All of the stars

di Ekaterina Belikova
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Blue Smoke ***
Capitolo 2: *** 2. Red wallet ***
Capitolo 3: *** 3. Death is a horrible thing ***
Capitolo 4: *** 4. Kanawha River ***
Capitolo 5: *** 5. Oh, Elizabeth... ***



Capitolo 1
*** 1. Blue Smoke ***


Primo capitolo

"Blue Smoke"



 
 
 
 
Era giovedì 16 gennaio del 1941, giorno del mio diciassettesimo compleanno, nonché il giorno in cui la mia vita cambiò per sempre. La mia vecchia vita fu stravolta e spazzata via come un uragano lasciando posto a qualcosa di ancor più bello e allo stesso tempo ancor più terribile.
 
 
 
 
I raggi pigri e deboli del sole invernale non riuscivano a oltrepassare la coltre di pesanti tende che coprivano la mia finestra lasciandomi dormire ancora per un po’. La mia famiglia, però, non aveva le medesime intenzioni.
La porta della mia camera da letto si aprì all’improvviso e un coro – piuttosto stonato – che cantava ‘Tanti auguri’ entrò nella stanza. Che cosa avevo fatto di male? Mi rigirai nel letto mugugnando e tirandomi la pesante trapunta fin sopra la testa. Il miglior regalo di compleanno che avrebbero potuto farmi sarebbe stato lasciarmi dormire almeno fino alle dieci.
-Auguri, Lizzie! –esclamò mia madre con la voce incrinata dalle lacrime. Di solito le persone piangevano sempre ai matrimoni, beh, mia madre piangeva sempre ai compleanni. Soprattutto a quelli dei suoi figli. Sbucai da sotto le coperte e mi misi a sedere sul letto riservando un’occhiata che avrebbe potuto uccidere a tutta la mia famiglia, compreso il cane. Il mio sguardo, però, si addolcì non appena vidi quello che mia madre aveva in mano: una torta con triplo strato al cioccolato, ripieno di gelato al cioccolato e glassa al cioccolato! Una delizia.
-Non si può mai avere un po’ di pace in questa casa! Nemmeno il giorno del proprio compleanno – esclamai offesa e con la voce ancora impastata dal sonno. Dovevo continuare ancora un po’ a tenere il muso, ne andava di mezzo il mio orgoglio.
Mia madre e le mie sorelle Rosalie, Isabelle e Daisy erano sulla porta con luminosi sorrisi a trentadue denti, accompagnate dal mio fratellino Max che stava in groppa al nostro bellissimo ed enorme pastore tedesco, Kyle. All’appello mancavano mio padre e mio fratello maggiore Henry che erano soldati ed essendo in tempo di guerra non potevano di certo starsene a casa, spaparanzati sul divano a guardare la tv e a mangiare la torta al cioccolato il giorno del mio compleanno.
-Non fare la brontolona, Liz – mi rimproverò Rosalie con tono scherzoso.
-Devi spegnere le candeline – mi esortò Isabelle e la mamma si avvicinò al letto con ancora la torta in mano.
Diciassette. Diciassette candeline bianche, una per ogni mio anno di vita. Prima di spegnerle, però, dovevo pensare a un desiderio. Mi venne subito in mente: sapere se papà e Henry stavano bene.
Chiusi gli occhi, pensai al desiderio e soffiai più forte che potei. Aprii gli occhi mentre tutti applaudivano.
-C’è una sorpresa per te, tesoro –disse la mamma dandomi un bacio sulla fronte. Dalla porta entrarono papà e Henry in uniforme e con splendidi sorrisi sul viso. Balzai fuori dal letto, incurante di avere addosso solo una sottoveste, e corsi ad abbracciarli. Papà mi prese in braccio facendomi gli auguri e baciandomi le guance. Poi, mi aggrappai al collo di Henry e lui mi stritolò in un abbraccio spacca costole. Mio fratello maggiore era il quello al quale ero più legata e prima che si arruolasse eravamo inseparabili. Alcune lacrime fecero capolino dagli occhi e scesero sulle guance. Erano lacrime di gioia, però.
Il mio desiderio si era realizzato.
 
Nonostante gli Stati Uniti non fossero entrati ancora ufficialmente in guerra, venivano spesso mandati i soldati americani in Inghilterra per combattere contro Hitler e i suoi alleati. Papà era un generale, un pezzo davvero grosso, quindi non avrebbe mai combattuto in prima linea, ma Henry sì e la cosa mi preoccupava parecchio. A quel tempo, speravo che il nostro Paese non dovesse mai entrare in guerra per non rischiare di perdere la mia famiglia, le persone a cui volevo più bene.
 
-Che cosa ci fate qui? –chiesi asciugandomi le lacrime. Non riuscivo a smettere di sorridere.
-Siamo in licenza, tesoro –rispose papà con la sua voce profonda che si addiceva a un generale dell’esercito americano. Di solito gli ufficiali di grado più alto non tornavano a casa in licenza perché avevano un mucchio di cose da fare, ma potevano tornare a casa per qualche giorno quando volevano. Mio padre si concedeva solo qualche giorno nelle occasioni speciali oppure se non c’era troppo lavoro da fare.
-È fantastico! –esclamai. –Il più bel regalo di compleanno che potessi mai ricevere!
-Vestiti, Liz, e raggiungici al piano di sotto.           Questa magnifica torta ti sta aspettando – disse mia madre uscendo dalla stanza e portandosi dietro tutto il resto della famiglia. Indossai un bell’abito color crema, uno di quelli della domenica, con calze pesanti e un maglione di lana sopra. Scesi le scale e andai nella sala da pranzo pronta a divorarmi la torta.
In casa nostra c’era una tradizione che ho sempre adorato, fin da piccola. La mamma cucinava due torte quando qualcuno compiva gli anni, una la mangiava il festeggiato a colazione e l’altra veniva divisa più tardi con il resti della famiglia ed eventuali ospiti.
Dopo colazione andammo tutti in salotto e ci radunammo intorno al camino acceso per ricevere un po’ di calore. Era il momento dei regali. Quell’anno non mi aspettavo un granché, ma fui sorpresa di vedere la quantità di doni che avevo ricevuto.
Mamma e papà mi regalarono una prima edizione di ‘Orgoglio e pregiudizio’, un paio di orecchini d’argento e ben cinquanta dollari, che all’epoca valevano una fortuna; Henry mi aveva preso una scorta di carta per lettere e buste sufficienti per almeno tre anni e una nuova penna stilografica con il mio nome inciso sopra in lettere argentate; Isabelle e Daisy mi avevano comperato una pochette rossa molto elegante e Rosalie e Max un libro, ‘Guerra e pace’.  Non riuscivo a smettere di ringraziarli per i regali.
-Avete speso troppo – li rimprovero.
-Te lo meriti, Liz – disse mio fratello scompigliandomi i capelli.
 
 
 
Nel pomeriggio, dopo pranzo, vennero a farmi visita alcuni amici e vecchi compagni di scuola, tra i quali la mia migliore amica Emma. Passammo il tempo mangiando la torta e i deliziosi manicaretti preparati da mia madre e dalla nostra governante, Cecilia, ridendo, scherzando, giocando a carte e aprendo i regali che mi avevano portato. Non avevo voluto fare una vera e propria festa, ma solo un invito per pochi amici intimi perché, anche se noi non eravamo direttamente coinvolti, dall’altra parte dell’oceano imperversava una delle più terribili guerra mai viste dall’umanità e la gente moriva ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Non mi sembrava giusto festeggiare mentre altre persone perdevano le loro vite.
 
Verso le cinque e mezza tornarono tutti a casa, dato che era inverno e fuori la luce non c’era già più. Emma, però, rimase ancora un po’ con me. Lei e io ci conoscevano praticamente dalla nascita perché le nostre madri erano vecchie compagne di scuola e grandi amiche ed eravamo inseparabili. Eravamo così diverse, eppure quelle diversità ci rendevano perfette l’una per l’altra.
Emma era sempre allegra e sorridente, aveva una scorta inesauribile di energia, era spumeggiante. E, mentre lei era alta, magra, senza troppe curve, con capelli biondi e occhi così verdi da far invidia alle foglie in primavera, io, invece, ero un pochino più bassa, avevo più curve, capelli castani e banalissimi occhi color azzurro grigiastro. Mi piaceva leggere, immergermi nei miei libri e vivere in quei mondi, ma Emma preferiva leggere le riviste di moda in bianco e nero e dare la caccia agli uomini.
Emma odiava la guerra, ma amava i soldati. Io, invece, non vedevo l’ora di arruolarmi come infermiera volontaria. Intendevo farlo presto e con presto intendevo qualche giorno. Il limite per arruolarsi era diciassette anni e li avevo compiuti proprio quel giorno.
-Stasera usciamo a divertirci –esclamò Emma battendo le mani come una bambina. Eravamo nella camera che dividevo con Rosalie, sedute sul letto a gambe incrociate, una di fronte all’altra.
-Non posso uscire, Emma, non me lo permetteranno. Ci sono un sacco di soldati in giro per la città in questi giorni – risposi con aria leggermente afflitta. Mia madre cercava di tenermi il più possibile lontana dai soldati, a meno che non fossero mio padre e Henry. Credo che avesse paura che potessi scappare con uno di loro o qualcosa del genere.
-Appunto per questo dobbiamo uscire. La città pullula di bei soldati soli che hanno il disperato bisogno di una donna che dia loro calore e amore – disse in tono drammatico mettendo in mostra le due doti di attrice mancata.
-E tu sei pronta a dare loro calore e amore? – chiesi ridacchiando.
-Certo, tesoro, Emma Marie Grayson è sempre pronta a offrire qualcosa di sé a chi ne ha più bisogno. – Oh santo cielo, era tremenda!
-Va bene, verrò, ma non offrirò nemmeno un pezzetto di me a nessun soldato – dissi incrociando le braccia al petto.
-Questo lo vedremo, Liz. Ti aspetterò con l’auto alle nove, dietro alla casa dei Malone. – Si alzò dal letto, mi diede un bacio sulla guancia e uscì dalla stanza.
 
Quella sera sarei dovuta uscire di nascosto dalla finestra e rientrare poi nello stesso modo, tutto senza farmi scoprire dai miei. Dovevo chiedere l’aiuto di Rosalie perché mi coprisse. Così, dopo aver cenato, salii in camera mia con la scusa di voler fare un bel bagno caldo e andare a dormire presto perché ero molto stanca. Feci il bagno e acconciai i capelli con le forcine in modo che cadessero sulla spalla destra in morbidi boccoli.
Una volta tornata in camera trovai Rosalie stesa sul suo letto a leggere. Appena mi vide fece un sorriso e disse: -Tranquilla, ti copro io!
 
La ringraziai e cominciai a vestirmi. Indossai calze trasparenti e più sottili di quelle che avrei portato di solito, un vestito rosso scuro che mi aveva prestato Rose, scarpe di vernice nere con il tacco abbastanza alto, la pochette regalatami da Isabelle e Daisy e il mio inseparabile cappotto grazie al quale mi ero guadagnata il soprannome di Cappuccetto Rosso. Avevo truccato un po’ gli occhi e messo un rossetto rosso che rendeva le mie labbra carnose ancora più piene e invitanti. Ringraziai ancora una volta mia sorella e uscii dalla finestra che dava sul tetto. Arrivata alla fine, lanciai di sotto la borsetta e le scarpe e mi calai di sotto usando la scaletta di legno per i fiori rampicanti che d’estate ornavano questo lato della casa. Una volta con i piedi per terra, infilai le scarpe, afferrai la pochette e sgattaiolai verso la casa dei Malone che abitavano a circa quattro case più in là di noi.
 
Emma aveva parcheggiato la macchina di suo padre sul ciglio della strada ed era intenta a truccarsi quando entrai in auto. Lanciò un fischio che mi fece ridere.
-La nostra piccola Lizzie è uno schianto! –esclamò mettendo l’auto di suo padre in moto.
-Stai molto meglio di me, Emma. Dove andiamo?
-Sciocchezze! Prima andiamo a prendere Pam e Diana e poi al ‘Blue Smoke’ a fare conquiste!
Scossi la testa rassegnata, sarebbe stato inutile discutere con lei e farle capire che non avevo nessuna intenzione di fare colpo su un uomo, tantomeno un soldato.
Sette case più in là viveva Pamela Walker che ci aspettava, insieme alla sua migliore amica Diana Roberts, appoggiata ad un albero mentre fumava una sigaretta. Avevano entrambe lunghi capelli scuri e lisci come la seta e occhi color cioccolato fuso. Pam era estroversa, spigliata e poco incline alle regole e il suo aspetto lo dimostrava. Diana, invece, sembrava più una bambolina delicata, ma aveva lo stesso carattere dell’amica; lei, però, non fumava perché lo trovava disgustoso e diceva sempre che il fumo faceva male alla pelle.
Pam e Diana facevano parte del nostro gruppo di amici più stretti e quando uscivo con loro due ed Emma il divertimento era assicurato. Salirono sui sedili posteriori facendo entrare nell’abitacolo caldo il gelo invernale e l’odore del fumo.
-Spegni quella dannata sigaretta, Pam! – esclamò Diana infastidita. La mora fece come richiesto e buttò quello che ne restava fuori dal finestrino.
-Auguri, scricciolo! –disse Pam sporgendosi dal sedile per darmi un bacio sulla guancia e macchiandomi di rossetto. Diana mi fece gli auguri a sua volta e usò un fazzoletto per pulirmi la guancia.
 
 
 
Arrivammo al ‘Blue Smoke’ nel giro di dieci minuti e faticammo a trovare un parcheggio libero. Il locale era pieno di gente, soprattutto in periodi come questo in cui i soldati erano in licenza. Aveva l’aria di essere un posto davvero vecchio, sembrava uno di quei bar clandestini aperti durante il proibizionismo. E in effetti era così. Il vecchio Bill Turner lo aveva aperto insieme al fratello circa trent’anni prima e da allora aveva cambiato nome un sacco di volte ed era stato chiuso all’incirca una decina di volte.
L’interno era semplice e con pochi elementi di arredamento. In un angolo dell’enorme sala c’era il bar, dietro al quale stava Bill, e il palco dove i musicisti si esibivano. La pista da ballo era enorme e fatta di assi di legno ormai consumato e liscio a causa dell’uso. Per il resto c’erano soltanto una porta dalla quale si accedeva al bagno e alcuni tavolini con tanto di sedie ai lati della pista che ora era strapiena di gente che ballava.
Soldati in uniforme e ragazze con i loro bei vestiti e le loro scarpe col tacco, pronte a rapire il cuore di un uomo almeno per una notte.
Ci sedemmo a un tavolo in un angolo della stanza e ordinammo da bere. Nonostante il vecchio Billy vendesse alcolici anche a chi non aveva l’età giusta decisi di non bere, non lo facevo quasi mai, dato che avrei dovuto guidare io se Emma si fosse ubriacata.
Emma e Pam lasciarono i loro cappotti sulle sedie e andarono in pista a ballare e a ‘cacciare’, come dicevano sempre. Io non ero come loro e Diana era felicemente e ufficialmente fidanzata già da un anno con Lucas Hemmings, nonché il mio migliore amico, che purtroppo ora era in Inghilterra a combattere contro i nazisti a soli diciotto anni.
Quando restammo sole, lei ne approfittò per darmi il suo regalo di compleanno – una spilla a forma di fiocco – e per parlarmi di Lucas. Aveva paura per lui, ma era contenta perché sarebbe tornato fra poco più di due mesi –cose che sapevo anch’io dato che me lo aveva scritto nella sua ultima lettera – e che appena tornato si sarebbero sposati, il che era una notizia fantastica.
-Oh, Diana, sono così felice per voi! –esclamai sincera stringendola in un abbraccio. Emma e Pam ci raggiusero più allegre di prima e con quattro soldati al seguito. Oh no! Che cosa si erano messe in testa quelle due pazze?!
 
 
 
In quel momento non lo sapevo, nemmeno lo immaginavo, che tutto stava per cambiare e non a causa della guerra.
 
 
 
Uno di loro aveva la mano attorno alla vita di Pam e le stava dicendo qualcosa all’orecchio facendola ridere; un altro correva dietro ad Emma scodinzolando come un cagnolino.
-Guardate un po’ che cosa abbiamo trovato! – esclamò Emma riprendendo il suo posto sulla sedia. Mi trattenni dall’alzare gli occhi al cielo per non sembrare maleducata.
-Signore, è permesso? –chiese gentilmente il ragazzo che teneva Pam stretta a sé. Annuii.
Quello che mi colpì più di tutti fu il più silenzioso e appariscente, ma era anche il più bello e affascinante di tutti. Aveva i capelli biondo scuro e impomatati, occhi così azzurri da sembrare di ghiaccio, zigomi ben pronunciati e labbra rosso scuro. Sembrava avere sui venticinque anni. Sull’uniforme c’era un distintivo dallo sfondo azzurro e una medaglia al valore. Significava che era un ufficiale di grado abbastanza alto per uno della sua età – per la precisione maggiore -, e che aveva combattuto sul fronte.
Pam si occupò delle presentazioni: il suo soldato si chiamava Ethan Miller, quello di Emma Dave Coleman, il terzo –che aveva puntato Diana, ma non aveva nessuna speranza – Frankie Smith e James Carter era l’ufficiale.
-Stasera bisogna festeggiare! – esclamò Pam ordinando un altro giro di drink per tutti.
-Già, il nostro James è appena tornato dall’Inghilterra e dopo mesi di solitudine ha bisogno di una donna! – disse Dave bevendo un sorso di birra. James gli lanciò un’occhiataccia.
-Ed è anche il compleanno di Liz!
Pam poteva anche starsene zitta, non c’era alcun bisogno di sbandierarlo ai quattro venti. E si notava da un miglio di distanza che stavano cercando
-Allora brindiamo: a James e Liz! – esclamò Ethan portando in alto il bicchiere e imitato da tutti tranne che da me e James. Sembrava quasi a disagio a stare in mezzo alle persone. Non sapevo esattamente cosa avesse visto in combattimento, ma lo aveva segnato per sempre. Nei suoi occhi incredibilmente belli vedevo morte, sangue, cenere, dolore…
-Com’era lì? È vero che la gente muore in continuazione? –chiese Pam a James. Dio santo, non si poteva chiedere una cosa del genere. Certo che la gente moriva, dannazione, eravamo in guerra!
-Hey, tu! –dissi rivolgendomi a Frankie. Mi guardò sorpreso dato che non avevo parlato molto quella sera. –Diana adora questa canzone quindi portala a ballare. Ricordati, però, che è fidanzata e che fra poco si sposerà quindi non azzardarti a toccarla più del necessario, soldato!
-Sissignora! – esclamò e stava quasi per farmi il saluto militare il che mi fece ridere. Portò Diana in pista e Pam ed Emma li seguirono insieme ai loro cavalieri.
Ero riuscita a evitare quell’argomento così spinoso e doloroso per James.
 
-Grazie! –La sua voce era la cosa più virile, sensuale, dolce ed erotica cosa che esisteva al mondo. Alzai lo sguardo verso di lui e davanti a quegli occhi mi sentii nuda, come se mi avesse privata di tutti i vestiti e mi stesse guardando dalla testa ai piedi e persino dentro di me. Arrossii.
-Mi dispiace, Pam può sembrare superficiale ma è una brava ragazza. Non ha ancora realizzato che cosa sta succedendo, vive ancora nel suo mondo ovattato.
-Forse è meglio così. Beata innocenza - disse malinconico.
-Oh, Pam è tutto tranne che innocente – ribattei scoppiando a ridere e lui mi seguì. Aveva una risata così bella che mi faceva tremare il cuore.
-E tu sei innocente, Elizabeth? –chiese con un tono di voce più basso, serio e sensuale. Era come se mi avesse chiesto qualcosa di scandaloso o tremendamente erotico. Divenni ancora più rossa in volto e non riuscivo a fare altro che tenere lo sguardo puntato nel suo. E poi, nessuno mi chiama Elizabeth perciò la domanda sembrò ancora più intima di quanto non lo fosse.
-Più di lei, maggiore! –risposi evitando di mordermi il labbro. Ed era vero, non solo il mio corpo ma anche la mia anima, il mio spirito erano più innocenti dei suoi. Non avevo fatto le esperienze che aveva fatto lui e non avevamo visto le stesse cose. Solo in quel momento mi accorsi di quanto fossimo vicini l’uno all’altra, fisicamente intendo, perché a quanto pare mentre stavamo parlando ci eravamo avvicinati inconsciamente.
-Ti va di andare a fare una passeggiata fuori di qui? –chiese e io accettai subito, senza pensarci su. Non avevo paura di lui, della differenza d’età fra di noi, della sua esperienza, del fatto che fosse stato lontano da una donna per mesi perché una persona che mi faceva sentire come James Carter mi faceva sentire non poteva farmi alcun male.
Lasciai un biglietto alle mie amiche sul tavolo, scritto con una matita su una cartina per sigarette:
 
 
‘Sono uscita per una passeggiata con il maggiore Carter, mi accompagnerà lui a casa perciò non preoccupatevi. Ci vediamo domani.
Liz’

 
Infilai il cappotto, afferrai la pochette e uscii dal ‘Blue Smoke’ aggrappata al braccio del maggiore.
 







Angolo autrice:

 
Salve a tutte/i!
Questa storia è racchiusa in un cassetto da circa quattro anni. L'ho abbozzata in seguito a un sogno che mi aveva particolarmente colpita e poi l'ho lasciato perdere. In questi quattro anni l'ho ripreso/corretto/ modificato diverse volte, ma non mi sono mai decisa a pubblicarlo. Credo che sia arrivato il momento.
Elizabeth e James sono con me da così tanto tempo che mi sembra di conoscerli, sono parte integrante di me. Li ho nascosti per troppo tempo.
Una settimana fa ho deciso di tirare fuori il quaderno nel quale erano racchiusi, spolverarlo e iniziare a scrivere e ad approfondire la loro storia di vita, d'amore, di guerra.
Voglio sapere che cosa ne pensate, se ne vale la pena continuare e anche eventuali consigli.
A presto :)

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Capitolo 2
*** 2. Red wallet ***


Salve a tutti/e!
Rieccomi con un nuovo capitolo di "All of the stars". Questo capitolo è più corto del precedente perché nel terzo capitolo succederà qualcosa di importante che non potevo mettere in questo perché sarebbe stato troppo presto quindi ho deciso di fermarmi qui. 
Da oggi sono ufficialmente in ferie, perciò spero di avere più tempo per scrivere e aggiornare più spesso.






 
Secondo capitolo
 
 
 
 
Avevo accettato di uscire per una passeggiata con il maggiore Carter, un soldato, un perfetto sconosciuto. Fin da piccola mia madre mi diceva di stare attenta agli uomini, ai soldati e agli sconosciuti e, in quel momento, stavo accartocciando tutte le sue raccomandazioni come un vecchio foglio di carta.
 
Una volta fuori dal locale, James mi offrì un braccio che io afferrai prontamente per non rischiare di cadere sull’asfalto ghiacciato e per prendere un po’ di calore dal suo corpo. Iniziammo a camminare per le vie della città che in quel momento erano insolitamente allegre e gremite di persone.
-Come hai fatto a sapere che sono un maggiore? –chiese ad un tratto rompendo il silenzio.
-Dal distintivo sulla divisa –risposi. –Sa, sono figlia di un generale, devo saperle queste cose.
-Santo cielo in che guaio mi sono andata a cacciare?! Corteggiare la figlia di un generale – disse in tono scherzoso e io avvampai all’istante abbassando lo sguardo. Mi stava corteggiando! Certo che lo stava facendo, c’erano tutti i segni. Se fosse stato un ragazzo normale l’avrei capito al primo sguardo se voleva farmi la corte, ma con lui non si poteva mai sapere.
-Credo che dovrebbe preoccuparsi più di mia madre –ribattei usando il suo medesimo tono.
-Elizabeth, dammi del “tu” e chiamami James. Mi fai sentire vecchio in questo modo.
-Va bene, magg… James! Quanti anni hai?
-Venticinque e tu?
-Diciassette, appena compiuti.
-Auguri allora!
 
Parlammo per ore mentre camminavamo per le vie di Charleston e nel parco. Da quando eravamo usciti dal ‘Blue Smoke’ sembrava un’altra persona. Era molto più allegro, parlava di più e addirittura scherzava. Mi incantavo a sentirlo parlare, a guardarlo ridere di gusto. All’interno del mio stomaco era in corso una vera e propria lotta: non erano le solite farfalle delle quali parlavano i libri o le ragazze che conoscevo, ma due caccia bombardieri che si sparavano addosso all’impazzata. A stare sempre in mezzo ai militari avevo anche iniziato a parlare come loro.
Quando passammo per il centro vidi che l’orologio nella piazza principale segnava le quattro del mattino. Erano passate più di sei ore da quando eravamo usciti dal locale e non ci eravamo nemmeno accorti dello scorrere del tempo o delle strade che piano piano si stavano svuotando.
-Accidenti, fra un’ora la mamma si sveglierà e mi ucciderà se scopre che sono uscita! – esclamai mordendomi nervosamente il labbro inferiore.
-Vieni, ti accompagno a casa.
Tornammo nel parcheggio del ‘Blue Smoke’ che era vuoto, eccezione fatta per un paio di macchine. Andammo verso quella di James e lui, da perfetto gentiluomo, mi aprì la portiera permettendomi di accomodarmi all’interno della vettura. Salì a sua volta e mise in moto accendendo poi il riscaldamento e la radio. Gli diedi tutte le indicazioni necessarie per arrivare a casa mia e mi feci lasciare davanti alla casa precedente per non rischiare di farmi scoprire.
-Ho passato una bella serata, Elizabeth – disse con un sorriso sincero sul volto prima che io scendessi dalla macchina.
-Anch’io, mi sono divertita-
-Quando potrò rivederti? –chiese cogliendomi di sorpresa.
-Presto, maggiore! –esclamai con un sorriso. Gli posai un leggero bacio sulla guancia e poi schizzai fuori dall’auto. Ero sicura di avere le guance rosse come pomodori maturi.
 
Entrai in casa dalla porta principale dato che ormai dormivano tutti, mi sfilai le scarpe per non fare rumore e salii nella mia camera. Rosalie dormiva nel letto vicino alla porta e i suoi capelli color caramello erano sparsi a ventaglio sul cuscino. Tolsi cappotto, vestito e calze e mi infilai a letto solo con la biancheria addosso.
Non percepivo più la differenza tra freddo e caldo e non riuscivo a smettere di muovermi fra le lenzuola. Faticai non poco a chiudere gli occhi perché non riuscivo a fare altro che a pensare al maggiore James Carter, ai suoi occhi e alla sofferenza presente dentro di essi, al suo bellissimo viso, alle sue labbra che avrei tanto voluto baciare, alle sue spalle larghe che infondevano sicurezza e un senso di protezione.
Alla fine, quando ormai l’alba faceva capolino riuscii ad addormentarmi.
 
 
Il giorno dopo mi svegliai tardi e mia madre mi proibì di fare colazione visto che era quasi ora di pranzo.
-Ti rovinerai l’appetito, Liz! –aveva detto. Così ero tornata in camera mia e mi ero distesa sul letto a leggere la prima edizione di “Orgoglio e pregiudizio”. La mie lettura era stata interrotta varie volte da Daisy, la più piccola delle mie sorelle che aveva solo cinque anni, perché le pettinassi e intrecciassi i capelli biondi, dalla mamma che mi avvisava del fatto che sarebbe andata in città per un paio d’ore insieme a papà e da Max che voleva giocare con me.
Ormai erano le undici passate quando sentii il campanello suonare e dopo due minuti comparve Daisy ad avvisarmi che ‘il signor soldato’ voleva vedermi. A quelle parole balzai giù dal letto in fretta e furia e mi diedi una veloce sistemata davanti allo specchio prima di scendere giù. L’unico soldato che aveva un qualche motivo di vedermi era colui che occupava la mia mente ogni minuto del giorno e della notte: James Carter.
In salotto c’erano Rosalie e Isabelle che guardavano James e ridevano come delle scolarette, Henry che studiava il maggiore con attenzione e James che non dava segni di insofferenza nei confronti delle ragazze o di disagio nei confronti di mio fratello.
-Maggiore Carter! –esclamai entrando nella stanza e attirando tutta l’attenzione su di me. Lui si alzò dal divano voltandosi verso di me.
-Elizabeth, ti trovo bene!
-Grazie, vuole qualcosa da bere? –chiesi. Accettò e feci un cenno a Rosalie e Isabelle che scomparvero in cucina.
-Come mai qui?
-Hai lasciato questa nella mia auto –disse sventolando la mia pochette rossa.
-Oh, grazie per avermela riportata.
Henry si schiarì la voce nel tentativo di intromettersi nella conversazione.
-Vedo che ha già conosciuto mio fratello Henry.
-Piacere di conoscerla, maggiore – disse Henry stringendogli la mano.
-Il piacere tutto mio!
-Sei uscita ieri sera? – chiese mio fratello rivolgendosi a me.
-Sì, era il mio compleanno ed Emma mi ha convinta a uscire –spiegai facendo spallucce.
-La mamma ti ucciderà se lo scopre –disse con un ghigno.
-Non deve mica saperlo –ribattei riservandogli lo stesso ghigno.
Le ragazze portarono un vassoio con la teiera, le tazzine e lo zucchero e si sedettero accanto a me; Henry e James erano seduti sulle poltrone, uno di fronte all’altro. Mio fratello e le mie sorelle gli fecero un sacco di domande su quello che faceva, sul fronte e su un sacco di altre cose.
Quando se ne andò lo accompagnai alla porta.
-Quando ci rivedremo? –chiese mentre si infilava il cappotto sopra l’uniforme.
-Alloggia qui a Fort Kinley? – chiesi. Annuì. –Bene, la verrò a cercare, maggiore.
Restai sulla porta a guardarlo salire in macchina, mentre usciva dal vialetto e poi svoltava l’angolo dopo la casa degli Hemmings. Subito dopo rientrai in casa pronta a subire un interrogatorio da Henry, ma Rosalie glielo impedì.
 
 
Dopo pranzo andai in camera mia e ripresi a leggere, ma non feci in tempo a finire la frase che la porta della stanza si aprì lasciando entrare Emma con un’enorme sorriso sulle labbra piene di rossetto e una fetta di torta di mele nell’altra. Si fiondò addosso a me e iniziò a raccontarmi la serata passata insieme a Dave nei minimi dettagli. Avevano ballato fino a tardi e, prima di andare a casa, si erano scambiati una lunga serie di baci caldi e passionali. Mi disse che si sarebbero rivisti il giorno dopo al cinema e poi a cena da ‘Sally’s’. In realtà eravamo tutti invitati: Dave, Emma, James, Frankie, Ethan, Pam, Diana e io.
Pensavo di essere sfuggita al suo interrogatorio quando mi chiese che cosa avevo fatto con James. Le raccontai della passeggiata, del fatto che avevamo parlato per ore, che mi aveva accompagnata a casa alle quattro del mattino e che poco prima era venuto per restituirmi la pochette.
-Siete stati in giro tutta la notte, ma non vi siete baciati?! – chiese incredula.
-Oh, Emma, non siamo tutte come te e Pam! –esclamai ridacchiando.
-È stato carino –chiese un po’ titubante – con te? Voglio dire, mi è sembrato così freddo e distaccato e Dave mi ha detto che non frequentava una donna, una ragazza, da prima di partire per l’Inghilterra.
-Non bisogna mai giudicare un libro dalla copertina, Em! –la rimproverai severa. Provai una punta di fastidio nei suoi confronti perché aveva giudicato James senza conoscerlo. -È stato gentile, carino e simpatico… un vero gentiluomo!
-Scusami – mormorò imbarazzata. –Ti piace?
-Lo conosco solo da ieri sera!
-Ti conosco bene, Liz, e per ora non ho intenzione di chiederti nulla. Aspetterò che sia tu a dirmi che cosa provi per lui, senza che debba tirartelo fuori io con le pinze!
Spostammo la conversazione su altri argomenti come il suo vestito per il ballo invernale del liceo al quale avrebbe partecipato alla fine del mese. Ormai non frequentavo più le superiori da ben due anni, mi ero diplomata in anticipo e frequentavo l’università di medicina. Avevo anche fatto molti corsi per infermiere in modo da potermi arruolare e andare al fronte subito, senza dover fare i soliti corsi di preparazione come tutte le altre reclute. Le dissi che l’avrei aiutata a scegliere un vestito prima di partire.
-Quando hai intenzione di arruolarti? –chiese abbassando la voce per non farsi sentire da mia madre, nel caso stesse passando di lì in quel momento.
-Lunedì.
-Così presto? Ma oggi è…venerdì! –esclamò.
-Non posso aspettare in eterno, Em, e tu lo sai!
-Oh, Liz! –esclamò buttandomi le braccia al collo, stringendomi forte e lasciandosi scappare un singhiozzo. –Mi mancherai così tanto.
-Anche tu mi mancherai, tesoro.
Le accarezzai i capelli e la schiena cercando di calmarla e ci riuscii solo dopo una decina di minuti.
-Credi che ti manderanno subito al fronte? –chiese asciugandosi le lacrime e le tracce di trucco sulle guance.
-No, mandano soltanto i volontari. Essendo la figlia del generale Williams molto probabilmente mi spediranno nel posto che secondo loro è più sicuro.
Passammo il pomeriggio come delle normali adolescenti: parlando di ragazzi, che nel nostro caso erano soldati, e mettendoci lo smalto a vicenda. Non ero solita dedicarmi a quel genere di attività, erano più nello stile di Emma, ma fra non molto sarei dovuta partire e volevo passare il tempo che mi rimaneva insieme alla mia migliore amica.
 
Giunta la sera, la mamma invitò Emma a fermarsi a cena e, come al solito, l’argomento principale a tavola era la guerra. Di qualsiasi cosa stessimo parlando alla fine la conversazione ricadeva sempre sulla guerra. La mamma continuava a lanciare occhiatacce a papà e a mio fratello che continuavano a parlare di quello che stava succedendo sul fronte europeo.
 
Uno dei motivi per i quali mia madre cercava di tenere me e le mie sorelle lontane dai soldati, soprattutto in tempo di guerra, era perché non voleva che passassimo quello che lei aveva passato con nostro padre.
Annabelle Collins conobbe Matthew Williams nel 1915 quando aveva solamente quattordici anni. Lui era un affascinante soldato di vent’anni e le rubò subito il cuore. Il loro fu amore a prima vista. Si sposarono nel 1917 e qualche mese dopo lei rimase incinta, ma lui dovette partire perché gli Stati Uniti erano appena entrati in guerra. Per un intero anno non ebbe sue notizie e viveva con la costante paura che lui fosse morto e l’avesse lasciata vedova e con una bambina poco dopo averla sposata. Quando alla fine della Grande Guerra lui tornò a casa, Annabelle, ricominciò finalmente a vivere e il suo cuore a battere dopo tanto tempo.
Mia sorella Isabelle nacque nel 1918, quando papà era ancora al fronte a sparare le ultime pallottole e a lanciare le ultime bombe. Un anno dopo arrivò Henry, nel 1921 nacque Rosalie, il 1924 fu l’anno della mia nascita e pensavamo tutti che sarei stata la figlia minore finché nel 1935 nacque Daisy e nel 1938 fu il turno di Max, l’ultimo arrivato nella famiglia Williams.
 
In fondo capivo le paure della mamma, però volevo essere io a decidere della mia vita. E poi, non si poteva scegliere di chi innamorarsi, ci si innamora e basta!

 








 
Sono di nuovo qui a rompervi le scatole...
Che ne dite di questo capitolo?
Personalmente non mi convince molto, ma al momento la storia è alquanto noiosa e dovremo aspettare ancora un pochino per entrare nel vivo della storia.

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Capitolo 3
*** 3. Death is a horrible thing ***


Eccomi qui con un altro capitolo alle due del mattino. Questo è stato un parto perché sapevo già che cosa sarebbe successo e non avevo la forza di scriverlo. L'ho appena finito di scrivere quindi se notate qualche strafalcione fatemelo sapere.


Spero vi piaccia.


 

Terzo capitolo
 
 
Quella notte non riuscivo a dormire, alle undici passate continuavo a rigirarmi nel letto cercando di prendere sonno, ma riuscivo solamente a pensare a quel paio di occhi azzurri. Sbuffai allontanando le coperte dal mio corpo e mi alzai dal letto. Uscii dalla stanza facendo attenzione a non svegliare Rosalie e andai verso lo studio di papà, sicura di trovarlo lì.
Spesso, quando facevo fatica ad addormentarmi a causa dei troppi pensieri, andavo a cercare mio padre. La sua sola presenza mi tranquillizzava.
Aprii la porta e lo vidi seduto sulla poltrona di pelle dietro all’imponente scrivania di mogano mentre leggeva un libro dall’aspetto importante. Tre pareti erano completamente riempite di libri, dal pavimento fino al soffitto, mentre sulla quarta parete c’era un camino acceso dal quale proveniva un piacevole calore. Oltre alla scrivania c’erano anche un divano, tre poltrone, un tavolino da caffè e un tappeto persiano che dovevamo lavare fuori in giardino ogni estate.
Mio padre alzò lo sguardo dal libro e mi fece segno di sedermi su una delle sedie davanti alla scrivania.
-Che cosa ti turba, bambina mia? –chiese chiudendo il pesante tomo e posandolo sulla scrivania provocando un leggero tonfo.
-Ho semplicemente troppi pensieri –risposi alzando le spalle e stringendomi addosso la coperta che avevo messo sulle spalle prima di uscire dalla camera.
Mi studiò per qualche secondo come se non fosse convinto completamente della mia risposta, ma non fece ulteriori domande e cambiò argomento: -Ormai hai compiuto diciassette anni e immagino che vorrai arruolarti come infermiera.
-Sì, papà, anche se mi dispiace andare contro il volere della mamma!
-Oh, Liz, a tua madre ci penso io. Non preoccuparti! –esclamò con un sorriso. Mio padre mi sosteneva, lo faceva sempre il mio caro povero vecchio adorato papà.
-Non lo faccio per capriccio, lo sai bene, ma perché la gente ha bisogno di noi.
-Sono fiero di te, bambina! – Si sporse oltre la scrivania per farmi una carezza sulla guancia.
–Lunedì vai all’ufficio arruolamenti alle dieci del mattino.
Quasi quasi feci i salti di gioia appena udii le sue parole e andai da lui per abbracciarlo. Ero così felice di avere qualcuno che appoggiava le mie scelte.
 
 
Il mattino dopo mi svegliai di buon’ora e riposata. La chiacchierata con mio padre mi aveva aiutata, in un certo senso, a dormire. Andai al piano di sotto per aiutare la mamma a preparare la colazione, ma lei era vestita di tutto punto.
-Buongiorno, mamma! Dove vai?
-Vuoi dire ‘andiamo’. Anne Hemmings ci ha invitate a colazione, quindi vai a svegliare le tue sorelle e preparatevi!
La signora Hemmings, nonché la madre di Lucas, ci invitava spesso a casa sua dato che tutti e tre i suoi figli erano al fronte e suo marito era morto dieci anni prima a causa di una terribile forma di polmonite. La mamma, Anne Hemmings e Louise Grayson –la madre di Emma- si conoscevano fin dal liceo e la loro amicizia contribuì a far nascere un forte legame tra me ed Emma e tra Lucas e me. Erano i miei migliori amici anche se non si sopportavano a vicenda e bisticciavano spesso, anche sugli argomenti più stupidi come il gusto del gelato.
 
 
Anne Hemmings era una cuoca davvero eccezionale e ogni volta che andavamo a casa sua ci stupiva sempre con le sue doti culinarie. Trovammo il tavolo imbandito con cibi per la colazione di ogni genere: focaccine calde e morbide, marmellate, succhi di frutta, latte, the, tre tipi di biscotti fatti in casa, caffè, bacon, uova, pancake affogati nello sciroppo d’acero e un sacco di altre bontà. Ingrassai di almeno due chili solo guardando tutto quel ben di Dio!
A quell’età ero davvero una buona forchetta perciò riempii il piatto di leccornie e le spazzolai via in meno di dieci minuti senza risparmiarmi le occhiate invidiose delle mie sorelle maggiori che non riuscivano a mangiare troppo senza mettere su peso, a differenza mia.
-Ho ricevuto una lettera da Lucas due giorni fa, me ne sono arrivate ben cinque in una volta da Jack la settimana scorsa e una da Ben lunedì. – Stava dicendo Anne con un malinconico sorriso sulle labbra.
-Diana mi ha detto che si sposeranno appena Lucas tornerà negli Stati Uniti, cioè fra due mesi –dissi prendendo un sorso di the caldo.
-Davvero? Non ne avevo idea – mormorò la mamma.
-Oh, sì! Diana è davvero una cara ragazza! –esclamò Anne con un luminoso sorriso.
-Sono così felice per loro –trillò Isabelle contenta. Lei adorava i matrimoni anche se sospettavo che fosse perché aveva un buon motivo per mettersi in ghingheri e comprarsi un abito nuovo.
-Il mese prossimo le ragazze e io inizieremo a organizzare tutto, così appena Lucas sarà a casa dovrà solamente presentarsi all’altare! –dissi facendo scoppiare tutte a ridere. Mentre Anne e la mamma parlavano della signora Kent –che a quanto pareva stava tradendo il marito con un soldato che aveva dieci anni meno di lei – e Isabelle e Rosalie degli abiti che avrebbero indossato al matrimonio di Lucas e Diana, il campanello di casa Hemmings suonò.
-Vado io –dissi alzandomi, ma le altre quattro donne non mi davano importanza, assorte com’erano nei loro discorsi.
Andai verso la porta e sfoderai un sorriso di cortesia prima di aprirla.
Oh, non l’avessi mai fatto! Ricordo ancora adesso il momento in cui aprii quella dannata porta, ma anche se non l’avessi fatto dubito che sarebbe cambiato qualcosa. Quell’istante fu uno dei tanti avvenimenti che segnarono la mia intera vita, in un modo o nell’altro.
 
Davanti a me c’era un soldato in divisa da cerimonia con un addolorato sguardo di cortesia.
-Salve, sto cercando la signora Hemmings –disse togliendosi il berretto. Lo fissai per qualche istante senza proferire parola.
-Liz, cara, chi … -Anne mi aveva raggiunta e stava fissando il soldato con uno sguardo perso. E poi, lanciò un urlo. Fu un urlo così straziante e doloroso. La mamma, Rosalie e Isabelle accorsero a vedere che cosa stava succedendo.
-Mi dispiace, signora Hemmings, suo figlio … -Il soldato fu nuovamente interrotto da un altro urlo e da Anne che si accasciava al suolo fra le braccia della mamma.
 
 
 
L’aria fredda di gennaio mi sferzava il viso con violenza arrossandomi la punta del naso e le guance spruzzate leggermente di lentiggini. Ero appena uscita dal cinema, accompagnata dalle mie amiche e dai quattro soldati conosciuti la sera precedente.
Avevo passato tutta la mattinata e il pomeriggio a piangere, versando lacrime amare e piene di dolore e angoscia. Quando arrivò l’ora di prepararmi indossai un qualsiasi vestito, misi un po’ di trucco per nascondere le occhiaie e gli occhi resi rossi dalle lacrime ed ero ugualmente uscita. Non volevo rovinare l’uscita delle ragazze, Emma ci teneva così tanto!
L’unica parola che pronunciai fu un piccolo ‘ciao’ sussurrato appena arrivata al luogo dell’appuntamento e non avevo nemmeno rivolto la parola a James. Camminavo con lo sguardo basso, guardandomi la punta degli stivaletti, perché ogni volta che guardavo Diana rischiavo di scoppiare di nuovo in lacrime.
-Che cos’è quel muso lungo, Liz? –chiese Emma dandomi un piccolo buffetto sulla spalla.
-Lo so io che cos’ha la nostra piccola Lizzie –disse Pam con tono civettuolo. – Ha litigato di nuovo con sua madre perché non vuole darle il permesso di arruolarsi come infermiera e ora lei sta tenendo il muso.
-Smettila, Pam! –la rimproverò Diana. Al suono della sua voce alzai di colpo la testa e la guardai mentre i miei occhi venivano inondati di lacrime.
-Tu non sai niente –sussurrai con la voce rotta.
-Sapere che cosa? –chiese Emma.
Non ressi più. La mia maschera cadde a terra rompendosi in milioni di pezzi e con essa caddi a terra anch’io, con le mani sul viso e scossa dai singhiozzi. A terra, però, non ci arrivai perché le forti mani di James mi afferrarono appena in tempo e mi aiutò a sedermi sulla panchina più vicina.
-Che cos’è successo, Elizabeth? – sussurrò James al mio orecchio in modo che potessi udirlo solamente io. Impiegai qualche minuto per riuscire a parlare.
-Stamattina eravamo a casa della signora Hemmings quando è arrivato un soldato e… - mi interruppi a causa dei singhiozzi. Sentivo la mano di James accarezzarmi dolcemente la schiena coperta dal cappotto cercando di calmarmi. Alzai il viso verso Diana che mi guardava con gli occhi spalancati. –Mi dispiace così tanto, Dee!
Alle mie parole urlò e iniziò a piangere fra le braccia di Pam. Il suo urlo fu più forte e tragico di quello di Anne Hemmings, fu l’urlo straziante di una creatura che aveva appena perso l’altra metà della sua anima, di una donna che aveva perso l’amore della sua vita, la sua anima gemella.
 
Il soldato – Kevin Sullivan era il suo nome – quella mattina aveva portato con sé un’orribile notizia e un telegramma come evidente prova scritta di quella tragedia.
 
TENENTE LUCAS HEMMINGS
MORTO IN MISSIONE COME VOLONTARIO. ABBATTUTO DAI CACCIA TEDESCHI.
IL GIORNO 16 GENNAIO 1941.
 
Il mio caro povero Lucas era morto sotto i colpi di quei maledetti tedeschi proprio il giorno del mio compleanno. Quei maledetti figli di puttana avevano portato via un figlio, un amante, un fratello, un amico, un soldato…
Mi avevano portato via il mio Lucas!
Mentre io ero a festeggiare beatamente, mentre aprivo i regali, mentre facevo la smorfiosa con il maggiore Carter il mio Lucas –il mio migliore amico, mio fratello – stava lottando per proteggerci e ha perso la vita.
Se solo fosse rimasto qui come Henry.
Si era offerto volontario perché avrebbe guadagnato più soldi combattendo al fronte e voleva metterli da parte per il suo futuro con Diana e per il nostro viaggio. Ora non c’era più un futuro per lui!
Avevamo deciso che quell’estate avremmo fatto un viaggio on the road in giro per gli Stati Uniti, solo lui, Emma, Diana, Pam e io. Saremmo saliti su un’auto e avremmo girato l’intero Paese dormendo in tenda, in macchina o in qualche motel a basso costo e mangiando nei fast food.
Aveva dei sogni, dei progetti e solo diciotto anni! Tutto spazzato via, la sua vita e la nostra felicità.
 
 
 
-Non ho fame –dissi aprendo bocca dopo quelle che mi sembrarono ore. Non ero riuscita a dire quelle tre parole: Lucas è morto! Pam aveva riportato Diana a casa –accompagnate da Ethan e Frankie – e sarebbe rimasta con lei per tenerla d’occhio. Aveva suggerito a Emma di fare lo stesso con me, le avevo sentite.
Ero da ‘Sally’s’ con Emma, James e Dave. Tenevo la testa appoggiata al muro e gli occhi socchiusi. Avvertivo una forte nausea e avevo un terribile mal di testa. Mi guardavano tutti e tre preoccupati e avevo una gran voglia di urlare loro contro, ma non ne avevo la forza. Arrivarono le loro ordinazioni e la cameriera mi posò dinanzi un bicchiere di Coca Cola.
-Devi mangiare qualcosa, tesoro! –esclamò Emma accarezzandomi la mano che tenevo appoggiata sul tavolo
-Quando ho aperto la porta e ho visto quel soldato davanti a me, per un momento ho egoisticamente sperato, con tutto il mio cuore, che dicesse il nome di Ben o quello di Jack –dissi ignorando la bionda. -Ho pensato che sarebbe stato più facile se fosse morto uno di loro due perché sarebbe stata solo la signora Hemmings a soffrire così tanto, così io e Diana non saremmo state così coinvolte. Così io non avrei sofferto così tanto! Sono una persona orribile! –
Per quanto volessi bene anche ai fratelli maggiori di Lucas –Jack e Ben – ero molto più legata al minore che era una parte di me. La morte era una cosa terribile e non la si doveva augurare a nessuno, nemmeno al nostro peggior nemico!
-Non dire così, Liz! – mi rimproverò Emma.
-Chiunque al tuo posto lo avrebbe pensato, Elizabeth, non rimproverarti per questo. Sei umana ed è comprensibile in un momento come questo desiderare la morte di qualcun altro piuttosto che quella delle persone amate. – La voce di James fu come un balsamo per le mie ferite interne. Alzai lo sguardo su di lui e vidi che nei suoi occhi c’era un dolore simile al mio, sentivo che lui era l’unico in grado di capirmi. Chissà quanti compagni, quanti amici aveva perduto laggiù! Aveva forse conosciuto anche Lucas?
-Ho bisogno d’aria! –esclamai alzandomi in piedi e lanciando un’occhiata a Emma quando cercò di seguirmi. Sentivo le lacrime premere per uscire nuovamente fuori e non volevo continuare a piangere davanti a loro.
Dopo che uscii dal locale sentii nuovamente la porta aprirsi e richiudersi alle mie spalle, ma non mi voltai. In pochi secondi mi ritrovai fra le braccia di James e scoppiai nuovamente a piangere stringendo fra le mani con rabbia il suo cappotto. Mi accarezzava i capelli e la schiena tenendomi stretta a sé.
-Rivoglio il mio Lucas! –esclamai tra i singhiozzi.

-Va tutto bene, Elizabeth. – Lo sentii dire e sentii anche le sue labbra posarsi sulla mia testa. Avrei voluto che fosse una situazione migliore per potermi beare di quel contatto così bello e intimo fra di noi.


 
Come vi è sembrato? 
Personalmente ho pianto mentre scrivevo e sto piangendo ancora adesso mentre lo sto postando. Uccidere Lucas è stato una cosa orribile.
Sto seguendo le orme di J.K. Rowling, G.R.R. Martin, Suzanne Collins e tutta quella sfilza di autori che uccidono tutti i miei personaggi preferiti - o nel caso di Martin TUTTI i personaggi - e considerando che ne ho già fatto fuori uno al terzo capitolo prevedo una strage, tante lacrime, tanti fazzoletti e un sacco di insulti alla mia persona.
Votate e fatemi sapere che cosa ne pensate attraverso i commenti.
Ci rivediamo al prossimo capitolo :)

- Ekaterina

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Capitolo 4
*** 4. Kanawha River ***



Quarto capitolo


 
 
 
Dolore.
Era quel pesante macigno posato sul mio petto che mi lacerava il cuore e i polmoni impedendomi di respira. Annaspavo alla disperata ricerca di un po’ d’aria che rappresentava la pace. Finii le lacrime e l’aria fra le braccia di James.
-Dimmi che cosa posso fare per farti stare meglio, Elizabeth – esclamò prendendo il mio viso fra le sue grandi, callose, virili, calde e rassicuranti mani in modo che potessi guardarlo negli occhi.
-Portami via da qui, ovunque –sussurrai. Annuì e tornò dentro al ‘Sally’s’ per avvisare Emma e Dave.
 
 
 
Certe volte mi ritrovavo a pensare come sarebbe stata la mia vita se fossi nata da qualche altra parte, anche solo qualche casa più in là della mia. In un’altra famiglia, città, stato, via… Mi sarebbe piaciuto poter, per un solo giorno, indossare le scarpe, i vestiti e la vita di qualcun altro. Qualcuno che avesse una vita felice, una vita non toccata dalla guerra. Anche mentre aspettavo che James tornasse, pensavo a come sarebbe stato se non avessi conosciuto Lucas. Di sicuro non avrei provato tutto quel dolore.
Poi, però, mi resi conto di quanto potessi essere stupida, egoista e ingrata a pensare a quelle cose. Se non lo avessi conosciuto di sicuro non sarei diventata la persona che ero. Lucas faceva parte della mia vita sin dalla mia nascita e face parte del mio processo di crescita.
 
 
Ripensai a due estati prima quando eravamo andati a Magic Island per nuotare nel fiume Kanawha. Avevamo portato un cestino da picnic pieno di cibo e bevande, una coperta, qualche asciugamano e la palla, il guantone e la mazza per giocare a baseball.
 

Tenevo i piedi appoggiati sul cruscotto, il braccio destro fuori dal finestrino aperto e, con il vento leggero fra i capelli, canticchiavo la canzone di Billie Holiday che stavano trasmettendo alla radio. Lucas aveva preso la patente un anno prima quindi le nostre gite si erano spinte più lontano di quanto i nostri piedi potevano arrivare. Ci bastava prendere qualcosa da mangiare, un po’ di soldi e la roba che lui teneva sempre nel bagagliaio e partivamo la mattina presto tornando a notte fonda o qualche volta stavamo via anche per qualche giorno.
Ovviamente non era conveniente per una “signorina per bene” stare via così tanto e da sola con un uomo che non fosse suo marito o un suo famigliare, ma i miei genitori si fidavano e, poi, conoscevano abbastanza bene Lucas da sapere che non mi avrebbe sfiorata o “portato via l’innocenza” perché per lui ero come una sorella ed era anche follemente innamorato di Diana Roberts.
Arrivati sulle rive del fiume Kanawha, lui parcheggiò l’auto all’ombra e scendemmo entrambi. Stesi sotto un salice piangente la coperta e vi posai sopra il cestino da picnic; tolsi i sandali rossi e sfilai il vestito restando solo con un costume da bagno intero a righe blu e bianche che fasciava il mio corpo ancora acerbo. A quindici anni ero minuta e piccola, ma avevo già qualche curva che faceva voltare la testa ai ragazzi e anche a qualche uomo più grande. Iniziai a correre sull’erba arsa dal sole e mi tuffai in acqua, nuotai per un po’ sott’acqua e poi tornai in superficie per riprendere fiato.
-Coraggio, Luke, tuffati! –urlai sbracciandomi nella direzione del biondo che si stava ancora slacciando la cintura dei pantaloni.
-Attenta a non affogare, scricciolo – si raccomandò togliendosi le scarpe e lanciandole chissà dove.
 
Dopo aver nuotato e giocato in acqua come due bambini uscimmo dall’acqua e ci stendemmo al sole per asciugarci sotto i suoi caldi raggi. Stando al sole, la mia faccia si ricopriva di piccoli puntini marroncini comunemente chiamati lentiggini e i miei capelli castani diventavano più chiari.
-Lizzie –mi chiamò Lucas rompendo il silenzio.
-Che cosa c’è, Luke? –chiesi continuando a tenere gli occhi chiusi.
-Secondo te che rumore fa la vita?
Alla sua domanda aprii gli occhi e voltai il capo verso di lui guardandolo con un sopracciglio inarcato. Mi guardò anche lui e, notando la mia espressione perplessa, si spiegò meglio: -Insomma, ci sono un sacco di cose che fanno rumore, persino l’acqua, quindi mi chiedevo che rumore potrebbe fare la vita. E tu leggi un sacco, quindi forse lo sai.
Ci pensai un po’ prima di riuscire a dargli una risposta. Non era da lui essere così profondo e filosofico!
-Credo che abbia un suono diverso per ognuno di noi. Pensa a quello che ti viene in mente quando pensi alla parola ‘vita’ e che ti rendono felici – risposi guardando le nuvole bianche e soffici.
-La voce di Diana, la mamma che urla dietro a Jack e Ben, tu che suoni il pianoforte, il vento d’inverno, la tua risata, la musica alla radio, il rumore che fa la mazza da baseball quando viene colpita dalla palla, i ‘ti amo ’ di Diana. E secondo te? – Aveva detto un sacco di cose belle e la cosa che mi rallegrò di più fu l’essere tra quelle cose, fare parte della sua vita e contribuire alla sua felicità.
-Il leggero fruscio delle pagine dei libri vecchi, il rumore dell’acqua, la vocina di Daisy, il pianto di Max, la musica, papà che legge Puškin, la mamma che strilla perché Isabelle è rientrata di nuovo in ritardo, la tua voce e il tuo adorabile accento, il cinguettio degli uccelli, Rosalie che canta, tu che mi leggi i sonetti di Shakespeare… - dissi sorridendogli.
 
Alla fine di quella strana conversazione giocammo a baseball e lo stracciai, poi, decidemmo di mangiare e ci rimpinzammo di sandwich al tacchino, torta di mele, insalata di pollo e divorammo un’intera tavoletta di cioccolato. Restammo in quel luogo, in un certo senso isolato dal mondo, fino a sera per ammirare il tramonto e tornammo a casa quando ormai dormivano tutti.
Ogni tanto avevamo bisogno di sparire dal mondo, solo Luke, io e i nostri pensieri per mettere un muro d’isolamento tra noi e le altre persone. Qualche volta ci eravamo portati dietro anche Diana, Emma, Pam e gli amici di Lucas –Michael, Ashton e Calum-, ma non era lo stesso con loro. Sentivamo il bisogno –quasi fisico- di stare lontani dagli altri, solo noi e il nostro mondo.
Erano i nostri momenti da ‘migliori amici’ e li avevo anche con Emma, ma con lei erano diversi. Passavamo il tempo a parlare di cose come ragazzi, moda, film e altre cose anche più serie.
Con ognuno di loro avevo lo stesso legame che era al contempo diverso perché avevo conversazioni diverse con Emma piuttosto che con Lucas, facevo attività diverse a seconda di chi era in mia compagnia –insomma, non avrei mai giocato a baseball con Emma o provato reggiseno e messo lo smalto con Lucas! –, ma volevo loro ugualmente bene, in modo diverso anche se nella stessa misura.
 
 
 
 
 
Ritornai alla realtà grazie alla porta del locale che sbatteva e vidi James venire verso di me con la sua andatura sicura e rigida da soldato. Mi apre la portiera della sua auto e mi aiuta a salire, come un vero gentiluomo, per poi sedersi al posto di guida e mettere in moto.
-Emma ha detto che chiamerà i tuoi genitori per dire loro che resterai da lei per questa notte. – Annuii poggiando la testa alla superficie fredda del finestrino. La mia migliore amica mi avrebbe coperta con i miei genitori, lo aveva già fatto in qualche altra occasione passata, e loro non avrebbero fatto troppe domande quella volta con tutto quello che stava succedendo.
Piano piano le poche luci ancora accese iniziarono a scomparire e ci ritrovammo su una solitaria strada nel cuore delle foreste dell’West Virginia. Abbassai il finestrino, con un po’ di fatica dato che non doveva essere usato da un pezzo, e il vento gelido dell’inverno m’investì in pieno insieme al forte odore dei boschi. Voltai la testa verso James e lo trovai con lo sguardo puntato su di me. Provai una sorta di brivido lungo la colonna vertebrale e una piacevole fitta alla bocca dello stomaco. Abbozzai un leggero sorriso che valeva più di mille parole. Quell’uomo –sì, perché non era più un ragazzo – mi faceva provare strane emozioni e scatenava in me una tempesta facendomi sentire donna.
Vidi delle luce in lontananza e un’enorme macchia scura che –avanzando man mano – prendeva forma. La riconobbi subito come Fort Kinley!
Arrivati all’entrata fummo fermati da una barriera e due soldati con i fucili imbracciati. Prima che uno di loro arrivasse alla macchina, riappoggiai la testa contro il finestrino –che avevo richiuso- e tirai su il cappotto per coprirmi il viso. Molti mi conoscevano alla base, sapevano benissimo chi era mio padre, e se mi avessero riconosciuta sarebbero stati guai, soprattutto per James.
-Buonasera, maggiore Carter –disse il soldato che si era avvicinato. –Chi c’è con lei?
-Un’amica, soldato. Ora potresti farmi il dannato favore di tirare su quell’affare? – Il tono di James era più duro e diverso da quello che avevo sentito fino ad allora. Il soldato balbettò un’imbarazzata scusa e poi gridò al suo compagno di sollevare la barriera.
L'auto avanzava sulle vie della base militare. Era una vera e propria città in miniatura con le case dei soldati, quelle più lussuose degli ufficiali, qualche negozietto nel centro, un parco e la statua del generale Kinley nel centro. Sul lato sinistro della strada principale c’era un piccolo bar ancora aperto dal quale provenivano le note di una melodia jazz e il vociare dei soldati. James svoltò a destra, in una strada più stretta e con case più belle e grandi.
Fermò la macchina davanti a una casa bianca a due piani che aveva sul davanti una graziosa veranda e le persiane rosse, il suo alloggio alla base. Scendemmo e, come al solito, lui mi aprì lo sportello.
Una volta entrati, tolsi il cappotto e lo appesi a uno degli appositi ganci che c’erano nell’ingresso. In casa faceva caldo e si stava bene. Lui mi condusse verso il salotto invitandomi a sedere sul divano intanto che lui accendeva il camino per riscaldare e illuminare la stanza. Sarei dovuta essere a disagio nella casa di un uomo che conoscevo da poco più di tre giorni, nella casa di un soldato per dipiù e da sola con lui. Stranamente, però, provavo esattamente il contrario. Ero tranquilla, mi sentivo un po’ meno scossa e al sicuro; avrei scommesso la mia anima col diavolo sul fatto che James non mi avrebbe mai fatto del male e di certo avrei vinto!
-Posso usare il bagno? –chiesi con la voce ancora roca per il pianto e lui annuì dandomi le indicazioni necessarie per arrivarci. Salii le scale, attraversai un lungo corridoio e aprii la terza porta a sinistra accendendo la luce. Quando vidi il mio volto nello specchio sobbalzai. Avevo le occhiaie, gli occhi rossi e una scia di lacrime su entrambe le guance pallide come quelle di un cadavere. Sciacquai il viso con l’acqua fredda e ritornai più o meno al mio aspetto naturale.
Tornai nel salotto e il fuoco scoppiettava allegramente nel camino. James era seduto su una poltrona, con la testa poggiata a una mano, pensieroso. Appena notò la mia presenza un sorriso spuntò sulle sue labbra. –Vuoi una tazza di the, Elizabeth?
-Sì, grazie, se non è un disturbo –mormorai imbarazzata sedendomi compostamente sul divano. Tutto d’un tratto ero diventata timida rendendomi conto realmente della situazione. Non che sarebbe successo qualcosa, ma mi sentivo strana.
-Non lo è, tranquilla- rispose sorridendomi.
Trafficò per un po’ in cucina per poi ritornare in salotto con un vassoio sul quale erano poggiate due tazze piene di liquido ambrato, del latte e zollette di zucchero. –In Inghilterra ho imparato a fare un the che ti riscalda l’anima –disse poggiando il vassoio sul tavolino da caffè che si trovava dinanzi al divano sul quale ero seduta. Lo ringraziai, misi una zolletta di zucchero e un goccio di latte nella bevanda e portai la tazza alle labbra. Il liquido era bollente, ma servì a scaldarmi fisicamente e mi tirò su il morale. Quello che mi scaldò l’anima, però, non fu il the, ma lo sguardo di James su di me e il suo sorriso dolce.
-Dove andrai dopo la licenza? –chiesi dopo un po’.
-Mi hanno trasferito a Pearl Harbor, alle Hawaii –rispose posando la sua tazza, ormai vuota, sul vassoio.
-Ti farà bene un po’ di caldo e tranquillità – dissi riuscendo a sorridere veramente per la prima volta in quella giornata orribile.
-Credo di sì, lo spero. E tu, finirai il liceo quest’anno?
-Oh no, l’ho già finito due anni fa e ho fatto dei corsi di medicina per potermi arruolare come infermiera.
-Accidenti, una ragazza da college! –esclamò facendomi ridere. –Quando hai intenzione di arruolarti?
-Lunedì –risposi dopo aver bevuto l’ultimo sorso di the.
 
 
Quando fu l’ora di andare a dormire era ormai passata la mezzanotte da un pezzo e James mi mostrò la sua camera. Il letto matrimoniale era perfettamente rifatto, un massiccio armadio ricopriva un’intera parete, su uno dei comodini accanto al letto c’erano dei libri impilati l’uno sull’altro e una lampada e delle pesanti tende impedivano alla luce di filtrare nella stanza.
-Puoi dormire qui, io andrò nella stanza degli ospiti –disse prendendo dall’armadio una coperta.
Mi morsi il labbro inferiore nervosamente non sapendo se fosse saggio fare quello che avevo in mente.
–James –lo chiamai voltandomi verso di lui.
-Sì?
-Resta qui, con me. –Feci un passo verso di lui. Mi guardò sorpreso e a bocca aperta.
-Elizabeth…
-Lo so, non è conveniente, ma ho bisogno di sentirti vicino a me! –Afferrai la sua camicia fra le dita guardandolo negli occhi. Deglutì nervosamente per poi annuire.
Sfilai le scarpe, le calze di nylon e le forcine dai capelli mentre James si stava togliendo la camicia –che posò sullo schienale di una sedia – e le scarpe. Ci infilammo sotto le coperte e lui spense la lampada sul comodino; restammo impacciati a distanti finché non ebbi il coraggio di chiedermi di abbracciarmi. Si avvicinò a me, facendo frusciare le lenzuola, e mi mise un braccio intorno alla vita tirandomi verso di sé. Il mio cuore iniziò a battere forte, come un tamburo, ed ero sicurissima che le mie guance fossero rossissime. Posai una mano e la testa sul suo petto, proprio sopra il cuore che batteva forte quanto il mio.
Quando ero ormai più addormentata che svegliai sentii le labbra di James posarsi sulla mia testa in un tenero bacio per poi sussurrare:
-Buonanotte, piccola Elizabeth!


 
L'angolo di Katjusha

Salve a tutte/i! 
Eccomi qui con un nuovo capitolo. Ci ho messo un po' a scriverlo perchè dopo il flashback non riuscivo ad andare avanti, ma oro sono qui.
Che cosa ne pensate? Vi è piaciuto oppure no?
Come vi è sembrato il ricordo? Secondo voi l'ultima parte è un po' troppo azzardata? Sono piena di dubbi...

Vorrei ringraziare tutte le persone che hanno messo la storia tra le seguite/preferite/ricordate e quelle che l'hanno recensita dandomi dei buoni consigli. Vi sono grata, davvero, siete una parte importante della crescita di questa storia.
Aspetto con ansia i vostri commenti e ci vediamo alla prossima :)

-Ekaterina.

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Capitolo 5
*** 5. Oh, Elizabeth... ***






 
Quinto capitolo

 
 
Quando mi svegliai erano passate le cinque da pochi minuti e James dormiva sereno stringendomi fra le braccia. Cercai di liberarmi senza svegliarlo, ma doveva avere il sonno alquanto leggero dato che aprì subito gli occhi guardandomi disorientato per qualche secondo. Gli rivolsi un timido sorriso e le mie guance si tinsero di rosso a causa della situazione in cui ci trovavamo.
 
-Oh, Elizabeth… che cosa sei? –esclamò con la voce roca e chiuse gli occhi sospirando. Il mio corpo venne percorso da un intenso brivido dopo le sue parole. Mi feci coraggio e alzai una mano per accarezzarli la guancia e sfiorare una piccola cicatrice sotto l’occhio destro che era difficile da scorgere da lontano. Riaprì gli occhi di scatto e mi fissò quasi spaventato. Continuai ad accarezzarlo sentendo la morbidezza della sua pelle e la ruvidità della barba che iniziava a ricrescere. Percorsi il contorno delle sue labbra con la punta delle dita e sentii una morsa alla bocca dello stomaco. Il mio cuore batteva sempre più forte mentre le mie carezze si estesero sulla mascella, sul mento e sul collo.
Ad un tratto James mi afferrò la mano fermandomi e rimasi sorpresa dal suo gesto, forse avevo frainteso i suoi sentimenti nei miei confronti pensando che potesse provare quello che sentivo io. Cercai di non fargli scorgere la delusione nel mio sguardo mentre aspettavo una spiegazione e mormorai delle scuse.
-Non scusarti, Elizabeth. Non ti ho fermata perché non ho gradito i tuoi gesti –disse continuando a tenere la mia mano fra la sua molto più grande.
-Ma… -cercai di dire qualcosa, però fui interrotta da lui.
-L’ho fatto perché sei nel mio letto, fra le mie braccia e sono pur sempre un uomo, piccola Elizabeth – continuò con la voce sempre più roca. Arrossii violentemente alle sue parole perché ne compresi appieno il significato. Lui mi desiderava.
-Oh… - sussurrai abbassando lo sguardo.
-Non hai idea di quello che provochi dentro di me ogni volta che ti guardo –disse e alzai lo sguardo sorridendogli.
-Credo di saperlo, invece, perché anch’io provo lo stesso – confessai arrossendo ancora di più, anche se pensavo non fosse possibile. Sentii le sue braccia stringermi più forte e le sue labbra baciarmi la fronte a lungo, come se non volesse lasciarmi andare.
Restammo così per un po’ di tempo, l’una tra le braccia dell’altro senza riuscire a dire o fare di più. Ci bastava guardarci negli occhi e sfiorarci con la punta delle dita e con gli sguardi.
-Puoi accompagnarmi da Emma? –chiesi spezzando il silenzio.
-Ora?
-Sì, così riuscirò a entrare in camera sua prima che sua madre si svegli – risposi. James annuì e mi liberò controvoglia dalle sue braccia.
 
Dieci minuti più tardi eravamo in auto, diretti verso la città e la mia destinazione. Le nostre mani erano intrecciate e provavo un dolore quasi fisico al pensiero di dovermi separare da lui. Arrivammo troppo in fretta e non riuscivo a salutarlo. La notte passata insieme aveva portato il nostro rapporto a un altro livello e aveva anche reso difficile starci lontani.
 -Voglio rivederti, Elizabeth, e starti accanto ogni singolo giorno finché non partirò – disse allungando una mano per accarezzarmi i capelli. Fremetti sotto il suo tocco e socchiusi gli occhi. –Anche io, James, ma non voglio pensare alla tua partenza o alla mia per ora. Voglio solo godermi il tempo che possiamo passare insieme.
Ci guardammo negli occhi per un tempo interminabile, poi James si schiarì la voce, gli posai un bacio sulla guancia, e scesi dalla macchina salutandolo un’ultima volta.
 
Senza non poca fatica riuscii a entrare nella stanza di Emma dalla finestra, dopo averla svegliata tirando dei sassolini sulla superficie sottile del vetro. Tolsi i vestiti e m’infilai sotto le coperte accanto a lei rabbrividendo a causa del freddo. Eravamo entrambe stese su un fianco, una di fronte all’altra, e lei teneva la testa appoggiata a un gomito per guardarmi meglio.
-Allora? –chiese lei maliziosa mordendosi il labbro inferiore, segno che era estremamente curiosa.
-Che cosa?
-Lo avete fatto? Racconta, su –mi esortò facendomi arrossire.
-No, Ems, abbiamo solo parlato per ore e dormito –risposi tranquillamente.
-Non vi siete nemmeno baciati?
Scossi la testa in segno di diniego e lei manifestò il suo evidente dispiacere.
-Oh Santo Cielo, Liz, che cosa vi ci vuole per capire che siete pazzi l’uno dell’altra? – chiese quasi esasperata facendomi ridere.
-Però abbiamo dormito nello stesso letto, abbracciati per tutta la notte, e mi ha chiaramente detto di desiderarmi più di quanto sia lecito – le confessai alquanto imbarazzata, un po’ per accontentarla e un po’ per convincermi che i fatti accaduti quella notte fossero reali e non solo frutto della mia mente.
Emma quasi cacciò un urlo, ma si trattenne portandosi una mano davanti alla bocca per evitare di svegliare la madre. Ci guardammo per un po’ negli occhi sorridendo e poi scoppiammo a ridere. Adoravo la mia migliore amica, le volevo un bene infinito, e - per un breve ma intenso istante - pensai a come sarebbe stato se avessi perso anche lei, com’era appena successo con Lucas. Smisi di ridere e diventai seria, pensierosa e le lacrime minacciavano di uscire da un momento all’altro, di nuovo. Deglutii cercando di fermarle e di non far capire a Emma i miei pensieri, ma lei se ne accorse ugualmente, mi conosceva troppo bene.
-Ehi, Liz, non essere triste! - esclamò dolcemente accarezzandomi la guancia. –Lucas è in un posto migliore adesso, dove non c’è tutta questa sofferenza e crudeltà.
-Come fai a dire una cosa del genere? Lui voleva vivere, tornare a casa, sposare Diana. Dovevamo fare quel viaggio, Emma! – dissi alzando di un’ottava il tono della voce.
-Lo so, tesoro, ma ci sono persone destinate a vivere ottant’anni e altre diciotto. Pensa che è morto felice di sapere che tu e Diana lo avete amato e lo amate ancora così tanto. È morto per dare un futuro felice a te, a noi e ai nostri figli…
Non risposi, mi limitai a farmi abbracciare dalla mia migliore amica e a pensare agli occhi incredibilmente azzurri di Lucas e al suo sorriso, finché non mi addormentai.
 
 
 
Ero nella mia stanza, seduta sul bordo del letto, con il cappotto ancora addosso e in mano un pacco di lettere. Dieci per l’esattezza.
Appena entrai in casa, mia madre mi consegnò quelle lettere tenute insieme da uno spago che il postino aveva portato il giorno prima. Erano tutte di Lucas, lettere arretrate che non erano arrivate perché il servizio postale era altamente scadente. Sembrava quasi uno scherzo del destino, il fatto che quelle lettere fossero arrivate tutte in una volta e proprio in quel momento in cui avevo bisogno di sentire che Lucas aveva davvero fatto parte della mia vita. Sentivo la necessità di avere qualcosa che portasse un pezzo della sua anima per tenerlo nel mio cuore e nei miei ricordi per sempre. Avevo preso le lettere e, sotto gli sguardi preoccupati della mia famiglia, ero salita al piano di sopra.
Presi un respiro profondo e slegai lo spago per liberare le buste. Guardai le date, la più vecchia risaliva a sei mesi prima e l’ultimo al giorno del mio compleanno. Non trovai la forza per aprirle, lo avrei fatto in un momento più lontano, quando il dolore per la sua morte sarebbe stato un po’ meno forte.
 
All’ora di pranzo, mia madre m’informò che il funerale si sarebbe tenuto martedì e che quel pomeriggio sarebbe andati tutti a casa Hemmings per dare supporto ad Anne.
-Andrò da Diana per vedere come sta – dissi prima di mettere in bocca una forchettata carne.
-Che non ti venga in mente di andare al fronte, Henry, altrimenti ti uccido con le mie mani! – esclamò mia madre minacciando mio fratello maggiore con la forchetta. Il diretto interessato deglutì, evidentemente terrorizzato da nostra madre, e annuì con foga. Nostro padre scoppiò a ridere e lanciò uno sguardo amorevole alla mamma: -Mia cara, se tu minacciassi in questo modo Hitler, la Germania si ritirerebbe dichiarandosi sconfitta! - La mamma divenne paonazza e lanciò un’occhiataccia al marito e a noi altri che stavamo ridendo per la sua espressione buffa e indignata e per la battuta di papà.
 
 
Più tardi, quel giorno, andai a casa Roberts e dopo aver suonato il campanello mi aprì Pam. Aveva un’espressione triste sul viso, i capelli leggermente scompigliati e una macchia sulla spalla destra.
-È chiusa in camera sua da ieri pomeriggio e non ne vuole sapere di mangiare, né di uscire, né di alzarsi da quel maledetto letto…
La seguii verso la stanza della nostra amica limitandomi ad annuire. La bellissima Diana Roberts era rannicchiata sul letto come una bambina, indossava gli stessi vestiti del giorno precedente, aveva le occhiaie scure sotto gli occhi, le labbra screpolate e rovinate dai morsi, le guance e il cuscino bagnati di lacrime e stringeva al petto una fotografia di Lucas. Sembrava così piccola e fragile, era stata picchiata, torturata, distrutta, annichilita dal dolore.
Mi sedetti sul bordo del letto, accanto a lei, e le spostai una ciocca di capelli dalla fronte.
-Come riesci a respirare, a vivere? – chiese con la voce roca a causa del pianto e del prolungato silenzio.
-È difficile, ma lo faccio per lui – rispondo con la voce ridotta ad un sussurro.
-Che vuoi dire? Lui, ormai, è… - non riuscì pronunciare l’ultima parola.
-Lucas era allegro e sorrideva, sempre. Se potesse ci direbbe di andare avanti, vivere, amare, ridere per lui. – Abbozzai un sorriso. – Non avrebbe mai voluto vederci tristi, nemmeno per la sua morte.
-E cosa dovrei fare? Alzarmi e fare finta che non sia successo niente? – Si stava alterando.
-Certo che no. Nessuno te lo chiede, Dee. –Inspirai profondamente prima di continuare. – Alzati da qui, esci fuori e vivi! Non devi dimenticare o smettere di soffrire perché è impossibile, col tempo ti abituerai al dolore e ti sembrerà che non ci sia più. Ma vivi, Dee, fallo per lui che non può più!
-Come fai a sapere che funzionerà?
-Non lo so, ma è quello che ho intenzione di fare io! – Le baciai la guancia umida di nuove lacrime e mi alzai dal letto. –Ho sentito profumo di torta al cioccolato quando sono entrata e credo che i dolci di tua madre siano il modo migliore per iniziare a vivere!
Pam scoppiò a ridere e Diana abbozzò un sorriso mettendosi a sedere sul letto. Diede un’ultima lunga occhiata alla foto di Lucas e la posò sul comodino. -È quello che avrebbe fatto lui, siete uguali, Liz! – esclamò alzandosi.
Passammo il resto del pomeriggio mangiando la torta al cioccolato della signora Roberts, bevendo the caldo e raccontando vecchi aneddoti su Lucas davanti al camino acceso. Come quella volta a cinque anni –dopo che sua madre ci lesse “Peter Pan” -, quando si buttò giù dal tetto di casa sua pensando di riuscire a volare grazie ad un pensiero felice e alla cipria di Anne Hemmings –credeva fosse polvere di fata! - L’unica cosa che ottenne fu una gamba rotta, un mese di punizione e le prese in giro dei suoi fratelli.
-Hai intenzione di partire anche tu? –chiese Diana con un filo di voce.
-Domani andrò alla base, però molto probabilmente mi manderanno in un posto come Pearl Harbor. Non andrò in guerra finché non sarò costretta – dissi cercando di tranquillizzarla. A dire il vero, non ero molto sicura di quello che avevo appena detto. Ero abbastanza coraggiosa o matta – pensatela come vi pare – da andare al fronte perché c’erano soldati che avevano bisogno di cure o anche solamente di qualcuno che tenga loro la mano durante gli ultimi istanti di vita.
-Promettimi che starai attenta quando arriverà il momento –sussurrò guardandomi intensamente. Annuii e suggellai la promessa con un sorriso.
-Dov’è finita Emma? –chiese dopo un po’ Pam cercando di alleggerire la situazione.
-Aveva appuntamento con un certo Dave Coleman – risposi con un sorriso malizioso. Emma era uscita con tanti ragazzi e dopo qualche appuntamento li mollava prontamente con qualche scusa tipo “non siamo fatti per stare insieme” o “non abbiamo gli stessi gusti”. Però sembrava alquanto presa da Dave ed ero felice di vederla così spensierata. Lei cercava di sempre di apparire più grande e matura di quello che era, ma Dave la faceva sentire piccola e tirava fuori il meglio di lei.
 
 
Quando tornai a casa quella sera, trovai mio padre e mio fratello Henry in cucina che stavano facendo bruciare qualcosa. Max e Daisy, seduti al tavolo, battevano cucchiai e forchette sulla superficie di legno ridendo gioiosamente.
-Che cosa state cercando di fare? –chiesi varcando la soglia. Si voltarono entrambi nella mia direzione e mi guardarono come se fossi la cosa più bella del mondo.
-Abbiamo fame e mamma, Izzy e Rose sono ancora dalla signora Hemmings – spiegò Henry con un’espressione comicamente triste sul viso. Mio padre aveva un’espressione molto simile alla sua. Scossi la testa divertita.
Tolsi dalle mani dei piccoli le posate, mettendole sulla credenza, e lanciai loro un’occhiataccia quando iniziarono a protestare urlando. Nella padella sul fornello c’era qualcosa di nero e bruciacchiato che emanava uno strano odore e non era molto invitante. Lo gettai immediatamente nella spazzatura ordinando a Henry di lavare la padella.
Ero pronta a improvvisare qualcosa per la cena, ma un foglietto di carta posato in un angolo del ripiano attirò la mia attenzione. La calligrafia era della mamma: “Per la cena guardate nel forno.
Seguii le istruzioni e trovai arrosto e patate in una teglia, dovevo solamente riscaldare tutto per una decina di minuti. Presi la scatola dei fiammiferi e accesi il forno che iniziò a irradiare calore.
-Come avremmo fatto senza di te, sorellina! –esclamò Henry facendo ridere papà.
-Ci hai salvati dal digiuno, Liz – disse nostro padre sedendosi al tavolo.
-Certo, ma non statevene lì impalati a fare nulla. Finite di apparecchiare! –esclamai sventolando un mestolo che avevo afferrato dal ripiano.
Fecero entrambi il saluto militare: -Sissignora!
Il piccolo Max cercò di imitarli e urlò qualcosa che sembrava un: -Iii iniolaaa!
Scoppiammo tutti a ridere e Daisy gli scompigliò i capelli.





 
L'angolo di Katjusha

Lo so, avete voglia di linciarmi e ne avete tutto il diritto! Ci ho messo un sacco di tempo per scrivere questo capitolo perché le vacanze, ahimè, sono alla fine e ho dovuto studiare e lavorare. 
Eventuali errori verranno corretti in seguito.

Ringrazio la mia Sam - comeilmaredinverno - per il banner ♥

Che ne pensate di questo capitolo? Aspetto i vostri pareri.

Ci vediamo al prossimo (spero di essere più veloce) capitolo :)

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