Le Cronache di Gilgamesh

di Tears990
(/viewuser.php?uid=584352)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fame insaziabile - Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Le origini del mito - Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Vendetta - Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Tradimento - Capitolo IV ***



Capitolo 1
*** Fame insaziabile - Capitolo I ***


Capitolo I

Fame insaziabile

 
Non era mai stata una dea vendicativa, non aveva mai portato rancore a chi non la venerava o non le portava rispetto come le era dovuto, ma aveva sempre amato i suoi figli, coloro che ha creato con la luce della sua anima.
Urabrask aveva molte forme, sia umane che mostruose, ma quella che preferiva in assoluto era quella di Aria.
Da millenni si era infiltrata fra gli uomini scrutandoli sotto le sue mentite spoglie, le stesse con cui viveva ogni giorno, amava e provava sensazioni come ogni altra creatura. Le piaceva quella vita, a volte regale, di una principessa o regina, a volte umile e faticosa come quella di una schiava.
Ora viveva come la figlia di un taglialegna della citta di Urabrask, che prendeva il nome dalla sua forma divina.
Era una ragazza solare, molto bella e dalla carnagione chiara, labbra carnose ma non in maniera eccessiva e occhi d’oro che bruciavano come il sole. I suoi capelli erano una cascata di sangue che la cingeva scendendo fino ai suoi fianchi, abbracciando la sua forma magra ma prosperosa nei punti giusti.
Si era alzata di buon ora quella mattina e aveva preparato la sua borsa per il mercato, aveva messo il vestito che aveva cucito pochi giorni prima ed aveva infilato il pugnale nella sua fodera lungo la coscia.
Salutò con un breve cenno suo padre, immerso nel suo lavoro e si avviò verso il centro della città.
La sua casa si trovava fuori dalle mura, nel distretto più povero, quello degli scultori, dei muratori e dei manovali in genere. Uscendo di casa si fermò ad ammirare in lontananza le torri del castello reale, che fendevano il cielo con le loro altezze vertiginose, come dita di una mano che si allunga verso la dea.
- Se solo sapessero che sono qui, fra loro... – disse lei soffocando una piccola risata.
Si incamminò inerpicandosi fra le salite del distretto mentre le mura e le porte della città si facevano sempre più vicine, alte e maestose, monumento alla grandezza e la potenza dei sovrani che governavano su quei vecchi sassi.
Le porte erano adorne di sfarzosi ghirigori e scene delle antiche guerre che devastarono il mondo degli uomini mettendo a ferro e fuoco la terra che la dea aveva donato loro.
“Se fossi stata meno indulgente forse quella guerra si sarebbe potuta evitare…” pensò fra se e se Urabrask
“…ma forse gli esseri umani non avrebbero compreso i loro errori, le molte occasioni concesse loro e gettate nel baratro dell’ignoranza e della superbia, lo stesso in cui re e politici si ritrovano a fare i conti con le stragi commesse in nome del loro odio.”
Proseguì oltrepassando le porte e si diresse verso la piazza principale, che ospitava il mercato e le botteghe dei mercanti più abbienti.
Il posto era pieno di merci esotiche e di bestiame in vendita, dalle galline alle vacche, ogni sorta di merce poteva essere trovata li, persino quelle più rare o quelle proibite.
La gente si accalcava sui banconi delle aste per accaparrarsi il pezzo migliore al miglior prezzo. Ovviamente nulla che una dea come lei non avrebbe potuto creare per sua volontà, ma le piaceva vivere le piccole peripezie quotidiane che caratterizzano la vita di ogni uomo.
Per millenni li aveva osservati farsi del male per prevalere l’uno sull’altro ed ora facevano lo stesso per accaparrarsi un prodotto piuttosto che un altro. Sebbene si sentisse sollevata del fatto che ora non si scannassero più per distruggere ciò che aveva donato loro era sempre terribile vedere l’indole violenta che caratterizza gli uomini, sono senz’altro una razza forte e fiera, ma nella loro brutalità spesso surclassano gli dei più dispotici e crudeli.
Si avvicinò al banco della frutta di Kassim, un amico di vecchia data di suo padre che si guadagnava da vivere vendendo frutta e verdura in una modesta bancarella al mercato. Più che modesta era senz’altro povera, infatti Aria pensò spesso che si tenesse in piedi per miracolo, ma il vecchio Kassim era sempre lì, a sfidare le intemperie, gli uomini ed il tempo.
“Forse…” pensò lei guardandolo mentre gli si avvicinava “… credo sia proprio questo ciò che mi dà fiducia negli uomini, la loro voglia andare avanti, il loro istinto che li spinge a sopravvivere e combattere le avversità. Un dio elimina gli ostacoli o li aggira per pigrizia, ma sono gli uomini che li affrontano ogni giorno anche in nostra vece, dopotutto.”
Con questo pensiero un sorriso grande e luminoso le solcò il viso mentre salutava il suo vecchio amico.
- Buongiorno Kassim, come state oggi? -
- Un po’ più vecchio di ieri, mentre tu diventi ogni giorno più bella. – disse lui ricambiando il suo sorriso – Quel burbero di tuo padre deve essere fiero di te e sinceramente preferisco di gran lunga vedere te che il suo brutto muso –
- Suvvia, non è poi così burbero, è solo pieno di lavoro – replicò lei sorridendo – ad ogni modo, mi manda a prendere il solito e a dire che siete invitato a casa nostra questa sera, si festeggerà la mia ammissione al tempio delle sacerdotesse della Dea Urabrask e vogliamo che lei sia lì con noi. –
- Ah! Ti hanno ammessa allora! Beh da una brava ragazza come te non ci si poteva aspettare di meno, congratulazioni mia cara. –
Sebbene l’ammissione al tempio non fosse uno dei suoi interessi primari, arrossì leggermente sentendo quelle parole di stima, dopotutto era per quelle piccole emozioni che viveva sotto mentite spoglie.
Ad un tratto però sentì un brivido freddo e viscido, come una lama che le sfiorava la schiena ed una voce potente le sussurrò “Trovami…”.
In quell’istante il tempo si fermò di colpo, tutto era congelato come in un dipinto, ma Aria riusciva a muoversi liberamente.
Mentre si muoveva il suo corpo lasciava una sorta di scia, un’impronta in aria, come fosse un’immagine residua di se nello spazio, una percezione ampliata dell’universo.
Si guardò attorno e non vide nessuno fuggire a parte un ragazzino che aveva rubato una mela da un bancale, ma quello non era affar suo. Stava cercando qualcuno di potente, un mago o forse peggio.
“Forse l’avrò solo immaginato” pensò fra se Aria, poi con quella sensazione di viscido nelle ossa tornò al suo posto, ripercorrendo la scia da lei seguita e riprese la stessa identica posizione di prima.
Una volta fatto il tempo ripartì bruscamente come se non si fosse mai fermato e Kassim le disse - Se lo desideri Aria stasera verrò a casa vostra e se posso permettermi vorrei presentarti mio nipote, è da tanto che vorrebbe conoscerti –
-Certo Kassim, porti chiunque desidera, lo accoglieremo volentieri alla nostra tavola. -
Replicò lei sorridendo - ora devo andare, passerò più tardi a ritirare ciò che ho comperato, prima ho altri giri da fare -
Detto ciò fece dietro front e salutò il vecchio con un cenno della mano, il quale ricambiò, poi si diresse a passo svelto fuori dalla città, e si nascose dietro una roccia poco distante dalle prime baracche oltre le mura.
Controllò di essersi lasciata la folla alle spalle e che lì non ci fosse anima viva, poi i suoi abiti iniziarono a bruciare sulla sua pelle che invece rimase intonsa a contatto con quelle fiamme che si tramutarono in un abito divino, un corpetto rosso come il sangue ed un lungo velo di fuoco spaccato sulle cosce.
La sua materia si disgregò all’istante e schizzò in un fascio di luce verso il cielo con tanta potenza da far sparire le nuvole mentre saliva e superava l’atmosfera del pianeta.
Grazie a quella visione celeste del mondo scrutò il pianeta alla ricerca di ciò che l’aveva sfidata poco prima al mercato. Sebbene pensasse di averlo solo immaginato non le costava nulla controllare. Con gli occhi percorse attentamente ogni strada, ogni insenatura, scogliera o foresta, ma era tutto a posto, non c’era assolutamente nessuno che potesse essere un pericolo. Trasse un sospiro di sollievo e sorrise rincuorata dicendo a se stessa – si, devo averlo sognato, i miei amati figli sono al sicuro –
Poi una strana fitta allo stomaco, un dolore pungente, sentiva qualcosa di troppo che le attraversava il ventre ed un dolore che via via diventava sempre più consistente e reale, poi abbassò lo sguardo e vide una lama di pugnale che le spuntava dall’ombelico fra fiotti di sangue.
Dalla sua bocca tossì una nuvola rossa che macchiò le sue labbra e una mano le scostò i capelli da un orecchio.
- Voi squallidi dei pensate sempre in piccolo, vi affezionate ad un pianeta e lo popolate di schiavi che vi venerino e se venite minacciati vi rivolgete sempre ad esso per cercare il vostro assalitore, ma io penso in grande, dannazione! -
La sua voce era leggermente roca, ma suadente e forte, il suono delle sue parole sputava tanta potenza che era quasi assordante ascoltarlo anche per lei, sebbene stesse solo sussurrando pochi semplici vocaboli.
Urabrask sentì i suoi pettorali schiacciarsi sulla sua schiena mentre le cingeva il collo con la mano libera, percorrendolo lentamente da cima a fondo.
Ma lei non era certo da sottovalutare, era pur sempre una dea e lo dimostrò immediatamente. Schiantò una terrificante gomitata nello stomaco del suo assalitore e ruotando i fianchi spezzò la lama che la trafiggeva, lasciando in mano a quell’essere solo l’elsa del pugnale.
Si girò di scatto e lo colpì nuovamente all’altezza del plesso solare con tanta forza da produrre un boato assordante, allontanando il nemico di qualche metro.
Una volta tornata in piedi rimise a posto i suoi lunghi capelli rossi come il sangue mentre il metallo che aveva conficcato nel ventre fondeva e si univa alla sua carne rimarginando la ferita appena subita.
- Tu, bifolco, chi sei? Non ti conosco e non so perché vieni a minacciarmi, ma ora lo scoprirò che tu voglia parlarmene o meno -
Una risata colma di malignità risuonò grave nello spazio attorno a loro mentre dinanzi a lei si materializzava la forma del suo aggressore.
Era un uomo robusto, molto muscoloso e dalla carnagione ambrata ma i suoi capelli erano come una colata di argento fuso che cadevano lunghi fino ai suoi glutei. Era a torso nudo probabilmente per mostrare i pettorali ben sviluppati ed indossava dalla vita in giù una sorta di cencio malridotto dalle mille battaglie combattute.
- Io un bifolco? Non farmi ridere. – Disse lui guardandola con arroganza. – Io sono Gilgamesh, un uomo asceso all’olimpo degli dei per loro volontà, uccisore dei suoi stessi creatori. Da dove provengo mi chiamano deicida e deofago ma tu puoi chiamarmi come ti pare. -
- Non ho mai sentito di un deicida, qui non sei il benvenuto e ti consiglio di tornare da dove sei venuto se non vuoi provare cosa sia scontrarsi con un vero dio. – disse lei con voce fredda e glaciale.
-Non sono uno stupido e so bene che ogni altro essere esista non può uccidermi, quindi nemmeno tu dolcezza. –
Improvvisamente svanì e riapparì alle spalle della dea intento a leccarle il collo, poi passandole un dito sul ventre appena rigenerato aggiunse - vedi io sono letteralmente immortale perché esisto e non esisto in qualunque ed in nessun luogo in ogni istante del creato e non. In sostanza non puoi uccidere ciò che non esiste, ma io posso sventrare te non credi? –
Dinanzi ad un simile affronto Urabrask perse la sua calma glaciale e sul suo volto si disegnò un’espressione di profondo disappunto, come poteva esistere un essere simile? Da dove veniva una simile bestia? Baggianate, una cosa del genere non poteva esistere, davvero.
Ma non voleva più sprecare parole con lui e decise di passare ai fatti. Strinse con la mano il suo polso bruciandone la carne fino a carbonizzare le ossa che lo componevano. Una volta libera dalla sua morsa gli afferrò i capelli alla radice ribaltandolo dinanzi a lei ed il suo braccio destro mutò diventando enorme, muscoloso e resistente. Brillava di un rosso vivido, come se fosse un contenitore di lava incandescente, ma più duro dei diamanti. A quel punto lo colpì con tanta forza all’addome da trapassarlo da parte a parte, facendo poi esplodere il corpo del suo nemico in migliaia di piccolissimi pezzi, spargendo le sue frattaglie nello spazio profondo.
- Oh sì, efficace, un po’ grottesco e macabro forse, ma di grande effetto, te ne devo dare atto. –
Il braccio della dea tornò normale ma non poteva credere ai suoi occhi. Poteva ancora vedere i suoi resti fluttuare nello spazio eppure lui era lì, di fianco a lei a commentare la sua stessa morte.
- C-come è possibile? – chiese lei interdetta – Tu dovresti essere in pezzi… -
- Lo so, ma nessuno mi ascolta quando parlo. Io sono l’unico vero essere immortale che esista. Io sono eterno, infinito e mai iniziato. - disse lui con un sorrisetto sarcastico stampato sul volto mentre poggiava la testa sulla spalla della dea.
- Sei impossibile. - rispose lei secca scrollandoselo di dosso.
- Si sono decisamente impossibile e a volte persino irritante non credi? Eppure sono qui e mi vedi. –
Iniziò a camminare in maniera strana e si piazzò di fronte a lei con le mani dietro la testa, squadrandola da capo a piedi – però devo dire che hai buon gusto in quanto a corpi umani, le tue spoglie sono decisamente eccitanti. – Mentre pronunciava quelle parole la donna sentì una mano stringere il suo gluteo e si girò di scatto vedendo una altro Gilgamesh che la palpava assorto e che poi svanì in una nuvola di fumo.
Mai nessuno l’aveva trattata a quel modo e se mai qualcuno ci aveva provato era già morto, ma lui no.
- Dimmi ti va di giocare? - 
A quelle parole Gilgamesh si infilò le dita dentro al petto e con una brutalità inaudita si strappò via la cassa sua toracica, spargendo sangue e carne ovunque attorno a se: infilò una mano a fondo dentro al suo stesso cuore aprendolo in due mentre ancora batteva freneticamente ed estrasse dalle sue interiora una spada.
La sua lama brillava di una strana luce purpurea, il manico e la guardia erano finemente decorati e nel suo complesso sembrava un’arma decisamente fuori dal comune.
Mentre il suo torace si ricomponeva si mise in guardia e attese la sua antagonista.
Urabrask era furente, pensava di non essere mai stata tanto colma d’ira come in quel momento il suo bellissimo volto trasfigurò in una smorfia di rabbia e la sua saliva si tramutò in magma ribollente mentre si avventava sul suo avversario.
Gilgamesh l’attese in guardia finché lei non sferrò il primo colpo che parò prontamente con il piatto della spada. Le braccia della dea si trasformarono completamente e si munirono di tre enormi artigli affilatissimi che bramavano la carne di Gilgamesh come se non avessero mai desiderato afferrare altro nella loro esistenza.
- Dunque se pari i colpi vuol dire che sei mortale anche tu! – esclamò Urabrask in un impeto di furia mentre caricava un poderoso colpo diretto al petto di Gilgamesh.
Sentendo quelle parole lui si fermò e si fece colpire apposta, vedendosi cavare il cuore dal petto.
- Non paro i colpi perché sono mortale, anzi, ciò che cerco è proprio il brivido della battaglia, mettere la mia vita in gioco, spingere fuori il mio istinto per lottare assieme, perché solo assieme ad esso un uomo può sentirsi vivo. –
La dea estrasse lentamente la mano dal torace del suo avversario ed aspettò che finisse il suo discorso.
- Io non sono qui per nuocere ai tuoi amati figli, io sono qui per combattere con te, perché è questa oramai l’unica cosa che mi fa sentire vivo. Gli dei mi hanno concesso l’eternità per punirmi della mia arroganza ed io ho punito loro uccidendoli, perché donandomi la vita eterna mi hanno tolto ogni speranza di Vivere. Le persone a me care che muoiono, il mondo, la mia casa che cambia aspetto l’universo che invecchia ma io no, io sono sempre lo stesso e questo mi rende triste. –
Gilgamesh si inchinò profondamente davanti a lei e disse - Giuro che non farò nulla di male a chi ami, ma concedimi questa battaglia se puoi farlo, concedimi la mia vita, te ne prego. –
A quella triste richiesta la furia di Urabrask fu mitigata da un senso di compassione, lui era un essere umano proprio come quelli che lei ama tanto, ma degli dei suoi pari lo avevano strappato alla vita e lo avevano concesso al nulla. Non impiegò molto a capire che la sua iniziale arroganza fosse solo una pesante maschera per la sua immensa tristezza, per la sua incommensurabile solitudine. Si inchinò anche lei e rispose – Gilgamesh io mi impegno in questo momento ad offrirti uno scontro epico, una battaglia tanto grande da valere quanto la tua vita. –
Detto questo gli sorrise dolcemente e notò con piacere che anche lui ricambiava tale cortesia, poi si mise in guardia e mutò completamente il suo aspetto, assumendo la sua vera forma come Urabrask. Il suo corpo era rosso come il sangue, illuminato da un bagliore incandescente e più duro e liscio di qualsiasi altro materiale esistente, ma manteneva ancora sembianze umanoidi sebbene nel suo petto ci fosse un enorme squarcio che mostrava il suo interno. Quella voragine conteneva tutte le galassie esistenti ed emanava una luce ed un calore pari solo alla somma di tutte le stelle che racchiudeva, miliardi di astri, pianeti e soli che bruciavano e vivevano al suo interno nutrendosi di lei e prosperando.
Lei era l’incarnazione della vita dopotutto, quindi non poteva essere niente di meno, mentre Gilgamesh non aveva trasformazioni particolari da mostrare, era semplicemente un uomo tramutato in dio, nulla di più.
Si mise nuovamente in guardia ed il suo petto tornò di nuovo integro ma stavolta fu lui ad attaccare. Si lanciò contro la donna correndo verso di lei ad una velocità milioni di volte superiore a quella della luce e svanì ad un palmo dal suo naso, per riapparire al suo fianco dove la colpì duramente con un poderoso fendente laterale che la scaraventò dritta su un pianeta vicino. L’impatto fu talmente forte che il pianeta stesso implose sulla dea, ma lei sfruttò la forza dell’implosione per assorbirne la detonazione e scagliarsi contro il suo avversario sferrando una serie di affondi con i suoi artigli. Gilgamesh parò il primo con prontezza di spirito e deviò alcuni degli altri ma un paio di essi lo colpirono ai fianchi squarciandoli.
L’uomo approfittò della sicurezza dell’avversaria per i colpi appena inferti e le schiantò un colpo dritto sul collo che la squarciò fino al cuore. Lei emise un urlo agghiacciante colmo di dolore e con la sua lunghissima coda lo avvolse tra le sue spire, stritolandolo fino a frantumare tutte le ossa del dio.
Gilgamesh soffriva evidentemente ma non urlò di dolore e rigenerò le sue ossa liberandosi delle sue spire.
Strappò la coda della donna a mani nude a la usò come cappio per strozzarla dalle sue spalle mentre lei cercava di liberarsi sferrando delle gomitate impressionanti al suo addome.
Soffrendo delle gomitate Gil lasciò la presa su Urabrask e le trafisse il cervello dalla nuca alla fronte con la sua lama.
Lei si dimenava come una pazza per il dolore ed irrigidì i suoi muscoli colpendolo con un calcio al petto che strappò via la carne dal suo torace. Gilgamesh si sentì intontito e fluttuò lontano per il colpo, lasciando alla dea tempo sufficiente per lanciarlo in una supernova in esplosione.
Il suo corpo bruciò completamente nel calore della stella senza lasciare traccia delle sue spoglie, ma riapparve immediatamente alle spalle della dea che aveva già previsto una simile mossa e lo fermò sul colpo, stringendogli il collo fra le mani.
- Gilgamesh il tuo desiderio è stato esaudito e come uomo sei stato sconfitto, ma non come dio, so che non hai usato il tuo potere. –
Gil sorrise ascoltando quelle parole mentre si sentiva soffocare lentamente, sentiva l’aria nei suoi polmoni abbandonarlo come una fiammella che si spegne in assenza di ossigeno.
Ma non era finita lì, un secondo Gilgamesh comparve dietro la ragazza ed iniziò a scarnificare la sua schiena a mani nude, fino a raggiungere la sua colonna vertebrale, strappandola via e lasciando la dea a ripiegarsi su se stessa come un fuscello.
- Io non verrò mai sconfitto, Urabrask, ne oggi ne mai, perché il mio unico desiderio è il sangue… e lo avrò. - rispose sicuro di se mentre raccoglieva la colonna vertebrale della donna e la ingoiava intera.
- Sei tu la perdente ed ora perirai nella maniera che più sia addice ad un dio, ti divorerò pezzo per pezzo. –
Una smorfia di terrore si dipinse sul volto di Urabrask che riacquisiva la forma di Aria, tentando di intaccare l’animo del guerriero e smuoverne la pietà.
- Ti prego risparmiami! A-avrai da me tutto ciò che desideri, sarò t-tua schiava per sempr… -
Gilgamesh le chiuse le labbra con un dito, soffocando nella sua bocca quelle penose parole e replicò – Tu da viva non puoi darmi nulla che io non possiedo già, ma da morta potrai alimentare il mio potere assieme ad ogni altro dio che ho divorato. –
Detto ciò le addentò furiosamente il collo ed iniziò a sbranarla come fa un leone con la sua preda, iniziando così a mangiare lentamente tutto il suo corpo, un pezzetto alla volta, ogni organo, osso e lembo di pelle. Un grido soffocato, sottile come un sospiro, usciva dai polmoni dilaniati di Urabrask che soffriva il dolore più grande che avesse mai provato, un dolore che avrebbe continuato a provare nello stomaco di Gilgamesh per il resto dell’eternità insieme agli altri dei immortali che aveva mangiato.
Quando rimase solo la testa della dea Gilgamesh la prese fra le mani colme di sangue e con immensa dolcezza e le sussurrò – grazie mia cara, sei stata la portata migliore del mio pranzo fino ad ora. -
Avvicinò le labbra a quelle della donna e la baciò con grande passione, ma presto quel dolce gesto di affetto si tramutò nell’ennesimo morso e poi un altro ancora e ancora, finché della dea Urabrask e di Aria non rimase nulla.
 
Fine Capitolo I

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Le origini del mito - Capitolo II ***


Capitolo II

Le origini del Mito

 
Le possibilità che potesse sopravvivere erano poche, anzi quasi nulle. Non si poteva fare molto, il suo cuore non era stato colpito per un soffio, ma i suoi polmoni erano squarciati, dilaniati in maniera orribile.
Guardò il cielo ed era nuvoloso, grigio, poi abbassò lo sguardo sul campo di battaglia e lo vide, si batteva come una furia.
I suoi compagni stavano provando a fermarlo ma era tutto inutile, la città ormai era in fiamme, le donne, i vecchi e i bambini trucidati, la guardia sbaragliata e presto sarebbe stato così anche per l’esercito. Eppure dopo tutto ciò che aveva fatto quel mostro era bellissimo ai suoi occhi moribondi, il suo non era un combattimento, ma una bellissima danza, precisa e letale come il morso di un serpente.
Prima un fendente, poi una parata e una testa stava già volando, sembrava proprio quella del suo amico, ma ora non c’era più nessuno ad ostacolarlo e toccava a lui.
Lo vide dirigersi verso di lui, gli puntò la spada in mezzo agli occhi, vide l’affondo e poi buio.
Era rimasta solo una donna ormai, ma non aveva più le gambe.
Gilgamesh sfilò la lama dalla testa del soldato morto ai suoi piedi, con un fendente secco e preciso verso il terreno pulì la spada del sangue che la ricopriva schizzandolo sui cadaveri che lo circondavano.
Si voltò lentamente, si incamminò verso la donna che cercava di allontanarsi da lui strisciando a terra e quando la raggiunse conficcò la spada al suolo e la afferrò per i capelli, tirandola su bruscamente.
Emise un grido di dolore e cercò di far leva con le mani sul suo braccio per tirarsi su, senza successo, poi iniziò a piangere e disse singhiozzando – G-Gil, Gil ti prego s-smettila, s-sono tua m-madre, ti prego ti prego ti pre… -
Ci fu un sordo rumore di tendini che si spezzavano e di ossa che venivano frantumate, un grido soffocato e Gilgamesh aveva strappato via la testa di sua madre a mani nude, lasciando al posto delle sue suppliche una muta pozza di sangue.
Si voltò lentamente, poggiò il piede destro su uno dei cadaveri che lo circondavano ed alzò la testa della donna al cielo, come stendardo della sua vittoria.
Era un uomo alto, robusto e muscoloso, con lunghissimi capelli scuri che scendevano lungo la sua schiena. Indossava una divisa da generale logora e macchiata del sangue delle sue vittime, ma sebbene fosse circondato dai corpi dilaniati dal suo scempio era impassibile e fiero.
- Potenti dei, come da voi richiesto, la città-stato di Atlantide è distrutta, i suoi abitanti morti ed il suo sapere brucia fra le fiamme.
Mi prometteste che se lo avessi fatto, avreste riportato da me la donna che amo, colei che mi avete sottratto. Il mio dovere è compiuto, ora sta a voi onorare il vostro patto.”
Si aspettava una qualche risposta, un segno, ma nulla giunse al suo occhio.
Abbassò il braccio e gettò via la testa di sua madre, come fosse un lurido straccio.
Fece appena due passi, si fermò ed una lacrima rigò la sua guancia, si voltò di scatto e ruggì contro il cielo con la voce di chi è pronto a distruggere il mondo intero pur di avere ciò che vuole, colei che ama.
In quell’istante il cielo si aprì e da esso scaturì un gigantesco arpione, alto chilometri, che trafisse Gilgamesh inchiodandolo al suolo e soffocando le sue grida con il boato dello schianto, poi si sollevò lentamente tornando da dove era venuto e portando con se le spoglie dell’uomo.


“S-sono vivo?” pensò Gilgamesh “Chi sono? Mmmhh… la mia testa… è vuota… Dove sono? N-non c’è nulla qui…. Devo essere in qualche sorta di limbo… che stia dormendo? No, questo non è un sogno, tantomeno un incubo…” Provò ad alzarsi in piedi ma era come se il suo corpo non esistesse più o come se fosse atrofizzato, bloccato “deve essere la mia coscienza… Io sono Gi… Gil… no…”
Si guardò attorno ma era tutto buio, vedeva solamente nero attorno a lui, come se fosse bendato, come se solo la sua coscienza fosse in quel luogo astratto, ai confini della realtà e della percezione.
D’un tratto davanti a lui un lampo di verde baleno, che si ricompose in una fumosa immagine, un ricordo sbiadito, memorie passate, cose troppo dolorose da tenere stipate fra gli scaffali della propria mente. Vide un uomo bello, alto e forte, ma senza alcun volto “Sono io?” pensò dunque, ma non seppe dare una risposta alla sua domanda finché non vide corrergli incontro una donna, bellissima, alta e con la carnagione ambrata, proprio come quella dell’uomo di fronte a lei. I suoi occhi erano brillanti, del colore del ghiaccio e i suoi capelli corti, tinti di nero corvino. L’uomo protese le mani verso il viso di lei e si abbassò lentamente fino a baciarla “L-lylian”. Ebbe un flash, capì che quello era lui prima che… “prima di cosa?” si chiese.
La scena cambiò e stavolta insieme ai lampi che componevano i suoi ricordi riecheggiavano in quel limbo anche urla lontane, grida di terrore vecchie e nuove, suppliche di ogni genere, poi l’immagine di Ares che sventrava dinanzi a lui la sua donna “ma io ero impotente…. Figlio di troia…”, gridò nei suoi pensieri mentre vedeva la morte di Lylian ripetersi ancora ed ancora davanti ai suoi occhi… “non sarebbe dovuta finire così…” ripensò rassegnato.
Poi la strage di Atlantide e i delitti commessi in nome del suo amore, anzi i delitti commessi in nome degli dei che prima lo avevano privato della sua donna e che poi gli avevano giurato di ridargliela una volta fatto il loro volere, “ma non fu così… Lylian… perdonami… I-io non…”
Sentì come una lacrima scendere dalla sua guancia, la sua tristezza aveva raggiunto anche il suo corpo che chissà dove era finito, chissà in quale galassia o oceano era sprofondato il suo corpo mortale, lo stesso corpo che aveva commesso le atrocità più inaudite in nome di una guerra che non era la sua e non lo sarebbe mai stata.
Lentamente i boati cessarono e quelle immagini lasciarono il posto ad un pallido bagliore che si faceva sempre più vivo e presente, fino a diventare una luce accecante, ma anche nel calore di mille soli il grido della sua amata trucidata riecheggiava con la forza di un uragano nella sua mente e lo torturava per la sua promessa infranta, poi d’un tratto silenzio ed una voce che lo chiamava – Gilgamesh! –
 Aprì gli occhi di scatto, con la luce che bruciava come se avesse appena infilato la faccia in un braciere, poi senza pensarci troppo tese un braccio verso la voce che lo aveva chiamato e lo afferrò tirandolo a se.
Appena i suoi occhi si abituarono alla luce vide davanti a se un uomo alto e robusto, vestito con una toga di seta e ricamata d’oro.
- Calma, Gilgamesh, non c’è pericolo ora, sei con noi finalmente. –
- “Noi?” Noi chi? – ringhiò lui infastidito senza mollare la presa – Io dovrei essere morto, perché non lo sono? –
- Non sei morto perché io ti ho portato qui, sono Apollo, dio del so… -
Non fece in tempo a finire la frase che si ritrovò ribaltato a terra. Gilgamesh si alzò dall’altare su cui stava disteso e gli fu subito addosso. Gli diede un calcio alle costole e gli prese la testa chiudendola in una morsa con le braccia.
- Apollo? Il dio… quindi sono fra coloro che hanno distrutto la mia vita, giusto? –
- Noi non si… - Gilgamesh schiantò la testa del dio contro il pavimento prima che potesse dire altro – Non ti ho chiesto chi non siete, voglio solo sapere se ho indovinato. – replicò lui freddo.
Apollo fece cenno di no con la testa – Non lascerò la presa, ma ti lascerò parlare, così potrai spiegare cosa sta succedendo… -
- Ares, è stato lui a farti ciò di cui ci incrimini, risponde agli ordini di Zeus, Ade e Poseidone i nostri padri ed è lo stesso che ti ha ucciso dopo la strage di Atlantide. Noi ti abbiamo solo sottratto alla morte e salvato, noi non siamo d’accordo con loro, Gilgamesh. –
- Cosa vuol dire che non siete d’accordo? – Chiese Gilgamesh mentre il tono della sua voce si calmava – Spiegati meglio… -
- L’olimpo è diviso in due fazioni al momento, da una parte gli dei che hanno deciso di farti radere al suolo la tua città, dall’altra noi, coloro che si sono opposti allo sterminio. –
- Capisco, dunque tu e i tuoi amici non siete coinvolti nella mia vicenda… ma siete dei e siete egualmente colpevoli. – L’uomo fece per spezzare il collo di Apollo, ma per quanta forza esercitasse non si muoveva di un millimetro, era come una statua di granito. Apollo finalmente si mosse, prese per la gola il suo aguzzino e lo sollevò ad un palmo da terra.
- Non sfidarmi Gilgamesh! Sarò anche dalla tua parte ma ciò non vuol dire che non ti distruggerò se non mi obbedirai. – Rispose furente con la faccia trasfigurata dall’ira.
Lo ripose e terra e lo squadrò per bene, ma il cencio logoro che gli copriva le cosce era tutto ciò che aveva in quel momento dato che la sua armatura era distrutta. Gil d’altronde era impassibile, seppur di fronte alla minaccia di un dio: non temeva la morte, non più, non aveva più nulla da perdere ormai.
Sua madre, il suo popolo, la sua città… le aveva rase al suolo per il suo amore che gli era stato strappato dalle braccia.
- Voglio vendetta – disse lui tirando un lembo della toga del dio. – Voglio vendicarmi di Ares, di Zeus e di tutti gli altri dei, voglio vedervi capitolare tutti quanti, proprio come voi avete visto crollare la mia gente. –
Il suo sguardo era fermo, colmo d’ira come un dio non aveva mai visto negli occhi di un uomo ed una brama di sangue che trascendeva qualsiasi potere, sia terreno che divino.
Apollo sentì il sangue gelare nelle vene incrociando quello sguardo, sentì che la sua vita stava per concludersi, sentì il sordo richiamo della madre Morte, un richiamo estraneo a lui finora.
Deglutì, visibilmente preoccupato e spaventato, poi aggiunse – N-non temere, l’a-avrai. –
Si incamminarono lungo un colonnato immenso, ma il silenzio che li separava durante il tragitto lo rese quasi infinito. Su ogni colonna erano incisi bassorilievi che osannavano le gesta di un dio, uno sciame infinito di inutili, vecchi e putridi dei che infestano il mondo con la loro superbia e bramosia.
“Per quanto possano essere potenti, questi esseri non sono altro che una brutta copia degli uomini. Sono destinati a soffrire quassù per l’eternità e ci invidiano, non tanto perché siamo mortali e destinati a veder cessare le nostre sofferenze, ma perché viviamo vite così brevi e così intense che susciterebbero l’invidia di ogni altro essere.
Noi umani siamo passionali, superbi, traditori, violenti, eretici e lussuriosi, ma bruciamo così in fretta che la luce del nostro desiderio è grande come l’universo mentre quella di un dio non è altro che un fiammifero che non si spegnerà mai… patetici…”
Con questo pensiero in testa Gilgamesh seguì Apollo fino ad una stanza piccola e buia, al cui centro si stagliava una piccola conca con una lama verticale ad un’estremità.
Al suo interno c’era un liquido rosso, simile al sangue, ma brillante e denso.
- Devi infilzare la tua mano sulla lama ed unire il tuo sangue con l’ambrosia nella vasca. Solo così potrai vedere ciò che io vedo, L’Olimpo. –
Senza farselo ripetere poggiò la mano sinistra sulla punta e spinse a fondo la sua mano su di essa, facendo colare lentamente il suo sangue.
Una volta che il prezioso liquido si mischiò con l’ambrosia le pareti della stanza cominciarono a svanire, lasciando spazio ad un panorama spettacolare.
Campi di nuvole di ogni forma si univano fra loro creando palazzi e templi a perdita d’occhio, il cielo non era azzurro li, ma bianco come il latte ed infinito come il vuoto.
Non c’erano uccelli ne animali e tutto sembrava fermo, statico, come se non dovesse mai mutare dal suo stato attuale “proprio come queste vecchie mummie…” pensò lui.
Continuarono a camminare, inerpicandosi fra i vari templi, poi si fermarono davanti ad uno di essi, enorme, maestoso e terrificante allo stesso tempo. Sul timpano erano incise scene di orribili guerre, torture infinite ed atti di lussuria irrefrenabile, tutti perpetrati dallo stesso individuo. Lungo le colonne erano conficcate spade e arazzi rossi come il sangue, logori e strappati ovunque, testimoni di atrocità di ogni sorta e crimini inimmaginabili.
Apollo lo indicò e disse – Tu vuoi vendetta, dunque io te la offro. Lì dentro troverai Ares, il tuo nemico, colui che ti ha tolto ogni cosa e da lui potrai esigere la tua ricompensa. –
Senza dire una parola Gilgamesh entrò nel tempio, il suo passo lento e pesante scandiva i secondi, il suo respiro ritmava i suoi movimenti e la sua ira inondava il mondo.
Probabilmente Apollo fu l’unico testimone di ciò che accadde in seguito, ma durò decisamente poco. La Morte picchiettava con le dita sulla sua spalla e lui non se ne accorgeva ancora, ma il suo volto fu stravolto dal terrore quando vide il cielo impassibile dell’Olimpo squarciarsi sotto i suoi occhi e mostrare una massa di sangue ribollente al suo interno, come se l’ira di un semplice uomo potesse distruggere ciò che gli dei avevano dichiarato eterno. A quella visione il dio del Sole non resse il colpo e la sua mente si accartocciò su se stessa lasciandolo inerme, come un infante in preda al terrore a masticarsi le dita in un angolo del tempio.
- Ti stavo aspettando, schiavo. – tuonò una voce potente in fondo al tempio. Un’ombra nera come la pece si eresse dal suo trono, enorme, imponente e muscolosa come un toro.
Avanzò a grandi passi verso il mortale che aveva di fronte e quando fu alla giusta distanza sguainò la sua spada, una lama grande e resistente, capace di fendere le montagne con il suo filo. L’elsa era rossa come il fuoco, intarsiata d’oro e gioielli, mentre il suo fodero brillava ancora del sangue incrostato delle sue innumerevoli vittime.
- Tu uomo, come osi comparire al cospetto del Dio della guerra, Il tuo DIO? –
Ares scagliò la spada a terra con tanta forza da far esplodere il terreno in direzione di Gilgamesh, che riuscì ad evitarlo scartando di lato. Gil scattò verso il dio mentre estraeva la lama dal terreno e scartò nuovamente per evitare il suo nuovo colpo, assestandone uno ai suoi genitali, ma parve non sortire alcun effetto se non quello di sbilanciarlo.
- Questo è il modo di battersi dei codardi… - Disse lui cadendo, intanto l’altro si spostò dietro di lui per assestare il secondo colpo alla schiena, ma Ares fu più veloce e recuperò l’equilibrio puntando la spada a terra davanti a se, lanciando una tremenda spallata al suo nemico.
Gil accusò il colpo, ma non fu danneggiato quanto si aspettava, tanto che il dolore svanì in fretta.
“Strano…” pensò lui riprendendosi mentre sfilava una delle spade dalle colonne per rimettersi in guardia.
Probabilmente neanche lui sapeva perché lo stava facendo, ma il dio della guerra lasciò la sua arma a terra tuffandosi sul mortale a mani nude, tentando una presa che si rivelò un fallimento.
L’uomo approfittò di quella distrazione per conficcare la lama nell’occhio destro di Ares che urlò dal dolore vedendo le sue mani coperte di schizzi del suo stesso sangue. – N-non è possibile, questi non s-sono i movimenti di un umano, t-t-tu cosa s-sei? Sta lontano da me! VA VIA! –
Urlò terrorizzato, mentre Gilgamesh incedeva verso di lui lentamente, come la morte inesorabile che attende gli schiavi degli dei.
Arrivò di fronte a lui, mentre tremava e si pisciava addosso per il terrore e sfilò di colpo la spada dalla testa del nemico conficcandosela nel petto, ma non sentì nulla.
Gil sgranò gli occhi in preda al terrore di ciò che gli era accaduto, ma com’era possibile? Perché teneva testa al dio della guerra, perché era più forte di lui e perché non era morto?
Portò una mano sul suo volto e la lasciò cadere in preda alla gravità, lo sguardo vuoto, il suo volto inespressivo, come se la vita lo avesse lasciato. Ma lui era lì e respirava e in un batter d’occhio il vuoto nei suoi occhi si riempì di una nuova collera mista al disgusto di se stesso e di ciò a cui Apollo lo aveva condannato: lo aveva reso immortale.
Nella sua furia Gilgamesh prese a strappare la carne di Ares a mani nude, mangiando ciò che strappava mentre quell’insulso dio implorava pietà e gridava per il dolore.
Mentre Gil lo spolpava gridò furioso il nome di Apollo, finché il suo pasto non smise di urlare e di esso non rimase più nulla.
In quell’istante il suo corpo era sporco del sangue del dio, che colava sui suoi muscoli gonfi d’ira, i suoi capelli neri come la pece sbiancarono lentamente, tramutandosi in una cascata di capelli lucenti come l’argento, bianchi come la neve.
Lo squarcio nel cielo diventava sempre più grande man mano che si avvicinava alla sua nuova preda, ad ogni passo una nuova crepa sanguinava più della precedente ed il piccolo dio nell’angolo, intento a divorare le sue stesse mani iniziava a piangere conscio del tremendo crimine commesso verso i suoi padri e i suoi fratelli. Voleva solo dare una lezione ad Ares, ma la cosa gli era evidentemente sfuggita di mano al punto che avrebbe causato la sua stessa disfatta.
- Credevo che fosse Ares il porco codardo sai, ma a quanto pare avevo sbagliato fratello. Lui ha almeno avuto la decenza di combattermi prima di farsi divorare, ma tu… lurido cane bastardo, tu che mi hai tolto anche la possibilità di morire, tu che sei la causa della disfatta della tua specie come io lo sono della mia… Beh... spero che tu abbia un buon sapore almeno… -
Le sue urla ed il suo pianto raggiunsero lo spazio profondo, le dimensioni parallele, gli universi nascosti e le profondità più recondite dell’animo di ogni uomo e furono il giusto monito per ogni altro sporco e schifoso essere che si fregiava del nome di Dio.
 
Fine Capitolo II
 
“Il giorno in cui i cieli sanguineranno gli dei protervi vedranno la loro fine per mano del mietitore che fu Uomo e Dio, luce ed ombra, nulla ed ogni cosa.
Che l’ira di Gilgamesh, nostro condottiero, ci conduca nell’era in cui gli uomini non saranno schiavi dei divini e torneranno padroni della propria libertà finché giunga il giudizio finale.”
Primo canto del Giudizio 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Vendetta - Capitolo III ***


Capitolo III

Vendetta

 
Dopo due giorni di cammino Balthasar si trovava già molto a sud di Atlantide, nel deserto inoltrato e non accennava a smettere di allontanarsi da quei ruderi insanguinati.
Fra gli dei fu il primo a capire che il piano di Apollo sarebbe fallito, lo comprese quando vide come Gilgamesh aveva distrutto la sua stessa città, con quale foga mieté le anime dei suoi amici e compagni e la brutalità della sua forza.
Balthasar non attese di vedere la fine di quella mattanza e fuggì subito, inoltrandosi nel deserto più velocemente che poteva.
Dopotutto non era neppure un vero e proprio dio, lo adoravano come protettore degli spadaccini e propiziatore di battaglie, ma la verità è che era il galoppino di Ares, il più fedele, il più devoto, il più insulso degli dei, tanto stupido da amare il suo padrone al punto di tradirlo.
Lo avevano scelto proprio per questo, era una pedina sacrificabile e il dio della guerra avrebbe fatto benissimo a meno della sua pedante ed inopportuna presenza.
Così eccolo là, il povero Balthasar, intento ad allontanarsi più che poteva da Gilgamesh. Sapeva che avrebbe ucciso Apollo, ma sperava che almeno il suo padrone riuscisse a fermarlo, in ogni caso, lui sarebbe stato il prossimo.
La sua unica colpa era stata quella di procurare al suo padrone un degno avversario, qualcuno che lo smuovesse dalla noia del Monte Olimpo, qualcuno che gli ricordasse che era il grande dio della guerra.
Ma aveva fallito anche in quel compito, aveva trovato un pazzo, lo aveva fatto armare e lo aveva puntato contro il suo dio, una follia.
Quando arrivò alla vicina cittadina di Agarth mutò il suo volto in quello di un vecchio e si fiondò immediatamente nella locanda, incappucciato e celato in una spessa cappa scura che lo copriva fino alle caviglie.
- Una stanza. - disse di fretta con voce roca sbattendo un sacchetto di monete sul tavolo.
- Ne ho libere soltanto due – disse il locandiere – Datemene una e basta, non ho preferenze – rispose accigliato.
L’uomo gli diede la chiave e lui si dileguò immediatamente, rifugiandosi nel tugurio che gli aveva assegnato l’oste.
La stanza era piccola, stretta e buia, con alcune delle assi del soffitto marce e coperte di muffa e un persistente odore di carogna di gatto nell’aria, ma a Balthasar non importava, a lui bastava nascondersi nel più buio anfratto del mondo, lontano dallo sguardo di Gilgamesh e dal filo della sua lama.
- Dannazione, dannazione, dannazione dannazione dannazione! Che io sia dannato… - borbottò piangendo in un angolo meno putrido della stanza, strappandosi i capelli dalla testa per l’ira che provava verso se stesso.
- Ormai siamo tutti dannati… - disse piano, con la voce soffocata dai singhiozzi, mentre sentiva i suoi poteri abbandonarlo sempre più, come se fossero risucchiati da un pozzo senza fondo.
Le sue mani tremavano, sentiva un formicolio percorrergli gli arti e un brivido in fondo alla schiena più umano che divino.
Poi udì un urlo lontano, straziante, doloroso e folle, era Ares che veniva divorato e Balthasar pianse, pianse le lacrime più amare sentendo le urla del suo padrone, del suo dio sconfitto e divorato.
Ma alle sue urla si sovrapposero presto quelle di Apollo, altrettanto disperate e strazianti, ma sature di una follia indicibile, la stessa che aveva scatenato rendendo Gilgamesh così potente.
Per un momento quel servo, rannicchiato lì, nell’angolo smise di piangere, godendo del dolore di chi lo aveva indotto a tradire il suo signore ma riprese immediatamente quando vide il cielo aprirsi e grondare sangue.
Ovviamente i mortali non avvertivano tutto questo, ne sentivano urla di alcun genere, infatti serviva un udito “divino” per cogliere lamenti tanto lontani, ma era questa la vera tortura. Gilgamesh condannava i suoi aguzzini, punendoli e mostrando loro quale follia fosse insediata nella sua mente, di quali orrori fossero popolati i suoi incubi e di quanta sete e quanta fame provasse, una fame insaziabile.
Balthasar urlò e collassò a terra con gli occhi sbarrati, in preda alle più terribili convulsioni, al punto che il locandiere lo soccorse portandolo di sotto e adagiandolo su una panca robusta.
- Vecchio! VECCHIO! – Urlò l’uomo schiaffeggiandolo e Balthasar rinvenne lentamente, poi gli bagnò la fronte con una pezza fredda per far fluire il sangue alla testa più velocemente e gli offrì dell’acqua.
- G-grazie signore… – balbettò all’oste, poi bevve un sorso d’acqua e sospirò.
“Non devo temere, Gilgamesh non conosce il mio nuovo aspetto, non può trovarmi qui, ma devo partire appena possibile” pensò bevendo ancora, poi posò il bicchiere sul tavolo ed iniziò a farlo girare con le dita su se stesso un po’ alla volta, cercando di pensare a dove potesse andare a nascondersi.
Mentre era assorto nei pensieri più profondi che la sua mente potesse concepire la porta della locanda si aprì ed entrò un uomo alto, a torso nudo e coperto di sangue dalla bocca in giù. Era muscoloso, con la pelle d’ambra e i capelli d’argento, anch’essi macchiati di sangue e un ghigno mostruoso disegnato sul volto.
I suoi occhi rossi erano colmi di follia e crudeltà al punto che il locandiere guardandolo si nascose sotto al bancone della tavernetta.
L’uomo lo fissò, abbassandosi per portare il proprio viso vicino a quello del locandiere e chiese
- Ditemi, buon uomo, avete per caso ricevuto viandanti in questi giorni? Sto cercando un topo di fogna fuggito da Atlantide un paio di giorni fa… ne sapete qualcosa? –
La sua voce era potente e colma d’ira, sottolineata da una nota di follia che ricorreva nella pronuncia delle vocali.
Il locandiere fece cenno con la testa di non sapere nulla mentre si allontanava da lui.
Il forestiero tornò lentamente in piedi e si rivolse agli avventori della locanda questa volta
- Miei signori, si nasconde forse un ratto fra voi? Cerco Balthasar, un vile traditore, criminale e bugiardo. –
Sentendo pronunciare il proprio nome Balthasar si riscosse dai suoi pensieri e capì che ormai era giunta la sua ora, quello doveva essere Gilgamesh non c’erano dubbi. Era diverso da come si presentava due giorni prima ma era ovvio, adesso era un dio, lo stesso che aveva ucciso Ares e divorato Apollo, lo stesso che li stava scrutando uno ad uno con occhi accesi di sangue e fiamme.
Balthasar si voltò tremando come una foglia e puntò uno sconosciuto, il primo che gli capitò a tiro e rispose balbettando – L-lui, mio s-signore. È lui che state cercando…. –
L’uomo che veniva indicato iniziò a guaire come un cane per il terrore e si allontanò dal suo tavolo mentre cercava di discolparsi e accusare il vecchio di essere un bugiardo, ma Gilgamesh si avvicinò a lui e lo annusò.
- No, non sei tu, tu puzzi di mortale… ma tu… - disse rivolgendosi a Balthasar – …tu puzzi di ratto, sebbene sembri diverso da quello che cerco… - lo scrutò attentamente e sorrise, poi lo afferrò per il collo e sussurrò al suo orecchio – Speravi di sfuggirmi, Balthasar? Sai ho un certo fiuto per i topi di fogna come te… so bene che gli dei possono cambiare aspetto – si fermò un attimo e leccò il suo collo – ma il sapore, il sapore è la chiave… i mortali sanno di carne, gli dei invece… quelli sanno di porco, proprio come te. – concluse, afferrandogli la mano sinistra e strappandogli due dita con un morso.
Balthasar si alzò di scatto e si precipitò fuori della locanda, liberandosi della presa del suo nemico; cominciò a correre come se non avesse mai fatto nient’altro per tutta la sua vita, come se tutta la sua vita fosse quella stessa corsa. Gilgamesh uscì dalla locanda dietro di lui, ma camminava, osservandolo allontanarsi, poi fece un gesto con la mano, disegnando una sorta di lazo in aria e di colpo Balthasar si ritrovò con la faccia a terra, ai suoi pedi.
- Ohh si, ti piacciono i miei piedoni eh, ratto? Sono buoni? – disse strofinandoli sulla sua bocca, poi lo afferrò per il collo e lo guardò negli occhi mostrandogli i suoi, rossi e profondi come fiumi di sangue.
- Ora mio caro, faremo un gioco, io e te… – disse Gilgamesh ghignando – vedi io amo la caccia, è una cosa che mi ha sempre affascinato, quindi ho deciso di darti una possibilità. Tu sei solo un galoppino, me lo ha detto Apollo piangendo, mentre divoravo le sue budella. Tu hai solo eseguito gli ordini e nessuno ti biasima per questo, ma… sai… i traditori hanno un saporaccio… e non mi sono mai piaciuti e, a quanto diceva apollo mentre gli strappavo via gli intestini, tu hai tradito il tuo dio, Ares… –
Balthasar scoppiò nuovamente in lacrime mentre tentava di liberarsi dalla presa del suo aguzzino, ma era tutto inutile, le sue mani sembravano acciaio, inamovibili e stringevano sempre più forte ad ogni lamento che faceva, al punto che ad un tratto sentì quasi gli occhi schizzargli via dalle orbite. – Come ho già detto, non amo i traditori, bensì amo la caccia, quindi tu scapperai da me, e io ti darò la caccia. E visto che sono leale, ti prometto che non userò poteri divini per inseguirti, ma solo le mie gambe. Se riuscirai a fuggire sarai libero, ma se ti prendo… voglio sorprenderti. –
Gilgamesh afferrò l’aria con le dita e strappò lo spazio, così come si strappa un enorme foglio di carta, e si ritrovarono immediatamente in una fitta foresta di querce, poi gli lasciò il collo, gettandolo a terra come un rifiuto e accanto a lui lasciò cadere una spada, la stessa che brandiva Ares durante il combattimento in cui morì.
- La riconosci? Si, è proprio lei, la spada del tuo signore. Prendila, te la regalo, io non me ne faccio nulla, ma tu… ne avrai bisogno. Ora mi volterò e conterò fino a dieci, un piccolo vantaggio per fuggire. –
Balthasar era attonito mentre osservava Gilgamesh voltarsi contro il tronco dell’albero, come i bambini che giocano a nascondino. Poi iniziò a contare.
- Uno… -
Balthasar si alzò più veloce che poteva, raccogliendo la spada del suo signore, ancora una volta in lacrime.
- Due… tre… -
Si voltò e cominciò a correre a perdifiato, scivolando fra le foglie secche sparse al suolo.
- Quattro… cinque… -
Svoltò dietro un enorme masso e corse scendendo lungo il pendio.
- Sei… sette…-
Balthasar inciampò in una radice scoperta e rotolò giù, fermandosi in riva ad un fiume.
- Otto… nove… -
Si gettò in acqua correndo contro corrente per depistare il suo inseguitore, passando sulla riva opposta.
- Dieci… è ora di morire, Balthasar! – Disse serafico il dio sgranchendosi braccia e gambe.
- Sai, forse sbagliavo, non sei un ratto… - urlò camminando per la foresta, annusando l’aria, colma della paura della sua preda – credo che tu sia più simile ad una lepre… no, un coniglio! Ecco cosa sei, un codardo, vile e stupido coniglio. –
Gilgamesh salì su un albero, per ottenere una visuale migliore della zona, ma per lui era semplice, era abituato alla sopravvivenza in luoghi simili a quello, infatti veniva spesso mandato dal re di Atlantide in missione in luoghi lontani e pericolosi, popolati da uomini barbari che ancora non conoscevano l’acciaio e la tecnologia di cui disponeva la sua Nazione.
Scrutò a fondo il paesaggio circostante e vide le tracce lasciate dal passaggio di Balthasar, le foglie calpestate, la radice e le tracce della sua rovinosa caduta ed infine il fiume a sud.
Scese dall’albero e cominciò a correre nella foresta seguendo la pista della sua preda, proprio come fa il lupo con il coniglio. Era rapido e preciso, tutt’altra cosa rispetto al povero dio decaduto, la sua forma agile e possente scattava da un albero all’altro con passi leggeri e rapidi, come i migliori sicari e ladri.
Alla roccia svoltò con decisione e scese la parte ripida del pendio scivolando sulle cosce, poi prima della fine del percorso estrasse un coltello munito di corda dalla fondina sul fianco e lo lanciò conficcandolo profondamente nel tronco di una quercia, poi facendo leva sulla corda frenò la caduta e saltò dal ciglio della sporgenza di fronte a lui, atterrando con una capriola sulla riva del fiume.
- Sai Coniglio, pensavo che saresti affogato nel fiume… fortunatamente, avevo torto. – Gridò una volta in piedi, mentre osservava il fiume.
Da qui in poi non c’erano più tracce da seguire, l’acqua era un’ottima risorsa per una preda in fuga.
Guardò il fiume e notò che le acque diventavano sempre più rapide seguendo la corrente; se la sua preda fosse andata da quella parte sarebbe incappata in una cascata o in acque profonde, una caduta che lo avrebbe bloccato ora che non aveva più tutti i suoi poteri divini, mentre controcorrente avrebbe avuto più chance di depistare Gilgamesh.
Scelse di andare controcorrente e infatti, trovò qualche metro più avanti le orme di Balthasar uscito dal fiume.
- Aaaaahahah! Quando ti avrò trovato, ti infilerò un bello spiedo su per il culo… e ti divorerò! – Urlò Gilgamesh ghignando, poi vide dei sassi cadere da una parete rocciosa vicina e alzò lo sguardo. In cima vide la sua preda che lo guardava, ma appena incrociò lo sguardo del suo cacciatore, riprese a scappare.
- Ahahaaaaaa! Eccoti qui! – Disse estraendo la spada.
Scelse un albero abbastanza vicino alla sporgenza e conficcandovi la spada prese a scalarlo con una velocità inaudita, facendo leva su di essa, poi quando arrivò in cima spiccò un salto verso la sporgenza con la spada sguainata fra le mani. Conficcò la lama nella roccia viva e fece nuovamente leva per salire sulla sporgenza, infine estrasse nuovamente la sua arma con tanta forza da spaccare la pietra.
- Eccomi Balthasar, sto arrivando… - sussurrò sottovoce a se stesso, mentre cominciava a correre verso il suo pranzo.
Balthasar aveva a malapena cinquanta o sessanta metri di vantaggio e non era un gran corridore, mentre Gilgamesh era una belva affamata, capace di sforzi disumani pur di raggiungere il proprio scopo. Si muoveva fra gli alberi come se non avesse fatto altro per tutta la propria vita, come un lupo a caccia. In pochi secondi era già alle calcagna del suo nemico che piangeva e chiedeva pietà al suo inseguitore che però non sentiva più nulla, ormai era spinto solo dalla sua sete di sangue.
Quando finalmente fu alla sua portata Gilgamesh lanciò la propria spada, conficcandola nella coscia del suo pasto, facendolo cadere rovinosamente al suolo.
Quando lo raggiunse non disse nulla, si limitò a prenderlo per la mascella e guardarlo negli occhi.
Balthasar per il terrore si pisciò addosso mentre il dio di fronte a lui lo sollevava in aria.
- Phieethà…. Thi phreg-ho ph-iethà… - disse con voce soffocata.
- Pietà dici? Mh… non credo di conoscere questa parola, non ne ho mai sentito parlare. – Ghignò l’altro, afferrando con forza la gamba trafitta e strappandola via con la forza, riprendendosi la spada.
Lo gettò su un masso, estrasse dal fodero la vecchia spada di Ares, che aveva donato alla sua preda, e la riconficcò nel suo torace fino all’elsa, inchiodandolo alla roccia dietro di lui. Balthasar emise un flebile lamento, poi un urlo più forte e pianse ancora quando la spada passò attraverso il suo cuore per poi conficcarsi nella solida roccia alle sue spalle.
Gilgamesh si avvicinò ad un albero vicino e lo colpì con un pugno talmente forte che il tronco esplose in mille grandi schegge acuminate e ne raccolse una, la più grande e robusta, lunga un paio di metri e spessa una decina di centimetri.
- Sai, gli dei sono fortunati a non morire quando gli si taglia la testa o gli si infilza il cuore… - disse rivolgendosi al suo pranzo – Se non fosse stato così non avresti potuto godere dell’immenso dolore che sto per infliggerti. –
Detto ciò lo afferrò nuovamente per il collo ed iniziò a tirare, strappandolo dalla roccia alla quale era affisso. Gli si aprì un grosso buco nel petto, e il suo cuore, ancora pulsante, rimase infilzato sulla roccia assieme alla lama di Ares.
Così il lupo trafisse quel povero coniglio con lo spiedo, proprio come aveva promesso di fare, lo sbudellò, accese un fuoco e lo arrostì vivo, ma non morì e anche dopo essere stato cotto continuò a piangere e urlare, persino mentre veniva divorato non smise ed una volta finito il suo pasto Gilgamesh fece un gran rutto, si alzò in piedi, prese a passeggiare per il bosco e non tornò mai più in quel luogo.
Una volta che anche l’ultimo pezzo di Balthasar fu divorato, però, anche il suo cuore smise di battere e nel giro di qualche settimana marcì.
La spada restò conficcata nella roccia per millenni, mostrando il nome che il suo vecchio padrone le incise, attendendo paziente di passare ad un nuovo proprietario.
La lama di Ares, forgiata da Efesto, restò sempre affilata, ed il suo nome divenne leggenda, dapprima per mano di un dio ed in seguito per le gloriose imprese di un re chiamato Artù, il nuovo padrone di Excalibur.
 
Fine Capitolo III

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Tradimento - Capitolo IV ***


Capitolo IV

Tradimento
 
Il tradimento è uno dei peccati più gravi, una delle più oltraggiose onte di cui una persona possa macchiarsi, il sentimento che più duramente grava sull’animo umano.
Per chi viene tradito è un sentimento semplice, ci si sente privati di qualcosa su cui si faceva affidamento, ci si sente privati dell’orgoglio e gettati fra le folte schiere di tutti coloro che furono trattati alla stessa maniera, ma per il traditore è certamente molto più complesso: ci si chiede se sia giusto farlo, se si possa indulgere in quell’atto, quali siano le conseguenze, ma il corpo si muove, come animato di volontà propria, libero da giudizi e angosce.
La carne è solita seguire solo ciò che le è necessario, ma l’anima è più profonda, più corruttibile, più forte e una volta che il desiderio di altra carne infetta l’animo umano esso non ha scampo.
Così quell’anima turbata da mille pensieri e tormenti prese parte al massacro di carne che stava avvenendo su quel letto.
I loro corpi erano avvinghiati l’uno all’altro come l’edera che si innesta a forza su un muro, le loro mani erano artigli che bramavano le membra di Gilgamesh e lui era impotente di fronte ad un nemico di simile portata.
E mentre Afrodite, Atena ed Artemide abusavano della loro preda, anch’essa faceva lo stesso con loro, protendendo le sue fauci sui loro seni e le sue grinfie sulle loro forme.
Le prendeva con la foga di chi ha atteso troppo tempo per concedersi un simile piacere e loro ricambiavano dandosi in pasto al loro cacciatore, sfamando ogni suo desiderio ed ogni sua perversione, persino la più assurda.
Sebbene il suo corpo e la sua mente non potessero farne a meno, la sua anima si torturava nel suo petto, sentiva le sue budella ritorcersi su se stesse e il suo cuore piangere le lacrime più amare: stava tradendo la sua donna con tre puttane… la sua donna, si, non ne ricordava più nemmeno il nome.
Dopo seicento anni trascorsi a dare la caccia agli scagnozzi degli dei era giunto il momento di puntare in alto e tornare sul Monte Olimpo. Ma ormai era vago il ricordo di ciò che lo aveva spinto a tradire il suo popolo, non rammentava più la donna che aveva amato se non come un’ombra senza volto e il suo nome era ormai perduto nei secoli.
Così quelle arpie armate dei loro seni sodi lo avevano sconfitto, erano riuscite a corrompere colui che aveva decimato gli dei, avevano soddisfatto la sua fame insaziabile. Ad un tratto entrò nella stanza un uomo alto e vigoroso, possente e con capelli neri corvini simili a nuvole tempestose.
Gilgamesh non lo riconobbe, era intontito, come sotto l’effetto di qualche droga, e si lasciò cadere sulla schiena, con la testa appesa fuori dal letto mentre sentiva una lingua percorrerlo nel basso ventre.
- Tu devi essere Gilgamesh – disse l’uomo con un tono troppo allegro per trovarsi di fronte al suo acerrimo nemico – Io sono Zeus, se non lo avessi capito. –
“Z-zeus?” pensò Gilgamesh, mentre iniziava a rendersi conto di non ricordare come fosse arrivato su quel letto, ma il suo dubbio fu subito scacciato da qualcuno che gli faceva un succhiotto sul petto.
- Ti vedo perplesso amico mio, sei forse insoddisfatto dalle mie figlie? –
“Amico? Io non sono… t- tu…” pensò, ma sentiva come se la sua rabbia, il suo odio nei loro confronti ed i ricordi di ciò che lo spingeva a combattere venissero succhiati via, proprio come stava accadendo poco più in basso in quel momento, sebbene quella fosse una sensazione decisamente più piacevole.
Sul volto di Gilgamesh si disegnò una smorfia di piacere e Zeus sorrise dicendo – Beh, a quanto pare era solo una mia impressione. – Zeus girava nella stanza, camminando piano e osservandolo con attenzione, ma lui non poteva ricambiare quegli sguardi attenti con una mente tanto offuscata. Sentì il suo osservatore dire qualche altra parola, ma non capì nulla a parte che dovevano vedersi per parlare.
Zeus così uscì dalla stanza con la stessa calma con la quale era entrato, chiudendo le porte dietro di se e fu buio.
Quando Gilgamesh si risvegliò sentiva la sua testa scoppiare, come se avesse bevuto tutto il vino di Dioniso, barcollava un po’, ma in pochi minuti si fece presente a se stesso e si diresse celere verso la sala del trono ove risiedeva il potente Zeus.
Quando fu lì si guardò attorno e comprese che lo sfarzo che aveva visto finora era ben poca cosa in confronto a ciò che aveva di fronte a se. Le pareti erano fatte d’oro, tempestate di diamanti incastonati in ogni singola giunzione dei vari mattoni, i vetri delle ampie finestre erano fatte anch’esse di diamanti e non c’era un singolo oggetto fatto di un metallo o pietra non prezioso. Prima di incedere verso il trono dove sedeva Zeus la sua attenzione fu attratta da un’immagine riflessa in un grosso braciere d’oro: vide se stesso urlante, che graffiava la superfice con le unghie, come se tentasse di liberarsi da qualcosa o uscire da una sorta di prigionia.
- Ancora ubriaco? – tuonò il re degli dei, distogliendolo dalla sua visione. Si voltò a guardarlo qualche secondo e prima di rispondere diede un’altra occhiata al braciere, ma non vide nulla oltre il suo semplice riflesso.
Si strofinò gli occhi e si voltò nuovamente verso il suo interlocutore – Nulla… nulla, mio signore, mi era parso di vedere qualcosa… ma devo essere ancora offuscato dal vino. –
- Avanti, vieni Gilgamesh, oggi è un grande giorno per te, prenderai il posto di Ares come dio della guerra. –
- È un grande… onore, mio signore, ma permettetemi di chiedervi… come sono arrivato qui? –
Zeus sgranò gli occhi per un attimo ed una grossa goccia di sudore scese lentamente lungo la sua fronte, colma di terrore e angoscia al punto che per lui fu uno strazio anche solo sentirla scendere lungo il viso, poi si alzò e si avvicinò a Gilgamesh con passo celere.
- Aaah, dannato tu e tutta la tua stirpe – rispose con un sorriso stirato sul volto – devi essere ancora sotto shock per la battaglia, non la rammenti forse? – Gilgamesh sentì la sua testa girare leggermente mentre cercava di ricordare, si sentiva come se fosse sotto l’effetto di qualcosa, sentiva di aver perso qualcosa di se, ma non riusciva a capire di cosa si trattasse dal momento che i suoi arti erano saldamente attaccati al suo corpo. Passò una mano sulla testa e si riprese lentamente poi rispose con fare incerto - Lo scontro c-con Ares, si certo lo rammento… noi abbiamo… combattuto e io l’ho sconfitto… assieme ad Apollo e le sue… schiere… di schiavi… e voi li avete… imprigionati? Mio signore… -
- Esatto, mio prode figlio, hai combattuto la tua lunga battaglia per difendere l’Olimpo dalle assurde macchinazioni dei tuoi fratelli. – rispose Zeus sorridendo.
- Si, si certo, Padre… - Rispose e sentì qualcosa graffiarlo in fondo allo stomaco, come se una bestia furente tentasse di uscire alla luce del sole scavando al suo interno, poi ad un tratto quella sensazione cessò e disse – S-scusatemi, padre, sto poco… bene, non dovrei parlarvi in questo stato, io… - Zeus lo interruppe, cingendogli le spalle con le mani e guardandolo negli occhi.
- Figlio, di tutte le cose dell’Olimpo, oggi, sei tu la più importante, non hai salvato solo me, ma anche i tuoi fratelli e sorelle, per non parlare degli uomini. Certo, non sei riuscito a salvare Atlantide dalle grinfie di Ares, ma gli uomini sono forti e sapranno riprendersi con il nostro favore. Tu non hai colpe. –
Sul volto di Gilgamesh scese una lacrima pensando alla città di Atlantide, sebbene non l’avesse mai visitata per quanto ricordasse, gli pareva di conoscere tutti i suoi abitanti, di sentirsi in colpa nei loro confronti.
Zeus gli asciugò la guancia con un dito, come farebbe un padre col proprio figlio ed estrasse da un fodero una spada fatta completamente d’oro e gliela porse. Gilgamesh la prese in silenzio e la guardò; riportava incise sulla base della lama queste parole:


“A Gilgamesh, protettore degli Dei e degli uomini, delle battaglie e dei soldati, Dio di tutti i conflitti.”
 
Quelle parole brillavano di luce, come un fuoco arde in un braciere, emanando un alone dorato molto evidente.
- Dovrai darle un nome, in onore della tua battaglia. – Disse Zeus, stirando un altro sorriso forzato. – Ora va, figliolo, va a prendere il posto che ti spetta nel tuo tempio, lo hai meritato. –
Gilgamesh si avviò verso l’uscita e andò via senza proferir parola e quando fu lontano Zeus tornò a sedere al suo posto, riempì di vino un calice d’oro e ne bevve un sorso stringendo i denti. Le sue fauci sembravano insanguinate, come quelle di un leone che sbrana la propria preda, poi a denti stretti aggiunse – Si… te lo sei meritato, porco deicida… questo sarà il tuo inferno… -
Gilgamesh continuava a sentirsi sempre più strano anche mentre tornava nel suo tempio, maneggiando la spada appena ricevuta. Era decisamente una bellissima lama, appuntita ed affilata da un lato, con elsa e guardia ornate di rubini rossi di sangue, di certo adatti al gladio del dio della guerra.
La lama era veramente lucida, tanto da potersi specchiare su di essa, e guardandosi Gilgamesh vide il suo sguardo spento, privo di motivazione e di vitalità. Si fermò impalato sul sentiero a scrutarsi nella spada per almeno un paio di minuti, contemplò se stesso così come si fa con un oggetto prezioso, qualcosa a cui non si rinuncerebbe per nulla al mondo, ma non riusciva ancora a capire cosa avesse. D’un tratto un bagliore sulla lama mostrò nuovamente ciò che vide sul braciere poco prima, ma stavolta l’urlo era percettibile.
Sentì come un pugno allo stomaco, vide una lama che lo passava da parte a parte del suo ventre ma non uscì una goccia di sangue, poi udì un boato.
 
“…CRONO! TROVA CRONO…”
 
Il dolore allo stomaco si fece più fitto come se lo stessero sbudellando vivo, sentì le sue viscere ardenti come braci dentro di lui e cadde a terra, in ginocchio, graffiandosi l’addome con le dita per tirare fuori il demone che aveva in corpo.
Gilgamesh urlò di dolore e il sangue che scaturiva dalle ferite disegnò strani ghirigori sulla sua pelle, poi all’improvviso un forte senso di vuoto, come se nulla fosse accaduto. La bestia era domata, ma per quanto ancora?
Non fece in tempo a chiederselo due volte che stava già correndo via verso il suo tempio. Lungo il tragitto, però, non fece altro che pensare al nome che quella bestia urlava, Crono.
Lo aveva già sentito, era un nome antico, appartenuto ad uno dei titani, ma cosa aveva a che fare con ciò che gli stava accadendo, come poteva un essere così antico e relegato da millenni nelle profondità del Tartaro essere la causa del suo male?
Gilgamesh si fermò di colpo e guardò alla sua destra. Da lì si scorgeva appena il vecchio sentiero che conduceva alle caverne sotto il Monte Tartaro, una strada dimenticata e sconnessa, celata a chiunque tranne che a Zeus.
“Non ho altra scelta…”
Pensò fra se e se il dio, contemplando prima il sentiero e poi la sua spada. Se avesse deciso di trovare Crono avrebbe provocato l’ira di suo padre, ma qualcosa gli diceva che poteva fare a meno del suo favore in quel momento. Così gettò a terra l’arma ricevuta dal padre degli dei e decise di affrontare il proprio destino, ma in quello stesso momento, quando la punta della lama toccò terra, sentì una nuova fitta allo stomaco.
Il suo cuore pulsava, ruggendo come un leone affamato da troppi giorni che reclama la sua carne, la sua mente si annebbiava e le sue braccia si fecero pesanti.
I suoi muscoli erano irrigiditi, rocce di granito, indolenti contro ogni suo ordine e ben presto anche le sue palpebre iniziarono a cedere, ostruendo la sua vista.
Una grande mano nera si chiuse sul suo viso, poi fu buio.

La prima cosa che sentì fu il dolore, le sue gambe bruciavano come se fossero state trascinate da un carro lungo un campo di battaglia, poi vennero i suoni.
Un incessante suono metallico, ruote che girano senza sosta e assieme a quello un odore acre, come di sangue raffermo e putrefazione.
Non sentì corrente ne aria fresca al tatto, ma appena riuscì ad aprire gli occhi vide che si trovava in una caverna.
Provò a tirare a se le braccia ma erano incatenate ad una parete di roccia dietro di lui e le sue gambe erano irrimediabilmente dilaniate, come squarciate da una bestia, ma le mosche e i vermi stavano già compiendo il loro lavoro. Urlò forte quando le vide, imprecò ed iniziò a piangere, pensando a ciò che aveva perduto.
- Ti sei svegliato, finalmente… -
Un ghigno strano, familiare attirò la sua attenzione su una sagoma sfocata. Le lacrime gli impedivano di vedere, così arrivò il suo misterioso interlocutore ad asciugare i suoi occhi con le dita.
- Ciao, burattino… - Disse quell’uomo dinanzi a lui e quando riaprì gli occhi lo vide. La sua pelle ambrata, i capelli bianchi e lunghi come una cascata di raggi di luna, gli occhi rossi che proiettavano fiumi di sangue in tumulto ed il suo ghigno malefico, folle… era impossibile. - T-tu… tu sei… -
- Si? Si! Ovvio, IO SONO GILGAMESH… e tu… tu sei solo un corpo vuoto nel quale è stata riversata quella poca coscienza che era rimasta in me. - Disse Gilgamesh, ruggendo contro il se stesso incatenato al muro. Si avvicinò di più a lui, sfiorandogli la guancia con la sua, arrivando al suo orecchio. Lo leccò con la lingua mentre l’altro guaiva come un cane bastonato, cercando di allontanarsi da quel mostro che aveva davanti.
Come poteva essere lui? Era certo di essere Gilgamesh, figlio di Zeus e distruttore di Ares, lui il paladino dei conflitti, il guerriero supremo.
Ad un tratto poi l’altro smise di leccargli l’orecchio e lo morse con forza, strappandolo via al suo proprietario.
Vide quell’essere tenere in bocca il suo stesso orecchio, masticarlo ed inghiottirlo come se nulla fosse.
- Tu-t-tu non puoi essere m-me… io sono… -
L’altro diede un colpo terrificante alla parete alle sue spalle con entrambe le mani e fu subito chino su di lui, ruggendogli contro tutto il suo malanimo.
- TU? TU COSA? MISERO PEZZO DI STERCO! SEI SOLO LA SOZZURA DELL’OLIMPO, IL SUO RIFIUTO, IO SONO GILGAMESH E LO DIMOSTRA IL FATTO CHE IO SIA LIBERO MENTRE TU SEI IN CATENE. -
Gli diede un forte schiaffo, dislocandogli visibilmente la mandibola, poi si udì una terza voce, quella di un vecchio dal tono saggio e pacato che disse – Gilgamesh... suvvia, finisci quell’ammasso di carne e vieni qui, ho atteso a lungo il tu arrivo, non farmi aspettare oltre, te ne prego. -
Il Gilgamesh incatenato alla parete si voltò e lo vide chiaramente, un vecchio che girava una immensa ruota d’oro zecchino; era secco, scheletrico e dalla sua schiena spuntavano due grandi ali nere altrettanto rinsecchite e spennacchiate.
Il suo aguzzino si voltò ed annuì al vecchio poi si rivolse ancora a lui, con il viso deformato nuovamente in un ghigno malefico, pregno di oscurità e follia
- Sentito il vecchio? È ora di morire… -
Il povero prigioniero ebbe solo il tempo di versare una lacrima, una sola che gli rigò il viso come un piccolo torrente colmo di dolore ed angoscia, dalla sua bocca non uscì un fiato, ma celava un grido che non sarebbe mai stato udito da anima viva.
Gilgamesh fu rapido, ma certamente non indolore; puntò una mano sul petto della sua preda e con l’altra gli strinse con forza il collo, cingendolo completamente con le dita ed in seguito strappò via tutta la testa del povero malcapitato dal suo busto, ghignando ancora pervaso dall’euforia.
Venne bagnato da lunghi schizzi di sangue vermiglio che macchiarono i suoi candidi capelli da cima a fondo, ma non gli importava di essere sporco di quel nettare, anzi ne godeva immensamente.
- Sei molto cruento – disse il vecchio assistendo a quello scempio – non è sempre un bene amare il sangue altrui con tanta veemenza. –
- Crono… non venire a dirmi cosa devo desiderare, non ne hai alcun diritto, tu non sei diverso da quella feccia che vive sull’olimpo. –
Diverse risate pervasero la caverna con fragore e Gilgamesh si voltò a guardare gli altri prigionieri di quel posto; i Titani.
- Voi siete i Titani, chi abbiamo qui? … Urano, Gaia… Oceano… tu non dovresti sguazzare in fondo al mare al posto di quel trombone di Poseidone? – Disse lui sarcastico, ma da essi non scaturì neppure una parola in risposta alle sue provocazioni.
- Tu devi parlare con me, dio sanguinario. - Disse infine Crono, attirando la sua attenzione.
- Crono… mi hai fatto venire qui mentre ero intrappolato nelle viscere di questo… bleah… - disse facendo un’espressione schifata, gettando via quella testa identica alla sua dalla quale gocciolava ancora sangue – Ho dovuto scavare al suo interno e trascinarlo qui con la forza per poterti vedere… sono stato drogato da Zeus e da quelle tre puttane delle sue figlie e rinchiuso dentro me stesso… spero ne sia valsa la pena. –
Crono abbozzò un sorriso, senza mai fermare il moto della sua ruota e rispose – Ogni secondo è ben speso, che tu ci creda o no, io lo so bene dato che gestisco il flusso del tempo e dello spazio. –
Gilgamesh fece una smorfia con la bocca tirando indietro gli occhi stufo di sentire discorsi di quel tipo, ma non interruppe il suo interlocutore.
- Ti ho fatto venire qui, nel cuore del Tartaro per darti il mio aiuto. –
Gilgamesh parve sorpreso nel sentire quelle parole, il padre di Zeus, suo nemico mortale che decide di aiutarlo, un bel sogno, ma irrealizzabile.
- E come vorresti aiutarmi? Lanciandogli contro la tua rotella? – rispose sarcastico il dio, ridendo di quella strana proposta, ma Crono era un titano antico e potente, irascibile a volte, ma ben distante dalla suscettibilità umana, la sua stessa prigionia lo aveva reso pacato e pacifico, capace di grande pazienza.
- No, mio avventato amico, io ti offro informazioni e potere. Ti donerò le risposte che stai cercando su te stesso, su cosa sei e ti darò i mezzi per distruggere gli arroganti dei che mi hanno incatenato. – rispose il titano con grande calma.
Gilgamesh rimase stupito a quella proposta e si avvicinò a lui, scrutandolo a fondo per capire se nelle sue suadenti proposte si nascondesse qualche strana macchinazione, ma nei suoi occhi neri non vide altro che odio e pazienza.
Si sedette su un masso vicino e disse – Dunque, Crono, illuminami con il tuo sapere se lo desideri. –
Non se lo fece ripetere due volte, il titano prese la parola.
- Lo abbiamo visto, dio irruento, quel cielo rosso intriso di follia, sangue, ira e dolore. Abbiamo visto il potere immenso della tua anima, la forza sovrumana generata dal tuo rancore, la potenza che sovrasta gli dei incauti. Ma per abbattere Zeus quel potere non è abbastanza, sebbene lui ti tema. –
-Zeus mi teme? ... Ne sono… lusingato, ma hai ragione, il mio potere non è sufficiente ad ucciderlo… - disse Gilgamesh roteando una mano per scrocchiare il polso.
- Ne sei consapevole… questo è un buon segno. –
- Se non fossi stato capace di valutare le mie possibilità in battaglia non credo che avrei sconfitto Ares. – Ribatté Gilgamesh sottolineando l’ovvietà delle parole del vecchio.
- Però tu non sai perché il tuo aspetto è cambiato dopo aver divorato quel dio… i tuoi capelli bianchi, quegli occhi, il tuo potere… non sono un caso, io ero esattamente come te un tempo. –
Gilgamesh non poteva crederci, Crono era come lui? O meglio lui stesso era diventato come Crono, il più potente titano della storia? Tuttavia non dubitò un secondo di quelle parole, aveva sentito che Crono fosse un folle sanguinario, ma mai aveva udito di tradimenti o menzogne da lui ordite, tutti i suoi atti malvagi li compiva alla luce del sole al contrario dei suoi figli.
- Divorando Ares non sei diventato soltanto un dio, ma qualcosa di più potente, un essere capace di assorbire il potere di coloro che diventano il suo pasto, un’entità tutt’uno con la morte ed il dolore. –
Gilgamesh prese a ghignare, finalmente capiva il perché della sua fame, della sua irrequietezza, di tutto il suo potere.
- In questi ultimi seicento anni, ho divorato centinaia di dei minori e molti dei figli e fratelli di Zeus.
Ares, Apollo, Demetra, Eros ed Ermes sono solo alcuni di loro. Ad ogni morso che davo sentivo crescere qualcosa in me, per ogni lembo di carne che strappavo ne volevo uno in più, ma… ho sempre pensato che fosse legato alla mia follia, alla mia insania e al mio dolore. –
Intanto la ruota continuava imperterrita il suo moto durante quella conversazione, imperturbabile come il suo padrone.
- Finalmente ne sei consapevole, Flagello degli dei. Questo è il nome con il quale ti battezzo, Gilgamesh. Che ogni essere che osa proclamarsi dio tema la tua fame. –
Disse chinando leggermente il capo senza interrompere il suo fondamentale lavoro. Anche gli altri titani, incatenati negli antri della caverna chinarono il capo di fronte a lui, ma Gilgamesh accettò quei saluti con umiltà, inchinandosi a propria volta.
- Pensavo che voi titani foste crudeli e spietati come i vostri figli, ma mi sbagliavo, vi porgo le mie più umili scuse, miei signori. –
Crono abbozzò un sorriso vedendolo inchinarsi a loro e rispose – Ricorda Gilgamesh che la storia è sempre scritta dai vincitori, ma la verità resta ai perdenti.
Ora, però, è giunto il momento che tu acquisisca una forza che riunirà la nostra sete di vendetta, tu diverrai il portatore della nostra verità e deporrai gli dei superbi, facendoli marcire nel fondo del tuo stomaco. Tu sarai l’unico Dio che veglierà sulle sorti dell’uomo. –
- E come dovrei fare? Tu stesso hai detto che non sono abbastanza forte per battere Zeus. – disse Gilgamesh scrutando il vecchio sul cui volto si disegnò un sorriso, profondo e sincero.
- Tu, dio cannibale, dovrai mangiare noi titani e prenderai il controllo del nostro immenso potere. Io ti donerò la facoltà di comandare il tempo e lo spazio, cosicché la tua esistenza divenga un dato di fatto, inalterabile da qualsiasi fonte. Sarai colui che è sempre esistito e che sempre esisterà in ogni momento e luogo del creato, ma anche all’infuori di esso. Lo spazio ed il tempo saranno come creta nelle tue mani, potrai plasmare il corso degli eventi a tuo piacimento e la morte non toccherà mai la tua essenza, sarai colui che sopravvivrà al tempo stesso quando finirà il suo corso. Ma questo è solo ciò che otterrai da me. – disse il titano indicando i suoi innumerevoli fratelli.
- Ti nutrirai di mia madre Gaia, di mio padre Urano e dei miei fratelli fra cui Oceano, Febe, Teti, Rea, Iperione e tutti gli altri. Estingui i titani, Flagello degli dei, ravviva la tua fiamma con le nostre carni. -
Crono alzò gli occhi al soffitto della caverna, offrendo al dio il proprio collo, ma sorrise amaramente perché perfino in punto di morte la sua ruota continuava a girare.
Gilgamesh non disse nulla, ma li ringraziò inchinandosi a loro, ghignando follemente conscio dell’immenso potere che stava per ottenere.
In un attimo si avventò su Crono che non emise urla, divorandolo un boccone alla volta, leccando e succhiando ogni singola goccia del suo sangue, consumandone anche le ossa, ma persino in quel frangente il vecchio titano non smise di far girare la sua ruota, almeno finché di lui non rimase nulla.
Gli altri titani furono altrettanto silenziosi mentre venivano divorati vivi da Gilgamesh, il quale, un morso dopo l’altro, sentiva il suo potere diventare sempre più immenso, dentro di se l’infinito si elevava all’ennesima potenza.
Quando finì il suo pasto si sentì vuoto come se non avesse mangiato alcunché e la sua fame era ancora più grande di prima. Non ci furono saette, ne terremoti, nessun avvenimento eclatante, ma sentiva di calpestare se stesso ad ogni passo, provava cosa fosse essere vento, luce, oscurità, acqua e fuoco, vedeva dagli occhi degli uccelli e sentiva dalle orecchie degli uomini ed in ogni istante tutta la conoscenza del mondo affluiva dentro di lui.
Ora Gilgamesh era il creato, era onnipotente.
Scomparve da quella prigione e in un istante riapparve di fronte al tempio di Zeus.
La sua bocca era ancora sporca del sangue dei suoi antipasti e i capelli intrisi di quello del burattino del padre degli dei.
Spalancò le pesanti porte del tempio con un gesto delle dita e fu davanti al suo nemico e le sue tre figlie.
- Oh, eccovi qui… le tre meretrici e il padrone del bordello, bene… avevo giusto un certo… languorino. – disse ghignando follemente, mentre i suoi occhi, pozzi di sangue in tumulto, si scontravano con quelli di Zeus.
- Gilgamesh! – tuonò il padre degli dei – Come osi rivolgerti così a me e alle tue sorelle? Non ti permet… - Le parole gli si gelarono in gola quando vide il Deicida brandire la sua stessa testa nella mano sinistra per poi lanciarla brutalmente ai suoi piedi.
- Ma cosa? C-cosa significa questo? –
- Quella? È la mia testa, si… beh per la precisione è la testa del me stesso che avevi drogato e sedotto con quelle tre puttane. Pensavi veramente di potermi imprigionare? Ciò che hai corrotto in quel corpo era solo l’ultimo barlume della mia coscienza, io, questa follia vivente che hai davanti, sono vivo e vegeto e più potente che mai, ora che ho svuotato il Tartaro dei suoi abitanti… -
Zeus deglutì vistosamente e le tre dee si strinsero a lui cercando riparo, ma il loro padre le gettò contro Gilgamesh, orinandogli di affrontarlo.
- H-hai liberato i titani? Folle! Ci distruggeranno! – disse Afrodite indietreggiando con le sorelle.
- Liberati? … non ho detto di averli liberati… - disse lui sgranando gli occhi – Li ho divorati vivi, anzi si sono lasciati divorare per cedermi il loro potere… -
Dalla fronte del dio re Iniziarono a scivolare piccole gocce di sudore, le sue gambe tremavano per il terrore e l’orrore di ciò che aveva davanti ai suoi occhi. La sua voce faticò ad uscire dalle labbra, ma parlò - …T-tu… i titani… m-mio… -
-Tuo padre? CRONO? – lo interruppe il deofago, urlando il nome dell’antico signore del tempo. Il suo grido riecheggiò sull’Olimpo e il cielo si aprì come la prima volta, ma ora mostrava un oceano di sangue ribollente dal quale grida di dolore, ira e follia si diffondevano nell’aria seminando la paura persino nei meandri del cuore più saldo.
- Si, Zeus! Io sono come lui, sono ciò che fu Crono divorando i suoi figli, lui che sacrificò il suo amore per salvare gli uomini dalla superbia degli dei, lui che rinunciò alla sua progenie per il bene dei tuoi schiavi. Tu non sarai mai degno di lui, ma non temere… presto non sarai più nulla. – disse Gilgamesh sfidandolo con una folle risata.
Nel frattempo i suoi fratelli, Ade e Poseidone si precipitarono nel tempio, e videro quell’essere davanti alle porte della casa dorata del dio re minacciarlo.
Zeus indietreggiò di qualche passo, inciampando in una lastra d’oro sollevata, ritrovandosi sulla schiena.
In preda al terrore diede un calcio con la pianta del piede ad Atena che si trovava davanti a lui, lanciandola dritta davanti a quel pazzo.
La dea deglutì ed impugnò la sua lancia avventandosi con un grido sul dio che aveva davanti. Corse veloce verso di lui, protendendo l’arma in avanti sperando di trafiggerlo con un affondo dritto al cuore, ma Gilgamesh non accennò a muoversi di un passo, attese il colpo e la lancia lo colpì in pieno, scatenando una tremenda onda d’urto.
- Ahahahahah… tutto qui, Atena? È questa la tua forza? – Disse lui ghignando follemente. La lancia della dea lo aveva penetrato da parte a parte, inforcando sulla sua punta il cuore dell’uomo, strappandolo via dalla sua sede, ma sebbene fosse staccato dal resto del corpo continuava a battere come se niente fosse.
Gilgamesh rise di gusto ed afferrò saldamente la mano della donna che impugnava la lancia, trattenendola a se – ora è il mio turno, baldracca. –
Inspirò una grande quantità d’aria, gonfiando il petto ed il diaframma, poi in un sol colpo la getto fuori addosso alla dea. Quel devastante soffio la scarnificò completamente, riducendola ad uno schizzo di sangue e polvere di ossa che andarono ad insozzare Zeus, i suoi fratelli e le altre due donne. Solo la sua mano, saldamente ancorata a quella del divoratore di dei si salvò.
- Già finito? Posso mangiarvi ora? – Chiese pacato estraendo la lancia dal suo petto, poi prese la mano intatta di Atena ed iniziò a divorarla.
Afrodite iniziò a piangere per il dolore ed impugnò un bellissimo pugnale d’oro con la punta fatta di diamanti e si lanciò sul carnefice di sua sorella, mentre Artemide scoccava una freccia dal suo leggendario arco.
Gilgamesh non si mosse, il tempo però iniziò a rallentare, fino a fermarsi completamente.
Iniziò ad incedere lentamente verso la dea con l’arco, che si trovava a circa sessanta metri da lui, ma lo spazio si piegò sotto i suoi piedi e in appena due passi si trovò di fronte a lei.
Aveva appena lasciato andare la freccia, stava uscendo dall’arco in quel momento; il dio la prese e la conficcò nel suo cranio, con un immenso boato.
Artemide prese ad accartocciarsi su se stessa molto lentamente, richiudendosi in una pozza di sangue assieme al suo arco.
Si voltò e fece un ulteriore passo, ritrovandosi venti metri più avanti, dietro afrodite.
La cinse da dietro, prendendo al palparla lentamente senza ritegno, percorrendole il ventre e i seni con le mani, poi le scostò i capelli e sussurrò – È quasi un peccato ucciderti… -
Le diede un bacio sul collo e le sfilò il coltello dalle mani, lo infilò nella sua bocca, come lei stessa ci aveva infilato ben altro la sera precedente, ma senza trafiggerla, lasciandolo immobile sollevato a mezz’aria. Le sollevò una gamba, poi prese il piede che poggiava a terra e lo torse su se stesso di un giro completo, sentendo un forte rumore di rottura.
Ridendo fece un altro passo e si ritrovò alla sua posizione di partenza, si mise ben eretto e fece un inchino profondo.
Quando il tempo riprese a scorrere normalmente, di Artemide era rimasta solo una pozza scarlatta ad adornare il pavimento della stanza, mentre Afrodite si ritrovò ad inciampare rovinosamente a terra, finendo con il coltello infilzato in gola, che sbucava dietro la nuca.
Gil saltellò graziosamente verso la povera Afrodite e portò una mano alla bocca piegandosi in una posizione strana, poi guardando Zeus disse in falsetto – Oh! Ma guarda che disgrazia! Padre irresponsabile, non hai mai insegnato alle tue figlie a non correre con un coltello in bocca? È pericoloso sai! -
Rivolse uno sguardo di finta preoccupazione alla povera dea che rantolava sul pavimento cercando di allontanarsi da lui, poi ghignò malignamente strappandole gli abiti di dosso.
Zeus e i suoi fratelli non poterono fare altro che assistere allibiti a quello scempio e sussultarono nel vedere Gilgamesh sollevare Afrodite per le caviglie, tenendola a testa in giù.
Le allargò le gambe con le braccia e vi puntò un piede al centro, sui suoi genitali. Iniziò a tirare con le braccia e spingere con il piede mentre fischiettava allegro e le strappò via le gambe dal corpo, gettandole addosso ad Ade e Poseidone - Un regalo! Difficilmente troverete cosce come queste in giro. –
I due inorriditi e spaventati iniziarono a scappare, correndo a rifugiarsi nei rispettivi regni, lasciando solo Zeus contro quella bestia, ma Gil non li inseguì, la loro ora sarebbe giunta a breve, ma se non quel giorno, il successivo.
Zeus prese a piangere mentre vedeva la figlia distrutta a quel modo, realizzando che tutta la sua stirpe sarebbe stata annientata.
Afrodite tuttavia seppur privata delle gambe tentò ugualmente di fuggire facendo leva sulle braccia, mentre u suoi capelli biondi sporchi del suo stesso sangue e quello della sorella Atena disegnavano una lunga scia a terra. Gemeva di dolore mentre arrancava lungo quel corridoio, lo stesso che aveva percorso mille volte, ora con un amante ora con un altro, ma adesso le sembrava infinito.
- Ehi! No, no, no… dove vai piccola Afrodite? Non puoi lasciarmi proprio ora... - disse lui ghignando.
La girò a pancia in su e le puntò un piede sul ventre, poi le prese un braccio e lo strappò via, senza preoccuparsi di dove lo avrebbe lanciato e fece lo stesso con l’altro. Infine la sollevò per il collo e la guardò negli occhi mentre le sfilava il coltello ancora conficcato in gola. Un grosso spruzzo di sangue ricoprì il seno della povera dea ed il suo aguzzino che si beava di quella insolita doccia. Gilgamesh prese a leccare quel nettare vermiglio dai suoi capezzoli tenendola ancora sollevata, poi affondò i denti nei suoi seni, divorandoli.
Non smise mai di guardarla negli occhi con i suoi iniettati di sangue, baratri di dolore e crudeltà; ogni morso era più furioso del precedente, ma Afrodite non era debole e rimase in vita.
- Scusami tesoro, è un vero peccato… - disse infine infilandole il braccio in gola, spaccandole la mascella ed estraendo la lì il suo cuore. Gettò a terra il poco che restava della donna e divorò quel cuore in sol morso.
Ora erano rimasti in due.


Zeus lo osservava, protetto dalla sua preziosa armatura, i suoi occhi pieni di lacrime incrociavano quelli del carnefice della sua stirpe, sanguinanti oceani di terrore in tempesta.
Ma Zeus restava il padre degli dei e si risollevò dal suo dolore, asciugando le sue lacrime, impugnò una saetta e la puntò contro il suo nemico.
- Tu… che tu sia maledetto, sofferente per l’eternità, senza pace o amore… con questa saetta, ti condanno a morte! – Ruggì il padre degli dei scagliando la sua folgore su Gilgamesh che l’accolse con il petto sfondato da Atena, finendo in cenere.
Zeus non poteva credere ai suoi occhi, lui non c’era più, era polvere così come lo era sua figlia Atena.
Portò le mani sul viso e crollò sedendo sul suo maestoso trono un tempo dorato, ma ora macchiato del sangue delle sue figlie. Urlò per la felicità di averle vendicate e per il dolore di averle perse, poi chiuse gli occhi per non vedere più quel mattatoio. Trasse un sospiro di sollievo e si sentì libero dal suo più grande nemico, rilassandosi per un istante.
Ma era troppo bello per essere vero.
Sentì il fiato di un uomo dietro la sua nuca e sgranò gli occhi, terrorizzato, ma non si voltò. Sentì un dito percorrergli il collo fino all’orecchio, poi un sussurro.
- Ti sarebbe piaciuto eh? –
Era ancora vivo. Ma era impossibile, proprio in quell’istante fissava le sue ceneri ed il cuore impalato sulla lancia di sua figlia che aveva cessato il suo battito.
- Fattene una ragione, padre degli dei… io non posso morire… non più. –
Gilgamesh esplose in una risata folle che fece tremare tutto il tempio, mentre svaniva in un soffio di vento per riapparire di fronte a lui.
Zeus iniziò a sbuffare per l’ira, le sue narici si allargavano, gli occhi erano iniettati di sangue e i suoi muscoli tesi.
- IO SONO IL DIO RE! SE DICO CHE TU DEVI MORIRE, MORIRAI. – ringhiò ferocemente contro il suo avversario.
Lanciò una seconda folgore contro di lui, incenerendolo ancora, ma Gilgamesh apparve ancora una volta. Lo distrusse ancora, ma riapparì e lo distrusse nuovamente e poi ancora, ancora e ancora, lo uccise decine di volte ma tornava sempre indietro.
- Tornerò sempre, stupido re dei vermi, se non mi affronti come un vero uomo. –
Zeus arricciò il naso e dilatò ancora una volta le narici, evocando due saette che schiantò l’una sull’altra nelle sue mani.
Le fuse assieme in una spada composta da un unico enorme diamante affilato percorso da intense scariche elettriche; al suo interno giaceva un fulmine intrappolato che si dimenava, desideroso di affondare nella carne del deicida.
- Non osare insultarmi, feccia del creato, io sono Zeus e ti eliminerò per sempre. – disse mettendosi in guardia. Tenne la spada con entrambe le mani e dato che la sua lama era molto lunga scelse una guardia alta, che da sopra la testa faceva piovere la spada lungo il suo braccio.
Una volta abbastanza vicino sferrò un fendente mirando al collo di Gilgamesh, ma lui si abbassò prontamente, schivando con abilità quel colpo, successivamente Zeus inclinò la lama verso l’interno e tentò un taglio diagonale sperando di colpire il suo avversario. Gil non era uno sprovveduto, sebbene avesse deciso che lo scontro con Zeus sarebbe stato alla pari con lui, era certo che il suo nemico non fosse ben allenato a maneggiare un arma ed infatti era così. Scartò velocemente di lato, evitando anche quel colpo, in seguito evitò un poderoso fendente discendente verticale inarcando la schiena ed un colpo alle caviglie saltando all’indietro, sfruttando la schivata precedente.
Prese le distanze dal padre degli dei ed iniziò ad applaudire vistosamente – Niente male, porco supremo, mi aspettavo peggio, ma io appartengo ad un’altra classe, un’altra categoria e ho passato gli ultimi seicento anni dilaniando e cacciando i tuoi figli e servi mentre tu hai poltrito sul tuo trono dorato. –
Gilgamesh infilò a fondo le dita nella sua cassa toracica penetrandola, poi la strappò via aprendola in due, gettando i due pezzi di carne ed ossa a terra. Le sue interiora sanguinanti erano esposte all’aria e si vedeva il suo cuore pulsare come un martello batte l’incudine, ma da esso usciva una sorta di manico di ossidiana riccamente decorato d’oro. Con la mano destra lo impugnò, squarciando i suoi organi interni e tagliandoli a metà mentre estraeva la lama da se stesso. Le sue carni si ricomposero all’istante ed il suo torace ricomparve come se non fosse accaduto nulla. La lama era lunga e sottile, con leggeri intarsi e decorazioni degne del più grande fabbro del mondo, il suo filo era luminoso come il sole stesso, ma era circondato da una strana luce violacea. La agitò in aria con estrema grazia disegnando dei piccoli cerchi, pulendola dal suo stesso sangue, poi la mostrò al suo avversario.
- Il suo nome proviene da una lingua che ancora non esiste, padre degli dei e il tuo sangue sarà il primo a bagnare il suo filo immacolato. Questa è Fear, la lama forgiata dalla mia anima, condensando in essa tutto il mio odio, il mio dolore, la rabbia e la follia che provo nei tuoi confronti… non sarò io ad ucciderti, ma lei. –  disse Gilgamesh mentre un ghigno malefico si scolpiva sul suo viso.
Zeus guardò quella lama con gli occhi sgranati, sudando freddo mentre il suo cuore accelerava per il terrore. Su di essa vide riflesso il passato, il presente ed il futuro di Gilgamesh e le innumerevoli vittime che avrebbe mietuto impugnandola; fra esse vide anche se stesso.
Il padre degli dei prese il coraggio a due mani e lanciò un nuovo fendente orizzontale contro il suo nemico, ma Gil lo deviò con il piatto della lama, arrivando a ferire l’addome del suo avversario, distruggendo la sua preziosa corazza.
Zeus fece un sussulto sentendosi colpito e rispose con un secondo fendente dal basso verso l’alto, ma fu bloccato con grande maestria dal deicida che lo colpì a sua volta con un forte pugno, scaraventandolo a metri di distanza, facendo crollare una parete e gran parte del tetto dell’edificio.
Zeus esplose di rabbia e si rialzò dalle macerie con una grande esplosione di fulmini che scaraventarono le macerie in aria, infine rialzandosi tentò un colpo disperato prendendo una lunga rincorsa.
Portò la sua spada adamantina in basso, facendo toccare la punta sul pavimento del palazzo, creando una sottile scia di scintille. Gilgamesh rimase in piedi senza muoversi finchè il suo avversario non tentò di colpirlo, ma all’ultimo istante, quando il suo pomposo nemico alzò la spada in un pericoloso fendente, lo schivò abbassandosi e voltandosi assieme ad essa, facendo perno sulla mano libera poggiata al suolo.
Gilgamesh ne approfittò per portare entrambi i piedi all’altezza del fianco di Zeus, che rimase scoperto per un istante. Tenendo la sua spada tra il pollice ed il palmo della mano, poggiò a terra anche quella, colpendo inesorabilmente il fianco del nemico con un poderoso calcio da mulo che lo scagliò verso il suo trono.
Gil riacquistò l’equilibrio sfruttando la spinta del calcio appena sferrato, avvitandosi in una breve piroetta aerea durante la quale lanciò la spada, che andò a conficcarsi nel cuore di Zeus mentre ancora era in volo e che in seguito lo inchiodò al suo scranno.
- I-io so-son… - disse il dio greco con un ultimo sospiro, alzando lo sguardo al cielo sanguinante che lo sovrastava.
Sentiva il sangue sgorgare a litri, le sue carni seccarsi, le sue vene svuotarsi della sua vita.

Gil si avvicinò a lui a passo lento, estrasse la spada dal cadavere e la poggiò a terra, poi essa svanì in una leggera fiammata.
Il cielo grondante di sangue si richiuse solo quando cominciò a divorare i cadaveri sparsi nella sala, lo fece nel più rigoroso silenzio, mentre la notte calava e il mondo piangeva una pioggia fitta, pregando per l’immensa strage avvenuta quel giorno.
Quando non vi fu più nulla da divorare Gilgamesh lasciò l’olimpo, scendendo lungo il suo picco e quando fu a valle alzò ancora una volta lo sguardo al cielo, fece comparire un foglio di pergamena ed una penna d’oca e scrisse alcune righe, poi lo conficcò in un albero con un coltello e svanì in una folata di vento.
Ciò che scrisse rimase come monito per coloro i quali avrebbero pregato l’olimpo che ormai era privo di dei;
Esso riportava queste esatte parole:
 
"Siamo egoisti" dico tra me e me, ma uso il plurale perché dirlo a me stesso è doloroso, oneroso, pesante. Allora alzo lo sguardo verso il cielo e rivolgo un pensiero alla sua immensità, ma me lo rispedisce indietro come fosse un rifiuto. Esso è immenso, bellissimo, ricolmo di pace e di terrore, ma ha sempre accolto le nostre speranze ed i nostri sogni accompagnandoli sulle vette del mondo e noi con essi.
Ora però i nostri sogni vengono infranti, ci vengono rigettati addosso, rubati.
Abbiamo riempito il cielo di sogni, l'hanno riempito di speranze e l'ho reso egoista come me, ha rubato i miei desideri.
Vedo il mio sogno volare lontano, insieme a tanti altri, ma non voglio che vada via, ho paura, impazzisco, il cielo è finito.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2302635