Nordic Tale

di Ciajka
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno ***




 




























Un gemito sommesso vibrò nella tenda.

L'uomo strinse i denti, quando un paio di tenaglie riuscirono abilmente a togliere il frammento di freccia conficcata nella gamba.

Il sangue iniziò nuovamente a sgorgare, libero e fluido.

Senza alcuna esitazione, il giovane di fianco al soldato mise una mistura di erbe e urina sopra la ferita.

Bruciava. Bruciava come non mai, ma il soldato sopportò, senza far fuoriuscire un minimo suono dalla bocca. L'unica cosa che lo tradiva era lo sguardo, sofferente ma comunque pieno di coraggio.

“Guarirai presto.” lo confortò il giovane uomo, mentre prendeva delle garze, “Ho visto ferite decisamente peggiori.”

Apparvero in quel momento.

Il guaritore non aveva neppure finito di fasciargli la coscia quando quattro individui entrarono nella tenda, brandendo spade desiderose di sangue.

Si trattava di un vile attacco a sorpresa: il sole era calato da almeno quattro giri di clessidra. La legge affermava che gli eserciti dovevano combattere solamente durante il giorno e utilizzare la notte per riposare e pianificare, ma il nemico aveva ignobilmente deciso di infrangerla.

Uno degli uomini armati piantò la propria spada nel petto del ferito, il quale esalò l'ultimo respiro con occhi pieni d'odio.

“Codardi!” gridò il guaritore, prima di essere colpito anch'esso senza pietà vicino al cuore.

L'oscurità improvvisamente lo avvolse e, in quel momento, tutto finì.

 

Vide una luce, splendida e accecante, ma spettralmente gelida.

Pensò che stava decisamente raggiungendo il Valhalla, dove si sarebbe di nuovo congiunto con gloria ai suoi cari defunti e ai suoi avi.

Eppure c'era qualcosa che non andava. In sottofondo sentiva degli strani rumori ovattati, come delle voci in atto di discutere.

Poi lo sentì.

Il dolore lo avvolse completamente, come una doccia gelata.

Aprì gli occhi con estremo sforzo, come se fossero stati attaccati alle palpebre con del mastice.

Si rese conto di essere sdraiato. Delle figure davanti a sé stavano pulendo con dell'acqua il suo petto insanguinato. Una di queste si accorse che aveva ripreso i sensi e lo informò: “Siamo riusciti a difenderci. Gli assalitori sono tutti morti.”

Ottimo. La battaglia non era stata persa.

Provò a domandare cosa gli era accaduto, ma la sua bocca era così impastata che non riuscì ad emettere alcun suono.

La stessa figura di prima, che riuscì finalmente a riconoscere come il suo collega guaritore della tenda vicina, gli disse: “Ti sei salvato per miracolo, potevano infliggerti una ferita mortale. Gli Dei hanno avuto un occhio di riguardo.”

Non sapeva se considerarsi realmente fortunato: il dolore che proveniva dal petto fino a raggiungere la spalla destra era insopportabile.

Realmente insopportabile.

Girò di scatto il collo verso il bruciore e quello che vide gli fece dimenticare la fitta che si era procurato con quel brusco movimento.

Sentì che il suo respiro si era arrestato e, in quel momento, capì che avrebbe preferito essere morto.

“La lesione aveva iniziato ad andare in cancrena.” spiegò il curatore che lo stava ancora lavando “Abbiamo dovuto amputare il braccio, John.”

Senza neanche accorgersi, l'oscurità lo accolse nuovamente, trascinandolo in un silenzioso oblio.

 

 

Erano passati tre mesi, ma l'accaduto non voleva abbandonare gli incubi di John, che insistevano a fargli visita ogni volta che provava ad addormentarsi.

Ricordava ancora vivamente le parole del comandante, appena si era ripreso.

“John, nelle tue condizioni non puoi più servire l'esercito, questa sera un carro ti trasporterà fino a casa.”

Provò a convincere il comandate di farlo rimanere, anche se perfino lui sapeva fin troppo bene che un guaritore senza un braccio era totalmente inutile.

“Non sprecare il dono che gli Dei ti hanno fatto risparmiandoti la vita. I tuoi servigi saranno sicuramente ricompensati.”

 

Alla fine la guerra fu vinta dal suo esercito poche settimane dopo. Mandare una squadra di sicari notturni verso le tende dei comandanti e dei guaritori era stato probabilmente un atto in extremis.

Ma quando gli giunse questa notizia non provò nessun sentimento di euforia o di felicità.

Perché era ancora vivo? Perché gli Dei volevano fargli passare una vita senza un arto, senza lavoro, senza un maledetto scopo, fino alla fine dei suoi giorni?

Trovava tutto questo ingiusto.

Pensò al soldato che era morto nell'attacco. Lo invidiava: ora si trova in pace. Lui no. Le sue sofferenze lo avrebbero accompagnato per tutta la sua esistenza.

Desiderò di ritornare indietro nel tempo e fare in modo che quella ferita fosse fatale.

 

 

John stava percorrendo la strada del mercato, cercando di liberare la mente alla vista di quelle merci provenienti dai campi e dai villaggi vicini. Era una settimana che non usciva alla luce del sole ed era desideroso di cambiare finalmente aria.

Alcune stoffe esposte erano estremamente colorate, con motivi ritraenti creature mitologiche stilizzate. Chissà quanta strada avevano fatto per essere presenti lì, in quel modesto mercato di provincia.

Si soffermò ad osservare la sua figura rispecchiata su un vaso di vetro di modesta fattura.

Quello che scorgeva era un giovane stanco, che non si rasava da almeno cinque giorni, con i capelli biondo cenere scompigliati e lasciati crescere alla bell'e meglio. Si ricordava che un tempo il colore dei suoi occhi era di un fresco verde di sottobosco, eppure quel che vedeva nelle sue iridi riflesse era solo un anonimo grigio senza personalità, evidenziato dalle marcate occhiaie.

“Vuole comprare qualcosa?” gli domandò il venditore, con un enorme sorriso sdentato.

“No, no, stavo solo osservando.”

Aveva appena deciso di tornarsene a casa a mani vuote quando sentì una voce chiamarlo.

“John! John Watson!”

La voce proveniva da un uomo piuttosto grassoccio, che si avvicinò a lui con passi pesanti. Sembrava realmente felice di vederlo, eppure John non riusciva a ricordare chi fosse.

“Sono io! Michael Stratford!” aggiunse l'uomo, vedendo la sua espressione spaesata.

“Ah! Michael! Da quanto tempo.” provò a usare un tono felicemente sorpreso, ma non fu sicuro di esserci realmente riuscito.

“Da una vita. Da quando eravamo i giovani apprendisti del Vecchio, penso.”

Il Vecchio si trattava del guaritore del villaggio, che li aveva presi sotto la sua ala quando ancora erano ragazzi per insegnare loro i segreti del mestiere. Successivamente John decise di sfruttare le sue conoscenze in campo militare, mentre Michael preferì rimanere nel suo paese natale.

“Non ti si vede molto in giro. Non pensavo fossi tornato.” aggiunse Michael.

“Non esco spesso.” rispose evasivamente John.

“Cosa hai fatto al...?” domandò senza completare la frase, guardando il braccio mancante del vecchio amico.

“Me l'hanno amputato.”

“Brutta storia, veramente una brutta storia.” iniziò immediatamente a compatirlo “Sei stato fortunato, potevi rimetterci la pelle.”

John si mise a ridere istericamente, per poi aggiungere: “Sarebbe stato meglio, te l'assicuro. Ora vado a casa, ci vediamo.”

“Aspetta John!” lo trattenne “Ti sembrerà stupido, ma se sei vivo vuol dire che il tuo compito, in questo mondo, non è ancora terminato. Gli Dei hanno ancora progetti per te.”

“Quali?” domandò John, sentendo la rabbia agitarsi nel petto.

“Prova a chiedere a loro, forse ti daranno ascolto.”

John prese un gran respiro prima di allontanarsi da Michael: “Grazie Michael, ora devo proprio andare.”

Voleva solo tornare a casa, dalla sua solitudine e dalla sua oscurità.

I suoi grandi passi quasi correvano nel ciottolato.

Quando raggiunse la sua abitazione, sbatté con foga la porta dietro di sé e cominciò a colpire con il pugno il tavolo di legno massiccio al centro della stanza.

“Dannazione!” gridò “Perché mi avete fatto questo?! Perché?!”

Non sopportava l'idea di poter continuare a vivere in questo modo.

“Perché gli Dei hanno uno sconfinato senso dell'umorismo.” sentì rispondere dietro di sé, da una voce maschile bassa e suadente.

Con il cuore che aveva perso un battito per lo spavento, si girò in direzione della voce.

Ma non vide nessuno.

Quando si rigirò, di fronte a lui vide una figura con un lungo mantello nero, incappucciata in modo da non mostrare il proprio volto.

“Chi diamine sei?!” gridò John con fare minaccioso, “Come sei entrato qui?!”

“Calma, umano. Posso apparire dove e quando voglio.” rispose la figura con una nota di divertimento.

“Umano?! Che vuoi dire?!” ora John si stava realmente spaventando.

“Che sono una delle vostre divinità, idiota.” la figura incappucciata si avvicinò lentamente al giovane uomo “Posso guarire il tuo braccio e rendere la tua misera esistenza decisamente migliore.”

John non credeva ai propri occhi e alle proprie orecchie. “Non ci credo. Se sei un ladro non troverai nulla di valore in quest-”

“Non voglio derubarti!” tuonò lo sconosciuto “Non hai capito che ho solamente risposto alla tua preghiera?”

“Gli Dei non ascoltano le preghiere.” mormorò John.

“Invece dovrai ricrederti. Hai chiesto perché gli Dei ti hanno fatto sopravvivere quando non hai nessuna famiglia e l'unico tuo scopo di vita era l'ebbrezza che trovavi solo nei campi di battaglia. E perché non hanno fatto sopravvivere al posto tuo quel soldato che aveva madre, padre e una promessa sposa che lo aspettavano a casa. E io ti rispondo: gli Dei si divertono come pazzi quando questo genere di cose accadono.”

John era pietrificato. Sentiva l'amaro impastargli la bocca a mano a mano che la figura continuava il suo monologo.

“Sono qui per sistemare tutto. Ti donerò il tuo braccio e ti ridarò la vita che volevi.”

“Gli Dei non fanno nulla per nulla. Cosa vuoi in cambio?” John lo guardò con sfida, mentre quell'oscura figura si avvicinava ancora di più.

Riuscì a scorgere sotto il cappuccio alcuni riccioli corvini e un mento perfettamente sbarbato. La sua pelle era chiarissima, come se fosse fatta di perle.

Anche se non poteva scorgere la forma della bocca, sapeva che in quel momento stava sorridendo.

“Esatto, John Watson. Nessun Dio donerebbe qualcosa senza volere qualcos'altro in cambio.”

“Cosa.” non era propriamente una domanda, assomigliava più ad un ordine.

Il Dio si avvicinò ancora di più: John poteva sentire senza difficoltà il respiro regolare dell'altro sul suo viso.

“La tua anima.”

Per qualche secondo l'unico rumore nella stanza fu il respiro affannato di John.

“La mia anima?” domandò.

“Esatto. Donami la tua anima e ti darò tutto quello che in questi tre mesi avresti voluto riavere.” la voce sua baritonale sembrava quasi accarezzarlo.

“Sembra una fregatura. Cosa te ne farai della mia anima?” domandò John, quasi disgustato.

“La terrò in custodia. Non potrai mai morire per mano di altri al di fuori di me. E, per questo, mi sarai per sempre fedele.”

“Quindi potresti uccidermi in ogni momento.” aggiunse John, sfidandolo.

Sentì che la figura fece un altro sorriso sotto il cappuccio.

“Sì, proprio così.”

John sapeva che fare patti con gli Dei – o qualunque altro essere fosse, siccome non aveva la certezza che fosse proprio un Dio - portava beneficio solo ad uno dei due che stringeva il patto. E, in genere, a trarne beneficio non si trattava sicuramente dell'umano.

Poteva donargli l'anima e questo essere poteva benissimo ucciderlo all'istante, ancora prima di mantenere fede alle sue promesse.

Eppure sapeva che se avesse rifiutato, l'alternativa era continuare a sopravvivere senza reali scopi fino alla vecchiaia.

Non poteva più mettere piede in un campo di battaglia, tantomeno guarire altre persone. Non aveva nessun caro, nessuna sposa, nessun figlio che gli facevano forza per continuare la sua vita.

Cosa avrebbe perso nel morire in quell'istante? Assolutamente nulla.

“Accetto.”

 



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Unico avvertimento: questa storia non è storicamente attendibile!
Si tratta di uno svarionamento scritto in un giorno (oggi) per colpa di un esame che dovrò affrontare tra tre giorni (e al posto di studiare ho iniziato questa COSA,  dopo mesi e mesi di inattività. Se non si chiama idiozia questa)
Vabbeh, comunque siate clementi per la mia ignoranza in materia di mitologia nordica (sarei più afferrata in quella greca ma i nomi dei personaggi avrebbero stonato ancora di più se ambientati in Grecia... John il miceneo? Michael (Mike) l'ateniese? Che schifezza è questa?? .....Quindi beccatevi la mitologia nordica!)

Vi ringrazio per aver letto fino alla fine! Al prossimo capitolo! (Spero)

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Capitolo 2
*** Capitolo due ***


“Lo sai che non potrai più tornare indietro?” disse la figura incappucciata, con un tono falsamente mieloso.

“Sì. Fallo.” ordinò John.

Non aspettò oltre. Allungò il braccio verso la spalla destra dell'ex guaritore, fino a toccarlo.

Il dolore fu improvviso e allucinante. Sentì la carne bruciare come se fosse stata immersa nella lava. Non riuscì a non emettere un urlo strozzato di dolore e a non chiudere gli occhi. La sua mente non riusciva a rimanere lucida a tale tortura: ogni fibra del suo corpo sembrava voler prendere fuoco allo stesso istante.

Finché tutto scomparve, così come era apparso, senza preavviso e di punto in bianco. John si ritrovò ad avere il fiato corto, la testa sgombra da qualsiasi pensiero e le gambe che quasi non riuscivano più a reggerlo in piedi.

Si rese conto che la spalla destra non era più leggera come prima: ora c'era un peso, attaccato ad essa, che la rendeva più pesante.

Quando lo vide sentì il cuore accelerare di colpo.

“Il mio braccio!” esclamò quasi con le lacrime agli occhi, muovendo l'arto con circospezione, come se fosse di cera “E la mia mano!”

Il suo cuore si gonfiò e la vista gli si appannò per qualche secondo dalla felicità.

Provò a chiudere e riaprire il pugno, poi a muovere le dita in sincronia.

Non riusciva a non staccare gli occhi da quella visione che aveva così tanto desiderato in quei mesi.

Quando finalmente decise di spostare gli occhi verso il Dio, lo trovò con in mano una piccola fiala di vetro, il cui trasparente interno vorticava come un fluido denso sotto una fonte di calore.

“La tua anima.” spiegò la figura, la cui voce vibrava per l'emozione “La tua piena, limpida e virtuosa anima.”

L'entusiasmo di John scemò all'istante, per far spazio alla preoccupazione.

“La terrò con cura.” continuò il Dio, vedendo l'espressione del mortale.

“Prima che te ne vada” iniziò John con tono autoritario “posso sapere il tuo nome?”

Il Dio rimase immobile, senza muovere un muscolo.

“Vorrei saperlo.” continuò l'umano.

“Per quale motivo? Per pregarmi? Per offrirmi sacrifici? No, non mi interessano.”

“Un Dio a cui non interessano i riti? Che razza di-”

“Nessun umano pronuncerà il mio nome! Questo è il mio volere!” tuonò, facendo tremare ogni oggetto all'interno della stanza.

John decise di non aggiungere altro: non voleva adirarlo maggiormente, tenendo conto che era lui ora a possedere la sua anima.

Il Dio proferì con tono più calmo e carezzevole: “Ti do un consiglio, John Watson: vivi ogni giorno come se fosse l'ultimo. Non farti mancare assolutamente nulla.”

John non fece in tempo di dire una sola sillaba perché la figura davanti a sé era già scomparsa, svanita come se non fosse mai stata lì.

 

 

Non seppe quanto tempo rimase immobile a fissare spaesato lo spazio vuoto che prima era occupato dal Dio.

Strinse i pugni. Ora poteva permettersi di vivere di nuovo. Probabilmente si sarebbe arruolato: il campo di battaglia gli era mancato fin troppo.

Spalancò la porta dell'abitazione e si riversò in strada con il cuore che batteva come un tamburo. Non si era reso conto di come quella giornata di sole fosse meravigliosa, di come la luce rendeva ogni particolare squillante e allegro.

Non gli importava se la sua anima ora era in mano degli Dei. A questo particolare avrebbe pensato in seguito, ora voleva solamente gustarsi il momento di felicità.

Ritornò al mercato, dove ritrovò Michael Stratford intento a parlare del più e del meno con il venditore di spezie.

“Michael!” gli gridò, pieno di gioia “Ti offro un lauto pranzo alla taverna! Gli Dei mi hanno ascoltato!” e gli mostrò il braccio destro.

Inutile dire che la bocca dell'amico si spalancò dalla sorpresa, passando dall'incredulità alla paura, per poi finire nella più completa euforia.

“Mio caro amico! Questo è un miracolo!” esclamò Michael, poi si rivolse al venditore, che guardava la scena di sottecchi “Signor Fillan siamo al cospetto di un uomo miracolato dagli Dei! Neanche un giro di clessidra fa quel braccio era monco!”

Lo speziale sgranò gli occhi e con voce rotta disse: “Non mi state prendendo per i fondelli?”

“Assolutamente no, signore!” esclamò John con un sorriso sincero.

Michael diede una pacca amichevole alla spalla del biondo, dicendo: “Comunque accetto il tuo invito! Bisogna assolutamente festeggiare!”

Poi aggiunse ridendo: “Ma prima dovresti rendere il tuo aspetto più presentabile, sembri uno straccione!”

John rise di rimando: “Hai ragione, hai decisamente ragione!”

 

 

 

Le pesanti tende di stoffa verde bloccavano quasi completamente il passaggio dei raggi del sole, rendendo l'ambiente decisamente tetro e quasi claustrofobico.

Il soffitto dipinto quasi non si scorgeva per la luce soffusa. Quattro alte colonne di pietra, intagliate simulando dei rampicanti, racchiudevano la stanza nei quattro lati.

C'erano diversi oggetti di varia natura sparsi in tutto l'ambiente, sia nei ripiani attaccati alle fredde pareti di pietra sia alla rinfusa sul pavimento. La maggior parte di questi erano libri, con spesse rilegature in pelle, il cui interno celavano caratteri che nessun essere umano aveva mai visto.

In disparte si trovava un tavolo completamente sgombro da qualsiasi oggetto se non di una fiala contenente uno strano liquido denso. L'essere dalle sembianze umane seduto di fronte ad essa fissava quel vorticare incessante quasi rapito.

Indossava ancora il suo lungo mantello nero, ma questa volta non c'era un cappuccio che copriva il suo viso. I riccioli neri scendevano morbidamente tra i suoi zigomi spigolosi. Le sue iridi, completamente bianche, sembravano risplendere in quella penombra.

Non riuscì a non trattenere un sorriso divertito.

In quel momento entrò nella stanza un altro individuo, spalancando la porta di legno con decisione. Aveva una corporatura piuttosto robusta, eppure i suoi movimenti impostati ma fluidi gli conferivano una maestosa eleganza.

I suoi occhi, anch'essi del color della neve appena caduta, scintillavano di collera.

“Sapevo di trovarti qui.” disse la robusta figura, con tono di rimprovero.

Non ricevette nessuna risposta. L'altro sembrava ignorarlo completamente.

Continuò, sforzando gli occhi per vedere in quella oscurità: “Diamine, sembra di essere negli inferi! Inoltre il disordine di questa topaia sembra volermi attaccare da un momento all'altro!”

Dopo aver detto questo, alzò una mano e, contemporaneamente, ogni tenda si spostò lasciando finalmente riversare nella stanza l'accecante luce del sole.

“Era veramente necessario?” domandò il Dio con i capelli corvini, in tono glaciale.

“Sono preoccupato per la tua salute, Sherlock. Sei sempre chiuso in questo buco e non ti preoccupi minimamente di quel che succede al di fuori di esso.”

Si massaggiò le tempie e continuò, sempre con tono di rimprovero misto a rassegnazione: “Tanto per informazione: manca davvero poco all'inizio della guerra tra Dei e esseri infernali. Entrambi le parti aspettano la scintilla decisiva.”

“Noioso.” commentò il Dio chiamato Sherlock.

L'altro personaggio roteò gli occhi, con la pazienza agli sgoccioli. Poi focalizzò il suo sguardo sulla fiala posta sopra il tavolo.

“Ne hai presa un'altra. Di chi è l'anima questa volta? Un cieco, un lebbroso, una ragazzina innamorata?” non riuscì a trattenere la sua disapprovazione.

“Un guaritore che ha perso il braccio in battaglia, in realtà.” rispose con un ghigno di soddisfazione.

“Lo sai che non approvo il tuo comportamento.”

“Sai quanto me ne importa della tua approvazione.”

“Dovresti invece, sapendo il ruolo che possiedo in questo palazzo!” tuonò la figura.

Sherlock fece un sorriso sprezzante prima di commentare: “Non avresti mai il coraggio di farmi alcun che, fratello caro.”

Sentendo quel commento, il maestoso Dio si ritrovò a sospirare esausto. Aveva ragione.

“Qualcosa dovrei fare invece. Collezionare anime non è un comportamento da Dio.”

Il moro dalla pelle perlacea ridacchiò sommessamente.

Il fratello continuò,con una nota di sarcasmo: “Invece di salvare gli esseri umani più infelici, dovresti preoccuparti a creare dei seguaci. Lo sai che le preghiere aiutano ad ampliare i poteri di un Dio.”

Il moro sorrise beffardo: “Intendi quei mortali che hanno come unico scopo quello di assillare la mente di un Dio con richieste inutili? Preferisco che nessuno sappia chi sono, rispetto ad avere la testa ingombrata da miliardi di voci insopportabili.”

Il Dio lo guardò di sottecchi, prima di commentare: “Per questo ci presentiamo agli umani con nomi fittizi, per non essere completamente assaliti dalle loro voci. Solo quando vogliamo sentirle ci raggiungono nitidamente.”

“Lo sai meglio di me che alla fine il nome fittizio diventa parte del tuo essere e le voci ti raggiungono in qualunque caso.”

Il fratello gli tenne testa con decisione: “Si possono costruire barriere o filtri mentali.”

“E questo comporta ad isolare una parte della propria mente. Cosa che trovo abominevole!”

A sentire questo commento, l'altro esclamò esasperato: “Quante volte devo dirtelo, Sherlock? Siamo Dei! È questo che facciamo, anche a scapito di avere il mal di testa a fine giornata!”

“Mycroft!” tuonò con rabbia il moro “O preferisci l'appellativo Forseti? Sai benissimo che anche se faccio parte degli Dei non vorrò mai essere come loro!”

Il fratello lo guardò con faccia greve, poi con tono sfinito sospirò: “Non potevi essere più chiaro.”

Si avviò così verso l'uscita della stanza, ma a qualche centimetro dalla porta si rigirò verso il fratello e gli domandò: “Come la ucciderai, la tua ultima vittima? Con il tuo solito modo sadico e spietato?”

Sherlock alzò enigmaticamente le spalle: “Come se te ne importasse qualcosa.”

Il Dio conosciuto come Forseti rimase per qualche secondo ad osservare la fiala di vetro contenente l'anima di John. “Effettivamente non molto.”

L'altro gli ordinò con un cenno di uscire, cosa che Mycroft eseguì senza aspettare oltre.

 

 

Il protagonista principale che si aggirava per le vie del villaggio era sicuramente il silenzio. Ormai lo squillante sole del pomeriggio aveva lasciato il proprio posto ad un timido spicchio di luna crescente. Buona parte degli abitanti si era rintanata nelle loro abitazioni, mentre la rimanente si trovava tutta all'interno della taverna. Le sguaiate risa provenienti dalla sala della locanda erano di contrasto alla quiete dell'esterno.

Qualcuno iniziò ad intonare una canzone sconcia, la quale trovò immediatamente consenso da una dozzina di uomini ubriachi, che si aggiunsero al coro.

In un tavolo in disparte erano seduti John Watson e Michael Stratford, intenti a tracannare più bevande alcoliche possibili.

“La tua anima?” esclamò Michael, appena John gli raccontò per filo e per segno quello che gli era accaduto.

“Esatto.” rispose John, con le gote arrossate per l'alcol.

“Non credo sia stata una buona idea. Potrebbe renderti suo schiavo e farti fare cose orribili.” continuò l'uomo cicciottello.

John alzò le spalle. “Per ora non si è ancora fatto vivo. Poi non puoi obbligare una persona a fare cose solo perché hai la sua anima.”

“Ti ammazzerà.” constatò l'amico con il terrore negli occhi.

“Che faccia pure.” rispose schiettamente John, anche se in cuor suo sapeva che non lo voleva affatto. Ora che aveva di nuovo un futuro da poter compiere, il pensiero di morire gli dava piuttosto fastidio.

Micheal si lasciò sfuggire una grassa risata, per poi aggiungere: “John Watson, se non crepi per le mani di un Dio, creperai per la tua spavalderia! Ti auguro di vivere con questo spirito fino a cento anni!” e alzò il boccale che aveva in mano.

John alzò il suo con un sorriso, prima di svuotarlo completamente dal liquido che conteneva.

 

 

 

Sherlock osservava la scena all'interno della taverna con un ghigno divertito stampato in faccia.

Si trovava ancora nella sua stanza ma, grazie ad una bacinella d'acqua mistica, riusciva a seguire tutte le mosse del mortale. La superficie perfettamente immobile del liquido stava riflettendo l'immagine del guaritore nell'intento di ordinare un'altra bevanda.

Gli stava concedendo i giusti festeggiamenti, in modo che l'indomani li avrebbe rimpianti come non mai.

Ancora non aveva deciso come avrebbe ucciso John Watson.

Fiamme? Sì, poteva andare. Era da un po' che non vedeva della carne mortale bruciare fino a diventare cenere.

L'anima che gli aveva donato sarebbe rimasta per sempre nella sua fiala, intrappolata per sempre, insieme a migliaia di altre anime di miserabili, senza la possibilità di raggiungere il Valhalla e neppure il freddo Helheim.

Gli umani erano tutti così stupidi. Non si accontentavano mai di quello che possedevano, volevano sempre di più, di più, di più. Assillare gli Dei e sperare nei miracoli più assurdi: questa era la loro inutile natura.

Quanto lo disgustavano.

Improvvisamente l'immagine si sbiadì fino a scomparire, cosa che turbò non da poco il Dio. Non aveva ancora ordinato all'acqua mistica di smettere di spiare la vita di quell'umano.

Poi il dolore alla testa arrivò.

Gli mancò il fiato.

Cosa stava accadendo?

Prima di cadere a terra lanciò un'occhiata alla bacinella.

Quello che vide lo fece rabbrividire.

I suoi occhi, riflessi dalla superficie, si stavano colorando di un leggero azzurro chiaro.

Prima di svenire, la consapevolezza di quello che gli stava succedendo lo fece tremare.

Non aveva idea di come, ma stava diventando umano.

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Capitolo 3
*** Capitolo tre ***


Erano passati tre giorni.

Tre lunghi giorni da quando il Dio misterioso donò a John il suo arto in cambio della sua anima, tre giorni da quando John ricominciò nuovamente a vivere.

Tre giorni che John passò con circospezione, aspettandosi l'inquietante figura del Dio nascosta in ogni vicolo, in ogni angolo oscuro della casa o direttamente nei suoi incubi.

Le parole di Michael continuavano a frullargli dentro la testa: “Potrebbe renderti suo schiavo e farti fare cose orribili.”

Eppure non un'apparizione, non una parola, non un cenno da parte da quello strano Dio senza nome.

Forse stava aspettando il momento propizio prima di fargli visita.

Non potrai mai morire per mano di altri al di fuori di me. E, per questo, mi sarai per sempre fedele.”

Cosa voleva intendere? Quali erano i suoi progetti per lui? O non c'è nulla di cui preoccuparsi?

Ovviamente a queste domande non era giunta nessuna risposta.

 

 

John si stava avviando verso la caserma con l'intenzione di offrire nuovamente i suoi servigi all'esercito. Aveva sentito che degli invasori provenienti da sud, da oltre il mare, erano bramosi di invadere più terre possibili. Non poteva certamente starsene a casa a poltrire, con questa minaccia alle porte.

Inaspettatamente la sua attenzione si focalizzò su un litigio proveniente dal banco del venditore di ortaggi.

“Voglio i miei soldi!” stava urlando il venditore.

“Non ti devo nulla!” rispose il suo interlocutore, con fare seccato.

A John sembrava di aver già sentito quel tipo di voce baritonale ma, siccome chi parlava gli dava le spalle, non riusciva a focalizzare di chi fosse.

“Queste sono le mie rape, pezzo di merda! Non puoi prenderle come se fossero tue!”

“Sì che le sono, insulso mortale! Credi che quello che hai sia tuo?!”

A John venne un colpo. Non poteva essere. Eppure...

“Certo che lo è!! Che discorsi del cazzo fai! Sgancia i soldi, ladruncolo dei miei co...”

“Cosa sta succedendo qui?” si intromise John con tono duro, anche se in realtà il cuore gli batteva a mille.

“Questo ladro non vuole pagare la mia merce!” urlò il rubicondo venditore.

Il ladro sbuffò con superiorità a quelle parole, mormorando un “Sì, la tua.” con tono derisorio.

“Ti spacco la faccia a pugni!” esplose il derubato, alzando un pugno in aria.

John fermò l'uomo nello sferrare il colpo mettendosi nella sua direzione.

“State calmi. Calmi!”

Poi disse, sempre rivolgendosi al venditore: “Pago io per lui. Lo conosco.”

Vedendo la faccia imbufalita dell'uomo derubato pensò di giustificarlo: “Non è in sé, probabilmente ha bevuto troppo e straparla.”

“Spero proprio che sia così!” esclamò in tutta risposta egli, afferrando con avidità i denari di John.

Quando il biondo si girò in direzione della figura con il lungo mantello nero, questa se n'era già andata, lasciandolo solo.

“Bastardo.” si lasciò sfuggire John.

Per fortuna lo individuò immediatamente: stava camminando tranquillamente in mezzo alla via principale, lanciando per aria una rapa e riprendendola in mano con fare annoiato.

Lo raggiunse a grandi passi affrettati, cercando di richiamare la sua attenzione: “Hey tu! Aspetta! Almeno un grazie sareb-”

A quelle parole, egli si girò immediatamente nella sua direzione e con tono sorpreso gli domandò: “Ringraziarti? Per cosa?”

John poté finalmente vedere il volto del Dio, non più celato dal cappuccio.

Nelle storie che gli avevano raccontato sin da quando era piccino, gli Dei erano descritti come omoni grossi e forti, con lunghe barbe e lineamenti massicci. Rimase quindi sorpreso nel vedere che l'individuo di fronte a sé non possedeva affatto una dura faccia da combattente o un'espressione spietata. Davanti a lui c'era invece un viso sì spigoloso, ma allo stesso tempo attraente. Le morbide labbra addolcivano i marcati zigomi, mentre i gelidi occhi color ghiaccio erano in contrasto con il nero pece dei suoi capelli.

“Per averti parato il culo. Se non ti avessi pagato quelle rape, ora avresti un bell'occhio nero.”

Il moro rimase leggermente spiazzato per il modo con cui l'umano si stava rivolgendo a lui, come se non avesse alcun timore delle conseguenze per il suo mancato rispetto. Per un Dio che odiava gli umani per i loro modi servili e lamentosi, questa eccezione lo divertiva.

“Non sarebbe successo.” sbottò come risposta.

“Non ne sarei tanto sicuro. Quell'uomo là” e indicò il venditore che li stava ancora osservando da lontano “non ci penserebbe due volte prima di massacrare di botte un ladro. Te lo dico perché è già accaduto in passato.”

L'alta figura dai riccioli corvini fece una smorfia di falsa preoccupazione, per poi ribattere: “Non mi avrebbe fatto nulla. Stavo solo prendendo quello che mi è di diritto.”

John fece un'espressione incredula, mentre cominciò a dire con voce quasi isterica: “Cosa?! Ha faticato per avere quella merce, è giusto dare un compenso a lui e alla sua famiglia che lavorano la terra per sfamare il paese!”

Ma il viso senza espressione del suo interlocutore gli fece concludere l'argomentazione con un: “Va bene, lasciamo perdere. Per ora.

John aggiunse, con tono più roco: “Per un Dio questa mentalità deve essere completamente fuori dal proprio comprendonio.”

Il moro rispose con un'espressione di sufficienza.

John continuò: “Sei tu quello che mi ha ridato il braccio, vero?”

“Oh, e tu sei John Watson! Non ti avevo nemmeno riconosciuto!” esclamò con tono falso e piatto.

Il biondo gli scoccò un'occhiata di rimprovero, anche se cercò di nasconderlo.

“Sarà per il fatto che ora indossi abiti puliti e non hai più quella barba incolta da mendicante.” continuò il moro con fare sprezzante e dileggiante “Mi piacciono i mortali ben rasati.”

John si trattenne nello sferrargli un pugno dritto sul naso e invece gli chiese: “Perché sei qui?”

Lui alzò le spalle in modo annoiato.

“Non puoi tornare ad Asgard invece di startene qui a fare nulla?” chiese seccato John.

La risposta giunse con qualche secondo di riflessione: “Diciamo che ora come ora sono impossibilitato nel tornare ad Asgard.”

“Ah!” esclamò John, incrociando le braccia “Quindi ti hanno cacciato da lì.”

“Momentaneamente.”

“E fammi indovinare, non hai più i poteri da Dio.” constatò John, con un tono malizioso.

“Cosa te lo fa pensare?” chiese imperiosamente il moro.

“Altrimenti non staresti qui a parlare con me e non avresti rubato del cibo prima.”

L'evasiva alzata di sopracciglia dell'altro fece sorridere il biondo.

Poi guardò la rapa che l'ex Dio teneva ancora in mano.

“Delle rape, poi. Perché delle rape? Ci sono tante altre cose più... buone delle rape.” continuò.

Per la prima volta, il moro dagli occhi azzurri rispose con una nota di indecisione: “Mi sembravano... più... uhm... sostanziose delle altre cose.”

John scosse la testa.

“Come pensi di mangiarle? Crude?”

“No? Non si fa?”

A John venne l'istinto di scoppiare a ridere, però cercò di trattenersi. Non avrebbe mai pensato che quel Dio non sapeva nemmeno come si mangiassero le rape.

“Seguimi a casa mia. Ti farò vedere come si mangiano le rape da queste parti.”

 

 

 

Si era risvegliato in mezzo ad un bosco.

Le ultime cose che ricordava erano il suo riflesso nell'acqua mistica, le sue iridi che mutavano di colore e la consapevolezza di essere diventato mortale.

Sherlock si massaggiò le tempie prima di alzarsi in piedi.

Non aveva idea di dove si trovava e, per la prima volta in vita sua, di che cosa fare.

Guardò per terra e si accorse che la fiala contenente l'anima di John Watson giaceva accanto ai suoi piedi.

“Sherlock.” si sentì chiamare da una voce femminile da dietro alle sue spalle, mentre si chinava a raccogliere la fiala.

Con estrema calma mise l'oggetto in una tasca interna del mantello e con lentezza infinità si girò verso la donna.

Essa aveva i lunghi capelli castani raccolti in una treccia che morbidamente scendeva sulla spalla sinistra. I suoi occhi, di un bianco splendente, lo guardavano con preoccupazione e dolcezza.

Con tono canzonatorio la elogiò: “Oh ma chi si vede! La grande Dea Eir è apparsa al mio cospetto! Con i suoi poteri miracolosi forse potrà aiutarmi!” ma subito aggiunse senza nessuna emozione: “Ciao Molly.

La Dea non si offese minimamente per l'utilizzo di quel nomignolo invece del suo nome Mallaidh. Ormai con Sherlock ne aveva fatto un'abitudine.

“Sherlock, ti prego.” lo richiamò con voce quasi spezzata “Non dovrei nemmeno essere qui.”

“È stato Mycroft non è vero?” la interruppe senza tante cerimonie.

Le sottili labbra della donna tentennarono prima di dire tutto ad un fiato: “Ha ammonito a tutti persino di rivolgerti la parola! Ti scongiuro Sherlock! Se lo preghi e prometti di comportarti come un Dio per il resto dell'eternità, potrà toglierti la punizione!”

Sherlock si mise a ridere con asprezza.

“Pregare mio fratello? Non ci penso neanche!”

“Cosa farai allora? Rimarrai umano? Morirai!” esclamò con preoccupazione Mallaidh.

“No, non rimarrò umano. Toglierò la maledizione per conto mio.” constatò con convinzione Sherlock.

“Ma è impossibile!”

“Allora morirò nel cercare di farlo.”

La Dea chiamata Eir lo guardò con immensa tristezza.

“Fa come credi Sherlock. Ma se cambi idea, Mycroft sarà lieto di accoglierti!”

“Addio, Molly.” la ignorò Sherlock, avviandosi verso l'oscurità del bosco e lasciando dietro di sé la Dea.

“Addio, Sherlock.” mormorò con un sospiro lei.

 

 

 

I ricordi di Sherlock sfumarono quando John posò con un tonfo il piatto di zuppa alle rape davanti a lui.

“Non sono un grande cuoco, quindi spero che sia venuto fuori qualcosa di commestibile.” disse John, sedendosi di fianco all'ospite.

Il moro guardò con diffidenza quella brodaglia. Smosse un poco la superficie con un cucchiaio per tastare la sua consistenza.

John nel frattempo aveva già ingurgitato due generose cucchiaiate.

“Quindi ora sei umano come me.” attaccò bottone il guaritore.

“Già. Ma non per molto.” rispose evasivo il moro.

John lo guardò di sottecchi.

“Come pensi di fare?”

Rimase in silenzio. Non sapeva affatto come fare.

Prese coraggio e assaggiò la zuppa. Il boccone rimase all'interno della bocca per una decina di secondi prima di decidere di proseguire il suo viaggio verso l'esofago.

“Ti piace?” domandò John, con una punta d'ansia.

Come risposta ricevette un grugnito.

Eppure la pancia gridava per essere riempita, quindi Sherlock decise di riprovare a buttare giù un altro sorso.

John prese questa azione come un complimento e sorrise soddisfatto.

“Ora puoi dirmi come ti chiami.” lo incitò John, curioso di sapere il nome del Dio.

“No.”

“No?”

“Mi sembra di averti detto che nessun mortale saprà mai il mio nome.”

Il biondo sbuffò contrariato, ma non volle insistere.

Quindi gli chiese: “Allora la mia anima sta bene?”

“Immacolata.” sbottò tra un boccone e l'altro. Ora si era abituato al gusto del cibo e doveva dire che non era così male.

Essendo un Dio non era mai stato obbligato a mangiare per vivere. Non era mai stato amante dei pasti, come invece lo era la maggioranza degli Dei. Il suo ultimo ricordo di aver provato a mandare giù per la gola qualcosa risaliva circa ad un centinaio di anni prima. Ma ora che era umano doveva convivere con l'idea di cibarsi, ogni tanto. Che seccatura.

“Vedo che hai iniziato nuovamente a curare le persone. Ne hai salvato uno dall'avvelenamento, di recente.” disse Sherlock con tono neutrale, appena finì l'ultima goccia di zuppa.

“Lo sai perché mi hai spiato quando eri ancora un Dio?” chiese John, tetro.

“No. L'ultima volta che ti ho osservato ti stavi ubriacando in una bettola.” rispose “L'ho capito per le erbe che hai acquistato di recente. Su quei scaffali posso distinguere con precisione della lavanda e della camomilla per la pulizia delle ferite, se non sbaglio dentro a quei vasetti vedo dell'iperico. L'ultima volta che sono stato qui quello scaffale era completamente vuoto. Inoltre tra le tue unghie vedo dell'argilla, che se non sono in torto voi mortali la usate per fare degli impacchi che assorbono le sostanze tossiche.”

John si guardò le unghie, poi spostò il suo sguardo sbalordito nuovamente verso l'ospite.

“Quindi in questi giorni hai curato una persona a rischio di avvelenamento. Con successo, spero.” concluse Sherlock, come se stesse parlando del tempo.

“Sì, il figlio della vicina. Ma questo è...” si bloccò, non trovando alcun termine adatto per completare la frase.

“Demoniaco?” lo aiutò l'altro, sorridendo in modo sghembo.

“Strabiliante! Semplicemente strabiliante!” gli parlò sopra John.

Sherlock lo guardò con la bocca spalancata: “Cosa?”

“Fantastico, davvero! Con una sola occhiata hai potuto capire tutto questo!” esclamò sorridendo il biondo.

“Beh, da sempre faccio attenzione ai particolari.” cercò di giustificarsi Sherlock “Eppure nessuno mi aveva detto così.”

“Davvero? E cosa ti dicono di solito?”

“Che sembro un essere infernale.”

John ridacchiò sommessamente prima di dire: “Assolutamente no!”

Sherlock accennò ad un vero sorriso lusingato.

“Quindi tu saresti una specie di Dio della deduzione?” continuò il biondo, con occhi curiosi.

Sherlock non si era mai posto il problema di sapere di che virtù era il protettore, quindi rimase completamente spiazzato da quella nomina improvvisa.

“Sì, qualcosa di simile...” rispose con un tono piuttosto basso.

“Ora capisco perché non mi vuoi dire il tuo nome!” rise John “Come Dio della deduzione, devo dedurlo!”

“Sai una cosa?” continuò John più seriamente, vedendo che la figura davanti a sé non accennava a muovere muscolo “Andremo dal druido del villaggio, lui sicuramente saprà cosa fare per aiutarti.”


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Nota: Mi scuso per aver pubblicato con tutto questo ritardo, ma lo stage in cantiere che sto facendo mi sta risucchiando tutto il tempo ( e le forze ) che ho... Quindi dovrete avere un po' di pazienza per il prossimo capitolo... Spero di non metterci un'eternità, comunque! 
Per farmi perdonare, ho aggiunto un disegno all'inizio del primo capitolo a mo' di copertina! (Fatto da me, quindi non aspettatevi chissà che arte... però ci ho messo impegno, insomma! u_u )

Approfitto di questo spazio per ringraziare tutti quelli che hanno letto fino a qui la storia, a chi l'ha recensita (vi adoro, non sono abituata a recensioni così belle!) a chi l'ha preferita/ricordata/seguita.

Al prossimo capitolo! 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro ***


“Quale cosa strabiliante...” sussurrò tra sé e sé la robusta figura del Dio Forseti.

Si trovava in una spaziosa stanza circolare, le cui immense finestre allungate erano alternate da statue di uomini in armatura in posizione di riposo: entrambe le mani erano strette nell'impugnare l'elsa della spada, mentre la punta era conficcata simmetricamente a terra.

Al centro della stanza si trovava un pozzo in pietra, completamente pieno di acqua mistica. Il Dio, coperto da una lunga tunica color oro con bordature rosse, stava guardando con interesse le immagini riflesse sulla superficie del liquido.

“A cosa si riferisce, signore?” chiese una giovane figura dai lunghi capelli scuri posta di fianco a lui.

“Quel mortale vuole aiutare mio fratello.” rispose Mycroft, quasi titubante.

“La considera una cosa negativa?” il tono con cui la Dea fece la domanda non lasciava trapelare nessuna emozione.

“Non ne sono completamente sicuro. Sai qual è il motivo per il quale gli ho tolto l'immortalità.”

Fece una pausa prima di continuare: “Potrebbe essere la sua salvezza. O la sua più totale disfatta.”

“Spererei la prima possibilità.” commentò la Dea, con tono piatto.

“Lo spero anche io, Anthea. Lo spero anche io.”

 

 

 

“Non capisco come un druido potrebbe aiutarmi.” commentò velenosamente Sherlock mentre seguiva John tra le vie del villaggio.

“Si tratta della persona più saggia della contrada! Più di una volta è riuscito a mettersi in contatto con gli spiriti e con gli Dei!” controbatté con foga il biondo.

“Contattare gli Dei ora sarebbe proprio utile.” disse con sarcasmo l'ex Dio.

John gli scoccò un'occhiataccia, prima di dire: “Sa fare alcune magie. Forse ne sa una abbastanza potente da farti ritornare come eri prima.”

Sherlock sbuffò: “Ne dubito.”

Si ritrovò ad osservare quello strano essere umano che si era offerto di aiutarlo di sua spontanea volontà. Sembrava addirittura felice di farlo.

“Non capisco perché mi vuoi aiutare.” si ritrovò a dire Sherlock.

L'altro iniziò una breve risata, per poi rispondere: “Mi sembra ovvio! Hai la mia anima e non sei più un Dio. Se tu dovessi morire, che fine farei io?”

“Probabilmente la tua anima si dissolverebbe, insieme al resto del corpo.” rifletté il moro.

“Perfetto. Per questo preferisco che tu riacquisti la tua immortalità.”

Sherlock fece un sorriso sghembo nel sentire quelle parole. Quanto ti sbagli, John.

“Tenendo conto che non ti darei una settimana di vita in questo mondo.” concluse la frase il giovane.

Sherlock strabuzzò gli occhi ed esclamò: “Cosa?!”

John lo guardò seriamente negli occhi.

“Stavi per farti uccidere da un fruttivendolo, prima.” constatò.

Il moro tentennò: “Non è affatto vero! Non sarebbe riuscito neppure a sfiorarmi!”

“E come ti saresti difeso?” domandò con un leggero tono derisorio John.

“Ovviamente con...” ma l'ex Dio non riuscì a completare la frase.

Se fosse stato in possesso di tutti i suoi poteri di divinità, avrebbe potuto usare un sacco di sortilegi: fulmini, fiamme, bloccare il ritmo del cuore, riempire i polmoni di acqua, creare visioni raccapriccianti... ma ora come ora non era in grado di fare assolutamente nulla di tutto ciò.

In tutta la sua esistenza, non si era mai preoccupato di portare con sé qualunque tipo di arma, nemmeno un minuscolo pugnale, consapevole della sua bravura con la magia e con l'ingegno. Se ora si fosse trovato in uno scontro, le uniche armi che possedeva erano le sue mani nude.

Si sentì completamente inutile.

John continuò a camminare con un'espressione soddisfatta, perfettamente conscio di avere ragione, mentre la figura a suo fianco lo seguiva scuro in volto.

 

 

 

Qualcosa si mosse nel vicolo appena superato dai due.

Si rifugiò nell'ombra della più vicina abitazione, mimetizzandosi completamente con l'oscurità. Nessuno lo vide o lo sentì. Era completamente invisibile, oltre che immateriale, siccome fatto della stessa sostanza delle ombre.

Eppure questo non lo fermava nell'osservare con attenzione quei due individui: prima quello più basso e ben piazzato, decisamente umano e, per questo, catalogato come banalità; successivamente quello alto e snello, con il lungo mantello nero. Si ritrovò impossibilitato nel classificarlo in qualsiasi categoria a lui conosciuta. I suoi sensi dicevano che era anch'esso mortale, eppure... eppure il suo intuito gli diceva che non lo era affatto.

Finalmente qualcosa di interessante.

I suoi occhi oscuri scintillarono, prima di continuare a seguirli.

 

 

 

“Quella donna ti guarda malissimo.” constatò Sherlock, dopo svariati minuti di silenzio.

Si trovavano a pochi passi dall'entrata della vecchia capanna del druido del villaggio e, proprio ad un metro da loro, c'era una donna di mezz'età che inceneriva John con lo sguardo.

“Ah, non ti preoccupare. Da quando mi è ricresciuto il braccio, alcuni abitanti mi guardano un po' di traverso.” disse John.

L'ex Dio lo guardò come se non avesse capito quello che aveva detto.

John quindi continuò: “La notizia del mio miracolo ha raggiunto ben presto le orecchie di tutti gli abitanti del villaggio, a nulla è servito provare a nasconderlo. Alcune persone mi considerano un uomo fortunato, alcune ne approfittano per chiedermi consulenze mediche – sai, sono vicino agli Dei e cose del genere – altre invece pensano che abbia fatto un patto con demoni e che ora sono un mostro.”

Si stoppò un momento per leggere l'espressione dell'altro, ma non ne trapelò nulla.

Così continuò: “Ma a me non importa nulla di quello che pensano.”

“Tanto abbandonerai il villaggio alla prima occasione per raggiungere il campo di battaglia.” concluse il moro.

“Esatto.” gli diede seriamente ragione John “Non sopporto la vita di paese.”

Spostò lo sguardo verso la capanna che si trovava di fronte a loro e disse, con tono più rilassato: “Questa è l'abitazione del druido. Entriamo e speriamo che ci possa essere di aiuto.”

 

 

 

Appena varcarono l'entrata, vennero inondati da un odore di erbe aromatiche bruciate, che fece immediatamente tossire John.

Il foro circolare, posto proprio di fronte all'entrata, era la sola fonte di luce di quell'unica stanza della capanna, cosa che rendeva l'ambiente piuttosto tetro. Se si aggiunge poi il fatto che erano circondati da vecchi scudi, armi, pelli di animali ancora complete di testa e strane tele di pergamena dipinte con simboli magici, l'ambiente si poteva considerare addirittura terrificante.

“John Watson e il misterioso forestiero.” li accolse una voce bassa e stridente “Avvicinatevi.”

Obbedirono e senza tante cerimonie si ritrovarono di fronte all'anziano.

Aveva piccoli occhi tondi, marcati da profonde rughe, e gli incisivi particolarmente pronunciati. Quando mise sul tavolo di fronte a sé una ciotola contenente delle ossa di animale, Sherlock poté notare che le sue mani erano completamente tatuate da motivi geometrici.

“Siamo qui per chiederti consiglio.” proclamò John.

“Esponetemi il vostro dilemma, con il potere della natura e degli Dei farò in modo di-” iniziò il saggio, ma venne interrotto dal commento di Sherlock: “Se sei così bravo, dovresti già sapere per quale motivo siamo qui.”

John si girò verso di lui e lo rimproverò silenziosamente con uno sguardo tagliente.

Il druido iniziò a ridacchiare, per poi rispondere al maleducato commento del moro: “Sei intelligente. Non sei un credulone come la maggior parte degli abitanti di questo villaggio. E, per dimostrarti che non sono un impostore, ti dirò immediatamente quello che volevi chiedermi: vuoi che ti liberi da una maledizione.”

Sherlock si ritrovò con la bocca stranamente secca. Non se lo aspettava proprio.

“Sareste in grado di farlo?” domandò John.

“Tutto dipende da chi l'ha proferita. Purtroppo non riesco a vedere chi è l'artefice.” rispose, dopo aver smosso la ciotola contenente le ossa e averle osservate per qualche secondo.

“Dovevo aspettarmelo...” sussurrò il moro, per poi dire con voce udibile per tutti: “Il Dio Forseti.”

L'anziano lo guardò dritto negli occhi, stupito della risposta.

“Il Dio della giustizia ti ha scagliato una maledizione? In questo caso, non potrò mai impormi contro la sua volontà. Non ho nessun potere contro di lui.”

Sherlock lo guardò duramente e, senza aggiungere nulla, si girò per andarsene della capanna.

“Aspetta!” lo richiamò John, inseguendolo.

Stava per uscire all'aria aperta quando la voce del druido, stranamente più acuta di prima, raggiunse le sue orecchie: “Ooh! Ora sì che ho finalmente capito cosa sei!”

Sherlock non riuscì a non girarsi verso di lui e domandare con tono duro: “E cosa sarei?”

“Un Dio.” rispose semplicemente l'altro, inclinando la testa di lato.

“Ha ragione!” esclamò John, più a se stesso che agli altri.

L'anziano continuò, con uno strano sorriso: “Ti hanno tolto l'immortalità e tutti i tuoi poteri. Ooh! Devi essere stato veramente disubbidiente.”

“Questi non sono affari tuoi.” sbeccò il moro, innervosito.

“Non esserne così sicuro, piccolo Dio indisciplinato.” appena finì questa frase, il druido si accasciò a terra.

John si avvicinò immediatamente al corpo steso nel pavimento, pronto per soccorrerlo. Ma appena gli fu vicino, la mano dell'anziano lo allontanò con durezza.

“Questo corpo vecchio e debole mi sta dando dei problemi.” digrignò tra i denti.

Sherlock assottigliò gli occhi, mentre il druido si rialzò di nuovo in piedi.

“Se si sente male, io sono un guaritore, posso aiutarla.” si offrì John.

L'anziano ignorò completamente la proposta del biondo e continuò, rivolto all'ex Dio: “Io non posso ridarti l'immortalità, ma conosco una persona che potrebbe riuscirci.”

Gli occhi di Sherlock si fecero immediatamente attenti.

“Devi raggiungere il tempio di Uppsala. Lì troverai il sacerdote detto Mörk Präst che saprà sicuramente cosa fare.”

“Cosa mi assicura che saprà spezzare la maledizione?” domandò, scettico.

L'anziano dai denti da ratto rise nuovamente: “È l'unica alternativa che hai, piccolo Dio senza seguaci. Oltre a rimanere mortale, ovviamente.”

Sherlock deglutì a fatica, prima di uscire dall'abitazione.

Un interdetto John Watson lo seguì, dopo aver lasciato qualche moneta all'inquietante individuo.

 

 

 

Appena i due se ne furono andati, il druido cadde a terra come solo un corpo morto saprebbe fare.

I suoi occhi opachi erano spalancati, incapaci di vedere alcuna immagine o percepire alcun movimento.

La sua ombra si mosse, dividendosi in due. Una delle due parti restò immobile, attaccata al corpo, l'altra sgusciò via, diretta verso la strada.

 

 

 

Mycroft diede un potente pugno al bordo del pozzo.

“Il tempio di Uppsala! Questo è assurdo!”

L'attraente Dea al suo fianco cercò di calmarlo, mettendo una mano sulla sua spalla.

Ma il Dio non si curò minimamente di quel gesto e continuò: “Non è possibile! Quel tempio è completamente in mano alle creature infernali! È sicuramente una trappola!”

Anthea cercò di tranquillizzarlo con voce calma: “Tutti lo sanno, quindi anche Sherlock si sarà reso conto che il vecchio mentiva.”

Mycroft la guardò con occhi spalancati: “Secondo te mio fratello ne è a conoscenza?! A stento voleva interessarsi dell'imminente scontro! Figurarsi delle recenti conquiste di entrambe le fazioni”

Anthea tentennò: “Bisogna avvertirlo.”

Il Dio Farseti si mise una mano sugli occhi, esausto.

“No.”

“No? Siete sicuro?”

“Purtroppo sì. Non ha voluto ascoltare nemmeno Mallaidh, che mi sembrava l'unica Dea per la quale Sherlock nutrisse un minimo di fiducia. Anche se lo informassi io stesso, non ci crederebbe mai. Si intestardirebbe ancora di più nel raggiungere quel tempio.”

Anthea corrugò la fronte, dicendo: “Quindi qual è il piano?”

“Dobbiamo fare in modo che non raggiungi mai quel luogo maledetto. Con tutti i mezzi necessari.”

 

 

 

“Cosa pensi di fare?” domandò John alla pensosa figura che quasi correva tra le vie.

“Andiamo ad Uppsala.”

“Cosa? Andiamo? Cosa ti fa pensare che ti seguirò fino a là?” esclamò il biondo.

Sherlock sorrise.

“Ovviamente per lo stesso motivo che mi hai detto precedentemente. Non mi lasceresti mai affrontare un viaggio quando sono in possesso della tua anima.”

John voleva ribattere, dirgli che Uppsala si trovava a mesi di cammino da lì, che non c'era mai stato, che era un'impresa folle. Eppure non gli uscì nessuna parola.

Quel maledetto aveva vinto.

“Quindi partiremo il prima possibile. Prima partiamo, prima arriviamo, prima ritornerò immortale.”

John annuì controvoglia.

“Prima dovremo armarci, però.” riuscì a dire il biondo.

“Armarci?”

“Certo! Fare un viaggio di queste proporzioni e non avere nemmeno un'arma sarebbe un suicidio!”

Sherlock gli diede ragione con un movimento di sopracciglia.

“Per fortuna, oltre che un guaritore, sono anche un soldato.” sorrise “E come soldato, possiedo parecchie armi.”

Sherlock ridacchiò tra sé e sé.

“Perché ridi, ora?” chiese John, tra l'offeso e lo spiazzato.

“Perché non ci provi nemmeno a nascondere che ti piace.”

“Cosa?”

“La possibilità di vivere un'avventura. Sento il tuo sangue scorrere più veloce al solo pensiero.”

John ribatté immediatamente:“Lo faccio solo per proteggere la mia anima.”

“Certo.” pronunciò Sherlock, guardandolo divertito negli occhi. 



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Note: Sono in ritardissimo!!!! Scusatemi, scusatemi, scusatemi! Questo capitolo si è fatto proprio desiderare (e probabilmente non varrà neanche l'aspettativa =_= )
Per "perdonarmi" vi aggiungo un bonus (che non fa parte della storia.... o forse sì? Lascio a voi la scelta!)

Bonus:


 Mycroft guardava stupefatto la superficie del liquido.
"..."
"Cosa succede, signore?" chiese apaticamente Anthea.
"Ora mio fratello e quel mortale faranno il viaggio assieme."
"Così sembra."
"Dobbiamo aspettarci un lieto annuncio per il fine settimana?!"
La Dea si ritrovò a sorridere.


Fine bonus. Che cazzata eh? Però come non potevo citare quella frase?

E basta, ho già rotto abbastanza le scatole. Ci sentiamo al prossimo capitolo! Spero il più presto possibile! 



 

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque ***


L'ombra scivolò silenziosamente in una fessura del muro. Sbucò in un luogo oscuro e freddo, a chissà quante miglia dal tranquillo villaggio dove si trovava prima.

Era un interno completamente spoglio, geometrico, privo di fonti di luce e di qualunque arredo, fatta eccezione del trono in ebano posto proprio al centro della stanza ottagonale.

Si trattava di un trono maestoso: lo schienale intarsiato si stagliava verso l'alto, contorcendosi su se stesso fino a dividersi in due corna minacciose.

Quella costruzione in legno sembrava non avere nessuna base d'appoggio. Pareva, infatti, che non ci fosse nessuna discontinuità tra l'oscuro pavimento e il nero trono.

Seduto su di esso c'era una figura.

Allungò una mano.

L'ombra la raggiunse e venne completamente assorbita dalla sua pelle diafana.

Uno spietato sorriso comparve sul volto oscuro del Re.

Il bianco splendente di quei denti appuntiti sembrò illuminare quelle tenebre per qualche istante.

“Perfetto!” sibilò con un ghigno.

 

 

 

John passò a Sherlock un rustico ma pratico pugnale, con il tagliente filo in perfette condizioni.

“Un'arma più minuscola non ce l'avevi, vero?” domandò con sarcasmo il moro.

Si trovavano nuovamente a casa del guaritore con lo scopo di prendere più armi e scorte possibili per affrontare l'imminente viaggio.

“Sinceramente non credo che ti troveresti bene nel portarti appresso una spada. È un oggetto piuttosto pesante e difficile da utilizzare.” rispose John, mentre dava una veloce lucidata alla sua spada con un pezzo di tela abrasiva. Si trattava di un'arma di semplice fattura, con lama a doppio taglio e un'impugnatura lineare.

“Vorresti dire che sono gracile e inesperto?” lo sfidò Sherlock.

Il biondo gli lanciò un'occhiata che confermò le sue parole.

“Senza offesa, ovviamente.” precisò John, con un'alzata di spalle.

L'ex Dio grugnì. Non si era mai sentito più offeso di così.

In quel momento sentirono dei vigorosi colpi percuotere la porta d'entrata. Delle dure voci di uomini maturi gridarono: “John Watson! Apriti questa porta!”

“John Watson! Tu e il tuo complice siete convocati per l'assemblea! Immediatamente!”

Il guaritore divenne immediatamente pallido in volto.

Nel loro villaggio, il termine assemblea, gridato con così tanta enfasi e in modo tutt'altro che amichevole da quegli uomini, significava tribunale. Essere convocati direttamente e con forza ad un assemblea non si trattava mai di un fatto positivo. Di sicuro non li volevano per la loro sola presenza.

Ben presto gli uomini, entrambi con una lancia in mano, sfondarono la porta ed entrarono nella stanza.

“Watson e complice! Siete incolpati di omicidio! Seguiteci senza fare resistenza!”

“Omicidio?!” esclamò in falsetto il biondo.

Sherlock rimase zitto, ma spalancò gli occhi dalla sorpresa.

“Non fate i finti tonti!” disse l'altro uomo “Avete assassinato il nostro druido! Abbiamo una testimone!”

Fu la volta di Sherlock ad esclamare: “Testimone?”

“Sì. Una testimone è entrata nell'abitazione del druido appena dopo di voi e l'ha trovato morto. Non potete negarlo!”

Il secondo uomo allungò la propria lancia verso Sherlock, dicendo: “Ora verrete all'assemblea e il capo villaggio deciderà quale sarà la vostra sorte!”

“Va bene, va bene!” disse pacatamente Sherlock, alzando le braccia e avvicinandosi ai due soldati.

John non credeva ai propri occhi. Non pensava che quel Dio avrebbe accettato così arrendevolmente la propria sorte.

“Watson! Posa quella spada e segui il tuo compl-ugh!” non riuscì a terminare la frase, siccome una lama gli aveva completamente trapassato il collo.

Entrambi i soldati avevano fatto il medesimo sbaglio: concentrarsi unicamente sul padrone di casa e non sull'arrendevole Sherlock, il quale, privo di attenzioni, aveva potuto afferrare senza problemi il suo nuovo pugnale e colpire mortalmente l'uomo più vicino.

Sia John che l'altro uomo erano rimasti a bocca aperta dalla sorpresa.

Il moro sfilò con scioltezza la lama, conficcata nel collo del morto ancora in piedi, e si avventò come una furia verso il suo compare, ancora shockato.

Il soldato armato di lancia si riprese appena in tempo per parare il colpo di Sherlock, bloccandogli il braccio destro con la sua unica mano libera.

L'altra mano, che stringeva ancora la lancia, si era appena alzata, pronta per attaccare.

“John!!” gridò Sherlock.

Il guaritore sembrò svegliarsi da un paralizzante torpore e, senza pensare a nulla, strinse l'impugnatura della spada, la sollevò e colpì in pieno petto l'uomo.

Ancora qualche istante e quell'individuo sarebbe riuscito a trafiggere con la propria lancia il torace di Sherlock.

Cadde a terra boccheggiante, accanto all'altro corpo ormai privo di vita.

Intorno ai due corpi si era formato un lago di sangue scuro e denso.

“Cosa ho fatto... Cosa abbiamo fatto!” mormorò John, senza fiato.

“Dobbiamo andarcene al più presto.” ordinò Sherlock, afferrando una sacca di cuoio e infilando al suo interno una serie di pugnali che si trovavano sopra il tavolo, due borracce vuote, qualche straccio preso a casaccio e le erbe medicinali dagli scaffali.

“Per Odino...” continuò John con lo stesso tono di prima, guardando l'uomo trafitto dalla sua arma in preda agli spasmi.

“John! Sbrigati! Raccogli la tua spada e andiamo, prima che ne arrivino degli altri!”

Ancora con la morte impressa negli occhi, John si ritrovò ad ubbidire alle parole dell'ex Dio.

 

 

 

I loro passi risuonavano concitatamente per il selciato, senza un minimo di tregua. Dovevano scappare, nascondersi, e al più presto possibile!

Entrarono nel bosco appena fuori dal villaggio: continuare per la strada era troppo pericoloso. Quel labirinto di tronchi li avrebbe aiutati a far perdere le loro tracce.

La corsa forsennata non trovò pace finché non furono realmente sicuri di non essere inseguiti da nessuno.

Con il fiato corto, si fermarono presso le tranquille e limpide acque di un fiumiciattolo.

“Cazzo...” mormorò John, per poi ripetere l'imprecazione una seconda volta, in modo decisamente più furioso: “Cazzo!”

Si avventò con il pugno teso contro Sherlock, il quale era appoggiato ad un tronco per prendere fiato.

“Coglione di merda! Hai ucciso quell'uomo!”

“Si trattava solo di un mortale, John. Non era importante.”

Il pugno di John colpì la corteccia dell'albero, sfiorando di proposito l'orecchio e qualche ciuffo di capelli corvini.

Solo un mortale! Solo un mortale! Anche io lo sono! E, se non te ne sei accorto, anche tu lo sei!”

“Veramente io non sarei propr-”

John lo ammutolì con un altro pugno, rivolto sempre al povero albero.

Stai. Zitto! Ora, grazie a te, siamo ricercati per omicidio, genio dei miei calzari!”

“Ti ho solo aiutato a velocizzare la nostra fuga! Dovresti ringraziarmi!” si giustificò Sherlock, incurante della possibilità di ritrovarsi un naso sanguinante.

Ringraziarti?!” esclamò John “Quindi dovrei ringraziarti per avermi costretto ad uccidere un mio compaesano, per avermi reso un traditore e un fuggiasco?! È stato spanto sangue innocente, stupido egoista, loro non avevano nessuna colpa!”

Sherlock era rimasto senza parole, le infiammate parole di quel mortale gli avevano inspiegabilmente stretto lo stomaco e reso la bocca secca.

Vedendolo finalmente muto, John si allontanò da lui, non senza prima sferrare un terzo e ultimo pugno alla dura corteccia dell'albero.

Mise la mano con la nocca insanguinata dentro la fresca acqua del fiumiciattolo, senza però trovare alcun refrigerio.

Senza proferire una singola parola, John aprì la sacca di cuoio, prese le due borracce e le riempì.

Sherlock lo guardava immobile.

Per la prima volta in vita sua, non comprendeva il comportamento di un mortale. Secondo il suo identikit personale, gli umani erano egoisti, affamati di sangue e di potere, senza scrupoli ma, quando si sentivano spacciati, non pensavano due volte prima di prostrarsi al più forte o fare cose umilianti, pur di non perdere la loro insulsa vita.

John non rientrava in questo canone.

Lui era diverso. Si preoccupava della vita degli altri. Perché? Come era possibile?

Accortosi dello sguardo puntato su di lui, John lanciò a quel viso confuso un'occhiata tagliente.

“Vuoi ancora andare ad Uppsala?” chiese con freddezza John, chiudendo la propria borraccia. Con questa domanda sottointendeva anche la seguente: “Vuoi ancora andare ad Uppsala con me?”

A Sherlock non sfuggì quella sfumatura e rispose semplicemente con un: “Certo.”

“Non puoi non pensare che la morte del druido non sia sospetta. È morto immediatamente dopo che ce ne siamo andati.” John lo guardò dritto negli occhi.

“Potrebbe essere una casualità. Era vecchio e non si reggeva in piedi.” disse Sherlock con una scrollata di spalle.

“Raccontala a qualcun altro.”

Sherlock allora rispose: “Potrebbe essere la punizione divina di Forseti per aver consigliato a me di andare al tempio. Di sicuro gli Dei non vogliono che ci vada.”

Il biondo continuava a guardarlo imbufalito.

“Smettila, John. In qualunque caso, io non demorderò.”

Detto questo lo superò, incamminandosi verso il cuore del bosco. Dopo una decina di passi si girò verso il suo compagno, ancora immobile presso il rigoglioso ruscello.

“John.” proferì, con tono roco “Lo sai benissimo che entrambi eravamo assassini ancora prima di togliere la vita a quei due uomini. In questo, Dei e umani non sono così differenti.”

John spostò lo sguardo verso il terreno. Si soffermò un momento ad osservare le sue scarpe di cuoio scuro, impresse ancora dagli schizzi di sangue di quei due innocenti.

Fece un sospiro.

Poi, senza dire nulla, seguì quella figura scura che gli aveva sconvolto l'esistenza in così poco tempo.

 

 

 

Mycroft si mise una mano sugli occhi, disperato.

“Fratello mio, cosa hai fatto...”

Anthea, che non si permetteva di proferire alcun commento, guardava la scena riflessa nell'acqua mistica con espressione indecifrabile.

“Inoltre non posso crederci che sia stato così tanto stupido! Come può pensare che sia un intervento divino quello di uccidere quel vecchio druido?!”

Detto questo, si allontanò dal pozzo con le mani tra i corti capelli scuri, con riflessi tendenti al rossiccio.

Iniziò a girare per la stanza, rimuginando tra sé e sé.

“Da parte mia poi! Se avessi voluto fermarlo, lo avrei ucciso prima che dicesse qualcosa! Non dopo!”

Anthea si decise a esprimere il suo pensiero: “Se posso dire la mia opinione, signore, credo che Sherlock sia perfettamente conscio che non siete stato voi ad assassinare il vecchio.”

“Cosa?” esclamò Mycroft, interdetto.

“Vostro fratello ha capito fin dall'inizio che in quell'essere c'era qualcosa che non andava. Con la sua morte improvvisa, ora ne ha avuto la conferma.”

“E allora, per quale insulso motivo vorrebbe ancora raggiungere il tempio di Uppsala? Se è come hai detto tu, non si fiderebbe mai delle sue parole!” gridò Mycroft.

“È curioso.” fu la semplice risposta della Dea.

Mycroft aprì la bocca per ribattere, ma improvvisamente si rese conto che sì, la cosa era incredibilmente probabile. Il suo dannato fratellino avrebbe sacrificato perfino loro madre pur di soddisfare la più banale delle sue curiosità.

“Quindi si è reso conto che è una trappola, ma ci vuole comunque andare perché è curioso.” rifletté il Dio.

“Esatto. Vuole scoprire chi gli ha teso la trappola.” continuò Anthea.

Il Dio Forseti sospirò, esausto.

“Quale miglior modo per attirare Sherlock nella propria tela se non fargli capire che il ragno gli ha appena teso una trappola?”

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Capitolo 6
*** Capitolo sei ***


A mano a mano che i due fuggitivi si addentravano nel bosco, questo diventava sempre più oscuro e tetro. Gli alti fusti degli alberi si stagliavano annaspanti verso il cielo. Il sole, una macchiolina che si scorgeva appena tra le cariche fronde delle conifere, era ormai in procinto di tramontare.

Durante tutto il cammino non una parola era stata detta. Il rumore dei passi, attutito dalle foglie morte, era l'unico suono che li accompagnava.

Fu John il primo a spezzare il silenzio: “Dovresti dirmi almeno il tuo nome.”

L'altro non gli degnò nemmeno uno sguardo.

“Me lo devi.” continuò il biondo, con tono minaccioso.

Eppure il moro non aprì bocca.

John soffocò a fatica la marea di imprecazioni che voleva riversagli.

Continuarono a marciare silenziosi, finché la luce aranciata del tramonto non colorò quel poco di visuale che era rimasta.

A John sembrò di vedere un'ombra scivolare tra i cespugli, ma pensò che probabilmente era l'effetto della luce e non se ne curò affatto.

“Dobbiamo fermarci, stanno calando le tenebre.” proclamò John.

L'altro, senza fiatare, si sedette su una grande pietra ricoperta di muschio e si mise ad aspettare.

John aveva i nervi a fior di pelle.

“Sai accendere un fuoco?” chiese dunque a Sherlock.

“Mai avuto bisogno.” fu la sua risposta.

“Questa volta ce ne sarà bisogno invece, sua maestà. Aiutami a raccogliere qualche ramo secco, invece di stare lì a contemplare il nulla.”

Sherlock gli lanciò una occhiataccia, ma fece quello che gli si era ordinato. Più o meno. Ritornò dopo una decina di minuti con un singolo e sbilenco rametto.

Il tempo che aveva impiegato per raccogliere quel singolo pezzo di legno, John l'aveva utilizzato per raccoglierne almeno altri venti.

Il curatore cercò di non perdere la pazienza e ignorò il sorriso sbieco che gli stava lanciando quel maledetto individuo.

John rovistò tra le boccette contenenti le erbe medicinali che Sherlock aveva infilato così concitatamente all'interno della sacca e, con un sospiro di sollievo, tirò fuori un barattolino di vetro basso e largo. Al suo interno c'erano due oggetti a forma d'uovo, avvolti da un panno di cuoio vecchio.

Lo aprì senza tanti preamboli.

Si trattavano di due pietre scure, lisce, con i bordi scavati. Le sfregò energicamente: si crearono delle rosse scintille che si tuffarono sibilando nel cumulo di rami secchi.

Dopo poco, il fuoco stava già scoppiettando allegramente.

“Dovremo portare pazienza per la cena. Non abbiamo portato provviste con noi. Ci penseremo domani mattina a cercare qualche bacca o noce.” disse John, guardando negli occhi annoiati di Sherlock.

Il moro non sembrava affatto spaventato dall'idea di non cenare.

“D'accordo.”

“Cerchiamo di riposarci il più possibile, domani voglio essere fuori da qui. Dobbiamo dirigerci verso nord se vogliamo arrivare a Uppsala con i nostri piedi.”

“Mm, mm.” annuì l'altro, senza convinzione.

“Sperando che nessuno ci dia la caccia.” continuò John, ormai solo a sé stesso.

L'unica risposta che ricevette fu la buia risata di una civetta che li osservava con i suoi grandi occhi tondi dall'alto di un ramo.

 

 

 

Anthea scrutò Mycroft con sguardo imparziale, mentre egli rifletteva con gli occhi socchiusi.

“Penso sia ora di intervenire.” disse infine il Dio.

Anthea abbozzò un sorriso, con i bianchi occhi che scintillavano.

Senza aggiungere altro, lasciò la sala con passo deciso. Non ci volle molto prima che ella ricomparve, accompagnata da una pesante scacchiera di marmo bianca e grigia.

Con fatica la posò sopra il bordo del pozzo.

La scacchiera sembrava non essere dotata di nessuna pedina, solo di un piano liscio, con quadrati bianchi e grigi, alternati tra loro.

Il Dio passò la propria mano sopra l'oggetto, il quale mutò aspetto: non era più una superficie piana e spoglia, ora era apparso un bosco in miniatura. A sud di esso si trovava un paesello, facilmente riconoscibile come il paese natale di John, a nord una lunga strada a zig zag, immersa nella desolante steppa, mentre a est qualche altro insediamento umano. Per finire, ad ovest c'era un immenso fiordo occupato da una cittadina con porto sul gelido mare.

Due pedine, a forma di Sherlock e John, erano apparse proprio nel centro del bosco.

“Iniziamo a giocare.”

 

 

 

Era ormai giunta l'alba. La brina ricopriva il terreno di uno spesso strato di luccicanti perle d'acqua.

Due scuri individui, incappucciati, con un pezzo di stoffa nera che copriva naso e bocca, armati di arco, frecce e maneggevoli pugnali, si stavano inoltrando nella selva.

“Phil, dove ci posizioniamo oggi?” domandò il più giovane dei due.

L'altro rispose con voce strascicata ma allo stesso tempo sicura: “La quercia.”

Il primo fece un cenno d'assenso.

Non ci misero molto a raggiungere il luogo destinato. Si trovava a qualche centinaia di metri dall'uscita ovest del bosco. Una grande e possente quercia si ergeva proprio di fianco al poco visibile sentiero.

I due individui incappucciati si arrampicarono senza alcuna difficoltà sul maestoso albero, si postarono ognuno su un robusto ramo, incastrando l'ingombrante arco tra i rametti di fianco a loro.

“Spero che si faccia vivo qualcuno. Siamo quasi a secco di denaro e sai quanto costano le medicine di quel maledetto curatore.” si lamentò il più giovane.

“Nostra madre sopravviverà.” disse Philip, spostando con una manata quei ciuffi ribelli di capelli neri, lucidi dal sudore, che gli impedivano la visuale.

Poi aggiunse, con tono falsamente più allegro: “Beh, al massimo uccideremo qualche cervo e faremo una bella scorpacciata questa sera!”

Non fece quasi in tempo a finire la frase che i rami della quercia si mossero, prima impercettibilmente, poi sempre più violentemente, come se fosse in atto un terremoto.

Senza lasciarsi prendere dal panico, i due ladri si lanciarono dalla loro postazione, senza dimenticarsi prima di afferrare l'arco, e atterrarono con agilità per terra.

Ma c'era qualcosa di strano.

Il terreno era perfettamente immobile.

Inoltre non soffiava nemmeno una tenue brezza.

Se non erano né il terremoto né il vento gli artefici del movimento dei rami della vecchia quercia, qual era la causa di quel trambusto?

Si accorsero con sgomento che anche il resto degli alberi attorno a loro aveva cominciato a tremare in maniera innaturale.

“Phil! Cosa sta succedendo?!” esclamò il giovane.

“Non ne ho la minima idea! Meglio darsela a gambe!” rispose egli, iniziando a correre verso l'uscita del bosco.

Ma la via era bloccata. Un enorme guerriero, con armatura di corteccia e spada di legno, bloccava loro la strada. Il volto dell'essere, anch'esso completamente in legno, era più che altro abbozzato: due fori oscuri al posto degli occhi e una spaccatura piena di schegge come bocca.

Vedendo che il gigante si stava avviando verso la loro direzione, i due fuggitivi fecero immediatamente dietro front.

“Cazzo, cazzo! Corri! Veloce!” gridava Philip al fratello, mentre saltava come uno stambecco verso il centro del bosco.

Anche la maestosa quercia si era trasformata in un guerriero. Molto più grande e spaventoso del precedente. I rami che uscivano dal suo capo sembravano legnosi serpenti rivestiti di piume verdi.

I due, sapendo di non poter fuggire ancora per lungo, provarono a nascondersi all'interno di un basso arbusto. Si raggomitolarono come dei ricci, sperando di non venire schiacciati da quei mostri.

Ben presto si accorsero che quei due guerrieri sembravano ignorare del tutto la loro presenza. Continuavano inesorabilmente a marciare verso il cuore del bosco, senza curarsi di quello che avevano sotto di sé.

“Per tutti gli Dei... Che stregoneria è mai questa?!” esclamò con una nota di disgusto Philip.

 

 

 

 

John e Sherlock si erano già messi in cammino.

Lungo il percorso il curatore trovò arbusti pieni zeppi di bacche di mirtillo e non indugiò nel raccoglierle e cibarsene.

“Prendine qualcuna anche tu.” propose a Sherlock, offrendogli una generosa manciata di quelle violacee e dolci bacche.

“Nah.” fu la sua risposta, accompagnata da una scrollata di spalle “Il cibo mi rallenta.”

John lo guardò di sbieco, dicendo: “Non puoi continuare a stomaco vuoto, sarai esausto ancora prima di uscire di qui.”

Sherlock sbuffò: “Voi umani pensate soltanto a mangiare. Vi ingozzate sempre, dalla mattina alla sera, come animali all'ingrasso.”

“Ma che diamine!” esclamò John “Se non mangiamo crepiamo! E poi il sapore del buon cibo è qualcosa che ti rende decisamente feli-”

John si ammutolì all'improvviso. Un rumore sordo, ad un centinaio di metri davanti a loro, lo aveva messo sull'attenti. Uno stormo di corvi prese rumorosamente il volo.

“Qualcosa si sta avvicinando.” constatò Sherlock “Qualcosa di grosso, stando al rumor-”

“Shh!” lo zittì il compagno, sguainando la spada.

Sherlock, anche se leggermente offeso per il brusco modo con cui l'aveva zittito, lo imitò tirando fuori il pugnale.

Succedette un secondo tonfo, questa volta ancora più vicino, poi un terzo, un quarto, un quinto, ognuno in direzioni differenti.

“Ci stanno circondando.” mormorò John al ex Dio “Tieniti pronto a combattere.”

Poi li videro.

Dei giganteschi guerrieri di legno e foglie, completi di spada e armatura, stavano avanzando verso di loro. Il loro sguardo era completamente vuoto ed inespressivo, ma non per questo meno terrorizzante.

Erano almeno una decina e tutti puntavano simultaneamente la punta della propria arma verso John e Sherlock, come per sfidarli.

Quest'ultimo lanciò uno sguardo sgomentato verso il pugnale che teneva in mano. Al confronto sembrava uno stuzzicadenti. Era completamente inutile. Lo rimise al sicuro dentro il fodero attaccato alla cintura.

Il compagno non era molto più rilassato, entrambe le mani che stringevano l'impugnatura della spada avevano le nocche bianche dalla pressione esercitata.

Uno dei giganti, con il volto celato da innumerevoli rampicanti, sbatté violentemente la legnosa arma sullo spesso tronco di un ignaro ed inanimato albero che si trovava sul suo fianco.

Lo spezzò a metà.

La parte sovrastante, senza più appoggio, si sfracellò a terra.

“John, ho appena analizzato nove possibili scenari che ci porterebbero a sconfiggere questi mostri.” intervenne Sherlock, facendo strabuzzare gli occhi verdi del biondo, interdetto. Il moro concluse:“E penso che il migliore sia scappare.”

“Oh, concordo!” approvò John con un sospiro carico di tensione.

“A sinistra! C'è un varco!” esclamò Sherlock, fiondandosi verso il buco, largo diversi metri, posto tra due guerrieri.

Come due lepri braccate dai cani da caccia, corsero verso l'unica via di fuga sperando di non essere attaccati.

Per fortuna quei colossi non sembravano avere riflessi molto pronti, così riuscirono a superarli, con immensa gioia dei due.

Continuarono a correre, voltando il capo ogni tanto per vedere se li inseguivano.

E sì, li stavano inseguendo. E parevano anche piuttosto incazzati.

John superò con un balzo un vecchio tronco caduto per opera delle termiti e proseguì, con il fiatone che cominciava a farsi sentire.

Si voltò verso il compagno, ma non lo trovò.

Si girò a guardare dietro di lui e lo vide steso tra le foglie morte del suolo. Nel superare il tronco non aveva visto un ramo all'altezza del suo ginocchio ed era inevitabilmente finito per terra.

“Alzati, presto!” lo spronò John.

Ma un titano di legno lo aveva ormai raggiunto.

Con la mano libera afferrò il caduto per la vita e lo alzò per aria. Sherlock scoprì ben presto che a nulla serviva provare a divincolarsi da quella stretta poderosa.

Il gigante iniziò a stringere la presa, facendogli mancare il respiro. L'ex Dio riuscì comunque a lanciare un'occhiata a John, il quale lo guardava con occhi sconvolti.

Ottimo, la mia avventura finisce qui. Si ritrovò a pensare Sherlock.

Chiuse gli occhi. John sta assistendo alla morte di un Dio. Chissà cosa sta provando. Scacciò via quel pensiero. Cosa dovrebbe importarmi di quel che prova quel mortale?! Starà sicuramente scappando. Schifosi umani. Pensano solo alla loro, di pelle.

Ma un altro pensiero si fece largo nella sua mente, scacciando via tutti gli altri: ci stava impiegando veramente troppo tempo a morire.

Aprì gli occhi.

John non si vedeva più. Come pensavo.

Era ancora per aria, ma la mano del gigante di legno non lo stava più stritolando. Anzi, la stretta si stava addirittura rallentando.

Non riusciva a capirne il motivo, finché non vide il terreno avvicinarsi a lui. O, meglio, era lui che stava precipitando verso il terreno.

Si voltò e quello che vide fu la testa del gigante attraversata da una spada. La punta spuntava esattamente dal centro della sua fronte. Ma in un secondo non la vide più, perché ritirata dalla stessa mano che l'aveva spinta.

Dalle spalle del colosso esanime saltò un trionfante John, che disse: “Non pensavo avesse una zucca così vuota!”

Sherlock non sapeva realmente cosa rispondere. Si sentiva perso.

“Muoviamoci, non voglio affrontarne altri! Sono troppi!” detto questo gli diede un pugno leggero su una spalla.

Il resto dei soldati-albero arrancava lentamente ma incessantemente verso di loro.

“Sembrano più lenti.” commentò John.

“Già.” rispose Sherlock, con voce rotta.

Ben presto gli alberi e la vegetazione si fecero sempre meno intricati: stavano raggiungendo l'uscita del bosco.

“Un ultimo sforzo!” gridò senza fiato John.

Senza guardare indietro accelerarono il passo, finché la calda luce del sole non li investì.

Erano fuori.

Si voltarono per controllare se li stavano ancora inseguendo, ma tutto era tranquillo. Stranamente tranquillo. Come se quegli esseri non fossero mai esistiti.

“Assurdo.” sospirò John.

Sherlock lo guardò, ancora incredulo.

Quell'umano continuava a sorprenderlo. Gli aveva salvato la vita. Perché?

“Sherlock.” disse egli, quasi in un sussurro.

John lo guardò senza capire. “Cosa?”

“Il mio nome. Sherlock.” rispose, con tono basso. Immediatamente aggiunse: “E non farmelo ripetere mai più. Odio ripetermi.”

John spalancò la bocca in un raggiante sorriso.

Si scrutarono a lungo negli occhi, finché il biondo scoppiò in una soffocata risata.

Sherlock lo seguì immediatamente, senza sapere però il motivo. Era stata un'azione totalmente spontanea.

“Non starai ridendo del mio nome.” gli chiese, pronto ad offendersi nuovamente.

“No, no!” continuò a ridacchiare il curatore “Rido perché siamo ancora vivi.”

“La logica di voi mortali è tutta sballata!” esclamò Sherlock, senza però smettere di sorridere.

“Mai quanto quella di voi Dei.” ribatté John allegramente.



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Note: 
Sono in ritardo. Già. Che novità.
Cooomunque. Se per chi in questo capitolo si sia domandato "Phil? Quel Philip? Ma proprio lui?" Sì, è proprio lui! Il nostro Anderson! :D Mi sono presa la libertà di donargli un fratello e una madre malata. Spero non ci siano tanti problemi a riguardo... Ma non preoccupatevi, la comparsa di Anderson non è stata fatta a caso, avrà senso nel prossimo capitolo.

Ah, già che ci sono... vi siete fatti stranamente più silenziosi. Certo, i seguiti non diminuiscono (anzi) però mi sento sola D: 
Non so se la storia piace (tenendo conto del tema trattato). Ma non importa, in qualunque caso continuerò! 
Comunque, se volete segnalarmi errori di qualunque tipo siete i benvenuti! Sono qui anche per imparare a scrivere XD

Concludo questo lungo monologo dicendo che nel prossimo capitolo ci sarà una sorpresa! :3 (yay!) Quindi tenetevi pronti!

 

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Capitolo 7
*** Capitolo sette ***


Mycroft sospirò.
“Perfetto. Tutto secondo i piani.”
“Far animare quegli alberi è stata un'ottima idea, signore.” commentò Anthea.
“Dovevo trovare il modo per spingerli ad ovest. Quell'orda di bestioni armati sono stati più che persuasivi.”
La Dea lanciò un'occhiata alla scacchiera, la quale presentava ancora la proiezione in miniatura del bosco e i suoi dintorni.
“Ora si trovano all'uscita ovest. Sono nel fiordo, circondati dal mare.”
“Esattamente.” le diede ragione Mycroft “Per proseguire verso nord devono inoltrarsi nuovamente nel bosco. E se ne avranno coraggio, troveranno di nuovo i miei soldati ad aspettarli.”
Il Dio unì con entusiasmo le mani con uno schiocco, poi proseguì: “E, se non vogliono attraversare a nuoto il mare, non potranno mai proseguire il loro viaggio. Ho vinto.”
“Ottimo, signore.” si congratulò la bella Dea, poi aggiunse cambiando il tono di voce: “Ora può concentrarsi completamente sulle strategie dei nemici. Le ricordo che hanno appena sterminato alcuni villaggi umani sulle coste meridionali, nel confine tra il loro territorio e il nostro. Secondo lei possiamo considerare questo fatto un'aperta dichiarazione di guerra?”
Il volto di Mycroft si rabbuiò a tale notizia.
“Cosa dice Odino?” chiese.
“Vuole sapere il parere del suo più saggio consigliere.” rispose senza esitazione Anthea.
“In poche parole mi vuole passare la patata bollente.” sospirò sconfortato il Dio.
“In qualunque caso, non si tratta di una decisione facile.” continuò “Una guerra con gli esseri infernali è l'ultima cosa che vorrei, in questo momento. Dovrò rifletterci.”
Anthea annuì rispettosamente.
Fece per andarsene, ma si fermò a pochi passi dall'uscio della porta. Lei commentò, con una leggera punta di indecisione: “Se John Watson non fosse intervenuto, vostro fratello sarebbe morto.”
Mycroft fece un'espressione stupefatta.
“Cosa dici? È ovvio che non l'avrei lasciato morire! Non voglio che gli accada assolutamente nulla!”
“Allora perché far apparire quel ramo? Non è inciampato da solo.”
Mycroft rispose, con tono scorbutico: “Sì, volevo che Sherlock venisse catturato. Ma il mio scopo non era quello di fargli del male. Il mio scopo era quello di testare l'umano.”
“Oh.” fece Anthea, sorpresa.
“Volevo stabilire se quel mortale era il giusto compagno per Sherlock.” la guardò minaccioso negli occhi “Se avessi voluto, l'avrei ammazzato come niente, quel John Watson. Un colpo di spada da parte di uno dei miei guerrieri sarebbe stato fatale. Invece l'ho agevolato: ho immobilizzato i miei soldatini di legno mentre si arrampicava per salvare mio fratello, li ho resi goffi nei movimenti quando stavano scappando, non ho mai cercato di colpirlo direttamente.”
Fece una pausa, prima di aggiungere: “Ma ne sarei stato capace.”
Distolse lo sguardo dalla Dea e si focalizzò sull'immagine riflessa sul pozzo.
“Ho fiducia in quell'umano. Spero solo di non sbagliarmi.”
“Finora i vostri giudizi si sono rivelati sempre corretti.” rispose la Dea.
 
 
 
I due ladri avevano abbandonato il loro provvisorio nascondiglio e, raggiunta l'uscita del bosco, si erano spaparanzati sull'erba incolta. Erano ancora stravolti dalla loro improbabile avventura.
“Non riesco ancora a crederci, fratello.” disse Philip “Quei cosi sono state delle allucinazioni.”
“Ma non abbiamo nemmeno toccato i funghi.” si lamentò l'altro.
“Forse non ce ne siamo accorti! Dannazione, come puoi credere che... che...” non finì la frase perché gli mancavano le parole. Prese una pietra e la lanciò lontano.
Il fratello lo guardava sconsolato. Poi spostò lo sguardo verso la strada che portava alla città. Immediatamente il suo sguardo divenne serio.
“Philp.” lo chiamò.
“Cosa?” chiese il fratello con tono sbieco.
“Vedo qualcuno. Si sta dirigendo verso di noi.” indicò l'altro.
Philip seguì l'indice e anche lui scorse il solitario personaggio che si stava avvicinando a gran passo.
“Nascondiamoci. Non credo che ci abbia ancora visto.” ordinò il ladro.
Indietreggiarono strisciando verso una serie di bassi arbusti e si acquattarono dietro essi.
Nel frattempo l'individuo si era fatto più vicino. Philp notò immediatamente la borsa che portava a tracolla. Al suo interno probabilmente c'erano dei denari.
Dimenticato completamente lo spavento provocato dai soldati-albero, nascose il viso sotto il cappuccio e tirò fuori il pugnale.
 
 
 
L'ignaro individuo che si stava avviando verso la foresta stava rimuginando tra sé e sé.
Che giramento di palle. Andare in quel fottuto bosco, ricordarmi dove abbiamo messo le trappole, sbloccarle, prendere le carcasse e tornare indietro. Tutto da solo perché quel coglione di Tobias Gregson non può abbandonare la barca la vigilia della partenza. Ma che vada a farsi fottere.”
Si passò una mano sulla fronte sudata. Gli occhi color nocciola luccicavano di collera.
I corti capelli brizzolati lo facevano sembrare un uomo sulla quarantina, anche se andava per i trentacinque.
“E quindi mandiamo Gregory Lestrade a fare il duro lavoro! Fantastico! Da solo, poi! Tanto è una cosa così semplice! Dannazione.”
I suoi pesanti passi risuonavano nel sentiero. Si sistemò la borsa contenente tutto il necessario per disinnescare le trappole. Per fortuna non era molto pesante.
“Ora sarebbe ironico che non trovassi nemmeno una minuscola lepre. Altro scorte per il viaggio, solo rape e patate.”
Aveva raggiunto il confine del bosco, con qualche difficoltà smosse qualche arbusto spinoso, finché non trovò la prima delle tante trappole per lepri che lui e il collega marinaio Gregson avevano posto il giorno prima.
Una grossa lepre era rimasta intrappolata, la zampa posteriore stretta in una fatale morsa.
Era già morta, il sangue che aveva perso, ormai secco e marrone attorno a sé, l'aveva completamente dissanguata.
Gregory disinnescò la trappola, con uno spago avvolse tutte e quattro le zampe dell'animale.
In quel momento una freccia gli sfiorò la guancia.
“Cosa diavolo...?” esclamò, alzandosi in piedi.
Un'altra freccia si piantò a pochi centimetri dai suoi piedi.
Due figure, scure, con il volto coperto da un panno nero, erano apparse come fantasmi.
Il più basso dei due lo teneva sotto tiro con arco e frecce. L'altro si stava avvicinando pericolosamente con un pugnale in mano.
Quest'ultimo ordinò: “O la borsa o la vita.”
“Merda!” imprecò Gregory alzando le mani in segno di resa.
 
 
 
“Ora dobbiamo capire dove siamo.” disse John, guardandosi intorno. Con la loro fuga avevano ovviamente perso l'orientamento.
La radura dove si trovavano era posta sopra ad una verdeggiante collinetta. Infatti, guardando in direzione opposta da dove erano arrivati, si riusciva facilmente a scorgere il mare in lontananza .
“Dannazione.” aggiunse John “Siamo nella direzione sbagliata. Se davanti a noi c'è il mare, vuol dire che ci siamo diretti ad ovest. E questo non va bene. Per andare ad Uppsala dobbiamo dirigerci vers- hey! Dove stai andando?!” esclamò, vedendo che Sherlock aveva iniziato a muoversi verso nord senza aspettare che John finisse il suo ragionamento. “Aspettami!”
Iniziarono così a costeggiare il perimetro del bosco, senza mai inoltrarsi al suo interno per evitare di rincontrare quei pericolosi soldati-albero.
“John.” lo chiamò il moro dopo molti minuti di silenzio.
“Cosa c'è?”
Puntò l'indice davanti a sé senza dire verbo.
John seguì la direzione segnalata, finché capì cosa aveva attirato l'attenzione di Sherlock. Pochi metri avanti a loro, quasi nascosti grazie agli alti cespugli selvatici che crescevano ai bordi del bosco, c'erano due individui armati.
Uno teneva in mano un pugnale con fare minaccioso, mentre l'altro puntava con la freccia dell'arco un obbiettivo nascosto dalla loro visuale.
“O la borsa o la vita.”
John mise una mano sull'elsa della spada, pronto ad intervenire.
“Cosa pensi di fare?” chiese Sherlock, notando il movimento del compagno.
“C'è un uomo che sta per essere derubato.” sussurrò John in risposta.
Sherlock alzò un sopracciglio, dicendo: “Questo l'avevo capito. Non capisco perché dovremmo intervenire noi.”
John lo guardò come se avesse detto la più immensa castroneria del mondo.
In quel momento sentirono la voce del derubato imporsi ai due ladri: “Non ho nulla di valore! Per favore, lasciatemi andare!”
Gli occhi di John lampeggiarono, sguainando completamente la spada.
“Fa come credi, io vado.” e detto questo corse silenziosamente verso gli aggressori.
Sherlock guardò la sua figura scivolare agilmente, senza provocare il minimo rumore, in modo da cogliere di sorpresa i due ladri.
John Watson, perché lo fai? Perché dovresti aiutare chiunque si trovi in difficoltà? Senza nessun compenso, senza nessuna pretesa. Non capisco.
Sherlock non l’avrebbe mai ammesso, ma quell’umano senza logica lo stava affascinando.
Afferrò il pugnale e, con movenze feline, lo seguì.
 
 
 
Gregory Lestrade aveva le mani alzate in segno di resa. Non aveva scampo. Erano due tizi armati contro uno completamente disarmato. Se solo Gregson l’avesse accompagnato! Lo maledì per la seconda volta.
In quel momento vide due figure avvicinarsi  quatte quatte da dietro i suoi assalitori. Non mosse un singolo muscolo, smettendo perfino di respirare, mentre colpivano a sorpresa i ladri.
Il biondo si era concentrato sull’arciere, con un movimento circolare della gamba colpì il polpaccio del ragazzo, fecendogli perdere l’equilibrio. Appena toccò terra, la punta della spada di John era già posata sul collo del sorpreso arciere.
Il moro, invece, aveva afferrato con la mano destra il braccio armato dell’altro uomo, trattenendolo in una vigorosa stretta, mentre l’altra mano teneva stretto il pugnale, che era premuto sul collo del ladro.
“Vi conviene arrendervi!” ordinò imperiosamente John.
Il ragazzo a terra piagnucolò qualche parola incomprensibile, mentre l’altro individuo bestemmiò con rabbia.
Sherlock poteva sentire il sudore freddo dell’uomo scendere sul viso. Avvicinò maggiormente il filo del pugnale alla sua gola.
“Non siete solo fratelli in cerca di soldi facili, vedo.” sussurrò Sherlock nell’orecchio di Philip “Siete diventati ladri perché obbligati. Eppure a te piace questa vita, vero?”
Il ladro si era paralizzato sentendo quelle parole.
“Il modo con cui tieni quel pugnale. Ti senti potente. Tuo fratello invece è ancora titubante. Ma perché lo fate? Mmm…” si fermò un attimo per poi continuare: “C'entra qualcosa una persona vicino a voi.”
Con la punta del pugnale fece fuoriuscire da sotto la maglia una collanina di perline di terracotta.
“Sentimentalismo. Un regalo di una donna per un uomo. Potrei erroneamente concludere che sia da parte di una tua amante, ma no, non è così. Anche tuo fratello ne ha una, riesco a scorgerla. Quindi si tratta del regalo di una madre verso i suoi figli.”
Philip si era irrigidito a quelle parole.
Sherlock continuò imperterrito, visibilmente divertito, con gli occhi che scintillavano: “Quindi se la portate nascosta con voi durante il vostro lavoro, vuol dire che lei è coinvolta. Lo fate per lei. Probabilmente è ammalata, con i soldi del bottino potete comprarle le medicine.”
“Chi sei tu?!” finalmente riuscì a gridare il ladro.
“Se due singoli fratelli sono stati obbligati a diventare ladri, vuol dire che non avevano altre alternative. Probabilmente vostro padre è morto o vi ha abbandonati chissà quanti anni fa.”
“Sei un demone!! Non è possibile che tu…” continuò Philip, terrorizzato.
“Prova ad immaginare.” continuò Sherlock con un soffio “Cosa farà vostra madre quando verrà a sapere che il figlio maggiore è stato sgozzato durante il suo ignobile lavoro.”
“NO!”
Questa singola parola non fu proferita dall’uomo messo alle strette, ma bensì da John Watson.
Un silenzio innaturale calò improvvisamente sulla scena.
Gregory, la cui bocca era spalancata dalla confusione, aveva ancora le braccia alzate per la resa, come se le avesse dimenticate per seguire quel monologo assurdo.
Il ragazzo a terra, con le lacrime che gli rigavano il volto, aveva gli occhi che chiedevano a Sherlock pietà.
Ma Sherlock non li stava guardando.
Lo sguardo di John l’aveva catturato. Gli stava comunicando così tante emozioni tutte insieme. Vedeva nei suoi occhi rimprovero, disapprovazione, disgusto, ma soprattutto paura.
Non l’aveva mai guardato in questo modo. Neppure quando aveva ucciso la guardia per scappare.
Sentì un dolore al petto, come se quello sguardo l’avesse fisicamente ferito.
Allontanò il pugnale dal collo dell’uomo, dicendo con tono greve: “Cosa che non accadrà oggi.”
Philip si mise le mani al collo liberato, cadendo a terra in ginocchio.
Suo fratello, con un sospiro di sollievo, mormorò un sentito: “Grazie!”
Gregory si ricordò di avere delle braccia e le rimise lungo i fianchi.
John, immobile, non aveva ancora distolto lo sguardo dalla sua figura.
“Quindi è come ha detto lui?” chiese Gregory, rivolto ai due ladri a terra.
“Sì!” esclamò Philip ancora sotto shock “Quel maledetto ha detto la verità. Non so come, ma è così!”
“Allora tenete.” disse l’uomo brizzolato, aprendo la propria borsa e lanciando alcuni denari verso il maggiore dei due.
“Non facciamo la carità.” proclamò egli.
“Non fatemi cambiare idea.” disse con tono duro Gregory.
Il ladro prese i denari con foga, si rimise in piedi e insieme a suo fratello se la diede a gambe, senza non prima di girarsi per lanciare una profonda occhiata di rancore verso Sherlock.
“Vi ringrazio, mi avete salvato la vita probabilmente.” aggiunse, quando i due individui erano ormai lontani.
“Eravamo obbligati.” cercò di sorridere John.
“Gregory Lestrade” si presentò “E vi sono in debito.”
“John Watson, mentre lui si chiama…” iniziò il biondo, con evidenti intenzioni vendicative, ma venne bloccato da Sherlock, che disse: “Shezza.”
Gregory aggrottò le sopracciglia dicendo: “Che nome strano. Ma si vede che siete forestieri. Cosa ci fate da queste parti?”
Sherlock rispose: “Siamo diretti ad Uppsala.”
John continuava a guardarlo in cagnesco.
“Uppsala! Non si trova sicuramente dietro l’angolo! Vi conviene entrare nel bosco e dirigervi vers-“
“Nord, sì lo sappiamo.” concluse Sherlock con voce annoiata.
“Oppure” rifletté Gregory “Siccome sono in debito con voi, potrei darvi un passaggio via mare. Non posso portavi fino a lì perché è fuori dal nostro itinerario, ma risparmiereste comunque qualche giorno di viaggio.”
“Siete molto gentile, ma noi..” aveva iniziato John, ma Sherlock concluse la sua frase con “Saremmo molto lieti di accettare.”
“Ottimo!” esclamò il brizzolato “Per questa notte vi ospiterò a casa mia, mentre domani mattina salperemo all’alba.”
Gregory caricò la lepre sulla spalla, poi si rivolse a Sherlock: “Il discorso che hai fatto prima… Come ci sei riuscito?”
Il moro lo guardò senza capire cosa intendesse. “Per me è qualcosa di naturale. Non ci sono spiegazioni.”
“Diabolico!” sorrise Gregory, con un misto di ammirazione e diffidenza.
Sherlock si girò verso John.
“E per la cronaca, non era mia intenzione uccidere quell’uomo. L’ho fatto solo per mettergli pressione.” mentì spudoratamente.
“Ne sono sicuro. È il tuo metodo di operare, Shezza.” rispose John, con secchezza.
Sherlock sentì nuovamente quel dolore al petto. 



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Eggià è passato più di un mese dall'ultimo aggiornamento. Per vari motivi non ero riuscita a continuare la storia... e pensare quanto ero ispirata a scriverla! 
Mi scuso enormemente con tutti voi... 
Aprofitto per ringraziare la mia nuova beta!! Sì! Ora ho una beta! Quindi niente più errori grammaticali! :D Tanta gioia e felicità a te, Giorgina_93 ! :*

Ora che è apparso anche Greg, vedrete che la storia si incasinerà ancora di più! Yeah! 
Al prossimo capitolo! (speriamo non tra un mese hahaha)
Ciajka

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Capitolo 8
*** Capitolo otto ***


Mycroft uscì dalla sala di ricevimento con un'espressione esausta. Aveva appena terminato un'infinita discussione con il Capo degli Dei. Mycroft riteneva Odino una testa calda: possedeva quel particolare tipo di carattere che tendeva a fargli credere che era perfettamente logico buttarsi in mezzo ad un'orda di nemici e pretendere di sconfiggerli con la sola sua eroica presenza. Ma, grazie al cielo, non era ancora così stupido. Mycroft lo aveva convinto a non iniziare immediatamente lo scontro ma di provare a stringere un'alleanza con il popolo dei nani.

Sospirò.

Sperò vivamente che i nani si fossero dimenticati del recente inganno fatto all'ormai defunto Alvis. Anche se, a dirla tutta, l'idea era stata partorita e compiuta unicamente da quel genio di Thor.

Mycroft si ritrovò a pensare a quell'accaduto.

Tutto ebbe inizio quando il Capo degli Dei aveva promesso la figlia di Thor ad Alvis. Ovviamente il figlio di Odino era tutt'altro che propenso a quell'unione e, con la scusa del “Provami la tua saggezza, non voglio correre i rischi che i miei nipoti siano stupidi perché troppo bassi.”, costrinse Alvis a svolgere una prova che durò fino al sorgere del sole.

Si sa che i nani alla luce diventano pietra e Alvis non fu da meno.

Mycroft stava ancora ripensando alla triste fine del nano quando si ritrovò davanti a sé il viso preoccupato della Dea Eir.

“Signore... Scusi per la mia sfacciataggine” iniziò lei, con velato timore “ma vorrei chiederle cosa ne sarà di Sherlock.”

“Sherlock?” si ritrovò a ripetere il Dio.

Lo sguardo serio di Mallaidh puntava dritto verso i suoi occhi, con un coraggio che non era molto comune trovare in lei.

Mycroft decise di risponderle: “Per ora sto cercando di proteggerlo. Non gli accadrà nulla di male.”

“Ma rimarrà mortale?!” esclamò, con i pugni chiusi.

“Se è quello che lui desidera...”

Mallaidh iniziò, con fare concitato: “Tutta Asgard parla dell'accaduto. Sappiamo di non dover mettere il naso in questa faccenda, ma questo non impedisce agli Dei di seguire da lontano ogni mossa di vostro fratello! È praticamente il pettegolezzo del momento!”

Mycroft rimase interdetto, non si era reso conto che quel fatto avesse attirato così tanto l'attenzione.

Si ritrovò a sussurrare, più a se stesso che alla Dea: “La futile curiosità degli Dei è impressionante!”

“Vi prego.” il tono di voce della Dea divenne supplichevole “Potreste perdonarlo, penso che abbia capito la lezione.”

“Il tuo attaccamento per lui non ti fa aprire gli occhi, Mallaidh. Farlo ritornare Dio ora sarebbe la cosa più sbagliata da fare.”

“Ma...” provò a ribattere lei.

Mycroft iniziò, innervosito perché punto sul vivo: “Non capisci che il mio scopo è quello di-”

Non riuscì a terminare la frase: Anthea era apparsa al suo fianco e, con voce grave, lo aveva interrotto: “Signore, abbiamo un problema.”

“Cosa?” esclamò Mycroft, visibilmente infastidito dall'interruzione e dalla maleducazione della Dea dai lunghi capelli scuri.

“Vostro fratello. Ha trovato il modo di lasciare il fiordo.”

L'espressione del Dio mutò improvvisamente.

 

 

 

 

La casa di Gregory Lestrade era una abitazione semplice. Anche se era un mercante, e quindi guadagnava molto più di un semplice pescatore, l'interno era arredato in modo piuttosto spartano. Gli unici abbellimenti presenti erano delle asce appese al muro che, detto da lui, erano cimeli di famiglia.

Offrì ai suoi due ospiti della calda zuppa di pesce, cucinata con gli avanzi del pescato del giorno precedente.

John si precipitò sul piatto come se non avesse toccato cibo per giorni. Sherlock, come al suo solito, diffidava anche solo nell'assaggiarlo.

Gregory sorrise involontariamente nell'osservare quella strana coppia. Non sapeva molto su di loro, ma qualcosa gli diceva che erano brave persone. Il biondo, per lo meno. Del moro nutriva delle leggere perplessità. Non si comportava come un qualunque altro essere umano.

Inoltre non gli avevano spiegato il motivo del voler andare ad Uppsala. Forse per pregare Odino al grande tempio? Sapeva che c'erano molti fanatici che intraprendevano veri e propri pellegrinaggi pur di andarci almeno una volta nella vita.

Tra un boccone e l'altro, John disse: “Le siamo riconoscenti. Speriamo solo di non essere d'intralcio durante il viaggio.”

“Non vi preoccupate, per soli due giorni di navigazione! Inoltre Gregson, il mio socio, non farà nessuna storia nel darvi un passaggio. È un tale bonaccione!” rise sforzatamente Gregory. In realtà era tutto il contrario, ma non voleva far preoccupare i suoi due ospiti e salvatori.

Sherlock si accorse immediatamente della menzogna, ma non disse nulla; continuò invece a sorseggiare quella zuppa dal sapore di mare con circospezione.

“Per questa notte potrete rimanere in questa stanza. Vi presterò le mie due brande da viaggio. Per fortuna ne ho una di riserva, così potrete dormire comodamente entrambi!”

“Troppo gentile da parte vostra!” disse John.

“Vi sono debitore.” sorrise, mentre Sherlock lo guardava con un'espressione indecifrabile.

 

 

 

 

Calarono le tenebre.

Nulla si muoveva all'interno della stanza, come se il tempo si fosse arrestato. Eppure né Sherlock né John, entrambi stesi sulla branda da più di un'ora, avevano intenzione di dormire.

La luce lunare, passante per un foro nel legno della finestra serrata, formò un lungo filamento argentato che raggiunse la parete opposta.

Sherlock non ne poteva più. Si alzò, facendo scricchiolare le assi della branda.

Ignorando che neanche John non aveva ancora chiuso occhio, uscì dall'abitazione senza fare alcun rumore.

La luminosità del cielo stellato lo inondò, rischiarando i contorni del viso e del resto della sua figura. Ma non si soffermò ad ammirare il cielo. Guardarlo significava ricordare Asgard.

Si appoggiò al muro della casa, guardando dritto avanti a sé: poteva sentire il mare, non molto lontano da lì, che si infrangeva rumorosamente tra i ripidi scogli.

La sua mente si riempì inavvertitamente di numerosi quesiti.

Sarebbe riuscito a raggiungere il suo scopo? Ritornare Dio senza doversi per forza prostrare al volere di suo fratello? Possedere di nuovo i suoi poteri magici e compiere finalmente tutto quello che voleva senza nessun impedimento?

Ma che cos'è che avrebbe voluto fare, specificatamente? Cosa aveva mai fatto in tutti questi secoli?

Aveva collezionato anime per noia.

La noia.

Sfuggirle era il suo unico scopo di vita.

Quell'orribile presenza gli dava tregua solamente mentre cercava di convincere la propria vittima a vendergli l'anima o quando la sterminava dopo averla appena salvata. Finora aveva vissuto solo per sentire quella fugace sensazione di onnipotenza che lo aiutava a sopprimere la monotonia della sua esistenza.

Eppure...

Senza rendersi conto, aveva tirato fuori la fiala contenente l'anima di John.

Stava guardando quel flusso pieno di vitalità completamente ipnotizzato. Non era mutata per niente da quando l'aveva prelevata.

John.

Chissà se anche sotto forma di umano era ancora in grado di controllare quell'anima. Poteva ancora ordinargli di appiccarsi fuoco da solo anche se non era più un Dio? O neanche quello non rientrava più nei suoi poteri?

“Cosa hai intenzione di fare con quella?”

La voce di John arrivò alle sue orecchie senza alcun preavviso.

Si girò verso di lui. Il suo sguardo lo stava trafiggendo come una lama appuntita di una spada.

“Custodirla, come era da accordo.” rispose cupamente Sherlock, rimettendola al sicuro sotto il mantello.

Non ci voleva un genio nel dedurre che John stava dubitando delle parole del moro.

“Prima che tu diventassi umano, cosa volevi farne della mia anima?” chiese il guaritore, con la voce che tremava dalla rabbia e dalla paura.

Sherlock continuò a guardarlo dritto negli occhi, senza però dire una parola.

“Ho visto come ti divertivi nel tormentare quell'uomo, a farlo sentire in colpa. Aveva paura di te, Sherlock.”

Non sentendo arrivare una risposta, John iniziò ad urlargli contro:“Ti stavi divertendo! E l'avresti ucciso, solo per il tuo stupido divertimento!”

John aveva il fiatone, anche se non aveva mosso neanche un muscolo.

Abbassando il tono di voce continuò: “Era quello che avevi pianificato anche con me, vero?”

Sherlock aprì la bocca per commentare, ma John lo bloccò: “Non so perché ti sto ancora aiutando. Davvero, non lo so.”

“Puoi abbandonarmi qui e tornartene a casa, allora.” riuscì finalmente a dire Sherlock. Voleva usare un tono di voce secco e distaccato, eppure non ci riuscì. Il pensiero di venire abbandonato da John non gli piaceva per niente.

“Quale casa? Quale villaggio? Quello dove mi cercano per tradimento?” disse John, senza rabbia ma con solo tristezza nel cuore.

“Andrò avanti con la missione.” concluse infine John “Perché, malgrado tutto, mi fido ancora di te.”

Detto questo tornò all'interno dell'abitazione, lasciando da solo un basito Sherlock.

Un'ombra inosservata scivolò lontano, verso lo spumeggiante mare. Sparì, mescolandosi con le sue onde.

 

 

 

 

Il porto della cittadina era piuttosto grande: molte imbarcazioni erano attraccate ai ponteggi, anche se la maggior parte di esse erano di piccole dimensioni. Un gran numero di pescatori stavano scaricando delle grandi casse, contenenti il pescato della notte, pronte per essere trasportate al mercato cittadino.

Gregory, scortato da Sherlock e John si era avvicinato ad un'imbarcazione leggermente più grande della norma. Si trattava di un knarr mercantile.

“Hey, Lestrade! Chi sono questi due?” lo accolse con tono burbero un personaggio piuttosto in carne e più anziano di una decina d'anni rispetto a Gregory.

“Sono amici, vengono con noi.”

“Cosa?! Nemmeno per sogno!” esclamò l'uomo, con sguardo truce.

“Devo loro un favore, Gregson.” disse Gregory, prendendo da parte il collega, in modo che gli altri due non sentissero la loro discussione “Sarà per un tratto breve, una giornata e mezza di navigazione! Nulla di che.”

“Sai benissimo che non voglio clandestini a bordo!” continuò Gregson imperterrito.

“Ma loro non sono clandestini! Li ho invitati io!” esclamò Lestrade.

La logica di Lestrade non convinse per nulla Gregson, che continuò a guardarlo in cagnesco.

Lestrade sospirò.

Iniziò quindi a raccontare: “Mi hanno salvato la vita, due ladri volevano derubarmi ed uccidermi, ieri.”

A mano a mano che Gregory spiegava l'accaduto del giorno precedente, il collega marinaio mutava la sua espressione.

Dopo qualche secondo di riflessione, acconsentì di accompagnare quei due strani individui verso la costa nord.

Dopo neanche un giro di clessidra, l'imbarcazione aveva già lasciato il porto, con l'enorme vela quadrata gonfia grazie al generoso vento.

 

 

 

 

“Quindi sono riusciti a trovare il modo per uscire dal fiordo.” meditò Mycroft, con una mano sul mento.

Lui ed Anthea si trovavano nuovamente nella sala del pozzo. Il Dio stava osservando con occhio critico un primo piano di Gregory Lestrade.

Dopo qualche secondo di pausa, continuò: “Hanno avuto una fortuna sfacciata. Dobbiamo fermarli.”

“Come pensa di fare, signore?”

“Inizialmente avevo pensato ad una tempesta eterna, in modo che nessuna nave potesse più salpare.” rispose Mycroft “Ma sai meglio di me quanto costi una maledizione simile dal punto di vista mentale. Inoltre rovinerei quella cittadina che si basa quasi esclusivamente sulla pesca e sul commercio via nave.”

Anthea abbozzò un sorriso quando sentì Mycroft proclamare: “Non sono quel tipo di Dio che non guarda oltre il suo naso.”

“Quindi cosa propone di fare, signore?”

Mycroft mise entrambe le mani su cornicione del pozzo, come per farsi forza. Era un'idea pericolosa, ma poteva funzionare.

Sempre senza distogliere lo sguardo dall'acqua mistica, domandò alla Dea: “Da quanto non mangia?”

Anthea non fece a meno di assumere un tono meravigliato: “State parlando di lui?”

“Sì.”

“Da non molto, in verità.”

“Ottimo, non avrà problemi nell'ubbidirmi.”

Sospirò, prima di girarsi verso la Dea.

“È ora di liberare il Kraken.”



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*Parte la colonna sonora dei Pirati dei Caraibi*

Già, il Cracker Kraken! Prima che cominciate a dire “Hai copiato PdC” voglio precisare che in realtà il Kraken ha origini proprio dalla mitologia norrena. (veniva chiamato Hafgufa, ma preferisco il nome “moderno” -Kraken- per questa fic.)

Per chi non ha presente cosa sia un Knarr, potete cercare su wikipedia (la fonte del sapere universale) a questo link


Sì, sto facendo finta che non mi sia accorta del ritardo di pubblicazione hahaha


Alla prossima! 

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Capitolo 9
*** Capitolo nove ***


Il knarr avanzava lentamente, ondeggiando seguendo il dolce ritmo dato dalle onde del mare.

“Gli Dei sono stati clementi oggi.” sorrise un giovane marinaio, appoggiando di fianco a sé un pesante sacco. Si stava rivolgendo a John, che si trovava appoggiato sul bordo della barca, intento a perdere lo sguardo in quell'immenso orizzonte.

L'allegro marinaio continuò: “Certo, un po' di vento in più non sarebbe d'intralcio, ma almeno non c'è pericolo di tempesta.”

John annuì, sovrappensiero.

Sussultò, quando sentì una roca risata provenire da poco più in alto del suo capo.

“Gabbiani.” rise il marinaio, quando vide l'espressione del biondo. “Quei pennuti si divertono ad essere inquietanti.”

“Mi hanno fatto prendere un colpo!” esclamò John.

Dopo qualche secondo di silenzio, continuò: “Non sono abituato a cose di questo genere. Navi. Mare. Gabbiani. Sono più un tipo da terraferma.”

“L'avevo capito.” ridacchiò il giovane. Si scostò alcuni ciuffi rossicci che gli avevano nascosto gli occhi color nocciola.

“John Watson.” allungò la mano il biondo.

L'altro la strinse con una stretta vigorosa.

“Luke Oldgrape. E il tuo amico?” con un cenno della testa indicò l'altro individuo appoggiato all'albero centrale.

“Ah. Lui è Sher- Shezza.” si corresse all'ultimo.

Luke abbassò il tono di voce: “Mi sta guardando malissimo.”

John sospirò: “Non ti preoccupare. È normale.”

Sherlock decise in quel momento di avvicinarsi ai due, con movenze feline e scuro in volto.

“Sono Luke O-” iniziò il rosso, ma venne interrotto bruscamente dall'acido commento di Sherlock: “Non dovresti ritornare al lavoro? Non ti pagano per chiacchierare.”

Luke rimase a bocca asciutta, interdetto.

Il denso silenzio che si era creato si spense immediatamente grazie all'improvvisa apparizione di Lestrade, proprio dietro di loro.

“Non so cosa sta succedendo qui, ma vorrei mostrarvi la stiva e le vostre brande.”

John ringraziò mentalmente l'interruzione di Gregory. Aveva un vago presentimento che Sherlock non avrebbe pensato due volte prima di scaraventare in mare il povero marinaio senza una reale ragione. Ma si sa, gli Dei sono proprio strani.

 

 

 

 

Lo spazio all'interno della minuscola stiva era praticamente inesistente. Le brande erano appiccicate le une con le altre e l'odore di stantio e muffa era così forte da far pungere il naso.

Il già flebile colorito di Sherlock si spense dal tutto. Il suo sguardo gridava: “Io non ci dormirò mai qui dentro.” anche se le sue labbra rimanevano serrate.

“Carino.” sussurrò John, non sapendo cosa dire.

Sherlock lo guardò come se avesse detto di amare una sirena, che l'avrebbe sposata in fondo al mare saltellando contemporaneamente su un piede.

“Lo so che non è il massimo, ma la vita dei marinai è dura, ragazzi miei!” rise imbarazzato Lestrade.

“Penso che ritornerò in superficie a respirare.” proclamò Sherlock, con atteggiamento da superiore.

“Credo che ti seguirò anche io.” disse John.

Mentre il trio saliva le brevi scale che portavano dal sotto poppa all'aria aperta, un'ombra scura e immateriale si mosse dal fondo della stanza e, silenziosamente, li seguì.

 

 

 

 

Appena furono di nuovo sul ponte dell'imbarcazione, un nervoso capitano Gregson tuonò in direzione di Gregory Lestrade: “Oi! Dove ti eri cacciato? Ti sei dimenticato che dobbiamo valutare la nuova rotta?!” poi aggiunse in modo sarcastico, spostando lo sguardo verso Sherlock e John “Non vorrei mai abbandonare questi due eroi nel posto sbagliato.”

John gli lanciò un'occhiataccia. Non riusciva a sopportare il tono di quell'uomo.

Gregory si schiarì la voce, per poi dire ai due: “Se volete, potete continuare la visita della nave.” poi aggiunse, vedendo il giovane marinaio Luke Oldgrape intento a coprire delle botti con un telone “Potete chiedere a lui di farvi compagnia.”

Sherlock voleva rispondere di no, ma fu tempestivamente bloccato da John con un: “Ci farebbe molto piacere.”

 

 

 

 

“Queste botti contengono il grano che vendiamo per i paesi che si trovano a nord.” spiegò il giovane appena Sherlock e John si furono avvicinati a lui, abbandonando Gregory al suo compito di vicecapitano.

“Lo scambiamo principalmente con le loro pelli e pellicce. Sono molto rinomate tra la nostra gente, sapete? Non abbiamo animali con un pelo altrettanto soffice.”

“Interessante.” sbuffò annoiato Sherlock.

Al ragazzo non sfuggì il tono beffardo del moro, ma fece finta di nulla.

“Purtroppo non c'è altro da mostrarvi, questa imbarcazione non è molto grande...”

“Dev'essere dura per un giovane come te rimanere rinchiuso in questo spazio così angusto.” disse John, osservando gli altri sei marinai che stavano remando di fianco a loro.

“Si sbaglia, signor Watson.” lo corresse Luke con un sorriso “Non mi sento affatto rinchiuso. Anzi, non posso sentirmi più libero! Il mio sogno è scoprire nuove rotte, viaggiare, conoscere nuove terre! Anche se sono solo un manovrale, riesco comunque a sentire la voce del mare che mi chiama!”

Sherlock lo guardò sarcastico.

“Anche se non vorrei mai abbandonare dal tutto la mia famiglia che sta in terraferma.” aggiunse Luke, con un tono leggermente più basso.

“Hai qualche fratello?” chiese John.

“Una sorella minore, Jem. Ogni volta che ritorno a casa mi chiede se ho sconfitto dei mostri marini.” ridacchiò “Lei pensa che io sia un qualche tipo di eroe pirata.”

Anche John iniziò a ridacchiare, mentre Sherlock rimase impassibile come una statua.

“Comunque-”

Non fece ora di finire la frase che la nave si scosse violentemente.

“Cosa succede?” gridò un marinaio.

“Un'onda anomala?” rispose un altro.

Quando Sherlock, John e Luke alzarono gli occhi al cielo, li sgranarono dall'incredulità.

No, non si trattava affatto di una semplice onda.

 

 

 

 

Sotto la poppa, la cabina del capitano era decisamente minuscola. Se un altro uomo avesse voluto entrare in quel luogo mentre era già occupato da Gregson e Lestrade, avrebbe dovuto come minimo amputarsi qualche arto.

Il minuto tavolino che divideva i due uomini era completo di candela, mappa nautica e una strana pietra iscritta con una rotondità centrale di cristallo di quarzo, utilizzata come bussola se puntata in direzione del sole.

“Quindi in quale porto dovremo fermarci?” chiese Gregory, dubbioso.

“Stavo valutando se attraccare qui” disse, indicando un punto della mappa “forse potremo provare a stabilire un accordo con-”

Improvvisamente l'ambiente tremò, facendo cadere a terra tutto quello che si trovava sopra il tavolo, oltre ai due uomini.

Con prontezza Gregson spense la candela ancora accesa con un pestone e urlò verso il compare: “Per gli Dei! Se abbiamo colpito uno scoglio, butto in mare quell'incapace che sta alla guida!”

Un altro scossone fece sussultare i due.

“Penso che non sia uno scoglio.” sussurrò con il fiato corto Gregory.

Entrambi si precipitarono al ponte della nave e quello che videro i loro occhi fece accapponare loro la pelle.

Un gigantesco tentacolo di piovra si trovava eretto sopra le loro teste, mentre altri tre erano avvolti ai lati del knarr. I marinai che prima erano intenti a remare avevano abbandonato i loro posti e stavano correndo per il ponte, cercando di raggiungere la stiva.

Sherlock, John e Luke, invece, si trovavano ancora in mezzo al ponte, aggrappati all'albero centrale per non perdere l'equilibrio.

“Che gli Dei ci aiutino!!” sentirono gridare da più voci.

Come per risposta, l'enorme tentacolo che si trovava sopra di loro avvolse l'albero centrale, spezzandolo e facendolo cadere con un tonfo, seguito dalla vela quadrata.

Per evirare di essere colpiti, il trio si scansò buttandosi a terra, cercando di rotolare più lontano possibile.

“Cercate di raggiungere la stiva!” gridò Gregson, fuori di sé.

“Non credo sia una buona idea!” rispose Sherlock, ancora per terra “Il mostro potrebbe spezzare la nave e, con essa, anche quelli che stanno al suo interno!”

Mentre Sherlock stava proclamando queste parole, il tentacolo decise di attaccare nuovamente, questa volta centrando in pieno la mercanzia disposta sul ponte.

Sherlock e John scivolarono verso il bordo dell'imbarcazione, mentre Luke si ritrovò dalla parte opposta, ritrovandosi a schivare il colpo solo all'ultimo momento, cadendo a terra e sbucciandosi un ginocchio.

Stava per rialzarsi, quando il tentacolo si avvolse sulla sua caviglia.

“No! No, no, no!” urlò dal terrore, cercando di divincolarsi e ancorarsi inutilmente al pavimento di legno.

“Luke!” gridò John, mentre lo vide librarsi per aria, leggero come un panno di stoffa.

Tanto leggiadro sembrava per aria, tanto pesante e massiccio fu il suono che fece quando colpì la superficie del mare.

Perfino Sherlock non riuscì a rimanere inespressivo a quel rumore sordo.

John si coprì la bocca con una mano, incapace di urlare alla vista di quell'acqua che si macchiava sempre di più di rosso.

Un altro colpo di tentacolo colpì la nave, facendola quasi ribaltare.

John sentì delle mani avvolgergli le spalle, stringendolo con violenza.

Si rese conto solo dopo qualche istante chi era il proprietario di quell'abbraccio. Si sentì stranamente a disagio.

“Ora ci butteremo in mare.” gli fu detto all'orecchio.

“Cosa?!” esclamò il biondo, completamente spiazzato.

Non fece in tempo a dire o a fare resistenza che Sherlock si era già lanciato oltre il bordo, facendo tuffare entrambi in quella scura acqua salata.

Quando riemersero, Sherlock si trovava ancora avvolto saldamente attorno a John, come se fosse una specie di ancora di salvezza.

Un altro colpo di tentacolo colpì l'ormai pericolante ponte del knarr, spezzandolo completamente a metà. La consapevolezza che chiunque avesse cercato riparo nella stiva ora sarebbe certamente morto annegato, fece annaspare John. Si sentiva così impotente di fronte a tutto questo. Anche se era stato in battaglia e aveva visto un sacco di vite lasciare il mondo terreno, nulla era in confronto a questa situazione. Non aveva mai visto un mostro di tali dimensioni. Neppure un orda di barbari era capace di mietere vittime con così minimo sforzo.

Come avrebbero fatto a sopravvivere?

Si guardò intorno e vide non erano soli: anche altri marinai erano finiti in mare come loro. Con sgomento si rese conto che questi non riuscivano a rimanere a galla a lungo: sembrava quasi che qualcosa li stesse spingendo verso le profondità dell'oceano.

Dopo pochi istanti gli unici esseri umani ancora vivi erano solamente John e Sherlock.

Intorno a loro gravava un silenzio irreale. Perfino il mostro marino se n'era andato, come se, affondando la nave, il suo compito fosse terminato.

Una trave di legno proveniente dall'ormai distrutto knarr ondeggiò verso la loro direzione.

“Ora la prendo!” gridò Sherlock, rompendo il contatto fisico con il compagno e afferrando con entrambe le mani l'improvvisata scialuppa.

Dopo vari sforzi per non cadere nuovamente in acqua, riuscirono a salire entrambi in quell'angusto pezzo di legno.

“Non si meritavano di morire così. Gregory, Luke, tutti gli altri...” sospirò con voce rotta John. Perfino il capitano Gregson non si meritava una fine simile.

Sherlock non sapeva cosa fare. Sentiva in fondo al suo essere che quelle morti erano sbagliate, anche se non sapeva dire il perché. Erano solo umani, no? Morire per mano di un mostro marino, per spada o per vecchiaia era lo stesso, vero? Eppure, sentiva un fastidioso dolore al petto, soprattutto nel vedere John in quello stato. E quella sensazione non gli piaceva per niente.

Improvvisamente la trave si smosse, facendoli quasi cadere in acqua.

“Cosa?!” esclamò John, bianco in volto, aspettandosi di vedere un terrificante tentacolo fuoriuscire dalle acque.

Invece quello che vide fu il volto devastato di Gregory Lestrade che annaspava, cercando di appoggiarsi alla trave galleggiante.

“Aiuto! Affogo!” gridava.

Senza aspettare un secondo di più, lo aiutarono a salire a bordo del traballante pezzo di legno. Per fortuna era grande abbastanza per entrambi.

“Cazzo, cazzo, cazzo...” continuava a cantilenare Gregory, con il fiato corto.

“Cosa cazzo era quella cosa?!” gridò infine.

“Un Kraken.” rispose tranquillamente Sherlock.

“Per tutti gli Dei, allora quel mostro esiste sul serio!” esclamò incredulo John.

“Certo che esiste sul serio! Mio fratello ne possiede uno e ogni tanto- oh.”

“In che senso tuo fratello ne possiede uno?” domandò Gregory in falsetto.

“Quindi è stato Forseti a liberarlo? Dici che ha fatto apposta?” chiese John.

Forseti? Cosa?!” continuò Gregory, senza capire.

“Penso proprio di sì. Alla fine è contro a questo viaggio, no?” rispose tranquillamente Sherlock.

“Qualcuno mi può spiegare cosa sta succedendo?!” esplose Gregory.

Il duo lo guardò interdetto, poi John cautamente iniziò: “Penso che dovremo spiegarti un paio di cose...”

 

 

 

 

Mycroft sorrise compiaciuto.

“Ora cercherò di indirizzarli verso terraferma alzando il vento. Ottimo! Finalmente non avrò più problemi con loro!”

“Mi congratulo con voi.” disse Anthea “Vorrei però sapere perché risparmiare la vita anche all'altro umano.”

“Ti riferisci a Gregory Lestrade?”

La Dea fece un segno d'assenso con la testa.

“È logico. Dovevo tenere in vita almeno un membro dell'equipaggio come testimone. Se fossero ritornati solo Sherlock e John Watson avrebbero destato come minimo qualche sospetto. Sono pur sempre degli stranieri per gli abitanti di quel villaggio. Chi dice che non siano dei sabotatori di navi o peggio?”

Fece una pausa, prima di continuare: “Inoltre mi sembra un umano affidabile. Potrebbe ritornare utile in futuro.”

Anthea non fece nessuna obiezione alle parole del Dio.

“Ora ritornerò finalmente alle mie mansioni...” sussurrò, esausto.

“Aspetti, signore!” lo fermò la donna “Qualcosa si sta avvicinando a loro!”

Mycroft fece una faccia confusa, poi spostò lo sguardo dentro al pozzo contenente l'acqua mistica.

“No... Non è possibile!”

 

 

 

 

“Quindi mi state dicendo che lui è un in realtà un Dio?!” esclamò Gregory.

“Sì, e che vogliamo andare al tempio di Uppsala perché ci è stato detto che esiste un sacerdote, conosciuto come Mörk Präst, in grado di spezzare la maledizione.”

“O almeno così speriamo.” aggiunse Sherlock quasi sottovoce.

“Per tutti gli Dei. Se non avessi visto quel Kraken con i miei occhi, vi avrei mandati tutti e due a quel paese.” constatò Gregory, passandosi una mano tra i capelli.

Improvvisamente si alzò una fitta nebbia, spessa come un muro di pietra.

“E questa?” commentò Lestrade “Neanche pochi istanti fa c'era il sole!”

“Non è normale che si alzi la nebbia in pieno mare aperto?” chiese John al più esperto marinaio.

“Non così bruscamente. Sembra quasi una stregoneria.”

“Date un'occhiata.” disse Sherlock, indicando una grande ombra nera che si stava pian piano avvicinando a loro.

Quando fu abbastanza vicina, il trio riuscì finalmente a capire di cosa si trattava: una nave.

“Non ci credo.” fu il commento di John.

Delle corde furono calate in loro direzione, con l'intento di farli salire a bordo.

Sherlock ne afferrò una, seguito dagli altri due.

Non avevano idea chi fosse il capitano dell'imbarcazione, se l'improvvisa nebbia era correlata all'arrivo della nave e se, salendo a bordo, la loro vita sarebbe stata in pericolo.

Ma che altra scelta potevano avere?

Senza proclamare nessuna parola, iniziarono ad arrampicarsi, scuri in volto.




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* riappare dalle tenebre * heilà! Ma da quanto tempo! Hahahah- ha.

Giuro che non mi ero dimenticata di questa fic, anzi... diciamo solo che ho avuto qualche problema nel continuare a scriverla. Sono successe troppe cose.

Comunque avverto già che non so quando pubblicherò il prossimo capitolo, spero di non metterci una vita come con questo...

 

Ringrazio a tutti quelli che mi hanno chiesto se continuavo la storia, ho veramente apprezzato tantissimo il vostro interesse!

 

Spero solo di non avervi annoiato con questo capitolo (o, peggio ancora, deluso). Già non è tra i più felici in assoluto... (Non preoccupatevi per Luke, ritornerà in vita come zombie hahah se avete colto il riferimento vi adoro)

Comunque ogni critica è la benvenuta! Non siate timidi XD

 

.... chi sarà il misterioso capitano della nave? Ma soprattutto, sarà un amico o un nemico?

Tutto questo... nel prossimo capitolo! 

 

 

 

 

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