Troppe cose che non sai di me.

di weareinmondovisione
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Troppe cose che non so io. ***
Capitolo 2: *** Troppo tempo ad aspettare. ***
Capitolo 3: *** Troppe cose tralasciate. ***
Capitolo 4: *** "Mentre il mondo piange, Dio dov'è?" ***



Capitolo 1
*** Troppe cose che non so io. ***


Probabilmente questo qui è tutto un sogno, forse domani mi risveglierò e tutto questo non sarà mai successo. Forse. E se non fosse così? E se fosse tutto vero? E se la protagonista fossi io? Solamente con un altro nome, un altro corpo, un’altra vita? E se forse avessi fatto in modo che fosse tutto quello che io ho sempre voluto essere? Apprezzata, amata, bella, magra. Un’adolescente di quelle che tutti amano e che tutti apprezzano. Nessuno si sognerebbe di odiare un’adolescente così, e probabilmente è così. Ho scritto tutto questo per vedere come sarei stata io in un’altra vita, nella vita che io vorrei, che vorrei vivere a 16 anni; l’unica cosa diversa è il modo in cui gli altri vedono la protagonista, o me, come preferite. Il resto è tutto uguale, perché se solo voi mi conosceste, se solo conosceste le persone da cui ho preso ispirazione, capireste che, a parte alcuni nomi e qualche minima variazione, io non ho cambiato nulla, né di loro, né di me. Sono esattamente come li vedo io, uguali alla realtà, uguali a quella realtà che tanto odio, un po’ come tanti adolescenti, no? E dunque è inutile scrivere “Ogni riferimento a persone è puramente casuale”, perché non lo è. Solo alcuni sono puramente inventati. E il resto? E se forse mi fosse venuto tutto in sogno ed io non me lo ricordo e dunque sia convinta che sia tutto frutto della mia immaginazione mentre è tutto frutto della mia coscienza? Volete una risposta? Non lo so. Ci sono troppe cose che si credono di sapere, e troppe cose che non si sanno, a quest’età. Cosa c’è da sapere davvero a quest’età? Cosa c’è da non sapere a quest’età? Ci trattano da grandi, e ci trattano da bambini. A volte ci confondiamo, ci chiediamo chi siamo, cosa siamo, e nessuno sa risponderci. Quindi anche crescendo continuiamo a sapere tutto e niente? “Quando hai solo 18 anni quante cose che non sai, quando hai solo 18 anni forse invece sai già tutto, non dovresti crescer mai” recitava una vecchia canzone. Che sia così? Che non lo sia? Che volete che vi dica? Non lo so. 

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Capitolo 2
*** Troppo tempo ad aspettare. ***


Era il giorno degli esami. Quel giorno tanto atteso e tanto temuto. Quel giorno che si sarebbe preferito non arrivasse mai. Quel giorno per il quale aveva pregato e studiato talmente tanto da essere indietro col sonno di almeno tre settimane. Rebecca arrivò a scuola verso le 8, quella dove aveva passato gli ultimi suoi 5 anni, gli anni principali della sua adolescenza, quelli dove aveva conosciuto i suoi più grandi amici, quelli che non l’avevano mai abbandonata: Duncan, Matthew, Marìa, Valery, Martha e Amy. Ecco che la raggiungevano.
“Ehi, ciao Reby!”
“Ehi, ragazzi! Sono nervosissima!” tremava davvero tanto.
“Non preoccuparti, hai studiato, no? Se hai Petrosini in commissione, non devi preoccuparti, ti aiuterà sicuramente!”
Loro erano tutti un anno più grandi di lei, e saperli là, ad incoraggiarla era bellissimo.
“Grazie ragazzi!”
Verso le 8 e mezza salì insieme a suo fratello, Luke, sua sorella, Kimberly, e i suoi amici al secondo piano, vicino l’aula dove si sarebbe tenuta l’esposizione orale. Attesero più di cinque ore, dopodiché una professoressa uscì dall’aula e chiamò:
“Rebecca Murphy, puoi entrare.”
Cominciò a vedere tutta la sua vita davanti a sé, tutti quei 5 anni spesi dentro quelle mura, quelle bellissime mura.
Ricordava ancora il suo primo giorno di scuola, quando l’avevano accompagnata i suoi fratelli.
Il suo primo giorno di superiori, il suo primo giorno della sua nuova vita. Quella vecchia era finita, l’aveva fatta finire. 13 anni di sofferenza. La morte dei suoi genitori, tutti quegli anni d’insulti, da parte di quei bambini, che non lo capivano che i suoi genitori non c’erano più, e loro non l’avevano scelto. Loro non li avevano abbandonati, come tutti dicevano, come tutti pensavano. Loro che ne sapevano? Che ne potevano sapere?
Ma ora non era il momento di pensare a questo, c’era una commissione ad aspettarla e doveva muoversi.
Si voltò a salutare tutti, baciò la collana della madre appesa al collo, ed entrò, si sedette sulla sedia davanti a una cattedra con circa 6 ragazzi.
“Buongiorno signorina Murphy.” Eh, grazie al cazzo, prof.
“Eh, un po’ prof.”
“Dunque, sto vedendo il programma di quest’anno, e mi soffermerei su un argomento in particolare: tettonica a placche.” Solito argomento di esami di maturità.
“Ehm, sì, certo, la tettonica a placche è quel fenomeno che…” cominciò a parlare a manetta.
“Ma ti senti? Non potresti andare meglio. Che direbbero mamma e papà? Sarebbero fieri di te. E che direbbero quelli che per anni ti hanno preso in giro? Diventerebbero rossi di rabbia. Perché adesso loro lavorano dal parrucchiere a fare gli shampoo, e guarda tu dove sei. Dove loro non sarebbero mai arrivati.”
“Va bene, signorina Murphy, può andare, grazie.”
Dopo circa 35 minuti uscì. Dietro di lei un senso di libertà e si percepiva nell’aria che il peggio per lei era passato. Uscì da scuola e un brivido la attraversò, seguito da un urlo: “FINALMENTE LIBERAAAAAAAAAAAAA!”. Cominciò a ballare, e a cantare con la gente fuori la scuola, era talmente felice che trascinò tutti al bar esclamando: “Oggi offro io!”. Insieme ai suoi compagni andò nel campetto sportivo di fronte la scuola e cominciarono a lanciarsi gavettoni, com’era di tradizione fare dopo gli esami di maturità.
Qualche settimana dopo, tornò a scuola per vedere i risultati ed erano esattamente come se li aspettava: 100.
Mentre leggeva i risultati ed esultava internamente, sentì che c’era qualcuno dietro di lei. Si voltò e vide Giacomo, un suo compagno di classe, di cui era innamorata dal primo giorno che l’avevo visto.
“Complimenti, Murphy” le disse.
“Grazie Giacomo.”
Si rigirò a guardare quanto avesse fatto: 65.
“Complimenti anche a te.”
Mentre parlavano, sviava il suo sguardo, come sempre.
“Ma perché non se ne va” pensò.
Lui se ne accorse, come sempre.
“Vedi che lo so.”
“Cosa?”
“Che ti sono sempre piaciuto.”
Ma voi spiegatemi come si fa a non piacerti uno così. Occhi azzurri, capelli neri, e un sorriso che avrebbe illuminato un’intera città in blackout.
“Ma che dici? ahahahah” Rebecca rise nervosamente.
“Puoi nascondere le sigarette, per evitare che le trovi tuo fratello, puoi nascondere i tuoi segreti, le tue debolezze per fare in modo che nessuno possa approfittarne…”.
Le alzò il mento con due dita.
“Ma non i sentimenti.”
Si avvicinò per baciarla, ma lei lo allontanò.
Beddu sì, ma strunzu picchi? [1]
“Vattene a fanculo, stronzetto del cazzo.”
 
1.Traduzione: Bello sì, ma stronzo perché?


 
ehi, ragazze! questo è l'inizio degli inizi.
vi chiedo di recensire se leggete, mi farebbe un grande piacere.
ogni 100 visite in un capitolo pubblicherò il successivo.
sembrerà una cosa stupida, ma vorrei un po' di visibilità,
dunque se vi è piaciuto e se conoscete gente su efp, consigliatela,
grazie ragazze. :)

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Capitolo 3
*** Troppe cose tralasciate. ***


“Rebecca…”
Sentiva la voce di suo fratello molto lontana.
Ma non voleva alzarsi.
Stava sognando di essere in spiaggia, con un cocktail in mano a prendere il sole; e vedeva un ragazzo fare footing sulla spiaggia. Ma non certo un ragazzo normale: un ragazzo alto, muscoloso, occhi grandi e scuri e capelli biondi, che a un certo punto le si avvicina e gli dice:
“REBECCA, SVEGLIAAAAAAAAA!”
Saltò giù dal letto e gli urlò:
“MA SEI COGLIONE?”
“Vedi che ti sei svegliata?”
Sbadigliò, si alzò dal letto e abbracciò il fratello.
“Giacomo voleva baciarmi.”
“E tu?”
“L’ho mandato a Fanculolandia.”
“Brava, amore mio.”
Scesero insieme a fare colazione; due secondi dopo entrò sua sorella con i cornetti caldi.
“CORNETTII!” urlò.
Era seguita da un gruppetto vivace di gente.
“Reb, ma questi profughi sono amici tuoi?” disse rivolta a Rebecca.
Reb alzò gli occhi e vide i suoi amici.
“Per loro niente cornetti, ora usciamo” disse.
“Cuore mio, io sono venuto qua per i cornetti” disse Mat.
“Puoi morire, andiamo a fare colazione fuori.”
“Nervosette?” disse Duncan.
“CERTO, VENITE A ROMPERE I COGLIONI ALLE 9:30! LA GENTE DORME.”
I suoi amici fecero spallucce come a dire “colpa tua.”
“Vado a vestirmi e scendo” e salì nella sua stanza, imprecando contro i suoi amici.
Dopo circa dieci minuti era già giù, pronta per andare.
Uscirono e andarono al loro bar preferito. Si sedettero e cominciarono a parlare.
Il cameriere dopo un po’ arrivò con un vassoio con 6 caffè, 6 cornetti alla nutella, un succo di papaya.
“Devo mantenere la linea” diceva sempre Amy.
“Giacomo ieri ha provato a baciarmi” disse Rebecca.
I suoi amici erano sconvolti.
“Ma cosa dici?”
“Giuro.”
“E tu?”
 “L’ho mandato a fanculo. È stato difficile, ma ce l’ho fatta.”
“Brava sistah!” le disse Amy, e si diedero il cinque.
Valery prese parola: “Beh, allora la banda ora può finalmente fare il viaggio di maturità.”
“Finalmente?” disse Rebecca.
“Certo.”
“Quindi questo vuol dire che l’anno scorso non l’avete fatto… per aspettarmi?”
“Sì, senza di te non avrebbe avuto senso.”
Rebecca guardò i suoi amici sorridenti con gli occhi lucidi.
“Siete la mia vita” disse.



 
ok, ragazze, mi rendo conto che questo è più corto, ma ho il blocco dello scrittore e non mi viene in mente altro, perdonatemi.
ringrazio larrysselfies e Cloau_efp per le rencensioni.
mi raccomanda, 100 visite al prossimo, grazie mille. :)

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Capitolo 4
*** "Mentre il mondo piange, Dio dov'è?" ***


Senza neanche accorgersene era passato un mese e mezzo, e mancano solo poche settimane alla partenza. Reb si ritrovò a pensare queste cose mentre era distesa nel letto con l’Ipod in mano e Ligabue nelle cuffie. Era il suo idolo, l’idolo di suo fratello e di sua sorella. Era cresciuta a biberon e Ligabue. Quanto avrebbe voluto incontrarlo, andare a un suo concerto a “urlare contro il cielo” le sue canzoni, quelle canzoni che ormai facevano da colonna sonora alla sua vita, ai suoi momenti più importanti. Le sue parole sapevano consolarla senza neanche conoscerla, sapevano aiutarla, sapevano supportarla quando sembrava che nessuno ci riuscisse. Forse lo vedeva come il padre sul quale non aveva mai potuto contare. Sta di fatto che con lui era nata, cresciuta e con lui sarebbe vissuta, fino a che qualcuno lassù avesse deciso che era arrivato il suo “giorno dei giorni”.
Cantava “Ho messo via” mentre guardava il soffitto, con gli occhi lucidi e con la voce bassa, cosparsa di pianto. Ligabue l’aveva dedicata al padre morto, e questo lei lo sapeva. Era inevitabile non pensare ai suoi genitori. Non pensare a quel giorno nefasto, colmo di dolore e lacrime. Non ne ricorda molto, il troppo dolore ha imposto al cervello di cancellarlo a poco a poco, lasciandone l’indispensabile.
 
A otto anni, come si fa a sopravvivere a un dolore come quello che solo una morte è capace di portare? Dovrebbe essere vietato per legge.
A otto anni la cosa più brutta che possa succedere dovrebbe essere sbucciarsi il ginocchio, o litigare con la mamma perché non vuole darti le caramelle.
“Dov’è mamma? Devo chiedergli scusa, non volevo dirle quelle brutte cose. E papà, dov’è? Sta facendo compagnia a mamma?”
Ricorda bene quando disse quella frase al fratello.
Luke, perché piangi? Che è successo? Non fare piangere anche me, ti prego.”
E che ne sarebbe stato dei giochi con papà? Di lui che la prendeva e la faceva volare? Di lui che la portava a mare, di lui che la portava al parco a giocare, e tornavano tutti sporchi di fango, e di mamma che faceva finta di arrabbiarsi, poi li aiutava a pulirsi? Di quando lavavano l’auto tutti insieme e si spruzzavano l’acqua addosso? Quell’auto che in pochi istanti si era trasformata nel teatro di un disastro, di una tragedia. Quella tragedia che Rebecca avrebbe visto poco dopo, i cui protagonisti erano proprio loro, la sua mamma e il suo papà. Quella tragedia, una di quelle più distruttive e brutte. Quelle di cui nessuno dovrebbe mai essere spettatore.
Ma in quel momento, nella mente di una bambina di 8 anni, c’è spazio per una sola frase.
“Mamma, papà… che fate? State solo dormendo? Svegliatevi, su, che riprendiamo a giocare. Mamma, non fare finta di non sentirmi, lo so che sei arrabbiata con me, ma ti prego, svegliati, adesso basta. Dai, scusa per quello che ti ho detto. Alzatemi e venitemi ad abbracciare, torniamo a giocare, andiamo al parco, e poi in spiaggia, e poi andiamo a prendere un gelato tutti insieme, dai, mamma, papà…”
E l’immagine, fissa, dei suoi genitori, con gli occhi chiusi, che nonostante gli strattoni, non si svegliano. E il momento, capire. Rendersi conto. Aveva solo otto anni.
 
“Che nessuno mai è pronto quando c’è da andare via…”
Si rese conto che la canzone era finita e ora l’Ipod passava “Lettera a G.”, casualmente un’altra canzone dedicata a un morto. Questa frase la fece pensare. Perché morire senza un preavviso? Se là sopra c’è qualche dio che ci richiama a sé (se mai ci avesse mandati qua) per evitare di farci soffrire, perché far soffrire gli altri mandandoci via così inavvertitamente? Ci sono tanti di quei mezzi di comunicazione, che ci vuole a mandare un messaggio, o un angelo giù… Altrimenti, uno squillo per capire che è arrivata la tua ora no, eh? No…
“Fosse per me, ‘na chiamata la farei, ma così, giusto per avvisare.”
Pensò quelle parole, ma senza accorgersene le pronunciò.
Guardava il soffitto, forse a cercare un contatto con qualcuno lassù.
“Non hai credito? Passami il numero che ti faccio una ricarica e un’offerta verso tutti.”
Silenzio.
“Sei timido? Non parli? Però quando c’è da fare danno, sempre presente? Sai, a volte credo che ci provi gusto nel vederci soffrire.”
Silenzio.
“E poi sono cattiva, sono eretica se non ti credo. Dove sei, ah? Mandami un segno se ci sei, anche un soffio di vento.”
Nulla.
Si era resa conto che il tono della sua voce si andava alzando pericolosamente. Si alzò, prese le sigarette dalla borsa e ne accese una.
“Guarda, mi vedi, lo vedi? È per quelli come te che lo faccio. È per quelli come te che mi sono ridotta così. Spendo più soldi per le sigarette che per mangiare. E tu credi che mi diverta? Tu credi che io diverta? Io credo di sì, tu ci godi.”
Le lacrime scendevano copiose, e il loro vapore si mischiava al fumo della sua Camel, che gli entrava negli occhi, quei grandi occhioni verdi, che ogni volta che piangevano sembravano aver esaurito le scorte di lacrime, e la volta dopo ricominciavano come se niente fosse.
“Altrimenti, perché? Perché fai tutto questo? Perché? Scendi qua, ti offro una cosa, ne parliamo davanti a un bicchiere di lambrusco. O forse sei troppo impegnato a fingere di importarti degli altri per ascoltarmi? Non puoi staccare?”
Tirò di nuovo. Sul soffitto una cappa di fumo grigio che di andarsene non aveva proprio voglia. Buttò fuori una boccata di fumo verso l’alto. Gli occhi non gli facevano più male. Andò verso la finestra e la apri. La cappa di fumo uscì. Ma la puzza rimase. Non le importava. Guardava giù, quel pezzo di terra illuminato a giorno e pieno di gente, nonostante fossero le tre di notte.
“Morirete tutti” pensò. Nelle cuffie passava “Hai un momento, Dio?”.
“Capita a fagiolo.”
Uscì in terrazza, guardava in alto mentre la urlava.
“Magari la senti meglio, magari ti convinci, cosa ti costa alla fine? Scendi, no?”
Finì, buttò il mozzicone ed entrò dentro.
S’infilò sotto le coperte, e si addormentò. 
 
RAGAZZUOLEE!
scusate se vi ho fatto attendere, ma ho avuto un casino indescrivibile.
questo capitolo è un po' autobiografico, ed ero indecisa sul pubblicarlo o meno! spero vi piaccia.
mi raccomando, 100 visite al prossimo capitolo.
bye babies! <3

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