Produzione di allucinogeni Esther Duncan: Three Hundred Thousand.

di Gatto Magro
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ossequi, Capitano ***
Capitolo 2: *** Ave Icarus. ***
Capitolo 3: *** All I wanna do is (bang-bang) ***
Capitolo 4: *** Sunday mo(u)rning. ***
Capitolo 5: *** Le Porte Spettrali. ***
Capitolo 6: *** Caro Bellamy, ***
Capitolo 7: *** I tuoi 23 anni, i miei 26 anni. ***
Capitolo 8: *** duemilasette - duemilatredici ***
Capitolo 9: *** "It's like being at Disneyland. On acid." ***
Capitolo 10: *** Scritto sul muro con l'eyeliner. ***
Capitolo 11: *** We go where we know. ***
Capitolo 12: *** Come le patatine fritte (è sempre un buon momento per una torta al cioccolato.) ***
Capitolo 13: *** Prima che fossimo come le patatine fritte: insanguinati sul pavimento. (A raccontarci bugie.) ***
Capitolo 14: *** Then the night fell on us. ***
Capitolo 15: *** The Queen is dead. ***



Capitolo 1
*** Ossequi, Capitano ***


Capitano, ti scrivo una lettera perché non ho altro da fare, qui al buio.
Capitano, scusa se le parole si mescolano e cambiano di riga senz’ordine, so quanto non sopporti che gli oggetti non siano in ordine, e allora guarda le parole come se non fossero affatto oggetti, immagina che ci sia io davanti a te che parlo e mi si mescolino fra labbra e lingua per l’emozione e la fretta. Scusa per il carboncino che sbava e la polvere nera che se ne va dove vuole: al buio non la vedo Capitano, non posso neanche sgridarla per farmi rispettare un po’. E così è dappertutto sul foglio e sulle mani; forse è anche colpa mia perché sto tremando, Capitano.
Stai cominciando a capire, tu; io sto cominciando a diventare vecchio. Senza il sole si appassisce, te lo raccontava sempre Fabula e ti piaceva ascoltare le sue storie quando ci fermavamo la notte e accendevamo il fuoco. Io sono appassito fra la polvere e la roccia: se mi tocco non capisco a chi appartiene, ora, il mio corpo. Dove finisce la pelle piagata e inizia la screpolata roccia, e se quello che mi rimane fra le dita, quello che respiro, sia polvere o siano i miei capelli. Non fanno che cadere, Capitano.
Non mi ricordo più il loro colore, ma mi ricordo quello dei tuoi.
Di te ricordo tutto. Con la cera che mi avevi infilato nelle orecchie ho modellato il tuo viso finché il sale non l’ha sciolta; allora ho cercato di scolpirlo sulla roccia, con le unghie.
Capitano, se pensi a me pensami in piedi, perché io non riesco più ad alzarmi. Ho dimenticato dove siano i miei piedi, o forse non li ho più, si sono trasformati in pesci e sono sguazzati fuori. Pensami dritto e non con le ossa spezzate.
Capitano, io a volte ti odio. La mia tomba di ossigeno sul fondo del mare avrebbe dovuto essere tua, ma non ti meritava. Non ti meritavano le alghe viscide, la gola scura in cui sono rimasto chiuso. Ma se fosse stata piena di conchiglie rosa, di sirene dai capelli verdi e di busti d’oro, Capitano, tu ci saresti morto in pace.
Capitano, è la mia ultima lettera.
Stanotte saranno sorte cinque lune da quello strano giorno, e la grotta si riempirà d’acqua. Ho paura, ma tu non averne: credo che sarà bellissimo, come tornare a respirare, e il mio corpo sarà pulito e svuotato, si nuovo corpo, di nuovo carne e acqua e sangue, forse. Nuoterò fuori da esso fino in superficie, fino ai nostri porti, e mi arrampicherò sulla scogliera e le rocce non mi mozzeranno le dita, spargerò il sale alle radici del tuoi fichi e farò fiorire i papaveri.
Capitano, poi verrò a prenderti.

 

Levante

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Capitolo 2
*** Ave Icarus. ***


Sei tornato un giovedì pomeriggio, con te c’era un sole pallido sorto a scaldarci dopo settimane di pioggia torrenziale, aliti di vento caldo e le ultime foglie cadute dai gelsi. Eri tutto bagnato come se non avessi trovato niente sotto cui ripararti durante le tempeste: la tua vecchia maglietta ti si era incollata alla pelle, vedevo in trasparenza il nero della tua pelle imbevuta nell’inchiostro, camminavi scalzo sul marciapiedi perché le scarpe le tenevi in mano, sudicie e scolorite.
C’era qualcosa di strano sul tuo viso, intorno alle labbra. Da lontano non vedevo bene, non avevo messo le gocce e la luce mi bruciava gli occhi se li tenevo aperti troppo a lungo. Cos’hanno fatto alle tue belle labbra, ho pensato, maledicendoli. Anche le tue spalle avevano qualcosa di strano, ma da così lontano non potevo esserne sicura. Angoli sporgenti, ossa rigonfie sotto il lino sottile.
Cos’era la pasta gialla che ti imbrattava la schiena, chi ti aveva soffiato addosso l’odore dell’acciaio?
Alle mie domande tu rispondevi cantando; io non vedevo, tu mormoravi liriche di tramonti annacquati e sembravi così felice che non trovavo giusto costringerti a guardarmi.
 
Quando ti sei spogliato non mi sono potuta trattenere; mi sono girata e ho vomitato sulle piastrelle scarlatte del bagno. Il rifiuto ti ha bucato i polmoni e ti sei rinchiuso in un silenzio che mi meritavo fino all’ultimo chiodo infetto, dentro la pelle.
L’acqua nella vasca si era colorata delle mie lacrime e dei liquidi che perdevi. Torbida, come la mia vista spirata. La spugna mi è scivolata tra le tue gambe per quanto tremavo, e ho dovuto lavarti con le mie mani, inghiottendo il sale e il disgusto.
Però la tua pelle era ancora bella, aveva ancora il colore dell’ambra, luccicava bagnata.
Che cosa ti avevano fatto.
Non ci stavi seduto nella vasca, ti facevo male se ripiegavo in qualche modo le tue ali, nuovi arti mozzati impalpabili e monchi, repulsione, orrore, ibrido, il loro peso faceva sporgere le estremità del robusto filo di acciaio che le teneva cucite alle tue spalle. Pregavo che la pelle non si sfibrasse all’improvviso, tra le mie dita, che l’acciaio rimanesse inerte e non cominciasse a strisciare inchiodando anche il mio corpo al tuo, deformità, cera, bolle di sangue coagulato si scioglievano sotto le mie unghie.
La semi- cecità abbatteva le mie difese, il mio cervello succhiava effetti collaterali e scorie di pensieri che immagazzinavo tra i più osceni.
Tu non dicevi nulla. Accettavi il ribrezzo che ti sputavo addosso. Come avrei potuto altrimenti?, tu lo capivi.
Io no. Ancora oggi, mi sfugge il senso della tua incoscienza.
 
Starti vicino ormai mi rivoltava. Com’ero ingrata, dopo tutto quello che avevi sopportato di me: la mia mezza vita, mezza vista, mezza femminilità.
Io non ero in grado di starti accanto adesso che eri stato spezzato a metà anche tu. Era stata una tua scelta, questo era il particolare che più mi gettava nel panico. Cos’altro avresti fatto, per sentirti simile a me, per non farmi sentire sola? La tua integrità era stata il mio sostegno.
Cucite le ali, cuciti fra loro i muscoli della bocca. Più nudo e sconcertante dell’essere, muto come Dio.
Ogni notte ho lasciato le finestre aperte sperando che volassi via, o ti gettassi dal terrazzo. Ogni mattina mi sono svegliata e ho nascosto con le mani la metà inferiore del tuo viso per ritrovare la bellezza nel tuoi lineamenti aspersi dal sole di giugno.
Non ha conclusione la nostra esistenza qui, non ha un senso. Ma ci sono stati momenti, fratture nei secoli dei secoli, in cui uscivi dallo sdegno e appoggiavi la tua bocca scarnificata sulla mia pelle, e io scomponevo l’odore e il freddo dell’acciaio fino a trovare il sapore di un bacio.

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Capitolo 3
*** All I wanna do is (bang-bang) ***


Sfila sul marciapiede spostando il peso da un piede all’altro, e dondola, e perde l’equilibrio, sfiora con un angolo dei sandali di plastica un sacco dell’immondizia, che protesta con un fiacco sussurro sintetico, le collane scivolano dal suo petto e ciondolano nel vuoto, le catene e le perline di vetro finto si contendono gli spicchi di luce rubati a qualche sporadico lampione o ad una finestra, i bracciali scivolano sulla pelle quando solleva le braccia in un passo di danza complicato come uno starnuto, tintinnano su e giù, brevemente, poi il suono si soffoca incontrando le maniche della felpa, aperta con distrazione le scopre le spalle e le fa da vela accogliendo lo stanco vento che spira fra i vicoli strizzati fra mattoni viola e infissi scardinati, e la sua felpa è sporca di salsa e fango e fuliggine e erba e nebbia sui polsini lisi e sul petto, la sua felpa è sporca un po’ ovunque se si guarda con più attenzione, di polvere e cibo e colori della strada, ma sono macchie leggere, macchie aggraziate e personali, non unte, dipinte dal gioco o dalla fame o dalla corsa, e la sua felpa ha le maniche larghe come un mantello – come un mantello ondeggia alle sue spalle – e le ragazze di Downtown non se la metterebbero per quei colori male accostati e per le fantasie stravaganti da eroi di fumetti e pop-art vecchia maniera, per quelle macchie di leopardo e per quella cerniera di plastica viola; alle ragazze di Downtown piace guardarla solo per un secondo, poi distolgono lo sguardo prima che qualcuno se ne accorga, alle ragazze di Downtown resta solo il suono dei sonaglini appesi alle sue caviglie, che svanisce dolce dietro la bancarella del pesce al venerdì; ai ragazzi di Downtown piacciono i suoi pantaloni stretti e la cucitura che attraversa il culo giusto come una carezza, le unghie irregolari e i graffi che lascerebbero sotto le loro camicie, la delicate dita dei piedi scalzi, irritata dagli anelli di metallo ossidato, le punte biondastre dei capelli opachi, duri come corda e liberi come vento – i ragazzi di Downtown vorrebbero un bacio sulla pancia da quelle labbra, e più giù, in un vicolo fra Norfolk e la scuola superiore e poi vorrebbero…
 
Vapori di cucina e fumo dai comignoli, un gatto dagli occhi gialli e ombre sui mattoni, una donna urla ma la sua voce è coperta dal fragore metallico delle saracinesche che si chiudono, si chiudono al suo passaggio, vattene via Daker,la strada scompare davanti ai suoi passi, muoiono i colori come si aumentano i contrasti di un’immagine, la sua ombra languisce sul marciapiede e il suono dei suoi campanellini si fa lontano e attutito e disperso
 
Il mare si gonfia e sputa sulla riva scura alghe, reti, molluschi morti e rifiuti della città. La sabbia arrossa ancora di più la sua pelle, sfregata dagli anelli attorno alle dita. Lasciano un’impronta tossica e bluastra, sotto. I suoi shorts di jeans e la canottiera nera non sono abbastanza per affrontare gli stralci persistenti di inverno; l’aria è fredda come a febbraio e lei non mangia da due giorni, se esclude le fette di prosciutto rubate dal carrello di una donna appena uscita dal supermarket, ieri sera, ma ha dovuto condividerle con Chariot, che si lamenta sempre e non è mai sazia, ma non procura mai nulla. Comincia a sentire del calore diffondersi dalle cosce, forse perché sta pensando a Chariot. Spera piuttosto che non le sia iniziato il ciclo mestruale. Sta per inginocchiarsi e togliersi i pantaloni per controllare quando all’improvviso sente un latrato di cani, seguito da respiri affannati e accelerati; cinque uomini le corrono incontro saltando fra i cimiteri di alghe, scivolando sulla sabbia bagnata.
Scappa. Meglio, corre. Corre via, è la cosa che le riesce meglio. Il mare si spingerà sulla riva e le bave d’acqua si arrampicheranno sui loro stivali di pelle e li trascineranno via. Sentirà soltanto il loro urlo prima di venire coperti dal sale, poi tutto verrà spazzato via dalla fine dell’inverno e dal suono dei suoi campanelli.

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Capitolo 4
*** Sunday mo(u)rning. ***


C’è settembre e tutte le cose che A Settembre Sono – meravigliosamente e con un rumore croccante sotto i vostri piedi; perdiamo tempo in gialli, ocra, colori diagonali che bagnano l’erba alta e profumata, non quella del giardino della zia Pax, tosata con la precisione di un’estetista alle prese con delle sopracciglia irsute, ma l’erba alta sul serio, quella selvatica che mastica i marciapiedi e infesta i campi a riposo, quella impolverata di petali e briciole di foglie e ragnatele e grappoli di fiori. Disegno sul retro della carta del regalo di Lauren, oleosa e molto buon gusto retrò, e quando viene sera mi alzo dal tavolino dell’Holly e lascio una banconota da venti per la cameriera con i capelli azzurri e me ne vado lasciando il regalo accanto alla tazza di latte vuota e al piatto rigato di marmellata. Resta così, l’orso di peluche di Lauren, con il muso appoggiato alla finestra, anche lui a guardare l’autunno scendere con grazia; il suo pelo color crema un’altra sfumatura calda aggiunta al quadro che la cameriera ignora, intenta a lavare bicchieri con uno straccio unto.
Aspettando il tram, cerco di non pensare troppo all’aria leggera che sento passare fra i capelli, che mi ricorda le carezze delle piccole dita fredde di Bliss e tante altre sensazioni, che portano tutte il suo profumo e lo stesso peso, briciola su briciola. Sul mezzo provo a focalizzare il riflesso dei miei occhi sul finestrino, ma finisco per appannarlo tutto con il fiato e allora faccio dei disegni stupidi con dei colpetti delle unghie e ogni volta li cancello con il palmo della mano, mi fa un po’ schifo pensare che sto tirando su tutti i respiri che sono stati fatti contro quel vetro. Non so perché, ma vorrei che quelle persone – chiunque siano, non ha importanza: sono solo particelle di vapore – non siano mai esistite. È tutta colpa di quella specie di rabbia che ti sale in gola appena dopo un compleanno. Forse la persona che non dovrebbe esistere sono io.
 
 
 
Halloween sta per arrivare, penso all’improvviso, senza una vera ragione.
Sto guardando un cartone animato con Sammy che dorme con la testa sulle mie ginocchia, e i colori che attraversano lo schermo – con troppa velocità, questo cartone manda i bambini in paranoia, ne sono sicura – mi fanno pensare ad Halloween, non so perché. Gioco con i capelli di Sammy, li arriccio tra indice e medio e li faccio scorrere per veder sfilare i fili biondastri nel suo castano. Dorme con la bocca socchiusa, ogni tanto fischia e articola qualcosa a bassa voce; gli si vedono gli incisivi superiori, è un particolare di lui che mi è piaciuto tanto quando l’ho conosciuto. Mi è sembrato molto dolce, con gli incisivi lunghi, in modo carino però.
Credo stia per piovere, la luce del sole si è ritirata dalla stanza e dalle finestre spalancate entra un’aria che sa di umidità e terra, ma non mi alzo per chiuderle. Di solito tengo tutte le finestre spalancate quando sento che sta arrivando la pioggia, e anche quando le prime gocce scendono chiazzando i marciapiedi e si trasformano in un muro d’acqua, le mie finestre sono aperte, sempre. Il legno sotto i davanzali è gonfio e macchiato e mia nonna dice che ho uno spirito dentro che deve essere stato pioggia, in un tempo lontano. Mi ricordo di aver raccontato questa storia a Cayden, ancora in prima superiore, e lui ha risposto che gli sarebbe piaciuto trovarsi a casa mia durante un temporale, e mi ha chiesto se non avessi mai avuto troppo freddo. Ho nascosto il viso nella felpa e ho finito la Marlboro che gli avevo sfilato dai pantaloni; in silenzio, ho ascoltato il rumore della sua cannuccia contro il fondo del frullato e delle persone felici intorno al nostro tavolino. Era una giornata buia.
Un giorno è venuto a casa mia. Non c’era nessun temporale, anzi, il sole fuori splendeva e una luce meravigliosa inondava ogni stanza. Si è stupito delle file di panni stesi che attraversavano l’appartamento; a me piacevano – lo faccio ancora adesso, quando devo stendere il bucato – lui ha detto che era una cosa davvero scenografica, un po’ da video musicale anni ’90, e la luce che passava fra i tessuti dipingeva le pareti e i nostri corpi abbronzati. Poi si è accorto che non c’erano, le finestre: mancavano perfino le cornici, rimanevano solo buchi rettangolari da dove spuntavano i tubi di plastica dell’impianto elettrico. Ha detto che doveva andare via. Ma che sarebbe tornato.
Mi formicolano le gambe, sotto il peso del corpo addormentato di Sammy, non so se ho paura o meno di svegliarlo o mi piace solo guardare il suo viso così da vicino da sentire il calore del suo respiro. La stanza comunque è un disastro, il pavimento coperto di lattine e bottiglie vuote e le pareti rigate di sporcizia; Cayden non entrerebbe più a casa mia, neanche se gli mandassi a dire che mi sto consumando in un freddo senza soluzione.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Tremendo momento di ispirazione Bret Easton Ellis. Vorrei che questa cosa continuasse, ma ad essere sinceri mi fa un po’ paura l’idea di un’altra storia disastrosamente triste, perciò lascio perdere finché questo momento non passa!

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Capitolo 5
*** Le Porte Spettrali. ***


Milkshake e il suo viso immobile contro il cielo impallidito
Piramidi di terra, colline?
Io avrei detto che fossero case, ma qui
Qui non si può mai dire
Si può aspirare, si può non combattere
Si può anche dare baci agli oggetti
- che ricambiano, davvero non ci hai mai provato?
Ma dire,
dire no
e io non ho mai capito perché, vedi…
Milshake e i rumori da fuori.
Brutti, quelli. Non come il colore del mare.
Il colore del suo sguardo.
Croste di pelle e unghie che se ne vanno
Triturate fra i denti
Come il ghiaccio di una coca sgasata
(quella che lui ha ordinato
Tanto per rompere il silenzio.
Ma io lo capisco, meglio di tutti voi)
Immobile, l’aria.
Io non la vorrei.
Tu? No, hai ragione, neppure io.
Che cosa vuoi?
Una casa grande da abbandonare senza rimpianto
Ogni volta che ce ne sia bisogno, sì
Ti capisco.
Un cane grande e regale, color perla
Oh davvero?
Dai raccontami questa storia, del grande cane
Color perla,
sembra parli d’amore,
in fondo…
buio, buio.
Buio.
Non c’è la storia, piccola
Mi dispiace, io non te la so raccontare
Ma che diavolo siamo qui a fare
Io e…
Una casa spettrale, con la tappezzeria che
Chiama da un’altra parte
E salta salta salta
E la carta da parati che viene giù
Come se il muro la leccasse via
E si sciogliesse,
sciogliesse
andiamo avanti a parlare così, ti prego,
mi sembra che funzioni.
Se tu non hai storie da raccontare, non ne ho neanche io,
ragazzo sul fondo del mare.
Il pane e i libri noiosi,
il cioccolato che non ha odore,
le parole che non so pensare
ci pensi mai agli uccelli che cantano
e alla droga, ci pensi?
Qualche volta,
ma il suo naso prude,
e io che devo dire?
Silenzio, silenzio.
Dov’è che andiamo dopo?
Non mi dovevi chiedere questo,
avevi giurato,
lacrime
silenzio
singhiozzi
avevi giurato
che non me l’avresti mai chiesto
e avevi detto te lo giuro
io te lo giuro
ma me l’hai chiesto, perché?...
Milkshake e il suo sorriso in trasparenza
Nel cielo impallidito
E nelle luci che iniziano a brillare
Ma gridano, non le senti?
E dove sono le storie della buonanotte,
non le senti?
Ci vorrei anche un giardino,
 fuori dalla casa spettrale
che accolga i miei piedi
scricchiolando
quando esco di corsa dalla casa
col respiro rotto
e folle di paura
un bel giardino scolorito che mi bagni di rugiada
e mi dica addio sputandomi al mondo
e mi baci le scarpe con uno schiocco
di erba secca calpestata
addio addio
piccola porta incastrata
ti porterei via con me, se solo mi entreresti in tasca
e allora aprirei porte spettrali
sui visi della gente
bambina mia.
Tu cosa ci vuoi?
Tanti fogli bianchi
Che se non li riempio io
Si riempiano da soli
Perché altrimenti mi sentirei male
E preferisco il nero
A tanti fogli bianchi,
ma tu non puoi capire…
che altro, che altro?
una finestra per i temporali,
un’altra per le mattine
in cui sbocciano le orchidee
una per scacciare gli amici
e i ragni con la scopa
una per buttarsi sulle punte aguzze
del cancello
un’altra per sospirare
del tramonto che coglie gli alberi
alle spalle
e li fa svenire con dedizione.
Una per saltare il muretto e darsela a gambe
Dalla parte sbagliata,
giù per la scogliera irta di libellule
a nascondersi tra le ombre delle grotte cieche
e rimanere lì, fino alla fine
dei respiri corti.
Una che assomigli ad un balcone,
mutilato però,
e accolga belle parole
cantate dal basso.
E poi basta, credo
Che non ce ne starebbero altre
O i muri verrebbero giù.
Ride, meglio che non succeda,
altrimenti dove andrei a morire?
Di paura?
No, morire
Come quello scoiattolo che abbiamo trovato
Nel cesto
L’altro giorno, ti ricordi…
No, non è vero, che dici?
No, morire
Come l’ultima volta che hai pianto
Quando è morto il signore del mercato
Che ti vendeva il pollo, ti ricordi…
Silenzio, silenzio.
Tascabili, mi dice
Fa rima con invidiabili,
invidiabile chi l’arte l’ha tascabile,
non trovi?
Un po’, dico io
Non saremmo qui, dice lui
Saremmo in posti meravigliosi
E paurosi,
ma qui no, e qui è dove è il nulla
e inventiamo di parlare
di milkshake e coche sgasate
che finiranno nello scarico di una giornata senza evidenza
e poi basta,
basta…
e anche la paura, la vorrei tascabile,
e il sentimento d’amore,
e le belle parole,
le convinzioni affascinanti,
gli ideali impossibili
ed egoistici
e il cane color perla
e l’uomo dai capelli neri
che ho visto dietro il vetro,
dietro il vetro
e tu non hai guardato perché prendevi le caramelle,
e le bottiglie di vodka, pure quelle.
Per berle?
Per darmi fuoco.
E le cose che hai in tasca,
quelle,
le lasci bruciare?
Ma non esistono…

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Capitolo 6
*** Caro Bellamy, ***


Bellamy, come mi sento solo.
Divoro Plauto e Bukowski, strana accoppiata che ho gettato nello zaino a casaccio. Li ho buttati al bordo del letto; solo un certo pudore mi ha trattenuto dal lanciarli sul pavimento, questo stupido asservimento della mente umana di fronte a nomi me lo insegnano all’università ogni giorno, ogni ora, ogni respiro. Avrei voluto seguirti quando sei scappato. Invece sono rimasto a nutrirmi dei pochi momenti particolari che avvengono, di tanto in tanto; come quello di cui ti parlavo qualche riga qui sopra. Alla fine l’ho dimenticato davvero, perciò dimenticalo anche tu per favore, o mi peserà troppo questo ricordo perduto – soprattutto il nostro incontro immaginato. È stata tutta colpa di quella ragazza di cui ti avevo forse accennato in una o due parole, lei e la luce del giorno che mi ha sorpreso senza preavviso, con la penna appena sollevata e l’ordine che stava per sgorgare dal mio cervello alle dita…
Bellamy, mi sento così solo che, se il mondo fosse appena un po’ più avventuroso e il mio compagno di stanza tenesse una pistola nel cassetto delle mutande, probabilmente mi sparerei con un sospiro di sollievo e uno spruzzo di sangue incolore. Non sono al campus, ma prima di uscire l’ho controllato, quel cassetto; ho soltanto scoperto che Mitchell ha diverse paia di mutande viola, e la cosa mi ha sollevato il morale di qualche briciola, che subito ho perso nel viale sassoso dai buchi nelle mie tasche.
Ho raggiunto il lago. Vorrei essere in grado di raccontarti l’aria carica di luce, le increspature dell’acqua, la musica sottile dell’erba. Vorrei accucciarmi e chiudere gli occhi, passare disteso sull’erba fresca il resto della giornata, indisturbato.
Ho paura che nessuno verrebbe a cercarmi – meglio, ho paura dell’assoluta certezza che provo che nessuno verrebbe a cercarmi. Forse Mitchell, dopo che si è accorto che ho frugato fra le sue mutande. Non voglio sprecare parole spiegandogli della pistola eccetera. Mi lascerei salvare.
Ora ti lascio, Bellamy. Non riesco più a tenere la penna in mano. Sto così male.
Spedisci un angelo che mi soffi all’orecchio la storia che ho dimenticato.
 

***

 
Si svegliò al ritmo martellante di una canzone da discoteca, sparata a volume esagerato da una stanza nello stesso corridoio, e propagata in eco sorde che facevano tremare i vetri delle finestre e gli spedivano il cuore in gola. Lo inghiottì di nuovo, a fatica.
Era tardi – forse le sei del pomeriggio, e dalla fessura di cielo blu che si mostrava timidamente dalla portafinestra si staccava un aroma dolciastro di fiori estivi, nutriti dell’arsura che si respirava in boccate dense in sere come quella.
Si era addormentato sulla poltrona, immerso in un cumulo di vestiti suoi e di Mitchell, con addosso scarponi, mutande e un paio di guanti dal bordo di pelo. Non aveva la più pallida idea di quando e come fosse rientrato al campus, né aveva il ricordo di aver indossato quegli indumenti e di essersi accomodato sulla poltrona, incorniciato dal quadro di luce rossastra di un tramonto di chissà quale giorno.
Sabato, giovedì. Luglio o ottobre, tutto si trascinava in maniera uguale, secondo per millimetro.
Si scrollò via i jeans e le magliette che si erano incollate al suo corpo coperto di una patina di sudore, e seminò una scia di vestiti  fino al piccolo ritaglio di bagno, dall’altra parte della stanza. Si sedette sul piatto della doccia e chiuse la tendina di plastica, ritrovandosi circondato da una morbida oscurità aranciata, punteggiata da code di pesciolini sospesi in un mare piatto e fluttuante.
L’acqua che pioveva a singhiozzo era gelida.
Chiuse gli occhi e immaginò una nuova strofa per la sua canzone.
 

***

 
Bellamy, sono il signore dei raggi di sole cuciti alle dita molli dell’uomo sul palcoscenico. Ad un mio ordine, penetrano rivoli di fumo, si avvolgono ad una caviglia nuda, colgono la trasparenza di una pietra fra i capelli o del ghiaccio sul fondo dei bicchieri inscheletriti.
Tu dimmi che cosa potrebbe divertirti, e io dirò loro di eseguirlo.
Vuoi vederli irradiarsi sulle spalle appuntite di quella donna dal vestito nero – drappi di spine, spille di cartapesta mi sussurrano le sue unghie maciullate, volteggiare in un gioco di vetro e specchi appena sopra la cortina di teste lucidate, sgorgare a fiotti dalla gola tagliata del pianista?
Inondarmi la camicia scura di perle iridescenti, in rapido scioglimento a contatto con la mia pelle – la luce è fredda come il ghiaccio, Bellamy – illuminandomi il volto di un riflesso strabico e palpitante, come una luna ubriaca barcollante attraverso il cielo, stelle in ritirata dalle guance diafane mascherate da un velo di nube per l’aspra vergogna della loro madre ubiqua. Ma se preferisci che l’uomo dalle mani di guanto continui a cantare, io non lo impedirò.
La sua voce scroscia dai miei occhi, la sua voce è piangere lacrime calde per un amore che perde le ultime gocce di sangue fra le tue braccia, tinte le braccia di colore invisibile e caldo, più che altro – ecco, Bellamy, la luce è fredda, il colore è caldo, sì – la sua voce è un anestetico respirato attraverso il corpo intero proteso ad ogni inflessione di tono, come un’onda, onda, ombra immortalata da un lampo di luce inaspettato, fotografia sfocata, iridi abbacinate, membra immobilizzate in attesa della fine. Contiamo i secondi, ci disperiamo.
Ma, intanto, lasciarci cullare è l’attimo esteso di cui più ringrazieremo dio. Non lo fermerò io, lo fermeranno le mie dita sulla tastiera quando sarà il momento di prendere coraggio e spingere la testa fuori dall’acqua tiepida,
ho detto, Bellamy: acqua, colore, luce?...
L’acqua è luce?
La voce scroscia. Il ghiaccio si scioglie fra le dita oblunghe di un ragazzino dalle labbra sensuali. Voce, acqua. Acqua scroscia.
La doccia. L’acqua gelida.
Le sagome scure delle mie mani danzano davanti alle mie palpebre abbassate; guidano, muovono, pregano, tracciano musica. L’uomo sul palcoscenico si dissolve in un’interferenza elettrostatica che mi mette paura, la mia pelle si increspa di brividi di abbandono – acqua, gelida, luce?...
Nessuno si ricorda di me.
 
 
 
 
 
 
 
 
Gatto Magro_____
Blablablabla.
Sono solo pezzi di un racconto contorto che ho provato a scrivere mentre ero al mare – l’aria salmastra mi fa strani effetti, lo ammetto. Ho scritto la vera e propria “Prima Parte” ma non la pubblico, nel caso mi venisse di continuarla. Questa in pratica era la bozza preparatoria.
Bottoni di zucchero, cari. 

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Capitolo 7
*** I tuoi 23 anni, i miei 26 anni. ***


Per favore spegni la radio che mi fa male lo stomaco.
E questo pseudo di hard rock degli anni zero non l’ho mai davvero sopportato, anche se ti accompagnavo a comprare ogni singolo album che la tua band preferita pubblicava.
I negozi di dischi vicino a casa nostra non li mettevano nemmeno in magazzino. Io stringevo fra i denti i miei commenti sarcastici e tu storcevi il naso fingendo un’espressione di sufficienza. Mi trascinavi nel primo treno che ti saltava in mente e non facevi che sorridere, anche se parlavamo del governo e dell’università che non sapremo mai scegliere. Se non sorridevi, perché a volte ti manca la forza o la tua testa è completamente da un’altra parte, con i cervi che risorgono dalle fosse aperte e  su autostrade luminose a vivere colonne sonore, rimanevano i tuoi occhi a brillare sulla federa sudicia del sedile.
Ti ho odiata per una parte consistente della nostra vita insieme, ma la tua musica rumorosa non c’entra molto, alla fine.
Erano più i tuoi silenzi. I tuoi racconti zoppi e inspiegabilmente tristi, senza speranza. I poli opposti della tua bellezza. Il cinismo con cui facevi a pezzi i sogni che sostituivi alla vita. Le frequenti ricapitolazioni che ci trovavamo a fare per tirarti su il morale, alle cinque del mattino seduti sul pavimento a scaldare una bottiglia di Tequila con le mani. Le pile di libri, quaderni e album che erigevi attorno al letto, accumulati come talismani contro i tuoi mostri senza capo né coda.
Io ero uno di questi? Mi hai risposto di sì, alla settima volta che te lo chiedevo. Che mi tenevi distante perché non avrei mai capito il nulla che c’era da capire, in te.
Non hai mai saputo spiegarmi il tuo nulla, e non mi hai mai ascoltato quando ti dicevo che sei bellissima.
Te lo dicevano i tuoi ragazzini immaginari, allora sì ci credevi anche se il tempo si accorciava sempre di più e io non ero più eccitato dai tuoi misteri come i primi mesi. E non avevi più voglia di spiegarmi perché eri così triste pensando a dicembre. Che ti piaceva avere freddo. Che il tuo primo amore era troppo vecchio per te.
Se avessi un cane, sapresti perfettamente come chiamarlo. E se fossi in un deserto rosso, sapresti di che cosa sei in cerca e sarebbe il giorno più bello della tua vita. Hai almeno tredici vite in corso e so che in almeno due sei più o meno felice. Nelle altre sei più bella, più terribile, alta, maltrattata e coraggiosa. In un paio devi essere morta e risorta, perché la pace eterna ti annoia come le giornate estive.
Se non vuoi parlarmi, almeno spegni la radio che mi fa male l’anima.
 
 
 
 
 
 
P.S. Lasciate perdere. Cancellerò questo capitolo non appena la sua versione migliore verrà alla luce. Nel frattempo, credo che la depressione che mi genera pubblicare mi farà desistere. E nessuno saprà mai come vanno a finire i miei 23 anni.
Ho deciso, mi darò alle fanfiction porn. 

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Capitolo 8
*** duemilasette - duemilatredici ***


The Sun and the Moon. And the Stars,
somewhere in the blue.
So far away.
 
Non ci sono più strade da prendere, dopo lo spiazzo di cemento.
Stavano seduti sul parabrezza della Cadillac, e sembravano sospesi in aria. Era ancora molto buio, l’insegna rosa del Plastigirl Club faceva luce soltanto nei riflessi delle finestre. Ogni secondo che passava era un ottimo momento per dirsi qualcosa, come un addio, ma invece delle parole si accumulava l’esitazione e allora non parlavano.
Evitavano di guardarsi, e immaginavano che il pino d’argento davanti a loro prendesse fuoco all’improvviso. Sarebbe stato come un’esplosione, pensavano. Una luce quasi immensa li avrebbe avvolti per esaudire i loro desideri più inconsistenti.
Poi sarebbe andata via, spazzata altrove dal vento gelido.
L’auto aveva tutte le portiere spalancate e colava sul cemento una canzone che non c’entrava niente e rallentava il loro battito cardiaco. The Sun & The Moon, ma c’erano perfino poche stelle quella notte.
Si erano dimenticati di richiederle alla radio.
 
“La vita è imperfetta.”
Mio fratello a mia madre, sulle finestre che non si chiudono.
 
Colpì per sbaglio la chitarra con il ginocchio. Thud.  
Si lasciarono scivolare a terra contro la parete sporca della galleria, e qualche pezzo di scotch o il vecchio rumore di un treno gli si appiccicò alla giacca di pelle. Fra i capelli del bambino finirono le briciole dei poster consunti delle date irlandesi di Gavin Friday. Welcome home, boy. Spruzzi di conversazioni telefoniche – quelle parti che non finiscono nel microfono del cellulare perché sono troppo grandi e non entrano in quei forellini. I grandi amori e le lacrime non viaggiano sui ponti radio perché li farebbero crollare sulle nostre teste.
Passi contati come grammi di coca, ma sono solo eco nella galleria deserta.
Ci sono solo loro due, che poi sono uno e mezzo perché il bambino è davvero piccolo, con un sacco di lentiggini in disordine sul viso pallido.
- Le persone a volte se ne vanno. – gli disse, invece della buonanotte. Sapeva che non stava dormendo; il bambino non dormiva mai. – A parte questo, non devi mai avere paura di niente.
Strinse fra le dita il manico della chitarra, arrossandosi la pelle sulle corde ruvide. Dopo un po’ si accorse che la mano di Devon si era infilata fra le sue, calde e impolverate.
- Tu invece non te ne andrai mai?
- No. E se me ne andrò, non sarà una cosa definitiva perché si dice che qualcuno ci ha lasciato, tesoro, dimenticando che cosa ci viene lasciato. – sorrideva, mentre nel suo petto galleggiava una bolla d’acqua bollente. – Per esempio, quanto la  mamma è andata via mi ha lasciato te.
- E a me che cosa ha lasciato?
- I suoi occhi.
E le mani piccole sempre infreddolite. I lampi di inquietudine. La suggestione dei cantanti dalla voce graffiante e l’abitudine di ballare restando ferma, ma morbida come una distesa d’erba alta leccata dal vento.
 
Hollywood whore, shall we run faster
than the dogs?
 
- Le storie d’amore sono una gran brutta faccenda. – disse la professoressa di storia, entrando nell’aula vuota dove si era rifugiata a tremare sotto un banco.
La fermata della metro era sempre stata la stessa da quando l’avevano scavata, qualcosa come quarant’anni fa. Sua madre le raccontava spesso di quanto si divertivano, lei e la zia Emilia, a scivolare fuori dai letti dopo che la nonna aveva spento le luci, per avventurarsi nei buchi scavati dagli operai che correvano sotto tutta la città. Gli stivaletti che ben presto si inzuppavano di fango, la vestaglia e una torcia nella mano tremante di eccitazione di Emilia, l’altra sudata e stretta in quella di sua madre, si lasciavano avvolgere dall’oscurità e andavano a fare visita ai loro mostri. Anche se ora non erano più le viscere buie che ricordava, diceva Constantine, gli stessi deliziosi brividi le frustavano la schiena quando scendeva nelle gallerie.
Adesso era da molto che non prendeva la metro, perché le metteva ansia rimanere schiacciata fra tutte quelle persone. E poi Drugstore aveva diciassette anni, era abbastanza grande per scendere da sola i gradini sbeccati e prendere la linea C, che la portava a pochi passi dal liceo.
Nessuno aveva preso in considerazione che Drugstore, forse, era abbastanza grande per innamorarsi. E lui stava cantando Blame con le labbra che sfioravano il microfono, la chitarra cullata fra le braccia e la luce al neon a disegnargli il naso e le guance, e a cadere giù fra i lacci delle sue scarpe…

 
I.L.O.V.E.Y.O.U.
 
Si sarebbe aspettata le notti gelide.
Invece, sgusciando fuori dalla porta di casa, alzava il bavero della giacca per tenersi dentro la felicità. Scappava dai giardini rettangolari e si lanciava giù per gli scalini stretti della fermata, che le strisce antiscivolo le ha consumate tutte lei con i suoi anfibi viola.
Mangiare la plastica.
Lui fingeva sempre di sorprendersi, e magari era così. La aspettava con le dita bloccate, non riusciva più a suonare e riponeva la chitarra in una custodia nera che perse nel corso degli anni. Cercava di sistemarsi i capelli, senza sapere che le piaceva così arruffato. Spegneva sigarette consumando un’angoscia strana contro le mattonelle sporche della galleria.
Poi lei arrivava con il fiatone e Hide sorrideva.
Di solito andavano a vedere il cielo e la città addormentata, compravano caffè e dolci che mangiavano seduti sui marciapiedi e ballavano per le strade deserte calpestando la luce dei semafori, inventandosi canzoni sulla scia dei sorsi di vodka. Una volta, Drugstore gli chiese di cantarle una sua canzone.
Stesero le loro giacche sul pavimento della galleria e quando lui ebbe finito di suonare si baciarono come due ragazzini, senza fiato, giocando con la lingua e i sapori che cercarono di imprimersi in testa.
Nella galleria della metropolitana, dove il pavimento era più caldo, una notte di dicembre.
Fecero l’amore nella pancia di una città che non li avrebbe mai voluti. 

 
Tutto ciò che lì non si trovava
iniziò a danzargli intorno.
Il posto giusto.
 

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Capitolo 9
*** "It's like being at Disneyland. On acid." ***


Capitolo Menodizero.
 
Il 25 marzo 2007 fecero un buffo errore all’ufficio che si occupava della pubblicazione delle epigrafi mortuarie. Ne affissero due ad un muretto dipinto di verde acido che sembrava stare al centro del nulla, per il semplice gusto di nascondere quello che c’era lì dietro.
Il ragazzo non riusciva nemmeno a visualizzare ciò che stava intorno a quel muretto, ma forse era perché tutta la sua attenzione era catalizzata da quei due rettangoli di carta plasticata, incorniciata da ghirigori di inchiostro nero e sottilissimo che si univano in complicate arricciature ai quattro angoli dei fogli. Le piccole fotografie in cima a ciascun foglio lo lasciavano allibito; le fissava ad occhi spalancati e increduli come se si aspettasse che i soggetti mutassero per un’improvvisa – e finalmente ragionevole- messa a fuoco.
Perché non era possibile.
- Quello sono io. – Mormorò il ragazzo a nessuno in particolare.
Non c’era alcun dubbio. I capelli neri, i tratti leggermente spigolosi del viso; il soggetto della foto aveva la sua faccia e perfino gli stessi occhi un po’ spalancati come li aveva lui ora, solo che le labbra erano stirate in un sorriso incerto. Sembrava dicesse: “Temo proprio di sì. Come diavolo ti sei cacciato in questo pasticcio?” con una certa indulgenza che strideva con le parole tracciate sotto la fotografia in un corsivo da bambino delle elementari. Alcune parole erano state addirittura cancellate con rabbiosi scarabocchi di penna biro, altre erano state aggiunte in caratteri minuscoli per stringersi nello spazio di due parole già scritte, e l’inchiostro era sbavato qua e là.
- Che cosa assurda. – Disse ancora.
- Non tanto, in realtà. – Si sentì rispondere. Non lo aveva affatto notato prima, ma alla sua sinistra c’era un altro ragazzo, che come lui osservava le due epigrafi appese al muro verde. Aveva i capelli di un rosso così fastidioso da guardare che rivolse di nuovo lo sguardo davanti a sé, e trasalì accorgendosi che era la stessa persona ritratta nella seconda epigrafe.
- Mia sorella ha scritto una cosa davvero carina, hai letto? – Fece il rosso con un cenno del capo. Sotto la sua faccia sorridente, c’era scritto in una bella calligrafia una frase che all’altro parve di aver già sentito. Non sei umano sei un miracolo. Di’ “cheese” tesoro, non esisti in questo mondo in saldo. Non aveva nessun senso. Il ragazzo si sentì stringere lo stomaco da una morsa; non sapeva bene il perché, ma trovava quella frase orribile, quasi spaventosa. Si concentrò per decifrare cosa stava scritto invece nella sua.
- “Guardi quella chitarra come se non sapessi cosa farci”. Che strano… me lo dice sempre un professore dell’Accademia.
Era irritante trovarlo scritto lì, dove chiunque avrebbe potuto leggerlo. Il ragazzo alla sua sinistra sospirò comprensivo.
- Io non sono affatto morto! Che cazzo di scherzo è questo? – Sbottò dopo qualche secondo. Leggeva e rileggeva quella frase tutta storta e il suo senso di oppressione cresceva con gli spazi troppo larghi o fastidiosamente inesistenti fra una parola e l’altra.
- Sì che lo sei. – Fece l’altro con voce piatta.
- No. – Si girò di scatto verso di lui, che lo guardava candidamente con le mani infilate nelle tasche del chiodo di pelle. Era perfettamente a suo agio; non capiva perché il ragazzo dai capelli corvini si scazzasse tanto.
- Oh, bello, sì.
- E tu chi diavolo sei?
- Non me lo ricordo.
Gli venne da piangere. E pianse, con il verde del muro che si consumava nel rosso del capelli dell’altro ragazzo.
 
È incredibile quanto faccia silenzio. In una scena del genere ci si aspetterebbe una baraonda infernale, rumori che stridono urlano grattano bruciano, fumo che impazzisce infilandosi ovunque mentre sale al cielo, metallo che prende vita in un tormento di gemiti e schiocchi di ossa che vanno in frantumi, spruzzi sonori di sangue mentre coprono la strada in rivoli già seccati dal disgusto, e occhi che escono dalle orbite e rotolano via per sempre, per non vedere, non aver visto, non saper dire. Lingue che si mordono e insultano ogni cielo. Mani che si alzano per strappare le nuvole e mani strappate che giacciono a terra.
E invece è il silenzio. Silenzio e pace.
La ruota della moto fuma e gira ancora; ci si aspetterebbe uno sfrigolio di gomma bruciata, ma non esce nulla dalle fauci metalliche della forcella storta e fusa dal calore. Qualcosa gocciola a terra. La bambina ferma sul marciapiede vede la piccola pozza scura allargarsi sull’asfalto, un buco nel motore forse, è troppo piccola per saperlo nel dettaglio; non c’è il suono delle gocce, eppure sono lì.
Non c’è stato nemmeno il rumore del parabrezza che si accartocciava. Né quello dell’esplosione di un qualcosa nell’automobile.
Il fuoco se né andato, forse quello che è successo gli ha spezzato il cuore e si è spento agonizzante sui pantaloni del ragazzo steso per terra, la metà inferiore del corpo schiacciata sotto la pesante motocicletta. Il suo torso si piega, la schiena riposa sull’asfalto. Sembra si stia sforzando per girarsi e vedere qualcosa; il braccio destro è teso e le dita dischiuse indicano ai suoi occhi dove guardare. Il collo si tende al massimo in quella direzione, sembra un quadro annerito questo ragazzo immobile, bruciacchiato e sporco un po’ ovunque, tranne per quella meravigliosa macchia rosso fuoco che sono i suoi capelli.
Qualcuno ha sicuramente gridato, o risucchiato l’aria improvvisamente, come un ultimo assaggio del sapore dell’ossigeno e della vita. Il camionista che ha aperto lo sportello ed è scivolato a terra prima di svenire, il ragazzo sotto la moto, oppure quello con la tempia appoggiata al volante dell’auto accartocciata, sbilenca in mezzo alla strada, il fulcro della scena.
O magari è stata la bambina immobile sul marciapiede, la signora al cellulare pochi passi davanti a lei, o l’uomo che ha visto tutto dall’amaca del suo terrazzo.
Mio dio, hanno mimato le sue labbra. Nulla di più.
Poi la sirena di un’ambulanza spezza il tempo, ed è insopportabilmente assordante.
 
Troppo caldo, troppo rumore che non riusciva ad identificare. Prima stava così bene, stava dormendo… no, era incosciente. Non stava sognando, stava delirando. Lo disse una voce, è cosciente adesso. Se era cosciente significa che prima era stato incosciente. Sognava di essere morto e di leggere la sua epigrafe su un muro che non aveva mai visto. Ma non era in grado di capire nulla. Era steso. Scomodo. No, aspetta, era morbida quella cosa su cui era steso. Ma c’era troppo rumore a premergli nei timpani. Avrebbe voluto strapparsi le orecchie per dormire in pace. Nel suo cervello si stava innescando l’implosione definitiva, poi sarebbe diventato acqua. I ticchettii che percepiva attorno a lui gli davano la nausea. Gli sembrava di star guardando giù da un grattacielo di centomila piani e contemporaneamente di star cadendo a una velocità lacerante verso il suolo. Si era gettato dal piano più alto? Era già atterrato? Il suo corpo era già diventato poltiglia di seguito allo schianto?
Lui, che non aveva mai avuto del fegato in vita sua, aveva paura della morte perfino dopo essere morto.
 
- Non voglio morire. – disse fra le lacrime. Il ragazzo dai capelli rosso fuoco intanto si era seduto con la schiena contro il muretto, il mento appoggiato alle ginocchia.
- Siediti qui.
- Non voglio morire.
- È tardi adesso. Siediti.
Appoggiò la fronte al muro e prese a singhiozzare. Le sue lacrime fecero colare l’inchiostro dell’epigrafe in nastri lunghi fino a terra. La ghiaia divenne nera.
- Ecco, ora è illeggibile. Ti rovini perfino la morte. Lascia stare, siediti; c’è qualcosa che devi vedere.
Alla fine erano fianco a fianco, con le spalle al muro, uno con gli occhi socchiusi per la gran luce – se ne accorse solo in quel momento, – che li colpiva, l’altro con le guance lucide di pianto. Il ragazzo con il chiodo giocherellava con qualcosa che teneva in mano, un oggetto metallico piuttosto usurato, ma il suo sguardo era rivolto a ciò che avevano davanti.
Stavano fissando una cosa impossibile da definire. Al ragazzo di destra, quello che continuava a tirare su col naso, vennero in mente gli specchi. No, pensò definendo meglio l’idea, l’acqua.
La città davanti a loro sembrava il riflesso di una superficie liquida, quell’immagine tremolante che ti ritrovi a guardare quando ti sporgi da un ponte su un canale, o quando guardi la luna riflessa sul mare di notte. Era la stessa sensazione; come se la città respirasse, ma non fosse reale. Il ragazzo di destra pensò che l’originale, cioè la vera città dalla quale quel riflesso proveniva, si trovava dall’altra parte del muro. Realizzò che non poteva oltrepassarlo, così come prima, mentre leggeva incredulo le epigrafi, non era riuscito a scorgervi intorno alcunché; questo lo fece sentire immensamente triste e gli mozzò il fiato.
- Non voglio essere morto. – Sussurrò.
Il rosso scattò in piedi. – E allora vivi. – Gli sputò addosso quelle parole con uno sguardo furioso, poi si voltò verso la città, portandosi una mano davanti agli occhi per ripararsi da quella luce incredibile.
- E tu?
L’altro sembrò cedere. Le braccia gli ricaddero lungo i fianchi e c’era una nota di disperazione nella sua voce.
- Non mi rimane più altro.
Poi corse via. Il ragazzo seduto a terra rimase a guardare le proprie scarpe assorbire il nero colato sulla ghiaia perché la luce era troppo forte.
 
La sigaretta del ragazzo alla guida dell’auto gli è scivolata dalle labbra ed è caduta in mezzo alle sue ginocchia, spegnendosi sul tessuto del sedile. Il tempo di abbassare lo sguardo per ripescarla, e davanti a lui compare una moto in contromano che fila a 80 all’ora contro il suo parabrezza.
Il ragazzo afferra il volante e sterza così bruscamente che gli fa male la spalla. Le ruote slittano sull’asfalto, la gomma si stampa sul cemento mentre l’auto compie un’ inversione testa-coda.
Il camionista non fa in tempo a frenare. Il mezzo inghiotte l’auto e la risputa con la parte frontale accartocciata e distrutta. Rimbalza via tranciando la corsa della motocicletta, che si rovescia a terra con la fiancata aperta sulla scritta BORN FREE che la decorava. Il ragazzo in sella urta violentemente il terreno con la nuca. Il casco da cross schizza via, il suo collo si spezza.
I paramedici rianimano l’uomo alla guida del camion, praticamente illeso, che attacca a gemere non l’ho visto, ha girato di colpo, che cazzo è successo, non l’ho visto.
I due ragazzi muoiono.
Il motociclista è morto da quando ha toccato il suolo. L’altro, perde troppo sangue e non ha battito cardiaco, ma lo caricano lo stesso sull’ambulanza che parte a sirene spiegate.
- Mio Dio. Mio Dio. Mio Dio. – continua a ripetere l’uomo che guidava il camion. È steso su una barella accanto a quella del ragazzo, fissa fuori di sé il giovane volto coperto del sangue che scorre da una ferita sulla fronte. – Mio Dio. Mio Dio. Mio Dio.
Il paramedico stringe fra le mani il defibrillatore, ha già fatto otto tentativi per far ricominciare a battere il suo cuore.
- Mio Dio.
Non voglio morire.
- Mio Dio.
Non vede più l’altro ragazzo. La città l’ha inghiottito.
- Mio Dio.
Il muro sta inghiottendo anche lui. Non voglio morire.
Il corpo del ragazzo ha come uno spasmo, e viene colto da un accesso di tosse che copre i paramedici e l’altro autista di goccioline scarlatte. 
Respira, ma non apre gli occhi.
 
- Tesoro svegliati.
Svegliati. Come avrebbe potuto farlo? Forse non lo voleva nemmeno. Dormire era così piacevole. Dormiva da una settimana, il ragazzo sul letto. E faceva sogni strani, che poi non ricordava più, coprendoli con altro sonno vischioso. Ma in quel momento cominciò a sentire tutti quei rumori, e non erano parte del sogno, non erano il ragazzo dai capelli rossi, né la città di riflesso, non le sue scarpe che assorbivano l’inchiostro…
Svegliati. Non voglio morire.
E allora vivi.
 
Aprì gli occhi.
 
 
 
Quando riacquistò la sensibilità alle dita, la prima cosa che toccò non fu la mano di sua madre, o di uno dei parenti che in quei giorni si erano stretti attorno al suo letto troppo alto e pieno di tubi – tubi ovunque, tubi erano le sponde e i paletti di smalto bianco che sorreggevano il materasso, tubi attaccati alle macchine che lo facevano respirare, dormire, mangiare, bere e delirare, la maggior parte dei quali si infilava dentro la sua pelle in punti che non riusciva a guardare.
Sfiorò invece la carta di un giornale dimenticato, o forse intenzionalmente abbandonato, sopra un ripiano accanto a lui. Era vecchio di qualche giorno, quasi una settimana; una settimana in cui lui aveva vagato del tutto inconsciamente in un’indistinta massa di sogni, attraversando le vie acciottolate di una città che pareva il puzzle dei suoi ricordi accatastati, ad inseguire con il cuore sul punto di scoppiare l’ombra liquida di un ragazzo dai capelli rossi.
Lo conosceva? In quel momento non riusciva a ricordarlo. Chiuse gli occhi cercando di riportare a galla qualche frammento delle visioni invocate dagli antidolorifici; affiora solo un suono, il rumore di un oggetto metallico che cade a terra. Il ragazzo dai capelli rossi li lasciava cadere ogni tanto, nei sogni, quasi per lasciare una traccia perché lui potesse raggiungerlo.
Scosse lievemente il capo, troppo debole per concentrarsi oltre. Sia la realtà sia il sogno gli si sfibravano fra le dita al troppo rincorrerli; si ritrovò a stringere il giornale troppo forte, spiegazzandolo tutto. Se lo appoggiò in grembo, e mentre tentava di spiegare per bene la prima pagina, i suoi occhi si allacciarono al titolo di un trafiletto che spiccava in una colonna centrale.
Morto sul colpo un diciassettenne.
Il cuore del ragazzo perse qualche battito, e questo dovette far suonare un allarme perché il suo letto fu di colpo circondato da una piccola folla concitata. Il giornale gli fu strappato di mano e sparì dalla sua visuale, sostituito dal viso leggermente sfocato di una donna.
Capì che non erano i suoi occhi a vedere male, ma quelli di sua madre ad essere pieni di lacrime.
- Stai bene?
- Sono morto?
- Che cosa? No, Cristo. Cosa? No. – Lei scosse il capo a scatti, il volto rigato di pianto.
- Lui dov’è? Il…- Aveva la bocca completamente secca.
- Non c’è più. Amore. Non… non pensarci. Non ha sofferto. – Guardò i suoi occhi diventare due fessure annegate nell’acqua. - È morto sul colpo. Non pensarci.
E forse avevano solo sbagliato a iniettargli qualcosa nel corpo per tenerlo in vita, oppure una parte di lui morì insieme a quel ragazzo, perché sentì un punto fra il cuore e lo stomaco staccarsi, e lo vide librarsi in aria per un secondo o due, simile a veli d’acqua sospesi così, per poi andare in briciole che gli piombarono addosso con il fragore del metallo che suona a vuoto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Questo è il prologo di una storia che non sarò mai in grado di scrivere, ma di farci un film, spero, sì.
Sono emozionata di presentarvi Duncan S e il suo mondo di fantasmi. Mi piacerebbe raccontarvi la sua storia, e magari avendo pubblicato questo pezzo mi verrà il coraggio di continuare a scriverla.
L’altra sera sono stata al concerto dei Sevenfold, e questo mi fa da giustificazione per pubblicare questo capitolo monco, perché anche se non lo sapete, siamo abbastanza in tema.
 
We brought daylight to the night
 
Gatto Magro

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Capitolo 10
*** Scritto sul muro con l'eyeliner. ***


Lettera perché ti amo,

per la punta delle scarpe,

 per le catene delle biciclette che cadono davanti a me e davanti a te

 in un disordine che non ci fa incontrare,

per le belle frasi che ti urlerei alla macchinetta del caffè,

ma piano,

per il cielo di settembre e il muro di mattoni,

per la risata che ci siamo strappati

e per le tue guance rosse,

per lei che si è scostata in fretta,

per l’erba alta che mi ha trascinato avanti

a inalare il fumo passivo di un gruppo di camicie

e orli di jeans consumati sotto i talloni,

per le ore di latino

e i rigetti matematici

per le formule chimiche costruite su ponti di zucchero

e i ponti di marmo

che portano ad un amore che non vale la pena,

per i respiri dedicati

e le penne che consumo sul banco

in parole che mi fanno piangere,

per i bottoni colorati

e gli ascensori stretti,

per le scale rosse

e la colonna che abbiamo fatto esplodere

l’anno scorso con le fotografie strappate,

e per i tormenti delle contratture muscolari,

i primi brividi e mattinate scure,

le lacrime infreddolite e le occhiaie viola,

per i suggerimenti sparsi fra i capelli,

per le caccie al tesoro

che tanto lo getterei nel cesso,

alla fine,

e per le prospettive degli specchi,

e le pieghe nei tuoi occhi.

Lettera per la voce dei cantanti che non conosci

e i disegni che ti ho rubato

(e perso)

apposta.

Lettera per le bugie di merda

e per to So Far Away’s dark.


 
Lettera per il mio amore,

perché ho finito la carta

e allora la scrivo sul muro

con l’eyeliner.
 
 
 

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Capitolo 11
*** We go where we know. ***


Ciao a chi entra, buongiorno o buonasera, come vi sembra meglio.
Come vedete, questo capitolo non c'è più. Nessuna storia di rapimenti alieni o comunque barbari, ma pur sempre terrestri, tranquilli. la spiegazione è molto meno emozionante.
Ho deciso di usare questo abbozzo di storia, di svilupparla e spedirla per un concorso di scrittura. Il tutto in maniera piuttosto compulsiva, visto che la scadenza è domani e io l'ho finita... Adesso. L'aggiornamento in tempo reale è che sono le 23:24.
Incrociate le dita per me, se vi va. In caso non dovesse passare, sarà un piacere postarla comunque, credo, sempre che mi rimanga uno straccio di diritti d'autore ( ma soprattutto di dignità).



EHI, LEGGIMI: Ho ripubblicato la storia con il nome "Ma le fragole hanno fatto la muffa", che si trova sempre nella mia pagina.
Vado a crogiolarmi nell'insonnia,


Gatto Magro

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Capitolo 12
*** Come le patatine fritte (è sempre un buon momento per una torta al cioccolato.) ***


Icebreaker.
Icecracked.
And you weren’t in.
 
- Non accendere la luce.
- Brian. La porca puttana di mercoledì a mezzogiorno. – Innalza Matt al soffitto della camera, in tono solenne e leggermente isterico.
Il respiro smette di scorrere acido dai suoi polmoni, ma le sue dita rimangono allacciate all’asciugamano umido finché non si accorge che gli fanno male.
- Veramente sono le due e un quarto. E qualcuno deve avermi detto che è sabato, ma di questo non sono altrettanto sicuro.
- Taci. Cazzo.
Matt si siede accanto alla sagoma scura accucciata sul pavimento di fronte al letto, appoggiando la schiena alla sponda di legno. Muscoli che si sciolgono e odore di shampoo.
E qualcos’altro, sospeso gocciolante fra i due ragazzi.
Matt si alza e va vicino alla finestra. Cerca qualcosa fuori dal balcone che lo distragga, ma la strada rimane incollata al terreno in un sonno di cemento.
- Che guardi?
Il buio rende liquidi i lineamenti di Brian che lo scostano, colorandosi di un blu pesante che ricorda quello del pastello che nessuno usa mai, alle elementari. Perché tutti i bambini litigano per assicurarsi il rosso e l’azzurro, ma poi quando crescono si ritrovano a nuotare nel grigioblu.
E poi crescono ancora, oppure gli si intorpidiscono le braccia e piano piano respirano acqua dal naso finché diventano dei pesci a metà, che non sanno vivere sulla spiaggia, fra le bottiglie colorate e i fischi e i corpi lucidi, ma nemmeno sul fondo insieme alle reti strappate. Rimangono appena sopra il pelo dell’acqua con le labbra che si incrostano di sale e gli occhi che bruciano.
Casa Sanders e gli oceani sopra il livello del mare. Si sporge sulla scrivania e accende la piccola lampada dallo stelo bitorzoluto.
Repentino, Brian si scherma il viso dentro il palmo della mano come se la luce gli scottasse sulla pelle, mugolando.
- La luce la teniamo accesa.
Forse non voleva usare quel tono, no, non voleva che la sua voce suonasse così bassa e fredda e ferisse Brian, una volta caduta oltre le labbra. Studia il ragazzo seduto sul pavimento con la fronte corrugata, come se le maniche slabbrate della sua felpa potessero tradurre i suoi sentimenti. Uno strappo una lacrima, un filo sfuggito al tessuto un silenzio carico di risentimento che dondola fra loro.
Appeso al soffitto con il lenzuolo arancione.
Visto che non vede nulla, si fa un po’ di coraggio per attraversare di nuovo la stanza – che è davvero corta, anche se detta così la fa sembrare un salotto o una pista d’atterraggio; no, deve soltanto schivare la sedia carica di jeans strappati e fare attenzione ai calzini sparsi per il pavimento, poi è arrivato e può sedersi a gambe incrociate di fronte a Brian. E continuare a fissare le maniche della sua felpa nera.
Dopo un po’, Brian scosta le dita e apre gli occhi. Lo squadra come da dietro una maschera, il volto inframmezzato dal ventaglio delle sue lunghe dita storte e callose, che riescono ad essere belle lo stesso.
- Che è successo? Te lo chiedo anche se suona sempre peggio, con il passare degli anni. E perché altrimenti tu stai lì a guardarmi e non dici una parola.
- In realtà, - esordisce Brian con voce roca, parlando da dietro le sue nocche. – stavo per dirti che c’è uno strano odore di torta al cioccolato, qui dentro.
Torvo e interdetto, l’altro solleva un sopracciglio. – Non è il momento di parlare di torte al cioccolato.
- Non mi sembra. L’argomento si adatta bene a qualsiasi circostanza, se ci pensi con calma. A proposito, dov’è?
- Dov’è cosa? – Sbotta Matt vicino all’esasperazione.
- La torta, Matt. – ribatte Brian con il tono dell’ovvio.
Si scrutano in silenzio, affilando lo sguardo.
- Tu mi dici che diavolo di problemi psicologici devi avere dentro la testa per presentarti qui alle due del mattino, entrando dalla finestra e rovesciando il vaso di gerani, con la faccia maciullata e vestiti non tuoi, come se non fossero cinque mesi che non mi parli. E io ti trovo la torta al cioccolato.
La mano di Brian scivola dal suo viso, atterrando pesantemente sul pavimento. Il tremore delle sue palpebre socchiuse lo incanta per un po’, e il suo sguardo si sparge per le ombre viola sulla pelle del ragazzo. Una secca linea rosso scuro taglia un angolo della bocca; l’altro è alterato dal disegno a cui Matt è abituato, gonfio e violaceo in un livido che da lì oscura la guancia di Brian.
- Mi dispiace tanto, per i gerani.
- Vaffanculo. Ancora un grammo di sarcasmo e ti pesto il doppio di chi ti ha ridotto così.
- Prima ho pensato che non voglio essere depresso.
- Beh, e con questo non vuol dire che devi fare lo stronzo.
- No? No. Hai ragione tu. Mi sento un po’ fuori, se parlo o penso o rido troppo forte, tremo fuori dai contorni del mio corpo come le insegne al neon che vogliono sembrare tridimensionali. – Brian solleva lo sguardo e Matt può leggerci dentro come sul fondo di due bottiglie di vetro scuro. Dimmi che capisci, perché altrimenti è tutto inutile.
- È l’inutile storia di come siamo finiti a non parlarci più, e se fosse per me te la risparmierei soprattutto perché non sono mai stato bravo a raccontare alcunché. 
Sai che a volte bevi il caffè e ti fa stare di merda.
Il caffè ti sveglia troppo in profondità. Ti accorgi di non andare bene, che c’è una radice di qualcosa di brutto dentro di te, dietro lo sterno. Allora stai male da morire, perché tutte le tue coordinate sono state calcolate male e come cazzo hai fatto a non accorgertene prima? Solo che non c’è una soluzione. Ho chiesto a tutte le persone che mi passavano di fianco: qual è il tuo nocciolo? Ma nessuno ha saputo rispondermi. Il mio stava marcendo per colpa dei litri di caffè ed ero sicuro che non avrei potuto averne uno nuovo in cambio.
Devo aver perso le ultime schegge seccate del mio nocciolo dal naso come un’emorragia.
- Sei fondamentalmente una di quelle persone che vanno tenute per mano, ma da dietro la loro schiena. – Sussurra Matt. Brian annuisce.
- Da quando sono innamorato, mi sento un po’ coglione.
Matt lo guarda con la fronte aggrottata, ma il viso dell’altro ragazzo è così serio che si sente morire sulle labbra il rimprovero che stava per fargli.
- Che cosa posso fare perché tu stia meglio.
A Brian piacciono le domande che fa Matt, pronunciate senza punto interrogativo. Gli sembra che dalle sue labbra cadano certezze su cui si potrebbe costruire un grattacielo. Ogni cosa che Matt dice è semplicemente solida e reale, ma non come un pezzo di cemento: è più come un corpo umano. Possono essere parole calde, malleabili, cortesie e canzoni come bestemmie e stronzate, ma Brian potrebbe raccoglierle con le mani e la sua pelle si sarebbe piegata sulla loro forma.
- Ti voglio tanto bene Matt. È per questo che non riesco a parlarti. So che faresti di tutto per capire, ma è come se non fosse nulla di concreto, e lo stesso mi schiaccia le ossa a terra in ogni momento.


Let's take a moment and break the ice.



P.S. Vi giuro che non è importante sapere com'è iniziata e come va a finire.
Gatto Magro

 

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Capitolo 13
*** Prima che fossimo come le patatine fritte: insanguinati sul pavimento. (A raccontarci bugie.) ***


 
 
don’t be afraid, you’re already dead.
 
 
 
Le luci di Los Angeles hanno un sapore elettrico e un retrogusto di sangue.
Crepitano nel buio da mezzo miglio di distanza, come una tangenziale di stelle cadenti a basso prezzo, schizzano a due centimetri dal suo naso e investono le nuvole scure con un’allegria maniacale. Esplodono nel fumo, cadono in polvere di vetro e scariche di corrente sempre più tenui.
Calpestandole si alza un bel rumore, dall’asfalto.
Come di neve sotto scarpe troppo leggere.
E i lenti fasci gialli che scivolano sulla strada, ormai morti, graffiano come cartapesta. I bagliori si estinguono presto collassando sui parabrezza delle automobili, dove rimangono incastrati fra i tergicristalli, sputati nella vegetazione che oscura le curve e soffocati dalla polvere sotto le ruote; muoiono in silenzio, le voci otturate nella canzone sbagliata che passa alla radio.
Ma alla curva successiva, gli alberi si incendiano e risorgono le luci, incorniciate dai finestrini dove picchiano forte, cercando di svegliare i bambini che dormono nei sedili posteriori.
 
Apre qualcosa. Gli occhi?
Adidas rigate di viola e di fango. Troppo vicine al suo naso.
Le Adidas si sollevano sulle punte e dondolano. Veloci.
Nausea, acida e compatta; chiude gli occhi prima che salga e si rovesci sul pavimento – pavimento? – e su quelle scarpe ansiose.
Il finestrino dell’auto.
Le luci intermittenti appese in file sfocate dietro il vetro bucano le fronde degli alberi.
Potrebbe essere un Natale rubato ad una massa indistinta di ricordi e applicato alle sue palpebre abbassate, invece è la superstrada per Los Angeles.
Lo sente dall’odore.
Apre un occhio.
Le Adidas passeggiano nervose in uno spazio piccolo e semibuio, con l’aria appestata di un misto strano di fumo e dolci e alcool. Un punto in alto che dovrebbe essere un soffitto coperto di ragnatele ha la voce spezzata da sospiri atterriti.
- Ma se è morto?
Morto?
Metà del suo corpo è distesa contro un pavimento gelido, fuso con un dolore viscido e strano che gli sale dai polmoni; l’altra è assorta nella sfilata delle luci di Los Angeles dietro un finestrino che ricorda da tutta la vita. Le scarpe, la voce che cade dal soffitto, i rami di querce, il sussurro di una radio e del proprio respiro sotto la cintura di sicurezza, il freddo del pavimento e la morbida oscurità dell’abitacolo di una Cadillac color ruggine sopra una colata nera di asfalto.
 
Morto,
come le strisce di cartapesta che pendono sul suo viso.
Come la pozzetta umida e vischiosa che si trova sotto le dita
(ma non sa bene dove siano finite, quelle).
Morto come ha detto la voce,
anche se non si ricorda se venga dalla stanza buia,
dalla radio che sbava la frequenza,
dalle labbra del profilo di sua madre che si è girata
dal sedile del passeggero.
E dice:
 
- Haner, sei morto?
 
Vicino alla pozza appiccicosa, nel punto dove prima ci sono state le Adidas, due mani rese pallide dalla fioca lampadina a led in un angolo dello stanzino emergono dall’oscurità e sventagliano l’aria pesta, smuovendo un sentore di sigaretta più accentuato che va a ricoprire quello di menta artificiale, nella Cadillac. I bordi dell’abitacolo, la superficie del finestrino, il cruscotto fosforescente: bruciacchiati e sfumati nei contorni rigidi dello stanzino.
Spuntano angoli da ogni parte, e quelle mani bianche che ci danzano in mezzo, disegnando nel buio le forme del dolore che inizia a piovere sul suo corpo, disteso scomposto sul pavimento.
Acido, nelle orbite e nelle gengive.
Con uno spasmo cerca di stringersi al sedile dell’auto, ma i suoi polpastrelli raschiano la sporcizia che ricopre il pavimento; una brusca frenata della Cadillac lo sputa via dal sedile e per un secondo la cintura gli soffoca il petto, prima di sfaldarsi e abbandonarlo alla caduta dentro il buio.
Il buio: forato da due mani luminose.
Dall’odore di vomito e qualcos’altro più metallico.
Anche se stringe forte gli occhi e dentro la sua testa urla all’automobile di fermarsi e tornarlo a prendere, rimanere lì con lui a tamponargli le ferite o portarlo via dentro le luci di Los Angeles, si trova davanti soltanto il buio.
 
In qualche modo, riesce a farlo alzare da terra e a trascinarlo fuori, sul retro del Donney. È più pesante di lui, e per di più non si regge sulle gambe e la testa gli ciondola sul collo; il tempo di pochi passi barcollanti e deve lasciarlo scivolare sull’erba del cortile, con la schiena appoggiata al muretto dietro i bidoni della spazzatura.
Si abbandona con la nuca contro i mattoni, e rimane lì immobile senza dare segni di vita, neanche quando l’altro gli tocca il viso con quelle sue mani pallide. Dà un’occhiata al labbro spaccato e alle gengive insanguinate. Gli solleva la maglia pesante per controllare che le costole siano a posto, con una leggera pressione sotto l’ombra dei lividi che già iniziano a macchiare la pelle.
Inchiostro viola e nero, e sopra di loro un cielo bucato da stelle troppo piccole.
- Non eri così, quando eravamo piccoli.
- Perché, io e te ci conosciamo?
Le parole escono spezzate da bassi colpi di tosse. Deve avere la gola piena di sangue. Il mento gli cade sul petto, senza forza, e una macchia rossa si allarga sulla maglietta.
- Giocavamo a baseball in un campetto. A sette o otto anni, sarà stato. Una volta ti ho beccato con la mazza in fronte, e tu mi hai rincorso per tutta la Golden West.
Tossicchia, le spalle scosse e tremanti. O è un tentativo di risata, o il ragazzo per terra sta tirando gli ultimi.
L’altro si è alzato in piedi e si è acceso una sigaretta, lo sguardo assorto nello spicchio di oceano che sbuca dietro una casa. La fiamma dell’accendino illumina a malapena le sue mani strette a coppa intorno alla cicca; bianco incrostato di rosso, ma non sembra fargli troppa impressione, quel sangue non suo.
- E correvamo veloci? – C’è un sorriso, nella voce alle sue spalle. Muto come lo zampettare di un gatto sulle foglie.
Le foglie?
Il vento freddo.
Vorrebbe tornare dentro e lasciarlo lì, con le sue domande e la sua tosse di sangue. Ma gli dispiace per quel bambino che aveva conosciuto, a sette o otto anni. O giù di lì.
Un brandello di canzone, sempre quella sbagliata, è rimasto impigliato alla porta socchiusa.
Soffia le parole insieme alla prima, lunga boccata di fumo che abbandona la sua gola. Ruvida, da un angolo delle labbra screpolate. 
- Sì. Mi hai preso solo all’incrocio con la Holly, ma eravamo così stanchi che ti sei dimenticato cosa volevi farmi. Ci siamo buttati per terra e tu hai detto che soltanto un paralitico batteva in maniera più schifosa di me.
La risata di entrambi si condensa nella sera scura. Rockaway Beach continua a frusciare dal locale e i lembi delle nuvole velano una luna trasparente.
- Ma com’è che sono, adesso? – Dice dopo un po’, quando la canzone è finita. La sua voce è più forte, ma ancora sfibrata in umide note d’aria. Sembra di ascoltare i primi e gli ultimi secondi di un vinile.
Il ragazzo in piedi scuote lievemente la testa, la bocca stirata in una smorfia quasi amara.
- Cazzo ne so, adesso. Adesso sei così. Rotto, sporco, sgualcito come uno scatolone dopo un trasloco. È rimasto il fondo di roba da buttare via, o talmente inutile che a nessuno importa di tirarla fuori e metterla al suo posto, a casa. Fai finta di essere quello che corre più veloce di tutti, e ti trascini nelle scarpe sperando che qualcuno si fermi ad aspettarti. Adesso sei lì che muori e con te ci sono solo io, ma non ti ricordi nemmeno chi sono.
- Sto morendo? E tu stai lì a fumare. Non mi piace la luna di stanotte.
L’erba e la suola della sua scarpa assaporano l’ultimo filo di fumo della sigaretta. Ne accenderebbe un’altra, pur di non tornare dentro e sentire Now I Wanna Sniff Some Glue strepitata dal tizio ubriaco marcio che si è issato sul palco, appena mezzora dopo l’inizio della festa. Altre quattordici, si corregge mentalmente, dando una scrollata al pacchetto di Camel.
- Vedo quattro raggi, come in una cazzo di bussola. Mia sorella disegna le bussole con quattro raggi, aghi cioè. Ma se ce ne sono così tanti, come fai a sapere da che parte andare. È ferma lì da ieri, la luna. Allora si va da quella parte, verso l’alto, anche se cerca di costringerti a prendere direzioni diverse, per allontanarti. Ma tu sai che quello è il solo posto dove vorresti essere, anche se ti respinge e ti senti in un modo strano, a fissarlo, come se dovesse sparirti da un momento all’altro la forza di raggiungerlo. O la voglia.
- Un sentito “grazie” mi basta e avanza, senza tutte queste stronzate illogiche.
- Dovrebbero cantare Stairway to Heaven, a questo punto.
- Sei un tripudio di banalità, oggi. E comunque è meglio di no, stasera hanno già fatto abbastanza scempio di qualsiasi genere musicale, indistintamente. Anche se non mi è dispiaciuta la versione alcolizzata di quella canzone di Britney Spears.
La discussione cade insieme alla cenere della terza sigaretta. Alza lo sguardo al cielo e pensa che non è vero che la luna ha quattro raggi. A lui sembra che non faccia nemmeno luce.
- Cazzo, non mi sento più la faccia. E’ come se fosse fatta di gomma.
- Nopper è migliorato con la mira, sai? Magari dopo questa gli offrono una borsa di studio. C’era una precisione millimetrica nei primi cazzotti. Poi però si è fatto prendere dall’emozione.
Il ragazzo per terra sputa una risata allegra. – Nopper e chi altro?
- Solo lui. Beh, e un aiutino di Shaun per portarti a fare una gita nella cantina. – risponde l’altro, indicando con un cenno la porta dietro di loro.
- E tu? – Insiste, la voce improvvisamente solcata da una rabbia gelida, spinta in superficie dal respiro che è tornato regolare, come se la buttasse fuori dai polmoni al posto dell’aria.
Il passaggio è troppo brusco per il ragazzo in piedi, investito da un moto d’irritazione che gli fa scagliare via la sigaretta. Sente la pelle pizzicare dalla voglia di urlare contro l’altro, o anche di prenderlo a botte come ha visto fare a quella testa di cazzo di Nopper. Finché non chiude la bocca, maledizione.
Marcia verso la porta con l’intenzione di lasciarlo lì al buio e alla puzza di marcio che cola dai bidoni per tutto il cortile, ma a metà strada si arresta e gli si china di fronte. Registra soltanto in seconda battuta il pallore innaturale del suo volto, impegnato a inchiodarlo con uno sguardo velenoso.
- La prossima volta – sibila, livido. – pensaci diciotto volte prima di guardare con troppa attenzione il culo di Michelle. La prossima volta non mi preoccuperò di venire a vedere come stai.
Si alza di scatto e raggiunge la porta rigata di sporcizia, spalancandola con uno strattone.
- Tanti saluti, Haner – sbotta prima di tirarsela dietro, accolto dal boato attutito del locale.
- ‘Notte, Zack.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ho voglia di pubblicare: sopportatemi.
Questa cosa si colloca cronologicamente un'ora o due prima di "Come le patatine fritte." Sono in corso dibattiti per accertarsi che non sia davvero necessario modificare la successione dei capitoli. (Kant è a sfavore, Leibniz tentenna e Gatto dovrebbe studiare chimica.)

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Capitolo 14
*** Then the night fell on us. ***


You’ll be heard.
 
From dawn;
 
Dioniso si svegliava presto per andare a dire agli uccelli di cantare per me. Era bello, in mezzo alle ombre bluastre che gli alberi gettavano sul prato; ma lui sarebbe stato bello ovunque, mi correggevo mentalmente, e con un solo occhio aperto lo spiavo mentre sorrideva alle foglie e alle stelle che lasciavano il cielo, prima dell’alba.
(Non gli diceva nessuno che il sole era già sorto, nel suo occhio destro. Il sinistro, l’occupava la luna piena con le sue crepe e la sua luce sottile, accurata nel fendere il buio. Così il mio amore aveva l’oro e l’argento negli occhi, custoditi dalle ciglia scure su cui soffiavo dolcemente, le notti d’estate. Anche le cicale si rassegnarono presto al fatto che lui non avrebbe mai creduto di essere un miracolo.)
 
Intanto il nuovo giorno si addensava dietro il sipario di nubi e bruma mattutina, scesa a sciacquare di fresco il volto dei boschi. I fianchi delle montagne parevano fremere all’unisono, delicati, come a scrollarsi di dosso il sonno più profondo.
Lui entrava dalla finestra e tornava ad abbracciarmi, già profumato di sole: era l’anticipo della meraviglia, quel calore rubato al sole che stava per sorgere. Non stava troppo attento a nasconderlo, così riaffiorava sulla pelle delle sue mani, sul rilievo delle nocche e sulle guance. A volte le nuvole tuonavano sommessamente un rimprovero, e gli spruzzavano le ginocchia di pioggia fredda mentre correva da me.
 
 
In memoria degli indirizzi andati a male,
delle antiche cicatrici maledette,
dei desideri che intrecciavamo ai rami degli alberi e ai cavi telefonici.
 
 
Dioniso dai due cuori.
Il primo, di porcellana finissima e traslucida, cosparsa di vene rosa pallido e scheggiature dalla forma di mandorle – gli era caduto più volte di mano, mi raccontava di malavoglia, rigirandoselo fra i palmi rovinati soltanto per il tempo di donare un po’ di calore alla sagoma consumata. Io sospettavo che se lo fosse fatto scivolare di proposito, come un gioco o una sorda pulsione rabbiosa.
Un cuore di porcellana non è affare da poco, dopotutto.
Lo teneva rinchiuso a Castletown, dietro un pannello di legno del salotto da lettura – una stanza identica a tutte le altre sedici che occupavano quel piano: un vasto caminetto di pietra circondato da una manciata di poltrone scorticate disposte a semicerchio, come un anfiteatro stretto attorno allo spettacolo del fuoco scoppiettante, bassi mobiletti dove sonnecchiavano libri impilati senza un qualsiasi criterio, dipinti privi di firma appoggiati al battiscopa, perché dopo certi fatti i chiodi erano diventati illegali, tende di seta verde chiaro ad incorniciare ampie finestre dalla vernice scrostata, come quelle di una casa in riva al mare. Castletown era in riva al niente, circondata dai boschi e occupata unicamente da anime di passaggio, scoiattoli e gatti sempre più grassi, oltre al colto Spirito Fiacco e al fantasma della Dama d’Ottone, con la quale Dioniso andava d’accordo soltanto quando si trattava di fare nuovi acquisti per la cantina. E per quanto riguarda il resto sarebbe un’altra storia, ma visto che si avvicina la mezzanotte potrei andare avanti ancora un pochino.
Lo Spirito Fiacco era stato evocato dal proprietario di Castletown come maggiordomo e guardiacaccia ai tempi in cui lo si poteva ancora convincere ad indossare la livrea e a chiedere cortesemente “Allora, desidera per colazione?”. Tempi i quali, a dirla tutta, erano durati ben poco; il proprietario aveva presto perso la pazienza e finito col stracciare il contratto firmato dallo Spirito con tre gocce di Stige e un spolverata di salzucchero.
Lo Spirito Fiacco venne messo alla porta, insieme a una o due misere valigette e una cappelliera d’ebano, ma non andò poi molto lontano.
Mentre attraversava il bosco per raggiungere qualche altra cittadina confinante con Castletown – “Verso sud, se vai abbastanza spedito, raggiungi Stonegrace in due giorni e quattro balzi”, mi assicurò un giorno – ebbe un diverbio con un’orrida Strega Brancolante che, per vendicarsi di chissà quale sgarbo, gli appioppò un incantesimo del sonno che lo lasciò addormentato ai piedi di una betulla per quasi tre secoli.
Fu il rumore dei nostri passi a svegliarlo, e insistette per accompagnarci a Castletown come guida, dato che la conosceva meglio delle proprie tasche bucate. La verità è che lo Spirito Fiacco aveva appreso dai suoi sogni eterni la nostalgia.
 
 
Ora non ho tempo, davvero, di raccontarvi. Sento il mio amore avvicinarsi con la marea più fredda della notte, con il sorriso sporco di dentifricio e gli occhi lucidi di incubi maestosi.
 
(Dioniso aveva i denti d’avorio, come i coltelli degli dei. Come le carezze del peccato dalle mani brunite di sangue, quello che mi assaliva di notte, quando mi convincevo di essere terribilmente sola, sola in tutto l’universo.)
 
Del suo secondo cuore, Dioniso mi ha soltanto raccontato di come l’abbia sentito iniziare la propria melodia, lento e bollente, il primo giorno della sua esistenza.
Era carne e sangue, come il mio.
Provavo oscure angosce, circa quel suo cuore morbido e votato alla morte; le macchine organiche finiscono presto per maturare complicanze, e gli ingranaggi sfiatano e i tessuti cedono, gonfi di anni e di una stanchezza fatale. Mi chiedevo come non avessero potuto prevederlo, Semele e tutti gli altri. Se almeno uno di loro non avesse saputo evitarlo, quel cuore di carne.
Dopotutto, usavano gettare dal cielo oggetti più sacri.
Dissero che si vide l’accondiscendenza brillare fioca negli occhi viola di sua madre, e il calice catturare un riflesso, quando lo sollevò in un gesto che sembrava un po’ un omaggio, un po’ una giustificazione. L’altra mano teneva la veste accostata al ventre gonfio, e non so perché ogni dettaglio mi suggerisce che Semele avesse già voglia di morire per lui.
Venne esaudita troppo presto, durante una tempesta di fulmini.
 
 
 
Oh baby, baby it’s a wild world.

 
Era proprio come l’avevo sempre aspettato: alto, malizioso e selvatico.
In piedi dentro una pozzanghera – aveva piovuto per giorni e le sue scarpe scomparivano per metà in quell’acqua torbida e fangosa, ma lui era perfettamente a suo agio – studiava i buchetti sparsi per la mia maglietta bianca, i jeans di mio padre tagliati sulle cosce, i miei piedi scalzi appoggiati sul palo della staccionata, tiepido per il calore assorbito durante mattinata. Avevo delle margherite negli spazi fra le dita e fiordalisi dietro le orecchie.
- Ariadne Blake? – mi chiamò, sorridendo a mezza bocca. – Sei in ritardo. Adesso offrimi una sigaretta.
- In ritardo per che cosa? – ribattei, senza muovere un muscolo. Potevo sentire distintamente lo sguardo di mio padre incollarmisi alla nuca, e nella mia mente vedevo la sua ombra chinarsi verso una fessura fra le tende della cucina per catturare la figura del ragazzo che mi stava di fronte, e che aveva fatto un passo in avanti. Le sue labbra tremavano, come se facesse uno sforzo per impedire al sorriso di completarsi.
- Per me.
 
Remember when you lost your shit
and drove your car into the garden
and you got out and say “I’m sorry”
to the vines, and no one saw it.
I need my girl,
I need my girl.
 
Le prime volte, quando mi veniva voglia di baciarlo, diventavo scontrosa.
- Ho un fidanzato – si difendeva la mia bocca.
Dioniso si avvicinava ancora di più. Sudore lungo la schiena, vertebre infuocate e senza riparo, la campagna bruciava.
- L’ho ucciso, Ariadne. E quando è tornato, l’ho fatto diventare pazzo. Adesso crede di essere un castello incantato, ma tu devi stargli lontana.
- Mio padre non vuole che io ti veda.
- Allora ti porto via con me.
Bugie, inganni, corse e scorciatoie, inviti di cartapesta e promesse da marinaio: Dioniso sopportava la compagnia, o anche la semplice, ingenua presenza umana, entro limiti in cui io non risultavo catalogata. Succedeva spesso che mi prendesse la mano e la tirasse con impazienza, implorandomi di lasciare subito una festa, la casa di amici o soltanto un mercato affollato; i suoi occhi di sole e di luna vagavano persi, setacciando l’ambiente alla ricerca della via di fuga più rapida. Scuri e dalle pupille dilatate, come quelle degli animali in trappola.
Dioniso era troppo vivo per stare tra i vivi, e la sua insofferenza divenne anche la mia: nascondeva le lettere di mia madre e delle mie sorelle, e stavo attenta a cercarle solo quando lui non c’era.
Diventammo solitari, due presenze fuse in una che spuntavano come fuochi fatui in un luogo, per poi svanire e ricomparire in un altro, più remoto, prima che il tempo facesse dimenticare di noi.
Il corteo di uomini dalle facce dipinte con il gesso che lo seguiva ovunque sparì senza lasciare traccia, nemmeno una scia di polvere bianca sul pavimento, o il segno di quei coltelli ricurvi sul suo corpo. Qualcuno deve avermi detto che partirono per New York e lì giurarono fedeltà ad un’organizzazione mafiosa di cui non ricordo il nome.
Le Menadi cambiarono gusti musicali, alcune misero su famiglia e organizzarono feste riservate e alla moda, dove il vino bianco veniva servito su calici di vetro e nessuno faceva l’amore sul pavimento.
Il mio amore indossava una maschera per rovinare i loro cieli tersi, commissionati in anticipo per le vacanze al mare con i mariti sovrappeso e uno o due bambini apatici bianchi come la panna. Mi lasciava nascosta tra le conchiglie e andava a soffiare fiammelle gelide sulle acconciature fissate dalla lacca.
E le alte urla che lanciavano, dimenando le braccia come pazze, ci facevano ridere con la tristezza nel cuore.
 
 
 
Till dusk.
 
I asked Saint Christopher to find your sister
And she ran out in the woods
And we where tryin’ to stop the winter
Killing all it could
 
Dioniso, chi ce l’ha fatto fare di ammucchiare parole per sopravvivere?
Passare il Natale sui marciapiedi di Mosca, Inverness, Orleans, con una coperta e pacchetti di cibo fumante e sigarette lunghe, la sua chitarra acustica e le mie mani a inseguire i racconti fatati che Dioniso sapeva a memoria; amava ripeterli per sentirli lui stesso, come un bambino chiede milioni di volte le stesse fiabe alla madre.
Le guance morse dal freddo, ancora più rosse sotto la luce morbida dei lampioni, che prendeva il posto del sole al tramonto. La tua voce scaldava fin dentro il sangue, amore mio. Rubava aria al mondo per costruirsi un corpo, e si faceva respirare da tutte quelle persone ingobbite dai cappotti pesanti, spingendosi fino ai muscoli e al midollo.
Se nasceva un sorriso o una risata immotivata, pioveva ai nostri piedi qualche centesimo.
Salire sul tram con la felicità nel petto, era gratis.
 
I visionari confonderanno il mio umido dio con i cieli azzurri, i fiori di campo, il profumo del legno e le emozioni inzuppate di rosso, ma lui era anche la marea e la furia omicida, il serpente che mi chiamava veleno, il lato oscuro del paradiso, il rancore dei santi incoronati di spine, la luce dietro gli occhi gialli degli angeli, il fango sulla riva dei fiumi, il sangue degli alberi e il portale verso i mondi immaginari. E nei mesi freddi s’inventava di fare il cantastorie, ritrovando la vita nell’adorazione di cui si trovava circondato – perché ogni cosa lo ascoltava, ogni cosa tremava svegliandosi dalla fitta rete della materia e danzava nel grandioso cerchio di fuoco proiettato dal suo canto in ogni mente, luce pura stagliata contro la notte.
E io, né più né meno di loro, in eterno, lo amavo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Le canzoni: Wild World – Cat Stevens; I need my girl – The National; The Woods – Daughter.
P.S. Gatto Magro approda su Facebook, perché le battaglie su Spotify con l’amico di cui sfruttava l’account erano diventate frustranti. Se volete, la trovate lì.

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Capitolo 15
*** The Queen is dead. ***


 
 
 
And our saints they’re drunk and howling at the moon.
 
- io urlo senza inflessioni e tu rispondi interferenze elettrostatiche -
 
 
E anche mentre parcheggio, che è un gesto stupido quotidiano noioso vacuo, lo sguardo automaticamente si allaccia alle tue scarpe dimenticate sul muretto, una sbilenca come se te la fossi scrollata senza più fregartene un cazzo mentre saltavi nel cielo.
Scalo le marce, mi cade la cenere morta della sigaretta sui pantaloni. Scopro che cosa mi sono messo stamattina soltanto quando la spolvero via dalle ginocchia, e intanto ti auguro celesti vesciche a costellare le tue passeggiate intergalattiche a piedi scalzi sulle orbite sassose di una Venere mai sognata da nessuno – puttane di lava fredda, lampioni di fotoni liquidi ti carezzano la nuca come le foglie di alberi elettrici; motel nelle giunture dei Gemelli, e tutte le lattine di Coca Cola mai centrate con un fucile a pallini galleggiano incerte sopra il loro bassoventre.
Ma io tutto questo lo penso solo per odiarti almeno un millesimo di quello che non ti ho mai detto.
E poi ritorno alle tue scarpe e ai brillantini iridescenti che si staccano ad ogni alito di vento, ogni segno che i passanti fanno con il dito. Guarda, le scarpe di una fata.
Certo. Certo. Se batti le mani con gli indici incrociati e chiudi gli occhi, si trasformano in libellule. In mani fantasma. In un pacco di lettere divorate dall’umidità, basta che ti concentri.
Le scarpe di un angelo.
Segni di un passaggio divino a buon mercato. L’angelo guarda la tua miseria sgranchendosi le dita intorpidite, poi se ne va: un intervento costa di più di una manciata di brillantini attaccati con la colla che fa i grumi.
La radio smette di funzionare nell’esatto momento in cui si accende, fra i miei pensieri, il pigro luccicare delle tue dannate scarpe, e penso che siate tu e le tue mani fredde e la musica interstellare che fa vorticare i pianeti.
Inciampa sulla probabilità di un nuovo universo di cominciare il suo turno di esistere e precipita di nuovo qui, ti prego.
 
 
 
 
 
 
I’m aiming right at you,
right at you,
right at you
 
 
 
Si chiama Maddalena e ho appeso la sua fotografia a tutti gli alberi spogli e irrigiditi dall’inverno. Le luride vetrine dei negozi chiusi ora hanno i suoi occhi e il suo modo di tenere il labbro superiore leggermente storto. Sui mattoni delle gallerie scarsamente illuminate e degli edifici fatiscenti ho dipinto Maddalena che legge un libro, piange, si inginocchia vicino allo scaffale dei dischi con quell’espressione indecisa che le spuntava intorno al naso quando non sapeva bene che emozione volesse provare.
 
Ogni tanto ci torno per contare i graffi del tempo e della pioggia sui contorni delle tue spalle da uccellino. Le persone hanno lasciato dei fiori sul marciapiede, i gambi marci fasciati nella carta stagnola e biglietti pieni di cuori e adesivi rosa, scritti in un corsivo largo e tremulo, sparsi fra i petali – io leggo da distante tutti quei ci manchi, pregheremo per te stanotte e vorrei prendere tutto a calci e trascinare il sangue verderosso dei fiori sull’asfalto con la suola delle scarpe, strappare i messaggi e le lacrime che nascondono le sfumature dei tuoi capelli dipinti e incidere con le unghie il mio nuovo numero di telefono sull’intonaco farinoso
          (perché continua a sparire, riassorbito nei muri o colato via insieme alla pioggia o cancellato dai cappotti delle persone che passano troppo vicine, senza attenzione
E mi ritrovo a rispondere a chiamate di qualcuno che finge di essere te, e non riesco più a mangiare).
 
 
 
 
 
 
Down in the valley where we used to live parted.             19:57
 
 
Avevamo lasciato i guanti da lavoro in una pila vicino agli scatoloni malandati, dentro cui, qualche ora prima, erano arrivate le aste dei microfoni e alcuni pacchetti di viti delle quali nessuno conosceva lo scopo.
Un presagio, un rito, un cerchio magico, avrei pensato più tardi.
Ma mentre mi arrotolavo le maniche della maglia sulle spalle e vi scoprivo la pelle d’oca, in realtà, non pensavo a niente; magari alla birra, al battito sempre più sordo del dolore fra le costole, sul fianco sinistro: a niente. Invece il giallo plastica sporco dei guanti poteva suggerire i tuoi occhi, in un qualche sistema di simboli volgari di cui non ti avrei mai resa parte, e le viti sarebbero servite a forzare gli spazi fra le mie ossa,
per accoglierti
per tenere tutte le mie parti insieme
quando te ne fossi andata.
Anche se è chiaro e mortalmente inevitabile che io sarei rimasto una forma insulsa e mostruosa, e mi sarei ripiegato nei miei organi ad ogni passo, incapace di reggermi in piedi e di tenere separate le dita, la fronte dalla terra.
Giocavamo a football e ridevamo come imbecilli nella sera fredda e bagnata. Se ci fossimo ammalati il concerto sarebbe saltato, ma in quel momento non esistevano più gli amplificatori ronzanti, la centralina elettrica degli anni ’60 e i soli tre microfoni funzionanti.
Eravamo le lingue gelide dell’erba su cui scivolavano le scarpe, soltanto finché il colore delle nuvole fosse stato più scuro di quello del cielo.
Non riesco a parlarne senza farlo sembrare il momento più bello e orribile della mia vita.
 
 
 
 
Softly in the evening dusk, a woman:


 
 
Sei comparsa alle mie spalle o forse sei sempre stata lì, ma me ne sono accorto soltanto dopo, quando ho seguito con gli occhi il perimetro del campo improvvisato perché il gioco era schizzato più avanto ed ero rimasto indietro, immobile, a cercare di scaldarmi le braccia.
E c’eri tu, che fumavi e avevi freddo in mezzo alla plastica senza colore e alle nostre felpe sudate. Il labbro superiore leggermente storto, il rossetto secco e sbavato. La maglietta bianca spiegazzata lasciava intravedere il reggiseno nero e gli anni di fame che portavi sotto.
Se avessi continuato a guardarti – e non era possibile, forse per un difetto di fabbrica, per questioni di ghiaccio bollente, ma la tua vista mi scottava le pupille e resistevo per pochi secondi – avrei visto, in trasparenza, sotto la tua maglietta bianca, che siamo stati compagni di scuola senza che me ne fossi mai reso conto: scene di corridoio frammentate dalla prospettiva, le risate più acute e stridenti, i capelli decolorati che non ricordavo se avevo avuto per davvero, o soltanto in qualche sogno scaduto./ E c’era quella mattina in cui ho iniziato ad ascoltare Threads e non sono riuscito a smontare dalla bici e frequentare le lezioni, ma ho fatto un giro del cortile in uno stato di trance per poi uscire dal cancello e andarmene; tu devi avermi visto dai finestrini dell’autobus./ Minty Casperfeld ti parla di me con in mano delle forbici e i gomiti appoggiati sopra un tavolo di noce, in una cucina che non ho mai visto, credo – Minty sorride come sempre e le brillano gli occhi, lei era la mia ragazza e tu eri la sua sorellina-sarai-per-sempre-il-mio-segreto, che ascoltava in silenzio e spariva in soffitta quando venivo invitato alle cene di famiglia./ Il 27 settembre premeva forte sulla cassa toracica; è il giorno in cui Minty Casperfeld mi aveva detto che in casa non c’era nessuno, e abbiamo fatto l’amore per la prima volta su uno dei due letti nella camera al primo piano. Non mi ricordavo che lei avesse messo su un disco, ma si diffondevano nel buio sottile le note indistinte di un pianoforte./ L’aula dove provavamoe le tue mani piccole contro la porta chiusa la facevano scricchiolare, non ci siamo mai preoccupati, facevamo attenzione ai suoni e non ai rumori, anche se anni dopo avrei riconosciuto quelli che facevi come se ci fosse sopra la tua firma, e ho torturato ogni strumento per riprodurli, mentre l’idea di un concept album che ti riportasse da me mi faceva impazzire un pezzo alla volta./
Invece non ho visto nulla, nessuna trasparenza, nessun ricordo impigliato al tuo ombelico.
L’ultima volta che mi sono voltato, eri terribilmente vicina. I tuoi stivali di pelle avevano bevuto le pozzanghere e inghiottito la parte di mondo che ci separava. Il resto, era il tuo braccio nudo e bianco teso verso di me, e le tue dita sulla mia bocca.
- Sangue, - hai detto in silenzio. – Stai perdendo un sacco di sangue.
 
 
 
 
Track 9.
“I would kill to be the cold tracing your body and shaking your bones.”                            26:23


 
 
 
E uno sfrigolio attraversava i piani dimensionali a partire dalle sue unghie rosicchiate. I suoi polpastrelli – quasi sulla mia bocca, ormai – intrisi dell’odore di sigarette fumate nervosamente, una dopo l’altra guardando le auto sfrecciare in una strada sbriciolata ed evanescente nella nebbia, ment
re i suoi polsi sottili profumavano appena di mandorle, prima di sparire nelle maniche slabbrate della maglia.
Le tue dita sulla mia pelle insanguinata come passi sull’erba irrigidita dal gelo. Respiravo a malapena, scricchiolando, in punta di piedi sul baratro oscuro dei tuoi occhi.
Dio, lei mi gelava il sangue nelle vene e mi faceva salire in gola il sapore di giorni che avevo lasciato andare, come foglie uguali e rinsecchite strappate dal vento e trascinate lontano, a bloccare i tombini di strade senza nome.
Nel momento in cui mi ha toccato,
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Avevamo i cuori rotti e i polmoni rattoppati per le troppe sigarette e le sciarpe che nessuno ci regalava mai. Ci siamo più o meno amati, con la gola esposta alla scure dell’inverno.”
 
Dovevano esserci le stelle e almeno due paia di galassie ad attendere che bruciassimo lievi.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Fine.
( Ma non proprio )
 
 
 
 
 
 
 
 

 

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