Le Storie della Macchina della Morte

di PurpleStarDream
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Autogestione ***
Capitolo 2: *** Batteriologicamente sterilizzato ***
Capitolo 3: *** Effetto farfalla ***



Capitolo 1
*** Autogestione ***


Warning: Questa storia è ispirata al libro “La Macchina della Morte”, a cura di Rayan North, Matthew Bernardo e David Malki, una raccolta di racconti di vari autori autodidatti che hanno immaginato delle storie basate sulla stessa impronta fondamentale: l’esistenza di una macchina in grado di prevedere con assoluta sicurezza la causa della morte di una persona in seguito ad un banale esame del sangue. Niente data, niente dettagli, solo delle criptiche parole che lasciano spazio a molteplici interpretazioni.

Non definirei questa fic tanto triste quanto forse grottesca. Ho messo tematiche delicate per sicurezza, ma non credo che siano necessarie. O sì? Chi lo sa. Poiché non ci sono scene molto grafiche di sesso o di violenza non ho aggiunto neanche il quadratino rosso; quello arancione è anche lui per pura sicurezza.

Però potrebbe causare disagio a qualcuno. Dopotutto ogni personaggio di questa fic ha il proprio destino segnato su un foglietto di carta e lo affronterà con stati d’animo imprevedibili. Inoltre alla fine dirò, come in un epilogo, in che modo tutti i personaggi hanno incontrato la loro fine.

Vi ho incuriosito almeno un po’?

Se sì non vi resta che scendere un po’ più giù in questo mondo grottesco, dove la nostra fine è sputata fuori da una scatola nera.

 

 

Le storie della Macchina della Morte

 

 

Capitolo 1: Autogestione

 

 

Vista da fuori, la Macchina non aveva un aspetto così minaccioso.

Certo, se si riusciva a non pensare che quell’aggeggio, dopo un semplice esame del sangue, era capace di sputare foglietti con predizioni infallibili su come il malcapitato di turno avrebbe lasciato questo mondo, allora quella scarna scatola nera poco più grande di una vecchia radio non faceva poi tanta paura. 

Persino il dolore al dito, dopo che l’ago per il prelievo lo aveva punto, diventava importante quanto una puntura di zanzara.

Eppure al solo pensiero di ciò che poteva essere scritto su quei foglietti espulsi dalla Macchina faceva rivoltare lo stomaco a tutti, con un rumore simile al gracidio degli ingranaggi che consegnavano ai clienti paganti la causa sicura del loro decesso.

Era un misto di eccitazione e paura, quello che suscitava la macchina. Forse per questo nessuno pensò di liberarsene. Era stata inventata per caso e aveva cominciato a stregare le persone con il fascino che solo un oggetto maledetto poteva esercitare, tant’è che ora esistevano accaniti sostenitori della sua effettiva utilità e gente (specialmente quelli insoddisfatti del proprio destino) che vi si opponeva con tutte le proprie forze, arrivando a volte alla violenza fisica.

Il problema era che, nonostante la presenza di queste due fazioni, la maggior parte della gente se ne fregava. Ormai la Macchina faceva parte della loro vita, come l’influenza, la coca cola, le tasse…

Impossibile vivere con lei, impossibile vivere senza di lei.

Steve non ci pensava poi molto, faceva parte degli indifferenti. A lui, che la Macchina esistesse o meno, non faceva né caldo né freddo. Almeno fino a un certo punto; c’era stato un periodo in cui l’aveva odiata a morte, e non aveva nulla a che fare con il suo foglietto. Ma ormai aveva risolto il problema (con eleganza, poteva aggiungere), e l’esistenza di quell’aggeggio era tornata ad essergli indifferente.

In quel momento Steve si stava godendo un caffelatte con una fetta di torta alle fragole nel suo bar preferito: le pareti intonacate di azzurro e il profumo zuccheroso di dolci caldi era molto rilassante. Ci portava spesso anche Tony, perché il locale era uno di quelli senza la Macchina della Morte, e sapeva che il suo ragazzo ci sarebbe stato benissimo. Oggi però era solo: Tony aveva avuto uno dei suoi momenti e aveva detto che avrebbe fatto una passeggiata, ma che sicuramente sarebbe tornato a casa prima di sera.

Probabilmente però, si sarebbero visti prima.

Infatti il suo cellulare trillò. Guardò il numero: era quello di Bucky.

Il suo amico non lo chiamava mai quando era in servizio, perciò il motivo della telefonata poteva essere uno soltanto. Ormai succedeva talmente spesso che Steve non se ne sorprendeva più; vista la situazione non riusciva neppure ad arrabbiarsi, diciamo soltanto che per lui recuperare Tony alla Centrale di Polizia era diventata pura e semplice routine, normale come veder sorgere il sole. Posò la tazza di caffelatte sul tavolo, delicatamente, e si portò all’orecchio il cellulare.

-Quante ne ha distrutte stavolta?- domandò subito, senza disturbarsi a salutare.

Dalla Centrale, Bucky rispose divertito: -Soltanto due. La multa sarà una sciocchezza.-

-Arrivo a prenderlo- disse Steve. Chiuse la comunicazione e si alzò, infilandosi la giacca e lasciando un paio di dollari di mancia sul tavolino.

 

Alla Stazione di Polizia Tony aspettava in corridoio, seduto al centro di una fila di sedie di plastica con un paio di manette ai polsi e Bucky e Rumlow che gli facevano la guardia con le braccia conserte, ognuno per lato.

Steve attraversò l’ingresso affollato, dove l’aria fresca striata di fumi di scarico si mescolava alla puzza di sudore mista a deodorante di troppa gente indaffarata. Pensava sempre che in quel posto ci sarebbe stato bene un impianto di ventilazione migliore. Appena lo vide arrivare, Tony sorrise, e lo salutò con tutte e due le mani, perché le manette gli impedivano di separarle.

-Ciao bellissimo.-

Steve sorrise a sua volta, poggiandosi le mani sui fianchi.

-Ciao. Ti senti un po’ meglio?-

Tony si stravaccò sulla sedia. Allargò le gambe al massimo e rovesciò indietro la testa per guardarlo. –Abbastanza, grazie.-

-Lo spero bene, dopo quello che hai fatto. Ti avviso però che il tuo hobby comincia a diventare costoso. Un giorno potrei non avere abbastanza soldi in tasca per tirarti fuori da qui.- Guardò Bucky e Brock, due macchie blu notte nelle loro uniformi ufficiali da poliziotti. –Allora, quant’è stavolta?-

Bucky esibì un sorrisetto; si alzò in piedi e tirò fuori dalla tasca un blocchetto delle multe, quindi fece un rapido riepilogo dei danni.

-Dunque… Le accuse sono le solite: vandalismo, distruzione di bene pubblico, disturbo della quiete… Nel complesso sono due Macchine della Morte prese a randellate con una mazza da baseball in un Centro Commerciale, distrutte oltre ogni possibilità di riparazione. In totale vengono… cento novantatré dollari e ventidue centesimi.-

Il biondo estrasse il portafogli e cominciò a rovistarci dentro.

-Pensavo peggio.-

-Il disturbo della quiete potevi anche tralasciarlo Buck- disse Tony, prendendo a calci l’aria.

-La vecchietta che hai terrorizzato con il tuo exploit non la penserebbe così.-

-Lo dico sempre che gli anziani dovrebbero stare alla larga dai luoghi troppo affollati.-

Rumlow aprì le manette di Tony con una chiavetta presa dalla sua cintura. Si rivolse a Steve con la faccia di uno che si è svegliato con la luna storta.

-Sono stufo di correre dietro al tuo fidanzato quando decide che non gli va a genio il modo in cui sono arredati i centri commerciali, Rogers. Se ha voglia di rompere Macchine della Morte compragliene un po’ e fagliele fracassare a casa vostra; non costano care- disse.

-Costerebbe certamente di meno di tutte le multe messe insieme- concordò Steve, aiutando Tony ad alzarsi. Una volta in piedi il moro dondolò sulle gambe, e si ficcò le mani in tasca. –Naaah, così non c’è più gusto- disse, nascondendo gli occhi sorridenti dietro la frangia castana.

Brock Rumlow gli puntò contro l’indice con aria accigliata. –Se mi fai perdere tempo un’altra volta con queste stronzate ti faccio passare la notte in una prigione vera, altro che multa.- Detto questo se ne andò, borbottando qualcosa di inintelligibile e accarezzando la pistola che emergeva dalla fondina. Bucky si aggiustò il berretto e fissò i suoi amici.

-Non fate caso a lui. Odia essere disturbato per queste piccolezze; vorrebbe che gli affidassero soltanto compiti pericolosi o pattuglie in quartieri degradati per avere una scusa per tirare fuori la pistola. E’ un coglione ma non è cattivo.-

-Allora, possiamo andare?- chiese Steve.

-Certo. Ma Tony, cerca di non farti rivedere qui per almeno un paio di settimane, o cominceranno a pensare che fai parte di una di quelle cellule sovversive.-

In un certo senso aveva ragione. Sulle Macchine della Morte la gente aveva opinioni contrastanti, quindi era comprensibile che alcuni sfogassero su di esse la rabbia per una predizione particolarmente nefasta. In più se ne producevano talmente tante che, a meno che qualcuno non decidesse di piazzare una bomba direttamente in fabbrica, la distruzione di qualcuno di quegli aggeggi veniva punita con una semplice contravvenzione. Il problema era che Tony collezionava le multe come le infinite copie tutte uguali di una figurina.

I due fecero per uscire, quando il moretto si ricordò di una cosa molto importante. Fece dietrofront e tornò da Bucky, che stava contando i soldi.

-Rivoglio la mia mazza- disse Tony. Era a quel punto che Steve solitamente avrebbe voluto trascinarlo a casa di peso e fargli un discorsetto.

-Tony…-

-E’ mia e la rivoglio- insistette il moro, tendendo la mano.

Bucky scosse la testa.

–Non si può fare. Quella roba è stata sequestrata.-

-Ma è mia! Vi denuncio tutti se non me la restituite!-

Steve vide sbucare Rumlow dal fondo di un corridoio, attirato dal casino come una mosca dal miele. Immaginava come sarebbe rimasto deluso una volta scoperto che si trattava solo di Tony che faceva un’altra scenata. Guardò il volto arrossato del suo ragazzo che cominciava a infervorarsi, e decise che sarebbe stato opportuno levare le tende prima che sulla fedina penale di Tony comparisse anche “Aggressione a pubblico ufficiale”.

Strinse la spalla del moro con una presa d’acciaio.

-Andiamo via, Tony.-

Era un tono a cui nessuno riusciva ad opporsi; quando voleva Steve riusciva a manifestare una tale autorità da fare quasi paura. Tony gli tenne il broncio, ma obbedì, voltandosi per andarsene. Bucky gli gridò dietro:

-E smettila di distruggere le Macchine!-

Tony, senza voltarsi, gli mostrò il dito medio.

-Voglio proprio vedere che farai quando una di quelle cose sputerà fuori il tuo cartellino!-

 

In strada, Steve camminava tranquillo, felice di vedere che il colorito di Tony era passato dal rosso ad un più salutare rosa, segno che si era un po’ calmato. Gli circondò le spalle con un braccio e lo tirò a sé. Sapeva già perché aveva fatto quello che aveva fatto, e lo capiva. Gli voleva bene.

-Brutta giornata?- domandò. L’altro fece sì con la testa.

-Ho ritirato gli ultimi esami del sangue.-

-E… come vanno?-

Tony sospirò e non disse niente. Steve se lo tirò contro, in modo che la sua testa scura fosse a proprio agio, poggiata nell’incavo del suo collo. Poco importava che fosse difficile camminare, lui voleva solo che Tony si sentisse al sicuro, perché era in giorni come quelli che la disperazione rischiava di prendere il sopravvento su di lui: ricordare come aveva ottenuto il suo responso lo riempiva sempre di uno sgradevole senso di impotenza difficile da scacciare.

Passarono davanti ad un negozio di articoli sportivi, e Tony sollevò la testa. Guardò negli occhi azzurri di Steve con due iridi ambra dilatate e supplichevoli. Il biondo intuì ciò che voleva fare.

-Tony, no… Ne hai già rotte due oggi.-

-Ti prego Steve- scongiurò l’altro, aggrappandosi al suo braccio. –Solo una e poi basta, promesso.-

Il ragazzo rovesciò indietro la testa in esasperazione. Verso sé stesso, che non riusciva a dire di no a quegli occhi; verso le Macchine della Morte, che cambiavano la vita delle persone (o forse solo le persone); verso l’ingiustizia di quelle previsioni… Steve a volte doveva riconoscere che esistevano delle cose più grandi di lui a cui non valeva la pena cercare di opporsi, e una di quelle era lo sguardo speciale del suo ragazzo.

-E va bene, una soltanto. Ma scegline una sistemata in un posto isolato, stavolta. Rompere quelle dei centri commerciali significa proprio implorare di essere arrestati.-

Sul viso del moretto si aprì un sorriso a trentadue denti. –Sei il mio fidanzato preferito, Steven Grant Rogers.-

-E l’unico, spero- sorrise l’altro, lasciandosi trascinare dentro il negozio di articoli sportivi.

 

Ne emersero venti minuti dopo alleggeriti di sessanta dollari, ognuno con una mazza da baseball in mano: quella di Tony era argentata, di metallo, leggera e maneggevole; quella di Steve di legno, un po’ più grossa, con il manico fasciato da un nastro adesivo porpora.

-E’ bello sapere che sei con me in questa impresa. Però insisto nel dire che avresti dovuto scegliere una mazza di metallo; quelle di legno si rompono facilmente- gli disse Tony, roteando la mazza nell’aria, facendo attenzione a non colpire i passanti.

Steve fece dondolare la sua contro la sua gamba. –Non è un’impresa, Tony, è solo il tuo modo di rispondere al troppo stress. E poi anche le mazze di metallo si rompono: si piegano.-

-Ed è adorabile come tu ti lasci convincere a rompere qualcosa per starmi vicino mentre gestisco tutto questo stress. E comunque le mazze di metallo sono più fighe.-

Il ragazzo scrollò le spalle. Avrebbe voluto dire a Tony che ormai non era più solo, che erano legati più di quanto credesse, che aveva deciso di condividere volentieri il suo destino perché lo amava: erano una coppia, anche se Tony non lo credeva possibile, date le sue condizioni. Ma non poteva farlo, non ancora. Fargli compagnia mentre sfogava la sua rabbia verso un destino assurdo era l’unico modo che conosceva per mostrargli attivamente il suo supporto.

Si fermarono davanti a una piantina della città e ne spiarono le icone nere che corrispondevano alle Macchine della Morte sparse per il quartiere.

-Ce n’è una a duecento metri da qui- fece Steve, indicando un rettangolino nero sulla mappa. –Nessun ristorante o supermercato vicino. Magari è una di quelle macchine esterne, sistemate come i bancomat.-

-Beh, che aspettiamo?- domandò Tony, caricandosi la mazza sulla spalla. –Andiamoci subito.-

Marciarono con le mazze in spalla come due soldati armati di fucile dritti verso la missione, finché non trovarono un cartello con una grossa freccia nera dal significato inequivocabile. La seguirono, e arrivarono di fronte ad una struttura metallica che sporgeva dal muro, come un vecchio telefono pubblico, solo che questo era nero e non aveva né schermo né cornetta, ma solo un buco cilindrico in cui infilare il dito per il prelievo di una goccia di sangue e due fessuri sottili: una per infilare i soldi e una da cui uscivano i cartellini.

Tony vi si piazzò davanti a gambe larghe, le dita che accarezzavano il manico della mazza. –Un colpo per uno- decise, e un secondo dopo sferrò il primo.

La struttura interna della Macchina era rivestita da un guscio di alluminio sottile: la famosa scatola nera, che si curvò sotto quel colpo con un muggito metallico.

La botta di Steve ebbe un effetto simile, e la scatola si ritrovò con un profondo solco proprio nel mezzo.

Il successivo colpo di Tony scatenò una pioggia di scintille. I circuiti interni cominciarono a frizzare feriti.

-Ora sì che si ragiona!- rise, e contro le regole diede un altro colpo, ancora più forte, e poi un altro ancora. I suoi occhi brillavano, ma non era felice.  

Vedendolo così, Steve ebbe voglia che quello che stavano facendo finisse presto. Voleva andare a casa con Tony, abbracciarlo, dirgli che andava bene piangere se ne aveva voglia, magari fare l’amore… Avrebbe voluto dirgli che ormai potevano farlo anche senza preservativo, non sarebbe cambiato niente.

La sua mazza di legno si abbatté su quell’aggeggio infernale con tanta forza da farlo a metà. Si aprì come una pentolaccia, senonché, invece delle caramelle, piovvero fuori fili elettrici, aghi sottili e un rotolo di carta; piccoli tasti contrassegnati da una lettera ciascuno colarono a terra insieme a un fiotto di inchiostro come denti sputati da una bocca presa a pugni troppe volte.

Steve guardò la mazza: il legno si era irrimediabilmente incrinato proprio al centro.

-Wow, Steve, che colpo!-

-Già. Che colpo- disse una voce un po’ meno divertita.

Entrambi si voltarono, e si trovarono di fronte un poliziotto che si portava addosso parecchi anni e parecchi chili di troppo. La pancia prominente sbordava dai pantaloni e tirava la camicia con una tale forza che ai bottoni sarebbe mancato solo un valido motivo per esplodere come proiettili. Sul petto aveva una targhetta con scritto “Franks”. Si sistemò il berretto sui radi capelli ingrigiti con una mano e con l’altra sfiorò la pistola.

-Signor agente, possiamo spiegare…- iniziò Tony, sicuro che sarebbe finito un’altra volta in Centrale.

Il poliziotto sbuffò.

-Cos’è, non siete stati contenti del responso della Macchina? Fate un po’ vedere i vostri cartellini prima che vi sbatta dentro.- Tese una mano aprendo e richiudendo le dita, impaziente.

I ragazzi pensarono che, magari, quel poliziotto aveva ricevuto un responso talmente orribile che avrebbe potuto capirli se ci avessero ragionato. Certo, un biglietto che diceva SONNO poteva non essere una buona ragione per fracassare una Macchina, ma uno che diceva INVESTITO DA UN TIR lo avrebbe giustificato… Chissà.

Steve estrasse il suo biglietto dal portafogli. Tony il suo se lo teneva sempre in tasca, e lo porse per primo al poliziotto.

C’era scritto: AIDS.

L’agente fece istintivamente un passo indietro, e studiò il corpo del ragazzo come in cerca di eventuali ferite da cui potesse sgorgare sangue infetto. Tony roteò gli occhi: ci era abituato, a quelle reazioni.

Appena recuperò la presenza di spirito il poliziotto fece un mezzo sorriso e chiese: -Ci siamo divertiti troppo senza guanto, eh?-

Le sopracciglia bionde di Steve si unirono in un’espressione accigliata che gli scurì gli occhi; gonfiando il petto e tendendosi in tutta la sua altezza si mise a fianco del suo ragazzo. 

Tony poggiò i pugni sui fianchi con aria seccata. Quell’imbecille avrebbe dovuto ricordarsi che aveva ancora una mazza in perfette condizioni dalla sua parte, e non aveva nessuna paura di usarla. -Come no. Me li sono fatti tutti da qui a Brooklyn. A proposito, lui è di Brooklyn- disse, indicando Steve con un cenno della testa. L’agente fece un altro passo indietro.

-Anche tu muori di AIDS?-

-No- disse il biondino. Gli porse il suo biglietto e il poliziotto lesse: LIBERO ARBITRIO.

-“Libero arbitrio”? E che diavolo significa?-

-Significa “Potere di fare le proprie scelte senza essere condizionati da fattori esterni”- citò Tony. Il poliziotto sbuffò.

-Lo so che cosa vuol dire. Quello che intendevo è… Come fa uno a morire di libero arbitrio? E’ suicidio? Ma allora non avrebbe dovuto esserci scritto SUICIDIO?-

Steve recuperò il suo cartellino dalle mani dell’uomo e se lo rimise nel portafogli. –Credo che lo scopriremo quando succederà.-

Tony notò che i resti della Macchina della Morte avevano preso a fumare e sfrigolare leggermente. Ci sarebbe stato ancora qualcosina da demolire, ma decise che dopo quel pomeriggio sarebbe stato meglio andarsene a casa. Dopotutto, sfogarsi si era sfogato, i suoi insulti li aveva ricevuti, quindi che gli restava da fare?

-Allora, siamo in arresto?-

L’agente di pattuglia tirò fuori da una tasca dei pantaloni nascosta dalla pancia un cartellino e glielo mostrò. Diceva: ESPLOSIONE.

-Quello stronzo di mio cognato mi ha convinto a fare il test e guardate che cosa ha sputato quella macchina del cazzo.-

Tony sogghignò. Chiaramente il signore non era soddisfatto del servizio.

-Per quello che mi interessa potete anche distruggerle tutte, ma fatelo dove nessuno può vedervi. Per questa volta passi, ma che non vi riveda più nella mia zona con quelle maledette mazze.-

Girò sui tacchi e li lasciò tra le macerie della Macchina che avevano disintegrato, gridando: -Non che serva a molto ormai, ma ti consiglio di usare un preservativo, ragazzo. Almeno eviterai di contagiare tutto il quartiere.-

-Ed io ti consiglio di stare lontano dalla cucina!- gli gridò di rimando Tony. –Le esplosioni si verificano anche in casa!-

Steve gli si mise vicino. –Lascialo perdere, è solo uno stronzo.-

-Quello l’avevo capito- borbottò Tony. Gettò la mazza ormai scheggiata in un angolo, dimentico dei trentacinque dollari che aveva speso per comprarla. –Andiamocene a casa.-

Cercava di non darlo a vedere, ma Steve sapeva quanto quel genere di commenti potesse ferirlo. Di sicuro ferivano lui.

Gli andò dietro, afferrandogli una mano perché camminassero insieme. Tony si divincolò dalla presa, stizzito.

-Lasciami andare!-

Steve intrecciò saldamente le loro dita e se lo tirò vicino. –Vieni qui.-

L’altro si arrese, e soffocò nel collo del biondo uno sbuffo strozzato che conteneva in egual misura dolore e rabbia.

Tutti pensavano che Tony si fosse preso l’AIDS con il sesso, e in effetti quattro anni fa, prima che conoscesse Steve, avrebbero potuto avere ragione. Uomini o donne non faceva differenza, per Tony consumare un rapporto era l’unico modo per sentirsi veramente connesso con le persone. Era un mordi e fuggi della loro anima, qualcosa che poteva assimilare per il tempo di un orgasmo, in cui si illudeva che la sua vita riuscisse a intrecciarsi con quella di un’altra persona. Si comportava come se, in quei corpi, stesse cercando qualcosa che non riusciva a trovare.

Nonostante i rapporti frequenti e disimpegnati, nessuno poteva immaginare quanto Tony fosse solo prima di conoscere Steve.

Poi erano diventati due, e da allora non era più stato con nessuno: Tony sapeva essere monogamo quando trovava qualcuno per cui ne valesse la pena, e con Steve aveva decisamente trovato quello che stava cercando.

Ma ovviamente prima di questo c’era stata la Macchina della Morte.

Lo aveva convinto Rhodey a fare il test, lo avevano fatto entrambi, una notte in cui erano ubriachi e la compagnia veniva a mancare. In quel periodo pareva che le notti di Tony non potessero passare senza che avvenisse un qualche tipo di penetrazione, fosse quella di un corpo o quella di un ago. Farsi entrare dentro qualcosa dava sempre la sensazione di essere un po’ più pieni e un po’ meno soli.

Non sembrava niente di ché, finché la Macchina non aveva sputato il biglietto con scritto AIDS.

Tony se ne era stupito. Aveva fatto uno screening neanche una settimana prima, perciò era sicuro di non essere stato contagiato da uno dei suoi partner occasionali. Da allora, per non rischiare e ritardare il più possibile l’avverarsi del responso, aveva deciso di prendere precauzioni serie durante ogni tipo di rapporto. Preservativo sempre e comunque, persino con i lavoretti di bocca o di mano; non si poteva mai sapere le ferite aperte che la gente si portava addosso. Non avrebbe più leccato una donna in nessun posto, neanche se questa lo avesse supplicato in ginocchio, e neppure avrebbe acconsentito a giochi sadomaso con gente di cui non si fidava: si faceva presto a trovare un matto che affondasse troppo i denti o le unghie, o che, semplicemente, si sfilasse il preservativo a tradimento.

Nonostante tutte le sue precauzioni, un giorno, al lavoro, gli capitò di sentirsi un vero schifo. Svenne senza ricordare un momento in cui era stato più male di così.

All’ospedale gli avevano fatto una serie completa di esami del sangue, e aveva scoperto di avere avuto un crollo feroce di globuli bianchi, nonché il virus dell’AIDS che circolava nel suo sangue libero come se fosse a casa sua.

Non riusciva a spiegarsi come l’avesse preso; con i rapporti sessuali no di sicuro, era stato talmente attento da poter interpretare il poster boy del sesso sicuro.

E allora come?

I medici chiesero: “Fa uso di droghe iniettabili, è solito operare scambi di siringhe usate, è stato aggredito o vittima di una violenza sessuale non denunciata?”

No. No. No. E no!

“Ultimamente è entrato in contatto con aghi o strumenti chirurgici che aveva ragione di credere non essere sterili?”  

Ci pensò. Si sentì gelare.

La Macchina.

L’unico ago che avesse toccato il suo corpo era quello della Macchina della Morte con cui aveva fatto il test un anno prima.

Venne aperta un’indagine. Fortunatamente la Macchina che avevano usato lui e Rhodey non era in una zona molto frequentata, e la scorta di lancette non era stata rinnovata da quando Tony aveva fatto il test. Le analizzarono.

Venne fuori che effettivamente uno degli aghi era infettato con il virus dell’HIV; c’erano inoltre il sangue di Tony e quello di un maschio sconosciuto. Le indagini rivelarono che il meccanismo si era inceppato dopo che lo sconosciuto aveva fatto il test, impedendo all’ago di essere sostituito, e così la lancetta aveva punto due persone una dopo l’altra, contagiando il cliente successivo.

Tony era rimasto troppo scioccato persino per capire che la società produttrice della Macchina gli aveva offerto un grossissimo risarcimento purché non facesse loro causa. Lui non la fece. Accettò i loro soldi in modo quasi meccanico. Tanto, con una causa legale ne avrebbe solo avuti un po’ di più, ma in fondo che importanza poteva avere?

L’unica cosa che contava per lui era che per colpa di quel maledetto aggeggio si era preso una malattia dalla quale era impossibile guarire, e avrebbe corso il rischio di trasmetterla ad altri se non fosse stato più che prudente.

L’aver conosciuto Steve gli era sembrato l’unico vero risarcimento che la vita potesse offrirgli dopo quella fatale scoperta. Lo amava, Steve stravedeva per lui; insieme erano felici e, anche se Tony ci aveva pensato molto bene prima di fare sesso con lui, alla fine si era lasciato persuadere che, finché avessero preso le dovute precauzioni, sarebbe andato tutto bene.

Ai tempi dei loro primi incontri non aveva ancora detto a Steve di avere l’AIDS; non voleva far scappare la cosa migliore che gli fosse capitata, almeno non prima di sentirsi lui stesso a suo agio con la propria condizione. E dopo un po’, col tempo, aveva imparato a conviverci, e non ci pensava più di tanto. Eccetto le volte in cui faceva gli esami del sangue per tenere d’occhio i suoi globuli bianchi. Se nonostante gli antiretrovirali la loro concentrazione scendeva un po’, allora la disperazione si faceva troppo grande, e prendeva una mazza o qualsiasi altro corpo contundente che riuscisse a trovare, e andava alla ricerca della Macchina più vicina.  

Questo perché non poteva distruggere sé stesso.

Si sentiva colpevole tanto quanto la Macchina: se non avesse fatto quello stupido test non si sarebbe mai neanche ammalato, ma ormai era inutile piangere sul latte versato.

Non era riuscito a tenere segreto a Steve il suo piccolo antistress molto a lungo.

Dopo che Bucky era stato traferito al distretto del loro quartiere, Tony non aveva più potuto evitare che Steve sapesse, e a quel punto tanto valeva dirgli tutta la verità.

Era convinto che, una volta saputo che era sieropositivo, Steve se ne sarebbe andato, non era la prima volta che succedeva; quando venivano a conoscenza di cosa si portava nel sangue, le persone si assicuravano sempre di tenere le debite distanze da lui. Viste le volte in cui avevano dormito insieme magari gli avrebbe persino fatto causa per tentato omicidio, chissà.

Invece non era successo. Steve era rimasto, contro ogni aspettativa, e dopo un po’ aveva deciso di fare lui stesso il test della Macchina della Morte.

Era venuto fuori: LIBERO ARBITRIO, chissà cosa significava. Tony comunque era contento che non fosse uscito AIDS. Significava che avrebbe potuto averlo accanto a sé quando sarebbe morto, avrebbe potuto vederlo invecchiare senza consumarsi come sarebbe invece toccato a lui.

Se c’era una cosa che Tony Stark aveva imparato dopo essersi ammalato era che nella vita l’importante era cercare sempre il lato positivo delle cose. Tony era uno a cui la vita aveva dato parecchi limoni, ma lui aveva imparato a farci la limonata.

Così andava avanti, a parte gli occasionali istinti assassini contro le Macchine della Morte.

 

A casa, finalmente. Al sicuro nel loro appartamento.

I muri color crema e le tendine da poco impregnate dell’odore della polvere che scintillava all’interno dei raggi di sole non erano mai stati tanto confortanti come quando li vedeva insieme a Tony.

Appena la porta fu chiusa, Steve gli mise le mani sui fianchi e lo attirò a sé, soffocando ogni protesta con un bacio. Gli veniva quasi da ridere ogni volta che si baciavano, perché Tony stava sempre attento ai denti di entrambi, affinché nessuno dei due mordesse accidentalmente l’altro. Ne risultava un bacio bagnatissimo, con la lingua di Tony che si muoveva da tutte le parti per attutire gli scontri e un rivolo di saliva che sfuggiva dalla sua bocca mentre lui sospirava per lo sforzo di fornire aria a tutto quel processo. Non riusciva ancora a convincersi di non poter infettare nessuno con un bacio.

Anche quella volta, Steve rise.

-E’ una cosa seria- borbottò Tony. Non voleva contagiarlo in alcun modo, neanche per sbaglio, non se lo sarebbe mai perdonato.

Steve gli passò il pollice sul mento, asciugando la saliva.  

-Hai bisogno di rilassarti- disse, solleticando il bordo dei suoi pantaloni e infilandoci sotto le dita. Tony lo bloccò.

-Preservativo. E se vuoi toccarmi così usa i guanti di lattice.-

-Tony, davvero…-

-Non sto scherzando.-

Steve gli lasciò un bacio sulla guancia e rimase lì sul suo viso, assaggiandone il calore. Parlando, le sue labbra si muovevano sulla pelle di Tony, facendogli correre brividi lungo la schiena. –Sei fortunato che ti amo, altrimenti non mi presterei a queste cose.-

Tony non l’aveva mai più pensato da quando si era preso l’AIDS, ma in momenti come questi si sentiva fortunato davvero.

-Sì, lo sono.-

Si lasciò condurre in camera da letto, senza neanche lontanamente sospettare quello che Steve aveva fatto mesi addietro.

Il biondo sorrise di nascosto. Prima o poi avrebbe dovuto dirglielo; non ancora però.

Quando lo aveva conosciuto era stata dura fare breccia nel suo cuore, non aveva mai incontrato nessuno così chiuso in sé stesso. Naturalmente allora non sapeva ancora che al naturale carattere di Tony si fosse aggiunta l’AIDS, e che tendeva a non approfondire i rapporti ancora più di un tempo. Ironicamente, lui stesso aveva scoperto di riuscire ad aprirsi completamente soltanto con quell’individuo eccentrico e arrogante, forse perché la lotta per arrivare a lui rendeva inutile la sua, di maschera. Con Tony aveva scoperto le gioie di non essere più un così bravo ragazzo.

Erano stati felici insieme.

Poi Tony gli aveva confessato di essere sieropositivo. Gli aveva raccontato tutta la storia alla Centrale di Polizia, il loro luogo d’incontro dopo che il moro aveva avuto una brutta giornata; e Steve che pensava chissà cosa... Comprensibile che ce l’avesse con le Macchine.

Sarebbe morto prima del tempo per colpa di uno di quegli aggeggi.

Steve smise di respirare quando metabolizzò la cosa. Si rese conto però che doveva essere forte. Non avrebbe permesso a niente e nessuno di portargli via Tony, non finché lui era in vita, non poteva accettarlo, semplicemente. Ma come risolvere il problema di una malattia incurabile?  Steve non era il tipo d’uomo che si lasciava spaventare. Non aveva mai visto Tony così fragile e solo come quando gli aveva confessato la sua malattia; voleva dimostrargli che lui gli sarebbe sempre stato accanto, che non lo avrebbe abbandonato come avevano fatto tutti gli altri: gli sembrava la cosa più importante in quel momento.   

Così prese un’importante decisione. Un po’ egoista, probabilmente, ma Tony avrebbe capito.

Almeno, così sperava.

Ma prima di questo decise di fare il test.

Andò con Tony alla Macchina della Morte più vicina. Il suo ragazzo aveva cercato in tutti i modi di dissuaderlo, ma non poteva nulla contro la determinazione di Steve; riuscì solo a trattenere il fiato quando il biondo infilò il dito nel cilindrò metallico della Macchina.

Steve era sicuro che sarebbe uscito un solo risultato, uno prevedibile, visto quello che aveva deciso di fare. Invece ricevette LIBERO ARBITRIO.

Tony sospirò di sollievo. Steve si sentì confuso per un istante, ma poi capì: quell’aggeggio doveva leggere nel pensiero.

Per celebrare quel responso tanto strano decisero di fare l’amore con più gioia del solito. Quello che Tony non sapeva era che Steve, con la scusa di andare a prendere i preservativi che aveva lasciato in bagno, si chiuse la porta alle spalle e tirò fuori un ago che aveva precedentemente nascosto in un cassetto.

Con quello fece un buco attraverso la confezione del condom, in modo tale che, in termini di protezione, non servisse più a niente, ma che non si rompesse in maniera evidente durante il rapporto.

Tornò in camera e si mise a cavalcioni del suo ragazzo, che lo aspettava sdraiato sul letto con indosso solo i pantaloni. Gli sciolse la cintura.

-Vuoi fare una cosa per me?- sussurrò, le pupille dilatate sotto le ciglia bionde.

Tony sorrise. Non sospettava nulla.

-Tutto quello che vuoi.-

Steve gli abbassò con cautela i pantaloni, strappò la confezione del condom e la porse a Tony perché lo indossasse.

-Stai sopra.-

 

Ripeté l’operazione per due settimane, tanto per stare sul sicuro. Era sempre riuscito a farla franca manomettendo il preservativo senza che Tony se ne accorgesse, e convincendolo ad essere attivo anche quando ne avrebbe avuta voglia lui. Nel contempo visitava l’ospedale ogni tre giorni.

Alla terza settimana ricevette i risultati dei suoi esami del sangue:

Positivo all’HIV.

Ottimo.

Non aveva scelto quella strada perché si era arreso alla Macchina, si disse Steve. Piuttosto, lo aveva fatto perché si rifiutava di cederle il controllo della sua vita, e forse la Macchina lo aveva capito; ecco perché invece di SUICIDIO o AIDS sul suo foglietto c’era scritto LIBERO ARBITRIO.

Certe cose potevano capitare per caso, a certe altre le persone erano costrette, ma Steve si era sempre considerato un fervente sostenitore delle decisioni prese con la propria testa, ed era pronto ad assumersene tutte le responsabilità.

 

 

N.d.A.

 

I ruoli di Steve e Tony non sono finiti qui. Mi piacerebbe fare di questa mini long una storia dove i destini dei personaggi si intrecciano, si incrociano… Rendiamo più interessante la cosa, perché qui ci saranno quasi tutti.

Il destino di Steve è nato da una mia personale pesca alle parole: ho aperto un libro e puntato il dito su una zona a caso della pagina. E’ uscita l’espressione “Libero arbitrio”, e da lì è nata tutta la storia.

Siete curiosi del futuro che aspetta tutti gli altri?

Se sì vi aspetto al prossimo capitolo :)

 

 

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Capitolo 2
*** Batteriologicamente sterilizzato ***


Capitolo 2: Batteriologicamente sterilizzato.

 

 

Da quando la Macchina della Morte aveva sputato il suo cartellino, entrare in casa di Loki era diventato molto difficile. 

Non che fosse colpa del responso in sé, quanto piuttosto del suo destinatario. Era uno degli effetti collaterali più diffusi, quello che aveva colpito Loki. Cioè… Prendere talmente sul serio una predizione da studiarle tutte, ma proprio tutte, per evitare che si realizzi.

Ovviamente il carattere di Loki non aveva permesso che le cose arrivassero subito al punto di non ritorno. Non aveva dato peso al cartellino fino alla prima occasione in cui gli eventi della sua vita si erano incrociati con la predizione della sua fine.

Dopo quel giorno aveva fatto un raid al supermercato della durata di quattro ore, e si era chiuso in casa spezzando i contatti con tutti quelli che conosceva.

Ormai, dicevamo, entrare in casa sua era diventata un’impresa ardua.

Ma non impossibile.

Con le dovute precauzioni.

-Non capisco proprio perché ci dobbiamo andare- protestò Tony, stringendosi al petto i lembi della giacca a vento. Era Aprile ma cavolo se faceva freddo. –A me Loki neanche piace.-

Steve gli calcò sulla testa la cuffia di lana, che scese sulla sua fronte lasciando solo qualche ciocca scura a coprirgli parzialmente la vista.

-Thor ha insistito tanto. Pensa che a suo fratello non faccia bene evitare del tutto il contatto umano.-

Tony scostò la mano del biondo dalla sua testa. Il fatto che avesse ottimi motivi per non beccarsi uno dei tanti malanni stagionali non era una buona ragione per essere trattato come un bambino.

-Lui vuole evitare il contatto umano, ecco perché si è chiuso in casa e non esce mai. Con la predizione che si ritrova, qualcuno potrebbe dire che fa anche bene.-

Una nuvoletta di vapore bianco uscì dalla bocca di Steve dopo che questi si ritrovò a sospirare. Non gli piaceva quell’attitudine pessimistica.

-Nessuno dovrebbe essere schiavo di questi stupidi cartellini come Loki lo è del suo. Cercando di evitare la morte ha smesso di vivere la sua vita.-

-Non è colpa mia se è un idiota. Dovrebbe imparare ad accettare le cose che non può cambiare- disse Tony, infilandosi le mani in tasca e tirando fuori una sigaretta. Tempo qualche minuto e sarebbero arrivati all’appartamento di Loki, là poteva anche scordarsi di fumare.

Steve gliela levò dalla bocca prima che la rotella dell’accendino nell’altra sua mano producesse il caratteristico clic.

-Ehi!-

-Ti ho già detto che non voglio che tu ti metta a fumare. Vuoi proprio che i globuli bianchi si azzerino prima del tempo?-

-Tanto non cambia nulla- borbottò Tony stringendosi nelle spalle.

Steve odiava quando Tony si comportava in questo modo, come se dovesse morire domani. Sapeva che con la loro malattia non avrebbero vissuto in eterno, ma non voleva pensare alla morte, non quando c’erano ancora così tante cose che potevano fare insieme. Forse era troppo ottimista, ma da tempo si era convinto che la loro storia avesse bisogno di qualcuno che li mantenesse con i piedi per terra e vedesse anche il lato positivo delle cose. Sapeva che Tony usava il sarcasmo per difendersi dal senso di oppressione che la conoscenza della propria morte gli dava (e in effetti, visto il modo in cui si era ammalato, chi poteva fargliene una colpa?), ma delle volte questo suo atteggiamento arrivava ai limiti dell’autodistruzione. Come quando, neanche un mese prima, era rimasto sotto un gelido acquazzone con indosso solo una maglietta di cotone e gli shorts perché, in ogni caso, sarebbe dovuto morire presto. Spesso fumava come i malati di cancro che pensano che tanto, ormai, non hanno più cellule sane da rovinare.

-Tu sei l’opposto di Loki, sei fin troppo fatalista. Non c’è da sorprendersi che non ti sopporti.-

Tony giocherellò con l’accendino, lasciando che una debole fiammella illuminasse a tratti il suo sorriso.

-Non mi sopporta perché sono malato. Se non fosse per l’insistenza tua e di Thor non mi farebbe neanche entrare in casa.-

Questo Steve doveva riconoscerlo. Non era da tutti ricevere un cartellino con su scritto GERMI, ma sicuramente a tutti i destinatari con un briciolo di autoconservazione sarebbe venuto spontaneo cercare di evitare i virus.

E Tony aveva IL virus.

Ma non si poteva neanche dare tutta la colpa a Loki. In principio quel biglietto era stato molto più leggero, e Loki non sospettava neanche il peso che avrebbe raggiunto di lì a poco. I germi sono dappertutto, è praticamente impossibile evitarli, ma un giovane uomo in piena salute aveva di certo tutte le armi a sua disposizione per riuscire ad evitare quella onnipresente microminaccia. Il cartellino della Macchina della Morte era stato dimenticato in un cassetto sotto una pila di vestiti vecchi, con l’intenzione di fungere da dessert per le tarme.

Poi però Loki aveva avuto un incidente. Una sciocchezza, si era tagliato con una forbice.

La cosa grave fu che le lame erano sporche, e lui si prese un’infezione coi controfiocchi. Aveva la mano talmente gonfia da sembrare uno di quei guanti di lattice dentro cui i medici soffiano per farli assomigliare a un palloncino e regalarli ai pazienti più piccoli. Tony aveva tentato di disegnare uno smile sopra le bende con un pennarello, prima di essere sbattuto a calci fuori dalla camera d’ospedale da un Loki fuori di sé e potenzialmente omicida. Nonostante la febbre alta e la flebo nel braccio, Loki con la mano sana e le gambe sapeva ancora cacciare eventuali seccatori.

Aveva passato due giorni in un letto a riflettere in un bagno di sudore freddo dentro il suo corpo che bruciava a quaranta gradi, con suo fratello a vegliarlo senza che lui se ne accorgesse. Era troppo impegnato a realizzare quanto vicino si fosse trovato alla morte.

Aveva capito che poteva arrivare prima di quanto pensasse.

Ma aveva la soluzione: sarebbe bastato creare un ambiente ostile ai germi, riempirlo di tutto ciò che poteva servirgli, colonizzarlo e lasciare che il mondo esterno suppurasse in tutte le malattie orribili che quei microscopici assassini si portavano dietro. Ma senza di lui.

Appena si sentì meglio si comprò un computer nuovo, andò al supermercato e fece incetta di detersivi, aspirapolveri, profumi per ambienti, insetticidi, alcool denaturato. Quindi visitò una farmacia, e la svuotò di ogni prodotto che poté comprare senza ricetta, inclusi disinfettanti, mascherine, guanti, antibatterici, medicine per ogni disturbo conosciuto all’uomo.

Con tutta la sua spesa si chiuse la porta alle spalle, e nessuno sentì più la sua voce se non attraverso il crepitio del citofono. Andava avanti così da un anno.

-Chi lo sa, magari si sente un po’ meglio- considerò Steve, spezzando la sigaretta che aveva rubato al suo ragazzo e spargendo tabacco come Hansel che si lasciava dietro briciole di pane.

-Non credo. Secondo me è partito di testa- obiettò Tony, dandosi un colpetto alla cuffia per sottolineare il suo punto di vista. Steve non gli rispose, perché, avvicinandosi al complesso di appartamenti in cui abitava Loki, vide Thor sul pianerottolo, e gli fece un cenno di saluto. Lui rispose agitando entrambe le braccia con un sorriso esagerato, come un naufrago che cerca di attirare l’attenzione di una nave di passaggio.

-Ma che ha sempre da ridere?- si chiese il moro, mordendosi le labbra e sentendo la mancanza della sua sigaretta.

-Sarà contento di essere venuto a trovare suo fratello in compagnia dei suoi amici- ipotizzò Steve.

Iniziarono a salire le scale per raggiungere Thor. –Io penso che sia andato pure lui. Dopo il responso ridicolo che ha ricevuto i suoi attacchi di allegra idiozia sono peggiorati.-

Steve gli diede uno schiaffo sulla nuca, facendogli cadere la cuffia sugli occhi. –Smettila, che siamo quasi arrivati. E non parlare più dei cartellini della Macchina.-

-Steven! Anthony!-

Thor era sempre felice di vedere tutti, abbracciava tutti, sorrideva sempre. Non l’avrebbe detto nessuno che pure lui avesse fatto il test della Macchina della Morte. Avrebbero potuto pensare che avesse ricevuto NEL PROPRIO LETTO, AD UN’ETA’ AVANZATISSIMA. Di sicuro non aveva AIDS, perché strinse forte Tony esattamente come aveva fatto con Steve un attimo prima.

-Vacci piano!- disse il moretto, massaggiandosi le spalle che aveva sentito scrocchiare.

-Scusa- fece Thor, grattandosi la nuca.

Thor era un ragazzone altissimo e fortissimo, ma ben proporzionato e molto carino, con occhi color ghiaccio e capelli biondi e lunghi, selvaggi esattamente come la sua barba incolta. Sapeva rompere le ossa con un sorriso e senza neanche accorgersene, ecco perché Steve (che aveva abbastanza muscoli da contrastare il suo affetto) non vedeva nulla di male nel farsi abbracciare mentre Tony (che era più basso e più debole) cercava di ridurre i contatti al minimo.

-Hai già suonato il campanello?- domandò Steve. Faceva piuttosto freddo fuori, e sapevano tutti e tre che Loki ci avrebbe messo molto ad aprire.

-No, vi aspettavo. Lo sapete che non gli piacciono le sorprese, è meglio esserci tutti.-

Tony roteò gli occhi e spostò il peso da un piede all’altro. -Va bene, ma diamoci una mossa, mi sto gelando il culo qua fuori.-

Thor premette il campanello e dopo un minuto infinito una voce crepitò all’interfono.

-Sì?-

-Loki, sono Thor- salutò il ragazzo, con un cenno della mano. Il cerchio violetto del videocitofono sembrò stringersi sui tre ospiti in attesa.

-Andatevene via, non voglio vedere nessuno. Soprattutto lui- disse la voce di Loki. Tony aggrottò le sopracciglia e la cuffia si increspò. Sapeva già che il fratello di Thor si stava riferendo a lui.

-Se può consolarti neanch’io voglio vedere te. Sono venuto solo perché questi due mi hanno costretto.-

-Tony!- lo rimproverò Steve.

-Andiamo, Loki!- insistette Thor. –Ti ho portato anche le caramelle alla menta che ti piacciono tanto.-

Il biondone sollevò un pacchettino di caramelle balsamiche con il marchio della farmacia. Le aveva prese sicuro che Loki, amante della menta e sapendole provenire da un luogo sano e pulito, le avrebbe accettate.

Ci fu una pausa durante la quale il padrone di casa stava, presumibilmente, riflettendo.

-Vi metto le mascherine davanti alla porta.-

-No! Io non me la metto quella roba!- protestò Tony.

-Allora resti fuori- fece la voce.

-Bene!-

-Non dargli retta. Dacci tutto quello che vuoi, basta che ci fai entrare. Qua fuori si gela- disse Steve, che non ne poteva più. Era tanto buono e caro ma anche lui rischiava di esaurire le sue scorte di pazienza.

Si sentì un rumore al di là della porta: un giro di chiavi, qualcosa che veniva posato a terra, un altro giro di chiavi. Loki aveva una doppia porta, e nello spazio che le separava poteva appoggiare tutto ciò che sarebbe servito ad eventuali e sempre più rari ospiti.

-Entrate- disse la sua voce, che stavolta sembrava appartenere a un vero corpo, avendo parlato attraverso la porta e non l’interfono.

Steve aprì l’uscio e notò il tavolinetto con sopra tre mascherine. Ne afferrò una e diede l’altra a Tony. Thor prese la sua.

-Non posso credere che mi tocchi prestarmi a questa pazzia- si lamentò il moretto. –E tutto per andare a trovare un tizio che per di più mi sta sulle palle.-

-Io penso che tu a Loki stia molto simpatico- disse Thor, sistemandosi la maschera sulla bocca. –Se non fossi malato accetterebbe di vederti più spesso.-

Grazie al cielo, pensò Steve, non aveva detto a nessuno di avere anche lui l’AIDS; Loki avrebbe dato in escandescenze.

Alla fine anche la seconda porta si aprì.

-Levatevi quei cappotti e chiudete tutto- ordinò in lontananza il padrone di casa.

Lasciarono le giacche sugli appendiabiti e si ritrovarono nell’appartamento più lindo e pulito che avessero mai visto. I pavimenti avevano piastrelle bianche talmente lucide che sembrava di pattinare su un lago ghiacciato, i muri erano immacolati, le tende rigide di amido e profumate… Nell’aria aleggiava un persistente, stordente odore di disinfettante che non se ne andava mai, perché le finestre erano sempre chiuse. L’abitazione di Loki sembrava la versione pulita di “Sepolti in casa”.

A Tony venne un capogiro, e Steve socchiuse gli occhi che avevano preso a lacrimare. Soltanto Thor sembrava a suo agio, immune a quelle esalazioni grazie forse all’allegria che si portava addosso come un’armatura.

-Non ce la faccio. Non riesco a respirare- tossì Tony, diventando rosso dietro la mascherina. Steve gli diede una pacca sulla schiena.

-Resisti. Un paio di minuti e ti ci abituerai.-

-Hai mai pensato che la causa della sua morte possa essere l’assenza di germi? Prima o poi verserà talmente tanto detersivo da soffocarsi con le esalazioni tossiche.-

In fondo al corridoio comparve un ragazzo che con Thor aveva in comune l’altezza e poco altro. Era scuro di capelli, con due occhi verdi gelati piazzati in mezzo a un viso smunto e sciupato come il resto del suo corpo, che sembrava fluttuare senza peso in quell’atmosfera asettica da ospedale.

-Cosa volete?- domandò, la voce che tradiva un certo astio. Da quando la sua mania per i germi era cominciava, Loki aveva azzerato i suoi rapporti sociali, e odiava dover far fronte alla possibile minaccia biologica che costituiva una visita di cortesia. Se uno di loro avesse starnutito, probabilmente sarebbe stato ammazzato. Beh, no, ammazzato no, meglio evitare spargimenti di sangue. Ma gettato da una finestra magari sì. E lui fissava Tony in particolare con questa idea nella mente, pronto a prendere provvedimenti perché non spargesse il suo pericolosissimo virus neanche per sbaglio.

Thor dondolò il sacchetto di caramelle davanti al suo naso.

-Siamo solo venuti a trovarti. Volevo assicurarmi che stessi bene; da un po’ hai smesso persino di telefonare.-

Loki agguantò le caramelle si diresse verso la cucina. Lo raggiunsero in uno spazio dai muri decorati da uno sfavillio argenteo di utensili, certamente mai utilizzati ma molto spesso lucidati.

-Possiamo avere una tazza di caffè, o preferisci fare il pessimo padrone di casa e lasciarci marinare nel disinfettante con cui hai impregnato questo posto?- chiese Tony, tormentandosi i legacci della mascherina.

Loki lo guardò con occhi che brillavano di una luce assassina.

-Mettiti le mani in tasca se non sai cosa fare, Stark.-

Steve era passato del tutto inosservato. Loki tendeva a dimenticarsi di quelli verso cui non provava rancore.

-Ti trovo bene, Loki.-

Il ragazzo sbuffò. –Sì, sì, come no. Starei benissimo se la gente smettesse di venire a farmi visita.-

Prese da un armadietto delle tazzine di vetro profumate e trasparenti e accese la macchina del caffè, che si mise al lavoro con un ronzio meccanico.

-Ma non puoi isolarti dal mondo intero- sostenne Thor, che si arrischiò a strisciare una sedia sul pavimento, allontanandola dal tavolo per sedervisi sopra. –Non sai quanto mi dispiaccia che tu non mi permetta più di portarti la spesa.-

Raramente Loki usciva di casa. Aveva fatto del suo appartamento un santuario completamente sterilizzato, in cui dormiva, mangiava e lavorava. Comprava cibo, medicine, libri e vestiti su Internet e si faceva consegnare tutto a casa. All’inizio Thor si era offerto di fare lui le sue commissioni, e a Loki era andato bene avere un fattorino disposto a servire gratis la sua persona.

Finché non aveva capito che Thor usava questo espediente per venirlo a trovare molto più spesso. Adorava il suo fratellino, e si preoccupava per lui talmente tanto da fare addirittura invidia a Jane, la sua fidanzata.

-Sei noioso- grugnì Loki. –E poi scommetto che vieni qui solo perché così sarai al sicuro dalla tua predizione.-

-Ma non è vero.-

A Tony scappò una risata, e Steve gli lanciò un’occhiataccia, ma non poteva proprio farne a meno.

Avevano fatto almeno cinque tentativi, e la Macchina della Morte aveva giurato e spergiurato che Thor sarebbe morto SCIVOLANDO SU UNA BUCCIA DI BANANA. Steve doveva perdonare Tony per il fatto di trovarlo comico.

Loki si era liberato non solo di tutto lo sporco che lo circondava, ma anche di tutti i suoi possibili portatori (insetti, topi, scarafaggi) spruzzando veleno in ogni angolo della casa, e coprendo poi la puzza con un deodorante per ambienti. Ma aveva anche buttato tutti i possibili cibi in grado di causare allergia, forse per questo era così magro.

In casa sua indubbiamente non si sarebbe trovata neanche l’ombra di una banana. Thor era in una botte di ferro.

Ma non era per quello che veniva a trovarlo, lui a Loki ci teneva davvero.

Solo Steve riusciva a capirlo appieno, specialmente quando lo vedeva fare quella faccia da cucciolo bastonato sopra il caffè che Loki gli offriva.

-Possiamo toglierci la mascherina per berlo o dobbiamo assorbirlo attraverso il filtro?- chiese Tony sarcastico, alzando le sopracciglia.

Loki sbuffò. –Ho già visto che nessuno di voi tossisce o starnutisce. Non sarete del tutto puliti ma mi accontenterò, e tanto poi disinfetto tutto.-

Tony si levò la mascherina e la gettò sul tavolo, subito imitato da Steve e Thor. –Finalmente!-

Senza quell’affare l’odore di prodotti chimici era persino peggiore. Tony sorseggiò il suo caffè per superare lo shock. Fece una smorfia.

-Ma che schifo. Questa roba sa di detersivo per i piatti.-

E qui Steve dovette dargli ragione. Loki schiacciò la sua tazzina sul tavolo con un sonoro toc.

-Se non ti va bene, tu e il tuo virus potete andare a prendere il caffè nel bar dall’altra parte della strada.-

-Quasi quasi…-

-Andiamo, smettetela. Loki, in realtà sono venuto qui per chiederti se ti piacerebbe passare le vacanze invernali da me e Jane- fece Thor, giocherellando con il suo cucchiaino.

Il viso algido del fratello non cambiò espressione mentre incrociava le braccia al petto. -Non se ne parla.-

-Oppure possiamo venire noi da te- insistette il biondone, quasi supplicando. Le avrebbe provate tutte per tirare fuori Loki da quell’eremo asettico che si era costruito, per lui non era affatto salutare come credeva. Ma non voleva forzare la mano. Con suo fratello ogni cosa andava fatta con i guanti di velluto.

-Venire qui! La tua ragazza potrebbe mandarmi a fuoco la casa, o nella migliore delle ipotesi rovinarmi l’impianto elettrico.-

Il cartellino di Jane diceva FULMINATA. Poteva capitare all’aperto come al chiuso, ma certamente Loki non voleva che succedesse in casa sua.

-Avanti, te lo chiedo per favore.- Thor si piegò sul tavolo, la sua tazzina si rovesciò, riversando un’onda nera di caffè sulla superficie immacolata del tavolo.

-Guarda che cosa hai combinato! Sei uno scimmione rozzo e senza grazia, non c’è da stupirsi che tu muoia per colpa delle banane!- gridò Loki. Stavolta di germi non ce ne sarebbe stata traccia, ma vivere in una casa perfetta lo aveva portato ad odiare persino il disordine e lo sporco.

Si affaccendò con una spugna a contenere il laghetto nero.

-Se possiamo aiutarti…- tentò Steve.

-No! Faccio da solo.-

Una volta raccolto tutto il caffè Loki prese una bottiglia di plastica rosa, e cominciò a strizzarla spruzzando alcool su tutta la superficie del tavolo. I vapori erano talmente forti da risultare nauseanti.

Era pronto ad asciugare il tutto con uno straccio quando Tony starnutì.

Non era stata colpa sua, con tutta quella puzza che pizzicava le narici non era riuscito proprio a trattenersi.

-Aaachooo! Scusate.- Tirò fuori un fazzolettino di carta dalla tasca dei pantaloni e si soffiò il naso. –Questo dove lo butto?-

Steve osservò la scena preoccupato. Era come se il tempo si fosse fermato: Loki con lo straccio ancora umido di alcool immobile sopra il tavolo, Thor che faceva vagare lo sguardo nervosamente ora sull’uno ora sull’altro, e Tony che si rendeva conto solo ora di avere commesso un grosso errore.

-Oh, oh…- Si rimise in tasca il fazzoletto.

Loki divenne viola. Gettò lo straccio da una parte e tirò con violenza Tony su dalla sedia, quindi lo spinse in corridoio.

-Fuori da casa mia!- urlò. –Tutti quanti!-

Percorsero in un millisecondo lo spazio che li separava dalle doppie porte.

Tony cercò di spiegargli con parole sue che l’AIDS non avrebbe potuto attaccargliela semplicemente starnutendo, ma Loki era livido, e non lo ascoltava.

-Andatevene via subito!-

Sbatté fuori tutti e tre insieme ai loro cappotti. I ragazzi si ritrovarono sul pianerottolo con le giacche in mano, ad ascoltare le porte che sbattevano e gli spruzzi furiosi di chissà quale germifugo.

-E non tornate!-

Thor bussò un paio di volte. -Ti prenoto degli esami del sangue?-

Era praticamente certo che dopo quell’incidente Loki avrebbe fatto venire qualcuno per farsi fare un check-up completo.

-Fottiti!- disse la voce tra gli spruzzi al di là della porta.

-Come siamo volgari. Di certo i germi non ti entreranno dentro dalla bocca- fece Tony, allacciandosi la giacca. Loki poteva essere strano finché voleva, ma quel trattamento cominciava ad irritarlo parecchio.

Ancora urla.

-Se mi hai attaccato l’HIV giuro su Dio che ti uccido con le mie mani!-

-Sempre che tu riesca ad uscire di casa!-

-Lo farò dopo che avrò sterilizzato ogni cosa che hai toccato!-

-Ti auguro di affogarci in quel disinfettante!-

-Ok, adesso andiamo, mmh?- Steve lo trascinò per un braccio fino al marciapiede sottostante, con Thor che li seguiva mogio.

-Eppure sembrava che stesse migliorando…- ponderò il biondone dando un calcio a un sassolino. –Vorrei davvero che mi permettesse di portargli di nuovo la spesa. Magari riesco a convincerlo ad uscire.-

-Tuo fratello è completamente suonato, fidati di me- brontolò Tony. –Ci morirà in quella casa.-

-Tony, lo so che non è stato gentile con te, ma non è tutta colpa sua. Se non avesse fatto quello stupido test non si sarebbe ridotto così- gli disse Steve, sentendosi un po’ in colpa. Avrebbe potuto condividere la stessa sorte del suo fidanzato se solo si fosse deciso a rivelargli che aveva fatto in modo che lui lo contagiasse.

-Non è neanche colpa mia se lui, al contrario di suo fratello, non riesce ad accettare l’idea della propria morte. Magari non saranno i miei germi ad ucciderlo, eppure ti dico che quando fa così mi viene voglia di tagliarmi un dito e sventolargli il sangue in faccia.-

Steve decise di cambiare argomento.

-A proposito Thor, tu sembri averla presa molto bene. La tua predizione, intendo. Vorrei che Tony mettesse da parte il suo sarcasmo e avesse il tuo ottimismo.-

Il ragazzo fece una risatina. –Ah, beh… Non è da tutti ricevere SCIVOLANDO SU UNA BUCCIA DI BANANA. Il più delle volte cerco di non pensarci perché non c’è niente che io possa fare. Dopotutto, la Macchina non sbaglia mai, vero? A che scopo preoccuparsi? Inoltre non specifica quando accadrà, potrebbe capitare tra un mese o tra ottant’anni…-

Di colpo Thor smise di parlare. Steve si era accorto che era persino impallidito.

Seguì il suo sguardo con un movimento della testa.

Si trovavano davanti alla vetrina di un fruttivendolo, dove stava esposta, straordinariamente bella per essere fuori stagione, una montagnola di banane; una ragazzina a fianco della madre ne stava giusto sbucciando una. La madre pagava alla cassa.

-Thor?- Steve non sapeva se preoccuparsi per l’innaturale staticità dell’amico o meno. Non faceva niente di strano, stava solo immobile a fissare le banane.

Tony gli diede un colpetto sul braccio, e il ragazzo sussultò come se una scossa elettrica l’avesse attraversato.

-Stai bene?-

-Certo, certo. Mai stato meglio. Vi dispiace se vi lascio, adesso? Dovrei andare a casa, Jane mi aspetta.- Thor disse tutto questo gesticolando nervosamente, mentre le sue gambe lo trasportavano lontano, un passo incerto dopo l’altro. Dimenticò persino di salutare.

Tony si alzò sulle punte dei piedi per poggiare il mento sulla spalla di Steve.

-Secondo me non l’ha presa poi così bene.-

Che palle, pensò Steve. Queste predizioni stavano mandando tutti quanti al manicomio; maledisse chiunque avesse avuto l’idea di inventare quella stupida Macchina della Morte.

 

________________________________  

 

Dopo una settimana la situazione sembrava essersi calmata, e Thor era tornato di buon umore.

Aveva chiamato per dire che persino Loki si era tranquillizzato, e che i test risultavano più puliti della sua casa, anche se doveva credergli sulla parola, perché da allora Thor non era più stato autorizzato ad entrare. Loki aveva bisogno di tempo per metabolizzare le sensazioni di pericolo a cui era scampato.

Steve aveva appreso la notizia con molta calma. In verità gli interessava di più sapere se Thor stesse bene piuttosto che venire a sapere lo stato d’animo di Loki, primo perché non gli andava giù quella sua antipatia per il suo fidanzato, e poi perché ormai c’erano buone possibilità che il fratello di Thor fosse bello che andato, e Steve di problemi ne aveva già in abbondanza.

Così fu felice di trascorrere delle serate tranquille a casa.

In quel momento Tony era seduto sul divano a testa in giù, con le gambe appoggiate alla spalliera e i capelli che scivolavano sui cuscini, intento chissà come a giocare a un videogioco.

-Finito- annunciò, gettando il joystick da una parte. Come riuscisse a giocare in quelle condizioni e a concludere con una tale rapidità Steve non lo sapeva.

-Tanto non te ne compri uno nuovo.-

Tony sbuffò. Steve gli si sedette accanto e gli passò le dita tra i capelli, tirando la frangia ancora più indietro. Gli occhi ambrati dell’altro guardarono la sua immagine capovolta.

-Non ti viene mal di testa, così?- domandò Steve sorridendo.

-Si possono fare tante cose in questa posizione- gli rispose, accarezzandogli le cosce con una mano. Il biondino si piegò per baciarlo in quella posa impossibile.

-Stavo pensando che era da un po’ che non avevamo del tempo tutto per noi, e volevo…-

Il telefono squillò interrompendo le sue parole.

-Lascialo suonare- sbuffò Tony, allungando le braccia per trattenerlo, ma Steve si stava già alzando.

-Potrebbe essere importante.-

Il ragazzo scivolò sul pavimento con una smorfia di delusione.

-Pronto?-

-Fate qualcosa, non ne posso più!- gridò una voce di donna al telefono, con una forza tale da far sì che persino Tony se ne accorgesse; infatti si sedette per terra in ascolto. Steve ci mise un po’ a identificare la voce.

-Jane? E’ successo qualcosa?-

Ecco chi era. Jane, la fidanzata di Thor, la FULMINATA.

-Non ne posso più! Va bene non farsi condizionare dalle predizioni della Macchina, ma questa… Questa è follia! Io non ci sto più, Steven; devi dire a Thor di darsi una regolata, perché io non riesco a ragionarci. Se continua così giuro che me ne vado!-

Il biondo era parecchio confuso. Jane era una ragazza intelligente e posata, raramente dava fuori di matto. In più Thor non era il tipo da abbandonarsi a colpi di testa; amava davvero Jane e non avrebbe mai fatto nulla per farla soffrire, quindi cosa poteva essere capitato di così grave da indurre la ragazza a chiamare in soccorso gli amici del suo fidanzato?

-Che cos’ha la FULMINATA?- chiese Tony, improvvisamente più interessato, spegnendo la tv per sentire meglio.

-Jane, calmati e dimmi cos’è successo- insistette Steve, con una mano sul ricevitore perché Jane non sentisse la voce di Tony in sottofondo.

-Cos’è successo? Cos’è successo?! E’ successo che non posso vivere così un istante di più, vieni a vedere di persona come Thor ha conciato il nostro appartamento!- Poi, con una vocina più bassa e più debole, come se si fosse sfinita a forza di gridare, -Steven, Anthony, fate qualcosa, convincetelo che questa è pazzia pura.-

Detto questo posò il ricevitore.

Steve rimase spiazzato con il telefono in mano, dopodiché decise di cominciare a vestirsi. -Credo che sia opportuno andare a casa di Thor e Jane.-  

-No, dài!- supplicò Tony. –E il nostro tempo di qualità? Non possiamo fare finta che non sia successo niente?-

Le labbra del biondino si stirarono in un piccolo sorriso che non voleva essere contraddetto. –Temo di no. Jane sembrava davvero preoccupata.-

Tony sapeva che sarebbe stato inutile convincere Steve, e si ritrovò a infilarsi le scarpe prima di subito. –Lo sapevo che non dovevi rispondere- biascicò.

Il suo ragazzo gli si avvicinò e gli lasciò un bacio a stampo sulla guancia. –Recupereremo stasera il nostro tempo di qualità, promesso.- Ma non era poi tanto sicuro di essere  rimasto deluso dall’interruzione. Confessare di essersi lasciato contagiare dall’AIDS si stava dimostrando più difficile di una dichiarazione d’amore vera e propria.

 

 

Thor e Jane abitavano al primo piano di una palazzina color crema vicino a Central Park. Un posto carino che non aveva mai avuto niente di strano, se non fosse che proprio quel giorno Steve e Tony notarono qualcosa di insolito.

Le finestre sembravano essere chiuse, ma le tendine avevano qualcosa di diverso, come delle macchie o dei disegni… Thor doveva averle cambiate. La cosa più strana comunque era la quantità di banane spiaccicate che occupavano il marciapiedi sotto le finestre e davanti alla porta, come se qualcuno ne avesse rovesciato un secchio intero appena oltre in davanzale.

-Pensi anche tu che ci sia qualcosa che non va?- domandò Tony, salendo gli scalini di ingresso attento a non pestare banane.

Steve non se ne capacitava. Scostò un paio di banane mezze marce con i piedi e si pulì le scarpe su uno zerbino con il disegno di un’altra banana sorridente stampato sopra. Quindi fece per suonare il campanello senza sapere che cosa lo avrebbe atteso oltre la soglia, ma prima che potesse riuscirci la porta si aprì con un botto, rivelando una donna dall’aria stravolta, con i capelli lunghi sciolti e scompigliati sulle spalle. Reggeva un cesto di banane con un’aria spiritata.

-Jane, no! Rimettile a posto!- si sentì gridare da dentro.

La ragazza parve non essersi accorta subito di Steve e Tony, e lanciò il cesto facendo piovere frutta dappertutto. Tony fece appena in tempo a schivarla. –Ma che cazzo…?!-

Jane gridò: -Non voglio questa roba in casa mia!- Poi si rese conto degli ospiti.

-Steven, Anthony, grazie al cielo!-

Tony diede di gomito a Steve. –Ma perché quelli che conosciamo noi sono tutti matti?-

Steve gli fece cenno di stare un attimo zitto, e si lasciò trascinare in casa da Jane.

-Allora qual è il problema?- chiese.

-Questo! Questo è il problema!- gridò la donna, chiudendo la porta e abbracciando con un gesto della mano l’intero appartamento.

I due ragazzi si lasciarono travolgere dall’intenso odore dolciastro e dalla vista spettacolare e… completamente gialla.

Banane, banane, banane dappertutto. Ogni contenitore, ogni ciotola, ogni superficie disponibile era ricoperta di esemplari più o meno sani del frutto, alcuni ancora verdi altri con delle macchie stile giraffa, altre ancora decisamente sulla via della decomposizione.

E non era finita lì.

Le pareti erano ricoperte di carta da parati decorata con un motivo a banane sbucciate, quelle che sembravano macchie sulle tendine erano stampe di frutta, e c’erano soprammobili di plastica autocelebrativi di indovinate cosa?

Thor fece capolino tra tutto quel giallo.

-Ciao Steve. Ciao Tony, cosa vi porta qui?- Sembrava assolutamente ignaro della crisi di nervi a cui stava andando incontro la sua ragazza.

-Ecco…- tentò Steve, guardandosi intorno inquieto e cominciando a chiedersi se Tony non avesse ragione: quelli che conoscevano stavano diventando tutti pazzi. –Jane ci ha chiamato, e volevamo accertarci… che stessi bene. Tu stai bene, vero?-

Il viso di Thor non sembrava quello di un esaltato. Sorrise con il suo solito calore e fece cenno di accomodarsi. –Benissimo. Posso offrirvi qualcosa? Sedetevi pure.-

Tony raggiunse il soggiorno e prima di sedersi spostò una manciata di banane dal divano. Non sapendo dove metterle le poggiò sul tavolino da caffè a fare compagnia alle altre.

-Queste sono anche un po’ nere- osservò. –Non è male il tuo nuovo mobilio, Thor, un po’ deperibile, magari…-

-Jane non è così entusiasta…- fece il ragazzo, aprendo una credenza e tirandone fuori una ciotola piena di qualcosa che Steve non riuscì a identificare.

La ragazza perse la testa. Buttò a terra una zuppiera di banane macchiate con una manata.

-Voglio questo schifo fuori da casa mia! Ti avverto Thor, se non ti liberi di tutta questa robaccia, tra noi è finita!-

Se ne andò sbattendo la porta e schiacciando un paio delle banane che aveva gettato sul pavimento.

Thor raggiunse i suoi amici in salotto e mise la ciotola sul tavolino da caffè: sembrava piena di patatine.

-Tornerà- li rassicurò, -Deve solo abituarsi all’idea.-

-Quale idea?- domandò Steve, afferrando una patatina. –Ha a che fare con tutto questo?-

Appena se la mise in bocca gli si strinsero le labbra. Quella roba era salata e dolciastra insieme, ma di certo non aveva niente in comune con una patatina.

-Banane fritte- spiegò Thor con un sorriso. –Le ho fatte io. Buone, vero? Se volete vi posso fare anche un ottimo milk-shake.-

Tony si prese una banana sana e se la sbucciò, pensando che oltre a far parte dell’arredamento si potessero anche mangiare, e fregandosene del resto. Come dire, se vai in Inghilterra fai come gli inglesi, se vai in manicomio… –Mi accontento di un assaggino di queste. Odio la dieta monotona.-

-Insomma, cos’è questa storia delle banane?- volle sapere Steve, che posò la fettina di frutta fritta nella ciotola; le situazioni surreali in cui si stava cacciando cominciavano ad innervosirlo. Thor avrebbe dovuto essere terrorizzato alla sola idea di vivere in un posto del genere, non si spiegava il perché del suo atteggiamento allegro.

-Sapete che il mio cartellino dice: SCIVOLANDO SU UNA BUCCIA DI BANANA, vero?- fece Thor.

-Sì…- sibilò Steve.

-Ebbene. La settimana scorsa ho realizzato che non ho mai completamente accettato il mio destino. Ho ripensato a Loki, e a come si è ridotto cercando in tutti i modi di evitare che il suo pronostico si realizzasse. Ebbene, ho deciso che io non vivrò così. Mi sono detto che ormai era giunto il momento di superare la mia paura, e ho creduto che il modo migliore per farlo fosse circondarmi della cosa che avevo cominciato a temere.-

-Banane…- disse Tony, con la bocca piena, lanciando a Steve un’occhiata che diceva: “Usciamo immediatamente da qui.”

Thor annuì. –Già. Banane. Capite? Se riesco a vivere in questa casa, con tutto quello che c’è dentro, non avrò più paura di niente.-

-Non avrai un tantino esagerato? Jane sembrava furiosa. Spero che tu non abbia riempito in questo modo anche la camera da letto.-

Il padrone di casa congiunse le mani e assunse un’aria da pecora, ma ebbe la decenza di non negare l’innegabile. –Non riesce ancora a capire quanto bene mi abbia fatto. Adesso non ho più paura di quello che mi riserva il futuro. Se fosse possibile vorrei fare una cosa del genere anche per lei e Loki.-

Steve si mise la mani sotto le gambe per impedirsi di svegliare a suon di schiaffi il suo amico, mentre Tony sputacchiò un po’ di banana. Visto il cartellino di Jane era meglio non fare esperimenti che avrebbero potuto rivelarsi letali, in quanto a Loki non erano sicuri che avrebbe gradito un intervento di Thor nella sua vita privata e microbiologicamente sterilizzata.

Fu Steve a porre la domanda decisiva. –Ma se adesso stai meglio perché non te ne liberi? Di tutte queste banane, intendo.- 

Thor si morse le labbra, incerto. –E se poi mi torna l’ansia? Finché vivo circondato da tutto quello che una volta mi terrorizzava mi sembra che il mondo sia tornato normale, non me la sento ancora di buttarle via.-

-Normale…- Questo lo diceva Tony.

-E poi…- continuò Thor. –Si tratta di cibo ancora buono, pieno di potassio e vitamine.-

Steve si alzò dal divano. Ne aveva avuto abbastanza di quelle manie che la Macchina instillava nei suoi conoscenti. Soprattutto non era sicuro di che effetto avessero su Tony. Meglio andare via.

-Beh, adesso noi dobbiamo proprio andare. Grazie delle… dello snack. Se però potessi ridurre un po’ la quantità di frutta che ti porti in casa… O magari non attaccare ai muri questa carta da parati con le banane… Per il bene di Jane, sai. Lei ti vuole bene, ma l’esagerazione mette a dura prova i nervi di chiunque.-

Thor annuì, pensandoci su.

-Ok, ci proverò. Magari le preparo una bella cena intima e ne parliamo.-

-Magari potresti portarla fuori- suggerì Tony, mentre prendeva la sua giacca e apriva la porta. Sembrava proprio che l’unico cibo disponibile in quella casa fossero banane, e Jane non avrebbe accettato che l’argomento della discussione diventasse anche la sua cena. –Ci vediamo presto, Thor.-

Lui salutò i ragazzi con una mano, impugnando una scopa per spazzare il pianerottolo ingombro delle banane che Jane aveva gettato e calpestato. –A presto!-

Appena furono al sicuro da occhi indiscreti, Tony scoppiò a ridere.

-L’ho sempre detto che quel ragazzo ha le banane al posto del cervello*.-

-Non è divertente Tony- lo rimproverò Steve, che ancora non si capacitava della scena a cui aveva assistito.

L’altro gli batté una mano sulla schiena. -Avanti! Cheer up, Stevie boy. Non dirmi che non ci hai trovato niente di comico.-

Il biondino osservò gli occhioni scuri di Tony, sorridenti e lucidi di gioia come delle gemme appena lustrate. Si lasciò trasportare. Magari era meschino a ridere delle disgrazie altrui, ma si fece scappare un sorriso.

-Ok, era divertente. Dio, tutte quelle banane…-

-Potrebbe donarne un po’ allo zoo locale, gli scimpanzé ne sarebbero entusiasti!-

-Di sicuro più di Jane!-

-Cazzo, era isterica! Tu non mi hai mai fatto una scenata così!-

Si mise a ridere più forte, e Tony si unì a lui, sostenendosi legando le loro braccia insieme. Agli occhi dei passanti erano semplicemente una coppia di fidanzati molto allegra, intenta a godersi la vita.

Steve espresse il desiderio che fosse così per sempre, e se ne infischiò di tutte le Macchine e delle loro predizioni. Magari la loro vita non sarebbe stata lunga, ma di certo si sarebbero impegnati per renderla felice.

 

 

 

N.d.A.

 

Siccome il primo capitolo mi era uscito un po’ serioso, il secondo è stato più leggero.

SCIVOLANDO SU UNA BUCCIA DI BANANA doveva uscire nel test di qualcuno, e siccome tutti gli altri avevano già il loro destino segnato, ecco che ho pensato a Thor. Che fareste con una predizione così? A me probabilmente verrebbe uno di quegli attacchi di risa del tutto fuori luogo, e non riuscirei a fermarmi, perché pur essendo tragica la cosa ha un lato ironico, è molto stupida in verità.

GERMI è più consona al buon gusto. Forse.

Loki ha un caratterino niente male, non credo che abbia paura della morte. E’ pur vero però che quando ci si trova di fronte alla fine, quella vera, le chiacchiere servono a poco, e la gente la paura la prova lo stesso, lo so, è inutile. Se non avesse ricevuto un responso simile probabilmente anche di fronte alla possibilità di morire per un’infezione non si sarebbe così spaventato, ma la probabilità concreta di essere arrivati alla vera conclusione è un’altra cosa. Ho voluto concretizzare uno shock di questo tipo.

Jane è una FULMINATA. Non ce l’ho con lei, poveretta, mi piaceva solo come suonava la parola. Mi piace anche “Fulmicotone”.

Scommetto che invece non indovinerete mai il destino che ho riservato a Brock Rumlow^^ Spero che vi farà sorridere, dopotutto questa è nata come fic grottesca, e il grottesco lascia spazio a un po’ di sarcasmo ed ironia.

*In inglese “Going bananas” significa dare fuori di matto. Ho voluto giocare un po’ con le parole.

 


 

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Capitolo 3
*** Effetto farfalla ***


Capitolo 3: Effetto farfalla.

 

 

Steve aprì la porta del bagno tenendo in equilibrio la bacinella d’acqua nella mano sinistra. Questa sciabordò contro la plastica e alcune gocce caddero sul pavimento; il panno al suo interno per poco non le raggiunse.

Vuotò il contenitore e aprì il rubinetto per riempirlo con nuova acqua gelata. Poi tornò in camera da letto, posò il tutto sul pavimento e si chinò per strizzare il panno e poggiarlo sulla fronte di Tony.

-Nooo…- si lamentò quest’ultimo dal letto, voltando la testa e scacciandolo con una mano, subito ritirata sotto le coperte. –E’ troppo freddo, mi fa male la testa.-

-Lo so- disse Steve, con un sorriso che capiva, -Ma dobbiamo abbassare la temperatura in qualche modo. Hai quaranta e mezzo, e non voglio farti fare un bagno gelato.- Gli bloccò il viso con il palmo di una mano, accarezzandogli la barba ispida per farlo calmare mentre gli posava sulla fronte il panno umido.

Il ragazzo venne scosso da un brivido e strizzò gli occhi: una fitta spaventosa alla testa lo attraversò.

Tony cercò di girarsi su un fianco senza far cadere la pezza bagnata. Aveva indosso solo i boxer perché stava grondando sudore, ma era avvolto fino al collo nelle coperte, perché nonostante la febbre aveva freddo. I brividi lo coglievano ogni volta che una parte del suo corpo emergeva da quel mare di piumini in cui si era immerso. Gli girava la testa, e gli facevano male le ossa, sicuramente il dolore peggiore, perché era l’unico da cui non riusciva a distrarsi. Aveva seguito i consigli di Steve e preso degli antiinfluenzali, ma la temperatura saliva e saliva; ieri sera era a trentanove, oggi superava i quaranta.

-Se continui a scottare così ti porto in ospedale- decise Steve, mentre si strofinava le mani e si agitava sulla sedia accanto al loro letto. Era una brutta influenza quella a cui Tony stava andando incontro. Con il sistema immunitario devastato c’era da aspettarsi che si ammalasse con più frequenza degli altri, ma questa volta era proprio brutta.

Dalle labbra screpolate di Tony uscì un ansito doloroso. -Non voglio andare in ospedale, Steve. Non farmi morire là.-

Il ragazzo biondo si morse le labbra; i polmoni si stringevano e si svuotavano rapidamente mentre sbuffava dalle narici tutta la sua frustrazione: odiava sentirsi così impotente di fronte al suo ragazzo che soffriva di un dolore da cui lui non poteva difenderlo.

-Non morirai, credimi.-

Gli occhi lucidi di febbre di Tony si socchiusero brillando: sembravano persino più grandi del solito ora che non erano del tutto aperti, come se volessero mostrare un’ultima scintilla di vita prima di chiudersi.

-Sento che questo è il momento. Non sono mai stato così male.-

Il suo labbro inferiore era gommoso e sprigionava il sapore rugginoso del sangue mentre lo masticava. Steve allungò una mano e la infilò sotto le coperte, raggiungendo quella bollente del suo ragazzo che si nascondeva dai brividi di freddo che solo lui riusciva a sentire. La strinse forte.

-Tu non morirai adesso, Tony. Non è questo il tuo momento, ne sono sicuro.- Poi, sottovoce, aggiunse: -Non è possibile…-

Non poteva essere vero, pensò il biondino. Se Tony fosse morto quel giorno lui si sarebbe dato da fare in tutti i modi per non vedere l’alba di domani. Sarebbe andato contro il volere della Macchina della Morte; lui doveva morire di AIDS, insieme a Tony.

Poi il cervello di Steve processò un pensiero a cui non aveva mai fatto caso prima. E se la Macchina avesse voluto quello? Se il suo fosse stato destinato ad essere, dopotutto, un suicidio?

Affondò i denti nella ferita aperta sulle labbra, allargandola e facendo scorrere il sangue tra i denti. Lui ormai era pronto a rinunciare alla sua vita, davvero; quello per cui non era preparato era lasciar andare Tony, assistere alla sua morte.

“E’ troppo presto” pensò Steve, mentre la sua lingua mescolava il sangue con la saliva. “Non ancora… Non puoi andartene ancora…”

Sentì che la sua mano veniva stretta, e sul volto madido di sudore di Tony scivolarono due lacrime, che descrissero un arco perfetto dai suoi occhi stretti fino al cuscino.

-Steve…- sussurrò, il pomo d’Adamo che andava su e giù, impazzito, per impedirsi di piangere. Gli occhi si spalancarono, come a volersi mostrare dignitosi dopo che quelle due lacrime erano così indecentemente sfuggite. -Ho paura di morire…-

Senza lasciare la sua mano Steve si avvicinò per asciugargli le lacrime. Mentre lo faceva, Tony si voltò di scatto; il panno bagnato gli scivolò via dalla fronte, e lui sollevò un braccio per coprirsi la faccia: incurante dei brividi e del freddo voleva solo nascondere lo spettacolo che stava dando di sé.

-Dio, sono patetico!- gemette, lasciando andare il ragazzo e affondando il viso nel cuscino perché assorbisse le lacrime che non riusciva a trattenere. 

Da sopra le coperte Steve accarezzò la sua schiena scossa dai singhiozzi.

-No, non lo sei- lo rassicurò, lottando contro i pensieri negativi che gli stavano invadendo la mente. –E non morirai, non oggi.-

Dentro il cuscino scoppiò una risata. Tony voltò la testa e cominciò a ridere più forte, senza che ci fosse nessuna felicità in quel gesto che riempiva il suo viso accaldato e umido.

-E il peggio è che me lo sono meritato. Insomma, se ci pensi tutto questo ha un ché di ironico.- Si sollevò tremando sui gomiti per guardare meglio il suo fidanzato. –Non mi sarebbe successo nulla se non fossi stato tanto stupido da voler sapere come sarei morto. E adesso che lo so ho una paura folle che quel momento arrivi prima di quanto mi aspettassi. Me la sono voluta, e adesso non ho neppure le palle di accettare la realtà, voglio a tutti i costi rimandare.-

La sua risata strana strappò a Steve un piccolo sorriso. Sapeva che quel sarcasmo avrebbe avuto vita breve, ma voleva fargli sapere che capiva. Spinse Tony a sdraiarsi di nuovo, stavolta prono, con la testa piegata da un lato.

Il moretto aveva smesso di ridere, ma i suoi occhi erano ancora vitrei, venati di capillari scoppiati e socchiusi dalla pesantezza della febbre. –Non andartene…- sussurrò a Steve. –So che è egoista da parte mia, se fossi in te non vorrei assistere a una cosa del genere, ma se questo è il mio momento voglio che tu resti. Io… Non te l’ho mai detto, ma ho una paura fottuta di morire da solo.-

Con la lingua Steve spinse per riaprire il taglio sul labbro. Aveva bisogno che un qualunque tipo di dolore fisico lo mantenesse sulla terra, altrimenti non era sicuro che sarebbe riuscito a trattenersi. Si avvicinò al viso dell’altro e gli leccò le labbra screpolate, calde come una terra rimasta troppo a lungo senza pioggia, quindi gli lasciò un bacio leggero. Decise di infilarsi nel letto con lui, per farlo stare più tranquillo, si disse, ma sapeva bene che questo serviva più a lui che a Tony: stringendolo voleva illudersi che sarebbe riuscito a trattenerlo, se veramente per lui fosse arrivata l’ora di morire.

-Stai tranquillo, non ti lascio. E’ solo influenza, passerà presto. Per adesso cerca di dormire.-

Nonostante il calore assurdo che si provava sotto quelle coperte stabilì che non sarebbe uscito dal letto per togliersi la maglietta o i pantaloni. Sentiva gocce di sudore cominciare a colargli lungo la schiena, ma il corpo di Tony tremava di freddo. Lo avvolse con le braccia e se lo tirò vicino, in modo che il viso del moro affondasse nell’incavo del suo collo.

-Non voglio dormire. Se lo faccio potrei non svegliarmi più.-

Steve gli accarezzò la nuca, dove i capelli bagnati incontravano la pelle viscida del collo, lasciando che il suo respiro bollente gli dilatasse la giugulare che pulsando forte tradiva la sua preoccupazione.

-Allora parlami. Raccontami qualcosa, qualcosa di bello.-

Sapeva che prima o poi Tony si sarebbe stancato e si sarebbe addormentato per sfinimento, Quindi lo incoraggiò, dicendogli che poteva parlare di qualsiasi cosa, preferibilmente qualcosa di allegro. Certo, se ne avesse avuto bisogno lo avrebbe anche consolato dalle sue paure, ma Steve aveva necessità di sentirsi dire che sarebbe andato tutto bene. Si sentì inutile, e aumentò la frequenza delle sue carezze; avrebbe dovuto essere lui a consolare Tony, e invece stava lasciando che il suo ragazzo terrorizzato e malato gli facesse da supporto nel momento del bisogno. Bel fidanzato che era.

Non si accorse del momento in cui Tony smise di parlare. Il suo cuore perse un battito, ma poi si concentrò sul respiro dell’altro: era pesante e affannoso, ma regolare.

Stette sveglio tutta la notte, inzuppando il materasso, senza osare spostarsi per non perdere neanche uno dei suoi respiri, contando i secondi in cui Tony decideva di non arrendersi.

 

Il mattino dopo Steve si svegliò di soprassalto, quando una lama di luce attraversò le pesanti tende della camera da letto e gli si piantò in faccia. Doveva essersi addormentato, ad un certo punto tra le cinque e le sei di mattina.

Per prima cosa osservò Tony: piegò la testa per guardarlo, incurante della sensazione appiccicosa che provava ogni volta che il suo corpo si muoveva nella maglietta fradicia. Il ragazzo dormiva coricato su un fianco, l’aria tranquilla, i capelli scuri incollati alla fronte. Respirava.

Steve gli scostò le ciocche castane e sentì la temperatura: era ancora caldo, ma non come ieri sera, probabilmente gli antiinfluenzali stavano cominciando a fare effetto.

Sospirò di sollievo.

Si alzò dal letto facendo attenzione a non svegliare Tony e se ne andò in bagno, certo che una doccia rinvigorente avrebbe lavato via tutto il sudore freddo e la paura della sera prima. Non gli era mai passato per la mente che il suo cartellino potesse significare per lui una morte molto distante da quella del suo ragazzo, questa era la prima volta che ci pensava. Doveva ammettere che, non conoscendo la data del suo futuro decesso, aveva sperato di poter controllare meglio il proprio destino, aveva dato per scontato di poter morire insieme a Tony; o, nel peggiore dei casi, in tempi strettamente ravvicinati.

Ma quella Macchina era una bastarda patentata, e Steve per la prima volta dovette ammettere che un oggetto inanimato avrebbe potuto fargli lo sgambetto mentre era intento all’attuazione del suo piano perfetto. Come se fosse stata viva e lo osservasse, pronta a dire la sua.

Una volta finita la doccia questo pensiero si era un po’ attenuato, ma non era scomparso: la sua ombra si allungava e lo seguiva quando tornò in camera.   

Trovò Tony supino sul materasso, che guardava il soffitto. Aveva un’aria stravolta e il viso sparuto di un reduce da una guerra interna combattuta tra malattia e globuli bianchi deboli. Gli rivolse comunque un sorriso, tutto occhi e pochi muscoli del viso.

-Ehi.-

-Ehi anche a te- salutò Steve, sollevato. Tony non l’avrebbe mai ammesso, ma solo il conforto che aveva provato nell’essersi svegliato ancora una volta lo rinvigoriva più di ogni medicina. –Sembri stare meglio. Misurati la temperatura, per sicurezza.-

Gli porse il termometro e questo venne risucchiato sotto le coperte dopo che Tony lo aveva afferrato. Steve si mise a preparare un misurino dello sciroppo antiinfluenzale che aveva lasciato sul comodino.

Il termometro elettronico fece bip.

-Trentotto e due, va decisamente molto meglio- decretò Steve. –Bevi questo.-

Tony si tirò a sedere contro la spalliera del letto, storcendo il naso come un bambino piccolo. –Questa roba mi fa schifo.-

-Oltre a questa particolarità mi hanno assicurato che faccia anche bene- sorrise il biondo, ficcandogliela quasi in bocca, finché lui non la prese e la mandò giù. –Riesci ad alzarti? Ti farebbe bene fare una doccia, così intanto cambio le lenzuola.-

Il moretto scivolò fuori dal letto tirandosi dietro tutte le lenzuola e avvolgendosele intorno. Barcollava leggermente, ma adesso appariva lucido.

-Ok, adesso mi dici cosa c’è che non va.-

Steve sollevò le sopracciglia sorpreso. –Perché pensi che ci sia qualcosa che non va?-

-Perché sai quanto odio che mi si tratti come un malato. Tu sei una mamma chioccia per natura, ma hai sempre saputo essere discreto e lasciarmi i miei spazi. Non hai bisogno di farmi sapere quanto ti sbatti per me, né di farmi da infermiere. Comincio a pensare che in questi giorni tu sia un po’ troppo disponibile, ed ecco che mi viene spontaneo porti questa domanda: ti senti in colpa per qualcosa?- chiese Tony, guardandolo con due occhi scuri e penetranti sopra le occhiaie violacee.

Lo sguardo di Steve precipitò sul pavimento. A volte dimenticava che Tony, nonostante la sua crudezza e il suo egoismo, riusciva a leggergli dentro bene quanto lui. Vedere quegli occhi stanchi che indagavano e si sforzavano di capire quando invece avrebbero dovuto riposarsi gli fece male. Si sentiva orribile a nascondere la verità a un moribondo.

-Ecco, io…-

-Sei andato a letto con qualcun altro- buttò fuori Tony. Lo disse in modo meccanico, ma si strinse la coperta attorno al corpo. –E’ ok, se lo hai fatto- aggiunse in fretta. –Cioè… So quanto deve essere frustrante stare con uno come me, tra il mio carattere e la malattia... Cristo, ti dai da fare come un matto quando stiamo insieme, perciò non posso proprio biasimarti se lo hai fatto…-

Stava torcendo la stoffa delle lenzuola nei pugni chiusi, vicini alle sue labbra come se l’avesse voluta mordere, o nasconderci il viso dentro. Steve gli afferrò le mani fasciate dalle coperte.

-Non sono andato a letto con nessuno.-

Tony cominciava a indispettirsi. Gli dava fastidio non riuscire a capire il perché del comportamento altrui, e spesso, proprio per questo, restava fedele alla prima ipotesi.

-Senti, non ce l’ho con te. Anche se si è trattato di una volta sola…-

-Ma non è quello!- gridò Steve, facendo sussultare l’altro. Forse aveva alzato un pochino troppo la voce. Il tono gli divenne basso basso per compensare.

-Tony io… Devo dirti una cosa; una cosa brutta… Insomma, dipende dai punti di vista, ma credo che tu la considereresti brutta.-

Vide qualcosa rompersi negli occhi del suo ragazzo, così si affrettò ad aggiungere: -Non voglio lasciarti o cose del genere, non ha nulla a che fare con te. Diciamo piuttosto che sono io il problema.-

Tony lo guardava senza capire. Preferì non dire niente, considerando che Steve sembrava più agitato di lui.

-Senti… ora vai a farti una doccia, prendi le tue medicine, così poi torni qui e ne parliamo con calma- consigliò il biondo. Tony andò verso il bagno in un fruscio di coperte senza dire una parola. Appena sentì l’acqua della doccia scorrere, Steve cominciò a pensare che ormai era fatta, glielo avrebbe dovuto dire.

Non che non si fosse figurato mille volte quello scenario nella testa, ma era un po’ come la morte: quando ci arrivavi davvero vicino non eri mai del tutto preparato. 

Cambiò il letto e vi posò sopra una coperta nuova, facendo la piega che lasciava scoperto il coprimaterasso, nel caso Tony avesse voluto ancora riposare.

-Steve…-

Il ragazzo venne strappato dai suoi pensieri e si girò. Non si aspettava che Tony facesse così in fretta, la doccia sarà durata meno di dieci minuti.

Se lo trovò di fronte con i capelli ancora umidicci, vestito con una tuta da ginnastica, le mani posate sui fianchi. –Allora, mi vuoi dire che cosa c’è che non va?-

Cercò di prendere tempo.

-Dovresti dormire ancora un po’.-

Il moro piegò le sopracciglia in modo che sul suo viso sciupato nascesse un’occhiataccia.

-Sto bene, Steve. Per stare ancora meglio avrei solo bisogno che tu parlassi con me. Anche se qualunque cosa sia non ha a che fare con me personalmente, hai detto che riguarda te, e quindi per estensione anche me che sono il tuo fidanzato.-

Steve si sedette sul letto senza dire niente.

-Insomma!- sbottò il ragazzo. –Di solito sono io quello che non vuole sputare i suoi segreti, mi confonde questo improvviso scambio di ruoli.-

Ancora silenzio.

-Avanti Stebe- disse allora Tony, avvicinandosi. –Tenersi tutto dentro è qualcosa che ti fa ammalare, ed io sono un esperto, quindi puoi credermi…-

Gli occhi azzurri si sollevarono su di lui, speranzosi ma coscienti di quello che sarebbe arrivato dopo la sua confessione. Batté il palmo sul materasso per indicargli di sederglisi accanto.  –Non credo che ti piacerà quello che ho da dire.-

Tony si lasciò cadere con uno sbuffo affaticato.

-In questi giorni ne sono successe di cose che non mi piacciono…-

Per un istante gli era venuta l’idea di buttare fuori tutto in un colpo solo, lasciando che la sua confessione avesse l’effetto di una cannonata troppo scioccante perché Tony riuscisse a fare qualcosa. Ma ad ogni grande azione corrisponde una grande reazione, e quindi lasciò perdere, optando piuttosto per una spiegazione graduale.

Steve decise di prenderla alla larga. -Per prima cosa… Ti ricordi come ho reagito quando ho saputo che avevi l’AIDS?-

Tony mise le mani a coppa e ci poggiò il viso, ricordando. –All’inizio sembrava che ti avessero ammazzato il gatto. Poi ti sei un po’ ripreso.-

Neppure Steve lo stava guardando; decise che Tony lo avrebbe sentito anche se avesse deciso di parlare al pavimento. -All’inizio non volevo credere a quello che avevo sentito. La nostra storia non era perfetta nel senso canonico del termine, certo, ma lo era per me. Credevo che saremmo invecchiati insieme, che avremmo vissuto insieme fino alla fine condividendo tutto.-

Tony si lasciò cadere di schiena sul materasso. Aspirò l’odore fresco di sapone delle lenzuola pulite, provando un senso di nostalgia per i tempi in cui tutto andava bene.

-Ne abbiamo già parlato, Steve. Possiamo condividere ogni cosa e fare tutto quello che ci pare, ma se vuoi vivere con me dovrai accontentarti di qualche anno. Non dirmi che non hai ancora superato questa fase?-

Il biondo si morse il labbro: sembrava che il taglio della sera prima non dovesse chiudersi mai, il sangue infetto sgorgava come la linfa da un albero ferito.

-Ho odiato la Macchina della Morte in quel momento. E ho capito che dovevo fare qualcosa, non potevo lasciare che ti portasse via così; se tu non potevi essere curato allora mi sarei dovuto ammalare io. Passare il resto della mia vita da solo e vivere solo qualche anno con te non mi bastava.-

Improvvisamente Tony si levò a sedere. Era ancora pallido, ma stavolta sembrava che il colore gli fosse stato risucchiato dalle guance da una forza più potente dell’influenza.

-Steve, che cosa hai fatto?- La voce gli tremava di un tono duro e profondo, le iridi brillavano di una luce pericolosa. Tutta la sua anima arrabbiata sembrava uscire da quegli occhi e da quella gola.

Steve prese un bel respiro, come se si stesse fisicamente preparando a ricevere un ceffone più o meno metaforico.

-Quando facevamo l’amore… Certe volte insistevo perché tu fossi attivo, e allora bucavo il preservativo con un ago. Volevo che tu mi contagiassi, così mi sarei ammalato anch’io. E alla fine è successo; adesso sono sieropositivo come te.-

Tony non rispose, sembrava una statua di marmo in cui un cuore impazzito batteva a mille.

-Magari ti senti in colpa per avermi contagiato. Non volevo questo, ma non sapevo in che altro modo ammalarmi senza tradirti. Io ti amo, Tony, se proprio non era possibile vivere con te volevo almeno morire con te, capisci?-

Nella stanza non si sentiva volare una mosca. Tony abbassò gli occhi e socchiuse le labbra, boccheggiando in silenzio.

-Ti prego dì qualco…-

Il ragazzo si alzò in piedi con uno scatto e caricò il braccio. Gli mollò un diritto niente male per uno indebolito dall’influenza. Sotto il peso del pugno Steve voltò la faccia, e sentì lo zigomo gonfiarsi spingendo l’occhio in fuori. Non fece in tempo a processare il dolore che ne ricevette subito un altro sull’altra guancia.

-Come hai potuto?! Come cazzo hai potuto farmi questo?!- gridò Tony, fuori di sé, la fronte che nello sforzo ricominciava a brillare di un velo di sudore, le mani che saettavano da tutte le parti.

Steve decise di alzarsi anche lui e cercare di parare i colpi. –A te non ho fatto niente. Cerca di calmarti…-

Due occhi color ambra si spalancarono vomitando fuori un misto di orrore e sorpresa e rabbia. -Non mi hai fatto niente?! E’ questo che pensi, brutto bastardo che non sei altro? Tu hai fatto in modo che io, IO, ti uccidessi!-

Lo spinse con forza contro il petto, scuotendolo ma non riuscendo a fargli fare passi indietro; Steve era troppo in forma, e per questo lo odiò ancora di più.

-Hai lasciato che ti ammazzassi, razza di coglione! Ti sei servito di me per la tua personale crociata contro le Macchine della Morte. Come credi che mi sarei sentito una volta saputo quello che avevo fatto, eh? Eh?!-

Steve gli agguantò i polsi e strinse forte. Il dolore improvviso spinse gli occhi scintillanti di rabbia di Tony a fissarsi in quel bagno gelato di dichiarazioni che erano quelli di Steve.

-Non l’ho fatto per andare contro alle Macchine, l’ho fatto per restare con te. Io non ti voglio perdere.-

-Mi perderai comunque!- urlò Tony, fregandosene se dagli altri appartamenti lo avessero sentito. –E per colpa tua adesso io perderò te! Dovrò vivere il resto dei miei giorni con la consapevolezza di averti ucciso. Spero sarai contento!-

Abbassò la testa abbattuto, sentendo il capogiro e il senso di nausea tornare a salirgli. Non aveva ancora recuperato le forze per una litigata del genere. Steve gli lasciò andare i polsi, e il ragazzo si ravviò i capelli per riordinare le idee.

-Io vado via.-

-Via dove?- chiese Steve preoccupato.

Tony si inginocchiò a terra per calzare un paio di scarpe da tennis. Scrollò le spalle mentre si infilava un giubbotto di jeans. –Non ti riguarda. Tanto ti ho già infettato, no? Hai raggiunto il tuo scopo, che bisogno hai ancora di me?-

-Tony non puoi uscire, hai ancora la febbre.-

-Fanculo la febbre! Non mi interessa.-

Fece per prendere la porta, ma Steve lo afferrò per un braccio e lo tirò con forza verso di sé, facendolo cadere di schiena sul materasso. Gli si mise sopra intrappolandolo in una gabbia umana, inchiodandolo sul letto con uno sguardo duro.

-A me sì, invece! Tu non ti muovi di qui finché non starai meglio. E smettila di reagire così, la stai facendo molto più grossa di quanto non sia. Mi hai contagiato tu, questo è vero, ma non voglio che ti senta in colpa. E’ stata una decisione solo mia, e voglio che tu l’accetti, perché anche se ancora non lo capisci l’ho fatto solo per te. Voglio condividere tutto quello che posso con te. Io…-   

Con tutta la forza che riuscì a trovare Tony gli tirò un calcio proprio in mezzo alle gambe. Un po’ per il dolore un po’ per la sorpresa inaspettata, Steve mollò la presa, e si accasciò su un fianco.

Tony si rimise in piedi e gli lanciò uno sguardo furioso.

-Voglio, voglio, voglio… Ci sei solo tu in questa relazione, vero? Ci sono tante cose che vuoi, ma ti dico io che cosa vuoi veramente: tu non vuoi sentirti solo. Non sei abbastanza forte per sopravvivere quando io non ci sarò più, e per non vedere quel giorno hai deciso di morire prima. I miei interessi vengono proprio all’ultimo posto per te. Non ti importava come mi sarei sentito io, sapendo che ti ho fatto l’unica cosa che non avrei mai voluto farti. Io ti avrei dato tutto, l’unica cosa che non volevo per te era una fine come la mia. Ma tu te ne sei fregato, perché sei troppo debole per affrontare il mondo senza di me!-

-Va bene, sono debole!- gridò Steve, piegato in due con metà del viso schiacciata sul materasso. Gli occhi avevano cominciato a lacrimare fuori sentimenti che non riusciva più a trattenere. –E’ così sbagliato, cazzo?! Lo sapevi quando mi hai conosciuto, lo so che lo sapevi! Se non ti stava bene avresti dovuto trovarti un fidanzato più forte di me, perché io non ce la faccio! Non posso accettare di vederti morire e restare solo, e so che neanche tu ci saresti riuscito; al posto mio avresti fatto esattamente la stessa cosa, perché sei debole anche tu. Te la prendi con me, ma ci meritiamo a vicenda.-

Dall’angolo dell’occhio vedeva Tony sotto forma di una macchia umida di colore che lo fissava.

-Sei incazzato perché non ho potuto essere forte come volevi, perché non sono riuscito a non sbarellare sapendo che saresti morto. Beh, mi dispiace di averti distrutto questo mito. So che tu hai un perverso desiderio che la gente se ne freghi di te, ma ti dico una cosa: io ho bisogno di te! Mi preoccupo quando stai male, sono triste quando sei giù di morale, do di matto al pensiero che un giorno non ti vedrò mai più. Vado in pezzi perché mi importa troppo, e faccio cose stupide perché ho bisogno di te! E’ così sbagliato?!-

La vista gli si schiarì quando una lacrima scivolò lungo la sua guancia, e Tony non era più lì. La porta di ingresso sbatté.

-E’ così sbagliato…?-

 

___________________________________   

 

 

Dopo quello sfogo Steve non era riuscito a riprendersi per un po’.

Quando si alzò si rese conto di avere aspettato troppo. Tony stava ancora male, e le giornate erano ancora troppo fredde perché lui se ne andasse in giro in quelle condizioni.

La testa gli pulsava mentre girava per le strade guardandosi attorno. Certi passanti lo fissavano, e quando si rendevano conto che anche lui riusciva a vederli nonostante l’occhio mezzo chiuso voltavano in fretta la testa imbarazzati. Doveva essere proprio conciato male.

Era stata una botta tremenda per entrambi, questo se lo aspettava. Anche la reazione di Tony se l’aspettava. Quello che non si aspettava era la sua ammissione di debolezza. Alla fine forse tutti gli innamorati sono egoisti, vogliono fare qualcosa dicendo di agire per il bene dell’amato, ma in realtà vogliono solo stare meglio loro.

Sono deboli.

Ma siamo tutti deboli, pensò Steve, depresso.

Come siamo tutti umani, ed è nella natura umana evitare il dolore.

Però non avrebbe voluto che Tony soffrisse tanto. Non lo avrebbe voluto ma aveva lo stesso permesso che succedesse. Sperava di essere perdonato, comunque.

Ma prima doveva trovare il suo fidanzato.

Aveva già chiamato tutti i loro amici, Bruce, il suo collega di laboratorio al centro ricerche, aveva chiamato Clint e Phil…

Pensò di andare alla stazione di polizia. Magari si era messo in testa di demolire un paio di Macchine della Morte, giusto per attenuare l’incazzatura, e adesso lo avevano risbattuto dentro e stavano riempiendo un blocchetto intero di multe. Steve sarebbe stato ben felice di pagarle tutte pur di rivederlo e chiedergli scusa.

Non sentiva proprio di avere fatto qualcosa di sbagliato, ma voleva lo stesso il suo perdono, perché aveva bisogno di sentirsi dire che tutto era tornato come prima. Magari meglio di prima, ora che non avevano più segreti.

Si diresse alla Stazione di Polizia per chiedere a Bucky e Rumlow se lo avevano visto.

 

Sulla scalinata fuori dalla Centrale c’era un gran fermento: poliziotti in quantità, dimostranti che alzavano al cielo cartelli e striscioni, ragazzi con megafoni che urlavano. Da qualche parte al centro di quella folla dovevano essersi mischiate le carte, perché c’erano poliziotti che gridavano alzando cartelloni di protesta.

Steve passò oltre tutta quella gente ed entrò.

L’atrio non era molto meglio, sembrava di essere in un manicomio in cui avessero aperto le gabbie dei matti.

Adocchiò Bucky che marciava velocemente portando un plico di cartelline plastificate.

-Buck!- chiamò, agitando una mano per attirare l’attenzione.

Il ragazzo sollevò la testa e lo vide, sbirciando da sotto la visiera del berretto da sbirro. Gli si avvicinò e indicò con un cenno il suo viso.

-Steve, ma che cazzo ti è successo?- Poi aggiunse, senza aspettare una risposta: -Senti, oggi è davvero una giornata di merda. Ti dispiacerebbe ripassare un’altra volta?-

Fu tentato di chiedere perché, ma le sue priorità erano altre.

-Volevo solo chiederti se per caso avete arrestato Tony, o anche solo se lo avete visto. E’ sparito da almeno un’ora.-

Bucky sospirò e ci pensò su, stringendo le cartelline.

-Non si è fatto vivo, ma anche se avesse distrutto qualcosa dubito che qualcuno avrebbe trovato il tempo di arrestarlo. L’altro ieri è passata una mozione secondo cui tutti i membri attivi delle forze dell’ordine dovessero obbligatoriamente fare il test della Macchina della Morte. Ne è scoppiato un gran macello. Alcuni sono stati licenziati una volta saputo come moriranno.-

Steve strabuzzò gli occhi.

-Cioè… Vi hanno costretto a fare il test? Ma è legale?-

James si strinse nelle spalle.

-Evidentemente ora lo è.-

-Tu hai fatto il test?-

-Steve, adesso dovresti davvero andartene…-

Dal fondo di un corridoio nacque in crescendo uno scroscio di risate, seguito da una fila infinita di imprecazioni.

-Andatevene tutti quanti a fare in culo!- gridò una voce che conosceva fin troppo bene.

Brock Rumlow sbucò fuori da uno sciame di poliziotti che lo ricoprivano di risate e gli lanciavano ogni tanto, a quel che sembrava, delle merendine. Rumlow saltò addosso a uno di loro, e tutti si buttarono nella mischia.

-Ma che diamine succede?- chiese Steve.

Bucky lo tirò in un angolo, per lasciare che sbirri col pieno controllo delle loro facoltà mentali sedassero la rissa.

-E’ per via del suo cartellino. Lui sperava che preannunciasse una morte dignitosa, eroica… Sai che Brock è uno che non si tira mai indietro quando si tratta di compiti pericolosi da svolgere…-

-E invece come morirà?-

Il viso di Bucky non sembrava propriamente felice, ma le labbra gli si incresparono in un risolino.

-SOFFOCATO DA UNA BRIOCHE. Da ieri gliele fanno trovare dappertutto per il puro gusto di vederlo sbroccare. Gliele hanno messe persino nell’armadietto.-

Steve aveva tante e troppe cose per la testa, e si lasciò sopraffare dall’assurdità della situazione: non capì più come avrebbe dovuto reagire, e si bloccò.

-SOFFOCATO DA UNA BRIOCHE?- ripeté, come se non fosse stato sicuro di avere capito bene.

-Esatto. Non ne è stato molto contento, ma il test lo abbiamo rifatto quattro volte, e non sbaglia.-

-Tu come muori?- chiese il biondino. Non riusciva a non levarselo dalla testa: Bucky era il suo migliore amico.

-Steve, no…-

-Come?-

Sospirò. –OVERDOSE.-

-Ma è ridicolo, tu non ti droghi- protestò Steve, indignato, come se il suo amico fosse stato vittima di un grave errore del sistema. Bucky non disse niente. –Non ti droghi vero?-

-Probabilmente mi licenzieranno, che io lo faccia o no.-

-Ascolta…- gli mise le mani sulle spalle. Stava accadendo tutto troppo in fretta. Aveva problemi seri, immediati, non doveva lasciarsi contagiare da previsioni che si sarebbero potute avverare chissà quando in chissà quale modo. –Tony è andato via di casa e non riesco a trovarlo. Non è che potresti fare qualcosa, che ne so… Dare una sua descrizione agli agenti di pattuglia e chiedere se lo hanno visto…-

Brock Rumlow fece volare una sedia sopra le teste dei suoi colleghi. Si abbassò qualche manganello.

-Steve, siamo nei casini fino al collo. Dammi retta, chiama quelli che conosci e chiedi a loro. Avete litigato altre volte, Tony non può essere andato molto lontano.-

Lo diceva tanto per dire, non sapeva quanto vantaggio avesse Tony su di lui.

Steve lo vide allontanarsi e non darsi pena per la rissa, ci avrebbe pensato qualcun altro.

Decise di uscire e allontanarsi prudentemente dalla Stazione di Polizia.

Sconsolato, tirò fuori il cellulare.

Aveva chiamato quasi tutti, l’unica che restava era Pepper, una vecchia amica di Tony, che lo conosceva fin dalle superiori.

Fece il numero.

-Pronto?-

-Pepper? Ciao, sono Steve.-

-Steve! Come stai? Hai bisogno di qualcosa?- la sua voce era squillante e tranquilla, Pepper Potts aveva classe anche quando salutava qualcuno al telefono.

-Volevo chiederti se… se per caso avessi visto Tony, oggi. E’ andato via di casa e lo sto cercando.-

-Avete litigato?- chiese lei. Nel suo tono non c’erano accuse, forse un briciolo di rimprovero, come quello di una madre verso due figli litigiosi. Probabilmente aveva incrociato le braccia al petto.  

-Ho fatto una cazzata- ammise Steve. –Avevo le mie ragioni, certo, ma ho fatto una cazzata lo stesso. Volevo trovare Tony per chiedergli scusa; in realtà avremmo dovuto parlarne prima che lui scappasse via, ma le cose mi sono sfuggite di mano e abbiamo…-

-Avete litigato, insomma.-

-Abbiamo discusso- precisò Steve. –La conversazione però ha preso una brutta piega.- Stava divagando. Era già confuso di suo, non voleva parlare di quelle cose con Pepper, voleva solo chiarirsi con Tony.

-Senti, se lo vedi puoi dirgli di tornare a casa? Anzi, no. Cerca di trattenerlo. Sta male, in questi due giorni ha avuto la febbre altissima. Cerca di farlo restare in casa e digli che gli devo chiedere scusa, e che voglio parlargli con calma, spiegargli meglio perché… perché ho fatto quello che ho fatto.-

-Se lo vedo sarà la prima cosa che gli dirò.-

-Grazie Pepper.-

-E non preoccuparti, Steve. Sono sicura che tu non abbia fatto nulla di imperdonabile. Lasciagli tempo e vedrai che gli si raffredderanno i bollenti spiriti.-

Steve abbassò la testa, stringendo il cellulare come fosse l’unica sua ancora rimasta in un mondo che stava andando in pezzi.

-Non so se questa volta mi perdona, Pepper.-

Lei rise. –Di solito è lui che combina guai.-

Uno sbuffo, sconfitto. –Sai cosa si dice dei tipi tranquilli… Quando la fanno, la fanno troppo grossa perché ci si possa passare sopra.-

 

 

N.d.A.

 

 

Uhhh, qui alterniamo capitoli scemi a capitoli seri, a quanto pare.

Vabbé, tra una cosa e l’altra è già tanto essere riuscita a finirlo in tempo. Dicono che d’estate uno abbia tanto tempo libero ma è un grande imbroglio; e poi ci sono sempre i viaggi mentali, piacevoli e non piacevoli, ma sempre istruttivi, io credo. 

Cercherò di impegnarmi di più, voglio risollevarmi e trovare motivazione. Altrimenti, come insegna Sherlock Holmes, senza stimoli il cervello va in pappa del tutto.

Ma veniamo a noi: eccoci con la confessione del secolo. E’ egoistico quello che ha fatto Steve, ma penso che chiunque abbia una vena egoistica quando ama qualcuno. E’ il principio di salvare la vita alla gente: veder morire chi amiamo ci farebbe troppo male, perciò li salviamo, anche se sacrificando la nostra vita sarebbero tristi loro.

E’ un circolo vizioso di amore ed individualismo dove non c’è una scelta giusta, alla fine qualcuno ci rimette sempre… che razza di scherzo della vita.

La fine di Brock Rumlow l’avevo già decisa da un pezzo; che ne pensate? A me piace, ma avrete occasione di ragionarci ancora verso la fine, quando rivelerò il futuro di tutti.

Anche quella di Bucky ha uno scopo preciso, ma per questo bisognerà aspettare ancora un pochino.

A presto gente!

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