Genesis Hale and The Awakening of Chaos di ChildOfTheDeath (/viewuser.php?uid=692771)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Chapter one- Castle of Glass ***
Capitolo 3: *** Chapter two- Losing your memory ***
Capitolo 4: *** Chapter three- It's my life ***
Capitolo 5: *** Chapter four- Don't you worry child ***
Capitolo 6: *** Chapter five- This is war ***
Capitolo 7: *** Chapter six- How to save a life ***
Capitolo 8: *** Chapter seven- Gods and Monsters ***
Capitolo 9: *** Chapter eight- Unbreakable ***
Capitolo 10: *** Chapter nine- Miss Independent ***
Capitolo 11: *** Chapter ten- Bleeding Out ***
Capitolo 12: *** Chapter Eleven- In the End ***
Capitolo 13: *** Chapter Twelve- Nobody's Home ***
Capitolo 14: *** Chapter thirteen- Monster ***
Capitolo 15: *** Chapter fourteen- Teenage Dream ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
PROLOGO
Il
mondo è
rosso attorno a me. La sabbia bruciata vortica nell’aria,
mentre l’incendio
divampa, distruggendo New York. Il Central Park non esiste
più ormai; è
diventato una landa brulla senza vita. La gente grida, urla…
Le fiamme
lambiscono i corpi delle persone, ma io non posso fare niente. Sono
bloccata
nella sabbia. Sono bloccata, e il sole mi acceca. Un sole troppo
luminoso,
troppo grande. Un sole che uccide. La mia pelle brucia, ma è
impossibile
muoversi. E’ come se la sabbia mi ancorasse al terreno,
è come se Madre Terra
volesse risucchiarmi, per non lasciarmi andare mai più.
<<
Sta
arrivando. >> E’ una voce. Una voce femminile,
che sussurra al mio
orecchio. Volto la testa di scatto, ma accanto a me non
c’è nessuno.
<<
Manca poco. >> La voce è tranquilla. Non
è troppo alta, ma nemmeno troppo
bassa. E’ rassicurante,
come se sapesse
esattamente quello che sta succedendo. Il tono è quello di
una donna. Una
giovane donna, annoiata quasi.
<<
La
Morte sta arrivando, ti aiuterà. >> Continua,
insinuante. Rabbrividisco,
nonostante il caldo cocente. Alzo lo sguardo verso New York. Riesco a
vedere
tutta la città da quassù, ma non so dove sono. In
alto, sicuramente. Ma la
sabbia continua a lambire le mie caviglie, senza lasciarmi scampo.
<<
Fatti vedere. >> Dico. Il suono delle mie parole mi
rassicura. Sono
ancora in grado di parlare.
<<
Non
posso farmi vedere. Aspettala. Aspetta la Morte, dovrebbe
già essere arrivata
da te. >> Continua, imperterrita.
<<
Aspettala, e andrà tutto bene. >> Poi sento
una brezza gelida sulla nuca,
e la ragazza è sparita. E’ come se la sua
incombente presenza fosse scomparsa
all’improvviso. Non l’ho mai vista, ma so che
è stata qui. Improvvisamente mi
sento assalire dal panico.
Sto
sprofondando. La sabbia mi sta inghiottendo. Scotta, e io grido. Grido
con
tutto il fiato che ho in gola, mentre il mostro rosso mi trascina con
se. Mi
gremisce con le sue braccia ineffabili, impedendomi di respirare,
impedendomi
di vedere.
<<
Aiuto! >> Urlo, sperando che la ragazza sia ancora qui
con me.
<<
Ti
prego, aiutami! >> Mi divincolo, ma non faccio altro che
sprofondare
sempre più.
<<
Salvami! >> Grido, un’altra volta. Ma il mostro
mi afferra per le
caviglie, e dà un ultimo strattone, più forte
degli altri. La sabbia si chiude
sopra di me, e tutto diventa nero.
Poi
il
nulla.
<<
Genesis? Per l’amor del cielo, ragazzina! >> La
voce petulante di Moira
mi fece tornare alla realtà. Fu come riuscire a respirare di
nuovo. Battei le
palpebre un paio di volte, e poi presi un respiro profondo. Pensavo che
le
visioni non mi avrebbero mai più tormentata. I medici mi
avevano imbottito di
farmaci. Mi avevano detto che non sarebbe successo di nuovo. Che non
sarebbe
successo mai più.
<<
Ehm… sì? >> Domandai, cercando di
risultare il più naturale possibile.
Poi mi guardai attorno. Mark mi fissava con aria disgustata, con una
mano
appoggiata sulla portiera, e una piede ormai posato sul marciapiede.
Certo.
Eravamo a scuola. La nuova fantastica scuola. Mio padre non aveva
voluto che
tornassi alla Ross High School. “Troppe voci, troppi
pettegolezzi.” Diceva. “Qui
invece nessuno saprà del tuo difetto,
tesoro.” Si ostinava a chiamarlo così.
Gli incubi, le voci, le visioni…
Secondo lui erano soltanto dei difetti. Secondo me invece era pazzia.
Pura e
semplice pazzia. Io ero pazza, ma ormai ci avevo fatto
l’abitudine.
<<
Sei sorda per caso? Vai con Mark, forza, e comportati come una persona
normale.
Non voglio fare una brutta figura a causa tua. >>
Sibilò Moira,
lanciandomi un’occhiata fulminante dallo specchietto
retrovisore. Alzai le mani
in segno di resa, aprendo la portiera. Guardai mio padre, sperando che
dicesse
qualsiasi cosa. Magari una frase rassicurante, un sorriso
fiducioso… Ma si
limitò soltanto ad un cenno svogliato della mano. Dovetti
trattenere una
risatina amara.
<<
Muoviti, stramboide. >> Sentii il fiato caldo di Mark
nell’orecchio, e
sobbalzai. Saltai giù dall’auto nuova di zecca,
evitando la gamba del mio
fratellastro, tesa tra i miei piedi. Mark aveva due anni più
di me, e da quanto
avevo sentito dire era considerato una specie di divinità da
tutta la scuola.
Non capivo cosa la gente trovasse in lui. Era biondo, aveva gli occhi
azzurri
ed era alto… Ma era la cattiveria fatta a persona. Di quelli
che si divertivano
a bruciare la ali alle farfalle, o a tormentare i fratelli. Magari le
sorelle.
O le sorellastre, più precisamente. Mi lasciava lividi in
luoghi strategici,
che nessuno poteva vedere. Una volta mi aveva sostituito lo shampoo con
la candeggina,
per non parlare…
<<
Ehi, Donovan! Come va, bello? >> Fui costretta a
scansarmi di scatto,
mente una montagna di muscoli senza cervello si abbatteva su Mark.
Doveva
essere uno dei suoi tanti amici della squadra di football. Cominciarono
a
sghignazzare e a darsi pacche un po’ troppo forti sulle
spalle. Nessuno mi
degnò di uno sguardo. La campanella della prima lezione
squillò nel cortile, e
un coro di esclamazioni sdegnate proruppe nell’aria. Ah, il
primo giorno di
scuola… Sempre uno spasso.
<<
Beh, allora io vado. >> Borbottai, grattandomi la nuca.
Mark mi mostrò i
denti, come se volesse azzannarmi, e poi tornò a
chiacchierare amabilmente con
il suo amicone. Notai altri gorilla decerebrati che si avvicinavano ai
due. Era
davvero arrivato il momento di tagliare la corda. Mi dileguai, diretta
verso
l’entrata della Goode High School di Manhattan. A detta di
Moira era uno dei
migliori licei della città e bla, bla, bla. A me sembrava
soltanto un covo di
ricchi e viziati figli di papà, ma avevo preferito non
dirglielo.
Mi
sistemai la cartella sulle spalle, cominciando a salire le scale
dell’ingresso.
Quella giornata era cominciata malissimo, e avevo il cattivo
presentimento che
non avrebbe fatto altro che peggiorare. Era forse il karma? Magari
un’entità sconosciuta
e superiore ce l’aveva con me. Forse ero stata troppo
cattiva, e l’universo
voleva punirmi. Certo, non si poteva dire che fossi una santarellina,
ma non
avevo mai ucciso nessuno. Nemmeno picchiato, se è per
questo. Il mio “difetto”
mi aveva sempre impedito di avere amici, o una vita sociale normale.
Alle
elementari le altre bambine mi invitavano ai pigiama-party, ma non ci
potevo
andare. Gli incubi la notte mi perseguitavano, e mi sarei svegliata in
lacrime,
o addirittura con le convulsioni. Dovevo sempre rifiutare, e ad un
certo punto
loro avevano smesso di chiamare. L’estate era appena passata,
e io l’avevo
trascorsa in un centro di cura
psichiatrico, o manicomio, per chi accetta il fatto che i
pazzi esistono
ancora. La mia compagna di stanza aveva tentato di suicidarsi sei volte
in due
mesi, e il cibo faceva schifo. I dottori e gli psicologi mi avevano
diagnosticato una specie di psicosi acuta, che mi faceva vedere e
sentire
strane cose. Mi avevano imbottita di farmaci, come un tacchino. Gli
incubi, le
visioni e le voci non mi avevano più tormentata. Fino a
quella mattina.
<<
Sta
arrivando. >> La voce. La voce
della visione.
<<
Lei
è qui. La Morte ti è vicina. Sta arrivando.
>> No, fuori
dalla mia testa. Fuori. Dalla. Mia.
Testa.
<<
Levati dai piedi, ragazzina. Blocchi il passaggio. >>
Qualcuno mi piombò
addosso, facendomi barcollare. Alzai lo sguardo verso al ragazzo che mi
fissava
con aria truce. Era alto, molto più di me, e aveva
l’aria da rocker mancato.
Giubbetto da aviatore, capelli neri spettinati e occhiaie scure che lo
rendevano inquietante.
<<
Agli ordini, Mr. Simpatia… >> Borbottai tra i
denti, scostandomi. Ad un
tratto non ero più molto sicura che quel giorno sarebbe
andato tutto bene.
Nessuno, a parte Mark, sapeva delle mie stramberie, ma una visione
poteva
cogliermi durante un’interrogazione, o avrei potuto
incantarmi davanti alla
cuoca che distribuiva il cibo a mensa. O peggio… Soprattutto
quando ero piccola,
le visioni e gli incubi mi sembravano talmente reali che mi mettevo a
piangere
e urlare. Con il tempo la situazione era migliorata, perché
avevo imparato a
distinguere gli orrori partoriti dalla mia mente e la
realtà. Non che durante
le visioni non avessi paura, ma perlomeno sapevo che non erano altro
che una
folle attività del mio cervello.
La
seconda campanella, quella delle otto e cinque, cominciò a
trillare
all’impazzata, rischiando di rompermi un timpano. Sospirai,
abbassando lo
sguardo. Non volevo entrare a scuola. Avrei preferito scappare al Polo
Sud, o
andare a vivere come una clochard a Parigi. Oppure sarei potuta
diventare
un’artista di strada. Tutto, ma non volevo più
quella vita.
<<
Forza e coraggio, Genesis Hale. >> Sospirai tra me e me.
<<
E che la fortuna possa sempre essere a tuo favore. >>
Aggiunsi.
Citare
frasi
tratte da Hunger Games? Mai un buon presagio.
<<
Ciao sorellina. >> Chiusi l’armadietto con un
colpo secco, voltandomi di
scatto. Mark mi fissava dall’alto in basso, con le braccia
incrociate sul
petto. Lo guardai in faccia, diffidente. Non avevo fatto niente quella
mattina.
Niente esplosioni, niente risse, niente feriti… Proprio
niente di niente. Me ne
ero stata buona e tranquilla nel mio angolino, passando da lezione a
lezione
con la testa fra le nuvole. Insomma, un banalissimo primo giorno di
scuola.
<<
Mark, stavo giusto per… >> Provai a sgusciare
via, ma le sue mani
andarono a schiantarsi ai lati della mia testa. Oh,
cavolo. Sbirciai oltre le sue spalle. Una specie di gorilla
in
tenuta sportiva ghignava sotto i baffi, mentre Pamela, la ragazza del
mio
fratellastro, rideva come un’oca giuliva, insieme alla sua
amica Michelle.
Erano spesso state ospiti a casa nostra, sospettavo che fosse per la
vasca
idromassaggio e per la piscina all’aperto. Pamela era una
biondina tutta tette
e niente cervello, capo cheerleader. Michelle aveva i capelli rossi e
una
miriade di lentiggini. La sua bellezza era più naturale di
quella di Pamela, ma
entrambe avevano il quoziente intellettivo pari a quello di un
comodino.
<<
Stammi a sentire, ragazzina. >> Cominciò Mark,
ringhiandomi praticamente
in faccia. Odiavo quando si comportava in quel modo. Un conto era
affrontarlo a
casa, da solo. Ma quando ci si metteva con le scenate in
pubblico…
Effettivamente negli ultimi giorni era stato piuttosto indifferente nei
miei
confronti. Che stesse architettando qualcosa?
<<
Questo è il mio territorio, qui comando io. Prova a fare una
delle tue
stramberie in pubblico, e ti giuro che ti farò pentire di
essere nata. >>
Sibilò. Mi aveva afferrata per le spalle, stringendo un
po’ troppo forte.
Cercai di divincolarmi, con scarso successo. Fui tentata di sputargli
in
faccia, ma non avrei certamente migliorato la situazione.
<<
Lasciami andare, Mark. >> Mi limitai a dire, freddamente.
Lui sorrise,
maligno. Oh, oh.
Quel
mezzo sorrisetto non prometteva nulla di buono.
<<
Come vuoi tu, sorellina. >> Poi mi lanciò
praticamente via, e fui spinta
brutalmente all’indietro, crollando contro a qualcuno. Sentii
Pamela che si
complimentava con il suo ragazzo, mentre il gorilla giocatore di
football
scoppiava a ridere sonoramente. Poi ritornai velocemente alla
realtà. Prima
cosa da fare: analizzare la situazione.
Ero
indubbiamente sul pavimento della scuola, e avevo un braccio piegato in
una
posizione fastidiosissima, sotto al corpo di qualcun altro. Udii il
povero
malcapitato grugnire qualcosa del tipo “Diis
Immortales! “, ma probabilmente avevo battuto la
testa. Poi il tipo si
districò dal groviglio di arti che formavano i nostri corpi,
e si tirò
velocemente in piedi. Aprii gli occhi, confusa. Era il rocker mancato,
quello
che mi aveva urtato all’ingresso della scuola. I suoi occhi
scurissimi mi
stavano lentamente incenerendo. Sembrava che stesse decidendo se
staccarmi
direttamente la testa o se farmi morire in modo più atroce e
doloroso.
<<
Guarda dove metti i piedi, imbranata! >>
Esclamò. Poi mi afferrò per un
braccio, e mi rimise in piedi con una forza davvero sorprendente. Non
che
pesassi molto, ma lui era talmente magro che sospettavo non riuscisse a
tenere
in mano nemmeno un pezzo di carta. Mi sistemai la maglietta sgualcita,
e poi
affrontai il tipo.
<<
Mi stai forse pedinando? >> Domandai, con aria di sfida.
Potevo anche
essere intimorita da Mark, ma non mi sarei mai fatta mettere i piedi in
testa
da un perfetto sconosciuto. Lui mi mostrò i denti, quasi
volesse azzannarmi. Si
avvicinò di un passo. Non mi ero accorta che fosse così alto.
<<
Credo che sia tu che stai pedinando me, piuttosto. >>
Ribatté, piccato.
Sbuffai, accennando ad una risatina. Chi si credeva di essere? Ok,
forse
quell’aria così tetra e lugubre poteva mettere un
po’ di paura. Senza contare
poi… era un anello col teschio quello che gli vedevo al
dito?
<<
Perché dovrei? E comunque un gentiluomo mi avrebbe chiesto
se mi sono fatta
male. >> Risposi, indignata. Le sue labbra si distesero
in un ghigno
ironico. Osservandolo meglio non era poi così male. I
capelli neri gli
incorniciavano il viso pallidissimo, creando un contrasto spaventoso ma
bellissimo al tempo stesso. Sembrava che un pittore avesse utilizzato
la
tecnica del chiaroscuro per dipingere le fattezze del suo volto. I suoi
tratti
erano spigolosi, ma
armoniosi ed
eleganti. Le occhiaie scure attorno agli occhi lo rendevano
inquietante, ma
quasi sexy. Sì, beh,
insomma… Era carino.
<<
Di solito il gentiluomo che c’è in me emerge
quando c’è una donna in pericolo.
>> Cominciò.
<<
Per caso tu hai visto una donna da queste parti? >>
Domandò poi, mentre il suo sorrisetto
si allargava. Che razza di…
Qualcosa
cominciò a suonare dalla tasca dei suoi jeans strappati. Il
rocker mancato
abbassò lo sguardo, e sembrò fissare il suo
cellulare per un’eternità. Quando
rialzò la testa era visibilmente impallidito, e mi fissava
come se fossi un
mostro. Inarcai le sopracciglia, sorpresa. Ma cosa diavolo gli era
preso?
<<
Beh? Non rispondi al cellulare? >> Chiesi, allargando le
braccia. Lui
sembrò riscuotersi al suono della mia voce. Alzò
il mento, assumendo una
posizione superba e fiera. Il sorrisetto sarcastico tornò a
dipingersi sulle
sue labbra.
<<
Devo andare. >> Disse semplicemente. Ma prima di girare i
tacchi mi si
avvicinò, quasi minaccioso.
<<
Lo scarso equilibrio è sintomo di labirintite. Ti consiglio
di andare da un
medico. >>
Che
razza di
stronzo.
NOTE
AUTRICE
Allora,
che ve ne pare? Non so nemmeno come mi sia venuta in mente questa
storia. Comunque, se il capitolo vi è piaciuto recensite.
Anzi, recensite anche se non vi è piaciuto, accetto le
critiche costruttive.
Bacioni e buone
vacanze a tutti :)
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Capitolo 2 *** Chapter one- Castle of Glass ***
CHAPTER
ONE- Castle of Glass
<<
E’
arrivata, non è vero? >> La voce della ragazza
sussurra nelle mie
orecchie, come se volesse prendermi in giro. Mi guardo attorno. Il sole
sta
tramontando, ma fa comunque molto caldo. Da quassù riesco a
scorgere tutta New
York. E’ deserta. Gli antifurti delle automobili suonano
all’unisono, per poi
spegnersi uno dopo l’altro. Granelli di sabbia scura
vorticano nell’aria, mossi
da un vento sferzante.
<<
Chi? Chi è arrivata? >> Chiedo. Questa volta
riesco a camminare. Faccio
un passo in avanti, stringendo le mani alla ringhiera di una balaustra.
Non
riesco a capire dove mi trovo. L’Empire State Building mi
fissa, da lontano. E’
uno dei pochi grattacieli rimasti in piedi. Me ne rendo conto soltanto
adesso.
E’ come una specie di gigante della città, che
veglia su ciò che è rimasto
della sua casa.
<<
La
Morte, ovviamente. E’ l’unica che può
aiutarti. >> Risponde la ragazza.
Mi mordo un labbro. Odio non riuscire a vederla. So che lei sta
cercando di
aiutarmi, ma è… frustrante.
<<
Aiutarmi a fare cosa? >> Domando, a bassa voce. La
ragazza ridacchia, poi
è come se qualcuno mi avesse messo tra le mani un binocolo.
Stringo gli occhi,
sporgendomi sempre di più. Guardo sotto di me, ma
all’improvviso il terreno è
vicinissimo. C’è qualcosa, a qualche metro da me.
E’ un corpo umano, sembra
respirare ancora. Allungo una mano, quasi a voler aiutare quel
poveretto.
<<
Se
fossi in te non mi avvicinerei. >> Suggerisce la ragazza.
Il mio istinto
dice che dovrei ascoltarla, ma non posso lasciare lì
quell’uomo. Muove un
braccio, cominciando a strisciare nella mia direzione. Non riesco a
vederlo in
volto, perché i capelli lunghi gli coprono il viso. Deve
essere gravemente
ferito, anche se non vedo sangue da nessuna parte. L’uomo
emette un lamento di
pura sofferenza.
<<
Devo aiutarlo! >> Esclamo. Allungo la mano, sporgendomi
sempre di più.
Sono quasi completamente al di là della balaustra. Se
cadessi morirei
sicuramente, ma qualcosa mi dice che non succederà. Adesso
sono in bilico,
ancora qualche centimetro e precipiterò verso il basso.
L’uomo d’un tratto alza
il viso verso di me, fissandomi negli occhi.
Urlo.
Urlo
perché
quello che ho davanti non è un essere umano. No,
è… un mostro. La pelle è
bianca, quasi trasparente. Casca, come se fosse stata corrosa
dall’acido. Gli
occhi sono rossi ed iniettati di sangue, privi di una qualsiasi luce
vitale.
Batte i denti, come se avesse fame. Fame di me. Emette ancora quel
lamento,
tirandosi in piedi. Provo a tornare indietro, ma ormai è
troppo tardi.
Sto
precipitando tra le braccia del mostro.
Mi
svegliai di soprassalto, con il cuore che mi batteva in gola. Il sudore
freddo
mi scivolava lungo la spina dorsale, facendomi rabbrividire. Deglutii,
mettendomi a sedere. Ormai ero diventata di nuovo pazza, era ufficiale.
Prima
le visioni, poi la
voce, e infine gli
incubi. Avevo sprecato un’estate rinchiusa dentro ad uno
stupido manicomio, e
non era servito a niente. Tutto era ricominciato, senza nessun
preavviso, senza
che avessi potuto prepararmi. Quanto ero stata stupida… ad
illudermi che la mia
vita sarebbe tornata normale. Che sarei potuta diventare una comune
sedicenne.
Una
grossa goccia di pioggia mi cadde sul naso, facendomi ricordare dove
fossi.
Avevo deciso di saltare le lezioni pomeridiane, rifugiandomi in
cortile. Mi ero
sdraiata sotto la chioma di una grande quercia, decisa ad osservare il
cielo
azzurro tutto il pomeriggio. Purtroppo mi ero assopita, e nel frattempo
grossi
nuvoloni neri si erano radunati sopra la mia testa, minacciando di
esplodere da
un momento all’altro. Sbuffai, mettendomi a sedere. Sapevo
già che mio padre
avrebbe fatto una scenata, dopo aver scoperto quello che avevo fatto,
ma non mi
interessava più di tanto. Avrei potuto dire che stavo male,
e che avevo bisogno
di aria fresca.
<<
Ma io ho fame, Pam! Da quant’è che non ci facciamo
un bello spuntino? >>
Sentii la voce di Michelle provenire da sinistra. Mi nascosi subito
dietro al
tronco della quercia, stupendomi di me stessa. Potevo semplicemente
andarmene
indisturbata, eppure qualcosa mi diceva che sarei dovuta rimanere ferma
immobile, finché quelle due non se ne fossero andate.
<<
Da tanto tempo, compagna. Ma non preoccuparti, tra poco potremo
mangiare
chiunque vogliamo. >> Rispose Pamela, utilizzando un tono
rassicurante e
sognante allo stesso tempo. Mangiare… chiunque!?
Quella cheerleader doveva avere qualche rotella fuori posto.
Magari era
caduta facendo la piramide speciale, o
forse aveva ingoiato un pon-pon.
<<
Tra poco quanto, Pam? Sono passati tre anni dall’ultima
volta, non ricordi?
>> Michelle sembrava piuttosto seccata. Le due erano
sedute su una
panchina, con le mani in grembo e le gambe accavallate. La pioggia, che
si faceva
sempre più battente, non sembrava disturbarle più
di tanto.
<<
Lo so, Michelle. E mi ricordo anche il suo gusto…
>> Pamela ghignò,
strizzando l’occhio alla sua amica dai capelli rossi.
Cominciavo seriamente ad
avere paura. Evidentemente non ero l’unica ad essere pazza,
in quel posto.
<<
Oh, sì! E ti ricordi come si lamentava? Come piangeva?
>> Michelle
sembrava persa nei ricordi, e sorrideva in modo quasi maniacale.
Speravo
stessero parlando di un cucciolo di cane. Sarebbe stato comunque un
gesto
orribile, ma sempre meglio che mangiare un essere umano.
<<
Me lo ricordo come se fosse successo ieri, sorella. >>
Pamela scoppiò a
ridere, passandosi una mano tra i capelli biondi.
<<
Non sai quanto mi manca il sapore di semidio. Spero che lui
sorgerà presto, perché non vedo
l’ora di mangiare ancora un
po’. >> S-sapore di
semidio? Ma
cosa diamine!? Quelle due erano persino più inquietanti di
me. Forse stavano
soltanto scherzando, ma la scintilla nei loro occhi era di puro odio e
desiderio. Mossi un passo all’indietro, attenta a non
emettere alcun suono. La
cartella era rimasta a qualche metro di distanza, ma l’avrei
lasciata lì.
<<
Se continuiamo a pensarci ci verrà ancora più
fame. Nel frattempo è divertente
prendersi gioco degli umani. Sono così… stupidi.
>> Pam fece una smorfia
di disgusto, arricciando il suo nasino alla francese.
<<
Come Mark? Già, ma non capisco perché non provi a
succhiargli il sangue. Non
devi per forza ucciderlo, sai? >> Domandò
Michelle, quasi irritata.
D’accordo, Mark era un grandissimo stronzo che meritava il
peggio, ma…
succhiargli il sangue? Forse quelle due erano ubriache. Dovevo
scappare. Chiamare
la polizia o cose del genere. Feci un altro passo
all’indietro, e andai a
sbattere contro qualcosa di solido. Spalancai la bocca per urlare, ma
una mano
me la tappò prima che potessi emettere un solo suono. Mi
divincolai, ma un
braccio si chiuse attorno alla mia vita, impedendomi di fare un solo
movimento.
<<
Stai zitta, ragazzina! >> La voce del rocker mancato si
insinuò nelle mie
orecchie. Strabuzzai gli occhi. Cosa ci faceva lì? Mi aveva
forse seguita?
<<
Se urli saremo in grossi, grossissimi guai. Perciò, o stai
zitta, o sarò
costretto a darti una botta in testa. E credimi, non sarà
una belle esperienza.
>> Ringhiò ancora nel mio orecchio,
rabbrividii sentendo il suo fiato sul
collo. Soppesai per un attimo la situazione. Effettivamente lui non mi
stava
picchiando, né cercava di stuprarmi o uccidermi. Molto
probabilmente voleva
soltanto aiutarmi. Alzai gli occhi al cielo, e poi annuii. La sua mano
si
spostò dalle mie labbra, e riuscii a respirare come prima.
Lanciai
un’occhiataccia al suo braccio, ancora stretto attorno a me.
Lui alzò le mani,
in segno di resa.
<<
Dobbiamo scappare. >> Mormorò, tirandomi
dietro alla corteccia.
<<
Non vengo da nessuna parte con te. >> Ribattei a bassa
voce, incrociando
le braccia al petto. Non sarei scappata con un perfetto sconosciuto.
Per quanto
ne sapevo poteva anche essere un maniaco. Lui sembrò sul
punto di darmi sul
serio una botta in testa, ma strinse i denti, e sospirò.
<<
Qui sei… siamo in
pericolo. E’ già un
miracolo che quelle due non ci abbiano notato, se…
>>
<<
Quelle due, Nico di Angelo? Pensavo che ti ricordassi i nostri nomi.
>>
La voce bassa e sibilante di Pam mi fece gelare il sangue nelle vene.
Il rocker
mancato- che a quanto pare si chiamava Nico di Angelo- si
voltò di scatto. Nel
girarsi riuscì ad aprire il suo zainetto e ad estrarre da
esso una spada nera
lunga più o meno sessanta centimetri. Spalancai la bocca,
incredula. Stavo
avendo un’altra visione?
<<
L’ultima volta che vi ho viste eravate nel Tartaro.
>> Disse lui, in
tutta tranquillità. Nel Tartaro!?
<<
Ma ora siamo qui. >> Ribatté Michelle,
arrotolandosi una ciocca rossa
attorno alle dita… artigliate. Inciampai nei miei stessi
piedi, e se non fosse
stato per il tronco dell’albero sarei certamente caduta a
terra. Pamela e
Michelle si stavano trasformando. I loro capelli caddero in ciocche
rade sul
terreno, mentre i canini spuntavano dalle labbra. Le gambe divennero
una specie
di miscuglio bronzeo e peloso… e gli occhi. Gli occhi erano
rossi. Rossi come
il sangue.
<<
Ti ho già infilzata una volta, Michelle. Ti assicuro che non
ho problemi nel
ripetermi. >> Nico mi spinse all’indietro, e
poi fece roteare la spada,
con una naturalezza incredibile. Osservai la lama fendere
l’aria, quasi
incantata. Era così letale… Eppure
così bella. Come il suo proprietario.
<<
Allora fatti avanti, figlio di Ade. >> Intervenne Pamela,
sorridendo. Per
un attimo tornò ad essere la bellissima ragazza di prima, ma
durò soltanto
pochi secondi. Nico sembrava quasi stordito.
<<
A te la prima moss… >> Ma non
terminò la frase, perché Michelle si era
lanciata all’attacco. Mi nascosi saggiamente dietro
all’albero, cercando d non
andare in iperventilazione. Poteva essere una delle mie visioni.
Credevo di
riuscire a distinguerle dalla realtà, ma forse non era
così.
Quei…
mostri. Non erano gli stessi di quello
che avevo visto nell’incubo. Questi sembravano intelligenti,
e sapevano
parlare. Davano la caccia a noi. E poi… Figlio
di Ade. Le parole di Pamela rimbombavano inesorabili
all’interno della mia
scatola cranica. L’ultima volta che avevo controllato, Ade
era un dio greco. E
non ero sicura che gli dei greci potessero avere figli. A dire il vero
ero
abbastanza certa che gli dei greci non esistessero affatto.
<<
Attenta! >> Gridò Nico Di Angelo, senza
successo. Due mani artigliate mi
afferrarono per le spalle, e fui scagliata via con forza, sbattendo la
schiena
contro il manto erboso del cortile della scuola. Quando il mondo smise
di
girare riuscii ad alzarmi in piedi. Il sangue mi scorreva
inesorabilmente lungo
le braccia. Lento, cremisi. Quasi ipnotico. Pamela, da lontano, rideva
sguaiatamente. Il rocker mancato aveva ingaggiato un combattimento con
Michelle. Sembrava che lui stesse avendo la meglio, ma il
mostro-cheerleader
non demordeva. Indietreggiai, inciampando nei miei stessi piedi.
<<
Vai da qualche parte? >> Mi voltai di scatto, mentre il
mio cuore perdeva
un battito. Pamela mi fissava, ghignando. Come diavolo aveva fatto a
muoversi
così velocemente? O forse ero io che mi ero lasciata
distrarre.
<<
C-cosa vuoi da me? >> Balbettai. Che
domanda idiota. Ovviamente sospettavo che volesse mangiarmi
per pranzo, o
cose del genere. Mi sembrava di essere una di quelle stupide
protagoniste dei
film dell’orrore di serie B. Pamela scoppiò a
ridere, ma quel suono
assomigliava più ad un ragliato.
<<
E’ da tanto che non mangio, ragazzina. Ovviamente Di Angelo
sarebbe uno
spuntino migliore, ma vai bene anche tu. >>
Cominciò. Dovevo pensare, e
velocemente. Non potevo scappare, perché lei mi avrebbe
raggiunta subito, e
Nico non poteva aiutarmi, perché stava già
tentando di decapitare Michelle.
<<
P-perché sarebbe uno spuntino migliore? >> Parlare. Dovevo parlare il
più possibile. Nei film i buoni si
salvavano sempre parlando. Ovviamente ho sempre pensato che i cattivi
fossero
dei grandi idioti, insomma… Lasciarsi sprecare
un’occasione del genere…
<<
Perché è figlio di uno dei tre pezzi grossi.
E’ uno importante, capisci? Tu… tu
sei soltanto un’insulsa indeterminata, ma sempre meglio di
niente. >> Tre pezzi grossi?
Indeterminata? Non ero
io quella pazza. Era l’universo che aveva perso la testa.
Ormai ero giunta alla
conclusione che non stavo avendo una visione. La paura,
l’adrenalina, il terrore
viscerale… Erano troppo forti, troppo reali.
<<
Oh. E quando mi determineranno? >> Chiesi, quasi
dimostrandomi delusa,
anche se in realtà non avevo la minima idea di cosa si
stesse parlando. Con la
coda dell’occhio scorsi Michelle esplodere in una polvere
grigia. Nico si
accasciò contro l’albero. Era pallidissimo,
persino più di prima.
<<
Non ha importanza, tanto adesso diverrai il pranzo del capo delle
Empuse.
Dovresti ritenerti fortunata. >> Empuse? Avevo
già sentito quel nome da
qualche parte.
<<
Beh, capo delle Empuse, non so se te ne sei accorta, ma la tua amica
laggiù è
appena morta. Kaput. >> Incrociai le braccia al petto,
sorridendo. Pamela
non sembrò troppo turbata dalla
notizia. Si limitò a fare una smorfia con la sua bruttissima
faccia.
<<
Ha fatto il suo dovere, come le avevo detto. >>
<<
Non sei un gran bel capo. Per esempio, dove sono le tue amiche?
>>
Domandai, sibilando tra i denti. Non so dove trovassi il coraggio di
fare ciò
che stavo facendo, né come le parole riuscissero ad uscire
dalla mia gola. Era
come se qualcuno le stesse sussurrando nelle mie orecchie. Fissai
Pamela dritta
negli occhi, e lei vacillò, come se l’avessi
colpita con un gancio destro.
<<
Loro… loro sono… >> Stava davvero
balbettando? Sembrava quasi che i
nostri ruoli si fossero invertiti.
<<
Non ci sono, ecco tutto. Guarda come ti sei ridotta… Stare
con un umano come
mio fratello? Per di più della peggior
specie. Tu non conti niente. >> Ringhiai, facendo un
passo in avanti.
Pamela indietreggiò, punta nel vivo.
<<
Nessuno ti vuole, nessuno ti cerca. Sei soltanto una sgualdrina.
>>
Continuai, imperterrita ed impietosa. Vidi una lacrima brillare sulla
guancia
incartapecorita della cheerleader. Stava… piangendo?
Avevo appena fatto piangere un mostro. Una data da segnare
sul calendario.
<<
Stai zitta, piccola mezzosangue! Io ti… >> Ma
non concluse mai la frase,
perché la lama nera della spada di Nico Di Angelo si
abbatté contro la sua
gola, tagliandole di netto la testa. Pamela esplose in una nuvoletta,
senza
lasciare più nessuna traccia. Io e il ragazzo rimanemmo a
fissarci per un
attimo che sembrò infinito. Lui sembrava stanchissimo, ma
sulle sue labbra era
dipinta un’espressione combattiva. Come se fosse la millesima
volta che
uccideva un mostro. Come se facesse parte di quel mondo da sempre.
<<
Io non credo di… >> Crollai in ginocchio,
percossa dai brividi. La
scarica di adrenalina era passata, e solo in quel momento il mio
cervello
riuscì a metabolizzare quello che avevo appena visto.
Ricacciai indietro un
conato di vomito, infilando le unghie nel terriccio. Mi impedii
fermamente di
piangere, e cominciai a fare dei respiri profondi. Perlomeno sapevo di
non
essere io, quella pazza. Sapevo che era l’intero universo ad
avere qualche
rotella fuori posto.
Magari le visioni,
gli incubi, le voci… Avevano una spiegazione.
<<
Ti fa male? >> Nico mi sfiorò le spalle, e
sentii una scarica di dolore
propagarsi per tutto il mio corpo.
<<
No, finché non me l’hai ricordato.
>> Rantolai, mordendomi a sangue un
labbro inferiore. Lui sospirò, accovacciandosi accanto a me.
Infilò la sua
spada nera nello zainetto, e poi tirò fuori
qualcos’altro. Era una fialetta
piccola e di vetro, contenente un liquido dorato, che sembrava miele.
Il
ragazzo la stappò con un gesto sicuro e preciso.
<<
Bevi un sorso. >> Ordinò. Aveva il tono di uno
che non avrebbe accettato
alcuna obiezione.
<<
Perché dovrei? >> Per quanto ne sapevo poteva
essere droga da stupro.
Nico mi lanciò un’occhiataccia che avrebbe
ammazzato un piccione in volo.
Deglutii, e poi afferrai la fialetta. L’odore non era per
niente cattivo. Chiusi
gli occhi, e mandai giù tutto d’un fiato. Avrei
voluto gustarne di più il
sapore, perché quella roba era davvero buonissima. Il dolore
diminuì di colpo,
e la nebbiolina che mi invadeva il cervello si diradò,
facendomi tornare la
mente lucida.
<<
Come…? >>
<<
Nettare d’ambrosia. Vitale per i semidei. >>
Spiegò brevemente lui. Non
sembrava molto propenso a dare spiegazioni. Piuttosto aveva molta
fretta, ma
non capivo perché. Forse sarebbero arrivati altri mostri.
<<
Adesso dobbiamo andare, questo posto non è sicuro.
>> Mi afferrò per un
braccio, tirandomi in piedi con una facilità disarmante. Mi
divincolai dalla
sua stretta. Non sapevo se essere terrorizzata o curiosa. Diciamo che
in quel
momento le mie sensazioni erano un mix letale di quelle due emozioni.
<<
Non vengo da nessuna parte con te. >> Ribattei
prontamente,
indietreggiando. Sì, mi aveva salvato la vita, ma forse
anche lui si sarebbe
trasformato in un orrendo vampiro spelacchiato. E poi la sua spada non
mi
piaceva per niente. Chissà quante mostri- e forse anche
persone- aveva
decapitato o trapassato come uno spiedino.
<<
La storia della botta in testa vale anche adesso. >>
Minacciò. Incrociai
le braccia al petto, facendogli capire che non avrei fatto un singolo
passo. Mi
fissò per un istante, e nei suoi occhi scuri
scintillò una vasta gamma di
emozioni. Rabbia, paura... Esasperazione.
<<
Tu non capisci. C’è un posto, qui vicino; il campo
Mezzosangue, a Long Island.
E’ casa tua. E’ casa… nostra.
>>
Il fatto che avesse pronunciato la parola “nostra”
con molta esitazione, non mi
aiutò affatto a fidarmi.
<<
Io sono un semidio, figlio di una divinità e di un essere
umano. >>
Disse. Fui tentata di mettermi a ridere istericamente, ma a giudicare
dalla sua
espressione forse avrei fatto meglio a scoppiare a piangere. O stare
zitta.
Effettivamente Pamela l’aveva chiamato “Figlio di
Ade”. Ade era una divinità
greca. Il dio degli inferi.
<<
Le divinità greche esistono ancora. Esistono da sempre. Si
sono soltanto
trasferite durante i secoli. Il Monte Olimpo, Roma… e adesso
vivono al
seicentesimo piano dell’Empire State Building.
>> Spiegò, con
naturalezza. Lo fissai, con gli occhi sgranati. Di sicuro si aspettava
quella
reazione, perché rimase impassibile. Beh, mi risultava molto
difficile credere
a quello che diceva. Ma del resto avevo appena visto due cheerleader
trasformarsi in mostri orrendi. Come potevo essere sorpresa?
<<
Anche tu sei una semidea, ragazzina. E lo so per certo.
>> Mi sembrò come
se mi avessero rovesciato in testa un secchio di acqua gelida. Ero
sicura che
l’avrebbe detto. Quelle parole erano in sospeso
nell’aria attorno a noi. Ma non
potevo accettare una cosa del genere. Si stava sbagliando, sicuramente.
<<
Hai sbagliato persona, mi dispiace. Io non sono una semidea, sono una
semplice adolescente
newyorkese. >> Protestai, scuotendo la testa. Mi
soppesò per un momento,
e l’ombra di un sorriso apparve sulle sue labbra sottili.
<<
Quando mi hanno detto chi sono davvero avevo dieci anni. Ero stato
rinchiuso
per oltre quarant’anni in un casinò di Las Vegas.
So come ci si sente. >>
Cominciò, facendo un passo nella mia direzione.
<<
So come ci si sente, quando tutto ciò che credevi vero si
rivela una bugia.
Quando scopri che… che le persone che ti circondavano ti
hanno mentito per gran
parte della tua vita. >> Nella sua voce c’era
una nota, a malapena
repressa, di un grande dolore. Mi guardò negli occhi. I suoi
erano dei pozzi
profondi. Troppo profondi, per un ragazzo che doveva avere
più o meno la mie
età. Erano gli occhi di un vecchio, oppure di qualcuno che
è stato costretto a
crescere troppo in fretta.
<<
Mi dispiace. >> Suonò più come una
domanda, che come un’affermazione.
<<
Mi dispiace, ma non sono la persona che cerchi. Mio padre fa
l’avvocato, non ho
mai conosciuto la mia vera madre. Lei se
n’è… >> Mi bloccai, con
le
parole che mi erano rimaste impigliate in gola. Se
n’è andata dopo avermi messo alla luce. Io
non avevo mai
conosciuto la mia vera madre. In casa non c’erano sue foto,
mio padre ne
parlava molto raramente. Diceva che gli aveva rovinato la vita. Che
aveva
rovinato la vita anche a me.
<<
Beh, adesso sappiamo che il tuo genitore divino è una dea.
>> Nico si
strinse nelle spalle, poi si mise in spalla lo zaino. Mi resi conto
solo in
quel momento che perdeva sangue dal costato. E diventava sempre
più pallido.
<<
Io… >> Ma non riuscivo a dire niente.
<<
So che non ti fidi di me. Nemmeno io lo farei se fossi nei tuoi panni.
Andiamo
da tuo padre, d’accordo? Lui saprà darti risposte.
>> Propose. Abbassai
lo sguardo. Come avrei potuto fidarmi di un uomo che- a quanto pareva-
mi aveva
mentito per sedici anni? Osservai il ragazzo di sottecchi, e poi
sospirai.
<<
D’accordo. >> Dissi.
<<
Andremo da mio padre. >>
NOTE
AUTRICE
Allora,
che ve ne pare? Nico è un tizio piuttosto inquietante, se
fossi in Genesis
nemmeno io mi fiderei più di tanto. Spero che il capitolo vi
sia piaciuto,
lasciate una recensione, anche piccola piccola.
Bacioni
|
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Capitolo 3 *** Chapter two- Losing your memory ***
Chapter two- Losing your memory
I
would have died,
I
would have loved you all my life
Your
losing your memory now
<<
Niet! Voi no entrare qui conciati così!
>> Sbraitò Ana, la nostra governante. Ana era
una donnona russa; un metro
e novanta per ottantacinque chili. Se non fosse stato per la
corporatura da
armadio sarebbe anche stata carina. Era bionda, aveva gli occhi azzurri
e le
guance rosate.
<<
Ana, ti prego. Devo parlare urgentemente
con mio padre. >> Lei, in risposta, si piazzò
di fronte alla porta a braccia
incrociate. Alzai gli occhi al cielo. Effettivamente Nico ed io non
eravamo
conciati molto bene. Le ferite non mi facevano più male, ma
ero sporca di sangue
e di fango. Lui invece sembrava sul punto di svenire, e continuava a
sanguinare. Gli avevo suggerito di prendere quel fantomatico nettare
d’ambrosia, ma io l’avevo consumato tutto.
<<
Niet. Voi lerci, voi sporcare tutto. Io
avere appena pulito! >> Ringhiò tra i denti,
agitando forsennatamente lo
strofinaccio davanti alle nostre facce. Cominciai a battere un piede
per terra,
mentre Nico crollava addosso a me, facendomi barcollare. Era ancora
sveglio, ma
a quanto pareva si reggeva in piedi a malapena.
<<
Ana, ti prego… >>
<<
Genesis? Cosa fai qui? >> Ana si
spostò, e mi trovai di fronte mio padre. Deglutii,
guardandolo negli occhi. Io
e lui eravamo stati sempre diversi, soprattutto fisicamente. Lui non
era molto
alto, ed era piuttosto tarchiato. Io, invece, avevo le gambe
lunghissime, e
sembravo uno stecco. Da lui avevo ereditato soltanto i capelli neri
come il
carbone, mentre gli occhi… Beh, i suoi erano color nocciola.
I miei erano
viola. Non azzurri, o grigi. Viola.
<<
Dobbiamo parlare, adesso. >> Dissi.
La mia voce risuonò spaventosamente fredda. Non ero mai
stata una tipa solare e
gentile, piuttosto tendevo ad essere scontrosa e sarcastica. Lui mi
guardò,
come se fossi impazzita. Il suo sguardo poi si posò su Nico.
Sospettavo che
avesse capito di cosa volevo parargli, e il rocker mancato ne era la
conferma.
<<
Genesis, ho un cliente. >> Mi
supplicò con gli occhi. Certo, tipico. Lui non affrontava
mai i problemi di
petto. Preferiva nascondere la testa sotto la sabbia, facendo finta che
le
difficoltà non esistessero. Se mia madre era davvero una
dea, non capivo come
avesse potuto innamorarsi di lui.
<<
Non. Mi. Interessa. >> Scandii ogni
parola lentamente, perché quella frase gli rimanesse bene
impressa nel
cervello. Lui deglutì, sciogliendo il nodo alla cravatta.
<<
Andiamo in soggiorno. Forse è meglio fare
una chiacchierata. >>
Nico si
accasciò sul divano, chiudendo gli occhi.
Sperai con tutto il cuore che non fosse svenuto, altrimenti non avrei
davvero
saputo cosa diavolo fare. Non credevo che senza di lui sarei riuscita
ad
arrivare al campo mezzosangue.
<<
Sbrigatevi. Non abbiamo tutto il giorno.
>> Tossicchiò, sbattendo le palpebre. Oh,
grazie al cielo. Ana sbatté sul
tavolo il vassoio del the freddo, guardando con aria truce me e il
ragazzo.
Afferrai subito una tazza, bevendo il liquido con avidità.
Non pensavo di avere
così sete. Nico mi imitò, e sembrò
riprendere giusto un po’ di colore in viso.
<<
Lui… lui dice che mamma era una dea. Una
dea greca, intendo. E’ vero? >> Chiesi a mio
padre, con voce stanca.
Erano soltanto le cinque del pomeriggio, ma mi sembrava di non dormire
da più
di tre giorni. Quelle poche ore erano state spossanti, eppure avevo il
presentimento che le mie peripezie non sarebbero finite lì.
Lui si passò una
mano tra i capelli brizzolati, sospirando. Ad un tratto sembrava
invecchiato di
dieci anni. Annuì, lentamente. Abbassai lo sguardo, sentendo
le lacrime
bruciarmi gli occhi.
<<
Me ne innamorai subito. Lei era forte,
intelligente, bellissima… Vi assomigliate molto, sai? Tu hai
i suoi stessi
occhi. >> Lo sguardo di mio padre era distante, come se
fosse preso da
ricordi lontanissimi, che si facevano sempre più
evanescenti.
<<
La conobbi a Santa Fe, ero in viaggio di
lavoro. Girai gli Stati Uniti con lei. Quando scoprì di
essere incinta ero così
felice… >> La sua voce era fievole, quasi
rotta dall’emozione.
<<
Le chiesi di sposarla, ma lei rifiutò.
Disse che doveva andarsene, che sarebbe tornata dopo aver partorito.
>>
Chiuse gli occhi, come per voler scacciare via il pensiero di quella
brutta
esperienza.
<<
Non lo ha mai fatto. Ti trovai davanti alla
porta di casa, avvolta in un suo maglione. >> Fu come
ricevere uno
schiaffo. Non solo mio padre mi aveva mentito per anni; mia madre mi
aveva
abbandonata come si fa con gli orfani. Come si fa con i problemi
indesiderati.
<<
Lasciò soltanto un biglietto. C’era scritto
di chiamarti Genesis. >> La voce di mio padre si faceva
sempre più
fievole, mano a mano il discorso proseguiva. Persino Nico sembrava
sorpreso.
<<
E poi? >> Domandai, morendomi un
labbro. Mio padre si strinse nelle spalle, quasi sconsolato.
Chissà quante
volte aveva ripensato a quella storia. Chissà quante volte
si era chiesto come
mai gli era capitato tutto questo.
<<
E poi non l’ho mai più vista, né
sentita.
Lei… Lei non mi ha ma detto chi fosse. Mi mostrava sempre le
immagini degli dei
tramite i messaggi-iride, affinché potessi crederle.
>> Non avevo idea di
cosa fosse un messaggio-iride, ma in quel momento non mi interessava
affatto.
<<
Ma non voleva che conoscessi la sua vera
identità, e non voleva che ti dicessi cosa sei veramente. Me
lo fece
promettere. >> Ed ecco che arrivava la parte delle scuse.
Sul mio volto,
quasi involontariamente, si dipinse una smorfia amara. Peter Hale non
era mai
stato un buon padre. Ora cominciavo a capire il perché.
Cominciavo a capire
come mai aveva sposato Moira, e come mai a volte si comportava
freddamente con
me. Come mai era così distaccato.
<<
E’ molto strano che i mostri non l’abbiano
mai trovata. Mano a mano un semidio cresce, più il suo odore
si fa forte, e più
mostri attira. Sedici anni… sono davvero troppi.
>> Nico scosse la testa,
passandosi una mano tra i capelli scuri. Mio padre sembrò
rendersi conto della
sua presenza soltanto in quel momento. Gli lanciò
un’occhiata a metà tra il
sospettoso e l’intimidito.
<<
Suppongo che tu sia un… satiro, forse?
>> Domandò. Nico inarcò le
sopracciglia, quasi divertito.
<<
No, sono un semidio, e devo portare sua
figlia al Campo Mezzosangue. I mostri potranno anche non accorgersi di
lei, ma
io sono come un faro per loro. Metti qualcosa in valigia, e andiamo.
>>
Poi si alzò in piedi, mettendomi fretta. Sbuffai, passandomi
una mano sugli
occhi. Quella situazione era davvero surreale. Io ero una…
semidea. Questo
comportava il fatto che mia madre fosse una dea vera e propria.
Chissà che
razza di poteri aveva. Speravo non quelli di avere visioni e sentire
voci inesistenti.
<<
O-ok. >> Balbettai. Poi mi alzai in
piedi, e salii le scale fino alla mia camera. Presi uno zainetto
dall’armadio,
e poi pensai a cosa mi sarebbe servito. Di certo un po’ di
vestiti di cambio,
magari lo shampoo e il bagnoschiuma, lo spazzolino… Avevano
le salviette e gli
accappatoi? E i tampax? Ne infilai un pacchetto per sicurezza, pregando
che
quel fantomatico campo fosse ben fornito.
<<
Devi smetterla di agitarti. Ti ho detto che la morte ti
aiuterà. Ti salverà.
>> Raddrizzai di
scatto la schiena, mentre piegavo la
maglia del pigiama. Mi guardai intorno, sperando di vedere la ragazza.
Ma, come al solito,
niente di niente.
<<
Non manca molto. Il momento è quasi arrivato. Fortunatamente
c’è la Morte,
senza di lei saresti perduta. >> Chiusi la
cerniera
dello zaino con un colpo secco, tentando di non farmi venire una crisi
isterica. Ormai avevo accettato il fatto di non poter vedere la
ragazza, ma,
per quanto ne sapevo, forse la voce non era un parto folle della mia
mente.
Forse voleva davvero avvertirmi, dirmi che stava per succedere
qualcosa. Avrei
preferito che non parlasse per enigmi.
<<
Oh, devo andare! A presto, Genesis. E fidati di me. >> Fui
tentata di scagliare la spazzola che avevo in mano addosso
all’aria. Se mai
quella voce si fosse tramutata in una persona, se la sarebbe vista
molto
brutta.
<<
Il tizio inquietante dice che dobbiamo
muoverci. >> Sobbalzai, voltandomi di scatto. Mio padre
era appoggiato
allo stipite della porta, e nei suoi occhi c’era lo sguardo
più angosciato che avessi
mai visto.
<<
Sì, arrivo. >> Sospirai, caricandomi
lo zaino in spalla. Scesi le scale di corsa, seguita da mio padre.
<<
Non c’è più tempo da perdere, andiamo.
>> Disse Di Angelo. Con mia enorme sorpresa notai che mio
padre ci
seguiva fuori dalla porta. Si diresse a passo sicuro verso la Mercedes
metallizzata. Ci avrebbe dato un passaggio, a quanto pareva. Lasciai
Nico sul
sedile del passeggero, dato che conosceva bene la strada. Io mi
sistemai
dietro, allungando le gambe il più che potevo. Passai la
maggior parte del
viaggio a tentare di decifrare le scritte sui cartelli stradali. Oh,
giusto. Ho
dimenticato di dire che ero dislessica, e iperattiva. Come se non
bastasse.
Nico borbottava
qualche indicazione di tanto in
tanto. Mio padre stringeva il volante talmente forte da farsi diventare
le
nocche bianche. Forse, dopotutto, gli sarei mancata. Ero sua figlia,
del resto.
<<
Siamo arrivati, ci lasci qui. >>
L’auto inchiodò in mezzo al nulla, mentre il sole
cominciava a tramontare
dietro all’orizzonte, regalando alla strada un aspetto quasi
mistico. Uscii
dalla macchina, con lo zaino in spalla. Mio padre mi
abbracciò. Fu uno dei
pochi abbracci che ci eravamo mai dati. Quando io ero piccola la nostra
relazione era migliore. Non aveva ancora sposato Moira, e mi dedicava
moltissimo tempo. Sospirai, sciogliendo il nodo che mi si era formato
in gola.
<<
Mi dispiace, Gen. Mi dispiace di averti
mentito. >> Disse. Mi sembrava che la sua voce stesse
tremando, ma forse
era soltanto l’effetto della suggestione. So che avrei dovuto
dirgli che andava
tutto bene, ma non lo feci.
<<
Ti perdonerò. Dammi soltanto un po’ di
tempo, d’accordo? >> Domandai, con le lacrime
agli occhi. Lui annuì, e
poi mi lasciò andare.
<<
Ci si vede, papà. >> Sussurrai, prima
di voltarmi, e seguire il rocker mancato all’interno del
bosco.
<<
C’è qualcosa che non va. >> Nico Di
Angelo ruppe il silenzio tombale della foresta, portando una mano
all’elsa
della sua spada. Si guardò attorno, guardingo. Sembrava
essersi ripreso, ma era
ancora pallido e stanco. Camminavamo nel bosco da circa un quarto
d’ora. Lui
aveva detto che per raggiungere il campo servivano venti minuti.
Scrollò la
testa.
<<
Stammi più vicina, e cammina il più veloce
possibile. Non manca molto. >> Ubbidii, titubante. La
luce del tramonto
era parzialmente filtrata dalle chiome degli alberi, ma si vedeva
ancora
benissimo. Strinsi le braccia attorno al corpo, rabbrividendo. Era
tutto
tranquillo. Tutto, a parte Nico. Sembrava piuttosto in ansia, e
continuava a
guardarsi attorno con fare circospetto.
<<
Ehi, qui non c’è nessuno e poi…
>>
Non feci in tempo a finire la frase, perché il ragazzo mi si
gettò addosso,
scaraventandomi lontano. Lo sentii grugnire dal dolore, prima che si
rialzasse
come un fulmine. Fece roteare la spada, guardando il cielo. A
mezz’aria era
sospesa una creatura orrenda. Non sapevo chi fosse più
brutta, tra quella cosa
e Pamela o Michelle. Era un orribile mostro alato. Al posto dei capelli
aveva
dei… serpenti?
<<
Diis
Immortales! >> Sibilò lui tra i
denti, assumendo la posizione di
guardia.
<<
Scappa. >> Sussurrò. Cosa? No. Non mi
sarei comportata come quel pomeriggio a scuola. Non l’avrei
lasciato solo.
<<
Ma… >>
<<
Ho detto scappa! >> Gridò, a voce
decisamente più alta. Digrignai i denti, ma poi decisi di
ascoltarlo. Del resto
sarei stata solo di intralcio. Non possedevo una spada, e di certo non
ero in
grado di combattere contro quel coso. Mi rialzai subito, e corsi via,
ad una
velocità che credevo di non poter raggiungere. Proseguii
sempre dritta,
pensando che fosse la direzione giusta da prendere. Dopo un minuto
cominciavano
a farmi male i polmoni. Guardai il cielo per un istante, ma si
rivelò un errore
madornale. Inciampai in una radice, cadendo rovinosamente a terra. Il
mio
braccio andò a sbattere contro un masso, e per un attimo
vidi soltanto rosso.
Quando mi rialzai gocciolavo sangue sul terreno. Non osai nemmeno
guardare la
ferita.
<<
Genesis! >> Un tornado mi afferrò per
il braccio sano, trascinandomi via. Non sapevo nemmeno come riuscissi
ancora a
muovere le gambe, ma ressi, fino a che Nico non si fermò,
stremato. Il mostro
lo colpì alle spalle, con un artigliata alla schiena. Il
ragazzo cadde, privo
di sensi.
“
Ragiona, Gen. Ragiona. “ Mi dissi. Non sarei morta
quella sera. Non uccisa da una gallina spelacchiata. La creatura si
lanciò
contro Nico, ma io mi parai davanti al suo corpo, con gli occhi
spalancati. La
gallina sembrò quasi sorpresa, e si bloccò.
Cercai il suo sguardo, fissandola
negli occhi. Riversai tutto il mio odio e la mia rabbia repressa su di
lei. Era
come se un flusso si stesse formando tra di noi. Un flusso che faceva
transitare tutti i miei pensieri più oscuri verso di lei. Il
mostro emise un
verso stridulo.
<<
Stupido pollo. >> Sibilai, avanzando.
Continuai a tenere il contatto visivo, ma sentivo le forze venire meno.
Il
flusso di emozioni mi stava abbandonando, ma allo stesso tempo si
portava via i
residui di forza rimasti nel mio corpo. Una freccia colpì il
mostro nella
schiena, e io caddi. La gallina si dissolse in una nuvola di polvere.
<<
Per Zeus, ci mancava poco e vi faceva a
fettine. >> Vidi una ragazza. Aveva i capelli argentei
legati in una
lunga e setosa treccia. Lei sorrise soddisfatta, incrociando le braccia
al
petto. La vidi afferrare Nico per le braccia. Avrei voluto protestare,
ma non
ne avevo la forza. Poi mi sentii prendere da sotto le ascelle. Venni
trascinata
sul terreno per un breve tragitto, e poi mi fermai.
<<
E’ stato un piacere, Genesis Hale. Ci
rivedremo presto. >> Aprii la bocca, per parlare, ma era
come se le mie
labbra fossero incollate tra di loro.
Alzai un
braccio, in direzione della bella giovane.
Lei mi fece l’occhiolino, e poi si chinò su di me.
<<
Buona fortuna. >> Furono le ultime
parole che riuscii a sentire, prima che l’universo diventasse
un grande buco
nero.
NOTE
AUTRICE
Salve a tutti! Allora,
chi sarà questa misteriosa
ragazza? E chi è la madre di Gen? Per non parlare della
voce. Eh, sente le
voci, povera sta ragazza. Comunque, spero che il capitolo vi sia
piaciuto.
Bacioni e ci sentiamo al prossimo!
|
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Capitolo 4 *** Chapter three- It's my life ***
Chapter three-
It’s my life
It's my life
It’s
now or never
I ain't gonna live forever
Sto
scappando. Il vento e la sabbia schiaffeggiano il mio volto, ma non
posso fermarmi.
Accanto a me corre qualcuno. E’ la ragazza del bosco, quella
che ha ucciso il
mostro alato. So che è spaventata, ma non lo dà a
vedere. Grida qualcosa che
non riesco a sentire, poi si ferma di scatto, cadendo a terra. Il
mostro rosso
l’ha artigliata per una gamba. La sabbia la risucchia, mentre
lei si dimena,
cercando di uscire.
<<
Non muoverti! >> Urlo. Muoversi è peggio. Lei
si aggrappa al terreno con
tutta la forza che ha. Il sudore le cola lungo la fronte, e i suoi
occhi dorati
sono spalancati per il terrore. Le prendo una mano, e poi comincio a
tirare. E’
come lottare contro un tornado. Riesco a sentire la sabbia che
risucchia sempre
di più, mentre il sole cocente mi brucia la nuca.
<<
Non ce la farai mai, è troppo forte! >>
Sbraita lei, tra le lacrime.
Scuoto la testa. Non posso abbandonarla. Lei mi ha salvato la vita.
Afferro i
suoi polsi, e tiro di nuovo. Il mostro rosso mi strattona in avanti,
facendomi
cadere. Ritraggo le mani, prima che la sabbia risucchi anche quelle.
<<
Dobbiamo andare. >> Nico compare al mio fianco,
magicamente.
<<
No! Non possiamo lasciarla qui. >> Ma la ragazza
sprofonda sempre di più,
e non possiamo farci niente.
<<
Genesis, dobbiamo andarcene. Adesso. >> Nico mi trascina
via, mentre io
cerco di divincolarmi.
<<
No! >> Urlo. Anche lei grida, ma la bocca le si sta
riempiendo di sabbia.
<<
No! >> Ma il mio grido si perde nel rumore assordante che
provoca il
terreno sotto di noi, sfaldandosi. Precipitiamo nel buio. Verso
l’ignoto.
Verso
la morte.
<<
Potremmo provare con uno schiaffo. >>
<<
Oh, Leo, stai zitto, ti prego. >>
Spalancai gli
occhi, inspirando una grande boccata
d’aria. Tossii, come per sputare via la sabbia che mi era
rimasta in bocca. Ma
in gola non avevo assolutamente niente, se non un groppo che non aveva
alcuna
intenzione di sciogliersi. Sbattei le palpebre un paio di volte,
finché il
mondo attorno a me non si mise a fuoco. Nella stanza c’erano
quattro persone.
Due ragazzi e due ragazze. Uno era alto, con i capelli scuri e dei
meravigliosi
occhi verdi. L’altro invece sembrava più piccolo,
e aveva tratti elfici che lo
rendevano carino in modo provocante. Le due ragazze sembravano uno
l’opposto
dell’altra. La bionda con gli occhi grigi aveva
un’espressione seria e
concentrata; la mora con gli occhi azzurri, invece, mi sorrideva. Mi
sembrava
di essere diventata un fenomeno da baraccone.
<<
Considerando i soliti standard, direi che
si è svegliata prima del previsto. >>
Riconoscevo quella voce. Era quella
che avevo sentito prima. Leo, forse? Mi fece l’occhiolino,
incrociando le
braccia al petto.
<<
Già. E sembra anche in buone condizioni.
>> Commentò l’altro ragazzo, quasi
sorpreso.
<<
Guardate che sono qui. >> Borbottai,
irritata. Mi alzai dal letto sul quale ero distesa, allungandomi verso
l’alto,
come un gatto. Stranamente mi sentivo nel pieno delle mie energie, come
se gli
eventi del giorno precedente non mi avessero affatto provata.
<<
Percy Jackson, molto piacere. >> Il
tipo con gli occhi verdi mi strinse una mano, sorridendomi.
Probabilmente aveva
più o meno tre anni più di me, o forse anche
quattro.
<<
Genesis Hale, il piacere è tutto mio.
>> Risposi, non troppo convinta. Sembrava un bravo
ragazzo, ma quel
sorrisetto dipinto sulle labbra era il classico da combina-guai.
<<
Loro sono Annabeth Chase, Leo Valdez e
Piper McLean. >> Indicò rispettivamente la
bionda, l’altro tizio e infine
la mora. Erano tutti piuttosto carini. Mi chiedevo se anche loro
fossero
semidei. Anzi, mi chiedevo dove diavolo fossi finita, e che fine avesse
fatto
Nico Di Angelo.
<<
Suppongo che avrai molte domande da porci.
Ma prima di tutto… Ti fa male qualcosa? Riesci a camminare?
>> Domandò
Annabeth, posandosi una mano su un fianco. Nei suoi occhi grigi
brillava una
scintilla di curiosità e pragmatismo, ma soprattutto
grandissima intelligenza.
<<
Sto bene. Dove mi trovo? >> Chiesi,
impaziente. Volevo sapere che posto era quello. Cominciai col guardarmi
attorno. Due file di letti correvano lungo i muri di quella specie di
lunga
capanna di legno. Sui comodini erano poggiate boccettine di vario tipo,
mentre
dall’altra parte della stanza un ragazzo biondo ci lanciava
occhiatacce
ammonitrici, chinato su una ragazzina dai capelli ricci, che non
sembrava stare
troppo bene. Forse ero capitata in una specie di infermeria.
<<
Sei al campo Mezzosangue. >> Spiegò
Piper, gentilmente.
<<
Dai, usciamo! >> Esclamò Leo. Seguii
l’allegra combriccola fuori dall’infermeria.
L’aria intorno a me era frizzante,
e leggera. Il sole splendeva alto nel cielo, inondando di luce
l’ampia vallata.
Dalla posizione in cui mi trovavo riuscivo a scorgere un gruppo di
costruzioni
poco lontano, alla mia sinistra c’era una dolce collina
ricoperta di fragole, e
poi, dietro alle case, c’era un grande lago. Era un posto
bellissimo.
<<
Oh. Wow. >> Mi limitai a commentare,
meravigliata. Sentii un boato provenire da lontano, e poi delle urla.
Non erano
urla spaventate però. Piuttosto erano delle specie di
ululati di scherno.
<<
Chissà cosa ha combinato Clarisse. >>
Percy si grattò la nuca, sorridendo.
<<
Allora, Nico ci ha detto che hai sedici
anni, giusto? >> Chiese Annabeth, forse un po’
troppo velocemente. Piper
le lanciò un’occhiataccia.
<<
Ehm… Sì. Voi siete semidei? >>
Domandai. Non avevo intenzione di subire un terzo grado. Prima mi
dovevano
delle spiegazioni.
<<
Tutti quanti. Io sono figlio di Poseidone,
dio del mare. >> In effetti i suoi occhi mi ricordavano
l’oceano.
L’oceano più profondo. Chissà se
conosceva suo padre, o se non l’aveva mai
visto… Avevo così tante domande da
fare…
<<
Io sono figlia di Atena, mentre Piper è
figlia di Afrodite. >> Spiegò Annabeth, quasi
compiaciuta. Se non
ricordavo male Atena era la dea della saggezza, mentre Afrodite,
ovviamente,
quella dell’amore e della bellezza.
<<
Efesto presente. >> Leo alzò la mano,
sorridendo scherzosamente. E io? Io di chi ero figlia? Mio padre non me
l’aveva
voluto dire. Sospettavo che nemmeno lui sapesse chi fosse davvero mia
madre, ma
non potevo esserne sicura. Piper mi strinse gentilmente una spalla,
come se
sapesse cosa stavo pensando.
<<
Non preoccuparti. Fra poco sarai
riconosciuta dal tuo genitore divino. E’ soltanto questione
di qualche giorno.
>> Disse. Le sue parole sembrarono stranamente
convincenti. Quasi troppo
convincenti. La guardai, sospettosa. Non ne ero sicura, ma era come se
quella
ragazza riuscisse a trasmettermi una sensazione di sicurezza che non
volevo provare.
La paura teneva in vita le persone. Era rimasta una delle mie poche
sicurezze.
<<
Voi… voi vivete qui? >> Chiesi. Quei
ragazzi avevano tutti più o meno la mia stessa
età. Teoricamente avrebbero
dovuto frequentare le scuole superiori, come me.
<<
Alcuni di noi restano qui tutto l’anno,
altri soltanto l’estate. >> Rispose prontamente
Annabeth.
<<
E come fate con la scuola? >>
Domandai, passandomi una mano tra i capelli. Erano tutti sporchi, e
appiccicosi. Improvvisamente provai il cocente desiderio di farmi una
lunga e
rilassante doccia calda.
<<
Io vado all’università; Piper e Leo
studiano in un liceo in città. Anche tutti gli atri fanno
così, ad eccezione di
chi vive più lontano. >> Continuò
lei, imperterrita. Tutti gli altri. Chissà
quante persone vivevano al campo
Mezzosangue. E chi era il gestore? E qual era
l’età media di un semidio?
<<
Quanti siete qui? >>
<<
Oh, solitamente sui trecento. Nell’ultimo
periodo i nuovi arrivati stanno aumentando. >> Una
scintilla di
inquietudine brillò nei suoi occhi tempestosi.
<<
Sai, periodi di pace del genere non
capitano da molto, molto tempo. >> La sua voce si
affievolì
improvvisamente, e abbassò lo sguardo. Percy le
passò un braccio attorno alle
spalle, tirandola più vicina, mentre lei si posava le mani
in grembo. Il
ragazzo le lasciò un bacio sui capelli, sussurrandole
qualcosa nell’orecchio.
Mi ritrovai a sorridere, quasi colpita dalla tenerezza di quella copia.
Sembravano così diversi… Eppure insieme stavano
benissimo.
<<
Non dovremmo presentarle Chirone? >>
Domandò Piper, allegramente. Stava cercando di alleggerire
l’atmosfera.
<<
E il signor D. >> Ricordò Leo,
ridacchiando.
<<
Chi osa nominare il mio nome invano?
>> Mi voltai. Un vecchio signore dall’aria
annoiata ci fissava, con le
sopracciglia inarcate. La camicia hawaiana gli si chiudeva a malapena
sulla
pancia prominente, e i pantaloni cachi gli davano l’aria da
turista tedesco in
vacanza alle Maldive. Teneva in mano un calice dorato, e ci fissava
come se
fossimo dei noiosissimi piccioni newyorkesi.
Ma lo notai a
malapena.
Accanto a lui,
infatti, c’era un… uomallo? Era una
creatura mezza umana e mezza equina. Il suo didietro e le gambe erano
quelle di
un cavallo, mentre dal busto in su era un uomo dalla barba bianca e
dagli occhi
saggi e profondi.
<<
Signor D.,
Chirone. >> Salutò Percy,
portandosi una mano alla fronte. Il
signor D, ovvero il tipo in camicia, inarcò ancora di
più le sopracciglia.
<<
Ciao Perry Johnson. E poi chi abbiamo qui…
Lee Valois, Annabel Mase e Polly McQueen. La solita noia, insomma.
>>
Strabuzzai gli occhi, trattenendo una risata. Speravo che quel tipo
stesse
scherzando.
<<
Percy Jackson, signore, Percy Jackson.
>> Sbuffò Percy. Il signor D. agitò
una mano, stringendosi nelle spalle.
Poi bevve un sorso dal calice, e fece una smorfia.
<<
Tu devi essere la nuova arrivata. Ti sei
ripresa? >> Chiese gentilmente Chirone. Batté
lo zoccolo a terra, come a
volersi presentare. Annuii, ancora incapace di proferire parola.
<<
Io sono Chirone. Addestro voi eroi. Il
signor D. invece è il direttore del campo. >>
Spiegò, dando una pacca
sulla spalla al tizio. Lui sbuffò.
<<
E odio voi eroi. >> Gli fece eco,
alzando gli occhi al cielo. Chissà chi era quel tipo. Se
fossi stata nei
ragazzi gliene avrei già dette quattro, ma a quanto pareva
era uno che valeva
molto al campo mezzosangue.
<<
Non ho trovato niente. >> Sobbalzai,
andando a sbattere contro Leo. Nico era comparso dal nulla, come se si
fosse
teletrasportato. Stava decisamente meglio rispetto al giorno
precedente, anche
se forse aveva bisogno di farsi uno spuntino. Si passò una
mano tra i capelli
spettinati, e poi piantò la sua spada nel terreno.
<<
Mio padre non ne sa niente. Ho chiesto
anche ad alcune anime, ma… >> Scosse la testa,
non concludendo la frase.
Aveva chiesto a delle anime!? Beh,
in
effetti suo padre era Ade. Nico poteva vedere i morti. Doveva essere
una cosa
piuttosto inquietante. E chissà dove finivano, i defunti. A
quel punto non
sapevo più cosa credere.
<<
D’accordo, proverò ad occuparmene io.
>> Sospirò Annabeth, per poi lanciarmi uno
sguardo curioso e un po’
esasperato. Ero abbastanza sicura che stessero parlando di me. Chirone
dovette
accorgersi della mia confusione, perché mi sorrise,
rassicurante.
<<
Nico, accompagna Genesis a fare un giro del
campo. >> Disse al ragazzo, che mi osservò con
aria assente. Poi alzò gli
occhi al cielo, e annuì. Si incamminò subito
verso il gruppo di costruzioni che
avevo visto prima, e dovetti quasi correre per stare al suo passo.
<<
Come hai fatto a comparire dal nulla,
prima? >> Domandai, affiancandolo. Lui affondò
le mani nelle tasche dei
jeans strappati, e si strinse nelle spalle, continuando a guardare
dritto
davanti a sé. Inarcai le sopracciglia, aspettando una
risposta. Non poteva
comportarsi in modo così maleducato.
<<
Magia. >> Disse, qualche secondo
dopo. Mi morsi un labbro. Non ero sicura che stesse scherzando.
Insomma, avevo
appena scoperto di essere una semidea. Ma il suo tono era palesemente
sarcastico, così decisi di lasciar perdere.
Nico si
fermò nello spiazzo formato dalle casupole
che avevo visto da lontano. Erano diciotto, e sembravano tutte molto
accoglienti. Ce n’era una circondata da fori profumati,
mentre sulla porta di
un’altra era appesa la testa impagliata di un cinghiale.
Avevo già capito che
ogni casa corrispondeva ad un dio. Erano una sorta di abitazione? E
Annabeth mi
aveva detto che al Campo c’erano circa trecento persone,
perciò… c’erano più
figli di uno stesso dio, o dea.
<<
Tu per ora rimarrai nella casa di Ermes,
che è quella laggiù. >>
Indicò una delle costruzioni in legno, con una
smorfia quasi disgustata. Se non ricordavo male Ermes era il dio dei
ladri e
dei viandanti. Perché sarei dovuta rimanere lì?
Lui sembrò leggermi nel
pensiero.
<<
Gli indeterminati stanno lì, finché non
vengono riconosciuti. >>
<<
E tu? Tu dove stai? >> Chiesi,
incrociando le braccia al petto. Nico mi lanciò
un’occhiata quasi divertita, e
poi indicò una casa dalla parte opposta dello spiazzo. Era
di sicuro la casetta
di legno più inquietante che avessi mai visto in vita mia.
Sul muro erano
incastonate ossa e anche qualche teschio, mentre le pareti nere
sembravano
emanare un’aura di terrore e pericolo.
<<
Essendo l’unico figlio di Ade, vivo da
solo. >> Non sembrava affatto che gli dispiacesse.
<<
L’unico? Vuoi dire che non ce ne sono mai
stati? >> Domandai, sorpresa. Mi chiesi come ci si
dovesse sentire, ad
essere figlio del dio degli inferi. Nico si rabbuiò
improvvisamente, e nelle
sue iridi scure passò una scintilla di dolore, e rabbia
repressa.
<<
L’unico ancora in vita. >> Il suo
tono lugubre mi fece quasi spaventare. Quel ragazzo doveva averne
passata
tante, nella sua vita. Mi chiesi quanti anni avesse. Gliene davo
diciassette,
ma in quel momento sembrava più vecchio di cinque anni.
<<
Non… non hai fratelli o sorelle, perciò?
>> Fu la domanda più stupida che avessi mai
fatto. Lui strinse talmente
forte l’elsa della sua spada da farsi diventare le nocche
completamente
bianche. Poi mi fissò negli occhi. Fu quasi come essere
risucchiata da quel
buco nero pieno di dolore, rabbia e… paura?
<<
Non più. >> Rispose, aspramente. Poi,
senza un’altra parola, cominciò a camminare nella
direzione opposta. Lo
inseguii, indecisa su cosa dire. Forse era meglio rimanere in silenzio.
Evidentemente aveva avuto una famiglia. Una famiglia che forse non
c’era più. O
che lo aveva abbandonato. In quel momento mi ritenni quasi fortunata.
Ero
sempre cresciuta negli agi, e nella protezione di mio padre. Poteva non
avermi
amato, ma si era preso cura di me. Gli dovevo ricordare molto mia
madre. Chissà
come era stato, crescere la figlia di una donna che lo aveva
abbandonato.
<<
Di Angelo! >> Abbaiò qualcuno. Mi
abbassai appena in tempo per schivare un giavellotto che si
infilzò a pochi
metri dalla rete di pallavolo nel mezzo dello spiazzo. Nico proruppe in
una
serie di imprecazioni censurabili, e poi si stampò sul volto
un sorriso
talmente macabro da farmi battere più forte il cuore.
<<
Clarisse. >> Si limitò a borbottare.
La ragazza che ci aveva raggiunti aveva la corporatura di un armadio. I
capelli
castani le ricadevano liscissimi sulle spalle, tenuti indietro da una
bandana.
Gli occhi scuri erano piccoli ed infossati. Teneva le braccia
incrociate,
mostrando i suoi bicipiti non proprio femminili.
<<
Oh, la novellina non è ancora scappata?
>> Domandò, accorgendosi di me solo in quel
momento. Le rivolsi un
sorrisetto sarcastico. Avevo
avuto a che
fare con molti bulli nella mia vita. Riuscivo a riconoscerne uno al
primo
sguardo. Nico non sembrava molto turbato dalla sua presenza,
però. Piuttosto era
molto infastidito.
<<
Molto piacere, mi chiamo Genesis Hale.
>> Le tesi una mano, sbattendo le ciglia. Non bisognava
fare il suo
stesso gioco. Non avrebbe fatto altro che favorirla. Clarisse
sembrò sorpresa,
ma strinse comunque la mia mano.
<<
Clarisse La Rue, figlia di Ares. >>
Si presentò. Oh, ecco, figlia del dio della guerra. Si
capivano molte cose.
Qualcuno urlò il suo nome, dicendole di sbrigarsi. Mi alzai
in punta di piedi,
cerando di vedere cosa ci fosse alle sue spalle. Sembrava una sorta di
arena.
Riuscii a vedere due pareti di arrampicata
che svettavano oltre i pini, e più lontano,
vicino al mare, una serie di
canoe disposte lungo la spiaggia.
Clarisse
sollevò un polverone mentre correva via, e sospettavo che
l’avesse fatto
apposta. Nico era parecchio confuso. Come se non si aspettasse quella
reazione
da parte sua.
<<
Spera di non incontrarla in giro spesso. Se
la prende con i nuovi arrivati. >> Commentò Di
Angelo, con tono aspro.
Oh, santo cielo.
<<
E adesso dove andiamo? >>
<<
All’arena. >>
<<
Arena? >>
<<
Vedrai, ti piacerà. >> Ma a giudicare
dal suo tono, sarei sicuramente scappata via.
In
lacrime.
<<
Io sono Connor Stoll, lui è mio fratello
Travis. >> Connor Stoll mi diede una pacca sulla spalla,
che non fece
altro che inquietarmi ancora di più. Non che quei due
fossero antipatici o
scortesi, ma i loro sorrisetti criptici mi spaventavano. La cabina di
Ermes era
la più “popolata” al campo. Nico mi
aveva spiegato che Ermes era il dio dei
ladri e dei viandanti, per questo i non-determinati stavano nella sua
cabina.
<<
Qui non c’è molto spazio, ma ti abbiamo
preparato una branda. >> Disse Connor. O forse era
Travis? Quei due erano
identici. Osservai con aria scettica il materasso appoggiato per terra.
Annabeth aveva detto che i nuovi arrivati continuavano ad aumentare,
perciò
nella cabina di Ermes c’era sempre meno spazio. Non capivo
perché non potessi
chiedere ospitalità a qualcun altro. Per esempio la cabina
di Era si presentava
completamente vuota, ma quando avevo avanzato la proposta di stabilirmi
lì,
Percy era sbiancato immediatamente, cominciando a scuotere la testa
come un
forsennato.
<<
Oh. Grazie. >> Mi limitai a
sorridere, fingendomi riconoscente. I due mi fecero
l’occhiolino in
contemporanea, poi si allontanarono, facendo lo sgambetto ad un
bambinetto che
passava in quel momento. La mia vicina di branda doveva avere
più o meno dodici
anni. Mi fissava terrorizzata. Sospirai, immaginando cosa stesse
provando. Mi
guardai attorno, pensando che non avrei avuto un momento di privacy.
Non avrei
potuto mettermi a piangere in santa pace. Perché era quello
che volevo fare.
Soltanto piangere.
<<
Mi chiamo Emma. >> Disse la bambina,
arrotolandosi una ciocca di capelli biondi attorno
all’indice. La fissai con
aria assente.
<<
Genesis. Sei arrivata da poco? >> Le
chiesi. In realtà non mi interessava, ma non volevo rimanere
in silenzio. Il
brusio all’interno della cabina era quasi rassicurante.
Impediva ai miei
pensieri di schizzare in direzioni pericolose, di prendere sentieri
impervi, da
cui non si poteva più tornare.
<<
Sono qui dall’altro ieri. Non mi hanno
ancora riconosciuta. >> Abbassò lo sguardo,
come se la considerasse una
vergogna. Avrei voluto dirle che sarebbe andato tutto bene, ma rimasi
in
silenzio. Non potevo rassicurare qualcuno, quando ero io ad avere un
disperato
bisogno di sentirmi dire che era soltanto un incubo. Che la mia vita
sarebbe
tornata alla normalità. Prima di togliere la maglietta e di
infilarmi quella
del pigiama mi guardai attorno. Nessuno sembrava fare caso a me.
Mi sedetti sul
materasso, passandomi una mano tra i
capelli bagnati. Al campo mezzosangue si facevano i turni per le docce.
La
cabina di Ermes era l’ultima, perciò ero stata
costretta a lavarmi con l’acqua
gelida, dopo cena. Avevo mangiato poco e malvolentieri,
perché il mio stomaco
era chiuso in una morsa. Mi era stato detto di sacrificare un
po’ del mio cibo
al mio genitore divino, ma non l’avevo fatto. Mia madre mi
aveva abbandonata. Perché sarebbe
dovuto importarmi di lei?
Sospirando, mi
sdraiai sul mio letto improvvisato.
Emma mi sorrise timidamente, poi si chinò, rimboccandomi le
coperte. Mi venne
da ridere. Da quanto qualcuno non mi rimboccava le coperte? Dieci anni?
Forse
anche di più. Ricambiai il sorriso, ma i miei occhi rimasero
impassibili.
L’ultima cosa a cui riuscivo a pensare in quel momento era la
felicità. Connor
spense la luce della cabina, ma nella stanza non calò il
silenzio. Il brusio
non fece altro che aumentare, divenendo un sordo rumore di sottofondo.
Una
ninnananna, quasi.
Mi addormentai
con la voce della ragazza che mi
sussurrava in un orecchio.
<<
Ci vedremo presto, Genesis. Fidati di me. >>
NOTE
AUTRICE
Ciao
a tutti :3 Alur, cosa dire? Finalmente, dopo lunghe peripezie, i nostri
eroi
sono giunti tutti interi (più o meno), al campo. Dato che io
amo Percy,
Annabeth e compagnia bella non potevo non inserirli nella storia, anche
se
ovviamente avranno un ruolo marginale. Il signor D. è il mio
idolo come al
solito, e Nico è sempre così dolce e gentile, non
è vero? Nel prossimo capitolo
ci sarà una semi-sorpresa. Non saprete ancora a chi
appartiene la voce, quello
si scoprirà più tardi, ma… Beh, non vi
dico niente. Grazie per avere letto
questo capitolo e ci sentiamo al prossimo
Bacioni
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Capitolo 5 *** Chapter four- Don't you worry child ***
Chapter four- Don’t you worry child
I
still remember how
it all changed
My father said
Don't you worry,
don't you worry child
Quando mi
svegliai il mio cuscino era bagnato di
lacrime. Non avevo avuto incubi, stranamente, ma non era mattino. Anzi,
non ero
nemmeno sicura che mancasse poco tempo all’alba. Sbattei le
palpebre, confusa.
Dalle finestre della cabina di Ermes filtrava la luce lunare, ma non
c’era
alcuna traccia del sorgere del sole. Apparentemente tutti stavano
dormendo,
persino Travis e Connor Stoll. Travis aveva la faccia pasticciata di
nero,
mentre un ragazzo sui diciassette aveva scritto sulla schiena un: “SONO UN IDIOTA”, a caratteri cubitali. Mi
passai una mano tra
i capelli, alzandomi in piedi. Emma si mosse nel sonno, ma
continuò a dormire
beatamente. Forse avrei dovuto semplicemente tornarmene a letto, ma non
lo
feci. Scavalcai due ragazzini che si erano addormentati per terra,
l’uno
sull’altro. Uscii dalla cabina di Ermes in punta di piedi.
L’aria frizzante
della notte mi pungolò le gambe nude, facendomi
rabbrividire. Perché ero lì
fuori? C’era qualcosa… Come un ricordo, o un
sogno. Qualcosa che mi diceva di
proseguire verso la collina di fragole e poi nel bosco. La voce di Nico
mi
rimbombò come un eco nella scatola cranica. “Non
uscire mai la notte, o potresti fare una brutta fine. “
Ma la ignorai. La
ignorai mentre i miei piedi pestavano le fragole mature, sporcandosi di
rosso.
Arrivai all’entrata nel bosco, in una radura.
<<
Genesis. >> Mi voltai di scatto. Era
una donna. Seduta su un masso, con i piedi a penzoloni
nell’erba smeraldina. La
luce della luna le rischiarava i capelli rossi come il fuoco, mentre la
veste
bianca le accarezzava il corpo sinuoso. Era la creatura più
bella che avessi
mai visto in vita mia. La sua voce era morbida, e insinuante. Mi
avvicinai, senza
nemmeno rendermene conto.
<<
So che sei confusa. >> Disse,
alzandosi in piedi. La sua voce non era particolarmente dolce.
Piuttosto un po’
severa e forse preoccupata. Annuii, confusa.
<<
Chi sei? >> Domandai a bassa voce.
Quasi avessi paura che qualcuno potesse sentirci, e far scappare la
bella donna
dai capelli rossi, e gli occhi… Occhi
viola. Lei rise, scuotendo la testa. Forse si era accorta
dello sguardo
stralunato che le avevo rivolto. Quegli occhi erano esattamente come i
miei.
Attorno alla pupilla c’era un cerchio color ghiaccio, e poi
le pagliuzze grigie
sparse nel violetto delle iridi.
<<
Penso che tu lo abbia capito. >> Mi
fece l’occhiolino, e allora mi resi conto di quanto sembrasse
giovane.
Dimostrava almeno venticinque anni, ma sapevo che in realtà
era più antica del
tempo stesso. O forse no. Crono era il titano del tempo, e Nico
sosteneva che i
titani fossero i progenitori degli dei.
<<
C-cosa ci fai qui? >> Balbettai, con
le lacrime agli occhi. Mano a mano si avvicinava riuscivo a scorgere
tutte le
somiglianze che c’erano tra noi. L’altezza, la
fossetta sulla guancia sinistra
quando sorrideva, il modo di piegare la testa mentre osservava
qualcuno…
Esattamente come facevo io.
<<
L’ultima volta che ti ho vista è stato
sedici anni fa. Direi che sei cresciuta piuttosto bene.
>> Commentò,
squadrandomi da capo a piedi. Sembrava quasi soddisfatta.
<<
Potevi… Non lo so, venire a trovarmi
qualche volta. >> Ribattei, con voce piccata. Una strana
rabbia
cominciava montarmi dentro. Quella donna mi aveva lasciata sola quando
mio
padre aveva sposato Moira e io piangevo ogni notte contro il cuscino.
Mi aveva
lasciata sola quando Mark mi picchiava e mi lasciava pizzicotti
dappertutto. Mi
aveva sempre lasciata sola.
<<
Non potevo, Genesis. A dire il vero non
dovrei nemmeno essere qui, ma ormai è troppo tardi per
tornare sui miei passi.
>> Si strinse nelle spalle, come se stesse parlando a se
stessa.
<<
E allora perché sei qui? Cosa devi dirmi?
>> Domandai. Lei sorrise, di nuovo. Un sorrisetto alla
Monna Lisa che
avrebbe irritato anche la più ragionevole delle persone.
<<
Beh, volevo che mi vedessi almeno una
volta. >> Si limitò a borbottare. Una risatina
amara mi gorgogliò in
gola. Ma stava scherzando? Volevo che mi
vedessi almeno una volta. Che razza di madre degenere era?
Un tuono
squarciò il silenzio tombale della notte, in lontananza.
<<
Papà è arrabbiato. >> Si morse un
labbro, rabbuiandosi improvvisamente.
<<
Gli dei sono irrequieti in questo periodo,
Genesis. Devi stare attenta. >> Alzò lo
sguardo al cielo, con le labbra
carnose strette in una linea sottile. Mi rivolse uno sguardo quasi
ironico,
gettandosi la massa di capelli infuocati su una spalla.
<<
Devo andarmene. >> Annunciò poi.
<<
Cosa? No! Aspetta, non mi hai nemmeno detto
chi sei! >> Protestai. Poteva avere almeno la decenza di
dirmi che dea
fosse.
<<
Tempo al tempo, figlia mia. >> Poi
sorrise un’ultima volta, sarcastica, e scomparì,
lasciandomi sola nel buio.
Lanciai un urlo di frustrazione, dando un calcio al terreno soffice.
Cosa
avevo fatto per meritarmi tutto quello?
Sapevo che
andare sulla spiaggia non sarebbe stata
una buona idea, ma non avevo alcuna intenzione di rientrare nella
cabina di
Ermes. I miei piedi nudi lasciavano le impronte sulla sabbia umida,
mentre le onde
placide del mare mi trasmettevano un senso di pace che non volevo
provare.
Perché ero arrabbiata. Molto
arrabbiata. Non
facevo altro che pensare a mia madre, a chi diamine fosse e come mai mi
avesse
abbandonata come si fa con i cuccioli di cane in autostrada. Mi passai
una mano
tra i capelli, sospirando. Chissà come sarebbe diventata la
mia vita dopo aver
scoperto di essere una semidea. Chirone mi aveva detto che avrei
cominciato
l’addestramento al più presto, e che dovevo
assolutamente trovare la mia arma.
Alla sola idea di impugnare una spada come quella di Nico mi si
accapponava la
pelle, ma se volevo essere in grado di difendermi dai mostri sarei
stata
costretta ad imparare come si combatteva.
<<CRAAAAAAAACH.
>> Sobbalzai, alzando gli occhi verso al cielo.
Poi mi tappai le
orecchie. Erano in due. Due volatili con la testa di donna. Tenevano
degli
stracci tra gli artigli acuminati, e si dirigevano a tutta
velocità verso di
me. Mi diedi della stupida almeno un centinaio di volte, mentre
cominciavo a scappare.
Nico me l’aveva detto. Le… arpie, o qualcosa del
genere, diventavano abbastanza
intrattabili quando un semidio disturbava il loro lavoro di pulizia.
<<
Spuntino di mezzanotte. >> Gracchiò
una di loro. Ok, era decisamente arrivato il momento di mettersi a
correre.
Mentre scappavo in direzione delle cabine sentivo lo sbattere furioso
delle ali
delle arpie. Incespicai nella sabbia, ferendomi quando i miei piedi
incontrarono lo sterrato del cortile. La cabina di Ermes era ad una
cinquantina
di metri da me. Troppo lontano. Era
strano che riuscissi a ragionare lucidamente. La mia mente lavorava in
modo
frenetico, ma ero concentrata. Poi la vidi. Quella casupola scura, che
si
confondeva con il buio della notte. Era lì, a qualche metro
di distanza.
Ripresi a correre, sentendo un artiglio tagliente sfiorarmi la schiena.
Quando
raggiunsi la cabina di Ade cominciai a battere freneticamente i pugni
sulla
porta.
Ti
prego, ti prego, ti prego, ti prego.
L’uscio
si spalancò. Non feci nemmeno in tempo a
vedere che aspetto avesse Nico Di Angelo, perché mi ritrovai
spiaccicata contro
al muro, con una spada color ossidiana puntata alla gola.
<< Per
Zeus! Mi vuoi spiegare qual
è il tuo
problema, ragazzina!? >> Mi ringhiò in faccia,
non appena si rese conto
che effettivamente ero io. Con la coda dell’occhio riuscii a
constatare che la
porta era chiusa, e quei mostri orrendi non potevano più
farmi del male. Mi
resi conto che negli ultimi due giorni avevo rischiato di morire tre
volte. Un
record.
<<
S-solo per curiosità… C’è un
motivo per cui
la tua spada è ancora puntata al mio collo? >>
Balbettai, con il cuore
che mi batteva a mille. Le arpie potevano anche farmi paura, ma lo
sguardo
oscuro di Nico mi terrorizzava. Non che fossi intimidita. Assolutamente no. Il ragazzo
sospirò, abbassando l’arma. Chiusi gli
occhi, tirando un respiro profondo.
<<
Cosa ci facevi là fuori? Ti avevo detto che
non si può uscire la notte. >> Disse,
glaciale. Deglutii. Non potevo
dirgli che avevo incontrato mia madre. Si sarebbe scatenato il
putiferio. Chirone
mi aveva detto che era molto strano che all’età di
sedici anni non fossi ancora
stata riconosciuta. Molto sbagliato.
<<
Non riuscivo a dormire. >> Mi
inventai. Lui mi fissò dritto negli occhi. Avrei tanto
voluto abbassare lo
sguardo, ma non ci riuscivo. Quei buchi neri mi scavano dentro,
impedendomi di
pensare. Erano come delle finestre a doppio vetro. Potevano guardare la
tua
anima, ma era impossibile riuscire a penetrarli. Mi accorsi solo in
quel
momento che lui mi stava ancora addosso. Decisamente troppo vicino.
<<
E secondo te dovrei crederci? >>
Domandò, retorico. Lo spinsi via, e quando le mie mani
toccarono il suo petto
nudo mi sentii arrossire fino alla punta dei capelli. Ringraziai il
cielo che
fosse troppo buio perché riuscisse a vedermi.
<<
Lascia perdere, me ne vado. >> Mi
voltai di scatto, con le gambe che tremavano. Una mano calda e asciutta
mi
afferro il polso, impedendomi di abbassare la maniglia.
<<
Non puoi. Le arpie saranno in allerta, ti
attaccheranno non appena avrai messo un piede fuori di qui.
>> Si
giustificò. Il suo tono di voce era piatto, come se quel
dato di fatto non gli
facesse né freddo né caldo.
<<
Quindi? >> In realtà ero grata che
non mi permettesse di uscire. Avrei avuto il terrore di percorrere quei
pochi
metri da sola, al buio. Ovviamente non l’avrei ammesso mai e
poi mai, ero fin
troppo orgogliosa.
<<
Non so. >>
<<
Mi stai dicendo che dovrei rimanere qui?
>> Chiesi, incrociando le braccia al petto. Vidi la sua
sagoma stringersi
nelle spalle, ma sapevo che probabilmente mi stava maledicendo in
antico greco,
o cose del genere.
<<
Dormi per terra. >> Annunciò. Fui
tentata di mollargli uno schiaffo, anche se non sapevo esattamente dove
fosse
la sua faccia
<<
Cosa!?
>> Esclamai, indignata. Ma che razza di
cavaliere era?
<<
Vuoi tornare fuori? >> Chiese, la
voce come miele spalmato sul ghiaccio. Mi trattenni dal pestare i piedi
per
terra come una bambina di dieci anni.
<<
Va bene. >> Sibilai tra i denti. Lui
si diresse verso quello che doveva essere un armadio. Aprì
le ante, e frugò per
qualche istante. Poi mi ritrovai un cuscino in faccia. Sputacchiai,
stringendolo sottobraccio.
<<
Buonanotte. >> Borbottò lui. Si
sdraiò sul suo letto, prono. Non era un matrimoniale, ma
sempre meglio che
dormire sulla pietra fredda. Sbuffai, sistemandomi per terra. Mi
rannicchiai in
posizione fetale, rabbrividendo quando le mie gambe nude entrarono in
contatto
con il marmo scuro.
Mi veniva da
piangere. Non per Nico, o per le arpie…
Non facevo altro che ripensare a mia madre. A quella donna che mi aveva
abbandonata senza darmi alcuna spiegazione. E non mi era parsa nemmeno
troppo
dispiaciuta quella sera. Anzi, il suo sguardo era quasi divertito,
mentre mi
parlava. Una lacrima di rabbia scivolò lungo la mia guancia.
Repressi un
singhiozzo frustrato, nascondendo il volto nel cuscino. Poi mi passai
una mano
sulle gambe gelide, cercando di far passare la pelle d’oca.
<<
Odio la mia coscienza. >> Si lamentò
Nico, facendomi sobbalzare. Mi voltai verso di lui. Era seduto, con una
gamba a
ciondolare dal bordo del letto.
<<
D’accordo, puoi dormire nel mio letto. Ma
giuro che se ti azzardi a toccarmi ti taglio una mano. >>
Ringhiò. Fui
tentata di rifiutare l’offerta. Il mio orgoglio urlava di
rimanere lì per
terra, a costo di patire il freddo. Strinsi i pugni, annuendo. Mi alzai
in
piedi, avvicinandomi incerta al letto ad una piazza e mezza. Grazie al
cielo ci
stavamo anche in due. Mi sdraiai sull’orlo, infilandomi sotto
al lenzuolo. Dire
che fossi imbarazzata era un eufemismo.
<<
Nico? >> Sussurrai.
Stai
zitta. Mormorò
l’orgoglio nella mia testa. Mi sembrava di
avere un angioletto buono su una spalla, e quello cattivo
sull’altra. Come
nelle stupide commedie da quattro soldi che guardava Moira la sera.
<<
Cosa vuoi? >> Grugnì lui.
<<
Grazie. >> Dissi, a voce un po’ più
alta. Poi infilai una mano sotto al cuscino, chiudendo gli occhi. Forse
sarei
addirittura riuscita a prendere sonno. La situazione non era
esattamente delle
più confortevoli, considerando che ero tesa come una corda
di violino, ma una
cosa era certa.
Lì
dentro ero al sicuro.
NOTE
AUTRICE
Ed
eccomi di nuovo qui con il quarto capitolo! Vi avevo detto che ci
sarebbe stata
una mezza sorpresa. Finalmente è apparsa la madre di
Genesis, alleluia! Il
problema è che è una grandissima stronza e non le
ha detto assolutamente niente,
ma ehi, si tratta sempre di una dea. Quando mai gli dei sono carini e
gentili?
Comunque, Nico diventa sempre più gentile e carino, non
è vero? Spero che il capitolo
vi sia piaciuto, mi lasciate una recensione? *occhi da cucciolo*
Bacioni
|
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Capitolo 6 *** Chapter five- This is war ***
Chapter five- This is war
To
the right, to the
left
We will fight to
the death
To the Edge of the
Earth
It's a brave new
world from
the last to the first
Fu la luce del
sole a farmi svegliare. Non doveva
essere tardissimo, ma nemmeno troppo presto. Forse le otto del mattino,
o le
sette e mezza. Sbattei le palpebre, irritata. Stavo dormendo davvero
benissimo.
Ero comoda, al caldo, con un paio di braccia forti che mi stringevano
e…
Un
attimo.
Un paio di che
cosa!? Il cuore mi saltò in gola,
mentre tentavo di capire in che posizione fosse il mio corpo.
Innanzitutto
sapevo di avere la testa nascosta nell’incavo del collo di
Nico, e una gamba
attorcigliata alle sue. Il suo braccio destro era infilato sotto la mia
vita,
mentre la mano sinistra era posata sul mio fianco. Sotto la maglietta,
che si
era sollevata di qualche centimetro. Sotto
la maglietta. A giudicare dalla vampata di calore che sentii
assalirmi le guance,
ero decisamente diventata bordeaux .
Tirai
un
respiro tremolante. Per prima cosa Nico non doveva per
alcun motivo svegliarsi. Sbaglio o la sera prima mi aveva
minacciato di tagliarmi una mano, se l’avessi solo sfiorato?
Con tutta la
delicatezza possibile provai a districare la gamba dalle sue. Il
ragazzo
mugolò, infastidito. La sua mano risalì fino allo
stomaco.
Oh.
Santo. Cielo.
Strinsi
i
denti, pregando con tutto il cuore che non aprisse gli occhi. Diedi uno
strattone un po’ più forte, sperando che bastasse
a liberarmi. Nico spalancò le
palpebre.
Merda.
<<
Cosa… ? >> La sua voce era arrocchita
ed impastata, resa più profonda dal sonno.
Impiegò qualche secondo a capire che
in che razza di situazione ci fossimo cacciati. Con mia enorme
soddisfazione lo
vidi arrossire, mentre si rendeva conto della mano sulla mia pelle
nuda, e di
una gamba che era scivolata tra le mie. Alzai lo sguardo verso di lui.
Quando
le nostre iridi si incontrarono ci allontanammo di scatto entrambi,
quasi ci
fossimo scottati. Nico si alzò in piedi, fissandomi con aria
a metà tra il
furioso e l’imbarazzato.
<<
Dovrei tagliarti una mano. >>
Commentò, con le mani sui fianchi. Gli lanciai
un’occhiataccia, mentre il mio
sguardo scivolava sul torace nudo. Non gli stavo fissando gli
addominali appena
pronunciati e la v del bacino. Assolutamente
no.
<<
Oh, tu invece puoi toccarmi indisturbato?
>> Domandai, incrociando le braccia sullo stomaco. Poi mi
alzai in piedi.
Un po’ troppo velocemente, dato che le mie articolazioni
anchilosate ripresero
vita scricchiolando.
<<
Questa cosa non capiterà mai più.
>>
Constatò. Il suo sguardo indugiò sulle mie gambe.
Sulle mie gambe nude. Avrei voluto
prendere a testate il
muro. Non solo avevo dormito nello stesso letto di Nico Di Angelo. Ero
persino
in mutande.
<<
La Morte non potrà farti del male. E’
l’unica in grado di aiutarti. Tu e la
Morte siete legati dal destino. Vivete insieme, o perite insieme. >>
Oh, no. Non in quel momento, per favore. Come al solito non riuscii a
fare in
meno di guardarmi attorno, sperando di scorgere la ragazza a cui
apparteneva
quella voce. Niente, come sempre.
<<
Cosa c’è? >> Domandò
acidamente Nico,
anche se mi sembrava un pochino esasperato.
<<
Niente. >>
<<
Piuttosto, controlla che fuori non ci sia
nessuno in vista, così posso andare a prepararmi per la
caccia. >> A
quanto pareva al Campo Mezzosangue prendevano le competizioni con
parecchia
serietà. La caccia alla bandiera era una delle sfide
storiche tra semidei,
tanto che al falò della sera prima qualcuno aveva
già cominciato a progettare
strategie per vincere. Nico aprì la porta di qualche
centimetro, sbirciando
fuori.
<<
Margaret della cabina di Demetra sta
litigando con Trevis Stoll. Se ti sbrighi non ti vedranno.
>> Disse,
richiudendo l’uscio. Annuii.
<<
Ehm… >> Cominciai. Il ragazzo
inarcò
le sopracciglia, facendomi segno di uscire.
<<
Grazie per non avermi cacciato. >>
Prima di andarmene gli lanciai un’occhiata di sottecchi.
Stava
sorridendo.
<<
Resto dell’idea che tu non debba
combattere. >> Percy e Annabeth battibeccavano da almeno
dieci minuti. Il
ragazzo, per qualche arcano mistero, non voleva assolutamente che la
figlia di
Atena- a capo della squadra blu- scendesse in campo per la caccia alla
bandiera. La bionda, dal canto suo, si limitava ad alzare gli occhi al
cielo e
a scuotere la testa. Quei due erano davvero buffi.
<<
Non sto morendo, Testa d’Alghe. >> Lo
rimbottò, infilandosi l’elmo. Con quel gesto aveva
certamente suggellato la sua
vittoria. Non capivo come facesse ad indossarlo con tanta
facilità. Era
pesantissimo, così come il pettorale, e mi provocava un
fastidioso prurito alla
testa.
<<
Ma se qualcuno ti ferisce… >>
<<
Percy, è inutile. Non abbandonerò la mia
squadra. >> Raddrizzò lo spalle, e
batté il suo pugnale sullo scudo, per
chiamarci all’adunata. La squadra blu, della quale faceva
parte anche Ermes,
perciò io, era composta da otto cabine. Oltre alla mia,
quella di Atena e
quella di Poseidone, c’era Demetra, Apollo , Iride, Eolo e
Nyx. Adrian Petrov,
l’unico figlio di Nyx, si era già presentato. Un
biondino alto e dal fisico
asciutto, con la pelle color delle stelle e due occhi blu cobalto, come
il
cielo notturno.
<<
Ci divideremo in tre sotto-squadre!
>> Gridò Annabeth. La squadra
rossa era
dall’altra parte del bosco, perciò poteva urlare
quanto voleva e non rischiava
di rivelare la nostra posizione. Aveva mandato il suo ragazzo a
nascondere la
bandiera in una grotta sotto al ruscello. L’aveva scoperta
Percy quasi per
sbaglio, ma era un nascondiglio perfetto. Dal pertugio poteva passare
soltanto
una persona, e soprattutto si trovava abbastanza in
profondità, in una pozza
naturale formata dal ruscello.
<<
Demetra, Iride, Eolo e Poseidone formeranno
un cordone difensivo attorno alla pozza. Dovrete stare almeno a
trecento metri
di distanza, altrimenti rischiereste di rivelare la posizione della
bandiera.
>> Spiegò. Percy fece per protestare, ma
Annabeth lo zittì con una manata
sul braccio. Era evidente che quel ragazzo non era molto propenso a
starsene
fermo ad aspettare che i nemici arrivassero. Preferiva combattere in
prima
linea.
<<
I figli di Apollo proveranno a creare
diversivi, state attenti a non farvi confondere il cervello dai figli
di Ecate.
Manderanno in prima linea Nico, sicuramente, perciò Atena,
Ermes e Nyx andranno
in attacco. >> Continuò.
Quella
ragazza era nata per fare la leader. Lo si vedeva dal portamento fiero,
dal
collo lungo ed aggraziato, e dal tono sicuro con cui dava gli ordini. A
nessuno
sarebbe mai venuto in mente di contraddirla. Nessuno a parte Percy,
forse.
<<
I più piccoli della cabina di Ermes
aiuteranno i figli di Apollo, gli altri con noi. Adesso andiamoci a
disporre,
veloci! >> Gridò. La sua voce non era troppo
severa, ma il suo tono era
indubbiamente molto autoritario.
Incrociai le
braccia al petto, indecisa sul da
farsi. Tecnicamente non era una “giovane” della
cabina di Ermes, ma al campo
mezzosangue ero una novellina. Sbuffai. Sarei andata con la squadra
d’attacco,
non avevo alcuna intenzione di stare in mezzo ai dodicenni. Strinsi tra
le mani
l’elsa della mia arma. Era una spada, lunga circa una
sessantina di centimetri.
Appena l’avevo presa in mano avevo capito che era fatta
apposta per me.
Perfettamente bilanciata, aggraziata e lavorata finemente, non come
altre armi
grezze che avevo trovato nel deposito. Sull’elsa
c’era scritto
χαρούμενος,
in
greco.
Gioiosa.
Appena mi ero
accorta
di riuscire a leggere il greco antico avevo quasi avuto un infarto, ma
Piper mi
aveva spiegato che tutti i semidei erano in grado di comprendere quella
lingua.
Era quello il motivo per cui eravamo dislessici. Mi sistemai meglio
l’elmo,
raggiungendo il nutrito gruppo di offesa.
<<
Cerca di non farti ammazzare, eh? >>
Connor Stoll (o Travis, facevo fatica a distinguerli) mi diede una
pacca sulla
spalla, rischiando di farmi cadere. Inarcai un sopracciglio.
<<
Ammazzare? Non credo che ci sia qualcuno di
talmente pazzo da uccidermi. >> Perché non si
poteva uccidere nella
caccia alla bandiera. Vero? Connor
mi
fece l’occhiolino, prima di saltare in groppa a suo fratello
Travis, o forse
viceversa. Deglutii. Tutta la calma di cui avevo fatto sfoggio fino a
quel
momento evaporò come neve al sole. Al solo pensiero di
trovarmi di fronte ad
una mandria di figli di Ares mi sentii svenire. Erano grossi, tatuati e
mi
facevano davvero tanta paura.
<<
Stai bene? >> Adrian Petrov mi
affiancò, con l’elmo sotto braccio. Aveva
diciassette anni, ma ne dimostrava di
meno, con quel sorrisetto sbarazzino e gli occhi giocosi. Si
passò una mano tra
i capelli, lanciandomi uno sguardo divertito.
<<
Domanda di riserva? >> Domandai.
Stavo iniziando a sudare freddo.
<<
Vedrai che ti divertirai. >> La sua
voce venne sovrastata dal suono profondo e antico di un corno.
La caccia alla
bandiera era cominciata.
<<
Spostati! >> Riuscii ad abbassarmi in
tempo prima che un pugnale mi penetrasse nel cranio. Sentii vibrare la
lama a
qualche centimetro dalla testa, e non mi fermai nemmeno a staccarla
dalla
corteccia dell’albero. Cominciai a correre in direzione
opposta. Avrei dovuto ricordarmi
di ringraziare il figlio di Atena che mi aveva avvisato. Se non fosse
stato per
lui sarei diventata uno spiedino di semidea. Connor aveva deciso di
farci
sparpagliare per confondere le prime linee della squadra rossa, ma non
aveva
messo in conto il fatto che i figli di Ares fossero davvero
tanti, e davvero arrabbiati.
Grazie al cielo non mi ero ancora imbattuta in…
<<
Vai da qualche parte? >> Come
non detto. Nico Di Angelo aveva
l’aria parecchio rilassata, di uno che sapeva che avrebbe
vinto in qualsiasi
caso. Iniziai a sudare freddo. Un conto era sfuggire ad una mandria
imbufalita
di figli del dio della guerra. Loro agivano d’impulso,
guidati soltanto
dall’istinto e dalla voglia di sangue. Ma lui no. Lui era
intelligente. Fui
tentata di scoppiare a
piangere ed
implorarlo di lasciarmi andare, ma avevo ancora una dignità.
<<
Non pensavo che Annabeth ti avrebbe mandata
all’attacco. Una mossa molto azzardata, da parte sua.
>> Commentò.
Nemmeno lui aveva l’elmo. Io l’avevo perso mentre
schivavo un fendente di un
figlio di Efesto.
<<
Non si sottovalutano gli avversari.
>> Ribattei, alzando fieramente la testa. Lui mi
fissò a lungo, con un
sorrisetto indecifrabile dipinto sulle labbra. Ovviamente stavo
soltanto
bleffando, perché nemmeno in un milione di anni sarei mai
riuscita a batterlo
in un duello. C’era soltanto un modo per uscirne indenne:
scappare a gambe
levate. Ero più minuta di lui, perciò
più veloce. C’era anche da dire che dalla
sua il ragazzo aveva l’altezza e i muscoli decisamente
più allenati dei miei.
<<
Vai in difesa, Genesis. Rischi di farti
male qui. >> Suggerì. Strinsi i denti. Non avrebbe dovuto dirlo. Se
c’era una cosa che mi faceva davvero
incazzare era che la gente mi
trattasse
come un’idiota che non sapeva badare a sé stessa.
E sì, probabilmente agii
d’impulso, e probabilmente non avrei mai dovuto farlo, ma mi
ritrovai a
muovermi ancora prima che il mio cervello ordinasse ai muscoli di
scattare.
Provai
un
fendente sulla sinistra, perché aveva il fianco scoperto, ma
lui parò con
facilità. Mi lanciò uno sguardo sorpreso, mentre
le nostre lame cozzavano.
<<
Sei veloce. >> Commentò. Tentai di
capire se fosse sarcastico, ma sembrava piuttosto serio. Sorrisi, prima
di
affondare sull’altro lato. Quando Gioiosa
e la sua spada entrarono in contatto le scintille volarono
dappertutto,
mentre l’adrenalina mi pompava nelle vene. Non pensavo che
combattere si
sarebbe rivelato così tanto divertente. Il fatto era
che… mi piaceva. Mi
piaceva davvero sentire il cuore battere forte, la
mente analizzare con freddezza la situazione… Mi faceva
sentire viva.
<<
Non puoi battermi. >> Disse, in tutta
tranquillità. Lo sapevo. Sapevo che non sarei mai riuscita a
sconfiggerlo, ma
come al solito il mio stupido orgoglio decise di fare di testa sua.
Così
mi lanciai in avanti, quella volta tentando un
colpo centrale. Nico fece un giro su se stesso, aggraziato, e poi
colpì la mia
spada. Gioiosa volò a
qualche metro
di distanza, andandosi a piantare nel terreno. Mi ritrovai con la
schiena
contro alla corteccia di un pino dall’aria malaticcia, la
spada puntata alla
gola. Mollai un calcio sullo stinco al figlio di Ade, ma lui non fece
una
piega.
<<
Te l’ho detto. Non puoi battermi. >>
Il sorrisetto era sparito dalle sue labbra. Il suo tono era serio.
Troppo
serio. Inquietante. Stavo per ribattere, nonostante la mia posizione
piuttosto
infelice, ma rimasi con la bocca spalancata. Adrian alzò la
spada, e Nico si
voltò appena in tempo per parare il fendente. Approfittai di
quel momento per
recuperare Gioiosa, e correre via.
Sicuramente Petrov se la sarebbe cavata meglio di me.
<<
Non così in fretta! >> Oh,
andiamo! Clarisse La Rue ghignava.
Avrei preferito diecimila volte continuare a combattere contro Nico.
Clarisse
era come gli altri figli di Ares, ma con una piccola variante. Era
dotata di
materia grigia, ed in quanto dotata di materia grigia sapeva che non
avrei mai
tentato di attaccarla. Riuscii a malapena a parare il suo affondo, con
le
braccia che mi tremavano per lo sforzo.
<<
Ti hanno lasciata sola, povera insulsa
indeterminata? >> Sputò, velenosa. Digrignai i
denti.
<<
Scommetto che non ti riconosceranno mai.
Insomma, chi vorrebbe mai una figlia… Come
te? >> Il suo sguardo
di superiorità
mi fece venir voglia di sputarle in faccia, mentre la rabbia mi montava
dentro.
<<
Stai zitta, Clarisse. Zitta. >>
Sibilai tra i denti. Poi successe una cosa strana.
Mi ritrovai a
fissarla negli occhi, con tutto l’odio
che ero capace di provare. La mano cominciò a tremarle
furiosamente, e la sua
spada cadde con un tonfo sordo sul manto morbido del bosco.
<<
T-tu… >> Balbettò lei.
L’unica cosa
di cui ero certa era che non avrei mai dovuto smettere di fissarla
dritta nelle
pupille.
<<
Adesso mi porterai alla bandiera della
vostra squadra. >> Ordinai, con la voce che non sembrava
la mia. Provavo
la stessa sensazione di quando avevo fatto piangere Pamela. Era come se
le
parole mi venissero sussurrate dall’esterno, ma non
c’era nessuna voce. Come se
le parole venissero da dentro di
me.
Clarisse annuì, con lo sguardo vacuo. Poi si
voltò, cominciando a correre dalla
direzione in cui era arrivata. Come facevo a sapere se mi stava
prendendo in
giro? Sbuffai, cominciando a seguirla. Nonostante non la stessi
più fissando
negli occhi qualcosa mi diceva che il collegamento tra noi non si era
interrotto. Passammo quasi inosservate in mezzo alla battaglia. Trevis
Stoll
lanciò un grido di gioia quando riuscì a
disarmare Leo Valdez, che si guardava
attorno con aria piuttosto spaesata. Non avevo l’elmo,
perciò i membri della
squadra rossa non potevano accorgersi che in realtà ero
delle schiere nemiche.
Ci fermammo dopo qualche minuto. Mi portai una mano al petto. Mi
facevano male
i polmoni. Sentii una fitta alla testa, che rischiò di farmi
cadere a terra. Il
mondo smise di vorticare dopo qualche secondo, ma le mie gambe
sembravano di
gelatina.
<<
E’ lì. >> Clarisse indicò
la bandiera
rossa, ficcata in bella mostra nel terreno. Probabilmente i figli di
Ares
pensavano che nessuno dei blu sarebbe riuscito ad arrivare fino a
lì. Che razza
di idioti. Come si faceva a sottovalutare Annabeth Chase?
<<
Grazie. >> Dissi, prima ancora di
rendermene conto. Grazie.
Davvero
Genesis? Davvero?
Mi avviai in
direzione della bandiera cercando di
mostrare un’andatura sicura. La verità era che mi
sentivo sempre più debole.
Quando raggiunsi il mio obbiettivo tirai un sospiro di sollievo. Con
una
strattone estrassi l’asta dalla terra, sollevando la bandiera
perché chi era
nei dintorni riuscisse a vederla.
<<
Clarisse! >> Abbaiò un figlio di
Dioniso, che aveva assistito attonito alla scena.
<<
Ma sei impazzita!? >> Esclamò,
raggiungendola. Clarisse sembrò uscire dalla sua trance
soltanto in quel
momento.
<<
Cosa… cosa è successo? >> Sembrava
piuttosto confusa. Poi Alex Rider, un figlio di Apollo, fece irruzione
nella
radura.
<<
Abbiamo vinto! >> Gridò, con le
braccia al cielo. In qualche secondo quel piccolo angolo di bosco si
riempì di
semidei con l’elmo blu. C’era chi urlava a
squarciagola, chi dava il cinque ai
suoi compagni e chi ghignava in direzione della squadra rossa. Poi
c’ero io,
che non mi reggevo più in piedi.
<<
Genesis! Sei stata bravissima! >>
Annabeth si era tolta l’elmo, e i suoi capelli biondi mi
fecero il solletico alle
guance mentre mi abbracciava.
<<
Ti senti
bene? >> Domandò dopo avermi
lanciato una breve occhiata. Annuii,
cercando di mostrami felice. La verità era che non mi sarei
retta in piedi un
minuto di più. La figlia di Atena mi sorrise di nuovo, poi
raggiunse di corsa
Percy, gettandogli le braccia al collo.
Caddi in
ginocchio, con le mani che mi tremavano
furiosamente. Avevo la vista annebbiata, e mi accorsi di essere
sdraiata per
terra soltanto perché sentivo i fili d’erba dietro
i capelli. Provai a rialzarmi,
ma i muscoli non rispondevano ai miei ordini. Cosa mi stava succedendo?
<<
Ehi! La nuova sta male! >> Era la
voce di Leo Valdez. Sentii uno scalpiccio di passi, poi vidi Piper
chinarsi su
di me, con aria piuttosto preoccupata.
<<
Per
gli dei! Genesis, non preoccuparti. >> Mi
sorrise rassicurante.
Mugolai qualcosa di insensato. Volevo dormire. Soltanto dormire.
<<
Qualcuno vada a chiamare Chirone! >>
Strillò.
<<
Resta sveglia, d’accordo? >> Annuii,
mentre gli occhi mi si chiudevano.
Poi
più niente.
NOTE
AUTRICE
Bonjour
ma cher! Come state? Allora, pubblico oggi perché ieri sono
stata a Milano a
fare un po’ di sano shopping (alla fine ho comprato solo una
maglietta, ma
pazienza). Comunque, in questo capitolo cominciamo a capire meglio i
poteri di
Genesis e il rapporto tra lei e Nico (sempre un amore di ragazzo)
comincia ad
evolversi. Nel prossimo capitolo ci sarà una grande sorpresa
:3
Bacioni
|
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Capitolo 7 *** Chapter six- How to save a life ***
Chapter Six- How
to save a life
He
will do one of two things
He will admit to
everything
Or he'll say he's
just not the same
And you'll begin to
wonder why you came
[IL CAPITOLO CONTIENE SPOILER DI HOUSE OF
HADES ]
Sono
nel bosco. Lo so perché i pini con gli aghi gialli, malati,
svettano sopra la
mia testa. Abbasso lo sguardo. Sabbia. Sabbia arancione scuro.
Perché nel bosco
c’è la sabbia? Comincio a camminare, ma
è molto buio. Credo che sia notte. Ad
un tratto sento un fruscio dietro di me. Mi volto di scatto, ma non
c’è
nessuno. Deglutisco, continuando a muovere velocemente le gambe. Non so
dove
sto andando. So soltanto che non posso rimanere ferma, altrimenti
farò una
brutta fine.
<<
La Morte non è qui. Sei in pericolo. >> Ancora
la voce della ragazza, che
mi si insinua nel cervello. Il cuore comincia a battermi a mille, e mi
ritrovo
a correre. C’è qualcosa nel bosco. Qualcosa che mi
sta inseguendo. Non lo vedo,
ma riesco a percepirlo.
<<
Non può proteggerti in questo momento. Devi scappare.
Scappa, e aspettala.
Arriverà prima o poi, arriverà. >>
E per la prima volta colgo una nota di
panico nella voce della ragazza. Sento lacrime bollenti cominciare a
scorrere
lungo le mie guance, mentre incespico nella sabbia gelida.
<<
La Ladra è vicina. Raggiungi la Ladra. Insieme sarete
più forti. >>
Adesso sta urlando. E’ terrorizzata. Qualcuno mi afferra per
un braccio, e io
comincio a gridare.
<<
Sono io! Sono io! >> Riconosco quella voce. E’
la giovane con i capelli
argentei e gli occhi di falco. Mi stringe in un abbraccio. Tremiamo
tutte e
due, piangiamo tutte e due.
<<
Stai insieme alla Ladra, finché la Morte non ti raggiunge.
Non vi dovete
muovere, capito? Dovete stare qui finché la Morte non
arriverà! >>
Sussurra la voce.
<<
Andrà tutto bene. >> Mormora la ragazza dagli
occhi gialli. Crolliamo
entrambe sulla sabbia, ancora avvinghiate.
<<
La Morte non può proteggerti per sempre. >>
Dice la voce.
<<
La Morte può perire. >>
<<
Mmm… >> Sbattei le palpebre,
brontolando. Quando riuscii a mettere a fuoco la vista mi resi conto di
essere
al chiuso. Una marea di occhi curiosi mi fissavano, in attesa che
dicessi
qualcosa. Riconobbi Emma, la mia vicina di branda, poi Trevis e Connor,
Adrian
e altra gente che non conoscevo.
<<
Quanto ho dormito? >> Domandai,
mettendomi a sedere. La sensazione di debolezza sembrava soltanto un
brutto
ricordo. Il buco nello stomaco invece era un brutto presente. Morivo di fame.
<<
Tre ore. >> Risposero in coro i miei
spettatori. Mi passai una mano tra i capelli, sbadigliando. Mi sentivo
riposata,
come dopo i sonnellini pomeridiani.
<<
Che ore sono? >> Chiesi. Speravo
vivamente che mancasse poco alla cena, perché altrimenti
avrei rischiato di
azzannare qualche figlio di Ermes.
<<
Le quattro e mezza di pomeriggio. Chirone
ha detto di portarti da lui non appena ti saresti svegliata.
>> Annunciò
Connor. Alzai gli occhi al cielo, ma rimasi in silenzio. In effetti
capivo la
loro preoccupazione. Non era normale svenire in quel modo. In
realtà sapevo
cosa era successo. Non avevo retto lo sforzo fatto per… soggiogare Clarisse? Non trovavo il
termine adatto per spiegarmi
ciò che avevo fatto. Era come se la mente della figlia di
Ares si fosse piegata
al mio volere.
<<
Riesci a camminare? >> Domandò
Adrian, premuroso.
<<
Sto bene. >> Mi alzai in piedi,
stiracchiandomi. Mi infilai velocemente le Converse bianche ai piedi
del letto,
e poi seguii i fratelli Stoll e il figlio di Nyx fuori dalla cabina di
Ermes.
Mi fissavano come se fossi potuta cadere da un momento
all’altro.
<<
Sto bene, davvero. >> Riprovai, ma le
loro espressioni non cambiarono nemmeno un po’. Attraversammo
il cortile con la
rete da pallavolo, e rischiai di beccarmi una schiacciata di un figlio
di Ipno
in faccia. Schivai il pallone appena in tempo, sbuffando. Superammo il
campo di
fragole e poi raggiungemmo la casa grande. Nico l’aveva
chiamata così quando ci
eravamo passati davanti, due giorni prima. Mi chiesi che fine avesse
fatto. Un
ghigno malsano mi si dipinse sulle labbra, pensando
all’espressione che gli si
doveva essere dipinta sul volto quando aveva scoperto di aver perso.
<<
Genesis Hale, ci hai fatto spaventare, lo
sai? >> Chirone batté lo zoccolo mentre mi
vedeva arrivare.
<<
Sto bene. >> Ripetei per la millesima
volta. Cominciava davvero ad essere irritante. Odiavo avere gli occhi
della
gente addosso, e soprattutto non sopportavo quando le persone si
preoccupavano
per me. Non volevo essere un peso.
<<
Clarisse ci ha raccontato quello che è
successo. >> Iniziò Annabeth, con un tono a
metà tra il diffidente e
l’incuriosito. Percy le lanciò
un’occhiata di avvertimento.
<<
Era legittima difesa. >> Protestai,
incrociando le braccia sullo stomaco.
<<
Non ti stiamo accusando, Genesis. >>
Precisò Chirone, con gentilezza.
<<
Invece la stiamo accusando. >> Non mi
ero nemmeno accorta della presenza del Signor D. Mi guardava come si
guarda un
moscerino spiaccicato sul parabrezza dell’auto.
<<
Non so come ho fatto, davvero. Non mi era
mai successa una cosa del genere. >> Mi strinsi nelle
spalle, allargando
le braccia. Ed era vero. Sapevo cosa avevo fatto, ma non come
ci fossi riuscita.
<<
Si sistemerà tutto quando verrai
riconosciuta. Solo allora potremo comprendere a fondo i tuoi poteri.
>>
Nitrì il direttore del Campo, sorridendomi.
<<
Che sono molto interessanti, se devo dire
la verità. >> Si intromise Annabeth. Percy si
limitava a fissarci con
aria piuttosto confusa.
<<
Io non riesco ancora a capire come tu abbia
fatto a ridurre Clarisse in quel modo. Hai la mia stima, ragazza.
>>
Percy mi fece l’occhiolino, battendomi il cinque. Trattenni
una risatina,
mentre la sua ragazza alzava gli occhi al cielo.
<<
Annabeth, ti ricordo che hai l’ecografia
tra un’ora. >> Chirone spostò lo
sguardo sulla figlia di Atena.
Ecografia? Voleva dire che era…
<<
Sì, passa a prenderci Sally. >> Sorrise
lei, con una mano che scattava automaticamente alla pancia. Non doveva
essere
di molti mesi. Non si vedeva alcun rigonfiamento.
<<
Secondo me in questo periodo sei stata
troppo stressata. Se state male… >>
<<
Percy, qui l’unico stressato sei tu.
>> Lo prese in giro la bionda, per poi lasciargli un
bacio sulla guancia.
Mi chiesi quanti anni avessero. Sui venti, forse. Ventuno,
più probabilmente.
<<
Oh, Genesis. Mi ero dimenticata di ridarti
la tua spa… >> Annabeth rimase bloccata con la
mano a mezz’aria, gli
occhi strabuzzati e lo sguardo puntato sull’iscrizione
intagliata sull’elsa.
Inarcai le sopracciglia.
<<
Dove l’hai trovata? >> Domandò,
facendosi improvvisamente seria.
<<
In armeria. Era nascosta sotto un mucchio
di scudi e… >>
<<
Sai a chi apparteneva? >> Chiese, con
gli occhi che le brillavano. Scossi lentamente la testa. Non ero sicura
di
voler conoscere la risposta.
<<
Ad Alessandro Magno. >>
Oh.
<<
E sai di chi era figlio Alessandro Magno?
>>
<<
Eris. Era
figlio di Eris. >> Mormorò Chirone.
Fantastico.
Davvero fantastico.
Quella sera,
dopo cena, tutti mi guardavano come se
mi fossi immersa nei glitter e lasciassi scie dorate ovunque mi
girassi. Le
voci si spargevano in fretta, al campo mezzosangue. Non sapevo chi
avesse detto
cosa, ma restava il fatto che appena mi avvicinavo a qualcuno, quello o
quella
mi guardava spaventato e faceva finta di non avermi visto. Dopo
ciò che era
successo con Clarisse avevano tutti paura di me. Chirone, Annabeth e
Percy
avevano tenuto la bocca chiusa riguardo alla storia della spada.
Gioiosa.
Ad Alessandro
Magno sarebbe venuto un colpo se
avesse saputo chi avrebbe ereditato la sua arma più potente.
Una sciocca
ragazzina che a malapena riusciva a tenerla in mano. E poi
c’era la storia del
figlio di Eris… La dea della discordia. Nessuno aveva detto
chiaramente che
c’era un motivo ben preciso se avevo scelto quella spada,
quasi inconsciamente.
Ma io lo sapevo. Sapevo benissimo cosa pensavano. Non era una
coincidenza.
C’era un’altissima probabilità che anche
io
fossi figlia di Eris. Fino a quel punto il ragionamento
filava liscio, ma
poi Annabeth mi aveva spiegato che la dea era stata bandita nel Tartaro
dopo
aver dato alla luce il grande condottiero. E non credevo che mio padre
fosse
andato a farsi un giretto nell’abisso della morte e
l’avesse incontrata.
<<
Genesis! >> Squittì una voce nasale
ed acuta. Alzai lo sguardo. Una figlia di Afrodite, a giudicare dai
capelli
lisciati con la piastra e gli occhi a mandorla esaltati da uno strato
esagerato
di eyeliner. Drew. Si chiamava Drew.
<<
Posso sedermi con te? >> Domandò, con
un sorriso falsissimo stampato sulle labbra carnose. Mi feci da parte,
lasciandole un po’ di posto sul tronco su cui mi ero
appollaiata.
<<
L’altro giorno ti ho vista uscire dalla cabina
di Ade. >> Cominciò, con un ghigno malefico
che le si allargava sulla
faccia, tagliandole il volto. Mi sentii il cuore in gola. Non
l’aveva detto a
nessuno, vero? Perché l’ultima cosa che volevo era
che la gente pensasse che-
oltre ad essere pericolosa- io mi comportassi da sgualdrina con i
ragazzi.
<<
Ehm, sì. Dovevo chiedere una cosa a Nico.
>> Spiegai, ostentando naturalezza. Lei mi sorrise di
nuovo. Un sorriso
di chi la sapeva lunga.
<<
Ti consiglio di non frequentare quel tizio,
Gen. >> Gen? Si era
messa a
darmi soprannomi?
<<
Non lo frequento. >> Risposi, con
freddezza.
<<
Ti spezzerà soltanto il cuore. Non sei
proprio il suo tipo. Lui ha… altri gusti. >>
Si arrotolò una ciocca di
capelli attorno al mignolo, sbattendo le ciglia come Bambi.
<<
Quali gusti? >> Chiesi, prima di
riuscire a mordermi la lingua. Teoricamente non mi sarebbe dovuto
affatto
interessare dei gusti di Nico. Non eravamo nemmeno amici.
<<
Beh, non ti ha detto che a lui piacciono i
ragazzi? E’ innamorato da anni di Percy . >>
Drew si portò una mano alla
bocca, fingendosi sorpresa. Mi sentii come se mi avessero appena
versato un
secchio di acqua gelata in testa. Aprii la bocca per dire qualcosa, ma
le
parole mi rimasero incastrate in
gola.
Non poteva dire sul serio. Io… lui…
<<
Devo… Devo andare. >> Mi alzai di
scatto, stringendo i pugni. Perché non me l’aveva
detto? Mi allontanai a grandi
passi, con gli occhi lucidi e il batticuore. Dovevo assolutamente
parlare con
Nico. Ero furiosa. Quello era stato un colpo davvero basso da parte
sua,
perché… Beh, in realtà non
c’era un perché. Non era obbligato a dirmi che
fosse
gay. Come mi ero ripetuta un migliaio di volte, non eravamo nemmeno
amici.
<<
Ti devo parlare. >> Mi sentii
afferrare per un braccio, ma non mi girai nemmeno per vedere chi fosse.
<<
Io non voglio parlare con te. >>
Tentai di liberarmi dalla sua stretta, senza successo. Nico mi
trascinò alla
spiaggia, sordo ai miei lamenti e alle minacce. Non mi mollò
nemmeno quando
giurai che mi sarei messa a gridare.
<<
Devi dirmi cosa stavi facendo ieri notte. E
non inventarti che non riuscivi a dormire, Genesis. Tanto non ci credo.
>> Mi fissava, con le braccia incrociate al petto e
un’espressione
indecifrabile dipinta sul volto. Di solito per me le persone erano come
un
libro aperto. Uno sguardo, e riuscivo a comprendere le loro emozioni.
Con lui
era diverso. Era come se tra noi ci fosse un muro di vetro opaco, che
mi
impediva di guardarlo bene.
<<
Perché dovrei fidarmi di te? >>
Sibilai, facendo un passo indietro.
<<
Perché ti ho salvato la vita. >>
Disse, serio. Fui tentata di scoppiargli a ridere in faccia. Con che
coraggio
poteva dire una cosa del genere?
<<
Però ti sei dimenticato di dirmi che ti
piacciono i maschi, no? >> Sputai, con cattiveria. Ed
ecco che cominciavo
a comportarmi in modo irrazionale. Come un’adolescente in
piena crisi ormonale.
Oh, un attimo. Io ero
un’adolescente in piena crisi
ormonale.
Il ragazzo barcollò all’indietro, come se gli
avessi appena dato uno schiaffo.
<<
Chi te l’ha detto? >> Chiese, a bassa
voce.
<<
Pensavo che ti fidassi di me. >>
Ribattei, senza rispondergli. Dei, la frase più ipocrita che
avessi mai detto.
Come poteva fidarsi di me se io non mi fidavo di lui?
<<
Ti crea qualche problema? Che ad un ragazzo
piacciano altri ragazzi? >> Domandò dopo un
attimo di silenzio.
<<
Sì! >> Esclamai.
<<
Intendo… no, non ho niente contro gli
omosessuali. >> Era vero. Love is equal, giusto? Ma mi
creava qualche
problema il fatto che lui fosse
gay.
Non sapevo nemmeno il perché, ma ogni volta che ci pensavo
mi si contorceva lo
stomaco in una morsa, e mi veniva voglia di piangere.
<<
Comunque, io non sono gay. >>
Aggiunse, in tutta tranquillità. Lo fissai, allibita. Si
divertiva così tanto a
prendermi in giro?
<<
Drew mi ha detto che hai una cotta per Percy!
>> Sbottai. Dannazione! Non avrei mai dovuto rivelargli
chi fosse stato a
spifferare il segreto. Forse Drew non sarebbe sopravvissuta alla notte.
<<
Non sono innamorato di Percy. Non
più. >> Voltò la testa,
come
se non riuscisse più a guardarmi. Poi si
incamminò verso il mare, sedendosi sul
bagnasciuga. Lo raggiunsi quasi di corsa, lasciandomi cadere accanto a
lui.
<<
Perché ti piaceva? >> Domandai. Se
fossi stata in lui mi sarei già data una botta in testa.
Perché non riuscivo a
farmi gli affari miei?
<<
Perché era l’unico a cui importava qualcosa
di me. >> La sua voce era bassa, ma chiara. Mi sentii
stringere il cuore.
Non avevo mai sentito un tono così pieno di sofferenza. Era
come se Nico Di
Angelo non avesse mai conosciuto la felicità in vita sua.
<<
Quando compresi di amarlo mi diedi
dell’idiota, lo sai? Lui aveva… >>
Si fermò, passandosi una mano tra i
capelli. Rimasi in silenzio, sdraiandomi sulla sabbia. Non avevo mai
visto così
tante stelle. A New York c’era sempre troppa luce, ma
lì… Mi chiesi se su
qualche altro pianeta ci fosse qualcuno che- come me- guardava il
cielo, e
pensava a come sarebbe stato scappare in un’altra galassia.
Cominciare una
nuova vita.
<<
Aveva promesso che avrebbe protetto mia
sorella. Poi lei è morta. >> Sbatté
un pugno sulla battigia, facendomi
rabbrividire. Mi morsi un labbro, evitando di guardarlo.
<<
E’ successo durante la guerra contro i
Titani, un paio d’anni prima
della
battaglia di New York. >> Spiegò. La battaglia
di… Oh. Sì, i tasselli del
puzzle cominciavano a tornare ai propri posti. Mi ricordavo di quel
giorno.
Tutta la città si era improvvisamente addormentata. Io ero a
casa malata,
perciò non avevo dato troppo peso al fatto che
all’improvviso fossi crollata a
peso morto sul letto.
<<
Poi c’è stata la battaglia contro Gea e i
Giganti. >> Continuò. Sembrava che stesse
recuperando frammenti dei suoi
ricordi e li stesse buttando fuori tutto d’un fiato. Come se
non li volesse più
nella sua anima.
<<
Sono stato nel Tartaro. Anche Percy ed
Annabeth ci sono stati. >> Tornai a sedermi, con gli
occhi spalancati.
<<
Sei… Sei stato nel Tartaro!?
>> Non è che sapessi molto
sull’abisso della morte,
ma di certo non era un bel posto. Lui ignorò la mia domanda.
<<
Quando la guerra contro Gea è finita,
Annabeth si svegliava urlando nel bel mezzo della notte. Mi ricordo che
Percy
doveva sempre correre ad abbracciarla. >> Un sorrisetto
amaro gli si
dipinse sulle labbra. Aveva lo sguardo perso nel buio, come rapito dai
ricordi.
<<
Io invece non avevo nessuno che mi asciugasse
le lacrime quando avevo gli incubi. >>
Ringhiò, con un tono
improvvisamente più aggressivo. Abbassai lo sguardo.
<<
Tu non
volevi che qualcuno ti asciugasse le lacrime.
>> Sussurrai. Sentii i
suoi occhi perforarmi la nuca. Poi ridacchiò. Una risatina
macabra, che faceva
accapponare la pelle.
<<
Non ho bisogno di uno psicologo, Genesis.
>> Disse, con l’asprezza nella voce. Scossi la
testa.
<<
No, infatti. >>
<<
Tu hai soltanto bisogno di un amico.
>>
NOTE
AUTRICE
Et
voilà! Piaciuta la sorpresa? Non so, Alessandro Magno mi
è simpatico, l’ho
studiato in seconda in storia. Vabbuà, comunque. Genesis e
Nico hanno una
conversazione piuttosto illuminante, mi scuso per gli spoiler, ma
servivano.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto :3
Bacioni
|
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Capitolo 8 *** Chapter seven- Gods and Monsters ***
Chapter
seven- Gods and Monsters
In
the land of Gods
and Monsters,
I was an Angel.
Living in the
garden of evil,
screwed up, scared,
doing anything that I needed.
Shining
like a
fiery beacon.
La ragazza dai
capelli rossi mi fissava incuriosita.
Forse perché appena l’avevo sentita parlare mi ero
resa conto che era lei. Era lei la
proprietaria della voce
che tormentava i miei incubi e anche la mia realtà. La
guardavo da un po’, con
la mano ancora stretta nella sua.
<<
Ehm… Non mi hai ancora detto come ti
chiami. >> Fece presente. Tirai subito indietro il
braccio. Possibile che
lei non sapesse chi ero io? Del resto mi aveva detto almeno un milione
di volte
di fidarsi di lei. Si chiamava Rachel. Rachel Elizabeth Dare.
<<
T-tu… Tu sei quella che mi parla. >>
Sussurrai. Nico mi lanciò un’occhiata confusa, con
le braccia incrociate al
petto. Percy ed Annabeth se ne erano andati da un pezzo, dopo aver
accolto con
baci e abbracci Rachel. Da quello che avevo capito la rossa era
l’Oracolo di
Delfi. In pratica aveva visioni e riusciva a predire il futuro.
<<
A dire il vero è la prima volta che ti
vedo. >> Si grattò la nuca coperta da quella
massa informe di ricci, con
aria piuttosto spaesata. Mi stava prendendo in giro? Mi aveva
tormentata per
giorni e non sapeva nemmeno chi fossi? Era impossibile che mi fossi
confusa.
Era la sua voce. Riconoscevo quel
tono innocente ma allo stesso tempo di una che la sapeva lunga.
<<
Mi chiamo Genesis Hale. >> Dissi.
Forse sentendo il mio nome si sarebbe… non so, ricordata di
qualcosa, o lo
stupido criceto che aveva in testa avrebbe cominciato a correre,
ridando vita
ai neuroni.
<<
Oh. Beh, Genesis Hale, ti assicuro che non
ti conosco. Avrei ricordato quei tuoi strani occhi. Sono molto
particolari,
potrei fare una foto? >> Domandò. La mia
mascella si irrigidì. Non mi
sarei sorpresa se mi avesse chiesto anche l’autografo.
<<
No, ascolta. Io sento la tua voce, capisci.
Mentre sogno, e anche mentre sono sveglia. Tu mi parli, mi dici
qualcosa riguardo
alla Morte, e… >> Sapevo che quello che stavo
dicendo suonava in modo
davvero folle, ma era la pura verità. Quella ragazza mi
doveva delle
spiegazioni.
<<
Genesis, mi vuoi spiegare di cosa stai
parlando? >> Domandò Nico, con una mano
infilata tra i capelli scuri. Gli
lanciai un’occhiataccia, ignorandolo.
<<
Mi dispiace, ma non… >> Ad un tratto
si interruppe, come se si fosse improvvisamente ricordata qualcosa di
molto
importante. Chiuse gli occhi per un attimo, e quando li
riaprì era come se mi
avesse vista per la prima volta.
<<
Nell’ultimo periodo faccio sogni confusi.
Adesso che ci penso… E’ la tua voce.
Sì, è la tua voce che mi chiama. E’
come
se tu volessi avvertirmi, ma mi sveglio sempre prima che tu riesca a
dire
qualcosa di sensato. >> Mormorò, parlottando
tra sé e sé. Abbassai lo
sguardo, confusa. Voleva dire che noi due comunicavamo l’una
con l’altra ma non
ce ne rendevamo conto? Aveva forse a che fare con il fatto che molto
probabilmente ero figlia di Eris? Ma qual era il collegamento tra me e
l’Oracolo di Delfi? Troppe domande, e nessuna risposta.
<<
Cosa… Da quando senti le voci? >>
Chiese Nico. Sembrava persino più stupito di me, il che da
una parte mi dava
soddisfazione, dall’altra mi terrorizzava. Di Angelo era uno
che dava
l’impressione di avere sempre una soluzione a portata di
mano. Io invece
brancolavo nel buio.
<<
Da sempre. >> Risposi distrattamente.
La verità era che continuavo a fissare Rachel Elizabeth
Dare, come per riuscire
a scrutare la sua anima. O la sua mente. Non ci assomigliavamo per
niente.
Anzi, eravamo due opposti. Lei era bassa e minuta, con ricci informi,
occhioni
verdi e i tratti elfici. Io ero molto più alta, e la curva
del mio naso era
decisamente più marcata della sua.
<<
E ti sei dimenticata di metterci
al corrente di questo particolare? >>
Sibilò Nico, con aria stralunata. Mi morsi un labbro.
<<
Credo che tu stia cercando di dirmi
qualcosa, Genesis. Qualcosa che io non posso vedere. >>
Disse Rachel, con
le mani incrociate al petto. Aveva la fronte corrugata in una buffa
espressione
pensosa. Mi chiesi quanti anni dovesse avere. Gliene davo una ventina.
<<
Tu sei l’Oracolo, Rachel! >> Esclamò
il ragazzo, sull’orlo dell’esasperazione.
<<
Lo so, ma ho percepito uno strano
cambiamento negli ultimi mesi. Come se qualcosa
stia sfuggendo dal mio controllo. >> Scosse la
testa, allargando le
braccia. Sbuffai. Mi faceva male il
collo, e sapevo che di lì a poco avrei avuto un gran mal di
testa. Dovevamo
parlare con Chirone. Non lo conoscevo affatto, ma emanava
un’aura di
tranquillità che mi faceva sentire quasi al sicuro.
<<
Cosa ti dico nei tuoi sogni? >>
Domandai alla ragazza. Lei si strinse nelle spalle.
<<
Niente. >>
<<
Urli. Urli
e basta. >>
<<
Fatemi capire. Io dovrei andare
sull’Olimpo- che si trova al seicentesimo piano
dell’Empire State Building- per
farmi analizzare il cervello dal dio dell’ipnosi?
>>
<<
Esattamente. >> Annuì Chirone, mentre
il signor D. alzava gli occhi al cielo, con le braccia incrociate sulla
pancia
prominente. Avevo scoperto che la D. stava per Dioniso,
perciò quello a cui
avevo dato del turista ciccione era il dio del vino. Non sapevo cosa
diavolo ci
facesse al campo mezzosangue, ma quando glielo avevo chiesto aveva
minacciato
di trasformarmi in una vite.
<<
Non dovremmo prima contattare Zeus?
>> Domandò Nico. Era appoggiato ad una colonna
del porticato della casa
grande da un tempo che mi sembrava davvero infinito. Sospirai,
lasciandomi
cadere le mai in grembo. Poi accavallai le gambe.
<<
Già fatto. Non c’è tempo da perdere.
Ipno
aspetta Genesis e Rachel. >> Spiegò.
Decisamente la proposta non mi
allettava. Non volevo che un dio mi leggesse il cervello, ma a quanto
pareva
era l’unico modo per capire come mai il collegamento tra me e
la Dare fosse
bloccato.
<<
E io cosa faccio ancora qui, se posso
sapere? >> Si informò il figlio di Ade. Gli
lanciai un’occhiata, ma la
sua espressione era ancora indecifrabile. Mi ricordavo benissimo della
chiacchierata della sera precedente, in spiaggia. Il nostro rapporto
era ancora
più teso del solito.
<<
Non posso lasciarle andare da sole, non
sono pronte a combattere in caso di necessità. Andrete con
un viaggio nell’ombra. >>
Annunciò il
centauro, accarezzandosi la folta barba bianca. Un che cosa?
<<
Dovevo immaginarlo. >> Commentò Di
Angelo. Poi squadrò Rachel con aria decisamente poco
amichevole, e lanciò a me
uno sguardo annoiato. Si massaggiò la base del naso con aria
piuttosto stanca.
<<
Forza, andate. >> Incitò Chirone.
Strabuzzai gli occhi.
<<
Cosa? Ora!? >> Esclamai. Ma non ero
pronta! Non che sapessi come prepararmi ad un incontro con il dio
dell’ipnosi,
ma pensavo che avrei avuto più tempo per riflettere.
Rachel
si
alzò in piedi, scuotendo la criniera di ricci rossi che le
incorniciava il
volto. Poi afferrò Nico per un braccio. Il ragazzo mi prese
per mano, guardando
dritto davanti a sé. Gli stavo per chiedere cosa diamine gli
fosse preso, ma
improvvisamente il mondo svanì. Mi ritrovai in un tunnel
nero, fatto di
oscurità. Fu soltanto un istante, ma sentii lo stomaco
sottosopra, e quando
toccai il cemento con le ginocchia avevo la pelle d’oca.
Alzai lo sguardo.
L’Empire State Building, il grattacielo più alto
di New York, si ergeva di
fronte a noi in tutta la sua maestosità.
<<
Dimmi che non stai per vomitare. >>
Borbottò Nico, ma mi aiutò a rialzarmi. Scossi la
testa, passandomi una mano
tra i capelli. Sospirai, osservando le ultime luci del tramonto farsi
sempre
più deboli. Stava per calare la notte, ma nonostante quello
la città non dava
segno di volersi spegnere. New York non si spegneva mai. Era sempre
viva. Mi mancava.
<<
Non potevi teletrasportarci direttamente
sull’Olimpo? >> Domandai, nervosa. Ero sempre
stata molto brava a
nascondere le mie emozioni. Con il passare degli anni ero riuscita a
costruirmi
una corazza di titanio, che non lasciava trasparire assolutamente
niente. Molti
dicevano che ero una persona fredda, ma volevo soltanto proteggermi.
Non era
mai stato facile nascondere ai miei compagni di classe le visioni, o i
sogni.
Avevo fatto l’errore di rivelarlo ad una bambina che credevo
mia amica, e da
quel momento in poi la mia vita scolastica era stata simile ad un
incubo. Mi
ero ripetuta milioni di volte che se fingevo di non soffrire, allora
avrei
davvero cessato di provare dolore. Avevo finito per crederci.
<<
No, avremmo rischiato di essere fulminati,
o cose del genere. Forza, andiamo. >> Rachel ed io
seguimmo Nico
all’interno dell’atrio del grattacielo. Il ragazzo
si diresse con passo sicuro
verso la scrivania della sicurezza, scambiò qualche parola
con il custode e poi
si fece consegnare una chiave dorata.
<<
Apre la porta dell’universo degli unicorni
rosa? >> Domandai, sarcastica. Rachel scoppiò
a ridere, mentre Di Angelo
mi lanciava un’occhiata fulminante, ma l’angolo
sinistro della sua bocca si
piegò leggermente verso l’alto. Entrammo in un
ascensore grande e spazioso. La
cabina era impreziosita da intarsi color oro, che rendevano
l’ambiente calmo e
confortevole. Confortevole finché non partì
un’orrenda musichetta che
assomigliava in modo inquietante ad una canzone di High School Musical.
<<
Devo convincere Apollo a cambiare il
gingle. Sta diventando fastidioso. >> Commentò
la ragazza a bassa voce. Feci
per rispondere, ma Nico inserì la chiave nella serratura, e
l’ascensore partì a
razzo verso l’alto. Mi aggrappai con forza al braccio di
Rachel, ma non ebbi
nemmeno il tempo per chiudere gli occhi che eravamo già
arrivati.
<<
Cavolo. La prossima volta che capita una
cosa simile avvisatemi. >> Sbuffai. Poi le porte della
cabina si
spalancarono, e rimasi senza parole.
Di fronte a noi
si mostrava un paesaggio mozzafiato.
Sulle basse collinette erbose erano sparpagliate casupole di pietra
bianca.
Piccoli ruscelli scorrevano qua e là, mentre in cima alla
collinetta più alta
si ergeva un maestoso tempio greco, su modello del Partenone di Atene.
Mi
sembrava di essere entrata in un presepe.
<<
Muoviamoci. >> Si limitò a dire Nico,
cominciando ad incamminarsi. Incontrammo satiri, ninfe
d’acqua e strane
creature verdi con le orecchie a punta. Rachel mi disse che erano le
ninfe
delle piante; le driadi. Qualcuna di loro mi salutò con aria
amichevole. Quando
arrivammo di fronte all’enorme portale del tempio iniziarono
a tremarmi le
gambe.
<<
Forse dovremmo tornare indietro. >>
Provai, inciampando nei miei stessi piedi.
<<
Non preoccuparti, Genesis. Andrà tutto
bene. >> Sorrise Rachel, ma sembrava che stesse tentando
di rassicura se
stessa, più che me. Di Angelo, dal canto suo, premette le
mani sul portone, e
poi diede una spinta poderosa. Ci trovammo davanti alla sala del trono.
Era
grande. Davvero, davvero grande. Mi sembrava di essere entrata in un
vero e
proprio tempio greco. L’aura di potere che sprigionavano le
pareti era quasi
percepibile con il tatto, ma non fu quello a colpirmi. Gli dei erano
seduti sui
loro troni. Erano in tredici, parlavano tutti tra di loro.
C’era chi
chiacchierava amabilmente e chi litigava. Ma ero certa di una cosa:
erano lì
per vedere me. Nico si
schiarì la
gola.
<<
Buonasera a tutti. >> Disse, a testa
alta. Doveva essere stato in quel luogo molte volte. O almeno
abbastanza da
potersi permettere di interrompere una riunione divina.
<<
Figlio di Ade. >> Aveva parlato un
uomo dalla lunga barba bianca e gli occhi elettrici, come dei fulmini.
Lo
riconobbi subito, anche se non l’avevo mai visto prima. Era
Zeus, il re degli
dei.
<<
Nico, non pensavo che ci saresti stato.
>> Commentò un uomo con il naso adunco e i
capelli scurissimi. Doveva
essere Ade, suo padre.
<<
Quindi questa sarebbe la ragazzina che ha
soggiogato mia figlia!?
>>
Improvvisamente troppe paia di occhi presero a fissarmi con aria
guardinga.
Ares mi guardava con un’espressione di totale disprezzo.
Magari avrei potuto
soggiogare anche lui, ma ne dubitavo fortemente.
<<
Ares, ti prego, non iniziare. >> Il
tizio che aveva parlato era un hippy dall’aria piuttosto
svalvolata. Sembrava
che una strana nebbiolina magica lo avvolgesse da capo a piedi, e
fissava me e
Rachel con uno sguardo trasognato.
<<
Io sono Ipno, e schiarirò le vostre menti.
>> Sorrise, con tono calmo e conciliante. Inarcai un
sopracciglio. Ci
mancava pure che facesse il segno della pace.
<<
Io resto dell’idea che non sia saggio fare
una cosa del genere. >> Decretò una bella
donna dai capelli scuri e gli
occhi grigi. Assomigliavano moltissimo a quelli di Annabeth.
<<
Oh, allora fermiamoci subito! >>
Sbottò un uomo abbronzato con le iridi color del mare. Il
suo tono era
palesemente sarcastico.
<<
Del resto quello che vuoi tu è legge qui
dentro. >> Ringhiò poi. La donna fece per
ribattere, ma Zeus alzò una
mano, intimando il silenzio.
<<
Dovete inginocchiarmi di fronte a me, qui
in mezzo. Così tutti potranno vedere. >>
Spiegò gentilmente Ipno. Lanciai
a Nico un’occhiata di panico, ma lui non sembrò
farci molto caso. Rachel mi
trascinò per terra con lei. Avevo paura. Molta paura. E se
quel tizio avesse
sbagliato qualcosa? Magari mi avrebbe bollito il cervello e avrei
vissuto il
resto della mia vita come un’ameba, sdraiata in un letto
d’ospedale circondata
soltanto da…
<<
Genesis, rilassati. Se sei agitata renderai
tutto più difficile. >> Sussurrò la
ragazza.
<<
E tu come lo sai, potr… >> Ma le
parole mi morirono in gola quando Ipno poggiò una mano
umidiccia e fredda sulla
mia testa.
Il
mio mondo esplose.
Ad
un tratto
mi trovai in un abisso nero e senza fondo, risucchiata da un tornado di
oscurità.
Avrei voluto urlare, ma un peso mi opprimeva il petto, impedendomi
quasi di
respirare. Le mie ginocchia toccarono all’improvviso qualcosa
di solido. Un
pavimento.
Mi guardai
attorno, ma era troppo buio per riuscire
a vedere anche ad un palmo del mio naso.
<<
Rachel? >> Sussurrai.
<<
Non vedo niente. >> Mormorò lei.
Tentai di capire da dove provenisse la sua voce, ma era come se fosse
rimbombata dappertutto. Come se si trovasse ovunque. Mi alzai in piedi,
barcollando. Cosa era quel posto? Ero caduta nel mio subconscio? Avevo
la
bruttissima impressione di essere finita in un film di Saw
l’Enigmista.
<<
Cosa dovremmo fare? >> Mormorai.
Aspettai qualche istante, ma nessuno rispose.
<<
Rachel? >> Domandai, a voce più alta.
Niente. All’improvviso l’oscurità
divenne più schiacciante. Non ero mai stata
claustrofobica, ma in quel momento cominciò a mancarmi il
fiato. Feci un passo
in avanti, ma andai a sbattere contro qualcosa. Era una lastra di
vetro. Mi
voltai.
Ero
in gabbia.
<<
Rachel! >> Gridai, battendo un pugno
contro il vetro. Improvvisamente il volto della ragazza comparve
dall’altra
parte. Sembrava spaventata quanto me. Cominciai a tempestare di colpi
la
parete, ma non si incrinava nemmeno di un millimetro. Lei rimaneva
immobile,
con le mani poggiate sul vetro e un’espressione terrorizzata
dipinta sul volto
elfico.
Urlai, in preda
alla frustrazione. Provai anche con
i calci, ma non c’era niente da fare. Poi Rachel diede un
colpetto al vetro. Fu
un attimo, ma riuscii a vedere un’intricata ragnatela di
crepe che si diramava
come un labirinto frastagliato, lungo la lastra. Poi andò
tutto in pezzi.
Io
stavo andando in pezzi.
Un dolore
lancinante mi colpì alla testa, tanto da
farmi piegarmi in due, in preda ai conati di vomito. Gridai con tutto
il fiato
che avevo in gola, prendendomi il capo tra le mani. Era come avere un
martello
penumatico piantato al centro del cranio. Mi smuoveva le viscere,
distruggendo
tutto quello che di vitale c’era in me. Poi udii una voce.
All’inizio era
soltanto un sussurro, ma cresceva di intensità,
finché non si trasformò in un
urlo imperioso.
<<
Abbastanza! >> Sbraitò, e poi vidi
una luce accecante.
Impiegai un
po’ per rendermi conto che ero di nuovo
nella sala del trono, insieme a Rachel. Lo sapevo perché
qualcuno mi stringeva
la mano talmente forte da farmi male, e udivo voci bisbigliare, altre
gridare.
Sbattei le palpebre un paio di volte. Ipno era di fronte a me, ma
guardava alle
mie spalle, con gli occhi spalancati in un’espressione
spaesata. Mi voltai
piano, con la testa ancora tra le mani.
Ed eccola
lì, in tutto il suo splendore.
Mia madre aveva
le braccia incrociate al petto, e un
sorrisetto sarcastico dipinto sulle belle labbra, quel giorno dipinte
di rosso
fuoco. Non indossava l’abito bianco, ma un paio di jeans a
sigaretta e una
felpa della WESC. Conciata così sembrava avere al massimo
vent’anni.
Rabbrividii, sentendo qualcosa di caldo colarmi lungo il collo.
Istintivamente
portai una mano alla gola. Un liquido bagnato e viscoso mi
sporcò le dita. Sangue.
Sfiorai la pelle. Sentii dei
piccoli taglietti, dove Ipno aveva infilato le unghie.
<<
Ma siete impazziti, per caso? Avete
rischiato di farle rimanere perse per sempre nella
loro mente. >> Ringhiò mia madre,
passandosi una mano tra i capelli fulvi. Erano di una
tonalità più scura di
quelli di Rachel. A volte mi sembravano quasi viola, ma era soltanto un
gioco
di luci.
<<
Eris. >> Sibilò Zeus, alzandosi di
scatto.
Bene.
Ogni
dubbio era fugato. Ero figlia della dea della discordia, scappata dal
Tartaro
per farsi mettere incinta da uno studente newyorkese della
facoltà di
giurisprudenza. Che storia avvincente.
<<
Papino, fratelli miei. >> Sorrise
Eris. Era bellissima. Bella quasi quanto Afrodite.
<<
Vi
sono mancata? >>
E poi nella sala
del trono scoppiò il pandemonio.
NOTE
AUTRICE
Taaaaaa-dan!
E finalmente si è scoperto a chi appartiene la voce e siamo
sicuri al trecento
per cento che Genesis è figlia di Eris. Mettiamoci il cuore
in pace. Nel
prossimo capitolo comparirà anche una nostra vecchia
conoscenza, vedrete. Vi
ringrazio per essere arrivati fino a qui e ringrazio i miei fedeli
recensori,
tutti quelli che seguono, ricordano, preferiscono e leggono questa
storia :3
Grazie mille, davvero!
Bacioni
|
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Capitolo 9 *** Chapter eight- Unbreakable ***
Chapter
Eight- Unbreakable
Where
are the people
that accused me?
The ones who beat
me down and bruised me
They hide just out
of sight
Can't face me in
the light
They'll return but
I'll be stronger
<<
Come
osi, Eris? >> Gli occhi di Zeus sprigionavano scintille. Letteralmente. Lui e Poseidone erano
l’uno accanto all’altro; il primo che stringeva in
mano la folgore divina, il
secondo il suo inseparabile tridente dall’aria piuttosto
letale. Strisciai
all’indietro, incontrando le gambe di Ipno, che si
spostò subito, come se
l’avessi scottato.
<<
Bla, bla, bla. >> Mia madre alzò gli
occhi al cielo, in un gesto teatrale. Il suo sguardo vagò
per la sala del
trono, ma non si soffermò su un punto particolare.
<<
Tutte le volte la stessa storia. >>
Sbuffò. Sembrava offesa, ma io sapevo che non era
così. Li stava soltanto
prendendo in giro. Non era forse nella sua natura? Creare discordia,
provocare
litigi, risse… Eris.
Quella era Eris,
e probabilmente si poteva dire lo stesso di me.
<<
Stai bene? >> Sobbalzai, sentendo la
voce di Nico nell’orecchio. Annuii, aggrappandomi al suo
braccio mentre mi
aiutava a rialzarmi. Rachel era già in piedi, e fissava mia
madre come si fissa
una diva del cinema oppure il diavolo fatto a persona. Non sapevo quale
delle
due.
<<
Sei scappata sedici anni fa, e ho lasciato
correre. Non la passerai liscia questa volta. Soprattutto ora che
sappiamo che
questa ragazzina è tua figlia. >>
Tuonò Zeus, furioso. Per quanto i
poteri di Eris potessero essere forti, non credevo che fosse saggio
inimicarsi
il re degli dei. E ovviamente lo sapeva anche lei, perché si
limitò a sorridere
con falsa dolcezza.
<<
Chiedo il tuo perdono, padre. Ma come puoi
biasimarmi? Essere bandita nel Tartaro per un piccolo misfatto? Mi
sembra un
po’ esagerato. >> La sua voce era come miele.
Si gettò i capelli sulle
spalle, e ammiccò in direzione di Ares. Avevo letto da
qualche parte che quei
due erano stati pappa e ciccia un tempo. Beh, il dio della guerra con
la dea
della discordia… Una coppia vincente.
<<
Comunque, non è per questo che sono qui. >>
Tagliò corto. Guardò per un istante nella mia
direzione, ma forse me l’ero
soltanto immaginato. La odiavo. Non riuscivo a fare a meno di
detestarla.
Perché si comportava come se non esistessi? Ero la sua unica
figlia. E se
davvero aveva amato mio padre, perché non era mai tornata a
fargli visita? Del
resto aveva dimostrato che scappare dal Tartaro non era poi
così difficile.
<<
Chaos si sta risvegliando. >> Disse semplicemente,
come se stesse parlando di quanto fosse bello il tempo quel giorno.
Nella sala
del trono calò un silenzio tombale. Poi Ade
scoppiò a ridere sonoramente,
seguito a ruota da Demetra. Zeus sembrava sempre più
infuriato.
<<
Andiamo, Eris. Sai fare di meglio. >>
Sibilò il dio degli inferi. Abbassai lo sguardo.
Chaos… Chaos non era un
titano, e nemmeno il padre dei titani. Chaos era… tutto. Quello che c’era stato
prima e quello che ci sarebbe stato
dopo. Gli dei erano riusciti a domare il suo potere, imponendo
l’ordine sulla
terra. Ma l’ordine era nato dal caos. Dalla distruzione
totale.
Improvvisamente
il sangue mi si gelò nelle vene, e barcollai.
Le
visioni.
Me ne resi conto
soltanto in quel momento. Nelle mie
visioni e negli incubi vedevo la distruzione, il caos. La sabbia che
abbatteva
tutto ciò che ostacolava il mio cammino. Che fosse quello il
destino del mondo?
Forse le voci, i sogni… Tutto quanto, non
erano soltanto un parto folle della mia
mente. Forse significavano qualcosa. E Nico e la ragazza…
Che ruolo avevano in
tutto quello? Che ruolo avevo io,
in
tutto quello? La consapevolezza mi investì come
un’onda ghiacciata.
<<
E’ vero. >> Dissi, a voce alta. Lo
sguardo scuro del ragazzo mi perforò la nuca, mentre
l’espressione di Rachel
rimase neutra. Anche lei aveva avuto visioni simili alle mie. Ne ero
sicura.
<<
Visto? >> Eris incrociò le braccia al
petto, soddisfatta. Il volto di Atena era impassibile.
<<
Perché dovremmo credere a tua figlia?
>> Domandò Zeus, allargando le braccia in un
gesto teatrale. Mi schiarii
la gola.
<<
Lo so, d’accordo? Lo so e basta. >>
Sbottai. Perché non volevano darmi ascolto? Capivo che non
si fidassero di mia
madre, ma io non avevo alcun motivo di mentire. Ci fu un attimo di
silenzio.
Zeus sospirò, guardandomi negli occhi. I suoi emanavano una
carica spaventosa
di elettricità statica.
<<
Faremo qualche controllo. >> Annunciò
infine, lasciandosi cadere sul suo trono.
<<
Cosa!? >> Esclamò Afrodite, basita.
<<
Non vorrai davvero farci scomodare per le
fandonie di questa ragazzina, vero? >> Altre imprecazioni
infastidite
riempirono l’aria dell’Olimpo. Strinsi le braccia
attorno al corpo, serrando la
bocca e impedendomi di dire qualcosa di poco carino, che mi avrebbe
fatto fare
una bruttissima fine.
<<
Silenzio! >> Gridò Zeus. Ade alzò
gli
occhi al cielo, stravaccandosi sul suo trono, a gambe larghe.
<<
Quando tutto andrà in rovina, non ditemi
che non ve l’avevo detto. >> Sorrise mia madre.
Poi si dissolse in un
battito di ciglia. Poseidone batté un pugno sul bracciolo di
pietra della sua
grande sedia regale.
<<
Voi. >> Zeus ci indicò. Rachel mi
strinse un braccio, quasi spaventata. Ci avrebbe fulminati tutti e tre?
Non
credevo. Ade si sarebbe infuriato.
<<
Sparite subito dalla mia vista, prima che
vi incenerisca. >> Ringhiò, accarezzandosi la
folta barba candida con una
mano.
Brutto
vecchiaccio.
Io volevo
soltanto aiutarli, perché si ostinavano a
non capire?
<<
Tu non puoi… >> Nico mi strinse
talmente forte il polso da farmi perdere la voce. Era un avvertimento,
lo
sapevo.
<<
Grazie per il vostro tempo. >> Disse
poi. Trascinò fuori me e Rachel. Mi rilassai soltanto quando
fummo di nuovo in
ascensore. Non mi ero nemmeno accorta che tutti i miei muscoli fossero
in
tensione.
<<
Questo è un bel caos. >> Sospirò la
rossa.
Già.
Un gran bel
caos.
Nel
vero senso della parola.
<<
La mangi quella? >> Emma indicò la
fetta di torta abbandonata con aria triste nel mio piatto. Non avevo
toccato
cibo quella sera. Avevo lo stomaco stretto in una morsa, e lo sguardo
di tutti
addosso. Chirone aveva spiegato solo ad Annabeth e Percy ciò
che era successo
sull’Olimpo, ma- nonostante quello- mi sentivo osservata e
giudicata. Non mi
piaceva affatto quella sensazione. Spinsi il piatto verso di lei,
facendole un
debole sorriso. Era stata riconosciuta quel pomeriggio. Figlia di Nyx.
La prima
sorella di Adrian. Ma il tavolo di Nyx a mensa non c’era,
perciò stavano
entrambi con noi di Ermes. O meglio, con loro
di Ermes.
<<
Sei sicura di sentirti bene? >>
Chiese, infilzando il cioccolato con la forchetta.
<<
Sì, sono soltanto un po’ stanca. >>
Mi strinsi nelle spalle, passandomi una mano tra i capelli. Stanca, spossata, triste, arrabbiata. E
un’altra infinita lista di aggettivi negativi che
probabilmente non conoscevo
nemmeno. E anche confusa. Confusa perché Ipno aveva spezzato
il blocco nella
mia testa, e Rachel ed io riuscivamo a comunicare con la mente, o nei
sogni. La
cosa mi spaventava parecchio. Non eravamo in grado di leggerci nel
pensiero a
vicenda, grazie agli dei, ma… Era una cosa piuttosto
inquietante. Senza contare
il fatto che nessuno sapeva come mai io e lei fossimo collegate.
Rimaneva un
mistero, persino per gli dei.
<<
Questo pomeriggio sei sparita. Abbiamo
fatto un po’ di pratica con la spada, è stato
divertente. >> Sorrise,
mettendo in mostra delle adorabili rughette accanto agli occhi. Adesso
che ci
pensavo lei e Adrian non erano poi così tanto diversi. Gli
occhi di Emma erano
un po’ più chiari di quelli del ragazzo, ma i
capelli erano dello stesso biondo
acceso. Mi massaggiai la base del naso, esausta.
<<
Forse dovrei andare a riposare. Ci vediamo
dopo. >> Dissi. Poi mi alzai in piedi di scatto,
guadagnandomi occhiate
confuse da parte di Emma e dei ragazzi seduti vicino a me. Connor e
Trevis non
sembravano rimasti spaventati da quello che avevo fatto a Clarisse.
Anzi, erano
quasi entusiasti. La stessa cosa si poteva dire per la maggior parte
dei figli
di Apollo e di Ermes, ma gli altri… Non feci nemmeno in
tempo a fare un passo,
perché qualcuno mi urtò, rovesciandomi sulla
t-shirt un bicchiere di the
freddo. Alzai lo sguardo, con una marea di epiteti poco carini che
minacciavano
di uscirmi dalla bocca.
<<
Oddio, mi dispiace tanto! >> Drew mi
fissava con lo sguardo di scuse più falso che aveva nel
repertorio.
<<
Lascia stare. >> Mi limitai a borbottare
tra i denti, voltandomi. Non volevo litigare lì, in mezzo a
tutti. Non era il
momento. Drew mi afferrò un polso, costringendomi a
voltarmi.
<<
Davvero, non l’ho fatto apposta. Però,
sai…
Ti dovresti cambiare la maglietta. Magari potresti spogliarti qua,
tanto so che
non ti fai problemi, no? >> Chiese, con voce maligna. La
guardai con gli
occhi sbarrati, divincolandomi dalla sua presa. Cosa stava tentando di
insinuare? Una serie di bisbigli si diffuse tra i presenti. Un
sorrisetto amaro
mi si dipinse sulle labbra. Ma certo, aveva raccontato a tutti della
storia di
Nico. Perché doveva essere così cattiva?
<<
Devi essere molto coraggiosa per
avvicinarti a me. O molto stupida,
piuttosto. >> Sibilai, a testa alta. Ma non avevo
intenzione di farle
niente.
<<
Andiamo, Gen! Sappiamo tutti come ti piace
toglierti i vestiti davanti ai ragazzi. >>
Ridacchiò. Strinsi i pugni.
Attorno a noi era calato il silenzio più assoluto. Feci un
respiro profondo,
tentando di calmarmi. Poi la fissai dritta negli occhi.
<<
Sai una cosa, Drew? Quello è il falò, puoi
benissimo buttartici dentro. >> Ringhiai, per poi
girarmi. Ma non mi
mossi. Non mi mossi, perché una sensazione di gelo mi
strisciò nelle vene,
impedendomi di fare un solo passo.
Cosa
avevo fatto?
Deglutii,
voltandomi. Sapevo benissimo cosa avrei
visto.
Drew si dirigeva
con passo svelto verso il grande
fuoco dove si sacrificava il cibo per i nostri genitori. Ci fu un
attimo di
silenzio assoluto, poi un figlio di Ecate lì vicino decise
di prendere in mano
la situazione, e corse in direzione della figlia di Afrodite. Fece in
tempo a
tirarla indietro, ma la mano della ragazza finì comunque
troppo vicina ad una
fiamma. Drew gridò, scoppiando a piangere subito dopo. Alzai
lo sguardo,
rendendomi conto che tutti fissavano un punto sopra la mia testa.
Era una mela.
Una mela d’oro, che brillava come un
ologramma. Il pomo della discordia.
<<
Sei un mostro! >> Gridò qualcuno, e
mi sentii crollare il mondo addosso.
Non riuscivo
più a muovermi. Avrei tanto voluto
gridare che non l’avevo fatto apposta, che mi dispiaceva
moltissimo. Ma non ci
riuscivo. Le parole mi erano rimaste bloccate nelle corde vocali,
mentre un
respiro traballante cercava di venir fuori dalla mia gola. Ma niente.
Sentivo i
polmoni scoppiare, e gli occhi mi si erano offuscati di lacrime. Le
cose
intorno a me ad un tratto si erano fatte più confuse, come
se continuassero incessantemente
a muoversi, senza darmi un punto di riferimento. Sentii qualcuno
afferrarmi per
la vita, e trascinarmi via. La mia schiena toccò qualcosa di
ruvido.
<<
Guardami. >> Alzai gli occhi,
incontrando quelli di Nico Di Angelo. Rantolai, cercando disperatamente
di
respirare. Perché non ci riuscivo? E tremavo, tremavo
incontrollatamente. Mi
sembrava di essere in uno di quegli orribili incubi in cui cerchi di
scappare,
ma i muscoli non rispondono al tuo comando.
<<
Non… Non riesco a respirare… >>
Ansimai tra i denti, aggrappandomi alle sue spalle.
<<
E’ un attacco di panico, Genesis. Respira
quando respiro io. >> Scivolai lungo il tronco
dell’albero, mentre il
ragazzo si inginocchiava accanto a me. Poi chiuse gli occhi, e
cominciò ad
inspirare ed espirare con lentezza. Feci la stessa cosa, al ritmo delle
sue
spalle che si alzavano e si abbassavano. Passò qualche
istante, e la vista
tornò nitida. Le mani smisero di tremare convulsamente, e
finalmente un gran
fiotto d’aria mi riempì i polmoni. Non avevo mai
avuto un attacco di panico in
vita mia. Non pensavo che potessero essere così spaventosi.
<<
Come… Come facevi a saperlo? >>
Domandai, dopo essermi assicurata di riuscire a parlare senza scoppiare
in
lacrime. Come aveva fatto a capire che sarei potuta esplodere da un
momento
all’altro? Nico si sedette di fronte a me, scostandosi i
capelli dalla fronte.
<<
Te l’ho letto negli occhi. >>
Mormorò. Poi allungò una mano verso di me, ma
sembrò ripensarci. Il braccio gli
ricadde lungo il fianco. Voltai la testa. Riuscivo ancora a sentire il
vociare
vicino al falò. Le discussioni, i bisbigli sussurrati tra i
denti e gli sguardi
spaventati, o confusi. Una figlia di Eris. Eris, quella che aveva
causato la
guerra di Troia; Eris, quella che si divertiva a scatenare il caos. La
donna
dai capelli rossi e dagli occhi viola. Mia
madre.
<<
Dovresti andartene. >> Dissi ad un
tratto, con voce sorprendentemente ferma, e fredda. Evitai
accuratamente di
guardarlo in faccia. Non volevo che a lui succedesse ciò che
era successo a
Clarisse e a Drew. Non volevo che a nessuno succedesse una cosa del
genere.
<<
Non ho paura di te, ragazzina. >> E
ancora una volta, sembrò potermi leggere nel pensiero. Gli
rivolsi
un’occhiataccia. Gli credevo, ma non potevo fare a meno di
considerarlo un
idiota. Aveva visto cosa potevo fare. Sarebbe dovuto scappare via, e
non
rivolgermi mai più la parola. Mi chiesi se sarebbe stato
quello il mio destino.
Vivere da sola, emarginata, senza alcun amico. Mi alzai in piedi,
insieme a
Nico.
<<
Non riesco a controllarlo, Nico. Non ce la
faccio. Sono pericolosa. >> Sibilai, spintonandolo
all’indietro. Lui non
si mosse nemmeno di un centimetro. Storsi il naso. Poteva anche essere
piuttosto magro, ma era ben piazzato. L’esperienza nel
Tartaro doveva essergli
stata molto utile sotto quel punto di vista.
<<
Quindi adesso ti comporterai come una di
quelle stupide adolescenti tormentate che credono di avere tutto il
mondo
contro? Scusa se te lo dico, ma… che
noia. >> Ringhiò. Inarcai un
sopracciglio, quasi divertita.
<<
Come te? >> Chiesi, con le labbra
tese in una linea sottile. Nico avanzò di un passo,
facendomi indietreggiare.
Posò le mani ai lati della mia testa, fissandomi
dall’alto. Deglutii, perché
quegli occhi neri avevano il potere di cancellare la mia
capacità di intendere
e di volere.
<<
Non scherzare con il fuoco, Hale. >>
Sibilò. La mia mascella
si irrigidì, mentre pensavo a qualcosa di arguto e
sarcastico da ribattere.
<<
Chi si comporta come un adolescente
tormentato, ora? >> Domandai a bassa voce, optando per la
tecnica della
manipolazione.
Nico
gettò la
testa all’indietro, e scoppiò a ridere. Rimasi
interdetta, udendo in silenzio
quel suono stranamente musicale. Era una risata roca, di gola.
Piuttosto
macabra se dovevo essere sincera, ma nonostante il tono lugubre
sembrava la
melodia di uno strumento solenne e maestoso. Come un organo, per
esempio.
<<
Hai coraggio, Genesis. Non c’è che dire.
>> Ghignò. Poi fece un passo indietro,
permettendomi finalmente di
calmare il tremito nel mio respiro. Per la prima volta da quando lo
conoscevo,
nella sua voce udii un tono diverso. Di ammirazione, quasi.
<<
Domani ti aspetto fuori dalla cabina di
Ermes alle otto in punto. >> Annunciò
semplicemente, prima di voltarsi.
<<
Cosa? >> Domandai, con aria sorpresa.
Si aspettava davvero che lo avrei fatto? Quel ragazzo doveva capire che
odiavo
prendere ordini. Più mi si imponeva qualcosa, più
io tendevo a fare l’esatto
contrario.
<<
Ordini dall’alto. >> Si strinse nelle
spalle, e poi si allontanò, con la mano stretta attorno
all’elsa della sua
spada, che spuntava dal fodero.
Osservai la sua
maglietta nera per un po’, finché
non sparì in mezzo agli alberi. Solo allora mi permisi di
sedermi per terra. In
quel momento avrei potuto piangere. Perché nessuno mi
avrebbe vista, e non
avrei fatto la figura dell’idiota. Ma non versai nemmeno una
lacrima. La gente
dice che piangere fa bene, aiuta a sfogarsi. Ma non è vero.
Se piangi vuol dire
che hai perso le speranze, che non hai più la forza per
affrontare la tua vita.
Che sei debole. E io non volevo essere debole. Avrei imparato a
difendermi e a
combattere. Chirone mi avrebbe aiutato a capire qualcosa di
più riguardo alla
mia natura e ai miei poteri. E Nico… Beh, Nico era Nico. Non
sapevo perché, ne
da dove nascesse quella sensazione, ma ero certa che mi capisse. Lui
sapeva
cosa stavo passando; forse era per quello che sembrava riuscire a
leggermi nel
pensiero senza alcuno sforzo. E di una cosa ero certa.
Mi
fidavo di lui.
NOTE
AUTRICE
Eeeeeccomi
qui a rompere, di nuovo. Allora, spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Finalmente qualcuno si decide a parlare con gli dei, che ovviamente non
ascoltano. Poi Drew sarebbe da prendere a bastonate, ma pazienza. Nel
prossimo
capitolo ci sarà un’altra mini-sorpresa. Grazie
mille ai miei fedeli recensori
e lettori, e a chi segue, preferisce o ricorda questa storia :3
Bacioni
|
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Capitolo 10 *** Chapter nine- Miss Independent ***
Chapter Nine-
Miss Independent
‘Cause she walk like
a boss,
Talk like a boss,
Manicure nails just
sent the pedicure off,
She’s fly
effortlessly,
An’ she move
like a boss,
Do what a boss.
Adrian
e la ragazza dai capelli d’argento sono nel bel mezzo della
tempesta. La sabbia
imperversa, spazzata da raffiche fulminee di vento. Non so nemmeno come
riesco
a vederli. Non so nemmeno dove mi trovo io, dove sia il mio corpo, la
mia
mente. Adrian si preme contro la ragazza, tenendola stretta. Forse ha
paura che
quel suo corpicino minuto potrebbe essere spazzato via da un momento
all’altro.
<<
Adrian! >> Grido, ma la mia voce si perde
nell’aria, insieme alla sabbia
infuocata. Improvvisamente i miei piedi toccano qualcosa di solido. Il
terreno.
E comincio a sentirli. Sento i granelli che mi feriscono, che cercano
di
entrarmi negli occhi per accecarmi. Incespico nei miei stessi piedi,
tentando
di non cadere. So che non devo cadere, altrimenti la sabbia mi
risucchierebbe.
<<
Lux! >> Urlo. E non so come faccio a sapere il nome di
quella ragazza.
Non ne ho la minima idea, ma sono sicura che si chiami così.
Perché i suoi
capelli argentei risplendono nella tempesta, e gli occhi di falco
scintillano.
Come una stella. Come la luce. Ma lei non si volta. Continua a
camminare
insieme al figlio di Nyx. E non posso fare niente per avvisarli.
Lo
vedo. Stanno andando dritti nelle braccia di quei mostri
dall’aspetto umano. Le
loro ombre emergono nella tempesta, come un presagio di morte. Sono in
tanti.
Sulla ventina. Io riesco a sentire i loro versi disgustosi, ma Adrian e
Lux
sembrano assordati dal rumore della sabbia che percuote i loro corpi.
<<
Lux! >> Sbraito, mentre la gola mi si riempie di granelli
roventi.
Comincio a tossire, inginocchiandomi. Vorrei alzarmi e correre verso di
loro,
ma non posso. Sento la sabbia sprofondare sotto di me. Grido di nuovo,
sperando
che mi sentano. Ma Adrian continua a trascinare Lux verso i mostri.
Dritti
nelle loro braccia.
<<
Adrian, no! >> Sbraito, ma è troppo tardi.
Prima
che il terreno si spalanchi sotto di me li sento gridare.
Non
ho fatto in tempo a salvarli.
<<
Genesis! Genesis, per gli dei! >>
Qualcuno mi stava scuotendo violentemente per le spalle. Sbattei le
palpebre, e
rimisi a fuoco il mondo. Tossii un paio di volte, sputando la sabbia
inesistente. Nico mi fissava con gli occhi spalancati. Avevo avuto una
visione.
Mi era sembrata molto più reale delle altre. Speravo
soltanto di non aver
cominciato ad urlare come una pazza nel bel mezzo dell’arena.
<<
Pensavo di doverti dare uno schiaffo.
>> Sbottò, facendo roteare la spada con la
mano. Deglutii, chinandomi a
raccogliere Gioiosa. Nico mi stava
insegnando a duellare. Non era decisamente male come spadaccino, ma non
si
poteva dire altrettanto della sua abilità
nell’insegnare. Si limitava a parare
i miei colpi senza fare assolutamente niente. Come se starsene
lì impalato mi
avrebbe aiutata. Strinsi l’elsa della mia arma con forza. Mi
avrebbe condotto
di nuovo alla realtà. Il cuore mi batteva ancora a mille, e
da un momento
all’altro mi aspettavo di veder comparire mostri di qualsiasi
tipo, e sabbia
ovunque. Per la prima volta, dopo tanti anni, avevo paura di una
visione.
<<
Scusa. Possiamo continuare. >>
Borbottai, massaggiandomi il collo con una mano. Attorno a me
l’arena era
perfettamente normale. Chirone stava visionando gli allenamenti dei
più
piccoli, mentre Percy spiegava ad un nutrito gruppo di undicenni come
maneggiare una spada senza mozzarsi la mano. Gli altri semidei si
addestravano
normalmente, chi con impegno, chi con svogliatezza. Non potevo
biasimarli. Le
spade erano pesanti come dei macigni. Mi faceva un male cane il braccio
sinistro, ma non l’avrei mai ammesso. Almeno non di fronte a
Nico.
<<
Hai
visto qualcosa, vero? >> Domandò lui, con le
braccia incrociate al petto.
Gli rivolsi un’occhiataccia. Poi spostai il peso del corpo
sul piede destro, e
mi lanciai in avanti. Nico parò il fendente, rischiando di
farmi perdere la
presa su Gioiosa. Un sorrisetto si
dipinse sulle sue labbra sottili.
<<
Come ti ho già detto, sei molto veloce. Ma
non abbastanza. >> Poi, per la prima volta dopo due ore,
fece un affondo,
che schivai per un pelo. Lo guardai con gli occhi strabuzzati,
abbassando lo
sguardo. Il mio pettorale era tagliato su un fianco. Aveva praticamente
rischiato di infilzarmi. Ringhiai, dandomi lo slancio con tutta la
forza che
avevo. Nico riuscì a fermare Gioiosa di piattone, ad un
centimetro dal suo
naso. Sorrisi, trionfante. Non gli avevo nemmeno fatto un graffio, ma
era
decisamente meglio dei risultati precedenti.
<<
Cosa hai visto? Dovresti dirmelo. Potrebbe
essere importante. >> Disse. Mi abbassai appena in tempo
per evitare un
fendente che mi avrebbe mozzato la testa. La situazione mi piaceva.
Finalmente
il figlio di Ade si stava dando da fare, e non mi trattava come una
bambina
incapace. Forse aveva capito che adoravo le sfide, e non mi tiravo mai
indietro. Davo il meglio di me quando c’era qualcosa in
palio.
<<
Vedo cose senza alcun senso. Non
significano niente. >> Risposi, provando con un affondo
laterale. Ancora
niente di niente. Però i miei movimenti erano diventati
più fluidi. Maneggiare
la spada non era più così difficile.
<<
Le cose senza alcun senso significano guai.
Credimi. >>
Asserì a mezza
voce. Poi con un colpo fulmineo colpì Gioiosa. Il mio polso
si piegò, come
fatto di burro, e la spada volò a qualche metro di distanza,
rischiando di
colpire in pieno un piccolo figlio di Apollo. Strinsi i denti. La
situazione
stava diventando davvero frustrante. Ma se non potevo combattere con
una lama,
l’avrei fatto con il corpo. Alzai il braccio, con il pugno
chiuso.
<<
Cosa credi di fare? >> Nico mi
afferrò il polso, a pochi centimetri dal suo volto. Dannazione. Perché riusciva
sempre ad anticiparmi? Perché Eris non
mi dava una mano? Poteva, non so, fargli cadere in testa una pesante
mela
d’oro. L’avrebbe steso, e io mi sarei presa il
merito. Genesis Hale riesce a sconfiggere
Nico Di Angelo. Un evento che
sarebbe stato ricordati dai posteri. Tentai di mollargli un pugno con
l’altra
mano, ma niente da fare.
<<
Non riesci nemmeno a sfiorarmi con la spada
e vuoi sconfiggermi in un corpo a corpo? >>
Domandò, con un ghigno che
gli si formava sulla faccia. Sbuffai dal naso, inferocita. Quel ragazzo
aveva
l’irritante potere di riuscire a farmi saltare i nervi. In un
angolo recondito
e oscura della mia mente, una vocina sussurrava di soggiogarlo,
maligna. Ma non
l’avrei mai fatto. Avevo deciso che avrei fatto ricorso al
mio… potere soltanto
in caso di estremo pericolo. Senza
contare il fatto che sarei sicuramente svenuta sul posto. Meglio
risparmiare le
energie. Alzai lo sguardo, fissando i miei occhi nei suoi.
Sembrò sorpreso.
<<
Perché non fai la tua magia? >>
Chiese, con un tono a metà tra il serio ed il sarcastico.
Non distolsi lo
sguardo, e non sbattei le ciglia nemmeno una volta. Forse se gli avessi
fatto credere
di volerlo soggiogare avrebbe abbassato la guardia. Ghignai, mentre la
presa
sui miei polsi si allentava di poco. Fu un attimo, ma bastò
perché
contrattaccassi. Feci lo sgambetto a Nico, che perse
l’equilibrio, cadendo
all’indietro. Sfilai la sua spada dai passanti della cintura,
ma lui riuscì ad
afferrarmi per un braccio, e rovinammo a terra insieme.
<<
Ah! >> Esclamai, trionfante.
Chi
ha vinto ora, Di Angelo?
La lama era
puntata alla sua gola, mentre il mio
braccio era premuto sul suo petto, per tenerlo fermo. Se non fossi
stata per
terra mi sarei sicuramente messa a ballare. Nico sembrava divertito.
Avrebbe
potuto liberarsi in pochi secondi, ma non lo faceva. Mi piacque pensare
che in
realtà ero troppo forte per lui e non riusciva nemmeno a
muovere un muscolo. Sì, come no.
<<
Tutto qui? Non cerchi nemmeno di liberarti?
>> Domandai, facendo una smorfia. Le mie ginocchia nude
sfregavano sullo
sterrato, sbucciandosi. Mi resi conto solo in quel momento della
posizione
piuttosto… compromettente in
cui
eravamo finiti. Praticamente ero a cavalcioni sul suo bacino, con le
gambe che
stringevano ai lati delle sue cosce. Abbassai la testa, in modo che i
capelli
ricadessero dalle spalle e mi coprissero le guance, diventate bordeaux.
<<
Non si rubano le armi degli altri. >>
Si limitò a bofonchiare, guardandomi dal basso. Poi, con uno
scatto repentino,
mi piegò il polso, riappropriandosi della sua spada. Mi
ritrovai distesa sulla
schiena dopo due secondi, con la testa che mi girava per il cambio
veloce di
posizione. Poi Nico mi tirò in piedi, per un polso.
<<
Il tentativo è apprezzabile. >>
Sorrise. Eravamo talmente vicini che riuscivo a vedere le venature
grigiastre
nei suoi occhi scurissimi. Deglutii. Eravamo davvero troppo
vicini.
<<
Nico! >> Oh, grazie agli dei. O
forse grazie a Percy. Il figlio di Poseidone
aveva il fiatone, e il viso tutto rosso. Gesticolava forsennatamente,
non
riuscendo ad articolare nemmeno mezza parola.
<<
Devi venire alla casa grande, subito. Tu
non hai idea… >> Ansimò, portandosi
una mano al petto. Quella mattina non
si era fatto la barba. Storsi il naso. Non volevo essere Annabeth
quando lo
baciava, si sarebbe punta tutte le guance.
<<
Sì, arrivo. >> Mi lanciò uno
sguardo
veloce prima di voltarsi. Pensava davvero che non l’avrei
seguito? Dovetti
quasi correre per stare al passo di quei due, ma la cosa sembrava
davvero
piuttosto importante. Che avesse a che fare con la mia visione? Magari
Rachel
aveva finalmente pronunciato la profezia, o era successo qualcosa di
grave che
avrebbe messo in pericolo il Campo, oppure… Sentii un tuffo
al cuore.
Nel cortile
della casa grande, accanto a Chirone e
il Signor D., c’era lei.
Lux.
Con i jeans a
sigaretta, una canottiera nera e
attillata, l’arco sotto braccio e le frecce dietro alla
schiena. La lunga
treccia argentea le ricadeva sulla spalla, e gli occhi di falco
sembravano
sorridere. Il suo sguardo si soffermò su di me per un
secondo, ma saettò
repentinamente da un’altra parte. Si puntò su
Nico, che sembrava avere appena
visto un fantasma. Il ragazzo aprì la bocca, mimando
qualcosa con le labbra,
poi lasciò cadere la spada. Rimase immobile per qualche
altro istante, poi
raggiunse Lux con tre rapide falcate, e la abbracciò. La
abbracciò come se non
la vedesse da anni, come se gli fosse mancata terribilmente, come se
avesse
creduto di non rivederla mai più. Una strana sensazione si
affacciò alla bocca
del mio stomaco, facendomi irrigidire la mascella.
<<
Nico… Non respiro… >>
Rantolò lei, ma
le sue braccia erano avvolte attorno alle schiena del ragazzo. Lo stava
abbracciando, con slancio e trasporto. Altra fitta alla bocca dello
stomaco.
<<
E’ davvero bello rivedere tutti quanti, ma
dovrei parlare con lei. >> Il suo dito indice puntava
verso di me.
Deglutii. Mi sentivo persino più osservata del solito.
Quando mi fu davanti
riuscii a vederla bene per la prima volta. Era bella, bellissima. Con
la pelle
ambrata e i tratti regali. Gli occhi dorati risaltavano come due
fanali,
contornati da folte ciglia scure. Per non parlare dei capelli, talmente
chiari
da sembrare d’argento.
<<
Io mi chiamo… >>
<<
So chi sei. >> La interruppi.
<<
Ti chiami Lux. Lux Atkin.
>>
<<
Quindi sei figlia di Lete. >> Ripetei
per la millesima volta. Lux ed io eravamo in spiaggia, sedute sulla
sabbia. Lei
non aveva perso tempo. Si era fatta prestare un costume da una figlia
di
Afrodite e stava prendendo il sole in tutta tranquillità.
Ovviamente aveva un
fisico da far invidia a quello di una modella, cosa mi aspettavo.
<<
E sei scappata dal campo due anni fa.
>> Continuai. Lux mi aveva detto tutto quanto. Di come
due anni prima se
ne fosse andata senza spiegazioni, di come fosse riuscita a
sopravvivere per
strada e ad entrare in contatto con suo padre, il dio del fiume Lete.
Aveva
sedici anni, come me. Non riuscivo ad immaginarmela da sola a
combattere contro
i mostri. Sembrava troppo delicata anche solo per sopravvivere ad una
notte in
campeggio. Ma guardandola negli occhi si capiva di che pasta era fatta.
<<
Ti ho tenuta d’occhio, lo sai? Me l’ha
detto mio padre, che siamo destinate a qualcosa di importante.
>> Spiegò,
stringendosi nelle spalle. Già, me l’avevano detto
in tanti. Soltanto che
nessuno mi aveva chiesto cosa volessi io. Perché tutto
quello che desideravo
era una vita tranquilla a New York, le estati passate a divertirmi al
Campo.
Poi sarei andata a studiare genetica ad Harvard, mi sarei laureata.
Avrei
trovato l’uomo della mia vita e avrei messo su famiglia.
Sarei morta circondata
dall’affetto dei miei cari. Ma erano soltanto sogni ad occhi
aperti, e lo
sapevo benissimo.
<<
Sai cosa succederà? >> Sussurrai,
sciogliendomi i capelli, prima legati in una disordinata coda di
cavallo. Lux
mi lanciò uno sguardo di sottecchi, sfiorando
l’orlo del bikini con un dito,
pensierosa.
<<
Mio padre crede che nel Tartaro ci sia
qualcosa che non va, ma non riesce a capire. Sostiene che Circe abbia
fatto un
incantesimo per nascondere la verità. >>
Cominciò, con le parole che le
scivolavano lentamente fuori dalle labbra. Appoggiai i gomiti alla
sabbia,
godendomi il calore del timido sole di settembre. Mi sarebbe piaciuto
fingere
di essere in spiaggia a chiacchierare con una nuova amica.
<<
Com’è possibile che gli dei non
percepiscano il risveglio di Chaos? Non dovrebbero controllare anche il
Tartaro, o cose del genere? >> Domandai, lasciando
scivolare qualche
granello tra le dita dei piedi nudi. Lux scosse la testa.
<<
Il Tartaro è terra di nessuno, e se Circe
ha davvero fatto un incantesimo è molto probabile che anche
gli dei stessi
siano all’oscuro di tutto. >> Storse il naso,
scrollando le spalle. Era
evidente che anche lei era confusa quanto me.
<<
Però tu sai qualcosa, non è vero?
>>
<<
So che tu hai delle visioni. Mi vedi.
>> Asserì, sicura. Annui, lanciandole
un’occhiata di sottecchi.
<<
Vedo te, Nico e Adrian. >> Elencai. Ancora
non riuscivo a capire cosa centrasse il figlio di Nyx. Su di lui non
era stata
pronunciata alcuna profezia, ma poi mi ricordai che Rachel non aveva
speso
alcuna parola nemmeno su di me.
<<
Siamo i prescelti per fermare Chaos.
>> Spalancai gli occhi nell’esatto momento in
cui Lux pronunciava quella
frase maledetta. Non avrebbe dovuto farlo. Perché quelle
parole erano
nell’aria, ma
non ero ancora pronta per
sentirle. Improvvisamente mi ritrovai il peso di tutto il mondo sulle
spalle.
Se i miei incubi e le visioni si fossero rivelati la
realtà… Beh, l’umanità
sarebbe stata molto vicina all’estinzione.
<<
Non sappiamo nemmeno se stia succedendo sul
serio. E senza una vera e propria profezia… >>
Scossi la testa.
<<
Non possiamo fare niente. >> Concluse
Lux per me. Mi sentivo come sull’orlo di un precipizio. Avrei
potuto fare un
passo indietro, e fingere che non stesse succedendo niente, oppure
buttarmi nel
vuoto, e andare incontro al mio destino. Ma la scelta più
facile non era quella
giusta.
<<
Ma perché noi? Intendo, Nico è figlio di
Ade. E’ potente. Ma tu… io?
>>
Allargai le braccia. Lux mi guardò, divertita.
<<
Io sono in grado di rubare i ricordi,
Genesis. Qualsiasi ricordo. Potrei guardare in faccia un uomo e fargli
dimenticare come si parla, o come si cammina. E da quanto ho sentito tu
non sei
da meno. Nico mi ha raccontato quello di cui sei capace.
>> Disse, a
mezza voce. Nico le aveva parlato di me?
<<
Sembrava molto felice di vederti. >>
Commentai, con la voce più velenosa di quanto volessi. E di
nuovo quella
strana sensazione
alla bocca dello
stomaco, e la voglia di prendere a pugni il bel faccino di quella
ragazza.
<<
Stare qui a fare niente mi fa sentire
impotente. >> Sbottò, ignorando la mia
affermazione. Beh, non aveva tutti
i torti. Nonostante avessi il terrore di ciò che il futuro
avrebbe potuto
riservarmi, non sopportavo la finta
“tranquillità” degli ultimi giorni.
<<
Penso che dovremmo goderci la pace, finché
dura. >> Borbottai, fissando il vuoto. Una scintilla di
inquietudine
illuminò gli occhi di falco della figlia di Lete, che si
alzò in piedi di
scatto.
<<
Vado a farmi un bagno. >> Disse,
stiracchiandosi. La guardai dal basso, stupita. Poi la osservai
tuffarsi in
acqua, con eleganza. Abbassai gli occhi, fissando con aria assente la
sabbia
cosparsa sulle mie mani.
In quel momento
sembrava del tutto innocua.
Ma io sapevo
benissimo che non era così. Poteva
radere al suolo un’intera città, spazzare via la
civiltà. Nascondere i segreti
più oscuri.
Uccidere.
NOTE
AUTRICE
Taaaaaaaa-daaaaaaan
*rullo di tamburi*, abbiamo scoperto chi è Lux! Adesso non
resta che convincere
gli dei. Riusciranno i nostri eroi nella loro ardua impresa? Lo
scopriremo
nella prossima puntata. Grazie mille per aver letto il capitolo, e come
al
solito ringrazio i miei fedeli recensori, chi segue, preferisce e
ricorda
questa storia!
Bacioni
:3
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Capitolo 11 *** Chapter ten- Bleeding Out ***
Chapter Ten-
Bleeding Out
When
the day has come
But I’ve
lost my
way around
And the seasons
stop and hide beneath the ground
When the sky turns
gray
And everything is
screaming
I will reach inside
Just to find my
heart is beating
Ricapitolando:
a)
Sono
a New York.
b)
Sono
a New York con Nico Di Angelo.
c)
Nico
Di Angelo mi ha appena offerto
un gelato.
Appoggiai i
gomiti al bancone del bar, passandomi
una mano tra i capelli. Lanciai un’occhiata preoccupata
all’orologio da parete
attaccato di fronte a me. Erano le cinque e mezza del pomeriggio. Entro
le
sette saremmo dovuti ritornare al campo mezzosangue, altrimenti il
“piano”
sarebbe andato a monte. Quella mattina ero stata buttata giù
dal letto da un
Trevis più iperattivo del solito, che mi aveva comunicato in
meno di
trentacinque secondi che quel giorno era il compleanno di Nico, ma con
lui tra
i piedi era impossibile organizzargli la festa a sorpresa,
perciò dovevo
trovare il modo di distrarlo. Avevo impiegato un’ora e mezza
per convincerlo ad
accompagnarmi a “fare shopping in città”
perché “ti prego, Nico,
sai che mi odiano tutti, sei l’unico che non ha paura
di me”. Avrei voluto tanto darmi un migliaio di
botte in testa, perché mi
ero comportata da bambinetta capricciosa, ma era l’unico modo
perché si
decidesse a dirmi di si.
<<
Non ti ho mai vista qui, prima. >> Mi
voltai di scatto. Un ragazzo biondo mi sorrideva. Era abbronzato, e
indossava un’uniforme
scolastica, con la cravatta annodata male. Doveva avere più
o meno la mia età.
<<
New York è una grande città. >> Mi
strinsi nelle spalle, ma ricambiai il sorriso. Lui era piuttosto
carino. Si
grattò la testa, quasi imbarazzato. Lasciò
scivolare lo zainetto su una spalla
sola, poi appoggiò un braccio accanto al mio, sul bancone.
<<
Beh, vengo qui tutti i giorni da più o meno
due anni, e mi sarei ricordato di te. >> Mi
lanciò un’occhiata birichina.
<<
Credimi.
>> Aggiunse poi, e mi squadrò da
capo a piedi, senza curarsi troppo
del fatto che sembrasse un maniaco. Mi sentii arrossire
istantaneamente. Poi
ridacchiai come un’idiota, cercando disperatamente qualcosa
da dire. Ero una
vera frana con i flirt. Nessun ragazzo mi aveva mai abbordata in quel
modo.
Anzi, nessun ragazzo mi aveva mai
abbordata. Nelle scuole che avevo frequentato il popolo maschile
preferiva le
cheerleader alle sfigate con le visioni.
<<
Mi chiamo Genesis, piacere di conoscerti.
>> Gli strinsi la mano, con insolita sicurezza. I suoi
occhi erano di un
bel castano scuro, ma niente a che vedere con quelli di Nico. Stop. Perché stavo pensando a
Nico?
<<
Mattew, il piacere è tutto mio. >> La
sua mano indugiò a lungo nella mia. Sorrisi come
un’ebete. Dovevo sembrare una
ragazzina alla sua prima cotta, così raddrizzai le spalle e
mi schiarii la
gola, trasformandomi in una donna vissuta ed esperta. Ma
chi volevo prendere in giro?
<<
Sei qui da sola? Perché sarei davvero
contendo di offrirti un caffè, o un frappè.
Insomma, quello che vuoi! >>
Esclamò, sbattendo le ciglia. Oh, ma ci stava davvero
provando? Insomma. Un
ragazzo carino ci stava provando. Con me.
Volevo dirgli che in realtà c’era Di
Angelo nei paraggi, che non avevo
tempo per un caffè e che non saremmo mai potuti uscire
insieme, perché quasi
sicuramente sarei stata braccata da mostri vari e avrei potuto avere
una
visione nel bel mezzo del Central Park, ma non lo feci. Che male
c’era a
desiderare di volersi sentire normale, almeno
per un momento? Aprii
la bocca, per
dirgli che mi avrebbe fatto molto piacere, ma qualcuno mi precedette.
<<
No, non è qui da sola. E no, tu non le
offrirai proprio niente. >> La voce di Nico mi fece
rizzare i peli sulle
braccia. Digrignai i denti.
<<
Scusalo, oggi è di cattivo umore. >>
Sorrisi, in direzione di Mattew, poi mi voltai verso il figlio di Ade,
che
teneva in mano un frullato alla fragola e un cono due gusti cioccolato
e
nocciola, come gli avevo chiesto. Mi piazzò in mano il
gelato, poi posò il
bicchiere sul bancone, lanciando al povero malcapitato
un’occhiata che avrebbe
ammazzato un piccione in volo.
<<
Non sapevo che avessi il ragazzo. >>
Commentò Mattew. Non capivo se fosse spaventato o
arrabbiato. Forse un po’
tutte e due. Sorrisi, pestando un piede a Nico. Come si permetteva di
rovinarmi
il flirt?
<<
Non è il mio ragazzo. Siamo soltanto…
>> Mi bloccai. Cosa eravamo noi due? Amici? Conoscenti?
Non ne avevo la
minima idea.
<<
Amici? >> Suggerì il biondo, con aria
più rilassata. Tirai un mezzo sospiro di sollievo, felice
che non fosse scappato
a gambe levate. Non sarebbe stato carino abbandonare Nico nel giorno
del suo
compleanno, e non volevo farlo. Ma procurami il numero di quel tipo non
mi
sembrava un reato punibile con la pena di morte.
<<
Ascolta, se oggi sei impegnata posso
lasciarti il mio numero, così ci si sente più
tardi. >> Suggerì Mattew,
allargando le braccia.
<<
Oh, sarebbe… >>
<<
Una pessima idea. >> Sibilò il
ragazzo dietro di me, afferrandomi per un polso. Provai a divincolarmi,
ma lui
era troppo forte. Fui tentata di rovesciargli il frappè in
testa, ma non avevo
voglia di scatenare una lite furibonda in un bar nel centro di New
York.
<<
Amico, stai tranquillo, non sono un
maniaco. >> Provò a difendersi Mattew, alzando
le mani in segno di resa.
La presa sul mio polso non fece altro che stringersi. Magari avrei
potuto
estrarre Gioiosa dallo zainetto, e
dare una botta in testa a Nico con il piattone. Chissà cosa
avrebbero visto gli
umani. Magari io che picchiavo un tipo dall’aria inquietante
con una mazza da
baseball.
<<
Genesis, dobbiamo andare. >> Si
limitò a ringhiare il figlio di Ade. Poi, prima che potessi
scusarmi o dire
qualcos’altro, mi trascinò via, afferrando il suo
frappè con la mano libera. Mi
lasciò andare soltanto quando fummo sul marciapiede, lontani
dall’entrata del
bar. Assaggiai il mio gelato, cercando di non farlo sciogliere tra le
mie mani.
Poi mi piantai davanti a Nico, assumendo un’aria feroce. Per
quanto me lo
permettesse il cono che avevo tra le mani, ovviamente.
<<
Ma sei impazzito?
Quel ragazzo era carino! Voleva soltanto scambiare due parole, e tu
l’hai fatto
spaventare. >>
Sbottai, con voce
un po’ troppo alta. Nico mi guardò
dall’alto, incrociando le braccia al petto.
Poi ghignò.
<<
Scambiare due parole? Mi prendi in giro?
>> Domandò, sarcastico. Inarcai un
sopracciglio.
<<
Quel tizio ti fissava come se fossi un
pezzo di carne dal macellaio. Ci mancava poco e ti avrebbe sbavato addosso. >>
Ringhiò, con cattiveria. Poi sorseggiò un
po’ della sua bevanda, con espressione truce. Dovevamo
sembrare ridicoli.
<<
E anche se fosse? Saremmo potuti uscire
insieme, e poi… >>
<<
Oh, ti prego, Genesis. Era un mortale.
Credi davvero che saresti potuta uscire con lui? Non so se te ne sei
accorta,
ma non fai più parte di quel mondo!
>> Esclamò, scuotendo la testa. Socchiusi gli
occhi, ma poi abbassai lo
sguardo. Sapevo che lui aveva ragione. Non potevo mettermi con un
umano, e
anche solo farci amicizia sarebbe stato pericoloso per entrambi.
<<
Scusa se per una volta ho provato ad essere
normale. >> Sputai
tra i denti.
Poi girai i tacchi. Speravo con tutto il cuore che Nico non mi
seguisse, ma in
due falcate mi aveva già raggiunta. Alzai la testa,
orgogliosamente.
<<
Central Park è dall’altra parte, ragazzina.
E poi non dirmi che ti sei offesa. >> Il suo tono era
quasi divertito.
Fissai il cielo, come per chiedere aiuto agli dei. Però mi
bloccai, evitando di
fare la figura dell’idiota. La mia teatrale uscita di scena
era stata
indubbiamente rovinata.
<<
Certo che mi sono offesa, mi hai rovinato
il flirt! >> Esclamai, passandomi una mano tra i capelli.
Nico alzò gli
occhi al cielo, poi mi affiancò. Dovevamo sembrare proprio
una coppia strana.
Nonostante fosse ancora il cinque settembre- perciò faceva
caldo- lui indossava
i jeans neri strappati, un
giubbino di
pelle che mi sarei messa soltanto in inverno inoltrato e pesanti anfibi
ai
piedi. Io, invece, avevo una semplice canottiera bianca e un paio di
shorts da
battaglia, di quelli che si comprano al mercatino dell’usato
per qualche
dollaro.
<<
Non ti chiederò scusa, se è questo che
vuoi. >> Ribatté, risoluto. Oh,
ma
sentitelo un po’.
<<
E’ quello che fanno le persone normali.
>> Sibilai. Per colpa sua non stavo nemmeno riuscendo a
gustarmi quel
buonissimo e dolce gelato, che si stava rapidamente squagliando sulla
mia mano.
<<
Primo, non sono normale. >> Cominciò,
alzando il pollice.
<<
Secondo, non mi dispiace, perciò non vedo
il motivo per cui dovrei scusarmi. >> Concluse,
soddisfatto delle sue
argomentazioni. Fui tentata di strozzarlo, ma non mi sembrava il caso,
nel bel
mezzo di New York. Avevo detto a Trevis che ero la persona meno
indicata per
uscire con Nico. Per un momento avevo pensato di chiedere a Lux di
prendere il
mio posto, ma poi era tornata la brutta sensazione alla bocca dello
stomaco. Al
solo pensiero di lei e il figlio di Ade in giro per Manhattan mi veniva
voglia
di picchiare qualcuno.
<<
Lascia perdere. >> Mi limitai a
borbottare. Il Central Park distava più o meno venti minuti
di cammino. Venti
minuti che passarono in assoluto silenzio. Stranamente,
però, non era uno di
quei silenzi tesi ed imbarazzanti. Era più una specie di
momento di riflessione
per entrambi. Ognuno era immerso nei suoi pensieri.
Avrei
tanto
voluto parlare di qualcosa, perché il mio cervello
continuava a settarsi sulla
modalità “Risveglio di
Chaos” e
“Profezie e imprese.”, “Apocalisse”
e via dicendo. Con mia
enorme sorpresa mi trovai a rimpiangere la mia vecchia vita. Di cosa mi
lamentavo? Di Mark che mi faceva i dispetti e di mio padre che si
mostrava
freddo nei miei confronti? Mi venne da ridere e da piangere allo stesso
tempo.
Non sentivo Peter Hale da cinque giorni, eppure mi sembrava passata
un’eternità. Osservai una coppietta felice che si
teneva per mano, poi una
madre che trascinava sua figlia lontano dalla strada, sgridandola per
essere
scesa dal marciapiede. Io non sarei mai stata quella madre, molto
probabilmente. Non sapevo nemmeno se sarei vissuta abbastanza da
compiere i
miei diciassette anni, o da innamorarmi e avere dei bambini. Una vita
normale. Lanciai
un’occhiata di sottecchi a Nico. A volte lo ammiravo per la
sua forza. Dopo
tutto quello che aveva passato riusciva ancora a trovare il coraggio
per andare
avanti.
<<
Come fai? >> Domandai, senza quasi
nemmeno accorgermene. Il ragazzo mi guardò.
<<
Riesci a non farti scalfire da niente.
>> Continuai, a mezza voce. Lui sorrise. Un sorriso
amaro.
<<
Otto anni di esercizio. >> Rispose,
stringendosi nelle spalle. Varcammo il cancello di Central Park senza
accorgercene. Alle sei e venti avremmo preso il pullman per tornare a
Long
Island, perché Nico era stanco, e non era sicuro di riuscire
a trasportare
entrambi con un viaggio nell’ombra, fino al Campo. Aprii la
bocca per parlare,
ma le parole mi si bloccarono in gola. Mattew se ne stava appoggiato al
tronco
di un albero, e mi fissava. Sorrideva, come uno che la sa lunga.
Inarcai le
sopracciglia.
<<
Vuole davvero essere picchiato? >>
Chiese Nico, sbuffando. Il biondo ci fece un cenno con la testa,
invitandoci a
raggiungerlo. Il figlio di Ade ed io ci scambiammo
un’occhiata. Poi ci
dirigemmo verso Mattew. Dovevo piacergli proprio tanto. Magari ci aveva
seguito
per tutto il tempo, o forse ero troppo egocentrica, e lui aveva
semplicemente
scelto di passare un pomeriggio al parco.
<<
Non c’è bisogno che tiri fuori la spada,
Nico. >> Sorrise Mattew, facendoci
l’occhiolino. Nico strabuzzò gli
occhi. Poi il sedicenne biondo che ci trovavamo davanti scomparve,
lasciando il
posto ad un ragazzo sui venticinque, molto più bello e molto
più abbronzato. E
biondo. Davvero tanto biondo.
L’avevo
già visto nella sala del trono, sull’Olimpo. Era
Apollo.
<<
Miglioro di giorno in giorno con i
travestimenti, lo so. >> Alzò i pollici,
passandosi una mano tra i
fluenti capelli color oro.
<<
Divino Apollo. >> Nico sembrava
accigliato, e preoccupato. Beh, non lo biasimavo. Aveva rischiato di
scatenare
una rissa con un dio. Il dio del sole, ma pur sempre un dio.
<<
Ho scritto un haiku per questa occasione,
volete… >>
<<
No, grazie. >> Lo interruppi, un po’
troppo bruscamente. Ero piuttosto irritata. Pensavo di piacere davvero
a
“Mattew”. Invece Mattew era uno stupido dio che si
divertiva un mondo a
prendermi in giro, probabilmente perché non aveva il
permesso di parlare con
me, perciò era dovuto ricorrere ad uno stratagemma per
sfuggire agli occhi
vigili di quell’isterico di suo padre. La vita era ingiusta.
<<
Come vuoi. >> Apollo si strinse nelle
spalle. Poi frugò nelle tasche, estraendo un piccolo
contenitore di plastica.
Sembrava quello per le pastiglie.
<<
Non ho molto tempo, ma voglio aiutarvi. Gli
dei pensano che sia una cattiva idea interagire con voi in questo
momento, ma
non mi interessa. >> Sorrise, smagliante. Almeno Apollo
era un gran figo,
senza ombra di dubbio.
<<
Non potevi inviarci un messaggio iride?
>> Chiese Nico, con le braccia incrociate al petto. La
sua maschera
imperturbabile era tornata a coprigli il viso. Se era spaventato, in
quel
momento, non lo dava affatto a vedere.
<<
Nah, troppo rischioso. E poi mi sono
divertito di più così. Comunque, Genesis,
c’è un motivo per cui tu e Rachel
siete collegate. >> Tagliò corto. Deglutii.
Volevo davvero sapere perché?
<<
Me lo chiese tua madre, perché tu fossi
preparata a ciò che ti aspettava. Con l’aiuto di
Circe preparammo un
incantesimo, attraverso il quale i mostri non avrebbero sentito il tuo
odore, e
il collegamento con l’Oracolo si sarebbe presentato solo al
momento giusto.
>> Sparò tutto d’un fiato. Spalancai
la bocca, incapace di parlare.
Apollo sapeva già che io e Rachel eravamo collegate? E
perché aveva accettato
di aiutare mia madre? Non riuscivo a capire.
<<
Ma… Mia madre era stata bandita, perché hai
deciso di aiutarla? >> Sussurrai, quasi per paura che
qualcuno mi
ascoltasse. Apollo scosse la testa, per dirmi che quello non era il
momento
giusto per parlarne. Ogni volta che scoprivo qualcosa, le domande
quadruplicavano.
<<
Non posso dirti molto altro, soltanto che
credo ad Eris perché… Rachel mi ha detto delle
visoni, quelle che condivide con
te. Sto cercando di convincere gli altri dei… Ma non
è facile. Per niente.
>> Si passò una mano tra i capelli, mostrando
i bicipiti gonfi e
dolcemente scuriti dalla luce del sole.
<<
Ma a te devono
credere. Che motivo avresti di mentire? >> Intervenne
Nico, scuotendo la
testa. Sbuffò, scostandosi dalla fronte una ciocca di
capelli color del
petrolio.
<<
Gli dei sono diffidenti per natura. Se non
agisco con cautela penseranno che io sia passato dalla parte di Eris.
Che io
sia un traditore. >>
Spiegò.
Non mi era difficile immaginare che il resto del consiglio non gli
avrebbe
creduto. Ero stata nella sala del trono per nemmeno mezz’ora,
eppure avevo
capito di cosa erano capaci gli dei.
<<
Quindi… Le visioni non sono mie, ma di
Rachel? >> Domandai, mordendomi un labbro.
<<
Esattamente. E lei le condivide attraverso
il vostro collegamento, senza accorgersene. >>
Annuì Apollo. Sospirai.
Almeno quel mistero era chiarito. Restava soltanto da capire per quale
motivo
mia madre sapeva già ciò che sarebbe successo, e
come mai Circe aveva accettato
di aiutarla. Mi sentii girare la testa. Troppe domande e troppe poche
risposte.
<<
Devo andare adesso, si sono accorti che
manco. >> Alzò gli occhi al cielo. Poi mi mise
in mano il contenitore di
plastica. Magari custodiva informazioni top-secret che ci avrebbero
permesso di
fare un po’ di luce su quell’intricato mistero. Mi
sembrava di dover sciogliere
un nodo complicato. Uno di quelli in cui basta trovare
l’estremità del filo, e
tirare. Ma io non sapevo dove si trovava
quell’estremità, né se avrei avuto la
forza per riuscire a
tirare.
<<
Devi proteggerla, Nico. >> Apollo si
rivolse al figlio di Ade, la cui bocca era distesa in una linea
sottile.
Impiegai un po’ per capire che si stava riferendo a me.
<<
E buon compleanno! >> Ammiccò. Poi
scomparve, così come aveva fatto Eris. Battei un piede per
terra, frustrata.
Aprii il palmo della mano, osservando la boccetta che mi aveva
consegnato.
XANAX,
COMPRESSE.
Non sapevo se ridere o
piangere. Mi aveva regalato
un contenitore di pasticche per gli attacchi di panico. Ma mi stava
prendendo
in giro? Srotolai il biglietto avvolto attorno alla boccetta.
Prendine un paio quando
la paura diventa ingestibile. Ti
serviranno.
La calligrafia
era pulita e ordinata. Chi si credeva
di essere? Il mio dottore? Fui tentata di scagliare via le pastiglie,
ma mi
bloccai. Mi bloccai, ripensando a quando avevo avuto
l’attacco di panico al
falò. Alla sensazione di annegare, alla sensazione che il
mondo continuasse a
muoversi senza lasciarmi via di scampo, e che i miei polmoni non
fossero più in
grado di svolgere il loro compito. Non volevo più sentirmi
così. Impotente,
debole.
<<
Dovremmo tornare al campo. >> Mormorò
Nico, con lo sguardo perso nel vuoto. Annuii, sospirando.
C’era
una festa a sorpresa a cui partecipare.
L’orologio
vicino allo specchietto retrovisore segna le ventitré e
trenta. Mark sembra di
cattivo umore, mentre mastica a bocca aperta la sua gomma alla fragola.
Sono le
sue preferite. Gli tocco un braccio, ma lui rimane fermo. Non si
accorge che
sono lì. Nemmeno il taxista lo fa. Ai loro occhi sono
invisibile.
<<
Scendi subito. Devi scappare. >> La voce di Rachel mi si
insinua nel
cervello. Lo so. So che sono in pericolo, lo sento fin nelle ossa.
Provo ad
aprire la portiera, ma le mie dita sembrano fatte di fumo. Il
conducente suona
sul clacson, sbuffando. Siamo intrappolati nel traffico di New York.
Batto sul
finestrino, ma nessuno si accorge di me.
Devo
scappare, devo scappare. Morirò. Morirò se non
scappo.
<<
Ci vuole ancora molto? >> Borbotta il mio fratellastro,
irritato. Adesso
sono le ventitré e trentatré, sta per succedere
qualcosa di brutto.
<<
Vattene subito! >> Strilla la voce. Le lacrime mi bagnano
le guance.
<<
Non posso! >> Grido, disperatamente. Prendo a gomitate la
portiera, ma
non succede niente. Scalcio, contro al vetro del finestrino, ma non
faccio
altro che ferirmi i piedi. Salto addosso a Mark, ma lui non mi sente.
Non può
sentirmi. Sono fatta di fumo, non esisto.
Ventitré
e trentasei. Il
taxista apre la bocca
per parlare, ma si interrompe.
Una
raffica di vento gelido penetra nella vettura. I finestrini esplodono
in una
pioggia di schegge. Sta cominciando. Mark urla, coprendosi la testa. La
sabbia
lo colpisce negli occhi, mentre io mi lancio fuori dal taxi.
Atterrò sul
cemento, e improvvisamente riesco a sentire di nuovo. Il sangue che mi
cola
dalle dita tagliate, il dolore alla spalla su cui sono caduta. E poi la
sabbia.
Sono
le ventitré e trentasette.
E’
così che segna l’orologio di un grattacielo di cui
non mi ricordo il nome.
Non
riesco ad alzarmi in piedi, perché il mostro rosso mi ha
afferrato una
caviglia. Tendo le mani verso Mark, che sta scappando. Lui mi guarda.
Continua
a fissarmi, con occhi vitrei. Poi se ne va, di corsa. Grido con tutto
il fiato
che ho in gola.
Sono
le ventitré e
trentanove.
Un
anziano signore viene risucchiato dalla sabbia.
Ventitré
e quaranta; un’esplosione sconquassa New York.
E’
l’inizio della fine.
Chaos
si è risvegliato.
Spalancai gli
occhi, con il respiro incastrato in
gola. L’autobus si fermò con uno scossone, ma io
non mi mossi. La mia testa era
appoggiata alla spalla di Nico. Mi ero addormentata durante il viaggio
verso
Long Island.
<<
Stai piangendo. >> Disse il ragazzo.
Sentivo le guance bagnate di lacrime, e un peso esattamente al centro
del
petto. Feci una smorfia. Almeno non mi ero messa ad urlare in mezzo a
tutta
quella gente. Sollevai la testa, asciugandomi il volto con
l’orlo della canottiera.
<<
Era soltanto un incubo. >> Sussurrai,
ma la mia voce era ancora spezzata. Quel sogno mi era sembrato
più reale dei
soliti. Come se fossi davvero in quel taxi, ma nessuno riuscisse a
vedermi.
Come se una parte di me fosse volata fino a laggiù, mentre
il mio corpo
rimaneva da qualche altra parte. Mi guardai le mani. Niente sangue,
niente
tagli. Ma bruciavano ancora.
<<
Non è mai soltanto un
incubo, Genesis. >> Commentò il figlio di Ade.
Sentivo il suoi occhi su di me, ma non avevo il coraggio di alzare la
testa.
Aveva ragione. Non avevo mai fatto un sogno così preciso, e
mi ricordavo tutto
quanto. L’orario dell’orologio sul taxi, quello del
grattacielo… E la data. Il
cinque settembre. Quel giorno. Significava qualcosa? Perché
se Apollo e mia
madre avessero avuto ragione, in meno di quattro ore sarebbe accaduta
una
catastrofe.
La sabbia
avrebbe invaso New York, la gente sarebbe
morta, e io non sarei stata in grado di fare niente. Perché
ero troppo debole,
troppo inutile… Perché il peso da portare sulle
spalle era troppo gravoso per
me. Sentii una sensazione di gelo strisciarmi nelle vene. Aprii lo
zaino in
fretta e furia, poi estrassi il contenitore con le pasticche. Ne mandai
giù due
in un colpo solo, ad occhi chiusi.
<<
Cos’è quello schifo? >> Nico mi
strappò di mano la boccetta di plastica. Appoggiai la testa
al sedile, con il
fiatone. Il cuore mi batteva ancora a mille, ma per lo meno riuscivo a
respirare senza problemi. Lo Xanax aveva bloccato l’attacco
di panico che stava
per assalirmi in pullman.
<<
Me le ha date Apollo. Sono per gli attacchi
di panico. >> Spiegai brevemente, stringendomi nelle
spalle. Una voce
metallizzata avvisò che la fermata
successiva era quella di Lons Island. Altri dieci minuti a
piedi e
saremmo arrivati al Campo senza spargimenti di sangue.
<<
Non dovresti prenderle, altrimenti non
imparerai mai a controllarli. >> Scosse la testa, con
tono di
disapprovazione. Mi riconsegnò il contenitore, che ficcai
prontamente nella
tasca dei pantaloni. Volevo avere le pastiglie a portata di mano. Nico
non
capiva. Non sarei mai stata così
forte. Forse lui si era già sobbarcato il peso del mondo
sulle spalle, ma io
non sarei stata in grado di reggere a lungo. Non ero un eroe. Non
volevo
esserlo.
<<
Non riuscirò mai a controllarli. Sono
troppo… Debole.
>> Sputai,
stringendomi le braccia attorno al torace. Poi l’autobus si
fermò a Long
Island, e scesi a grandi passi, afferrando lo zainetto. La fermata era
praticamente in mezzo al nulla, ma di sicuro da quel punto avremmo
raggiunto il
campo senza difficoltà.
<<
Non è vero. >> Ribatté il figlio di
Ade. Nonostante stessi quasi correndo, lui non faticava a stare al mio
passo.
Ridacchiai. Una risatina piuttosto amara.
<<
Sì, invece. E non c’è bisogno che fingi
per
farmi stare meglio, davvero. >> Mi stavo comportando come
l’adolescente
tormentava di cui parlavamo qualche sera prima, ma non mi interessava.
Volevo
soltanto stare da sola, e pensare a come sistemare quel casino della
mia vita.
E poi avrei dovuto avvertire Chirone del mio incubo, pregare che Rachel
pronunciasse la stupida profezia, parlare con Lux… Nico mi
afferrò per un
polso, facendomi fermare bruscamente.
<<
Tu hai davvero una concezione sbagliata di
te stessa. >> Commentò. Alzai lo sguardo.
Eravamo molto vicini. Più
vicini di quanto le norme sociali avrebbero consentito. Ma eravamo
amici.
Soltanto semplicissimi amici. Eravamo usciti come amici, e saremmo
tornati a
casa come amici. Niente di particolare.
<<
Sono realista. >> Asserii a mezza
voce. Non ero mai stata una persona coraggiosa, né
particolarmente bella o
brillante. A parte la pazzia ero una banalissima adolescente
newyorkese. A
scuola c’erano tantissime ragazze molto più carine
di me, che avevano ottimi
voti a scuola e ottenevano borse di studio per lo sport. Io non avevo
mai
spiccato in niente.
<<
No, sei coraggiosa.
>> Mi corresse lui. E per la prima volta sulle sue labbra
si formò un
sorriso sincero. Un sorriso comprensivo, e quasi dolce. Avevo
l’impressione che
in Nico Di Angelo bruciasse ancora il fuoco. Era soltanto nascosto da
una
spessa lastra di ghiaccio, che ero riuscita a scalfire. Abbassai lo
sguardo,
scuotendo la testa, ma il figlio di Ade mi infilò un dito
sotto al mento,
costringendomi a fissarlo.
<<
Quella ragazza che ha sconfitto un’Empusa,
che ha affrontato Clarisse, che ha avuto il fegato di contestare
Zeus… Non è
coraggiosa? >> Domandò. Mi sentii le lacrime
agli occhi, perché quella
era sicuramente la cosa più dolce che qualcuno mi aveva mai
detto.
<<
Cercavo soltanto di salvarmi la vita.
>> Ribattei debolmente.
<<
Cercavi di fare la cosa giusta. >> La
sua fronte si posò sulla mia. Sentivo i suoi capelli ribelli
sfiorarmi le
guance. Ci separava soltanto un respiro, un soffio. I nostri nasi si
toccavano
quasi, mentre lo fissavo negli occhi, incantata.
<<
D-dovremmo andare… >> Balbettai senza
troppa convinzione.
<<
Già, dovremmo. >> Ripeté, ma il suo
tono era piatto. Chiusi gli occhi.
Ok,
d’accordo.
Volevo baciarlo.
Morivo
dalla
voglia di baciarlo. Mi chiedevo come mi sarei sentita, se il tremore a
tutto il
corpo sarebbe sparito o se le farfalle allo stomaco si sarebbero
placate. Il
cuore mi batteva a mille, come a voler scappare dalla mia cassa
toracica. Ma
era sbagliato. Era tutto sbagliato. Ci conoscevamo da cinque giorni,
continuavamo a litigare e probabilmente di lì a poche ore
saremmo morti tutti.
Non potevamo stare insieme. Non in quel modo. E poi io non gli piacevo.
Lui non
mi piaceva. O almeno credevo.
<<
Nico. >> Soffiai. Mancava davvero
poco. Quattro, cinque centimetri. Chiusi di nuovo gli occhi, mentre si
avvicinava sempre di più.
<<
Ragazzi, finalmente! >> Spalancai le
palpebre, e saltai all’indietro. Trevis Stoll ci salutava da
lontano con la
mano. Cosa ci faceva lì? Mi lanciò
un’occhiataccia d’avvertimento.
Probabilmente avevamo tardato per la festa.
<<
Vi stavamo aspettando! >> Esclamò.
<<
Per cosa? >> Di Angelo sembrava
sospettoso.
<<
Oh, vedrai.
>>
NOTE
AUTRICE
Zalve
a tutti :3 allora, piaciuto questo capitolo? Apollo è sempre
il solito gran
figo, e finalmente si decide a spiegare qualcosa a Genesis. Nel
prossimo
capitolo succederà un gran casino, vedrete. Ringrazio i miei
lettori, i miei
recensori, chi segue, preferisce e ricorda questa storia. Grazie di
cuore,
tanti bacioni :3
|
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Capitolo 12 *** Chapter Eleven- In the End ***
Chapter
eleven- In the End
Time
is a valuable thing
Watch it fly by as
the pendulum swings
Watch it count down
to the end of the day
The clock ticks
life away
<<
E’ felice. >> Disse Annabeth, a mezza
voce. Teneva in mano un bicchiere di aranciata, ma non aveva ancora
bevuto
niente. Seguii il suo sguardo tempestoso, trovandomi a fissare Nico. Il
cortile
della casa grande non era mai stato così tanto pieno di
gente. Praticamente
tutto il campo era stato invitato alla festa a sorpresa,
perciò l’ambiente era
un pochino sovraffollato. Due enormi tavoli da buffet erano stati
posizionati
al centro, e i semidei ballavano a ritmo di musica, o chiacchieravano
amabilmente. La figlia di Atena sorrise. Era un sorrisetto tenero,
quasi
materno. Mi chiesi se sapesse che quel ragazzo era stato innamorato di
Percy,
ma credevo di si. Era troppo intelligente per non averlo capito.
<<
Organizzate feste a sorpresa per tutti
quanti? >> Domandai, incrociando le braccia al petto.
Nico sembrava
totalmente fuori dal suo elemento e molto imbarazzato, in mezzo a tutta
quella
gente che gli faceva gli auguri e batteva pacche sulle spalle, ma
sorrideva. Un
sorriso impercettibile, ma raggiungeva gli occhi.
<<
Nah, soltanto per quelli speciali. >>
Annabeth mi fece l’occhiolino. Dava l’impressione
di essere rilassata, ma
sapevo che non era così. Lo si notava dalla scintilla di
inquietudine che le
balenava ogni tanto nelle iridi, o dalla postura tesa delle spalle. Non
la
biasimavo. Non era un bel periodo per chi sapeva cosa stava succedendo.
<<
Hai paura? >> Chiesi, senza quasi
pensarci. Forse avevo semplicemente bisogno di qualcuno con cui
sfogarmi, di
qualcuno che provasse i miei stessi sentimenti. Non volevo parlarne con
Nico,
perché lui mi considerava abbastanza forte da riuscire a
cavarmela da sola.
Avrei voluto credergli, ma non era vero.
<<
Non per me. Ho paura per Percy, per nostro
figlio, per i miei amici… Il solito. >> Si
strinse nelle spalle. Le
lanciai un’occhiata di sottecchi. Non sembrava incinta. La
pancia non si vedeva
ancora, e poi era molto giovane. Lei e il suo ragazzo avevano ventuno
anni, ma
sembravano una coppia molto consolidata. Dovevano averne passate tante
insieme.
<<
Sono sicura che andrà tutto bene. >>
Mormorai, ma lo dissi soltanto per convincere me stessa. Annabeth
sorrise. Un
sorriso falso, e tirato. I suoi occhi rimasero vigili ed inquieti. Mi
strinse
la spalla per un momento.
<<
Vado a vedere dov’è Leo. Non vorrei che
avesse fatto esplodere qualcosa. >> Poi si
allontanò. Sapevo che la sua
era soltanto una scusa per rimanere sola, ma non dissi niente.
Inclinai la
testa, finché la mia nuca non toccò il tronco a cui mi ero
appoggiata. Le fronde
degli alberi coprivano parzialmente il cielo, ma si vedevano le stelle.
Era
luminose, ed immobili. Mi sarebbe piaciuto essere una stella.
Sembravano così
lontane ed intoccabili… Come se niente e nessuno potesse
sfiorarle. Brillavano
di luce propria, ed erano bellissime. Sarebbero rimaste per sempre
lassù,
proprietarie di un piccolo pezzo di universo. Diedi un calcio alla
corteccia,
sbuffando. Perché stavo facendo pensieri poetici sulle
stelle? Avevo cose più
importanti a cui pensare. Per esempio, erano le undici e trenta. Nella
visione
alle undici e trenta il mondo stava cominciando ad andare in rovina.
Per il
momento non c’era stato alcuno spargimento di sangue, niente
tempeste di sabbia
o mostri che risorgevano dalle profondità della terra. Ma io
non ero per niente
tranquilla. Avevo persino rifiutato l’enorme ed
invitantissima fetta di torta
al cioccolato che Rachel aveva minacciato di infilarmi in gola,
perché non ero
sicura che sarei riuscita a tenerla nello stomaco. Mi passai una mano
tra i
capelli, ripensando alla giornata trascorsa. Mi ero divertita, se si
escludeva
la parte in cui Apollo mi consegnava le pasticche di XANAX. Nico si era
comportato complessivamente bene, e avevamo parlato come due persone
civili. Ci
mettevamo a litigare per cose stupidissime, ma finiva tutto in una
risata e
sguardi divertiti. Avrei voluto che durasse di più. Strinsi
i denti. Non dovevo
pensare a lui in quel momento. Non in quel modo.
<<
Genesis, vieni con noi, dai! >> Emma
sbucò dal buio, prendendomi per mano. Sorrisi, dandole un
buffetto in testa.
Aveva dodici anni, ma sembrava molto più piccola. Mi sentivo
come in dovere di
proteggerla. Mi ricordava me quando ero più giovane.
Così ingenua ed innocua…
Ancora inconsapevole del fatto che alcune persone potessero essere
davvero
cattive. Adrian mi salutò da lontano. Stava parlando con
Lux. Lei rideva. Un
sorriso bellissimo, che le illuminava il volto perfetto.
<<
Agli ordini, Em… >>
Poi qualcosa
dentro di me si spezzò.
Mi inginocchiai,
con il fiato bloccato in gola.
Mi sembrava di
essere tornata a qualche giorno
prima, quando Ipno aveva spezzato il blocco. Ma quella volta era
più forte.
Come se migliaia di persone stessero gridando nelle mie orecchie
contemporaneamente,
come se qualcuno si stesse divertendo a trapanarmi il cervello con un
martello
pneumatico. Sentii la gola bruciare, e mi resi conto soltanto in quel
momento
che stavo urlando. Sentivo la voce di Emma che cercava di farsi strada
in quel
mare di dolore, ma non capivo cosa stesse dicendo. Mi aveva afferrata
per un
braccio, mi parlava. Volevo soltanto che smettesse di fare male. Volevo
svenire, volevo cessare di sentire. Qualsiasi cosa, ma non quella
tortura. Ondate
rosso fuoco si abbattevano su di me, scuotendomi
dall’interno. Mi sembrava di
distruggermi in mille piccoli pezzi di ossa e anima. I polmoni mi
facevano male
da tanto stavo urlando, ma volevo coprire il suono di quel dolore. Basta, basta.
<<
Genesis! >> Sentii una presa sulle
braccia. Una presa troppo forte.
Erano i mostri.
I
mostri
delle mie visioni che reclamavano vendetta. Reclamavano il mio corpo,
per trascinarmi
con loro nel Tartaro. Gridai qualcosa di insensato, perché
non riuscivo a
parlare. Cercai di liberarmi, ma gli artigli che mi avevano afferrata
non mi
lasciavano scampo. Strinsi i denti, scalciai, colpii
l’aria… Ma niente. Lo
sapevo. Sapevo che prima o poi sarebbe successo.
Dov’era
Nico? Avevo bisogno di lui. Apollo gli aveva
detto di proteggermi, perché mi aveva abbandonata? Sbraitai
il suo nome,
disperatamente. I mostri mi stavano trascinando via, mi avrebbero
uccisa. Non
avrei mai più visto mio padre, non avrei avuto una vita. Non
volevo morire. Non
volevo provare quel terrore viscerale, non volevo avere
paura. Ma erano dappertutto, con la loro pelle butterata e
la
bocca spalancata in un’espressione ripugnante. E non potevo
scappare, non
potevo fare niente. Soltanto urlare il suo
nome, sperando che riuscisse a sentirmi.
<<
Genesis, sono qui! >> Una voce umana.
Spalancai gli
occhi, e improvvisamente tutto si
fermò.
Il mondo
tornò il luogo che era veramente. Niente
rosso, niente dolore, niente mostri… Soltanto una marea di
facce terrorizzate
che mi fissavano, ad occhi sgranati. Ero in ginocchio, con le unghie
piantate
nei palmi delle mani. Il sangue mi colava lungo i polsi, lento,
cremisi… Vitale. Con la
coda dell’occhio scorsi
Rachel. Era pallidissima, aggrappata ad un braccio di Piper. Poi trovai
il
coraggio di alzare lo sguardo. Nico mi fissava, e per la prima volta
nelle sue
iridi scorsi una scintilla di vera paura. Repressi un singhiozzo, e lui
se ne
accorse.
Improvvisamente
mi sentii crollare. Tutti i
semidei del campo mi avevano vista in quello stato pietoso, sapevano
che avevo
un punto debole. Avevano capito che qualcosa in me non andava, e non
soltanto
perché ero una figlia di Eris. Perché avevo avuto
una visione nel bel mezzo di
una festa, e dopo anni ci ero ricascata. Mi era sembrata
così vera… Così reale.
Mi sentii mancare il respiro. La
mia mano scattò verso la tasca dei jeans, dove tenevo le
pastiglie di XANAX.
Nico mi afferrò il polso prima che potessi fare un solo
movimento.
<<
Sta succedendo. >> Mimai con le
labbra. Poi mi alzai di scatto, liberandomi dalla sua presa. Non ci fu
nemmeno
bisogno di prendere a spintoni la calca, perché al mio
passaggio si apriva un
sentiero tutto mio. Alzai gli occhi, arrivata al centro del cortile
della casa
grande. Sentii soltanto un colpo al cuore, ma la mia mente
analizzò freddamente
la situazione.
C’era
la sabbia.
Tanta
sabbia.
Si abbatteva
contro la barriera del campo
mezzosangue, non riuscendo a scalfirla, ma il bosco circostante era
percosso
dalle ventata infuocate. Il cielo notturno era illuminato di rosso e
arancione,
ma non dai bagliori del tramonto. Era come se qualcuno avesse deciso di
rovesciare un enorme secchio
di vernice
addosso al mondo. Guardai l’orologio. Erano le
ventitré, trentanove minuti e
cinquanta secondi.
Nove.
Sapevo cosa
sarebbe successo. Il legame tra me e
Rachel sembrava essere diventato incandescente. Le parole
dell’Oracolo di Delfi
risuonarono nell’aria, leggere come il vento, ma allo stesso
tempo pesanti come
un macigno.
<<
Nel diciottesimo giorno dell’angelo, i semidei oscuri alla
chiamata
risponderanno. >> Il diciottesimo
giorno dell’angelo;
il compleanno di Nico.
Otto.
<<
Il calice della vita nascosto sarà nella terra della morte,
dove l’antico
potere regna senza Sorte. >> Non avevo
bisogno di
abbassare lo sguardo per sapere che più o meno tutti erano
sul punto di
vomitare, o di svenire. Mi sentivo così anche io.
Sette.
<<
Il padre del mondo si sta risvegliando, i cinque semidei sconfiggerlo
dovranno.
>>
I cinque
semidei. Nico, Lux, Adrian, me… Ne mancava
uno.
Sei.
<<
Il figlio della Morte, Paladino, protegge gli altri contro il suo
destino.
>> Cosa
significava? Stavo cominciando ad odiare le
profezie.
Cinque.
<<
La Ladra di ricordi giurerà vendetta. >> Lux.
Quattro.
<<
La figlia della Notte ad uccidere sarà costretta. >>
Una sensazione di gelo mi investì. Il quinto semidio era un
altro figlio di
Nyx. Emma, la sorellina di Adrian.
Tre,
due, uno.
<< Il sangue
della bambina maledetta
verrà versato. >>
<<
Soltanto così il mondo può essere salvato.
>>
Zero.
La tempesta di
sabbia cessò improvvisamente, come
avevo previsto. Un silenzio tombale calò sul campo
mezzosangue. Un silenzio che
valeva più di mille grida, esclamazioni, gemiti o parole. Ma
dentro di me il
tornado imperversava ancora, lasciandomi al posto del cuore e dello
stomaco una
landa brulla e desolata. Avevo pregato così tanto per la
profezia… Ma mi
ritrovavo a fare i conti con le conseguenze. Non avevo più
scuse. Il giorno
seguente si sarebbe tenuto il consiglio di guerra, con tutti i semidei,
e
avremmo organizzato l’impresa. Però io non ero
pronta. Non sapevo combattere i
mostri, non sapevo dove si trovasse questo calice della
vita… Ma Rachel era
stata chiara. Non c’era via di scampo.
Il mio sangue
doveva essere versato, per la salvezza
del mondo.
Io
dovevo morire.
<<
L’importante è mantenere la calma.
>>
Sospirò Chirone per l’ennesima volta. Mantenere la
calma? Sul serio? Il mondo
stava andando a scatafascio e lui pretendeva che ci sedessimo attorno
ad un
tavolo a sorseggiare camomilla. Bella strategia. Clarisse La Rue
sembrava
pensarla come me, perché sbuffò sonoramente dalle
narici, come fanno i tori.
<<
Devono partire, subito. >> Sibilò tra
i denti, indicandoci con un ampio gesto teatrale. Io e i miei quattro
nuovi
compagni di avventura ce ne stavamo uno accanto all’altro. Il
gomito di Adrian
mi sfiorava le costole, mentre la mia mano e quella di Nico
continuavano a
toccarsi fugacemente, come se nessuno dei due volesse davvero quel
contatto.
Emma sembrava la più terrorizzata di tutti, e soltanto a
vederla mi si strinse
il cuore. Aveva soltanto dodici anni. Era una bambina.
Non che noi altri fossimo così grandi, ma io e Lux
perlomeno potevamo essere definite adolescenti, Adrian aveva
diciassette anni e
Nico era appena diventato maggiorenne. Sapevamo badare a noi stessi.
<<
Non sappiamo nemmeno cosa cercare, come
possiamo partire? >> Domandò il figlio di Nyx,
passandosi una mano tra i
capelli biondi. Mi trovai ad annuire. Aveva ragione. Cosa era un calice
della
vita? Per non parlare poi della terra della morte. Non credevo si
trattasse del
Tartaro. Sarebbe stato troppo… Scontato.
E
poi da quanto ne sapevo nel Tartaro non c’era la sabbia.
Soltanto rocce, fiumi
infernali e mostri.
<<
Adrian ha colto il punto. >> Borbottò
Percy. Lui, Annabeth e Clarisse non avrebbero preso parte
all’impresa, ma erano
i veterani del campo mezzosangue, e i migliori combattenti. La figlia
di Atena
e quella di Ares erano strateghe coi fiocchi, mentre Percy aveva
coraggio da
vendere. Quando avevano la mia età erano stati degli eroi. Al solo pensare quella parola mi
vennero i brividi. Sembrava
così strana ed irraggiungibile…
<<
Ma non possiamo nemmeno aspettare molto,
potrebbe scoppiare un’altra tempesta. >> Fece
notare Lux. Era la prima
volta che la vedevo con i capelli sciolti, senza la treccia.
Così sembrava
molto più giovane della sua età.
<<
Togli il “potrebbe”. >> Intervenni,
con tono monocorde. Nico mi lanciò un’occhiata. In
quel momento avevo bisogno
di Rachel, per capire se lei aveva avuto qualche visione che a me non
era
arrivata. Chirone aveva contattato Ipno dopo la mia performance da
cantante lirica,
quando il dolore alla testa mi aveva fatto desiderare di morire. Il dio
aveva
supposto che il mio corpo non era preparato per accogliere lo spirito
dell’Oracolo, perciò aveva tentato di espellerlo,
come si fa con le tossine. E
per espellerlo aveva bloccato il collegamento tra me e Rachel,
facendomi
provare quella straziante ed insopportabile sofferenza.
Divertente,
vero?
<<
Io credo… >> Cominciò Chirone,
passandosi una mano sul volto. Sembrava molto stanco.
<<
Che dovreste andare tutti quanti a dormire.
E’ mezzanotte passata, e ci aspettano giorni duri.
>> Concluse, battendo
a terra uno zoccolo.
Non potevo dirmi
più d’accordo, ma non sarei mai
riuscita a prendere sonno, ne ero sicura. Nonostante a malapena mi
reggessi in
piedi, sarebbe stato impossibile addormentarsi. Non dopo tutto quello
che era
successo quella sera. Avrei ripensato alla profezia, al suo
significato, a mia
madre… Mio padre. Sentii
un tuffo al
cuore, e la morsa che stringeva il mio stomaco mi artigliò
con più forza. Come
avevo fatto a dimenticarmene? Mio padre era a New York durante la
tempesta. E
se fosse stato fuori casa? Se la sabbia l’avesse risucchiato?
Si
sentì un coro di buonanotte mormorati a mezza
voce. Adrian ed Emma si allontanarono velocemente. La piccoletta era
aggrappata
al braccio di suo fratello, come se lo considerasse un’ancora
di salvezza. Lux
si passò una mano tra i capelli, poi scosse la testa. Mi
lanciò uno sguardo
d’intesa, ma non disse niente. Legò la lunga
chioma argentea in una coda
sbarazzina, e si diresse verso la cabina di Ermes a grandi passi.
<<
Genesis… >> Disse Nico, una volta che
fummo rimasti soltanto io e lui. Scossi la testa.
<<
No. Non adesso. Devo restare sola. >>
Non aspettai di sentire la sua risposta.
In
realtà non volevo restare sola. L’unica cosa che
desideravo con tutto il cuore era di scoppiare a piangere contro la sua
spalla,
e autocommiserarmi per il resto della mia vita. Ma non potevo.
Perché
probabilmente mio padre era ferito e spaventato, aspettando che
qualcuno lo
aiutasse. Forse avrei dovuto semplicemente odiarlo, e smettere di
preoccuparmi
per lui, ma non ci riuscivo. Mi aveva supplicato di perdonarlo, e io
gli avevo
chiesto di darmi tempo. Forse quel tempo era scaduto. Non potevo
lasciarlo
solo. Dovevo almeno assicurarmi che stesse bene, e dirgli di chiudersi
in casa
per il resto dei suoi giorni. Corsi nella cabina di Ermes. Grazie agli
dei
c’era la solita confusione, nonostante quello che era
successo, perciò nessuno
mi prestò troppa attenzione. Ficcai Gioiosa
nello zainetto, insieme ad una felpa e una barretta di
cioccolato che avevo
conservato dalla sera prima. Una risatina amara mi sfuggì
dalla labbra. Ma dove
stavo andando? Al campo scout? Al posto del cioccolato mi sarebbe stata
più
utile una fiala di nettare d’ambrosia, ma non potevo
concedermi il lusso di
fare una sosta in infermeria. Non
ci
avrei messo tanto. Un salto a casa, e poi sarei tornata al campo.
Nessuno si
sarebbe accorto della mia assenza.
Riuscii ad
arrivare alla barriera senza troppi
problemi. Mi imbattei soltanto in un figlio di Dioniso completamente
ubriaco,
che quando mi vide si limitò a ridacchiare, e a mollarmi una
pacca amichevole
sulla spalla. Per fortuna non aveva il caratteraccio di suo padre, che
era
stato convocato sull’Olimpo di grande urgenza. Immaginai
l’espressione che
doveva aver fatto Zeus quando si era accorto che mia madre ed io
avevamo
ragione. Un sorrisetto macabro mi si dipinse sulle labbra.
Attraversai il
bosco con la mia spada stretta in
mano, sobbalzando ad ogni minimo scricchiolio. Arrivai indenne alla
fermata
dell’autobus. Ero sicura che sarebbe passato nonostante
quello che era
successo. La tempesta era stata soltanto un avvertimento, un assaggio
di quello
che sarebbe successo dopo. Chaos si stava divertendo a giocare al gatto
e al topo.
Aspettai più o meno dieci minuti, con lo sguardo fisso sul
mio orologio.
Mancava poco all’una, ma non ero più stanca.
L’inquietudine e la voglia di
agire mi tenevano sveglia e vigile, pronta ad affrontare qualsiasi
minaccia. Non
che sapessi cosa avrei fatto se mi fossi imbattuta in un mostro.
Probabilmente
sarei scappata a gambe levate, o cose del genere. Mentre mi sedevo sul
sedile
consunto, vicino alla cabina dell’autista, pensai che non ero
tagliata per fare
l’eroe.
Per
niente.
NOTE
AUTRICE
Ciaaaoooo
:3 innanzitutto mi scuso per la
profezia. Io e le rime non andiamo per niente d’accordo, ho
fatto del mio
meglio, lo giuro. Nel prossimo capitolo succederà un altro
casino in mezzo al
casino. Un casino più piccolo, ma pur sempre incasinato.
Spero che il capitolo
vi sia piaciuto, e come al solito ringrazio i miei recensori, chi
segue,
preferisce, ricorda o leggere questa storia. Grazie mille!
Bacioni
|
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Capitolo 13 *** Chapter Twelve- Nobody's Home ***
Chapter Twelve-
Nobody’s Home
What's wrong, what's wrong now?
Too many, too many problems.
Don’t know where she
belongs, where she belongs.
<<
Genesis. >> Mark mi fissava con gli
occhi strabuzzati. Aveva il volto tirato e stanco, ma il suo sguardo di
disprezzo non era cambiato per niente. Giocherellai con le cordicelle
che
pendevano dal mio zainetto della Eastpack, nervosamente. Non pensavo di
trovare
proprio lui alla porta. Speravo che mi avrebbe aperto direttamente mio
padre,
in modo da non dover dare troppe spiegazioni.
<<
Posso entrare? >> Domandai,
schiarendomi la gola. Lui rimaneva immobile, a fissarmi. Alzai gli
occhi al
cielo, rifiutando di aspettare un minuto di più. Lo
sorpassai, scostandolo con
una spallata, poi mi feci spazio all’interno
dell’ingresso. Non era cambiato
assolutamente niente, se non il fatto che non consideravo quel luogo
casa mia. Non più. Ana
stava spolverando le scale
che portavano al piano superiore, borbottando di tanto in tanto
imprecazioni in
russo.
<<
Mark! Chi è alla porta? >> La voce di
Moira, squillante e fastidiosa, proveniva dalla cucina. Mi sistemai
meglio lo
zaino in spalla, stringendo Gioiosa
nella mano sinistra, fino a farmi diventare le nocche bianche. Avevo
paura che
un mostro saltasse fuori dal pavimento e cercasse di uccidermi. Mentre
camminavo, sul parquet rimasero delle impronte di sabbia. Le mie
Converse si
erano sporcate per colpa dei granelli che inondavano i marciapiedi di New York. I netturbini
stavano già
cominciando a spazzare le strade, ma il lavoro era piuttosto lungo e
noioso.
<<
Ciao. >> Mi appoggiai allo stipite
della porta, facendo un cenno della mano in direzione della mia
matrigna.
Lasciò cadere per terra il bicchiere di vino che teneva in
mano, spalancando la
bocca, come se avesse visto un fantasma. Di sicuro era stata
felicissima quando
me ne ero andata, probabilmente si aspettava di non rivedermi mai
più. Anzi,
credevo proprio che avesse organizzato una festa quando mio padre le
aveva
detto che non sarei più tornata. Con tanto di abito da sera
e cocktail con gli
ombrellini colorati.
<<
Esci subito da casa mia. >> Sibilò
Moira, con i capelli biondi che le fluttuavano attorno al volto.
Inarcai le
sopracciglia. Non mi sarei fatta intimidire da quella pazza isterica.
<<
Non è casa tua, è casa di mio padre.
>> Risposi, facendo roteare la spada. Lei
deglutì con aria
melodrammatica, fissando la lama scintillante della mia arma. Non ero
sicura
che lei vedesse Gioiosa, più
probabilmente una mazza da baseball, o cose del genere. I mortali non
erano in
grado di ammirare il mondo nella sua totalità ed interezza.
Me lo aveva detto
Leo.
<<
Chiamo la polizia! >> Sbraitò,
afferrando il telefono appoggiato sul tavolo della cucina. Si
sentì un forte
trambusto al piano superiore, poi qualcuno che scendeva le scale di
corsa. Mi
voltai appena in tempo per vedere mio padre che inciampava nelle
stampelle. Lo
afferrai per un braccio, impedendogli di cadere.
<<
Sei davvero qui. >> Mormorò. Mi
strinse talmente forte da farmi male alle costole. Ricambiai
l’abbraccio,
insicura. Sentii un’ondata di sollievo investirmi, rendendomi
conto che lui
stava bene. Probabilmente si era slogato una caviglia, o rotto la
rotula, ma
stava bene. Era vivo.
<<
Dovevo controllare che tu stessi bene.
>> Mi limitai a sussurrare. Quando si sciolse
dall’abbraccio notai che
aveva gli occhi pieni di lacrime. Mi invitò a sedermi in
cucina, sotto lo
sguardo stralunato di Moira, che teneva ancora in mano il telefono.
Voleva
sicuramente lanciarmelo in testa, stile arma contundente. Ana, che
doveva
assolutamente pulire il pavimento della cucina, ci servì da
bere, guardandomi
come se mi avesse vista per la prima volta. Non pensavo che si sarebbe
dimenticata
di me così facilmente, del resto mi aveva urlato contro
almeno diecimila volte
perché il pavimento della mia stanza era sempre disseminato
di vestiti.
<<
Come ti trovi al… in quel posto? >>
Domandò, a bassa voce. La mia matrigna uscì
dalla stanza, furibonda. Grazie agli dei, avevamo bisogno di un
po’ di privacy.
<<
Posso sapere come mai Ana è ancora qui? E
perché eravate tutti svegli? Manca poco alle due.
>> Borbottai,
stringendo tra le mani la mia tazza di cioccolata calda. Non faceva
freddo, ma
avevo comunque i brividi. La bevanda dolce mi scaldò lo
stomaco, facendomi
rilassare.
<<
E’ rimasta bloccata qui a causa della
tempesta. Ha già pulito tutto questa mattina, ma credo che
sia spaventata. Sta
cercando qualcosa da fare. Comunque, non hai risposto alla mia domanda.
>> Mio padre si strinse nelle spalle, poi mi
lanciò uno sguardo molto
triste. Forse gli mancavo sul serio.
<<
Sto bene, papà, non è per me che devi
preoccuparti. >> Sospirai, con voce improvvisamente cupa.
Avevo smesso di
avere paura per me stessa un po’ di tempo prima. Mi ero
sempre considerata una
persona piuttosto egoista, ma in quei cinque giorni qualcosa in me era
cambiato.
Era poco tempo, ma non ero più la ragazzina di qualche mese
prima, che si
faceva maltrattare da Mark e passava le estati in manicomio.
<<
Quello che è successo a che fare con loro,
vero? >> Indicò il soffitto,
con aria spaventata. Ridacchiai, scuotendo la testa. Ovviamente si
stava
riferendo agli dei e all’Olimpo. Annuii, lentamente. Non
avevo intenzione di
spiegargli tutto quanto. Non avrei fatto altro che terrorizzarlo ancora
di più;
avevo soltanto bisogno che mi ascoltasse.
<<
Non posso scendere nei particolari, ma la
tempesta non è stato un episodio isolato. >>
Cominciai, passandomi una
mano tra i capelli.
<<
Ce ne saranno altre, sempre più violente e
pericolose. Dovete chiudervi in casa. Fate scorte di cibo, e
soprattutto acqua,
molta acqua. >> Sparai tutto d’un fiato,
sporgendomi verso mio padre. I
suoi occhi color nocciola si spalancarono, in un’espressione
stupita e
spaventata allo stesso tempo.
<<
M-ma… Cosa dirò a Moira? E poi ho il
lavoro, non posso… >> Cominciò a
balbettare, scuotendo la testa con
troppa veemenza. Finii la cioccolata calda con rimpianto, ne avrei
voluta
ancora. Poi riappoggiai la tazza sul tavolo, lentamente.
<<
Papà. >> Lo interruppi, con durezza.
<<
Non ci sarà più nessun lavoro. Si sta
scatenando l’Apocalisse, e non abbiamo molte
possibilità di sopravvivere.
Prometti che farai quello che ti ho detto, ti prego. >>
Gli strinsi
l’avambraccio, incatenando il mio sguardo al suo,
perché capisse quello che
cercavo di comunicargli. Poi sfiorai l’elsa di Gioiosa,
cercando di infondermi sicurezza
<<
Non posso, Genesis. Cerca di capirmi.
>> Rispose infine, con la voce spezzata. Strinsi la
mascella,
distogliendo gli occhi.
<<
Tu non… Almeno comincia a fare le scorte,
per favore. >> Esclamai, con voce piuttosto tirata. Lui
mi fissò per un
lungo istante, appoggiando la schiena alla sedia, con aria esausta. Si
passò
una mano tra i capelli brizzolati. Sembrava molto più
vecchio rispetto
all’ultima volta in cui l’avevo visto.
<<
Ci proverò, ma… >> Si
bloccò, perché
Moira sbraitò qualcosa a gran voce.
<<
Peter, la polizia vuole parlare con noi!
>> Gridò. La sua voce proveniva
dall’ingresso. Mio padre mi lanciò uno
sguardo di scuse, poi si alzò, aiutandosi con le stampelle.
Per un momento
pensai che sarei rimasta in cucina, ma non volevo lasciarlo solo. E poi
una
strana sensazione di inquietudine si era improvvisamente impossessata
di me.
Come se ci fosse qualcosa che non andava.
<<
Agenti, cosa posso fare per voi? >>
Sentii l’uomo domandare, con voce estremamente cordiale. Era
sempre stato molto
gentile con le autorità, forse perché era un
avvocato e aveva imparato molto
bene a fare buon viso a cattivo gioco.
<<
Mia figlia? Oh, mi dispiace, ma non è qui
ora. Vede, è partita per una gita scol…
>> Il corpo di mio padre volò per
tutto l’ingresso, andandosi a schiantare contro le scale.
Tornai in cucina
correndo, afferrando Gioiosa con
forza.
<<
Genesis Hale! Sappiamo che sei qui!
>> Quelle voci… Pamela
e
Michelle. Ma Nico le aveva uccise quel giorno a scuola.
Perché
erano ancora vive? Perché erano tornate a
cercarmi? Deglutii, cercando di ragionare a mente lucida. Non potevo
scappare
dall’ingresso principale, perché era bloccato
dalle Empuse. Osservai le scale
per un istante. Camera mia dava sul giardinetto sul retro, e dalla mia
finestra
potevo saltare fino ai rami del grande olmo che cresceva lì
da molto tempo. Poi
non mi restava altro da fare che correre fino alla fermata del pullman,
sperando di seminare i mostri. Non potevo trattenerli a lungo in casa,
o
qualcuno si sarebbe fatto seriamente male.
<<
Eccoti, ragazzina. >> Ringhiò una
terza voce, sconosciuta. Mi sentii il cuore in gola.
Cazzo.
Erano in tre. Si
erano portate un’altra amichetta
con cui giocare. Calcolai brevemente le speranze che avevo di riuscire
a
sorpassarle per salire le scale. Molto scarse, ma non avevo altra
scelta. Gli
occhietti rossi del mostro si puntarono su di me. Pensai di utilizzare
il mio
potere, ma eravamo tre contro uno, e poi ero troppo lontana. Deglutii,
poi mi
lanciai all’attacco. Con un fendente laterale feci spostare
l’Empusa, che mi
lasciò spazio per scappare attraverso la porta della cucina,
e raggiungere di
corsa le scale. Parai un artigliata di Pamela con il piattone, poi
cominciai a
salire i gradini a due a due. Sentii unghie affilate e lunghissime
infilarsi
nel polpaccio. Gridai, dando uno strattone. La mia pelle si
lacerò
completamente, ma perlomeno ero riuscita a liberarmi. Però
c’era qualcosa che
non mi tornava. Pamela e l’altro mostro erano al piano di
sotto, ma non avevo
ancora visto…
<<
Dove scappi, dolcezza? >> Michelle
non si era ancora trasformata. Indossava una divisa da poliziotta, che-
per
quanto detestassi ammetterlo- le stava d’incanto.
Non
impiegò
molto a diventare un’orribile creatura spelacchiata, con gli
occhiali da sole. Dannazione. Doveva
aver intuito qualcosa
riguardo al soggiogamento. Se non riuscivo a guardarla negli occhi, non
avrei
mai potuto piegarla al mio volere, sempre che avessi le forze per
farlo. Mi
lanciai in avanti, con un affondo mirato. Michelle si scostò
appena in tempo, e
la lama cozzò di striscio contro al suo fianco. Il mostro
produsse un sibilo
disgustato, osservando qualche goccia di sangue scivolarle lungo le
gambe
pelose.
<<
Oh, adesso sai combattere con la spada?
Davvero ammirevole. >> Ghignò Michelle,
scoppiando in una risata che
assomigliava ad un ululato. Deglutii. Non avevo speranze contro di lei.
Con la
coda dell’occhio mi guardai alle spalle. Pamela e
l’altro mostro erano sul
fondo delle scale, e mi fissavano con odio. Ero in trappola.
<<
Che bello rivederti, Michelle. Sai che stai
bene con la divisa da poliziotta? >> Cominciai, con tono
stridulo. Il
panico nella mia voce era chiaramente percepibile, ma non avevo altra
scelta,
se non perdere tempo per farmi venire in mente qualcosa.
<<
Lo so. A dire il vero mi dona molto più
della divisa da cheerleader. >> Sorrise lei. Un sorriso
orribile e
spaventoso, ma evitai di dirglielo.
<<
Già, lo credo anche io. Quei pon-pon erano
orribili, in effetti. >> Risposi, gesticolando.
<<
Sono d’accordo! E poi… >> Si
bloccò.
<<
Oh, aspetta. Stai cercando di fare quel
giochino anche con me. >> Ringhiò, su tutte le
furie.
Poi, con uno
scatto fulmineo, venni artigliata per
la gamba, e Michelle mi lanciò giù dalle scale.
Atterrai sul pavimento
dell’ingresso, battendo una spalla. Vidi soltanto puntini
rossi per un istante,
e quando rinvenni il dolore era come un potente e rimbombante rumore di
sottofondo. Strinsi i denti, rialzandomi. La gamba destra mi cedette
per un
attimo, ma riuscii a rimanere in piedi. Il sangue mi colava sulla
pelle, ed ero
piuttosto sicura che la mia spalla non stesse affatto
bene. C’era il rischio che mi fossi slogata
l’articolazione,
o cose del genere. Allontanai Pamela con un fendente, che la
colpì allo
stomaco, poi indietreggiai. C’era la possibilità
di uscire dalla finestra della
cucina, anche se avrei impiegato tempo ad aprirla, e mi sarei dovuta
arrampicare sui fornelli. Riuscii ad abbassarmi in tempo per schivare
cinque
artigli diretti al mio viso, ma mi ero dimenticata che loro avessero un
vantaggio
numerico. Errore madornale. Il
dolore
alla schiena fu acuto e bruciante, mentre cadevo sul pavimento freddo.
Altro
sangue. Dovevo assolutamente trovare il modo di scappare, o non sarei
sopravvissuta. Mi voltai, stringendo Gioiosa
con forza. Se l’avessi persa sarebbe stata davvero
la fine.
<<
Ultime parole? >> Domandò Pamela,
piantandomi uno zoccolo peloso contro al collo. Annaspai in cerca
d’aria, ma
lei premeva troppo forte.
<<
Vai al Tartaro. >> Ma quella non era
la mia voce. Una lama nera come l’ossidiana si
abbatté sulla gola della
biondina, recidendo di netto la testa. Approfittai di quel momento per
rialzarmi, e ficcare la mia spada nel cuore della terza Empusa, che non
avevo
mai visto prima. Speravo di aver colpito il punto giusto, e quando il
mostro
esplose in una nuvoletta mi permisi di respirare di nuovo, cadendo in
ginocchio.
<<
Non posso lasciarti sola un secondo e tu
combini un fottuto casino! >> Ringhiò Nico,
infilzando Michelle nella
schiena, uccidendola una volta per tutte.
<<
Oh, chiudi quella bocca! >> Sbraitai,
chinandomi su me stessa. L’adrenalina mi stava abbandonando,
insieme ai residui
di energia che mi erano rimasti in corpo. Il dolore peggiore era quello
alla
spalla, che, sommato ai vari tagli che avevo sulla coscia, sui polpacci
e sulla
schiena, rendeva la vita un vero schifo.
<<
Diis
Immortales, quanto sangue… >>
Imprecò il ragazzo, chinandosi accanto
a me. Strinsi i denti, ignorando il bruciore a tutto il corpo. Del
resto era
stata colpa mia se ero finita in quella situazione. Avevo immaginato
che
sarebbe andata a finire così, ma non potevo rinunciare a
vedere mio padre.
Sarebbe stato peggio di qualsiasi ferita.
<<
Sto bene. >> Borbottò il mio
orgoglio, al mio posto. Il figlio di Ade mi lanciò
un’occhiataccia,
sollevandomi senza sforzo, e dirigendosi in salotto a passo spedito. Un
divano
era già occupato da mio padre, in evidente stato
confusionale. Mark fissava il
vuoto, Moira piangeva disperatamente e Ana mi trucidò con lo
sguardo quando
Nico osò posarmi sulla poltrona libera, sporcando la pelle
italiana di sangue.
Rischiai di urlare quando la mia spalla toccò lo schienale.
<<
Bevi. >> Il ragazzo mi consegnò una
fialetta di nettare, che buttai giù tutto d’un
fiato. Il dolore diminuì,
trasformandosi in un sordo e fastidiosissimo brusio di sottofondo. Nico
era
piuttosto incazzato. Lo si notava dai movimenti bruschi, e
dall’espressione
dura dipinta sul bel volto. Chissà come faceva a sapere che
ero andata da mio
padre. Forse mi conosceva meglio di quanto io conoscessi me stessa.
<<
Qui servono i punti. >> Mormorò,
pensieroso, fissandomi la gamba con aria preoccupata.
<<
Tu. Vammi a prendere un kit ti pronto
soccorso. >> Ordinò a Mark. Lui, dal canto
suo, rimase fermo immobile,
con la bocca spalancata nell’espressione più ebete
che avessi mai visto. Se non
fosse stato per il male e la stanchezza sarei scoppiata a ridere e gli
avrei
fatto una foto.
<<
Ora. >> Ringhiò Nico, facendo
scattare i denti. Il mio fratellastro si riscosse, e sparì
di corsa.
Sicuramente non era preoccupato per me. Era molto più
probabile che fosse
terrorizzato dal neo-diciottenne, che in quel momento incarnava il
perfetto
stereotipo del figlio di Ade. Mark tornò in fretta,
consegnando al ragazzo una
cassettina rossa con una croce bianca sopra.
<<
Da quando sai mettere i punti? >>
Chiesi, cercando di sembrare divertita.
<<
Farà abbastanza male. >> Mi
avvertì,
ignorando la mia domanda.
<<
Non ho paura del dolore. >> Bugia.
<<
Cercherò di metterci poco. >>
Continuò, imperterrito. Annuii, e chiusi gli occhi mentre
Nico infilava il filo
da sutura nella cruna dell’ago.
Poi
iniziò a cucire, e io mi morsi una mano per non
mettermi ad urlare, mentre lacrime silenziose mi bagnavano le guance.
Durò
pochi minuti, ma a me sembravano passate ore quando il ragazzo recise
il filo
con i denti, rimettendo tutto al suo posto. Rimasi immobile per un
istante,
stringendo con tutta la forza che avevo il bracciolo della poltrona,
mentre il bruciore
diminuiva. Ne avevo decisamente abbastanza di soffrire per quella
giornata.
Improvvisamente mi sentii stanchissima. Mi sarei voluta addormentare su
quella
poltrona, e rimanere lì a poltrire per il resto della mia
vita. Mi alzai a
fatica, appoggiando tutto il peso del corpo sulla gamba buona.
<<
Cosa credi di fare? >> Nico mi
fissava con le sopracciglia inarcate.
<<
Tornare a casa? >> Domandai,
sarcastica. Scossi la testa, lanciandogli un’occhiataccia.
<<
Non puoi camminare ora, ti salterebbero i
punti. >> E mentre me lo spiegava, con tono monocorde, mi
prese in
braccio, mettendosi in spalla il mio zainetto. Avrei voluto dirgli che
piuttosto che farmi trasportare da lui mi sarei messa a strisciare come
un
verme, ma avevo la lingua impastata, e mi si chiudevano gli occhi.
Allungai un
braccio verso mio padre, che si era addormentato, con le stampelle
accanto al
divano. Chissà cosa aveva fatto alla gamba.
<<
Non tornare mai più, Genesis Hale. Non fai
più parte di questa famiglia. >> Disse Moira,
con voce maligna. Forse
aveva ragione. Non ero mai stata una buona figlia, non avevo mai
portato gioie
in casa. Forse il mio posto non era mai stato sotto quel tetto di
quella
villetta di New York. E allora qual era, il mio posto? Il Campo
Mezzosangue,
dove tutti sembravano avere paura di me? A chi appartenevo? Chi si
sarebbe
preso cura di me? Magari avrei semplicemente dovuto imparare a non
affezionarmi, a contare soltanto sulle mie forze. Mi sentii gelare, ma
non
risposi, mentre avvolgevo le braccia attorno al collo di Nico,
nascondendo la
testa contro al suo petto.
Il dondolio
della sua andatura era così rilassante
che temetti sul serio di scivolare tra le braccia di Morfeo. Sfregai il
naso
contro alla scapola del figlio di Ade, e lo sentii rabbrividire.
Impossibile.
Forse era soltanto l’effetto della stanchezza. Il viaggio
nell’ombra non fu
traumatico come al solito. Sentii soltanto una stretta allo stomaco, ma
durò
pochissimi secondi. Quando arrivammo al Campo non c’era
nessuno ad aspettarci.
Evidentemente Nico aveva preferito venire a cercarmi per conto suo.
Decisione
saggia. Era inutile mettere in allarme Chirone e gli altri soltanto
perché ero
preoccupata per mio padre e avevo deciso di fare una gita
fuoriprogramma a New
York. L’ambiente rischiarato dalla luna era silenziosissimo.
Persino nella
cabina di Ermes non si sentiva volare una mosca. Non volevo tornarci.
Volevo
restare con Nico.
<<
Posso… Posso dormire da te stanotte?
>> Mormorai, con la voce ovattata dal tessuto della sua
maglietta. Di
sicuro se fossi stata lucida non glielo avrei mai chiesto, ma del resto
era
vero. Non volevo svegliarmi in preda agli incubi e agli attacchi di
panico. Con
lui non sarebbe mai successo, perché mi faceva sentire
protetta. E in quel
momento l’unica cosa di cui avevo bisogno era un luogo sicuro
dove riposare.
<<
Ah, Genesis.
Cosa devo fare con te? >> Sussurrò, ma il suo
tono era divertito.
Quando
aprì la porta della cabina di Ade tirai un
mezzo sospiro di sollievo. Quel posto era inquietante, con le pareti
nere e la
quantità industriale di pugnali sparsi un po’
dappertutto, ma non mi
interessava. Mi fece sdraiare sul suo letto, e sentii freddo senza il
suo corpo
contro il mio. Cavolo. Perché
pensavo
a quelle cose assurde? Mi sembrava di essere diventata la protagonista
di uno
di quei smielati romanzi rosa che avevo sempre detestato con tutto il
cuore. Mi
misi a sedere, mentre Nico frugava nel suo armadio.
<<
Tieni. >> Mi lanciò una maglietta,
che non ebbi la prontezza di afferrare al volo. Mi atterrò
in grembo. La
guardai per un istante, senza capire. Poi mi resi conto che la mia
canottiera
bianca era macchiata di sangue un po’ dappertutto, era sporca
di sudore e
coperta di sudiciume. Il diciottenne fissava il suo guardaroba mentre
io
indossavo la sua t-shirt e toglievo i pantaloncini, infilandomi poi
sotto le
lenzuola. Crollai a peso morto sul cuscino, senza riuscire a sostenere
il peso
della testa. Il ragazzo si sedette accanto a me, guardandomi con
un’espressione
indecifrabile dipinta sul volto pallido.
<<
Sai cosa? Sei un cavaliere senza macchia e
senza paura molto strano. >> Biascicai, con gli occhi che
mi si
chiudevano contro la mia volontà.
<<
Hai
battuto la testa, eh? >> Le sue labbra si curvarono in un
sorriso
sarcastico. Mi scostò una ciocca di capelli dalla fronte,
quasi distrattamente,
come se non ci avesse pensato. La sua mano si fermò sulla
mia guancia, mentre
si rendeva conto del suo gesto. Nonostante fossi nel mio mondo di
unicorni rosa
ed arcobaleni, mi sentii mancare il respiro al contatto con le sue dita
fredde.
<<
Mio padre sta bene. Mi dispiace… >>
Mi interruppi, sbadigliando.
<<
Mi dispiace per averti messo nei guai.
>> Borbottai con voce strascicata.
<<
Potevi morire, per colpa mia. Deve essere
una seccatura corrermi dietro a causa della profezia. >>
Bofonchiai ad
occhi chiusi, mentre il sonno tirava le mie membra con più
forza, per trascinarmi
nella sua spirale. Prima di perdere coscienza mi parve di sentirlo
sussurrare
qualcosa, ma forse me l’ero soltanto immaginato.
<<
La profezia non cambia le cose, Hale. Io ti
proteggerei sempre. >>
NOTE
AUTRICE
Ed
ecco il casino più piccolo nel casino grande. Comunque, non
so se riuscirò a
pubblicare il prossimo capitolo entro tre giorni, perché
domani ho gli esami
scritti e lunedì gli orali (AIUTO). Comunque, grazie mille
come al solito, e spero
che il capitolo vi sia piaciuto!
Bacioni
e buona fine delle vacanze :3
|
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Capitolo 14 *** Chapter thirteen- Monster ***
Chapter
Thirteen- Monster
If
I told you what I
was,
Would you turn your back on me?
And if I seem dangerous,
Would you be scared?
<<
Questo
posto non mi piace. >> Commentai, con il naso rivolto
all’insù.
L’edificio che ospitava il casinò Lete
era
enorme e sfavillante. Migliaia e migliaia di insegne luminose
inondavano
l’oscurità della notte, facendo sembrare il
grattacielo un enorme albero di
Natale di vetro e cemento armato. Non avevamo impiegato molto tempo a
trovarlo,
data la grandezza, ma era diverso dagli altri casinò di Las
Vegas. Innanzitutto
era decisamente sovraffollato, e poi sembrava che persino i senzatetto
potessero entrarci.
<<
Già, mio padre ha un pessimo gusto in fatto
di decorazioni. >> Lux si strinse nelle spalle, facendomi
l’occhiolino.
Il casinò Lete era gestito da- rullo
di
tamburi- Lete, il dio del fiume infernale. Non si poteva
certo dire che il
padre della ragazza brillasse per originalità, ma perlomeno
era dalla nostra
parte, o almeno speravamo. La divinità aveva contattato sua
figlia quel
pomeriggio, dicendole che era disposto ad aiutarci. Non sapevamo
esattamente in che
modo avrebbe potuto aiutarci, dato che in quel periodo
avremmo avuto bisogno
di un’intera squadra di medici e psicologi al seguito, ma non
eravamo nella
condizione di rifiutare una mano.
<<
Beh, prima ce ne andiamo meglio è. Dite che
possiamo entrare conciati così? >>
Domandò Adrian, squadrandoci da capo a
piedi. Mi grattai la nuca, dubbiosa. Eravamo decisamente in tenuta da
combattimento. Nico con gli anfibi e la maglietta nera, io e Lux con i
pantaloncini e i capelli raccolti, mentre il figlio di Nyx indossava la
maglietta arancione del campo. Ognuno si teneva ben stretta la propria
arma.
Sentire l’elsa di Gioiosa premere
contro le ossa del mio bacino mi infondeva sicurezza.
<<
Non ho alcuna intenzione di infilarmi uno
stupido smoking, quindi andiamo e basta. >> Nico mise
fine alle nostre disquisizioni
con tono sbrigativo, e si diresse verso il grande ingresso
dell’edificio.
Superammo un’Idra che sputava acqua nella vasca sottostante,
camminando spediti
sul tappeto rosso, stile Hollywood. Alcuni turisti in visita ci
lanciarono
occhiate stupite, probabilmente perché sembravano quattro
ragazzini strafatti
che andavano in giro vestiti da clown.
<<
Benvenuti al casinò Lete, signorine e
signorini. >> All’ingresso fummo bloccati da
due donne dall’aria molto
cordiale, che secondo il mio modesto parere non erano umane, proprio
per niente.
I loro capelli fluttuavano come mossi da una corrente marina, e la loro
pelle
assumeva una sfumatura leggermente bluastra quando tutte le lampadine
cambiavano colore, circa ogni venti secondi.
<<
Siamo le ancelle di Lete. Vi chiediamo
gentilmente di consegnarci le vostre armi. La politica del
casinò è molto
chiara a riguardo. Niente violenza, o sarete sbattuti fuori.
>> Sorrise
gentilmente l’altra. Lanciai un’occhiata a Lux. Era
lei la figlia del dio in
questione, perciò era lei che avrebbe dovuto ricorrere alla
sua parlantina in
caso di bisogno. La ragazza aprì la bocca, ma fu interrotta
da una delle due
ancelle.
<<
Oh, sappiamo chi sei, cara… Ma tuo padre ha
deciso che la politica del casinò va applicata a tutti i
suoi ospiti. Perciò…
>> Tese le mani verso di noi, in un gesto eloquente.
Estrassi Gioiosa dal fodero, con
titubanza. La
donna me la strappò di mano senza troppi complimenti, e fece
la stessa cosa con
la spada di Nico e quella di Adrian. L’operazione fu un
po’ più complicata con
Lux, dato che dovette consegnarle arco, frecce e faretra, ma alla fine
ne
uscimmo tutti pulitissimi.
<<
Le vostre armi vi saranno riconsegnate
all’uscita dal casinò, speriamo che il vostro
soggiorno sia piacevole. Buona
serata. >> Dissero all’unisono, poi si
spostarono, lasciandoci entrare.
L’ingresso era enorme. Al centro c’era
un’altra fontana scultura rappresentante
Idra , soltanto cinque volte più grande di quella esterna, e
dieci ascensori
caricavano e scaricavano tutti i visitatori ad una velocità
impressionante.
Lete aveva messo su un bell’affare, non c’era che
dire. Dovetti aggrapparmi
all’orlo della maglietta di Adrian per non essere travolta
dalla calca.
<<
Non perdetevi! >> Esclamò Nico,
cercando di sovrastare il vociare rimbombante. Alzai gli occhi al
cielo,
cominciando a spintonare la gente. Non sopportavo i luoghi affollati.
Tutto
quel contatto, sconosciuti che invadevano continuamente il tuo spazio
vitale…
No, decisamente non faceva per me. Alla fine riuscimmo ad arrivare
indenni al
bancone della reception. Il mio piede sinistro pulsava
ininterrottamente, dopo
essere stato pestato almeno una decina di volte, però ero
tutta intera.
<<
Posso fare qualcosa per voi, ospiti
mezzosangue? >> Un’altra donna con i capelli
fluttuanti picchiettava
sulla tastiera di un computer ad una velocità incredibile.
Non alzò nemmeno lo
sguardo mentre ci parlava. Urlò alla sua collega di
rispondere al telefono, poi
ci sorrise.
<<
Ehm… Dovremmo incontrare mio padre.
>> Rispose Lux, giocando nervosamente con la sua lunga
treccia argentea.
L’ancella alzò un dito, facendoci segno di
aspettare. Tornò concentrarsi sul
fisso di ultima generazione, con sguardo attento. Passò
qualche secondo, poi le
sue labbra si dischiusero in un sorriso a trentadue denti. Denti
bianchissimi,
dovevo dire.
<<
Oh, sì. Vi stava aspettando. Purtroppo per
raggiungere l’attico non è possibile prendere
l’ascensore. >> Si rabbuiò
per un attimo.
<<
Ma ovviamente ci sono le scale! >>
Trillò, felice. Oh, no. Per
favore,
assolutamente no. La mia gamba era ancora piuttosto malconcia, per non
parlare
poi del dolore pulsante alla spalla, che continuava a peggiorare ogni
volta che
facevo qualche sforzo.
<<
A che… A che piano è? >> Chiese
Adrian, cauto.
<<
Al cinquantesimo. Una passeggiata, no?
>>
<<
Già, cose da niente. >> Ringhiò
Lux,
sarcastica. Nico le afferrò il braccio prima che potesse
sbatterlo sul bancone
della reception, poi la trascinò via. Adrian ed io ci
affrettammo a seguirli,
non volendo rimanere indietro. Certo, quel posto era soltanto un
casinò… Però era
gestito da una divinità, pur sempre il padre di Lux, ma non
mi fidavo comunque.
Gli dei aiutavano molto raramente i mezzosangue, per qualche strano
motivo.
Probabilmente si ritenevano superiori ai mortali,
e preferivano vivere nella loro finta e fragile bolla di
perfezione, che
prima o poi sarebbe scoppiata. Dritta in faccia a loro.
<<
Sverrò prima di arrivare in cima. >>
Borbottai, accasciandomi contro la parete, nonostante non avessimo
nemmeno
salito un gradino. Per quale motivo non potevamo usare gli ascensori?
Volevo
farci venire un infarto? Eravamo troppo giovani per morire. Non sarei
rimasta
sorpresa se lungo il percorso ci fossero stati degli ostacoli. Stile
gioco
dell’oca.
Ops!
Sei caduto nella trappola. Vieni ucciso da un branco di Gorgoni e torni
al VIA.
Dei, stavo
impazzendo. Anche se l’idea di
considerare l’intera impresa come un gioco da tavolo mi
faceva spuntare il
sorriso sulle labbra. Ero sempre stata brava con i giochi in scatola.
Soprattutto a Cluedo. Di solito riuscivo sempre a capire chi era
l’assassino
prima degli altri. Chissà se in quel frangente la mia
abilità da detective mi
avrebbe aiutata a scovare la Cassandra Scarlett della situazione.
<<
Genesis? >> Sentii la mano di Nico
sulla schiena. Il suo sguardo si soffermò sui miei
pantaloncini. Sapeva che
stavo pensando alla mia gamba, e il fatto che certamente fare cinquanta
piani
di scale a piedi non mi avrebbe di certo guarita. Comunque avevo del
nettare
d’ambrosia nello zaino, e non è che un paio di
gradini mi avrebbero ammazzata… Giusto?
D’accordo, in realtà avrei
preferito mille volte combattere contro un’Empusa arrabbiata,
ma soltanto
perché ero piuttosto pigra. I miei migliori amici erano gli
ascensori.
<<
Ce la faccio. >> Risposi. Adrian e
Lux stavano già iniziando a salire a passo sostenuto, ma con
calma.
<<
Lo so. >> Rabbrividii, percependo il
suo respiro sul collo.
<<
Volevo solo sapere se stai bene. >>
Mi affiancò. Sembrava molto nervoso senza la sua fedele
spada al seguito. Beh,
non lo biasimavo. Io avevo Gioiosa da
pochi giorni e già mi mancava. Mi chiesi cosa sarebbe
successo se ci fossimo
imbattuti nei mostri. Non avremmo avuto via di scampo, a parte
scappare. Una
fortuna che fossi una maestra nell’arte della fuga.
<<
Mai stata meglio. >> Sbuffai. Non
avevamo ancora avuto l’occasione di parlare di tutto
ciò che era successo la
sera prima… In realtà stavamo entrambi evitando
quell’argomento. Lui non mi
sembrava arrabbiato, ma ripensando alle mie braccia attorno al suo
collo e al
profumo della sua maglietta contro la mia pelle cominciava a battermi
il cuore
a mille e mi sentivo la gola secca. Nico aprì la bocca per
rispondere, ma fu
interrotto.
<<
Ragazzi, volete sbrigarvi!? >>
Sbraitò Lux, ormai giunta alla seconda rampa di scale. Alzai
gli occhi al
cielo. Speravo che arrivati all’attico di Lete ci sarebbe
stato offerto almeno
uno spuntino, dato che avevo già fame.
Sempre
ammettendo il fatto che saremmo sopravvissuti
a cinquanta piani.
<<
Non mi sento più le gambe. >>
Ansimò
Adrian, accasciandosi contro l’unica porta che avevamo
trovato al cinquantesimo
piano. Sorprendentemente non c’era nessuno ad accoglierci. Mi
sarei aspettata
come minimo una decina di guardie armate, e le ancelle con la pelle
blu, ma
l’anticamera dell’attico era deserta. Strinsi i
denti, immobilizzandomi la
spalla con la manica della maglietta. Ad ogni passo che facevo il
dolore
peggiorava; non era niente in confronto a quello alla gamba.
<<
Ci abbiamo messo venticinque minuti. Un
record. >> Nico si passò una mano sulla
fronte, asciugandosi il sudore.
Estrassi la bottiglietta dell’acqua dal mio zainetto, praticamente finendola
senza nemmeno
respirare. Avrei voluto versarmela in testa, ma non ne rimaneva molta.
In quel
momento mi sarei stesa sul pavimento per dormire, ma purtroppo Lux era
già
passata all’azione. Bussò un paio di volte alla
porta dell’attico, con aria
piuttosto tesa. Del resto quando un dio proponeva il suo aiuto non
c’era da
fidarsi. Avrebbe potuto tenderci una trappola, o cose del genere.
Magari era
dalla parte di Chaos. Tutti quei dubbi cominciarono a farmi pensare che
forse
la missione non si sarebbe svolta come previsto. Per fortuna eravamo
riusciti a
convincere Emma a restare al Campo. Non potevamo permetterci che le
succedesse
qualcosa di brutto.
<<
Lux, figlia mia! >> Lete era un uomo
sui quarant’anni, con i capelli argentei e un paio di iridi
azzurro liquido,
che sembravano galleggiare placidamente attorno alla pupilla bluastra.
Il dio
abbracciò sua figlia con trasporto, come se non la vedesse
da mesi e mesi. Per
un momento mi sentii triste. A Lete importava di Lux, le voleva bene.
Mia madre
non mi aveva nemmeno sfiorata quando ci eravamo incontrate per la prima
volta
nella radura. Per lei probabilmente ero soltanto un peso, oppure uno
strumento
d’intermediazione con gli dei. Senza di me nessuno le avrebbe
mai creduto,
nemmeno Apollo.
<<
Vedo che ci sono anche i tuoi amici. Mi
dispiace che la piccola Emma non sia potuta venire. Prego, entrate!
Fate come
se foste a casa vostra. >> L’uomo ci
mostrò un sorriso candido, scostandosi
dall’uscio. Varcammo la soglia uno alla volta, con titubanza.
Quando mi trovai
davanti l’attico rimasi a bocca aperta. Era una specie di
loft enorme, con una
piscina gigantesca proprio al centro del salone. Dal lato opposto della
stanza,
a circa venti metri di distanza, c’erano i fornelli e un
tavolo ultramoderno,
dall’aria leggera. Le ancelle di Lete spolveravano qua e
là, con velocità e
maestria. Un grande letto matrimoniale dava sulla vetrata del
cinquantesimo
piano. Da lassù la vista era mozzafiato.
<<
Bella catapecchia. >> Commentò Adrian
a mezza voce. Si passò una mano tra i capelli, come in
trance.
<<
Carino, vero? La piscina è riempita con
l’acqua del mio fiume. >> Spiegò
Lete, con un gesto teatrale.
Effettivamente l’acqua della piscina si muoveva placidamente,
scossa da una
forza misteriosa, che sembrava provenire dalle particelle stesse.
<<
Perché? >> Domandò Nico,
incrociando
le braccia sullo stomaco. Non dava l’impressione di essersi
particolarmente
stupito, ma sapevo che odiava mostrare i suoi sentimenti,
perciò aveva addosso
la solita maschera impenetrabile che lo caratterizzava.
<<
Ho promesso che vi avrei aiutato, e così
farò. Prima però mi serve un volontario. Non
potete entrare tutti nella vasca.
>> Lete ignorò il figlio di Ade, facendosi
improvvisamente serio. Perché
diamine stava chiedendoci di fare il bagno? Non avevo nemmeno il
costume. Ci
lanciammo uno sguardo preoccupato.
<<
Perché? >> Fu Lux a chiederlo.
Avevamo deciso che sarebbe stata lei a fare da mediatrice, del resto
era sua
figlia.
<<
Un volontario… >> Cantilenò Lete,
scuotendo la testa.
Un volontario
per cosa? Sinceramente per la
settimana ne avevo avuto abbastanza di
missioni suicide. Non volevo entrare in quella stupida piscina. Magari
il dio
desiderava soltanto i miei ricordi, oppure ci stava prendendo in giro e
mi
avrebbe annegata, o cose del genere. Portai una mano al fianco,
dimenticandomi
che Gioiosa era rimasta al piano
terra. Con la coda dell’occhio osservai la porta. Due ancelle
si erano
posizionate davanti all’uscio, impedendoci la fuga. Era come
se Lete avesse
voluto intrappolarci all’interno. Guardai Nico, accanto a me.
Aveva la bocca
serrata in una linea sottile, ma dalla sua espressione capii cosa stava
per
fare. Voleva offrirsi come volontario. La sua scelta sarebbe stata
piuttosto
sensata, dato che era il più grande e il più
potente tra noi quattro. Senza
nulla togliere ad Adrian, ma quel ragazzo era figlio di Ade. Le sue
abilità
erano sconfinate, ed era abituato a combattere, a differenza nostra.
Però… No.
<<
Io. Voglio
essere io. >> Dissi, prima che Nico potesse
parlare. Percepii quattro
paia di occhi puntati verso di me.
<<
Non… >>
<<
Perfetto! >> Lete interruppe il
diciottenne, prendendomi per mano. La sua pelle era cada e asciutta, in
modo
quasi rassicurante. Non era un uomo cattivo. Non aveva l’aria
da moglie arcigna
come Era, né l’aspetto isterico di Zeus. Sembrava
semplicemente un ricco,
gentile ed attraente proprietario di un grande casinò.
<<
Se non ti dispiace, dovresti spogliarti.
Funzionerà meglio se sei senza vestiti. >>
Sorrise il dio.
La mia mascella
toccò terra. Cosa!? Non
avevo alcuna intenzione di immergermi nuda- davanti a
ben due ragazzi- in quella
stupidissima piscina. Lanciai uno sguardo di supplica a Lux, ma lei
scosse la
testa, come per scusarsi. Sbuffai. Ero stata io a fare quella scelta,
perciò
sarei andata fino infondo. Mi liberai dello zainetto, lasciandolo
cadere sul
pavimento. La mia spalla protestò a gran voce mentre mi
sfilavo la maglietta,
buttandola da qualche parte. Sentii lo sguardo di Adrian e Lux
perforarmi la
schiena. Si stavano sicuramente chiedendo perché fosse piena
di graffi. Nico
non aveva detto a nessuno di ciò che era successo la notte
prima. Non voleva
che nessuno si preoccupasse, dato che avevamo già abbastanza
problemi di cui
occuparci. Le mie mani tremavano mentre sbottonavo i pantaloncini di
jeans,
facendoli scivolare lungo le gambe. Poi scalciai via scarpe e calzini,
stringendomi le braccia attorno alla gabbia toracica.
<<
Adesso? >> Domandai, con voce
incredibilmente ferma. Ringraziai il cielo di non essermi messa il
reggiseno
con gli ippopotami. Sarebbe stato davvero imbarazzante.
<<
Ti spiegherò brevemente cosa succederà.
>> Cominciò il dio, nel silenzio
più assoluto. Ordinai al mio cuore di
battere più lentamente; avevo paura che gli altri
riuscissero a sentirlo.
<<
Come sai, il fiume Lete è il fiume
dell’oblio, della dimenticanza. Ma ha anche
un’altra… funzione. >>
Continuò.
<<
Svariati millenni fa, sono stato incaricato
dagli dei di conservare i loro ricordi più preziosi, in modo
che non fossero
mai caduti in dimenticanza. Ebbene, te ne mostrerò uno. Un
ricordo in
particolare che sarà utile per la vostra impresa.
>> D’accordo, fino a
quel punto niente di preoccupante.
<<
Ti immergerai nell’acqua. Dovrai riuscire a
trattenere il fiato per un po’, perché non appena
tornerai fuori le immagini si
fermeranno, e andranno perdute per sempre. >> Ecco.
Mi sembrava un
po’ troppo facile. Non ero mai stata
ad un corso di sub, e- nonostante mi piacesse l’acqua- non
avevo mai battuto il
record mondiale di apnea. Se solo Percy fosse stato lì, in
quel momento… Non ci
saremmo trovati in quella situazione molto rischiosa. Annuii. Non
potevo
permettermi di avere paura. Dovevo concentrarmi, e pensare a cosa
sarebbe successo
se non avessi resistito abbastanza. Non potevo fallire, ne andava della
riuscita dell’impresa. Non volevo che il mondo andasse a
pezzi a causa mia. Non
volevo che Chaos si risvegliasse perché non ero abbastanza
forte. Gli avrei
dimostrato che sotto la ragazzina impaurita si nascondeva un eroe. Fu quella parola ad infondermi
coraggio.
Scesi lentamente i gradini che portavano sul fondo della piscina.
L’acqua non
era caldissima, ma nemmeno troppo fredda. Rabbrividii quando il liquido
cristallino arrivò a sfiorarmi le costole. Presi un respiro
profondo, e poi mi
tuffai. L’acqua si richiuse sopra la mia testa, e divenne
tutto nero.
Mi
trovo nella sala del trono. Gli intarsi dorati alle pareti non sono
cambiati,
ma le poltrone sono sparite, lasciando spazio a lunghi tavoli per i
banchetti. I
piatti sono stracolmi di pietanze prelibate; risa e chiacchiere si
diffondono
nell’aria, rendendo l’ambiente caldo ed
accogliente. Gli dei e le ninfe sono
riuniti attorno ai tavoli, e mangiano con eleganza e compostezza,
parlando tra
loro e con i propri vicini. Sono tutti rilassati, e felici. Atena e
Poseidone
si lanciano occhiatacce da lontano, ma l’astio reciproco non
sta rovinando la
festa. Un uomo e una donna che non ho mai visto si tengono per mano,
guardandosi negli occhi. Sono amanti.
<<
Sono davvero molto offesa, Teti. >> Nella sala del trono
cala il
silenzio. Mia madre ha spalancato il portone. E’ bellissima.
I capelli rossi le
ricadono sulla schiena, e il peplo bianco le fascia il corpo perfetto,
mettendone in risalto ogni curva. Ai piedi indossa un paio di sandali
chiari.
In mano tiene una mela. Una mela d’oro.
<<
Eris. >> E’ stato Zeus a parlare. Si alza in
piedi, riducendo gli occhi
blu a due fessure.
<<
Ma, nonostante reputi questo mancato invito una grave mancanza di
rispetto,
sono venuta per porgere i miei omaggi agli sposi. E consegnare il mio
regalo.
>> Il ghigno sulle labbra di mia madre fa quasi paura. Si
avvicina con
passo baldanzoso fino ai tavoli del banchetto. La mela che ha in mano
non passa
inosservata. La posa esattamente al centro della tovaglia, vicino ad un
piatto
pieno di frutta prelibata.
<<
η πιο
όμορφη >>
Dice, a voce alta.
Alla
più bella.
<<
E’ stato un piacere passare a salutarvi. Buon proseguimento.
>> Poi
lancia un’occhiata ad Atena, Era ed Afrodite, e scompare.
Nella
sala del trono si levano esclamazioni indignate, ma non presto molta
attenzione. Vicino ad un focolare c’è una bambina.
E’ piccola, ma nei suoi
occhi si legge la saggezza di una dea. Tiene in mano un calice dorato,
molto
simile a quello degli altri dei. La bambina sta piangendo. Ha capito
cosa ha
scatenato Eris. Sa che a breve scoppierà la guerra di Troia.
Una lacrima
risplendente cade nel calice d’oro, e improvvisamente capisco.
L’ho
trovato.
Ho
trovato il calice della vita
Quando riaprii
gli occhi ero ancora sott’acqua, e la
testa mi stava scoppiando. Riemersi velocemente, cominciando a tossire
e
sputacchiare. I polmoni mi facevano male, ma ero riuscita a resistere.
Finalmente sapevo cosa era il calice della vita. Non sapevo che le
lacrime di
una dea bambina sarebbero state così importanti, ma restava
ancora da scoprire
dove diamine fosse stato nascosto. La terra della morte…
Cosa c’era di più
mortale del Tartaro? Salii di fretta i gradini, desiderosa di poter
uscire da
quell’acqua così strana, ma me ne pentii subito.
L’aria dell’attico era fredda,
ed io completamente bagnata. Un’ancella di Lete si
materializzò accanto a me,
avvolgendomi un asciugamano attorno alle spalle.
<<
Oh, per gli dei… >> Lux mi
abbracciò,
rischiando di stritolarmi. Ricambia la stretta, sorpresa. Non avevo mai
avuto
una vera amica, eppure lei si comportava come tale.
<<
Ehi, sto bene! >> Esclamai, evitando
di farle notare che mi aveva distrutto la spalla dolorante. La figlia
di Lete
era pallidissima. Nemmeno il colore ambrato della sua pelle riusciva a
nascondere il bianco delle guance.
<<
Non ti muovevi… Sembravi morta. >>
Borbottò, con gli occhi spalancati. Ah.
Mentre avevo la
visione
mi ero completamente dimenticata di essere in acqua. Soltanto quando mi
ero
svegliata avevo capito che ero lì sotto da troppo tempo, e i
miei polmoni
avevano un disperato bisogno d’aria. Mi strinsi nella
salvietta, mentre ai miei
piedi- sul lussuoso parquet- si formava una grande pozza trasparente.
Lanciai
uno sguardo di scuse a Lete, ma lui si limitò a sorridere.
Se lui custodiva i
ricordi degli dei non poteva semplicemente dirci cosa era il calice
della vita,
invece di farmi quasi affogare? Lasciai da parte quel pensiero. Infondo
gli dei
erano tutti uguali. A loro piaceva far dannare i propri figli
mezzosangue.
<<
Hai trovato quello che cercavi, Genesis
Hale? >> Domandò Lete, facendosi
improvvisamente serio.
<<
Sì. >>
Rimaneva
soltanto da scoprire dove diamine si nascondesse.
<<
Mi fanno male i piedi. >> Borbottò
Lux, rovesciando i suoi scarponcini scuri, che cominciarono a vomitare
sabbia
dorata e sottile. Le luci di Las Vegas illuminavano
l’ingresso del deserto del
Nevada, il luogo perfetto per fare un viaggio nell’ombra e
non essere visti dai
mortali, a detta di Nico. Purtroppo per raggiungerlo eravamo stati
costretti a
camminare per un’ora intera, schivando turisti spaesati e
gente che rincorreva
i ladri di portafogli o i truffatori. Sbuffai, lasciandomi cadere su un
masso
relativamente piatto, perfetto per riposarsi qualche istante. Avevo
ancora i
capelli fradici, per non parlare delle mutande e del reggiseno, che
avevano
inzuppato anche i pantaloncini di jeans e la canottiera scura. Non che
l’acqua
mi desse particolarmente fastidio, ma la sensazione di viscido sulla
pelle mi
faceva venire i brividi. Nel deserto non c’erano gli
scorpioni? Per non parlare
poi dei serpenti velenosi, e…
<<
Possiamo riposarci per qualche minuto e poi
tornare al campo. >> Suggerì Adrian. Gli
lasciai un po’ di spazio, e lui
si accomodò accanto a me, poggiando i gomiti sulle
ginocchia. Annuii, ma ero
inquieta. Era stranissimo che nessun mostro ci avesse attaccati.
Eravamo in
quattro semidei, per di più tutti insieme nella stessa
città. A detta del
figlio di Ade eravamo come un razzo segnalatore per le creature del
tartaro,
eppure non avevamo ancora ricevuto visite indesiderate. Poggiai Gioiosa sulle mie gambe, facendo passare
le dita sulla lama fredda, perfettamente lavorata. Il bronzo celeste
scintillava nel buio della notte, infondendomi una sensazione di
sicurezza.
<<
Io muoio di fame. Chi vi ha dato il
permesso di prendere i posti migliori? >> Si
lamentò Lux, intenta a
rifarsi la treccia, ormai completamente disfatta. Quella massa di
capelli non
doveva essere di certo facile da controllare. Erano tanti, e
lunghissimi.
Ripensandoci anche io avrei dovuto tagliarmeli. Ormai mi arrivavano
alla vita,
e il sudore me li faceva appiccicare al collo. In quel momento avrei
voluto
essere un maschio. Adrian ridacchiò, ma non era affatto
intenzionato ad
alzarsi. Gli lanciai una lunga occhiata di sottecchi. I suoi occhi
erano
identici a quelli di Emma, per non parlare della curvatura delle labbra
e la
forma del naso. Si sarebbe visto anche ad un chilometro di distanza che
erano
fratelli.
<<
Li ha visti prima Genesis. Invece di
lagnarti potevi darti una mossa. >> Sorrise il figlio di
Nyx. Lux gli
fece la linguaccia, incrociando le braccia sotto il seno. Era riuscita
a
pettinarsi con le mani, e la treccia che le ricadeva sulla spalla era
perfetta.
Come diavolo aveva fatto? Io ci avrei impiegato come minimo
mezz’ora. Mi legai
i capelli in una coda sbrigativa, scostandomi dagli occhi delle
fastidiose
ciocche che mi ostruivano la visuale.
<<
Dovremmo andarcene. >> Commentò Nico.
Si era deciso ad aprire la bocca? Era dalla nostra breve visita da Lete
che non
parlava. Si era chiuso in uno strano mutismo, e rispondeva alle domande
con
grugniti o sguardi scocciati. Quel ragazzo era decisamente ingestibile.
Se ne
stava in piedi a fissare un punto indefinito. Sembrava preoccupato,
come se
aspettasse qualcosa con ansia. Forse aveva paura che un mostro ci
attaccasse.
<<
Sei sicuro di farcela, amico? Ci è avanzato
del nettare. >> Disse Adrian, sventolando in mano una
boccetta di
ambrosia. Non c’erano stati problemi con il viaggio
nell’ombra per arrivare a
Las Vegas, perché Nico non era stanco. Ma in quel
momento… E poi avrei
preferito di gran lunga farmela a piedi fino a New York. Al solo
pensiero di
quel tunnel oscuro mi vennero i brividi.
<<
Sto bene. Soltanto… Speravo che Lete ci
avrebbe rivelato qualche informazione più utile.
>> Scrollò le spalle,
scuotendo la testa.
<<
Ci ha rivelato un’informazione utile. Ora sappiamo
cos’è il calice della vita. >>
Risposi, stringendomi nelle spalle. Poi mi
alzai in piedi, allungando le braccia verso l’alto, cercando
di sciogliere i
miei muscoli doloranti.
<<
Ma non sappiamo a cosa serve, né dove è
stato nascosto. Forse se… >> Il figlio di Ade
si interruppe, lanciandomi
una strana occhiata. Mi piantai le mani sui fianchi, inarcando le
sopracciglia.
Cosa stava tentando di insinuare?
<<
Forse se cosa? >>
Domandai, sulla difensiva. Lui rimase in silenzio
per un secondo. Temetti che non mi avrebbe risposto, e forse avrei
fatto meglio
a sperarlo.
<<
Se avessi lasciato entrare me,
probabilmente non saremmo tornati a mani vuote. >>
Spiegò, con tono
piatto. Fui tentata di scoppiare a ridere e di saltargli al collo al
tempo
stesso. Sapevo che
sarei dovuta aspettarmi
una risposta del genere. Del resto era di Nico Di Angelo che si
trattava.
<<
Perché sai trattenere il fiato più a lungo?
>> Ringhiai, avvicinandomi di un passo. Lui si
voltò verso di me, incrociando
le braccia al petto. Gli lanciai l’occhiata più
cattiva del mio repertorio.
Odiavo quella sua espressione impenetrabile. Riusciva a nascondere
così bene i
suoi sentimenti da essere superiore a tutto e a tutti. Anche io avrei
voluto
riuscirci.
<<
Perché ho più esperienza di te, ragazzina.
>> Ribatté con voce
aspra. Digrignai i denti.
<<
Non chiamarmi ragazzina, idiota
presuntuoso. >>
<<
Io
sarei un idiota presuntuoso? Tu non riesci proprio a capire il ruolo
che hai in
questa storia. >> Mi puntò un dito contro, con
fare accusatorio.
<<
Oh, invece capisco perfettamente! Non sono
versi difficili di interpretare, sai com’è. Devo
morire, punto. >> La mia
voce stava cominciando ad alterarsi. Non ero una che urlava molto
spesso, ma in
quel momento mi sarei messa volentieri a gridare a pieni polmoni.
<<
Devi morire al momento giusto. >>
Ringhiò. Barcollai all’indietro, come se mi avesse
mollato uno schiaffo.
Deglutii, sentendo le lacrime salire agli occhi. Non pensavo che
sarebbe stato
capace di dire una cosa del genere, anche se effettivamente aveva
ragione.
<<
Sono felice che ti importi così tanto di
me. >> Sibilai, con voce gelida. Sentivo lo sguardo di
Lux ed Adrian
perforarmi la schiena. Nico mi afferrò per un polso, prima
che potessi girare i
tacchi e scappare nel deserto a gambe levate, diretta verso
chissà dove.
<<
Non è quello che intendevo. >>
<<
Ah, davvero? Allora cosa intendevi?
>>
<<
Ragazzi. >> Disse Lux. La ignorai.
<<
Sei tu che mi fai dire cose che non voglio.
>> Abbaiò il figlio di Ade, rincarando la
stretta. Mi stava quasi facendo
male. Non provai nemmeno a divincolarmi, tanto sapevo che sarebbe stato
inutile.
<<
Quindi adesso è colpa mia. Cercavo soltanto
di tenerti al sicuro, Nico. Non volevo che tu ti immergessi in quella
stupida
piscina, d’accordo? >> Ok, gli stavo
praticamente sbraitando in faccia.
<<
Non ho bisogno della tua protezione, Hale!
>>
<<
Ragazzi, sul serio.
>> Ritentò Lux. Le lanciai
un’occhiataccia, poi mi
bloccai. Lei ed Adrian non stavano fissando noi. Il loro sguardo era
rivolto
verso l’alto. Erano entrambi piuttosto pallidi. Il figlio di
Nyx aveva
sguainato la spada, mentre la ragazza teneva in mano l’arco,
con una mano
dietro alle spalle, infilata nella faretra. Deglutii. Nico ed io ci
voltammo
contemporaneamente.
Mi trovai di
fronte a due occhi gialli ed enormi.
Anzi, a diciotto occhi gialli ed enormi; perché un drago a
nove teste ci
fissava con aria poco amichevole. La prima cosa che mi venne in mente
fu come
diavolo avevamo fatto a non accorgerci di quel mostro orribile. La
seconda una
serie di immagini di noi che morivano carbonizzati o in modi persino
più
atroci, tipo bruciati a fuoco lento come degli spiedini di carne.
Spalancai la
bocca, incerta se urlare o scoppiare a piangere, ma il diciottenne mi
atterrò
prontamente. Sentii il calore di una fiammata sul volto, poi rotolammo
via
insieme. Mi alzai velocemente, estraendo Gioiosa
dal fodero. La spada dello Stige di Nico roteò a
qualche centimetro dal mio
volto.
<<
Non tagliate le teste! >> Sbraitò
Adrian, prima di nascondersi dietro al masso dove era seduto.
Improvvisamente
capii di fronte a cosa ci trovavamo.
Era
un’Idra. Il drago a sette teste che Ercole era
riuscito a sconfiggere. Il drago che in quel momento ci stava ruggendo
contro,
e di certo non stava tentando di avere con noi una conversazione
amichevole.
Lux riuscì a mirare all’occhio di una delle teste,
mezzo accecando quel mostro
orribile. In tutta risposta l’Idra sputò una
vampata di fuoco, che la figlia di
Lete riuscì a schivare soltanto per un pelo. Cercai
disperatamente di portare a
galla le poche cose che avevo studiato sulla letteratura greca. Come
aveva
fatto Ercole? Fuoco, serviva del fuoco. Avremmo dovuto bruciare i
moncherini
delle teste, altrimenti ne sarebbero ricresciute due, e allora la
situazione si
sarebbe fatta davvero disperata. Il problema principale era che non
avevo idea
di come saremmo riusciti ad accendere un fuoco di notte, nel bel mezzo
del
deserto.
<<
Dobbiamo scappare. Raggiungiamo Lux ed
Adrian, poi vi porto al campo. >> Comunicò
Nico. Evidentemente era giunto
alla nostra stessa confusione. Provai a fare un passo in direzione dei
due, ma
un muro di fuoco si frappose tra noi. L’Idra non aveva alcuna
intenzione di
lasciarci andare. Vivi, perlomeno. Non potevamo ucciderla, non potevamo
fuggire…
E allora cosa avremmo fatto? Improvvisamente mi venne
un’idea. Era un piano
folle e suicida, ma dovevo tentare.
<<
Distraetela! >>
<<
Devo riuscire a raggirarla senza che mi
veda! >> Sbraitai poi, e partii di corsa. Sentii Nico
imprecare in una
lingua a metà tra il greco antico e lo slang del Bronx,
lanciandosi al mio
inseguimento. Fui tentata di tirargli in testa la spada, ma evitai.
Adrian
cominciò a mulinare le braccia, attirando
l’attenzione del mostro, mentre dalla
direzione di Lux cominciava a partire una raffica di frecce
dall’aria piuttosto
letale. Schivai per un pelo la coda dell’Idra, che mi avrebbe
certamente
mozzato la testa, e continuai la mia corsa.
<<
Cosa vuoi fare!? >> Gridò il figlio
di Ade, allontanando con un fendente l’enorme zampa del
drago, che stava per
spiaccicarlo come una frittella. L’Idra ruggì di
dolore, arrabbiandosi ancora
di più.
<<
Fidati di me! >> E poi arrivai di
fronte al mostro. Avevo il cuore che batteva a mille, e sentivo che
sarei
potuta svenire da un momento all’altro. Lascia cadere Gioiosa sulla sabbia, deglutendo. Poi
urlai, con voce acuta. Il
drago si bloccò, abbassando lo sguardo su di me. Mi trovai
di fronte un’enorme
testa squamosa, e un paio di occhi gialli dalla pupilla allungata.
Occhi
incantatori, brillanti.
<<
Fermati.
Io ti ordino di fermarti. >> Dissi, con tono deciso.
L’Idra emise uno
sbuffo dal naso, confusa. Incatenai i miei occhi con i suoi, sentendo
il mio
potere fluire verso il mostro. Riuscivo a vederlo, come una leggera
brezza
fresca che mi faceva rizzare i peli delle braccia, quasi fosse
elettricità
statica.
<<
Non essere il mostro che vogliano tu sia.
>> Continuai, con voce più dolce. Il drago
socchiuse i grandi occhi,
prorompendo in una specie di lamento. Con un tonfo fragoroso si sedette
a
terra. Sentivo tutti gli occhi di tutte le teste fissi su di me. Io
stavo di
fronte alla più grande, quella velenosissima. Riuscivo
perfettamente a vedere
le file di denti affilati, che avrebbero potuto dilaniare la mia carne
in
qualche secondo. Allungai una mano verso il muso del drago, tremando.
<<
Sei meglio di così. Io ti tratterei bene.
>> Sussurrai, mantenendo il contatto visivo.
Poi accadde
l’impossibile. L’Idra diede un buffetto
alla mia mano col naso enorme, poi chinò la testa, toccando
terra. Accarezzai
la pelle brillante e squamosa, non riuscendo a credere ai miei occhi.
Avevo
appena addomesticato un drago gigante. Nemmeno Ercole ci era riuscito.
Un lampo
di inquietudine mi fece stringere il cuore. Avevo domato un mostro.
Forse ci
ero riuscita perché non eravamo poi così diversi.
Perché forse c’era anche
dentro di me, quel mostro.
<<
Per gli dei.. >> Mormorò Adrian,
mentre io mi lasciavo cadere accanto al mostro, dando buffetti sul
collo lungo
e viscido.
<<
Allora. >> Cominciai.
<<
Chi vuole un passaggio per New York?
>>
NOTE
AUTRICE
Ta-daaaaan!
Allora, innanzitutto mi scuso per il ritardo, ma sono stata molto
impegnata.
Lunedì inizia la scuola e io voglio scappare in
Perù. Giuro che lo faccio. Non
voglio ricominciare a studiare, non sono psicologicamente pronta.
Comunque,
spero che il capitolo vi sia piaciuto, lasciate una recensione! Grazie
mille e
bacioni-oni :3
|
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Capitolo 15 *** Chapter fourteen- Teenage Dream ***
Chapter
fourteen- Teenage Dream
Before you met me, I was a
wreck but things
Were kinda heavy,
you brought me to life
Now every February,
you'll be my valentine, valentine
Let's go all the
way tonight
No regrets, just
love
We can dance until
we die
You and I
We'll be young
forever
Mi abbassai in
tempo per schivare una patatina
volante, che finì proprio in mezzo alla scollatura della
maglietta che
indossava Lux. La ragazza alzò gli occhi al cielo, lanciando
un’occhiataccia ad
un tizio con i capelli verdi dall’altra parte
dell’arena. Doveva essere un
figlio di Ecate, o cose del genere. Non pensavo che con il termine
“consiglio
di guerra”, al campo mezzosangue intendessero una specie di
battaglia di cibo e
palline di carta. In realtà non sarebbe dovuto finire in
quel modo. Tutti i
semidei si erano riuniti per discutere della nostra impresa,
utilizzando come
portavoce i propri capo-cabina. Poi Clarisse aveva cominciato a
litigare con
Trevis Stoll, che le aveva rovesciato in testa un bicchiere di
aranciata. Dopo
di che la situazione era definitivamente precipitata. Chirone stava
inutilmente
tentando di riportare l’ordine all’interno
dell’arena, mentre Lux ed io ci
eravamo rifugiate nella parte più alta delle gradinate,
sperando di non finire
ricoperte di Chips o di maionese.
<<
Fanno sempre così? >> Domandai,
incrociando le braccia al petto. La figlia di Demetra seduta accanto a
me
sbuffò, esasperata.
<<
Sì, la maggior parte delle volte. Sta
andando meglio del previsto, a dire il vero. >> Lux
ridacchiò, scuotendo
i lunghi capelli argentei. Riusciva a mantenere il suo aplomb anche in
una
situazione del genere. La invidiavo da morire. Feci scorrere lo sguardo
verso
il basso. Adrian ed Emma erano seduti vicini. Lui sembrava preoccupato,
mentre
sua sorella continuava a sghignazzare, estremamente divertita. Poi i
miei occhi
si imbatterono in un paio di iridi scurissime. Nere, quasi come la
pupilla. Di
Angelo mi fissava dal basso, con le labbra stirate in una linea
sottile. Sentii
il mio cuore accelerare i battiti. Non ci eravamo più
parlati dalla sera prima.
Non dopo quello che mi aveva detto.
<<
Di questo passo finiremo per distruggere il
campo intero. >> Commentai, sospirando. Non che fossi
impaziente di
partecipare al mio primo consiglio di guerra, ma il tempo stringeva.
Negli
ultimi due giorni non c’erano state tempeste, ma Chaos non
avrebbe tardato a
farsi sentire. Stava soltanto pianificando la sua perfetta partita a
scacchi. E
io non ero mai stata una buona giocatrice. Ero troppo impaziente,
impulsiva…
Non avrei esitato a sacrificare tutti i pezzi forti, per salvare la mia
regina.
<<
Si calmeranno, prima o poi. >> Lux si
strinse nelle spalle. Non sembrava particolarmente tesa, o nervosa. Non
la
conoscevo bene, ma ero sicura di poter affermare che quella ragazza era
una
maestra nel nascondere i suoi sentimenti. Forse era per quello che lei
e Nico
erano così amici. Con la coda dell’occhio notai
Piper raggiungere il centro
dell’arena, affianco a Chirone.
<<
Silenzio! >> Sbraitò la ragazza. Mi
sentii improvvisamente stordita, ma durò soltanto qualche
istante. Istante che
riuscì a calmare gli animi, e a far tornare tutti quanti ai
propri posti. Già.
Annabeth me lo aveva detto quel pomeriggio. Piper McLean era una figlia
di
Afrodite con il dono della parola. La sua lingua
ammaliatrice era molto potente. “Ma mai come il
tuo sguardo, Genesis.”,
aveva sorriso poi la bionda. Era un complimento, ma non avevo potuto
fare a
meno di abbassare lo sguardo, imbarazzata. Mi passai una mano tra i
capelli,
appiccicati al collo a causa del sudore freddo. Il centauro
chiamò tutti e
cinque in prima fila. Mi trovai incastrata tra Nico ed Emma. Continuai
a
fissare fieramente davanti a me. Non avevo alcuna intenzione di voltare
la
testa, per nessun motivo.
<<
Dichiaro ufficialmente iniziato il
consiglio di guerra! >> Esclamò Chirone,
battendo uno zoccolo a terra. Il
signor D. sorseggiò un po’ della sua Diet Coke,
con aria annoiata. Quell’uomo
era davvero impossibile.
<<
Come tutti sapete, i cinque semidei della
profezia dovranno partire al più presto. I problemi sono
molti e anche gravi.
Innanzitutto, abbiamo bisogno di una squadra che riesca a scoprire dove
si
nasconde il Calice della Vita. >> Cominciò il
centauro, con voce tonante.
L’acustica dell’arena era davvero fantastica. Tutti
riuscivano a sentire cosa
stava dicendo, anche se fino a qualche momento prima le urla e gli
schiamazzi
erano diventati davvero assordanti.
<<
I figli di Atena sono a disposizione.
>> Annabeth si alzò in piedi. Chirone
annuì, anche se tutti sapevamo che
non c’era nemmeno bisogno che la ragazza si proponesse.
Annabeth Chase era una
leggenda al campo mezzosangue, così come il suo ragazzo-
Percy Jackson- che se
ne stava seduto accanto a lei, con aria decisamente contrariata. Non
potevo
biasimarlo. Del resto la sua fidanzata era incinta, e il risveglio di
Chaos non
l’avrebbe di certo aiutata ad affrontare la gravidanza con
serenità.
<<
I satiri ci comunicano che i mostri del
Tartarono si ricreano sempre più velocemente,
perciò necessitiamo di unità che
pattuglino New York, giorno e notte. In più ci
servirà una squadra che stia ai
confini del campo. Non vogliamo brutte sorprese. >> Era
davvero
interessante assistere al discorso di Chirone. I semidei erano spesso
anarchici
e facevano quello che avevano voglia, ma quando si trattava di
proteggere la
propria casa e la propria città… Beh, di certo
non avrei voluto averli contro.
<<
Non chiederemo l’aiuto del Campo Giove?
>> Domandò Leo, qualche fila dietro la nostra.
Campo Giove? Cosa diamine era il
campo Giove? Lanciai un’occhiata
interrogativa ad Emma, ricordandomi subito dopo che era una ragazzina
di dodici
anni, ed era stata riconosciuta soltanto pochi giorni prima. Certo,
avrei
potuto chiedere all’individuo accomodato alla mia sinistra,
ma… No. Non
gliel’avrei data vinta così facilmente.
<<
Piper ha contattato Jason Grace con un
messaggio-iride. La delegazione dei romani sarà qui molto
presto. >>
Rispose il centauro. Un brontolio si diffuse nelle file dei
mezzosangue.
Evidentemente non erano d’accordo sulla decisione.
<<
Creeranno soltanto problemi! >>
Abbaiò Clarisse, acclamata dai suoi fratelli, figli di Ares.
Vidi Adrian
lanciarle un’occhiataccia, mentre Annabeth si alzava di nuovo
in piedi, pronta
a controbattere. Avrei tanto voluto sentire la sua risposta. Ma il
mondo
davanti ai miei occhi sfumò, e caddi in un buco nero.
Sono
nel deserto. Le dune di sabbia si estendono all’infinito,
inondando
l’orizzonte. Fa caldo, caldissimo. La mia gola riarsa brucia,
supplicando per
un po’ di acqua. Il calore del sole mi fa scottare la nuca,
bollente. Di fronte
a me si erge un grande edificio a due piani. Sembra una fabbrica
abbandonata,
ma sopra la grande porta in alluminio è affisso un cartello
luminoso.
Discoteca Τερψιχόρη-
Orario
23.00-5.00
Discoteca
Tersicore. Perché nel deserto c’è una
discoteca? Avanzo di qualche passo,
incerta. Se entrassi troverei sollievo, ma non voglio farlo.
C’è qualcosa che
mi attira verso quel posto, ma allo stesso tempo il mio istinto dice
che devo
scappare. Allora capisco. Il calice è lì dentro.
Lo so, per certo. Percepisco
il suo potere, che mi chiama. Mi dice di venirlo a prenderlo, di
sprigionare la
sua energia. Ma non posso. Non posso farlo, morirò di certo.
Tutta quella
sabbia mi inghiottirà, e finirò dritta tra le
braccia di Chaos. Dove lui potrà
uccidermi, al momento sbagliato.
La
sabbia è troppa. Non ne ho mai vista tanta tutta insieme. E
si solleva,
sferzandomi il viso, facendomi sanguinare le nocche. La consapevolezza
striscia
lungo la mia spina dorsale, fredda come un cubetto di ghiaccio.
Ho
capito dove sono.
Ho
capito dove si nasconde il calice.
Ho
capito dove si svolgerà la nostra impresa.
Dove
si trova l’altare per il mio sacrificio.
<<
L’ho visto! >> Gridai, scattando in
piedi. Chirone si bloccò. Stava spiegando ai figli di Apollo
qualcosa riguardo
ad alcuni turni di guardia estremamente importanti, o cose del genere.
Mi
trovai centinaia di occhi puntati addosso.
<<
Ho visto dove si trova il calice. >> Dissi,
con voce tremendamente seria. Tutta quella sabbia… Come
avevo fatto a non
capirlo prima? Non si trattava del Tartaro, non lo era mai stato. Mi
chiesi
come avremmo fatto a sopravvivere, in quel posto dimenticato dagli dei.
E non
era l’Alaska, né gli abissi più
profondi e antichi della terra. No. Era
qualcos’altro. Qualcosa che mi spaventava ancora di
più.
<<
E’ nel deserto. >> Deglutii.
<<
Il
deserto del Sahara. >>
Lasciai che
l’acqua lambisse con leggerezza i miei
piedi nudi, che affondavano lentamente nella sabbia. Mi era sempre
piaciuto
vederli scomparire per un attimo, e poi tornare alla luce in un soffio,
come se
niente fosse successo. Mi sembrava di sprofondare, ma non lo facevo mai
davvero.
Forse avevo semplicemente bisogno di sapere che non sempre la sabbia
era un’arma
di distruzione, del resto senza di essa il mare non sarebbe esistito. E
senza
il mare il bellissimo paesaggio che si parava di fronte ai miei occhi
non
sarebbe potuto essere stato ammirato da nessuno. Avrei voluto scattare
una
fotografia alla luna piena che brillava nel cielo scuro, o alle
migliaia di
stelle che brillavano dall’alto, come per proteggere gli
esseri umani dalla
pesantezza dell’universo… Purtroppo
però al campo era raro trovare dispositivi
elettronici. Attiravano i mostri, o almeno così mi era stato
detto.
<<
A volte questo posto riesce ancora a
sembrarmi casa mia. >> Feci per voltarmi al suono di
quella voce, ma non
mi sarei fatta rovinare quel bel momento. Ero andata sul bagnasciuga
per
riflettere, e ci stavo riuscendo. Dal cortile delle cabine giungevano
suoni di
grida divertite e grosse risate. I semidei avevano bisogno di un
momento di
svago. Connor e Trevis avevano organizzato il torneo di pallavolo
subito dopo
il consiglio di guerra. Non tutti stavano partecipando, ma anche i
più pigri
assistevano alle partite più divertenti della storia della
pallavolo.
<<
Perché è
casa tua. >> Risposi, continuando a camminare lentamente.
Nico mi
affiancò. Anche lui si era tolto le scarpe e i calzini. Era
rimasto con i jeans
arrotolati sulle caviglie e la maglietta a mezze maniche con il bordo
completamente slabbrato. Gli lanciai un’occhiata di
sottecchi, maledicendomi
subito dopo. La luce della luna si rifletteva sul bel volto,
proiettando sugli
zigomi l’ombra delle sue lunghe ciglia. Infilò le
mani nelle tasche dei
pantaloni.
<<
Ti ho cercata tutta la sera. >>
Disse, con tono quasi accusatorio. Sì, beh… Dopo
il consiglio ero praticamente
scappata via. Non volevo affrontare la realtà dei fatti. E
poi avevo il diritto
di restare sola per almeno una mezz’oretta, no? Ovviamente il
campo mezzosangue
mi piaceva tantissimo, ma la privacy non era facile da trovare,
soprattutto
nella cabina di Ermes.
<<
Forse ti stavo evitando. >> Commentai
con franchezza. Perché effettivamente era vero. Non avevo
voglia di affrontare
Nico, non dopo quello che era successo a Las Vegas. Sapevo che non
pensava
davvero quello che aveva detto, ma aveva perfettamente ragione.
<<
Non ti succederà proprio niente. >>
Calcò
le ultime parole, cercando il mio sguardo. Ridacchiai, amaramente.
Riusciva
persino a leggermi nel pensiero. Abbassai la testa, improvvisamente
interessata
ad un pezzo di madreperla insabbiato. Mi chinai a raccogliere la
piccola
conchiglia, passandoci sopra un dito. Era bianca, con varie sfumature
violacee
e azzurrognole.
<<
Se lo ripeterai ancora un po’ ti
convincerai. Io l’ho fatto, sai? >> Sorrisi, ma
era un sorriso macabro.
Avrei tanto voluto parlare con mio padre in quel momento. Lui avrebbe
saputo
che cosa dirmi. Lui sapeva sempre cosa dirmi, soltanto che io ero
accecata dal
senso di ingiustizia che nutrivo nei suoi confronti. Per tutta la mia
vita
l’avevo incolpato del matrimonio con Moira, di avermi dato
Mark come
fratellastro… Ma in realtà non avevo mai saputo
quale era la vera storia.
<<
Non ti lascerò morire, Genesis. >> E
forse era soltanto una mia impressione, ma mi sembrò che la
sua voce avesse
leggermente tremato. Mi fermai, voltandomi verso di lui. In quei giorni
gli era
cresciuta un po’ di barba, che lo faceva sembrare
più vecchio dei suoi diciotto
anni appena compiuti.
<<
E io non lascerò che il mondo venga
distrutto a causa mia. Nemmeno io voglio morire, ma se è
così che deve andare…
>> Mi strinsi nelle spalle, fingendo noncuranza. Era
evidente che non
avessi ancora metabolizzato la profezia, ma in quel momento non potevo
concedermi crolli nervosi. Il giorno seguente saremmo partiti per il
deserto
del Sahara. Non sapevo ancora come saremmo sopravvissuti, dove avremmo
trovato
l’acqua, se avremmo dormito sulla sabbia o in una qualche
grotta piena di
scorpioni… Ma a rifletterci di più mi veniva
soltanto un gran mal di testa,
perciò avrei lasciato fare a Chirone e ad Annabeth. Il
signor D. era stato
convocato con urgenza per un’altra riunione
sull’Olimpo, ma dubitavo che gli
dei ci avrebbero creduto. Stavano semplicemente negando
l’evidenza, perché si
erano resi conto di essere troppo deboli per sconfiggere uno come
Chaos.
<<
Quando ti ho conosciuta mi avresti buttato
sotto ad un treno pur di non farti male. >>
Commentò lui, con una
scintilla di ironia negli occhi scuri. Ripensai al nostro incontro, e
mi venne
da ridere.
<<
Sono passati solo sette giorni. >>
Ribattei. Ci eravamo avvicinati, senza nemmeno accorgercene. La
spiaggia era
ancora deserta, e nessuno ci avrebbe visti con quel buio. Mi diedi una
mentale
botta in testa. Non c’era proprio niente da vedere, anche se
Nico era così
vicino, e così affascinante… La sua bellezza mi
spaventava, a volte.
<<
Sei cambiata. >> Disse, il tono
ridotto ad un sussurro.
Mi sembrava di
vivere in un de ja vu. Come se ci
trovassimo di nuovo alla fermata del pullman,
come se la sua fronte fosse ancora contro la mia, come se fossimo ad un
soffio
di distanza l’uno dall’altro. Soltanto che in quel
momento probabilmente non
sarebbe arrivato Trevis ad interromperci. Volevo davvero che
succedesse? O forse
ne avevo semplicemente bisogno. Non avevo mai provato dei sentimenti
del genere
per una persona. Conoscevo il figlio di Ade a malapena da una
settimana, eppure
mi sembrava di averlo incontrato secoli prima. Avevamo passato giornate
infinitamente lunghe insieme, urlandoci contro, litigando
continuamente… Eppure
quando lui non c’era provavo sensazioni strane. Senza il suo
sguardo glaciale
puntato addosso e quella perenne espressione piatta mi sentivo quasi
insicura.
Come se con quelle occhiatacce avrebbe potuto darmi la forza per andare
avanti.
D’altro canto, a volte avrei voluto saltargli al collo e
strozzarlo. Quelle
emozioni contrastanti mi confondevano, e non poco. Grazie
tante.
<<
Se non mi fermi adesso, combineremo un
casino. >> Mormorò, con voce roca.
Aveva
ragione. Perché lui era stato innamorato di un ragazzo,
perché eravamo troppo
diversi, o forse troppo simili. Perché il giorno successivo
saremmo partiti per
un’impresa dalla quale molto probabilmente non saremmo
tornati, vivi almeno; perché
ci conoscevamo da pochissimo tempo, perché avevamo fin
troppi demoni contro cui
combattere, perché eravamo esageratamente egoisti ed
altruisti al tempo stesso,
perché eravamo quelli strani, il figlio del diavolo e la
figlia della discordia.
Ma non mi interessava. Non in quel momento. Non mentre si avvicina
sempre di più,
mentre io rimanevo immobile, perché una parte di me sapeva
che quello che
stavamo per fare non era giusto. Per
niente. Ma ero sempre stata una persona impulsiva. Non
pensavo mai alle
conseguenze delle mie azioni, che molto spesso mi ritorcevano contro.
Ma si sa,
è la vita.
<<
Fermami. Genesis. >>
Supplicò quasi, mentre mi infilava una mano tra i
capelli, sciogliendo la coda di cavallo che mi ero fatta
sbrigativamente dopo
il consiglio.
<<
No. >> Poi aprii la bocca per parlare
ancora. Errore madornale.
Le nostre labbra
si incontrarono, e il mio mondo
esplose. Allora era quello che si provava a baciare qualcuno. Soltanto
che
invece delle farfalle, io mi sentivo un tornado nello stomaco. Sarei
potuta partire
in orbita da un momento all’altro, mentre avvolgevo le
braccia attorno al collo
di Nico, per tirarmelo ancora più vicino. Come se
già non lo fossimo
abbastanza. Mi alzai in punta di piedi, mentre le sue mani finivano sui
miei
fianchi, sotto alla maglietta arancione del campo. Era evidente che
nessuno dei
due si aspettasse tanta audacia, ma la mia mente era entrata in uno
stato di
collasso del sistema. Un enorme collasso
di sistema. Schiusi le labbra, permettendogli di approfondire il bacio.
Una scarica
di brividi caldi mi scosse da capo a piedi.
L’unica
cosa che riuscivo a pensare era una serie
di: ancoraancoraancoraancora. Il
mio
cuore batteva talmente forte che sarebbe potuto uscire dalla cassa
toracica senza
alcuna difficoltà. Trassi dal naso un respiro traballante,
strizzando gli
occhi. Sentire Nico così vicino a me mi stava mandando
decisamente fuori di
testa.
Oh,
al diavolo.
Avevo sedici
anni ed erano gli ormoni a governarmi,
non potevo comportarmi come una cinquantenne in menopausa. E che male
c’era se
per un momento lasciavo da parte tutto il casino della mia vita? Della nostra vita.
<<
Oh. Miei. Dei. >> Spalancai gli
occhi, staccandomi di scatto. Non ero stata di certo io a parlare. Mi
voltai,
con un groppo in gola.
Drew ci fissava
come se avesse appena visto la borsa
di Prada più costosa del mondo in saldo. Spalancò
la bocca, con le iridi
castane che le brillavano per l’eccitazione.
Dannazione.
Poi
girò i tacchi, e cominciò a correre molto
più
velocemente di quanto avesse mai fatto in tutta la sua vita. Imprecai
tra i
denti, stringendo i pugni. L’avrebbe detto a tutti, ne ero
sicura. Se fosse
successo ancora qualcosa mi sarei messa a strillare. In quel momento
avrei
tanto voluto salire in groppa al mio drago e fuggire lontano, magari
insieme a
Nico. Ma soltanto magari. Ripensare alla faccia di Chirone quando gli
avevo
detto ciò che era successo con l’Idra mi fece
quasi spuntare un sorriso sulle
labbra.
<<
Avevo detto che avremmo combinato un
casino. >> Disse il diciottenne. Il suo tono totalmente
indifferente e
privo di emozione era ritornato. La barriera era stata eretta di nuovo.
<<
Forse è meglio andare a dormire.
Buonanotte, Di Angelo. >> Poi mi voltai, con i piedi nudi
nella sabbia
asciutta.
<<
A domani, Hale. >>
Ribatté mentre mi allontanavo.
Avrei pensato il
giorno successivo a ciò che era
successo.
Forse avrei
dormito senza incubi, dopo tanto tempo.
Forse quella
sarebbe stata davvero una buona
notte.
NOTE
AUTRICE
Ebbene
sì, sono in ritardo. Di nuovo. Però capitemi,
è
iniziata la scuola e i miei professori già
parlano di maturità (e io
sono in quarta), non li sopporto più, davvero. Cooooomunque.
Finalmente quei
due ce l’hanno fatta, eh? Spero che il capitolo vi sia
piaciuto, spero di
riuscire a postare il prossimo un po’ prima, ma non
garantisco niente. Grazie
mille per essere arrivati fin qui :3 Ci si sente alla prossima
Bacioni
(E
che Atena sia con noi, poveri malcapitati studenti)
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