Guardian

di Aelian
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The Wood ***
Capitolo 2: *** Never Believed in Fairytales ***
Capitolo 3: *** Feral Scent ***
Capitolo 4: *** Farewell ***
Capitolo 5: *** Rescue ***
Capitolo 6: *** Nightmare ***
Capitolo 7: *** St. Michael ***
Capitolo 8: *** Jealousy ***
Capitolo 9: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** The Wood ***


I.

The Wood

 

Fade far away, dissolve, and quite forget
What thou among the leaves hast never known,
The weariness, the fever, and the fret
Here, where men sit and hear each other groan;
Where palsy shakes a few, sad, last gray hairs,
Where youth grows pale, and spectre-thin, and dies;
Where but to think is to be full of sorrow
And leaden-eyed despairs,
Where Beauty cannot keep her lustrous eyes,
Or new Love pine at them beyond to-morrow.

 

 

John era l’unico a non credere alle leggende, nel piccolo paesino dimenticato tra i monti.

Ma in quel momento, solo nel bel mezzo della Foresta la notte di venerdì diciassette, stava cominciando a ricredersi. La mano con cui reggeva la lanterna sudava copiosamente nonostante il vento freddo che gli si infilava maligno sotto il maglione mentre correva su un sentiero appena accennato, probabilmente una vecchia pista dei boscaioli che ora non osavano più addentrarsi nella Foresta.

Continuava a sentirsi osservato, ad avvertire un paio d’occhi puntati su di lui che sembravano seguirlo dal folto degli alberi, dal buio più profondo. John si arrestò, le suole consumate delle scarpe che scivolavano sul fango; era davanti ad un bivio, e si guardò intorno nel panico, il sangue che gli rombava nelle orecchie.

La Foresta pareva spiarlo in silenzio, solo le cicale continuavano imperterrite a frinire. 

C’erano due cartelli di fronte a lui, ma la vernice era troppo scrostata ed il legno talmente coperto di muschio che erano del tutto inutili. John provò comunque ad avvicinarsi, la lanterna sollevata sopra la testa, e strabuzzò gli occhi nel tentativo di decifrare almeno uno dei due cartelli. Per pochi minuti si era dimenticato della sensazione di essere spiato, ma in quel momento una risata beffarda gli giunse alle orecchie; pareva il gorgogliare di un fiume rabbioso, e John non riuscì a trattenere un grido.

«Chi è là?» domandò alzando la lanterna il più possibile, ma il cerchio di luce era sufficiente appena ad illuminargli i piedi, e la foresta intorno al sentiero rimase irrimediabilmente immersa in un’oscurità liquida.

La risata si ripeté, alle sue spalle questa volta. John si voltò di scatto, il cuore che gli martellava in gola e la lanterna che tremava nella sua mano.

Non c’era nessuno.

Poi i suoi piedi si misero in moto, quasi contro la sua volontà, e John si ritrovò ai margini dello stretto sentiero a guardare dritto nell’oscurità profonda. Ancora nessuno.

Nicholas aveva ragione, anche lui ora era terrorizzato da quella Foresta che pareva prendersi gioco di lui; ma non voleva dargliela vinta, e soprattutto non voleva che Sally lo ritenesse un pavido. Si fece coraggio, spostando la lanterna nell’altra mano e pulendosi quella sudata sulla coscia, e decise di dimenticare quella risata che probabilmente aveva solo immaginato.

Tornò lentamente al centro del sentiero, il cuore che si era finalmente calmato, e lanciò un’ultima occhiata al cartello prima di imboccare la strada a sinistra.

E per la terza volta, la risata simile al rombo di un fiume risuonò tra gli alberi silenziosi, ma John era troppo lontano per udirla.

 

Il ragazzo stava canticchiando a fior di labbra per tentare di riempire il silenzio innaturale che avvolgeva ogni cosa quando qualcosa gli si parò davanti, come sputato dal sottobosco nel bel mezzo del sentiero. John si immobilizzò, un rivolo di sudore gelido che gli scendeva lungo la curva della spina dorsale.

Fissava la figura ferma tra gli aghi di pino che formavano un tappeto sul sentiero, e quella ricambiò il suo sguardo; il ragazzo tirò un sospiro di sollievo quando si rese conto che era solo una lepre, che dopo averlo osservato con i baffi che fremevano si buttò nuovamente tra gli alberi, lasciandolo solo.

L’aria si era fatta più fredda, doveva ormai essere notte fonda, ma sotto la cupola formata dai rami contorti degli alberi secolari il tempo pareva essersi bloccato, giorno e notte si confondevano.

John riprese ad inoltrarsi nella Foresta: secondo la scommessa con Nicholas sarebbe dovuto uscire dal confine opposto rispetto a quello da cui era entrato, passando quindi per il centro della Foresta.

Le leggende che circolavano al villaggio narravano di un enorme albero dalla corteccia bianca come neve, al centro esatto della Foresta, e dalle foglie color blu notte; la leggenda continuava parlando anche dei frutti dell’albero, grandi pomi neri dall’interno scarlatto che avrebbero donato poteri straordinari a chiunque si fosse bagnato col loro succo.

Ma John continuava a non crederci, si era detto che l’unica cosa che poteva osservarlo di notte nella Foresta era un gufo, e che la risata doveva essere stata solo frutto della sua mente in balia del panico.

Il buio si faceva sempre più fitto intorno a lui, e allungava le sue dita all’interno del cerchio di luce che circondava John. Il ragazzo allungò lo stoppino della lanterna.

Gli alberi illuminati a tratti ai confini del sentiero si facevano sempre più fitti, ed i flebili suoni che avevano fino ad allora accompagnato John –il frinire delle cicale, gli occasionali bubolii dei gufi- erano scomparsi. Anche le foglie erano immobili, e John avanzava nel silenzio quasi totale, rotto solo dal suono ovattato dei suoi passi.

La Foresta pareva trattenere il respiro, come in attesa.

John faceva di tutto per evitare di pensare alle leggende che si sussurravano al villaggio, ma quelle continuavano a ronzargli in testa, insistenti; l’Albero aveva un guardiano unico nel suo genere, una creatura solitaria che aveva votato la sua esistenza immortale alla protezione di quell’albero, probabilmente antico quanto lui. Nessuno l’aveva mai realmente visto, ma si raccontava che fosse simile ad un dio dei boschi: aveva l’aspetto di un uomo alto, ma i suoi lineamenti si fondevano con quelli di un cervo; secondo chi l’aveva intravisto corna di cervo spuntavano dal suo cranio, il corpo era coperto da pelliccia chiara, maculata, e si muoveva senza far rumore nella Foresta, su piedi umani ma silenziosi come quelli di un cervo.

John deglutì, sentendo in gola il sapore acido della bile; sempre secondo le leggende il guardiano era una creatura crudele, priva dei sentimenti comuni agli uomini quali la compassione, e non mostrava pietà alcuna per chi sconfinava nel suo territorio e non era una creatura della Foresta. Uomini valorosi erano scomparsi nelle viscere della Foresta senza più fare ritorno, e anche se non c’erano prove tutti al villaggio erano intimamente convinti che fosse opera del guardiano.

John era perso nei suoi pensieri, e non aveva prestato attenzione a dove lo portavano i suoi piedi; si fermò, guardandosi attorno: gli alberi ai margini del sentiero si erano fatti via via sempre più imponenti, sempre più contorti, i rami protesi sul sentiero all’altezza della fronte di John, che si guardava intorno terrorizzato, la pozza di luce appena sufficiente ad illuminare in modo soffuso i tronchi tanto larghi che tre uomini non sarebbero riusciti a circondarli con le braccia.

Ma il particolare più grottesco di quegli alberi non era il loro tronco spropositato o i rami che si protendevano come dita adunche verso John quasi volessero straziargli la carne, ma il loro colore: la corteggia solcata da profonde scanalature era cinerea, e emanava un fioco calore lattiginoso nella luce calda della lanterna. Parevano organismi vivi, come le strane creature che si aggirano sul fondo dell’oceano e non hanno mai visto la luce del solo.

John si sentì all’improvviso incredibilmente solo, ed infreddolito, come se gli fossero stati strappati i vestiti da dosso. Eppure il suo maglione, la sua camicia, i suoi pantaloni erano ancora lì, così come le scarpe infangate. Ma lui aveva freddo, un freddo tremendo che pareva esserglisi insinuato fino alle ossa; prese a battere i denti, e posò in terra la lanterna per circondarsi con le braccia nel tentativo di scaldarsi. Aveva i muscoli stranamente indolenziti. Provò a battere i piedi in terra, con insistenza, ma niente: il freddo restava, e si faceva più intenso ogni momento.

Gli alberi di quel bianco così innaturale sembravano piegarsi su di lui, chiudere i loro rami attorno al ragazzo. Entrarono nel cerchio di luce della lanterna invadendo lo spazio che fino ad allora a John aveva considerato sicuro, impenetrabile.

Poi, la fiamma si spense con un guizzo.

John lanciò un grido, un soffio gelido che gli sfiorava la nuca, e si buttò alla cieca in mezzo agli alberi, cercando di farsi strada.

I rami lo graffiavano, l’oscurità riempiva gli occhi sgranati e il fango tentava di risucchiargli le scarpe.

Non vedeva nulla, correva alla cieca nella Foresta la notte di venerdì diciassette.

Poi tornò la risata, il gorgogliare del fiume impetuoso, e qualcosa prese ad inseguirlo: le fronde frusciavano al suo passaggio, i rami scricchiolavano sotto i suoi passi troppo veloci. Il ragazzo giurò di aver sentito qualcosa di morbido sfiorargli un orecchio, e la risata farsi onnipresente, diventando insopportabile; la sentiva rimbombarli in testa.

Era dietro di lui, John poteva ancora distanziarlo, ma un attimo dopo il ragazzo se lo trovò accanto: due occhi gelidi brillarono nel buio, e John scartò all’improvviso verso sinistra lanciando un urlo che rimbalzò furioso tra gli alberi, l’animo traboccante di terrore.

I rami si impigliavano al suo maglione pesante, ma John continuava a correre spinto dalla paura, i muscoli delle gambe in fiamme, la gola corrosa dalla bile; poi, all’improvviso, mise un piede in fallo, qualcosa si spezzò e sentì solo un colpo terribile alla nuca prima che il buio si facesse strada nei suoi occhi dilatati dal terrore.

 

Note dell'autrice 

La prima cosa che devo fare è ringraziare Sorting Hat che mi ha sopportato come una santa fin dall'inizio della mia ossessione per Fawnlock e che fa sempre da beta ad ogni cosa che scrivo, sia pure la lista della spesa. Grazie, davvero, per tutto e perché mi impedisci di bruciare nazioni innocenti. 

In origine quella che si è trasformata nella mia prima long era nata come OS dettata dalla follia di fangirl che lo scoprire Fawnlock aveva portato con sé (che, tra l'altro, è un'idea della geniale p a u la  che ringrazierò a vita, anche se non conosco), e questo non è che il primo capitolo...

Nient'altro da dire, per ora, grazie di nuovo e per sempre a Sorting Hat, sempre pronto a leggere i miei 200 messaggi su WhatsApp.


P.S.  La citazione ad inizio capitolo è presa da Ode to a Nightingale, di John Keats 

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Capitolo 2
*** Never Believed in Fairytales ***


II.

Never Believed in Fairytales

 

Your eyes are swallowing me
Mirrors start to whisper
Shadows start to sing
My skin's smothering me
Help me find a way to breathe
 
Time stood still
The way it did before

 

Qualcosa di umido e caldo gli scivolò lungo una guancia, risvegliandolo.

Un penetrante odore di resina gli si insinuò nelle narici.

John spalancò gli occhi, e dopo un iniziale momento di vuoto totale i ricordi della notte gli piombarono nuovamente addosso, lasciandolo senza fiato. Gemette, portandosi una mano alla tempia.

Qualcosa l’aveva inseguito, aveva riso di lui, e quel qualcosa aveva due occhi chiari, color del ghiaccio, e troppo umani per appartenere ad una qualche creatura della Foresta, per quanto strana questa potesse essere.

Per un attimo si chiese se non poteva essere stato il fantomatico guardiano quello che lo aveva inseguito, terrorizzandolo, ma scosse la testa, scacciando quel pensiero assurdo: il guardiano era solo una leggenda, adatta a creduloni e bambini amanti delle favole.

Ora doveva solo uscire dalla Foresta il prima possibile.

Tentò di muoversi, e solo allora si rese conto di dove si trovava: era sospeso ad un paio di metri da terra, intrappolato in una rete, probabilmente una vecchia trappola dimenticata da qualche cacciatore.

Intorno a lui la Foresta era ancora immersa nel buio e nel silenzio, ma i colori stavano lentamente virando ai toni del grigio: l’alba non doveva essere lontana.

Un gufo lanciò un grido, lontano.

Il ragazzo si agitò a disagio, pensando a come avrebbe fatto a liberarsi e soprattutto a tornare a casa; la sua caviglia destra pulsava dolorosamente, e John si contorse tentando di togliersi la scarpa nel poco spazio a disposizione. Riuscì a sfilarsela, rivelando una caviglia piuttosto gonfia ed arrossata.

Imprecò sottovoce. «Maledizione, tutte a me capitano. E di sicuro nessuno avrà il coraggio di venire a cercarmi qua dentro; sarò classificato come l’ennesima vittima del guardiano e mi dimenticheranno…» borbottò sottovoce John, tornando ad infilarsi la scarpa consumata.

«Il guardiano, bah, che idiozia…» sputò rigirandosi, le corde spesse che gli graffiavano la pelle; il maglione era strappato e sollevato fino a metà della sua schiena, ed il ragazzo si affrettò a coprirsi, tentando di scacciare un po’ del gelo che ancora lo tormentava.

«Oh davvero, umano

La voce era soffice alle sue orecchie, ma al contempo gelida e dura; John lanciò l’ennesimo grido, e si guardò freneticamente intorno.

Due occhi lo spiavano da uno buco nella rete, due occhi chiari e gelidi che parevano due gemme di ghiaccio incastonate in un volto straordinario: uno dei due era circondato da una grande macchia scura, color dell’ebano, colore che compariva anche sotto forma di lievi lentiggini sul naso e sugli zigomi pronunciati della sorprendente creatura. John non riusciva a vedere molto nella luce incerta degli ultimi strascichi della notte, ma quel volto senza età insieme umano e bestiale gli incuteva un timore ancestrale che gli stringeva il cuore e mandava in confusione la mente.

Non riusciva a distogliere gli occhi da quel viso che, quasi contro la sua stessa volontà, trovava semplicemente perfetto.

La creatura fuori dalla trappola si mosse, ed il ragazzo si rese conto che era completamente coperta di pelliccia chiara, sui toni caldi del marrone, da quello che riusciva ad intravedere nella luce incerta.

Un profumo di resina spaventosamente forte lo stordì quando la creatura infilò la tesa nella rete, avvicinando un naso nero e fremente da cervo alla sua fronte; lentamente, lo annusò. Poi le labbra dalla forma insolita, quasi fossero state tagliate nel mezzo, si dischiusero appena, e con un guizzo una lingua rossa lo sfiorò tracciando una scia calda sulla sua pelle.

John gemette, forse per il disgusto, forse per il sussulto doloroso ed inspiegabile che il suo cuore aveva avuto.

La creatura gli lanciò un ultimo sguardo indecifrabile prima di tirare la testa nuovamente fuori dalla trappola.

John si accorse solo allora delle corte corna da cerbiatto che nascevano tra una massa scarmigliata di ricci, da cui spuntavano anche foglie e bacche turgide, color rosso scarlatto, bianco e anche blu scuro, tendente al viola.

«Tu non hai paura» disse, dopo lunghi minuti di silenzio, la creatura; la sua voce come la sua risata evocò in John l’immagine di un fiume tempestoso, dalle acque scure. Non gli aveva posto una domanda, era una semplice constatazione.

Ed in quel momento John si rese conto che aveva ragione, non aveva più alcuna paura. Era solo curioso di sapere qualcosa di più sulla creatura che si aggirava silenziosa sotto di lui, nascosta alla sua vista.

Probabilmente mi ucciderà, pensò John con gelida calma, stupendo anche sé stesso; ma una parte della sua mente gli diceva che era fortunato ad aver vissuto fino a quel momento.

Quando si voltò gli occhi erano di nuovo lì, e lo scrutavano beffardi.

«Sei un maschio di umano, vero? Vi osservo, voi insulse creature spaventate dal mio regno, mentre vivete le vostre brevi vite e vi spegnete senza lasciare che una lieve traccia su questo mondo. Ma tu… perché non hai avuto paura del mio regno, di me, almeno fino a stanotte?» Aveva parlato quasi senza prendere fiato con voce roca, gli occhi che brillavano come se fossero illuminati dall’interno del cranio, e ora lo fissava immobile; esigeva una risposta, ma John non era tipo da sottomettersi a chiunque, forse era testardo, o forse era solo stupido. Ma decise di sfidare quella creatura straordinaria.

«Qual è il tuo nome?» domandò evitando deliberatamente le domande del guardiano. Quello storse impercettibilmente il naso, gli occhi che si oscuravano: evidentemente era abituato a farsi ubbidire.

«La tua insulsa bocca umana non è in grado di pronunciare il mio vero nome così come è pronunciato nella lingua degli alberi, ma Fawnlock mi chiamano i tuoi simili» rispose il guardiano socchiudendo gli occhi con disprezzo.

«Ma ora rispondimi, umano, perché non hai paura di me?»

John si strofinò il naso, sistemandosi nella rete per guardare in faccia la creatura che attendeva una risposta.

Non mostrava emozione alcuna sul volto dai lineamenti marcati.

«Non ho mai creduto alle favole» rispose John.

Inaspettatamente, Fawnlock scoppiò a ridere, e la rete tremò sotto la sua presa mentre la risata simile ad un rombo pareva riempire prima le orecchie di John, poi la sua mente ed infine l’intera foresta; al ragazzo sembrò bellissima, quasi una melodia sovrannaturale.

Quando questa s’interruppe all’improvviso, lui si riscosse.

«Tu vuoi uccidermi, vero?» domandò John all’improvviso prima che potesse frenare le parole che gli erano salite alle labbra. Parlò con una calma innaturale, fuori posto, come se stesse discutendo del tempo.

Di nuovo, Fawnlock infilò con grazia la testa scarmigliata nella rete, riempiendo lo spazio angusto con il suo profumo ferale, velato del sentore pungente della resina. I suoi occhi erano enormi visti così da vicino, e per un attimo John temette che vi sarebbe sprofondato dentro; sembravano in grado di congelarlo all’istante, di gelarlo nel profondo.

Ma il guardiano si limitò a sorridere maliziosamente, facendo comparire una fossetta ai lati di quella bocca tanto inusuale; John la trovò una cosa talmente umana da far quasi sparire lo strano miscuglio di sensazioni che si agitavano nel suo stomaco.

Poi però la lingua rossa della creatura saettò nuovamente fuori dalle labbra, sfiorandolo su una guancia, e John si ritrasse, di nuovo a disagio.

«E perché mai dovrei?» sussurrò, la voce bassa e roca carica di malizia e di allusioni appena celate, talmente meravigliosa da far scivolare –come un dito caldo e morbido- un lungo brivido di piacere lungo la schiena graffiata di John. Si sentiva ammaliato, era consapevole dell’attrazione che quella creatura protagonista di leggende esercitava su di lui, e stranamente non ne era per nulla spaventato.

Anzi, era quasi lusingato.

«Ti ho catturato per un motivo», continuò Fawnlock scomparendo momentaneamente, per poi riaffacciarsi da lato opposto della rete, a testa in giù.

John si chiese come potesse affacciarsi alla trappola, che era probabilmente sospesa a qualche metro dal terreno, ma in quel momento Fawnlock riprese a parlare: «Voglio tenerti qui con me, la foresta è noiosa dopo qualche millennio… Gli scoiattoli non sono abili a conversare, né tantomeno i conigli. E tu sembravi più intelligente dei tuoi simili, e notevolmente più interessante» continuò infilando un braccio nella rete, fino a sfiorargli le labbra con due dita; poi le toccò con violenza, facendo gemere John, che strizzò gli occhi tentando di sottrarsi a quel tocco invasivo. Fawnlock ridacchiò, un suono simile al tonfo che un sasso fa cadendo in acqua, e ritrasse la mano dalle dita lunghe e scure, color ebano.

Il sole era finalmente sorto, e filtrava attraverso i capelli ricci e scarmigliati di Fawnlock che penzolavano sotto la sua testa; finalmente John vide che erano rossicci, screziati dello stesso color ebano che ritornava nelle macchie sparse per il corpo sottile della creatura, e sulle sue dita aggraziate; il resto della pelliccia era color caramello, con riflessi dorati sotto il sole del primo mattino.

John continuava a pensare che fosse bellissimo, anche se la parte razionale della sua mente gli ricordava che l’aveva appeso in una rete dopo averlo spaventato a morte per tutta la notte. Ed inoltre, lo aveva ritenuto una leggenda solo fino a poche ore prima.

Solo in quel momento, John assimilò completamente ciò che Fawnlock gli aveva rivelato; sgranò gli occhi, puntandoli in quelli indecifrabili della creatura appesa a testa in giù fuori dalla sua prigione.

«Intendi dire che dovrò rimanere qui per sempre?» mormorò, la gola secca ed il cuore che perdeva un battito.

Fawnlock tirò su col naso, inclinando la testa da una parte.

«Oh no, certo che no, non per sempre;» rispose infine. «solo fino alla tua morte.»

 

 

Note dell'autrice

Poi non vi romperò più fino alla fine della storia, lo giuro. 

Volevo solo dire che cercherò di aggiornare il più regolarmente possibile, ogni due/tre giorni al massimo salvo imprevisti, e soprattutto ringraziare chiunque abbia letto la mia storia -dico a voi lettori silenziosi- e Ciajka per aver recensito. 

Ci vediamo all'ultimo capitolo

 

Sleepwalking, Bring Me the Horizon 

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Capitolo 3
*** Feral Scent ***


III.

Feral Scent

 

Don’t let me go
‘Cause I’m tired of feeling alone

 

Pioveva. Anzi, diluviava. La pioggia fine si schiantava sulle foglie, sui rami degli alberi, riempiendo la mente di John col suo incessante martellare; copriva tutto di una sottile patina liquida, ed ogni cosa pareva brillare di luce propria nella luce della prima mattina.

La pioggia aveva infradiciato anche Fawnlock, che non sembrava però curarsene troppo: John seguiva i suoi movimenti dall’angolo riparato dove si era seduto, le ginocchia strette al petto nel tentativo di conservare un minimo di calore corporeo. La pelliccia di Fawnlock si era scurita, tingendosi di oro scuro, e le macchie color ebano che gli adornavano il corpo snello erano diventate quasi nere; i capelli ricci erano fradici, appiccicati alla sua fronte dalla pioggia incessante, e le sfumature che a John erano sembrate così belle alla luce sanguinea del sole all’alba erano stinte in un uniforme colorito castano scuro.

John non poteva fare a meno di tenere i suoi occhi fissi su quella creatura che aveva creduto leggenda fino a poche ore prima, di seguire i movimenti aggraziati del corpo perfettamente modellato dalla pelliccia fradicia che aderiva ai muscoli sottili, in continuo movimento sotto la pelle mentre il guardiano raccoglieva enormi rami spezzati per accendere il fuoco.

Le nuvole correvano veloci sopra le loro teste, ed in breve sembrarono risucchiare tutti i colori della radura, lasciando John e Fawnlock in una penombra grigio-verdastra.

Gli occhi del ragazzo abbandonarono le movenze silenziose del guardiano per tornare sul grande tronco lattiginoso al centro esatto dello spiazzo erboso.

«È l’albero di cui parlano tutte le leggende, quello coi frutti magici?» La caviglia gli faceva ancora male, ma perlomeno Fawnlock l’aveva districato dalla trappola; e solo allora si era reso conto di cosa sorgeva nel bel mezzo della radura.

Illuminato dalla luce scarlatta dell’alba pareva un comune albero secolare, un platano forse, dalla corteccia molto chiara; ma appena il sole era stato abbastanza alto e le ombre della notte erano tornate ad acquattarsi nei loro angoli, a John era mancata l’aria nei polmoni.

Si era ritrovato a fissare un enorme tronco dalla corteccia color del latte, solcata da scanalature infinite, e da cui nascevano rami larghi ad occhio e croce come la sua vita, che si intrecciavano tra di loro al di sopra della radura e le cui ombre creavano disegni fantastici sul tappeto d’erba ai piedi di John.

Ma ad una seconda occhiata i rami apparivano secchi, e la maggioranza delle foglie blu notte che un tempo dovevano aver adornato quel legno maestoso formavano ora una corolla morta tra le sue radici, e dei leggendari pomi non vi era nemmeno l’ombra.

«Sì,» aveva risposto Fawnlock, il volto rivolto alla cupola cinerea punteggiata dal blu notte delle sparute foglie ancora attaccati ai rami sopra di loro, gli occhi fieri velati di una tristezza ancestrale e terribilmente profonda, talmente tanto da toccare l’animo di John e da farlo sentire come se stesse interrompendo un momento incredibilmente intimo. «ed ora sta morendo.»

John non aveva saputo cosa replicare; la voce della creatura leggendaria al suo fianco era così piena di tristezza che qualunque cosa fosse uscita dalla sua bocca di umano gli sarebbe sembrata fuori posto, troppo piccola per compensare anche in minima parte un dolore così grande.

Aveva tirato su col naso, fissandosi in silenzio le punte consunte delle scarpe finché non aveva avvertito due occhi scrutarlo, e si era voltato; Fawnlock lo osservava con espressione indecifrabile, la schiena curva per abbassarsi alla sua modesta altezza –il guardiano lo superava infatti di tutta la testa e le spalle, ed inaspettatamente un sorriso aveva curvato quelle labbra dalla forma così bizzarra.

«Sei una strana creatura, John Watson, e mi piaci per questo.»

John non si era chiesto come facesse a sapere il suo nome, aveva smesso di farsi domande da un po’. Si era rimproverato più volte per quell’attimo in cui aveva mostrato qualcosa di simile alla compassione nei confronti di quella creatura che lo aveva catturato ed ora si scaldava le mani al fuoco che aveva acceso tra le radici dell’albero mastodontico; esili scie di fumo si levavano dalla pelliccia umida, e John si limitò a stringersi le ginocchia al petto, affondandovi maggiormente il mento. Non si sarebbe avvicinato a quel fuoco per nulla al mondo, anche a costo di morire assiderato.

Fawnlock dal canto suo si limitava a lanciargli occhiate maliziose dal ceppo su cui era seduto, le lunghe gambe incrociate sotto di lui; lungo il suo addome scendeva una linea di scarmigliati peli neri, che si infittivano dove le gambe sottili si congiungevano al busto. John spostò in fretta lo sguardo, imbarazzato ed insieme furioso con sé stesso per aver mostrato tanta attenzione a quel corpo, maschile per di più.

Sentiva le guance ardergli per la rabbia, e la risatina beffarda che gli giunse alle orecchie –segno che il guardiano aveva notato dove l’attenzione del ragazzo si era concentrata- non fece altro che farlo infuriare ancora di più.

Serrò la mascella, guardando l’erba fradicia ed incolta alla sua destra nel tentativo di non pensare alla situazione in cui era finito; dopo averlo liberato dalla trappola Fawnlock non l’aveva legato o simili, e si era limitato a rispondere con un sorriso beffardo quando il ragazzo aveva osservato che sarebbe potuto scappare in ogni momento.

«Non lo farai» aveva affermato il guardiano sogghignando, le braccia incrociate sul petto cosparso da macchie scure, ed una luce ironica a brillargli negli occhi.

John aveva alzato il mento con aria di sfida, più per cercare di annullare la differenza d’altezza che per altro, e «Tu che ne sai?» aveva replicato tentando di non mangiarsi la parole.

La luce negli occhi di Fawnlock era improvvisamente diventata gelida, come se l’inverno fosse arrivato in anticipo per quella creatura senza tempo. «Lo so e basta, umano.»

Umano. John seppellì con rabbia le unghie nella carne del palmo, fissando con astio l’erba scossa dal vento al suo fianco come se cercasse di incenerirla.

Stava ancora rimuginando sulle parole del guardiano, su cosa intendesse dicendo che lui non sarebbe scappato e basta quando qualcosa gli picchiettò dolcemente su una spalla. Il ragazzo sentì il cuore accelerare i battiti, e tutto ciò che aveva provato nel corso della notte precedente –terrore, ansia, panico- si riversarono nuovamente su di lui, amplificate. Si voltò di scatto, respirando affannosamente, i nervi tesi; nessuno. Alle sue spalle c’era solo la Foresta a ricambiare il suo sguardo.

Colto da un pensiero improvviso, si voltò verso Fawnlock, appollaiato sul suo ceppo d’albero; i contorni della figura sottile erano resi incerti dalla pioggia sempre più fitta, e John dovette strizzare gli occhi per accertarsi che ci fosse davvero qualcuno su quel ceppo marcio, le ginocchia strette al petto e lo sguardo che pareva rapito dalle fiamme che divampavano sotto il mastodontico albero.

Di nuovo, mentre lui era distratto dal guardiano, qualcosa gli toccò la spalla, ma con maggiore insistenza.

Ma quando John tornò a voltarsi, non c’era nessuno.

Sbuffò sonoramente, corrugando le sopracciglia, e tornò a pensare come sarebbe potuto sfuggire alla sorveglianza del guardiano e tornare al villaggio possibilmente senza perdersi nella Foresta. Si sistemò meglio sul suolo duro, stringendosi le ginocchia al petto ed afferrandosi con forza i polsi; ma quando si voltò nuovamente in direzione dell’albero cinereo, trovò un paio d’occhi gelidi ad aspettarlo a pochi centimetri dal suo volto corrucciato.

Sussultò, e Fawnlock ridacchiò in risposta. Il guardiano era a quattro zampe sull’erba fradicia, il viso coperto di pelliccia umida talmente vicino al suo che John poteva osservare le narici dilatarsi ad ogni respiro, che puntualmente si infrangeva contro la sua pelle. Il corpo sottile di Fawnlock si tese lentamente verso di lui, ed il profumo ferale della creatura sovrastò tutto il resto.

John indietreggiò, ma Fawnlock era decisamente più rapido, ed in un attimo costrinse il ragazzo con la schiena contro il tronco dell’albero sotto il quale si era riparato, lanciandogli sguardi maliziosi mentre si mordeva il labbro inferiore.

«Stammi lontano» protestò John tra i denti, tendendo il collo nel tentativo di tenere il suo viso lontano dalla portata dell’altro. Fawnlock si fece più vicino, sfiorando l’incavo del collo del ragazzo con il naso umido, cosa che fece gemere disperato John.

«Perché ti ostini a rimanere sotto quest’albero, al freddo? Morire assiderato è la tua personale vendetta contro di me?» mormorò ignorando la domanda dell’altro e nel contempo cercando i suoi occhi con quelle gemme di ghiaccio che mettevano John tanto in soggezione.

Il ragazzo s’infuriò ancora di più, perché quella creatura sovrannaturale sembrava capirlo perfettamente nonostante si “conoscessero” solo da poche ore. Decise di rimanere in silenzio.

Dopo averlo spiato da sotto le ciglia per un po’, un sorriso appena accennato si fece strada sulle labbra piene di Fawnlock, che con un movimento rapido tuffò la testa scarmigliata e grondante di pioggia nell’incavo del collo di John. Uno dei due corti corni che nascevano da quell’ammasso disordinato di ricci sfiorò lo zigomo del ragazzo, che era rimasto senza fiato a quel gesto così strano.

Sentì un denso rossore farglisi strada sulle guance.

Fawnlock rimase immobile, gli occhi chiusi, perso in quell’abbraccio così freddo che sapeva di sapone da bucato, resina e qualcos’altro, qualcosa di buono. L’odore di John, si ritrovò a pensare, ed inspirò più a fondo mentre portava una mano sulla schiena del ragazzo, stringendo il maglione nel pugno per tenere quel corpo caldo il più vicino possibile. Quel ragazzo aveva un odore diverso da tutti gli altri umani che aveva incontrato, migliore, non voleva che se ne andasse e portasse con sé il suo profumo.

Era una creatura egoista, Fawnlock, infantile, che aveva sempre conosciuto una vita fatta di sola solitudine; ed ora quel ragazzo dall’odore così inebriante, diverso, e dagli occhi troppo blu sconfinava nel suo territorio in piena notte, e aveva fatto scattare qualcosa in lui, qualcosa diverso da una rabbia ancestrale ed ingiustificata, per una volta.

Non voleva che John Watson lasciasse la sua radura, non voleva più conoscere la solitudine.

Ma quell’abbraccio gelido si concluse troppo in fretta; John staccò rudemente quella strana e leggendaria creatura dal suo collo, affondando per la prima volta della corta pelliccia del costato di Fawnlock e spingendolo lontano dal suo corpo in subbuglio; il suo odore ferale e selvaggio gli aveva dato alla testa, ed il ragazzo si sentiva quasi ubriaco.

«Stammi lontano, per favore non toccarmi» si ritrovò a dire con tono quasi di supplica, le guance e le orecchie in fiamme.

Fawnlock fu rapido a nascondere il lampo di delusione che baluginò nei suoi occhi azzurri, ma John parve notarlo comunque, ed i suoi zigomi si colorarono ancora di più di un adorabile rosso scarlatto.

«Okay» esordì la creatura mettendosi in ginocchio. John si costrinse a tenere lo sguardo fisso sulle sue mani serrate, per non osservare il movimento dei muscoli nel corpo statuario a pochissima distanza da lui.

Fawnlock si era rizzato in piedi, e lo squadrava con sguardo glaciale dalla sua altezza impressionante. «Okay,» ripeté. «come se avessi acceso quel fuoco per te» concluse con freddezza mentre tornava ad immergersi sotto la pioggia, le ampie spalle chine come sotto un peso insopportabile, e le scapole tanto sporgenti che sembravano sul punto di bucare la pelliccia color caramello nuovamente fradicia.

Ma John si disse che si era probabilmente immaginato tutto, poiché la pioggia fitta confondeva la visuale del mondo al di fuori di quella piccola bolla creatasi sotto le fronde del suo albero ai confini della radura.

 

 

Don't let me go, Sam McCarthy & Harry Styles

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Capitolo 4
*** Farewell ***


IV.

Farewell 


Adieu! adieu! thy plaintive anthem fades
Past the near meadows, over the still stream,
Up the hill-side; and now ‘tis buried deep
In the next valley-glades

 

«Nicholas, ti prego» implorò per l’ennesima volta Sally, seguendo il fratello in giro per casa.

Il ragazzo sbuffò esasperato, passandosi una mano tra i capelli mentre apriva e chiudeva di schianto gli armadietti della cucina. Si bloccò per un attimo, le mani sui fianchi e gli occhi persi a contemplare il vuoto, e sua sorella tornò all’attacco. «Sono due giorni che è scomparso, cosa ti costa andare a vedere con un gruppo dei tuoi?»

Finalmente Nicholas si degnò di voltarsi verso di lei, regalandole uno sguardo carico d’ironia. «Proprio tu mi chiedi di addentrarmi nella Foresta?» domandò avvicinandosi a Sally, costringendola ad indietreggiare. Scorgeva una furia ingiustificata negli occhi del ragazzo massiccio dagli ispidi capelli neri. «Tu che da quando Gerard non ha più fatto ritorno quasi te la fai addosso al solo sentir nominare la Foresta?!» continuò tornando ad aprire gli sportelli dei mobili di legno della cucina, alla ricerca di qualcosa.

Sally si abbandonò contro il tavolo alle sue spalle, fissando sconsolata le spalle bruciate dal sole del fratello, ora intento a frugare nel frigorifero.

«È proprio per questo che te lo sto chiedendo» ritentò staccandosi dal tavolo e posando con leggerezza una mano sul bicipite del ragazzo. «Non voglio che ci sia un secondo Gerard…» concluse abbassando gli occhi e avvertendo le guance colorarsi di rosso.

Nicholas smise di frugare nel frigo, alzandosi e voltandosi poi verso la minuscola sorella. La osservò per un momento, gli occhi castani sgranati ed imploranti, e poi sospirò, tentando di nascondere il sorriso pieno di dolcezza che si faceva strada sulle sue labbra.

«Okay principessa, vieni qui» mormorò allargando le braccia ed invitandola ad accoccolarsi contro il suo petto massiccio; Sally sorrise, buttandosi addosso al fratello ed allacciando le braccia dietro al collo del ragazzo. Nicholas la strinse a sé, sospirando mentre si dondolava lentamente sui talloni nella cucina minuscola. «Io e i ragazzi andremo a vedere domani pomeriggio, ma se prima di mezzanotte non troviamo nulla non chiedermelo più» le disse dopo un attimo di silenzio, allontanando la testa bionda della sorella dalla sua spalla. Lei lo guardò negli occhi a lungo, poi annuì lentamente.

Di nuovo Nicholas la avvicinò a sé, incrociando le braccia dietro la sua schiena e posando il mento tra i suoi capelli.

«Non so davvero cosa ci trovi in Watson.»

 

Fu l'odore di fumo a svegliare Fawnlock, ancora prima delle grida.

Si rizzò a sedere nella biforcazione principale del tronco pallido che aveva adibito a suo giaciglio, le orecchie che fremevano e le nari dilatate, come le pupille liquide. Si guardò intorno nell'oscurità vischiosa della notte più profonda, aiutato dal debole bagliore del fuoco che ancora ardeva al suolo, accanto all'umano. John.

E di nuovo sentì le grida, portate dal vento insieme al sentore acre del fumo; si decise ad alzarsi, e percorse con eleganza uno dei rami principali per circa metà della sua lunghezza, lasciandosi poi cadere nel vuoto e atterrando senza un suono dieci metri più sotto, accanto al giaciglio dell'umano. John.

Sapeva che venivano per lui, probabilmente era stato lo stesso John a chiamarli, anche se Fawnlock non riusciva a pensare come; un sentimento di profonda collera si impadronì di lui mentre si avvicinava con grazia al corpo addormentato di John e si tratteneva a stento dal sfracellargli la testa a mani nude, come aveva fatto con molti umani prima di lui.

Ma si trattenne, chinandosi sulla figura rannicchiata illuminata a stento dalle fiamme.

Le urla raggiunsero nuovamente le sue orecchie all'erta, e Fawnlock si affrettò a chiudere tra le lunghe dita il maglione del ragazzo, scuotendolo con forza.

John si svegliò con un sussulto, e per un attimo a Fawnlock parve che i suoi occhi fossero diventati neri, illuminati a stento dal fuoco morente, ma poi le iridi tornarono ad ingoiare la pupilla e si fissarono sul volto del guardiano.

Fawnlock sapeva che l'umano non poteva vederlo in faccia per il fuoco che andava spegnendosi alle sue spalle, e non fece quindi nulla per mascherare l'espressione furibonda che gli distorceva i lineamenti perfetti.

«Vattene», ringhiò a pochi centimetri dal volto spaventato, sbuffandogli in faccia come un animale infuriato.

John era intontito e ancora in dormiveglia, e non riusciva ad afferrare cosa gli stesse dicendo con tono carico di rabbia la strana creatura china su di lui.

«Ti ho detto di andartene, non devono trovarlo!» continuò Fawnlock scuotendo il ragazzo con più forza, finché quello non si mise a sedere e gli staccò le mani dal suo maglione.

Fawnlock lo ignorò e tornò a stringere la presa sulla lana.

«Piantala, di cosa stai parlando?»

Aveva ancora la voce impastata dal sonno, l'umano, e lo guardava risentito come se lo stesse rimproverando per aver interrotto il suo riposo.

Fawnlock sbuffò, il respiro caldo che formava una scia bianca appena uscito dalle sue narici, e si avvicinò maggiormente a John, puntando i suoi occhi di ghiaccio in quelli ancora assonnati dell'altro. Strinse la presa sul maglione del ragazzo, strattonandolo più vicino a lui e facendo quasi sfiorare i loro nasi.

«Ci sono degli umani, nella Foresta, e so che stanno venendo per te; non so come hai fatto a chiamarli, ma devi andartene, non devono trovare la radura!» sputò Fawnlock tutto d'un fiato, la mano stretta al maglione che tremava per la rabbia. John continuava a esitare, confuso; come avevano fatto a trovarlo? Nessuno entrava mai nella Foresta, e di sicuro nessuno l'avrebbe fatto per lui.

Ma in quel momento si accorse dell'odore di fumo che aleggiava su tutto come un velo, e colse una scintilla di disperazione negli occhi infuriati del guardiano.

Scrutò per un momento quei due pozzi di ghiaccio cercando l'emozione quasi umana che gli era sembrato di scorgere, ma era scomparsa.

Finalmente si alzò, e la presa di Fawnlock scivolò via dal suo maglione; la creatura continuava a fissarlo, ancora inginocchiata alla luce del fuoco morente.

«Vattene, e non tornare mai più», ripeté di nuovo, quasi supplicandolo, le mani abbandonate in grembo e la testa appena reclinata per guardare John negli occhi, con uno sguardo ancora fiero e selvaggio, nonostante quello che il ragazzo aveva pensato di avervi visto; John si ritrovò a pensare che era la prima volta che sovrastava il guardiano in altezza, prima di voltarsi e sparire dal cerchio di luce del fuoco.

«Addio» mormorò Fawnlock alla sagoma che spariva velocemente nell'oscurità intrappolata tra gli alberi.

 

«Diciamocelo Nicholas, non lo troveremo mai; probabilmente il Guardiano sta finendo di spolpare le sue ossa proprio ora», borbottò Daniel sputando in terra. Il sole era appena calato, ed i taglialegna si erano fermati ad un bivio del sentiero per accendere le torce.

Nicholas lo ignorò mentre avvicinava un fiammifero acceso allo straccio imbevuto di liquido infiammabile che avvolgeva la sommità della torcia. La stoffa prese fuoco ed il ragazzo la alzò sopra la testa, lanciando uno sguardo duro alle figure che lo circondavano.

Nicholas aveva appena venticinque anni, ma era già a capo di una delle squadre di taglialegna che si avventuravano periodicamente nella Foresta per strapparle qualche tonnellata di legno per tenere al caldo il villaggio, almeno per un altro inverno. Di solito i ragazzi lo ascoltavano e rispettavano le sue decisioni, ma questa volta in pochi lo avevano seguito senza esitare: a nessuno piaceva inoltrarsi troppo nella Foresta, soprattutto per restarci fino a mezzanotte.

«Piantala Daniel, se sei troppo cagasotto per fare una passeggiata tra due alberelli ti basta voltarti e seguire il sentiero fino a mammina. Da solo» concluse alzando il mento con aria di sfida prima di voltarsi ed imboccare il sentiero a destra. Gli altri ragazzi si guardarono esitanti l’un l’altro prima di seguirlo in silenzio.

Daniel esitò ancora, ma quando la luce calda delle torce del resto del gruppo sparì dietro una curva, si affrettò a raggiungerli.

Con poche energiche falcate raggiunse Nicholas in testa al gruppo; il ragazzo procedeva spedito chiamando a gran voce il nome di John e scostando con frustrazione i rami più bassi che lo frustavano in viso.

«Perché non diamo semplicemente fuoco alla Foresta? Così facciamo anche fuori il Guardiano e-»

La mano aperta di Nicholas lo colpì duramente alla nuca, con uno schiocco; Daniel lanciò un grido e lo guardò risentito tastandosi la zona dolorante.

«Perché magari John è ferito da qualche parte, e dando fuoco alla Foresta potremmo ucciderlo; e poi dove andremmo a fare legna, idiota?» gli abbaiò dietro Nicholas mentre lo spingeva a rimettersi in marci sul sentiero che andava via via restringendosi. Ma dopo un centinaio di metri, si fermò improvvisamente, ed afferrò Daniel per un braccio.

«Forse non era un’idea così malvagia, ma ha bisogno di un paio di modifiche; torna indietro con Dean e Matt alla radura che abbiamo incontrato poco tempo fa ed inizia a ripulirne il suolo…»

Lasciò andare il braccio di Daniel e si voltò verso un altro dei ragazzi, alto e coi capelli scuri; gli fece cenno col capo di seguire i tre che si allontanavano. «Tu ed Arthur seguiteli e iniziate a raccogliere abbastanza legna per fare una catasta; soprattutto legno verde, ci serve che faccia parecchio fumo. Aspettate che ve lo dica io prima di darle fuoco!» gli urlò dietro mentre si allontanavano. Senza la luce di cinque torce la Foresta pareva premere da ogni lato del campo visivo di Nicholas, ma il ragazzo si fece coraggio e continuò ad avanzare sul sentiero.

Dopo un centinaio di metri nel silenzio più totale Jack, uno degli ultimi quattro ragazzi rimasti, si fece coraggio e raggiunse il ragazzo massiccio che avanzava alla testa del gruppo. «Hai in mente un piano, Nick?» gli chiese ansimando nel tentativo di mantenere la sua andatura. Nicholas gli lanciò uno sguardo prima di rallentare.

«Voglio far uscire quella bestia dalla sua tana e salvare quell’idiota di Watson, con le buone o con le cattive.»



Note dell'autrice 

Solo un breve commento per ringraziare di cuore chi continua a leggere la mia storia, chi l'ha messa tra preferite, seguite o ricordate, chi semplicemente legge in silenzio e chi recensisce ogni nuovo capitolo; grazie, grazie mille davvero. Ci vediamo al prossimo capitolo, 

Aelian 


Ode to a Nightingale, John Keats

 

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Capitolo 5
*** Rescue ***


V.

Rescue

 

Dancing all alone
To the sound of an enemy's song
I'll be lost until you find me

 

John non sapeva da quanto vagava ormai, ma il fumo si faceva sempre più denso attorno a lui; più volte gli era parso di sentire il suo nome portato dal vento, ma più lo rincorreva e più quello sembrava allontanarsi.

Non era servito a nulla tentare di tornare alla radura, pareva essere scomparsa non appena aveva varcato i suoi confini ed aveva sorpassato la prima linea d’alberi. Si lasciò cadere con un sospiro tra le radici di un grosso albero, appoggiando la testa contro il tronco duro. Il fumo allungava i suoi tentacoli sottili tra i rami massicci, grondanti di muschio, e John sentiva il panico montargli lentamente nelle viscere; probabilmente una parte della Foresta era in fiamme, e presto si sarebbe interamente trasformata in una prigione rovente.

John non sapeva cosa fare, sapeva solo che doveva uscire da lì; se Fawnlock aveva ragione –e probabilmente era così- c’era qualcuno che lo cercava tra quegli alberi immobili. Questo pensiero gli infuse un po’ di coraggio, e si tirò nuovamente in piedi deciso a scappare da lì.

Respirando profondamente, tentò di pensare con lucidità: seguendo il muschio che si arrampicava sui tronchi poteva stabilire quale fosse il nord, e prima o poi sarebbe uscito. Secondo i suoi calcoli sarebbe sbucato dalle parti dell’enorme fattoria di Tom, e da lì tornare al suo villaggio era una pura formalità.

Rincuorato, riprese a camminare.

 

Alberi. Solo alberi e ancora alberi ovunque intorno a lui, tronchi che non accennavano minimamente a diradarsi, ed il fumo sembrava riempire ogni spazio disponibile tra loro. John aveva iniziato a tossire sempre più frequentemente, e temeva di essersi perso anche se non voleva ammetterlo con sé stesso.

Si fermò contro un albero totalmente identico alle centinaia di suo fratelli, e trattenne a stento le lacrime di frustrazione. Per colpa di una stupida scommessa sarebbe probabilmente morto arrostito nella foresta più grande e spaventosa della regione.

Una fine alquanto idiota, si disse.

Si lasciò scivolare lungo il tronco, sedendosi sul terreno coperto di foglie marce. Non aveva la minima idea di quanto tempo avesse sprecato vagando, potevano essere state ore così come minuti; neppure il minimo raggio di sole riusciva a perforare la cupola verde di rami contorti sopra la sua testa, ed il fumo sempre più abbondante rendeva solo tutto più confuso.

Calde lacrime silenziose presero a rigargli le guance mentre si prendeva il viso tra le mani, pregando solo che il fuoco lo divorasse in fretta. Si era arreso, e desiderava solo dormire a lungo e senza sognare, ma un rumore fastidioso glielo impediva; un fruscio quasi continuo, unico suono nel silenzio ovattato, gli si intrufolava nelle orecchie.

Sbattendo le palpebre nel tentativo di disperdere le lacrime, si guardò intorno.

Il fumo lo accecava, e gli imponenti tronchi che lo circondavano da ogni lato non erano altro che sagome confuse; ma una di quelle figure si muoveva un po’ troppo, a scatti, scomparendo ogni tanto dietro un’ombra.

John. Il ragazzo si drizzò a sedere; aveva davvero sentito il suo nome?

Scattò in piedi, guardandosi freneticamente intorno. Magari chi era venuto a cercarlo era da quelle parti e l’avrebbe finalmente portato a casa. Si allontanò dal tronco, lasciandosi ingoiare dal fumo.

«Sono qui!» urlò alla figura che scivolava tra gli alberi. La sagoma sfocata si allontanava, e John decise di inseguirla; sentiva che era l’unica possibilità di uscire dalla Foresta.

John.

«Sono qui, aspettami!» continuò, incespicando nelle radici che bucavano all’improvviso il fumo denso ai suoi pedi. Prese a tossire, ma senza smettere di inseguire la sagoma sottile che lo guidava come un fuoco fatuo; gli occhi gli lacrimavano, ma riusciva a scorgere l’ombra tra le lacrime calde.

John.

 

Nicholas premette con maggiore forza il fazzoletto bagnato sulla sua bocca, respirando lentamente; la sua visione era resa confusa dal fumo denso che si sollevava dalla pira di frasche verdi nella radura alle sue spalle, mentre lui scrutava ansioso il sottobosco alla ricerca di un qualche movimento, e tendendo le orecchie al minimo suono.

Passi affrettati annunciarono l’arrivo di Jack al suo fianco; il ragazzo gli lanciò un’occhiata guardinga prima di parlare: «Nick, non c’è nessuna traccia di John e le pire bruciano da ore ormai… E’ quasi mezzanotte: lascia perdere, Watson è scomparso per sempre.»

Nicholas fece un gesto stizzito con la mano, scacciando le lacrime con il dorso della mano.

«Non ti ci mettere anche tu ragazzino, Watson non è tipo da farsi ammazzare da una dannata foresta» borbottò asciugandosi il sudore che gli colava copioso sulla fronte.

Jack stava per ribattere, quando un fruscio lo zittì; ombre si mossero tra la foschia grigiastra che riempiva i loro occhi, proprio davanti a loro, e lentamente una particolarmente alta e slanciata si staccò dalle altre.

La sagoma rimase indistinta mentre si avvicinava ai due ragazzi, e si fermò a pochi passi da loro; li sovrastava entrambi in altezza, e l’unico particolare che si distingueva erano due corna che nascevano da quella che Nicholas dedusse essere la testa.

Vi ho riportato chi si era perso; ora andatevene. Jack sussultò e lasciò cadere il fazzoletto che gli riparava la bocca quando quella voce simile allo scorrere rabbioso di un fiume gli rimbalzò nella mente; Nicholas si limitò a sbattere le palpebre ed a drizzare la schiena, sollevando il mento come a sfidare l’ombra.

Era il Guardiano, ne erano entrambi consapevoli, e non avevano la minima idea di cosa avrebbero dovuto dire o fare, o anche solo pensare.

Ma a salvarli da quella situazione giunse un urlo a loro ben noto: «Rallenta, non riesco a starti dietro così!»

Jack e Nicholas si guardarono allibiti ma felici allo stesso tempo che John fosse ancora vivo; quando però i due ragazzi tornarono a voltarsi verso la figura avvolta dalle spire di fumo, quella era scomparsa.

«C’è qualcuno che mi sente?» urlò di nuovo la voce di John, ed un’ombra molto più bassa della precedente si avvicinò ai ragazzi ancora immobili.

E finalmente John, il maglione color crema strappato e i jeans sudici, uscì dalla cortina di fumo.

«Spegnete il fuoco, abbiamo trovato Watson!» sbraitò Nicholas prima di stritolare il poveretto tra le braccia.

Il suo ordine rimbalzò da un angolo all’altro della radura, e Jack corse dal secondo gruppo per avvisarli. John, stretto tra la morsa di Nicholas, cominciava a rimpiangere la solitudine della Foresta.

«Ringrazia quella pestifera di mia sorella se sono venuto a ripescarti qui, Watson; fosse stato per me saresti al sicuro nello stomaco di quel Guardiano» concluse con un piccolo brivido.

John non lo notò, troppo impegnato a decidere se raccontare della sua esperienza leggendaria o meno; decise che sarebbe stato un piccolo segreto tra lui e quella strana creatura che difendeva il cuore della Foresta.

 

 

 

Note dell'autrice

Volevo scusarmi per averci messo così tanto ad aggiornare, ma ho avuto vari problemi e contrattempi... Però ora eccomi qui con il quinto capitolo della mia prima long in assoluto! Grazie mille per tutte le visualizzazioni e le recensioni, non sapete quanto mi fa felice sapere che qualcuno legge quello che scrivo!

Mi scuso in anticipo perché lunedì partirò per l'Austria e non ho la più pallida idea di dove andrò a stare e se, soprattutto, avrò un wifi a disposizione; conto comunque di aggiornare domenica, quindi...


La smetto qui, grazie davvero ai lettori silenziosi e a chi è così gentile da recensirmi, a presto

Aelian

 

Part II, Paramore

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Capitolo 6
*** Nightmare ***


VI.

Nightmare

 

Was it a vision, or a waking dream?
Fled is that music: -Do I wake or sleep?

 

«Indovinate chi vi abbiamo riportato!» ruggì Nicholas brandendo la torcia alta sopra la testa e tirando una pacca tale tra le spalle di John che quasi lo fece finire lungo disteso.

Tutto il villaggio era accalcato nella piazza, intorno alla piccola fontana, e alla sua vista scoppiò in urla di gioia; diverse mani si tesero verso il povero ragazzo, trascinandolo in mezzo alla calca. Da ogni parte spuntava una mano pronta a stringere la sua, a regalargli una pacca gentile o un cazzotto scherzoso tra le costole, quando lui aveva solo bisogno di vestiti puliti e del suo letto caldo.

Ma pareva che il villaggio avesse piani diversi per quella notte.

Finalmente raggiunse il bordo della fontana, e poté tirare un sospiro di sollievo; Nicholas ed i suoi compagni stavano fortunatamente reclamando la loro parte di attenzioni, ed il ragazzo poté sedersi sul marmo umido e tirare un sospiro di sollievo.

Il suo attimo di pace fu molto più breve di quello che avrebbe desiderato; qualcuno infatti si sedette al suo fianco, posandogli la testa su di una spalla.

«Nicholas in fondo è un bravo ragazzo, se sai che tasti toccare», gli mormorò Sally all’orecchio, ridacchiando e sistemandosi meglio contro di lui. A sentire la sua voce morbida all’orecchio, le guance di John si incendiarono e il ragazzo si sentì stranamente a disagio.

«Mi ha detto che sei stata tu a convincerlo a salvarmi, quindi grazie mille davvero» le disse guardandosi intorno alla ricerca di un varco tra la folla verso casa sua ed il suo letto; ma le persone si muovevano come una massa compatta davanti a lui.

Lei non rispose, stringendosi di più a lui.

I rumori intorno a loro giungevano ovattati alle orecchie di John, ed il ragazzo era solo consapevole del piccolo corpo stretto a lui, così diverso dalla presenza invasiva e virile di Fawnlock, l’odore leggero di sapone che emanavano i capelli della ragazza completamente opposto a quello ferale del guardiano.

Scosse la testa; non voleva pensare a lui, non voleva farlo mai più; si disse che doveva godersi quella serata e non azzardarsi mai più ad entrare nella Foresta.

«Non volevo che ci fosse un altro Gerard…» Il sussurro appena udibile della ragazza lo riportò bruscamente alla realtà, lontano dai ricordi di quell’unica notte in compagnia di Fawnlock.

Un altro Gerard? «Un altro Gerard?» chiese lui confuso e decidendosi ad abbassare lo sguardo negli occhi color cioccolato di Sally. Un ultimo lampo delle gemme di ghiaccio che erano gli occhi del guardiano attraversò la sua mente, subito diradata dal sorriso che increspò le labbra della ragazza.

«A volte sei proprio lento, John Watson» sussurrò prima di far scontrare con forza le loro labbra.

 

Avevano fatto tardi al pub tra birre e domande affrettate sulla sua avventura nella Foresta, e John esitava a centrare il buco della serratura della porta di casa, ridacchiando tra sé. Lui e Sally non avevano avuto occhi che l’uno per l’altra, le labbra che si separavano giusto il tempo di ingoiare un boccone veloce o di rispondere in fretta ad una domanda, prima di tornare le une contro le altre.

Forse erano stati più i baci ed il profumo dolce della ragazza, piuttosto che le birre, a dare così tanto alla testa a John che anche solo centrare la serratura gli risultava particolarmente difficile.

 Dopo aver tentato più volte si stancò, e prese un respiro profondo prima di appoggiare la fronte al legno dalla vernice scrostata; ma la porta si spalancò sotto il suo tocco leggero, e il ragazzo ruzzolò all'interno della sua baita.

Si ritrovò steso sul pavimento, un bernoccolo che iniziava a fare la sua comparsa sulla sua nuca, mentre fissava confuso il soffitto; sua sorella era in viaggio, e non sarebbe tornata prima di un mese, e lui era sicuro di aver chiuso la porta dietro di sé.

O forse no, l'alcool rendeva tutto piuttosto confuso.

A fatica si tirò su a sedere, gemendo per lo sforzo e tastando il tavolo alle sue spalle alla ricerca dell'interruttore della lampada; finalmente le sue dita lo trovarono, e John riuscì ad accendere la luce.

La stanza che gli si presentò davanti agli occhi era sicuramente il suo salotto, ma vi regnava il caos: il divano e le poltrone erano state spinte contro i muri, il tavolino che solitamente campeggiava in mezzo al tappeto giaceva capovolto in un angolo, e tutti i vasi erano ridotti a cocci colorati sparsi sul parquet. John si guardò intorno con il cuore in gola e le orecchie che fischiavano, non sapeva se per le birre di troppo o per la paura; qualcuno aveva fatto irruzione in casa sua, e poteva ancora essere lì.

Cercando di non fare rumore alcuno si aggrappò al tavolino della lampada, ancora miracolosamente in piedi, e si alzò in piedi. Di nuovo percorse la stanza con gli occhi, esitando prima di scrollare le spalle ed afferrare un attizzatoio appoggiato al camino.

Lentamente, si avviò verso le scale dall'altra parte della stanza.

Stava per salire sul primo gradino, quando qualcosa a terra attirò la sua attenzione; si piegò sulle ginocchia per osservare meglio il legno degli scalini, tentando di mettere a fuoco con gli occhi annebbiati dalle birre, e si ritrovò ad osservare una scia di sangue che macchiava il legno scuro; brillava appena nella luce lunare che a chiazze sporcava le scale.

Sentì la nausea assalirgli lo stomaco, ma tornò ad alzarsi in piedi aggiustando la presa sudata sul ferro freddo.

L'oscurità densa ed immobile in cima alle scale diventava meno invitante di minuto in minuto, ma John non era tipo da tirarsi indietro davanti a nulla, anche se un po' brillo.

Forse spinto proprio dall'alcool riprese a salire le scale, ringraziando sua sorella per la cura maniacale che dedicava ad ogni superficie in legno della casa e che quindi non permetteva ai gradini di scricchiolare sotto il suo peso.

Ansimando in preda all'ansia, raggiunse finalmente il pianerottolo.

Il corridoio davanti a lui era immerso nel silenzio, e tutte le porte erano chiuse come lui le aveva lasciate; tranne una, da cui filtrava una sottile lama di luce fredda che delineava il contorno del tappeto nel corridoio.

E ovviamente era la porta della sua stanza.

John sentiva lo stomaco torcersi sempre di più, ma raggiunse lo stesso la porta in due falcate. Con il cuore che batteva dalle parti del pomo d'Adamo e un fischio insistente nelle orecchie, la spalancò.

La sua stanza era in perfetto ordine, il letto rifatto ed i vestiti puliti ordinatamente piegati su una sedia; e, almeno ad una prima occhiata, era vuota.

John si sentì sollevato, ed il suo cuore tornò al suo posto mentre abbassava l'attizzatoio e liberava una sospiro di sollievo.

In quel momento un'ombra si staccò dall'oscurità circostante, e si rintanò più a fondo nell'angolo accanto all'armadio.

Il ragazzo alzò nuovamente l'attizzatoio, in preda al panico.

La figura sembrava dare le spalle a John, e non emetteva alcun suono, né accennava a muoversi nuovamente; ombre sottili, simili ad aculei, spuntavano da quella che doveva essere la sua schiena.

John fece un passo avanti, deglutendo a vuoto e brandendo l'attizzatoio nella mani tremanti; ora si sentiva completamente lucido, anche se era del tutto terrorizzato.

Di nuovo l'ombra si mosse appena, esponendo la schiena irta di aculei alla debole luce che filtrava dalle finestre; John si rese conto che non erano aculei o sporgenze ossee, quelle che ricoprivano la schiena della figura in ombra, ma frecce. Si avvicinò, come ipnotizzato, e nel chiarore freddo della luna gli parve che l'impennaggio fosse nero, striato di rosso scarlatto; quelle frecce erano sue.

Sentiva la confusione mischiarsi alla paura nel suo stomaco in subbuglio mentre pensava febbrilmente quando era andato a caccia l'ultima volta, o se qualcuno avesse potuto rubargli una faretra e crivellare qualche animale con le sue frecce.

In quel momento la creatura parlò.

«Salve, John» rantolò voltandosi finalmente verso di lui.

Il ragazzo trattenne a stento un conato di vomito.

Quello inginocchiato davanti a lui in una pozza di sangue era Fawnlock, le labbra spaccate contratte in una smorfia terribile. La parte superiore del suo viso rimaneva in ombra, ma John vedeva chiaramente che uno dei due corni era stato malamente spezzato.

La creatura teneva la schiena leggermente piegata in avanti, come a proteggersi il ventre, e quando il ragazzo avanzò di qualche passo quasi contro la sua volontà, riuscì a vedere perché: Fawnlock teneva le lunghe mani a coppa all’altezza dello stomaco, ma quando John si avvicinò le abbassò, permettendogli di vedere buona parte di una freccia sporgere dalla sua carne tremante, sangue denso che gocciava con lentezza esasperante dalla punta affilata.

Il ragazzo sentì le viscere attorcigliarglisi, e per un momento tutto divenne nero; sbattendo velocemente le palpebre tornò in sé, ma non osava avvicinarsi alla creatura, sentiva che c’era qualcosa di terribilmente sbagliato.

Quando Fawnlock parlò nuovamente, scie di sangue corsero ai lati della sua bocca.

«Ti fa così impressione, John?» C’era qualcosa di spaventoso nel modo in cui pronunciava il suo nome. «Sto morendo, John, e sai per colpa di chi?» sussurrò, il sangue che ora scorreva copioso dalle sue labbra. John non voleva saperlo, voleva scappare via, tornare da Sally e ridere e scherzare con lei, dimenticare la figura leggendaria morente nella sua camera.

Ma le parole uscirono da sole: «No, dimmelo.»

E Fawnlock scoppiò in una risata che pareva il rombo di una gigantesca cascata, un suono che riempì le orecchie di John fin quasi a rintronarlo. Si portò le mani alla testa, lasciando cadere l’attizzatoio, ma sentì comunque le parole che il guardiano pronunciò.

«Sei tu che mi hai ucciso, John» sussurrò prima di gettarglisi addosso, le mani protese verso il suo collo; e finalmente John poté vedere il resto del suo viso che fino a quel momento era rimasto in ombra: ma al posto degli occhi di ghiaccio che si aspettava c’erano solo due cavità ribollenti di oscurità, buio denso che ingoiò tutto quando le dita agili del guardiano si strinsero attorno al suo collo, soffocando per sempre le sue grida.

John si svegliò di soprassalto con un urlo ancora bloccato in gola, le coperte sudate strettamente aggrovigliate al corpo ancora tremante a causa dell’incubo a cui era stato brutalmente strappato da un bussare leggero ma insistente alla porta d’ingresso. Si districò dalle lenzuola e, sbadigliando rumorosamente, scese le scale, le immagini dell’incubo che già scivolavano via.

Fuori dalla porta Sally si dondolava impaziente sull’ultimo dei tre gradini di pietra, e gli sorrise dolcemente quando lui aprì la porta, gemendo alla luce prepotente del sole di mezzogiorno.

«Non mi aspettavo certo di trovarti già sveglio e pimpante sotto casa mia, ma speravo almeno che fossi già vestito… Anche se questo tuo look casual non mi dispiace», esordì accennando alla t-shirt grigia ed ai boxer a strisce che erano il suo pigiama. John arrossì appena mentre si scostava leggermente per permetterle di entrare.

Sally portava sulle spalle uno zaino grande quasi il doppio di lei –cosa non molto difficile visto che era così minuscola- e lo scaricò senza tanti complimenti in mezzo al tappeto prima di rintanarsi sul divano, le ginocchia sotto il mento. John impiegò qualche secondo a fare mente locale, ancora imbambolato sulla soglia, poi una scintilla gli si accese in testa: aveva promesso a Sally che sarebbero saliti fino alle cascate e avrebbero fatto un picnic. Si affrettò a chiudere la porta ed a raggiungere la ragazza appollaiata sul divano. Sally ridacchiò accoccolandosi contro di lui. «Allora Watson, ti vesti o hai intenzione di scarpinare per tutta la mattinata in pigiama?» mormorò alzando gli occhi verso di lui e sistemandogli i capelli ancora disordinati.

Lui ridacchiò chinandosi in avanti per lasciarle un bacio sulla fronte, per poi alzarsi con dolcezza e salire le scale diretto alla sua camera.

 

 

 

Ode to a Nightingale, John Keats 

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Capitolo 7
*** St. Michael ***


VII.

St. Michael

 

Love happens all the time
To people who aren’t kind
And heroes who are blind

 

Il rumore incessante della pioggia copriva il mormorio degli alberi e degli animali della Foresta, e Fawnlock gli era grato per questo: aveva bisogno di pensare, ed il vociare insulso delle creature della Foresta non avrebbe fatto altro che distrarlo.

Seduto sull’erba fradicia, lontano dal riparo familiare dei rami candidi dell’Albero che era la sua casa, fissava il punto da cui il piccolo umano era uscito dalla radura appena due giorni prima, lasciandolo solo.

Non aveva mai capito di essere solo, Fawnlock, almeno finché quel ragazzo irritabile era entrato nella sua radura, uscendone poi con eguale fretta, ma lasciandolo consapevole di aver sempre vissuto una vita triste e vuota. Non gli importava della pioggia che gli correva lungo la colonna vertebrale, inzuppandogli la pelliccia e facendogli battere i denti, rivoleva John indietro.

Gli costava ammetterlo, ma gli mancava quella presenza furibonda e permalosa che lo aveva tanto divertito; il guardiano era una creatura egoista, abituato a ricevere qualsiasi cosa desiderasse, ed in quel momento voleva solo qualcuno che non lo facesse più sentire solo come in quel momento.

Si disprezzava perché agognava la compagnia di un umano, perché si era lasciato toccare da una creatura così diversa da lui in modo tanto intimo ed ora se ne stava pentendo amaramente.

Ancora non capiva perché gli servisse proprio una di quelle creature per riempire le sue giornate e far sparire quella sensazione fastidiosa che aveva scoperto essere la solitudine.

Tirò rabbiosamente un ciottolo contro un albero, nel mero tentativo di sfogare la sua frustrazione, ma inutilmente.

Conosceva poche cose del mondo degli umani, Fawnlock, e l’amore non era tra queste; per questo motivo non riusciva a spiegarsi la sensazione dolorosa che gli attorcigliava le viscere mentre si tormentava su John, chiedendosi se avesse fatto bene o meno privandosi della sua compagnia per salvare la Foresta dai suoi compagni incendiari, ma soprattutto domandandosi come avrebbe potuto riaverlo indietro.

In fondo l’Albero stava morendo, e avrebbe ucciso tutta la Foresta con sé; Fawnlock non sapeva come salvarlo, ma non gli importava: in quel momento gli importava solo la sua felicità, e sembrava che quella fosse legata strettamente al ragazzo di nome John.

Ma il ragazzo non era stato felice con lui. Voleva davvero strapparlo al suo villaggio, ai suoi compagni e magari anche ad una persona speciale solo per la sua felicità?

Fawnlock non lo sapeva; si prese la testa scarmigliata tra le mani, e forse per la prima volta nella sua vita pianse.

 

Stavano scarpinando ormai da ore, e John sentiva la nuca bruciare mentre si asciugava il sudore che gli imperlava la fronte con un lembo della maglia. Sally lo precedeva felice sul sentiero scosceso e sassoso; mancavano ancora un paio di chilometri alle cascate, ma John non credeva avrebbe resistito tanto.

Dopo un centinaio di metri, infatti, si lasciò cadere ai bordi del sentiero, svuotandosi mezza bottiglia d’acqua in testa. Sally lo raggiunse, in viso un’espressione preoccupata. «John? Vuoi tornare indietro?» gli domandò piegandosi accanto a lui e passandogli una pezza bagnata sulla fronte. Lui scosse la testa, troppo stanco per parlare.

Trascorsero qualche minuto immersi nel silenzio più totale, mentre Sally gli passava con dolcezza uno straccio bagnato sulla pelle e lui svuotava una bottiglia d’acqua dietro l’altra. Finalmente si sentì abbastanza in forze per parlare.

«Grazie Sally, sto meglio, davvero, possiamo rico-» Ma lei lo interruppe premendogli dolcemente due dita sulle labbra, scuotendo la testa.

Ed in quel momento una visione esplose prepotentemente nella mente di John: Fawnlock che infilava con grazia un braccio in uno squarcio della rete e gli premeva due dita scure sulle labbra, quasi con forza. Si era ritratto a quel contatto così inaspettato, inusuale, ma ora si portò due dita alle labbra a quel ricordo, sentendo le guance andargli a fuoco.

Era stato un contatto così diverso da quello con Sally pochi attimi prima, così dolce invece, ma in cuor suo sentiva di averlo preferito. Gli era parso l’atteggiamento di un bambino intento ai primi contatti con qualcosa di estraneo al suo piccolo mondo. L’aveva trovato quasi tenero, ora che ci ripensava.

Ma la visione continuò, riempiendogli le narici del sentore ferale venato di resina che seguiva Fawnlock sul suo passo aggraziato ovunque andasse, e che l’aveva quasi ubriacato quando la creatura si era tuffata inaspettatamente nel suo collo, portando una mano sulla sua schiena e stringendolo più vicino a sé.

John l’aveva respinto, infuriato con sé stesso perché in cuor suo aveva desiderato non dover interrompere mai quell’abbraccio impacciato, ed aveva affondato per la prima volta le dita nel vello morbido del suo petto. Realizzò a malapena che le sue guance andavano scurendosi sempre di più, mentre ricordava come il guardiano gli si era avvicinato, facendo guizzare fuori dalle sue labbra tanto inusuali una lingua rossa, che aveva tracciato una scia umida sulla sua guancia.

Anche le sue orecchie si tinsero di scarlatto quando il sussulto doloroso che gli aveva scosso il cuore a quel contatto si ripeté. Si fermò troppo a rievocare quelle labbra spaccate al centro, tanto scure, e si vergognò immensamente quando si ritrovò a domandarsi come sarebbe stato toccarle.

A lui piaceva Sally, la ragazza bionda e dolce e dagli occhi color cioccolato che l’aveva baciato la sera prima, non poteva certo fantasticare su un guardiano leggendario ed egoista, ma soprattutto maschio.

Un nuovo sussulto gli scosse il cuore quando ripescò l’immagine delle due gemme di ghiaccio, velate di delusione, con cui Fawnlock l’aveva guardato quando l’aveva respinto.

Sally intanto non capiva cosa passasse per la testa del suo ragazzo; l’aveva osservato mentre si portava due dita alle labbra, gli occhi improvvisamente lontani, e mentre arrossiva sempre di più, senza emettere alcun suono, come immerso nei ricordi. Stava per chiedergli se si sentisse bene, quando John mormorò qualcosa.

«Non ho capito» disse avvicinandosi maggiormente a lui.

«Fawnlock» ripeté quello, abbassando le dita e sbattendo le palpebre mentre il suo sguardo si posava finalmente su di lei, di nuovo a fuoco.

«Chi? Il guardiano?» domandò confusa, ma John era già scattato in piedi e stava riempiendo nuovamente il suo zaino. Anche lei si alzò, e protese un braccio nel tentativo di fermarlo e di capire cosa gli stesse passando per la testa, ma lui si scostò, la mascella contratta, e si caricò lo zaino sulle spalle.

Sally non capiva, voleva solo che John tornasse quello che era prima di sparire nella Foresta, il ragazzo timido di cui si era innamorata; ma sembrava che lui avesse altri piani.

Le lanciò uno sguardo che non riuscì a decifrare, prima di chinarsi su di lei e lasciarle un bacio lieve sulla fronte.

«Perdonami», le sussurrò contro la pelle accaldata. «Ti prego, perdonami.»

E si voltò, incamminandosi sul sentiero dissestato.

 

Erano passati quattro giorni dalla scampagnata, e John si era scusato con Sally portandola a cena nell’unico ristorante del villaggio, dopo essersi presentato sotto casa sua con un’orchidea viola. Aveva fatto del suo meglio per apparire felice al braccio della ragazza, per sorridere e per ricambiare i suoi baci, ma non riusciva a mettere a tacere del tutto la strana sensazione che restava accoccolata in fondo al suo stomaco, e che si acuiva ogni volta che anche solo sfiorava Sally.

Ogni sera, nel suo letto matrimoniale sommerso di piumoni, cercava di pensare a qualsiasi cosa che non gli ricordasse Fawnlock o la sua breve esperienza nella Foresta, ma invano. Sembrava infatti che ogni più piccola cosa fosse in grado di evocare qualcosa a loro collegato: le bacche nei centrotavola diventavano quelle incastrate ai ricci scarmigliati di Fawnlock, le braccia candide di Sally che si agitavano mentre lei danzava in riva al lago si allungavano sulla sua testa nella cupola pallida di rami dell’Albero, e così via per ogni cosa.

John si voltò sulla pancia, annegando la testa sotto al cuscino; era il giorno di San Michele, il patrono del villaggio, ed ogni singolo abitante era in piazza a ballare intorno al fuoco, o a girare tra le piccole bancarelle stracolme di cibi e carabattole, oppure seduto ai tavolini del piccolo pub a parlare ad alta voce, tra un sorso di birra e l’altro.

Il ragazzo sospirò, stringendo gli occhi con forza pregando di addormentarsi.

Ma improvvisamente la musica festosa tacque, e l’allegro vociare si tramutò in grida di terrore. John si drizzò a sedere, le orecchie tese. Le grida si fecero più forti, e lui scalciò via le coperte mentre correva alla finestra; quasi strappò le tende mentre la spalancava e tuffava fuori la testa.

John viveva poco fuori dal villaggio, in cima ad una collina, e da lassù riuscì a vedere le figure dei suoi compaesani correre in ogni direzione alla luce del fuoco, anche se non riusciva a capire cosa dicessero le urla portate dal vento.

Caracollò giù dalle scale, tentando allo stesso tempo di infilarsi i pantaloni, e prima di correre fuori dalla porta afferrò l’arco lungo e la faretra posati nel salotto. Sulla veranda si infilò in fretta gli scarponi, senza curarsi di allacciarli, per poi riprendere a correre verso le urla.

Era ormai giunto ai piedi della collina, quando si accorse di una voce che lo chiamava e si immobilizzò, guardandosi freneticamente intorno; individuò la figura sottile di Jack, uno degli amici di Nicholas, che correva verso di lui, urlando il suo nome.

Si affrettò nella sua direzione.

«John, presto… I-il villaggio… Lui…» ansimò piegandosi e poggiando le mani sulle ginocchia, boccheggiando alla ricerca d’aria. John lo prese per le spalle, scuotendolo con sorprendente violenza: voleva sapere immediatamente cosa stava succedendo, e sperava ardentemente, nella parte più intima di sé, che non fosse quello che pensava.

Finalmente Jack smise finalmente di ansimare e tornò a drizzare la schiena.

«Il guardiano, John, è uscito dalla Foresta. Fawnlock è nel villaggio.»

 

 

 

Hate to See Your Heart Break, Paramore

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Capitolo 8
*** Jealousy ***


VIII.

Jealousy

 

my walls are crumbling down
each brick
collapsing
each tear
relapsing,
and when the last brick
falls
I’m scared
So scared
That I will too

 

La risposta era sì, voleva strappare John da tutto e da tutti e tenerlo con sé. O almeno voleva provare a parlargli, cercare di dominarsi e chiederglielo con gentilezza.

A questo pensava mentre correva con leggerezza tra gli alberi secolari, evitando senza sforzo radici sporgenti o rami troppo bassi, nel tentativo di raggiungere il villaggio il prima possibile.

Era uscito solo un’altra volta dal territorio familiare della Foresta, centinaia di anni prima, ed era stato quasi massacrato da uomini spinti dalla paura: era uscito in pieno giorno, stoltamente, e si era presentato apertamente a quei contadini dall’aspetto rozzo e sciocco, credendo che l’avrebbero accolto come un dio.

Invece l’avevano additato come demonio, abominio, e l’avevano accerchiato, pestandolo con zappe, forconi e i nudi pugni. L’avevano lasciato a terra semisvenuto in una pozza del suo stesso sangue, probabilmente pensandolo morto, ed erano tornati alle loro futili occupazioni.

Lui aveva atteso il calar del sole per strisciare al sicuro nella Foresta, umiliato e ricolmo di rabbia verso quella razza inferiore; si era curato all’ombra dell’Albero ancora giovane, bevendo il succo dei suoi frutti e spalmandone la polpa sulle ferite sanguinolente. Si era ripreso completamente, ma aveva giurato di uccidere qualsiasi umano avesse da allora sconfinato nel suo territorio, arrivando troppo vicino all’Albero a cui aveva dedicato l’esistenza.

Lasciava che facessero legna lungo la prima linea d’alberi, ma sterminava con freddezza chiunque osasse inoltrarsi più a fondo.

Si fermò di scatto in un fruscio di foglie. Aveva raggiunto il limitare della foresta, e riusciva a scorgere il villaggio festosamente illuminato; rumori allegri gli giunsero alle orecchie tese, ed odori sconosciuti gli solleticarono il naso.

Inspirò a fondo, domandandosi cosa stesse succedendo al villaggio e come avrebbe potuto avvicinarsi senza farsi vedere. Scivolò fuori dalla protezione familiare della cupola di rami, raggiungendo il muro di una stalla.

Non aveva idea di quale fosse la dimora di John, e non era in grado di affidarsi all’olfatto perché quella cacofonia di odori sconosciuti ed invasivi lo mandava in confusione.

Si diede dello sciocco per essersi avventurato così lontano dalla sua casa solo per inseguire un umano dall’odore indimenticabile, pensando semplicemente di ritrovarselo davanti e di poterlo convincere a seguirlo nella Foresta ed a rimanerci per sempre, solo per non farlo più sentire solo.

I rumori festosi continuavano, e lui si insinuò in un vicolo vuoto, spinto dalla curiosità.

Rimase nascosto tra le ombre vischiose, spiando le figure che si agitavano intorno al gigantesco falò che ardeva nella piazza del villaggio; alcune avevano movenze inusuali che seguivano il suono melodioso che gli giungeva alle orecchie, ma la maggior parte pareva girovagare senza scopo tra piccole costruzioni di legno

Fawnlock era ipnotizzato dai movimenti delle sagome che danzavano intorno al fuoco, e forse fu proprio questo a condannarlo; non si accorse infatti che una porta nel muro di fronte a lui veniva aperta fino a quando la luce violenta proveniente dall’interno quasi lo accecò. Sbattendo le palpebre cercò di schermarsi gli occhi e mettere a fuoco la figura ferma sulla soglia, ma quella emise un grido pieno di panico e lui si ritrovò a scappare lungo il vicolo.

L’urlo si ripeté più e più volte; pareva provenire da ogni abitante del villaggio, e presto Fawnlock sentì lo scalpiccio di decine di piedi inseguirlo. Si sentiva un animale in trappola mentre correva ansimando tra gli stretti vicoli del villaggio, che però gli parevano tutti uguali alla luce incerta della luna; all’improvviso sbucò nella piazza al cui centro ardeva l’enorme falò, e sentì centinaia d’occhi terrorizzati fissarsi su di lui. Si gettò senza pensare in una strada alla sua destra, sperando si seminare i suoi inseguitori.

Finalmente uscì dal dedalo di vicoli stretti in un campo di erba alta, ai piedi di diversi colli poco elevati; prese a correre verso la più vicina, da cui una baita ed una stalla dominavano la stretta valle, ma in quel momento una voce chiamò il suo nome.

«Fawnlock!»

E quando il guardiano si voltò, il petto che si alzava ed abbassava febbrilmente, vide una giovane donna puntargli contro un arco troppo grande per lei; la freccia mirava dritta al suo cuore.

«Sally?» rispose lui, piegando leggermente la testa da un lato e trattenendo un sorriso malizioso quando scorse la confusione attraversare il viso tondo della ragazza. Confusione che lei si affrettò a nascondere mentre tornava a tendere l’arco.

«Hai fatto qualcosa a John, non è più quello di prima!» sbraitò continuando a tenerlo sotto tiro.

Fawnlock sospirò. «Non gli ho fatto nulla, donna, ve l’ho anche riportato indietro per evitare che bruciaste la mia casa; se è cambiato, non è certo colpa mia… Non gli ho fatto alcun maleficio, come forse voi pensate. Non sono quello che credete.» Ma nella sua mente si chiese cosa intendesse la giovane donna; era cambiato? In che modo? Lei non ne era di certo felice, da come ne parlava.

Contrasse le dita lunghe, stringendole a pugno; voleva parlare con John ora più che mai, voleva capire cosa intendesse quella giovane donna. Magari il ragazzo l’avrebbe seguito nella Foresta, ora.

Aggrappandosi a questa flebile speranza, Fawnlock si voltò, ricominciando a scalare la collina ripida.

«Guardiano!» urlò nuovamente la ragazza, ma lui la ignorò; aveva sentito l’odore di John, quella in cima alla collina doveva essere casa sua.

Perso a pensare al ragazzo, Fawnlock non sentì lo schiocco della corda quando Sally, accecata dalla rabbia, mollò la presa; non sentì nemmeno il sibilo della freccia che fendeva l’aria limpida della notte, ma percepì la punta acuminata e fredda mordergli la carne, strappargliela con violenza e fuoriuscire dal suo ventre con un suono quasi inudibile. Come in sogno, guardò stupito la punta grondante di sangue brillare alla luce fredda della luna sbucare dal pelo corto del suo ventre.

Cadde in ginocchio senza un suono, portandosi le mani a coppa allo stomaco e sfiorando quel piccolo pezzo di metallo che lo aveva dilaniato con tanta facilità.

Sentì dei passi avvicinarsi, e alzò gli occhi sul volto contratto della giovane donna.

«Perché?» chiese solamente, la ferita che bruciava come l’inferno ad ogni respiro.

Lei si piegò su di lui, le labbra che tremavano.

«Per John.»

 

John non era riuscito a trovare Fawnlock da nessuna parte, sembrava del tutto scomparso.

Più di uno dei suoi compaesani aveva giurato di averlo visto correre fuori dal villaggio, verso le colline, ma John non aveva trovato nulla. Aveva incontrato Sally davanti al pub, i capelli biondi scarmigliati e gli occhi cerchiati; reggeva in mano un arco troppo grande per lei, ma sembrava troppo sconvolta per parlare.

Si era quindi limitato a stringerla in un veloce abbraccio e a lasciarle un bacio sulla testa; voleva trovare Fawnlock, pensava che rivendendolo sarebbe forse stato in grado di mettere ordine tra i pensieri confusi che gli si ammassavano in testa.

Ma alle due di notte, quando ormai il panico era passato e tutti erano tornati nelle loro case per riposarsi, John perse le speranze. Lentamente, trascinando l’arco lungo dietro di sé, iniziò la salita verso la sua baita.

Giunto sulla veranda, si lasciò cadere sul dondolo e scalciò via gli scarponi infangati.

Sospirò, premendosi due dita sulle tempie e ringraziando la notte per il suo silenzio immoto.

Rimase fermo così, i gomiti piantanti a fondo nelle ginocchia, per molto tempo, finché un suono attirò la sua attenzione.

Sollevò la testa, tendendo ogni muscolo del corpo; il mugolio sommesso si ripeté, e John scattò in piedi cercando l’arco lungo. Dopo averlo afferrato, fece in fretta i due gradini della veranda sul retro della casa, e rimase immobile a piedi nudi nell’erba gelida, le orecchie tese quasi dolorosamente per captare ogni minimo rumore. E per la terza volta il mugolio si ripeté.

Veniva dalla sua stalla, John ne era certo.

Muovendosi silenziosamente nella luce metallica della luna piena, raggiunse il muro marcio di quella che anni prima era stata una stalla, ed ora serviva solo da magazzino occasionale. Trattenendo il respiro, il ragazzo scivolò fino alle grandi porte accostate.

Sentiva il sangue rombargli nelle orecchie per la tensione, e scacciò le immagini inquietanti dell’incubo di qualche giorno prima; si disse che probabilmente era solo un animale spaventato quello che si era rintanato nella sua stalla.

Prese un respiro profondo prima di spalancare uno dei due battenti, illuminando leggermente l’interno; un sottile strato di paglia copriva il pavimento consunto di legno, e ad una prima occhiata l’ambiente pareva vuoto.

Poi il mugolio si ripeté, e John si rese conto che era carico di dolore; sentì un brivido lungo la schiena mentre si faceva coraggio ed entrava.

«John?»

Il ragazzo si immobilizzò, sconvolto. La luna illuminava Fawnlock accoccolato in uno dei box che anni prima avevano ospitato dei cavalli; ma la cosa che più sconvolse John non fu il tono carico di sollievo con cui la creatura aveva pronunciato il suo nome, ma il fatto che, come nel suo incubo, il guardiano si proteggesse il ventre con le lunghe mani tremanti.

Il ragazzo corse da lui, inginocchiandosi nella paglia putrida; il profumo selvaggio che accompagnava Fawnlock gli riempì le narici, e John si sentì stranamente felice per un momento, come se fosse tornato a casa dopo un lungo viaggio, ma questo prima di notare la pozza scura che inzuppava la paglia su cui giaceva la creatura.

Il suo ansimare sofferente lo riportò alla realtà, e John allungò una mano verso il ventre tremante del guardiano, chiedendogli il permesso con lo sguardo. Lui annuì, prima di nascondere gli occhi freddi carichi di dolore, sfinito.

John scostò con dolcezza le mani sottili, trattenendo un gemito alla vista della punta di freccia che spuntava grottesca dalla pelliccia chiara, stranamente intonsa; non una macchia di sangue infatti sembrava macchiare Fawnlock, come se non fosse sua la ferita.

«John…» ripeté lui, aggrappandosi al suo maglione e costringendolo a guardarlo negli occhi nuovamente spalancati. Il ragazzo sentì che finalmente il nodo alle viscere scompariva, mentre si lasciava scivolare dentro quei pozzi color del ghiaccio, ma sapeva di non poter rimanere imbambolato a fissare quegli occhi che gli erano mancati così tanto: doveva fare qualcosa.

«Posso salvarti, devi solo venire in casa e-» Ma le dita agili le guardiano lo misero a tacere premendo con forza le sue labbra; e John sentì il desiderio disperato di baciarle, quelle dita, di percorrere ogni centimetro di quel corpo così inusuale con le labbra, e soprattutto di soffermarsi su quella bocca così piena.

«No, John» mormorò lui abbassando le dita e carezzandogli appena uno zigomo. Avrebbe voluto evitargli quella visione, la vista di lui che moriva, avrebbe voluto evitare di vedere il dolore che ribolliva in quegli occhi blu, ma era necessario. Poteva però rendere tutto più sopportabile, almeno per lui.

Le sue dita scivolarono lungo il collo fremente del ragazzo, soffermandosi su una clavicola lasciata scoperta dal maglione color crema, e finalmente si aggrapparono alla stoffa pesante dalle parti del suo cuore.

Senza staccare mai gli occhi da quelli di John, lo tirò a sé con le ultime forze rimaste, e finalmente premette le labbra sulle sue.

Il cuore di John parve esplodergli nel petto a quel contatto, e ricambiò con violenta disperazione quel bacio, tuffando le dita tra i ricci imperlati di bacche di Fawnlock, facendoseli scorrere tra le dita.

Fawnlock aveva il sapore fresco degli acquazzoni primaverili, velato d’amaro; sapeva della Foresta, di terre selvagge, e di cose che non avevano il tempo di dire, ma che sapevano entrambi; mentre John, John aveva il sapore semplice di un ragazzo, eppure così difficile da spiegare, per Fawnlock, che avrebbe solo voluto assaporarlo per ore ed ore, le labbra premute su quelle disperate dell’altro.

Il suo arco lungo giaceva dimenticato dietro di lui.

Fawnlock accarezzava con dolcezza i lineamenti di John, ubriaco del suo odore semplice ma così meraviglioso così come John lo era del suo odore selvaggio. Ma il bacio finì troppo presto, lasciando i due ansimanti e con le guance arrossate; Fawnlock aveva bisogno di un ultimo favore, e sperava solo che John fosse abbastanza forte per concederglielo.

«John, ascoltami ti prego» gli sussurrò mentre gli alzava con dolcezza il mento.

Era così bello alla luce incerta della luna, gli occhi quasi viola.

Annuì.

«L’ultimo favore che ti chiedo, prima di morire…» A Fawnlock non sfuggì la lacrima che corse lungo una guancia del ragazzo a quelle parole, ma andò avanti imperterrito. «Devi riportarmi nella Foresta, io ti guiderò fino alla radura; una volta giunto lì, dovrai seppellirmi tra le radici dell’Albero… È il mio destino, John, non puoi fare nulla per cambiarlo. Non posso essere salvato, non voglio essere salvato.»

Il ragazzo non faceva più niente per frenare le lacrime, ma annuì lo stesso, cercando la mano libera del guardiano morente. Quando le dita si intrecciarono, John strinse con tutta la forza che aveva.

Fawnlock sorrise, abbassando gli occhi sulle loro mani intrecciate. Per un lungo minuto rimasero così, il ragazzo che piangeva e la creatura morente che pareva consolarlo con la semplice stretta di una mano.

Poi le dita di John scivolarono via dalla stretta, ed il ragazzo si alzò in piedi, tremando.

Fawnlock non capiva, e continuò a non capire anche quando John si sfilò il pensante maglione e tornò ad inginocchiarsi al suo fianco.

«Mettilo» mormorò porgendoglielo, gli occhi spalancati. E Fawnlock si sentì più felice che mai, in quel momento, raggomitolato in una stalla con una freccia che gli spuntava dal ventre.

Senza un suono, accettò l’indumento e tentò goffamente di infilarselo. John rise, intenerito dalla sua goffaggine, e Fawnlock pensò fosse la melodia migliore dell’universo. Avvicinandosi a lui gli infilò con dolcezza il maglione, per lui troppo grande ma che al guardiano stava quasi stretto, nascondendo la ferita.

Solo una lieve sporgenza nella lana pesante rivelava la presenza della freccia.

Il maglione era impregnato dell’odore di John, ed il guardiano se lo tirò timidamente sopra al naso, cercando di respirarlo il più possibile.

«Devo trovare il modo di trasportarti fino alla radura senza farti perdere troppo sangue…» mormorò John mentre si passava ansiosamente entrambe le mani tra i capelli. Si bloccò a metà di quel gesto, lanciando un’occhiata in tralice a Fawnlock.

«Il sangue» sussurrò chinandosi nuovamente su di lui. «Perché hai perso così tanto sangue?» gli chiese.

Fawnlock non capiva che importanza avesse. «Ho tentato di rimuovere la freccia, ma il dolore era insopportabile e-»

John gemette, le mani che si tuffavano di nuovo tra i capelli biondi. «La freccia era l’unica cosa che impediva un’emorragia interna, ora dovremo raggiungere la radura alla velocità della luce per evitare che tu muoia e-» John si interruppe, voltandosi verso Fawnlock al suo gemito di dolore; il guardiano aveva tentato di tirarsi in piedi, fallendo miseramente. Ansimava.

«Proprio non capisci, John?» gli domandò con gli occhi colmi di lacrime. «Io devo morire, te l’ho detto, non puoi salvarmi.»

 

Nessun rumore risuonava sotto la cupola d’alberi, e le uniche tre figure visibili avanzavano alla luce di una lampada ad olio.

John aveva caricato Fawnlock su Achille, il suo vecchio cavallo da tiro che trainava l’aratro nel piccolo campo sul pendio meno scosceso della collina, e teneva una mano sul fianco tremante dell’equino mentre Fawnlock si guidava con voce stentorea, una mano ferma sulla sporgenza nel maglione che rivelava la presenza della freccia ancora conficcata nel suo ventre. Nonostante il maglione pesante del ragazzo, Fawnlock sentiva sempre più freddo, e faticava a distinguere la strada tra gli alberi che gli parevano ad un tratto ostili, pronto a ghermirlo con i rami protesi.

John inciampò nell’ennesima radice nascosta, ma non si lamentò; continuava a ripetere all’orecchio del vecchio cavallo che presto sarebbero arrivati, che l’avrebbe riempito di carote e che si sarebbe finalmente potuto riposare.

«Dobbiamo andare a destra d-dopo…» La voce di Fawnlock si affievolì e lui tentò di nascondere un gemito di dolore; John avvertì come una morsa intorno al cuore, che andava stringendosi sempre di più ad ogni lamento della creatura.

Il guardiano da parte sua faceva di tutto per non aumentare il dolore già enorme dell’umano, reprimendo ogni gemito e cacciando indietro le lacrime; avrebbe voluto che tutto questo finisse in fretta, che John tornasse presto a sorridere e a baciarlo, perché quell’unico bacio disperato che si erano scambiati aveva riacceso prepotente in lui la voglia di vivere, assopita ormai da millenni.

«A destra dopo il faggio», riuscì a dire prima di crollare esausto sulla sella, semicosciente.

John sentiva la gola secca, ed ogni volta che posava gli occhi su Fawnlock infilato nel suo maglione color crema avrebbe voluto fermarsi e piangere tutte le sue lacrime; perché si sentiva inutile, sentiva il mondo scivolargli lentamente dalle dita come la vita gocciolava impietosamente lontano da Fawnlock da quel foro di freccia.

Gli aveva chiesto più volte se aveva visto in viso chi l’aveva scagliata, ma Fawnlock si era limitato a scuotere lentamente la testa, rispondendogli che non voleva vendetta.

Ma John sì, John voleva vendicare quella creatura leggendaria di cui, ormai l’aveva capito, era follemente innamorato. E si diceva che non aveva senso che l’amore fuggisse da lui così presto, quando l’aveva appena incontrato.

Achille lanciò un nitrito spaventato, e John non fece in tempo a scuotersi dai suoi pensieri che l’animale era finito in terra, una zampa piegata ad un angolo innaturale. Fawnlock giaceva esanime a poca distanza dall’animale terrorizzato.

John si precipitò su di lui, ignorando i nitriti del cavallo, e posò sul suolo umido la lampada ad olio.

Prese tra le mani tremanti il viso di Fawnlock, la bocca lievemente dischiusa e le palpebre fragili chiuse a nascondere gli occhi di ghiaccio.

«Dimmi che sei ancora con me» esalò con voce rotta dal pianto. «Ti prego, ti prego resta ancora con me, non sono pronto a lasciarti andare, è troppo presto…»

Una mano del guardiano si mosse e, lievemente, asciugò le lacrime che John non si era accorto gli scorressero sulle guance.

«È quasi ora» sussurrò in risposta, le palpebre che tremavano mentre si sollevavano quanto bastava per permettere al ragazzo di scorgere l’azzurro ancora vivido sotto di esse. «Siamo quasi arrivati alla radura, John, quasi arrivati…» e chiuse nuovamente gli occhi. Il suo petto si abbassava ancora, ma in modo quasi impercettibile.

John si asciugò rabbiosamente le lacrime, alzandosi poi in piedi; Fawnlock era indubbiamente troppo pesante per lui, e Achille non era certamente in grado di continuare. Si chinò sull’animale che roteava gli occhi terrorizzato, le orecchie appiattite sul cranio e le nari dilatate. «Mi dispiace, amico mio», gli sussurrò John carezzandolo con dolcezza. «Tornerò presto, te lo prometto, salverò almeno te…»

Si avvicinò nuovamente al guardiano, prendendosi un momento per contemplarlo forse l’ultima volta: pareva che dormisse, una mano a nascondere la freccia, e poteva sembrare illeso e pronto a rialzarsi in ogni momento.

John sfregò una manica sulla guancia, cancellando le ultime lacrime, e si chinò su Fawnlock per tentare di trasportarlo per quell’ultimo tratto.

Lo afferrò sotto le ascelle, il suo profumo di bosco che gli riempiva lentamente i polmoni, e prese a trascinarlo sul terreno dissestato, evitando quanto più possibile radici sporgenti o massi.

Presto i deboli nitriti si spensero, e rimase solo il debole fruscio che corpo di Fawnlock faceva smuovendo le foglie a far loro compagnia. Il guardiano apriva gli occhi, ogni tanto, e mormorava indicazioni al ragazzo sfinito che continuava a procedere al buio nella foresta che tanto spaventava i suoi compaesani.

«Siamo arrivati, John, dietro quel pino caduto, manca poco John…» Il guardiano continuò a ripetere il suo nome con voce sempre più debole finché, quando finalmente John lo adagiò in terra per scavalcare il tronco caduto, si spense del tutto.

Il ragazzo si ritrovò nella radura al cui centro campeggiava l’impressionante albero pallido, i suoi rami che nascondevano il cielo. Attraverso uno spiraglio tra questi, John poté vedere che il nero della notte andava lentamente sbiadendosi nel viola che precede il tramonto, e si affrettò a tornare dal guardiano morente.

«Siamo arrivati Fawnlock, guarda, la tua radura; sei a casa» sussurrò il ragazzo all’orecchio del guardiano dopo averlo trasportato oltre il tronco marcio del pino, proprio tra le imponenti radici dell’enorme albero.

Quando Fawnlock aprì gli occhi, John vide che erano pieni di lacrime di gioia.

«Casa…» mormorò, una parvenza di sorriso a stirargli le labbra esangui.

«Grazie, John, grazie di tutto» continuò attirandolo verso di lui, premendo con dolcezza le labbra su quelle del ragazzo.

Quando John si staccò da quelle labbra così inusuali, non c’era altro negli occhi di Fawnlock che il riflesso delle stelle.

 

John pianse tutte le lacrime che aveva sul corpo che diventava lentamente freddo, e quando pensava di averle esaurite si ritrovò nuovamente chino su di lui, il maglione zuppo stretto spasmodicamente tra le dita, a piangere ancora.

Quando i singhiozzi che gli scuotevano violentemente il corpo scemarono, si asciugò più volte gli occhi rossi, tentando di non guardare quel corpo che anche da morto conservava una grazia sovrannaturale.

Non era ancora l’alba quando si mise in ginocchio, le maniche rimboccate, e si chinò un’ultima volta sul viso spruzzato di macchie color dell’ebano. Calò con dolcezza le palpebre sulle due gemme color del ghiaccio, sfiorando appena con le labbra la fronte coperta di ricci scarmigliati.

Poi posò in terra la sacca che fino ad allora aveva portato appesa ad una spalla e, dopo averne estratto una pala, cominciò a scavare tra le radici color dell’avorio.

 

 

 

Note dell'autrice

Siamo giunti all'ultimo capitolo, manca solo l'epilogo... Ringrazio davvero di cuore chi mi ha seguita fino a qui, chi ha recensito, chi ha inserito la storia tra preferite, ricordate o seguite, e anche i lettori silenziosi. Grazie, davvero, vuol dire tantissimo per me. 

Spero non veniate a cercarmi armati di torce e forconi, dopo questo capitolo, e che resistiate fino all'epilogo; allora potrete venire a cercarmi ahahah

Detto questo, vi ringrazio di nuovo e aspetto le vostre recensioni. 

Aelian

 

Poesia anonima

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Capitolo 9
*** Epilogo ***


Epilogo.

 

We're all stories, in the end.
Just make it a good one, eh?

 

John si stava arrampicando fuori dalla buca, ma l’alba tardava ancora ad arrivare.

Il ragazzo non se ne curò mentre, le lacrime che tornavano a riempire gli occhi esausti, faceva del suo meglio per sollevare il corpo del guardiano. Lo calò con dolcezza nella buca, rimanendo a lungo ad osservare quei lineamenti che gli erano diventati famigliari in così poco tempo.

Ma quando sentì di poter ricordare ogni più piccola sfumatura nella pelliccia che ricopriva il corpo di Fawnlock, si decise ad alzarsi; il suo corpo gli era estraneo mentre lanciava la prima terra nella buca, e non sembrava sentire niente, non lo sforzo dei muscoli, non il sudore che fastidioso gli colava negli occhi… Solo un freddo vuoto dietro al cuore, come se stesse seppellendo una parte di sé, e non il leggendario guardiano che per millenni aveva fatto la guardia ad un albero dai poteri ultraterreni.

 

Alla fine rimase solo un tumulo di terra quasi nera nella luce plumbea delle ultime ore della notte ad indicare che Fawnlock era esistito e la sua risata simile al rombo di un fiume aveva rimbalzato per quella radura.

John gettò la pala lontano da sé, lasciandosi cadere per terra e poggiando la schiena contro una radice. Era coperta di scanalature e profondi avvallamenti, ma John la trovò incredibilmente comoda.

Non aveva idea di cosa avrebbe fatto ora; di certo non poteva semplicemente tornare al villaggio e ricominciare la sua vita di tutti i giorni, andando a caccia e vedendo Sally quasi ogni giorno.

Seppellì la testa tra le ginocchia. Sally. Cosa doveva fare? Probabilmente quando si sarebbe svegliata sarebbe stata tremendamente in pensiero per lui, l’avrebbe cercato, ma lui non aveva il coraggio di rivederla, di parlare, di dirle che era stato tutto solo un enorme sbaglio.

Meglio sparire semplicemente dalla sua vita e sperare che col tempo sarebbe andata avanti.

«Non volevo che ci fosse un altro Gerard…» La sua voce triste gli rimbalzò nella mente, e lui tentò invano di tapparsi le orecchie, di dimenticare.

 

Il sole era finalmente sorto quando John liberò la testa dalla morsa delle ginocchia, e batté velocemente le palpebre per adattarsi alla luce che filtrava tra gli squarci tra i rami ed illuminava a chiazze il prato davanti a lui.

Anche la tomba di Fawnlock era illuminata, e John sentì l’ormai familiare morsa attorno al cuore stringersi dolorosamente.

Fu in quel momento che accadde.

John avvertì la radice dietro di sé tremare, e per un attimo temette un terremoto, ma quando si voltò spaventato verso l’enorme tronco cinereo, lo vide soffuso di una lieve luce interiore.

Terrorizzato, si alzò in piedi ed indietreggiò, continuando a fissare il tronco. Sentiva i rami sopra la sua testa muoversi e stormire rumorosamente, ma non un alito di vento soffiava. La luce pulsante si fece sempre più forte, ed ogni foglia blu notte della cupola arborea sembrava risplendere.

Con un fruscio particolarmente rumoroso, le foglie iniziarono a piovere su di lui, e mentre erano in volo appassivano accartocciandosi su loro stesse e sfumando in un viole pastello. In breve tempo, la radura ne era quasi sommersa, e John non riusciva più a trovare la tomba del suo Fawnlock.

Quando anche l’ultima foglia toccò il suolo, fu il turno dei rami; il ragazzo assisteva sbalordito a quello spettacolo, e sotto i suoi occhi gli enormi rami rinsecchirono tingendosi di grigio sporco, simili a lunghe dita adunche protese verso il cielo limpido che ora aveva preso il posto della cupola blu notte.

La luce all’interno del tronco pulsava sempre più vivida, ora di un blu che stingeva nel viola e quasi nel nero, e pareva irradiarsi in ogni propaggine dell’albero morente, fino alla più piccola radice.

Quello che più sconvolse John dello spettacolo fantastico a cui stava assistendo era che si stava svolgendo nel più profondo silenzio, eccezion fatta per il fruscio che avevano provocato le foglie.

Anche le radici stavano avvizzendo e marcendo, funghi e muschio verde smeraldo che spuntavano a velocità raddoppiata da ogni avvallamento della corteccia cinerea.

Ma John non prestava più attenzione al mutamento dell’Albero, perché a pochi passi da lui una luce soffusa illuminava un mucchio di foglie; si avvicinò, e le foglie presero a muoversi mentre alle orecchie gli arrivava un rumore ovattato di terra smossa. Stava come paralizzato ad osservare la luce farsi più forte, e finalmente qualcosa spuntò dal mucchio di doglie secche: una mano, una mano che John conosceva bene.

C’era però qualcosa di strano: la mano che John ricordava, infatti, era molto più grande e con dita notevolmente più lunghe. Alla mano poi seguì un braccio, il tutto leggermente illuminato come dall’interno, e poi una spalla.

John non trattenne un gemito quando un agile orecchio da cerbiatto fece la sua comparsa, seguito da una testa di ricci disordinati e intrecciati a bacche e foglie di pungitopo.

Il ragazzo si ritrovò a fissare il volto che solo poche ore prima aveva temuto di aver perso per sempre, il cuore finalmente libero; eppure non era il volto che ricordava, era infatti molto più giovane e felice, e molto meno stanco.

Era indubbiamente il volto di Fawnlock, ma dimostrava appena vent’anni umani.

«John!» fu la prima cosa che esclamò mentre si issava fuori dalla buca, il maglione –ora troppo grande- e la pelliccia coperti di terra; anche la voce era sempre quella simile allo scorrere di un fiume, ma più giovane.

John continuava a restare immobile, senza sapere cosa fare, e trovandosi per la prima volta a fissare quegli occhi di ghiaccio di cui aveva già sentito la mancanza senza dover piegare la testa all’indietro.

Il giovane Fawnlock non sapeva come reagire al mutismo del ragazzo umano di cui era follemente innamorato, e decise di aspettare a sua volta, tormentando l’orlo del maglione.

Poi, John si mosse; coprì la distanza tra loro in due passi, e quando si trovò faccia a faccia con la creatura il suo profumo familiare lo ubriacò all’istante; era proprio Fawnlock, la creatura di cui si era innamorato, la creatura di cui aveva seppellito il cadavere poche ore prima era ora davanti a lui, anche se non riusciva a capire come.

«Come…?» chiese infatti, lasciando la frase a metà; come hai fatto a resuscitare? Come sei tornato in vita quando solo poche ore fa piangevo sul tuo corpo morto?

John aveva la sensazione che Fawnlock fosse arrossito sotto il vello chiaro. «L’Albero si è sacrificato per me, donandomi la vita che restava a lui…» mormorò ai suoi piedi scalzi, le dita che giocavano nervose con la lana del maglione. John si era completamente dimenticato dell’Albero, e quando si volse nella sua direzione trovò solo un vecchio tronco avvizzito color grigio cenere. Non rimaneva nulla dell’imponente arbusto che Fawnlock aveva custodito tanto a lungo.

Tornò a voltarsi verso di lui, che ora non brillava più.

«Ma perché…» le parole gli morirono in gola. Fissò a lungo l’azzurro limpido degli occhi dell’altro prima di ricominciare. «Perché non me l’hai detto?»

Fawnlock si strofinò il collo sfuggendo al suo sguardo. Era di nuovo calato un silenzio innaturale sulla radura illuminata dal sole.

«In realtà non pensavo avrebbe funzionato» si decise poi a rispondere. «Era più un istinto, un’idea che era maturata in me come se l’Albero me l’avesse sussurrata mentre Sally mi puntava la freccia al cuore e-»

Lo sguardo di John gli fece morire le parole in gola.

«Sally?» domandò questo, le mani dita che si stringevano a pugno per poi rilassarsi. «È stata Sally ad ucciderti?!» quasi urlò.

Le mani di Fawnlock corsero ai pugni stretti di John, infilandovisi e incastrando le loro dita mentre i loro occhi non si staccavano gli uni dagli altri.

«Sì, John, è stata lei, ma che importanza ha ora?» mormorò con dolcezza, e il cuore rallentò la sua corsa nel vedere che anche lo sguardo del ragazzo davanti a lui si addolciva.

«Hai ragione» sussurrò avvicinandosi a lui, alzando le loro mani unite e schiacciandole tra i loro petti.

Sentiva i battiti lenti del cuore di Fawnlock attraverso la stoffa del maglione.

«Ora non ha alcuna importanza…» continuò posando le labbra su quelle in attesa di Fawnlock, tornando finalmente ad assaporarne il sentore pungente di resina.

E quando dovettero separarsi, le dita di John corsero tra i ricci morbidi di Fawnlock mentre l’altro posava la testa contro il suo petto, ascoltando il battito ritmico dal cuore.

«È per sempre, questa volta?» domandò John, continuando ad accarezzare i capelli dell’altro.

Sepolto nella maglia impregnata dell’odore che tanto amava, Fawnlock annuì.

«Per sempre.»

 

 

 

Note dell'autrice

Ed ecco qui l'epilogo della mia prima (mini) long in assoluto; sono così felice di essere riuscita a finirla, e che sia stata seguita da tanta gente. Non sapete cosa vuol dire per me, davvero. Spero che questo epilogo sia per voi all'altezza del resto e niente, grazie a chi ha letto, recensito o messo la storia tra seguite, preferite e ricordate.

Grazie a Sorting Hat, che tra Supernatural, dubbi filosofici e (non così) profonde riflessioni su Fawnlock mi ha incoraggiata -un po' con le buone e un po' con le cattive- a pubblicare la prima long che io abbia mai portato a termine.

E poi grazie a Chiara, la mia ragazza, a cui devo l'ispirazione per ogni cosa che scrivo, dalla lista della spesa all'abbozzo di una storia seria; grazie anche a lei per avermi obbligata con ferma gentilezza a pubblicare qualcosa.

In conclusione, grazie di nuovo e spero di pubblicare presto qualcos'altro. 

 

 The Big Bang, Eleventh Doctor 

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