If you get lost, you can always be found.

di BlackbirdFly1723
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Un'intera città. ***
Capitolo 3: *** Welcome back home ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Prologo.


Ormai ogni cosa selezionata era stata imbarcata, incastrata sotto il sedile davanti o pigiata nel portabagagli, irrimediabilmente pieno, sopra le loro teste.
C’era chi aveva spiegato un giornale davanti a sé, chi si era accoccolato sul sedile con un lamento o chi lo aveva fatto senza emettere alcun suono, chi fin dall’inizio aveva iniziato a discorrere e chi si era stropicciato gli occhi a causa del sonno.
Poi ognuno di loro si era voltato indietro solo un’ultima volta.
 
 
Rachel spinse nella borsa il romanzo, incapace di concentrarsi. Provò a rannicchiarsi sul sedile, ma neanche questo sembrò rilassarla. Si schiarì la voce una dozzina di volte, sperando che la sua compagna di volo dicesse qualcosa, ma questa continuò a tenere le palpebre ostinatamente serrate.
Delusa, disse: «Sai, sono emozionata. E’ un ritorno alle origini, alla nostra formazione, al passato che ci ha portate dove siamo adesso. Insomma, per un artista è importante tornare, senza perdere il contatto con le proprie radici; anzi, d’obbligo, direi. Questo ci ha regalato la nostra identità, io…»
«Okay, okay, senti, ti prego, no. Posso fingere di sopportare i tuoi orripilanti gargarismi, ma non questo. Non stai partendo per la guerra, quindi rilassati. Perché non ascolti un po’ di musica, invece di torturarmi?»
Rachel spinse la fronte contro il finestrino aperto, guardò fuori senza guardare per davvero, per poi tornare ad appoggiare la testa sul sedile.
«Sono passati sei anni, Santana. Come fai a non essere nervosa?», domandò, quasi assente, come se fosse già arrivata a destinazione.
Scosse le spalle, indifferente. «Non ho mai avuto il senso del mito per il passato. E poi ora là non ho niente, non so neanche perché io stia tornando».
 
Finalmente seduto, dopo essere riuscito ad impilare i bagagli in un angolo, aveva aperto la rivista davanti a sé. Aveva meticolosamente squadrato ogni titolo, ogni foto e ogni trafiletto, con le sopracciglia aggrottate e le gambe incrociate l’una sull’altra. Neanche cinque minuti dopo e già il marito lo aveva chiamato, continuando così per tutto il viaggio, quando per il paesaggio, quando per il nuovo articolo del New York Times, quando per le proprie riflessioni sulla loro meta.
Adesso Blaine sembrava non darsi pace cercando di aprire il finestrino del treno, evidentemente inagibile.
«Tesoro, non è che potresti darmi una mano?»
«Blaine, quel finestrino è rotto, avanti, non lo aggiusterai mai», rispose alzando gli occhi dalla rivista e sbuffando leggermente.
L’altro non aggiunse niente, e solo dopo una nuova manciata di tentativi si sedette, rassegnato, a fianco del marito.
«Nervoso per il viaggio, eh?», fece Blaine, attribuendo al nervosismo la risposta fredda dell’altro, per poi baciarlo sotto il mento.
«Sì», mentì Kurt, mentre Blaine prese ad accarezzargli col pollice la fede nuziale.
 
Quinn sospirò, socchiudendo le palpebre, cercando di rilassarsi. Ancora non riusciva a capire cosa l’avesse spinta a prendere quella decisione, quasi senza un motivo apparente. Il giorno prima si trovava tra le braccia di Nick, e il giorno dopo se ne era andata dopo averlo lasciato, dicendogli che le dispiaceva e che lui non avrebbe mai saputo quanto, imbarcandosi poi su quell’aereo.
Ancora non capiva: perché tornare? Non c’era niente per lei, laggiù. Era ridicolo, e quasi le scappò un sorriso.
 
Si gettò sul sedile che contrassegnava il numero del biglietto, scocciato. Odiava i voli, il momento in cui la sua vita vacillava mentre l’aereo diceva addio alla pista, e le turbolenze improvvise. Odiava anche i passeggeri: era quasi impossibile non cercare di riconoscere qualche terrorista tra loro.
Odiava anche se stesso. Si era tagliato quella dannata cresta che tanto amava per tagliare i ponti, si era trasferito a Los Angeles per dimostare che non era mai stato un qualunque perdente di provincia, e adesso stava tornando senza un fottuto valido motivo.
«Vaffanculo», mormorò. 
Poi l'aereo prese a decollare.





-Okay, è la mia prima storia a capitoli, qua su Efp, e spero che il prologo vi sia piaciuto. Ancora si tratta evidentemente di un'introduzione, che ho cercato di rendere il più breve possibile. Cercherò di aggiornare presto per i capitoli veri e propri.
Se vi va e avete gradito, lasciate un commento:)!

A presto!

 

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Capitolo 2
*** Un'intera città. ***


I
 
Un'intera città.
 
 
 
Lima si aprì davanti ai loro occhi come una terra sospesa tra finzione e realtà, portando con sé l’impossibilità di capire se fosse più vicina all’una o all’altra cosa.
Alcuni camminarono velocemente, mentre altri presero a far funzionare i piedi con estenuante lentezza. Ma, alla vista della città, ognuno di loro rimase immobile per qualche secondo con i piedi incollati al suolo, prima di tagliare il nastro di partenza.
 
 
Rimasta sola nel piccolo salotto, Santana si sdraiò sul divano a due piazze. Appoggiò le piante dei piedi nudi sul muro, godendo di quella inaspettata freschezza, e cercò la posizione più adatta per riposare. Rassegnata a non trovarla, afferrò la sua birra e uscì sul piccolo terrazzo. Guardò fuori, e per un attimo si sorprese di non scorgere gli enormi palazzi illuminati della sua New York.
Ma questa è Lima, pensò subito dopo.
Bevve un sorso della sua birra, mentre, sorridendo, si lasciò invadere da un’ondata di ricordi. Si rivide tra quelle strade, a correre e a bere fino a notte fonda con il gruppo di amici. Se chiudeva gli occhi poteva ancora sentire il profumo di quelle serate e il suono della risata squillante di Brittany vicino al suo orecchio.
Per un attimo le parve di rivedersi nitidamente, abbracciata a lei, sotto la luce del lampione a sussurrarle frasi sconnesse, ma i suoi pensieri vennero interrotti dalla voce di Rachel, proveniente dal giardino.
 
«Be’, Kurt, potevamo uscire, andare a bere qualcosa, insomma, mi manchi, sei il mio migliore amico», rispose Rachel gesticolando, come se ci fosse realmente qualcuno davanti a lei.
«Lo so, lo so, ma, senti, Blaine ha detto che era troppo stanco e lo sai che non mi va di discutere con lui anche per queste cose», gracchiò la voce nel telefono. «Comunque domani possiamo uscire, no? Tu e Santana siete in città».
«Ti prendo in parola. Ma tu come stai?»
Kurt si girò guardando il marito già addormentato nella sua vecchia camera. Afferrò un peluche e lo soppesò con le mani, prima di alzarsi in piedi e girare silenziosamente per la stanza.
«Bene», sbuffò, tornando a fissare Blaine. Avrebbe voluto poter dire all’amica qualcosa di più, ma parlarne per telefono, a quell’ora di notte, gli parve una prospettiva da lasciar perdere.

«Okay, Rachel, adesso ti do la buonanotte. Ci sentiamo…ci sentiamo domani mattina, va bene?»
«Certo», acconsentì sorridendo, «buonanotte, Kurt. Ti voglio bene».
Il ragazzo chiuse la telefonata, rimanendo a fissare lo schermo del cellulare per qualche secondo di troppo. Sospirò, sollevò la trapunta del letto e appoggiò la testa sul cuscino voltandosi dal lato opposto del marito, verso la finestra.
 
Rachel si avviò in direzione del minuscolo portone di ingresso, con la mano premuta nella tasca del cappotto per non perdere il freddo contatto con le chiavi di casa. L’abitazione era stata divisa in due piani, da cui erano stati poi ricavati due distinti appartamenti: loro avevano affittato il secondo, mentre l’altro, più spazioso, era abitato dai proprietari dell’edificio.
«Santana», mormorò appena entrata, rivolgendole un debole sorriso, «pensavo fossi già a letto».
Santana incurvò quasi le labbra verso l’alto, spostando le gambe dalla seconda piazza del divano, permettendo così all’altra di andare a sedersi. Continuò a fissare un punto indefinito fuori dalla finestra, portandosi e levandosi la cima della seconda bottiglia di birra dalla bocca, e ripetendo il gesto, come alienata.
«Perché non sei andata a dormire?»
Santana sembrò riscuotersi, la fissò per un paio di secondi. «Pensavo», poi distolse nuovamente lo sguardo.
«Lima... Qui è pieno di ricordi», sussurrò Rachel a sua volta, come se le stesse leggendo dentro.
Santana staccò la bottiglia dalla propria bocca quel tanto che bastava per annuire in silenzio.
 
 
Quinn si spinse un poco in avanti, sistemandosi meglio sullo sgabello cigolante, davanti al bancone. Aveva avvistato il piccolo locale quasi per caso, nascosto com’era all’angolo tra quella buia traversa e il viale principale. Senza alcuna esitazione e senza un valido motivo, era entrata, si era accomodata in uno degli ultimi posti e aveva aspettato.
«Grazie», sussurrò, mentre il barista le lasciava davanti un bicchiere di vodka.
Posò i pollici caldi sulla superficie fredda del bicchiere, quasi accarezzandolo, prima di portarlo alla bocca. Rimase immersa nell’oceano che erano i suoi pensieri, fin quando una mano toccò la sua spalla.
«Bella bionda. Proprio non ci speravo!»
Riscuotendosi di colpo, si girò indietro, ma non fece in tempo a farlo che se lo ritrovò di fianco, leggermente incurvato, già seduto sullo sgabello accanto al suo.
«Ehi, James, un po’ di rum, e porta un secondo giro di quello che sta bevendo alla biondina. Offro io!», esclamò richiamando l’attenzione del barista.
Ancora stordita, Quinn rimase a fissarlo per qualche istante, come ad inquadrarne meglio l’immagine. Era cambiato. In sei anni si era leggermente appesantito, i capelli erano diversi, cambiati, e tra le due sopracciglia andava a disegnarsi una piccola ruga che lei non gli aveva mai visto, e che, si ritrovò a pensare, conferiva alla sua faccia un’aria più adulta, stressata, matura.
«Di tutte le persone di questa città, tu eri l’ultima che avrei sperato di incontrare in un posto del genere», fece lui, ridendo.
«Ma dai…è carino, qua», mormorò Quinn, guardandosi attorno.
«Già», rispose lui.
Un cameriere più giovane appoggiò i due drink davanti a loro, sul bancone lucidato.
«Allora, Puckerman», fece lei con maggiore fiducia, portandosi il bicchiere alle labbra, «cosa hai fatto in tutti questi anni?»
L’altro rise, bevve un sorso di rum e poi si schiarì la voce. «Be’, se vuoi sapere se la mia vita sia particolarmente emozionante devo deluderti, ma almeno la mia fedina penale sembra immacolata», scherzò lui. «Ho viaggiato per un breve periodo prima di trasferirmi in California. Adesso vivo a Los Angeles. Al momento guadagno con i lavori che trovo, ma nel tempo libero mi do sotto con la sceneggiatura: sto scrivendo un film, sai, una di quelle cose che ti permettono di spaccare».
«E tu, che hai combinato?», chiese accompagnando la domanda con un movimento della testa nella sua direzione.
«Noah, potrei annoiarti per ore con articolati discorsi su Yale, la laurea, la specializzazione, l’ambiente universitario… ma, per tua fortuna, credo che almeno stasera eviterò».
«Lo prendo come un posticipo», esclamò ridendo.
Poi la sua espressione mutò, divenne più pacata, interessata, sicura. Appoggiò il bicchiere di rum vuoto sul bancone, e si girò a guardarla. 
«Perché sei tornata a Lima?»
Quinn sorrise, depositando la sua vodka.
«Barista, un terzo giro», esclamò. 
«Stavolta offro io».









 

Spero abbiate apprezzato il primo capitolo. Certo è solo l'incipit, nei prossimi la storia vedrà nuove apparizzioni e diversi sviluppi.
Se avete qualcosa da dire o da chiedere, fate pure, risponderò a qualsiasi domanda.
Vi pregherei comunque di lasciare un commento: sarebbe di incoraggiamento e,insomma, mi farebbe molto piacere(:
Detto questo, se il primo vi è piaciuto, cercherò di pubblicare i prossimi appena possibile!
Aspetto le vostre recensioni. 
Bye:D

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Capitolo 3
*** Welcome back home ***


2
Welcome back home
 
 
 
 
 
Prendere la seconda strada a sinistra, girare a destra, proseguire per un breve tratto, prima strada all’angolo, tutto a dritto, e poi di nuovo a destra.
Le chiacchere, i discorsi, le risate, le parole, persino i pensieri; tutto quanto si interruppe di colpo davanti alla vista di quegli undici metri di calce, tegole e cemento. Era tutto là, attorno a loro. L’edificio era rimasto esattamente al suo posto. Sembrava scoccare loro un sorriso dimenticato, proveniente da un’altra epoca, sembrava volesse condividere con il piccolo gruppo un segreto esclusivo, antico, nascosto.
 
«Avanti, andiamo», disse Rachel accennando un sorriso, mentre quella bolla di silenzio lentamente si disfece.
Kurt si soffiò il naso, riscuotendosi e asciugandosi le palpebre umide con la punta delle dita, spostandosi poi davanti per aprire la fila.
Tutto, dalla candida ghiaia sotto i loro piedi alle finestre illuminate dai deboli raggi solari, richiamava a qualcosa. Ognuno, nella propria testa, si sorprese realizzando quanti episodi avesse inconsciamente immagazzinato dentro di sé, senza mai permettere che questi se ne andassero o uscissero realmente, prima di quel giorno.
Avviandosi, qualcuno guardò in alto, dove anche il cielo sembrava assurdamente ricordare quello di sei anni prima.
Blaine si avvicinò all’entrata secondaria, quella sulla seconda parete, facendo segno agli altri di seguirlo.
«Lo sapevo, è aperto», mormorò entusiasta, spingendo il portone.
Una volta dentro provarono ad accedere alle varie aule, che, tuttavia, trovarono chiuse, essendo arrivati dopo il termine delle lezioni. Ad ogni trofeo e ad ogni cartellone esposto in corridoio si fermavano incantati, discutendo e rallentando quel percorso nel passato che nessuno di loro avrebbe mai voluto far finire per davvero.
Arrivati al termine del corridoio principale, Rachel si bloccò: una mano sulla maniglia piegata verso il basso, il mento pigiato sul collo, gli occhi che puntavano terra.
«Che c’è?», le chiese Santana sospettosa, avvicinandosi.
«Niente. E’ che…è che non oppone resistenza…L’auditorium è aperto», balbettò già col cuore a mille.
«Be’, e allora? Apri, andiamo»
Rachel annuì, frenando un fremito. Lì la sua voce era maturata, lì si era esibita calzando i primi ruoli da protagonista, laggiù aveva baciato Finn per la prima volta, e le Nuove Direzioni si erano sempre piazzate prime, in quello stesso luogo. E adesso lei doveva spalancarne l’entrata, tornare, ringraziare mentalmente quel posto che l’aveva resa quello che era adesso, e rimanere come se niente fosse, dopo sei anni. Deglutì, prima di aprire la porta.
Quando lo fece, file e file di poltrone rosse dal telo consumato si pararono loro davanti. Con la testa per aria a fissare il soffitto e i palmi appoggiati su ogni posto a scorrere, attraversarono l’auditorium, fino sotto il palco. Là, sul fondo di quest’ultimo, era accesa qualche luce gialla, mentre nella penombra si sentivano rumori sordi, come di qualcosa che cade.
Kurt si avvicinò, senza salire e con gli occhi che brillavano per l’emozione di quel tuffo indietro che misurava la profondità di anni e anni.
 «Ehi, c’è qualcuno? Sa, siamo degli ex alunni, abbiamo trovato aperto e allora abbiamo deciso di entrare…comunque spero non sia un problema, stavamo solo riguardando l’auditorium», disse ridendo e gesticolando.
Da dietro si sentì cadere un ultimo oggetto e avvicinarsi dei passi pesanti e tranquilli, che lievemente incespicavano in mezzo a tutti quei ritagli per terra. Il legno del palcoscenico ancora scricchiolava impercettibilmente, sotto quello strato di polvere aggrumato sul fondo, dove nessuno puliva.
Una figura in penombra sbucò dall’angolo degli oggetti caduti, fissando gli altri quattro con un sorriso.
«Non è mai stato un problema», disse pulendosi le mani con uno straccio.
E per una frazione di secondo la situazione rimase così. Lui sopra a guardarli, e loro sotto, con le bocce dischiuse e gli occhi spalancati, finché Kurt non salì sul palco gridando: «Finn!»
«Ciao, fratellino», rispose l’altro, avvolgendolo con le sue lunghe e forti braccia, accarezzandogli la testa con la mano destra mentre i suoi capelli gli scorrevano tra le dita.
Lo trattenne a lungo premuto su di sé, prima di staccarsi per regalare una patta amichevole alla spalla di Blaine, che si affrettò  immediatamente a ricambiare il gesto, scambiando un paio di battute.
«Santana», mormorò poi avvicinandosi a lei con passo molle e gli occhi pieni di emozione e rispetto, prima di avvolgere anche lei in un abbraccio carico di affetto e passato.
«Sei mancato, Finn», sussurrò sinceramente lei, appoggiando la propria guancia sul suo petto.
Il ragazzo si staccò dolcemente, avanzando a piccoli passi, come impaurito al pensiero di colmare quell’ultima distanza tutto insieme, che solo adesso si era materializzata, con pochi semplici movimenti. E mentre azionava un piede dopo l’altro, gli sembrò che tutto il resto potesse svanire, che fosse di troppo. Che bastasse solo uno spazio nero, e le loro figure. Poi nient’altro.
Accennò un sorriso con l’angolo destro della bocca.
«Ciao Rachel»
«Ciao Finn»
 
Si era appena alzata una brezza leggera tutto attorno, mentre gli ultimi raggi di sole battevano fiacchi su di loro, raggruppati sui gradoni come piccole lucertole alla ricerca di un po’ di calore.
Era stato Finn a trascinarli lì dopo i primi convenevoli; si erano seduti sulle gradinate bianche, iniziando a parlare del più e del meno, finché non si era raggiunto l’equilibrio di ogni vecchio incontro, che è quello del silenzio e della nostalgia.
«Ci sono troppi ricordi», sussurrò Kurt all’orecchio del marito.
Blaine gli baciò il dorso della mano, e lui rimase a scrutarlo di sottecchi. Improvvisamente si rese conto di quanto fosse cambiato, mentre nella sua testa l’immagine del marito con la divisa della Dalton abbracciato a lui ancora spiccava, nitida. Per un attimo pensò di poterlo amare di più adesso, per ogni nuova luce che andava a comparire nei suoi occhi, per ogni nuovo filo di barba che spuntava senza preavviso, per ogni nuova minuscola ruga che gli scopriva sul viso.
Kurt gli strinse la mano senza esitazione dopo tempo.
Santana lasciò che il suo sguardo volasse da Kurt e Blaine, da Rachel e Finn, per poi perdersi nel verde abbagliante del campo da football poco distante. I ricordi dei ragazzi imbracati nelle pesanti divise bianco-rosso e delle cheerleaders a bordo campo le ingombrò la mente, mentre una più profonda sensazione di nulla e di vuoto iniziò ad invaderla all’altezza dei polmoni.
Si rese improvvisamente conto che aveva sempre sottovalutato ogni cosa. Aveva sempre pensato di non aver mai trovato il suo posto, la sua casa, quando casa sua era stata quello stesso campo, quella stessa scuola, quella stessa squadra, casa sua era stata Brittany e il Glee Club. Ma adesso non c’era più niente. Quelli che stava osservando da lontano erano soltanto i resti di una casa in demolizione che non le apparteneva più da tempo, una casa privata dei suoi mobili e dei suoi profumi, che lei non aveva saputo salvare. Si morse un labbro.
«Quanti ricordi, eh?», mormorò Finn, malinconicamente.
Rachel distolse lo sguardo. Fece navigare i suoi occhi tra le gradinate bianche per poi chiuderli.
«Sì», disse soltanto, tornando a guardarlo.
Non riusciva a far combaciare il proprio ricordo del ragazzo con quella nuova immagine che le sedeva a fianco. Chiuse gli occhi ancora una volta. Era notevolmente dimagrito e i suoi capelli avevano perso la propria luminosità; anche il suo sguardo era più opaco, ma col tempo il sorriso era rimasto lo stesso.
Finn non mosse neanche un muscolo, sotto lo sguardo scrutatore di Rachel. Rimase immobile, con gli occhi socchiusi, persi in un oceano impenetrabile di emozioni e ricordi. Sarebbe potuto rimanere così per ore, con lei accanto e una valanga di anni alle spalle.
«Sai», disse, «a volte vorrei tornare indietro».
 


 Solo una decina di minuti dopo essere arrivata era riuscita a frenare il fiatone.
 Santana aveva sviato l’invito a cena con Finn e gli altri per catapultarsi là, soltanto per poter guardare quella fottuta villa ancora una volta, e adesso si ricordava di aver scordato persino il colore dell’intonaco.
Si aprì la porta, e a quella vista lei non riuscì più a muoversi, tenendo i piedi incollati al suolo e la bocca dischiusa., incredula
«Santana?», disse l’altra avvicinandosi sorpresa.
«Santana, che ci fai qui? Perché eri sotto casa mia? Avanti, entra! La spesa può aspettare», aggiunse.
Brittany aspettò una risposta, sorridente, come se quella fosse la cosa più normale da farsi, come se non avesse trovato la sua ragazza del liceo appostata sotto la sua vecchia casa a Lima.
«No…io, io non posso… devo andare…io…»
«Ma Santana, siamo entrambe a Lima, e non parliamo da un sacco di tempo. Avanti, entra!»
Santana si ritrasse senza guardarla negli occhi, senza neanche focalizzare il suo sguardo su come Brittany fosse vestita o cambiata.
«Mi dispiace», mormorò.









Spero che il nuovo capitolo vi sia piaciuto, o che non sia stato troppo deludente.
Be', a presto:)
Spero di leggere qualche recensione. Mi farebbe piacere:3

 

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