Los Voladores

di ValentinaRenji
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sadness ***
Capitolo 2: *** Past ***
Capitolo 3: *** Hope ***



Capitolo 1
*** Sadness ***


1. SADNESS
 

The secret side of me 
I never let you see 
I keep it caged 
But I can't control it 
So stay away from me 
The beast is ugly 
I feel the rage 
And I just can't hold it 

 
 
Credevo che l’oscurità significasse morte, dolore, malvagità. Temevo il buio nella paura di trovarvi i miei demoni, nel costante timore dell’ignoto, delle fauci dell’abisso dietro di me. Ora quella notte eterna è la mia dimora, è la culla del mio sonno e il vento che respiro. Quelle creature spaventose e rantolanti non erano nient’altro che il mio riflesso su uno specchio di fumo e ragnatele.

La foresta è silenziosa, avvolta nella quiete del bosco estivo. I fitti alberi frondosi si accalcano sui pendii umidi, profumati di terra bagnata e muschio mentre la foschia avvolge i tronchi neri ed aleggia fra le felci verdeggianti, pallide come un sole malato novembrino. Il ruscello scava placido il suo corso, gorgheggiando, le acque limpide e pure suonano la loro musica impercettibile scorrendo sui sassi lisci e levigati. Di tanto in tanto solo un lieve cinguettio, mozzato da sibili di vento e lontani ululi. Le nubi, accalcate nel cielo denso, formano una fitta coltre plumbea, borbottante, un tuono latra il suo dolore squarciando quella bolla di malinconica magia. Un rombo, una folata di gelo e poi la pioggia. Fitte lacrime cadono al suolo, fredde, vomitate dalla volta grigiastra con estrema sofferenza per sfracellarsi sulle foglie in piccole fragili goccioline.
I brandelli neri aleggiano fra i fusti alti e verrucosi, svolazzando come un fantasma senza volto disperso nell’oblio più profondo. La massa oscura sibila nel sentiero appena accennato, delineato da massi e macigni contenenti quarzo che riflettono piccoli scintillii luminosi. Il respiro è affaticato, quasi brontolante, rancoroso, simile ad un ringhio sommesso e famelico, canino, colmo di malvagità e terribile angoscia. Il viso è un agglomerato oscuro, senza lineamenti, solamente la forma arrotondata fa intuire che quella dev’essere senz’altro una testa. O almeno, in passato lo era.

Guardo le mani e non le vedo più: le cerco con lo sguardo, cercando almeno un cenno, una vaga forma e mi trovo di fronte a brandelli, lembi leggeri come l’aria che fluttuano insieme alla mia figura. Si muovono sinuosi nel vento, come un mantello smosso dalla brezza. Cosa sono diventata? Cos’è questo immenso dolore nel petto?
 
It's scratching on the walls 
In the closet, in the halls 
It comes awake 
And I can't control it 
Hiding under the bed 
In my body, in my head 
Why won't somebody come and save me from this? 

Make it end! 
 
 
Il cielo lacrima linfa sofferente sulla superficie della terra, piange insieme a me tutta la sofferenza che mi divora, quel fuoco fulvo corrosivo, quegli aghi talmente appuntiti da mozzare il fiato.


Sono sollevata da terreno, non esistono più i piedi, né gli arti, né un corpo definibile come tale. Solo un’ombra nera, nulla di più. Memorie, ricordi, flash nella mente: due occhi verdi e tristi ghermiti dal caos, capelli lunghi e biondi fra le mie dita sottili. Quel sorriso, forse l’unico mai visto in tutta la vita, mesto e scarno.

Dove sei?

Dove sono?

Ricordi:


“Perché hai paura? Voltati.”

“No, non ne ho il coraggio.”

Una sensazione di profondo panico, l’abisso dietro le mie spalle esili, il terrore di poter essere divorata viva da un momento all’altro. Chi c’era dietro di me? Da chi proviene questa voce da donna?
Brandelli neri ondeggiano da quello che dev’essere il suo corpo longilineo e pallido, fluttuando acconto al mio corpo tremante ed immobile.

“Se vuoi crescere devi ammettere a te stessa che ciò che tanto ti spaventa in realtà esiste davvero, e fai bene a temerlo. Devi aprire la mente e sapere che nulla ‘non esiste’, che i mostri ci sono sotto al letto, che i fantasmi ti cercheranno nel buio. E avrai paura, forse più di quanta ne hai adesso. Però, se supererai il terrore, nulla potrà più fermarti.”

“Chi sei?”

“Sono sempre stata con te. Ti ho visto crescere, tremare dal panico, vedere cose che non tutti gli occhi potevano carpire. Prima di chiedere a me chi sono … scopri chi sei tu.”

Chi sono io… chi sono io?
I feel it deep within, 
It's just beneath the skin 
I must confess that I 
Feel like a monster 
I hate what I've become 
The nightmare's just begun 
I must confess that I 
Feel like a monster 


 
Un mostro, io sono un mostro. Un animo freddo come la pietra che nessuno riesce più a scaldare. Paradiso, inferno: quante illusioni. Ho chiuso gli occhi senza accorgermene ed ora vado in solitudine fra mondi grigi e vorticosi ed altri spenti e vuoti. La vita scorre di fronte a me, impalpabile, lenta, i visi invecchiano rigandosi di rughe, i capelli sbiancano e cadono, le ossa si sgretolano passo dopo passo e poi si perisce come una flebile fiamma spenta dal vento. E poi c’è chi ci abbandona in gioventù, straziando il cuore a chi lo ama senza alcuna possibilità di guarire, facendo accalcare accanto alla tomba decorata pochi cari e tanti ipocriti.
E tutti piangono, chi lacrime vere, chi lacrime finte.

Chi ha pianto per me?

Chi ha vissuto per me?

Chi ha sorriso per me?
I must confess that I feel like a monster.

 


Buonasera lettori!
Il testo in inglese è tratto dalla canzone "Monster" (from Skillet).
Non sarà una storia lunga, qualche capitolo al massimo ... spero possa piacervi ugualmente, anche se so bene che il tema scelto non è dei migliori e anzi, potrebbe risultare triste/deprimente. Purtroppo siamo abituati a infiniti "Vissero felici e contenti" ma non sempre la vita ci fa questo dono. Non cerco la bellezza narrativa, piuttosto esalto il significato, il guardare oltre le righe.

Se avete commenti, pensieri o opinioni sarò felice di sentirle.

A presto,
Un bacio.

Valentina
 

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Capitolo 2
*** Past ***


2. PAST



Quando ero piccola benedivo ogni giorno il Natale e, di conseguenza, il mio compleanno: il 24 dicembre, la vigilia. Adoravo il tepore della stufa calda dal fuoco sfavillante e scarlatto, amavo la nebbia sottile fra i tralicci spogli delle viti spente fuori dalla finestra del soggiorno dalle mura bianche. Ogni mattino mi svegliavo aprendo con foga i balconi nella speranza di posare le iridi castane su un candido manto di neve posato sulle zolle brulle e scure dei campi dormienti; attendevo la voce di mia madre che con onesta sorpresa e malcelata trepidazione mi annunciasse l’arrivo dei tanto attesi coriandoli vorticosi, con la gioia di poter tornare fra le coperte morbide e scordare la scuola per quella giornata.
Lei, mia madre. La donna più bella del mondo, la più forte, coraggiosa, temeraria creatura che abbia mai conosciuto. Lei, la persona che mi ha cresciuto con amore, supplendo a un duplice ruolo di genitore, colmando un vuoto che nessun altro avrebbe potuto completare.
 
Cosa sono questi ricordi?
 
La vetta della collina montuosa è dolce, i pendii sono morbidi e voluttuosi come i fianchi di un bambino. Il cielo è ancora cupo, denso di pallide nubi minacciose, pesanti, colme di tristezza. Le distese d’alberi scuri si protraggono fino alla base del massiccio, lasciandone scoperta solo la punta arrotondata, l’erba giallastra e bruciata, i tronchi morti, avvizziti, un luogo dove la Morte ha deciso di accamparsi per secoli e secoli ancora, uno stralcio d’inverno, di quell’inverno che porto nel cuore, dove tutt’attorno regna la più fitta e verdeggiante vegetazione.
 
Ho sempre odiato i compleanni.
Ho sempre odiato le torte e i pasticcini, le pizzette portate a scuola, su quei piccoli banchi verdi dalle gambe sbilenche; mi hanno sempre disgustato i sorrisi ridenti dei bambini festeggiati, gli applausi, le canzoncine d’auguri.
“Perché festeggiate? È solo un anno in meno verso il dolore. Il tempo si accorcia e voi presto soffrirete. Perché, perché festeggiate?”
Li guardavo in disparte, coccolando nelle mente questi pensieri, osservandoli seriamente com’era mio solito fare.
Allora la maestra smembrava l’affollato gruppetto danzante attorno alle cibarie, distribuendolo al proprio posto e lasciava distribuire le leccornie dal diretto interessato. Il piccolo allora, colmo d’orgoglio, passava di banco in banco, regalando il proprio bottino. La mia frase era sempre la solita:
“Posso averne un altro per la mia mamma? Quando torno a casa glielo porto.”
Nessuno mi ha mai negato questo favore.
La verità era che non mangiavo mai la mia caramella, né il cioccolatino, né qualsiasi altra cosa. Le riponevo delicatamente nella tasca più protetta dello zaino, assicurandomi d’averle sistemate con la dovuta meticolosità, e poi attendevo intrepida il suono della campanella.
Eccola, finalmente la rivedevo davanti a me, con i suoi capelli rossi e lisci, gli occhi verdi come i prati d’estate:
“Mamma, ho ben due regali per te.”
Le estraevo le caramelle, i miei trofei, cercando di ricambiare come potevo l’affetto che ogni giorno mi donava.
 
Mamma.
 
La creatura nera sussulta, lanciando uno straziante urlo di dolore che nessuno al mondo potrà mai udire. Dall’ammasso oscuro e denso profondi rantolii si espandono nella radura smorta, disperdendosi nell’umida foschia.
Svolazza fra i tronchi cavi, sgretolati dall’usura del tempo, graffiando con le unghie affilate il terreno madido di pioggia, come un animale impazzito, in fuga nel disperato tentativo di salvarsi la vita.
Ma cosa c’è da salvare, in questo caso?
Grida, grida come un vortice di vento, un ululato d’oblio, un abisso di disperazione.
 
Solitudine.
Abbandono.
Follia.
Eternità.
Vuoto.
Disperazione.
 
Come ci si può salvare da tutto questo?
 
“Mamma, devo chiederti una cosa.”
“Cosa, cucciola?”
“Perché non riesco a dire ‘Ti voglio bene’ a papà?”
“Perché ognuno di noi ha il suo modo di volere bene agli altri. Anche se non glielo dici gliene vorrai ora e per sempre e lui lo sa. Non ti preoccupare. Magari ogni tanto puoi provare a dirglielo anche se ti sembra difficile, lo farai felice.”
“Ma lui mi vuole bene? Anche se non mi fa mai le carezze?”
“Ma certo, cucciola.”
“Allora perché ti fa piangere tutte le notti?”
Silenzio.
“Mamma … perché ieri mentre giocavo sotto l’albero di Natale hai lanciato i piatti a papà?”
“Perché … a volte i grandi litigano. Ma si vogliono bene lo stesso.”
“Se si vogliono bene perché litigano tutti i giorni e non sorridono mai?”
 
“Valentina, finalmente …”
“Emeeleb.”
La grande figura color pece si staglia in tutta la sua maestosità di fronte all’esile macchia scura urlante dinnanzi a lui. Sul capo dalla forma indefinita indossa un elmo arrugginito, fra le dita acuminate stringe una spada malconcia, anch’essa in condizioni indescrivibili.
Si allontana svolazzando, sollevato da terra, distanziandosi di qualche metro dalla bestia ferita, dilaniata.
“Passerà.”
La sua voce è profonda, fredda, roca. La voce di un uomo vissuto nel passato più lontano, un guerriero sopravvissuto a se stesso.
La piccola creatura rantolante si dimena come un’ossessa, le manca il respiro, la mente (se così si può definire) è affollata da innumerevoli pensieri, la sua identità è uno sfocato insieme di immagini offuscate, di frasi a metà, di sentimenti pungenti come spine di rovo nel petto. Porta una mano alla testa, accartocciandosi in uno spiazzo d’erba giallastra, sferzata dal vento.
“Passerà, prima o poi passerà. O forse è meglio lasciarti divorare dalla bestia, diventare una folle presenza assetata di morte che s’aggira senza sosta alla ricerca di un indefinito dolore simile al proprio. Un mostro senza facoltà di pensiero, senza volontà. Un agglomerato d’istinto … nulla di più. La consapevolezza è un coltello che uccide lentamente. Il destino è la solitudine eterna, uno sconfinato dolore.”
Sembra sospirare, aumentando la presa sull’arma opaca:
“Ti ricordi cosa mi hai detto una volta, quando ancora eri viva?”
 
Sì me lo ricordo. Avevo detto:
“Emeeleb, è buffo vero? Passare l’intera vita a sperare nel paradiso, in un aldilà migliore di quanto non sia il presente. E invece ci ritroveremo tutti a vagare per sempre, guardando chi amiamo morire sotto ai nostri occhi, assaggiando ogni giorno il male di vivere e l’oblio di perire, come una droga letale, dose dopo dose.
Ahahah non è forse uno scherzo terribile? Chi ci ha creato deve odiarci davvero tantissimo. Non la pensi anche tu così, Emeeleb?”
Lui aveva annuito, stringendosi fra le “braccia” fluttuanti. Non posso assicurarlo, ma avevo l’impressione di aver scorto una lacrima sul suo viso mostruoso.
Una lacrima?
Non basta soffrire quando si è vivi?
Chi l’avrebbe mai detto che ci saremmo incontrati così presto?
 
Due occhi chiari, lunghi capelli biondi, il suo profumo. Quelle braccia magre che mi stringevano, esili ma da un calore amorevole ed avvolgente, una cassaforte attorno a me.
Eravamo ragazzi, eravamo solamente due ragazzi che avevano capito di non aspettarsi un gran che dalla vita ma che in fondo ci speravano lo stesso.
“Quando vivremo insieme sarà divertente vederti tornare a casa da lavoro tutto imbronciato!”
Glielo ripetevo spesso, ridendo, premendo l’indice contro la punta del suo naso leggermente a patata.
“E tu invece? Tornerai felice?”
“Ma certo! Perché a casa ci sarai tu ad aspettarmi!”
“Chissà se mai lo troverò un lavoro …”
“Cosa importa, se guadagnerò abbastanza non mi importa di mantenere anche te. Basta che continui a volermi bene! E che pulisci e cucini! È per questo che studio all’università … per crearmi un futuro con te.”
Lui sospirava, passandosi le dita magre sul mento liscio, pensieroso. Poi mi tirava a sé, guardandomi dall’alto della sua statura, con quelle perle lucide:
“Fammi vedere come sei brava.”
Lo diceva sorridendo, attendendo un bacio. Allora mi mettevo in punta di piedi, stampandogliene uno sulla guancia, attendendo il suo.
Gli stringevo la mano e insieme iniziavamo a passeggiare per il centro della città, talvolta mangiando un gelato, talvolta stringendoci nei cappotti pesanti.
Ci fermavamo davanti alle vetrine delle agenzie immobiliari, indicando questa o quella abitazione, studiandone i dettagli e i prezzi, fantasticando insieme di anno in anno. E il tempo scorreva, noi crescevamo ma, cosa più importante, continuavamo ad amarci.
 
“E’ triste sapere che non potremo stare insieme per sempre.”
Lui mi ha guardato comprensivo, tradendo il volto inespressivo con una smorfia sgomenta.
“Forse nemmeno ci riconosceremo più. Dobbiamo essere felici ora finchè possiamo. Non importa se materialmente non abbiamo nulla, a me basta anche solo rimanere qualche ora con te e tornare a casa felice.”
“Ah Valentina … chissà. Meno male che ci sei tu.”
D’altronde è così: se due torri crollano l’una addosso all’altra non possono fare altro che sostenersi a vicenda.
Solo chi ha patito e pianto sangue durante la sua esistenza può comprendere un’anima simile alla propria. Chi ha trascorso anni sereni cullato il petali profumati annuirà, fingendo di capire, di capire davvero! E poi si volterà dall’altra parte, rammaricandosi della propria unghia spezzata, maledicendo la vita di essere così spietata e crudele! Perché diamine, un’unghia rotta è qualcosa di fondamentale. Se poi era addirittura smaltata è una tragedia.
E tu invece li scruti in disparte, sottecchi, tamponando le ferite del cuore ridotto in frantumi, sbriciolato, inesistente. Lasciandoti invadere dal gelo per difenderti da ulteriore sofferenza. Domandandoti cos’hai fatto di male per farti scegliere dalla devastazione, chiedendoti per quale motivo sei stata scelta.
Eppure non ti importa, non ti interessa la commiserazione degli altri, la loro pietà. Sorridi, decidendo di rimanere per chi ami, perché loro non possono stare senza di te.
Ma il destino è crudele, appena scopre ciò che realmente desideri te ne priva.
Ed io ora il mio corpo marcisce in una tomba fredda e spoglia, una lapide uguale a molte altre, dalle incisioni semplici, una foto sbiadita. E chi c’è ancora piange ogni notte, straziandomi il cuore.
 
Lei vorrebbe proteggerli, salvarli dalla sadica tortura dell’esistenza, cullarli in una nenia dolce prima d’addormentarsi. Vorrebbe abbracciarli, dire che è ancora qui anche se non possono vederla, qui solo per loro.
Ed invece vaga dispersa, senza alcun riferimento, senza residui di umanità.
 
 
30 Agosto, Dieci anni.
“Caro Diario,
sono triste perché la scuola inizia il 15 settembre, quindi fra pochi giorni.
Il vero motivo è che mamma e papà hanno litigato di brutto per questioni di soldi e penso che non si parleranno più, ora ti spiego meglio.
A luglio papà è andato in banca e si è fatto un libretto a nome suo e ha depositato 700 euro, cioè i soldi di mamma. Però lo ha intestato a se stesso e non a mamma con la scusa che tanto lei in banca non ci va mai.
In realtà ogni tanto andava a prelevare i soldi senza dirci niente e ora sono rimasti 80 euro e non ha restituito nulla. Mamma ha scoperto tutto questa notte, altrimenti non lo saprebbe ancora.
Papà è pieno di multe non pagate ancora da anni. Ho sentito mamma parlare di ipoteca ipiteca ipo qualcosa sulla nostra casa ma non so cosa vuol dire. Gliel’ho chiesto ma si è messa a piangere, dicendo solo che papà ha troppi debiti e che lei li ha scoperti solo adesso.
Dice che papà nasconde le carte e le bollette ma non capisco perché.
Lui pensa che noi non sappiamo, poi nasconde i soldi per paura che li rubiamo e poi anche se ha un misero stipendio va in montagna da solo e spende 100 euro solo in benzina invece che usarli per comprarmi i libri per le medie o per la casa nuova dove andremo ad abitare. Mamma ha finito le calze e le cuce di nascosto, ma loro continuano a fare i buchi. Papà dice bugie e tutta la famiglia sta male ed è triste.
Ha i soldi per le sue cose ma non per pagare le mie visite dal dottore o i miei vestiti.
Forse arriverà l’ufficiale giudiziario o finanziario, non lo so bene come si chiama, comunque qualcuno che ci manderà via.
Verso dicembre dobbiamo trasferirci in una casa nuova perché questa ha la muffa e io ho sempre la febbre ma come faremo se papà non paga nessuno?
Questo è proprio un brutto periodo e mi auguro che passi presto, ho così tante cose da dire che potrei scrivere un libro. L’unica cosa che posso fare è disegnare e pensare a cose belle.”


Tre anni dopo, 13 anni
“Giulia mi ha detto che se piango mi cola il mascara. Oggi è la prima volta che lo metto e mi viene già da piangere. Dice che devo fare come le star del cinema, guardare in alto e non far uscire le lacrime ,altrimenti mi sporco tutta di nero. Odio il nero , è un colore troppo triste. Papà è venuto a salutarmi prima di andarsene di casa. Dice che presto troverà un appartamento, ha portato via con sé una fotografia mia e una della mamma ma non capisco perché dato che l’ho visto passeggiare con un’altra donna.
Mamma dice che è giusto così, che non ha mai mantenuto le sue promesse ed è ora che si faccia la sua vita. Non so cosa pensare, mi sento un oggetto conteso fra due litiganti.”

“Lunedì papà è venuto a casa mia a sorpresa. Aveva le pupille strane e diceva cose senza senso, batteva i pugni alla porta, è rimasto fuori per ore. Io ero sotto la doccia, mamma era uscita a fare la spesa. Per fortuna che avevo chiuso a chiave tutto! L’ho chiamata subito ma non riusciva a entrare perché lui la bloccava. Abbiamo dovuto chiamare i carabinieri, è stata una scenata pazzesca ed ora il condominio non ci rivolge più la parola. Nemmeno la mia migliore amica vuole parlarmi, nessuno mi saluta e chiunque si volta dall’altra parte  quando ci vede in giro. Mi evitano come se avessi la peste, mi vergogno ad andare al supermercato con la mamma perché ho paura di trovare qualcuno che mi conosce. Non voglio più uscire di casa. Anche perché ho paura di trovare papà in gir, ho sentito mamma piangere al telefono dicendo che è drogato.”
 

Non ha più i suoi lunghi capelli ramati. Non ha più le iridi castane e profonde, né il corpo femminile e delicato. Non ha la pelle candida, morbida, profumata di bagnoschiuma alla ciliegia.
È un ammasso nero, una nebbia densa e soffocante, un pugnale d’orrore. È una piccola creatura allattata dal rammarico e dal senso di colpa, un animale indifeso ed impaurito che si dimena in una gabbia.
È un mostro nero, senza volto né corpo, uno spettro algido soffocato dalle lacrime.
Grida ancora una volta e la sua voce si spegne nel silenzio, fiammella tremolante, illusione di calore e luce.



Note:
Le parti di diario non sono frutto della mia fantasia, bensì sono scritti realmente esistenti, riportati qui come sono proposti nella carta. Pertanto ho deciso consapevolmente di non correggere gli errori grammaticali nè la sintassi, ho preferito proporre a voi lettori quanto scritto in tutta sincerità. Quel diario è forse uno dei miei ricordi più preziosi.
Questo capitolo ha una forte influenza autobiografica, necessario per dare un senso alla storia e ai capitoli che seguiranno.
A presto,           
un bacio

Valentina.


PS: Grazie a chi ha recensito, grazie di cuore anche a tutti i lettori e a tutti coloro che sapranno comprendere questa storia.


 

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Capitolo 3
*** Hope ***


3. HOPE



“Emeleb … è così triste.”

“Cosa?”

La grande figura nera si volta verso quella più piccola, svolazzandole accanto come un rapace. I lembi neri fluttuano nell’aria densa di piccole goccioline d’acqua, l’umidità aderisce alle fronde delle felci vicine, agli steli d’erba bruciata, alla loro stessa massa informe d’energia scura, simile a bava di un lupo famelico che cola dalle sue fauci aperte.

“Tutto. Tu sai cosa penso.”

“Ah Valentina …”

Le pone una mano sull’esile spalla, come per confortarla tristemente.

“Ti guardavi attorno, vedevi le persone brulicare come formiche, con la loro ventiquattrore fra le mani e l’orologio al polso intento a scandire un tempo inesistente ed un ritmo frenetico che uccide lentamente, come una cappio al collo sempre più stretto. Vedevi le luci delle sale giochi, le insegne a neon dei bar, le auto, le strade asfaltate. E cosa ti domandavi? Ti chiedevi: che orrore è mai questo?”

Lei annuisce affranta, sospirando, scrutando il cielo denso di nubi perlacee affollate le une sulle altre.

“Sì. Ovunque si posassero i miei occhi le uniche cose che potevano carpire erano meschinità e viltà umana. Che schifo, vero Emeleb? Tu hai combattuto per la tua vita. Hai razziato, vissute guerre, impugnato una spada con nobili valori. Hai lottato per la tua famiglia ,per la sopravvivenza, per la tua gente. Ed ora guarda, guarda le generazioni di questa esistenza malata: vivono inebriate dal dogma del denaro, trascorrono il proprio tempo a straziarsi l’anima per guadagnare una manciata di pezzi di carta che serviranno ad alimentare la propria stessa sofferenza. Comprano, comprano, comprano oggetti, beni, materiali e credono che tutto, persino gli altri esseri umani ed i loro sentimenti possano essere acquistati e messi in vendita come gli pare. Vivono in un mondo sfalsato, dove gli alberi sono anneriti dallo smog, dove gli animali vengono uccisi per sfamare e poi vengono gettati in un cassonetto perché già scaduti. Dove la vita non conta nulla perché nessuno è in grado di riflettere sul suo valore. Dove nessuno è realmente felice, dove l’ignoranza anziché condannare se stessa ghermisce l’intera collettività. Ho assaggiato questo male di vivere Emeleb, a questo punto l’eternità è una salvezza.”

“Salvezza?”

L’uomo scoppia a ridere rocamente, stringendo la lunga spada annerita dall’usura e dai secoli fra le mani forti, temprate dalla foga passata.

“Le persone sono essere vili e sciocchi, privi di consapevolezza. Trascorrono l’intera vita a pregare entità inesistenti, sperando nei miracoli, in una giustizia trascendente che li saprà lodare al giusto momento ed invece punirà i malfattori. Credono che il loro spirito si salverà dai mostri, rifugiandosi in una dimensione migliore, idilliaca. Che bugie, che frodi dello spirito! Se veramente esistesse un Dio a quest’ora avrebbe raso al suolo l’intera popolazione, li avrebbe spazzati con un soffio e si sarebbe maledetto amaramente per aver creato qualcosa di tanto disgustoso. Le loro anime viziate sono talmente deboli da dissolversi nel momento stesso in cui esalano l’ultimo respiro e se mai resistessero verrebbero divorate da qualcun altro più affamato e cosciente di loro.”

Ha ragione, ha ragione davvero. Ci si illude di favole auree per poi sbattere il viso su un’eternità ancora più buia e straziante, una lotta per la sopravvivenza dove non esistono leggi, non esiste pietà, non esistono sentimenti. Solo l’istinto, il puro e semplice istinto di sopravvivenza, di prevaricazione del più debole, di sopraffazione. Quella forza interiore che ti rende una bestia, facendoti divorare il più debole, smembrare il suo lacero agglomerato oscuro, sbranandolo con morsi rabbiosi fino a percepirne il dolore, la paura, il gelo della morte definitiva. Lo inglobi in te, diventi più forte. E più spietato.

Diventi la fiera che hai sempre temuto. Diventi il mostro sotto al letto che ti teneva sveglio quand’eri bambino. Diventi la parte oscura e violenta che ognuno di noi cela in un lato nascosto del proprio sé.
In fondo è questo ciò che siamo: belve incatenate che attendono una prossima liberazione.
La sofferenza è l’unico aiuto terreno che ti costringe ad aprire il cuore e la mente, per aprirti ad una conoscenza nuova.

Cosa farò adesso?

Porta una mano al petto, perforando il corpo fluttuante con i lunghi artigli acuminati, stringendo il cuore inesistente mentre un rantolio di dolore s’eleva nell’aria pesante. Il dolore lancinante preme le tempie, mozza il respiro, la costringe ad accasciarsi nuovamente in preda alle grinfie dei ricordi e del malessere, alla malinconia, al senso di colpa, al vuoto interiore malevolo ed algido.

Fa male … fa così … male.

Urla, ma nelle sue grida non vi è più nulla di umano. È un’ombra, un oblio dove la luce muore, un fulcro di disperazione e nichilismo, un alveare di follia dagli sciami velenosi. I flebili raggi di sole non si posano più su alcuna pelle diafana da riscaldare. Il vento non trova più capelli fluttuanti con cui giocare.

Marcire … in una tomba. Mentre chi ti è stato nemico alza le spalle e ti deride. E dove chi invece ti era accanto appassisce insieme al tuo ricordo.

Ridursi in polvere e scivolare via, mentre l’anima precipita nell’oblio della follia.

“Emeleb, raccontami di nuovo la tua morte. Ancora, ancora una volta.”

Lo spettro nero ruggisce, abbassando l’elmo arrugginito sul capo rivolto al cielo, sogghignando beffardo. Una goccia di pioggia cade dalla coltre increspata dal vento, pungendolo sul naso una volta dritto e nordico, sulle guance dai lineamenti duri, glaciali, sul mento appuntito.

“Avevamo fame. Mia moglie aveva fame. I miei figli avevano fame. Proprio come l’intero villaggio. Dovevamo razziare a nord, ma ci hanno colto di sorpresa proprio su questi pendii, dove ora vi è una scia d’alberi secchi e scarni. Hanno ucciso i miei compagni ed i lupi hanno sbranato le loro carni, leccandosi le fauci, beandosi del gusto e dell’odore del sangue caldo di quelle viscere ancora pulsanti. Mi hanno trafitto il ventre con una spada, ricordo ancora il contrasto gelido della lama con il calore del mio corpo accasciato al suolo, riverso fra la brina e le foglie della stagione passata. Mi sono sollevato dal terreno, ho visto la mia sagoma agonizzante spegnersi come l’alone del tramonto. E poi ho visto loro, i miei soldati, bestie riluttanti che cercavano di divorarsi l’un l’altro mentre le fiere della foresta banchettavano con i loro cadaveri. Mi hanno attaccato ed io … ed io li ho sbranati come un leone mai sazio.”

“Ripetimi ti prego … ripetimi perché l’hai fatto.”

“Nella vita terrena ciò che temi è la spada, la falce, il dolore. Ciò che ti attende dopo … è la paura di te stesso. Ogni giorno che passa scava alle nostre spalle un solco sempre più profondo.”

“Dimmi, mio caro Emeleb. Lo ritroverò mai?”

Si siedono vicini, inermi, sferzati dal nuovo acquazzone che scende copioso, colmo di rancore, pioggia di spine, di rovi, di aghi appuntiti.
Ma non ha importanza, nulla è più terribile di un animo ridotto in frantumi.

“Ritroverò colui che amo?”

“Credi che io abbia ritrovato la mia famiglia? Sono passati millenni, la sto ancora aspettando qui, giorno dopo giorno. Sotto la neve dell’inverno, i sussurrii dell’autunno, le lacrime della primavera e i graffi dell’estate. Attenderò finchè non diverrò polvere io stesso.”

“Posso aspettare insieme a te?”

I suoi occhi verdi, le labbra soffici come petali di rosa. Le gote arrossate, il petto caldo, le braccia avvolgenti. Il suo profumo, il suo inebriante profumo fra quelli che una volta erano i miei capelli.

Ti amo, ti amerò sempre e ti aspetterò per l’eternità. Nella mente ho impresso il tuo volto, mi salverai dall’abisso della disperazione, mi darai un motivo per rimanere cristallina nel cuore come l’acqua di una sorgente. So che non avrai paura di me. So che ti rispecchierai nelle mie iridi nocciola, so che piangeremo insieme quando potremo finalmente sfiorarci le mani acuminate ancora, ancora una volta.

Manterrò la mia promessa, quella di non abbandonarti mai a costo di rischiare la mia incolumità.
Nel frattempo, perciò, ti aspetterò qui. Io ed Emeleb, due spettri neri sulla vetta di un colle dimenticato. Due anime solitarie unite dallo stesso dolore, due fiori strappati troppo presto al fertile prato verdeggiante baciato dalla brezza profumata di vita.

Ci troveremo qui, ho ancora una speranza accesa nel petto.

Ecco perché io, Valentina, ti attenderò per sempre, fra questi alberi dal fusto scuro ed i loro rami spogli protesi verso un cielo plumbeo. 

Il petto non fa più così male. Ora posso assicurarti di riuscire finalmente a respirare.


Fine



Note:
Per chi volesse approfondire il tema trattato, ovvero le figure dei Los Voladores può effettuare una ricerca leggendo i libri dell'antropologo Carlos Castaneda, studioso della civiltà tolteca. Credo sia l'unico ad affrontare questo argomento, non l'ho mai rinvenuto in altre culture nè religioni, ma in ogni caso tale fatto è comprensibile.
Mi auguro questa storia sia stata di vostro gradimento, spunto di riflessione e , perchè no, di nuovi orizzonti.
Mi congedo, lasciandovi un caro saluto.
Valentina


PS: Grazie a tutti i lettori, siete in tantissimi e ne sono piacevolemente sorpresa :)

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