, e per ora è meglio che le acque stiano calme. Loro non devono sapere che li sta inseguendo ancora.”

Loro chi?”

“Di preciso non lo sa nemmeno lui.”

“Ma che storia è questa?”

“Ispettore, la prego.” riprese la parola Yusaku, mentre Ai e Conan erano sempre lì. In quella situazione non avevano voce in capitolo, davanti all'ispettore loro non erano direttamente coinvolti nella vicenda.

“Glielo giuro, non è facile per nessuno di noi. Shinichi era sulle tracce di alcuni criminali, quando è improvvisamente sparito agli occhi del mondo. Sta cercando di indagare nell'ombra, per avere più possibilità di successo. La foto che è comparsa nei giornali potrebbe finire davanti ad occhi indiscreti: per questo bisogna proteggere Ran, che era con lui nella foto. E noi dobbiamo sparire dalla circolazione per un po'. Sono persone senza scrupoli.”

L'ispettore sembrava sconcertato. Quante cose erano successe a sua insaputa in tutto quel tempo? Di quanti particolari non si era accorto? Tutto ciò che sapeva era che Shinichi non voleva farsi vedere in giro: perché non si era interrogato di più, chiedendosi come mai il giovane detective, così sicuro di sé e amante delle prime pagine, avesse improvvisamente deciso di agire lontano dagli occhi della stampa? Per un attimo sentì addosso il peso di un enorme fallimento; l'attimo dopo, aveva già deciso che era il momento di rimettersi in carreggiata.

“Come pensi che possa mettermi da parte dopo aver sentito tutto questo? Dov'è ora Shinichi?”

Conan lo fissò, e per un istante ebbe l'impulso di gridare al mondo: Sono qui, sono io! Possibile che nessuno lo capisca? Ma sentì la mano di Ai tirargli la maglietta. Lei capiva sempre tutto in quelle circostanze: forse perché era l'unica che quella situazione poteva comprenderla fino in fondo. E quando si trattava del rapporto tra Conan e Shinichi, sapeva in anticipo tutto quello che sarebbe accaduto, e guardava lo scorrere degli eventi anticipandoli un secondo prima con la mente, come rileggendo un libro già letto o riguardando un film già visto.

“Non posso dirglielo.”

“Ma voi lo sapete?” insistette ancora l'ispettore.

Yusaku non rispose alla domanda. Si limitò a dire: “E' meglio così, si fidi di me.”

Megure comprese che non poteva fare altro. Il suo amico era fisso nel suo intento, e se riteneva che fosse meglio nascondergli qualcosa, doveva avere i suoi buoni motivi. Yusaku non era il tipo da agire a caso: alle volte forse era un po' bizzarro ed estroso, amante dei suoi libri e di quelli altrui, appassionato di gialli e di casi interessanti per quanto tragici, ma non si poteva certo dire che non avesse la testa sulle spalle. Non gli restava che fidarsi.

“Posso fare qualcosa per voi?”

“Non vogliamo coinvolgerla.”

“Dove state andando? Lasciate la città?”

“In realtà, no. Vorremmo rimanere nelle vicinanze.”

“E dove starete?”

“Ce la caveremo, come abbiamo sempre fatto.” rispose Yukiko, con un sorriso tranquillo.

L'ispettore sembrò improvvisamente ricordarsi di qualcosa, e socchiuse gli occhi massaggiandosi il mento e i baffi. Sembrava stesse valutando una serie di opzioni, per decidere infine quale fosse la migliore. Dopo un minuto buono, fissò la famiglia improvvisata e disse: “Se avete intenzione di restare a Tokyo, forse so come darvi una mano. Per voi sarebbe meglio non farvi vedere in giro o in alberghi, anche di poco conto, se davvero la situazione è così rischiosa. Ho un secondo appartamento in città, e per ora non è in affitto. E' a qualche fermata della metro da qui: se siete d'accordo, potrete alloggiarvi fin quando lo riterrete opportuno.”

Yusaku e la moglie si guardarono nuovamente, in cerca di un assenso reciproco, e questa volta interpellarono con gli occhi anche i due bambini. Alla fine sorrise all'ispettore, ringraziandolo.

“Non so davvero cosa dire: lei è un vero amico.”

E gli porse la mano, che Megure strinse calorosamente. Aiutare qualcuno a cui si vuole bene provoca sempre quel piacevole sollievo al cuore. E' una sensazione strana, ma gradevole, che ci fa sentire, in fondo, terribilmente soddisfatti di noi stessi.

“Non c'è di che, per tutte le volte che siamo riusciti a risolvere un caso grazie a te e a Shinichi. In più di un'occasione siete stati la nostra salvezza. Se non te lo dovevo come amico, te lo dovevo come ispettore di polizia.”

Megure spiegò loro come raggiungere l'appartamento, si era offerto di accompagnarli ma loro avevano rifiutando, affermando che avrebbero potuto perfettamente prendere la metropolitana o una macchina. Anzi, meglio i mezzi pubblici. Si accordarono per incontrarsi lì, l'ispettore in persona, in abiti borghesi, avrebbe consegnato loro le chiavi. E poi, probabilmente, si sarebbero augurati a vicenda la buona fortuna.

“Posso solo sapere,” aggiunse ancora l'uomo “chi è questa bambina?”

Si chinò a guardare Ai. Se anche conosceva di vista i Detective Boys, non avrebbe mai riconosciuto la ragazzina sotto quelle mentite spoglie. Lei non fiatò: era il caso di parlare?

“E' una mia amica.” prese in mano la situazione Conan. L'uomo con i baffi non sembrò convinto.

“Se siete così attenti a non mettere in pericolo nessuno, come mai vi state portando dietro Conan e questa ragazzina?”

Allora Ai parlò. Non serviva che qualcuno rispondesse per lei.

“Ci sono dentro più di tutti loro, signore. Mi spiace, ma altro non posso dirle.”

Il tono da adulta che permeava la voce di quella bambina colpì profondamente l'ispettore. Sembrava, tra tutti, la più consapevole del rischio che stavano correndo: al di là di quel tono calmo e pacato c'era ansia, timore e angoscia, ma vi si celava anche una profonda e ben compiuta intelligenza. Megure non riconobbe in lei la ragazzina che spesso stava con Conan, e si limitò a dire, quasi rispettoso: “Come volete. Ci vediamo tra poco dove concordato.”

E salutò con un cenno della mano e un sorriso un po' spento. Si incamminò verso la macchina, facendo scattare il meccanismo di apertura quando era ancora distante. I fanali risposero con un lampeggio che si fuse alla luce dell'alba. E la famiglia ricominciò a procedere a piccoli passi in quell'enorme città che stava pian piano svegliandosi.

 

 

 

Quando Ai aprì la porta del laboratorio in cui aveva lavorato in tutti quei mesi, capì senza bisogno d'altro di come, a poco più di un giorno di distanza, ne sentisse la mancanza. L'ultima notte passata tra quelle provette era stata quella dell'omicidio all'Haido City Hotel, quando Subaru Okiya le era improvvisamente piombato in casa, costringendola involontariamente a interrompere il suo lavoro. Le ultime ricerche la stavano portando verso il prototipo di un nuovo farmaco: un pillola che forse avrebbe potuto inibire l'effetto dell'APTX4869 per un periodo di tempo più lungo rispetto ai precedenti. Chissà, forse per un mese almeno? Ma sarebbe mai riuscita a creare un antidoto definitivo, a ridare a Shinichi una vita normale, quella che lui meritava? Passò la mano sulla tastiera del computer logorata dal battito delle sue piccole dita, come a volerla accarezzare. Quel ticchettio l'aveva accompagnata tra notti insonni e giornate lontane dal sole, quando gli occhi stanchi si fissavano su quello schermo e cercavano di analizzare i dati, le strutture, le sequenze anche quando, rossi e quasi socchiusi, non ne potevano più. Diede uno sguardo al microscopio ottico che teneva lì accanto, e si accorse allora di aver lasciato il vetrino lì, al suo posto, pronto per essere analizzato. Più in là, accanto, vi erano le piastre di alcune colture cellulari, in cui analizzava il differente sviluppo di cellule inibendo o stimolando determinati enzimi e proteine. L'ultima fila di quella piastra era costituita da un mucchio di cellule rachitiche: lesse quale enzima aveva provveduto ad inibire, e sorrise a se stessa. Aveva immaginato uno sviluppo del genere a seguito di quella determinata inibizione. Diede uno sguardo alla cappa, e alla soluzione tampone che aveva preparato qualche giorno prima e aveva lasciato lì, chiusa, in attesa usarla: era meglio sempre preparane in quantità maggiore rispetto a quella che serviva nell'immediato. I tamponi li usava per almeno metà dei suoi esperimenti, e prepararne ogni volta uno ad hoc era davvero una gran seccatura. Rilesse gli appunti che aveva scarabocchiato qualche notte prima, l'inchiostro macchiato dal blu di una soluzione di cui non si ricordava nemmeno. E poi lì, in fondo, lo spettrofotometro a monoraggio che di tanto in tanto si divertiva a farla esaurire con scherzetti di malfunzionamento: non era uno strumento nuovissimo, tutt'altro. Ma il dottor Agasa lo aveva acquistato appositamente per lei, e non poteva fare altro che dirgli grazie. La mente volò tra i ricordi dei vecchi laboratori dove lavorava, quelli dell'Organizzazione, dotati delle migliori tecnologie. Aveva il suo spettrofotometro a doppio raggio, che le permetteva di risparmiare del tempo quando doveva misurare l'assorbanza di una soluzione; poi c'era una saletta apposita solo per i microscopi, alcuni dei quali di ultimissima generazione, collegati ad un computer dove le immagini venivano visualizzate e dove si poteva studiarle mediante software appositi; c'era poi quell'altra piccola stanza, con lo spettrometro di massa, in cui lavorava sempre quell'omino basso e un po' pelato, il quale non voleva che nessuno si avvicinasse al suo sacro strumento: Ai sorrise nel ricordare di come, per quanto antipatico e scorbutico, quell'uomo bassetto di fisica ne sapesse tanta, e spesso l'aiutava quando le sfuggivano di mente alcuni concetti di chimica fisica o biofisica, o ancora quando doveva effettuare calcoli troppo complicati e non ne aveva per niente voglia. Lui invece si divertiva a starsene lì, ricurvo sui suoi calcoli, a lanciare occhiate al suo spettrometro di massa, come timoroso che qualcuno potesse improvvisamente entrare di soppiatto e rubargli l'amato strumento. Le provette rotte, gli esperimenti falliti in cui non riesci a trovare l'errore, le cromatografie non riuscite perfettamente, le analisi sulle soluzioni che alle volte la facevano davvero impazzire, le pesate svolte con estrema cura, le pipette caricate facendo attenzione a non inserire un solo microlitro in più: stare in laboratorio le piaceva, e avrebbe voluto lavorare in uno vero, un laboratorio di ricerca per la vita e non per la morte, in cui per quanto tu stia impazzendo su quelle misure su cui non ti raccapezzi più, ci sarà sempre qualcuno accanto disposto a darti una mano.

Aveva insistito per venire con Yusaku in quel posto, per risentire per un attimo la magia e lo stress di quei mesi, e per salutarlo come doveva. Perché non era tanto sicura di poterci rimettere piede, in futuro. Se l'Organizzazione l'avesse trovata? Non se la sarebbero lasciata scappare ancora una volta. Ricordò il suo sogno, ed ebbe un brivido. Quasi le cadde di mano la pipetta in plastica che stringeva tra le dita.

Poco più in là, appoggiati allo stipite della porta, stavano Yusaku e il dottor Agasa. Osservavano quel piccolo genio mentre dava quel momentaneo addio ai suoi strumenti. Yusaku sapeva quanto fosse difficile per lei: erano probabilmente gli stessi sentimenti che aveva provato lui lasciandosi dietro quegli scaffali ricolmi di libri, e qualche appunto di una vecchia storia che aveva preferito non portare con sé. Negli strumenti del proprio mestiere ognuno lascia parte della sua anima.

“Dunque starete in quell'appartamento fornitovi dall'ispettore?”

Lo scrittore annuì: “Veniamo da lì. Abbiamo lasciato le poche cose che ci siamo portati, e poi ho voluto tornare qui, per salutarti. Sei sicuro di non voler andare via? Ran e Kogoro..”

“Oh no, non preoccuparti per me. Alla fine non sono che un vicino di casa, non penso mi possano fare nulla. Non sanno che Ai ha vissuto qui, e..” e qui la voce gli tremò un attimo, prima di riprendere coraggio con uno dei suoi soliti sorrisi bonari, “e non penso che farmi scomparire sarebbe una buona idea. Attirerebbero solo l'attenzione.”

“Non dire nemmeno una cosa del genere.”

“E poi ci sono gli altri bambini, sentiranno già abbastanza la mancanza di Conan e Ai, non posso abbandonarli. Ai è voluta tornare qui?”

“Sì. Ha detto che ci teneva a salutarla e che voleva ricontrollare alcune cose. Quella ragazzina ha un'incredibile forza d'animo: non è facile per nessuno, ma credo che per lei non lo sia in particolar modo.” disse Yusaku, mentre osservava la bambina rovistare in un cassetto.

“E Yukiko e Shinichi?”

“Yukiko è da Ran. Deve parlarle, non possono restare qui, almeno non per ora.”

“E Shinichi non è con lei?”

“Lui avrebbe voluto, ma Yukiko sostiene che sia meglio evitare. Si tratterebbe solo di raccontare altre bugie.”

“Tu sei d'accordo?”

“Penso che abbia ragione.”

“Ma sei d'accordo?”

Yusaku alzò le spalle.

“Cosa devo dirti, amico mio. Le donne alle volte capiscono le cose meglio di altri. Mi fido di mia moglie: se ritiene che sia meglio così per entrambi, allora sì, sono d'accordo.”

Agasa sorrise di nuovo, mentre informava Ai del fatto che aveva ordinato alcuni libri che la bambina aveva lasciato sparsi e che ora erano lì, su quello scaffale a destra.

“E Shinichi dov'è adesso?”

“Conoscendolo, penso che starà osservando l'agenzia da qualche parte. Di sicuro ci tiene a rivedere Ran. La scorsa notte è dovuto di nuovo scappare senza poterle dire una parola.”

Il loro discorso fu interrotto da Ai. Aveva voltato le spalle ai suoi strumenti, e teneva in mano una piccola scatolina e una chiavetta USB.

“Io ho finito.”

“Hai preso i dati che ti servivano?”

“Sì.”

“E quella scatola?” chiese Yusaku.

Ai abbassò un attimo lo sguardo a fissarla, poi aggiunse solo: “Niente. Si tratta semplicemente di qualche ricordo.”

L'uomo non aggiunse altro, non c'era bisogno di sapere per forza tutto. A ognuno i suoi piccoli segreti.

“Il signor Subaru dov'è?” chiese Ai. Non lo aveva notato in casa.

“E' andato via ieri sera. Ha detto che non voleva disturbare ulteriormente, e che Shinichi lo aveva contattato dicendo che per un po' era meglio se non alloggiava da lui. Mi ha detto che sarebbe stato in un albergo. Shinichi non vi ha detto nulla?” chiese, stranito.

“No.” affermò Yusaku. Si appuntò a mente che, una volta rivisto il figlio, avrebbe dovuto chiederglielo. Erano successe così tante cose che quell'uomo era passato loro di mente. Ai, dal canto suo, aveva uno sguardo leggermente preoccupato, ma Agasa lasciò correre: sapeva che la bambina non si fidava del tutto di quell'uomo.

“Comunque è meglio se andate. Allontanarsi da qui è la cosa più prudente. Salutatemi Shinichi e Yukiko, e state attenti, vi prego.”

Si vedeva chiaramente che si sforzava di trattenere gli occhi dal diventare lucidi. Era un uomo estremamente buono e sensibile, e avrebbe fatto di tutto per aiutare i propri amici.

“Se avete bisogno di qualsiasi cosa, io..”

“Hai fatto già fin troppo, davvero. Grazie di tutto.” disse Yusaku. Fece per porgergli la mano ma il dottor Agasa lo anticipò, abbracciandolo. Non serviva essere formali in quel contesto. Yusaku sorrise, ricambiando la stretta. Quando poi si separarono, lo scienziato si chinò sulle ginocchia, ponendo le mani sulle spalle di Ai.

“Mi raccomando, Ai, non fare pazzie. E torna a casa, torna a casa presto. Questa è casa tua, ormai, la porta sarà sempre aperta per te. Mi mancherai.”

Ai voleva dire qualcosa, ma le tremò la voce. La scatoletta e la chiavetta le caddero di mano, e buttò le braccia al collo del dottore, affondando il viso nella spalla di lui. Non riuscì a trattenere i singhiozzi, e si lasciò consolare dal nonno bonario e affettuoso che non aveva mai avuto.

“Suvvia Ai, non è di certo un addio. Quando tutto questo finirà, guai a te se ti dimentichi di questo vecchietto, eh!”

Ai scosse la testa, e si asciugò le lacrime con il dorso della mano. Poi disse, con un sorriso abbozzato: “Mi raccomando, pochi grassi, soprattutto quelli saturi. Mangi tanta frutta e verdura, e beva molta acqua. Non mangi troppi carboidrati, lo sa benissimo che l'eccesso di glucosio viene immagazzinato come grasso, e questo non va troppo bene nel suo caso. Si ricordi poi che la prossima settimana ha le analisi del sangue, bisogna tenere d'occhio il colesterolo.”

Nonostante le lacrime, aveva un tono tremendamente serio. Mentre Agasa assumeva la solita espressione un po' intimidita e un po' da cane bastonato, Yusaku scoppiò a ridere.

“E' sempre così?”

“Sempre così, questo piccolo genietto.” e le scombinò i capelli sorridendo.

“Dottore! La parrucca!” esclamò la bambina, sistemandosi le ciocche finte sul viso.

“Oh già, me n'ero dimenticato..”

E ci fu una nuova risata, questa volta generale, in cui si scaricarono tutta la tensione e la tristezza di quel momento. Mentre Ai si chinava per raccogliere la scatola e la USB, si sentì leggera, nonostante il costante tormento del peso delle sue azioni. In quella chiavetta vi erano tutti i dati che le servivano per il suo lavoro. E nella scatola, riposte con cura, tre pillole. Erano gli ultimi antidoti che aveva creato, e che con le ultime ricerche stava cercando di migliorare: se non aveva sbagliato nulla, quei prototipi dovevano comunque essere più efficaci dei precedenti che aveva dato a Shinichi. Li aveva presi nel caso in cui si fosse rivelato necessario coprire la loro nuova identità.

Prima di uscire, diede un ultimo sguardo a quella stanza, ai suoi compagni di ricerche. E, mentre la porta si richiudeva alle loro spalle, non ebbe il coraggio di dire addio: sussurrò piano, appena percettibile, un malinconico arrivederci.

 

 

 

 

 

 

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Ed eccomi di nuovo qui con il settimo capitolo! Come al solito nelle mie intenzioni questa doveva essere solo la metà del settimo, ma mi sono poi ritrovata con dieci facciate scritte e ho deciso di concludere qui: voglio dare a Ran il giusto rilievo, e non relegarla alla fine di un capitolo già comunque lunghetto :)

Ammetto che la parte che ho amato di più scrivere è quella finale, in cui Ai saluta il suo laboratorio e si ricorda di quello dell’Organizzazione: ho cercato di dare un’idea generale, accennando ai vari strumenti più comuni. Per quanto riguarda lo spettrofotometro, ho basato l’affermazione di Ai (il fatto che la facesse alle volte impazzire) su una mia esperienza personale xD Ma in quel caso poi, come sempre, eravamo stati noi a mescolare male la soluzione con la pipetta, ottenendo un valore dell’assorbanza assolutamente assurdo.. ma andiamo avanti u.u L’assorbanza indica, in soldoni, l’intensità di “luce” (radiazione elettromagnetica) che la soluzione assorbe ad una determinata lunghezza d’onda. Capisco che magari non siano cose che tutti conoscano (io stessa prima di iniziare l’università non avevo idea di cosa fosse uno spettrofotometro o uno spettrometro di massa, anzi, tra poco non sapevo neanche raccapezzarmi sulle onde elettromagnetiche), ma ho voluto lo stesso inserire qualche termine più specifico, per dare un’idea migliore della situazione. E poi, inevitabilmente, ci si affeziona a tutti quegli strumenti a forza di vederli per giorni e giorni: ed è vero anche che, quando in laboratorio qualcosa non viene, si impazzisce sul serio e volano parole non troppo carine  u.u Penso di aver imprecato contro lo spettrofotometro quella volta ahah xD Va beh, come al solito mi sono persa a parlare.

Altra parte che spero di aver reso bene è l’inizio, dedicato ad Arthur. Fin dall’inizio la mia intenzione era quella di farlo sopravvivere al tentato suicidio, poi ammetto che dopo il capitolo quarto avevo pensato di modificare la storia.. la parte in cui lui si getta dal ponte mi era sembrata.. non saprei neanche io definirla. Insomma, mi era sembrata perfetta per lui, e mi sono chiesta se fosse il caso di far finire lì il personaggio. Ma avrei dovuto rivedere troppe cose, e alla fine ho tenuto fede al progetto originale. Inoltre, devo ammettere che un po’ mi ci sono affezionata <3

Che dire.. spero che il capitolo vi sia piaciuto, se volete farmi sapere cosa ne pensate ne sarei immensamente felice *-*

Grazie a tutti quelli che mi seguono, che hanno la storia tra le preferite, che recensiscono e non mi abbandonano nonostante sia così lenta a scrivere! Ringrazio per l’ennesima volta Aya_Brea per avermi consigliato Il giovane Holden, il libro che ho appena concluso e mi è piaciuto davvero in ogni sua parte, tanto che non ho potuto fare a meno di citare quel pezzo, proprio del primo capitolo, che cadeva ad hoc.

Grazie ancora a tutti, e buone vacanze!

Un bacione,

Flami

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Capitolo 8
*** Fantasmi tra le vie di Beika ***


In bianco e nero

 

 

 

La paura gli stava dentro come un cane arrabbiato: guaiva, ansava, sbavava,

improvvisamente urlava nel suo sonno;

e mordeva, dentro mordeva, nel fegato e nel cuore.”

(Sciascia L., “Il giorno della civetta”)

 

 

 

8. Fantasmi tra le vie di Beika

 

 

 

 

 

Quando la macchina si fermò, la pioggia aveva appena smesso di cadere. Non mancava molto alle prime luci dell'alba: un nuovo giorno stava per stagliarsi all'orizzonte. Quelle dodici ore si prospettavano impegnative e lontane da alcune distrazione, ma forse non tanto deludenti. Vodka aveva compiuto il suo dovere, stava per portare al suo capo l'uomo che gli aveva chiesto e sarebbe rimasto lì, in attesa di ordini che sapeva sarebbero ben presto arrivati. Gin era sembrato fin da subito interessato a quella storia, e aveva già un piano di cui Vodka ignorava ancora persino i presupposti. Anzi no, qualcosa sapeva, pensò girandosi a guardare il ragazzo che, privo di sensi, era steso sui sedili posteriori della macchina, i vestiti ancora fradici e gli occhi chiusi in quello che, pur ben lungi dall'esserlo, sembrava un dolce sonno ristoratore. I lineamenti di quel giovane erano piccoli e graziosi, sembrava una colombina dalle piume bagnate e pesanti che le impediscono di volare senza intralcio alcuno: Vodka si chiese che cosa avrebbe potuto farsene il capo. Il viso gli faceva ricordare quello di un bambino, ed proprio quello che l'attore sembrava: un bambino un po' troppo alto per la sua età. Davvero era un assassino? Davvero era lui ad aver compiuto quell'omicidio all'Haido City Hotel? E come avrebbe potuto lui portarli a Shinichi Kudo, che cosa poteva saperne quella figurina sperduta, che aveva tentato appena un'ora prima di togliersi di dosso una vita che gli pesava troppo? Vodka si girò di nuovo, sospirando e fissando oltre il parabrezza il buio rischiarato della fine della notte. Si sentiva fiero di se stesso per aver assolto al suo compito in così poco tempo; non considerava che, dopo aver vagato a caso per la città senza alcun successo, aveva contattato Gin, il quale gli aveva suggerito di ritornare su quel ponte da dove tutto era partito. Vodka non aveva fatto altre domande, sapeva che quella del suo capo era un'intuizione e che le intuizioni di Gin difficilmente facevano cilecca. E così Vodka, in assenza di alternative migliori e intuizioni proprie, si era recato lì ed era rimasto in attesa: proprio quando stava per perdere ogni speranza, quel ragazzo si era materializzato accanto a lui. Non era stato difficile portarlo con sé.

Si guardò intorno, osservando il luogo in cui Gin gli aveva detto di recarsi. In quel distributore di benzina ormai dismesso non c'era davvero anima viva. Un vecchio lampione incrostato di ragnatele funzionava ancora, probabilmente per grazia divina, e illuminava appena i dintorni. L'insegna scolorita dal tempo avrebbe forse colpito un animo sensibile con il ricordo di tutte le persone che lì avevano lavorato, e di tutte le vite che vi erano transitate tra un rifornimento e l'altro: la macchina di chi era di fretta e doveva presto raggiungere i colleghi ad un'importante riunione, e imprecava contro quel dannato aggeggio che non accettava la carta di credito; quella più piccola e modesta della ragazza appena patentata che accompagnava a casa l'amica e, traballando sui tacchi, cercava incerta il tubo giusto per ricaricare l'auto del carburante adatto; quella della famiglia che stava partendo per le vacanze, i bambini che, elettrizzati sui sedili posteriori, cantavano a squarciagola la canzone del loro cartone animato preferito, e la moglie che storceva il naso al fastidioso odore della benzina; e infine quella della famiglia che stava rientrando dalle ferie, i bambini addormentati in silenzio e la moglie ancora lì, a storcere il naso per l'odore del carburante.

Ma a Vodka non era stato fatto il dono della sensibilità, e quell'insegna non gli portava alla mente e al cuore assolutamente niente. Lui, uomo di pancia e non di spirito, sentiva solo il disperato bisogno di dover andare al bagno, e quella scritta poco più avanti che diceva con lettere poco chiare aperto 24 ore su 24 gli faceva saltare i nervi.

“Aperto ventiquattro ore su ventiquattro? Col cavolo.” bisbigliò irritato. E poi, tamburellando con le dita sul volante per il nervosismo, rincarò la dose: “Che posto di merda.”

I raggi del sole cominciarono a filtrare attraverso il cielo ed esattamente allora, quasi per una strana coincidenza, le luci della città si spensero. Il vecchio lampione incrostato non fece eccezione. Vodka sbadigliò, e fu allora che sentì il borbottare conoscente di un motore. Quella era la macchina di Gin, ne avrebbe riconosciuto il suono tra mille: era sua compagna di avventure da molto tempo, e spesso si era ritrovata a guidarla quando il suo capo aveva desiderato completa libertà di movimento e azione. La Porsche si accostò a lui, ed entrambi abbassarono i finestrini. Potevano parlarsi agevolmente, dato che la macchina che portava Vodka era in tipico stile giapponese, con la guida a destra, mentre quella di Gin riservava al guidatore il posto di sinistra. Nessuno dei due si girò a guardare l'altro: parlarono e basta.

“Passata una bella nottata?” chiese Gin, col suo solito tono tranquillo e una punta di sarcasmo.

“Non fosse stato per la pioggia, sarebbe stata una notte perfetta, capo.”

Vodka gli lanciò un'occhiata di sbieco: i vestiti e i capelli di Gin erano perfettamente asciutti. Dove era stato in tutto quel tempo, da quando si erano salutati in quello scantinato fino ad ora? I suoi abiti portavano ancora i segni di quella notte frastornante, mentre quelli di Gin erano lindi e puliti e, non fosse stato per l'odore di tutte quelle sigarette fumate che li impregnava, si sarebbero detti appena usciti da una lavanderia.

“Hai fatto in fretta, vedo.”

“Sì, capo. Era sul quel ponte, proprio come..”

“..proprio come ti avevo detto.” concluse Gin, ponendo fine a quella parte del discorso. Vodka non seppe se annuire o dire qualcosa, e alla fine tacque per non sbagliare. Sapeva che Gin non amava le affermazioni superflue. Un leggero alito di vento sibilò attorno a loro, mentre le stelle si spegnevano lentamente nel cielo.

“Dov'è lui?”

“Chi?” chiese Vodka, come colto alla sprovvista. La sua mente, per quanto rifornita, cominciava a sentire i segni della stanchezza, che si manifestavano come mancanza di attenzione e nervosismo.

“Che domande sono? Il nostro attore da quattro soldi.”

Gin era seccato, si notava chiaramente. Vodka cercò di concentrarsi.

“Oh, si certo, io..”

“Ti ho chiesto dov'è.”

“Sul sedile posteriore.” rispose, per poi aggiungere, con un'espressione da duro e la voce tendente al beffardo: “Dorme con un angioletto.”

Fu allora che Gin si girò. Fece voltare lentamente il suo viso, mentre i suoi occhi degnavano appena Vodka per soffermarsi sul finestrino della portiera posteriore. Quando vide quel corpo disteso immobile, privo di sensi e inerme, le ciglia si aprirono, schiudendo due iridi feline e determinate. Le labbra si piegarono in un sorriso sadico, sfigurando quel viso fino ad allora così calmo. Vodka sentì un soffio di voce pronunciare: “Perfetto.”

Conosceva quella voce, conosceva quello sguardo, conosceva quella maschera tinta di soddisfazione che ricopriva il volto di Gin quando era sicuro, quando assisteva alla sua crudele vittoria o ne pregustava tra le labbra il sapore dolce e appagante. Era in quei momenti che Vodka si sentiva importante, in quanto pedina fondamentale di un piano rivelatosi vincente. E se ne se sentiva anche un po' autore, nonostante gli ordini non fosse mai lui a dargli: ma quella soddisfazione surrogata era quanto bastava al suo ego per sentirsi, di tanto in tanto, importante quanto in fondo avrebbe voluto essere.

“Capo.”

Il volto di Gin tornò in un attimo quello di prima. Serio, calmo, imperturbabile, levigato appena da quell'impercettibile goccia di sudore che gli bagnava la guancia, e solo la punta di crudeltà che si diffondeva al lato degli occhi restava a testimoniare la maschera che si era appena, forse senza nemmeno accorgersene, sfilato dai lineamenti.

“Che c'è?”

“Qual è il piano? Insomma, che cosa ce ne facciamo di questo ragazzo?”

“Dobbiamo arrivare a Shinichi Kudo.”

Vodka emise un grugnito che voleva dire: “Questo lo so, ma non capisco il nesso.” Nel suo mondo ideale, almeno per una volta, gli sarebbe piaciuto non farsi spiegare sempre tutto. Ma purtroppo quel mondo era appunto ideale, e con quell'ammasso di cemento che aveva intorno non c'entrava davvero nulla.

“Ascoltami bene, Vodka, perché te lo dirò solo una volta.”

L'uomo con gli occhiali non rispose, ma drizzò ogni antenna del suo corpo per quello che gli sembrava l'ultimo, immane sforzo.

“Per prendere le prede astute bisogna essere più astute di loro, e forse anche un po' più crudeli. Giocheremo sporco, ma giusto un po', di sicuro non più di quanto la vita giochi sporco con noi ogni giorno. Dobbiamo colpire il suo punto debole, e penso che la ragazza ritratta con lui in quella foto possa fare al caso nostro. Ho fatto qualche ricerca mentre tu eri occupato con quell'idiota, e ho scoperto che è la figlia del Detective Kogoro Mouri. La sua agenzia è a Beika, ti ricorda qualcosa?”

“Sì certo, quella sottospecie di imboscata...”

“Esatto.” concluse Gin, senza lasciargli il tempo di concludere la frase. “Proprio quella. E non credo alle coincidenze, almeno non quando sono così rilevanti.”

Vodka annuì, più per compiacere il suo capo che per se stesso. Davvero in quel momento discutere se quella fosse o meno una coincidenza non gli importava. Lui non era in grado di apprezzare e dare il giusto peso ai particolari, e forse non ritenere questo un grave difetto era la sua più grande pecca. Considerare una coincidenza rilevante era per lui un semplice ossimoro.

“Penso che da lei potremmo trarre qualche informazione interessante. Sicuramente il nostro piccolo Sherlock Holmes si nasconderà come ha sempre fatto fino ad ora, ma sono sicuro che non rinuncerà a cogliere l'occasione di comportarsi da patetico principe azzurro, e farà qualche mossa azzardata per salvare la sua amica. E' lei che dobbiamo prendere, nella speranza di far saltare i nervi a Kudo. E se ciò non dovesse accadere, la faremo parlare. Qualcosa saprà di sicuro.”

“Si tratta semplicemente di rapirla?”

“Esatto. La porteremo a fare un giretto con noi.”

“A quando il colpo?”

“A presto, ma non subito. Aspettiamo almeno qualche giorno, dobbiamo studiare meglio la situazione.”

“Non sarebbe meglio colpire direttamente Kudo?”

“Non penso si mostrerà o commetterà imprudenze, ma potrei sbagliarmi. Se entro qualche giorno non si farà vedere, prenderemo la ragazza.”

“Ho capito.” affermò d'un tratto Vodka, come se una lampadina si fosse accesa ad illuminare quella via oscura, “Il piano migliore da attuare sarebbe eliminare subito Shinichi Kudo, senza tanti complimenti. Ma potendosi questo rivelare non possibile, il piano B, talmente probabile da trasformarsi in A, è rapire quella ragazzina.”

Nell'altra macchina Gin si accese una sigaretta, emettendo un verso flebile di assenso.

“Ho solo una domanda.”

“Avevi detto di aver capito.” rispose il suo capo, come se sapesse già, senza ancora averla sentita, che la richiesta di quell'omone occhialuto di sarebbe rivelata nient'altro che una breve quanto indisponente seccatura.

“Non attireremo troppi occhi indiscreti?”

“Chi pensi che potrebbe arrivare fino a noi? La polizia è troppo stupida.”

“E la ragazza? Una volta presa dovremo farla fuori.”

“Non dirmi che ti dispiace.” sentenziò Gin con tono sprezzante e ironico, fissandolo con un sopracciglio alzato in segno di disappunto.

“Il suo corpo potrebbe essere un indizio, o comunque facendo scomparire il suo cadavere e quello eventuale di Shinichi Kudo finiremmo per lasciare il caso aperto, senza apparente soluzione.”

Gin mordicchiò la sua sigaretta, e aspettò qualche secondo prima di rispondere, come sperando che Vodka potesse trovare le ovvie risposte a quelle altrettanto ovvie domande che lui aveva già provveduto a porsi e risolvere. Ma sentendo su di sé solo lo sguardo interrogativo del suo compare, capì che non ci sarebbe arrivato, o almeno non presto. Ponderò le parole in modo da sprecare il minor tempo e fiato possibile: quella sigaretta lo stava rilassando.

“Io invece vedo già i titoli dei giornali che raccontano di un macabro caso di omicidio-suicidio. Sì, e sento anche i servizi dei notiziari che parlano di come il piccolo attore Arthur Newman, ormai assorbito dalla follia, abbia ucciso Shinichi Kudo, il detective che l'aveva smascherato la notte dell'Haido City Hotel, e la sua adorabile fidanzatina, per poi togliersi la vita e concludere la sua miserabile esistenza in un modo che gli altri giudicherebbero forse estremamente melodrammatico, ma che io ritengo del tutto patetico. E forse staremo percorrendo una strada qualsiasi e non penseremo nemmeno più a questo piccolo imprevisto quando la radio diffonderà la notizia del ritrovamento dei loro corpi. Non trovi che sia una storia perfetta per i canoni di questo secolo morto? Un giallo che trova la sua degna conclusione con la fine dei protagonisti, e che non lascia spazio a dubbi sulla loro sorte. Immagino già la scena, Vodka: tu riderai, soddisfatto dell'impresa e penserai già alla prossima, e io.. io forse avrò tratto da tutto questo quello che voglio davvero.”

Tacque, e in quello stesso momento Vodka capì che c'era dell'altro, qualcosa che il suo capo pensava o sperava, che stava già progettando e assaporando, ma che era ancora avvolta nel fumo dell'incertezza. Non era suo compito indagare oltre, almeno non ora che il piano che lo riguardava direttamente gli era stato illustrato. Con la coda dell'occhio sbirciò quel ragazzo, ancora addormentato, e si chiese per quanto ancora l'effetto del sonnifero sarebbe durato. Quell'esile figura dalle mani sporche di sangue sarebbe ben presto diventata una loro pedina, fondamentale per poter rimanere in gioco dietro le quinte. Era tutto lì il loro mestiere: agire e non farsi mai scoprire. L'ombra era la casa alquanto comoda dove alloggiavano, e l'affitto si pagava col sangue altrui.

“Tu occupati del ragazzo. Se incontri Vermouth non raccontarle molto su questa storia, anzi preferirei che tenessi la bocca chiusa. Quella donna non mi convince e non la voglio tra i piedi. Per oggi non hai altro da fare.”

Per poco Vodka non si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo: restò impassibile e professionale, senza sapere nemmeno lui come.

“E tu, capo? Cosa farai?”

Gin accese il motore, che borbottò come a dire che era pronto per partire. Spense la sigaretta e la lasciò cadere per terra, e prima di mettere in moto e sparire in quella poca penombra dell'albeggiare che ormai rimaneva disse solo: “Io penso che andrò a farmi un giretto a Beika.”

 

 

 

 

Ran scostò le tende della finestra, diede un'ultima aggiustata al letto appena rifatto e uscì dalla camera. Le nubi stavano scomparendo all'orizzonte, e le scuole erano chiuse: sarebbe stato un giorno perfetto e felice per una qualsiasi liceale, eppure Ran sentiva che non aveva di che sorridere. Aveva passato tutto il giorno precedente a fissare indolente il telefono che non si decideva a squillare, vibrare o dare alcun segno di reale funzionamento. Eppure era lì, lo schermo perfettamente illuminato a ricordarle data e ora. Ma Shinichi non chiamava. Che cosa era successo questa volta? Per quanto alle volte si dicesse che doveva smetterla di pensarci e ripensarci, di arrivare addirittura a credere di aver sbagliato qualcosa, di averlo in qualche modo allontanato da lei, non ce la faceva mai. La mente ricadeva sempre nella stessa trappola, e tutto rincominciava da capo.

Erano solo le nove di mattina e quella giornata le sembrava già iniziata da un millennio. Non era riuscita a dormire bene, e il rombare dei tuoni l'aveva scossa. Aveva un brutto presentimento, e quella notte, nel silenzio tuonante del suo letto, si era impossessata di lei una sgradevole sensazione. Come se qualcosa stesse strisciando tra le vie della città, come se qualcosa stesse venendo a prenderla. Presa dall'angoscia, si era alzata in silenzio e aveva bevuto una camomilla calda, che però non era servita a rilassarla granché. In cucina trovò ancora la tazza e il cucchiaino poggiati sul tavolo: li avrebbe puliti dopo, in quel momento non ne aveva davvero la voglia. Si lasciò andare sul divano. Lo studio era chiuso, suo padre era stato contattato dall'ispettore Megure che gli aveva chiesto di recarsi in centrale, affermando di volergli parlare urgentemente. Forse c'erano novità sul caso dell'Haido City Hotel. Pensò di accendere la televisione e aspettare il notiziario, ma alzarsi per arrivare fino al telecomando le parve una fatica insostenibile. Stette semplicemente lì, lasciando scorrere all'indietro il film di quei giorni, e ripensando a come si era addormentata tranquillamente solo una notte prima, cullata dalla voce di Shinichi e dalle mani di lui che le accarezzavano i capelli. In quel momento non c'era stato nessun imbarazzo tra di loro, solo una sensazione di beatitudine e complicità.

Il suono del campanello la fece sobbalzare. Chi poteva essere? Suo padre doveva aver lasciato fuori il cartello che indicava la chiusura dello studio. In punta di piedi si incamminò verso la porta, con la segreta speranza nel cuore che fosse Shinichi. Lo spioncino congelò ogni possibilità. Dall'altra parte vi era una donna distinta, dal viso bello ma leggermente tirato, come segnato da una preoccupazione profonda. I lunghi capelli neri le scendevano fino alla schiena, contrastando in maniera nitida ed affascinante con la pelle candida. Doveva trattarsi di una cliente, forse era un caso urgente. Ran fece scattare la serratura, e aprì la porta sorridendo.

“Salve, signora. Purtroppo il detective Mouri non c'è, la prego di ripassare, oppure se..”

“Ran.” disse la donna con voce seria, come a volerla riportare alla realtà. Il tono diceva a chiare lettere che quella donna la conosceva.

“Scusi, ma lei..”

La donna, senza aggiungere altro, si lasciò scivolare dentro, e richiuse la porta alle sue spalle. Ran la fissava attonita. Quel volto non le diceva molto, ma quella voce la riconosceva, assomigliava terribilmente a quella della madre di Shinichi. Possibile che fosse davvero lei?

“Ran.” la chiamò ancora, come a confermare i suoi sospetti, “sono io, Yukiko, la madre di Shinichi. Devo parlarti, tuo padre non c'è?” chiese avanzando nello studio, che conosceva come fosse casa propria. Ran era rimasta leggermente indietro.

Yukiko sorrideva, ma la ragazza, spaesata, non poteva fare a meno di notare una certa agitazione nella voce della donna. Cosa era successo? Perché Yukiko si presentava da lei ora, così abilmente travestita? Ran non poté fare a meno di pensare al peggio.

“Yukiko, è successo qualcosa? Shinichi..” iniziò titubante, sedendosi e invitando la donna a fare altrettanto. Yukiko capì di averla messa in agitazione. Aveva pensato tutta la notte alle parole opportune da usare, eppure in quel momento le sembrò di non sapere da dove cominciare. Ran la guardava con occhi angosciati e Yukiko capì che stava per porle l'ennesima disperata domanda. Doveva parlare.

“Ran, prometto che risponderò a qualsiasi cosa. O meglio, a qualsiasi domanda potrò rispondere. Ma ora devi ascoltarmi: quello che devo dirti è importante.”

Strinse le mani della ragazza alle sue, e quello che prima per Ran era un sospetto divenne una certezza. Gli occhi di Yukiko, sotto lo spesso strato di trucco, non presagivano nulla di buono.

“Tu padre non è con te?”

“E' uscito. L'ha fatto chiamare Megure, doveva parlargli urgentemente.”
Yukiko non sembrò stupita, e il battito del cuore di Ran divenne un continuo sussulto. La donna trasse un profondo respiro prima di parlare.

“Probabilmente l'ispettore ha voluto dire di persona a Kogoro quello che io ora dovrò dire a te. Lo so che forse ti sembrerà assurdo, così all'improvviso, ma sei in pericolo, o potresti esserlo.”

Ran sgranò gli occhi. Si aspettava una brutta notizia riguardante Shinichi, e invece quella per cui tutti erano preoccupati era lei. Lasciò nervosamente le mani di Yukiko, come d'istinto. La donna capì di non aver forse pronunciato le parole adatte, se mai fossero davvero esistite.

“Co-cosa?” balbettò la ragazza. “Io non capisco. Non ho fatto assolutamente nulla che..”

“Tu no, Ran. Ma purtroppo spesso non basta non fare nulla per non essere in pericolo.”

“Questo non mi consola affatto!” sbottò impulsivamente. Si rese conto subito dopo di essere stata troppo dura, e guardò la madre di Shinichi con occhi lucidi.

“Scusa, io.. non capisco davvero.. Shinichi che è andato via così all'improvviso dopo quella notte finita in tragedia, e stanotte non ho chiuso occhio e..”

Si rannicchiò su se stessa, tremante. Yukiko l'abbracciò.

“Sei tu a dovermi scusare Ran. Non avrei mai voluto venire qui a dirti qualcosa del genere. Ma purtroppo non abbiamo scelta.”

Ran la osservava in silenzio. Il suo sguardo chiedeva solo una spiegazione.

“Shinichi è implicato in un caso complicato. E' lo stesso caso a cui sta lavorando da quando è.. beh, per così dire, scomparso dalla circolazione.”

“Su chi sta indagando?”

“Non posso dirtelo.”

Ran prevedeva la risposta, e sorrise tristemente: “Lo immaginavo.”

“Fidati, è per il tuo bene. La notte della presentazione del libro all'Haido City Hotel Shinichi non era intenzionato a presentarsi pubblicamente. Era un evento troppo importante, e la sua presenza avrebbe potuto destare scalpore. E lui non può permetterlo, perché..”

“Perché?” incalzò Ran. Yukiko esitò, titubante se dire o meno la verità. Ma era intenzionata a dare a quella povera ragazza quante più spiegazioni possibili. Ciò che non la metteva in pericolo, poteva anche saperlo.

“Perché gli uomini su cui sta indagando lo credono morto.”

Ci fu un attimo di silenzio. Alla parola morto Ran ebbe un brivido.

“Era il modo più sicuro per indagare. Sono persone senza scrupoli, e per loro la parola d'ordine è eliminare chiunque si ponga sulla loro strada. Chiunque, anche se solo sospettati di conoscerli o sapere qualcosa di troppo.”

Ran non poteva fare a meno di pensare a quella sera, al Tropical Land, quando Shinichi era corso via per non tornare più se non improvvisamente e di rado. Era per proteggerla che evitava di vederla? Non voleva che quegli uomini potessero identificarla come una sua amica o alleata? Yukiko, come se le leggesse nel pensiero, disse: “Tutto quello che Shinichi ha fatto finora, lo ha fatto solo per proteggerti. Non voleva metterti in pericolo, Ran.”

Una lacrima silenziosa le scese sulla guancia, e si affrettò ad asciugarla. Che le prendeva? Non era da lei piangere così. Eppure la consapevolezza che Shinichi avesse fatto tutto quello che per lei, che in quei mesi avesse sofferto quanto se non più di lei, le era, per così dire, di conforto.

“Ma se tutto questo è vero, come mai la scorsa notte..”

Ran lasciò la domanda a metà, ma Yukiko l'afferrò al volo.

“Lui ci teneva, voleva.. voleva vederti.” disse. La sua, in fondo, non era una bugia. Anche se a riportare Shinichi il piccolo Conan era stato un errore, la donna ben conosceva i sentimenti del figlio.

“Ma così.. così ha rischiato di mettere in pericolo la sua vita..” balbettò Ran.

“Forse ritiene che ci siano momenti per cui valga la pena rischiare tutto.”

“Io.. io non so che dire.” disse ancora Ran. Tutte quelle notizie in un solo momento l'avevano assordata. Sentì un bruciante senso di colpa per tutte le volte in cui aveva pensato che Shinichi la trascurasse o in cui era arrivata a credere che non gli importasse in fondo così tanto di lei.

“La scorsa notte nessuno doveva vederlo, e invece la sua foto è finita sulla prima pagina di un giornale. Con te.”

Ran ripensò al giornale che teneva custodito in camera, e alla foto che aveva ritagliato il giorno prima. Aveva sperato che Shinichi la contattasse, ma lui non si era fatto sentire e lei, forse con una punta di orgoglio, aveva fatto altrettanto, continuando a pensare a quel singolo istante in cui lui le aveva mormorato: “Sei bellissima.”

“Se quella foto finisse sotto gli occhi sbagliati, tu saresti in grave pericolo Ran. Non esiterebbero a cercarti e a prenderti.”

“Ma io, cosa dovrei..”

“Devi abbandonare la città. Subito, insieme a tuo padre. Non c'è tempo da perdere.”

“E' per questo che Megure l'ha fatto chiamare? Lui sa che..?”

“Gliene ha parlato Yusaku.”

“Io non..”

“Mi spiace, Ran. Lo so che è dura, ma non c'è tempo per i dubbi.”

Come colpita da quell'affermazione, Ran scattò in piedi. Yukiko fece altrettanto.

“Dovrei fuggire, abbandonando Shinichi? Che ne sarà di lui?”

“Tu non hai colpe, Ran, se non quella di essergli affezionata. Hai bisogno di protezione.”

“E lui, lui no? Come posso lasciare la città sapendo che lui è in pericolo, che rischia di..”

“Shinichi può affrontarli.”

“Da solo?”

“Ha degli alleati.”

“Chi?”

“Non posso dirti niente, Ran.”

“Io non mi muovo da qui.”

Yukiko comprendeva perfettamente i sentimenti che muovevano la ragazza, perché erano gli stessi che, un giorno prima, aveva provato lei. Ma non potevano permettere che Ran restasse lì: avrebbe cercato Shinichi, e sarebbe finita in guai più grandi di lei.
“Ran, ti capisco, ma credimi..”

“Dov'è lui? Lo sa? Andrò da lui. Lo aiuterò.”

“Ascoltami, Ran. Shinichi avrebbe voluto venire a parlarti di persona, ma sono stata io a convincerlo che non era il caso. E' troppo pericoloso. Io stessa ho dovuto adottare questo travestimento.” disse, indicando il proprio volto.

“Io non posso.”

“Fidati, se ci fosse un'altra soluzione sarei la prima a dirti di rimanere. Ma non puoi, almeno non per ora. Tu e tuo padre dovete lasciare questo posto. Fallo per Shinichi. Lui vuole solo proteggerti. Quando tutto sarà sistemato, te lo prometto, non ci sarà bisogno di soffrire ancora.”

Ran sembrò acquietarsi. Ora non stringeva più i pugni. Le mani pendevano inerti.

“E mia madre?”

“Contatteremo la polizia per controllarla. Lei non è comunque coinvolta quanto voi.”

“E voi?”

“Ce la caveremo.”

“Che farete?”

“Meglio per te non sapere nulla di più.”

Quella frase la fece rabbrividire.

“E Conan?” chiese, come se se ne fosse appena ricordata.

“Conan starà dal dottor Agasa, insieme ad Haibara.”

“Se sono davvero in pericolo, deve venire con me. Lui sentiva spesso Shinichi e..”

“Fidati, lui non c'entra.”

La voce di Yukiko era così sicura e rassicurante che Ran finì per convincersene.

“Immagino che non lo potrò nemmeno salutare.”

Qui Yukiko esitò un attimo. Aprì la bocca per parlare, poi tacque. Alla fine disse: “Meglio di no.”

“E i miei amici? Sonoko?”

“La rivedrai presto.”

Ran fece qualche passo verso le finestre dello studio e scrutò la strada. Tutto sembrava tranquillo.

“Pensano tutti che sia più facile fuggire che affrontare il nemico in prima linea.” disse, come pensando ad alta voce. “Quanto vorrei che fosse davvero così.”

Yukiko le si avvicinò. Lo sguardo di Ran era perso oltre il vetro, come se fosse alla ricerca di una figura, una voce, un qualsiasi fantasma tra le vie di Beika che la rassicurasse e le desse la forza per capire quale fosse davvero la via giusta da prendere.

“Perdonami, Ran.”

“Non c'è niente di cui debba scusarla. In fondo, da quando lo conosco, Shinichi non ha mai preso un granchio. Se lui pensa che sia giusto così, così deve essere, non credi?”

La ragazza sorrise debolmente. Se non poteva convincersi di star facendo la scelta giusta, non le restava che fidarsi di Shinichi. Lui non l'aveva mai tradita e, lo sapeva, non l'avrebbe mai fatto. Mentre voltava il capo lontano dalle vie della città, due occhi la osservavano da poco distante.

Shinichi, solo un po' più basso e con un viso diverso, stringeva i pugni chiedendole di perdonarlo. La sua malinconia si tramutò in rabbia al pensiero di quegli uomini vestiti di nero che, ne era certo, si sarebbero fatto ben presto vivi. Non avrebbe mai lasciato che toccassero Ran. La sua Ran.

 

 

 

 

Il sole splendeva come se quello fosse uno dei giorni migliori dell'anno. La tempesta di quella notte sembrava solo un ricordo lontano, nonostante a sua testimonianza fossero rimaste numerose pozzanghere, qualche alberello abbattuto dal vento, e il gazebo di un negozio sventrato dalla forza della natura. Ma la gente dimenticava in fretta, quel sole metteva il buon umore e i sorrisi stampati sui volti delle persone che camminavano accanto a lui erano innumerevoli. A Gin, invece, quel sole non faceva né caldo né freddo. Anzi, ad essere sinceri forse solo un po' di caldo, perché la temperatura si era impennata nell'arco di qualche ora e quel nero che amava tanto indossare non era certo la protezione più adatta contro il caldo che si affacciava sulla primavera di Tokyo. Slacciò i bottoni del suo cappotto, ma sistemò ancora meglio il cappello sul capo: non gli andava di mostrare il suo viso tra le vie di Beika. Il suo passo cadenzato si fermò, aspettando che il semaforo diventasse verde. Quel maledetto aggeggio era intenzionato più che mai a fargli perdere tempo: se solo avesse potuto, avrebbe estratto la pistola, sparato due colpi, fermato ogni macchina, e attraversato la strada senza aspettare un secondo di più. Purtroppo il suo compito era restare nell'ombra, e per quanto in generale amasse quella condizione, alle volte avrebbe volentieri ridisegnato il mondo. Meno scrupoli, meno idioti per le strade, meno sentimentalismi che non portavano a nulla. Eppure se il mondo fosse stato a misura per lui, non si sarebbe potuto divertire a fracassarlo ogni volta che ne aveva voglia o che gli veniva ordinato. Quindi, in fondo, forse andava bene così. Verde. Si mischiò nella folla di passanti, mimetizzandosi per come poteva. Mancava ancora qualche isolato all'agenzia di investigazioni Mouri, ed era esattamente da lì che voleva passare. Non che si aspettasse di vedere o trovare qualcosa, voleva solo dare un'occhiata. Controllare che fosse tutto a posto, tutto apparentemente normale. La normalità era davvero una buona maschera sotto la quale agire, un concetto che pur apparendo banale nascondeva al suo interno ingranaggi più astrusi di un orologio d'epoca.

Ebbe d'un tratto la sgradevole sensazione di essere osservato. Rallentò il passo senza fermarsi, e si guardò intorno cercando di non dare nell'occhio. Dopo qualche sbirciata tesa e precisa, fu abbastanza sicuro di poter procedere. Forse le poche ore di sonno iniziavano a tirargli qualche scherzo: si chiese come se la stesse cavando Vodka con il suo prigioniero del tutto innocuo, ma constatò infine che, non essendoci pericolo di complicazione alcuna, non gli interessava più di tanto. L'importante era avere quell'attore lì, pronto per coprir loro le spalle pur non sapendolo. Dubitava che Shinichi Kudo avrebbe fatto una mossa avventata, sembrava una preda fin troppo astuta e da non sottovalutare. Ma se pensava di averli in mano o di poter loro sfuggire di nuovo, allora si sbagliava di grosso: la morte che Gin portava con sé non falliva due volte. Shinichi Kudo era condannato e non c'era via di scampo, così come la sua graziosa ragazza che, Gin ne era certo, li avrebbe portati a lui. Prima di quell'esecuzione, però, voleva accertarsi di una cosa. Era sicuro che Sherry c'entrasse qualcosa in tutto quello. Lo sentiva, e non c'era bisogno di aggiungere altro. Una mosca continuava a ronzargli in testa, dicendogli che quella era la pista giusta da seguire per riprendersi infine Sherry, e per punirla per il suo eroico tradimento e la sua dannata e incomprensibile fuga. Com'era fuggita da quella gabbia in cui era rinchiusa, come aveva fatto a scivolare via da quelle manette, a dissolversi come neve al sole? Dov'era andata, cosa aveva fatto in tutto quel tempo? Cos'era successo da quella notte Haido City Hotel, dove si era rifugiata? Di lei era rimasto solo il sangue su quel tetto, e il ricordo di un freddo pungente tanto quanto l'anestetico che qualcuno gli aveva scherzosamente rifilato. Quel qualcuno..che fosse stato Shinichi Kudo?

Gin svoltò l'angolo, e accelerò nuovamente il passo. Era sicuro che quel caso lo avrebbe portato più vicino alla verità. E se fosse davvero riuscito a riavere Sherry, allora.. strinse i pugni, mentre le sue pupille si dilatavano in uno spasmo di desiderio e vendetta. Aveva un conto in sospeso con Sherry, una soddisfazione che doveva ancora strapparle e uno sguardo di supplica che voleva ancora vederle sul volto.

Lanciò via quei pensieri che, per quanto lo spingessero ad andare avanti, lo distraevano da quello che era per ora il suo compito. Passando davanti al palazzo dove aveva sede l'agenzia investigativa di suo interesse, alzò lo sguardo. Le persiane erano abbassate e non sembrava esserci anima viva all'interno, nonostante non fosse ancora ora di chiusura. Fece qualche passo indietro, fino a raggiungere la scalinata che portava all'ingresso dello studio. Un foglio vi era attaccato, sembrava un avviso per i clienti, ma da quella distanza non riusciva a leggere. Salire le scale e controllare cosa vi fosse scritto sarebbe stata la soluzione più semplice, ma aveva notato la telecamera che puntava dritta sull'ingresso. Poteva essere accesa, e non era di certo una buona idea farsi riprendere come il primo pivello. Lanciò un'occhiata intorno in cerca di una soluzione: a quella distanza nemmeno lo zoom del cellulare poteva aiutarlo. Notò un bambino che passava di lì, il naso attaccato al manga che stava leggendo e un'espressione totalmente ebete stampata sulla faccia. Cercando di non pensare a quanto poco certi metodi si addicessero a lui, si avvicinò al bambino, sbarrandogli la strada. Quello, vedendosi improvvisamente oscurato dall'imponente figura, staccò gli occhi dal suo fumetto e alzò lo sguardo. Quando vide l'uomo che non sembrava intenzionato a farlo passare, la sua bocca si contorse involontariamente in una smorfia di paura e il manga gli cadde di mano. Gin aveva tutto l'aspetto dell'Uomo Nero delle filastrocche per i più piccini.

“Cos'è quella faccia? Non voglio mica farti del male.” scandì l'uomo con voce atona.

Gin si chinò, osservandolo con freddezza. Il bambino aveva preso a tremare.

“Mi serve solo un favore.”

L'altro annuì, temendo cosa sarebbe potuto accadere se non avesse obbedito.

“Allora sali quelle scale, e leggi quello che c'è scritto sul foglio appeso alla porta. Poi torna qui e dimmelo.”

“M-mi scusi, ma p-perché lei non..” iniziò balbettando il ragazzino.

“Fai quello che ti dico.”

Il bambino non osò dire altro. Corse come un pazzo saltando due gradini alla volta, e meno di un minuto dopo era già di ritorno, paonazzo in volto per la fatica e per la paura. Recitò a memoria, sparando le parole di botto, come una mitragliatrice.

“Chiuso per lutto, riapriremo il prima possibile.”

Gin socchiuse gli occhi e l'ira, pur trattenuta, distorse i suoi lineamenti. Il bambino fu percorso da un brivido, stava per scoppiare a piangere.

“Non c'era altro?”

Scosse violentemente la testa.

“Beh, allora..” disse ancora l'uomo, chinandosi nuovamente e cercando qualcosa in tasca, “questi sono per il favore che mi hai fatto. Comprati quello che vuoi. E dimenticati di me, che è meglio.”

Gli diede qualche spiccio e gli voltò le spalle prima di vederlo scappare via. Che cos'era quella storia, perché improvvisamente l'agenzia era chiusa? Non credeva alle coincidenze. Che Shinichi avesse capito le sue intenzioni e previsto le sue mosse? Ma per quanto furbo fosse, come faceva a conoscerli così bene da arrivare addirittura a capire qualche avrebbe potuto essere il loro piano, su chi avrebbero puntato? Un flash gli illuminò la mente. Sherry..

Sentì improvvisamente qualcosa che gli urtava da dietro una gamba. Abbassò lo sguardo, e vide una bambina a gattoni per terra accanto a lui, le ginocchia sull'asfalto e le braccia a sostenerla, come se fosse appena caduta. Era stata lei ad urtarlo? Forse correva e nella foga aveva sbattuto. Era talmente nervoso per quanto appena successo che stava per afferrare il braccio di quella povera creatura, voleva fissarla in faccia e guardare il viso di lei spaventato dal suo solo sguardo. Era così appagante fissare la paura negli occhi degli altri, e sapere di avere in pugno i loro sentimenti. Lo faceva sentire terribilmente forte.

Ma la piccola, come se avesse fiutato il pericolo, sfuggì e scappò via senza dire una parola né voltarsi. Gin la guardò sparire tra le gambe della gente, e batté furioso il piede per terra. Dannati bambini. Aveva bisogno di una sigaretta e aveva finito il suo pacchetto. Fu allora che gli sembrò di sentirlo: la scia di un profumo che ben conosceva. Possibile? Lui non sbagliava, almeno non su di lei. Era stato un attimo, quel profumo l'aveva colpito e ora era di nuovo lì nella sua testa ad ossessionarlo. Si guardò intorno, ma non c'era niente che potesse dargli un suggerimento. Davvero l'aveva solo immaginato? Si fermò al distributore di sigarette. Mentre inseriva le monete, ebbe di nuovo la sensazione di essere osservato e questa volta, con la coda dell'occhio, non gli sfuggì una figura che svoltava poco prima in un vicolo, un cappuccio nero sul volto. Prese le sue sigarette e si incamminò dalla parte opposta. Il quartiere di Beika quel giorno sembrava pieno zeppo di fantasmi.

 

 

 

Ai corse fino a non sentire più nemmeno una goccia di fiato nei polmoni. Quando capì che non ce l'avrebbe fatta a muovere un solo passo in più, si infilò nella prima strada secondaria che incontrò, e cadde a terra ansimando. Si asciugò con il dorso della mano la fronte imperlata di sudore e stette immobile finché il battito del suo cuore non tornò regolare e il respiro si fece meno affannato. Un passante si fermò a chiederle se aveva bisogno di aiuto, ma lei scattò in piedi scuotendo la testa e, senza dire una parola si incamminò lasciando l'uomo attonito e un po' stranito.

Per quel pomeriggio Yusaku aveva proposto di fare un giro nei dintorni, per controllare se tutto fosse tranquillo o meno. Il travestimento ad opera di Yukiko era riuscito talmente bene che, sicuri di non essere riconosciuti, i due adulti avevano acconsentito a far venire anche i bambini, se così potevano essere definiti. E Ai, tranquilla sotto al suo nuovo caschetto biondo e all'abile make-up, aveva convinto Conan a fare un giro da sola per alcuni isolati. Ed effettivamente non aveva avuto paura, o almeno finché non aveva visto stagliarsi, a soli pochi metri da lei, la sagoma imponente di un uomo vestito di nero. Non c'era stato bisogno di distinguerne i lunghi capelli biondi che lo caratterizzavano, l'aveva capito in un solo attimo: era Gin. In quel momento aveva sentito una stretta al cuore, e un brivido diffondersi pulsante per tutto il suo corpo. In quel momento sì, aveva avvertito chiara e nitida la paurosa sensazione del terrore. E sotto i morsi laceranti della paura aveva cominciato a correre, correre, e invece di allontanarsi da lui era stata persino in grado di urtarlo. Pregò che lui non l'avesse riconosciuta, che non l'avesse vista in volto, che l'avesse presa solo per una stupida bimba spaesata. Dannazione, non era stata in grado di mantenere il controllo. E ora, dove si trovava? Persa nei suoi pensieri, con le gambe che le tremavano ancora per i rimasugli della paura e dello sforzo, non riusciva a capire in che stradina fosse approdata. Si guardò intorno, pensando che bisognava fare qualcosa. Gin non poteva essere solamente in visita tra le vie di Beika, non era solo un fantasma del passato tornato a tormentarla, era l'incubo di un presente che sapeva prima o poi sarebbe arrivato. Ma che cosa cercava? Chi voleva controllare, e soprattutto perché era venuto lui, in prima linea? L'aveva incontrato poco più avanti dell'agenzia di Mouri: che fosse solo una coincidenza? O che avesse visto davvero la foto del giornale, e quella lo avesse portato a scoprire l'identità di Ran? Per fortuna, a quell'ora la ragazza e il padre dovevano essere già sull'aereo che li avrebbe portati lontano da ogni pericolo. Ma se davvero Gin voleva mettersi sulle loro tracce, prima o poi li avrebbe trovati. Avrebbe trovato Ran e Shinichi, a costo di inseguirli fino in capo al mondo. Che cosa poteva fare lei? Nel momento stesso in cui si pose quella domanda, alzò lo sguardo. Poco distante c'era una piccola insegna sbilenca, un negozietto scuro e poco attraente, incastonato tra un parrucchiere e una vecchia libreria consunta. Un piccolo cartello in quella che sembrava una vetrina diceva:

 

“Vuoi essere un altro per un giorno, per una festa, per una speciale occasione? Travestimenti e trucco perfetti per chi è stufo della propria identità.”

 

Ai lesse la scritta e sorrise. L'idea poteva non essere male, anche se i risultati non erano, a giudicare da un prima occhiata, del tutto garantiti. Eppure forse valeva la pena provare: in fondo quella era un’occasione speciale.

 

 

 

 

 

 

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Con il ritardo che mi caratterizza (perdonatemi!), ecco l’ottavo capitolo. Speravo di riuscire a postare entro agosto, ma purtroppo sono successe un po’ di cose che, sommandosi allo studio per l’ultimo esame, mi hanno tenuta lontana dalle pagine di word. Spero che il capitolo vi sia piaciuto, anche se come al solito mi convince poco.

Ringrazio ExecutionKla che ha recensito e Aya_Brea che mi ha fatto tempestivamente sapere che cosa se pensava <3 Ne approfitto inoltre per farle un grandissimo in bocca al lupo per l’esame che tra poco dovrà affrontare (che Krebs sia con te) e per tutto il resto <3 Ti voglio bene, grazie per incoraggiarmi e sopportarmi :) Ringrazio anche Il Cavaliere Nero, per le belle parole che ha speso su questa storia *-* Sono onorata u.u

Grazie inoltre a Cristina__98 che ha iniziato a leggere:)

Grazie anche a tutti coloro che leggono e hanno la storia tra le preferite, ricordate o seguite :)

                                       Un saluto e un bacio a tutti voi!              

Flami

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** Rosso sangue su bianco immacolato ***


 

In bianco e nero

 

 

 

There is nothing to writing.

All you do is sit down at the typewriter and bleed.”

(Ernest Hemingway)

 

 

 

9. Rosso sangue su bianco immacolato

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il lettore ha un'unica, grande e salda convinzione che sarà in grado di salvarlo sempre, anche quando i sensi alterati dalle preoccupazioni gli faranno vedere un mondo che gira al contrario: tra le pagine di un libro si troverà sempre conforto, in una sorta di alienante e rassicurante rifugio. Lo scrittore, poi, ha un'altra grande fortuna: quella di essere in grado non solo di sentire sulla propria pelle le storie degli altri, ma anche di vivere quelle che da sempre sogna e quelle che desidera far sognare agli altri.

Yusaku, seduto su quella panchina sotto cui danzava una scomposta ragnatela, fissava il suo taccuino. In realtà, non avrebbe saputo dire se era lui ad osservare quella pagina bianca o quel colore vuoto a implorargli di riempirlo. Lasciò scivolare la matita sul foglio, fermandosi ad ascoltare, al di là di ogni voce e di ogni comune rumore, il suono strisciante e familiare della grafite che si infrangeva sulla carta. Quello era il momento più frustrante, era il momento in cui di storie da raccontare ce n'erano, ma mancavano le parole per farlo. Era una sensazione di orribile impotenza che chi non è abituato a vivere nei propri personaggi non avrebbe mai potuto capire. Si morse il labbro, chiudendo il taccuino con stizza, e lasciando la matita come segnalibro.

Guardò il mondo che si agitava intorno. I banchetti del mercato poco distante, il volto stanco dell'uomo oltre la bancarella che fissava sconsolato i possibili clienti passare avanti, pensando che anche quel giorno avrebbe venduto, come sempre, troppo poco. La mamma con un bambino in una mano e nell'altra il passeggino, dove dormiva indisturbato il neonato a cui in quel momento non interessava scoprire le bellezze di quello che lo circondava. E poi, di fronte a lui, dall'altra parte del sentiero, due anziani segnati dagli anni che discutevano, i bastoni poggiati accanto alla panchina, e i sorrisi che di tanto in tanto mostravano i pochi denti sopravvissuti agli anni. Per un misero secondo Yusaku fu tentato di avvicinarsi, di sedersi accanto a loro, con una domanda stupida nel cuore da porre a chi sembrava aver voglia di rispondere. Che cosa si prova ad invecchiare? E' quello che stava facendo anche lui, che facevano tutti ogni giorno, era la vita che imponeva semplicemente la sua legge dura e chiara, eppure lui in quel momento non lo sapeva, non sapeva che cosa avrebbe provato lì, su quella stessa panchina, con un paio di denti in meno, i dolori alle ginocchia, un bastone accanto e, quasi per consolazione, un po' di saggezza in più.

C'era così tanta vita da raccontare in quei pochi metri, eppure il suo taccuino era ancora bianco. Aveva bisogno di bianco e nero, perché sono quelli i colori di cui vive uno scrittore, e di cui sente sempre la pungente mancanza. Morse di nuovo il labbro, e questa volta così forte da sentire il dolore scuotergli il cervello da quel torpore. Si portò un dito alla bocca, e vide che il labbro sanguinava, regalando al suo indice una piccola chiazza rossa. Senza sapere cosa stesse facendo, aprì di nuovo il taccuino, fissò per un attimo la pagina bianca, e poi lasciò il dito scivolare su di essa. Una striscia rossa dipinse la carta, fondendosi con essa e rendendola appena ondulata. Forse per quel giorno non avrebbe potuto raccontare a quella pagina una storia, ma lì, in quella piccola striscia, c'era tutto quello che avrebbe voluto dire o di cui non sapeva nemmeno di voler parlare. La fissò per un secondo, e poi rischiuse il taccuino, chiedendosi se stesse impazzendo. Lo ripose nella tasca della giacca senza pensare altro, e si alzò, dando le spalle ai due vecchietti che continuavano a parlare tra loro. Covava dentro di sé la sensazione di non potersi avvicinare, di essere un estraneo in quel mondo di anime registrate negli archivi di un'anagrafe. Lui in quel momento non era Yusaku Kudo, lui non era nessuno agli occhi di quella società, non rappresentava nulla per quelle persone, non aveva una data di nascita, una carta di identità o un passaporto per accedere al mondo dei vivi riconosciuti. In un'altra occasione, in un altro stato d'animo avrebbe forse chiamato tutto quello libertà: ora non era altro che una grande solitudine.

Si incamminò lontano da quelle voci, non accorgendosi che i suoi passi lo guidavano verso il grande fiume che attraversava quel quartiere. Era incredibile la vita: fino a qualche giorno prima non si sarebbe nemmeno soffermato a guardare quell'acqua, a tratti sporca e malconcia, ed ora invece l'avrebbe implorata di restituirgli almeno il corpo di quell'assassino che, seppur a torto, non poteva fare a meno di compatire come vittima. Attraversò la strada e si appoggiò alla balaustra, lasciando che l'alito di vento che si sollevava appena tra i palazzi gli rinfrescasse il volto. Si grattò la guancia, infastidito dalla barba che Yukiko gli aveva magicamente fatto crescere in qualche minuto. Fu allora che vide quello che inizialmente non gli sembrò altro che una macchia di sporcizia sul velo teso dell'acqua. Strinse gli occhi nel tentativo di correggere quello che nemmeno gli occhiali compensavano e capì che quella chiazza incagliata sulla riva del fiume altro non era che una scarpa. Una scarpa che ben conosceva. Sentì il cuore perdere un battito e il corpo sudare in un solo secondo quello che non avrebbe sudato nemmeno ad una marcia olimpica. Strinse tra le mani la balaustra fino a sentirla tremare sotto i suoi palmi, e per un attimo fu tentato di scavalcarla, lasciarsi scivolare sul cemento, poi arrivare lì sulla riva, tra quei fili di erba che crescevano alla faccia dell'inquinamento e dell'asfalto, e prendere quella scarpa che sembrava incagliata, o che forse lo stava solo aspettando. Avrebbe significato avere qualcosa, qualcosa che gli dicesse che quello non era stato solo un brutto sogno e che non l'avrebbe mai potuto cancellare: sarebbe stata il macigno indelebile sul suo cuore, eppure non poteva fare a meno di sentire che saltare quella protezione e correre giù era la cosa più giusta da fare. Stava già facendo forza sulle braccia quando la corrente sterzò, prese quella scarpa tra le sue grinfie e la trascinò via, prima forte, e poi sempre più piano, finché non divenne che un piccolo puntino all'orizzonte, e poi solo un ricordo annebbiato. E Yusaku non poté fare altro che restare lì, la balaustra stretta tra le mani e una certezza insidiata dalla marcia speranza provocata dal suo senso di colpa, che sarebbe stato infinitamente più lieve senza una vita persa sulla coscienza. Se fosse stato tutto soltanto un sogno, di quelli in cui ti svegli nell'esatto momento in cui senti che il peggio sta per accadere e che non hai più alcuna possibilità di sfuggire alle tue peggiori paure, allora sarebbe stato tutto più semplice e forse addirittura più vivo.

 

 

 

 

I passi risuonavano nervosi e pesanti nel corridoio. Era ormai quasi sera, e di ritorno dal quartiere di Beika non erano bastate a Gin tutte le sigarette di questo mondo per rilassarlo dopo quanto aveva visto. Era più che sicuro che Shinichi Kudo li avesse anticipati, portando via il suo piccolo angioletto in un luogo che riteneva sicuro. Si morse il labbro per la rabbia, pensando che forse Kudo sorrideva soddisfatto da qualche parte in quella stessa città, ritenendo di avere in mano le redini del gioco. Avrebbe voluto spegnere immediatamente quel sorriso che vedeva impresso nella sua mente: se solo l'avesse avuto tra le sue mani in quel momento, lo avrebbe fatto pentire per quell'affronto. Nel suo cuore freddo e calcolatore era convinto che li avrebbe presi, entrambi, Shinichi Kudo e il suo angioletto, anche a costo di inseguirli fino in capo al mondo. Cercò di mantenere la calma, di distendere i nervi, pensando che doveva agire con cura per acciuffarlo una volta per tutte, senza possibilità di errore. Eppure la sola idea di essere stato raggirato da quel moccioso liceale lo faceva andare su tutte le furie, impedendogli di ragionare lucidamente. Aveva bisogno di uno sfogo per la sua rabbia.

Accanto all'ascensore con cui terminava il lungo corridoio vuoto trovò Vodka. Stava lì, le spalle appoggiate al muro. Lo stava aspettando. Gin sapeva che Vodka aveva portato lì quel tale Arthur Newman: gli aveva fatto sapere che presto sarebbe arrivato, e di aspettarlo per scambiare due parole con il ragazzo. Quando aveva pronunciato scambiare due parole, aveva sentito Vodka sogghignare dall'altro capo del telefono. Erano in una delle loro basi, nella periferia di quella gigantesca metropoli.

“Capo.” lo salutò Vodka con un cenno della testa. Sembrava quasi di buon umore, e pareva aver ritrovato le forze: doveva probabilmente aver dormito alla meno peggio dove gli era capitato, considerando che la giacca era in più punti stropicciata e la cravatta era rimasta chissà dove.

“Come sta il nostro uomo?” chiese diretto Gin, senza un minimo accenno ad un saluto. Vodka capì che il suo capo era nervoso, e decise di tastare lentamente il terreno.

“Dovrebbe essersi svegliato dal suo pisolino.”

“Nessuno sa che è qui?”

“No. Comunque credo che Vermouth non sia in città. Non c'è pericolo che si immischi.”

Salirono in ascensore e Gin premette il pulsante che portava al seminterrato. In qualche secondo furono a destinazione, e si ritrovarono in un corridoio uguale a quello del piano superiore. Bianco e spoglio.

“Perfetto.”

I loro passi risuonarono per quello che sembrava un groviglio di corridoi disabitato, illuminato dalla luce dei neon che rendeva opache le pareti e le piastrelle bianche del pavimento. Al lato, con regolarità, si susseguivano delle porte completamente nere, eccetto per un piccolo quadrato di vetro che permetteva di guardare all'interno. Sembravano molto spesse e, a prima vista, resistenti a ogni tentativo di manomissione.

“Com'è andata a Beika, capo?” chiese Vodka, sapendo che quello doveva essere il nodo cruciale della questione. Di sicuro Gin doveva aver notato qualcosa, e proprio per quello aveva ritenuto opportuno fare una visita al prigioniero.

“Credo che Shinichi Kudo sia stato più veloce di noi: l'agenzia del padre della ragazza era chiusa, le persiane dell'appartamento erano abbassate.”

“Magari erano semplicemente usciti.” ipotizzò Vodka, e notando il sospiro furioso di Gin, si affrettò a dire: “Credi che Kudo abbia capito che siamo sulle sue tracce?”

L'uomo con gli occhiali si fermò davanti ad una delle porte nere, facendo un cenno con il capo, come a dire: “E' questa.”

Gin mise in funzione un piccolo schermetto elettronico incastonato nel muro accanto allo stipite della porta. Sullo schermo apparve una tastiera di numeri e lettere, e veniva richiesta una password da digitare.

“E' questo il problema, Vodka.” rispose Gin, cominciando a sfiorare la combinazione esatta, “Noi non siamo sulle sue tracce. Noi stiamo cercando le sue tracce. Prima o poi ne lascerà qualcuna, forse è solo questione di tempo. In fondo si dice che la vendetta sia un piatto che vada servito freddo: ma io non ho voglia di aspettare tanto.”

Premette un ultimo numero e mandò l'invio. La porta scattò, ma Gin aspettò ancora un attimo prima di entrare.

“Venendo qui con la macchina, sono passato davanti casa dei Kudo. Sembrava tutto chiuso. Forse i suoi genitori sono tornati in America, forse il figlio ha cercato di far fuggire pure loro. Ma questo tizio,” disse, indicando con un'occhiata la porta, “potrebbe saperne qualcosa. In fondo era uno degli ospiti della serata all'Haido City Hotel organizzata dal padre di Kudo. Magari si rivelerà ancora più utile di quanto pensiamo: vedremo di farlo parlare.”

Un ghigno si dipinse sul volto di Vodka, mentre Gin spingeva la porta ormai aperta. Entrarono in quella che era una stanzetta non molto confortevole: il pavimento era costellato dalle stesse piastrelle bianche del corridoio, mentre la parete e il soffitto erano di un intonaco bianco e scrostato, con qualche crepa a ravvivarlo di tanto in tanto. Dal soffitto si spigionava la solita luce bianca che compensava la poca che riusciva a entrare dalla piccola finestrella in alto, sbarrata da una grata. Sulla destra, in un angolo c'era un lavandino e un gabinetto alla turca. Dall'altra parte, solo una piccola branda. Gin storse il naso vedendo in un angolo una macchia di sangue incrostata che ancora sporcava il bianco delle piastrelle: doveva essere del precedente inquilino, che aveva ben pensato di lasciare un suo ricordo prima di andarsene all'altro mondo. L'aria non era il massimo lì dentro e Vodka avanzò lasciando la porta aperta, per far entrare un po' di ossigeno respirabile. Ad un'occhiata di Gin la richiuse immediatamente. Sulla branda stava sdraiato supino Arthur Newman. Era sveglio, fissava il soffitto con uno sguardo perso e mormorava qualcosa, come se stesse pregando o recitando sottovoce. Non sembrava essersi accorto di loro.

Ci fu un attimo di infinito silenzio.

“Ehi tu.” tuonò poi la voce roca di Vodka, con fare che voleva essere intimidatorio. Ma l'attore non si girò, né staccò gli occhi dal soffitto. Smise solo di mormorare quello che stava sussurrando. Gin alzò la mano, facendo intendere a Vodka che doveva tacere. Poi estrasse dalla tasca un piccolo coltellino svizzero, si chinò, prese la mira e lanciò. Il coltellino volteggiò nel silenzio della stanza e andò a conficcarsi nel materasso, a pochi centimetri dal corpo del ragazzo. Quello sembrò scosso da un brivido.

“Ti conviene parlare.” suonò gelida la voce di Gin. “Ne ho un altro esattamente in questa tasca, e non ti illudere che ora non abbia fatto centro per sbaglio.”

Vodka lanciò un'occhiata ammirata al suo capo, paragonando i due modi differenti di entrare in scena che avevano adottato. Dovette indubbiamente ammettere che quello di Gin era molto più maestoso e convincente, a giudicare dal fatto che il ragazzo ora li stava osservando, si era messo a sedere, rannicchiato su quella branda, le spalle completamente spalmate sul muro.

Lanciava occhiate a intermittenza, oscillando tra loro due e il coltellino ancora conficcato nel materasso. Teneva il mento sulle ginocchia, stringendo a sé le gambe con le braccia.

Gin sorrise, anche se quella strana smorfia che si era impossessata della sua faccia assomigliava forse di più ad un ghigno. Si avvicinò a passi lenti al letto, e ad ogni sguardo tremante che il suo ostaggio gli riservava sentiva la soddisfazione e la sensazione di immane potere crescere dentro di sé. Gli bastava muovere un dito per ucciderlo, la vita di quel ragazzo era appesa ad un filo che avrebbe potuto recidere quando più gli sembrava opportuno: ed era questa la sensazione che più lo appagava e che gli permetteva di sfogare le tensioni dovute a qualsiasi noioso e seccante imprevisto. Si fermò a pochi centimetri dal lettino, ed estrasse il coltellino, rigirandoselo tra le mani, senza staccare gli occhi dal ragazzo. I loro sguardi erano ora legati indissolubilmente da terrore ed egemonia.

“Vedo che ci siamo decisi a dare qualche segno di vita. Ho delle domande da farti, e spero tu sia disposto a collaborare senza fare tante storie. Anzi..” e qui si fermò un attimo, spostando lo sguardo sul coltellino, per poi tornare a colpire Arthur con una serie feroce di parole taglienti, “.. credo proprio che lo farai. A differenza di quanto sembra, sono convinto che tu non sia un ragazzo stupido.”

Il labbro del ragazzo tremò, gli occhi erano immobili e i capelli scarmigliati gli conferivano un'aria terribilmente adolescenziale. Sentiva il fiato di quella belva sul collo, il fetore del tabacco e si chiedeva se quella fosse la giusta punizione per il suo crimine. La sua richiesta di morte era stata respinta, e Dio gli aveva riservato un misero destino di tortura. Si immaginò da solo, in mezzo ad una distesa infinta di terra bruciata, con un giudice davanti a lui che pronunziava una sentenza diversa da quella che l'attore si attendeva. Un attimo dopo fu di nuovo lì, in quella stanza dall'elettricità bianca e opaca, a fronteggiare un uomo dallo sguardo poco incline alla compassione.

“I.. I don't speak Jap..” iniziò titubante, ma le sue parole furono stroncante dalla furia del mastino che gli stava addosso. Gin, senza permettergli di pronunciare un'altra sillaba, scattò liberando in un attimo il suo nervosismo: la sua mano avvinghiò il collo di Arthur, spingendolo indietro fino a fargli sbattere la testa contro il muro. Un grido mozzo e soffocato provò a levarsi dalla gola di Arthur, ma non ne uscì che un rantolo. Gli occhi di Gin sputavano fuoco e le sue parole lasciavano trapelare che la sua pazienza era in frantumi.

“Non provare a fare la tua recita con me, piccolo attore dei miei stivali. So benissimo che parli anche il giapponese.”

Aumentò la presa, non lasciandogli possibilità alcuna di rispondergli. Il ragazzo mugugnò qualcosa, forse un tentativo di risposta, e un rivolo di saliva gli colò dalla bocca spalancata. Quando capì che stava andando troppo oltre, Gin lasciò la presa. Era diventato uno specialista nel comprendere quando era il momento di smettere: portare le vittime fino all'orlo del baratro e poi risollevarle quando erano ormai sicure di cadere. Provavano la paura del dolore e della morte, che era ben peggio della morte stessa.

Arthur ricadde con il capo in avanti, boccheggiando e tossendo. Tentò di riprendere fiato, ma questa volta Gin gli afferrò i capelli e lo costrinse a guardarlo. Vodka stava in disparte e osservava la scena, in attesa di un ordine. Sarebbe intervenuto solo ad un cenno del suo compagno: sapeva bene che a Gin non piaceva essere disturbato quando faceva le cose a modo suo.

“Credo che tu abbia capito il concetto.” continuò con voce fredda. “Tuttavia,” aggiunse, vedendo che Arthur annuiva debolmente, “voglio farti un piccolo favore, se questo servirà a farti dire prima la verità.”

Si allontanò un poco, fissandolo dall'alto in basso.

“Parliamo pure inglese.” aggiunse, pronunciando le parole in un quasi perfetto inglese. “Per me non è un problema: hai visto? In fondo potremmo essere amici.”

Vodka strabuzzò gli occhi sentendo Gin parlare in maniera fluente una lingua di cui lui ignorava persino le basi. Da quando in qua il suo capo parlava inglese così bene? Vodka si sentì messo in disparte: non avrebbe capito più nulla dell'interrogatorio, e forse Gin non si sarebbe nemmeno preoccupato di rivelargliene in seguito i particolari. Un dubbio si impossessò dell'uomo: e se quella non fosse stata una semplice trovata improvvisata? Forse Gin preferiva non fargli capire quello che si stavano dicendo perché non si fidava a sufficienza di lui. Aveva insistito per tenere riservata quella storia, e quale modo migliore? In un primo momento, Vodka ne fu indispettito. Qualche secondo dopo, decise che poco importava. Si mise comodo, appoggiando le spalle alla porta, e prese a tamburellare con il piede sul pavimento. Sapeva che, da quel momento in poi, Gin lo avrebbe interpellato solo se ci fosse stato il caso di alzare le mani per intimidire l'ostaggio.

“C-che cosa volete da me?” balbettò Arthur, felice in cuor suo di poter utilizzare la sua lingua madre. Il giapponese gli era sempre sembrato un idioma dall'accento troppo duro e sentire quell'uomo dai capelli biondi parlarlo era un vero tormento per la sua già provata mente. L'inglese, con il suo suono, riusciva ad addolcire in parte persino la voce di quella bestia.

“Non avere fretta. La prima regola è che qui le domande le faccio io.”

“Siete della polizia?” chiese invece subito il ragazzo. In fondo pensava che, se fossero stati della polizia l'avrebbero forse lasciato stare. Lui avrebbe dichiarato tutte le sue colpe e la volontà più che ferma di pagare per esse: tutto sarebbe stato risolto, e lui avrebbe vissuto in pace quello che gli rimaneva da vivere. Quel mondo gli appariva sempre più angusto.

Come risposta ottenne una risata gutturale quanto spontanea, imitata subito dall'altro uomo, quello con gli occhiali, il cui riso sembrava però forzato, come se si sforzasse a seguire le orme del suo compare. Nonostante gli occhi appannati dalla miopia, Arthur lo riconobbe come l'uomo che aveva incontrato sul ponte. Quanto tempo poteva essere passato? Dalla finestrella in alto entrava una luce fioca e appena rossastra: forse era quasi il tramonto.

“La polizia? Vacci piano con gli insulti, ragazzino.”

Se Vodka avesse compreso quanto appena detto da Gin, probabilmente si sarebbe avventurato in un’altra risata. Ma purtroppo tutto quello che aveva colto della conversazione era la parola polizia. Non sapendo che fare, e osservando il volto serio di Gin, si mantenne impassibile. Anche il piede aveva smesso di tamburellare.

Il ragazzo parve infervorarsi improvvisamente. Il viso assunse un po' di colorito, e gli occhi si spalancarono in una sorta di supplica.

“Vi prego,” diceva rivolto a entrambi, non sapendo che Vodka non poteva sentirlo, “lasciatemi andare, lasciatemi tornare su quel ponte, lasciate che io mi dia la morte che desideri. Non vi chiedo altro.”

Gin sorrise sadico. Si era allontanato e se ne stava lì, appoggiato al lavandino.

“Pensi che l'uomo che hai ucciso abbia avuto la morte che desiderava?” gli chiese. Vide il ragazzo sbiancare, e appoggiare di nuovo le spalle al muro. Aveva preso a tremare.

“Nessuno ha mai la morte che desidera, perché nessuno desidera davvero morire. Neanche tu, credo. Rispondi alle mia domande e vedremo cosa possiamo fare per il tuo stupido caso.”

Arthur sudava freddo.

“Chi siete?” chiese ancora. “Io non..”

Gin roteò gli occhi lasciando andare appena il capo all'indietro, come in segno di fastidio e noia. Un attimo dopo aveva estratto la pistola dalla tasca, e quasi senza guardare, come se conoscesse a memoria il punto a cui doveva mirare, fece fuoco. Vodka si rizzò, improvvisamente interessato. Il colpo si schiantò sul muro, non troppo lontano da Arthur. L'attore si zittì immediatamente, e sentì il cuore contorcersi nel petto. Forse era vero: per quanto si fosse decisi ad abbandonare la vita, la paura c'era sempre, velenosa come una serpe.

“Fammi il santo piacere di stare zitto quando non sei interpellato. E' chiaro?”

Il ragazzo non rispose immediatamente. Gin perse del tutto la pazienza e sparò un altro colpo. Questa volta lo mancò di poco.

“E' chiaro?” urlò quasi. Arthur annuì.

“Bene.” sentenziò Gin, soffiando appena sulla pistola fumante come se dovesse raffreddarla.

“Stammi bene a sentire. Hai mai visto Shinichi Kudo?”

Vodka distinse la parola Kudo. L'interrogatorio vero e proprio doveva essere cominciato.

“Shinichi Kudo?” chiese di rimando l'attore, titubante. Forse quell'uomo intendeva il figlio di Yusaku Kudo. Lo scrittore gliene aveva parlato una sera, nella semioscurità della biblioteca di New York. Perché quegli uomini si interessavano ai Kudo? Che cosa volevano sapere da lui? Arthur ricordò la notte di qualche giorno prima, il viso rigato di lacrime di Yusaku che cercava di trattenerlo e una miriade di fogli volanti nel cielo. Quell'uomo dagli occhiali era stata forse l'unica persona al mondo, all'infuori di suo padre, a dimostrargli affetto: e su quel ponte per un attimo gli era sembrato di rivedere i lineamenti del padre nel viso dello scrittore. Non l'avrebbe tradito, a qualunque costo, non di nuovo. Gli aveva arrecato già troppo dolore. Ebbe come l'impressione che avrebbe potuto espiare le sue colpe non aiutando quegli uomini, e forse se così fosse stato avrebbe potuto non morire. Allora era quello? Davvero non desiderava morire? Il suo era solo un modo per cancellare la sua colpa?

Gin si girò verso l'altro uomo con fare irritato.

“Vodka.” lo chiamò, e quello capì immediatamente cosa doveva fare. Si avvicinò a passi pesanti al ragazzo che lo osservava come se fosse un gorilla pronto a schiacciarlo con un solo dito. Vodka lo afferrò per la nuca, e con un grugnito lo scaraventò a terra. Arthur cadde con un tonfo sordo, e sentì un dolore acuto alla spalla che lo fece gemere. Tentò di mettersi a sedere, ma il gorilla fu di nuovo più veloce di lui, bloccando ogni suo movimento. L'enorme piede di Vodka premeva con forza sul fianco del ragazzo, impedendogli di muoversi.

“Quell'uomo farà qualsiasi cosa io gli ordini, e non è esattamente quel che si definisce una persona tenera. Ripeto: hai mai visto Shinichi Kudo?”

“No.” mugolò il ragazzo. “Non lo conosco.”

“Ma davvero?”

Gin lanciò un'altra occhiata a Vodka, e quello allontanò Arthur con un calcio dritto allo stomaco. Lasciò che il corpo scivolasse con un rantolo, e poi gli si avvicinò a passi lenti, facendogli capire che era pronto al secondo round.

“Strano.” continuava intanto Gin, “A quanto ci risulta è stato lui a smascherare il tuo patetico crimine.”

Arthur, facendo leva sulle braccia, gattonò fino al muro. Si sedette, appoggiando le spalle, e riprese fiato. Vodka stava per tornare in azione, ma non ricevette l'occhiata di assenso di Gin e si fermò.

“Parlate.. della sera.. all'hotel?” chiese con voce tirata, raccogliendo ogni forza. Continuava a parlare al plurale, nonostante fosse solo Gin il diretto interlocutore.

“E a che cazzo vuoi che mi riferisca?”

Per un attimo, Gin vide balenare negli occhi del ragazzo il disprezzo. Ma fu solo un attimo. Poi tornò tutto come prima. Tornarono aguzzino e vittima.

“Lui.. lui non c'era.”

Altra occhiata a Vodka, e dopo meno di un secondo Arthur si ritrovò di nuovo stesso a terra, in bocca il sapore del sangue. Per un attimo la testa girò, e non capì cosa fosse successo. Forse un pugno dell'uomo l'aveva centrato in pieno?

“Non dire stronzate.” tuonò freddo Gin, mentre si accendeva una sigaretta con finta tranquillità, “sappiamo benissimo che era lì. Anzi, ci risulta che fosse addirittura su quel ponte con te quando hai tentato il tuo stupido volo.”

“No..” rispondeva di nuovo Arthur, tentando di muoversi, ma il piede di Vodka lo bloccava ancora, questa volta al muro.

“Quindi tu non ti ricordi di lui? Davvero una pessima memoria per essere un attore. Forse è per questo che non hai mai avuto tanto successo.”

Altro calcio. Ma a far più male furono le parole. Arthur sentì una lacrima salata raggiungergli le labbra, mentre si rannicchiava su se stesso nel tentativo di sfuggire ai calci di quel gorilla.

“Proviamo a far funzionare il tuo cervellino. Vodka!” e fece un cennò che l'altro comprese. Afferrando i capelli dell'attore lo costrinse a sedersi, e si allontanò di qualche passo in attesa di ordini. Il poveretto era bianco come un cencio e la sua camicia stropicciata si era lacerata nell'urto con il piede di Vodka. A tratti era scosso da tremori e gli occhi lucidi fissavano ora Gin, aspettando la prossima domanda.

“Che mi dici di Yusaku Kudo?”

“Che.. cosa volete sapere?” guardò entrambi facendo oscillare a scatti la testa. Vodka era impassibile, come se non sentisse. Effettivamente, in quel momento era poco più che un sordo.

“E' il padre di Shinichi Kudo. Lo conosci, giusto?”

Arthur annuì.

“Vi siete conosciuti in America?”

Annuì ancora.

“Siete amici?”

Esitò un attimo, poi disse: “No. Ho letto i suoi libri, ero solo ospite alla presentazione...”

“E come mai ti ha invitato, se non siete amici?”

“Dovevo.. dovevo recitare.. una parte del nuovo libro..”

I ricordi gli facevano male. La sua mente scombussolata aveva cancellato in parte quella sera, e ricordava a tratti, flash di intensa nitidezza alternarti a momenti bui e appannati.

“Vedrò di crederci. Ti ha mai parlato di suo figlio?”

Arthur scosse la testa.

“Qualcosa mi dice che stai mentendo. Vodka.”

L'uomo si avventò di nuovo sul ragazzo. Gin abbassò gli occhi, osservando la sua sigaretta che andava pian piano consumandosi. Sentì un gemito e, quando rialzò lo sguardo, un rivolo di sangue colava dal sopracciglio spaccato di Arthur. Il rosso che dipingeva quella tela immacolata appariva quasi sacrilego.

“Ti ha mai parlato di suo figlio?”

Di nuovo Arthur scosse la testa. Gin fece segno a Vodka di tener ferme le mani, e si avvicinò. Il ragazzo stava ancora seduto con le spalle al muro, gli occhi che diventavano pian piano vitrei. Gin si chinò su di lui, e sibilò a denti stretti.

“Se te lo chiedessi di nuovo, scuoteresti ancora la testa?”

Il ragazzo annuì. Gin gli prese la camicia lacerata, scoprendogli il petto. Gli avvicinò alla pelle la sigaretta che si stava spegnendo. Arthur, ne avvertì il calore e capì le intenzioni dell'uomo.

“Adesso? Scuoteresti ancora la testa?”

Annuì ancora, stringendo le labbra e gli occhi. Gin premette la sigaretta sulla pelle morbida più forte che poté, e sentì la sua vittima trattenere il fiato con un verso strozzato. Quando non rimase che un mozzicone, estrasse la pistola. Arthur aveva ripreso a respirare. Gin gli si avvicinò ancora di più, digrignando i denti prima di buttargli addosso tutto il fiato che aveva.

“Dimmi dove posso trovare Yusaku Kudo, Shinichi Kudo, o un qualsiasi membro di quella dannata famiglia.” sibilò.

Vedendo gli occhi indemoniati di quell'uomo, Arthur pensò che sarebbe morto lì, in quella stanza bianca, in quel momento. La bruciatura sul petto gli doleva, ma per un attimo non sentì altro che il freddo che quell'uomo emanava e che gli cristallizzava ogni parte del suo corpo.

“Parla, piccolo moccioso idiota.”

La canna della pistola poggiata sotto al mento, Arthur tremò. Stringeva i pugni e divincolava le gambe, ma era totalmente immobilizzato. Scuoteva la testa, non riusciva a parlare.

“Stai cercando di dirmi che non sai un cazzo?”

Gin sentì il ragazzo tremare scosso da un brivido. Dannazione, era davvero un idiota.

“Apri la bocca.”

Arthur non ebbe il tempo di fare alcun movimento, che si ritrovò tra le labbra la canna di quell'odioso strumento.

“Sai quante possibilità hai di sopravvivere se faccio fuoco?”

Lo sguardo di Arthur era implorante. Non riusciva più a sopportare tutto quello stress fisico e psicologico.

“Meno di zero.” sentenziò Gin.

Aspettò che le sue parole facessero effetto, e continuò: “Ti do un giorno. Vedi di farti venire in mente qualcosa. Se domani il tuo cervellino non avrà ripreso a funzionare, mi applicherò personalmente per dargli una mano.”

Estrasse la pistola e Arthur respirò in un sol colpo tutto quello di cui aveva bisogno: aria. Gin si rialzò e si rivolse a Vodka in giapponese.

“Andiamocene. Vedi di procurargli dei vestiti decenti, o domani questa stanza puzzerà come un porcile. Potrà usare il lavandino per pulirsi.”

“Sì, capo, glieli porterò.”

Voltarono le spalle al ragazzo e se ne andarono senza dire altro. E lui restò lì, per terra, spalle al muro, a boccheggiare nei suoi stessi pensieri. Quando la porta si richiuse, si stese sul pavimento, lasciandosi andare. Tremava convulsamente, il sangue gli sporcava il viso e i capelli, allargandosi sul bianco delle piastrelle. Si lasciò andare ai singhiozzi che sussultavano nel suo petto, e senza nemmeno sapere il perché, cominciò a recitare piano, con un filo di voce talmente leggero da poter essere percepito solo nei sui pensieri.

 

“Fuggono i minuti e io Levi Matteo, mi trovo sul monte Calvario e la morte ancora non arriva”.

E più avanti:

“Il sole declina e la morte non arriva”.

Ora Levi Matteo disperato scriveva con il bastoncino appuntito:

“Dio! Perché sei in collera con lui? Mandagli la morte”. *

 

E poi fu solo silenzio.

 

 

 

 

 

Ran osservava le nuvole che scorrevano accanto a loro, immaginando il mondo al di sotto di esse. I raggi rossastri del sole a tratti la accecavano, nascondendo il suo riflesso sul finestrino ovale, e quando i suoi occhi chiari cercavano riparo dalla luce allora si voltava, accennando un timido sorriso al padre seduto accanto a lei. Il motore del piccolo aereo rombava, a tratti qualche vuoto d'aria li faceva sussultare, ma nel complesso era un volo tranquillo. Non c'erano turbolenze, e il brutto tempo sembrava solo un ricordo lontano. Eppure Ran avrebbe in seguito ricordato quel viaggio come uno dei peggiori della sua vita. In primo luogo, perché quello non era un viaggio. Insomma, per poterlo definire tale bisognava conoscere almeno la destinazione, e sia la ragazza che il padre ignoravano assolutamente dove quel jet li avrebbe portati. L'ispettore Megure era stato chiaro: avrebbe fornito loro un aereo privato, un agente in borghese di scorta e tutto ciò che poteva offrire perché le loro vite fossero al sicuro. Questo includeva ovviamente il fatto che solo un esiguo numero di persone sarebbe stato a conoscenza del luogo dove i due avrebbero risieduto per un periodo di tempo ancora non esattamente determinato e, a quanto pareva, i diretti interessati non rientravano in quella cerchia. Ran sospirò, appoggiando la testa al sedile e cercando di distendere i nervi, ma tutto le era impossibile. Ogni cosa le sembrava stretta e insopportabile, persino quella camicetta che aveva sempre elogiato per comodità. Sentendo quel sonoro sospiro, l'uomo seduto davanti a loro si issò sul sedile, e voltandosi chiese: “Tutto bene, signorina? Desidera qualcosa?”

La ragazza tentò di sorridere, ma il risultato fu solo una sottospecie di ruga ai lati della bocca. A rispondere fu invece Kogoro, decisamente meno pacato di lei per natura. Si rizzò a sedere, abbandonando la più comoda posa che aveva assunto abbassando lo schienale del suo posto, e sbottò: “Con che coraggio chiede a mia figlia se va tutto bene? Siamo stati catapultati su questo aereo da un momento all'altro, senza nemmeno sapere dove saremo condotti, e tutto a causa di un branco di fantomatici criminali che potrebbero prenderci di mira. Per cosa poi? Per una stupida foto! Tutto questo è assurdo! Fino a questa mattina io avevo un lavoro e mia figlia era una studentessa come tutte le altre: e ora invece? Quando potremo riavere la nostra normalità? Pensavo che certe cose accadessero solo nei film!”

Kogoro, rosso in viso, si tolse la giacca. Stava sudando. Con occhi infervorati per la rabbia e la frustrazione guardava l'agente, capro espiatorio di una storia in cui c'entrava ben poco.

“Io eseguo solo gli ordini, signore.”

“Non mi interessa! Può star certo che, se l'ispettore Megure non mi avesse costretto e implorato, ora non sarei qui. Anzi, dirotterei questo maledetto aereo pur di tornare a casa. Insomma, il mio mestiere è acchiappare criminali, non scappare al primo pericolo!”

L'agente si manteneva serio e impassibile. Doveva avere una quarantina d'anni: il volto squadrato e austero, perfettamente sbarbato, gli conferiva l'aria di un uomo ligio al proprio dovere. Doveva essere abituato a quelle sfuriate, perché non si scompose minimamente. Anzi, osservava Kogoro senza battere ciglio.

“E il mio è di fare quanto mi viene ordinato. Cercavo solo di essere gentile.”

Kogoro sentì la rabbia salirgli lungo la spina dorsale fino ad invadergli completamente la mente. Batté il pugno sullo schienale del sedile davanti, e urlò quasi: “Questa sarebbe gentilezza? E non si nasconda dietro la storia degli ordini! Anche i criminali fanno lo stesso, e trovo sia la più misera delle scuse e la peggiore delle aggravanti!”

“Papà!” intervenne Ran, con voce ferma. “Adesso basta. Lo deve perdonare, agente. Non è facile per nessuno di noi. Comunque va tutto bene, grazie, per quanto possibile.”

E con un cenno del capo gli fece capire che poteva tornare a sedersi e scomparire oltre quello schienale, lasciando lei e il padre alla sua intimità. Non appena furono lontani da quello sguardo in quel momento ritenuto indiscreto, Ran afferrò la madre del padre: “Dobbiamo cercare di stare tranquilli. Andrà tutto bene.”

L'uomo sgranò gli occhi: “Tutto bene? Come fai a dire questo? E tua madre? Se siamo davvero così in pericolo, perché lei non è con noi?”

Ran trasse un profondo respiro. Lo sguardo del padre era semplicemente quello di un uomo disperato. Si fece forza, perché si rendeva conto che, per l'ennesima volta, doveva essere lei a sorreggere gli altri, a stare accanto al padre e aiutarlo, a fidarsi di Shinichi e aspettare che si facesse risentire, ad attendere dall'ispettore la notizia che avrebbero potuto rientrare nella loro casa. Non si chiese perché dovesse sempre tutto gravare sulle sue spalle: in quel momento quella domanda l'avrebbe uccisa.

“La madre di Shinichi mi ha assicurato che..”

“Shinichi!” la interruppe il padre, alzando gli occhi al cielo, “E noi ci dovremmo fidare di lui? E' colpa di quel detective da strapazzo se ora a quanto pare un gruppo di criminali psicopatici vuole ucciderci.”

“Shinichi è un bravo detective. E lui rischia la vita ancora più di noi: sta facendo tutto questo per proteggerci.”

“Non mi interessa che lui stia rischiando la vita, Ran. Lui se l'è scelto di cacciarsi nei guai, sapeva che quello del detective è un mestiere rischioso. Tu invece non hai colpe, non meriti di essere coinvolta in tutto questo.”

Ran abbassò lo sguardo, e poi si girò di nuovo, a fissare il cielo oltre il finestrino. Sussurrò: “Sì, invece. Io ho scelto di stargli accanto e di fidarmi di lui. Sapevo che avrei rischiato di essere coinvolta in qualcuno dei suoi casi prima o poi. Lo sapevo, e sono andata avanti comunque.”

Il silenzio del padre la fece voltare ancora a guardarlo. L'uomo aveva abbassato gli occhi, forse cercando una risposta.

“Sei comunque innocente.”

“Anche Shinichi lo è.”

“Ti fidi davvero di lui?”

Lei annuì.

“Ma non ti fa rabbia tutto questo?”

“Mi stai chiedendo se sono triste? Certo che sì. Ho lasciato la mia scuola, i miei amici, Sonoko, Conan, la mamma.. senza nemmeno poterli salutare. E a tratti ho paura di non rivederli mai più, sento l'angoscia e il terrore che qualcosa possa andare storto mi pervade. E se Shinichi non ce la dovesse fare? Che cosa ne sarà di noi? Papà io voglio essere forte, ma.. ho paura. Sì, ho tanta paura.”

Gli occhi le si cosparsero di lacrime e ogni difesa crollò. Prese a singhiozzare, nascondendo il volto tra le mani. Sentì le braccia forti del padre accoglierla e stringerla a lui. Dondolava appena, come a volerla cullare, come se fosse ancora un bambina troppo piccola per addormentarsi o calmarsi senza qualcuno accanto a cantarle una dolce ninna nanna.

“Ci sono io con te, Ran. Non ti lascerò mai, bambina mia. E' una promessa.”

E le accarezzava piano i capelli, mentre sentiva la camicia bagnarsi di lacrime. Ma non importava.

“Ti voglio bene.” le disse. Da quanto non glielo diceva?

I singhiozzi si placarono leggermente, e Kogoro sentì una voce ovattata e incrinata rispondergli: “Anche io, papà. Tanto.”

Quelle parole erano quanto bastava per affrontare qualsiasi cosa.

 

 

 

 

 

*Tratto da “Il maestro e Margherita” di Bulgakov, che a quanto pare Arthur Newman ha letto e apprezzato.

 

 

 

 

 

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Ecco il nono capitolo per quei pochi coraggiosi che continuano a leggere la storia e a cui va un grandissimo ringraziamento :) Non ho ricevuto molte recensioni sugli ultimi due capitoli, ma non per questo quelle dei pochi che si sono fermati a commentare valgono di meno: per questo, un enorme grazie a voi che dedicandomi qualche minuto del vostro tempo mi spronate ad andare avanti e mi fate sapere cosa ne pensate della storia :) Inoltre le letture comunque sono stabili, e quindi grazie anche a chi segue la storia senza commentare <3 Il capitolo era pronto da un po’, ma con l’inizio dell’università e altri impegni in famiglia ho avuto tempo solo ora di rivederlo e postarlo. Spero vi piaccia, non sono soddisfatta al cento per cento ma lo ritengo migliore dell’ottavo :)

Un bacione a tutti voi che avete letto, che avete la storia tra le seguite, ricordate o preferite :)

A presto,

Flami

PS: non può mancare il solito saluto finale alla mia piccola grande amica Mary. Scusa se ho fatto soffrire un pochino Arthur in questo capitolo <3 Ti voglio un mondo di bene <3 <3 <3

 

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Capitolo 10
*** Cerchi sulla pelle ***


In bianco e nero

 

 

 

“We are who we are

On our darkest day

When we're miles away

So we'll come

We will find our way home”

(Fun. , “Carry on”)

 

 

 

10. Cerchi sulla pelle

 

 

 

Tra i due uomini non volò una sola parola finché non furono in ascensore. Gin, palesemente seccato dalla piega che stava prendendo la situazione, camminava spedito, imponendo ai suoi passi pesanti di risuonare da soli nel silenzio del corridoio, coprendo addirittura quelli di un Vodka che, poco dietro, lo seguiva indeciso sul da farsi. Quando infine la porta scorrevole dell'ascensore si aprì, Vodka ruppe la tensione.

“Che piano?” chiese, facendo scorrere l'indice sui pulsanti.

“Settimo.” rispose l'altro, cercando di mascherare con un tono calmo la sua evidente impazienza.

Vodka premette il tasto su cui risplendeva opaco il numero richiesto. Il settimo piano era l'ultimo, quello in cui erano localizzati dei piccoli appartamenti riservati ai membri più importanti operanti nella zona. Vodka, proprio per il fatto di dover spesso rimanere a contatto con sorvegliati speciali tenuti nelle celle del seminterrato, era riuscito ad ottenerne uno in fondo al corridoio, dall'altra parte rispetto al vano dell'ascensore. Non era grande, appena una stanza e un bagno, come una sistemazione d'albergo, ma era accogliente quanto bastava e lontano da occhi indiscreti. Prima avrebbe volentieri schiacciato un pisolino nel suo letto se non avesse dimenticato le chiavi dell'appartamento nel cruscotto della macchina: troppo stanco per tornare fino al garage, si era accomodato in una poltroncina degli studi del primo piano. Su cui, si accorse solo allora, doveva aver lasciato la sua cravatta.

Vodka non aveva mai visto l'appartamento riservato a Gin. Sospettava che fosse più grande del suo, ma non poteva esserne davvero sicuro. Il suo capo aveva tenuto quelle stanze sempre e solo per sé. Di tanto in tanto, quando aveva voglia di rimanere lontano da tutti, vi si rifugiava per uscirne solo quando era sicuro di essersi disintossicato dal mondo abbastanza da poterne assumere una nuova dose. Quando avevano bisogno di scambiare due parole con calma, di solito usavano l'appartamentino di Vodka. L'uomo sperò che Gin volesse semplicemente sparire nella sua camera, senza dire altro: se gli avesse chiesto di discutere riguardo al caso Kudo, avrebbe voluto usare la camera di Vodka e sarebbe stato costretto a dirgli che le chiavi erano otto piani più in basso, nel parcheggio sotterraneo. Per Gin quello sarebbe stato un imprevisto piccolo che, sommato a quelli che già dovevano essersi verificati, avrebbe potuto far esplodere il suo malumore.

“Andiamo nella tua stanza, lì potremo parlare in tranquillità.” sentì dire Vodka, quando l'ascensore si fermò. Bingo. L'uomo con gli occhiali si schiarì la voce tossicchiando e, come sicurò di sé, sprofondò le mani nelle tasche della giacca alla ricerca delle chiavi. Tastò e controllò, fingendo di esser sicuro di trovarle.

“Accidenti, Gin, devo averle lasciate in macchina” disse alla fine, come se la cosa lo stupisse e lo irritasse allo stesso tempo. Guardava con la coda dell'occhio il suo capo, per verificarne la reazione. Quello restò sorprendentemente tranquillo, immerso nei suoi pensieri. Disse con noncuranza: “Allora faremo da me.”

Estrasse un mazzo di chiavi dalla tasca della giacca e scelse quella giusta, una lunga e sottile, solo tastandola con i polpastrelli. La separò dalle altre e la tenne in mano, dirigendosi verso la seconda porta sulla destra del corridoio. Vodka stava sempre dietro di lui, fiatando appena.

Non appena entrarono, l’omone provò una leggera soddisfazione nel constatare che la stanza, seppur più spaziosa, non fosse tanto diversa dalla sua. Vi era semplicemente la camera da letto, un bagno, e sulla sinistra un'altra porta, chiusa, che probabilmente doveva dare su un piccolo studio. Gin si sedette sulla sedia davanti alla scrivania, rimettendo a posto qualche foglio in disordine e storcendo appena il naso alla vista del posacenere pieno di mozziconi. Non si ricordava mai di svuotarlo. Vodka, una volta certo che il capo avesse scelto la sedia, si accomodò sulla ben più comoda poltroncina accanto alla finestra. Quest'ultima era stata lasciata socchiusa, e nella camera la temperatura era più che gradevole. L'uomo con gli occhiali tossicchiò per richiamare l'attenzione. Gin smise di sistemare i fogli e si girò a guardarlo. Si era lasciato andare sullo schienale della sedia, come a stiracchiarsi.

“Vuoi chiedermi che cosa mi ha detto quell'imbecille?”

A Vodka non servì annuire. Era chiaro che fosse più che interessato a conoscere i dettagli dell'interrogatorio.

“Un bel niente.” ringhiò Gin. Si vedeva nettamente come la cosa non gli facesse granché piacere. Vodka si chiese che cosa davvero il suo capo sperasse di ottenere. Quel ragazzo non sembrava essere a conoscenza di nulla, o comunque non vedeva come avrebbe potuto portarli da Shinichi Kudo. Certo, ne aveva conosciuto il padre e forse poteva averne sentito parlare, ma qualcosa nell'espressione spaesata di Newman gli aveva suggerito che su Shinichi non ne sapesse poi più di tanto. E di sicuro anche il capo doveva aver avuto quell'impressione, altrimenti non sarebbe stato tanto nervoso.

“Se domani non ci dirà niente di nuovo, dovremo cercare un'altra strada.”

“Cos'ha detto?” chiese Vodka. Voleva conoscere qualche particolare in più su quell'interrogatorio. Gin morse appena il labbro e accese un'altra sigaretta.

“Te l'ho detto, nulla.”

“Ad un certo punto ha parlato.”

“Sostiene di non aver mai visto Shinichi Kudo. E non ha detto niente riguardo al padre. L'ho informato del fatto che se domani non avrà niente da dirci, non subirà un trattamento esattamente simpatico.”

Vodka si prese qualche attimo prima di rispondere. La situazione stava peggiorando. Era chiaro come il sole che quell'attore non li avrebbe portati da nessuna parte, almeno non in quel modo. Ed era altrettanto chiaro che il capo si ostinava su di lui solo perché non sapeva che pesci prendere in quel momento: il fatto di essere stato probabilmente anticipato da Shinichi Kudo doveva corrodergli l'anima e non poco.

“Capo”

“Che c'è?” chiese quello annoiato.

“Credi davvero che se ne caverà fuori qualcosa da questo buco?”

“Parli di Newman?”

Vodka annuì. Gin guardò oltre la finestra e, con finta noncuranza, disse solo: “Non lo so.”

La bugia era lampante agli occhi del suo compagno, ma finse di non accorgersene. Entrambi sapevano di aver intrapreso un vicolo cieco.

“Vodka”

“Sì?”

“Fai un giro ad Haido o Beika domani. Non si sa mai che possa succedere qualcosa di nuovo. Dell'attore mi occupo io. Mi raccomando, silenzio assoluto. Prendi ordini solo da me.”

Pronunciò l'ultima frase con una voce tanto glaciale e perentoria che Vodka ebbe l'impressione che, se non avesse seguito per filo e per segno le sue istruzioni, non sarebbe arrivato all'inizio del mese successivo.

“Certo, Gin. Sempre e comunque.”

Si mise scherzosamente sull'attenti, imitando il gesto con la mano e irrigidendosi sulla poltrona. Voleva spezzare la tensione, ma tutto quello che guadagnò fu un'occhiata sarcastica.

“Puoi andare. Tienimi informato su qualsiasi cosa.”

Senza dire altro Vodka uscì, salutando con un gesto il suo compagno. In quel momento Gin aveva bisogno di restare solo con i suoi pensieri, senza inutili parole nell'aria. Spense la sigaretta, che andò ad aggiungersi alle innumerevoli ammassate sul posacenere.

Doveva esserci una via, doveva esserci per forza. Ripensò a quanto era accaduto, a quanto aveva visto e sentito tra le vie di Beika. Il cartello che annunciava la chiusura dell'agenzia, la sensazione di essere seguito, l'uomo incappucciato che aveva intravisto sbirciando con la coda dell'occhio. Che lo stesse seguendo? Chi poteva essere? Forse lo stesso Shinichi Kudo? Comunque fosse, lui non aveva paura. Di niente e di nessuno. E poi c'era stato quell'attimo flebile ma indelebile in cui aveva sentito il profumo di lei. Sherry. Su quello non aveva alcun dubbio, lo avrebbe riconosciuto anche in mezzo a milioni di persone. Dov'era? Forse lì, a pochi passi da lui? No, Sherry lo temeva. Lo sapeva, l'aveva letto infinite volte nei suoi occhi. Non era lei la figura incappucciata che aveva visto. Non poteva averne la prova, ma ne era certo di una certezza incorruttibile. Ma allora dov'era? Dove si nascondeva, qual era il suo rifugio tra quella massa informe di persone insignificanti? Sherry era sempre stata qualcosa di più per lui. Un qualcosa che lo divertiva, che gli eccitava la mente e il corpo, che gli inebriava i polmoni e annebbiava la limpida lucidità calcolatrice del suo cervello. Non avrebbe saputo definire l'attrazione che aveva da sempre provato per lei, la soddisfazione di poterla tenere in pugno, tra le sue mani, e quel pensiero fisso che si impadroniva di lui ogni volta che la fissava; la voglia di averla con sé, sotto di sé, sapere di poterla spezzare solo stringendola più forte, il suo sguardo spaventato, un gemito strozzato e il sudore freddo e caldo che scorre lungo la pelle fino a fondersi con gli occhi umidi di paura.

Gin si alzò, camminando a passi lenti fino alla finestra socchiusa. Il vetro chiaro rispecchiava la smorfia che si era dipinta sul volto di lui, e la leggera ruga disegnata al lato degli occhi e che li rendeva più sottili e taglienti del solito. Alle volte bastava solo un pensiero, un attimo, una scarica di adrenalina e via, tutto tornava al suo posto, il malumore si riassorbiva in se stesso e la convinzione di farcela, o per lo meno di potercela fare, tornava a regnare sovrana.

Spalancò la finestra e osservò il cielo che si imbruniva. Lontano, una ciminiera sputava fuori a sbuffi continui un denso fumo nero. Respirò a pieni polmoni l'aria inquinata che lo circondava. Cosa importava? Ormai non c'era più nulla che potesse redimere la sua anima macchiata. Ma forse meglio così: la paura di essere colpevoli era cosa da stolti. Sentire il male e il peccato scorrere dentro di sé e provarne indicibile piacere, quello era l'animo del vincitore.

 

 

 

 

 

“Sei sicura che si trattasse proprio di lui?”

Dopo aver sentito il racconto di Ai, Conan aveva in un primo momento sgranato gli occhi, per poi lasciarsi andare sulla prima sedia che gli era capitata vicino. Si era seduto, aveva appena socchiuso le palpebre e massaggiato leggermente il mento, come alla ricerca di una barba che la sua vera età avrebbe cominciato a regalargli. E, infine, aveva posto quella domanda.

Ai se ne stava seduta sul divano, non molto distante, e dondolava le gambe, facendo oscillare i suoi piedini che non riuscivano a toccare terra. Fissava le ciabatte lasciate sul pavimento e solo di tanto in tanto sollevava lo sguardo, come per scrutare di sottecchi l'espressione del suo amico. Reputò quella domanda indicibilmente inutile. Shinichi sapeva perfettamente che certe cose, o meglio certe persone, lei non le avrebbe mai confuse con niente e nessun altro.

“Certo che sì. Era lì, e l'ho visto esattamente come ora vedo te. Era a pochi passi dall'agenzia investigativa del padre di Ran.”

Conan non sembrò stupito da quella conferma. Ma stava lì, immobile, ora torturandosi le ciocche dei capelli. Non aveva pensato che sarebbero stati così veloci: non poteva essere una coincidenza la presenza di Gin a Beika, nei pressi della casa di Ran. Che cosa voleva? Perché mostrarsi, perché andare direttamente in prima linea? Poi, come se si fosse improvvisamente ricordato di un punto cardine della questione, si girò improvvisamente verso Ai, lanciandole uno sguardo apprensivo e ansioso.

“Ti ha vista?”

Ai alzò appena lo sguardo, e lo fissò per un attimo, come a decidere quale fosse la risposta giusta da dare. Aveva omesso, nel racconto, la fondamentale parte di aver praticamente travolto l'uomo da cui avrebbe dovuto tenersi a miglia di distanza. Ma in fondo che cos'era un'omissione? Nemmeno una bugia. E anche se lo fosse stata, avrebbe potuto essere catalogata tra le non ben definite e amorfe bugie a fin di bene. Sapeva che Shinichi, da bravo detective, non la pensava allo stesso modo, e per questo si sforzò di essere il più possibile convincente.

“No, non credo. Ero distante. Volevo seguirlo, ma l'ho perso di vista.” disse, nel tono più calmo che riuscì a racimolare.

Conan stette un attimo in silenzio, fissandola non molto convinto. Aveva capito che c'era qualcosa che non quadrava nell'animo della sua amica. Ma infine, perché mentirgli? Perché non dirgli la verità? Shinichi era lì soltanto per aiutarla. Se era finito in quel travolgente problema era solo per lei. Se Ran ora si trovava chissà dove, lontano chilometri da lui, persa in un futuro dai contorni incerti, era colpa sua. E forse era proprio per quello che, alla fine, c'era cascata di nuovo. Aveva forse inconsapevolmente ricominciato a fare di testa sua, quel maledetto viziaccio che nemmeno l'essersi rimpicciolita le aveva fatto perdere. Nella sua mente aveva già cominciato a formarsi l'idea di quello che avrebbe potuto fare, di quello che avrebbe fatto, di quella sorta di arrembaggio ai limiti del masochismo che le si era profilato nella testa. L'idea stava prendendo forma e non c'era più modo alcuno di arrestarla, perché si era già impadronita della sua volontà. Non vedeva altro rimedio, non vedeva altra soluzione. Voleva solo mettere il punto finale a quella storia ed era sempre così, voleva sempre fare tutto da sola. Era l'unico modo che conosceva per proteggere gli altri, l'unico modo che aveva imparato da sé in quegli anni passati tra un laboratorio e l'altro, tra cuori di pietra e burette di vetro.

“Non ero lucida, Shinichi. Lo sai come sono fatta.”

Pensava di aver risolto tutto con quelle parole, ma il bambino davanti a lei non sembrava convinto. Continuava a guardarla come se stesse capendo, come se stesse comprendendo fin troppe cose. Alla fine disse solo, in un sussurro appena percettibile: “Non lo so. Alle volte non lo so.”

Ai sgambettò giù dal divano.

“Cosa intendi dire?”

“Ai, lo sai che voglio solo aiutarti.”

“Certo che lo so.”

“E allora promettimelo.”

“Cosa?”

“Che non farai di testa tua. L'avevamo detto, te lo ricordi? Insieme. Come quando siamo scappati correndo dalla scuola, quando abbiamo deciso di imbarcarci in tutta questa faccenda.”

“Non so davvero quanto l'abbiamo deciso.”

“Ai.”

“In fondo, che cosa decidiamo sul serio da noi?”

“Ai, sei una scienziata. Non provare a fare la filosofa.”

“Le due cose sono più vicine di quanto sembrino all'occhio di un profano.”

“Mi stai definendo un profano in fatto di scienza o filosofia?”
Ai sorrise. Shinichi aveva l'incredibile capacità di farla rilassare.

“Mah, in fondo sai un po' di tutto, e questo non vuol dire forse non sapere nulla?”

L'aveva colpito nell'orgoglio, e credeva che Shinichi avrebbe reagito in maniera stizzita, protestando contro quell'attacco privo di ogni argomentazione fondata. Ma lui era rimasto con i piedi ancorati alla realtà, e non abboccò al tentativo forse involontario di sviare il discorso da parte della bambina.

“Ai, me lo devi promettere. Non fare niente di testa tua. Non ce la faresti, così come non ce la farei io.”

La bambina rimase turbata. Davanti a lei, gli occhi come due pozze di acqua chiara, Shinichi si era appena messo in discussione. Sapeva bene quanto quello doveva essergli costato, quanto quel ragazzo così sicuro di sé, così sbruffone e certo del suo successo in ogni caso che la vita gli presentava potesse far fatica ad ammettere una debolezza. Un'insicurezza su quello che le sue indubbiamente strabilianti facoltà mentali gli avrebbero permesso di raggiungere. Come poteva mentirgli se la guardava in quel modo, se le parlava così? Come poteva dire l'ennesima bugia al migliore amico che avesse mai avuto in vita sua? Degli amici ci si deve fidare, e nient'altro. Rimase in silenzio.

“Ai, promettimelo!” incalzò di nuovo lui, non perdendo il contatto visivo con gli occhi di lei nemmeno per un istante. Si era instaurata una strana tensione, come un sottile filo che legava i lori sguardi e sembrava potesse essere tagliato solo dalla risposta della ragazzina.

“Io..” iniziò lei, articolando il suono con voce secca.

Ma c'era qualcosa più forte di ogni impressione psicologica, ed era la realtà. Essa si presentò come la porta dell'appartamento che si aprì, poi sbatté con noncuranza richiudendosi; un rumore di scarpe lasciate indietro alla rinfusa, e poi dei passi felpati nell'appartamento; infine un uomo distrutto che fece capolino nella stanza.

La tensione si ruppe in quell'istante, crollando in mille pezzi e salvando la loro amicizia dalla bugia che l'avrebbe compromessa. Yusaku Kudo sembrava portare addosso il fardello di una giornata troppo pesante, e nemmeno il trucco che Yukiko aveva perfettamente ricreato bastava a nascondere le occhiaie scure e le pupille tremanti, come sul punto di lasciarsi andare del tutto. Si strappò di dosso la barba che lo infastidiva e sotto la quale cominciava a crescere la sua, e poi lanciò un'occhiata distratta e assente alla stanza. I due bambini lo fissavano sconvolti.

“Papà, cosa è successo?”

“Dov'è Yukiko?” chiese quello, di rimando. “Avrei bisogno di lei.”

Yukiko era l'unica in quel momento che avrebbe potuto aiutarlo. L'unica che era in grado davvero di prenderlo per mano, di risollevarlo dalle sue crisi per la mancata ispirazione, dai suoi momenti di buio assoluto, da tutte quelle volte in cui era sul punto di dire semplicemente basta. Yukiko era la sua seconda madre, la sua unica sorella, l'unica donna che avrebbe davvero potuto immaginare al suo fianco: era semplicemente quello che la mentalità comune definiva l'amore della propria vita, anche se di comune il loro amore non aveva davvero nulla.

Sentì qualcosa aggrapparsi alla sua gamba, e abbassando lo sguardo vide Shinichi che gli chiedeva con occhi preoccupati che cosa mai fosse accaduto. Si inginocchiò e poggiò le mani sulle spalle del figlio, come a fargli sentire il peso di quanto portava dentro, quel qualcosa che nemmeno lui sapeva definire davvero.

“Yukiko non è ancora tornata?”

“Papà, ma..”

Shinichi lo guardava allibito. Aveva appena chiesto tutt'altro al padre, ma era come se lui non lo sentisse. Che cos'era successo? Cosa aveva provocato quegli occhi spenti e quello che a tutti gli effetti appariva come un cuore indolenzito?

“Per favore, dille di venire in camera quando torna. Ho bisogno di parlarle.”

Detto questo si alzò, e si diresse a passi lenti verso la porta della sua nuova stanza. Ai lo seguiva con lo sguardo, muovendo appena il capo.

“Papà, che cosa è successo?”

Yusaku fermò le dita sulla maniglia, e aggiunse, senza voltarsi per guardarlo: “Scusami, Shinichi. Ho voglia di stare un po' da solo.”

Il figlio non rispose, si limitò a sforzarsi di capire. Sapeva di non avere altra scelta. Ma proprio quando credeva che non ci fosse altro da dire, Yusaku girò appena il capo, e gli disse con voce leggera e roca: “Sai, alle volte ti invidio. Per quanto mi sforzi, ci sarà sempre una parte di me che non funzionerà seguendo quello che le dice il cervello.”

Non aggiunse altro e richiuse la porta dietro di sé. Shinichi era rimasto imbambolato. Ma che cosa stava succedendo, che cosa era preso a tutti? E perché lui doveva essere additato come quello i cui sentimenti non avevano mai la meglio? Solo perché non si lasciava andare, questo non significava automaticamente che non avesse un cuore che gli martellava nel petto.

“Shinichi io..”

Ai era rimasta lì, in piedi, e lo fissava con un'espressione in parte dispiaciuta, in parte compassionevole e in parte semplicemente abbattuta. Era una strana espressione sul volto di Ai, ma in quel momento Shinichi non se ne accorse.

“Non dirmelo” sbottò, “Non dirmi che sai che anche io soffro. Non dirmelo.”

Preso dalla stizza, scalciò la gamba del tavolo, facendolo tremare. La sua forza di bambino non era sufficiente nemmeno a far muovere un dannato pezzo di legno ed era una sensazione di orribile impotenza quella che alle volte si impossessava di lui, e che non lasciava mai trapelare. Che cosa ci faceva lui lì, lontano più di quanto avrebbe mai voluto dalla ragazza che avrebbe dovuto proteggere? Perché proteggere un persona doveva significare starle lontano, perché doveva significare non poterle parlare, non poterla salutare, non poterla sfiorare, non potere nemmeno consolarsi nel suono della sua voce dall'altro capo di un telefono?

“Dannazione” disse alla fine, prima di rintanarsi su quella sedia nell'angolo, con i suoi pensieri e il tramonto che si stagliava all'orizzonte oltre i vetri graffiati della finestra che dava sul mondo.

 

 

 

 

Quando Yukiko bussò dolcemente alla porta non ottenne risposta. Abbassò appena la maniglia e, constatando che la serratura non era bloccata, spinse piano, sbirciando nella camera buia. La donna si era attardata in un bar di Haido, sorseggiando in solitudine un drink e guardando al di là delle ampie vetrate tra le vie e le macchine incolonnate nel traffico della città. Non era passato nessuno che le ricordasse nemmeno vagamente uno degli uomini dell'Organizzazione, e aveva finito per perdersi tra i suoi pensieri mentre il vin brûlé scendeva caldo a regalare tepore al suo spirito.

“Yusaku?” lo chiamò, in un bisbiglio. Su Tokyo era ormai scesa la sera, e nella stanza regnava la penombra più assoluta. Solo il leggero riflesso biancastro della luna nascente filtrava appena dalle tende leggermente scostate.

Sentì un mormorio di risposta, di cui però non afferrò le parole. Non appena i suoi occhi si furono abituati al buio, iniziò a distinguere la sagoma del marito, sdraiato supino sul grande letto matrimoniale, il volto teso nella contemplazione dei propri sentimenti oltre il nero del soffitto. Le labbra della donna si incresparono in un melanconico sorriso, mentre sentiva una morsa stringerle il cuore. Sapeva bene che Yusaku si stava logorando nel ricordo di qualcuno che non sarebbe più tornato, sgretolandosi in un'incertezza che non faceva altro che martoriarlo da dentro. Si sdraiò accanto a lui, accovacciandosi e appoggiando alla spalla dell'uomo i suoi capelli soffici. Intrecciò le dita alle sue, e Yusaku sentì chiaro il profumo di lei invadergli le membra.

“Ti stavo aspettando” le disse. Il suo non era un tono di rimprovero, o niente di simile. Aveva solo bisogno di sentire la voce di lei.

“Lo so.”

Parlavano in un sussurro.

“Shinichi te l'ha detto?”

“Lo sapevo già da prima. So sempre quando hai bisogno di me.”

Alzò il volto e gli sfiorò la guancia con un bacio. Yusaku sfilò la sua mano dalla presa, e avvolse il braccio attorno alla vita di lei, massaggiandole appena il fianco con le dita. Lei sorrise, sensibile al solletico per ogni minimo tocco.

“Perché ci hai messo tanto?”

“Il vin brûlé mi aveva dato alla testa, e me ne stavo lì, persa tra i miei pensieri. Ma poi ho capito che dovevo tornare da te, ed eccomi qui.”

“A cosa pensavi?”

“Oh, a niente di importante.”

“Non dire così.”

“Dico così perché è vero.”

Un attimo di silenzio. Immersi nel buio di quella stanza, i loro corpi a contatto e le loro anime che parlavano. Non c'era nient'altro che loro, e di loro era pieno ogni più piccolo atomo dell'aria che li circondava.

“Sei la donna migliore che conosca. Sei intelligente, sei bella, sei forte, sei solare e in fondo sai ogni cosa prima che io possa ancora capirla: non puoi non pensare a qualcosa di importante.”

“Beh, l'importanza è data dalla priorità. E ora la mia priorità sei tu. Quello che pensavo io non è importante: se non per quel che riguarda i momenti in cui ho pensato a te e solo a te. E adesso dimmi, cosa c'è?”

Gli accarezzava piano il petto scoperto dalla camicia sbottonata. Conosceva ogni millimetro di quel corpo, ogni angolo segreto di quel viso. Anche al buio era come averlo lì, chiaro davanti al lei.

“Oggi ero lì, guardavo l'acqua di quel fiume e pensavo ad Arthur, a cosa è capitato in così pochi giorni.”

“E? Cos'è successo poi?” continuava lei, incalzandolo dolcemente e disegnando dei piccoli cerchi sulla pelle di lui, sfiorandolo appena con le unghie colorate. Quei cerchi appena tratteggiati, che tentavano di cicatrizzare le ferite che lottavano per emergere.

“Ad un certo punto ho visto qualcosa, qualcosa che si muoveva nell'acqua, come una macchia scura. E' rimasta incagliata per qualche secondo sulla riva, e lì ho capito di cosa si trattava: era una scarpa. La sua scarpa.”

Lei non disse nulla. Sapeva che il marito voleva ancora parlare, e il suo compito era lasciarlo fare.

“E' morto, Yukiko, lo so. E' lì, da qualche parte e io.. io mi sento così in colpa a lasciarlo lì, senza poter far niente. E lo so che è assurdo, ma alle volte ho paura che senta freddo, che si senta solo, che abbia paura: anche se so che ormai non può provare niente di tutto questo.”

La voce incrinata ruppe la frase e Yukiko mormorò: “Ssshh, va tutto bene. Ci sono qui io.”

Nascose il viso nell'incavo del collo di lui, lasciando le sue labbra lo cullassero di baci, come se fosse stato il suo bambino, il suo piccolo amore.

“Non c'è niente di cui preoccuparsi, niente.”

“Perché non sono stato in grado di capirlo? Perché? Io credevo di comprendere, di delineare le persone fin dalla prima occhiata, di saper scrivere di loro.. e invece non so niente, Yukiko. Non so niente.”

Si alzò improvvisamente a sedere, prendendosi il volto tra le mani. La donna seguì i suoi movimenti e lo abbracciò, continuando a sussurrargli: “Ehi, va tutto bene. Ci sono qui io. L'importante è questo, che nessuno possa dividerci. Siamo noi due, abbiamo Shinichi e ora anche Ai, che sto ormai incominciando a considerare un po' come una seconda figlia. Ci siamo noi, ci sono i tuoi amici, le persone che ti amano: non potrà accaderti nulla.”

“E' proprio per questo, proprio per questo che non riesco a chiudere occhio. Non ho capito che Arthur aveva bisogno di tutto quello che io ho e che ho sempre dato per scontato, non ho capito che lui non desiderava altro che un po' d'affetto, una spalla su cui piangere, un amico con cui parlare. Io non mi sono accorto di nulla: avrei potuto salvare due vite.”

Yukiko gli scostò dalla fronte i capelli che gli cadevano disordinati sulla fronte. I loro occhi, ormai totalmente abituati alla penombra, potevano fissare in tranquillità i loro sguardi.

“Non tutto si può fare, Yusaku. Non tutto è possibile, non tutte le vite si possono salvare e non tutta la sofferenza è cancellabile dal cuore altrui.”

“E nemmeno dal proprio.”

“Forse no, ma si può fare qualcosa per lenirla. Non intrappolarti in quello che è stato, vivi in quello che c'è adesso. Tuo figlio ha bisogno di te, ora più che mai. Devi esserci, e io sarò con te in ogni momento.”

Il voltò di Yusaku crollò sulla fronte di lei.

“Arthur ha posto fine ad ogni tormenti. Non puoi addossarti ora i suoi.”

Yukiko avvicinò le labbra, facendogli sentire il calore di chi lo amava più di ogni altro. Quando si staccarono, l'uomo disse in un sussurro: “..Che cosa avrà provato? Che cosa c'è oltre la morte?”

“Niente di cui tu debba preoccuparti adesso, Yusaku. Perché io ti amo, e questo conta più di ogni altra cosa. Compreso il fatto che prima o poi torneremo polvere di stelle: non mi spaventa, perché so che anche lì, anche quando sarò un granello ancora più piccolo nell'Universo, io sarò con te.”

L'uomo la strinse ancora di più a sé.

“Anche io ti amo. E se sono con te non voglio e non posso avere paura.”

Erano una cosa sola, indissolubilmente uniti per sempre. Lei gli accarezzò la barba che stava crescendo e le raschiava appena la pelle: “E ora andiamo. A quanto pare Ai ci ha preparato qualcosa di buono, e tu hai bisogno di mangiare. E poi,” aggiunse, dandogli un altro bacio, “stanotte penso io a te.”

 

 

 

 

 

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E a più di un anno di distanza dal primo capitolo, ecco finalmente il decimo. Mi scuso davvero per i miei ritmi estremamente lenti, purtroppo faccio una gran fatica a trovare del tempo libero per scrivere e spesso l’ispirazione decide di prendersi delle vacanze, oppure di lanciarmi idee per altre storie invece di farmi concentrare solo su questa. Comunque già dal prossimo capitolo il racconto prenderà la piega che lo porterà poi alla fine, che ho già ben in mente e che spero non vi deluderà! :) Ringrazio tutti coloro che hanno la storia tra le preferite, ricordate, o seguite (grazie davvero <3), e ovviamente anche chi si è fermato a recensire. Un bacione grandissimo e, nella speranza che il capitolo vi sia piaciuto, vi auguro buon Natale, buone vacanze, e felice anno nuovo! :)

Un bacione,

Flami

 

 

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