Quidditch con delitto

di Smaugslayer
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3. ***
Capitolo 5: *** Voglio vedere le tue cartelle ***
Capitolo 6: *** Capitolo 4. ***
Capitolo 7: *** Capitolo 5. ***
Capitolo 8: *** La belva in gabbia ***
Capitolo 9: *** Siamo dalla stessa parte ***
Capitolo 10: *** Capitolo 6. ***
Capitolo 11: *** Capitolo 7. ***
Capitolo 12: *** Bad Wolf ***
Capitolo 13: *** Capitolo 8. ***
Capitolo 14: *** Capitolo 9. ***
Capitolo 15: *** Capitolo 10. ***
Capitolo 16: *** Capitolo 11. ***
Capitolo 17: *** Capitolo 12. ***
Capitolo 18: *** Capitolo 13. ***
Capitolo 19: *** Capitolo 14. ***
Capitolo 20: *** Capitolo 15. ***
Capitolo 21: *** Capitolo 16. ***
Capitolo 22: *** Capitolo 17. ***
Capitolo 23: *** Capitolo 18. ***
Capitolo 24: *** Epilogo ***
Capitolo 25: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



PROLOGO
 
 
 
Fu svegliato dal rumore di una bottiglia che andava in frantumi.
 
Una voce impastata bofonchiò “Reparo”, e poi il silenzio.
 
La sua maglietta era bagnata di un liquido che dall’odore pareva Whiskey Incendiario, ma avrebbe potuto essere qualsiasi altra cosa.
 
Nella Sala Comune di Grifondoro dormivano ancora tutti.
 
Tentò di alzarsi e se ne pentì immediatamente: la testa gli pulsava da morire.
 
Cos’era successo? Pensieri confusi si affacciavano alla sua mente.
 
La festa per l’ultimo giorno dell’anno. Corvonero.
 
Sherlock Holmes.
 
Scostò in fretta la ragazza addormentata sulle sue ginocchia, appoggiandone con delicatezza la testa sul divano di velluto rosso, e decise di uscire subito alla ricerca di novità.
 
Oltrepassò il ritratto della Signora Grassa e si avventurò per i corridoi di Hogwarts.
 
Dovevano essere circa le sei o le sette del mattino, e il castello era ancora deserto.
 
A metà di una scala, si accorse di indossare ancora i vestiti della sera prima, ma non ci fece troppo caso. Doveva andare in infermeria.
 
Davanti a sé, vedeva lui: continuava a sentire la sua voce, e a sapere esattamente che cosa gli avrebbe detto, come si sarebbe atteggiato; sapeva come avrebbe sogghignato, strizzato un paio di volte gli occhi, quegli incredibili occhi verdi, e come infine avrebbe semplicemente sorriso.
 
Merlino, fa che possa vederlo ancora… ti prego…
 
Corse affannosamente giù per le scale e lungo i corridoi, imprecando e maledicendosi per essersi addormentato, quella notte. Gli avevano detto che non poteva entrare, no, non poteva, e lui come un idiota era tornato in Sala Comune e si era unito ai compagni festanti, quanto era stato stupido… come aveva potuto abbandonare il suo migliore amico, e al diavolo le regole?
 
Era tutta colpa di Sherlock. Cosa gli era saltato in mente? Sì, saltare in mente era l’espressione giusta …ma no, non era colpa sua… lui l’avrebbe evitato, era ovvio… invece sì, era tutta colpa di Sherlock se lui ora aveva il cuore in gola e la testa pulsante e la vista appannata dallo sforzo di andare più veloce del vento…
 
Era stato uno stupido egoista ad abbandonarlo in quel modo, era ubriaco di Burrobirra e dolore e aveva desiderato semplicemente che tutto quel casino non fosse mai successo, e ora ne pagava le conseguenze.
 
Lui e Sherlock, la coppia inseparabile, la gente diceva così… erano diventati amici dopo essersi affrontati al Club dei Duellanti del professor Vitious. John ricordava con l’amaro in bocca la prima umiliazione inflittagli da quel piccoletto di Sherlock, che scagliava fatture meglio di un Auror; al secondo anno era solo un bambinetto con le guance paffute e i capelli arruffati, ma con un’aria da vecchio saggio da far invidia ad Albus Silente. Mentre si stringevano la mano, un ragazzino dal pubblico aveva fatto, per puro dispetto, un sortilegio che li aveva incollati insieme, e mentre aspettavano di essere liberati erano diventati amici. Un modo buffo di cominciare, che loro avevano sempre visto come speciale. Come se il destino li avesse –letteralmente- uniti.
 
            Tutti i letti dell’Infermeria erano vuoti.
 
Dov’è…
 
Madama Chips stava allineando delle boccette lungo uno scaffale.
 
“Dov’è Sherlock Holmes?” chiese lui, allarmato.
 
“Intendi il ragazzino che hanno portato qui ieri notte? Poveretto. Stava parecchio male. L’hanno trasferito al San Mungo, il professor Vitious –era Corvonero, sì? - è andato con lui. Penso che debba ancora tornare.”
 
Un ronzio acuto strideva e sfrigolava nelle sue orecchie. Sherlock non era più lì. E lui non l’aveva nemmeno salutato.
 
“Il San Mungo” gorgogliò.
 
“Aspetta, tu come ti chiami?” chiede Madama Chips, corrugando la fronte.
 
“John Watson.”
 
“Ha lasciato una cosa per te. Ad un certo punto ha ripreso conoscenza, e penso che ti abbia lasciato un saluto o qualcosa del genere.” La donna si frugò nelle tasche del grembiule e pescò un foglio di carta tutto spiegazzato, che gli porse con aria di compatimento prima di lasciarlo solo.
 
John si sedette su una seggiola accanto al letto e lesse le ultime parole di Sherlock Holmes.
 
Caro John,
Non per eccedere nei sentimentalismi, ma probabilmente la gente si impossesserà di tutte le mie cose, non appena scoprirà che non tornerò. Quindi ho appellato alcuni dei miei libri, e li ho nascosti nel cassetto del comodino accanto alla sedia su cui sei seduto.
Fanne buon uso e non rovinarli. Ti scriverò il prima possibile.
Sherlock
 
Con crescente stupore, John tirò la manopola del cassetto e vide che, effettivamente, al suo interno erano contenuti tre volumi: Avversario segreto di Agatha Christie, una raccolta di poesie di Th. S. Eliot, e il De amicitia di Cicerone.
 
Letture del genere non erano da Sherlock. Lui non si sarebbe mai sprecato a leggere romanzi, sonetti o elucubrazioni in latino su temi astratti. Probabilmente delirava, al momento di scrivere quella lettera.
 
Nonostante ciò, John li infilò nelle tasche del mantello e uscì dall’Infermeria, desideroso di una boccata d’aria.
 
Ancora non riusciva a credere a ciò che era successo la sera prima.
 
Era l’ultimo giorno dell’anno. I Corvonero organizzavano una festicciola nella loro Sala Comune.
 
Sherlock aveva invitato anche John, che già al quinto anno godeva di una certa popolarità come giocatore di Quidditch. Sherlock non faceva i salti di gioia all’idea di un party (si sa: alle feste bisogna socializzare) ma la presenza del suo migliore amico lo rincuorava un poco. John, per contro, era quasi sovraeccitato.
 
Mancava poco alla mezzanotte. John stava chiacchierando allegramente con un’amica di Sherlock, Mary, una ragazzina bionda e quasi graziosa, benché priva di qualsiasi avvenenza; si trovava a suo agio con lei, cosa che non capitava spesso.
 
Mary gli aveva appena detto qualcosa di spiritoso a proposito della sua barba (una sottile peluria bionda che gli andava ricoprendo le mascelle) quando impietrì e strabuzzò gli occhi.
 
Raggelando, John si voltò lentamente nella sua direzione.
 
Sherlock era caduto a terra e si reggeva la testa fra le mani. Le sue dita affusolate erano contratte dallo sforzo e il suo volto era una maschera di dolore.
 
Sherlock!” urlò John, avventandosi su di lui.
 
Le persone gridavano e si coprivano il volto con le mani, accalcandosi intorno a loro senza sapere che cosa fare.
 
“Lasciatemi passare!” sbraitò John.
 
“Qualcuno chiami Vitious!” ordinò Mary. “Presto!”
 
Levo! Detineo!” John tentò di alleviare la sofferenza dell’amico, ma sembrava che gli incantesimi non avessero alcun effetto.
 
Sherlock si era isolato dal mondo. Dagli occhi strizzati scorrevano fiotti di lacrime. John non aveva mai visto nulla di tanto angoscioso.
 
John non sentiva più le urla, le voci, neppure la presenza degli altri ragazzi. In quel momento, esisteva solo Sherlock. Sherlock che stava morendo.
 
“Di qua!” esclamò Mary da un punto molto distante. Poco dopo, il professor Vitious apparve accanto a John. “Santo cielo!” strillò vedendo il corpo del suo studente. “Dobbiamo portarlo in infermeria… Corporem locomotor! Fate spazio, ragazzi.”
 
Mary trattenne John per un braccio per impedirgli di seguirlo.
 
E l’ultima cosa che lui vide del suo migliore amico fu un lembo di mantello nero.
 
Cercò di scacciare questi pensieri e iniziò a correre. Forse, se avesse semplicemente continuato ad avanzare, avrebbe raggiunto il San Mungo e avrebbe potuto scusarsi con Sherlock Holmes. La sua unica consolazione era che presto sarebbe arrivata una lettera, e lui avrebbe saputo che il suo amico stava bene, che non era nulla di grave e presto sarebbe tornato a casa, a Hogwarts.
           
 
Nei due anni successivi, John Watson aspettò.
 
Ma non gli giunse alcuna lettera.
 
 
 
 
Spazio autrice
Buongiorno/sera/notte a tutti, Sherlockians! Questa è la mia prima fanfiction –purtroppo per me ho scoperto solo da poco la loro incredibile capacità di attrattiva- e probabilmente alla fine non risulterà lunga come le Appendici del Signore degli Anelli, ma ho in mente di andare avanti per un bel po’ di capitoli, blocchi dello scrittore esclusi. E se il tema Harry Potter vi pare ormai usurato… spero solo che non riterrete questa FF identica a tutte le altre!
Mi piacerebbe conoscere le vostre opinioni, quindi le recensioni sono assolutamente bene accette –positive o negative che siano!
 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1. ***


CAPITOLO 1.
 
 


“Allora, Watson” disse Clarisse Weasley, capitano della squadra di Quidditch di Grifondoro “Ti voglio carico per la partita contro Corvonero. E voglio un bel bolide in testa a ogni singolo Cacciatore, intesi?” La ragazza dai capelli rossi gesticolava animatamente, con una piuma nella mano destra e una Burrobirra ancora tappata nella sinistra.
 
Era una piacevole serata di fine novembre, e la Sala Comune di Grifondoro era gremita di studenti che chiacchieravano o si affrettavano a terminare i compiti. Nessuno di loro si azzardava a disturbare la squadra, in ritiro spirituale pre-partita.
 
“Non m’interessa se spacchi la testa a Molly Hooper, se ci serve a vincere la Coppa.”
 
“Delicata.”
 
Clarisse era fatta così: andava sempre dritta al punto. Non diceva cose tipo “sarebbe decisamente meglio se il Capitano di Corvonero non giocasse, avremmo più probabilità di vincere”, lei ordinava semplicemente di spaccarle la testa e sbatterla fuori dal campo. Facile, veloce, indolore. Be’, magari con un po’ di dolore da parte di Molly.
 
Il cugino di Clarisse, nonché Cercatore di Grifondoro, si unì alla conversazione. “Non credere che vincere sarà così facile, pare che i Corvonero abbiano un nuovo Cercatore, e non si sa nulla di lui. Sono andato a controllare, una volta, ma Vitious impedisce a chiunque di avvicinarsi al campo quando si allenano; dicono che abbia chiesto il permesso a Silente di prepararlo in segreto…”
 
“Vitious che si espone così tanto per un solo giocatore? È assurdo!”
 
“A quanto pare Molly Hooper ci tiene a tenerlo segreto fino alla partita contro di noi, visto che è la prima, e Vitious è d’accordo. Sono Corvonero, cazzo, evidentemente hanno fatto un paio di calcoli e hanno raggiunto il risultato sperato.”
 
“Sai che è assurdo, vero, Charlie?” disse Clarisse inarcando le sopracciglia.
 
“La mia ragazza, Cecilie, è Corvonero” Charlie abbassò la voce, riducendola quasi a un sussurro “E secondo lei è stato lo stesso Cercatore a chiedere di essere mantenuto nell’anonimato. Non vuole che la sua identità venga rivelata… sembra che –insomma, sempre da ciò che mi ha riferito lei, e cioè voci di corridoio che circolano per la sua Casa- sembra che la sua presenza impedirà di giocare a due di noi. Lei dice così. Se il tipo ha detto questo, dev’essere proprio ben informato su di noi… però mi sembra una cosa un po’ presuntuosa.”
 
“Suppongo che questa informazione sia nuova.”
 
“Lo so da un po’, ma non volevo allarmarvi” si giustificò Charlie.
 
Clarisse stappò la Burrobirra e ne bevve un sorso, abbandonandosi allo schienale di velluto della propria poltrona. “Bah. Noi siamo pronti da settimane.”
 
Anche John Watson si rilassò chiudendo gli occhi.
 
Non era eccessivamente preoccupato per l’incontro, né per la superbia di questo Corvonero.  Non si considerava vanitoso, nell’affermare di essere uno dei migliori Battitori che la sua Casa avesse mai avuto: sapeva di esserlo. John si riteneva una persona pratica: non si sprecava in falsa modestia, né peraltro si sopravvalutava.
 
Certo, ora che frequentava il settimo anno si era lasciato sfuggire l’ultima occasione di diventare capitano della squadra, ma non gli dispiaceva che il titolo fosse stato assegnato a Clarisse Weasley: la sua migliore amica era una vera fuoriclasse e, in più, tutti i tifosi lo adoravano, e a lui andava bene così.
 
Quell’anno, in effetti, Grifondoro aveva dei Battitori decisamente fuori dalla norma: una ragazza –cosa che non accadeva quasi mai- e un diciassettenne piuttosto basso, snello e asciutto, per nulla intimorente. A John piaceva dire che bastava la loro bravura a terrorizzare gli avversari.
 
Ricordava ancora la sua prima partita, al terzo anno… il Capitano di Serpeverde l’aveva preso in giro per tutto il tempo, finché non si era beccato un Bolide sul naso.
 
“Insomma, vedremo cosa ci riserverà il domani… domani” concluse Clarisse dopo qualche minuto di silenzio.
 
“Da quando ti dedichi alla filosofia?” scherzò Charlie.
 
“Zitto, cugino, o ti appendo a testa in giù al lampadario… Watson, hai fatto Pozioni?”
 
“Sì, sono nella mia borsa” borbottò lui. In quel momento era distratto dalla voce nella sua testa che gli diceva: “Sei sempre troppo disponibile”.
 
“Ah, già, Pozioni!” esclamò Charlie. “Grazie di avermelo ricordato! Abernathy era in punizione da Piton questa sera, devo andare a vedere se hanno finito!” Detto questo, scappò via attraverso il buco del ritratto.
 
“Tipico di Piton” si lamentò Clarisse. “Chiaramente i giocatori di Grifondoro non possono starsene un po’ a riposo prima della partita. Lo farà lavorare così tanto che domani avrà le dita così intorpidite che si lascerà sfuggire la Pluffa.”
 
“Oh, lascia perdere Piton, con un nome come Severus che ti aspettavi? Sai che ci odia, soprattutto noi giocatori… certo, sapere il perché…”
 
“Non mi interrogo sulle motivazioni di un nas… ah, di un professore.”
 
John scoppiò a ridere.
 
“Insomma, non hai visto quanto è aquilino? Secondo me qualcuno gliel’ha ingrandito e lui non è stato abbastanza bravo da rimpicciolirselo… sì, non mi stupirei se gli avessero fatto una fattura, chissà quanto doveva essere seccante da giovane… Senti, no, io questo lo copio domani” disse
Clarisse scostando la pergamena dell’amico. “Voglio solo andare a fare una doccia, o domani mattina i miei capelli sembreranno più unti di quelli di… be’, Piton.”
 
Il ragazzo sorrise e si ridistese sulla poltrona, lieto di essere lasciato solo.
 
Non che non apprezzasse la compagnia di Clarisse, o di Charlie, ma da due anni a quella parte… non avere più il suo migliore amico gli pesava come mai avrebbe ritenuto possibile.
 
Sherlock era in isolamento all’ospedale di San Mungo da quasi due anni, ormai. Gli unici con cui poteva avere contatti erano i medici curanti, che gli si affollavano intorno per tutto il giorno da quando gli avevano diagnosticato la malattia. Una volta, John era riuscito a bloccare Vitious in corridoio per chiedergli notizie: a quanto pareva, Sherlock era stato inserito in un programma sperimentale che tentava di individuare una cura –magica, ovviamente- al suo problema.
 
Quanto avrebbe dato per riaverlo con sé… la loro amicizia non era mai stata superficiale o effimera, era una vera amicizia, quel genere unico e insostituibile che pochi hanno la fortuna di sperimentare.
 
No, no, non poteva abbandonarsi a quei sentimentalismi. Non conoscendo la morsa allo stomaco che lo coglieva al solo pensiero, quella sensazione di incompletezza che lo pervadeva e lo faceva rabbrividire come un ghiacciolo lasciato scorrere lungo la spina dorsale.
 
La sua paura più grande era di scordare il volto di Sherlock, di aver bisogno di una foto per ricordare la curva delle sue sopracciglia o il colore dei suoi occhi; cercava disperatamente di non permetterlo, ma ogni giorno che passava il ricordo si faceva sempre più vago, ed era una vera e propria tortura. Ogni sera andava a letto pensando che quella poteva essere l’unica volta in cui avrebbe rammentato qualcosa del suo migliore amico, e ogni mattina sospirava di sollievo constatando che un'altra giornata gli era stata concessa.
 
Il pensiero di Sherlock non lo aveva mai abbandonato. Dopo un periodo tanto lungo, altri si sarebbero arresi all’evidenza. Lui no. Semplicemente, non poteva permetterlo. Aveva già commesso troppi errori, e non avrebbe ceduto per nulla al mondo, avrebbe continuato a scrutare il cielo, sperando di veder comparire un gufo con una lettera da parte sua.
 
            Il giorno seguente sostenne regolarmente tutte le lezioni, sopportò le angherie di Piton e i commenti acidi di Vitious. Nulla di ciò lo toccava, si era abituato ad ignorare le parole dei suoi professori, ripassando piuttosto mentalmente tutte le tattiche e le azioni di gioco.
 
La partita era alle quattro del pomeriggio, ma lui arrivò in spogliatoio con una buona mezz’ora di anticipo. Gli piaceva sedersi sulla panca, raccogliere le ginocchia al petto e chiudere gli occhi, finché la voce tonante di Clarisse Weasley non lo scuoteva dal suo torpore.
 
“In piedi, pelandrone! Abbiamo una vittoria da conquistare!” esclamò lei, entrando nello stanzino insieme a due Cacciatori: un ragazzo del sesto anno, Damon, e una del quinto, Rachel.
 
“Ciao, ragazzi.”
 
“Ciao John” lo salutò allegramente Rachel. “Pronto?”
 
“Pronto, credo. Ah, ciao Denis.”
 
Il loro Portiere fece il suo ingresso nello spogliatoio seguito da Charlie Weasley e Abernathy, l’ultimo Cacciatore.
 
John infilò la veste e i guantoni, si calò gli occhialini protettivi e impugnò la mazza da Battitore, il tutto mentre Clarisse li incitava e dava gli ultimi consigli.
 
“A parte Molly Hooper e i battitori, non conosco i giocatori. Non so quanto sarà tosta, ma possiamo vincere” ripeté per l’ennesima volta. “Damon, voglio il pieno controllo sulla Pluffa da parte tua: non osare fartela portar via dal nemico. Rachel, è comunque meglio non rischiare troppo: resta a centrocampo, e passa la palla a Damon solo vicino all’area di tiro, se puoi. Tutti gli altri, fate del vostro meglio. Non lasciatevi intimorire dai Serpeverde nelle tribune, sapete che sono solo gelosi perché l’anno scorso abbiamo vinto noi e perché –insomma, diciamocelo- siamo molto più fighi di loro.”
 
“Eddai, Clarisse” la prese in giro Abernathy “Siamo Grifondoro, non abbiamo paura di quegli idioti dei Serpeverde.”
 
“Per quanto riguarda, il Cappello Parlante poteva essere ubriaco quando vi ha smistati. E ora andiamo, muoversi!”
 
L’aria era umida, il cielo plumbeo minacciava pioggia.
 
In quanto vice-capitano, John uscì subito dopo Clarisse. Un boato li accolse in campo. John vide la curva rosso e oro dei Grifondoro, particolarmente agguerriti. Tutti i Serpeverde avevano preso le parti di Corvonero, più per avversione a Grifondoro, che altro. Gli insegnanti erano sparsi tra gli studenti, pronti in caso di necessità. Sul podio del cronista c’era Mary Morstan, una Corvonero del settimo anno. John sorrise mestamente nel vederla: non conservava un bel ricordo dell’ultima volta che si erano parlati, un capodanno di due anni prima.
 
Dall’altra parte del campo iniziava ad avanzare la squadra avversaria, ma John non riusciva a scorgere i loro volti con chiarezza a quella distanza.
 
Il mormorio della folla diminuì simultaneamente d’intensità. Perplesso, John si guardò intorno e vide che tutti i ragazzi borbottavano fra loro, indicando la squadra di Corvonero.
 
John continuò ad avanzare verso l’area centrale, dove Madama Bumb aspettava per dare il via ai giochi. Distratto dal comportamento della folla, comprese il motivo di tanto sconcerto solo quando se lo trovò davanti, quasi faccia a faccia: ricci corvini, occhi chiari, viso da volpe.
 
Sherlock Holmes.
 
John Watson ebbe un tuffo al cuore.
 
Sherlock… di nuovo a Hogwarts? Come Cercatore?
 
Impossibile!
 
Possibile, disse una vocina nella sua testa. Credevi che fosse malato? Non hai più contatti con lui da due anni: è più che plausibile che sia guarito; per di più, è svelto, agile, e ha una buona vista: come Cercatore va a meraviglia.
 
Sherlock Holmes era lì. E allora perché non veniva avanti a salutarlo, non dava segno di averlo riconosciuto?
 
“Sherlock…”
 
Il Cercatore scandagliava la squadra avversaria con lo sguardo, ma i suoi occhi passarono oltre John senza vederlo, senza mostrare alcuna emozione.
 
Perché? Che cosa era cambiato? Che diavolo stava facendo?
 
Sherlock Holmes? Ma non eri al San Mungo? Puoi giocare?” esclamò Madama Bumb, anche lei un filino scioccata.
 
“Mi sono allenato mentre ero in riabilitazione” spiegò Sherlock.
 
La sua voce era proprio come John la ricordava: grave, tonante, melodiosa.
 
L’arbitro si strinse nelle spalle prima di ordinare ai Capitai di darsi la mano. Clarisse strinse quella di Molly Hooper con ferocia.
 
“Sherlock…” provò a chiamare John.
 
“Sulle scope…”
 
“Ehi, Sherlock…”
 
Madama Bumb liberò le palle e il gioco cominciò.
 
Sherlock!” sibilò John.
 
Il suo migliore amico non diede segno di averlo sentito.
 
Diamine, perché? Perché si comportava così? John si chiese se finalmente l’avrebbe notato, se gli avesse spedito un Bolide in faccia.
 
“Sherlock!”
 
Sì, probabilmente un Bolide sarebbe andato bene. Per questo suo assurdo comportamento e per non averlo informato della sua guarigione, dopo due anni che non dava segni di vita.
 
Non per niente John era tifoso dei Falmouth Falcons(*) il cui motto è “Vinceremo, ma se non vinciamo almeno spacchiamo un po’ di teste”.








(*) da Il Quidditch attraverso i secoli







Spazio autrice
E così, dopo una settimana infernale (avevo una mega-interrogazione sull'Inferno di Dante, oggi), ce l'ho fatta. Il primo capitolo è stato completato.
Mi sento come Jon Snow dopo una spedizione al di là della Barriera, e cioè molto ma molto spossata. Ma ce l'ho fatta *tono solenne*. Spero vi sia piaciuto.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2. ***


CAPITOLO 2.



John salì in quota, scambiandosi cenni con Clarisse Weasley. Era una loro abitudine, decidere la tattica da utilizzare a partita già cominciata: John l’aveva proposto dopo averlo visto fare dai giocatori Babbani di rugby, e la sua compagna aveva accolto con entusiasmo l’idea.
 
Optarono per il deflected tackle, pericoloso, disorientante, complicato da attuare ed estremamente efficacie: uno dei Battitori si affianca al Cercatore in possesso della Pluffa, l’altro lancia un Bolide verso di loro, da deviare verso l’avversario più vicino che tendi di rubare la palla.
 
Non riusciva a concentrarsi.
 
Come avrebbe potuto? Sherlock era proprio sotto di lui, immobile. Dov’erano i Bolidi quando servivano?
 
Parte di lui non comprendeva tutta quella rabbia. Si stava accanendo in modo innaturale contro il proprio migliore amico… eppure gli sembrava l’unica cosa giusta da fare. L’unica reazione plausibile. La prima regola della Bibbia del Battitore(*) era “Buttare fuori il Cercatore”, e lui l’avrebbe messa in pratica.
 
“…Hooper passa a Campbell, che viene intercettato da Weasley, che passa a Hawthorne, che schiva un Bolide di Jones e passa a Damon che tira e segna! Dieci a zero per Grifondoro!” urlò Mary Morstan.
 
Ottimo, poche decine di secondi ed erano già in vantaggio.
 
I capelli di Sherlock erano incredibilmente mossi. Così scompigliati dal vento gli donavano un’aria malinconica e letale.
 
Per Merlino, perché non l’aveva nemmeno guardato? Era diventato invisibile, per caso?
 
“Il bolide, Watson!”
 
John si riscosse appena in tempo per non essere colpito, e roteò la mazza a casaccio.
 
Maledetto Holmes.
 
 “Grifondoro segna! Venti a zero!” annunciò Mary Morstan.
 
Sherlock non riusciva ad individuare il boccino, e così nemmeno Charlie.
 
“…Abernathy passa a Damon, che passa a Hawthorne… che passa di nuovo a Damon che segna! Trenta a zero per Grifondoro! Santo cielo, Taylor, coprili quegli anelli!” si lasciò sfuggire la cronista.
 
Clarisse colpì Molly Hooper a una spalla, semi-disarcionandola dalla sua Nimbus. John notò con piacere che l’avversaria non riusciva più a muovere il braccio.
 
“John! La tre-uno-uno!” gli rammentò la compagna.
 
John non la ascoltò.
 
Per tre volte cercò di colpire Holmes. La prima, il Cercatore non fece altro che spostare un po’ la scopa; la seconda sfrecciò semplicemente via prima di entrare nel mirino del Bolide; infine, si avvalse dello Sloth Grip Roll(**), una tecnica che consiste nell’appendersi alla scopa a testa in giù tenendosi stretti con mani e piedi.
 
La verità, che mai John avrebbe ammesso, neanche a se stesso? Era fiero di Sherlock. Il suo vecchio amico si stava dimostrando un ottimo giocatore.
 
“A quanto pare John Watson deve affinare un po’ la mira!” lo prese in giro Mary nell’ilarità generale.
 
Mentre le sue prestazioni erano scarse, la partita stava andando alla grande. In breve tempo erano in vantaggio di almeno cinquanta punti, e continuavano a segnare; Corvonero, invece, arrancava faticosamente per portare dalla sua qualche goal.
 
Non si era neanche accorto di seguire Sherlock. Quando l’avversario prendeva quota, anche lui si alzava. Se si spostava verso destra, lui lo seguiva.
 
Si era completamente dimenticato del deflected tackle, e questo causò non pochi problemi. Ad un certo punto, iniziò accidentalmente a volare accanto a Damon. Notandolo, Clarisse spedì loro un Bolide colpendo John in pieno petto.
 
L’aria fuoriuscì dai polmoni del ragazzo; era come se il Bolide lo avesse svuotato di ogni singola particella di ossigeno, azoto o di qualunque cosa si nutrissero le sue cellule. In qualche modo, riuscì a non cadere dalla scopa.
 
“Vargas a Richard, Richard perde la Pluffa, Hawthorne…”
 
Cosa accidenti fai?” sbraitò Clarisse accostandosi a lui.
 
“Datti una svegliata, Watson!” esplose una voce amplificata.
 
John si voltò verso il podio e vide che Mary era stata scansata da un ragazzo di Serpeverde.
 
“E tu fatti da parte, Moriarty!” protestò la cronista. “E lascia in pace Watson!”
 
Fatti da parte, lascia in pace il Battitore incapace!” la scimmiottò lui. Tutti sembrarono trovarlo molto spassoso.
 
“Ma insomma, quanti pregiudizi!” proseguì lui. “Io non sono qui per Grifondoro, anche se spero seriamente che perda! …
 
Ehi, Holmes! Hai intenzione di cercarlo, quel Boccino, o vuoi solo startene impalato in mezzo al campo a fare la modella per…”
 
“Ora basta!” sbottò Mary, e gridò qualcosa talmente in fretta che Moriarty non fece in tempo ad evocare un Sortilegio Scudo, e si ritrovò pietrificato.
 
“Dunque, novanta a quaranta per Grifondoro!” disse Mary, come se non fosse mai stata interrotta. “Abernathy in possesso di Pluffa, la passa a Damon, che viene bloccato da Hooper, che viene bloccata da un Bolide di Weasley - …Watson davvero, se non ti dai una mossa libero Moriarty, così continua a insultarti.”
 
John si riscosse e corse in aiuto di Clarisse, lanciando un Bolide a un Cacciatore di Corvonero e colpendo la coda della sua scopa.
 
Sherlock si spostava attraverso il campo come se si divertisse un mondo.
 
Poteva persino sentirlo pensare.
 
“In base ai movimenti casuali del Boccino d’Oro…”
 
“Zitto, Holmes.”
 
“È possibile stabilire…”
 
“Secondo il calcolo della probabilità…”
 
“Grifondoro segna! Cento a sessanta, signore e signori!”
 
Il portiere di Corvonero era sempre più demoralizzato.
 
John spedì un Bolide a Sherlock, che lo schivò senza scomporsi troppo.
 
“Piantala di mirare a Holmes e muoviti! Ma dove hai la testa?” gli sbraitò Charlie passandogli accanto.
 
Sherlock era proprio sopra di lui.
 
“Damon ad Abernathy, Abernathy perde la Pluffa e la prende Vargas, Vargas in area di tiro…”
 
Un Bolide sfrecciava pericolosamente vicino a un Battitore avversario. Non potendo proteggere tutti i suoi compagni di squadra, John volò rapidamente vicino a Charlie.
 
Il Battitore colpì Rachel in mezzo alle reni prima che potesse segnare.
 
Mentre John gli era ancora accanto, il Cercatore esclamò: “Il Boccino!”
 
“Vai, corri!” lo incitò lui.
 
Charlie Weasley spronò la sua Nimbus e si gettò in picchiata verso terra.
 
Euforico, e desideroso di dimostrare di non essersi completamente rimbecillito prima della fine della partita, John contò sugli ultimi secondi rimasti per chiamare Clarisse. “Weasley! 2-1-0!”
 
La sua compagna diede un cenno di assenso e indicò il Bolide più vicino. Entrambi si avventarono su di esso, pronti per una delle azioni più fighe che i Battitori potessero compiere, la Dipple
 
Un fischio.
 
 “Duecentodieci a centotrenta per Corvonero!” Mary Morstan era in preda all’euforia.
 
Avevano…?
 
Sherlock Holmes non si godeva la vittoria. Non girava per il campo levando alto il Boccino d’Oro, non si beava degli applausi dei tifosi, non ascoltava il coro festante di “Sher-lock! Sher-lock!” in suo onore. Consegnò il Boccino a Madama Bumb e lasciò il campo, senza nemmeno aspettare lo sciame di fan esaltati.
 
Avevano perso. Avevano perso.
 
Charlie atterrò gettando lontano la scopa. Aveva un’espressione omicida negli occhi.
 
“Ero lì, porca Morgana!” imprecò. “Ero a meno di tre metri dal Boccino e questo si gira e si infila nella manica di quel cazzo di… neanche l’avesse appellato!”
 
“Charlie!” urlò Clarisse. “Seriamente? Corvonero?” La ragazza scese dalla scopa prima ancora di aver toccato terra, e si avventò contro il proprio Cercatore. “Non riesci a prendere un Boccino giocando contro… Corvonero?” l’indignazione rendeva la sua voce acuta e penetrante.
 
“Quello Holmes è un mostro! Perché te la prendi con me?”
 
“Non me la prendo solo con te, Weasley” sibilò lei con voce mielosa. “Me la prendo con te, con Damon che non sa tenere in mano una Pluffa –e , Damon, ti avrei già buttato fuori se almeno non fossi in grado di ficcarla in uno di quei fottutissimi anelli-, me la prendo con Rachel, me la prendo con Abernathy, me la prendo con Denis che ha fatto passare tre tiri, e me la prendo con lui” il Capitano puntò irosamente il dito contro l’altro Battitore “perché non ha fatto un cazzo per tutta la partita, ed è inutile…” ormai stava praticamente sputando le parole.
 
Motivo numero uno per cui Grifondoro era tanto forte: era terrorizzata dal suo Capitano, assolutamente incapace di perdere.
 
“…che tu ti faccia tutti i tuoi schemini se poi giochi di merda… sai quante volte hai mancato quel cazzo di Holmes, Watson? Cinque. E per il novanta percento della partita, se qualcuno non ti avesse avvertito ti saresti fatto buttare giù dalla scopa. È così che hai intenzione di giocare questa stagione? Eh?”
 
Lo stadio si stava rapidamente svuotando.
 
Denis, il portiere, teneva un braccio attorno alle spalle di Rachel; Abernathy era impietrito, Damon stava seduto a terra a strappare ciuffi d’erba, e John e Charlie si scambiavano occhiate.
 
Improvvisamente, Clarisse scoppiò a piangere.
 
Motivo numero due per cui Grifondoro era tanto forte: odiava vedere il proprio Capitano in lacrime.
 
Era una cosa talmente innaturale da risultare insopportabile.
 
“Possiamo ancora vincere…” mugolava Clarisse. “Era solo la prima partita… manca Tassorosso contro Corvonero e Corvonero contro Serpeverde e Serpeverde contro Tassorosso e noi contro Tassorosso e Serpeverde e… e ce la facciamo, vero? Settanta punti non sono mica tanti… ce la facciamo…” Abernathy le si avvicinò con circospezione e iniziò a darle piccole pacche sulla schiena.
 
Damon si alzò e annunciò che sarebbe ritornato in Sala Comune.
 
“Gli allenamenti sono mercoledì alle sei!” gli ricordò John.
 
Anche Rachel e Denis raccattarono le loro scope e lasciarono il campo, seguiti a breve da Abernathy e una Clarisse ancora scossa dai singhiozzi.
 
“Mi spiace” disse Charlie quando furono rimasti soli. “Ma per Merlino, Sherlock Holmes! Ma come mai non ti ha salutato?”
 
“Non lo so, è stato questo a mandarmi fuori di testa… e non so nemmeno perché, era tutto troppo… strano.”
 
“Pensi che parlasse davvero di te, dicendo che uno di noi non sarebbe riuscito a giocare?”
 
“Sì, di sicuro, mi conosce troppo bene. E Clarisse era l’altro, perché noi lavoriamo in coppia: il deflected tackle funziona in due.”
 
“Che cos’hai intenzione di fare, ora?”
 
“Cosa intendi?”
 
“Sai benissimo cosa intendo… con Sherlock. È il tuo migliore amico!”
 
“Non più, a quanto pare.”
 
“Sì, vabbè, come dici tu.” Charlie sogghignò. “Torno dentro anche io, ormai qui non c’è più niente da fare. Vieni? Tra poco inizierà a piovere.”
 
“Tu vai, ti raggiungo. Voglio stare un po’ da solo.”
 
Charlie gli gettò un’ultima occhiata e lo lasciò lì, scomparendo al di là degli spalti.
 
John non si era accorto di non essere l’ultimo. Ritornando verso il castello, Mary Morstan aveva deviato attraverso il campo da gioco e ora gli si era affiancata.
 
“Per quello che vale” esordì, senza alcun cenno di saluto “non sapevo nemmeno io che sarebbe ritornato. Credevo che fosse ancora al San Mungo, non sapevo nemmeno che avessero trovato una cura.” Sembrava sincera, e di questo lui le fu grato. Annuì. “Ci vediamo in giro, John Watson.”
 
Osservò la sua figuretta esile allontanarsi da lui come avevano fatto tutti gli altri.
 
John si distese sull’erba umida, incurante del gelo che gli afferrava le ossa, e fissò il cielo grigio.
 
Sei invulnerabile, tu, non hai il tallone d’Achille,
andrai avanti, e quando avrai prevalso
potrai dire: qui molti hanno fallito.
 
Eliot aveva ragione, dopotutto(***). Sherlock Holmes era invincibile. Aveva sconfitto la malattia, e il suo migliore amico. E lui, il miglior Battitore che Grifondoro avesse mai avuto, si era lasciato distrarre dall’avversario come un banale dilettante… ma perché Sherlock non l’aveva mai degnato di uno sguardo?
 
Non poteva… non poteva aver rinunciato alla sua amicizia. Era una cosa che John mai e poi mai avrebbe tollerato.
 
Presto incominciò a scendere una pioggerella sottile, e il campo fu sommerso dal fango.
 
John rimase lì, ad occhi chiusi, fradicio, incurante.
 
Restò immobile fino all’imbrunire. Da qualche parte nel castello, Grifondoro piangeva la sconfitta.
 
Sentì un rumore di passi simili a risucchi, ma non vi prestò attenzione.
 
Da qualche altra parte, Corvonero e i suoi sostenitori stavano festeggiando la vittoria.
 
Sherlock stava…
 
Davvero aveva rinunciato a lui?
 
“Ti prenderai un raffreddore” disse una voce.
 
John alzò gli occhi verso la persona in piedi dietro di lui.
 
I capelli corvini gli si erano incollati al volto; la camicia aderiva, umida, al suo busto.
 
Sherlock Holmes gli sorrideva dall’alto. Ah, quel sorriso che tanto John aveva bramato di rivedere.
 
John si mise a sedere, e il nuovo arrivato gli si accomodò accanto a gambe incrociate.
 
“Ciao, Sherlock.”
 
John si passò nervosamente una mano fra i capelli.
 
“Sei qui dalla fine della partita?” domandò Sherlock, perplesso.
 
“Deducilo.”
 
“Sì, e hai pure dormito. E sei tutto sporco di fango.” Il giovane Corvonero fece una pausa prima di ricominciare a parlare con tono innaturale. “Non sei felice di rivedermi? Non provi ad… abbracciarmi, o che so io?” chiese infine allargando le braccia.
 
“Non fare il coglione, tu odi gli abbracci. E da come hai schivato quei Bolidi prima, figuriamoci un abbraccio … uno Sloth Grip Roll, Sherlock? Seriamente? A te il Quidditch non interessa neanche!”
 
“Non c’era molto da fare, al San Mungo. L’ho riconsiderato. E poi dovevo parlarti.”
 
“Hai appena fatto perdere la mia squadra per parlarmi?” si accigliò John. Tuttavia, percepì una stretta al cuore al suono di quelle parole.
 
“Sì, più o meno. Be’, a parte per quello Sloth Grip Roll. Ti ho mai detto che è sempre stato il mio sogno eseguirne uno? Tra l’altro, tu e Weasley dovreste cambiare numeri. Sai, per gli schemi. Dubito che Anderson e i suoi Serpeverde ci arriveranno mai, ma noi Corvonero li conosciamo quasi tutti.”
 
“Tipico” sbuffò John.
 
Sherlock distese le gambe e si stiracchiò come un vecchio gatto. Rimase in silenzio.
 
 
 
(*) da “Il Quidditch attraverso i secoli”
(**) insomma, abbiamo capito
(***) riferimento a Th. S. Eliot (e al primo capitolo)
 
 
Spazio autrice:
Insomma, lo sappiamo tutti: Sherlock non ha scuse. Che sia una finta morte o altro, non ha scuse per essersi praticamente dimenticato di John.
 
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3. ***


CAPITOLO 3.
 
 
 
“Allora” sbottò John quando non riuscì più ad aspettare, quando capì che il silenzio si era dilatato troppo a lungo. “Non volevi parlarmi?”
 
“Sì. Sì, giusto. John, ti chiedo di perdonarmi.”
 
Perdonarti?” Il ragazzo ghignò, sentendo un sapore amaro in bocca.
 
“Sì. Per non essermi fatto vivo e averti lasciato nell’incertezza per tutto questo tempo. Puoi farlo? Puoi perdonarmi?”
 
“Prima voglio una spiegazione.”
 
“Non posso fornirtela.”
 
“Perché no?”
 
“Perché… perché…”
 
“Come posso perdonarti se non ti giustifichi nemmeno? Tu torni e bam, io devo sopportare che mi ignori e poi mi chiedi così su due piedi di concederti la - la remissione per i tuoi peccati, e amici come prima come se non fosse successo nulla? Credi davvero che sia così sciocco? Forse non eravamo tanto in sintonia” John tracciò le virgolette con le dita “come credevo, allora!”
 
“Io non posso fornirti una spiegazione perché non ce l’ho. Non so perché mi sono comportato così, non so perché prima ti ho ignorato, ero spaventato, ok? Non lo so.”
 
“Sì, be’, allora avvertimi quando ne trovi una, di spiegazione. Nel frattempo, no che non ti perdono. Te lo scordi.”
 
“Io speravo che tu fossi… felice, di vedermi.”
 
Felice? Dio, sai quanto sarei stato felice di vederti se solo tu mi avessi salutato e non ti fossi comportato come un coglione?”
 
John appoggiò il mento alle ginocchia. Sherlock non replicava.
 
“Senti, li ho conservati i tuoi libri, se li rivuoi.”
 
“Li hai letti?”
 
“Certo che li ho letti.”
 
“Allora tienili. A me non servono. Tra parentesi, il signor Brown(*) era troppo sgamabile. Insomma, era ovvio che…”
 
“Niente spoiler!”
 
“Ma l’hai già letto!”
 
“Non importa, non si dice il finale, è questione di principio.”
 
Sherlock sbuffò e sorrise.
 
“Forza, andiamo dentro. Non ho intenzione di ammalarmi di nuovo.”
 
Sherlock aiutò John a tirarsi su, e insieme si avviarono verso il castello.
 
Stava camminando vicino a Sherlock Holmes.
 
Il suo vecchio amico sembrava un corvo dalle piume bagnate, ricurvo e allampanato, con le sopracciglia corrugate. Non proferiva più parola, come se avesse esaurito la propria capacità emozionale durante quella breve conversazione, e volesse evitare imbarazzo.
 
John avrebbe tanto voluto dire qualcosa, e più volte si sentì pronto a farlo, ma desistette. La verità era che non sapeva da dove cominciare, per esprimere ciò che provava. Lui, come del resto Sherlock, non era bravo coi sentimenti.
 
Sherlock era diverso da come lo ricordava, si rese improvvisamente conto. Aveva passato due anni della sua vita cercando di imprimersi il suo volto in testa, e ora quel volto era cambiato: più maturo, in un certo senso, più affilato. Era bello. John arrossì al suo stesso pensiero, che gli parve decisamente fuori luogo. Eppure era vero, Sherlock era diventato bello, e John non riusciva a trovare un aggettivo migliore per definirlo.
 
Quando si separarono, in Sala Grande, si salutarono con un cenno impacciato della mano. John provò l’impulso di abbracciarlo, aggrapparsi a lui come a una ciambella di salvataggio, e non lasciarlo più andare. Voleva dirgli che sì, certo che lo perdonava, ma era difficile, e lui non era così privo di orgoglio.
 
“Ci vediamo. E dimmi se… se cambi idea, ecco.” disse il Corvonero, passandosi una mano fra i capelli bagnati e aggrovigliandoli tutti. John riconobbe quel gesto familiare e ne fu confortato. Forse avrebbero potuto davvero ricominciare da dove si erano interrotti. Se lo avesse perdonato, sarebbe ritornato tutto come prima come se non fosse successo nulla. Percorse lo spazio che lo separava dalla Sala Comune di Grifondoro in uno stato di trance, rievocando continuamente gli ultimi minuti, completamente dimentico della sconfitta, completamente incurante di qualsiasi cosa che non fosse un giovane Corvonero dai ricci scuri, uno a caso.
 
“Ma dov’eri?” gli chiese Charlie non appena entrò passando per il ritratto della Signora Grassa. “Non dirmi che sei rimasto fuori per tutto questo tempo!”
 
“Eh? Uh, sì.”
 
“Ti ho preso un panino, visto che non venivi a cena.”
 
Mentre John mangiava, grato che almeno uno dei suoi amici fosse affidabile, Charlie lo informò che Clarisse aveva pianto per tutta la sera. “Abernathy le passava i fazzoletti. Contento lui…”
 
Le fiamme scoppiettavano nel camino. La Sala era quasi vuota, nonostante fosse ancora presto, e il crepitio del fuoco rimbombava nelle orecchie di John mentre si sforzava di non ascoltare il resoconto di Charlie sul rapporto tra il Capitano e il loro Cercatore. Era evidente che tentava di tirarlo su di morale con chiacchiere frivole. “Ah, e sono sicuro al novantanove percento che Denis e Rachel si metteranno insieme prima di Natale…”
 
“Ho parlato con Sherlock” sbottò John ad un certo punto.
 
“Sì, lo sospettavo. Avete… chiarito? Se c’era qualcosa da chiarire.”
 
“Non lo so, penso… di sì… in un certo senso.”
 
“Sistemerete le cose. Se hanno bisogno di una sistemata.”
 
“Sì… sì, lo spero.”
 
“Siete ancora migliori amici, insomma.”
 
“Io… non so, non credo.”
 
“Te l’ho detto, sistemerete tutto, voi due eravate inseparabili, ricordi?”
 
“Vorrei che fosse ancora così.”
 
“Non ci pensare ora.”
 
E così liquidarono l’argomento. John smise del tutto di ascoltare Charlie che, ancora fermo nel suo proposito, iniziò a parlare di ragazze e continuò finché non salirono nei dormitori.
 
“Giuro che se becco Abernathy con mia cugina mi metto a urlare” borbottò.
 
John si infilò il pigiama rosso e oro, rabbrividendo quando il tessuto freddo toccò la sua pelle, e si accoccolò a pancia in su sotto le coperte.
 
Così, in un lampo, aveva di nuovo Sherlock. Quel sociopatico iperattivo sempre a caccia di guai era tornato.
 
Abbassò le palpebre sugli occhi stanchi, e piano, e poi tutto in una volta, si addormentò.
 
            Il giorno seguente scese a colazione di buon’ora, affamato e carico di un’energia tutta nuova. Era pronto a qualsiasi commento sulla partita, di scherno o dispiacere che fosse, non gl’importava. Avrebbe rivisto Sherlock al tavolo di Corvonero, e questo era tutto ciò che contava.
 
Abernathy lo chiamò a sedere accanto a lui, e lo aggiornò sulle ultime notizie mentre si serviva una gigantesca porzione di torta.
 
“Clarisse vuole sessioni supplementari di allenamento, una cosa del genere. Dice che ti massacrerà. Ah e dice che mollerà un ceffone a Holmes per averti fatto giocare di merda, mi pare che abbia detto così.”
 
John sospirò. Tipico di Clarisse. Non ci badò un granché, e trangugiò le sue uova con del succo di mirtilli.
 
“Vi siete parlati? Tu e Holmes. Me l’ha detto Charlie.”
 
“Hm, sì. Più o meno.”
 
Abernathy alzò le spalle, commentò con un laconico “bene” e si ficcò in bocca un boccone di torta. “Charlie non fa colazione?”
 
“Hm? No, penso che avesse tipo una riunione di Prefetti e Capiscuola.”
 
Jim Moriarty entrò in quel momento nella Sala Grande a passo tronfio, seguito da alcuni ragazzi della sua Casa. John riuscì a cogliere qualche frammento della loro conversazione: parlavano di una certa Irene… il Grifondoro gli scoccò un’occhiataccia, scosse la testa e si concentrò sul proprio piatto.
 
Moriarty era del sesto anno, come Sherlock. Benché non fosse molto attraente, era apprezzato: aveva i capelli castani tagliati in ciocche di diversa lunghezza, il naso dritto e gli occhi infossati. Era certamente un ragazzo carismatico, bastava guardare la sua postura rilassata e disinvolta, o la sciarpa verde e argento gettata con noncuranza dietro le spalle. Sherlock avrebbe notato mille altre cose, ma lui si limitava a questo.
 
Il Serpeverde teneva banco al suo tavolo quando John lasciò la sala. In quanto aspirante Guaritore il suo orario comprendeva sei corsi obbligatori, e quella mattina avrebbe seguito Antiche Rune e Difesa contro le Arti Oscure, così si avviò verso l’aula della professoressa Hudson. Di solito si sedeva accanto a Weasley, ma quel giorno il banco accanto a lui rimase vuoto.
 
All’ultimo momento, poco prima dell’inizio della lezione, Sherlock fece il suo ingresso in classe. Mentre gli passava accanto, John lo tirò per la manica della veste.
 
“Che ci fai qui? Questa è la classe del settimo anno” obiettò.
 
“Lo so. Ma al San Mungo avevo molto tempo libero, e ho studiato in anticipo il programma del sesto.”
 
“Hai imparato a giocare a Quidditch e seguito un anno di lezioni in più del normale. C’è qualcos’altro che dovresti dirmi?”
 
“Sì, ma non ora. Inizia la lezione. Se vuoi scusarmi…” Con un unico movimento fluido il ragazzo si sedette davanti a John e tirò fuori il libro dal sottobanco.
 
La professoressa Hudson era una donna sulla settantina, giovanile, spigliata, affettuosa e permalosa. John l’apprezzava benché non insegnasse molto bene la propria materia: la vecchia strega tendeva a divagare e perdersi nei meandri di un unico termine. John ricordava con esasperazione una lezione passata a spulciare sul dizionario i vari significati della parola “brisingr”.
 
Quel giorno, la prof iniziò a spiegare un autore del tredicesimo secolo, smarrendosi immediatamente nel suo rapporto difficile con la politica e i legislatori dell’epoca.
 
Mentre i ragazzi traducevano un brano con l’aiuto del dizionario, lei si accostò a Sherlock. “Holmes, so che hai seguito un corso e sostenuto degli esami” disse a bassa voce “ma non avrò problemi se deciderai di seguire le lezioni con quelli del tuo anno. Non studiamo argomenti facili, e capiremo tutti se vorrai affrontarli normalmente.” John era piuttosto convinto di non averla mai sentita parlare con quel tono mieloso e accondiscendente. Trasalì quando lei alzò lo sguardo verso di lui. “E tu, Watson, non distrarlo e non distrarti.”
 
“La ringrazio, professoressa, ma credo di potercela fare” rispose Sherlock con cortesia. “Se non le dispiace, ora vorrei eseguire l’esercizio che ha assegnato.”
 
“In tal caso, mi aspetto impegno da te” replicò la Hudson stringendo le labbra. “Non aspettarti un trattamento di favore per la tua condizione.”
 
Sherlock annuì con aria seria, per poi ridacchiare non appena la professoressa si fu allontanata.
 
Al suono della campanella, i due si avviarono insieme alla lezione successiva.
 
“C’è Difesa contro le Arti Oscure, ora.” Benché arrabbiato, John non riusciva ad evitare di parlare con il suo vecchio amico.
 
“Lo so. Il professor… Magnussen, giusto? Charles Augustus Magnussen?”
 
“Sì, esatto. Lo conosci?”
 
“Non di persona, tuttavia… le nostre strade si sono già incrociate, per così dire.”
 
“Allora sarà lieto di vederti.”
 
“Oh, sì, felice come una Pasqua.”
 
Per John, il professor Charles Augustus Magnussen era l’esatto contrario della Hudson: le sue lezioni erano indubbiamente buone, ma John non approvava affatto i suoi metodi; gli sembrava troppo rude nei confronti di alcuni studenti e troppo cortese con altri. Magnussen aveva, in pochi mesi, inquadrato i più vicini alla sua linea di pensiero e li aveva elevati a suoi prediletti. Era tanto cortese quanto pronto a svilire e umiliare con impeccabile squisitezza chi gli si volgeva contro. Gli altri insegnanti lo trattavano quasi con deferenza, e benché John avesse notato più volte il disprezzo nei loro sguardi, nessuno di loro si era mai azzardato a fargli uno sgarbo.
 
Mentre John entrava, Sherlock si bloccò sulla soglia.
 
Il suo volto era contratto. Le premature rughe agli angoli della sua bocca erano più pronunciati che mai. I suoi sottili occhi verdi erano ombreggiati dalle sopracciglia corrugate. Teneva i pugni serrati, tanto che le nocche erano sbiancate.
 
Solo per un attimo.
 
“Sherlock, va tutto bene?”
 
“Benissimo. Andiamo, Magnussen odia i ritardatari.”
 
“E tu come lo sai?”
 
“Vieni.” Sherlock lo spinse a sedere in uno dei banchi delle retrovie.
 
Quel mattino, Magnussen era particolarmente impassibile. John aveva sempre trovato molto buffo come i suoi occhi rimanessero costantemente immobili, mentre parlava; quel giorno, però, non erano vacui come al solito: erano fissi su di lui.
 
“Sherlock, il prof mi sta fissando” bisbigliò dopo un po’.
 
“Non fissa te, stupido. Sta guardando me.”
 
“Perché?”
 
“Perché sono nuovo.” La menzogna era tanto palese che neppure John ebbe difficoltà a riconoscerla come tale. Ormai, era roso dalla curiosità. Che cosa diavolo aveva fatto il suo amico durante quei due anni? Studiato, giocato a Quidditch, e poi? Sconfitto grandi maghi oscuri? Il solo pensiero lo fece ridacchiare.
 
Purtroppo per lui, Magnussen se ne accorse. “Watson, ti fa ridere il dolore da anatema?”
 
“No, signore.”
 
“Forse dovrei torturare il tuo amico e guardarti frignare perché non sai come aiutarlo, visto che la lezione ti annoia così tanto. Oh, aspetta, mi pare che sia già successo.” Il sorriso del professore non arrivava a sfiorare i suoi occhi; annuì e riprese la lezione.
 
Dopo poco, John si voltò verso Sherlock e notò che era sbiancato. “Gesù, va tutto bene? Non avrebbe dovuto menzionarti!”
 
“Non avrebbe potuto fare altrimenti.”
 
“Una buona volta, ti vuoi spiegare?”
 
“No, ora no. Voglio ritardare del più possibile il momento in cui sarò costretto a farlo.”
 
“E perché?”
 
“Perché vorrà dire che non sarò più al sicuro.”
 
 
 
 
(*) da Avversario segreto (vedi primo capitolo)
 
 
 
 
Spazio autrice:
Salve gente! Un paio di delucidazioni: non avendo mai spiegato la Rowling di cosa si trattasse durante le lezioni di Antiche Rune, ho pensato di vedere la materia come una semplice lingua antica (influenza del classico, pardon). Per tutti i fan del Ciclo dell’Eredità, spero che abbiate riconosciuto la citazione! Per chi invece non l’ha fatto, “brisingr” è una parola nell’Antica Lingua che significa “fuoco”: mi sembrava troppo stupido inventare totalmente una parola, così ne ho riciclata una già esistente… inoltre, spero che mi perdonerete com’è venuto fuori il primo dialogo tra i due: non sono per niente portata a parlare di sentimenti, in questo campo sono quasi peggio di Sherlock, temo, quindi, be’, ci ho provato in qualche modo ma… insomma.
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 5
*** Voglio vedere le tue cartelle ***


Quando mi sveglio, mi accorgo che un tizio sta curiosando nella mia stanza. Mi dà le spalle, e di lui vedo solo i lunghi ricci neri che arrivano a sfiorare il bordo del camice bianco.
 
“Ehi!” La voce mi esce roca e impastata, e sono costretta a schiarirmi la gola con un colpo di tosse. "Che ci fa lei qui? Questo reparto è riservato!"
 
Lo sconosciuto posa il mio calendario e si gira verso di me. “Sono il nuovo Guaritore tirocinante” spiega.
 
Siamo sicuri? Sembra piuttosto giovane per essere... ah, ma certo. Guaritore tirocinante, eccome.
 
“Davvero? Non pensavo si potesse iniziare il tirocinio in questo periodo dell'anno.”
 
Lui non vacilla, e prontamente risponde “Ho ricevuto un permesso speciale, per...”
 
“Risparmiami” lo interrompo. “So benissimo chi sei, Sherlock Holmes.” Con una smorfia, alzo lo sguardo verso di lui. “Ti vedevo in giro, a Hogwarts. Sedevi sempre di fronte a me a colazione e te ne restavi lì da solo per tutto il tempo. Certo che so chi sei.”
 
“E io so benissimo chi sei tu, Irene Adler.”
 
“Davvero?”
 
“No, ho solo letto il tuo nome sul cartellino affisso fuori dalla stanza.”
 
Inarco le sopracciglia. “Che ci fai qui, allora? È un reparto privato.”
 
“Potrei chiederti la stessa cosa.” La sua voce è maledettamente profonda e atona. “Che ci fa qui una… una…” Per la prima volta dall’inizio della nostra breve conversazione, pare che non sappia più che pesci pigliare; i suoi occhi sono spalancati, le sue labbra si muovono senza produrre alcun suono, sta rapidamente andando nel panico più totale.
 
“Una…?” ripeto con voce melliflua.
 
“Una… una come te. Qui. In questo reparto.”
 
“Cosa intendi con una come te?” Mi diverte mandarlo in palla, piccola vendetta per non aver riconosciuto il mio volto.
 
Ricordo bene le mie colazioni a Hogwarts. Per quattro anni mi sono seduta su una panca ad ingurgitare pancakes e caffelatte, e per quattro anni lui è stato di fronte a me – anche se in un’altra tavolata. Mentre le persone attorno a noi andavano e venivano, noi restavamo lì, io a guardarlo, lui a fare stupidi esperimenti con il succo di zucca.
 
Non si è mai accorto di me, eppure ora mi sta parlando, gesticolando a vuoto mentre tenta di mascherare la sua novella balbuzie. “Una… cioè… così.”
 
Povero cucci. Forse dovrei dargli una mano. “Sono Serpeverde, cocco bello, quinto anno. O meglio, lo sarei. Era questo che volevi dire? Che sono una Serpeverde?”
 
“Le nostre Case non ci definiscono completamente” ribatte, Merlino solo sa perché, data la totale inutilità della cosa.
 
“Oh, interessante, sei venuto qui per discutere delle scelte del Cappello Parlante? Se sì, sei pregato di andartene perché non potrebbe importarmene di meno. Se no, dimmi cosa vuoi, e vedrò di… accontentarti.” Per giocare un po’ con lui, umetto le labbra e le passo con la lingua.
 
Stranamente, lui non coglie il segnale. “Mi piace andare in giro” si giustifica.
 
“Be’, puoi passare a trovarmi quando vuoi” ritento. “Chissà, potremmo trovare il modo di intrattenerci.”
 
Nulla. Che sia gay? Davvero ho sprecato i miei quattro anni di colazioni a Hogwarts per un ragazzo gay? Ora che ci penso, c’era sempre un Grifondoro che gli gironzolava attorno, e lui ogni tanto gli parlava. No, non lo accetto. Forse è solo poco ricettivo.
 
“Non hai risposto alla mia domanda” dice.
 
“Cosa?”
 
“Ho detto, non hai risposto alla mia domanda. Perché ti trovi qui?”
 
Non mi interessa conversare dei miei problemi, tesoro, mi spiace. Sono mesi che non ho contatti con un mio coetaneo e voglio giocare. Con nonchalance, faccio scivolare una gamba fuori dalle coperte, posando a terra le dita dei piedi e tendendo il muscolo del polpaccio.
 
Sherlock pare più concentrato sulle mie tapparelle.
 
Che stia giocando anche lui? Per essere un maschio in età adolescenziale, è piuttosto bravo, ma non può sperare di battermi.
 
Passo alla tecnica del “Non fa caldo qui dentro?” e mi sbottono un po’ la camicia da notte.
 
A quanto pare è tipo un feticista delle tapparelle.
 
“Se proprio non vuoi dirmi che cos’hai, puoi almeno dirmi dove sono le tue cartelle cliniche, in modo che possa scoprirlo da solo?”
 
“Non credo” ridacchio, scendendo definitivamente dal letto.
 
Mi aggiro intorno a lui con circospezione, come una belva che studia la propria preda.
 
“Sono qui in questa stanza, vero?”
 
“Perché ti interessano tanto le mie cartelle?”
 
“Perché voglio sapere come mai Irene Adler, quindici anni, Serpeverde, è finita in una stanza singola in un reparto riservato del San Mungo e ha così poche occasioni di parlare con altre persone. Curiosità, insomma. Sei schiva, riservata, sei anche un po’ strana –senza offesa-, e quando mi hai parlato per la prima volta la tua voce non veniva tirata fuori da un bel po’ di tempo, tanto che hai dovuto tossire tre volte prima di riuscire a schiarirla del tutto.”
 
“Sono colpita. Sei davvero lo stesso ragazzo che mi ha definita una così?”
 
“Modestamente.”
 
“Non ho comunque intenzione di divulgare i miei problemi.”
 
“L’avevo capito. È anche per questo che mi interessano… Il vero tirocinante è un tipo piuttosto disordinato, vedo. Lascia sempre tutto al posto sbagliato, e tu ogni volta sei costretta a spostare gli oggetti che lui ha mollato in giro. Ad esempio” si avvicina alla mia cassettiera e spalanca il primo cassetto, quello dove tengo le riviste, “l’ultima volta ha lasciato qui i tuoi referti. Non era difficile da capire, bastava guardare con un po’ di attenzione.”
 
“No che non sono lì.” Vengo assalita dal timore. Sherlock Holmes ha ragione, il Guaritore tirocinante è impossibile, sarebbe capacissimo di aver infilato le mie cartelle in quel cassetto. La sua schiena muscolosa mi blocca la visuale.
 
“Sì, sono proprio qui. Ecco… paziente: Irene Adler.”
 
Oh, possibile che le abbia spostate proprio oggi? Di solito, bene o male, le infila sempre sotto il tavolino basso… ma sì, sta sicuramente bluffando, insomma, guarda come sogghigna, non riesce a stare nemmeno al suo stesso scherzo…
 
Aspetta, perché ora Holmes sorride in quel modo? E perché si sta dirigendo verso il tavolino basso?
 
“Grazie per avermi informato della loro posizione.”
 
“Io non ti ho detto nulla!” sbotto.
 
“I tuoi occhi l’hanno fatto, però. Ah, avevi ragione: nel cassetto non c’erano.”
 
Immobile, lo guardo dirigersi verso il tavolino e pescarvi le mie cartelle cliniche. Esita, prima di leggerle, ma alla fine si decide a farlo.
 
Ne ho abbastanza di questo ficcanaso.
 
“Irene Adler… la paziente non ha risposto alle nuove cure proposte…”
 
Non voglio che scopra…
 
“…crisi epilettica… probabilmente necessaria procedura di contenimento tra due settimane e quattro giorni – vedi calend…”
 
“Miss Adler? Irene? Va tutto bene?” Il mio Guaritore irrompe nella stanza, richiamato dal campanello che ho suonato di nascosto da Holmes.
 
“Sherlock Holmes mi sta disturbando” spiego in tono lamentoso.
 
“Chi è lei? Che ci fa qui? Ha il permesso?”
 
Sherlock non si degna di rispondere. “Reparto lungodegenti” dice invece; “non si disturbi, ci vado da solo.”
 
Oh, ma che peccato, il divertimento non è durato molto a lungo, caro mio. Lo fisso con un sorrisetto di sfida mentre esce a passo altero. Sulla porta, si volta verso di me e bisbiglia: “Tornerò a trovarti. Chissà, potremmo trovare il modo di intrattenerci.”
 
Sherlock Holmes è più intelligente di quanto pensassi.
 
Devo ammettere che la cosa mi piace.
 
 
 
 
Smaug’s cave
Buonsalve, gentaglia! Come forse avrete notato, questo capitolo è un tantino diverso dai precedenti… e questo per due motivi fondamentali: il primo, è che presto le vicissitudini di Irene ci saranno molto utili all’interno delle vicende principali; il secondo, è che, essendo un personaggio che stimo moltissimo, ho voluto darle un ruolo speciale in questa storia.
Ho voluto rifarmi al suo primo incontro con Sherlock nella serie tv, con la storia delle “cartelle cliniche nascoste”, e inoltre spero che abbiate apprezzato le allusioni a “calendari” e “riviste”, che non erano affatto casuali... *va a rintanarsi nell’angolo più buio della sua grotta*
Insomma, stiamo iniziando a scoprire qualcosa sul passato di Sherlock, la domanda che ora io mi porrei è: che diavolo ha Irene?
Vi ricordo che questa storia è successiva al periodo dei Malandrini e qualcosa potrebbe essere cambiato (e non mi spingo oltre, spero capirete comunque cosa intendo), quindi vi lascio liberi di avanzare ipotesi!
 
 

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Capitolo 6
*** Capitolo 4. ***


CAPITOLO 4.
O TRE COLLOQUI
 
 
 
“Una buona volta, ti vuoi spiegare?”
“No, ora no. Voglio ritardare del più possibile il momento in cui sarò costretto a farlo.”
“E perché?”
“Perché vorrà dire che non sarò più al sicuro.”
 
Dopo quell’affermazione, smise di fidarsi di Sherlock. Se non erano abbastanza vicini da potersi confidare qualcosa di così importante, allora che senso aveva cercare di tornare amici? La loro amicizia non esisteva più, ecco quanto.
 
Osservava il suo ex-amico da lontano, lo seguiva con lo sguardo, lo cercava con gli occhi quando non era nei paraggi, non riusciva a staccargli gli occhi di dosso, ma voltava le spalle quando questi faceva per avvicinarsi. Trovava il modo di sedersi sempre di fronte a lui durante i pasti, ma stava ben attento a non incrociare mai il suo sguardo. E provava sempre una stretta allo stomaco nel vederlo.
 
A volte, nemmeno lui comprendeva il motivo del proprio comportamento: e se si fosse trattato di puro desiderio di vendetta? Del resto, lui non l’aveva perdonato, quindi perché Sherlock avrebbe dovuto fidarsi? Forse Sherlock pensava le stesse cose, pensava perché confidarmi se John non capisce che non posso spiegargli tutto? Era tutto talmente complicato.
 
Circa una settimana dopo il ritorno e la fatidica partita di Quidditch, Mary Morstan lo bloccò all’uscita di Pozioni.
 
“Watson!” lo chiamò, guadagnandosi un’occhiataccia da parte del professor Piton.
 
Aveva uno sbaffo d’inchiostro sul naso e gli occhi da panda: doveva essersi stropicciata gli occhi, stendendo l’eyeliner dappertutto; tuttavia, a John parve molto carina. Il ragazzo si fermò e la aspettò per fare insieme la strada dai sotterranei alla mensa.
 
“Come va?” le domandò cortesemente.
 
“Oh. Bene, grazie. E tu?”
 
“Bene.”
 
Ci fu una pausa.
 
“Senti, Watson.” Mary aprì un paio di volte la bocca senza emettere alcun suono; alla fine, roteò gli occhi e sospirò: “Ok, smettila di fare la donzella ferita. Holmes ha commesso degli errori, sì, lo sappiamo tutti, ma tu devi ritornare a parlargli e fare pace.”
 
“Se ha resistito due anni senza dirmi nulla, potrà aspettare un altro po’.” Ciononostante, John sapeva benissimo che Mary aveva ragione: il suo comportamento era infantile, e doveva superare l’arrabbiatura. A quanto ricordava, Mary Morstan aveva sempre ragione. Frequentavano insieme le lezioni da sette anni, ormai, anche se nessuno dei due si era mai davvero sforzato di stringere amicizia con l’altro. Tralasciando la loro breve conversazione sul campo da Quidditch e occasionali frasi di circostanza, John non le parlava da quella fatidica notte di Capodanno: la figura di lei era troppo strettamente connessa alla tragedia di quella sera.
 
“Ma lo farai? Gli parlerai?”
 
“Perché ti interessa tanto?” Gli dispiaceva essere sgarbato, ma non vedeva altro modo di reagire. E poi, tendeva a diventare leggermente suscettibile quando si trattava di Sherlock Holmes.
 
“Perché Holmes è mio amico –in senso lato, almeno-… e sì, anche tu sei mio amico, siamo in classe insieme da anni, ormai, e conosco abbastanza bene entrambi per capire che ci state male, per quello che sta succedendo. Lui ci prova, Watson, a fare pace con te, ma tu devi permetterglielo! Ti professi tanto suo amico, e allora dovresti esserlo abbastanza da permettergli di essere come è, senza pretendere troppo da lui!”
 
John sbuffò. “Bene” disse in tono piatto. “Bene, devo accettare che dalla sua amicizia non ricaverò mai nulla, bene.”
 
“Lo sai che non è così! non è quello che intendevo, altrimenti non saresti stato suo amico per così tanto tempo! Be’, io te l’ho detto, e non aspettarti che sia l’unica a farlo!” si spazientì lei.
 
John era infastidito, tuttavia le parole di lei lo avevano toccato: ea stato piacevole sentirsi definire suo amico, perché in fondo sentiva di voler bene a quella ragazza schietta e decisa, che conosceva da quando aveva undici anni, e con cui non aveva mai avuto un vero rapporto.
 
Solo dopo essersi separati si chiese cosa lei intendesse con “non aspettarti che io sia l’unica a farlo”. Intendeva solo che tanti avrebbero cercato di rimediare alla situazione? Ma davvero così tante persone si preoccupavano dei suoi sentimenti? Era imbarazzante. E se fosse stata inviata da qualcuno, per vedere se poteva essere convinto già da una semplice compagna di classe?
 
Quest’ultima ipotesi gli venne in mente il giorno dopo, mentre si recava nell’ufficio del Preside. Stava studiando in biblioteca quando Madama Pince era venuta a portargli un biglietto accuratamente ripiegato.
 
Caro signor Watson [recitava], sarei lieto se lei potesse raggiungermi nel mio ufficio questo pomeriggio alle 4.
Albus Silente
Ps: la parola d’ordine è “Puffskein”
 
John non aveva connesso subito le due cose: inizialmente, aveva pensato che il Preside lo avesse convocato per parlare del Quidditch, o dei suoi voti scolastici, o di qualche crimine che non aveva commesso. Insomma, non è da tutti i giorni essere invitati da Albus Silente per discorrere del proprio problematico migliore amico. Questa possibilità gli venne in mente mentre attraversava i corridoi di pietra della scuola, da solo, rimuginando e preoccupandosi a morte.
 
Fu col cuore in gola che gracchiò “Puffskein” ai due gargoyle di guardia.
 
Entrò in una sala circolare, piena di oggetti ticchettanti dall’aria delicata e ritratti di vecchi Presidi che lo fissavano con insistenza. Gli ci volle un attimo per individuare quello attuale, seduto alla scrivania proprio di fronte alla faccia di Armando Dippet.
 
“Buongiorno” gracidò.
 
“Ah, buongiorno signor Watson. È puntuale, vedo. Bene, bene. Prego, si sieda.”
 
John si accomodò sul bordo della sedia che gli veniva offerta, tormentandosi il bordo del maglione con dita sudate. L’intera stanza lo metteva in soggezione, come qualsiasi cosa al suo interno, a cominciare in particolare dagli occhi incredibilmente azzurri di Silente. Quelli erano la cosa più spaventosa di tutte.
 
“Voleva vedermi?” Si pentì di aver pronunciato queste parole un attimo dopo averle emesse. “Voleva vedermi?”! No, certo che no. Mi ha mandato un biglietto per divertimento.
 
“Ah, sì. Gradisce del tè, signor Watson? Uno zenzerotto? Forza, ne prenda uno.”
 
John afferrò il biscotto con la punta delle dita e ne addentò un boccone minuscolo.
 
“Bene, John. Posso chiamarti John vero? Sei un mio studente, dopotutto.”
 
“Sì, signore.”
 
“Bene, bene. Dunque, John, sai di cosa voglio parlarti?” domandò il Preside tranquillamente.
 
“No, signore.” Si trattenne dai dire: “Le mie schifose prestazioni alla partita di Quidditch?”
 
“Di Sherlock Holmes.”
 
John rimase in silenzio, senza sapere bene cosa replicare e attendendo che il suo interlocutore proseguisse.
 
“In questa settimana” continuò Silente, “io e altri professori abbiamo tenuto d’occhio il tuo giovane amico, che rappresenta per noi un caso di non scarsa rilevanza. Noi tutti sappiamo bene cosa gli è successo quasi due anni orsono… e sappiamo anche quanto è stato difficile per te. Nonostante ciò che la maggior parte degli studenti potrebbe pensare, Hogwarts ha a cuore i suoi alunni, e in questi due anni siamo sempre stati pronti a sorreggerti nel caso ti avessimo visto crollare, ma ciò non è successo. Abbiamo notato delle modifiche nel tuo comportamento, ma hai sempre tirato avanti a testa alta, e non hai mai cercato la compassione o la pena degli altri.”
 
John non capiva dove il Preside volesse andare a parare.
 
“Sei un buon Grifondoro, John Watson; incarni tutte le buone qualità che uno studente della tua Casa dovrebbe possedere: sei caparbio, energico, coraggioso. E io conto proprio su questo, perché non credere che ti chiederei un favore di tanta importanza se non avessi la piena fiducia nelle tue capacità. Ho fede che riuscirai a non perderti d’animo nemmeno questa volta. Credi di potercela fare?”
 
“Non mi ha ancora detto cosa vuole da me, signore.” John iniziò a spezzettare il suo biscotto in tanti piccoli frammenti. Aveva stima di Silente: sapeva che le sue non erano state blande parole di adulazione, al solo scopo di manovrarlo, il Preside credeva veramente in ciò che diceva; era uno dei lati positivi dei Grifondoro, loro non erano mai –o quasi- subdoli o manipolatori.
 
“Quello che ti chiedo è di proteggere Sherlock Holmes.”
 
“È stato lei a mandare Mary Morstan a parlarmi, vero?”
 
“Sì e no. Sì, perché effettivamente le ho chiesto io di farlo. No, perché lei ti ha detto la verità dall’inizio alla fine, aveva solo bisogno di essere incoraggiata ad esprimerla.”
 
“E quando lei le ha detto di non essere riuscita a convincermi, mi ha fatto convocare.”
 
“Sì, è andata così. Ma avevo previsto questa possibilità già dall’inizio. So che per te è difficile quanto lo è per lui, ma so anche che con un po’ di impegno potrai riavvicinarti a lui e fare ciò che ti prego di fare. Non sopravvalutare Sherlock Holmes, è un ragazzo di sedici anni e non ha altri amici che te, è in difficoltà e cercare di colpirlo con i Bolidi non aiuta.”
 
John arrossì. “Mi scusi.”
 
Il Preside ridacchiò. “Non ti devi scusare con me, anche se ci terrei a vedere Grifondoro portare a casa la Coppa, quest’anno. Quel che cerco di dirti è: non abbandonarlo. Sherlock Holmes non può perdere la sua unica figura di riferimento.”
 
“Io non… non avevo intenzione di abbandonarlo.”
 
“No, però non sei riuscito ad accettare completamente ciò che i due anni di distanza hanno comportato. Devi riuscire a passarci sopra, perché Sherlock è quanto mai fragile, e ha bisogno di poter contare tu di te. So che vorresti che ti raccontasse tutto di questi due anni in cui siete stati lontani, ma devi accettare che ha bisogno di tempo per aprirsi. Sei suo amico, sai quanto può essere introverso e chiuso -è come un riccio- e sai anche, nel profondo, che prima o poi con te si confiderà. Devi avere pazienza.”
 
“Va bene, signore.”
 
“Devi promettere che ti prenderai cura di lui.”
 
“Glielo prometto.”
 
“Non a me, John! Non devi farlo solo perché te lo chiedo io, ma perché sai che è la cosa giusta da fare, e sai che anche tu ne ricaverai qualcosa di buono.”
 
“Oh. Mi scusi. Be’, lo prometto.”
 
“Contiamo tutti su di te. E non credere che sarai solo, in molti vorranno aiutarti. A cominciare dalla signorina Morstan, per esempio.”
 
Tenere d’occhio Sherlock, facile, sì. Fare in modo che non si mettesse nei guai, un po’ meno facile.
 
Il terzo colloquio di quei due giorni si tenne in Sala Grande, che John stava attraversando per ritornare in Sala Comune.
 
“John? John Watson?” si sentì chiamare.
 
Una ragazza avvolta nella sciarpa blu-e-bronzo di Corvonero gli correva incontro. Indossava una larga divisa maschile e portava i lunghi capelli castani raccolti in una coda. John la riconobbe immediatamente: era Molly Hooper, capitano della squadra di Quidditch di Corvonero.
 
Decise che, delle tante persone che avrebbero potuto fermarlo, Molly Hooper non figurava nella lista delle peggiori.
 
“Scusa, puoi…”
 
“Fammi indovinare: vuoi parlarmi di Sherlock.”
 
La ragazzina avvampò. “Sì. Come lo sai?”
 
“Sembra che negli ultimi tempi sia un argomento molto gettonato… avanti, dimmi.”
 
“Ecco, io volevo chiederti…” Molly si torceva nervosamente le mani. “Secondo te Sherlock… cioè lui…”
 
“Che cosa?” la spronò lui.
 
“Accetterebbe se… se lo invitassi a venire a Hogsmeade con me? Ti prego, non dirglielo… non voglio che sappia che te l’ho chiesto…”
 
Per poco John non si era strozzato con la sua stessa saliva. Sherlock – a Hogsmeade – con Molly Hooper. Cercò di visualizzare l’amico accanto alla ragazza, senza risultato.
 
“Vuoi chiedergli di uscire?”
 
“Voglio solo sapere se accetterebbe.”
 
John rifletté. Sherlock non aveva mai fatto commenti di apprezzamento né sugli uomini né sulle donne, e John non aveva idea se si sentisse attratto dagli uni o dagli altri, o da entrambi o da nessuno dei due. Anche nel caso che fosse etero, Molly Hooper non sembrava esattamente il suo tipo, era troppo… normale. Era una brava ragazza, certo, ma non era nulla di speciale, non poteva rappresentare un’attrattiva per lui. Con un tuffo al cuore, si rese conto che quella descrizione calzava a pennello anche su di lui, John. Lui non era nulla di speciale, era un ragazzo del tutto normale. Sherlock non sarebbe stato attratto da lui per nulla al… comunque. Non voleva rispondere di no a Molly, però voleva farlo. Desiderava dirle che Sherlock non sarebbe mai uscito con lei, perché la sola idea era… strana. Sì, John Watson, genio dei sentimenti, decise che sarebbe stato strano.
 
“Mi spiace, non lo so. Penso che dovresti parlarne direttamente con lui, buttarti e chiederglielo… mi spiace davvero, ma non so…” con la voce che si affievoliva sempre più, John si scansò da una Molly Hooper delusa e imbarazzata e corse di filato ai dormitori.
 
Decise di dimenticare completamente quell’argomento per un po’ e di studiare qualche materia a caso. Aprendo il cassetto dove teneva i testi scolastici, i tre libri che Sherlock gli aveva regalato gli saltarono immediatamente all’occhio. Erano consunti, ormai, e un po’ stropicciati; uno aveva le pagine gonfie dopo essere caduto accidentalmente nel lavandino.
 
John aveva pensato molto al loro significato, in quegli anni. Uno parlava di amicizia, un altro di avventura, ma il terzo… quasi senza accorgersene, lo prese in mano per sfogliarlo, per sentirne ancora vivi e pulsanti i ricordi e le emozioni che trasmetteva.
 
All’interno della raccolta di poesie di Th. S. Eliot c’era un frammento di pergamena.
 
Mary mi ha raccontato tutto. Possiamo parlare?
Sherlock
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Ho davvero il terrore di non essere riuscita a caratterizzare in modo decente i personaggi, Mary soprattutto, visto che è in assoluto il mio personaggio preferito e ci tengo moltissimo. Sì, shippo Johnlock e adoro Mary, lo so che è assurdo… e, a proposito di Johnlock… direi che la genialità di John (“strano”) si commenta da sola. E spero davvero che abbiate riconosciuto i “sintomi” del secondo paragrafo.
 
 
 

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Capitolo 7
*** Capitolo 5. ***


“Sta’ zitto, sono io” sussurrò Sherlock.
 
Istintivamente, John afferrò la bacchetta e mormorò “Lumos.” Una flebile luce si accese nella stanza.
 
Era notte fonda. I suoi compagni di stanza dormivano profondamente.
 
Il suo amico era proprio accanto a lui. Le ombre giocavano con i suoi lineamenti spigolosi, la luce si perdeva nei liquidi occhi verdi che lo fissavano con impazienza.
 
“Che ci fai qui, idiota?” bisbigliò John, trattenendosi dall’urlargli addosso.
 
“Vieni fuori, ti spiego.”
 
John tentò di domare l’imbarazzo di avere l’altro ragazzo in camera in piena notte. Tentando di coprirsi il petto nudo come una verginella, incespicò fino alla sedia dove teneva i vestiti; si abbottonò la camicia e il maglione verde sformato che usava come vestaglia, indossò i pantaloni della divisa, infilò le scarpe e seguì Sherlock fuori dal dormitorio.
 
Tutti i camini della Sala Comune erano spenti. Attraversando la stanza, gli parve di vedere delle piccole figure muoversi negli angoli e fra i divani, ma non si azzardò ad indagare.
 
Mentre lui tremava di freddo, l’amico, che indossava solo un mantello sopra la camicia, non sembrava soffrirlo minimamente.
 
Oltrepassò il buco del ritratto, notando che la Signora Grassa si era già riappisolata. Persino i quadri alle pareti dormivano profondamente.
 
Il Corvonero si appoggiò contro il muro, un ghigno a deformargli il volto.
 
“Come hai fatto ad entrare nella mia Sala Comune?” sbottò John a bassa voce, azzardandosi finalmente a parlare.
 
“Oh, non è stato difficile. Sai, essere me ha i suoi vantaggi.”
 
“Sherlock.”
 
“Uno dei miei amici è Grifondoro e mi ha detto la parola d’ordine” ammise l’altro.
 
“Non avevo dubbi… allora forza, perché mi hai tirato giù dal letto nel cuore della notte?”
 
“So che magari ti sembrerà un po’ strano, così tutto di fretta, ma…”
 
“Oh, Sherlock, ti amo anche io, ma penso sia un po’ presto per pensare al matrimonio” scherzò John, ancora irritato per essere stato svegliato.
 
“Dunque, è una cosa che aspetto di fare da un bel po’, quindi sta’ zitto e ascolta e non mi interrompere: un paio di anni fa stavo gironzolando per il castello, quando mi sono accorto che c’era una stanza in meno…”
 
“Una stanza in meno? In che senso?”
 
“Zitto e ascolta, ho detto. È in un corridoio con tante stanze, ma a me sembrava che ne mancasse una, c’era lo spazio e non la porta. Ho controllato battendo sul muro, e in effetti all’interno suonava vuota, così ho provato qualche incantesimo e la porta è apparsa. Non è stato difficile. Sai, revelio e cose simili. Non ho fatto in tempo ad esaminarla con cura perché… be’… ma credo che Gazza ci tenga dentro oggetti confiscati agli studenti. Volevo darci un’occhiata.”
 
“Ci sono le pattuglie nei corridoi” obiettò John.
 
“Si dà il caso che io ricordi ancora i loro giri abituali, a parte quello di Magnussen, che però stanotte non è di ronda. Oh, apprezzo come tu non abbia obiettato che non si può. Forza, è ora di muoverci se non vogliamo farci beccare dalla McGranitt.”
 
Senza nemmeno aspettare un consenso, afferrò il polso di John e iniziò a correre.
 
Oh dio, ci era ricascato. Sherlock l’aveva trascinato dentro a una delle sue folli avventure, e lui non aveva replicato “no, non si può”, si era lasciato subito convincere. Come aveva potuto?
 
Le dita che stringevano il suo braccio vibravano. John ricordò che quelle dita erano le stesse che aveva visto contrarsi per il dolore in quella fatidica notte e rabbrividì.
 
Sherlock rallentò la corsa, ma mantenne una camminata veloce e costante; guidava John lungo i corridoi labirintici del castello di Hogwarts come se li conoscesse a memoria, cosa che probabilmente era vera.
 
La luce delle loro bacchette non arrivava oltre la punta del lungo naso di John, che per mancanza di altra visuale si dedicava ad osservare il suo compagno. I ricci di Sherlock gli incorniciavano il colto scarno e spigoloso, e c’erano due piccole rughe ai lati dei suoi occhi che John non aveva mai notato. Quel piccolo segno delle sue passate sofferenze non faceva che renderlo più attraente.
 
“Quinto piano” bisbigliò Sherlock, e John si riscosse dalle sue fantasticherie. “Vedrai, se ho ragione è una miniera d’oro.”
 
Vagare per il castello di notte era tanto pericoloso quanto esaltante. Era necessario fare attenzione alle scale mobili, ai professori, ai fantasmi, ai gargoyle, ai ritratti... oltre che al famigerato Poltergeist di Hogwarts, Pix.
 
Sherlock camminava a passo felpato, senza quasi far rumore. John cercava di imitarlo per quanto possibile, data la sua eleganza da rinoceronte, ma gli pareva che i suoi passi rimbombassero per i corridoi.
 
Ad un certo punto, il Corvonero afferrò l’amico per un polso e lo spinse all’interno di una stanza vuota, mormorando contemporaneamente “Nox.” Lo trascinò nell’angolo più scuro dell’aula e gli posò una mano sulle labbra, in segno di avvertimento.
 
John poté solo udire il proprio respiro affannoso per un paio di minuti, dopodiché si sentirono dei passi cadenzati nel corridoio.
 
Si sforzò di non fare caso alle dita sottili e affusolate strette intorno al proprio braccio o posate sulle sue labbra.
 
Trattenne il fiato e si appiattì contro il muro. Un’ombra si proiettò sulla soglia dell’aula, vagamente visibile alla luce della bacchetta. Poi passò oltre.
 
Quando ripresero la loro camminata, John quasi rischiò di svegliare tutti gli abitanti di un quadro andandoci a sbattere contro, ma fortunatamente Sherlock lo tirò via in tempo dalla traiettoria di collisione.
 
“Tra quattro minuti passerà Gazza” disse il ragazzo corrugando le sopracciglia. “Siamo in ritardo, muoviti.”
 
Attraversarono un ponticello di pietra sospeso nel vuoto e si immisero in un lungo corridoio su cui si apriva una serie regolare di porte. O meglio, quasi regolare. Era come se ne mancasse una…
 
“È qui. La porta.” sussurrò Sherlock.
 
“Qui non c’è niente” contestò John.
 
“Non essere stupido, John, lo vedi benissimo anche tu che dovrebbe esserci una stanza che invece non c’è. È protetta da un incantesimo.”
 
Dopodiché, puntò la bacchetta contro il muro e scandì un incantesimo: “Detego occultum!”
 
Nella parete apparve una porticina di legno consunto, che Sherlock aprì con una leggera spinta. La stanza in cui entrarono era piccola, ricoperta di muffa; era quasi interamente occupata da un grosso armadio di mogano scuro, alto, con cassetti, ante, e teche protette da lastre di vetro. John procedette all’interno della sala con stupore crescente. I mobili accostati alle pareti erano coperti da uno spesso strato di polvere, e sugli angoli erano state intessute diverse ragnatele, più o meno grandi. I ragni dovevano essere lì da qualche parte, nascosti, irritati dalla luce.
 
Alohomora.”
 
Si udì uno schiocco metallico: Sherlock aveva spalancato uno sportello dell’armadio e aveva iniziato a curiosarci dentro. John lo raggiunse per dedicarsi a un cassetto più in basso.
 
Trovò una stecca di sigarette Babbane, che intascò immediatamente (potevano tornare utili per far colpo su qualche ragazza), un vinile dei Rolling Stones, un cappello che si trasformava in coniglio e un uovo smaltato in colori vivaci che emetteva uno strano ticchettio. Lo prese fra le mani e lo studiò senza capire di cosa si trattasse; lo picchiettò con un’unghia, ma quello continuava a pulsare come un piccolo cuore metallico. Per sicurezza, lo ripose nel cassetto e lo coprì con un paio di libri dalla copertina rosa con su scritto “Armony”.
 
“Avevi ragione, questa è tutta roba confiscata.”
 
“Guarda cos’ho trovato” disse Sherlock. Gli mostrò una semplice pergamena consunta, completamente bianca. Secondo te che cos’è?”
 
“Se è stato ritirato, non può trattarsi di un semplice foglio bianco… forse il contenuto è stato occultato.”
 
 “Revelio.” Sherlock pronunciò l’incantesimo tenendo la bacchetta puntata sulla pergamena.
 
Una mano invisibile tracciò dei segni a inchiostro verde sulla carta.
Il signor Ramoso prega cortesemente il signor Holmes di non ficcare il naso negli affari altrui.
Il signor Felpato aggiunge che, in una scala di nasi, quello del signor Holmes è secondo solo a quello del signor Watson.
Il signor Codaliscia specifica che, in effetti, sarebbe difficile superare in lunghezza il naso del signor Watson.
Il signor Lunastorta conclude giustificando la passione per i nasi dei propri colleghi, e ci tiene a dire che, in quanto a lunghezza, anche i capelli del signor Holmes avrebbero bisogno di una spuntatina.
 
John scoppiò a ridere, per nulla offeso dai commenti sul proprio naso, mentre Sherlock si accigliò e se lo strofinò nervosamente. “Non riesco a capire come funziona” disse.
 
“Be’, è evidente che questi tizi volevano solo divertirsi un po’ con il primo che capitava.”
 
“Non è detto che esistano.” Sherlock continuava a rigirarsi la pergamena tra le mani. “Non capisco… come conosce i nostri nomi?”
 
“Ti sei rimbecillito? Siamo a Hogwarts, genio. Sai. La scuola di magia.”
 
“Sì ma non è che siccome siamo a Hogwarts improvvisamente le pergamene possono essere dotate di intelletto.”
 
“Sei geloso?” lo prese in giro John.
 
“No che non sono geloso.”
 
“Magari nasconde qualcosa.” John strappò la pergamena di mano all’amico per esaminarla. “Revelio! Detego occultum!”
 
I versi di scherno non volevano scomparire.
 
“Oh, andiamo ragazzi, non sono mica un professore, potete fidarvi di me” scherzò il ragazzo.
 
Le parole svanirono dalla carta.
 
“Santo, Merlino, hai visto?” esultò John. “Avevi ragione! Hanno capito! Proviamo a dirgli qualcos’altro… Oh, insomma, volevate solo insultarci? Dai ragazzi… Sherlock, aiutami…”
 
“Mostrateci quello che nascondete. Uhm… marrani.”
 
John scoccò un’occhiata divertita a Sherlock, ridacchiando al suo patetico tentativo. “Direi che se avete qualcosa da nascondere potreste anche mostrarla a due poveri studenti che vagano per il castello…” scherzò poi.
 
All’improvviso sottili righe d’inchiostro cominciarono a spuntare come una ragnatela unendosi, incrociandosi, allargandosi in tutti gli angoli della pergamena. Parole presero a fiorire in testa alla pagina, grosse parole verdi e aggraziate.
 
GIURO SOLENNEMENTE DI NON AVERE BUONE INTENZIONI.
 
“E ora?” chiese Sherlock, visibilmente eccitato. “Tutto qua? Che dobbiamo fare?”
 
“Giuro solennemente di non avere buone intenzioni” ripeté John in un soffio.
 
I SIGNORI LUNASTORTA, CODALISCIA, FELPATO E RAMOSO
CONSIGLIERI E ALLEATI DEI MAGICI MALFATTORI
SONO FIERI DI PRESENTARVI
LA MAPPA DEL MALANDRINO.
 
Era una mappa che mostrava ogni particolare del castello e del parco di Hogwarts. Ma la cosa davvero sorprendente erano le minuscole macchie d’inchiostro che si muovevano sulla carta, ciascuna contrassegnata da un piccolo cartiglio.
 
John notò che Sherlock era a dir poco estasiato dall’immenso genio di quei quattro, ipotetici individui.
 
“Guarda! Siamo noi, qui! E qui c’è Gazza, è davanti all’aula di Vitious. Sherlock, forza, fammi un applauso, sono un genio!”
 
“Lo so dov’è l’aula di Vitious.”
 
John roteò gli occhi. “Perché non la proviamo?”
 
“Vuoi spiare qualcuno?”
 
“Possiamo andare in giro per il castello senza problemi!”
 
“L’abbiamo appena fatto. Lo facciamo da anni.”
 
“Sì ma sarà molto più semplice! Dai, proviamo!”
 
In fretta e furia Sherlock si infilò nelle tasche il maggior numero di oggetti sequestrati che riuscì a prendere, prima che John lo trascinasse fuori dalla stanza.
 
John teneva la punta della bacchetta incollata alla mappa, strizzando gli occhi nel tentativo di leggerla alla luce fioca.
 
Si diressero verso la torre di Astronomia, per poi tornare giù a rubare qualcosa nelle cucine.
 
Erano al secondo piano, vicini alla scala che li avrebbe portati in Sala grande, quando, improvvisamente, John notò qualcosa che gli fece raggelare il sangue.
 
“Sherlock! Sherlock! Sta arrivando Magnussen!”
 
“Dov’è?” chiese Sherlock con calma.
 
“Ci scontreremo all’imbocco di questo corridoio, sbucherà appena prima della scala che dobbiamo prendere! Se torniamo indietro ci vedrà di sicuro con la luce della bacchetta!”
 
Sherlock esitò, poi afferrò il polso del compagno e cominciò a correre, tentando di raggiungere la scala prima di incontrare il controllore. “Non dovrebbe essere qui!” borbottava. “Mi ha scombinato tutto! Sia benedetta questa mappa.”
 
Non gli ci volle molto per superare il corridoio da cui sarebbe apparso Magnussen, ma quando il rumore dei suoi passi si fece troppo vicino, furono costretti a fermarsi perché non lo sentisse. Il bagliore azzurrino che preannunciava l’arrivo del professore era sempre più accecante, nel buio della notte.
 
John non osava respirare. Quando finalmente l’uomo si immise nel loro corridoio, la luce della sua bacchetta non sfiorava di poco i corpi dei due ragazzi.
 
Erano congelati, immobili, spaventati a morte. Se Magnussen si fosse diretto verso di loro, li avrebbe scovati in pochi secondi.
 
Il professore guardò da entrambe le parti, pensieroso. John credette di svenire quando i suoi occhi si posarono inconsciamente su di lui. E, cosa ancora peggiore, non trovava più Sherlock, che doveva essere indietreggiato ancora.
 
Magnussen si voltò definitivamente verso di loro.
 
Un arazzo prese fuoco dall’altra parte del corridoio.
 
Mentre il professore correva in quella direzione, tendando di domare l’incendio gridando “Aguamenti!”, John si sentì tirare per la manica del maglione e percorse finalmente i pochi passi che lo separavano dalla scala a chiocciola.
 
Si fermarono, ansanti, appoggiati alle pareti della Sala Grande. John tese l’orecchio, ma Magnussen ormai doveva essersi diretto dalla parte opposta. “Mai avuto più fortuna” commentò. “Se quell’arazzo non fosse andato… tipo… in autocombustione…”
 
“Non l’ha fatto. L’ho incendiato io.”
 
“Vuoi dire che hai lanciato un incantesimo senza pronunciarlo?”
 
“Santo cielo, John, siamo al settimo anno, ormai è una cosa che dovremmo saper fare da tempo!”
 
“Sì, ma tu…” John non sapeva come proseguire senza che le sue parole risultassero sbagliate, così decise di bloccarsi. Non desiderava altre incomprensioni. E questo gli fece venire in mente una cosa: “Il biglietto. Quello con su scritto dobbiamo parlare, come sapevi che l’avrei trovato?”
 
Ma già mentre pronunciava quella domanda, capì: i libri di Sherlock rappresentavano parti del suo legame con lui; finché John fosse stato arrabbiato, non avrebbe potuto tollerarne nemmeno la vista, e a maggior ragione non li avrebbe mai sfogliati. Invece, una volta iniziata ad accarezzare l’idea di una riappacificazione, sarebbe emersa la nostalgia, e lui sarebbe ritornato ad aprire quei volumi, come una rilegittimazione del loro rapporto.
 
Il viso dell’altro si illuminò di contentezza. “Hai trovato il biglietto? Non pensavo l’avessi già fatto… non credevo che sarebbe accaduto così presto…” borbottò poi fra sé e sé; quindi credeva che ci sarebbe voluto un altro po’ di tempo, e in effetti se non fosse stato per quei tre colloqui –soprattutto quello con Molly- John non avrebbe mai provato l’impulso di guardare quei libri. “Per curiosità, qual era?”
 
“Cosa intendi?”
 
“Ne avevo messo uno dentro a ogni libro per andare sul sicuro, quale hai trovato?”
 
Questo significava, dunque, che Sherlock non sapeva quale libro John avrebbe sfogliato per primo, e lui era riluttante ad ammettere la verità. “Cicerone” mentì.
 
Era solo una questione di casualità, oppure anche Sherlock era consapevole della loro valenza? Se riprendere in mano quei volumi rappresentava il desiderio di riallacciare i vecchi rapporti, John avrebbe sicuramente allungato la mano per prima cosa verso quello per lui più significativo: Cicerone rappresentava sicuramente la loro amicizia, Agatha Christie erano le loro avventure, ma Eliot… quale lato di loro era Th. S. Eliot? John, che era sempre stato molto dubbioso riguardo al vecchio poeta, ora si sentì avvampare: c’erano stati quei piccoli momenti d’imbarazzo, quei brevi sprazzi di consapevolezza, ma mai prove così lampanti… la sfera sentimentale, quella volubile, irrazionale, impulsiva, istintiva, non era neppure contemplabile, il solo pensiero era assurdo… eppure, John aveva scelto le Poesie
 
Il sorriso di Sherlock parve affievolirsi un po’, poi ritornare raggiante, e infine spegnersi del tutto. “Quindi immagino che vorrai… ehm, parlare.”
 
“Pensavo che fossi tu a dover dire qualcosa.”
 
“Ah, già. Quindi hai detto Cicerone.”
 
“Proprio lui.”
 
“Cicerone, perfetto. Be’, in tal caso… John, noi eravamo molto amici, e io considero la nostra amicizia una delle cose più importanti al mondo, e desidererei che continuasse ad esistere.
 
“Tu vuoi che io ti perdoni, lo so. Stavolta hai una spiegazione?”
 
“No, te l’ho già detto, non esiste spiegazione. No, non mi interrompere. Non posso dirti perché non mi sono più fatto vivo e non ho risposto alle tue lettere, ma posso assicurarti” si morse nervosamente un labbro “che non ti deluderò di nuovo, non commetterò lo stesso errore.”
 
“Ah sì? E come posso esserne certo io? Mh?”
 
“Devi fidarti di…”
 
In quel momento, la stridula voce gracchiante di Pix il Poltergeist riecheggiò nella sala. “Studenti! Studenti fuori dai letti! Proooooooof! Ci sono studenti in Sala Grande… proooooooof…” il suono, simile allo squillo di una tromba disarmonica, si affievoliva man mano che il folletto si allontanava per il corridoio.
 
Sherlock guardò la mappa, spostando convulsamente la bacchetta nel tentativo di fare luce. “Merda. Stanno convergendo verso di noi. Presto, John, prendi la mappa e scappa! Dall’uscita della Sala Grande, il corridoio verso Grifondoro sarà ancora libero per qualche secondo!”
 
“No, scherzi? Non ti mollo qui!”
 
“Ma ti espelleranno!”
 
“Espelleranno anche te! È colpa mia, sono stato io a cacciarti in questo casino!”
 
“Non è colpa tua, John, sono stato io, tu non andavi in giro di notte prima che tornassi io… non ti porto altro che guai, hai ragione, sono un disastro…”
 
“No, no, Sherlock… Sherlock. Non è affatto vero. Tu non porti guai e non sei un disastro, sei il mio migliore amico e non hai mai smesso di esserlo, ok? E correre questo genere di rischi con te è la cosa migliore che abbia mai fatto, qui a Hogwarts! E anche se verremo espulsi non potrei desiderare di meglio… e considerato tutto questo sì, certo che ti perdono!”
 
Quando Sherlock Holmes alzò lo sguardo, che finora aveva sempre tenuto a terra, John Watson si accorse che aveva le lacrime agli occhi.
 
 
 
 
 
 


Smaug's cave
Ammettetelo. Quando John ha detto "Oh, Sherlock, ti amo anche io" avete perso un battito.
Ok, forse no. A me però è successo, rileggendo il capitolo prima di pubblicarlo. Ho pensato "Ommieidei che cazzo ho scritto?! ... ah, no. Stava scherzando."

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Capitolo 8
*** La belva in gabbia ***


 
Temo che Sherlock Holmes abbia preso troppo seriamente il mio invito ad andarsene, due settimane fa. Da allora, non l'ho più visto.
 
Ho pensato spesso a lui. Mi sono chiesta cosa voglia dire quel ragazzo per me, ma non sono riuscita a trovare una risposta. Una volta, a Hogwarts, lui era il giovane Corvonero che mi faceva compagnia nella mia solitudine. Ora, mi ha tenuto compagnia nel mio isolamento. Credo, col senno di poi, che fossimo destinati ad incontrarci. Non potrei spiegare in alcun altro modo una situazione.
 
Coincidenze, potrebbe dire qualcuno.
 
No. Raramente l’universo è così pigro.
 
Così, un pomeriggio, decido di cercarlo. Lui stesso ha rivelato di essere nel reparto lungodegenti, non molto distante da me. Io e lui siamo sempre stati vicini.
 
Lo trovo in fretta: è in una camera singola, come la mia, e dorme profondamente.
 
Non voglio svegliarlo. Sorride pacificamente nei suoi sogni, e non desidero turbarlo.
 
Trascino accanto al suo letto una delle sedie dei visitatori e avvicino il mio viso al suo, sfiorando i suoi zigomi affilati con il mio naso.
 
Se io fossi un’altra, se lui fosse un altro, non mi permetterei mai. Ma Sherlock Holmes e Irene Adler sono diversi da chiunque altro, sono due adolescenti adulti che hanno sperimentato ogni sofferenza nella loro lunga, breve vita; non sono due sconosciuti, sono due stelle vicine, troppo lontane per toccarsi.
 
Io voglio toccare la mia stella.
 
Non lo farei nemmeno se fosse sveglio, naturalmente.
 
Se fosse sveglio lo guarderei con scherno, inarcherei le sopracciglia, mi comporterei in modo freddo e distaccato, esattamente come farebbe lui. Resteremmo lontani con la mente e con il corpo, i miei tentativi di seduzione andrebbero a vuoto e nessuno dei due farebbe una piega.
 
Dolcemente, arrotolo una ciocca dei suoi capelli ricciuti attorno al mio dito. Sono ancora umidi e freschi, deve esserseli appena lavati, odorano di limone.
 
Resto così per qualche minuto, senza sapere bene che fare.
 
E poi, dolcemente, inizio a raccontare.
 
“Non ti ho fatto leggere le mie cartelle, due settimane fa, perché non volevo che tu conoscessi la Irene debole che sono ora. Volevo che noi ci conoscessimo come quelli che eravamo prima, i due ragazzi che sedevano l’uno di fronte all’altra senza guardarsi mai apertamente.
“Non te le ho fatte leggere e mai lo farò, ciò che hai visto è già troppo. Perché devi essere così maledettamente curioso? Stupido idiota. Avrei potuto parlare con te per ore se non ti fossi messo a ficcanasare. Avremmo potuto giocare e far finta di essere ancora a Hogwarts – dio come mi manca.
“Tra il secondo e il terzo anno sono stata in vacanza in Germania, nella regione dei castelli. Era un posto incantevole, e quei castelli mi ricordavano tanto Hogwarts... ci spostavamo in macchina - i miei sono Babbani, lo sapevi? – di paese in paese, fermandoci a dormire in questi hotel da due stanze…
“Poi un giorno abbiamo deciso di fare tappa in questo paesino sperduto, ancora fermo agli anni ’50, sul limitare di una foresta. Come potevo sapere che era pieno di maghi? Abbiamo deciso di andare a fare un pic-nic nel bosco, sapevamo che da quella zona partivano un sacco di sentieri e i miei erano appassionati di escursioni. La mattina abbiamo preparato tutto: i tramezzini, le uova, la frutta, avremmo potuto sfamare l’intera Wermacht con quello che ci siamo portati dietro…
“Probabilmente se qualcuno ci avesse visto ci avrebbe sicuramente fermati, ma in quel posto di giorno non girava manco un cane, soprattutto con... insomma.
“E così, dopo aver pranzato, i miei hanno deciso di fare una passeggiata. Solo che mentre loro andavano avanti, io restavo indietro a raccogliere ingredienti per le pozioni, e cercare di vedere qualche unicorno. Unicorni non ne ho trovati, però ho visto un billywig e mi sono messa a seguirlo, deviando dal sentiero. E per carità, il billywig l’ho anche preso, ma poi non sono più riuscita a ritrovare il sentiero.
“Che sciocca sono stata! Quello della tredicenne persa nel bosco è un ridicolo cliché narrativo.
“Ma al calare della sera non l’ho più trovato molto ridicolo. Vagavo per il bosco da ore, ormai, ma non osavo usare la magia per ritrovare i miei genitori, perché sapevo che era proibito. Nel frattempo, i miei erano tornati in paese ad allertare i soccorsi, ma con una scusa o con l’altra la gente non voleva addentrarsi nella selva.
“Per prima cosa ho sentito gli ululati, diventavano sempre più forti. Poi sono arrivati i rami spezzati, gli uccelli che si levavano in volo… e, pochi minuti dopo, mi era davanti. Credo mi avesse fiutato.
“Mi ha morsa. È già tanto che non mi abbia uccisa.
“Quando mi sono svegliata, ho fatto appena in tempo a dire che ero una strega prima che mi obliviassero.
“Sai una cosa? Quando si tratta di se stessi, la gente è sempre così riservata, ma nei confronti degli altri non ha peli sulla lingua. Non ero un loro problema, quindi chissenefrega se la voce circolava, giusto? E così, in breve anche a Londra si è venuto a sapere che la giovane strega di Belgravia era un lupo mannaro.
“Il Preside è venuto a trovarci, dicendo che avrebbe provato a convincere il Consiglio, ma difficilmente avrebbero accettato il mio ritorno a scuola; secondo lui, se la voce non si fosse sparsa com’era successo avemmo potuto tenerlo segreto, non sarebbe stata la prima volta che lui lo faceva con uno studente, ma in questo caso… e poi sono venuti quelli del Ministero.
“Li ho pregati. Li ho implorati. Li ho supplicati di non tagliarmi fuori dal Mondo Magico. Avrei fatto qualunque cosa purché non mi distruggessero la bacchetta.
“Mi hanno presa in parola, in effetti: mi hanno accontentata. Mi hanno rinchiusa al San Mungo per usarmi come cavia. Stanno cercando di sintetizzare una pozione contro la licantropia, e hanno pensato bene di sperimentare i loro tentativi su un lupo vero. Non mi tengono rinchiusa, come hai potuto vedere, perché sanno che se scappassi non potrei più tornare, la bacchetta me l’hanno confiscata, tornerei ad essere una Babbana che ogni mese deve correre a rifugiarsi in un bosco o un campo per diventare un lupo mannaro… so benissimo che in realtà io sono rinchiusa, sono come una belva in gabbia… sono… malvagia, e pericolosa. Loro falliscono e io pago, ogni fottutissimo mese.
“Ecco perché non voglio che tu sappia che cos’ho.”
 
Le mie dita sono ancora avvinghiate ai suoi capelli. Le districo, e gli accarezzo uno zigomo con il pollice prima di andarmene e lasciarlo solo.
 
“Per te, sarò sempre la stronzetta del reparto riservato.” So che sarà così. Lui un giorno se ne andrà, mentre io resterò qui. E così, per lui sarò sempre la quindicenne con cui ha litigato al San Mungo e che l’ha cacciato fuori dalla sua stanza, perché non avrò mai la possibilità di cambiare.
 
E va bene così.








Smaug's cave
capitolo atrusamente corto, lo so. Perdonatemi. Ma finalmente sapete che cosa diavolo ha la cara dolce Irene...

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Capitolo 9
*** Siamo dalla stessa parte ***


 
Quando entra, lo ignoro spudoratamente, concentrandomi sul libro che tengo sulle ginocchia.
 
Anche lui mi ignora, in realtà. Be’, grazie mille.
 
Guardami. Eddai, guardami. Che diavolo fai?
 
Trascina una seggiola di plastica accanto al mio letto –proprio come ho fatto io ieri- e poggia sopra alla scrivania una serie di tomi e fogli sparsi.
 
Irene, libro. Concentrati.
 
Mentre le parole impresse su carta mi scorrono davanti sfocate, sbircio con la coda dell’occhio che cosa sta facendo. Ha tirato fuori dalla tasca della camicia da notte una penna e un taccuino e sta scribacchiando qualcosa a mezz’aria.
 
Quando si volta verso di me, mi affretto a distogliere lo sguardo.
 
“Che vuoi? Non dovresti stare qui” dico pigramente.
 
“Nemmeno tu.”
 
Per la prima volta, lo fisso apertamente. “Oh, ma davvero” il mio sarcasmo è palesemente udibile.
 
“Vuoi dire che una ragazzina di quindici anni non dovrebbe stare in ospedale? Cavoli, non ci sarei mai arrivata. Purtroppo, però, non si può sempre avere tutto ciò che si vuole…”
 
“No, dico in questo reparto. Non è neppure segnato nella mappa.”
 
“Interessante” simulo uno sbadiglio, giusto per ribadire il concetto.
 
Sherlock Holmes si siede sulla seggiola e il mio primo impulso è quello di scostarmi, allontanandomi da lui. Dopo un attimo, però, ci ripenso e resto ferma al mio posto: magari è tornato a giocare. Ora sarebbe ottimale se scrollassi la testa, per poi risistemarmi i capelli attorcigliandoli intorno alle dita. Sarebbe una mossa da manuale.
 
“Sto facendo delle ricerche” dice.
 
“Ah sì? Wow. Forte. Cosa ti fa pensare che me ne importi qualcosa? Piuttosto…” mi sporgo verso di lui, e i nostri volti sono a pochi centimetri di distanza. “Hai per caso ripensato alla mia offerta? Sei tornato per… intrattenermi?”
 
Finge di non aver sentito la mia domanda e prosegue imperterrito: “Ero piuttosto portato per le pozioni, a scuola, e penso che studiando i vari intrugli che ti affibbiano ogni mese potrò…”
 
Si blocca, accorgendosi che ho posato il libro sul materasso e ora lo fisso con odio.
 
“Che c’è?”
 
“Come sai di quello che mi danno da bere?”
 
“L’ho letto sulla tua cartella.”
 
Non mi inganni, Sherlock Holmes. Ho notato quanto tu sia bravo a mentire, ma so che ora stai mentendo. Sul referto che hai letto non si accennava minimamente a questo fatto. Non mi degno di rispondergli, lascio che sia la mia espressione a parlare.
 
“Ok, ok, non l’ho letto, ma l’ho dedotto.”
 
Dedotto?”
 
“Era da un po’ che lo sapevo, e poi tu ieri sei venuta a dirmelo e allora…”
 
No.
 
“Io non ti ho detto proprio niente!” sbraito. Mi sto aggrappando alla remota possibilità che possa esserselo inventato, o sognato, cerco di convincermi che non può aver sentito quanto gli ho detto, era l’ultima cosa che desideravo… oh ca--- volo… io non volevo certo che scoprisse i miei segreti, e non posso credere di essermi… tradita da sola! Ma chi me l’ha fatto fare, di andargli vicino e raccontargli tutto?
 
“Sì, me l’hai detto ieri.” La cosa pazzesca è che sembra veramente confuso.
 
“Tu stavi dormendo!”
 
“Mi sono svegliato più o meno quando dicevi che i tuoi erano Babbani. Non sapevo cos’avessi detto prima –non lo so ancora, in realtà-, ma non volevo interrompere il tuo monologo.”
 
“Si supponeva che tu stessi dormendo!”
 
“Vuoi dire che non mi avresti detto quelle cose se avessi saputo che ero sveglio?”
 
No! Santo cielo, certo che no! E tu te ne sei stato lì a fingere di dormire…”
 
“Non dovresti andare in giro a rivelare i tuoi segreti alla gente, se poi ti arrabbi quando ti dicono di averli ascoltati.”
 
La sua logica schiacciante mi irrita in maniera inconcepibile. Sono indecisa se essere più arrabbiata e adirata o più imbarazzata e a disagio per ciò che mi ha sentito dire.
 
E fare.
 
La mia mente corre a ieri, al modo in cui le mie dita erano avvinghiate ai suoi capelli, al mio respiro contro la sua pelle, e dio se vorrei baciarlo ora. Ma ecco che per lui sono diventata ciò che temevo, una sciocca ragazzina malata e pericolosa, così fragile in confronto a lui.
 
“Oh, vaffanculo.” È tutto ciò che mi esce.
 
Sherlock scuote la testa. “Io posso aiutarti!” ripete, ancora più convinto di prima. “Posso capire cosa non va nelle pozioni che ti danno e sintetizzarne una nuova che…”
 
Che cosa crede, che non abbia più un briciolo di orgoglio?
 
“Non hai capito?” ringhio. “Non voglio il tuo aiuto! Vattene! Vattene, per favore! Se tu avessi anche solo un… frammento di cuore ti saresti tenuto per te quello che hai sentito ieri, e non me ne avresti mai parlato! Ma tu un cuore non ce l’hai, vero? C’è una macchina Babbana sotto la tua camicia, non un corpo umano!”
 
E persino in un momento così terribilmente tragico non posso fare a meno di pensare che vorrei proprio vederlo, cosa c’è sotto la sua camicia.
 
Il suo volto resta impassibile. Con un solo, unico gesto meccanico, raccatta i tomi e i fogli di appunti che ha preso per me ed si appresta ad uscire dalla stanza.
 
“Se solo tu mi avessi lasciato aiutarti, avrei potuto risolvere le cose. Se tu non ti fossi chiusa in te stessa, rifiutandoti di ricevere comprensione…”
 
“Non la voglio la tua compassione! È questo che cercavo di evitare!”
 
Per la prima volta, il suo sguardo si addolcisce. “Ho detto comprensione, non compassione. Come potrei io provare compassione per te? Siamo sulla stessa barca, sei tu a non averlo capito.”
 
Ti odio, Sherlock Holmes.
 
 
 


Smaug's caves
Looo so. Povera, piccola, incosciente Irene. Stavolta non è stato il polso a tradirla, sono state le sue stesse parole.
Temo di dover abbassare a frequenza di pubblicazione, perché il numero di file di Word già pronti si sta assottigliando pericolosamente, e in questo periodo di verifiche/interrogazioni/terrore di avere il debito non sono riuscita a scrivere nulla... spero di riprendere presto.

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Capitolo 10
*** Capitolo 6. ***


 
“Ma… stai piangendo?”
 
Sherlock proruppe in un singhiozzo soffocato, asciugandosi gli occhi. “No” gemette, e finalmente John capì: stava ridendo. “Oh, mioddio, e io che volevo solo che dicessi che mi perdonavi.” Sherlock continuava a sghignazzare senza ritegno. “Ma tutte quelle altre cose, cavoli, sono lusingato.”
 
“Stai per essere espulso, non mi pare il caso di ridere” ringhiò John, offeso.
 
L’altro scosse la testa e, con le spalle ancora sconquassate dai singulti, gli tese la Mappa del Malandrino.
 
A John cadde la mascella. Nessun sorvegliante si stava dirigendo i Sala Grande. Pix gironzolava dalle parti della Guferia. Intorno a loro era tutto tranquillo.
 
“Ma che cazzo…”
 
“Oh, eri così disperato!”
 
“Ma Pix…?”
 
“Sempre stato dall’altra parte del castello…” Sherlock tentava convulsamente di respirare tra le risate. “La voce l’ho creata io con la magia…”
 
“Tu, brutto stronzo…”
 
“Oh, ma non ti preoccupare, anche tu sei il mio migliore amico…” un ghignò si aprì sul suo volto; “la cosa migliore che… mpf…”
 
“Fanculo” disse John, ma sorrideva. “Ti odio, Sherlock Holmes.”
 
“È stato divertentissimo. E non era neanche programmato! Quanto sono felice di averlo fatto… è stato talmente appagante…”
 
“Fottiti… e che hai, adesso?”
 
John aveva notato che l’espressione di Sherlock si era fatta improvvisamente serissima. “Davvero non ho mai smesso di essere il tuo migliore amico?” domandò.
 
“Sì, a parte adesso. Adesso ti odio profondamente… ma…” John prese un profondo respiro “non so se io ho continuato ad essere il tuo, di migliore amico.”
 
“E secondo te io starei facendo tutto questo per schizzo? Per prenderti in giro? A volte fai domande così assurde… Aspetta, com’è che dite voi giocatori di Quidditch… per le mutande di Josef Wronsky, John, io ho un solo vero amico, e… sei tu.”
 
“Significa che siamo di nuovo Holmes e Watson? Amici?”
 
Per le mutande di Josef Wronsky, come se potessimo essere altro!”
 
“E comunque la Coppa la vinciamo noi” puntualizzò John.
 
Sherlock scoppiò a ridere. “Sì, come no, e Lord Voldemort è nascosto dietro la mia testa!”
 
Ridacchiando, John gettò indietro la testa, appoggiandola contro la parete fredda. Quanto gli erano mancati quegli scambi di battute, gli scherzi, le risate… sì, si sarebbe fatto volentieri espellere pur di non perderli una seconda volta.
 
“Secondo te che ora è?” domandò Sherlock.
 
“Boh. Le due, all’incirca.”
 
“Sarà meglio tornare, allora.” John provò una punta di delusione nel sentire quelle parole. Non voleva che quella specie di idillio finisse. “Prendi tu la mappa, io so come tornare senza farmi beccare.”
 
Sherlock si rialzò in un unico, fluido movimento, e restò fermo per un attimo, guardando John, come se volesse dirgli qualcosa. Anche John si alzò goffamente in piedi, sospirando, desideroso di prolungare quel momento insieme. Alla fine Sherlock gli tese rigidamente la mano, e lui, dopo un attimo di esitazione, lo strinse in un abbraccio da orso.
 
Può una sensazione essere pienamente descritta in senso logico? John inspirò l’odore dell’amico, percepì le sue mani esitare prima di stringersi sul suo maglione, e per prima si sentì inaspettatamente insonnolito: la testa gli pesava, aveva voglia di chiudere gli occhi e abbandonarsi completamente alla spalla di Sherlock. Un sorriso gli aleggiava a fior di labbra, e aveva una gran voglia di piangere. Non voleva che smettesse. Era inspiegabilmente orgoglioso di se stesso, e tutto ciò che desiderava era lasciarsi andare a quell’emozione che lo cullava dolcemente. Capì che Sherlock Holmes non si era legato al primo idiota di turno per trascinarlo in un’avventura suicida nel cuore della notte, aveva voluto lui, John Watson, come compagno e amico, e non per una scelta casuale. Sherlock Holmes aveva compiuto il gesto gratuito di donargli la propria amicizia perché lo riteneva importante, e non per semplice passatempo; non considerava uno spreco di tempo dedicare se stesso a un’altra persona, se questa era John Watson.
 
Fu Sherlock a separarsi per primo, così rapidamente che John temette di averlo in qualche modo offeso. Aveva provato anche lui la stessa inebriante sensazione, cercando di reprimerla come suo solito?
 
Lo salutò con un cenno secco della testa, e corse subito via. John lo guardò mentre spariva oltre le porte senza voltarsi indietro.
 
Sherlock e John erano tornati. Come se quei due anni non fossero mai esistiti.
 
Fu con un immenso senso di eccitazione che ritornò alla Sala Comune, sperando che la sua voce non fosse risultata sgradevole, la sua conversazione poco interessante, e soprattutto pensando e ripensando al momento in cui si erano parlati faccia a faccia, a pochi centimetri di distanza, così vicini che…
 
            Il giorno seguente si presentò con una gelida mattina di sole. Non avendo lezione, John decise di andare a studiare all’aperto, e magari fare una capatina alla capanna di Hagrid per un saluto e una tazza di tè bollente. L’aria frizzantina gli ripulì i polmoni e spalancò gli occhi. I colori dell’autunno risaltavano contro il puro azzurro del cielo, brillanti e luminosi. In giro si vedevano pochi studenti, benché fossero ormai le dieci.
 
Scese per il sentiero che portava al lago, stringendosi nel giubbotto marrone e arrotolandosi per bene la sciarpa rossa-e-oro per ripararsi dal freddo. Apprezzava quella quiete, poter percorrere la stradina dissestata ascoltando solo il rumore dei propri passi, e…
 
“John! John Watson!”
 
“Mary!”
 
La bionda Corvonero veniva avanti a passo veloce, saltellando per evitare massi e radici, schermandosi gli occhi dal sole. “Aspetta!” Quando gli fu vicino, scoppiò in un risolino, apparentemente senza motivo. “Non hai più la barba, vedo.”
 
“Non ho mai avuto la barba” si stizzì lui.
 
“No, no, pensala come ti pare. Oh, era da un po’ che non ci parlavamo, eh? Quidditch a parte.”
 
John si chiese perché Mary Morstan avesse disseppellito l’argomento di cui stavano discutendo due anni prima e ignorato la loro ultima conversazione. Non che non gli facesse piacere notare che erano di nuovo in buoni rapporti.
 
“Già, era difficile non notarti mentre mi prendevi in giro.”
 
“Suvvia, suvvia, ho preso in giro Damon molto di più.”
 
“Mh, sì, può darsi…” ammise lui, riluttante, e distratto dal fatto che lei lo avesse preso a braccetto.
 
“Allora, John, come va?”
 
“Alla grande. E tu?”
 
“Oh, lo so che va alla grande… piaciuto il giretto di ieri notte, eh?” replicò lei con un sorrisetto.
 
John sobbalzò. Come faceva a…
 
“Ho visto il tuo amico Holmes rientrare in Sala Comune alle tre di notte con una faccia che… be’, chiunque avrebbe capito.”
 
John aprì la bocca, ma non riuscì a proferire parola.
 
“Certo, potrei dirlo a un professore…” Mary si esaminò un’unghia.
 
“No, senti… noi non stavamo facendo nulla di male… scusa ma che faccia aveva?”
 
La ragazza sorrise con malizia, come se si aspettasse quella scusa. “Bene. Se non vuoi che si venga a sapere, dovrai fare qualcosa per me.”
 
John si scostò da lei, preoccupato.
 
Mary scoppiò a ridere. “Non fare quella faccia! Ok senti: tu sei bravissimo in Trasfigurazioni: non è che potresti aiutarmi? Tipo ripetizioni? Quest’anno non riesco a star dietro alle lezioni, e tra due settimane abbiamo gli esami di fine semestre, e temo di non passarli!”
 
“Ok, ok, certo che ti aiuto.” Non che avesse molte altre alternative. “Ma se hai beccato Sherlock, perché vuoi ripetizioni da me? Anche lui è parecchio bravo.”
 
Lei rimase impassibile. “Non ho intenzione di prendere lezioni da uno più piccolo. E poi… ho la sensazione che tu saresti un maestro migliore.”
 
John non era mai stato bravo con le ragazze. Era impacciato, rigido, e non sapeva mai quando parlare. Però doveva ammettere che conversare con Mary lo faceva sentire a suo agio, non c’era alcun imbarazzo tra loro, non si sentiva a disagio per quel piccolo flirt.
 
“John?”
 
“Mh? Scusa, mi ero distratto. Dicevi?”
 
“Cosa? Scusa, mi ero distratta. Dicevi?”
 
John cercò un modo di rimediare alla gaffe e al contempo risponderle in modo altrettanto arguto, ma l’unica cosa che gli uscì fu una risata, a cui si unì anche lei.
 
“Ti stavo chiedendo quando potevamo iniziare” disse poi Mary.
 
John ci rifletté un attimo. “Trasfigurazioni è il sedici dicembre, giusto? Possiamo vederci domani per fare i compiti insieme, se ti va, così avremo il tempo di ripassare almeno un paio di volte prima dell’esame. Domani alle tre in biblioteca?”
 
“Fantastico! Ti ringrazio. Davvero.”
 
“L’avrei fatto anche se non mi avessi ricattato, comunque.”
 
“Sì, be’, mi piace avere delle certezze. E comunque non lo chiamerei ricatto, quanto piuttosto favore disinteressato e gratuito” replicò lei con un sorrisetto, e voltandosi per tornare dentro.
 
Dare ripetizioni contava come appuntamento? Non ne era del tutto sicuro.
 
Il giorno seguente John occupò un tavolo della biblioteca alle due e trenta precise. Aveva deciso di arrivare in anticipo per evitare di far aspettare Mary: tra le poche cose che aveva imparato dalle sue tante ragazze figurava anche “mai far aspettare una donna”.
 
Una delle cose che invece lui apprezzava dalle ragazze era la puntualità, e in effetti Mary non si fece attendere: alle tre esatte era lì, con i suoi libri di trasfigurazione sotto braccio e un’aria imbarazzata. Continuava a guardarsi intorno, a disagio, e non dava cenno di volersi accomodare.
 
“Iniziamo?” la esortò John.
 
“Sì sì. Ehm, tu non hai mica visto un ragazzo di Tassorosso? Media statura… muscoloso… mascella quadrata… l’hai visto?”
 
“No, non mi pare. Ma perché?”
 
“Perché è il mio ragazzo, e non voglio che mi scopra qui. Non voglio che pensi che lo sto tradendo o cose simili… cioè, lo so che dobbiamo solo studiare, ma lui… sai come sono i maschi…”
 
“Vagamente” ridacchiò John.
 
Mary riatterrò in questo mondo con un sobbalzo, interrompendo bruscamente i propri vaneggiamenti. “Oh. Ovvio. Scusa. Sì, iniziamo.”
 
“Trasfigurazione, ricordi? Stiamo imparando a trasfigurare mammiferi, senza dubbio gli esseri viventi più complessi. Ho chiesto alla professoressa McGranitt di darmi la sua scatola di topi, quindi possiamo iniziare. Ecco a te un adorabile topolino. In cosa lo vorresti trasfigurare? Devo saperlo, o non potrò sapere se ci sei davvero riuscita o è stato un caso.”
 
“Un riccio va bene?”
 
“Uhm, sì, ma forse partirei da qualcosa di più facile, come un ratto. Da topo a ratto non dovrebbe essere troppo complicato.”
 
“Lo vuoi tinta unita o a pois?”
 
John levò gli occhi al cielo. “Tu intanto fai l’incantesimo. Poi decideremo…”
 
Alla fine Mary ci riuscì. Più o meno. Dopo una decina di tentativi. Quando si lasciarono, un’ora e mezza dopo, la ragazza era più demoralizzata che mai.
 
Mentre John raccattava i propri libri gli parve di sentire la voce di Sherlock. Si guardò intorno, ma non lo vide da nessuna parte. Poi la voce disse: “Sono quassù” e John lo trovò. Sherlock era appollaiato in cima alla libreria.
 
“Che diavolo ci fai là sopra? Scendi subito!”
 
“Qui è comodo per leggere.”
 
“Come no, e Voldemort è nascosto dietro la mia testa! Che ci fai lì?”
 
“Volevo leggere! E poi siete arrivati tu e miss Morstan ed è finita la pacchia.”
 
Prego?” il Grifondoro si accigliò.
 
“Potrei parafrasare la vostra intera conversazione. John: sembra che tu voglia fuggire via a gambe levate. Mary: oh no, sto solo fingendo di essere preoccupata per il mio fidanzato, quando evidentemente voglio solo…”
 
“Okay! È abbastanza. Ho afferrato il concetto. Non posso credere che ti ricordi tutto quello che ci siamo detti!”
 
“Non me lo ricordo. Ho trascritto. Questo materiale mi sarà utile per quando lavorerò alla BBC.”
 
“Certo. Ora scendi però.”
 
“No, ora no.”
 
“Scusa?”
 
John si voltò, ritrovandosi faccia a faccia con un ragazzo dai capelli castani. Oh, merda. Statura media, ben piantato, Tassorosso… “Sei il ragazzo di Mary Morstan, vero? No, senti, guarda che…”
 
“No, no” si affrettò a correggerlo l’altro. “Non sono io. Mi chiamo Greg Lestrade.”
 
“E cosa c’è?”
 
“Ho notato che quello” Lestrade indicò vagamente Sherlock, “non vuole scendere e tu vuoi tirarlo giù perché è francamente indecente. Se non ti dispiace vorrei approfittarne per testare un incantesimo.”
 
“Gli farà male?”
 
“Purtroppo no.”
 
“Allora accomodati.”
 
Greg puntò la bacchetta verso l’alto e pronunciò l’incantesimo in modo tanto fulmineo che neppure Sherlock riuscì ad evocare uno scudo di protezione in tempo. E se anche ci fosse riuscito, non gli sarebbe comunque servito a nulla: la fattura di Lestrade era diretta verso la libreria, che si ripiegò su se stessa come melassa. John poté comodamente estrarre l’amico da quella sostanza molle e collosa.
 
“La mia libreria!” strillò Madama Pince, la bibliotecaria.
 
“Non si preoccupi, la rimetto a posto!” gridò Lestrade di rimando.
 
“Meno venti punti a Tassorosso! E non si urla in biblioteca!”
 
“Grazie. Era da tanto che cercavo un pretesto per usare questo incantesimo” disse Greg allegramente. “Ah, tra parentesi, se cerchi di abbordare Mary Morstan ti consiglio di farlo in fretta o ne approfitterà qualcun altro.”
 
“Io non…”
 
“Be’, ancora grazie. Ci vediamo!”
 
“Che ti dicevo?” sorrise Sherlock.
 
Lui e Mary si videro altre tre volte prima degli esami di fine semestre. Studiavano sempre di meno e chiacchieravano sempre di più. Alla prova finale Mary andò benissimo, tanto che John si chiese se non avesse sempre solo finto di essere una schiappa. Alla fine lei corse ad abbracciarlo davanti a tutta la classe e lo invitò alla prossima partita di Quidditch.
 
“Giochiamo contro Tassorosso. Io sto sulla tribuna d’onore perché faccio la cronaca, ti va di venire anche tu?”
 
Con la visuale coperta dai folti capelli di Mary, John non notò l’espressione di Sherlock.
 
 
 
 
 
 
 
 
 Smaug's cave
Wowowo cosa? Volete dire che siamo già al decimo capitolo?
Wow. Penso di non essere mai arrivata a un decimo capitolo, sono molto fiera di me stessa. Ringrazio davvero di cuore tutti voi che seguite questa FF, e in particolare le ragazze che mi aiutano a tirare avanti con le loro recensioni!
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 11
*** Capitolo 7. ***


John correva per la Sala Grande trascinandosi dietro uno stendardo di Corvonero, un uccello bronzeo in campo blu.
 
Mary Morstan lo attendeva vicino al portone per avviarsi con lui al campo da Quidditch. “Ehi, John!” lo chiamò allegramente non appena lo vide.
 
“Pronta?” chiese lui raggiungendola. Non poté fare a meno di notare quanto fosse carina, con i capelli chiarissimi raccolti in una crocchia improvvisata e tutte quelle sciarpe attorno al collo.
 
“Pronta e imbottita di caramelle per la gola al miele. Non posso permettermi di perdere la voce… ne vuoi una?”
 
“No, grazie.” Uscirono dal castello a passo svelto, per non rischiare di tardare. “Allora… spiegami come mai c’è posto anche per me sulla tribuna del cronista. Non me l’hai detto, l’altro giorno” chiese lui mentre si camminavano. Erano giorni che desiderava porle quella domanda.
 
“Io e Madama Bumb trovavamo carina l’idea di avere un esperto che commentasse la partita, come a un vero incontro, perché io conosco i nomi dei giocatori e nient’altro. E poi magari… insomma… potresti rilasciare un’intervista per il giornalino… che ne dici?”
 
“Uhm, certo. Sì, perché no? Ma… scusa ma da quant’è che abbiamo un giornalino scolastico?”
 
Mary fece una smorfia. “Non ce l’abbiamo. È solo che un tizio della mia casa –Arthur Doyle, lo conosci?- si è messo in testa di voler fare il giornalista… vuole fondare la Gazzetta di Hogwarts. E finora è l’unico disposto a lavorarci.”
 
John rise. “Buona fortuna, allora. Bene, basta che tu tenga Moriarty lontano da me.”
 
“Non ti preoccupare, gli tapperò la bocca.”
 
“Ma come c’è finito Jim Moriarty sulla tua tribuna?”
 
“Esattamente come ci sono finiti tutti i Prefetti e i Capi scuola… è un Prefetto, non lo sapevi? Complimenti. Forse da quando Holmes se n’è andato hanno smesso di toglierti punti, per questo non te n’eri mai accorto…”
 
“Oh, probabile. Quando è con me attira i Prefetti come il miele attira le mosche” aggiunse. Quel giorno si sentiva in vena di paragoni e chiacchiere. Era la vicinanza di lei a renderlo così gioviale?
 
“Attento, altri potrebbero non farci troppo caso. Sai com’è. Ha molte ammiratrici.”
 
“Sì.” Tutt’ad un tratto John sentì un nodo alla gola. “Già.”
 
“Su, su, sono sicura che sarà sempre tuo amico, qualunque cosa accada.”
 
Ed era questo il problema.
 
Tuttavia, era difficile pensare a Sherlock mentre si camminava di fianco a una Mary Morstan così allegra e simpatica.
 
Mentre John si sedeva al proprio posto, Mary restò in piedi e puntò la bacchetta verso la propria bocca. “Buon pomeriggio, signore e signori! Qui è Mary Morstan che vi parla. Fa un freddo polare, le condizioni meteo sono stabili e tra poco inizierà la partita Corvonero-contro-Tassorosso! Colgo l’occasione per presentarvi il nostro ospite, un bell’applauso per John Watson! oggi Watson si mantiene neutrale –metti via quello stendardo, John- per darci dei giudizi tecnici sulla partita, che si prospetta interessante! È il secondo incontro per Corvonero, che ha già portato a casa una vittoria e oggi affronterà i campioni in carica di Tassorosso! Questo è tutto, per ora. Facciamo entrare le squadre? Ecco a voi Corvonero con Hooper, Holmes…”
 
La divisa blu-e-bronzo donava molto a Sherlock, metteva in risalto il colore dei suoi occhi. John si maledisse immediatamente per quel pensiero, soprattutto perché da quella distanza lui il colore degli occhi di Sherlock non lo vedeva.
 
“Che la partita inizi!” Madama Bumb fischiò e liberò le palle.
 
“Tassorosso in possesso di Pluffa… Thomas a Devon, Hooper prende la palla, Bolide di Carter, Hooper schiva e passa ma Joyce intercetta e sfreccia verso la porta, qualcuno lo fermi, Bolide di McAvoy, Joyce schiva… dieci a zero per Tassorosso.”
 
La cronista sfruttava ogni momento libero per spegnere il microfono e chiacchierare con John. Ad un certo punto i Corvonero chiesero un time-out (erano sotto di novanta punti) e lei tentò di approfittarne, ma un ragazzo smilzo dai capelli scuri si frappose tra loro. “Ciao, Mary. Ciao, John, sono Arthur Doyle del giornalino scolastico, posso farti un paio di domande?”
 
John scrollò le spalle. “Certo.”
 
“Come hai conosciuto Sherlock Holmes?”
 
“Ma… non vuoi farmi domande sulla partita?”
 
“Certo! E Holmes è la star del momento. Allora, come l’hai conosciuto?”
 
“Eravamo al club dei duellanti organizzato da Vitious e…”
 
“Ricominciano!” li zittì Mary, e Arthur si ritirò.
 
John era turbato da tanto interesse nei confronti dell’amico. La gente perlopiù ignorava Sherlock mentre camminavano per i corridoi, e di certo nessuno l’aveva mai trattato come una star. Che cosa andava blaterando quel Doyle? L’idea di uno Sherlock ricoperto di fama era semplicemente ridicola.
 
“Richard Knight ha preso un Bolide ed è caduto dalla scopa! Qualcuno lo aiuti, sembra essersi fatto parecchio male… attendiamo l’arrivo dei soccorsi… ecco… pare che Richard Knight, Cacciatore, debba abbandonare il campo! Ci dispiace, Tassorosso, ma pare che dovrete andare avanti con un giocatore in meno!”
 
Alla fine Corvonero vinse per soli venti punti. John immaginò quanto dovesse essere felice Clarisse Weasley, ora che avevano di nuovo la possibilità di ottenere la Coppa.
 
Non dovette neppure sforzarsi di evitare Doyle all’uscita, perché il “giornalista”, immerso in una conversazione con un Caposcuola, si era completamente dimenticato di lui. Tutto questo, unito al fatto che Jim Moriarty non si era nemmeno presentato, contribuiva a rendere quel momento assolutamente perfetto.
 
Stava per lasciare la tribuna quando Mary gli afferrò un polso, facendolo rabbrividire piacevolmente. “Aspetta.”
 
Osservarono lo stadio svuotarsi e la folla sciamare verso il castello fino a che non furono soli.
 
Mary si sedette sulla panca e fece cenno a John di affiancarla. “Allora… ti è piaciuto stare qui?” gli chiese con un sorrisetto furbo stampato in viso.
 
“Uhm, sì, anche se non sono stato di grande aiuto. E non penso che il tuo amico Doyle farà carriera come giornalista…”
 
“Sai che gran perdita” sbuffò lei, e lo baciò.
 
Fu talmente improvviso che John ci mise un attimo a rendersi conto che le labbra di lei erano sulle sue, morbide e pressanti. Fu tanto veloce che alla fine credette di esserselo immaginato. Mary non aveva nemmeno perduto il suo sorrisetto.
 
John, impacciato, lasciò che le proprie dita si posassero sul suo collo, fino a sfiorare i sottili capelli biondi della nuca. Conosceva la prassi per quei casi. Era esattamente così che avrebbe dovuto comportarsi, benché toccarla in quel modo gli sembrasse irrimediabilmente sbagliato. Dopo un attimo di esitazione, la baciò di nuovo. Lei si abbandonò al suo petto, stringendogli con forza il maglione rosso.
 
Cosa provava? Aveva baciato tante di quelle ragazze che alla fine non riusciva nemmeno a distinguerle. Cosa c’era di diverso? Pressione, calore e umidità erano sempre gli stessi, ormai non sembravano più baci appassionati ma previsioni del tempo. Baciare Mary non era male, lei gli piaceva, esattamente come tutte le altre. L’unico fattore che cambiava, forse, era che lei gli stava anche simpatica.
 
“Interessante” disse quando si separarono, in mancanza d’altro.
 
L’attimo di silenzio che si andò a creare fu interrotto da un urlo: qualcuno lo stava chiamando. Voltandosi, John vide un ragazzo di Corvonero corrergli incontro a tutta velocità. “Watson!” gridava. Si fermò proprio davanti a lui, ansante, con le mani sulle ginocchia. “Sherlock…” ansimò “Sherlock Holmes. Sapeva che saresti stato qui. È in infermeria, ha avuto una ricaduta. Forse dovresti…”
 
No, no, no, non di nuovo, non poteva perderlo di nuovo… Mary gli lanciò un’occhiata spaventata, ma si riprese subito e lo afferrò per un polso, trascinandolo verso il castello.
 
Varcare la soglia dell’infermeria fu come entrare in un tunnel di ricordi, era tutto come quella mattina di due anni prima…
 
Davanti a sé, vedeva lui: continuava a sentire la sua voce, e a sapere esattamente che cosa gli avrebbe detto, come si sarebbe atteggiato; sapeva come avrebbe sogghignato, strizzato un paio di volte gli occhi, quegli incredibili occhi verdi, e come infine avrebbe semplicemente sorriso.
 
Merlino, fa che possa vederlo ancora… ti prego…
 
Sherlock! Che succede?” Sherlock era lì, sul letto, era lì, non se n’era andato, poteva ancora vederlo, era pallido, febbricitante, ma era lì, e nient’altro aveva peso se lui era lì… John si fiondò verso di lui, stringendo spasmodicamente le sue lenzuola come per assicurarsi che fossero concrete.
 
“Succede che non deve affaticarsi!” sbottò Madama Chips, avvicinandosi. “Gliel’ho detto io, e gliel’hanno detto al San Mungo, e invece il signorino ricomincia subito, chissà a che ora sarà andato a letto ieri sera e oggi ha giocato una partita! Ma dovevi proprio passare un anno avanti? Chissà quanto dovrai studiare, poi!” A questo punto Mary tossicchiò e l’infermiera, riconoscendo il segnale, li lasciò soli.
 
“Come va, Sherlock?”
 
La presenza di Mary, fino ad allora piacevole, adesso a John risultava scomoda. Lo infastidiva. Voleva che se ne andasse e lo lasciasse solo, libero di sedersi a contemplare quel viso affilato, restando lì finché gli occhi di Sherlock non si fossero chiusi e… no! A che diavolo stava pensando? Si era forse rimbecillito?
 
“John tutto ok? Sembra che tu abbia appena visto un fantasma.” scherzò Sherlock.
 
“Sì… sì, va tutto bene.”
 
“Mary, non vai a festeggiare? Abbiamo vinto, sai”
 
Mary comprese e incassò senza risentimento. “Certo. Riprenditi, Holmes.”
 
Non appena fu uscita, Sherlock sbottò: “Vi siete baciati. Circa quattro minuti fa, direi. Bene. Ottimo.”
 
“Perché? Che c’è di sbagliato?”
 
“Niente. Oh, fantastico. Ed è pure colpa mia. Oh, ma Mary Morstan è intelligente, lei sì che sa come sfruttare le situazioni, c’è un motivo se la sopporto più di altri…”
 
“Sherlock! Che c’è che non va? Non posso nemmeno baciare una ragazza adesso?”
 
“Certo. Ora. Oh, adesso come faccio a spiegartelo… John, tu non puoi stare con Mary.”
 
 
“Perché?” domandò irosamente John.
 
“Ah, è arrivato mio fratello. Che carino, si preoccupa sempre per me. No, aspetta, non te ne andare.” Sherlock lasciò sgusciare un braccio fuori dalle lenzuola per afferrare il polso di John e attirarlo a sé.
 
John raggelò, la sua mente andò in frantumi, non sapeva come reagire, cosa diavolo stava per…?
 
Stanotte, qui, alle due. Ti dirò il motivo” bisbigliò Sherlock. “Ehilà, Mycroft.”
 
Il fratello maggiore di Sherlock scoccò a John un’occhiata di superiorità, per poi ignorarlo completamente.
 
“Ci vediamo domani, Sherlock” salutò John prima di uscire. “Mycroft…”
 
Quella notte “inaugurò” la mappa. Nel breve tratto tra la Sala Comune e l’infermeria sentì la mancanza di Sherlock accanto a sé; l’ombra dinoccolata dell’altro era per lui un angelo custode, lo faceva sentire protetto, al sicuro da ogni pericolo.
 
Si diresse verso il primo letto occupato, prima di rendersi conto che non era quello di Sherlock ma di un altro ragazzo: probabilmente Richard Knight era ancora lì. Arrossendo, pregò di non essere stato visto.
 
Sherlock, però, stava ridendo a crepapelle quando lo raggiunse. “Hai bisogno di un corso di orientamento” bisbigliò.
 
“Sta’ zitto, sto morendo di sonno.”
 
“Mi scuso per l’ora inconsueta, signor Watson, ma questa conversazione deve restare segreta. Siediti. Ti starai chiedendo perché ti ho fatto venire qui.”
 
John, a disagio, si accomodò sull’orlo del materasso. “Avremmo potuto parlare in un altro momento, questi ritmi assurdi ti fanno male, hai visto com’è andata dopo ieri notte.”
 
“No, è questo il punto. Non posso più aspettare, avevi ragione, te lo devo dire.”
 
“No, senti, se non vuoi farlo non devi, io non ti voglio forzare, non…”
 
“Bene, riformuliamo. Sai perché ti ho fatto venire qui?”
 
“No.”
 
“Magnussen.”
 
 
 

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Capitolo 12
*** Bad Wolf ***


 
Prima della luna piena, seguo sempre un protocollo: un po’ di moto fino all’area ristoro dell’ospedale, una cena sostanziosa, niente pisolini pomeridiani; il tutto finalizzato alla mia prossima condizione di lupo. Infine, quattro ore prima della trasformazione, vengo legata sia con la magia sia alla Babbana.
 
Al bar del quinto piano sono ormai un’habitué: mi fanno sempre trovare pronta una tisana al gelsomino, e ogni volta il cameriere dai capelli biondi ci aggiunge anche un paio di frollini, solo perché una volta gli ho detto che il naso camuso lo faceva sembrare importante. L’ho fatto per i biscotti, chiaramente.
 
Alla fine, dopo due anni l’ospedale è davvero la mia casa. I lungodegenti del reparto Lesioni da incantesimo mi salutano sempre, quando passo davanti al loro piano. Malati e guaritori sono la mia famiglia. I miei genitori, in quanto Babbani, sono costretti a richiedere un permesso speciale del Ministero ogni volta che vogliono entrare al San Mungo, e non si fanno vedere più di due o tre volte l’anno; le loro visite sono sempre uguali: abbracci, pianti –unicamente da parte loro-, “oh quanto ci sei mancata”, narrazioni di eventi che riguardano vecchie zie sconosciute o amici di lunga data di cui non m’importa nulla, aggiornamento sulla situazione sentimentale di celebrità Babbane, saluti.
Sono più in intimità con il Guaritore tirocinante –quello vero- che con mio padre.
 
Dopo la cena e la passeggiata, iniziando ad avvertire già l’approssimarsi della luna, ritorno in camera, dove tra poco sarò bloccata. Nella mia stanza un infermiere sta già predisponendo tutto l’occorrente.
 
Senza salutarlo, mi infilo sotto le coperte incrociando le braccia dietro la testa.
 
“Miss Adler, dovrebbe bere qualcosa” dice lui una volta finito di sistemare le corde di metallo con cui mi legheranno. “Non potrà più farlo per molte ore, e non può correre il rischio di disidratarsi. Tenga, beva del succo di zucca.” Mi porge gentilmente un bicchiere colmo di denso liquido arancione, che tracanno in due sorsate.
 
Lui mi sorride, e i suoi piccoli occhi porcini scompaiono nel volto paffuto. “Ecco, brava. Magari tutti i pazienti si dimostrassero docili come lei.”
 
Sì, e tra poco questo docile agnellino diventerà un lupo cattivo.
 
Soffoco uno sbadiglio. Dev’essere la mancanza di sonno, succede sempre.
 
“È sorprendente come alcuni di loro si rifiutino di assumere persino le medicine…”
 
Mio carissimo infermiere dai capelli di paglia, non ho alcuna voglia di conversare con te. Ho incredibilmente sonno.
 
“…alcuni vanno costretti…”
 
Le mie palpebre non vogliono saperne di restare aperte.
 
“…con altri, invece, è necessario trovare dei sotterfugi…”
 
Mi raggomitolo sotto le coperte. Le mie membra paiono pesanti come il cemento.
 
“Tu sei una di questi, Irene.”
 
Sono troppo stanca persino per sobbalzare al cambiamento di registro e tono di voce.
 
L’infermiere si sposta all’interno del mio campo visivo, ma non è più il quarantenne cicciottello di prima: è lui, è Sherlock Holmes.
 
Vorrei chiedergli che diavolo ci fa qui, ma i muscoli delle mie labbra sono congelati, e non riesco a muoverli.
 
Sherlock mi si avvicina tenendo in mano una bottiglia di vetro verde. “Non ti preoccupare, non ti succederà nulla di male. Ho studiato apposta la pozione del sonno che ti ho versato nel succo in modo che non interferisse con gli effetti di questa. Dovrai berla tutta, o non sortirà alcun effetto. Sono spiacente di comunicarti che farà un po’ schifo. Smettila di resistere al sonnifero, presto di addormenterai comunque.”
 
Mi prende dolcemente la nuca con una mano e inclina la bottiglia verso la mia bocca.
 
“Nel caso ti stessi chiedendo come ho fatto a venire qui, o a ricavare tutte le informazioni necessarie e gli ingredienti per questa pozione… sono un Metamorfomagus. Posso assumere qualsiasi aspetto io voglia. Al resto puoi arrivarci da sola.”
 
Il liquido amaro scorre lungo la mia gola, ardente.
 
Non riesco più a tenere gli occhi aperti, non ce la faccio…
 
 
 
 
Quando mi risveglio, i tormenti della mutazione sono già iniziati. Il dolore deve aver annullato l’effetto della pozione. Sto per diventare un essere incapace di ragionare come un umano.
 
È come se un lungo ago mi perforasse e tirasse la pelle della schiena, strappando le carni dalle ossa e lasciandole penzolare in una lunga appendice; un dolore sordo mi spacca la mandibola e gli zigomi, allungandoli in un muso, mentre il naso si inumidisce e sensibilizza. I capelli si ritraggono nella testa e la peluria mi ricopre, e io attendo pazientemente la perdita della mia coscienza.
 
Ma non accade. Sono ancora Irene, non un lupo.
 
Che mi sta succedendo? Perché non sono un mostro?
 
Sono ancora capace di pensare, ragionare basandomi non solo sui miei istinti.
 
Scendo dal letto, atterrando sulle zampe muscolose. Aspetta. Non sono legata, non sono stata legata, le corde sono scomparse. Perché? Che cosa li ha spinti…
 
Con il mio udito finissimo, sento delle voci al di là della porta chiusa ermeticamente.
 
“Non ha funzionato, è uguale al solito.”
 
“Sì, ma come potete vedere non è violenta, e questo perché mentalmente è ancora umana.”
 
“Noi stiamo cercando un modo di impedire la mutazione, signor Holmes.”
 
“Sì, ma grazie a questa pozione potrete rendere innocui i lupi mannari, impedendo che altre persone vengano attaccate. Potrete brevettarlo e usarlo fino a una soluzione definitiva.”
 
“Ha ragione, Mike. È quanto di meglio abbiamo. Lei diventerà un grande pozionista, signor Holmes.”
 
“La ringrazio, dottor Lestrade.”     
 
“Bene, così sia. Non posso non ammettere che in questo senso ha funzionato. Signor Holmes, lei diventerà anche molto famoso, a quanto pare.”
 
“Oh, no, signor Hills, non voglio che mi si accrediti il merito di questa pozione. Potete dire di averla sintetizzata lei e il signor Lestrade.”
 
“Che ne dici, Tony?”
 
“Ma signor Holmes… è sicuro? Io e Mike non possiamo prenderci tutto il merito, non sarebbe giusto…”
 
“Sono assolutamente sicuro. Non voglio che si faccia il mio nome.”
 
“Be’… in tal caso…”
 
“La ringraziamo noi a nome della comunità magica, allora.”
 
“E io ringrazio voi. Scusate, ma ora dovrei proprio tornare nel mio reparto.”
 
“Arrivederci, signor Holmes. Spero che la dimetteranno presto.”
 
Io no. Non lo amo abbastanza da sperare di non rivederlo mai più.







Smaug's cave
Sono finalmente tornata dalle vacanze, quindi cercherò di recuperare i capitoli lasciati indietro! Brace yourselves.
Comunque. A grande richiesta è tornata Irene! Prevedo ancora uno o due capitoli su di lei, ma dovremo aspettare parecchio -abbiamo lasciato Sherlock con una spiegazione da dare!
Ps: ho scoperto che MTV sta organizzando i Fandom Awards! Date un'occhiata qui se v'interessa, per chi è multifandom come me questi awards saranno l'evento dell'anno http://www.mtv.com/shows/mtvu_fandom_awards/2014/fandom-of-the-year/#/bracket
Pps: Non ho resistito, DOVEVO inserire un qualche riferimento a Doctor Who

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Capitolo 13
*** Capitolo 8. ***


 
Tutti gli studenti sono pregati di recarsi al più presto in Sala Grande. Ripeto: tutti gli studenti sono pregati di recarsi al più presto in Sala Grande.
 
Fu così che la Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts venne vegliata quel 21 dicembre.
 
John Watson era arrotolato nelle sue coperte come un involtino e cadde dal letto prima di riuscire a districarsi dal suo bozzolo; incespicò nei suoi stessi piedi infilandosi i pantaloni della divisa e nella foga del momento dimenticò il cravattino.
 
Peter, uno dei suoi compagni di stanza, per poco non si schiantò a terra calandosi giù dal letto a castello come una scimmietta per fare più in fretta. Thomas, che occupava la cuccetta in basso, si era vestito alla velocità della luce ma ora non riusciva ad alzarsi le scarpe, con le dita intorpidite.
 
I pensieri di John andavano a Sherlock: lo avrebbero lasciato uscire dall’Infermeria? Ma poi, cosa diavolo stava succedendo?
 
Gli studenti si ammassavano in Sala Grande stropicciandosi gli occhi e abbottonando giacche e camicie. John raggiunse i cugini Weasley al tavolo di Grifondoro e si sedette tra loro. Clarisse si stava lamentando per la mancanza della colazione, “potrebbero anche darcela visto che ci hanno tirato giù dal letto tipo tre ore prima del solito”, mentre Charlie strizzava gli occhi con espressione inebetita, cercando di mantenere le immagini a fuoco.
 
John intravide Mary Morstan al tavolo di Corvonero e sentì una spiacevole morsa di ferro allo stomaco; solo il giorno prima l’aveva baciata
 
Charlie chiamò al tavolo gli altri membri della squadra di Quidditch. Abernathy beveva a canna da una bottiglia di Burrobirra (probabilmente per restare sveglio), e Rachel sembrava non essersi nemmeno alzata dal letto: indossava ancora i pantaloni del pigiama, e i suoi capelli ricci erano raccolti in una bandana a fiori.
 
“Sapete cos’è successo?” domandò Damon.
 
Gli altri scossero la testa, guardandosi intorno alla ricerca di indizi, ma nessuno dei professori era in sala.
 
“Ehi, Chris!” Damon chiamò un compagno di Grifondoro, un ragazzone dai capelli biondi, che si staccò da un gruppetto di Tassorosso per andare loro incontro. “Sai che è successo?”
 
“No, e neanche gli altri. Parlavo con Tom, prima –è il mio fratellastro, va a Serpeverde- ma nemmeno lui sa perché ci hanno chiamati.”
 
Finalmente la professoressa McGranitt, la vicepreside, salì sul podio davanti al tavolo dei professori e richiamò l’attenzione.
 
“Ragazzi… ragazzi, fate silenzio! Le lezioni di oggi sono sospese. Si è verificata una grave disgrazia questa notte, in Infermeria…”
 
Il cuore di John Watson cessò di battere. Era finita. Era finita. Sherlock se n’era andato. Era di nuovo solo. Mycroft l’aveva portato via.
 
“…uno dei nostri studenti è quasi morto.”
 
Quasi morto? Quasi morto? Piccole lucine gli esplodevano davanti agli occhi. Non riusciva più a respirare, non riusciva più a muoversi, sentiva gli arti paralizzati, presto sarebbe svenuto. Scariche elettriche gli percorrevano le dita e il volto e il petto, il petto
 
“Per favore, fate silenzio! Riceverete presto istruzioni, nel frattempo non lasciate la Sala! Solo gli amici di Richard Knight di Tassorosso mi seguano, per favore.”
 
Richard… Richard Knight? Di Tassorosso?
 
Sherlock era vivo?
 
Sherlock era vivo! Era vivo!
 
John corse dietro alla professoressa McGranitt, che stava accompagnando un manipolo di Tassorosso in lacrime per i corridoi verso l’Infermeria.
 
“Professoressa!...”
 
“Che succede, Watson?” La donna indicò ai ragazzi di precederla e si fermò ad aspettare John.
 
“Professoressa, mi dispiace per Richard… ma Sherlock Holmes, lui era ancora in Infermeria, dove…?”
 
“Il professor Vitious lo sta interrogando in merito a quanto è accaduto. Ora, se vuoi scusarmi…”
 
“Ma prof, Sherlock non può essere colpevole! Non potete seriamente credere…”
 
“Infatti non lo crediamo: vogliamo solo sapere cosa ha sentito. Stai tranquillo, Watson, il tuo amico starà bene. Sfortunatamente non si può dire lo stesso di Knight… puoi raggiungerlo, se vuoi, lo troverai nell’ufficio di Vitious.”
 
“Cosa è successo a Richard?”
 
“Una delle pozioni che Madama Chips gli ha dato gli ha causato un attacco epilettico, si crede. Ora è meglio che vada.”
 
“Sì… sì, d’accordo.”
 
John tornò indietro sui suoi passi e corse verso l’aula del professor Vitious. Incrociò Sherlock a metà strada.
 
Sherlock! Oh, dio, Sherlock, cosa è successo?”
 
L’amico era stanco, emaciato. I suoi ricci erano arruffati e sulla guancia aveva il segno delle lenzuola. Era ancora in pigiama, e teneva i vestiti stretti al petto in un fagotto.
 
“Vieni con me, non possiamo parlare qui…”
 
Lo condusse al secondo piano, in un’aula vuota contrassegnata dal numero 21, e si sedette su una pila di seggiole.
 
“Richard Knight di Tassorosso è stato ucciso. Be’ quasi” annunciò Sherlock.
 
“Non avevo dubbi, con te in giro non poteva che trattarsi di omicidio. Ma perché qualcuno avrebbe voluto ucciderlo?”
 
“Ieri notte, quando te ne sei andato, è venuta Madama Chips a portargli una pozione per dormire, e pochi minuti dopo lui è stato male. Qualche tempo fa ho eseguito uno studio approfondito sulle allergie da pozioni, e in alcun modo gli intrugli che Knight aveva preso prima del sonnifero avrebbero potuto rivoltarsi contro di lui fino a causargli un attacco epilettico tanto letale –letale almeno se io non avessi allertato Madama Chips in tempo. Qualcuno deve aver aggiunto un ingrediente, ma sbagliando destinatario. Sono sicuro che fosse diretto a me.”
 
“Magnussen?”
 
“Esattamente. Come avevo detto.”
 
“Dobbiamo dirlo a Silente!”
 
Sherlock sgranò gli occhi. “No, assolutamente no, dobbiamo agire da soli, io e te. Aspetta solo che mi vesta.”
 
Prima che John potesse distogliere lo sguardo, si era sfilato il pigiama e stava aprendo i bottoni della camicia. Con immensa disperazione, John si costrinse a guardare altrove.
 
Uscendo dall’aula –Sherlock si stava ancora aggiustando la cintura dei pantaloni- incapparono nella professoressa Hudson.
 
“Ohh!” esclamò lei, il volto che si apriva in un sorriso di trionfante beatitudine. “Chi abbiamo qui!”
 
“No! Professoressa, noi stavamo… noi non…”
 
“Oh, state tranquilli. Vivi e lascia vivere, questo è il mio motto. Ora scusatemi ma devo andare a parlare con il professor Vitious. Ah, l’amore!”
 
“Non…”
 
John avrebbe desiderato lanciarsi all’inseguimento della donna per chiarire tutta la situazione, ma Sherlock lo bloccò per un braccio. “Non importa” disse. “Piuttosto, ascoltami: Magnussen si crede insospettabile. Non dovrà capire che stiamo indagando su di lui, quindi dovremo comportarci normalmente. Saremo tristi e preoccupati per Richard. Tu chiederai a Mary Morstan di uscire.”
 
“Non vuoi agire subito?”
 
“No, sarebbe inutile. Uno studente è sull’orlo della morte e noi dobbiamo muoverci, certo, ma con calma. Prima devo indagare per conto mio. Devo fare delle ricerche.”
 
“Ok, ti aiuto.”
 
“No, devo essere solo io. Tu non fare nulla. La quasi-morte di quel ragazzo è stato uno spiacevole incidente, questo ti hanno detto e a questo devi credere. Niente ma. Non voglio che ti succeda niente per colpa mia.” E questo bastò a chiudere a John la bocca.
 
Parlando si erano diretti in Sala Grande, dove tutti stavano facendo colazione, ma nessuno mangiava. John pensò di non aver mai percepito un’atmosfera così lugubre. Non appena varcarono la porta un ragazzo di Tassorosso con i capelli a spazzola li raggiunse.
 
“Ah, salve Graham” salutò Sherlock.
 
Il ragazzo storse il naso. “È Greg.”
 
“Ah, già.”
 
“Silente mi ha dato questo per John Watson.” Greg Lestrade, piuttosto perplesso, gli porse un pezzettino di pergamena ripiegata.
 
“Ehi Greg, va tutto bene? Insomma… eri suo amico?” si preoccupò il Grifondoro.
 
“In realtà non lo conoscevo neanche, però mi dispiace. Era un bravo giocatore di Quidditch, e ora… Anche se la situazione mi lascia perplesso, non pensavo potesse accadere.”
 
Sherlock gli lanciò una strana occhiata. “Già.”
 
“Anche voi la pensate come me?” Lestrade era sorpreso. “Mio padre lavora al San Mungo, e una cosa del genere non gli è mai capitata” spiegò.
 
“Tuo padre lavora al San Mungo?” domandò Sherlock.
 
John dispiegò il bigliettino di Silente con un vago senso di apprensione. C’era scritto:
 
Ricorda la tua promessa
 
Dunque Silente sapeva: quel giuramento era stato indotto per un motivo ben preciso. Non era da preservare solo l’incolumità morale di Sherlock, ma anche quella fisica. E soprattutto, Silente sapeva che Sherlock non avrebbe abboccato alla storiella della morte accidentale. E se lui aveva le mani legate da un qualche ricatto di Magnussen, stava a Sherlock prendere in mano la situazione, e a John assicurarsi che ne uscisse vivo e vegeto.
 
“Non farne parola con nessuno” stava dicendo il Corvonero. John aveva perso l’ultimo scambio di battute, concentrato com’era sul messaggio del Preside.
 
“Tranquillo. Non l’avrei detto nemmeno a te se non me l’avessi chiesto.”
 
“Che succede?” si intromise John.
 
“Niente” risposero in coro gli altri due.
 
“Suo padre fa parte della falsa equipe che ti curava?” domandò ancora John quando Greg fu tornato al suo tavolo.
 
“Già. Già, proprio così. Hai indovinato. Bravo.”
 
Prima che John avesse il tempo di insospettirsi Molly Hooper si catapultò verso di loro con uno strilletto. “Sherlock! Sherlock, tu eri lì, dev’essere stato orribile! Stai bene? Posso fare qualcosa per te? Vieni a sederti, devi mangiare qualcosa!”
 
John soffocò un risolino nel vedere l’occhiata di puro panico che Sherlock gli lanciava.
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Lo so. Lo so. Che si sono detti quei due la scorsa notte?
Volevo creare un po’ di suspence…
 
 
 
 

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Capitolo 14
*** Capitolo 9. ***


“Magnussen.”
 
Cosa?”
 
“Mettiti comodo, John, è una storia piuttosto lunga. Aspetta… muffliato! Ecco. Ora non ci sentiranno.
 
“Partendo da ciò che già sai, due anni fa sono stato ricoverato d’urgenza all’Ospedale San Mungo per malattie e ferite magiche. Ciò che invece non conosci, è il il vero motivo della mia dipartita da Hogwarts: John, le partite di Quidditch, lo studio e le nostre uscite notturne non mi fanno un accidente. Io non sto male, non sono mai stato male.”
 
“Che cosa stai…”
 
“Era solo un trucco, uno stratagemma per inserirmi al San Mungo per un tempo sufficientemente lungo. I miei Guaritori erano persone fidate di mio fratello Mycroft, che ha architettato tutto: fingevano di curarmi, registravano i miei inesistenti progressi e tutto il resto. In realtà, ero libero ventiquattr’ore su ventiquattro. Un giorno ti racconterò tutto ciò che ho fatto… ma questo non è il momento. Penso ti si sia slogata la mascella, tra parentesi, perché ti pende in modo innaturale. Ora tu ti starai sicuramente chiedendo: perché Mycroft mi voleva lì dentro? Vedi, quello che noi ora chiamiamo professor Magnussen, altri non era che un membro del consiglio di amministrazione dell’ospedale.”
 
Sherlock… che diamine… tu mi hai fatto credere di essere malato…”
 
Gli aveva mentito, non stava male, gli aveva mentito per quasi due anni, come aveva potuto, non aveva neanche risposto alle sue lettere, neanche una riga per dirgli che stava bene, che non c’era bisogno di preoccuparsi…
 
“Non mi interrompere. Mycroft sapeva che Charles Augustus Magnussen non conduceva affari puliti, e voleva che una persona fidata indagasse. Una persona che non avesse responsabilità all’interno dell’ospedale, uno di cui Magnussen non si sarebbe mai curato. Be’, lentamente, in modo che lui non se ne accorgesse, ho scoperto una frode ai danni dell’ospedale, con grande guadagno da parte dell’amministratore in questione. Magnussen è stato denunciato. E fin qui tutto bene, il problema è venuto dopo. Non avevamo idea di quanto quell’uomo fosse potente, e persino di fronte ad accuse schiaccianti è riuscito a farla franca; l’unica cosa che abbiamo ottenuto con il processo è stata di farlo allontanare dal San Mungo per un anno, ma secondo noi quel verme ha ricattato Silente, perché il Preside, in mancanza di altri candidati per il posto, gli ha ceduto una cattedra. Temo che sia a conoscenza di un paio di segretucci che il nostro Silente non preme di veder rivelati… Ufficialmente, allontanarlo servirebbe a smantellare la sua rete, ma io credo che lui avesse tutte le intenzioni di venire qui, sapeva che io sarei ritornato… credo che voglia uccidermi.”
 
Sherlock!”
 
“Piantala di dire il mio nome, me lo ricordo! Purtroppo, mio fratello non è riuscito a tenermi lontano dalla scuola come avrebbe voluto, l’hanno costretto a farmi ritornare una volta resisi conto che non avrei dovuto stare lì al San Mungo. Mycroft è un uomo potente, ma temo che anche lui sia caduto nel mirino di Magnussen, ora che abbiamo scoperto le sue carte. Sai perché sono stato ricoverato, oggi? Perché doveva venire a parlarmi senza destare sospetti; ho scoperto che Magnussen verrà reintegrato nella sua posizione di amministratore delegato al termine dell’anno scolastico. Doveva dirmelo di persona, le lettere possono essere intercettate e non era il caso di rischiare uno scandalo: le accuse e il processo sono stati strettamente confidenziali, quasi nessuno ne è a conoscenza. Magnussen ha manovrato per bene dietro le quinte.”
 
Non era tornato per lui, era stato costretto a farlo, era tutta una farsa, non era tornato per lui…
 
“Cosa aspettavi a dirmi che eri in pericolo?”
 
“Non lo so, non lo so! ma è quasi Natale, la maggior parte degli studenti è a casa… sarebbe il momento più opportuno per uccidermi, non credi?”
 
“E non potrebbe vendicarsi… che ne so… bocciandoti? Espellendoti?”
 
“Vuole uccidermi, ne sono sicuro, e non sono l’unico. Fammi indovinare: Silente ti ha chiesto di proteggermi, vero?”
 
“Sì ma… perché Silente ha accettato di assumere Magnussen?”
 
“Te l’ho detto, nessuno vuole quella cattedra e Magnussen voleva venire qui. Per uccidermi.”
 
“Che cosa possiamo fare?”
 
“Da parte mia: non morire. Io voglio sconfiggerlo, capisci? Ho scoperto di non poterlo fare svelando a tutti le sue macchinazioni, perché sa trovare il modo di tenere a bada il Wizengamot. Quindi ci serve un'altra strategia. Potremo sconfiggere Magnussen solo con la sua stessa moneta: dobbiamo scovare un suo segreto e ricattarlo, renderlo inoffensivo. Sarà complicato, temo… e pericoloso, anche senza Pix che minaccia di farci espellere.”
 
“Cerchi di dissuadermi?”
 
“Cerco di reclutarti. Sei con me?”
 
Quella richiesta tanto improvvisa lo spiazzò. “Certo che sono con te. Lo sono sempre.”
 
“Bene. Hai dei segreti, John?”
 
Cosa?
 
“Si suppone che i migliori amici, come ci definisci tu, si dicano tutto…” ironizzò Sherlock. “Se vogliamo sperare di sconfiggerlo non dobbiamo avere segreti, così lui non potrà usarli contro di noi.”
 
Una luce si accese nella stanza accanto.
 
Entrambi raggelarono.
 
Vattene, ora!
 
John si celò alla vista con un incantesimo temporaneo, e sgattaiolò fuori dalla stanza.






Smaug's cave
BUAHAHAHAHAHAHA! *fine risatona malvagia*
Ed ecco cos'è successo la fatidica notte prima del fatidico (quasi)delitto... La stesura di questo capitolo mi ha causato non pochi problemi, non sapevo proprio in che modo spiegare tutto il casino con Magnussen, ma spero di essere stata soddisfacente... sarei felice di sapere che ne pensate, a questo punto :)

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Capitolo 15
*** Capitolo 10. ***


Cacchiata iniziale: si consiglia la lettura della fine di questo capitolo con “Dear John” di Taylor Swift di sottofondo. Come canzone a me non piace neanche tanto, però cavoli, è perfetta. Leggetevi il testo, e capirete. Stavo pensando di farla più spesso, questa cosa di abbinare i capitoli alle canzoni… e più ci penso più mi pare una bella idea, ma ditemi voi. Oh Gallifrey, devo smetterla di parlare.
 
 
“Ma chi me l’ha fatto fare?” si disperava John Watson mentre attendeva il suo migliore amico davanti al ritratto della Signora Grassa, mezzo morto di freddo, all’una di notte, il giorno di Natale.
 
“Eccoti qui.” Sherlock emerse dall’ombra. Indossava il suo solito mantello nero con il bavero alzato e una nuova sciarpa blu.
 
“Bella sciarpa.”
 
“Regalo di Molly. Non so perché l’ho messa.”
 
“Molly Hooper ti ha fatto un regalo di Natale?”
 
“Già. Allora, hai la Mappa?”
 
“Uhm, no.”
 
“Come sarebbe a dire no?”
 
“Sai, forse ho cambiato idea.”
 
“Non dire sciocchezze, se avessi cambiato idea non saresti qui ad aspettarmi.”
 
“No, non sto scherzando, e più resto qui a congelare più me ne convinco. Tu mi hai mentito, mi hai fatto stare male per quasi due anni, e ora pretendi che ti segua come un cagnolino ovunque tu vada, perché Magnussen vuole ucciderti, e bla, bla, bla. E io ti seguo, lo faccio, l’ho sempre fatto. Ma sono stanco delle tue menzogne!”
 
“Io ti ho detto la verità.”
 
“Oh, sì, l’hai fatto. E dopo quanto tempo?”
 
“John mi dispiace, mi dispiace! Mi dispiace. Ti prometto che d’ora in poi… sarò un amico migliore. E se vorrai lasciarmi, per favore, fallo dopo stanotte.”
 
“Comunque la Mappa non ce l’ho” sospirò John.
 
“Non puoi andare a prenderla?”
 
“Questo pomeriggio volevo provarla e, uhm, ci stavo andando in giro e Gazza mi ha visto e me l’ha confiscata?”
 
“Ha preso la Mappa?”
 
“Sì, ma non ha capito che era magica, perché l’ho richiusa vedendolo arrivare. Stavo controllando un'altra cosa e non me n’ero accorto… così me l’ha confiscata perché gli sembrava della pergamena sospetta. Parole sue. Sai com’è fatto.”
 
“Poteva andarti peggio… Peccato, poteva tornarci utile. Andiamo.”
 
Uno dei lati positivi di avere Hogwarts semivuota per le vacanze di Natale era che ci si poteva sedere a qualsiasi tavolo: cosa che infatti Sherlock aveva fatto, quel 24 dicembre. Per un po’ lui e John avevano mangiato fianco a fianco senza proferire parola.
 
“Stasera” aveva infine detto il Corvonero, e lo stomaco di John si era contratto.
 
Stasera?
 
“Stasera. Magnussen non c’è, è tornato a Londra. Ci introduciamo nel suo ufficio, frughiamo tra le sue carte, lo ricattiamo, lo mandiamo a nascondersi in qualche tana di coniglio.”
 
“Aspetta, prima dovremmo essere certi che sia stato lui, avere delle prove che ha voluto ucciderti.”
 
John aveva lasciato all’altro il tempo (infinitesimale) di rimuginarci su. “Giusto, come ho fatto a non pensarci? Sono un idiota. Se si scoprisse che ha ammazzato uno studente lo scandalo sarebbe pubblico, verrebbe screditato su scala nazionale.”
 
“Ma deve essere proprio stasera? Io e Mary…”
 
“Mary ha intenzione di darti buca, comunque. Ci vediamo all’una di notte davanti alla tua Sala Comune. Porta la Mappa del Malandrino, per precauzione.”
 
L’ufficio di Magnussen si trovava al quinto piano; lo raggiunsero senza complicazioni grazie alla prodigiosa memoria del Corvonero e alla sua abilità nell’evitare la ronda. Erano pronti a tutto per entrare, sapevano che doveva essere protetto meglio di una fortezza; per l’occasione si erano ristudiati tutti gli incantesimi che potevano tornare utili.
 
Protegum revelio! Abdo sensi! Curioso. Sembra che non ci sia nulla.”
 
“Fortuna che doveva essere una fortezza inespugnabile, la porta non è nemmeno chiusa a chiave! Guarda, è solo accostata!”
 
Quello fu il primo segnale che qualcosa non andava.
 
Entrarono in una sala ampia, circolare, da cui si spalancavano altre tre porte; una scala a chiocciola conduceva al piano superiore. Alti scaffali stracolmi di libri e oggettini buffi o inquietanti erano addossati alla parete; al centro troneggiavano una scrivania di mogano e una poltrona simile a un trono foderato di velluto verde.
 
Decisero di ispezionare prima il secondo piano, composto da un lungo corridoio su cui si aprivano quattro piccole stanzette circolari. Rivoltarono ogni angolo delle prime tre senza risultati. Stavano bene attenti a rimettere tutto a posto, senza lasciare traccia del loro passaggio.
 
La quarta era l’unica sbarrata, ma non fu difficile accedervi: bastò un “Alohomora” e furono dentro. Era vuota, fatta eccezione per un imponente specchio intarsiato e lavorato.
 
John si sentì irresistibilmente attratto da esso, desiderava ammirare il proprio riflesso come mai in vita sua aveva desiderato qualcosa.
 
Si avvicinò a piccoli passi, ammirando le rifiniture e i particolari della cornice, pregustando il momento in cui si sarebbe specchiato. Quando fu a meno di mezzo metro guardò nello specchio.
Per un attimo ciò che vide fu solo il suo riflesso, come si era aspettato.
 
Da qualche parte, molto lontano, Sherlock mormorò: “Lo specchio”.
 
Poi l’immagine mutò e si ricompose lentamente.
Per prima cosa John rivide se stesso, ma con un sorriso trionfante stampato in volto, la divisa da Quidditch e una coppa scintillante tra le mani. Accanto a lui comparve Mary Morstan –o forse c’era sempre stata? con i capelli biondi mossi dal vento, che gli saltava al collo e lo abbracciava stretto. Non udiva alcun suono, ma avrebbe potuto giurare che lei stesse urlando “Ce l’hai fatta, John, avete vinto!”. Clarisse Weasley, invece, gli saltò sulle spalle arruffandogli i capelli con il pugno chiuso. Charlie Weasley gli strinse la mano e gli diede una pacca sulla schiena. In breve si avvicinarono tutti gli altri membri della squadra, e tutti lo strattonavano e lo abbracciavano e si congratulavano.
 
E infine giunse lui, Sherlock. Tutti si facevano da parte al suo passaggio, si addossavano confusamente ai margini dello specchio. Sherlock lo abbracciò tanto violentemente che i loro sterni cozzarono dolorosamente l’uno contro l’altro. John poteva sentirlo sussurrare: “Complimenti. Mi hai battuto. Meriti un premio…
 
“John?” chiamò il vero Sherlock.
 
Sussultando lui si voltò, arrossendo nel sentire il proprio nome pronunciato con tanta enfasi.
 
“Tu… tu vedi quello che vedo io?” domandò.
 
“Cosa vedi?”
 
“Noi sul, uhm, campo da Quidditch. Ho appena vinto il campionato.”
 
“Questo è lo Specchio delle Brame, senza dubbio. Non capisco…”
 
“Sherlock Holmes non capisce qualcosa? Domani nevica.”
 
“Dalle tre di questa notte alle nove di domattina con temperature dai meno venti ai meno dieci gradi, ma non è questo il punto. Degli innumerevoli desideri che ognuno di noi ha, lo Specchio delle Brame proietta il più profondo e recondito di ciascuno. Io però… non vedo niente, solo la nostra immagine riflessa.”
 
“Significa che non hai desideri?”
 
“No! …O almeno lo credevo. Non capisco.”
 
John prese il controllo della situazione: “Usciamo di qui” ordinò. “Forse è rotto o cose del genere. In ogni caso, meglio starci lontano.”
 
“Vuoi andartene? Molte persone non riescono a staccarsi da ciò che vedono, e tu vuoi addirittura andartene. Bene, andiamo.” Il ragazzo ricciuto non se lo fece ripetere due volte. A metà strada dalla porta, però, si bloccò e ritornò indietro. “Cos’hai detto di vederci?”
 
John gli scoccò un’occhiata obliqua; l’amico era immobile, rivolto verso lo Specchio. Aveva parlato con voce piatta, come in trance.
 
“Certo che resterei per sempre qui davanti” tergiversò. “Ma tu invece devi andartene, perché è evidente che qualcosa non funziona, e non io non ti abbandono per fissarmi su qualcosa che non è nemmeno reale.”
 
Sherlock inclinò lievemente il capo. “Sì, dev’essere rotto. Andiamocene, e subito.”
 
La verità? Era spaventato. Se quello specchio proiettava i desideri più reconditi di ognuno, questo era ciò che lui bramava di più? La vittoria in campo sportivo, gli amici esultanti, la folla che lo acclamava? Voleva davvero questo? Si pentì di aver distolto lo sguardo: che cosa sarebbe successo, poi? Che cosa avrebbe fatto Sherlock? Non lo sapeva. Avrebbe tanto voluto, ma non lo sapeva, non con chiarezza. Era tutto molto confuso quando si trattava di lui, e ora ci si metteva in mezzo pure quello stupido specchio… l’unica cosa certa erano le persone che avrebbe voluto con sé nel proprio trionfo: i cugini Weasley, sempre pronti a dargli un pugno sul braccio e ad arruffargli i capelli; la squadra di Quidditch, la sua vera famiglia lì a Hogwarts; e Mary, che per anni gli era rimasta vicina e ora, tutt’ad un tratto, era divenuta la persona più importante di tutte. I suoi amici. E Sherlock.
 
C’era del movimento al piano di sotto, si sentivano dei passi e il fruscio della carta.
 
A Londra, eh? E adesso che cosa facciamo?
 
“Resta qui, io vado a controllare” bisbigliò Sherlock.
 
“No, vengo con te.”
 
“Resta esattamente dove sei e non discutere.”
 
John si sedette con la schiena al muro, maledicendo la capacità di persuasione del proprio migliore amico. Bastava un “non discutere” detto con quella voce profonda e baritonale, e nessuno discuteva più.
 
Si pentiva di aver distolto lo sguardo dallo Specchio: che cosa sarebbe successo, poi? Che cosa avrebbe fatto Sherlock? Non lo sapeva. Avrebbe tanto voluto, ma non lo sapeva, non con chiarezza. Era tutto molto confuso quando si trattava di lui, e ora ci si metteva in mezzo pure quello stupido specchio… l’unica cosa certa erano le persone che avrebbe voluto con sé nel proprio trionfo: i cugini Weasley, sempre pronti a dargli un pugno sul braccio e ad arruffargli i capelli; la squadra di Quidditch, la sua vera famiglia lì a Hogwarts; e Mary, che per anni gli era rimasta vicina e ora, tutt’ad un tratto, era divenuta la persona più importante di tutte. I suoi amici. E Sherlock.
 
Forse, mentre Sherlock andava a controllare di sotto, avrebbe potuto fare una capatina nella stanza dello Specchio. Giusto per vedere come andava a finire la scena…
 
Stupeficium!”
 
Un tonfo, dei passi, una porta che sbatteva.
 
Sherlock! Sherlock? Oddio, che è successo? Sherlock!”
 
***
 
“Devi parlarle.”
 
“E dirle cosa? Ehi, sai che l’altro giorno mi sono introdotto illegalmente nello studio di un professore e –ma guarda un po’- ho visto te? Oh, brillante, sul serio.”
 
“Non puoi fingere che questo non sia successo.”
 
“Hai ragione, non posso.”
 
“Allora parlale! È davvero così grave? C’eri anche tu, lì, Mary non ha fatto nulla che tu non avessi fatto prima.”
 
“L’altro giorno volevi che non le parlassi più.”
 
“Lei ti piace e non posso farci niente. Parlale. Sono passati quattro giorni.” Sherlock si sedette compostamente ai piedi del letto di John, nella sua stanza. Erano circa le quattro del pomeriggio, e in giro non c’era anima viva –alcuni fantasmi gironzolavano per i corridoi. “Senti, posso farti una domanda stupida?”
 
“Fosse la prima…”
 
“Voi due vi conoscete da tanto… perché, solo dopo tutto questo tempo avete… avete…”
 
Sembrava sinceramente incuriosito, pensò John; forse era desideroso di ampliare le proprie conoscenze in campo sentimentale. “Credo che ci sia sempre stato qualcosa” rispose dopo una pausa, “servivano solo le condizioni adatte a tirarlo fuori. Oddio, detta così suona malissimo.”
 
“Quindi le cose avrebbero potuto andare diversamente… in altre situazioni.”
 
“Suppongo di sì. È stata perlopiù lei a…”
 
“Ok, ho capito. Volevo sapere solo questo.”
 
John aveva imparato che quando Sherlock dichiarava chiuso un argomento, non era il caso di porre ulteriori questioni.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Per questo capitolo ho deciso di rifarmi più al libro che alla serie, perché avrei fatto sorgere un sacco di inutili complicazioni se Magnussen si fosse trovato lì. Nel libro, Sherlock e Watson si introducono ad Appledore e, nascosti dietro una tenda, vedono lady Smallwood che forza una cassaforte e ne preleva tutto il contenuto in documenti. È tutto così facile, nei libri…
Passando ad altro, spero che abbiate capito il nesso tra la canzone e il finale… io e le OTP di questa serie tv abbiamo seri problemi di conflittualità. Lo ammetto, non mi piace shippare chi non è canon, non lo approvo nemmeno, perché so che se non è canon c’è un motivo; sinceramente, secondo me Sherlock non dovrebbe stare con nessuno. Sarebbe davvero troppo strano… però non posso fare a meno di shippare la Adlock in “Scandalo a Belgravia”, la Sherlolly ogni volta che si parlano (e poi insomma il loro bacio –inventato, oltretutto- in “An Empty Hearse” era troppo ganzo, con lui che si scompigliava i capelli e quella musica da film d’azione di sottofondo), eccetera. Persino Janine mi stava simpatica, però con lei non l’ho mai shippato, e indovinate perché? Perché loro due, in quei dieci minuti, sono stati come una vera coppia, e la cosa mi faceva davvero ribrezzo.
Ho tenuto i Johnlock per ultimi per un motivo. Loro non si metteranno mai mai mai insieme. Non credo che quell’“expect the unexpected” significhi “expect TJLC” (che, per chi non lo sapesse, significa The John-Lock Cospiration, e sì, qualcuno ha davvero creato una sigla). E credo anche che la loro si tratti solo di bromance, ma non posso fare a meno di shipparli. È divertente, tutto qui. Se Sherlock ama qualcuno, quello è John, di questo però sono certa; lui ammira Irene, apprezza Molly, ma ama John, e con “ama” non intendo per forza un amore passionale.
 
 
 

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Capitolo 16
*** Capitolo 11. ***


POV MARY
 
Ci incontriamo clandestinamente alle undici e trenta dell’ultimo giorno dell’anno, quando ormai tutti i professori devono essersi stancati di sorvegliare i corridoi deserti. So per certo che Silente ha trovato il modo di far funzionare un apparecchio elettronico anche all’interno di Hogwarts, e ha radunato Vitious e la McGranitt per guardare una qualche serie televisiva Babbana. Cento ne pensa e una ne combina, il caro Albus, ma sempre quella più azzeccata.
 
Uno dei lati negativi di Hogwarts è la totale assenza di impianti di riscaldamento. Pur rimanendo all’interno del castello, sono costretta ad imbacuccarmi in strati e strati di lana, tra sciarpe, maglioni, guanti e berretti, il tutto rigorosamente blu o bronzo, perché guai a non indossare i colori della propria Casa, sarebbe come tifare le Holyhead Harpies(*) e girare con lo stendardo dei Falmouth Falcons(**). Io tifo le Harpies, tra parentesi.
 
Io e John sediamo compostamente e ben distanti nei pressi della Sala Grande, in modo da tenere d’occhio il grande orologio all’ingresso.
 
Dio, che situazione imbarazzante. Si vede benissimo che John cerca di interpretare la parte di quello distaccato e incazzato perché ha scoperto che non sono la ragazzina innocente e coccolosa che sembravo, ma è evidente che questo lo eccita non poco.
 
“Mary” dice con tono grave dopo un lungo silenzio.
 
“Sì, John?” modulo la mia voce perché sembri il più candida possibile, ma lui non ci casca.
 
“Cosa ci facevi nello studio di Magnussen la vigilia di Natale?”
 
Io scatto in piedi. Se lui vuole recitare, lo farò anche io. Ogni tanto un sano litigio è d’obbligo, serve per assestare la relazione. Fingo di essere sconvolta: “Vuoi dire che c’eri anche tu, lì? Credevo…” Bugia. Lo so benissimo che c’era anche lui, altrimenti avrei avuto una reazione diversa e gli avrei chiesto se Holmes è sempre così pettegolo. Lo so che era con lui, l’ho visto affacciarsi dalla tromba delle scale. Se John non fosse stato lì, avrei cancellato la memoria al suo amichetto in modo che dimenticasse di avermi visto, ma in quel caso John sarebbe finito nei guai, e non potevo permettere che accadesse, non all’ultimo anno, quando la buona condotta è indispensabile.
 
“Io e Sherlock…”
 
“Tu e Sherlock, esatto. Sempre tu e Sherlock. E mi va bene, ok? Lui mi piace, so che sta antipatico a un sacco di persone però a me piace, ma quando sei con lui sei diverso. Arriva lui e…”
Ecco. Mary, stupida idiota, ti sei scavata la fossa da sola. Come faccio a dirglielo? Non lo ammetterà mai. Dio, come faccio? Come posso dire al ragazzo che mi piace che lui è innamorato di un altro, anche se in questo momento crede di essere innamorato di me? Io gli piaccio, ne sono convinta. So che gli piace l’idea di avere una ragazza, e avere qualcuno da baciare, qualcuno che… che incrementi la sua popolarità e lo sostenga e tutto quanto.
 
E ora si sente sicuramente attratto da me, sarebbe difficile non notarlo… oddio, cosa faccio?
Forza, Mary. Sei tutto tranne che una codarda. È per il suo bene, per il bene di John Watson, il ragazzo più dolce e innocente e coraggioso sulla faccia della terra, che non riesce a racimolare abbastanza coraggio da decifrare i propri sentimenti.
 
“Forse io e te siamo un errore” sospiro.
 
“No! Non è così, è solo che vederti lì… perché l’hai schiantato?”
 
John, perché non vuoi capire? È già pronto a perdonarmi. Non è capace di rimanere arrabbiato a lungo con le persone a cui vuole bene, soprattutto se la sua ira finisce per ritorcersi contro di lui.
 
Voglio disperatamente tenerlo per me, perché , sono innamorata di lui, come non essere innamorati di un ragazzo così meraviglioso? Ma desidero anche vederlo felice, e non lo sarà mai completamente finché starà con me.
 
Il gelo si impadronisce delle mie viscere. Come faccio… c’è un bel ragazzo di fronte a me, che crede di amarmi e ora vuole baciarmi perché sarebbe la cosa giusta da fare, ed è sexy da morire, e io sono solo una diciottenne in preda a scompensi ormonali di ogni genere, e mi si chiede di rivelargli, in un qualche modo a me tuttora ignoto, che per lui è sbagliato stare insieme a me.
 
Non posso. Non mi si può chiedere questo.
 
Lui ama un altro, ma non lo sa. E non sarò io ad illuminarlo. Non sarebbe corretto, comunque. Sta a lui scoprire i propri sentimenti, e quando lo farà, io lo lascerò andare.
 
Tempo al tempo. Ne trascorrerà a sufficienza con Sherlock Holmes.
 
“Non lo so, mi dispiace, ero spaventata e… non posso…” gemo, ma lui pensa che mi riferisca al motivo per cui ho schiantato Holmes.
 
Mi prende tra le braccia, e io premo la testa contro il suo maglione. Mi dispiace, John, mi dispiace davvero, ma sta a te capirlo.
 
Ci accoccoliamo insieme sulla panca. John mi accarezza la schiena con le nocche, come a un gatto, e sento il mio battito cardiaco rallentare e calmarsi.
 
“Sembri tesa” nota.
 
“Sto bene.” Nulla di più falso. “Senti, John…” mormoro dopo un po’, scostandomi appena da lui. Il massaggio si interrompe. “Ci conosciamo da tanto tempo… io non… non ti ero mai piaciuta, prima?”
 
“Certo che mi piacevi!”
 
“Intendo, come a una possibile fidanzata.”
 
Una pausa. “Ok, forse non avevo mai pensato a te in questo senso, ma mi sei sempre piaciuta.”
 
“Tu non ti saresti mai innamorato di me se io non avessi fatto il primo passo, vero?”
 
Lui rimane in silenzio. “No” risponde infine, chinandosi verso la mia bocca. “Ma sono contento che tu l’abbia fatto, ora.”
 
Interessante” commento io separandomi da lui, come aveva fatto lui la prima volta, e lo bacio di nuovo. Non è la prima volta che ci baciamo, ma di certo è la prima in cui lo facciamo seriamente.
John se la prende comoda, regalandomi piccoli bacetti a fior di labbra, finché io non metto le mani dietro la sua nuca e lo attiro a me, premendo le sue labbra contro le mie ed aprendole con forza.
Che caldo. Dico sul serio, sono l’unica ad avere caldo?
Sento l’impellente bisogno di sciogliermi la sciarpa.
 
 
POV JOHN
 
Il loro primo bacio era stato bruscamente interrotto dalla farsa di Sherlock, ma ora non c’era nulla che potesse fermarli. Era l’ultimo giorno dell’anno, la mezzanotte stava per scoccare, e John era determinato a concludere in bellezza –e anche iniziare, se possibile.
Era l’ultimo giorno dell’anno.
 
“Mary. Mary, mi dispiace tanto…”
 
“Non baci così male, sai.”
 
“No, io… devo andare… mi dispiace, non è colpa tua… mi dispiace… ti prego non mi lasciare ma devo proprio proprio andare…”
 
“È Sherlock, vero? Temi che gli sia successo qualcosa” sospirò lei, ma sembrava rassegnata.
 
“Sì. Be’, sì. Mi dispiace, è solo che…”
 
“Sei preoccupato, ho capito. Forza, va’ da lui. È il tuo migliore amico.”
 
E John andò dal suo migliore amico. Incurante del pericolo. Incurante della meravigliosa ragazza disposta a perdonargli ogni cosa. Incurante di tutto, fuorché di lui.
 
Gli venne in mente di non essere mai stato nel dormitorio di Corvonero: non conosceva la parola d’ordine per entrare. Che cosa stava facendo?
 
La porta era liscia, priva di battente; al suo posto, stava la testa di un corvo nero –e sembrava legittimo.
 
“Trentadue bianchi cavalieri su un rosso colle” gracchiò il corvo.
 
Cosa? “Puoi… puoi ripetere?”
 
“Trentadue bianchi cavalieri su un rosso colle.”
 
“Devo… dirlo anche io? Trentadue bianchi cavalieri su un rosso colle. …No, a quanto pare no. È un indovinello? Trentadue bianchi cavalieri su un rosso colle… bianchi… uhm…”
 
“Sono i denti, ha già fatto quella domanda”
 
“Molly!”
 
“Ciao, John.”
 
La giovane Corvonero aveva aperto la porta dall’interno.
 
“Cerchi Sherlock?” domandò la ragazza, arrossendo fino alla punta delle orecchie e affondando il mento nella sciarpa blu.
 
“Anche tu? Potremmo…”
 
“Cercarlo insieme? In Sala Comune non c’è. Ma tu non eri con Mary Morstan? Me l’ha detto Janine Matthews, di Serpeverde.”
 
“Sì, ma… insomma, Sherlock…”
 
“Andiamo.”
 
“Cercavate me?”
 
“Sherlock!”
 
“Oh, ciao, Sherlock.”
 
“Ciao, ragazzi!”
 
Janine?”
 
“Janine, che ci fai qui?”
 
“Che domande, sto con il mio ragazzo?”
 
“Tu… e Sherlock?”
 
Ragazzo?”
 
“Janine, Molly, potete scusarci un attimo? Devo solo dire una cosa a John. John, vieni con me.”
 
Si fermò a due corridoi di distanza, abbastanza lontano perché le due ragazze non lo sentissero.
“Tu e Janine. Seriamente” fece John sgranando gli occhi.
 
“Sì, è la mia ragazza.”
 
“Da quando?”
 
“Un paio di settimane, giù di lì. Ho notizie fresche, John, non è stato Magnussen a tentare di uccidermi! Ho ricevuto una lettera dal San Mungo, a quanto pare quella notte era lì, e questo significa che l’uomo che vuole la mia morte è ancora lì fuori, e ancora insospettato!”
 
“Stai con Janine da due settimane e non me l’hai detto.”
 
“Sì, be’, è la cocca di Magnussen, volevo qualcuno che mi tenesse aggiornato su di lui. Peccato che, alla luce, degli ultimi eventi, sia stato inutile… ma possiamo ancora farcela servire.”
 
“Stai con Janine perché è la cocca di Magnussen.”
 
“Ti dispiace ascoltarmi?”
 
“Bene, continua.”
 
“Ci servirà anche Mary, ma a lei puoi dire il perché, tanto ormai conosce parte della verità. Voglio incontrare il mio assassino, parlargli faccia a faccia, scoprire le sue intenzioni. In altre parole, tendergli una trappola.”
 
“Sai che sarà inutile, vero?”
 
“E anche pericoloso, ma io devo sapere. Aspetteremo che tutti siano rientrati dalle vacanze e poi spargeremo la voce.”
 
“Ma Janine… ti piace sul serio?”
 
“È simpatica, carina, no. Troverò il modo di rompere con lei con qualche sciocca scusa.”
 
“Quindi prima fingi di stare male, poi fingi di avere una ragazza, e in entrambi i casi non mi dici nulla?” John sentiva la rabbia montare nelle sue viscere –a scoppio ritardato.
 
“Sì che te l’ho detto!”
 
“Dopo due anni!”
 
“Non avevamo già avuto questa conversazione? Tu, arrabbiato, io che mi scuso, tu che mi perdoni e amici come prima, non senza prima avermi minacciato di…”
 
“No, sono stanco! Io non ti aiuto più a fare un cazzo, intesi? E buon anno!”
 
 
(*) Squadra di Quidditch
(**) Sempre una squadra di Quidditch
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Per il dialogo iniziale tra John e Mary ho dovuto chiedere aiuto alla mia amica wanna be a neko, perché io coi sentimenti sono un disastro. È stato così prodotto un dialogo alternativo, che vi sconsiglio di leggere se siete under 18 o se pensate ancora che io abbia una qualche forma cervello, perché è molto esplicito e potrebbe seriamente urtarvi. Dico sul serio, eh, se pensate che io sia una brava persona non leggete, c’è un motivo se questo dialogo non è parte della storia. Comprendeteci, era notte fonda.
“John mi accarezza la schiena con le nocche, come a un gatto, e sento il mio battito cardiaco rallentare e calmarsi.
-Sei tesa- nota.
-È perché sei gay- replico.
-Come?!
-Io lo sento, sono una yaoi shipper.
-Ma che cazzo stai dicendo?
-Ecco, quella è la parola giusta.
-Scusa ma tu da che parte stai?
-Dalla tua.
-Ah sì?
-Sì, John, tifiamo per la stessa bandiera.
-Quale bandiera?
-L’alzabandiera!
-Mary, io non sono gay!
-E io sono Katy Perry! I kissed a girl and I liked i-it, oops scusa, you’ll kiss a boy and you’ll like i-it...
-La vuoi smettere? Mi stai ferendo.
-Oww, no John scusa, è che… insomma voi siete una bella coppia, e capirai che…
-…Che?
-Che due alzabandiera sono meglio di uno.”

 

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Capitolo 17
*** Capitolo 12. ***


 
John Watson non era geloso.
 
Non era gelosia quella che provava, quanto piuttosto…
 
Non era ancora riuscito a trovare un termine adatto, ma di sicuro non era geloso.
 
Sapere che il suo migliore amico era fidanzato non lo toccava minimamente, anzi, era felice per lui. E poi Sherlock gli aveva spiegato che non faceva sul serio, era solo una questione di interessi. Ancora non sapeva spiegarsi, però, quell’improvviso scoppio d’ira nell’apprendere la notizia.
Sherlock era in pericolo di vita, e lui l’avrebbe aiutato, questo era certo, ma prima si sarebbe fatto pregare un poco, giusto per fargliela pagare.
 
Sì, ma fargliela pagare per cosa? Se aveva una ragazza buon per lui, anche John ne aveva una.
Be’, all’inizio lui non voleva che stessi con Mary, pensò. Però ora ne è felice. Segnali decisamente contrastanti.
 
Qual era il comportamento che un buon amico avrebbe dovuto assumere, in quella situazione? Tre minuti dopo essersi messo con Mary, un’amica di lei lo aveva minacciato di morte lenta e dolorosa se l’avesse ferita, ma non era sicuro che terrorizzare Janine Matthews fosse la cosa giusta da fare.
E poi da quando Sherlock ne sapeva abbastanza su come funzionava una relazione da tenerne in piedi una?
 
Ecco la soluzione! Sani, amichevoli consigli. Non si poteva però dire che John fosse un esperto, le sue relazioni non erano mai durate tanto quanto quella con Mary, e probabilmente solo perché da quando stavano insieme si erano visti sì e no quattro volte.
 
Però Mary era davvero fantastica, e lui non se la sarebbe lasciata sfuggire.
 
Restava il problema di Janine e Sherlock.
 
Janine. Perché proprio Janine? Il mondo era pieno di ragazze e lui sceglieva Janine.
 
Ma già, c’era un motivo se aveva voluto proprio lei: Janine era una pettegola, e questa era l’unica cosa che per lui contava. Che senso aveva, però, mettercisi insieme? E se Sherlock stesse provando davvero dei sentimenti verso quella Serpeverde? I Serpeverde non erano mai stati in sintonia con i Grifondoro, troppo diversi da loro, ma con i Corvonero si intendevano a meraviglia. Anche Mary era Corvonero, ci mancava altro, ma Mary era diversa. Certo, c’era sempre quel problema da risolvere, quello di Magnussen, ma lei non sembrava intenzionata a parlarne. Forse col tempo, acquistando la sua fiducia… E Magnussen dopotutto non aveva attentato alla vita di Sherlock, era stato qualcun altro. Ottimo, un problema in più, perché a quanto pareva non ce n’erano abbastanza.
 
Nonostante fossero ormai le sei di sera, la biblioteca di Hogwarts era illuminata a giorno dalle fiammelle che ardevano nei paralumi rotondeggianti e opachi. Una tempo John trovava strano che lo sviluppo tecnologico della scuola si fosse fermato ai livelli di primi dell’Ottocento, ma pian piano ci si era abituato, rendendosi conto che non sarebbe stato possibile collegare la scuola ad una centrale elettrica babbana.
 
“Ehi, John!” Mary Morstan lo salutò con un breve bacio a fior di labbra prima di sedersi accanto a lui. “Allora! Cosa ripassiamo oggi?”
 
“Potremmo rivedere Trasfigurazione…”
 
“John, non ho mai avuto problemi in quella materia, era solo un modo per passare più tempo con te” replicò lei in tono divertito.
 
“Sì, ma potremmo ripassarla comunque. Ci sono gli esami.”
 
“Non me lo ricordare! Stavo cercando di cancellare questo giugno dalla mia mente… Ah, senti, hai più parlato con Holmes?”
 
“No, è da una settimana che cerco di evitarlo. Se lo vedi, trasfigurami in qualcosa. Una tazza, un cravattino… visto che sei tanto brava.”
 
“È incredibile come si fosse fissato con Magnussen” commentò lei distrattamente. John aveva finito per raccontarle tutta la storia del tentato omicidio, e tutto ciò che ne era comportato, nella speranza che anche lei si confidasse. Invano. “Sai che Richard Knight è tornato dal San Mungo?”
 
“Davvero? No, non sapevo. Sherlock lo sa?”
 
Lei sorrise. “Se gli parlassi…”
 
“Che lo faccia lui, per una volta. Io non ne posso più.”
 
“E se invece studiassimo quello che abbiamo fatto oggi a Incantesimi?” propose lei cambiando completamente argomento, cosa di cui John le fu grato.
 
Si immersero in complicati incantesimi –quel genere di incantesimi che a nessuno verrebbe mai in mente di inventare e che gli studenti dell’ultimo anno sono costretti a studiare a memoria perché “sono importantissimi, ragazzi”- fino all’ora di cena, quando finalmente richiusero i libri con immensa soddisfazione e con la sensazione di aver sprecato due ore per niente.
 
In Sala Grande notò vagamente Molly Hooper seduta al tavolo di Serpeverde insieme a Jim Moriarty. Che ci faceva con quell’idiota? Tra l’altro, chissà cosa aveva voluto dire a Sherlock l’ultimo giorno dell’anno.
 
“Dai, vieni a sederti da noi” disse Mary. “Tanto non c’è nessuno.”
 
“C’è Sherlock.”
 
“John…”
 
“Okay, okay, vengo.”
 
Ovviamente, incrociarono proprio Sherlock. Il ragazzo era seduto da solo e stava osservando critico una coscia di pollo; dopo aver lanciato un paio di occhiate circospette per la sala, la posò con cautela sul piatto e agguantò invece una fetta di crostata.
 
No ti prego Mary non sediamoci lì…”
 
“Ciao, Sherlock.” La sua ragazza si sedette esattamente di fronte al suo migliore amico con un sorriso smagliante in volto.
 
“Ciao” borbottò John.
 
“Ah, John, devo parlarti” disse Sherlock senza distogliere lo sguardo da una torta alla crema posata qualche metro più in là.
 
“Com’è che aspetti sempre che sia io a venire da te?”
 
“Veramente è stata Mary a venire, e ti avrei cercato comunque, per la cronaca. Nell’ultima settimana –esattamente da quando ho scoperto che Magnussen non era colpevole- hanno iniziato ad accadere certi fatti.”
 
Certi fatti? E com’è che noi non abbiamo notato nulla?” domandò Mary inarcando le sopracciglia.
 
“Perché sono stati fatti passare sotto silenzio, per non allarmare l’intero corpo studentesco. E naturalmente da dopo Capodanno un sacco di persone sono ritornate a scuola, perché Sherlock Holmes non può seguire in pace delle indagini, o avere una lista ristretta di sospettati, no…”
 
“Che cosa è successo?”
 
“Mi sono stati fatti degli indovinelli.”
 
“Oh, wow.” John incrociò le braccia dietro la testa e si inclinò all’indietro, allontanandosi dal tavolo, cercando di assumere un’espressione stupita. “Indovinelli. Tipo ne Lo Hobbit, quando Bilbo e Gollum sono nella caverna? Dev’essere stato terribile.”
 
“Circa, solo che gli indovinelli riguardavano vecchi delitti, o eventi misteriosi accaduti qui a Hogwarts.”
 
“Quante volte è successo?”
 
“Tre. Due la settimana scorsa e una ieri notte. Dovrò affrettare il mio piano e usare Janine prima del previsto.”
 
Usare Janine.” John proruppe in una breve risata sarcastica. “Andiamocene, Mary.”
 
“Ma non ho ancora finite le polpette!”
 
“Torneremo più tardi.”
 
John afferrò la fidanzata per un polso e la condusse fuori dalla Sala Grande. Aveva voglia di tirare un pugno a qualcosa, possibilmente alla faccia di Sherlock Holmes, quell’emerito idiota.
 
Mary Morstan osservò John Watson dare sfogo ai propri sentimenti con un’ampia gamma di espressioni facciali in meno di dieci secondi. Il ragazzo passava dalla rabbia al ribrezzo al fastidio, a…
 
“John! Calmati, ora. Com’è che improvvisamente ti dà fastidio tutto ciò che quel poveretto dice?”
 
Lui sospirò. “Non ne ho idea, forse è semplicemente un brutto periodo.”
 
Mary conosceva la risposta, sfortunatamente. “Ci vediamo stasera, che ne dici? Io ho intenzione di mangiarmele, quelle polpette.”
 
“Certo. Qui fra un’ora?”
 
“A dopo. Vai in Sala Comune?”
 
“No, credo che mi fermerò in Biblioteca.”
 
“Io torno su.”
 
La ragazza si incamminò per la strada che portava al dormitorio di Corvonero. Risolse in meno di quattro secondi l’indovinello del corvo guardiano e si distese su uno dei divanetti della Sala Comune con vista sulle montagne.
 
Bene, forse qualcosa si stava smuovendo nella mente di John. L’ingombrante presenza di Janine Matthews gli stava finalmente facendo capire cosa provava veramente, quindi l’importante era che se ne accorgesse e lo riconoscesse. Ora era necessario che lui e Holmes si riappacificassero, e soprattutto che Sherlock tirasse fuori le palle e avesse il coraggio di dichiararsi. Come se fosse possibile. Quello stupido era ancora convinto di non avere un cuore.
 
Lo stupido entrò in quel momento nella Sala e si sedette su una poltroncina di fronte al fuoco, prendendosi la testa tra le mani e rimanendo immobile con i gomiti appoggiati alle ginocchia.
Mary distolse lo sguardo, a disagio. Doveva parlare con quel ragazzo, che soffriva senza nemmeno sapere il perché. Santo cielo, la brillante Mary Morstan relegata al ruolo di Cupido della situazione, solo perché non riusciva a parlare con schiettezza al fidanzato. Del resto, c’era un motivo se era Corvonero e non Grifondoro, le Case contano. Doveva fare una bella chiacchierata con Sherlock, e magari provare a smuovere un po’ John; qualche domandina posta quasi casualmente, una frase ispiratrice o due, e forse sarebbe riuscita nel suo intento. Nel frattempo c’era la scuola di cui preoccuparsi, gli argomenti di studio avrebbero fuso il cervello a chiunque.
 
“Mary!” Sherlock si sporgeva da dietro il divanetto.
 
“Cosa?”
 
“Pensavo fossi con John.”
 
“No, è in Biblioteca. Non credo abbia molta voglia di parlare con te, però.”
 
“Devo andare da lui.”
 
“No, aspetta.” Era ora di mettere le cose in chiaro con il più stupido dei due, almeno in quel campo.
 
“John potrà anche essere un sentimentale, drammatico sciocco, ma io non lo sono, e tu lo sai.”
 
“No, hai ragione.”
 
Lo tirò per la camicia, ponendosi a pochi centimetri dal suo volto. “E allora dillo” bisbigliò.
Nessuno faceva caso a loro: un ragazzo e una ragazza in fondo alla sala, in piedi, molto vicini, già visto.
 
“Ho ricevuto dei patroni” esordì Sherlock, scostandosi gentilmente da lei. “Un gatto, uno scoiattolo e un toro, finora. Mercoledì, sabato e lunedì, cioè ieri. Tutti e tre mi portavano dei messaggi, diversi ma dello stesso stampo, da cui ho dedotto che fossero collegati tra loro…”
 
Mary alzò gli occhi al cielo. Sapeva che era lui quello idiota, ma non credeva che lo fosse così tanto.
 
“…venivo condotto in Biblioteca, nella sezione dei vecchi quotidiani a disposizione del pubblico; il patronus mi faceva un quotidiano in cui era presente un articolo su un crimine commesso a Hogwarts. Non hai idea di quanti ce ne siano stati, inizio a pensare che almeno un quarto dei maghi educati qui fosse malvagio o pazzo. Ne ho risolto uno del 1856, uno del 1922 e uno del 1966, ogni volta grazie a un indizio cruciale che l’animale mi faceva scoprire in un libro o in un altro giornale, da cui riuscivo a dedurre l’intera dinamica. Sono convinto che sia stato l’assassino a giocarmi questo scherzo.”
 
L’incredulità di Mary di fronte alla stupidità del ragazzo aveva lasciato spazio al coinvolgimento.
“E perché pensi che sia opera dell’assassino? Che ruolo avrebbe lui in tutto questo, come potrebbe…”
 
“Come ti ho spiegato, i patroni dicevano esattamente le stesse cose. O meglio, formulavano le frasi in maniera perfettamente identica. E questo include il modo in cui esordivano.”
 
“Perché? Che cosa dicevano?”
 
Per favore, aiutami” riportò Sherlock. “Non riesco a fermarlo, mi sta costringendo, fai ciò che dico o mi ucciderà.
 
Mary portò una mano alla bocca, sconvolta. “Da due settimane succede questo e tu non l’hai detto a nessuno? Se è vero, due studenti sono stati in pericolo di morte! Devi andare da Silente, ora che hai scoperto che non è opera di Magnussen!”
 
“Rifletti, Mary, non posso rivolgermi a un professore. È iniziato tutto quando ho scoperto che Magnussen non era il colpevole, quindi la persona che sta dietro a tutto questo sa più di quanto noi immaginiamo, in qualche modo riesce a procurarsi informazioni su di noi.
“Aspetta un attimo. Io sono assente da due anni, Mary, è successo qualcosa prima di Richard Knight? Qualche altro mistero, o delitto, o…”
 
“Be’, un annetto e fa c’è stato tutto il casino di Irene Adler.”
Sherlock era impassibile. “Irene Adler?” domandò.
 
“Giusto, tu non puoi sapere nulla. Un lupo mannaro di nome Fenrir Greyback è riuscito a introdursi all’interno dei confini della scuola e ha morso questa ragazza di Serpeverde, Irene Adler.”
 
“Dov’è lei, ora?”
 
“San Mungo, credo che la stiano studiando da allora. Hai detto mercoledì, sabato e lunedì?”
 
“Sì, perché?”
 
“Mi serve un pezzo di carta.” Mary si corse su per le scale del Dormitorio e ne ridiscese meno di un minuto dopo con pergamena, penna e calamaio.
 
“Che cosa vuoi fare?” domandò Sherlock, incuriosito.
 
“Ripetimi le date.”
 
“1856, 1922, 1966.”
 
Lei le copiò sul foglio e iniziò a ragionare. “Da mercoledì a sabato passano tre giorni, da sabato a lunedì due giorni. Potrebbe essere una coincidenza, ovviamente. L’ultimo delitto che hai risolto risaliva a ventidue anni fa, quello precedente a sessantasei, cioè quarantaquattro anni prima, che è il doppio di ventidue, e quello prima ancora…”
 
“Sessantasei. Sessantasei anni di distanza dal primo al secondo delitto, quarantaquattro dal secondo al terzo. Ventidue anni dal più recente ad adesso, sessantasei dal secondo, centotrentadue –il doppio di sessantasei- dal primo. Si è mai scoperto come ha fatto Greyback ad entrare a Hogwarts?”
 
“Mai.”
 
“Tre delitti: sei giorni fa, tre...”
 
“Centotrentadue, sessantasei, ventidue.” Mary trasalì. “Sherlock, in qualsiasi modo la giri, il prossimo numero non può che essere uno. Sia come anno sia come giorno.”
 
“Niente patronus, stavolta.”
 
“Ti prego, dimmi che l’assassino ti lasciava sempre tutto il tempo che volevi per risolvere i casi.”
 
“Ventiquattro ore. È successo altro l’anno scorso?”
 
“Solo Irene Adler.”
 
“Devo scoprire come ha fatto Fenrir Grayback a entrare a scuola o qualcuno verrà ucciso stanotte. Mary, vai da John e resta con lui.”
 
 
No… no, non voglio… perché dovrei, poi? No, per favore… no, dai, non ha senso, andiamo… no…
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Alzi la mano chi ha capito la cosa dei numeri! Ah-ah-ah, non mentite, tra un po’ non ci arrivavo nemmeno io che l’ho ideata. Se non avete voglia di sentir parlare di matematica vi autorizzo a non leggere.
Perché io sono brava e vi spiego.
 
Sono partita da:
1x1=1             11x1=11         11x2=22         11x3=33         11x4=44;
Quindi:
11x2=22         22x3=66         33x4=132;
Poi mi sono anche resa conto che:
22x1=22         22x3=66         22x6=132;
Inoltre: 66+66=132;
I delitti sono stati risolti dal più “vecchio” al più recente. La storia è ambientata nel 1988; il primo delitto risolto risale al 1856, che dista 132 anni (66+66) dal 1988 e 66 anni dal secondo delitto; il secondo, del 1922, dista 66 anni dal primo (appunto), 66 dal presente (riferito al presente della storia ovviamente) e 44 (22x2) dal terzo; il terzo è avvenuto 22 anni prima del presente.
Questo significa che gira tutto intorno al 22: 22 anni dall’ultimo, 66 dal secondo, 132 dal terzo. Se i delitti seguono la tabellina del 22, o dell’11, in ordine decrescente il prossimo numero non può che essere quello a cui si riduce tutto, cioè 1.
Per quanto riguarda i giorni: da mercoledì a sabato ci sono 3 giorni di distanza, da sabato a lunedì ce ne sono due, quindi per pura supposizione Sherlock e Mary hanno potuto dedurre che anche questi giorni seguano un ordine decrescente, 3-2-1.
Tanto più che:
1x1=1             11x2=22         22x3=66

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Capitolo 18
*** Capitolo 13. ***


Non puoi costringermi.
 
 
 
Mary incontrò Clarisse Weasley che usciva dalla Biblioteca.
“Ehi, Weasley! John è lì?”
 
L’altra le lanciò un’occhiata acida. “Probabilmente è in qualche angolo sperduto del castello a succhiarsi il pollice e ad evitarti.”
 
Mary mise una faccia triste. “Poverina. Sei gelosa? Avresti dovuto farti avanti prima, tesoro. Ora. Mi ha detto che sarebbe andato in Biblioteca, è lì dentro o no?”
 
“No, non c’è. Da quando sta con te, Morstan, non fa altro che piagnucolare. Devo presupporre che sia colpa tua. Gli hai tagliato le palle, per caso?”
 
Lei sorrise con disprezzo. “Perché, le volevi tu? Non sono venuta qui per litigare, Weasley. Devo trovare John.”
 
Clarisse scrollò i capelli e roteò gli occhi. “Non è in Biblioteca, prova in Sala Comun… oh, no. Dimenticavo. Non puoi entrare, sei una Corvonero. Una codarda, per dirla in altro modo.”
 
Mary inspirò profondamente per tentare di dominarsi. Se c’era una cosa universalmente riconosciuta, a Hogwarts, era che nella maggior parte dei casi i Grifondoro socializzavano con i Tassorosso e i Corvonero con i Serpeverde. C’erano anche molte eccezioni, ovviamente, ma di solito andava così. E Clarisse e Mary ne dimostravano anche il motivo.
 
“Si dà il caso che io conosca la vostra parola d’ordine, mentre nessuno di voi idioti saprebbe indovinare la nostra.” Quelli della sua Casa non apprezzavano che si sapesse che a Corvonero non esisteva alcuna parola d’ordine. “Ci vediamo, Weasley.”
 
“Purtroppo.”
 
Le ci voleva un metodo più veloce per scovare John nell’immensità del castello.
 
Con qualche difficoltà Mary evocò il proprio patronus –un gatto, secondo lei era un siamese- e lo inviò alla ricerca del fidanzato con il messaggio di incontrarsi immediatamente in Sala Grande. Sarebbe andata lì ad aspettarlo, sperando che arrivasse presto.
 
Come aveva potuto separarsi da lui?
 
 
 
Fermo! Che diavolo stai…
Ma cosa… come hai fatto? Ehi, piano! Ce la faccio a camminare, idiota.
 
 
 
Clarisse si accoccolò in Sala Comune con la testa posata sulle gambe di suo cugino Charlie.
 
“Ho incontrato Mary Morstan” raccontò.
 
“Con John? Perché lo stavo cercando prima: devo ancora comunicargli l’orario degli allenamenti.”
 
“Non l’hai ancora trovato? È da un po’ che ti ho dato il nuovo programma.”
 
“Tanto prima o poi tornerà in Sala Comune, no? Glielo dirò allora.”
 
“Giusto. …Ho litigato con Morstan” ammise Clarisse con un sospiro. “Non mi piace l’idea che stia con John.”
 
“Sarai mica gelosa?” la prese in giro Charlie. “No, hai ragione. Quella ragazza non piace neanche a me. Da quanto mi racconta John sembra davvero subdola, anche se lui non se ne rende conto.” Sorrise rendendosi conto che stavano spettegolando come due tredicenni. Ma lui voleva bene a John, era uno dei suoi migliori amici, ed era sollevato nell’apprendere che Clarisse condivideva le sue preoccupazioni.
 
“Ovviamente. È troppo stupido per capire che lei sta solo giocando con lui. Persino Sherlock Holmes, a confronto, sembra più dolce e… delicato.” Clarisse si sogghignò: probabilmente nessuno avrebbe mai più pronunciato una frase di quel genere. “Almeno lui gli vuole davvero bene.”
 
“Calma, cugina. Magari Morstan è veramente innamorata, che ne sappiamo noi?”
 
“Da quando sei così empatico?” Clarisse si alzò a sedere con uno sbuffo. “Sembri una tredicenne.”
 
“Era la stessa cosa a cui stavo pensando io, quindi solo per questo non mi offendo” rise lui. “Certo che è strano, di solito a quest’ora è già tornato.”
 
“Devo copiare Pozioni” Clarisse cambiò bruscamente argomento.
 
“Devi smetterla di copiare, o non passerai mai i M.A.G.O…” la rimproverò lui.
 
“Zitto, tu. Devo andare a cercare qualcuno che mi dia i compiti.”
 
 
 
Cos’è quello? Un gatto?
 
 
 
Sherlock stava studiando ogni mappa e testo riguardante la storia di Hogsmeade e Hogwarts per scoprire come Fenrir Greyback era riuscito ad introdurvisi. Maledisse John una decina di volte per essersi lasciato sfuggire la più utile di tutte, la Mappa del Malandrino.
 
“Aspetta un attimo.” Mycroft poteva essere la soluzione!
 
Ma no, non c’era abbastanza tempo per mettersi in contatto con lui via gufo…
 
 
 
E io che volevo pure pagare il biglietto per visitare questo posto…
 
 
 
Mary ingaggiò Molly Hooper per aiutarla nella ricerca, benché fosse ormai palese che John era divenuto l’ultima vittima del nemico di Sherlock.
 
 
 
E ora che hai intenzione di fare? Aspettare? E se non arriva? Mi ucciderai? Oh, perfetto.
 
 
 
Sherlock era nel panico. Irene Adler non aveva fatto altro che mentirgli per tutto il tempo in cui era stato al San Mungo, e lui ora stava per perdere il suo migliore amico. Era stato incerto se fidarsi di lei anche dopo la sua lettera del 31 dicembre, ma un accertamento gli aveva rivelato che le sue informazioni erano corrette: Magnussen non poteva essere il colpevole, perché quella notte era all’ospedale.
 
Eppure durante il loro secondo incontro lei gli aveva raccontato, chissà poi perché, una storia totalmente inventata.
 
 
 
Farà meglio a sbrigarsi, allora.
 
 
 
O forse non totalmente.
 
“Il Preside è venuto a trovarci, dicendo che avrebbe provato a convincere il Consiglio, ma difficilmente avrebbero accettato il mio ritorno a scuola; secondo lui, se la voce non si fosse sparsa com’era successo avemmo potuto tenerlo segreto, non sarebbe stata la prima volta che lui lo faceva con uno studente…”
 
Irene Adler era un lupo mannaro. La presenza di almeno un altro lupo mannaro a scuola era stata tenuta nascosta, e non poteva essere successo più di vent’anni prima, quando Silente era diventato preside. Quindi almeno un lupo mannaro aveva calcato quei corridoi dal 1969 al 1986. Irene aveva usato il tempo passato, quindi era plausibile che l’altro all’epoca se ne fosse già andato.
 
La domanda era: come tenere nascosto un lupo mannaro? La foresta non era un’opzione valida, perché nessuno gli avrebbe impedito di avvicinarsi al castello; e sarebbe stato impensabile far uscire uno studente dai cancelli perché si rifugiasse nelle montagne senza che la storia venisse allo scoperto. Quindi: come poteva un lupo mannaro entrare e uscire dalla scuola senza farsi notare?
Doveva per forza esserci un passaggio segreto da qualche parte, forse addirittura costruito apposta per lui. Un passaggio segreto che lo conducesse in un luogo sicuro nella foresta, o forse sulle colline.
 
Almeno la parte più facile era fatta: non avrebbe dovuto cercare particolari contro-incantesimi che fossero in grado di abbassare le difese della scuola.
 
Doveva controllare se tra il 1969 e il 1985 erano state istallate nuove strutture a Hogwarts o Hogsmeade che potessero celare un’eventuale camminamento.
 
Scoprì che quando Irene Adler era stata morsa si trovava nei pressi del famigerato Platano Picchiatore, che nel corso dei suoi diciassette anni di esistenza aveva spedito in Infermeria parecchi studenti. Scoprì che nello stesso 1971 in cui il Platano era stato piantato la Stramberga Strillante era stata infestata da una colonia di fantasmi.
 
Nel 1975 la sala da tè di Madama Piediburro aveva cambiato sede e nel 1979 era stata aperta una filiale di una libreria di Diagon Alley.
 
La Stramberga Strillante era disabitata da secoli, eppure proprio nel 1971 era stata infestata da spettri che nessuno aveva mai visto, e che in compenso parevano più propensi ad ululare che a far sferragliare le proprie catene.
 
Nel 1971 era stato piantato il Platano Picchiatore, a cui casualmente Irene si trovava vicino quando era stata morsa.
 
La verità era così evidente da risultare ridicola.
 
Naturalmente poteva essere tutto un orribile travisamento, ma poteva anche essere la soluzione: forse c’era davvero un passaggio che dal Platano Picchiatore conduceva alla Stramberga Strillante.
 
Tuttavia… il Platano colpiva chiunque cercasse di avvicinarsi, e non esisteva modo di avvicinarsi al suo tronco. Sherlock considerò l’idea di sfruttare le proprie abilità di metamorfomagus, ma non ne vide alcuna utilità.
 
Ormai il tempo stava per scadere. Non aveva altre opzioni che andare e tentare.
 
 
 
Manca meno di mezz’ora…
 
 
 
Sherlock aveva esaurito le idee. Ormai poteva contare solo in un miracolo.
 
Oppure poteva tuffarsi e pregare di non essere colpito, che in pratica era esattamente come pregare in un miracolo.
 
Di certo i Malandrini avrebbero saputo come fare.
 
Pur nella gravità della situazione, Sherlock scoppiò a ridere ricordando il nome di uno di loro: Lunastorta. Non poteva essere una coincidenza. Lunastorta doveva essere abbastanza forte da risultare invulnerabile ai colpi dell’albero, oppure… Quando non c’era nessuno nei paraggi, l’albero si limitava a far oscillare i propri rami verso l’alto.
 
Sherlock posò la bacchetta sulla propria testa e mormorò un incantesimo di Disillusione.
 
Era invisibile.
 
 
 
Sembra proprio che Sherlock Holmes abbia fallito…
 
 
 
La Stramberga Strillante, manco a dirlo, non ospitava alcuno spettro. Era ricoperta di polvere e ingombra di casse di legno e travi prive di apparente utilità, che avevano probabilmente il solo scopo di rendere la casa più fatiscente e sinistra.
 
Il cuore di Sherlock sprofondava sempre più ad ogni stanza vuota che visitava. Forse, dopotutto, aveva davvero fatto un buco nell’acqua. Proprio l’unica volta in cui era importante non commettere errori…
 
 
 
Iniziamo a giocare.
 
 
 
L’ultima stanza era la più ampia, e anche la più buia, nonostante il flebile lume della bacchetta di Sherlock. Il ragazzo stava per ritirarsi, sconfitto, quando notò una sagoma seduta in un angolo.
 
La figura si alzò in piedi spazzolandosi i pantaloni e avanzò sulle assi scricchiolanti fino ad entrare nel campo luminoso.
 
“’Sera.”
 
Sherlock lo fissò con crescente incredulità.
 
“Questo è un colpo di scena, hm, Sherlock?
 
“John, che diavolo.”
 
“Scommetto che questo non te lo saresti aspettato.”
 
Sherlock si mosse verso colui che credeva amico come sospinto da un’invisibile marea. La delusione e il dolore proiettati sul suo volto lo facevano somigliare a un undicenne ferito e confuso.
 
“Sapevo che doveva essere una persona a me vicina” mormorò, riferendosi impersonalmente a John per non ammettere l’evidenza. “Ma non credevo così tanto.”
 
John sospirò e inclinò la testa verso il basso, guardando alle proprie spalle.
 
“Potrei fermare tutto questo ora” disse una voce, e una figura esile si profilò nell’ombra dietro John. “Potrei fermare John Watson. Fermare il suo cuore.”
 
“Chi sei?” domandò Sherlock, non distinguendo il volto del proprio interlocutore.
 
“È una bacchetta magica quella… o sei solo contento di vedermi?”
 
Il pezzo di legno rimbalzò a terra sollevando uno sbuffo di polvere. La stanza piombò nell’oscurità…
 
“Lo sarei di più se ti vedessi.”
 
…finché il terzo uomo non accese la propria bacchetta.
 
“Jim Moriarty. Ciao!” Il ragazzo assunse un’espressione perplessa e si mordicchiò un labbro, fingendo di riconoscersi in tono beffardo. “Jim di Serpeverde? Jim, quello che mi prende in giro?”
 
Moriarty indossava un completo grigio inadatto a uno della sua età e una camicia bianca dal collo arrotondato. I suoi capelli castani erano accuratamente scompigliati, con ciuffi che gli ricadevano sull’ampia fronte.
 
Sherlock sbatté un paio di volte gli occhi, incerto se iniziare a insultarlo o se restare impassibile come sempre.
 
“Quanti dei delitti che mi hai fatto risolvere erano veri?” non riuscì a trattenersi dal domandare.
 
“Il primo l’ho inventato io. Gli altri mi hanno fatto venire in mente l’idea.”
 
“Hai aiutato tu Fenrir Greyback a introdursi nella scuola.”
 
“E nessuno mi ha mai beccato!” Moriarty spalancò le braccia con autocompiacimento.
 
“Io l’ho fatto.”
 
“Diciamo che sei sulla buona strada.”
 
“Grazie.”
 
“Non era un complimento.”
 
“Sì che lo era.”
 
John era stranamente immobile dall’inizio della conversazione.
 
“Sì, ok, ma basta flirtare adesso. Prendi questo nostro giochetto come un avvertimento, mio caro. Stai indietro e non interferire con i miei affari. Anche se mi è piaciuto, giocare con te.” Moriarty annuì più volte con un sorrisetto sbilenco che, nella sua testa, doveva passare per dolce.
 
“Hai minacciato di morte degli studenti, ne hai quasi ucciso uno, e un anno fa hai reso una ragazza un lupo mannaro” lo accusò Sherlock, imponendo alla propria voce di non tremare all’accenno ad Irene Adler.
 
“La dolce Irene! L’hai conosciuta. Adorabile. Ti ha raccontato come è stata trasformata? In vacanza con i genitori, la povera fanciulla si smarrisce nel bosco per rincorrere un animaletto fantastico… come ho detto: adorabile.”
 
“Ti fermerò.” Qualunque cosa stesse cercando di fare.
 
“No, non lo farai.”
 
Sherlock lo ignorò momentaneamente e si concentrò su John, rigido e fermo nella stessa posizione di qualche minuto prima. “John, tutto bene?”
 
Lui non gli rispose finché Moriarty non agitò la bacchetta, e Sherlock si rese conto che doveva essere stato pietrificato. Si diede dello stupido per non esserci arrivato prima
 
“Puoi parlare ora, Johnny.”
 
Lui annuì, una sola volta.
 
“Come stavo dicendo” riprese Jim, “Irene si è divertita un mondo a recitare il ruolo della donzella in pericolo…”
 
John, nuovamente libero, sfoderò la bacchetta e la puntò contro Moriarty. Evidentemente lui, avendolo pietrificato, non aveva pensato di confiscargliela. Ora i due si fronteggiavano.
 
“Sherlock, raccogli la tua bacchetta. Colpiscimi pure, se ti va: ho tutto il tempo di ricambiare il favore.” Disse John in tono calmo.
 
Tuttavia, il Grifondoro non aveva previsto la mossa successiva e non ebbe il tempo di reagire: Jim Moriarty indirizzò la propria bacchetta verso Sherlock, che si immobilizzò.
 
“Non ci proverei un’altra volta, Johnny. Posso uccidere lui come potrei uccidere te.
 
John posò lentamente il bastoncino a terra e l’altro si voltò di nuovo verso Sherlock.
 
“Non è dolce?” domandò. “Capisco perché ti piace averlo intorno. Ma a volte la gente tende a diventare sentimentale nei confronti degli animaletti da compagnia sono così dannatamente leali! Sai cosa succede se non mi lasci in pace, Sherlock?”
 
Sherlock poté finalmente muoversi e parlare. “Io vengo ucciso.”
 
Jim scoppiò a ridere di gusto. “Oh, no no no. Voglio dire, potrei sempre farlo un giorno, ma per adesso no. Ti ripeto la domanda: sai cosa succederà?”
 
Sherlock digrignò i denti. “No.”
 
“Ti strapperò il cuore.”
 
John levò gli occhi verso di lui e Sherlock sostenne il suo sguardo mentre replicava: “Fonti attendibili mi hanno informato che non he ho uno.”
 
L’altro sogghignò. “Sappiamo entrambi che non è vero. Ti avverto, Sherlock; hai visto cosa sono in grado di fare.”
 
Tenendo la bacchetta puntata verso John, Moriarty si Smaterializzò.
 
 
 
Non appena scomparve, John si appoggiò alla parete e scivolò a terra, respirando pesantemente. Sherlock gli si inginocchiò immediatamente davanti, con l’espressione più preoccupata che John gli avesse mai visto assumere.
 
“Tutto a posto?”
 
“E tu?”
 
“Sì –sì, tutto bene.”
 
“Sto bene anche io. Oh, Merlino. Oh, per le mutande di Merlino.” Il Grifondoro era senza fiato. “È tutto ok?”
 
“Quella, ehm, cosa che tu, ehm, hai fatto. Che, uhm, avresti fatto. Con la bacchetta. Sei stato, uhm, bravo.” Sherlock si sentiva fiero di se stesso per essere riuscito a formulare un complimento coerente.
 
John sorrise, per poi tornare immediatamente serio. “Come hai fatto a scoprire che mi aveva rapito e portato qui?”
 
Sherlock rovistò nelle tasche dei pantaloni gli mostrò il foglietto su cui Mary aveva calcolato gli intervalli tra gli anni e i giorni.
 
“È stata la tua ragazza, in realtà” spiegò con l’amaro in bocca. “Pare che sia portata per la matematica. Ha capito che saresti stato ucciso stanotte, e poi io ho svelato il mistero” concluse, sentendosi quasi riscattato. Alla fine era stato lui, Sherlock Holmes, a risolvere il caso.
 
John annuì senza commentare. “Moriarty! È sempre stato lui, per tutto questo tempo?”
 
Sherlock si alzò e iniziò a camminare avanti e indietro per la stanza, gli indici premuti sulle tempie, l’espressione concentrata. Senza neppure guardarlo, puntò un dito verso l’amico. “Devo sapere cosa è successo.”
 
“Ero al secondo piano, ero stato in Biblioteca, e… e poi… non ricordo… ho un vuoto, fino al momento prima di incontrare te.”
 
“Rifletti, rifletti! Non è possibile che ti abbia estirpato la memoria, è intelligente ma non esperto fino a quel punto, non sarebbe capace di obliviarti e tanto meno con precisione, è impossibile, e se si esclude l’impossibile ciò che resta deve essere la verità quindi deve aver usato un altro espediente, però potrebbe essere più dotato di quanto io non creda e in quel caso l’obliviazione sarebbe una possibilità remota ma pur sempre esistente, aspetta!” Sherlock proruppe in un’esclamazione di soddisfazione. “Maledizione Imperius! Sapevo che non poteva essere abbastanza bravo da usare l’oblivion, ti ha tenuto sotto la maledizione Imperius fino al momento di pietrificarti ed entrare in scena!”
 
“Sembra terribile, peccato che non mi ricordi nulla” commentò John, ancora incredulo, con distacco.    
 
Per la prima volta dall’inizio della conversazione Sherlock lo guardò direttamente. “È successo a te.” Si chinò, ponendosi proprio di fronte a lui. “Stai bene?” ripeté.
 
“Smettila di dire cazzate. Sai che non sono io quello di cui bisognerebbe preoccuparsi.”
 
Sherlock sbuffò. Non si ritrasse, rimanendo seduto sui talloni di fronte all’amico.
 
John inspirò rumorosamente, sentendo il proprio cuore iniziare a pompare con più rapidità.
 
Vampate di calore si irradiavano dal collo alle guance. Gli pizzicava la pelle. Si sentiva in fiamme, nel senso letterale del termine. Poteva quasi percepire il proprio sangue scorrere all’impazzata nei capillari, facendolo arrossire fino alla punta delle orecchie.
 
Da qualche parte, lontano, nel castello, sotto calde coperte di lana in un dormitorio blu e bronzo, lui aveva una ragazza. Una ragazza carina. Una ragazza che, tuttavia, non aveva sottili occhi verdazzurri, né arruffati riccioli neri. Loro stavano insieme perché erano innamorati. Come non essere innamorati di una ragazza carina come Mary Morstan?
 
Sherlock dischiuse le labbra, corrugando le sopracciglia e lanciando occhiate in ogni direzione come se non comprendesse cosa gli stava accadendo, e desiderasse urgentemente una spiegazione logico-scientifica.
 
Erano uno di fronte all’altro, immobili, paralizzati, e a confronto l’incantesimo Petrificus non era niente.
 
Fai un respiro, John. Un respiro profondo. E poi alzati, e discuti di una strategia insieme al tuo migliore amico. E tutto questo non sarà mai nemmeno successo. Alzati, John. Ora.
 
E poi le sue dita si chiusero sulla camicia di Sherlock per attirarlo a sé, e Sherlock perse l’equilibrio; mentre una mano sbatteva a terra, l’altra annaspava alla ricerca di un appiglio, trovandolo nella spalla di John. Le labbra di Sherlock erano contro le sue.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Sì. Sì, fine del capitolo. Ha. Ha. Ha.
Ha.
Moriarty. Sì, è sempre stato lui, lui ha fatto entrare Greyback nella scuola (vi ricordate di Greyback, vero? Quello che ha trasformato Lupin e portato il Golden Trio a Villa Malfoy, certo che vi ricordate di lui), ha quasi ucciso Richard Knight e giocato agli indizi con Sherlock. Perché? Lo scoprirete. Forse. O forse no.
Spero che vi siano piaciuti i dialoghi iniziali, che avevano l’unico, essenziale scopo di allungare inutilmente il capitolo per non farvi arrivare troppo presto alla parte finale.
Ha.
Certo, in inglese sarebbe venuto fuori molto meglio: I will burn the hearth out of you, eccetera. A volte mi capita di pensare a una parola in inglese, mentre scrivo, e allora devo provare a renderla bene in italiano, ma è inutile, tutto in inglese sembra più bello.
Bene, lascio a voi ulteriori commenti, e scommetto che ne avete.
Ps: avete visto? Niente matematica stavolta!
Pps: abbiamo sbancato agli Emmy!
Ppps: è davvero difficile descrivere psico-Jim dopo aver visto una carrellata di foto e gif che ritraggono un adorabile Andrew carino e coccoloso…
 

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Capitolo 19
*** Capitolo 14. ***


 
Il mattino seguente John fu tra i primi a scendere a colazione. Era rimasto sveglio tutta la notte a rigirarsi tra le coperte, non potendo fare altro che vergognarsi e pentirsi e riassaporare ogni singolo istante dell’ultima avventura con Sherlock Holmes.
 
Alle sette era zampettato fuori dalla stanza ed era andato a buttare giù qualcosa per tenersi sveglio almeno fino all’ora di pranzo.
 
Ingollò tre tazze di caffè bollente senza percepire il benché minimo miglioramento.
 
Quando Charlie Weasley gli si sedette accanto, si stampò un sorriso in volto e lo salutò cordialmente. “Amico.”
 
“Ehi, si può sapere dov’eri finito? Ti ho aspettato almeno fino a mezzanotte!”
 
“Oh, non…” John esitò, cercando freneticamente una scusa che giustificasse il suo ritardo, ma la sua mente era completamente vuota. “…uhm… sono stato rapito da uno studente psicotico che minacciava di uccidermi.”
 
Charlie gli mollò un pugnetto sulla spalla. “Mary Morstan ti ha trattenuto, eh?”
 
John si trattenne dallo scoppiargli a ridere in faccia. “Sei tu che l’hai detto” ammiccò. Né più né meno della verità. “Come mai mi cercavi, comunque?”
 
“Clarisse mi ha incaricato di dirti che ricominciamo gli allenamenti mercoledì.”
 
“E non poteva farlo da sola?” John scosse la testa sorridendo.
 
“Lo sai che deve comandare a bacchetta la gente, quella.” Charlie si strinse nelle spalle. “Tanto per sapere, quanti caffè hai bevuto?”
 
John sollevò quatto dita mentre si portava alla bocca la quarta scodella.
 
La mano di Charlie era già a metà strada verso una tortina quando il volto gli si aprì in un ghigno; con immenso tatto, domandò: “Allora, avete tagliato il traguardo, voi due?”
 
John tossì, risputando l’ultimo sorso nella tazza, e l’amico iniziò immediatamente a prenderlo in giro tra le risate. “Qualcuno qui è stato beccato!”
 
John celò il proprio rossore con la tazza.
 
“Non pensavo lo trovassi così imbarazzante” si scusò Charlie una volta terminato di ridere.
 
“No, non è quello. Solo…”
 
“Non penso che la tua ragazza sia una troietta solo perché l’avete fatto dopo neanche un mese” proseguì Charlie, tentando di rimediare, senza risultati. “Anche se faresti meglio a non dirlo a Clarisse.”
 
John si alzò, urtando la panca con le gambe. “Non l’abbiamo fatto” borbottò. “Ci vediamo dopo.”
 
 
 
John si ritrasse di scatto, sbattendo la testa contro il muro di pietra.
 
Gli occhi di Sherlock erano più spalancati che mai.
 
I due di alzarono goffamente in piedi rassettandosi i vestiti, nel bel mezzo del momento più imbarazzante delle loro vite.
 
“Sono ancora sotto shock” spiegò John in tono molto ragionevole, deglutendo a fatica e cercando di dominare le palpitazioni.
 
“Naturalmente. Per quanto ne sappiamo potresti ancora essere sotto l’effetto della Maledizione Imperius.”
 
“Credi che Moriarty sia ancora nei paraggi?” domandò John, sinceramente stupito, quasi dimenticando cosa stava succedendo tra loro.
 
“No, cercavo solo qualcosa… che… spiegasse…” Sherlock gesticolò a caso con le braccia.
 
Lui si schiarì la gola. “Tu hai perso l’equilibrio.”
 
“Tu mi hai afferrato la camicia” puntualizzò Sherlock.
 
“Per aiutarti a restare su” ribatté l’altro.
 
“Sono abbastanza sicuro che sia stato tu a farmi perdere l’equilibrio.”
 
“Sono abbastanza sicuro di no.”
 
“In ogni caso è stato un incidente.”
 
“Assolutamente.” John non osava incontrare lo sguardo dell’amico.
 
“Tu sei fidanzato” proseguì quello.
 
“Con Mary Morstan” confermò John.
 
“Gli incidenti possono capitare.”
 
“Soprattutto in casi estremi come questo. Un tizio che mi minaccia di morte, eccetera.”
 
I due ragazzi si guardarono finalmente negli occhi, e da quel momento fu difficile persino sbattere le ciglia, per timore di perdere il contatto. Entrambi mossero un passo in avanti quasi inconsciamente.
 
“È stato come un, un, incrocio di variabili. Non sono del tutto sicuro che le variabili si possano incrociare…” Sherlock aggrottò la fronte. “Una serie di fattori che, combinati casualmente, portano a un risultato inatteso. Sempre che abbia senso…”
 
“Non avrei saputo esprimermi meglio” John tossicchiò.
Entrambi tentarono di resistere al cocente impulso che li divorava. Entrambi fallirono.
 
“Quindi non sarebbe un problema se capitasse un’altra volta.”
 
“No, sarebbe solo un incrocio di variabili. Sempre nel caso che si possano incrociare.”
 
Sherlock si chinò in avanti, piegando lievemente il capo, e lasciò che le loro labbra si scontrassero con dolcezza. John si protese verso di lui nel sentire il suo tocco e gli afferrò il volto con entrambe le mani, affondando le dita tra i suoi riccioli per attirarlo a sé, e lui si aggrappò a lui con tutta la forza che riuscì a trovare, e, abbandonata ogni forma di dubbio, chiuse gli occhi.
 
Tra lo sgomento e la confusione cercò un senso in ciò che stavano facendo, senza trovarne alcuno.
 
Essere così vicino a una persona e lasciare che le mani sfiorassero la sua pelle era un’esperienza del tutto nuova.
 
Il battito del cuore, quel cuore che dopotutto aveva, gli rimbombava nelle orecchie e rendeva doloroso focalizzarsi su qualsiasi altra cosa. Esistevano solo quel tamburo, che non smetteva mai di martellare, e il buio.
 
Loro non erano nulla di speciale. Si ricordò che c’era nulla di nuovo in quelle sensazioni, provate innumerevoli volte da tutti gli innamorati –innamorati! chi l’avrebbe mai detto, che Sherlock Holmes un giorno avrebbe pronunciato quella parola? Parte di lui, la parte raziocinante e insensibile di lui, desiderava disperatamente credere che ciò che ora lui provava non fosse speciale e meraviglioso.
 
Si separò violentemente da John e tossì fino alle lacrime prima di riuscire a dominarsi. “Mi è andata la saliva di traverso” spiegò con imbarazzo una volta ripresosi.
 
“Ok, basta così.” John stava cercando di riacquistare un briciolo di controllo. Gli tremavano le mani.
 
Il buio e il martellare senza fine dei tamburi erano svaniti. Le luci si erano riaccese, e lui se n’era andato. La voragine tra loro si stava allargando, e presto di quei momenti non sarebbe rimasto nulla; né il bruciore delle labbra, né le pieghe sui vestiti, né l’odore dell’altro sulla pelle.
 
Sherlock deglutì.
 
Le luci si erano riaccese e non c’era che silenzio.
 
“Forse sarebbe meglio tornare.”
Erano soli e spaventati e non erano riusciti a resistere, ma la realtà si era ripresentata davanti a loro e li aveva separati.
 
“Sì…” d’un tratto John sembrava incerto. “Sì, torniamo a casa.”
 
 
 
Doveva trovare Sherlock.
No, Mary. Doveva trovare Mary prima dell’inizio delle lezioni. Parlarle. Spiegarle tutto. Domandare scusa.
 
La raggiunse sul percorso che conduceva al dormitorio di Corvonero.
 
“John!” esclamò lei quando lo vide, correndo ad abbracciarlo. “Stai bene!”
 
“Sì… sì, sto bene.”
 
“Ho aspettato Sherlock, ieri, ma non mi ha detto nulla! Sembrava ubriaco. Avete bevuto Whiskey Incendiario per festeggiare la vittoria, o cosa?”
 
E così le raccontò tutto. Non omise nulla dell’incontro con Moriarty; arrivò fino al punto in cui si era Smaterializzato e la lasciò elaborare.
 
“Credevo che fosse solo l’ennesimo Serpeverde sbruffone” commentò lei, sconcertata.
 
“E non sappiamo ancora perché stia facendo tutto questo, insomma non credo che sia solo un sadico.”
 
“Vi ha specificatamente detto di non immischiarvi” gli ricordò Mary, e lui le scoccò un’occhiata esplicita.
 
“Come se questo potesse fermare Sherlock. Andrà fino in fon… insomma, scoprirà cosa sta combinando.”
 
“E tu con lui.” Quella non era una domanda, era una costatazione. John amò Mary per averlo compreso tanto in fretta. “Ma vedi di non farti ammazzare da Moriarty, o mi toccherà farlo fuori personalmente.” La ragazza sorrise dolcemente, a discapito di quanto aveva appena giurato. “Allora, che avete fatto poi? Holmes ha fregato della morfina da un ospedale Babbano, per caso?”
 
“Uhm, no, suppongo che fosse solo… eccitato… da quanto aveva appena scoperto.”
Mary annuì gravemente senza commentare.
 
Camminarono in silenzio per qualche metro prima che John osasse aggiungere: “Posso farti una domanda casuale?”
 
“Certo, spara.”
 
“Hai mai avuto una cotta finita male a causa delle circostanze?” azzardò, sentendosi arrossire e guardandosi nervosamente intorno. C’erano un paio di studenti dietro di loro, ma decisamente non sembravano voler origliare le loro conversazioni.
 
“Oh, sì” rispose lei con veemenza, cosa che lo stupì un poco. “È stato allora che ho imparato una lezione molto importante” ridacchiò lei. “Ma è una storia veramente stupida.”
 
Rincuorato, le domandò di raccontarla. Non credeva di riscontrare una risposta positiva, ma se la loro relazione era destinata a continuare, meglio scoprire qualcosa in più su di lei. Finché non fosse stata pronta a parlare di Magnussen…
 
“Un paio di anni fa ero mezza innamorata di un ragazzo che aveva la nostra età attuale” cominciò lei con il suo solito sorrisetto. “Lui era all’ultimo anno, e così al termine della scuola ero delusa, perché non avevo combinato niente e credevo che non l’avrei più rivisto. Un giorno, quella stessa estate, i miei genitori sono stati invitati a cena da alcuni amici. Sapevo che ci sarebbero state molte persone… organizzano spesso rimpatriate tra… vecchi compagni, che io però non ho mai apprezzato granché… ho preferito non andarci, perché sapevo che al momento di tornare a casa sarei stata irritata, e di malumore, per quanto ascoltato durante la cena. Be’, è venuto fuori che era presente anche il ragazzo per cui avevo una cotta, e io avevo sprecato un’occasione. E il punto è che per tutto il mio quinto anno non avevo fatto altro che sprecare occasioni, e se lui non avesse avuto gli esami M.A.G.O. e io avessi avuto un po’ più di coraggio, forse le cose sarebbero andate diversamente.” Mary proruppe in una risatina al ricordo di quanto era stata sciocca a sedici anni e John la seguì, sentendosi un po’ a disagio.
 
“Forse dovrei cercare Sherlock” disse infine.
 
“Vai, allora.” Con il sorriso che ancora le aleggiava sulle labbra, lo spintonò via con dolcezza, un po’ per scherzo e un po’ per davvero. “Aspetta, non di là! Non era in Sala Comune.”
 
“Non era neanche in Sala Grande.”
 
“Lo vedrai a lezione, tranquillo.”
 
Sherlock non si presentò a lezione.
 
E neppure a pranzo.
 
E neanche alle lezioni del pomeriggio.
 
John era nel panico. Domandò a Molly Hooper se l’avesse visto durante la giornata, ma lei non ne sapeva nulla. Anche Gregory Lestrade rispose nisba. Era tentato di chiedere a Jim Moriarty se per caso aveva buttato il suo cadavere nel lago, ma non credeva di riuscire a reggere una pacata conversazione con lui dopo quanto successo la notte prima.
 
Setacciò la riva del lago, le aule vuote del secondo piano e persino la capanna Hagrid il guardiacaccia, che cerco di propinargli un dolcetto duro come il marmo e una gigantesca scodella di tè bollente. Sapeva che Sherlock si faceva aiutare da studenti di Case diverse per essere sempre al corrente di quanto accadeva nella scuola, ma non aveva idea di chi fossero.
 
 
Mary, nel frattempo, si era diretta in Biblioteca. Erano le sei di sera, ormai, e la ragazza era stravolta e irritata: aveva sprecato l’intera giornata per cercare Holmes, e aveva intenzione di farglielo pesare –non appena l’avesse trovato, almeno.
 
“Arthur Conan-Doyle, dove diavolo sei.”
 
Da una ventina di minuti era alla ricerca di un Corvonero alternativo, che trovò chino su una pila di vecchi annuari insieme a un amico dai capelli rossicci. Il ragazzino portava un paio di occhiali assurdamente grandi, che facevano sembrare enormi i suoi occhietti azzurri.
 
“Doyle, è da mezz’ora che ti cerco.”
 
“Cosa posso fare per te?” le domandò lui cortesemente.
 
“Sto cercando Sherlock Holmes, hai idea di dove potrebbe essere?”
 
“Ne deduco che non sia in Sala Comune… tu e Watson dovreste smetterla di fargli da genitori, sai? Gli state dietro come un cucciolo” la rimproverò bonariamente, con la sua solita aria da ragazzetto cresciuto prematuramente. L’altro, quello con i capelli rossi, la stava completamente ignorando e continuava a sfogliare i vecchi libri.
 
“Senti chi parla! Allora, tu sai dove potrebbe essersi nascosto, o no?”
 
“Avete controllato dietro il pendolo in Ingresso? La capanna di Hagrid? Ehi Mark, dammi una mano. Dov’è che va a nascondersi Holmes?
 
“La Torre di Astronomia” borbottò quello.
 
“Quella non l’ho controllata!”
 
“Dì a Watson che voglio terminare quell’intervista!” le urlò dietro lui, beccandosi un rimprovero dalla bibliotecaria.
 
Le nubi si stavano addensando all’orizzonte, trasportate dal vento del nord. Il respiro di Mary si condensava in un vapore grigiastro.
 
Dalla torre si godeva una vista spettacolare del panorama; nelle giornate più limpide, era possibile scorgere le rotaie dell’Hogwarts Express che si snodavano nella valle.
Sherlock era seduto sul bordo, con la gambe a penzoloni nel vuoto. Avvolto nel suo mantello nero, somigliava in tutto e per tutto a un corvo.
 
“Sherlock, che ti è saltato in mente? John è mezzo morto di paura!”
 
Il ragazzo si voltò con lentezza e impiegò qualche secondo per focalizzarsi su di lei. Nei suoi occhi verdi e infossati era possibile scorgere ancora un barlume della luce che Mary vi aveva visto la notte prima.
 
“Dovevo riflettere. Suppongo che John ti abbia raccontato tutto.”
 
“Sì, l’ha fatto. Capisco che tu volessi pensare a Moriarty, ma…”
 
“Non solo a lui. Non vengo spesso sulla Torre di Astronomia, ma se c’è qualcuno che conosce i miei nascondigli preferiti, quello è Arthur Conan-Doyle. Sapevo che ti saresti ricordata di lui.”
 
“Wow, le tue abilità deduttive mi lasciano senza parole.”
 
“Comunque, non pensavo solo a Moriarty. Pensavo anche a te.” Quella frase avrebbe potuto suonare ambigua se non fosse uscita dalla sua bocca.
 
“Me” ripeté lei.
 
“Sì, te. A te, che non sei mai andata d’accordo con gli amici dei tuoi genitori. A te, che…”
 
“Hai origliato quello che ho detto a John” lo accusò lei con incredulità.
 
“Non io. Mi è stato riferito. Lasciami finire. Tu non vai d’accordo con loro, sei irritata dai loro discorsi, e infine ti introduci nell’ufficio di Magnussen.”
 
Rassegnata, lei gli chiese stancamente a quale conclusione era giunto.
 
“Sei troppo giovane per essere ricattata da Magnussen, ma i tuoi genitori non lo sono. Sei –complessivamente- una brava persona, caricando il termine brava del significato comunemente riconosciuto, ma non esiti a ricorrere a piccoli sotterfugi per raggiungere i tuoi obiettivi, come quando hai ricattato John e finto di essere una schiappa in Trasfigurazioni per poter stare con lui, il che fa pensare che tu sia stata cresciuta in un ambiente in cui questi trucchetti sono considerati legittimi, oppure che hai letto molti libri di spionaggio, ma mi attengo alla prima ipotesi. I tuoi genitori potrebbero quindi essere criminali di poco conto, o truffatori. Pensavo a questo quando mi è stato riferita la tua storiella di stamattina, e quindi anche la tua irritazione nei confronti del largo giro di amicizie dei tuoi genitori. Il termine che tu hai usato è compagni, quindi potrebbero essere compagni di scuola, ma potrebbero anche non esserlo. Tutto questo potrebbe essere solo una grossa coincidenza, in effetti, ma potrebbe anche non esserlo. E, nel caso non lo sia, e allora correggimi pure se sto sbagliando, ho un’ipotesi che spiegherebbe tutto.”
 
“Non stai sbagliando” sospirò lei.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Il bacio è frutto di “In my remains” dei Linkin Park, “Underwater” di Mika, e “I’ll be gone” di nuovo dei Linkin Park. Underwater ha ispirato la parte della saliva, tra parentesi.
Per favore, ditemi che non è un’accozzaglia di idiozie. Perché tipo una volta in un tema avevo cercato di essere poetica ed è venuto fuori che avevo scritto un’accozzaglia di idiozie che non solo non avevano senso ma suonavano pure ridicole. Quindi nel caso lo sia sono già pronta a togliere tutto e sostituire con la copia esatta del bacio tra i protagonisti de “Il principe” di Cassandra Clare (secondo libro di un’ottima trilogia che vi consiglio). Ok, magari modificando i nomi.
Mary Mary Mary. Qualcuno ha qualche idea? Ma sì, sicuramente ne avete. A me piaceva l’idea di concludere questo capitolo con un po’ di suspense, e così ho fatto.
 Non posso credere di essere quasi alla fine! Manca… oddio, manca troppo poco.

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Capitolo 20
*** Capitolo 15. ***


 
Le nubi avevano coperto completamente il cielo, facendo calare il buio più totale prima del previsto. La Torre di Astronomia era la zona del castello più esposta alle intemperie, e sembrava che Sherlock potesse cadere giù alla minima variazione del vento. Forse lo pensò anche lui, perché ritornò all’interno.
 
“Sette anni fa l’uomo conosciuto con il nome di Lord Voldemort…”
 
Mary si lasciò sfuggire un gemito nell’udire il nome del Signore Oscuro.
 
“…è stato ucciso dal rimbalzo della sua stessa maledizione” proseguì il ragazzo. Si rigirava la bacchetta magica tra le mani e sembrava presissimo dalla fattura del legno.
 
Lei annuì, perché sapeva benissimo dove era intenzionato ad arrivare.
 
“Negli anni successivi alla sua caduta, i suoi seguaci sono stati arrestati e sono finiti ad Azkaban, oppure hanno comprato la propria libertà tradendo i compagni. Tuttavia, sarebbe ridicolo ritenere che tutti i Mangiamorte siano stati scoperti e processati, non è vero?” Sherlock la guardò direttamente, mantenendo però la testa bassa, cosicché lo sguardo sembrasse ancora più penetrante di quanto non fosse.
 
“Continua.”
 
“Magnussen ricatta i tuoi genitori perché sono tra coloro che non furono mai trovati. Se la notizia venisse alla luce, loro perderebbero il lavoro e la reputazione e tu avresti serie difficoltà a trovare un impiego, bollata come figlia di Mangiamorte”
 
Mary annuì nuovamente con aria assente.
 
“Ti sei introdotta nel suo ufficio sperando di trovare una lista, un documento, o qualsiasi cosa li incriminasse e liberartene, e invece non hai trovato nulla, perché raramente lui conserva prove scritte” completò lui, piegando la testa da un lato.
 
“Complimenti.” Mary non sembrava impressionata. “Sì, è così. Bravo, sei un genio. Era questo che volevi sentirti dire? Sei contento?”
 
“Io non faccio deduzioni per sentirmi dire che sono un genio, lo so già da me” ribatté Sherlock.
 
Il vento che entrava dalle finestre prive di vetri era più sferzante, ora. Presto avrebbe iniziato a nevicare.
 
“Non dirlo a John” lo pregò con voce incolore.
 
“Non lo farò, se sarai tu a dirglielo. Lo accetterà, Mary. So che i Grifondoro sono molto legati al senso della giustizia, e questo ti spaventa, ma a volte sono le regole a non essere legate ad essa. E poi c’eravamo anche noi, quella notte. Non hai fatto nulla che non abbiamo fatto anche noi.”
 
“I miei genitori erano Mangiamorte –lo sono, credono ancora nella causa, e così tutti i loro vecchi compagni” gli ricordò lei.
 
“Ma tu no. E a lui questo basterà. Ora vai da lui… e digli che sto bene e che può raggiungermi, se vuole.”
 
“Vuoi che lo informi che i miei genitori sono Mangiamorte nel tragitto, o mi concedi un po’ di tempo?” ironizzò lei.
 
Lui mosse una mano come ad indicare che non aveva importanza. “Non gli spiattellerò tutta la verità adesso, se è questo che ti turba. Io e lui abbiamo altro di cui parlare.”
 
Aveva iniziato a nevicare. I cristalli ghiacciati le graffiavano la pelle. Sherlock le era sempre parso meno umano degli altri diciassettenni di sua conoscenza, ma mai come allora, con la neve tra i capelli arruffati e il volto pallido illuminato dalla luce della bacchetta.
 
Mary era felice di poter tornare al caldo tepore del castello, al riparo dal vento e dalla verità che Sherlock le aveva sbattuto in faccia, ma c’era un’ultima cosa da chiarire: “Sherlock, che cosa è successo dopo che Jim Moriarty se n’è andato? Tu sarai il genio delle deduzioni, ma io non sono stupida: quando sei tornato, ieri notte, sembravi drogato, e John oggi si è messo a farmi domande strane. Non potete pretendere che non sia accaduto nulla.” Era convinta al cento per cento che il momento tanto atteso fosse finalmente arrivato, e ora ne era spaventata. Dopo essersi data tanto da fare perché quei due accettassero la realtà, non era più sicura di volerla accettare lei stessa.
 
“Abbiamo scambiato qualche parola e siamo tornati al castello. Abbiamo dovuto affrontare uno psicopatico, mi sembra ovvio che non fossimo nel solito umore.”
 
“Sherlock, io non sono John: capisco quando menti” replicò lei.
 
“Non è successo nulla” ripeté lui.
 
Era stanca di lottare. Contrariando tutti i propri principi, finse di crederci.
 
Ci mancò poco che John scaraventasse Sherlock giù dalla torre, nel sollievo di riaverlo sano e salvo. Mary lo aveva scovato in Sala Grande, seduto su una panca e immobile, nel panico più totale e nella consapevolezza di non poter fare assolutamente nulla; quando lei gli aveva detto di averlo trovato, gli era servita ogni briciola di volontà per non mettersi ad imprecare ad alta voce.
 
Alla fine si limitò a sedersi a terra accanto a lui. Il vento soffiava furiosamente e la neve penetrava facilmente nella torre, ma stando appoggiati al muro si aveva la sensazione di essere più protetti.
 
Aveva avuto ore per prepararsi un discorso mentre lo cercava. “Ti manifesterò dopo tutta la mia incazzatura per non esserti fatto vedere, ma prima devo dirti una cosa” esordì.
 
“Sì, anche io” disse l’altro in tono serio.
 
“No, prima io. Riguardo a ieri notte…”
 
“Lo so!” esclamò Sherlock, esaltato. “Perché Moriarty sta facendo tutto questo? Qual è il suo scopo finale?”
 
John aprì la bocca, ma l’altro non lo lasciò parlare. “Ci ho pensato e ho un piano per scoprirlo.”
 
John alzò un dito.
 
“E non osare interrompermi” lo precedette l’altro. “Sta per cominciare un nuovo semestre, e questo significa che i Prefetti e i Capi Scuola si riuniranno a giorni per parlare del prossimo anno. Sì, e quindi? Moriarty è un Prefetto, quindi sarà costretto a partecipare.”
 
John iniziava a capire, ma lo lasciò continuare per non sentirsi zittire.
 
“Sfrutterò quelle due ore per setacciare camera sua. Logicamente, è il primo posto dove cercare indizi.”
 
“E non pensi che i Serpeverde si accorgeranno se entrerai nel loro Dormitorio?”
 
Sherlock ghignò. “Dimentichi una cosa: sono un metamorfomagus. Mi basterà cambiare aspetto e colore di cravatta, e voilà.”
 
John rise. “E se Moriarty dovesse tornare mentre tu sei in camera sua?”
 
“Ah, ma è qui che entri in gioco tu!” A quanto pareva, Sherlock le aveva proprio pensate tutte, e ne era davvero entusiasta. “Se avessimo a disposizione la tecnologia Babbana andremmo molto meglio, ma ci dobbiamo arrangiare, dato che nel castello tutti gli apparecchi elettronici hanno l’abitudine di andare in cortocircuito. Il Dormitorio di Serpeverde è sotto il lago, dunque tutte le sue finestre danno sull’acqua, che contribuisce a donare uno spettrale colore verdino all’ambiente. Molto raffinato. Ci sono stato un paio di volte e…” Notando che John lo stava fissando con una smorfia e le sopracciglia inarcate, Sherlock si ricompose. “Comunque. Tu ti apposterai davanti alla sala dove si riuniranno, e non appena usciranno correrai fuori e mi manderai un segnale attraverso l’acqua, che io riuscirò sicuramente a vedere.”
 
“Che tipo di segnale?”
 
“Renderla rossa per un paio di secondi andrà bene. Se qualcuno ti vedrà o interrogherà, basta dire che ti stavi esercitando con l’incantesimo Cambia-colore su larga scala.”
 
“E se Moriarty torna prima? Non è che il castello sia proprio piccolo, mi ci vorrà un po’ per raggiungere il lago.”
 
“Chiederai al tuo amico Weasley di intrattenere qualche parola con lui per farti guadagnare un po’ di tempo, di sicuro un Serpeverde e un Grifondoro avranno di che discutere.”
 
Ci fu un lungo silenzio. “Comunque, non era questo che intendevo.” John si schiarì la gola. “Uhm, prima. Cioè, è un piano fantastico e tutto, ma io parlavo di ciò che è successo dopo Moriarty.”
 
“Sì, l’avevo capito” replicò Sherlock in tono non troppo convinto. “Ma credevo avessimo concordato che si trattava di un errore.”
 
Fu come un pugno nello stomaco. Non per ciò che aveva detto, ma per la totale assenza di sentimenti con cui l’aveva fatto. Come se si fosse trattato davvero di un errore. Non poteva, dopo quanto era accaduto, credere ancora che fosse un semplice incidente di percorso e ignorarlo, andando avanti come se niente fosse; ma soprattutto non poteva reprimere i suoi veri pensieri in quel modo, come se contasse solo la razionalità e nient’altro. Non poteva, dopo tutto quello che avevano passato, credere ancora che fosse così.
 
“Sì, l’abbiamo fatto, ma…”
 
“Secondo te non è derivato dal fatto che eravamo nervosi, sconvolti e sovraeccitati?” Sherlock sembrava sinceramente confuso e preoccupato.
 
John scrutò quel volto spigoloso, gli occhi trasparenti, le profonde fessure ai lati della bocca, quel volto che aveva tanto sognato e bramato, e capì cosa doveva dire, al diavolo i discorsi preconfezionati.
 
“No” sorrise. “Ma abbiamo diciassette anni. Che cosa credevamo? Tu sei il mio migliore amico, e voglio averti intorno ad infastidirmi ancora per parecchio tempo senza preoccuparmi che tu possa perdere interesse.”
 
“Quindi… amici e basta? …No, hai ragione. Forse quello non era un errore, ma… continuare lo sarebbe.”
 
A diciassette anni ogni relazione sembra per sempre.
 
Ti fidanzi ed è un idillio, la storia va a gonfie vele, è come una luna di miele… e poi cambi, e inizi a desiderare qualcosa di nuovo, anche solo per provare, e tutto finisce.
 
Dicono che l’amore sia fare una promessa e mantenerla ad ogni costo.
 
Loro non avevano bisogno di fare promesse per mantenerle: agire diversamente sarebbe stato inconcepibile.
 
Non era il momento giusto per amarsi.
 
“Comunque, avrai tempo per stare da solo con lei” disse Sherlock. “Ho la sensazione che la mia presenza sarà presto richiesta al San Mungo.”
 
“E se i Prefetti si riuniscono nel frattempo? Quanto starai via?”
 
“Una settimana o giù di lì… credo che l’incontro sia giovedì o venerdì prossimo, comunque.”
 
“Pensavo avessi chiuso con Magnussen” obiettò John, confuso.
 
“Non è per lui che vado lì. Mio fratello mi ha inviato una lettera.”
John sospirò. “Hai intenzione di parlarmene o possiamo rientrare? Sto congelando.”
 
“Torniamo dentro.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Mi sono resa conto di aver commesso un'imprecisione. Probabilmente voi non ve ne sarete manco accorti, perché è veramente una cosa minuscola, ma per correttezza la dico lo stesso. Nella mia storia, Charlie Weasley è Prefetto. Dall'originale, sappiamo che Charlie era effettivamente Prefetto e Caposcuola, e che quando Harry è arrivato, nel settembre del '91, lui aveva appena terminato gli studi: quindi aveva iniziato l'ultimo anno nel '90, il sesto nell'89 e il quinto nell'88! Quando Sherlock e Mary fanno quel giochetto con i numeri ho esplicitamente detto che era il 1988, solo che era appena iniziato gennaio! Ergo: Charlie Weasley non può essere Prefetto, perché è ancora al quarto anno. Dato che a me serve che lui sia Prefetto, cambierò la data slittando tutto di un anno, ma lascio comunque questa correzione nel mio spazio autrice.
Passando ad argomenti più allegri, un piccolo appunto sul capitolo precedente: il ragazzo che sfoglia annuari insieme ad Arthy, quello con i capelli rossicci che si chiama Mark e sembra anch’egli sapere tutto di Sherly, tanto che ricorda a Mary la Torre di Astronomia, era un cammeo (non vaticano, haha). Suppongo possiate indovinare di chi.
Comunque, come avrete notato questo capitolo era un po’ “di passaggio”. Abbiamo scoperto che cacchio ha Mary, ok, e anche che cosa ha intenzione di fare Sherly nostro.
Oh cielo, non posso credere che le vacanze siano finite. Se quella cacchio di lettera fosse arrivata, adesso avrei già iniziato il mio settimo anno a Hogwarts!
 

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Capitolo 21
*** Capitolo 16. ***


 
Durante la settimana di assenza di Sherlock, John condusse un’esistenza quasi normale.
 
Seguì un corso supplementare di Trasfigurazione in preparazione all’Accademia di Medimagia; insieme a Denis, portiere della squadra di Quidditch nonché suo compagno di laboratorio terminò con successo una delle ultime fasi di preparazione della Pozione Polisucco; con Mary studiò in Biblioteca, e la portò a passeggiare nel parco; con Hagrid bevve il tè, stando ben attento a non farsi offrire brownies granitici; giocò a scacchi magici con Percy Weasley, fratello minore di Charlie, che sognava di diventare un giocatore professionista.
 
Sapeva però che la sua vita non sarebbe mai stata totalmente ordinaria.
 
Mary gli spiegò pacatamente la situazione dei suoi genitori; Greg Lestrade gli parlò dei suoi sospetti su Jim Moriarty, che a detta di Molly Hooper era morbosamente preso da Sherlock, tanto da costringerla a lasciarlo. Gli rivelò anche il motivo per cui Sherlock era corso al San Mungo: la ragazza che un anno prima era stata morsa da un lupo mannaro, Irene Adler.
 
“Pare che sia scappata” spiegò, “dopo aver rubato una bacchetta e una scorta di Pozione Antilupo.”
 
Da quando Sherlock Holmes era entrato nella sua vita, il concetto stesso di “normalità” era cambiato.
 
Sorrideva ancora nel ricordare il modo in cui erano stati costretti a passare le sei ore in cui avevano condiviso lo stesso braccio, il giorno in cui erano diventati amici: avevano tentato con le carte, ma giocare con una mano sola a disposizione era piuttosto complicato; Sherlock lo aveva pigramente battuto a scacchi per quattro volte consecutive, prima che John decidesse che il gioco lo annoiava.
 
Una volta scollatisi, Sherlock gli aveva chiesto se avesse mai fatto qualcosa di proibito, e di fronte a quei penetranti occhi verdazzurri era stato impossibile mentire:
 
“Ho lanciato delle caccabombe davanti all’ufficio di Piton, una volta” aveva ammesso John. “Per giorni ho avuto il terrore che mi scoprissero.”
 
“Ti piacerebbe provare quel terrore un’altra volta?”
 
“Oh Merlino, sì.”
 
Gli serviva un alleato per uno scherzo che aveva progettato, così aveva detto.
 
Come John aveva avuto modo di scoprire nel corso degli anni, il numero di tali scherzi era, in realtà, di gran lunga superiore a uno: Sherlock li ideava e poi li accantonava per mancanza di un compagno… almeno finché non aveva conosciuto John.
 
 
Sherlock tornò di mercoledì, mentre John si allenava a Quidditch.
 
Lo vide prendere posto sugli spalti accanto a Mary e si prese un Bolide in testa per essersi distratto, proprio come due mesi prima. Ormai ci aveva fatto l’abitudine.
 
“Watson!” sbraitò Clarisse Weasley, scagliando un incantesimo per frenare la sua caduta.
 
“Scusa, Clarisse!”
 
Alla fine dell’ora non seguì gli altri in spogliatoio, dirigendosi invece verso l’amico; Mary se n’era andata una mezzoretta prima, ed era rimasto solo lui. Aveva sciolto la neve sulla panca per non sedersi sul bagnato e sembrava tanto assorto nei suoi pensieri da non accorgersi che John gli si era accostato e gli stava sventolando una mano davanti agli occhi.
 
“Sherlock, sei con noi?”
 
“Cosa? Ah, scusa. Il freddo mi aiuta a pensare.”
 
“Buon per te, io non mi sento più il naso. Non stavi guardando l’allenamento? Per spiare le tattiche del nemico o roba del genere.”
 
“No, non stavo guardando” replicò lui, quasi infastidito. “Ti ricordo che contro di voi abbiamo già giocato.”
 
John si sentì improvvisamente molto lento, cosa che con Sherlock accadeva piuttosto spesso. “Giusto. Comunque bentornato. Com’è andata?”
 
“Bene” rispose l’altro evasivamente.
 
“Uhm, ottimo. Devo andare a cambiarmi, ci vediamo dopo.”
 
“No, aspetta, non sono venuto qui solo per pensare. Dobbiamo parlare di domani, e questo è il posto migliore per farlo senza essere ascoltati. Dimmi, hai visto Moriarty in questi giorni?”
 
“Ho cercato di evitarlo, in realtà. Non avrei idea di come comportarmi.”
 
“Ho fatto qualche ricerca su di lui, mentre ero al San Mungo. Ho parlato con un’infermiera che conosce la madre, che mi ha raccontato che entrambi i suoi genitori sono Purosangue, ma si vocifera che il padre in realtà fosse un Babbano irretito con una pozione d’amore… in ogni caso è cresciuto nel tipico ambiente dei Purosangue: i suoi non erano Mangiamorte ma erano simpatizzanti, come tutti del resto fino a una decina d’anni fa. Nessuno aveva il benché minimo dubbio che sarebbe finito a Serpeverde: chi lo conosce lo descrive come affascinante, ambizioso e calcolatore; è difficile liberarsi dalla sua influenza, io stesso conosco una sola persona che l’abbia fatto. Ti sarai accorto della sua abitudine di tenere banco tra i membri della sua Casa, e non solo… ha uno stuolo di amici, se così si possono definire i suoi leccapiedi. Dicono tutti che farà carriera.”
 
“Sono tutte cose che avrei potuto dirti anche io” lo informò John con una vocina sottile.
 
“Certo, ovvio. Ciò che è successo al San Mungo mi ha aiutato a mettere insieme i tasselli, e ora ho capito perché ha preso di mira proprio me con i suoi indovinelli: chiaramente temeva che svolgessi qualche indagine su di lui dopo essere stato informato dell’innocenza di Magnussen –almeno per quanto riguarda il tentato omicidio di Richard Knight. Non ho più dubbi che sia stato Moriarty, ma non sono più sicuro che quel veleno fosse diretto a me, ora. Si è sempre accanito contro di me perché ero palesemente più sveglio di lui, anche se non ha mai voluto accettarlo, ma quella volta… non capisco perché avrebbe dovuto tentare di uccidermi, anche se ovviamente il fatto che volesse uccidere Knight è ancora più assurdo. In ogni caso mi ha sottovalutato, credendo che non avrei indagato dopo il tuo rapimento… quindi forse abbiamo un vantaggio, se non si aspetta che agiamo. Non so cosa scopriremo, e non so quanto a fondo dovremo spingermi, e non mi piace non sapere.”
 
“Per questo vuoi intrufolarti in camera sua” tentò di confortarlo John, come a dire che almeno avevano un piano d’azione.
 
“Quel diciassettenne incarna tutte le caratteristiche della sua Casa, e se c’è un tipo di studente da temere, è il Serpeverde medio” proseguì Sherlock, perso nelle proprie riflessioni. “Determinato, previdente, audace, subdolo… non ci attende nulla di buono.”
 
“Io avrei più paura del Corvonero medio” scherzò John, solidale. “Indagatore, logico, affamato di conoscenza…”
 
“Non serve che dipingi il mio ritratto, John.”
 
“Dico solo che sembri molto timoroso, per i tuoi standard.”
 
“Non sapere cosa aspettarmi mi manda in confusione” sospirò Sherlock. “E analizzare ogni minimo dettaglio mi aiuta.”
 
“Già.”
 
Sherlock non replicò. John sapeva che avrebbe dovuto alzarsi e andarsene, ma la forza di gravità sembrava averlo incollato al sedile. Si incurvò, appoggiando i gomiti alle ginocchia e sorreggendosi il mento sui pugni chiusi. Sherlock, accanto a lui, si abbracciava le gambe e teneva i piedi sulla panca. Stava sicuramente continuando ad analizzare ogni singola frase detta da Moriarty, ma stavolta non esprimeva i suoi pensieri ad alta voce.
 
Dai punti in cui i loro corpi si toccavano parevano provenire piccole scosse elettriche, che avevano l’effetto di far battere il cuore di John molto rapidamente. Davanti a sé vedeva solo il campo da Quidditch, ma era fin troppo consapevole della presenza dell’altro; al minimo movimento di Sherlock, i suoi nervi ipersensibili scattavano, facendolo trasalire.
 
Ogni pulsazione gli dava la sensazione di essere sempre più accaldato. La divisa da Quidditch, progettata per volare ad alta quota sotto venti sferzanti, gli pesava come una coperta bagnata d’acqua calda.
 
Inspirò profondamente, trattenendo un gemito quando l’aria ghiacciata gli penetrò nel petto.
 
“Comunque vada…” esordì.
 
“Oh, ti prego” lo interruppe Sherlock. “Non stiamo per morire. Non essere melodrammatico.”
 
“Senti chi parla” protestò John fiaccamente, alzandosi in piedi. “E poi non ho detto niente!”
 
“I discorsi che iniziano con comunque vada sono sempre melodrammatici.”
 
“Vado a cambiarmi.”
 
“Ciao.”
 
 
I Prefetti si riunivano prima dell’inizio delle lezioni, per non perdere ore di scuola o di studio. John era stato contento di non essere stato nominato Prefetto anche solo per quel motivo, ma quel giovedì fu costretto ad alzarsi preso proprio per l’assemblea.
 
La sera prima aveva domandato a Charlie Weasley di aiutarlo, ottenendo non poche lamentele.
 
“Sai che non mi piace” aveva protestato. “Non ci sono mai andato d’accordo, perché dovrei fermarmi a parlargli?” Fortunatamente per John, che non sapeva come convincerlo, Charlie aveva proseguito dicendo: “Oh, e va bene. Tanto non m’importa nulla di quello che pensa di me. Gli chiederò… boh. Se si è lasciato con Molly Hooper. Magari dico che Abernathy ci vuole uscire insieme. Probabilmente questo lo tratterrà per una mezza dozzina di secondi.”
 
John aveva sollevato le spalle. “Meglio di niente. Se nel frattempo poi riesci a inventarti altro…”
“Sì, sì, ci penso.”
 
Non vide Sherlock fino all’ora di pranzo, perché seguivano lezioni differenti. Non sapeva se il loro piano avesse funzionato; certo, lui aveva corso come un forsennato per raggiungere il lago e lo aveva colorato di una magnifica tonalità di bordeaux, ma era stato sufficiente?
 
Vedere Sherlock a pranzo fu un tremendo sollievo, ma lui si rifiutò di fornire spiegazioni in Sala Grande e lo condusse via, nel dedalo di corridoi di Hogwarts. Si fermò solo quando ritenne di essere al riparo da orecchie indiscrete.
 
“Allora, hai trovato qualcosa?”
 
“Non ci crederai mai.” John leggeva l’esaltazione sul suo volto, ma aveva imparato a non fidarsi troppo dell’eccitabilità dell’amico.
 
“Ok, be’, vediamo.”
 
Gli tese un microscopico pezzettino di pergamena dai bordi frastagliati.
 
Le spalle di John si incurvarono. “Tutto qui?”
 
“Oh, sì. Non hai idea di quanto siamo stati fortunati! Il resto deve averlo bruciato, ma questo frammento si è salvato. Osserva!”
 
John gli lanciò una rapida occhiata. “È uno scarabocchio. Un teschietto, direi: questo è il naso, e qui c’è parte di un occhio, e la bocca… Sai che novità, per uno come lui.”
 
“Sono sicuro che Mary avrebbe da ridire. Non vedi? Guarda le linee che escono dalla bocca e circondano la mandibola. Che cosa ti ricordano?”
 
“N-non lo so…”
 
“Il Marchio Nero, John!”
 
John strabuzzò gli occhi e gli strappò di mano il pezzo di carta per osservarlo meglio. “Il Marchio Nero… il simbolo dei Mangiamorte?”
 
“Quanti altri Marchi Neri conosciamo? Sì, il simbolo dei Mangiamorte.”
 
“Ma Sherlock, Moriarty non può essere un Mangiamorte. E poi il Signore Oscuro è morto!”
 
“Vero. Però i suoi antichi seguaci continuano a riunirsi, secondo Mary. Potrebbe non significare nulla, magari agli ex Mangiamorte piace semplicemente ricordare i bei vecchi tempi disegnando Marchi Neri come le ragazzine disegnano cuoricini.”
 
“Non ci credi veramente.”
 
“No. Non escluderò la possibilità che ci sia dell’altro, sotto. Voldemort –oh, non fare quella faccia- era potente, ma lo erano anche i suoi seguaci: pensa a Sirius Black, i Lestrange, Barty Crouch junior… chissà quanti altri ce n’erano che non sono mai usciti allo scoperto. Dovrò continuare ad indagare. Del Veritaserum, magari? Potremmo rubarlo dallo studio di Piton. Non lo so. Devo ancora decidere. Voglio andare fino in fondo a questa storia.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Come potete notare, il nostro Sherlock è chiaramente ancora molto giovane: è un detective alle prime armi, brillante ma con poca esperienza, e affrontare un nemico imprevedibile e misterioso come Moriarty lo spiazza; quando si trattava di Magnussen le cose erano più facili, perché conosceva benissimo il suo movente –o meglio, credeva di conoscerlo: alla fine il colpevole non era nemmeno lui… ma da Moriarty non sa cosa aspettarsi, e direi che gli ultimi ritrovamenti non hanno apportato miglioramenti. Il Serpeverde ha a che fare con i Mangiamorte, ok, ma perché? Non conosciamo ancora i suoi scopi (be’, io e Jim li conosciamo, in realtà).
Con gioia e gaudio vi annuncio che probabilmente –PROBABILMENTE- scriverò un seguito, sequel, spin-off, seconda stagione, o come volete chiamarlo. Il fatto è che anche se so che la scuola mi terrà impegnatissima non riesco a staccarmi da questi personaggi e ho una voglia tremenda di continuare a scrivere. Non ho ancora la più pallida idea di come si chiamerà, ma io e la mia squadra di creativi ci stiamo lavorando (in particolare la squadra di creativi comprende la mia editor –nonché co-autrice del dialogo alternativo che tutti ricordate benissimo-, la donna che per grazia degli dei del Nord mi ha fatto scoprire Sherlock, e ciò che secondo me direbbero i miei personaggi preferiti dei libri, che di solito sono quelli strambi e/o geniali); ne ho qualcuno in mente, ma… be’, sicuramente prima dell’epilogo avrò preso una decisione. Non vi dico di cosa parla perché sarebbe una specie di spoiler, però sappiate che è ambientato negli anni ’90 e ha molto a che fare con gli eventi di alcuni libri di Harry Potter.
Ps: magari sembra così, ma vi assicuro che non ho assolutamente niente contro i Serpeverde; so benissimo che dire che sono tutti malvagi e sleali significa fare di tutta l’erba un fascio, e non è mia intenzione. Le qualità descritte sono state prese da una lista (molto utile) che si sofferma proprio a smentire gli stereotipi, tipo “i Serpeverde sono senza scrupoli e menefreghisti”, “i Corvonero sono logorroici e secchioni”, “i Tassorosso sono deboli e fifoni”, “i Grifondoro sono irresponsabili e presuntuosi”, eccetera. Penso semplicemente che alle persone con le capacità e le qualità dei Serpeverde sia data la possibilità di scegliere se indirizzarle verso propositi onesti o no. E Moriarty ha scelto la seconda, così come Voldemort, i Mangiamorte e compagnia bella.

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Capitolo 22
*** Capitolo 17. ***


 
Il biglietto fu recapitato due giorni dopo via gufo.
 
Vieni a giocare un’ultima volta, Sherlock Holmes. Non te ne pentirai.
 
Sotto la scritta c’era il disegno stilizzato di una torre e una stellina, seguiti da uno smile sbilenco.
 
E una data: quella notte a mezzanotte.
 
“Dov’è?” ringhiò Sherlock, scandagliando la tavolata di Serpeverde alla ricerca di Jim Moriarty.
 
Assente.
 
Per la prima volta dall’inizio di quell’assurda storia, aveva paura. Non poteva affrontare Moriarty alla luce del sole, perché nessun altro era al corrente delle nefandezze che aveva compiuto, e quindi lui aveva le mani legate dalle stupidissime norme della buona convivenza. Se Moriarty appariva innocente, lui non poteva fargli esplodere la testa con un incantesimo Reducto.
 
Rabbrividiva al pensiero che, se non avesse saltato un anno, avrebbe dovuto vederlo in classe ogni giorno, e fingere che non fosse successo nulla.
 
Non aveva paura per se stesso. Mai per se stesso.
 
Aveva paura per Molly Hooper, che era sempre stata così gentile e non lo aveva mai trattato come uno psicopatico, e la notte di Capodanno era corsa da lui, sconvolta dal fatto che il ragazzo con cui usciva sembrasse avere un’ossessione per lui.
 
Aveva paura per Greg Lestrade, una delle poche persone che avessero ancora un minimo di cervello in quella scuola, che non aveva esitato a sciogliere un intero scaffale solo per il gusto di burlarsi di lui e aiutare il povero John.
 
Era stata Irene Adler a fargli questo.
 
Doveva essersi proprio divertita a giocare con lui. Quanto doveva aver riso poi, nel raccontare a Jim Moriarty la frottola che si era inventata!
 
E lui le aveva creduto, e aveva provato compassione per lei, e l’aveva ammirata, e l’aveva aiutata.
 
Per lei aveva creato una pozione in grado di contrastare gli effetti terribili e distruttivi della licantropia… e lei si era pentita di averlo raggirato. Aveva scoperto di Magnussen e non ci aveva impiegato molto a fare due più due; lo aveva avvertito del fatto che lui non poteva essere colpevole, senza sospettare che la faccenda si sarebbe ritorta contro il suo amico Jim.
 
O forse lo sapeva, ma aveva deciso di vendicarsi di lui: dopotutto era colpa sua se lei era un lupo mannaro. Pensandoci bene, era probabile che avesse anche avvertito Jim che Sherlock era sulle sue tracce… benché questo fosse falso: a quel tempo Sherlock non aveva la minima idea di chi fosse il suo nemico. Chi sapeva cosa passava per la mente di quella ragazza?
 
Gli studenti rapiti da Moriarty non ne avevano fatto parola. Forse nemmeno avevano capito di essere stati rapiti: magari avevano dormito tutto il tempo, o si erano svegliati in qualche sgabuzzino e avevano creduto che si trattasse di uno scherzo.
 
Eccetto John, ovviamente.
 
Moriarty era disposto a tutto purché Sherlock non si impicciasse nei suoi affari, o almeno così aveva voluto dare a credere. Che poi bluffasse o no, Sherlock non ne era sicuro, ma il ragazzo che aveva introdotto un lupo mannaro nella scuola poteva benissimo arrivare a commettere un omicidio.
 
“Sai cosa succede se non mi lasci in pace, Sherlock?”
Sherlock poté finalmente muoversi e parlare. “Io vengo ucciso.”
Jim scoppiò a ridere di gusto. “Oh, no no no. Voglio dire, potrei sempre farlo un giorno, ma per adesso no. Ti ripeto la domanda: sai cosa succederà?”
Sherlock digrignò i denti. “No.”
“Ti strapperò il cuore.”
 
Aveva paura per Mary Morstan, quella creatura astuta e misteriosa, la diciassettenne più sveglia che avesse mai incontrato.
 
Se solo Sherlock avesse scoperto che cosa tramava Moriarty… gli indizi che aveva raccolto fino a quel punto non erano collegati in nessun modo: c’era Fenrir Greyback che penetrava nel territorio iper-protetto della scuola; c’era Richard Knight che ingeriva del veleno e ne restava quasi ucciso, quasi; e infine c’era il Marchio Nero. Aveva delle ipotesi, naturalmente… una più folle dell’altra.
Giocare un’ultima volta. Non prometteva nulla di buono. Solo perché Moriarty aveva diciassette anni, non significava che non potesse essere crudele.
 
Aveva paura per John.
 
Il suo istinto gli suggeriva di afferrarlo per un polso e correre via, al riparo dai pericoli.
 
Sapeva, in linea generale, cosa stava accadendo tra loro. Un tempo era stato convinto di poter semplicemente saltare quella fase, e invece c’era cascato anche lui. Si sentiva tradito da se stesso.
Non voleva neanche immaginare quali porcate fantasticassero di fare i suoi compagni di stanza alle ragazze a cui correvano dietro; le desideravano praticamente solo in modo fisico, le consideravano nient’altro che bei faccini e corpi sensuali. Era disgustato da quell’oltrepassare i limiti della decenza, da quel trionfo degli istinti più primitivi e animaleschi sulla ragione e sulla razionalità.
 
Con John era diverso.
 
Rivederlo per la prima volta dopo quasi due anni gli aveva tolto il fiato; non era stato in grado nemmeno di salutarlo, cosa per cui provava ancora vergogna. Da quel giorno si era sorpreso ad osservarlo di sottecchi, a cercare sempre più spesso il contatto con lui, ad attendere con ansia i momenti in cui restavano soli.
 
Provava una sincera simpatia per Mary, ma nel vederli insieme un tarlo gli rodeva il fegato e gli impediva di pensare lucidamente.
 
“Sherlock? Sherlock, lo stai facendo di nuovo.”
 
Sussultò. Qualcuno gli stava sventolando una mano davanti agli occhi.
 
Eh?”
 
“Quella specie di trance in cui ti isoli dal mondo.”
 
“Scusa, John.”
 
John Watson rise. “Ti senti bene? Da dove esce tutta questa remissività?”
 
Sherlock scosse la testa. “Che c’è?”
 
“Dopo scuola vieni ad allenarti a Quidditch con me? C’è il campo libero dalle cinque alle sette.”
 
“Sì… sì, certo. Scusa, devo andare a lezione. E anche tu, hai Pozioni con i Tassorosso.”
 
“Ci vediamo dopo, allora.”
 
 
 
Verso le cinque meno un quarto John si recò agli spogliatoi per indossare la tuta e le protezioni –guanti, ginocchiere, gomitiere e casco da Battitore.
 
Lo spogliatoio era dotato di un piccolo bagno con un lavandino e uno specchio scheggiato, che nessuno si era mai dato pena di riparare. Sui muri e dietro la porta generazioni e generazioni di giocatori di Grifondoro avevano lasciato i loro messaggi: per la maggior parte erano inneggi a squadre di Quidditch, ma spesso si incontravano anche lettere inscritte in cuoricini e commenti di apprezzamento alle ragazze; c’era ancora parecchio spazio disponibile, carta bianca per i futuri studenti.
 
John si appoggiò al lavabo e scrutò il proprio riflesso allo specchio.
Il casco gli appiattiva i capelli. Aveva un brufolo molto poco elegante sulla fronte.
 
Storse la bocca e arricciò il naso, cercando di convincersi di stare solo perdendo tempo. I suoi occhi non erano del blu che avrebbe desiderato: erano opachi, troppo scuri, e a volte assumevano una tonalità anonima e indefinita di grigio che era totalmente priva di personalità.
 
Prima di prendere la decisione di suicidarsi per la vergogna, distolse lo sguardo e si focalizzò sulle pareti graffitate, provando l’impulso di marchiarle anche lui. Doveva pur lasciare un segno del suo passaggio a Hogwarts, no?
 
Adocchiò un quadratino libero proprio accanto allo specchio e impugnò la bacchetta come una penna, appoggiando il braccio alla parete fredda. L’idea di lasciare un “viva i Tornados” come memoria del suo soggiorno era parecchio banale.
 
Sogghignando, scrisse:
 
Il giorno in cui lo colpirai in testa con uno di quei maledetti Bolidi sarà il giorno in cui gli
dirai che sei innamorato di lui
 
“Promesso” mormorò uscendo dallo stanzino. Tanto non sarebbe mai successo, no?
 
 
 
“Pronto?”
 
“Non hai paura di farmi male?”
 
John rise. “Sei troppo veloce, non ti colpirò mai.”
 
“Non dovresti sottovalutarti così.”
 
John aprì la valigetta che conteneva le palle e lasciò uscire uno dei due Bolidi, sparandolo immediatamente in aria con la mazza per avere il tempo di decollare.
 
Salirono a cavalcioni sulle scope e partirono in direzioni opposte, John quella del Bolide, Sherlock verso l’altra metà campo. Il Corvonero girò attorno agli anelli della porta e alle torrette, poi virò bruscamente e scese in picchiata.
 
Schivò il primo lancio con facilità, risalendo all’ultimo secondo con uno strattone alla scopa.
 
“Devi tirare più piano” consigliò a John scambiandosi di posto con lui. “Hai lanciato il Bolide troppo distante, e così lui non è riuscito a tornare verso di me. Se avessi tirato con minor forza, invece, non avrei avuto il tempo di andarmene perché una volta esaurita la spinta si sarebbe attaccato a me.” John ignorò completamente le sue pretese di fare il saputello.
 
A metà gennaio la Scozia non è esattamente il paese più caldo del mondo. Il sole era disceso rapidamente, facendo calare la temperatura di diversi gradi. Ben presto John perdette la sensibilità della bocca, del naso e delle orecchie; ogni tanto spalancava e strizzava gli occhi perché le ciglia non si ghiacciassero. Fortunatamente chi aveva progettato le divise era stato abbastanza lungimirante da dotarle di caldi guanti, o avrebbe perso anche la presa sulla mazza.
 
Quel giorno il cielo era terso ed era ancora rischiarato dalle ultime luci del crepuscolo. L’interno del castello, illuminato dalle candele, sembrava in fiamme.
 
John si era sempre rammaricato che quella struttura tanto imponente fosse semideserta, con moltissime sezioni e stanze inutilizzate. Per di più era un labirinto, e le scale letteralmente mobili non aiutavano ad orientarsi: non era semplice evitare di perdersi nei meandri dell’edificio.
 
Quando si giocava una partita i professori provvedevano all’illuminazione serale del campo, ma presto lui e Sherlock sarebbero stati costretti a rientrare, perché stava diventando difficile individuare il Bolide.
 
John lo vide arrivare a gran velocità e preparò la mazza, cercando Sherlock con la coda dell’occhio: lo scorse a pochi metri da terra, in prossimità della tribuna d’onore. In più di un’ora di allenamento l’aveva sempre mancato, ma questo non lo scoraggiava.
 
Il Bolide era a poco più di mezzo metro quando lo scagliò via. L’impatto si ripercosse sul suo braccio facendolo tremare.
 
Sherlock fu colpito alla testa e per poco non cadde dalla scopa, ma subito mostrò i pollici alzati e volò distante.
 
John gli fece segno di seguirlo e puntò verso il basso per atterrare. Tenendo d’occhio la palla, che stava rapidamente convergendo verso di lui, e preparandosi a riceverla di petto, incespicò nel scendere dalla scopa e franò a terra.
 
Per un terrificante momento non vide che neve, poi le ginocchia urtarono terra e le mani affondarono nella massa di cristalli.
 
Prima che potesse rialzarsi e affrontare il Bolide qualcosa cadde accanto a lui e si trascinò per diversi metri contorcendosi.
 
La scopa di Sherlock era a terra, e il suo proprietario si stava dibattendo per contrastare il Bolide che teneva fra le braccia. John si precipitò verso la valigetta e insieme all’amico lo intrappolò tra le cinghie di contenimento.
 
“Grazie” mormorò lentamente, perché aveva le labbra congelate e non riusciva ad esprimersi in altro modo.
 
“Ho lo sterno ammaccato” replicò Sherlock sedendosi a terra a gambe incrociate.
 
“Non posso credere di averti colpito!” John era costernato. “Perché diavolo non ti sei mosso?”
Sherlock unì le lunghe dita sotto il mento. “Volevo concederti l’onore di colpirmi almeno una volta.”
 
“Grazie, eh.”
 
“John… Moriarty mi ha inviato un biglietto.”
 
Cosa? Quando? Perché non me l’hai detto?”
 
“Volevo… stare con te senza che le nostre azioni fossero condizionate da lui” spiegò Sherlock con schiettezza. “Vuole incontrarmi stanotte a mezzanotte sulla Torre di Astronomia. Credo che voglia uccidermi…
 
“Sai cosa succede se non mi lasci in pace, Sherlock? Ti strapperò il cuore.”
 
…Non so cosa gli abbia fatto cambiare idea, ma dice di voler giocare con me un’ultima volta.”
 
“Non puoi andare lì a farti ammazzare!”
 
“Certo che no. So proteggermi da un Avada Kedavra. Ne approfitterò per scoprire i suoi piani.”
 
“Vengo con te.”
 
No!”
 
“Ti strapperò il cuore.”
 
“Perché no?”
 
“Non ci pensare neanche. È una cosa che devo fare da solo. Se tu venissi, si ripeterebbe la situazione dell’ultima volta: non posso fornirgli un modo per ricattarmi. Tu te ne starai in Sala Comune insieme ai tuoi amici. E ora ti prego, torniamo dentro, o morirò di freddo prima che Moriarty mi uccida.”
 
John però rimase seduto. I suoi occhi, fissi sul castello, ne riflettevano il bagliore giallastro. “Credi che voglia ucciderti” ripeté.
 
“Sì, John, è quello che sto dicendo da venti minuti.”
 
“Stanotte a mezzanotte sulla Torre.”
 
Sì-i. Be’, tu resta pure qui, io vado.”
 
“Aspetta! Ti prometto che poi tornerò in Sala Comune e starò con i Weasley tutto il tempo, ma dobbiamo vederci prima che tu vada da Moriarty.”
 
“Perché?”
 
“Non ha importanza.” John non era mai stato tanto risoluto. “Ti ricordi quell’aula del secondo piano in cui abbiamo parlato dopo il delitto di Richard Knight? Ci vediamo lì alle undici e trenta.”
 
Sherlock lo guardò raccattare la scopa e avviarsi verso lo spogliatoio, cercando di capire cosa avesse in mente.
 
John posò la scopa sulla rastrelliera accanto all’ingresso dello stanzino e procedette nel togliersi casco, guanti, protezioni e divisa; rimasto in pantaloni della tuta e canottiera bianca, si coprì con un maglione e andò in bagno a sciacquarsi il viso con l’acqua calda.
 
Un graffito accanto allo specchio attirò la sua attenzione:
 
Il giorno in cui lo colpirai in testa con uno di quei maledetti Bolidi sarà il giorno in cui gli dirai che sei innamorato di lui
 
Oh, lui avrebbe fatto molto di più.
 
 
Quando John raggiunse il luogo dell’incontro, Sherlock era già lì. Indossava il suo solito mantello nero sopra la divisa scolastica e la sciarpa blu che Molly Hooper gli aveva regalato per Natale. Benché cercasse di non darlo a vedere, era chiaro che era spaventato.
 
 “Allora, cosa volevi dirmi?” domandò impaziente.
 
John inspirò, richiamando alla mente il discorso che si era preparato. “Innanzitutto… voglio che tu faccia una promessa.”
 
L’altro si accigliò: “Una promessa?”
 
“Promettimi che, qualunque cosa accada, Mary sarà sempre al sicuro.”
 
“Mary? Lei non c’entra con questa storia.”
 
“Ho vissuto accanto a lei per sette anni, e non si può conoscere qualcuno per tanto tempo senza volergli bene; e nelle ultime settimane abbiamo scoperto qual è il peso che grava sulla sua testa, e io non voglio che lei ne risenta, mai. Quindi se per qualche ragione io non potessi proteggerla, voglio che lo faccia tu.”
 
“Sono io quello che stanotte potrebbe morire.”
 
“Per favore…”
 
Forse Sherlock fu colpito dal suo trasporto, forse desiderava semplicemente accontentarlo, forse credeva davvero nelle sue parole: in ogni caso, giurò.
 
Ignorando le cataste di sedie, John si sedette per terra con la schiena al muro, e dopo un attimo di esitazione Sherlock lo seguì.
 
“Perché improvvisamente sei così premuroso verso di lei?” chiese.
 
Non capiva. O forse capiva, ma non voleva accettarlo.
 
John non diede segno di averlo sentito. “Sei stato il migliore amico che potessi desiderare” disse.
 
Sherlock rizzò la schiena e si girò a guardarlo con circospezione. “Standard molto bassi” borbottò. “Certo in quanto a sagacia non mi batte nessuno…”
 
“Non mi importa se sei stato un amico poco convenzionale” ribatté John. “E…”
 
Lo stomaco gli doleva dal nervosismo. Sentiva la gola contratta. Il suo respiro non riusciva a stare dietro al battito accelerato del suo cuore. Si voltò verso di lui e fissò intensamente i suoi occhi di quel colore impossibile.
 
E cosa?”
 
“Comunque vada…”
 
Sherlock fece per obiettare, ma lui non gliene lasciò lo spazio, perché gli tappò la bocca con le labbra.
 
Per un momento fu solo quello: due parti del corpo in adesione. Sherlock si irrigidì e sollevò le braccia per allontanarlo, ma non poté fare a meno di dischiudere le labbra e assaporare quel contatto così banale e così sconvolgente; all’ultimo istante la sua mano si posò sulla guancia di John, che sorrise. Il bacio si fece più intenso e pressante, finché John non si staccò leggermente. Con la bocca ancora su quella di Sherlock, mormorò:
 
“Mi dispiace, ma non avresti mai collaborato. Stupeficium!”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Ora vi racconterò una barzelletta.
“John riesce finalmente a convincere Sherlock a prendersi una vacanza, e così i due vanno in campeggio. La sera piantano la tenda in uno spiazzo erboso e vanno a dormire.
Nel bel mezzo della notte Sherlock scuote John per un braccio.
-John! John!
-Che c’è, Sherlock?
-Guarda il cielo, e dimmi cosa ne deduci.
-Dalla complessità e dalla vastità della volta celeste- esordisce John con voce profonda –ne deduco che noi non siamo che esseri microscopici di fronte all’immensità dell’universo. È dunque improbabile che noi esseri umani siamo gli unici abitatori del…
-John- lo interrompe Sherlock. -John, sei un idiota. Ci hanno rubato la tenda!”
 
 

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Capitolo 23
*** Capitolo 18. ***


 
Era morto nel 1989.
 
 
 
 
 
Una volta girato l’angolo, Jim Moriarty lo avrebbe visto e disarmato.
 
Era la sua unica speranza.
 
La mano che stringeva la bacchetta stava tremando, ma la sua mente era lucida: sapeva cosa fare; sapeva perché doveva farlo. Non c’era spazio per nient’altro.
Mosse un passo, entrando nel raggio di luce alimentata da Moriarty, e pochi istanti dopo una forza invisibile gli strappò la bacchetta. Moriarty la raccolse con un incantesimo d’appello pronunciato in silenzio. Se avesse provato ad usarla, tutti i suoi piani sarebbero andati in fumo, ma fortunatamente si limitò a tenerla in mano.
 
Lui infilò le mani in tasca con falsa noncuranza… sperando che la situazione non ne richiedesse l’uso.
 
“Sei venuto” disse Moriarty, quasi sorpreso. “Sei in ritardo. Stavo per dare l’ordine.”
 
Il Serpeverde indossava lo stesso completo grigio della scorsa volta, uno sforzo penoso di sembrare più adulto dei suoi diciassette anni, poiché il ciuffo che gli ricadeva scompostamente sulla fronte vanificava qualunque tentativo. I suoi occhi erano cerchiati di viola e marcati da tristi linee premature.
 
“Ordine?” ripeté lui con aria assente.
 
“Ordine di uccidere il tuo amico.”
 
“Ucciderlo?” Sapeva di irritarlo con quel comportamento: era ciò che desiderava. Almeno la conversazione si sarebbe conclusa più in fretta.
 
“Ma quanto sei noioso!” si lamentò Moriarty con esagerata esasperazione. “Tappetto, capelli biondi, girate sempre assieme, ce lo hai presente o vuoi una foto? Ha cercato di salire due minuti fa, e i miei ragazzi l’hanno bloccato. È proprio qui sotto, adesso.”
 
“Perché non l’hai lasciato restare qui?” La sua voce non tradiva alcuna emozione.
 
“Chi sa a quali atti disperati potrebbe arrivare? No, Sherlock, devi prendere la sua assenza come un piccolo incentivo: o fai come io ti dico, o lui morirà.”
 
 
 
 
 
Era stato ucciso da un ragazzo di nome Jim Moriarty.
 
 
 
 
 
“Perché mi hai convocato?” Doveva fare in modo che tutto sembrasse veritiero.
 
“Perché ti avevo detto di lasciarmi in pace, e tu non l’hai fatto. Avrei dovuto essere insospettabile, e invece Irene Adler ha compatito il tuo sentimentalismo ed è stata troppo debole per mantenere il mio segreto…”
 
“Tu l’hai condannata alla reclusione” obiettò lui senza particolare trasporto.
 
“Credevo che vedere John Watson minacciato di morte ti avrebbe fatto desistere, e invece hai continuato ad indagare.” Moriarty sospirò con teatralità. Per essere così giovane, aveva sicuramente talento come attore drammatico. Se quel completo grigio non fosse stato così ridicolo, avrebbe potuto addirittura sembrare pericoloso.
 
“Suppongo che tu sappia che ho trovato il Marchio Nero in camera tua.”
 
“Credevi davvero che non avrei preso le mie precauzioni? Lascio sempre dei sensori di rilevamento quando esco.” Il Serpeverde scosse la testa. “Ma sai che ti dico? Va bene. Va bene così. Sarà molto più facile.”
 
“Che cosa significava il Marchio Nero?”
 
“Non l’hai dedotto? Ti credevo più intelligente.” Moriarty sembrava deluso, e questo non faceva che renderlo più sprezzante.
 
“Che – cosa – significava.”
 
Per tutta risposta, Moriarty volse lo sguardo al cielo.
 
La notte era limpida come lo era stata la giornata, e in quel luogo sperduto la volta celeste era spettacolare. Dalla sommità della torre più alta di Hogwarts, sembrava che nulla li separasse dalle stelle.
 
Lui attese con pazienza i tempi esagerati dell’altro ragazzo, che con esacerbante lentezza levò la bacchetta magica e la puntò verso il firmamento; dopo una pausa drammatica, esclamò: “Morsmordre!”
 
Il cielo si tinse di verde. Un verde acido, malsano, dannoso.
 
Il simbolo, fumoso e contorto, degli uomini che avevano giurato di piegare ed annientare gli impuri si stagliava ora contro le stelle, proprio sopra la torre: il Marchio Nero, il teschio e il serpente di Lord Voldemort.
 
“Vedi, Sherlock, il fatto è questo: tu e ogni altro ragazzino di questa scuola uscirete da qui e vi troverete un impiego banale e poco stimolante, e lo occuperete per i prossimi cinquemila anni, trascinando avanti per inerzia le vostre inutili vite ordinarie. Io, a differenza di tutti voi, non ho intenzione di entrare nella fossa che mi è stata scavata.”
 
“Credi di essere migliore degli altri? Più intelligente? Più dotato? È questo che i Mangiamorte pensano di te?” ringhiò lui.
 
“Precisamente. Vedi, Voldemort –oh, sì, io pronuncio il suo nome, non mi fa paura- sarà anche morto, ma almeno metà dei suoi seguaci è ancora a piede libero: si riuniscono, discutono, tramano, e sono ancora pronti a combattere per la causa in cui credevano fermamente otto anni fa. L’unica cosa di cui hanno bisogno, ora, è di un leader come Tom Riddle era stato.”
 
“Tu vuoi…”
 
“Sì, io voglio. Ho provato loro che posso far entrare una qualsiasi creatura all’interno di un confine iper-protetto e farla uscire con la stessa facilità; ho provato loro che so maneggiare le pozioni meglio di chiunque altro.”
 
“E lo ammetti così?”
 
“Cos’hai bevuto, una pozione rimbecillente? È ora del test rosso, Sherlock. Devo provare di saper uccidere.”
 
“Hai intenzione di farmi fuori così? Disarmato?”
 
“Oh, no! Cosa vai a pensare… ho intenzione di convincerti ad ucciderti. Non ti ho convocato sulla torre più alta del castello solo perché mi andava, altrimenti ti avrei chiesto di raggiungermi nel bagno dei Prefetti del quinto piano, in cui la temperatura è decisamente più sopportabile.”
 
“Vuoi che io mi butti giù” dichiarò lui. Certo, era ovvio. Fortunatamente, questo non modificava i suoi progetti. “E perché dovrei farlo? Sarai anche un bravo oratore, ma ci vuole più di un bel discorso per portare qualcuno al suicidio… o pensi di stregarmi con una Maledizione Senza Perdono? Non mi sembra molto corretto.” Stava solo blaterando a vuoto, ovviamente: sapeva benissimo perché avrebbe dovuto buttarsi… o piuttosto per chi.
 
“Hai questa pessima abitudine di costatare l’ovvio… ma la seconda parte del discorso è tutta sbagliata. Sul serio, mi deludi, pensavo che fossi più intelligente. Sì, voglio che ti butti, certo che lo voglio. Ma non ti costringerò a farlo con la forza. Che gusto ci sarebbe? No no – no. Alla fine, tu desidererai farlo, Sherlock. Dopotutto, non è neanche poi così difficile, no? Insomma, non deve essere poi così doloroso uccidersi se la morte è l’alternativa migliore. Lo spero per te, sul serio.”
 
“Se hai scambiato la mia sociopatia per depressione, sei fuori strada” lo interruppe lui.
 
Accantonando le burle e i giri di parole, Moriarty venne al dunque: “Non appena i miei ragazzi ti vedranno precipitare, libereranno il tuo amico John Watson.”
 
Lui affondò le mani nelle tasche e si accostò al parapetto.
 
“Come faccio a non sapere che non stai bluffando?” Sapeva benissimo che non lo stava facendo, ma doveva fingere di aggrapparsi con tutte le sue forze a quell’esile speranza.
 
“Ti piacerebbe, ma lo sai benissimo, perché conosci John Watson, e sai che è proprio nel suo stile cercare di proteggerti.”
 
“Saresti davvero capace di ucciderlo?”
 
“Solo perché ho diciassette anni –come te, del resto- non significa che io non sia abbastanza maturo da compiere un simile atto. Il punto è che non mi importa assolutamente nulla se John Watson vive o muore, ma il mio ordine è quello di uccidere qualcuno. E la mia prima scelta sei tu. È tutta una questione di convenienza, sai. Cioè, se ti butti perdi la vita, ma se non ti butti perdi molto di più.”
 
“O io, o John.” Sherlock guardò in basso senza riuscire a scorgere il fondo.
 
“Lo so, avevo promesso che prima di ammazzarti ti avrei fatto soffrire… ma non sono tanto arrogante da sottovalutarti: tu sei l’unico che potrebbe fermarmi, e non ho intenzione di vederlo accadere solo perché non sono stato abbastanza… spiccio.”
 
“Mi prometti che a John non sarà torto un capello?”
 
Moriarty sorrise bonariamente. “Devo ucciderne uno solo” ripeté.
 
Lui si posizionò sul bordo del perimetro. “È per salvarlo” mormorò a se stesso. “Non c’è alternativa.” Si concesse un microscopico sorriso.
 
E si lasciò cadere.
 
 
 
 
 
Sfruttando la disattenzione di Moriarty, era riuscito ad afferrarlo per i vestiti e a trascinarlo con sé.
 
La caduta era stata troppo rapida per permettere ad almeno uno di loro di utilizzare la bacchetta per salvarsi. Si erano sfracellati al suolo insieme.
Nel frattempo, Mary Morstan stava combattendo contro i giovani Serpeverde che tenevano John Watson in ostaggio per liberarlo. Quando i due fidanzati avevano raggiunto la torre, era ormai troppo tardi: Sherlock e il suo nemico giacevano diversi metri più in basso.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Jim Moriarty, con una bacchetta per mano, stava ridacchiando sommessamente quando Mary Morstan raggiunse la sommità torre. Lui ignorò totalmente la ragazza, che corse dal lato opposto della torre per osservare con orrore il corpo morto, ma lanciò un urlo soffocato nel vedere chi la seguiva a ruota.
 
“Tu! Com’è… com’è possibile?”
 
Indietreggiando, si accostò al bordo e guardò giù.
 
 
 
Proprio in quel momento, sotto gli occhi di Mary e di un attonito Jim Moriarty, il corpo distrutto di Sherlock Holmes si tramutò in quello di John Watson.
 
 
 
 
Moriarty si voltò verso Sherlock, il vero Sherlock.
 
“Come fai ad essere qui?” sputacchiò, in preda allo sgomento e all’ira.
 
“Hai ucciso John” disse Mary.
 
“È quello che mi chiedo anche io” rispose Sherlock. Se stava soffrendo, non lo dava a vedere. Non davanti al suo nemico.
 
“Hai ucciso John” ripeté Mary.
 
Come puoi essere qui?”
 
“Pare che nell’ultima ora io abbia avuto le sembianze di John Watson, mentre lui aveva preso le mie. Non era poi così difficile sbagliarsi.”
 
La rabbia di Moriarty lasciò spazio all’incredulità. “Hai davvero permesso che il tuo amico morisse, dopotutto? Be’, questa non me l’aspettavo sul serio, devo ammetterlo.”
 
Io non ho permesso un accidente!” latrò Sherlock, scagliandosi in avanti. “Sono stato ingannato tanto quanto te, e ora tu…”
 
“Hai ucciso John.”
 
 
 
Accadde tutto molto velocemente: Mary spinse Moriarty oltre il bordo, cercando al contempo di strappargli di mano le bacchette; lui agitò le braccia per mantenere l’equilibrio, e per una frazione di secondo sembrò che potesse restare in piedi.
 
Quest’impressione non durò che un attimo.
 
Non riuscì a salvare la propria bacchetta, ma ne tenne comunque stretta una, quella che aveva preso a John. Cadendo la agitò, pronunciando un incantesimo per la vita, ma quella si trasformò immediatamente in un’inutile, piccola paperella di gomma gialla.
 
Mary distolse lo sguardo per non vederlo schiantarsi.
 
Aveva le guance rigate di lacrime, ma la sua voce era ferma quando ripeté le stesse parole di poco prima: “Ha ucciso John.”
 
“Mary, che hai fatto…” gemette Sherlock.
 
“Oh, non fingere che non meritasse di morire” ribatté lei aspramente. “Era un assassino.”
 
La ragazza levò lo sguardo verso il Marchio Nero, che si stagliava esattamente sopra i due cadaveri, e si coprì il volto con le mani.
 
 
 
Sherlock si lasciò sfuggire un singhiozzo. Sembrava soprattutto spaesato, come se non comprendesse bene gli ultimi eventi; mentalmente non aveva ancora accettato la morte del suo migliore amico, ma il suo corpo lo stava già tradendo.
 
“Bene, bene!” esclamò una terza voce.
 
Magnussen?”
 
Professor Magnussen” lo corresse il suddetto professore. “Bene, bene. Sono di ronda nei corridoi quando d’un tratto vedo il mio caro amico Holmes e la dolce figlia dei Morstan che corrono come dei disperati verso la Torre di Astronomia. Decido di seguirli, e cosa trovo? La signorina Morstan che uccide uno dei miei studenti! Da una figlia di Mangiamorte non mi aspettavo altro, ma da lei, signor Holmes! da lei non l’avrei creduto possibile. I giornali avranno di che parlare, non c’è che dire…”
 
“Non… John… io non…” balbettava Mary, molto più disperata di quanto non fosse prima. Sherlock vedeva chiaramente che il mondo le stava rapidamente crollando addosso: il suo fidanzato era morto, lei aveva ucciso un ragazzo, e ora avrebbe pagato per la vita per questo impulso.
 
“Quello che ho visto io” proseguì Magnussen. “È stata una ragazza che scagliava un povero studente giù da una torre con la complicità di un compagno di classe. Sono un testimone oculare, non c’è nulla da fare. Certo, potrei sempre mettere a tacere l’intera faccenda…”
 
Sherlock, che fino ad ora era rimasto come pietrificato, si mosse per mettere le mani sulle spalle di Mary, dando la schiena al suo vecchio, ripugnante nemico.
 
“Gliel’ho promesso, capisci?” bisbigliò. “Lui è morto per me, e mi ha chiesto di promettere.”
 
 
 
“Promettimi che, qualunque cosa accada, Mary sarà sempre al sicuro.”
 
 
 
“Non fare niente” lo pregò lei, che doveva avere in parte intuito ciò che lui stava per fare. “Non agire in modo avventato, io l’ho fatto e guarda adesso dove ci troviamo…”
 
“Ho promesso di proteggerti a qualunque costo” disse lui, risoluto.
 
 
Mary avrebbe voluto fermarlo, ma sapeva di non esserne in grado. C’era rabbia negli occhi di Sherlock, e dolore, un immenso, infinito dolore. La sua anima era appena andata in frantumi, e presto anche lui si sarebbe sbriciolato, e non sarebbe rimasta che polvere. Non gli importava più nulla del futuro, perché era cosciente di non averne uno.
 
John Watson era morto, e nulla l’avrebbe riportato indietro, e ormai contava solo una cosa: quella promessa che lui aveva giurato di mantenere. Avrebbe compiuto le ultime volontà del suo migliore amico e poi avrebbe accettato il destino, quale che fosse: potevano rinchiuderlo ad Azkaban, se volevano, lui non se ne sarebbe neanche accorto. John lo aveva fatto promettere, e John era morto.
 
Non era trascorso più di un secondo da quando Mary aveva parlato.
 
 
 
 
 
Curiosamente, il professore di Difesa Contro le Arti Oscure, Charles Augustus Magnussen, era scomparso quella notte, e non era più stato ritrovato.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
I came in like a Reeeeeichenba…” *si accorge degli sguardi carichi d’odio, dei coltelli e delle mannaie* woha, calm down, guys, era solo Miley Cyrus… lo so, quel video non… ohhh, i coltelli e le mannaie sono per il capitolo, giusto.
Ehm. Ma non è mica finito così! Manca l’epilogo. Cioè, lo so che non ci avete capito un accidente… “perché la parte scritta normale e quella in corsivo dicono cose diverse?” “Perché in una Moriarty muore prima e nell’altra muore dopo?” “Che fine ha fatto Magnussen?”
Comunque, vi assicuro che anche io sono molto delusa da una cosa. Ieri era l’anniversario (?) dei sei mesi di questa fanfiction, e avrei dovuto pubblicarlo ieri questo capitolo, e invece avevo l’influenza e guardare uno schermo luminoso per più di cinque secondi mi bruciava le palle degli occhi. Ma fingerò di aver pubblicato ieri, perché così potrò inserire l’epilogo sabato prossimo, come stabilito dalla mia agenda sul cellulare (non mi piace contraddire la mia agenda). E la settimana successiva, teoricamente (potrebbe sempre capitare un cataclisma o cose del genere) partirò con il seguito! Ho già un titolo più o meno definito, ma non sono ancora convinta al 100%, quindi magari ve lo dico la volta prossima xD
Con questo vi lascio…
No gente sul serio mettete via quei coltelli, mi state spaventando.

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Capitolo 24
*** Epilogo ***


 
 
                           EPILOGO
 
 
 
La sveglia trillò puntualmente alle otto e trenta.
 
La spense con una bacchettata e si costrinse ad aprire gli occhi.
 
Fece scivolare una gamba fuori dal letto, sperando che il resto del corpo la seguisse; constatato che ciò non sarebbe accaduto, buttò giù anche l’altra gamba e si girò su un fianco. Con uno sforzo immane riuscì a mettersi seduto e a stiracchiarsi.
 
Si guardò intorno con espressione vacua, raccogliendo le forze per tirarsi in piedi.
 
Per prima cosa, una volta alzatosi, aprì la finestra per arieggiare la stanza. Notò che il cielo si stava rannuvolando rapidamente e rabbrividì quando una corrente gelida lo investì in pieno petto.
 
Si affrettò a rifugiarsi in bagno e ad aprire l’acqua della doccia perché si scaldasse; nel frattempo, si svestì saltellando da un piede all’altro per combattere il freddo.
 
C’era qualcosa nella sua testa.
 
Non ricordava di aver sognato, quella notte. Tuttavia, percepiva chiaramente che qualcosa nella sua mente era cambiato.
 
Entrò sotto il getto d’acqua calda e si spremette lo shampoo sulle mani, continuando a riflettere.
 
Era una sensazione curiosa. Era come se il suo cervello fosse un gigantesco magazzino, e qualcuno avesse improvvisamente spostato uno degli oggetti archiviati: lui notava il mutamento, ma non capiva che cosa di preciso era cambiato.
 
Agguantò l’asciugamano appoggiato sul lavandino e si affrettò ad avvolgervisi e ad asciugarsi, tremante.
 
Passandosi distrattamente una mano sul mento, notò che la barba aveva bisogno di una rasatura. Per qualche minuto si concentrò sull’evitare di tagliarsi una guancia, ma poi ritornò alla strana cosa nella sua testa.
 
Tutto ciò a cui riusciva a pensare, ora, era Sherlock.
 
Sherlock.
 
Si stupì rendendosi conto che quel ricordo non lo straziava come al solito. Sherlock era morto da sei anni, e mai una volta era stato capace di pensare a lui senza sentire una morsa nello stomaco… tranne quel giorno.
 
Ma a pensarci bene…
 
 
 
 
“Sherlock, che diavolo…”
 
John?”
 
“John!”
 
Era indiscutibilmente John Watson quello che fissava Sherlock Holmes e Mary Morstan da dietro il corpo morto del professor Magnussen: capelli biondi, occhi azzurri, era proprio lui, ed era proprio vivo; solo un elemento era diverso dal solito: il suo abbigliamento; la camicia che indossava era troppo lunga, e lo stemma sulla giacca era dei colori sbagliati, quelli di Corvonero. Erano i vestiti di Sherlock.
 
Mary gli si gettò addosso, stritolandolo in un abbraccio.
 
Sherlock barcollò, cercando a tentoni qualcosa a cui reggersi. “Tu sei morto” boccheggiò.
 
“Come Moriarty e Magnussen, direi. Che diavolo è successo?” ribatté John.
 
Mary e Sherlock avevano macchiato di sangue le proprie mani, credendolo morto: ecco cos’era successo.
 
E lui era vivo.
 
“Credevo che ti avesse ucciso” disse Mary, tenendo gli occhi bassi. “E io l’ho… l’ho spinto giù. Ma… come hai fatto a sopravvivere? Moriarty aveva la tua bacchetta! Eri morto! Come…”
 
“E Magnussen?” chiese John, ignorando la sua domanda.
 
“Ci aveva pedinati” rispose Sherlock in breve. “John, dovrai spiegarci parecchie cose.”
 
John, stavolta, si passò una mano sul volto e disse: “Giusto. Ok, uhm, da dove posso cominciare?”
 
“Da quando hai deciso di sostituirti a lui?” suggerì Mary con ironia.
 
“Sì, uhm, giusto. Be’, quando mi hai detto che Moriarty probabilmente voleva ucciderti” disse John rivolgendosi a Sherlock, “ho capito che doveva avere un piano geniale, perché non avrebbe mai potuto sconfiggerti in un duello di magia, così ho pensato che… be’, che se aveva veramente un piano geniale tu non avessi molte chance di sopravvivere.” John fece una smorfia. “Inizialmente… non so neanche io a cosa pensavo, forse semplicemente di venire qui e, non so, provare a parlargli, ma poi sono andato a cercare Molly Hooper, e le ho raccontato che cosa stava succedendo –non nei dettagli, ovviamente-, perché sapevo che lei avrebbe voluto che tu sopravvivessi, e infatti mi ha aiutato ad elaborare un piano.”
 
John non poté fare a meno di notare il luccichio di soddisfazione negli occhi di Sherlock, quando gli disse di aver progettato uno schema: era fiero di lui, e questo lo rassicurò.
 
“Ricordi che stavo preparando la Pozione Polisucco a scuola? Be’, sono andato nell’aula di Pozioni e ne ho rubata, e poi quando ci siamo visti e ti ho Schiantato…” Arrossì nell’eliminare automaticamente cosa era successo nel mentre. “…te l’ho fatta bere, ti ho tagliato qualche capello e sono diventato te. Lo so, avrei potuto semplicemente farti svenire e rinchiuderti in quella stanza, ma sarebbe parso sospetto se tu… cioè, se io non mi fossi presentato… sapevo che tu probabilmente non ti saresti accorto di nulla, e così Moriarty ti avrebbe fatto catturare credendoti me. Intanto, però, Molly Hooper aveva il compito di avvertire Mary perché ti liberasse, nel caso che Moriarty decidesse che voleva uccidere anche te… o meglio, me.”
 
Da qualche parte alla sua destra, Mary annuì, ma lui era troppo concentrato su Sherlock per accorgersene. Il ragazzo era senza dubbio orgoglioso del suo ingegno, e per una volta ne aveva ben donde.
 
“Ero davvero convinto che sarei morto, sai?” proseguì. “Poi però Molly Hooper mi ha raggiunto e mi ha dato la bacchetta. Cioè, non una vera, una bacchetta giocattolo. Contando sul fatto che Moriarty mi avrebbe Disarmato a vista, avrei potuto tenere nascosta la bacchetta vera e usarla per difendermi se mi avesse attaccato.”
 
“È per questo che si è trasformata in una paperella di gomma quando ha cercato di usarla!” esclamò Mary.
 
John procedette col narrare la propria conversazione con Moriarty, mentre Sherlock e Mary ascoltavano in silenzio. Aveva già scavalcato il corpo di Magnussen, e ora si stava avvicinando sempre più a Sherlock, senza mai staccargli gli occhi di dosso mentre parlava.
 
“Credevo davvero che sarei morto” ripeté in conclusione. “Perciò ti ho fatto promettere…”
 
“È stata quella promessa a spingermi ad assassinare Magnussen, sì” completò Sherlock.
 
“Mi dispiace. Per quello che vale… non pensavo che sarebbe finita in questo modo. E anche tu, Mary… per Merlino, vi ho trasformati in degli assassini.” John si coprì il volto con le mani, mentre Mary gli circondava le spalle con un braccio.
 
“No, non dispiacerti” disse Sherlock con durezza. “Aveva intenzione di ricattare entrambi a vita, o forse spedirci ad Azkaban, e faceva lo stesso con decine di persone. È meglio per tutti che sia morto.”
 
“Vale lo stesso per Moriarty” concordò Mary.
 
 
 
 
Era vivo! Per sei anni gli aveva fatto credere di essere morto… ed era vivo!
 
Ma allora come mai solo adesso John ricordava tutto? Doveva concentrarsi… cos’altro era successo quella notte?
 
 
 
 
“Certo, resta il problema dei cadaveri” disse Mary in tono pratico.
 
I tre si girarono in sincrono verso il corpo di Magnussen.
 
“Domattina troveranno uno studente spiaccicato e un professore ucciso da una Maledizione Senza Perdono: non sarà difficile risalire a noi ed estorcerci la verità con la Legilmanzia o con il Veritaserum, e allora sì che saremo fregati …”
 
“Non è detto” ribatté Sherlock.
 
“Che intendi?”
 
Sherlock guardò esclusivamente John mentre rispondeva. “I Mangiamorte sono pronti a risorgere, e che metà di loro è ancora a piede libero. Anche senza Moriarty… non possiamo permetterlo. Ho trascorso gli ultimi due anni ad indagare, posso farlo ancora una volta. Devo farlo.”
 
“Non capisco” lo interruppe John, confuso.
 
“Inoltre dobbiamo trovare il modo di uscire indenni da un’eventuale accusa, e io ho un’idea.”
 
“E sarebbe…?” disse Mary.
 
Sherlock continuò a tenere gli occhi puntati su John. “Per prima cosa Trasfigureremo il corpo di Magnussen, in modo che sembri il mio. Dopodiché lo lanceremo giù dalla Torre, accanto a quello di Moriarty.”
 
“Ma allora…”
 
“Io estrarrò i vostri ricordi relativi a stanotte e li sostituirò con altri, modificati.”
 
“È una follia…” disse Mary, che tuttavia non sembrava del tutto convinta che lo fosse davvero.
 
“Non se ne parla neanche!” sbottò John, fissandolo irosamente.
 
“Quando vi interrogheranno, l’unico materiale che otterranno sarà la versione alternativa che io creerò.”
 
Mary cominciò ad annuire.
 
“Secondo la nuova versione, John viene rapito dai complici di Moriarty, Mary lo libera e insieme correte qui, dove non potete fare altro che constatare la morte mia e del mio nemico, così deducete che io sia riuscito a trascinarlo giù con me. Io ricorrerò alla protezione di mio fratello per i primi tempi, e poi mi muoverò alla ricerca dei Mangiamorte di Moriarty in totale libertà, dato che posso assumere qualsiasi aspetto io voglia.”
 
 
 
 
Gli incantesimi di Memoria non avevano effetto temporaneo, e soprattutto non era possibile che i ricordi estratti fossero ritornati da soli. Questo significava che… John trasalì, e nel farlo si soffocò con la sua stessa saliva e iniziò a tossire.
 
Doveva per forza essere così, doveva avergli restituito i ricordi. Dopo tutti quegli anni…
 
Doveva trovare Sherlock, più di ogni altra cosa, lui doveva…
 
Ma era vero? Era davvero sopravvissuto?
 
Svegliarsi una mattina con i ricordi modificati –o ristorati? - non era un peso facile da sopportare: significava dover rivedere parte della propria esistenza, rendersi conto di essere vissuti per anni nell’errore. Mentre lui credeva che Sherlock fosse morto, Sherlock se ne andava in giro tranquillamente per il Regno Unito.
 
Per sei anni John era stato costretto a sopportare una dolorosa, straziante menzogna.
 
Era vivo!
 
Ma certo che è vivo, idiota, pensò.
 
La cosa più buffa era che adesso il solo contrario pareva inconcepibile.
 
 
 
 
John stava scuotendo ripetutamente la testa. “Neanche per idea! Sherlock, tu non mi farai credere di averti visto morto!”
 
“Rifletti, John” disse Mary, fuori dal suo campo visivo. “Abbiamo due cadaveri che non possiamo spiegare se non con l’imputazione di almeno uno di noi, e un gruppo di Mangiamorte che si sta organizzando per combattere. Se lo raccontiamo a qualcun altro, verrà fuori che io e Sherlock siamo degli assassini…”
 
“…oltre al fatto che abbiamo violato il coprifuoco…”
 
“…e no, non ti stiamo incolpando per questo, John” proseguì Mary; “ma l’unico modo per sfuggire all’interrogatorio è modificare radicalmente i nostri ricordi, Sherlock ha ragione, e qualcuno dovrà pur farlo agli altri… senza poterlo fare su se stesso. Quindi, quella persona sarà comunque in pericolo.”
 
“E quella persona sarò io” aggiunse Sherlock.
 
“Ma questa storia fa acqua da tutte le parti!”
 
“Quando la notizia della morte di James Moriarty si diffonderà, tutti inizieranno a parlare, tu compreso. Verrà fuori che era pazzo e psicotico e megalomane, e poi tu sosterrai di essere stato catturato dai suoi sgherri…”
 
“Sherlock, nessuno usa più la parola sgherri” lo interruppe Mary.
 
Lui la ignorò. “…mentre io e lui ci incontravamo qui sulla torre. Mary affermerà che dopo averti liberato vi siete diretti qui, da dove avete visto il corpo mio e di Moriarty. Tutte le tessere combaceranno, e la storia finirà così.”
 
“Dimentichi Magnussen.”
 
“Il punto è che la sua scomparsa non porterà che sollievo, e a nessuno importerà nulla.”
John inspirò rumorosamente. “Perché non puoi restare qui? Puoi restare e trovare un altro stratagemma, per Merlino, non hai fatto altro negli ultimi due mesi!”
 
“Sai che non è possibile. Ma non devi preoccuparti per me, starò bene.”
 
Io non starò bene!” sputò fuori John.
 
“John, calmati” intervenne Mary.
 
“John, so che avevi delle aspettative” disse Sherlock con voce tranquilla. “Speravi che ci saremmo diplomati, e avremmo trovato un lavoro e saremmo stati per sempre felici e contenti, ma –indovina un po’? - e cose non vanno mai come te le aspetti. Non ti saresti mai aspettato di vedermi su quel campo da Quidditch, a novembre, eppure io ero lì. Pensi che non possa capitarti nulla, che la tua vita resterà sempre uguale e monotona, e poi tutto cambia! È per questo che noi non…” si bloccò e arrossì nel rendersi conto che lui e John si erano avvicinati sempre di più durante quella discussione e ora si trovavano a pochi centimetri l’uno dall’altro.
 
“Voi non…?” domandò Mary, confusa.
 
“Non ha importanza ora” borbottò Sherlock.
 
Ma eri sempre tu a far cambiare la mia vita, a far accadere l’impossibile!” protestò John in un sussurro. “Cosa farò se crederò che sei morto?”
 
Ma non sarà così! Tornerò, John, te lo prometto” bisbigliò Sherlock.
 
Ti prego” gracchiò John, la voce ridotta a un misero stridulo. “Non puoi farmi questo. Sei… sei il mio migliore amico.”
 
È per questo che devo proteggerti.”
 
No, non puoi. Mary, digli che non può” disse a voce più alta.
 
“Mi dispiace, John, ma è per il bene di tutti.”
 
Sherlock annuì, grato del sostegno.
 
Nonostante le continue proteste di John, Sherlock e Mary Trasfigurarono il corpo. Pur essendo entrambi versati nelle arti magiche, non fu un compito facile, e ci impiegarono diversi minuti; quando ebbero finito, John si era seduto a terra, sentendosi completamente inutile e trascurato.
 
“Sei sicuro di riuscire a praticare l’Incantesimo?” chiese poi Mary.
 
Sherlock annuì. “Per prima cosa estrarrai le tue memorie, in modo che io possa rendertele in un altro momento, dopodiché io ne inserirò di nuove. Pronta?”
 
“Pronta” disse lei. “Allora… addio, Sherlock Holmes. Mi dispiacerà credere che sei morto.”
 
“Non è un addio, è una cosa temporanea” la corresse lui.
 
“In ogni caso…” la ragazza gli regalò una piccola versione del suo sorriso sghembo prima di chiudere gli occhi e accostare la bacchetta alla tempia; la ritirò lentamente, lasciando che Sherlock afferrasse i suoi ricordi, simili a fili argentei.
 
John aveva smesso di osservarli, era troppo occupato ad impedire alle lacrime di sgorgare. Non era mai stato un tipo emotivo, ma quell’occasione poteva costituire un’eccezione. Aveva freddo ed era stanco, e stava assistendo alla completa rovina del suo mondo, e voleva solo andare in camera e dormire, e rimandare tutto al giorno dopo.
 
Sherlock addormentò Mary alla fine del processo e la adagiò delicatamente a terra, per poi rivolgersi verso di lui.
 
“E se io non collaborassi?” disse John. “Se mi rifiutassi di tirarmi fuori i ricordi?”
 
“Allora io verrei accusato di omicidio e spedito ad Azkaban. La scelta è tua.”
 
“Non puoi… non puoi chiedermi di…”
 
“John, ti ringrazio” disse Sherlock, cambiando argomento. “Quello che hai fatto è stato… insomma, è stato…”
 
“Lo farei ancora, se servisse a farti restare.” John si alzò in piedi e gli si avvicinò. “E tu hai ucciso un uomo per tener fede alla tua promessa, s’è per questo.”
 
“Uccidere qualcuno non è nemmeno lontanamente paragonabile al morire per qualcuno.”
 
“Però non sono morto! Se tu restassi… con me, noi…” Incapace di sostenere il suo sguardo, John abbassò gli occhi. Si sentiva svuotato.
 
“Non sarà per sempre, e allora tu ricorderai tutto” lo corresse Sherlock.
 
“Se mi restituirai la memoria. Quando hai intenzione di farlo?”
 
Sherlock sembrò spiazzato. “Non lo so. Quando lo riterrò opportuno.”
 
John alzò gli occhi al cielo con un sorriso sarcastico. “Certo” sbuffò. “Significa mai, vero? Non te ne importa niente.”
 
Nessuna delle tante accuse che aveva ricevuto lo turbò quanto quella: Sherlock fece un passo avanti e lo prese per le spalle, facendolo sobbalzare.
 
“Non è vero” disse, sottolineando con veemenza le parole. “A me importa di te, John. So che non sembra, ma a me importa. Lascia che sia io a salvarti per una volta, una volta sola.”
 
“Hai sempre voluto essere un eroe.”
 
Per un attimo restarono come congelati: immobili, incapaci di distogliere lo sguardo, ipnotizzati l’uno dall’altro.
 
 
 
 
Era vivo!
 
Insomma, lui era stato lì, lo aveva visto, era proprio vivo. Lui aveva preso le sue sembianze e poi l’aveva pregato di non abbandonarlo… e lui l’aveva fatto lo stesso.
 
Era stato davvero disposto a morire pur di salvarlo? Perché? Certo, ricordava di aver provato forti sentimenti per lui, all’epoca, ma poi lui era morto, e…
 
Rischiò di soffocarsi di nuovo.
 
…e non era morto.
 
Doveva trovarlo.
 
Oh, e poi lo avrebbe ucciso.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Dunque, be’, spero che abbiate tutti capito cosa è successo. Non voglio darvi degli stupidi, semplicemente spero di aver spiegato con sufficiente chiarezza… insomma: le parti in corsivo dell’ultimo capitolo erano la “nuova versione” che Sherlock impianta nella mente di John e Mary; Moriarty ha cercato di salvarsi con una bacchetta finta (compito piuttosto arduo); mi dispiace che il ruolo di Molly Hooper sia appena accennato, ma ovviamente se l’avessi tirato fuori prima avrei dovuto svelare anche altri particolari del progetto di John… e in fondo anche dalla serie tv sappiamo solo da una misera scenetta che lei ha collaborato alla resurrezione (???) di Sherlock.
Naturalmente, questo epilogo è il punto di partenza del seguito: dopo sei anni Sherlock ha reso i ricordi a John, eccetera.
Be’, che dire. Le recensioni finali sono assolutamente bene accette.
Oh-dei-del-Nord, non posso credere che sia finita. Cioè, non è veramente finita, perché adesso John deve trovare Sherlock, e ci sono un sacco di altre cose in sospeso, ma… Quidditch con delitto è finito. Oddei.
Adesso inizia la parte in cui ringrazio tutti, quindi se volete potete saltare direttamente al penultimo paragrafo, che è quello in cui dico cose importanti.
Intanto, devo assolutamente ringraziare la mia parabatai (che per noi fan di Shadowhunters sarebbe l’amico/a più vecchio e fidato) per avermi fatto guardare Sherlock in un periodo in cui credevo di odiarlo perché mi intasava la home di Tumblr; e poi grazie anche a wanna be a neko, che mi correggeva i capitoli e sopportava i miei fangirlamenti e mi dava un sacco di consigli e ha creato con me l’indimenticabile dialogo alternativo.
Ma soprattutto grazie a voi, che avete seguito e recensito questa storia, e l’avete persino aggiunta tra le preferite: grazie per aver commentato, e per avermi corretto, e per aver fangirlato con me, e grazie anche solo per avermi sostenuto leggendo ogni nuovo capitolo. È quasi assurdo pensare che dietro a quei numeri che vedevo dal mio account ci fossero delle persone vere che mi seguivano e (almeno spero) desideravano sapere come sarebbe andata a finire.
“And I wanna thank Ian Harding for not being a terrible kisser, because part of my job consists in making up with him!” –Cit. Lucy Hale
*PENULTIMO PARAGRAFO*
Come anticipato, pubblicherò il seguito la settimana prossima sotto il nome di Did you miss the Dark Lord?, quindi… stay tuned!
È giunta per me l’ora di lasciarvi. Dopo mesi che sto nascosta nella caverna del drago Smaug, ascoltandolo parlare con la suadente voce di Benedict Cumberbacht, è ora che io affronti il mio destino e vada a sconfiggerlo, facendo onore al mio nome, perché Sherlock non è l’unico “dragonslayer” nei dintorni.
-Smaugslayer

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Capitolo 25
*** Epilogo ***


 
 
                           EPILOGO
 
 
 
La sveglia trillò puntualmente alle otto e trenta.
 
La spense con una bacchettata e si costrinse ad aprire gli occhi.
 
Fece scivolare una gamba fuori dal letto, sperando che il resto del corpo la seguisse; constatato che ciò non sarebbe accaduto, buttò giù anche l’altra gamba e si girò su un fianco. Con uno sforzo immane riuscì a mettersi seduto e a stiracchiarsi.
 
Si guardò intorno con espressione vacua, raccogliendo le forze per tirarsi in piedi.
 
Per prima cosa, una volta alzatosi, aprì la finestra per arieggiare la stanza. Notò che il cielo si stava rannuvolando rapidamente e rabbrividì quando una corrente gelida lo investì in pieno petto.
 
Si affrettò a rifugiarsi in bagno e ad aprire l’acqua della doccia perché si scaldasse; nel frattempo, si svestì saltellando da un piede all’altro per combattere il freddo.
 
C’era qualcosa nella sua testa.
 
Non ricordava di aver sognato, quella notte. Tuttavia, percepiva chiaramente che qualcosa nella sua mente era cambiato.
 
Entrò sotto il getto d’acqua calda e si spremette lo shampoo sulle mani, continuando a riflettere.
 
Era una sensazione curiosa. Era come se il suo cervello fosse un gigantesco magazzino, e qualcuno avesse improvvisamente spostato uno degli oggetti archiviati: lui notava il mutamento, ma non capiva che cosa di preciso era cambiato.
 
Agguantò l’asciugamano appoggiato sul lavandino e si affrettò ad avvolgervisi e ad asciugarsi, tremante.
 
Passandosi distrattamente una mano sul mento, notò che la barba aveva bisogno di una rasatura. Per qualche minuto si concentrò sull’evitare di tagliarsi una guancia, ma poi ritornò alla strana cosa nella sua testa.
 
Tutto ciò a cui riusciva a pensare, ora, era Sherlock.
 
Sherlock.
 
Si stupì rendendosi conto che quel ricordo non lo straziava come al solito. Sherlock era morto da sei anni, e mai una volta era stato capace di pensare a lui senza sentire una morsa nello stomaco… tranne quel giorno.
 
Ma a pensarci bene…
 
 
 
 
“Sherlock, che diavolo…”
 
John?”
 
“John!”
 
Era indiscutibilmente John Watson quello che fissava Sherlock Holmes e Mary Morstan da dietro il corpo morto del professor Magnussen: capelli biondi, occhi azzurri, era proprio lui, ed era proprio vivo; solo un elemento era diverso dal solito: il suo abbigliamento; la camicia che indossava era troppo lunga, e lo stemma sulla giacca era dei colori sbagliati, quelli di Corvonero. Erano i vestiti di Sherlock.
 
Mary gli si gettò addosso, stritolandolo in un abbraccio.
 
Sherlock barcollò, cercando a tentoni qualcosa a cui reggersi. “Tu sei morto” boccheggiò.
 
“Come Moriarty e Magnussen, direi. Che diavolo è successo?” ribatté John.
 
Mary e Sherlock avevano macchiato di sangue le proprie mani, credendolo morto: ecco cos’era successo.
 
E lui era vivo.
 
“Credevo che ti avesse ucciso” disse Mary, tenendo gli occhi bassi. “E io l’ho… l’ho spinto giù. Ma… come hai fatto a sopravvivere? Moriarty aveva la tua bacchetta! Eri morto! Come…”
 
“E Magnussen?” chiese John, ignorando la sua domanda.
 
“Ci aveva pedinati” rispose Sherlock in breve. “John, dovrai spiegarci parecchie cose.”
 
John, stavolta, si passò una mano sul volto e disse: “Giusto. Ok, uhm, da dove posso cominciare?”
 
“Da quando hai deciso di sostituirti a lui?” suggerì Mary con ironia.
 
“Sì, uhm, giusto. Be’, quando mi hai detto che Moriarty probabilmente voleva ucciderti” disse John rivolgendosi a Sherlock, “ho capito che doveva avere un piano geniale, perché non avrebbe mai potuto sconfiggerti in un duello di magia, così ho pensato che… be’, che se aveva veramente un piano geniale tu non avessi molte chance di sopravvivere.” John fece una smorfia. “Inizialmente… non so neanche io a cosa pensavo, forse semplicemente di venire qui e, non so, provare a parlargli, ma poi sono andato a cercare Molly Hooper, e le ho raccontato che cosa stava succedendo –non nei dettagli, ovviamente-, perché sapevo che lei avrebbe voluto che tu sopravvivessi, e infatti mi ha aiutato ad elaborare un piano.”
 
John non poté fare a meno di notare il luccichio di soddisfazione negli occhi di Sherlock, quando gli disse di aver progettato uno schema: era fiero di lui, e questo lo rassicurò.
 
“Ricordi che stavo preparando la Pozione Polisucco a scuola? Be’, sono andato nell’aula di Pozioni e ne ho rubata, e poi quando ci siamo visti e ti ho Schiantato…” Arrossì nell’eliminare automaticamente cosa era successo nel mentre. “…te l’ho fatta bere, ti ho tagliato qualche capello e sono diventato te. Lo so, avrei potuto semplicemente farti svenire e rinchiuderti in quella stanza, ma sarebbe parso sospetto se tu… cioè, se io non mi fossi presentato… sapevo che tu probabilmente non ti saresti accorto di nulla, e così Moriarty ti avrebbe fatto catturare credendoti me. Intanto, però, Molly Hooper aveva il compito di avvertire Mary perché ti liberasse, nel caso che Moriarty decidesse che voleva uccidere anche te… o meglio, me.”
 
Da qualche parte alla sua destra, Mary annuì, ma lui era troppo concentrato su Sherlock per accorgersene. Il ragazzo era senza dubbio orgoglioso del suo ingegno, e per una volta ne aveva ben donde.
 
“Ero davvero convinto che sarei morto, sai?” proseguì. “Poi però Molly Hooper mi ha raggiunto e mi ha dato la bacchetta. Cioè, non una vera, una bacchetta giocattolo. Contando sul fatto che Moriarty mi avrebbe Disarmato a vista, avrei potuto tenere nascosta la bacchetta vera e usarla per difendermi se mi avesse attaccato.”
 
“È per questo che si è trasformata in una paperella di gomma quando ha cercato di usarla!” esclamò Mary.
 
John procedette col narrare la propria conversazione con Moriarty, mentre Sherlock e Mary ascoltavano in silenzio. Aveva già scavalcato il corpo di Magnussen, e ora si stava avvicinando sempre più a Sherlock, senza mai staccargli gli occhi di dosso mentre parlava.
 
“Credevo davvero che sarei morto” ripeté in conclusione. “Perciò ti ho fatto promettere…”
 
“È stata quella promessa a spingermi ad assassinare Magnussen, sì” completò Sherlock.
 
“Mi dispiace. Per quello che vale… non pensavo che sarebbe finita in questo modo. E anche tu, Mary… per Merlino, vi ho trasformati in degli assassini.” John si coprì il volto con le mani, mentre Mary gli circondava le spalle con un braccio.
 
“No, non dispiacerti” disse Sherlock con durezza. “Aveva intenzione di ricattare entrambi a vita, o forse spedirci ad Azkaban, e faceva lo stesso con decine di persone. È meglio per tutti che sia morto.”
 
“Vale lo stesso per Moriarty” concordò Mary.
 
 
 
 
Era vivo! Per sei anni gli aveva fatto credere di essere morto… ed era vivo!
 
Ma allora come mai solo adesso John ricordava tutto? Doveva concentrarsi… cos’altro era successo quella notte?
 
 
 
 
“Certo, resta il problema dei cadaveri” disse Mary in tono pratico.
 
I tre si girarono in sincrono verso il corpo di Magnussen.
 
“Domattina troveranno uno studente spiaccicato e un professore ucciso da una Maledizione Senza Perdono: non sarà difficile risalire a noi ed estorcerci la verità con la Legilmanzia o con il Veritaserum, e allora sì che saremo fregati …”
 
“Non è detto” ribatté Sherlock.
 
“Che intendi?”
 
Sherlock guardò esclusivamente John mentre rispondeva. “I Mangiamorte sono pronti a risorgere, e che metà di loro è ancora a piede libero. Anche senza Moriarty… non possiamo permetterlo. Ho trascorso gli ultimi due anni ad indagare, posso farlo ancora una volta. Devo farlo.”
 
“Non capisco” lo interruppe John, confuso.
 
“Inoltre dobbiamo trovare il modo di uscire indenni da un’eventuale accusa, e io ho un’idea.”
 
“E sarebbe…?” disse Mary.
 
Sherlock continuò a tenere gli occhi puntati su John. “Per prima cosa Trasfigureremo il corpo di Magnussen, in modo che sembri il mio. Dopodiché lo lanceremo giù dalla Torre, accanto a quello di Moriarty.”
 
“Ma allora…”
 
“Io estrarrò i vostri ricordi relativi a stanotte e li sostituirò con altri, modificati.”
 
“È una follia…” disse Mary, che tuttavia non sembrava del tutto convinta che lo fosse davvero.
 
“Non se ne parla neanche!” sbottò John, fissandolo irosamente.
 
“Quando vi interrogheranno, l’unico materiale che otterranno sarà la versione alternativa che io creerò.”
 
Mary cominciò ad annuire.
 
“Secondo la nuova versione, John viene rapito dai complici di Moriarty, Mary lo libera e insieme correte qui, dove non potete fare altro che constatare la morte mia e del mio nemico, così deducete che io sia riuscito a trascinarlo giù con me. Io ricorrerò alla protezione di mio fratello per i primi tempi, e poi mi muoverò alla ricerca dei Mangiamorte di Moriarty in totale libertà, dato che posso assumere qualsiasi aspetto io voglia.”
 
 
 
 
Gli incantesimi di Memoria non avevano effetto temporaneo, e soprattutto non era possibile che i ricordi estratti fossero ritornati da soli. Questo significava che… John trasalì, e nel farlo si soffocò con la sua stessa saliva e iniziò a tossire.
 
Doveva per forza essere così, doveva avergli restituito i ricordi. Dopo tutti quegli anni…
 
Doveva trovare Sherlock, più di ogni altra cosa, lui doveva…
 
Ma era vero? Era davvero sopravvissuto?
 
Svegliarsi una mattina con i ricordi modificati –o ristorati? - non era un peso facile da sopportare: significava dover rivedere parte della propria esistenza, rendersi conto di essere vissuti per anni nell’errore. Mentre lui credeva che Sherlock fosse morto, Sherlock se ne andava in giro tranquillamente per il Regno Unito.
 
Per sei anni John era stato costretto a sopportare una dolorosa, straziante menzogna.
 
Era vivo!
 
Ma certo che è vivo, idiota, pensò.
 
La cosa più buffa era che adesso il solo contrario pareva inconcepibile.
 
 
 
 
John stava scuotendo ripetutamente la testa. “Neanche per idea! Sherlock, tu non mi farai credere di averti visto morto!”
 
“Rifletti, John” disse Mary, fuori dal suo campo visivo. “Abbiamo due cadaveri che non possiamo spiegare se non con l’imputazione di almeno uno di noi, e un gruppo di Mangiamorte che si sta organizzando per combattere. Se lo raccontiamo a qualcun altro, verrà fuori che io e Sherlock siamo degli assassini…”
 
“…oltre al fatto che abbiamo violato il coprifuoco…”
 
“…e no, non ti stiamo incolpando per questo, John” proseguì Mary; “ma l’unico modo per sfuggire all’interrogatorio è modificare radicalmente i nostri ricordi, Sherlock ha ragione, e qualcuno dovrà pur farlo agli altri… senza poterlo fare su se stesso. Quindi, quella persona sarà comunque in pericolo.”
 
“E quella persona sarò io” aggiunse Sherlock.
 
“Ma questa storia fa acqua da tutte le parti!”
 
“Quando la notizia della morte di James Moriarty si diffonderà, tutti inizieranno a parlare, tu compreso. Verrà fuori che era pazzo e psicotico e megalomane, e poi tu sosterrai di essere stato catturato dai suoi sgherri…”
 
“Sherlock, nessuno usa più la parola sgherri” lo interruppe Mary.
 
Lui la ignorò. “…mentre io e lui ci incontravamo qui sulla torre. Mary affermerà che dopo averti liberato vi siete diretti qui, da dove avete visto il corpo mio e di Moriarty. Tutte le tessere combaceranno, e la storia finirà così.”
 
“Dimentichi Magnussen.”
 
“Il punto è che la sua scomparsa non porterà che sollievo, e a nessuno importerà nulla.”
John inspirò rumorosamente. “Perché non puoi restare qui? Puoi restare e trovare un altro stratagemma, per Merlino, non hai fatto altro negli ultimi due mesi!”
 
“Sai che non è possibile. Ma non devi preoccuparti per me, starò bene.”
 
Io non starò bene!” sputò fuori John.
 
“John, calmati” intervenne Mary.
 
“John, so che avevi delle aspettative” disse Sherlock con voce tranquilla. “Speravi che ci saremmo diplomati, e avremmo trovato un lavoro e saremmo stati per sempre felici e contenti, ma –indovina un po’? - e cose non vanno mai come te le aspetti. Non ti saresti mai aspettato di vedermi su quel campo da Quidditch, a novembre, eppure io ero lì. Pensi che non possa capitarti nulla, che la tua vita resterà sempre uguale e monotona, e poi tutto cambia! È per questo che noi non…” si bloccò e arrossì nel rendersi conto che lui e John si erano avvicinati sempre di più durante quella discussione e ora si trovavano a pochi centimetri l’uno dall’altro.
 
“Voi non…?” domandò Mary, confusa.
 
“Non ha importanza ora” borbottò Sherlock.
 
Ma eri sempre tu a far cambiare la mia vita, a far accadere l’impossibile!” protestò John in un sussurro. “Cosa farò se crederò che sei morto?”
 
Ma non sarà così! Tornerò, John, te lo prometto” bisbigliò Sherlock.
 
Ti prego” gracchiò John, la voce ridotta a un misero stridulo. “Non puoi farmi questo. Sei… sei il mio migliore amico.”
 
È per questo che devo proteggerti.”
 
No, non puoi. Mary, digli che non può” disse a voce più alta.
 
“Mi dispiace, John, ma è per il bene di tutti.”
 
Sherlock annuì, grato del sostegno.
 
Nonostante le continue proteste di John, Sherlock e Mary Trasfigurarono il corpo. Pur essendo entrambi versati nelle arti magiche, non fu un compito facile, e ci impiegarono diversi minuti; quando ebbero finito, John si era seduto a terra, sentendosi completamente inutile e trascurato.
 
“Sei sicuro di riuscire a praticare l’Incantesimo?” chiese poi Mary.
 
Sherlock annuì. “Per prima cosa estrarrai le tue memorie, in modo che io possa rendertele in un altro momento, dopodiché io ne inserirò di nuove. Pronta?”
 
“Pronta” disse lei. “Allora… addio, Sherlock Holmes. Mi dispiacerà credere che sei morto.”
 
“Non è un addio, è una cosa temporanea” la corresse lui.
 
“In ogni caso…” la ragazza gli regalò una piccola versione del suo sorriso sghembo prima di chiudere gli occhi e accostare la bacchetta alla tempia; la ritirò lentamente, lasciando che Sherlock afferrasse i suoi ricordi, simili a fili argentei.
 
John aveva smesso di osservarli, era troppo occupato ad impedire alle lacrime di sgorgare. Non era mai stato un tipo emotivo, ma quell’occasione poteva costituire un’eccezione. Aveva freddo ed era stanco, e stava assistendo alla completa rovina del suo mondo, e voleva solo andare in camera e dormire, e rimandare tutto al giorno dopo.
 
Sherlock addormentò Mary alla fine del processo e la adagiò delicatamente a terra, per poi rivolgersi verso di lui.
 
“E se io non collaborassi?” disse John. “Se mi rifiutassi di tirarmi fuori i ricordi?”
 
“Allora io verrei accusato di omicidio e spedito ad Azkaban. La scelta è tua.”
 
“Non puoi… non puoi chiedermi di…”
 
“John, ti ringrazio” disse Sherlock, cambiando argomento. “Quello che hai fatto è stato… insomma, è stato…”
 
“Lo farei ancora, se servisse a farti restare.” John si alzò in piedi e gli si avvicinò. “E tu hai ucciso un uomo per tener fede alla tua promessa, s’è per questo.”
 
“Uccidere qualcuno non è nemmeno lontanamente paragonabile al morire per qualcuno.”
 
“Però non sono morto! Se tu restassi… con me, noi…” Incapace di sostenere il suo sguardo, John abbassò gli occhi. Si sentiva svuotato.
 
“Non sarà per sempre, e allora tu ricorderai tutto” lo corresse Sherlock.
 
“Se mi restituirai la memoria. Quando hai intenzione di farlo?”
 
Sherlock sembrò spiazzato. “Non lo so. Quando lo riterrò opportuno.”
 
John alzò gli occhi al cielo con un sorriso sarcastico. “Certo” sbuffò. “Significa mai, vero? Non te ne importa niente.”
 
Nessuna delle tante accuse che aveva ricevuto lo turbò quanto quella: Sherlock fece un passo avanti e lo prese per le spalle, facendolo sobbalzare.
 
“Non è vero” disse, sottolineando con veemenza le parole. “A me importa di te, John. So che non sembra, ma a me importa. Lascia che sia io a salvarti per una volta, una volta sola.”
 
“Hai sempre voluto essere un eroe.”
 
Per un attimo restarono come congelati: immobili, incapaci di distogliere lo sguardo, ipnotizzati l’uno dall’altro.
 
 
 
 
Era vivo!
 
Insomma, lui era stato lì, lo aveva visto, era proprio vivo. Lui aveva preso le sue sembianze e poi l’aveva pregato di non abbandonarlo… e lui l’aveva fatto lo stesso.
 
Era stato davvero disposto a morire pur di salvarlo? Perché? Certo, ricordava di aver provato forti sentimenti per lui, all’epoca, ma poi lui era morto, e…
 
Rischiò di soffocarsi di nuovo.
 
…e non era morto.
 
Doveva trovarlo.
 
Oh, e poi lo avrebbe ucciso.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Smaug’s cave
Dunque, be’, spero che abbiate tutti capito cosa è successo. Non voglio darvi degli stupidi, semplicemente spero di aver spiegato con sufficiente chiarezza… insomma: le parti in corsivo dell’ultimo capitolo erano la “nuova versione” che Sherlock impianta nella mente di John e Mary; Moriarty ha cercato di salvarsi con una bacchetta finta (compito piuttosto arduo); mi dispiace che il ruolo di Molly Hooper sia appena accennato, ma ovviamente se l’avessi tirato fuori prima avrei dovuto svelare anche altri particolari del progetto di John… e in fondo anche dalla serie tv sappiamo solo da una misera scenetta che lei ha collaborato alla resurrezione (???) di Sherlock.
Naturalmente, questo epilogo è il punto di partenza del seguito: dopo sei anni Sherlock ha reso i ricordi a John, eccetera.
Be’, che dire. Le recensioni finali sono assolutamente bene accette.
Oh-dei-del-Nord, non posso credere che sia finita. Cioè, non è veramente finita, perché adesso John deve trovare Sherlock, e ci sono un sacco di altre cose in sospeso, ma… Quidditch con delitto è finito. Oddei.
Adesso inizia la parte in cui ringrazio tutti, quindi se volete potete saltare direttamente al penultimo paragrafo, che è quello in cui dico cose importanti.
Intanto, devo assolutamente ringraziare la mia parabatai (che per noi fan di Shadowhunters sarebbe l’amico/a più vecchio e fidato) per avermi fatto guardare Sherlock in un periodo in cui credevo di odiarlo perché mi intasava la home di Tumblr; e poi grazie anche a wanna be a neko, che mi correggeva i capitoli e sopportava i miei fangirlamenti e mi dava un sacco di consigli e ha creato con me l’indimenticabile dialogo alternativo.
Ma soprattutto grazie a voi, che avete seguito e recensito questa storia, e l’avete persino aggiunta tra le preferite: grazie per aver commentato, e per avermi corretto, e per aver fangirlato con me, e grazie anche solo per avermi sostenuto leggendo ogni nuovo capitolo. È quasi assurdo pensare che dietro a quei numeri che vedevo dal mio account ci fossero delle persone vere che mi seguivano e (almeno spero) desideravano sapere come sarebbe andata a finire.
“And I wanna thank Ian Harding for not being a terrible kisser, because part of my job consists in making up with him!” –Cit. Lucy Hale
*PENULTIMO PARAGRAFO*
Come anticipato, pubblicherò il seguito la settimana prossima sotto il nome di Did you miss the Dark Lord?, quindi… stay tuned!
È giunta per me l’ora di lasciarvi. Dopo mesi che sto nascosta nella caverna del drago Smaug, ascoltandolo parlare con la suadente voce di Benedict Cumberbacht, è ora che io affronti il mio destino e vada a sconfiggerlo, facendo onore al mio nome, perché Sherlock non è l’unico “dragonslayer” nei dintorni.
-Smaugslayer

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