Tuffo d'anima

di Il Cavaliere Nero
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Private Eye ***
Capitolo 2: *** Capitolo Primo - Shinichi Kudo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Secondo - Karate ***
Capitolo 4: *** Capitolo Terzo - Indecisione ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quarto - Fuoco di paglia? ***
Capitolo 6: *** Capitolo Quinto - Nell'occhio del ciclone ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sesto - Nubi all'orizzonte ***
Capitolo 8: *** Capitolo Settimo - Fervore ***
Capitolo 9: *** Capitolo Ottavo - Tortura ***
Capitolo 10: *** Capitolo Nono - Distrazione ***
Capitolo 11: *** Capitolo Dieci - Tropical Land ***



Capitolo 1
*** Prologo - Private Eye ***


Piccola nota d'autrice: Ehm….ehm. Non ci si vede da un po’, è vero? La primissima obiezione, oltre al mio oramai consueto ritardo di aggiornamento qui su Efp, a cui voglio subito rispondere è: sì, ho ancora da terminare Fiuto da detective. Il problema è che mi sono bloccata xD Mi mancano due capitoli e l’epilogo, ed ho già scritto epilogo e ultimo capitolo; ma il penultimo…c’è un nodo, un passaggio che non riesco a farmi tornare! E così la storia rischiava di divenire meccanica, non spontanea, e quindi noiosa. Allora voi mi chiederete: perché torni a infastidirci con una nuova? Ed avrete ragione. Il fatto è che ho avuto una sorta di ispirazione, lasciatemi passare questo termine poetico, ed ho deciso di metterlo su carta. Ho mentito di nuovo! Non sono stata io a prendere questa decisione. Una persona mi ha convinta a tornare a scrivere. Per lungo tempo avevo perso in parte fiducia, in parte voglia, nella scrittura; e avevo dimenticato quanto fosse tangibile il piacere che scrivere mi procura. Da sola, senza il suo intervento, probabilmente avrei lasciato perdere e non avrei più scritto per ancora molto tempo.
Per questo, le sono grata.


Prologo – Private eye
 
«Ma perché arrivi un amore autentico, onesto e sano,
la cosa migliore è non pensarci troppo, e non invocarlo.
Altrimenti ci si inganna.
Si mette la maschera dell'amore sul primo e più rozzo dei volti.»
Irène Némirovsky

Conciliare serietà e leggerezza: declinare l’intelligenza nelle sue forme più complesse, per poi abbandonarsi all’ironia più dirompente. Od anche unirle: scherzosa vivacità e orgogliosa facezia.
Da lungo tempo Ran si chiedeva se questo possibile, e infine non era giunta una risposta: semplicemente aveva deciso di provare a diventare una persona, una donna capace di scherzare e poi lavorare.
Ridere e riflettere.
Voleva crescere e faticare, e nel contempo mirare al suo futuro non come una meta, ma come un percorso. La sua vita non sarebbe stata finalizzata ad un obiettivo, non avrebbe passato tutto il suo tempo ad anelare qualcosa che poi, forse, non avrebbe raggiunto. Certo non si sarebbe sottratta alla fatica, ma l’avrebbe vissuta – nei limiti del possibile- con il sorriso sulle labbra.
Così voleva vivere; la realtà circostante però non pareva offrirle appigli solidi.
La sua migliore amica, Sonoko, non faceva che ricordarle come fossero sole, senza fidanzati, e per lei pareva un vero cruccio.
Suo padre, Kogoro, era impegnato nella risoluzione di più o meno difficili indagini al fianco dell’ispettore Megure e dei suoi agenti, ma negli ultimi tempi si profilava uno scontro ideologico tra la centrale di polizia e la questura cui rispondevano.
Cercava di essere ottimista, sperava di essere tanto forte da riuscirci. Qualche volta però l’incertezza ed il timore per il futuro vincevano la sua fermezza e si ritrovava a pensare cosa sarebbe successo; si immaginava tre o quattro anni nel futuro, e paragonava cosa le sarebbe piaciuto vedere a cosa credeva avrebbe probabilmente visto. Il sovvenire del tempo l’assaliva, e nei giorni più pesanti era debole e perciò non ne contrastava l’attacco.
Era ciò che le stava accadendo quando rientrò in casa, dopo gli allenamenti di karate che frequentava assiduamente da quando era una bambina. Pioveva a dirotto, i vestiti zuppi d’acqua le gelavano il corpo ed i capelli bagnati e grondanti le davano fastidio appiccicandosi attorno il collo e sulla fronte umidiccia.
Non appena si fu richiusa la porta alle sue spalle, tirò un sospiro di sollievo. E mentre si cambiava pensò bene di mettere il pigiama, dal momento che l’appartamento di sotto, e cioè dell’agenzia investigativa di suo padre,  era avvolto dal buio, neppure un riflesso di luce che fuoriuscisse dalle finestre.
Sbuffò, accoccolandosi sul divano mentre ancora si frizionava i capelli con un asciugamano.
Era sera ed era a casa da sola; sua madre Eri aveva lasciato la casa da molto tempo, e sebbene non avesse ancora chiesto il divorzio, i due coniugi vivevano oramai come fossero realmente separati.
Nonostante tutto, Ran non biasimava sua madre: talvolta Kogoro irritava anche lei!
Sapeva che si volevano ancora bene, e perciò confidava nel loro buon senso: prima o poi l’orgoglio avrebbe ceduto il passo all’amore e sarebbero tornati insieme – e lei non perdeva occasione di accelerare le cose, quando possibile. Mai.
Reclinò la testa ma gli occhi le volarono sul tavolinetto in legno di fronte la poltrona, dove troneggiava il giornale di quel giorno. Lo afferrò per avere notizie della giornata: aveva corso da una parte all’altra –scuola, supermercato, casa, palestra- che non ne aveva avuta neppure una lontana eco.
 
Cadavere rinvenuto all’interno di un vecchio capannone abbandonato, due anni fa sede di una importante società informatica e programmatistica.
Il corpo senza vita, trovato dagli agenti di servizio la notte passata, appartiene ad una giovane donna di circa venticinque anni, capelli castani. La sua identità rimane ancora sconosciuta agli inquirenti, benchè si segua la pista di un delitto passionale poiché la causa della morte è un colpo di arma da fuoco che le ha trafitto il petto. Voci di corridoio affermano che la polizia abbia già coinvolto nelle indagini il detective privato Shinichi Kudo, fuoriclasse che…
 
Ma Ran interruppe la sua lettura . A leggere quel nome il cuore le balzò in gola: Shinichi Kudo!
Faceva lo stesso lavoro di suo padre: era un detective privato. Molto giovane eppure molto bravo, famoso nel Giappone per aver risolto ogni caso gli fosse capitato tra le mani. Ancor più noto, però, per i suoi metodi decisamente poco ortodossi, come Kogoro spesso li definiva. A Ran invece piaceva chiamarli anti-conformisti, meravigliosamente contrari eppure convergenti alla forma appannaggio del contenuto: ad esempio, per lungo tempo si era discusso di come avesse permesso a due criminali pluriricercati, evasi di prigione durante il trasferimento del carcere di una più modesta cittadina a quello di  massima sicurezza della capitale, per correre a salvare la donna che avevano preso in ostaggio nella fuga.
“Li ha fatti scappare! Un investigatore che voglia dirsi tale non può permettersi di farsi sfuggire due malviventi del genere, sono sconvolto!” aveva commentato suo padre leggendo il giornale, ma il pensiero della figlia era agli antipodi:
-Ha preferito salvare la vita di una donna piuttosto che arrestare due uomini.-
Certo, avrebbe fatto meglio a fare entrambe le cose: trarre lei in salvo ed arrestare i criminali. Ma la totale perfezione non è di questo mondo, e di fronte alla necessità di scegliere lei aveva molto ammirato come Shinichi Kudo non avesse esitato neppure un momento a rivolgere le sue attenzioni all’ostaggio.
Aveva gioito però quando, due giorni dopo, la prima pagina di ogni giornale era stata di nuovo occupata da una sua foto, affiancata dalla didascalia: Kudo Shinichi blocca e permette l’arresto dei due fuggitivi nasakiani! *
Oppure, il caso in cui aveva impedito ad un serial killer di suicidarsi *; mentre si gettava da un parapetto lo aveva afferrato per la manica della giacca, riportandolo coi piedi a terra, pur immobilizzato.
Gridi allo scandalo: “Ma dove si è mai visto? Un altro delinquente ad ingombrare le prigioni, avrebbe fatto meglio a lasciarlo cadere…con tutto quello che ha fatto, poi? Non si merita di vivere!”
La reazione di Ran era stata invece opposta.
Lo stimava molto: anche perché, non esperta ma comunque conscia dell’ambiente di lavoro di suo papà, sapeva bene cosa questi particolari metodi e modi di pensiero comportassero: i commenti come quelli di suo padre, in primo luogo. La polizia che lo ostacolava, per lo più, a meno che non avesse a che fare con agenti particolarmente illuminati, come d’altronde lo era lui. Continui polveroni attorno alle sue gesta, polemiche, talvolta insulti – “Un ragazzino che finge di interessarsi ai suoi clienti e si riempie la bocca di parole come giustizia, senso civico e dovere, quando il suo scopo è la famosa triade: soldi, fama, donne” ; “Esaltato che si crede chissà chi, pieno di sé ed arrogante”; “Sbarbatello senza rispetto per le regole, le tradizioni, il buon costume, la legge stessa che crede di rappresentare e invece demolisce”; “Sedicente investigatore d’elite, si occupa solo di casi della statura della sua presunta abilità non riuscendo così a celare, pur ci provi, il suo snobismo e la sua aria da uomo di mondo”.
Dall’altra parte non mancavano voci, specie di autorità e protagonisti del mondo della giustizia e della legge, pronti a lodarlo e parlarne bene; avvocati, altri investigatori suoi colleghi, alcuni poliziotti non esitavano ad elogiarne la professionalità ed il buon cuore, l’impegno a tutto tondo e le capacità, fisiche come mentali, di rari eguali.
La sua personalità era complessa, e molto discussa; lo sarebbe stata comunque, ma il gran successo che di giorno in giorno acquistava attraverso giornali, riviste, televisioni e pettegolezzi ne aumentava il riflesso e le opinioni discordanti.
Ran conosceva le sue imprese a mena dito; ricordava il suo esordio, avvenuto all’estero: su un aereo diretto a Los Angeles aveva risolto il suo primo caso, e poi nella città si era occupato brillantemente di una seconda indagine; conosceva i dettagli della sua vita privata, pronta a recepire ogni informazione di tipo professionale o personale che i mass media avessero diffuso. Sapeva, ad esempio, che amava giocare a calcio, che era tifoso dei Tokyo Spirits, che sua madre era una famosa attrice e suo padre un grande scrittore –la sua opera più famosa, la saga del Night Baron; che però quando lui era ancora piccolo entrambi i genitori si erano trasferiti negli Stati Uniti per lavoro mentre lui aveva preferito rimanere in Giappone per terminare i suoi studi; che era stonato come una campana pur avendo un perfetto orecchio musicale…e mille altre dettagli colti qua e là da articoli, servizi di gossip, e interviste.
Eppure il termine fan era riduttivo per designarla; Ran non era propriamente una sua ammiratrice. Lo ammirava perché ne condivideva in tutto e per tutto l’idea di vita, i pensieri –o almeno quelli che credeva fossero i suoi pensieri: l’ideale di vivere serenamente, quasi alla giornata, ma non come invito alla rassegnazione, al contrario, come esortazione a cogliere dai giorni ciò che di più bello il destino ha da offrirti; la generosità che non cede il passo al rancore, alla vendetta o peggio ancora alla cattiveria, ma si nutre di nobiltà d’animo ed è tanto forte da porre al centro del tuo obiettivo l’altro, e non te stesso; il coraggio disinteressato, la speranza, l’ardore. Questo era il mondo per lei, e questo era Shinichi. L’universo riflesso nel particolare, la forza vitale compressa in una persona e pronta a deflagrare da un momento all’altro in un’esplosione di vita vissuta in ogni suo prezioso momento. Ne amava le risposte argute, forse saccenti ma puntuali¸ ai giornalisti che lo incalzavano con domande a trabocchetto; ne amava le repliche sincere, animose ai giornalisti che gli chiedevano senza malizia un commento o un pensiero su una data indagine o su un malfattore.
Inoltre, di certo non negava il suo aspetto: Shinichi Kudo era un bellissimo ragazzo. Non lo aveva mai visto dal vivo, neppure una volta: ma di certo tanto fascino non poteva essere contraffatto da un gioco di luci in una foto o da espedienti tecnici in una ripresa.
Era alto e slanciato, gli abiti non potevano nascondere ai suoi occhi da karateka un fisico sicuramente ben allenato. Capelli corvini spesso un po’ spettinati sulla fronte, la frangia che gli ricadeva sugli occhi esaltandone l’azzurro limpido, quegli stessi occhi che molto spesso in tv le erano parsi attraversati da una luce indefinibile, che insieme era intelligenza, ironia, sicurezza…in una parola, vita.
Le sarebbe piaciuto conoscerlo, ma era certa che non avrebbe saputo cosa dirgli. Non sperava in risvolti da film, il detective che si imbatte per caso nella ragazzina di turno che però è diversa da tutte le altre –ne doveva conoscere di donne!- e perciò se ne innamora pazzamente. Semplicemente, giacchè rappresentava una sorta di modello gli avrebbe fatto piacere che lui lo sapesse. Che fosse a conoscenza che, mentre trasgrediva un comma di una legge per evitare di usare un’esca, una ragazza lo ammirava e ne era fiera.
E che magari, quando le critiche superavano gli elogi e lui accendeva la televisione e vedeva i volti più noti dargli addosso, c’era comunque qualcuno che non l’avrebbe mai contestato: la sua caduta non sarebbe mai stata totale, rovinosa. D’altro canto, l’idea di poterlo conoscere la spaventava: e se lo avesse idealizzato? Se non fosse tutto quello che lei aveva creduto, se avesse solo proiettato sulla figura più opportuna una serie di idee e caratteristiche a lei care, e vedendolo il castello di carte sarebbe andato distrutto?
Non c’erano macchie sul suo nome, talvolta però dei fatti non erano chiari – specie a suo padre che, leggendo il giornale, commentava:
“Ma come ha fatto Kudo ad avere queste prove?”
“Come ci è entrato là dentro?”
“Come l’ha trovato questo tizio?”
Erano domande che galleggiavano in aria e non trovavano risposta. Kogoro alludeva a strani maneggi che non lo rendevano poi tanto dissimile dalle persone che davanti al mondo diceva di combattere, Ran si affidava al suo sesto senso –o alla sua idealizzazione?- e credeva che Kudo Shinichi avesse degli amici in polizia, o anche in forze della legge più forti, che gli passassero informazioni quando necessario. E che magari lui ne passasse a loro all’occorrenza: così Shinichi diveniva anche simbolo di taluni vincoli di fedeltà e amicizia che per lei erano sacri.
Sonoko la prendeva spesso in giro, quando la coglieva a divorare un articolo su di lui, o anche solo a pensare con occhi trasognanti e l’aria di chi si perde tra le nuvole:
“Kudo Shinichi, è vero? Ran, ma perché non ti concentri su qualcuno di reale? Ci serve un ragazzo, dobbiamo innamorarci!”
Ran voleva fidarsi. Era come se avesse deciso di sognare, ma sempre in presenza di ragione. Era perfettamente consapevole di abbandonarsi ad un’idea rischiosa, forse anche sbagliata: ma era un rischio che le piaceva correre, uno sbaglio che non le costava commettere.
Shinichi Kudo gli piaceva per la mente, il corpo, i modi.
Forse tutto l’astio e l’avversione che Kogoro esprimeva sul giovane collega quando ne leggeva le imprese doveva ricondursi a gelosia: sia quella propria di un padre che vede la sua bambina perdersi nel debole per un giovane uomo, sia quella proprio del detective che teme il confronto con un avversario potente; qualunque cosa si volesse dire su Kudo, i casi li risolveva. Li aveva sempre risolti. Tutti!
Non era mai caduto.
Kogoro non era simile a Shinichi; certo, era onesto e buono, non avrebbe mai permesso volontariamente a qualcuno di morire. Eppure, era molto più rigido nel rispetto delle regole, schematico nei ragionamenti, imprigionato nella convenzione del passato. Forse un po’ troppo ancorato alla vita di quando era giovane, ai metodi che vent’anni prima erano rivoluzionari, ma che vent’anni dopo erano divenuti abituali.
Era a cavallo tra due epoche: troppo fiducioso in quello che era stato per lanciarsi nel nuovo, troppo affezionato al suo lavoro per arenarlo completamente al vecchio e desueto.
Anni prima probabilmente era stato un abile investigatore, a suo modo innovativo e di mentalità aperta; ma col tempo, che fosse stato lui a cambiare, che fossero state le novità ad istituzionalizzarsi, Kogoro era divenuto un perfetto prolungamento del tipico sistema vigente, che magari accetta, a malincuore certo, ma comunque accetta di liberare un prigioniero per un vizio di forma.
Il rumore delle chiavi nella toppa la riscosse dalle sue riflessioni, e mentre il padre rincasava fradicio ancor più di lei, Ran si ritrovò a gettare il giornale più lontano possibile da lei, come si vergognasse ad essere sorpresa nella piena, ennesima, riflessione su Shinichi Kudo.
Gli corse incontro per aiutarlo a sfilare il soprabito bagnato, e dovette sopportarne le lamentele:
“Tutto il giorno in centrale, tutto il giorno! Per non scoprire niente…”
Da qualche tempo Kogoro Mouri era impegnato in un caso di rapina. L’ispettore Megure, da lungo tempo capo della centrale di Haido Choo, chiedeva la sua collaborazione per alcuni casi, sebbene per le indagini più difficili Kogoro stesso si trovasse spesso ad arrancare, incapace di sciogliere il nodo della matassa.
Nella banca centrale tra il quartiere di Haido e quello di Beika aveva fatto irruzione sabato mattina un rapinatore, la pistola alla mano e un enorme sacco di stoffa per raccogliere i soldi della refurtiva. Il suo complice l’aveva atteso in macchina, dall’altra parte della strada, e non appena quel sacco si era riempito l’altro l’aveva raggiunto, era saltato in macchina ed erano scappati insieme. Mentre gli agenti di turno accorsi cercavano di fermarli e gli sparavano contro le ruote, quelli mettevano in moto e se la davano a gambe.
L’automobile, prontamente rintracciata grazie alla ricerca della targa, era risultata ovviamente rubata; i soldi del furto non erano ancora stati spesi, o quanto meno non erano giunte segnalazioni di dispendio di banconote di alto valore di scambio.
“Riuscirete a prenderli, vedrai. Dovete soltanto avere pazienza: troverete quel qualcosa che vi porterà all’illuminazione, e poi alla risoluzione del caso.” Si morse la lingua quando si rese conto di aver utilizzato un termine –illuminazione!- caro a Shinichi Kudo. Lui parlava sempre di ‘momento di illuminazione, folgorazione che ti rende tutto il quadro più nitido, ti fa cogliere il bandolo della matassa e ti porta direttamente alla risoluzione dell’inchiesta’.
Fortunatamente Kogoro parve non accorgersene.
Sospirò, massaggiandosi la fronte: “Ho bisogno di una birra…”
“Ma papà!” lo riprese lei, pronta a ricordargli il viziaccio che aveva, ma fu interrotta:
“Quando sei rientrata?”
“Pochi minuti fa.”
“Così tardi?” si allarmò, all’idea che la sua bambina avesse percorso la strada di ritorno al buio, da sola, sotto la pioggia.
Ma soprattutto al buio, quando era già calata la sera: lavorare a stretto contatto con tante vittime, anche giovani donne, non lo aiutava ad essere un padre tranquillo.
“Sonoko mi ha accompagnata per un pezzo…”
“Sonoko sa sconfiggere i malintenzionati?”
“Lei no, ma io sì! Sono cintura nera, ricordi?” portò le mani ai fianchi, pronta a proseguire. Ma il padre detective tagliò corto:
“A che ora hai gli allenamenti, domani? Vengo a prenderti io.”
 
§§§
 
“Come mai non sei venuta con noi, Ran? Ieri sera ci siamo divertite un sacco!” la cintura marrone Yuki le lanciò scherzosamente addosso l’asciugamano, ma lei lo schivò con facilità.
“Oh, beh, avevo un po’ da fare…dovevo preparare la cena a mio padre!” borbottò, chiudendo con uno strattone la zip del suo borsone.
Entrambe si avviarono verso l’uscita, mentre una terza si aggiunse:
“Secondo me, ha ragione Suzuki quando dice che la tua cotta per quel Kudo è diventata una fissa! Non sei venuta con noi perché c’era qualche sua intervista in tv, non è vero?”
Lei si affrettò a negare: la profonda concordanza di idee con Shinichi Kudo rendeva la sua ammirazione per lui di natura sincera, e dunque intima. Non voleva che le sue amiche la vedessero come una specie di stalker fissata con un vip di alto bordo, ma non le andava neanche di mettersi a spiegare loro tutti i motivi per cui sentiva quel legame con lui. Addirittura, talvolta si era sentita così in comunione, anche solo spiritualmente con lui, da prendere l’abitudine di chiamarlo per nome quando lo pensava, quando ne parlava. Come fosse un suo amico.
Era una cosa che apparteneva a lei, e basta. Anche perché la risposta più plausibile, ed in effetti razionale, sarebbe stata: “Ma quale rapporto, Ran?! Sei matta? Quello è così tra preso tra poliziotte, modelle e attrici che non sa neanche che esisti!”
Ed era vero, in effetti. Ma lui le interessava anche solo come portatore di principi simili, identici ai suoi, in quel mondo che spesso pareva chiudersi a lei e alle possibilità che sperava di cogliere.
Si congedò in fretta dalle compagne di corso per rivolgere gli occhi alla porta della palestra, dove suo padre l’aspettava. Aveva detto la verità la sera prima, e aveva mantenuto la promessa: era andato personalmente a prenderla.
Ran sorrise, toccata: sebbene spesso Megure fosse severo e un po’ burbero, Kogoro non esitava un attimo se lei aveva bisogno di lui, anche si trattasse di una sciocchezza. Le voleva molto bene, era un buon padre: e Ran lo sapeva.
Fece per avvicinarsi a lui, quando scorse la porta aprirsi e fare il loro ingresso nella sala due agenti e l’ispettore stesso. Comprese immediatamente dalle loro facce scure come ci fossero novità sulla rapina e come i poliziotti avessero deciso di informare immediatamente Kogoro; e allora decise di fermarsi un po’ distante da loro, e si sedette sugli spalti più alti per concedere il tempo di parlare di quegli argomenti top secret.
Dall’alto li guardò, otto o nove gradini più in basso, discutere al posto dove lei, durante gli allenamenti, combatteva contro il suo avversario.
La porta si aprì di nuovo, e Ran pensò:
-Ecco, temo che dovrò aspettare parecchio…- ma non ebbe ulteriore tempo per lamentarsi.
Prima ancora che il suo cervello recepisse la situazione, il cuore prese a tamburellarle nel petto e un brivido le attraversò la schiena. Battè un paio di volte le palpebre per assicurarsi di aver visto bene, sporgendosi lievemente con la testa oltre le ginocchia per focalizzare meglio l’obiettivo a distanza.
Non ebbe alcun dubbio.
-Shinichi!-
Il giovane detective prodigio aveva fatto il suo ingresso nella palestra.
 
 
 
 

                            §§                            §§                            §§                            §§                              §§                         
 
 
 
Precisazioni:
 
 
Nasakiani: della città di Nasako.
 
I casi citati en passant del serial killer, dell’aereo e Los Angels si riferiscono a fatti effettivamente creati da Gosho, ma che io ho un po’ adeguato alla mia narrazione. Diciamo che ho mantenuto un appiglio alla realtà e poi da lì ho tratto le mie conclusioni. 

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Capitolo 2
*** Capitolo Primo - Shinichi Kudo ***


Capitolo Primo – Shinichi Kudo

«Troppo presto per me, o troppo tardi:
i sogni sognati troppo a lungo,
io ero impreparato a viverli.
»
Italo Calvino


 

Shinichi Kudo era lì, a pochi metri di distanza da lei.
Il cuore non si decideva a frenare i suoi battiti, mentre la giovane karateka fissava l’attenzione sul ragazzo, con una mano nella tasca dei jeans e l’altra a reggere con fermezza dei fogli di giornale che mostrava all’ispettore, e che Kogoro cercava di leggere con buffi stiramenti del collo.
Parlava senza esitazione: Ran cercò di focalizzare l’attenzione sulle sue labbra per comprendere qualche parola, ma l’emozione glielo impedì.
Non si rese conto di fissarlo per lunghi istanti, che poi divennero minuti. Non gli staccava gli occhi di dosso, come se guardarlo così tanto insistentemente potesse servirle a stargli un po’ più vicina, a rubargli un po’ di quel meraviglioso effluvio di vita che, di lui, amava.
Voleva carpire ogni minimo gesto, ogni singolo movimento del volto, del corpo, nell’illusione che gli appartenesse un po’ di più:  lo scorse passarsi una mano tra i capelli, spettinando ancora di più la frangia, e facendola ricadere sugli occhi. Da lontano non poteva vederli bene…le sarebbe così tanto piaciuto, scrutarlo da vicino! Le parve di scoprirlo ancora più alto di quanto la tv avesse mai mostrato; ed estremamente magro, oltre che elegante: indossava una camicia nera dentro ai pantaloni ed una giacca blu, e una meravigliosa cravatta rossa.
Shinichi tacque, e Megure prese la parola. I due investigatori lo ascoltavano attenti, suo padre aggrottava le sopracciglia mentre il ragazzo annuiva. Fu il turno di Mouri prendere la parola, e Kudo continuò a starsene lì, le braccia calate lungo i fianchi e il giornale che dondolava all’altezza del ginocchio.
D’un tratto, probabilmente sentendosi osservato, voltò il capo in direzione di Ran, puntando gli occhi sulle tribune; e lei avrebbe potuto reagire in mille modi…avrebbe voluto reagire in mille modi.
Ma vinse l’immediatezza; rapidamente si accucciò sotto lo spalto, nascondendosi alla sua vista.
-Ma che…?!- si rimproverò da sola, strizzando gli occhi.
Cercò di farsi coraggio, e convincersi che quell’occasione non le si sarebbe di certo ripresentata: conoscere Shinichi Kudo, vederlo da vicino, incontrarlo di persona, stringergli la mano!
-Signor Kudo, sono molto felice di conoscerla! Seguo le sue indagini…no, no, avrà avuto già mille fan a dirgli queste stesse parole! Vorrei differenziarmi un po’, lasciargli un segno…Kudo-san, piacere! Mi chiamo Ran, e da figlia di investigatore posso dirle che…ma cosa? No! Figlia di investigatore, sto presentando un curriculum? Kudo-san, piacere di conoscerla! Trovo ciò che fa molto bello. Non smetta, molte persone le devono molto. Ecco…sì, direi che così potrebbe andare bene. Mhm, forse…no…sì, così va bene!-
Prese un respiro profondo, chiuse gli occhi un’ultima volta prima di riaprirli ad issarsi sulle ginocchia contemporaneamente.
Per l’ennesima volta, non credette a quel che le si mostrava davanti: Kudo non c’era più.
 
 
“Non posso crederci! Non dirai sul serio, spero!” Sonoko Suzuki rideva a crepapelle da più di mezz’ora. Vissuta quell’esperienza troppo forte da gestire da sola, Ran stava attraversando la fase della sublimazione: non riusciva a distrarsi, e parlarne la faceva stare bene. Le dava l’impressione di aver quasi toccato con mano la realtà che acclamava dai quotidiani e dalla luce dei riflettori. E Sonoko era l’unica pronta a starla a sentire quando parlava, per ore ed ore, di Shinichi Kudo.
“Ma come ti è venuto in mente di nasconderti? Sono secoli che ti piace, dovevi approfittarne! Avresti fatto meglio a raggiungere tuo padre e presentarti…”
“Ah, sì? E così, su due piedi, che gli avrei potuto dire mai?”
“Ciao, sono una tua fan, piacere di vederti!”
“Ma tutti gli dicono così! Io avrei voluto che si ricordasse di me…dirgli qualcosa per cui, un domani magari, ai suoi colleghi avrebbe potuto raccontare di aver conosciuto una ragazza che gli è rimasta impressa per…”
“Oh, non ricominciare con queste idiozie! Quando si parla di quel tizio non ragioni più! Conosce talmente tanta gente…ma cosa vuoi che possa rimanergli impresso nello spazio di cinque minuti? Avresti potuto pugnalare qualcuno e poi atterrarlo con una delle tue fantastiche mosse di karate! La donna che uccide qualcuno davanti a lui e poi gli sfugge. Ti avrebbe ricordata di sicuro!”
“Non scherzare, Sonoko! Mi dispiace davvero non aver fatto in tempo a dirgli nulla…”
Ed era vero. Ma in fin dei conti era arrivata all’idea che, forse, era stato meglio così: il suo mondo idillico non era crollato, e questo le bastava. Inoltre, lo aveva visto dal vivo, e così accertato la sua avvenenza; anche se distante, si era segnalato per il suo fascino e la sua prestanza. Come se avesse emanato un’aura, Ran l’aveva colta tutta e raccolta per sé, decidendo di conservarla per il resto della vita. O almeno, fin quando se ne sarebbe ricordata ed il ricordo non sarebbe gradualmente svanito.
Si era fatta sera, e nei suoi abitudinari acquisti al supermercato aperto ventiquattr’ore su ventiquattro aveva implorato per la compagnia della sua amica, ricca ereditiera del gruppo finanziario Suzuki.
Parlarono ancora un po’, e la biondina l’accompagnò fin sotto casa; le chiese maggiori informazioni e lei gliele fornì volentieri: di fatto, da quel che aveva capito dalle telefonata che per tutto il pomeriggio Kogoro aveva ricevuto, Kudo aveva passato un’informazione di qualche tipo all’ispettore, riguardo il caso della rapina. Ma il padre si era ben guardato dal commentare in qualunque maniera quell’evento inaspettato, e subito l’aveva spedita ad acquistare qualcosa per la cena, ancora prima che, rimasti soli una volta giunti a casa, gli chiedesse spiegazioni più precise.
Si salutarono, e le fu estorta la promessa di ottenere più notizie da suo padre.
“Va bene. D’accordo…ma sì, ho detto che va bene!” lo sentì parlare quando raggiunge la porta dell’agenzia investigativa al primo piano. Aspettò di sentirlo pronunciare: “Arrivederci, ispettore.” prima di prendere un bel respiro ed entrare nella stanza con la busta tra le mani.
“Vuoi del sushi per cena, papà?” si finse indifferente e spigliata. “Oppure preferisci sashimi?”
Il detective le rivolse un’occhiata seccata, agganciando la cornetta del telefono.
“Cosa vuoi sapere del tuo amichetto?” tagliò corto, facendola avvampare.
“C-come dici, papà?”
“Conosci le mie perplessità su suoi metodi, e sulle ombre che avvolgono alcune delle sue indagini. Ammetto che ci ha fornito delle notizie interessanti…ma bisogna capire da dove provengono. Non mi fido, quello non mi piace.” Insistette, fissando la figlia negli occhi con fare determinato.
“Quali informazioni?”
“Il caso della rapina sarebbe collegato all’assassinio di una donna, il cui cadavere è stato rivenuto ieri in un capannone abbandonato.”
“La ragazza uccisa da un colpo di pistola?” subito le balenò alla mente l’articolo del giorno prima “Sui giornali c’era scritto che il movente passionale fosse il più probabile.”
“Per quello no. Crede fosse complice  dei rapinatori. Questa mattina ha contattato l’ispettore Megure, che a sua volta ha voluto informare anche me. Quel ragazzino comunque sapeva che del caso della rapina mi occupo anche io, e quindi ci ha raggiunti per parlare personalmente con noi della faccenda. La polizia ora indaga per scoprire il suo nome…se il suo conto presenterà somme di denaro corrispondenti a quelle del furto…”
“Sulla base di cosa, Shin…Kudo- si corresse –pensa che quella ragazza fosse coinvolta?” poggiò la busta della spesa a terra, avvicinandosi pur tuttavia ancora un po’ titubante all’uomo.
“Il proiettile. Il proiettile che ha causato la sua morte è compatibile con la pistola impugnata dal rapinatore. Lo sappiamo perché in un momento d’agitazione ha sparato un colpo d’avvertimento contro una colonna della banca, e la scientifica è riuscita ad estrarla ed analizzarla. Una calibro ventotto.”
“Capisco…” fece per congedarsi, persa ogni speranza: Shinichi aveva telefonato a Megure per passargli il caso, Megure gli aveva detto che il loro consulente era Kogoro, così lui l’aveva raggiunto –ammirevole, l’impetuosità del suo temperamento! Aveva subito pensato Ran- per comunicarglielo de visu. Fine della storia, non l’avrebbe più rivisto.
Però, qualcosa la trattenne nella stanza: una sensazione.
Era come se…
“Tutto a posto, papà?”
L’uomo sollevò gli occhi dalla scrivania a quella che ancora soleva definire la sua bambina.
“Ti senti bene?”
“ Ikari Shima.”
“Chi è?” la ragazza iniziò a preoccuparsi. In realtà conosceva quel nome; ma sperava di sbagliarsi.
“Il capoquestore, Ran. Megure teme che potrebbe intromettersi nell’indagine, in qualche modo.”
“Perché dovrebbe?”
“Perché Kudo non piace ai piani alti.” Tagliò corto, con severità, come se rimproverasse lei dei metodi dell’investigatore più giovane.
“E il suo intervento potrebbe causarci dei guai.”
 
§§§
 
Si era svegliata ed aveva preparato la colazione in silenzio. Kogoro si era mostrato più docile della sera precedente, eppure non aveva toccato di nuovo l’argomento; e lei neppure.
Uscì di casa piuttosto presto, un’ora e mezza prima dell’inizio delle lezioni: l’atmosfera si era fatta irrespirabile, come se l’appartamento fosse ricoperto da una cappa che le toglieva il fiato. Stare lì dentro la metteva di cattivo umore, senza un motivo preciso.
Beh, in realtà il motivo preciso c’era eccome: perché suo padre insisteva a dare addosso a Shinichi?
Possibile non capisse cosa rappresentasse lui, per Ran? Un mondo fatto solo di bene e bellezza, dove chi merita di vincere vince e chi merita di perdere, perde.
Riferendosi a lui con termini tanto colmi di astio e sfiducia era come colpire con mano violenta tutti i sogni e le speranza della giovane che si affacciava allora alla Vita…Kogoro non offendeva Shinichi, feriva Ran.
La quale, tuttavia, non cambiava idea. Al contrario: sentire così parlar male di lui ne aumentava la stima!
Niente e nessuno gettava mai ombre sulla sua figura, per lei; nutriva del sincero affetto nei confronti di una persona che neppure conosceva. Non dal vivo, almeno.
-Anche dal vivo, ora…- si ritrovò a considerare mentalmente, sorridendo tra sé e sé mentre varcava il cancello della scuola superiore Teitan.
Le andava bene:  l’aveva visto, aveva quasi raggiunto il mondo cui tanto aspirava.
Aveva sperimentato personalmente la sua genuinità: era stato pronto ad aiutare suo padre appena ne aveva avuto modo, pur non conoscendolo. Era davvero un comportamento da biasimare, quello?
Il detective era uscito dalla faccenda come ancora più magnanimo di quanto lo pensasse in passato, il suo legame con lui rafforzato.
Finalmente aveva sublimato l’esperienza scioccante del giorno precedente: era felice, nonostante tutto.
Talmente felice e su di giri da non ricordare che quel giorno le lezioni erano sospese.
Fu tentata di non tornare a casa prima delle sei canoniche ore mattutine; poi però ripensò a suo padre, e alla preoccupazione che palesemente lo turbava. Decise allora di rientrare, ma passando per il parco di Beika anziché la via centrale, diretta dall’appartamento al complesso scolastico. Ci avrebbe impiegato un po’ più di tempo e così avrebbe anche ricreato un po’ lo spirito; le piaceva molto passeggiare lì, o anche solo trascorrerci del tempo: si sentiva perdere nella natura, divenendo il nulla e il tutto allo stesso momento.
Costeggiò il piccolo lago interno al parco, fruendo dei suoni degli uccelli, del frusciare del vento tra le foglie e alzando gli occhi al cielo per contemplare le nuvole che parevano assumere delle forme alla sua attenzione.
Esitò prima di salire i gradini che l’avrebbero riportata a casa; ma prima di girare il pomello della porta, decise che avrebbe chiesto a suo padre delle spiegazioni. Si era calmata, questo era certo; ma si trattava di una calma ponderata, ferma e sicura, non della calma propria della resa.
“Quali ombre intendevi, ieri sera? Parliamone chiaramente, per favore, a cosa alludi quando…”
Ma le parole le morirono in gola, quando aprendo di scatto la porta si era ritrovata faccia a faccia con la persona che più in quei giorni occupava i suoi pensieri.
Vestito di pantaloni chiari e un cappotto di stoffa, Kudo Shinichi si era voltato nella sua direzione per scoprire di chi fosse quell’irruzione improvvisa nello studio di Kogoro, pur mantenendo la posizione in piedi di fronte la scrivania dell’uomo.
Lo vide e non riuscì a trattenere un: “Ohhhh!” pronunciato ad occhi spalancati, mentre percepiva nitidamente le sue guance accaldarsi. Comprese di essere divenuta paonazza, se ne vergognò: arrossì ancora di più. Non notò neppure l’ispettore Megure al fianco di suo padre, finchè questi non prese la parola:
“Buonasera, Ran-kun.”
“Che ci fai qui a quest’ora?” l’accolse scorbutico Kogoro, rivolgendole uno sguardo accigliato. Lei esitò un po’ prima di replicare, badando bene di focalizzare per bene il viso dell’uomo ed ignorare completamente Shinichi, nel tentativo di vincere l’afonia che l’aveva catturata appena messo piede nella stanza.
“C’è stato uno sciopero, e…”
“Allora porta a tua madre i documenti per la causa. Li ha scordati qui quando ti ha riaccompagnata a casa l’altro giorno.”
Quegli occhi e quel tono di voce celavano un neanche troppo segreto ordine categorico: “Vattene.” In altre circostanze li avrebbe ignorati, il carattere combattivo dei Mouri e dei Kisaki fusi in un singolo cervello; ma allora vinse la timidezza e il timore che i suoi sogni non coincidessero con il reale e, annuendo sommessamente, si richiuse la porta alle spalle.
Nella sue mente un tumulto: che fare? Perdere la seconda possibilità che il destino le concedeva? Sarebbe stata così ardita? Oppure sarebbe stata così ardita da parlargli, addirittura?
Chiuse gli occhi ed inspirò l’aria fresca del mattino, concentrandosi. Decise di svuotare la mente da una preconcetto o giudizio a posteriori, e concentrarsi solamente sulle emozioni: non cosa fosse giusto, meglio, ammirevole, utile fare; cosa la morale raccomandasse; cosa il buon senso chiedesse; ma cosa, al pensiero della sua realizzazione, le faceva sbocciare nell’animo una vera sensazione di benessere…Fece la sua scelta.
Quindi si sedette sul marciapiede subito dietro l’angolo dell’agenzia investigativa, decisa ad aspettarlo.
C’era una macchina blu metallizzata parcheggiata lì nei dintorni, e non l’aveva mai vista: ipotizzò appartenesse a lui, e prese a immaginare come conducesse le indagini. Di tanto in tanto si voltava nella speranza di vederlo scendere i gradini dell’edificio.
Cosa stava dicendo a suo padre? Che avesse saputo del suo astio e fosse andato lì per scontrarlo?
Che avesse scoperto qualcos’altro ancora su quella rapina e su quella povera ragazza?
Oppure il questore era venuto a sapere della loro collaborazione e Kudo gli stava chiedendo fiducia.
Sospirò, sconsolata: Kogoro non nutriva alcuna simpatia per lui, che lei sapesse. Qualunque cosa fosse venuto a fare, avrebbe miseramente fallito…Certo, che sfortuna aveva avuto! Se non fosse passata dal parco lo avrebbe incontrato, magari sotto casa addirittura. E avrebbe potuto dirgli sinceramente cosa pensava…
Rivedeva nella sua mente il volto di Shinichi girarsi nella sua direzione, e rivisse ancora e ancora il momento in cui vigliaccamente si era nascosta sotto gli spalti. Avrebbe dovuto invece mostrarsi, scendere dai gradoni…Questa audacia non era del suo carattere. Ma almeno avrebbe potuto –avrebbe dovuto- sorridergli! Lui le avrebbe sicuramente risposto con un altro sorriso, e lei avrebbe conservato un meraviglioso ricordo del loro incontro. Cosa custodiva ora, invece? Un bel nulla. Un atto di vigliaccheria e niente più.
Mentre flebili gocce di pioggia iniziavano a condensarsi e rovinare contro il suolo, Ran spostò con disillusione gli occhi sulla vettura blu…le mancò il fiato: non c’era più!
Si alzò di scatto, ignorando l’acqua che per la seconda volta in tre giorni le bagnava corpo e vestiti per raggiungere quel posto oramai vuoto.
“Accidenti!” piagnucolò, comprimendo le unghie sui palmi delle mani con fare stizzito.
Cosa avrebbe custodito di quel giorno? Un  atto di vigliaccheria e un atto da stupida distratta!
-Non ci posso credere…- le balenò in mente, e qualche lacrima stava già per risalirle sino agli occhi quando una mano si poggiò sulla sua spalla.
“Papà, per favore…” il fiato le morì in gola.
Voltandosi, si ritrovò a specchiarsi in un oceano azzurro che, guizzando con curiosità da una parte all’altra del viso, brillava di viva intelligenza.
“Tuo padre è Mouri, non è vero? E’ ancora di sopra. Devi chiedergli qualcosa?” le disse con affabilità, togliendole la mano dalla spalla.
Lei cercò di dire qualcosa, ma dalle labbra uscì un balbettio quasi silenzioso.
“Ti ha chiesto di riportare a tua madre dei fogli, ma non mi pare tu li abbia presi!” motivò l’affermazione appena pronunciata, sorridendole.
Le sorrise. Automaticamente e senza rendersene conto, rispose al suo sorriso. Come se l’espressione di Shinichi avesse modellato di un’intenzionalità consequenziale anche la sua.
“Io…io sono Ran, piacere di conoscerla Kudo-san!” fu l’unica cosa che riuscì a pronunciare, pentendosene l’istante dopo aver chiuso la bocca.
-Qualcosa che gli resti impresso!- si ammonì in un moto di auto commiserazione.
Lui rise: “Sì, lo so.” Le disse, mettendola ancora più a disagio. Poi repentinamente, aggiunse: “Scusami, io mi sono immediatamente preso la libertà di darti del tu. Vuoi che ti chiami Ran-san?”
Scosse il capo con fermezza: “No no, non si preoccupi! Il tu va benissimo!”
“E allora usalo anche tu! Non credo di essere tanto più grande di te, non cercare di farmi sentire uno snob démodé che si è dimenticato di essere un ragazzo.” Sorrise di nuovo e a ruota lei fece altrettanto.
Annuì, le guance ancora un po’ accaldate che però erano ben celate dalle gocce di pioggia che le avrebbero comunque arrossato in volte per la reazione tra colore del corpo e freddo dell’ambiente circostante.
“Sta arrivando un temporale.” La ammonì e lei temette che fosse una maniera gentile per congedarla:
“Ho ancora qualche minuto!” si affrettò a rispondere, muovendo un passo in avanti. L’istante dopo credette di apparirgli irruenta, quindi fece un passo indietro. Non seppe più come comportarsi e fissò gli occhi sulle sue scarpe.
“Bene, giusto il tempo perché io possa parlarti!” ammiccò.
“Mi volevo scusare per poco fa.” Proseguì: “Sono piombato a casa vostra senza avvisare, mi è parso evidente che tuo padre ti ha cacciata da casa perché c’eravamo l’ispettore Megure ed io. “
La disinvoltura con cui si riferiva al poliziotto la faceva ben sperare in un probabile futuro successo dell’indagine.
“E mi pare evidente che se sei tornata a casa anziché rimanertene in giro è perché avevi voglia di stare tranquilla. Perciò…scusami, Ran!”
Pronunciò quella frase con la stessa naturalezza che sarebbe potuta appartenere a una Sonoko in ritardo all’ennesimo appuntamento mentre cerca di farsi perdonare dalla sua amica. Quell’atteggiamento tanto spontaneo e amichevole –che per tutti quei mesi aveva sperato gli appartenesse ma anche temuto gli fosse estraneo- la mise a suo agio, o almeno la rese più tranquilla per rivolgergli qualche parola.
“Non si preoc---“ il suo sguardo finto seccato la spinse a correggersi: “Non preoccuparti. Mio padre mi spedisce sempre da qualche parte…anche quando in tv c’è qualcosa che gli piace!”
Shinichi le sorrise di nuovo, stordendola. In futuro di quel dialogo si sarebbe mille volte rimproverata la probabile faccia da ebete tenuta per tutto il tempo.
“Perciò non devi portare quei fogli a tua madre?” s’informò.
Fece spallucce: “Non ora!” rincarò la dose per evitare la congedasse. E riuscì perfettamente nel suo intento:
“Allora ripariamoci da qualche parte, inizia a piovere seriamente ed io non ho portato l’ombrello.” Rise di se stesso: “Non lo porto mai, lo dimentico sempre!”
Prima ancora che Ran  potesse replicare, le domandò: “Prendiamo insieme qualcosa al bar?”
 
 
Se lo ritrovava davanti a lei, con le braccia poggiate sul tavolo tanto piccolo che, se avesse allungato le dita le avrebbe sicuramente sfiorato le mani. Lo osservò quasi in trance versare un po’ di latte nella tazzina di caffè per macchiarlo, e poi rifiutare con un sorriso la bustina di zucchero che la cameriera gli porgeva.
Aveva scelto lui il tavolo, si trovavano in un angolo del locale, abbastanza isolato rispetto agli altri più grandi e decisamente invisibili alle vetrina che, loro dirimpetto, dava sulla strada affollata di passanti innervositi dal mal tempo.
Erano talmente vicini che quasi le sembrava di percepire le loro gambe sfiorarsi. Ad aggiungersi, anche lo scosciare della pioggia rapidamente divenuta temporale  a rendere l’atmosfera quasi romantica.
Due fidanzatini che, colti nel loro incontro segreto dal fortunale, si rifugiano in un locale lontano da casa per nascondersi agli occhi degli altri e parlare in intimità.
Arrossì per l’ennesima volta quel giorno, rimproverandosi mentalmente: -Ma che diamine sto pensando?-
“Zucchero?” le domandò, offrendole la bustina. Accettò di buon grado, porgendo la mano per prendere la bustina, ma fu lui a versarle il contenuto nel cappuccino.
Arrossì ancora.
“Per…” si fece coraggio, dopo un respiro profondo: “Per quello che vale, vorrei dirti che sei un grande investigatore. Forse alcuni non lo riconoscono…ma fai del bene a tante persone. E questo è molto bello.” Disse tutto d’un fiato, rischiando di svenire per il desiderio di fissarlo in volto mentre parlava; voleva studiarne la reazione.
Shinichi permise alle labbra di assumere la forma di un’espressione gentile, ma anche un po’  arrogante: Ran riconobbe in quell’espressione una di quelle esibite alle macchinette fotografiche dei giornalisti che le fermavano in una foto…foto che Ran custodiva attentamente nel suo cassetto.
Così da vicino era ancora più bello di quanto avesse mai potuto immaginare: non trovava parole per descriverlo.
Gli occhi sempre illuminati da una luce fiera e forte, pronti a guizzare da una parte all’altra con grande rapidità. Appena entrati nel bar lo aveva visto scrutare nei minimi particolari ogni angolo del circostante, come se in neanche dieci secondi avesse esaminato e scansionato il suo raggio d’azione. E ad ogni occhiata corrispondeva un pensiero, lo si capiva da come atteggiava le labbra: di tanto in tanto notava qualcosa- a lei però sfuggiva cosa fosse in concreto questo qualcosa- che gli faceva mutare espressione; ora assumeva aria di scherno, ora di ilarità, ora di divertimento, ora di preoccupazione o presentimento.
Parlava con lei, si dimostrava gentile: ma era certa avesse il cervello affollato di idee, in pieno movimento.
Mille parole gli popolavano la mente, una sola usciva dalla sua bocca.
“Ti ringrazio. Mi fa piacere.” Nonostante le parole fosse di una banalità sconvolgente, ebbe l’impressione che parlasse sinceramente; non erano frasi di circostanza.
“Perciò…mi conosci?”
“Chi non ti conosce?” gli sorrise, timidamente. “Sei famoso, lo sai?”
“Sono discusso, direi.”
Era chiaro lo sapesse. Ran stessa in molte occasioni aveva trascorso tempo a pensare e dolersi per le critiche che di volta in volta lo toccavano, immaginando come dovesse sentirsi e desiderando con tutto il cuore fargli sapere che non aveva importanza, che lui era un grande uomo comunque.
Ma sentirglielo dire le fece effetto; inoltre non riuscì a decifrare la natura dei mille pensieri che si nascondevano dietro quell’unica affermazione. L’espressione del viso fu ambigua, incomprensibile.
“Però sono anche famoso, sì. Molto famoso.” Si fece sfuggire quasi sottovoce, parlando tra sé e sé; un sorriso borioso che lottava per manifestarsi nonostante le sue reticenze di una modestia spesso ignorata.
Tornò a parlare con voce alta, ed espressione distesa:
“Suppongo che tu mi conosca per qualcosa che ritieni positivo, però.” Ammiccò, roteando la tazzina per afferrare l’impugnatura tra indice e pollice.
Annuì: “Sì, certo. Io…”
“Tuo padre è un investigatore, devi sentire parlare di indagini tutti i giorni, scommetto.” La interruppe, quasi con fretta di arrivare al dunque.
“E’ da lui che sai di me, no?”
“Più o meno…” si ritrovò a rispondere, sorseggiando la sua bevanda per prendere tempo.
“Ti parla anche delle indagini?”
“A volte.”
“ E di questa rapina ti ha parlato?”
“Più che parlato, se ne è lamentato. Non riesce a venirne a capo.”
“Neanche dopo l’informazione che gli ho dato?”
“Della donna ritrovata morta nel capannone?” poi si morse la lingua, esitando. Perché tutte quelle domande?
Ebbe un dubbio e cercò di proteggere suo padre:
“Lui…lui non me l’ha detto, della-della donna dico. Sono io che ho sentito…”
“Non ti preoccupare, non c’è alcun problema. Non vedo perché non avrebbe dovuto dirtelo, sei sua figlia dopotutto. E mi pare di aver capito che tua madre non viva con voi.”
“Infatti…no.” Per un attimo il pensiero volò ad Eri, ma Shinichi riprese la parola:
“Quindi…non ha nessuna idea? Non ha parlato con l’ispettore, magari?”
“Non mi pare. Cioè sì, ne hanno parlato ma prima che li informassi tu.”
“E cosa dicevano?”
“Che era sicuro solo il  numero dei rapinatori…sono due.”
“E basta?”
“Sì. Si lamentavano del fatto che non trovavano prove per arrivare all’identità di uno dei due, o indizi per almeno capire dove abbiano nascosto la refurtiva. Di più non so, perché arrivati a questo punto si innervosivano per lo stallo in cui si trovavano e iniziavano a battibeccare.”
“Capisco. E tuo padre non ha parlato con nessun altro?”
“Dell’indagine? Beh a parte me no, non mi sembra affatto. Ci sono alcuni agenti che stanno sempre al fianco dell’ispettore, Ruchichi e Mukumura*, ma quando parla con lui ascoltano anche loro quindi non ha bisogno di ripetersi.”
“ E con il questore non ha mai parlato?”
Ecco il punto, pensò Ran. Shinichi era preoccupato di poter essere escluso dall’indagine, come suo padre le aveva comunicato proprio la sera precedente.
Cercò di tranquillizzarlo:
“No, mai. A mio padre e all’ispettore il questore non piace più di tanto, in realtà…” ed era la verità.
“Non so perché, forse si tratta di antipatia a pelle.” Rise “Comunque so che quando possibile cercano di non comunicargli tutti i dettagli di un’indagine. Solo la risoluzione…a parte quando è necessario il suo permesso per qualche azione, però. In quel caso lo contattano!”
Shinichi la ascoltava con interesse: aveva gli occhi puntati su di lei e nemmeno il tuono che improvvisamente squarciò il cielo valse a distrarlo.
“Ne sei…sicura?” insistette.
“Certo!” asserì, ricambiando per quanto possibile il suo sguardo serio. Continuò a fissarla, prima di chiederle:
“In definitiva, possiamo dire che tuo padre ed il questore non sono affatto amici, perciò. Non si frequentano, non si vedono…lui non è mai venuto a casa vostra…”
“Mai. Gli unici ad aver messo piede da noi sono l’ispettore e gli agenti che ti ho già detto.”
La osservò ancora: quello sguardo fu tanto profondo da farla sentire nuda.
Per quel frangente gli occhi del detective persero l’allegria di chi si diverte a guardarsi intorno per mettere alla prova le sue abilità intellettive. Non esprimevano boria, ironia, sarcasmo: preoccupazione soltanto.
Un secondo dubbio assalì Ran, proprio quando Shinichi finalmente tornava ad essere sereno come le era parso all’inizio e, finalmente, sollevava la sua tazzina ancora piena.
“Molto bene.” Decretò, bevendo il caffè tutto d’un fiato.
Le passò un brivido per la schiena a vederlo bere in quel modo; era sciocca a pensare qualcosa del genere, ma quel gesto veemente le suggerì una natura impetuosa. Chissà se, con una ragazza…
Scacciò quei pensieri per dare voce ad uno più urgente:
“Mi hai chiesto di venire con te per sottopormi ad un interrogatorio, per caso?” il tono di voce era scherzoso, come l’espressione del volto. Ma Shinichi, da ottimo investigatore quale era, comprese subito che la ragazza parlava seriamente.
Poggiando la tazzina sul piattino curvò le labbra con fare spavaldo e divertito allo stesso tempo, mentre deglutiva.
La guardò negli occhi: “Sì.” Disse, semplicemente.
“C-come?”
“Non sai di…” lasciò la frase in sospeso, come se quella mezza allusione potesse farle venire in mente qualcosa. Ma così non fu.
“Di…?”
Sorrise di nuovo; ma stavolta fu un sorriso rivolto a se stesso, come a dirsi: “Come sei stato stupido, Shinichi Cosa mai sei andato a pensare?”
“Niente, niente.” Palesò soltanto questo: ancora un’espressione verbale per mille capovolgimenti mentali.
La ragazza ebbe l’impressione che Kudo avesse cambiato idea su qualcosa –ancora quel qualcosa non ben identificato!- tre volte almeno quella sera, quegli attimi di conversazioni con lei.
“Comunque…mi fa piacere. Mi fa piacere così, che non sia niente.” Le sorrise, di nuovo gentile come quando le aveva poggiato una mano sulla spalla. Ma stavolta le parve un sorriso diverso: più vero, più personale, non dovuto all’educazione e alla gentilezza ostentata di poco prima.
“Non lo finisci?” cambiò poi discorso, additando il suo cappuccino.
“Non credo mi vada più…” gli disse, un’espressione maliziosa dipinta sul volto, che voleva dirgli: “Cosa mi nascondi?”, e infatti Ran aggiunse subito:
“Mi hai portata qui per un interrogatorio, non per offrirmi da bere. Permettimi che il mio orgoglio femminile ne esca un po’ deluso, e soprattutto non affamato.”
Scherzava, era chiaro. Ma…
“Beh, oggi era spinto da una grande urgenza, alla quale non potevo sottrarmi.” Fu l’unica confidenza che le concesse, poggiando un gomito sul tavolo per avvicinarsi di più a lei.
“Ma ora quest’urgenza è risolta, non mi disturba più. Perciò immagino che potrei offrirti da bere per offrirti da bere. Senza nessun altro scopo. Di nessuna natura.” Precisò all’istante, conscio di cosa spesso implicasse l’affermazione Offriredabere quando rivolta ad una ragazza.
Sorpresa da quel rinnovato atteggiamento mordace, anziché gentile e premuroso, quasi fraterno tenuto sino ad allora, avvampò di colpo.
Ma lui non le diede tempo di replicare: “Ma non oggi. Vado un po’ di fretta, devo controllare alcune cose. Il lavoro mi chiama. “ sottolineò con il tono di voce, quel sorriso malizioso e sbruffone che non voleva cancellarsi di faccia.
“Perciò, se non ti dispiace…” si alzò in piedi “E’ ora di andare. Vieni, ti riaccompagno.”
 
 
 
 
Con una decisa spinta della testa rimandò tutti i capelli dietro le spalle, facendo spruzzare schizzi d’acqua persino sul vetro dello specchio di fronte a lei. Iniziò a pettinarli prima di asciugarli con il phon, il tepore del bagno dopo la doccia fatta a massaggiarle i sensi.
Pensava a Shinichi.
Nonostante i suoi timori, l’idea che in tutto quel tempo si era fatta di lui non era stata tradita. Certo, c’era qualcosa di quella conversazione che non aveva ben capito…ma le sensazioni provate le garantivano che era qualcosa di totalmente normale, proprio del suo mestiere. D’altronde, cosa avrebbe dovuto aspettarsi? Che avendola vista per strada si sarebbe follemente innamorato di lei?
Se l’avesse invitata per corteggiarla e magari avviare frequentazioni di dubbio tipo le avrebbe fatto piacere sul momento, ma l’istante successivo non ne avrebbe ricavato altro che delusione: Shinichi Kudo, il grande detective che aveva sempre stimato, scoperto come un misero tombeur des femmes che si fa grande della sua fama, con la quale tenta anche di irretire le ragazze che incontra sui marciapiedi, per caso.
No, grazie.
L’aveva voluta per un interrogatorio, un interrogatorio sulla rapina, sull’indagine, su suo padre, l’ispettore. Dal modo in cui l’aveva scrutata e in cui le aveva parlato, dubitava che quelle domande fossero davvero frutto di una preoccupazione strettamente personale- il timore che se il capoquestore avesse scoperto il suo coinvolgimento lo avrebbe allontanato dal caso.
Sono discusso, direi. Però sono anche famoso, sì. Molto famoso.” Aveva detto con fierezza tipica di chi non teme gli altri, specie i piani alti. E se le parole non erano bastate, beh, il sorriso aveva fatto il resto.
Da quello aveva capito il suo orgoglio, la sua determinazione: e sebbene quel qualcosa continuasse a sfuggirle, era certa non fosse un qualcosa di brutto. Tutt’altro.
“Ran, sei ancora lì dentro? Quanto tempo ci metti? Guarda che anche io devo andare a dormire!” Oltre la porta chiusa del bagno Kogoro battè un paio di pugni contro la porta, riscuotendola dai pensieri.
“Ecco, ecco!” rispose, cercando il phon nel mobiletto accanto il lavabo. Mentre si spostava nella sua stanza per lasciare posto a suo padre, sorrise pensando alla figuraccia fatta poche ore prima.

“Mi dispiace ti sia bagnato per riaccompagnarmi.” Disse Ran con un lieve inchino di cortesia verso Shinichi, giunti entrambi i ragazzi di nuovo di fronte i gradini dell’agenzia investigativa.
“Mi sarei bagnato comunque, te l’ho detto…ho dimenticato l’ombrello. E poi sono pur sempre un investigatore. Una ragazza che, calato il sole, si aggira da sola per le strade mi suggerisce scenari poco gradevoli…Ho sempre a che fare con questo genere di cose.”
“Non sono cose carine da dire ad una ragazza.” Gli fece notare, rubandogli l’ennesimo sorriso. “
Comunque, mio padre dice sempre lo stesso.” Le parve una giustificazione, ma lui fece una smorfia buffa:
“Quanti anni ha tuo padre?”
“ Trentotto ”

“Bene. Quindi ragiono e parlo come un uomo di trentotto anni. Con tutto il dovuto rispetto per tuo padre, la cosa non mi piace troppo, sai?”
Risero entrambi.
“Comunque davvero, grazie. Con la macchina avresti fatto prima…”
“Non sono venuto in macchina. Non abito troppo distante da qui.” Sentire quelle parole le aveva provocato una capriola del cuore nel petto. Magari, se il destino fosse stato buono come spesso lo era stato in quei giorni, avrebbe potuto incontrarlo ancora…!

“Avevo visto parcheggiata qui sotto una macchina blu, e siccome non c’era mai stata prima avevo creduto fosse la tua.”
Un’espressione di divertita spavalderia gli si dipinse ancora sul volto. Kudo immediatamente collegò quell’affermazione alla prima vista che aveva avuto di lei, quel pomeriggio: gli occhi tristi a seguire una vettura che di gran carriera si allontanava, sotto la pioggia, un quarto d’ora dopo il suo ingresso nell’agenzia.
Era chiaro che lo stava aspettando, che voleva incontrarlo, che aveva temuto di non esserci riuscita e si fosse per questo motivo dispiaciuta. Ma pensò bene di non dirglielo, e sorrise soltanto.
“Prima che tu te ne vada…voglio dirti che mi ha fatto piacere conoscerti.” Aggiunse lei subito dopo, pensando –E che tu abbia conosciuto me…- confermando la sua deduzione.
“E che so difendermi da sola, non hai motivo di parlare come un uomo di trentotto anni. Anche al buio!”
Volevo sorprenderlo, lasciargli il ricordo d’una ragazza forte, dalla risposta pronta; ma fu lui a stupire lei:
“Lo so. Ti ho vista ieri, in palestra. Ero venuto per parlare con tuo padre e l’ispettore Megure, ma sono arrivato prima di loro e così ho deciso di aspettarli fuori per non creare tanto scompiglio. Per essere certo che non fossero arrivati a piedi mi sono affacciato, e ti ho vista combattere contro un gorilla di…quanti chili? Lo hai steso subito. Non sono bravo nelle arti marziali, ma so riconoscere un gran bel yokogeri* quando lo vedo. Non sapevo fossi la figlia di Mouri, ma mi sei rimasta impressa per la tua ottima tecnica. Oggi, quando sei entrata ti ho riconosciuta subito.”
 
 
Era stata contenta di sentirglielo dire. Non sapeva se l’avesse anche vista spiarlo e poi nascondersi e avesse taciuto per galanteria, anche se sperava semplicemente che non l’avesse notata.
Tuttavia, avrebbe ricordato per sempre quella frase: “Mi sei rimasta impressa.” Era quello che aveva sempre voluto, dopotutto…Certo, nel corso del tempo aveva sognato di lasciargli un bel ricordo di lei pronunciando qualche meravigliosa parola di incoraggiamento, o anche di stima, o addirittura di relativo a qualche inchiesta. Non era stato così…ma gli era rimasta impressa per qualcosa che amava fare, che era parte di lei: il karate. I suoi sogni, dopo quella rivelazione, erano mutati: ora chiudeva gli occhi e vedeva Shinichi che, rispondendo alla domanda di un suo collega, asseriva:
“Quando mi sono trovato davanti a quel tizio, mi sono ricordato di una ragazza che ho conosciuto un po’ di tempo fa. Aveva un’ottima tecnica di combattimento…il suo era un gran bel yokogeri! Pensando a lei, mi è venuto in mente di usare questa mossa per bloccare quel criminale. Quest’arresto è anche un po’ suo.”
 
 
 
 

§    §§     §                                         §    §§     §                                         §    §§                                             
 
 
 
 
Precisazioni:
 
Ruchichi e Mukumura: personaggi di mia invenzione, nel manga non esistono.
Yokogeri: calcio rotante.

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Capitolo 3
*** Capitolo Secondo - Karate ***


Sperando che il secondo capitolo possa piacervi, ho approfittato del giorno di festa per cercare di accelerare un pò le mie dinamiche da pseudo-scrittrice. Buona lettura!





Capitolo Secondo – Karate

«Così pensava a lui senza volerlo, e quantopiù pensava a lui più le veniva rabbia,
e quanto più le veniva rabbia tanto più pensava a lui, finché non
fu qualcosa di così insopportabile che le travolse la ragione.»

Gabriel Garcia Marquez 


 

Arrivò di gran fretta a scuola, con mezz’ora di anticipo sperando che la sua compagna di studi e migliore amica fosse già lì per poterle raccontare nei più minuziosi dettagli l’accaduto del martedì precedente.
Fremeva, fremeva per dirlo a qualcuno!
Di certo il ruolo di confidente non avrebbe potuto ricoprirlo suo padre: in quanto geloso della figlia, geloso del mestiere, irascibile ogni qualvolta il nome di Kudo venisse pronunciato. Sua madre era una donna, nonché un genitore, molto più aperto e nel cui giudizio Ran riponeva grande fiducia: ma era pur sempre, per l’appunto…sua mamma. Una sorte di sacro imbarazzo le impediva di aprirsi completamente a lei, come se avesse riservo a chiederle un’opinione per paura che potesse dissentire da una sua scelta o un suo giudizio.
Di Sonoko si fidava ciecamente;  vero è che i suoi commenti erano spesso forse un tantino esagerati, ed ancora più spesso la ragazza tendeva ad indirizzare il discorso in battute spiritose, divertenti che però perdevano in contenuto e profondità. Ma aveva una certezza: la sua amica non le avrebbe mai mentito. Esattamente come il giorno precedente non aveva esitato neppure un attimo ad incalzarla: “Avresti dovuto parlarci, altro che nasconderti!” allo stesso modo le avrebbe detto se si era comportata in maniera corretta, se avesse avuto un atteggiamento fuori luogo, se la vicenda le quadrasse o meno.
Inoltre, parlare della cosa le sarebbe servito a metabolizzarla e digerirla: quell’incontro era stato allo stesso tempo una meravigliosa coincidenza ed una luttuosa tragedia. Erano passati tre giorni da quella sera, e ora dopo ora anziché scemare l’emozione aumentava: al pari di un eccitante, come una piccola barca a vela che, con le vele gonfiate dal vento taglia il mare ma, proprio quando l’aria si blocca  un gorgoglio di onde sgorga dal ventre delle acque e la sospinge sino alla riva, i sentimenti di Ran erano stimolati più dal ricordo filtrato dalle sensazione che l’accompagnavano che dall’evento reale in sé.
Rivedeva il volto di Shinichi, molto più bello di quanto non avesse mai immaginato. E nonostante tutto non ricordava nulla nitidamente: mentre il fatto si svolgeva era stata completamente assorbita dal presente, aveva vissuto con pienezza e coinvolgimento d’animo ogni singola parola pronunciata. Si trovava nella medesima condizione di un sonnambulo che si sveglia dal suo sonno e non ricorda quasi nulla del sogno, se non qualche fuggente immagine, uno o due suoni familiari e una parola biascicata al pari di un sibilo di serpente. Unica certezza, unica rimembranza chiara di tre giorni prima: gli occhi.
Quegli occhi vivi, brillanti, superbi e gentili nello stesso momento.
Lo Shinichi reale l’aveva conquistata ancor più dello Shinichi della tv o dei giornali.
E poi la sua faccia tosta…!
 
“Mi hai chiesto di venire con te per sottopormi ad un interrogatorio, per caso?” il tono di voce era scherzoso, come l’espressione del volto. Ma Shinichi, da ottimo investigatore quale era, comprese subito che la ragazza parlava seriamente.
Poggiando la tazzina sul piattino curvò le labbra con fare spavaldo e divertito allo stesso tempo, mentre deglutiva.
La guardò negli occhi: “Sì.” Disse, semplicemente.
 
Avrebbe potuto intavolare mille scuse; la parlantina non gli mancava di  certo e lei, fan sfegatata lo sapeva bene. Eppure dopo un sorriso enigmatico, che poteva voler dire mille cose – dal “Com’è scocciante questa mocciosa!” al “Però, niente male!”- le aveva detto solamente di sì, senza neanche motivare quella risposta.
L’aveva sorpresa, l’aveva meravigliata.
L’aveva ammaliata.
O comunque, qualunque altro effetto le avesse fatto, Ran non riusciva a levarselo dalla testa.
Tre giorni di ininterrotto sorridere tra sé e sé come una ragazzina innamorata di uno stupido metallaro da quattro soldi di una stupida boy band!
Parlarne con Sonoko, sperava, l’avrebbe aiutata a superare in qualche modo la cosa: e tornare a pensare a Shinichi moderatamente di meno. Non che prima il pensiero non volasse mai a lui, tutt’altro…! Ma non tutto il giorno, Kudo non era una fissazione.
Varcò la soglia dell’aula con passi ferini e, come capitava spesso, vide l’amica già in classe, seduta sulla cattedra con gli auricolari del suo fedele smartphone a darle ispirazione per delle improbabile mosse di danza pop. Suo padre l’accompagnava a scuola nei giorni di pioggia, ma questo richiedeva che la giovane ereditiera conformasse il suo orario e quello del signor Suzuki, con il risultato di arrivare in grande anticipo.
“Sonoko!” la chiamò a gran voce non appena la vide, quasi in un inconsapevole urlo liberatorio. Ma lei, ad occhi chiusi, era ancora intenta a gesticolare in tempo – o meglio, non in tempo- di musica e non la notò.
Di tutta fretta Ran si precipitò su di lei, volendo scrollarla per le spalle. Ma avendo percepito uno spostamento d’aria la ragazza aveva aperto gli occhi e si era alzata per andarle incontro, perciò il risultato fu una testata in piena fronte tra le due amiche, che caddero a terra rovinosamente.
“Cielo, Ran! Ma cosa…?” si lamentò la biondina, massaggiandosi il capo. La mora ignorò le sue lamentele e, ignorando il dolore, trillò: “Devo raccontarti una cosa!”
 
 
§§§
 
L’ispettore Megure era di nuovo a casa sua, lo capì dalla volante della polizia parcheggiata di fronte l’agenzia. Si guardò intorno nel tentativo di scorgere qualcosa che potesse comunicarle la presenza di Kudo, ma non fu così; nemmeno quell’automobile blu che in qualche modo l’aveva preannunciato era presente nei dintorni.
-No no no. Così non va bene!- si ammonì non appena comprese che di nuovo i pensieri si sbriciolavano davanti l’attacco del giovane investigatore.
‘Vuoi un consiglio, Ran?’ le aveva chiesto Sonoko dopo aver ascoltato la sua storia, commentata ampiamente da cenni degli occhi ed espressioni del volto.
‘A me questo tipo sembra un pallone gonfiato…ma non oso immaginare la tua reazione, ti è sempre piaciuto! E non interrompermi cercando di sostenere il contrario!’ l’aveva ammonita non appena lei aveva fatto per replicare.
‘Lo so, lo sappiamo tutti che hai un debole per lui! E’ come se io incontrassi Kimura Tatsuya*! Ma mi sorprende enormemente che non ricordi bene le cose, il suo aspetto ad esempio…’ aveva portato una mano sotto il mento, con fare interrogativo.
‘Non ricordi nemmeno se quando si è alzato gli hai guardato il sedere? Il sedere sodo nei ragazzi è qualcosa di…’ ma una sua risposta stizzita l’aveva interrotta.
‘Non fare la santarellina, Ran! Mi hai detto cinque secondi fa con gli occhi a cuoricini: E’ bellissimo, Sonoko!’ le aveva fatto il verso, cercando di imitarne la voce ‘E’ bellissimo e…oh, è bellissimo!’
‘Avevi detto se volevo un consiglio, non un profluvio di tue…’
‘Ah, già già. Beh, cerca di rivederlo!’ aveva scrollato le spalle, come fosse la cosa più normale del mondo.
‘Scusa? E come potrei fare?’
‘Dio, Ran, aiuta tuo padre nell’indagine! Cerca di informarti, origlia le telefonate, impicciati nel caso, poggia l’orecchio sulla porta! Hai sempre detto che Kudo non lascia mai questioni in sospeso, no? E oggi mi hai detto che ha passato a tuo padre un’informazione su non so cosa…e allora, aspetta che si intrometta ancora. E non appena si rifarà vivo…zac! Intercettalo e vai.’
E Ran come aveva recepito questo consiglio? Negandolo.
Non credeva fosse possibile vederlo ancora, non voleva illudersi e vivere in funzione di un obiettivo che mai avrebbe raggiunto. Perciò aveva deciso di non pensarci proprio più. Tagliare qualunque collegamento a Shinichi per un po’…finchè il suo debole, come l’aveva definito Sonoko, non fosse tornato nei binari anziché deragliare come un treno che al posto del carburante è mosso da materia incandescente. Una specie di terapia d’urto, insomma.
Questa era la decisione che aveva preso razionalmente. La scelta pensata.
Ma la scelta non pensata, quella che il suo inconscio aveva adottato già mentre Sonoko parlava, e di cui forse ragionevolmente non era ancora consapevole neppure lei era…sì, rivederlo. Rivederlo, rivederlo, e rivederlo ancora una volta.
Salì i gradini dell’edificio con il pensiero: -Non lo penserò più. Chissene importa se stanno parlando di lui, se lui è con loro, se ci stanno parlando al telefono…- ed elencava mille e mille possibilità mentre, allo stesso tempo, attenta a non fare alcun rumore avvicinava il capo alla porta chiusa. E sentiva discutere:
“Quindi ne siamo certi, ispettore. Voglio dire…non è un sospetto, o una diceria…”
“No, Kogoro. Purtroppo ne sono sicuro. Ho, naturalmente con procedura top secret e raccomandando loro la maggiore riservatezza possibile, incaricato personalmente i miei uomini più fidati, gli agenti Ruchichi e Mukumura, di cercare fondamento in questo senso. E ora lo sappiamo.”
Pensò alla rapina, pensò alla donna uccisa. Pensò a Shinichi.
E quando sentì la successiva affermazione di Megure, pensò doppiamente a Shinichi, comprendendo il motivo per cui l’aveva sottoposta a quell’interrogatorio improvvisato nel salotto di un bar di studenti.
“Il capoquestore Ikari è colluso con quell’organizzazione criminale.”
 
§§§
 
Spostò tutto il peso sul piede destro, per caricare il colpo oltre la spalla e allo stesso tempo prevedere un attacco dell’avversario e schivarlo. Ma il karateka di fronte a lei l’aveva vista spostare l’asse di equilibrio, perciò le tirò contro un pugno che non si aspettava e l’atterrò.
“Ops, scusa!” si chinò su di lei quando Ran piombò a terra. “Di solito questi colpi li eviti con facilità, non credevo di colpirti. Per questo ho usato tanta forza…” fece per offrirle la mano per aiutarla a tornare in piedi, ma il loro Sensei s’intromise:
“MOURI!” tuonò, avvicinandosi agli spalti con grandi falcate. “Sono tre giorni che poltrisci, che diamine ti prende?”
“Mi scusi, Koromi-sensei! Mi sciacquo la faccia e…”
“E te ne torni a casa, per oggi tu hai finito.”
“Come? No, sensei, le assicuro che…”
“Hai finito.”
Il tono perentorio con qui glielo disse, ed il modo in cui poi le voltò le spalle per concentrare la sua attenzione ad un’altra coppia di combattenti le fece capire che fosse inutile insistere. Col capo chino salutò soltanto con un cenno il suo compagno di corso e s’avviò nello spogliatoio.
Non riusciva più nemmeno a concentrarsi, accidenti!
Si cambiò in tutta fretta, ansiosa di tornare a casa. Per cosa, poi? Per pensare ancora a lui, e cercare di incontrarlo di nuovo? O per chiedere a suo padre delucidazioni su quanto aveva origliato?
 
“E che cosa si fa, ora? Intendo dire…lo denunciamo?” aveva proposto Kogoro, il tono della voce esitante.
“E a chi? Dovremmo scavalcarlo e rivolgerci direttamente al Capitano. Ma per poterlo fare dobbiamo avere le prove, le prove certissime e soprattutto al sicuro…non sappiamo chi sia dalla sua parte, perciò rischieremmo che non appena Ikari si vedesse recapitata l’ingiunzione di inchiesta riuscirebbe e farle sparire tutte. Non dobbiamo compiere mosse affrettate.”
“Cosa gli diremo, allora?”
“Per il momento, faremo finta di niente. Ti ripeto, non sappiamo ancora di chi fidarci o meno. Per questa ragione sto chiedendo la tua collaborazione, non è una questione facile…in più nella mia centrale siamo numericamente pochi, rispetto agli agenti della questura. Bisogna valutare tutte le possibilità. Siamo noi contro loro, Kogoro.”
“E’ stato Kudo a dirle che…” cercò di chiedergli l’investigatore, esternando un dubbio che aveva avuto da quanto aveva visto il giovane uomo varcare la soglia della palestra della figlia.
“Nessuno deve sapere che è stato lui a passarci l’informazione sull’inchiesta della rapina. Tutti conoscono i suoi metodi, Ikari potrebbe allarmarsi a saperlo in contatto con noi.”
“Cercherò di tenerlo lontano il più possibile per non essere costretto a mentire.” Sancì Kogoro, un piano di lavoro che non gli sarebbe risultato affatto sgradevole da attuare.
 
 
Ripensava alle parole dette seriamente e con tono preoccupato da suo padre qualche giorno prima:
 
“Tutto a posto, papà?”
L’uomo sollevò gli occhi dalla scrivania a quella che ancora soleva definire la sua bambina.
“Ti senti bene?”
“ Ikari Shima.”
“Chi è?” la ragazza iniziò a preoccuparsi. In realtà conosceva quel nome; ma sperava di sbagliarsi.
“Il capoquestore, Ran. Megure teme che potrebbe intromettersi nell’indagine, in qualche modo.”
“Perché dovrebbe?”

“Perché Kudo non piace ai piani alti.” Tagliò corto, con severità, come se rimproverasse lei dei metodi dell’investigatore più giovane.
“E il suo intervento potrebbe causarci dei guai.”
 
 
Che si riferisse a questo?
Shinichi era pericoloso perché era troppo onesto?
Quella notizia giunta così inaspettatamente era servita ad accrescere ancor di più la stima e l’ammirazione che Ran nutriva per lui, con il risultato che smettere di pensalo era assolutamente impossibile.
Cercare di incontrarlo una terza volta, forse, anche per chiedergli spiegazioni…
“Hai già finito gli allenamenti? Mi ricordavo che l’altro giorno fossi uscita dalla palestra un’ora più tardi.”
Una voce alle sue spalle interruppe le sue riflessioni: si voltò, rapita. Le sembrava appartenesse a…
“Shinichi!” si lasciò sfuggire, chiamandolo come lui le aveva suggerito ma anche come soleva fare nei suoi discorsi strettamente personali. Avvampò immediatamente quando, in tutta risposta a quel gridolino, le labbra del ragazzo si atteggiarono a sorriso spavaldo.
“Sì, sono io, tesoro!” sembrava dire con quell’espressione boriosa.
“Ran!” le fece il verso, schernendola.
Era appoggiato con le spalle al muro adiacente la porta, una gamba accavallata sopra l’altra e le braccia incrociate al petto. Cappotto blu di stoffa con i bottoni larghi, sciarpa nera a coprirgli parte del mento e…jeans scuri. Che gli fasciavano le gambe. E subito il pensiero di Ran volò a quella mattina in classe:
 
‘Non ricordi nemmeno se quando si è alzato gli hai guardato il sedere? Il sedere sodo nei ragazzi è qualcosa di…’
 
Cercò di scacciare quel pensiero dalla testa, deglutendo più volte quando il ragazzo si issò sulle ginocchia e, tornato in posizione eretta, si incamminò verso di lei. Era così presa dai suoi disegni cerebrali che l’aveva superato senza neanche notarlo.
“Come mai sei qui?” poiché capì aggiunse repentina: “Mio padre oggi non è venuto. Vuoi che ti accompagni da lui?” sperò.
Shinichi le sorrise, ma non di quel sorriso gentile con cui l’aveva convinta –come se non ci sarebbe riuscito anche con un ghigno sadico!- a seguirlo in quel bar, bensì di un’espressione colorata, quasi maliziosa.
“Cercavo te, in realtà.” Le rivelò senza giri di parole.
“M-me?”
“Esatto. Devi correre a riportare qualcosa a tua madre anche oggi?” la sfottè di nuovo, quell’espressione che sul viso non gli traballava mai.
“No.” Rispose, atteggiando anche lei il volto del medesimo sorriso.
-Vuoi la guerra, eh?- pensò Ran, ma non infastidita, anzi: si divertiva a giocarci, la sua presa in giro aveva sapore amichevole, non snobistico. Un po’ come Sonoko!
“Ottimo. Avrei qualche consiglio…anzi, qualche consulenza professionale da chiederti, se possibile.” Sottolineò con il tono della voce oltre che con un guizzo dello sguardo quelle due parole.
“Posso offrirti un altro cappuccino? O stavolta ti deciderai a prendere un caffè come noi adulti?”
“Non metterò piede in nessun bar o locale insieme a te.” Meravigliò se stessa della risposta pronta e soprattutto dello stupore che istantaneamente si dipinse sul volto del giovane: per la prima volta aveva scalfito quella faccia da sbruffone che aveva sempre.
“…non voglio subire altri interrogatori.” Aggiunse.
Kudo si rilassò, tornando di nuovo a respirare normalmente.
“Oh, no. Certo certo, capisco.” Si passò una mano sotto il mento, pensieroso. Cinque istanti dopo le ammiccò:
“Allora, facciamo una passeggiata?”
 
 
§§§
 
 
A male pena riusciva a trattenere la gioia; tanto che un sorriso assolutamente visibile le illuminava il volto, e sebbene cercasse di trattenerlo non ci riusciva affatto. Il risultato era che molto spesso doveva voltare il viso dalla parte opposta, oppure mordersi un labbro, o fingere di tossire; alla fine stanca di cercare metodi di evasione si era semplicemente abbandonata all’espressione raggiante. Ma il motivo di tanto entusiasmo non era solo il fatto che di nuovo, nel giro di pochi giorni, si trovava da sola con Shinichi, quanto piuttosto il luogo che lui aveva scelto per la loro passeggiata: il parco di Beika. Il posto che Ran frequentava più spesso, quando si sentiva sola, in crisi, quando i suoi litigavano, quando il mondo la confinava per l’ennesima volta all’angolo.*
“Dove andiamo?” gli aveva chiesto, e lui senza esitare: “Dove vado io quando ho bisogno di riflettere con calma.”
Non lo aveva mai incontrato, in tutti quegli anni. Com’era possibile?
Si voltò a guardarlo: camminavano fianco a fianco, e non aveva più pronunciato parola da allora. O meglio, Kudo aveva provato a incominciare una conversazione, ma Ran era parsa assente: rispondeva con monosillabi e sussurri appena accennati. Certo lui non poteva immaginare fosse per l’esaltazione di quella scoperta che, ai suoi occhi, li rendeva ancora più simili di quanto non avesse già fantasticato per tutto quel tempo; anzi, quando la vide, con la coda degli occhi, tornare per la millesima volta in quel giorno a scrutarlo, prese coraggio e le disse:
“Non vorrei esserti sembrato troppo audace a portarti qui.” Confuse l’ardore per imbarazzo.
“E’ che davvero ci vengo spesso e lo trovo un luogo molto tranquillo, dove poter stare in santa pace. Non mi capita spesso…sai, quando vado in giro in borghese la gente mi ferma per la strada.” C’era sincerità in quel discorso, eppure Ran ci colse anche buona parte di boria.
“No! No, figurati!!” si affrettò a tranquillizzarlo: “E’ che sono rimasta sorpresa…anche io ci vengo spesso. Mi piace costeggiare il sentiero a fianco del lago…mi chiedevo come mai non ci siamo mai incontrati prima.”
“Beh, anche se ci fossimo incontrati io non ti avrei riconosciuta.” Si lanciò in una spiegazione, ma non azzeccò:
“Ti avrei riconosciuto io.” Lo corresse, lasciandosi sfuggire una parola di troppo.
Lui non replicò, accelerando un po’ il passo.
“Ecco…” disse lei, cercando di deviare l’argomento. “Di solito mi fermo…” fece per indicare un pesco prossimo a un sasso spesso sfruttato come panchina vista la sua regolarità. Ma fu interrotta dal ragazzo che la prese bruscamente per mano, esortandola: “Vieni!”
Arrossita e basita allo stesso tempo lo seguì lungo il viale, ritrovandosi poi a scavalcare una piccola staccionata in legno.
“Ma…” fece per bloccarlo, ma lui:
“Ehi. Sono un detective, ricordi? So cosa è illegale!”
“Ma io sono la figlia di un detective e di un’avvocatessa. So bene anche io cos’è illegale, lo so doppiamente bene!” gli appuntò dall’altra parte del cancello che lui già aveva scavalcato.
Lui scoppiò a ridere prima di afferrarla per la maglia all’altezza della vita: “E sei anche una fifona! Muoviti, Ran!” la attrasse a sé costringendola ad intrufolarsi in quello spazio d’erba, confusa anche dal trasporto con cui l’aveva chiamata per nome; come fossero amici di vecchia data, come si conoscessero ad sempre.
E poi la condusse lungo una discesa.
Ai loro occhi comparve la distesa d’acqua sormontata da un cielo limpido e sereno. Erano a pochi passi dalla sponda del lago, ed alcuni piccoli scogli permettevano di sedersi a ridosso delle onde e avvicinarsi ai cigni sulla superficie dell’acqua.
“Ecco perché non ci siamo mai incontrati.” Le spiegò, prendendo posizione su uno di quei massi. Con un gesto della mano la invitò a fare altrettanto, ma Ran esitò; i due scogli erano vicini…era davvero in imbarazzo, allora, e Shinichi non fraintese. Ma il tempo dell’ostentata gentilezza per carpirle facilmente informazioni era finito, perciò si comportò come il verso se stesso:
“ Paura di rimanere sola con me, Ran?” la incalzò con un sorriso spavaldo.
In effetti, erano soli nel raggio di almeno un chilometro.
Il silenzio che le attanagliava la mente le fece sentire ancora più nitidamente il battito accelerato del suo cuore.
“Paura che provi a…” fece per alludere, lasciando di proposito la frase in sospesa. E lei, desiderosa di lasciargli ancora un’altra volta un ricordo positivo di sé, qualcosa che potesse assicurargli un posticino imperituro della sua memoria, avrebbe potuto essere sincera e dirgli: “No, ma mi piacerebbe poterlo essere!!”
Eppure si fece coraggio e replicò:
“Paura di cosa? Sono una campionessa di karate.”
Credeva di aver avuto la risposta pronta e averlo sorpreso, invece lui quasi pareva aspettarsi quella risposta. Senza un attimo di esitazione e quel sorrisetto ancora dipinto sul volto le rispose:
“Lo so. Ti ho cercata per questa ragione.”
“Prego?”
“Hai ragione a non sederti. Perché in effetti dovresti mostrarmi qualche mossa di karate, ho bisogno di vederle dal vivo per capirne la dinamica.”
“Dovrei…” ricalcò la sua frase, portando le mani ai fianchi.
Lui ridacchiò: “Oh oh, ok.” Fischiettò “Non dovresti. Diciamo che potresti farmi questo favore. A buon rendere eh, s’intende.” Aggiunse repentino dopo, e lei si convinse all’istante; ignorò volontariamente quel luccichio corso nelle sue iridi al pronunciare ‘buon rendere’¸ impacciata all’idea che il giovane investigatore facesse battute maliziose sul suo conto. Su di lei. Con lei.
 “Ok, quali mosse ti mostro?”
 
 
“Capito? Nella kake uke * il braccio sinistro deve stare esattamente, in proiezione, davanti al tuo naso.” Gli spiegò, lanciando nell’aria un pugno.
“Mentre la destra para con l’avambraccio interno il pugno dell’avversario, e poi…” mimò l’azione come se stesse affrontando un nemico invisibile “…gli afferri il polso con la sinistra e lo spingi indietro.”
Era passata una buona mezz’ora, forse anche un’ora, da quando Shinichi aveva iniziato a farle il nome di alcune mosse –per altro, molto approfondite e complesse. Non erano movimenti base, ma veri e propri procedimenti combattivi. Per l’ennesima volta l’aveva stupita, dimostrandosi molto esperto anche in quello; ad ogni sua spiegazione argomentava e adduceva repliche estremamente pertinenti, tutt’altro che superficiali. Probabilmente non combatteva personalmente –non si era mai alzato da quello scoglio- ma di sicuro ad occhio sapeva riconoscere un buon combattente. Le si era imporporato il volto tutte le volte che avevo pensato la considerasse tale, o almeno tanto brava da chiederle aiuto per quella strana indagine.
Gli aveva spiegato la kekomi, il teisho uchi e addirittura gli aveva chiesto yoko obi gere!*
“Però…” quasi come se ogni qualvolta pensasse di averlo più o meno inquadrato lui lo capisse e volesse dimostrarle il contrario, Shinichi si alzò appressandosi a lei.
“Se l’avversario risponde con i piedi?”
“Intendi, se da un calcio?”
“Esatto.” Si parò di fronte a lei, il volto tirato di chi si concentra anima e corpo su ciò che sta facendo. Qualunque indagine avesse a che fare con quel karate, doveva essere davvero urgente.
“Mettiamo che tu mi abbia bloccato, ok?” allargò le gambe per distribuire bene il peso e tenersi in equilibrio. Allungò le braccia perché il suo gomito fosse poggiato all’avambraccio di lei, che quasi prontamente gli afferrò il polso con la destra.
“Ok, sono bloccato, giusto? Ma se io…” e senza alcun preavviso sollevò in aria la gamba sinistra per un suki uke.
“Ehi!” pur colta alla sprovvista riuscì a pararlo, anzi gli impedì proprio di portare a termine quel calcio: mentre sollevava il piede ulteriormente lei ricambiò il colpo colpendogli con il ginocchio la coscia, rimandando così indietro il calcio che stava caricando contro di lei.
“Ah, perfetto! Mi fermi così.” Replicò come fosse appena successa la cosa più normale del mondo, conservando lo sguardo verso il basso. Quel mezzo combattimento li aveva avvicinati ancora di più e lui pareva non accorgersene…ma lei sì, eccome.
Deglutì a fatica e solo la sua eccelsa bravura nel karate le permise di parare un secondo attacco, stavolta una ginocchiata con la gamba libera.
“E così?” le stava chiedendo mentre lei per tutta risposta gli incastrava il ginocchio tra le gambe e, per evitare che provasse ancora a colpirla tentava proprio di allontanarlo da lei,  facendolo ruotare sul posto con l’aiuto delle mani a contatto con le braccia di lui.
Shinichi, che una mossa del genere non se l’aspettava, si spostò come una piuma ritrovandosi a saltellare su un solo piede per mantenere l’equilibrio e non cadere a terra. Riuscì a rimanere in piedi solamente voltandole le spalle e sporgendosi un po’ in avanti.
“Così!” replicò lei ridacchiando per la vittoria e l’espressione sorpresa dipinta sul volto di lui; ma l’istante dopo la sua attenzione fu attratta da qualcos’altro.
 
 ‘Non ricordi nemmeno se quando si è alzato gli hai guardato il sedere? Il sedere sodo nei ragazzi è qualcosa di…’
 
Le parole di Sonoko le tornarono subito in mente, quando Shinichi le offrì quella vista con estrema nonchalance. I jeans scuri rendevano quella parte del corpo ancora più evidente, e  Ran non riuscì a distrarsi come qualche ora prima; peccato che Kudo aveva riacquistato subito l’equilibrio e, tornando in posizione eretta, si era di nuovo voltato verso di lei, cogliendola in fragrante.
Da seccata per essere stato battuto la sua espressione si mutò in divertita, o piuttosto maliziosa.
“Non sarò un karateka che tira calci in aria ma sono a mio modo in forma. Sono contento che tu l’abbia notato.”
“C-che?” si finse ignara, ma gli occhi erano divenuti due puntini.
“Che dici, eh, Ran? L’occhio di un’esperta lottatrice come te…quanto sono muscoloso da uno a dieci? Intendo , eh…”
“Se-sei bravo per non essere un karateka…” deviò il discorso, estremamente a disagio. “Ma…ma a cosa ti servono tutte queste informazioni?” cercò di distrarlo.
Lui, con le labbra ancora ad esprimere auto compiacimento, stette un po’ zitto; poi decise di lasciargliela passare e tornò serio.
“Non ne sono ancora sicuro.” Scrollò le spalle “Ma saperne qualcosa in più forse potrebbe tornarmi utile.”
“Per un’indagine?”
“Certo.” E mentre lei finalmente prendeva posto a sedere sul secondo scoglio lui, sorridendo già nel prefigurarsi la sua reazione pudica, aggiunse: “Non devo imparare nessuna mossa del corpo, di altri ambiti. Quelle le so tutto, e molto bene.”
Come previsto, lei avvampò; e lui rise tra sé e sé, soddisfatto d’essersi vendicato del quasi volo che gli aveva fatto fare con quella difesa.
“Fai attenzione a…non farti male. Cioè, se devi combattere contro qualcuno che è bravo nel karate…”
“Cercherò di evitarlo.” Disse, solo. Il che, ovviamente, lasciava intendere: “Se sarà necessario, non mi tirerò indietro.” E lei sapeva, ovviamente, che lui avrebbe risposto così, e che l’avrebbe fatto. Anzi, se fosse stato necessario, sarebbe stato lui ad attaccare per primo.
Le piaceva anche per questo.
Si girò per scrutarlo bene in volto, visto che prima era stata interrotta: lui aveva lo sguardo rivolto oltre il lago. Era davvero molto bello. Non solo gli occhi, non solo il sorriso, non solo il tono di voce e l’atteggiamento; anche la forma del viso era affascinante, perché armonica.
E poi di lui era sempre evidente l’attività cerebrale: una persona che guardava e subito pensava, un uomo capace di ragionare con una velocità portentosa.
Intelligente. Intelligentissimo.
Era improvvisamente calato il silenzio tra loro, oltre che il sole: alle loro spalle il tramonto era quasi del tutto ultimato e, oltre il lago, già era visibile qualche zona della città illuminata artificialmente.
Sì sentì in soggezione e come in dovere di far proseguire il discorso; aveva il terroro d’annoiarlo.
“Laggiù c’è casa mia.” Disse, pensando che Shinichi stesse osservando quei punti di luce oltre l’acqua.
“E tu dove…” si pentì subito, mordendosi la lingua: “Nel senso, non so se casa tua si veda da qui…ma di certo non è illuminata, no?” Di nuovo parlò prima di pensare.
“Cioè, io…non so, intendo dire…”
“Sì, hai ragione, casa è vuota ora. Non sono fidanzato.” Confermò, quell’eterna faccia supponente che stava imparando a conoscere come sua, sempre.
“Comunque il quartiere è quello…” additò una zona molto illuminata verso ovest.
“Abito in Beika Choo.”
“Oh, ma allora…noi…”
“Sì, abitiamo vicini.” Le sorrise “La palestra dove ti alleni…qualche anno fa giocavo a calcio, lì.” Le rivelò.
“Hai smesso?”
“Il calcio serviva a mantenere i muscoli che mi servono per fare il detective.* Ma comunque mi piace molto, sono tifoso dei Tokyo Spirits.”
“Lo so” stava per dire, ma si trattenne:
“La nostra zona è la più illuminata.” Si azzardò a dire, riferendosi ancora alla metropoli. E lui, subito:
“Perciò è la più inquinante.”
“Eh?”
Si fissarono per alcuni istanti, prima che Ran scoppiasse a ridere: “Scusami. Mi pare di capire che tu non sia molto…ehm…romantico…” si ritrovò a dirgli.
“Beh, se ti aspetti qualcosa di banale come: ‘la luce della città non è niente in paragone a quella che sprigiona la tua bellezza’…no, non sono romantico. Queste banalità mi danno il voltastomaco.”
Ran rise di nuovo, divertita; anche se un po’ quella notizia le dispiaceva.
A lei piacevano i ragazzi romantici…certo, non melensi: una frase del genere non sarebbe piaciuta neanche a lei, anzi l’avrebbe fatta ridere. Ma “La nostra zona è la più illuminata.” , “Perciò è la più inquinante.” Le pareva il polo opposto, altrettanto esagerato.
-Beh, qualche difetto deve pur averlo…- pensò, e senza  che se ne rendesse conto quell’elemento negativo quasi andava a farglielo piacere ancor di più, perché lo rendeva una persona reale.
Ma presto Shinichi riprese la parola e, per l’ennesima volta, la stupì:
“L’inquinamento luminoso di Beika Choo minaccia molte conseguenze a livello ambientale. La più banale…guarda questo cielo. Credi che dal balcone di casa nostra sarebbe visibile?”
Ran allora sollevò gli occhi e, davanti a lei, si aprì uno spettacolo che raramente aveva visto, forse mai. Sembrava un film, o un montaggio del pc.
-Ok…Shinichi è anche romantico…- constatò, mentre le guance le si accaloravano.
Il trillo del cellulare intervenne ad  interrompere quel momento idillico.
“Scusami…” si affrettò a rispondere nel tentativo di placare quel suono violento rispetto alla realtà circostante, come se si trattasse di un’interferenza dell’uomo sulla natura che la violenta, e le fa male.
“DOVE DIAVOLO SEI? SONO VENUTO A PRENDERTI IN PALESTRA E NON C’ERI!!” le urla di suo padre turbarono davvero la natura, molto più della suoneria.
Perfino Kudo le sentì, e si alzò per raggiungere il ricevitore e prendere lui la parola:
“Mi scusi, Mouri. Sua figlia è con me, le ho chiesto aiuto su alcuni tecnicismi di arti marziali.” Voleva tranquillizzarlo, ma Ran lo battè sul tempo:
“Scusami, papà! E’ che il sensei mi ha rimproverato oggi, perciò ero un po’ giù di morale e sono andata a fare una passeggiata nel parco di Beika. Sto tornando indietro!”
“Sempre in quel benedetto parco…” borbottò, ma parve essersi calmato una volta capito che stava bene e nessuna l’aveva rapita. “Fai bene. Sbrigati! Ti vengo incontro!”
“No, non ce n’è bisogn…” ma aveva già riagganciato.
Sbuffò, seccata e ripose il telefono in tasca. Quando rialzò la faccia Shinichi la stava fissando divertito.
“Mio padre non…non vuole che io…” si ritrovò a balbettare, non sapendo bene cosa dire. Avrebbe fatto la figura della ragazzina di fronte a lui! Stava scegliendo le parole nel cotone.
-Accidenti a te, papà!!-
“…frequenti me?” concluse la frase per lei. “Gli sono antipatico?”
“No no!” si affrettò a dire, mentendo. “Lui…lui non vuole che io frequenti nessuno.” Arrossì di colpo “Nel senso, è…è molto geloso e…”
“Anche io sono geloso.” Le sorrise. “Di natura, sono una persona gelosa. Perciò lo capisco…non ti preoccupare.”
Ricambiò il sorriso, rincuorata –e incuriosita. Shinichi aveva mai fatto scenate di gelosia ad una sua ex? Da lì, i pensieri moltiplicarono: quante ex aveva avuto? Erano belle? Oh, che domande sciocca, certo che erano belle…stavano con lui! Ma quanto belle? E cosa….
“Dai, ti accompagno a casa.” Interruppe il flusso della sua mente, porgendole una mano per aiutarla ad alzarsi. Lì per lì accettò di buon grado, poi ricordò le parole del papà: la stava raggiungendo!
“NO!” tuonò, meravigliandolo.
“Cioè…papà mi sta venendo a prendere…”
–Maledizione, papà!!- gemette di nuovo, salutando l’idea di poter stare anche un po’ di tempo con Kudo.
“Beh, possiamo andargli incontro insieme…”
“…e preferirei non ti vedesse.” Fu costretta a dirgli, incrociando le braccia al petto. Era chiaro che lui stava insistendo per galanteria ed educazione, non certo motivato da interesse nei suoi confronti. Ma almeno avrebbe potuto parlarci un altro po’, e invece…
“E perché?”
“ Ti ho appena detto che…”
“Che a tuo padre non sono antipatico io nello specifico.”
“Ma sei un ragazzo!”
“Ma sono un investigatore!”
“E’ meglio se non ti vede.”
“Che necessità hai di mentire su di me?”
“Mentire, che parolone! Non sto mentendo. Semmai è un’omissione.”
“Per la legge è quasi uguale.”
“Non usare questi sofismi con me!”
“Hai detto di essere figlia di un’avvocatessa e non lo sai?”
Quel repentino scambio di battute divertì entrambi anziché infastidirli. Si scoprirono a ridere come matti, quando il cellulare suono ancora.
“Sono all’entrata del parco. Dove sei? Non ti vedo!” la incalzò Kogoro.
“Arrivo!” fu la sua risposta, simultanea ad uno sguardo di intesa con il giovane detective che, in segno di resa, allargò le braccia.
“Sta bene. Ma in cambio, mi devi il tuo numero!”
“Scusa?” quasi gli rise in faccia, pronta a farsi beffe di lui:
“Un grande detective come te non conosce modo migliore per avere il numero di una ragazza?”
Fu il turno di Shinichi a ridere:
“Non voglio il tuo numero per quello che pensi tu. Mi hai appena interdetto dal rendere note a tuo padre le tue consulenze, ed io potrei avere ancora bisogno del tuo aiuto. Sei la massima esperta nel campo che io conosca, ma mi hai praticamente proibito di venire a cercarti a casa o in palestra. Come ti ritrovo, di grazia?”
A quelle parole Ran sentì scoppiarle il cuore dalla felicità: ok, le serviva solo per lavoro  ma…lo avrebbe rivisto!
“Oh…d’accordo…” fu l’unica cosa che riuscì a dire, però, imbarazzato sebbene felice. Subito Shinichi si prese gioco di lui e della sua reazione pacifica:
“Ma se sei delusa…se preferisci che io ti telefoni anche per altri motivi, ben volentieri io…”
“Posso atterrarti di nuovo, se necessario.” Lo interruppe, ma non smorzò il suo sorriso malizioso.
“Non mi hai atterrato. Mi hai guardato il sedere.” Puntualizzò.
Colpita e affondata!
“Sei uno sbruffone!” gli fece la linguaccia prima di voltargli le spalle, adirata.
“Ehi, e il tuo numero?” la richiamò, ma lei non pose fine alla sua marcia:
“Scordatelo!” si finse arrabbiata.
Gliel’avrebbe dato. Le aveva detto di aver giocato a calcio nella sua palestra, e lei in quanto supplente del sensei in caso di emergenza aveva libero accesso ai registri di tutti gli sport, nominativi ed indirizzi compresi. L’avrebbe cercato, l’avrebbe trovato e gli avrebbe fatto una sorpresa. Per una volta sarebbe stato lui a rimanere a bocca aperta, gli avrebbe cancellato quel sorrisetto odioso –ma bellissimo!- dal volto.
Aveva trovato un filo che poteva legarla al suo investigatore per più di un giorno, e che aveva più sostanza del caso.
E per tutto il tragitto di ritorno insieme a Kogoro, Ran non potè smettere di sorridere. Pensava al suo piano geniale; e pensava a quello che le aveva detto Shinichi:
 
“Hai detto di essere figlia di un’avvocatessa e non lo sai?”
 
Un dettaglio così sciocco, pronunciato in un momento di fastidio, lui se l’era comunque ricordato.
Lei lo conosceva benissimo; e forse, pian piano, lui stava conosceva un po’ meglio lei.
 
 
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Precisazioni:
 
*Kimura Tatsuya: cantante di una famosa band, nell’universo di Conan, che poi viene eliminato. Episodio ‘La grande festa’. Volume 45, file 5.
* il parco di Beika: dove Ran si rifugia nel primo capitolo prima di tornare a casa e trovarci Shinichi.
*Kake uke: pugno e difesa di un pugno.
*Kekomi, teisho uchi e yoko obi gere: calcio all’indietro, pugno frontale e calcio in corsa.
*Suki uke: calcio frontale.
*Il calcio serviva a mantenere i muscoli che mi servono per fare il detective: lo dice veramente nel manga, volume 1, file 1.
 

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Capitolo 4
*** Capitolo Terzo - Indecisione ***


Ringrazio ancora tutti coloro che hanno recensito la storia! :)
Spero che anche questo capitolo vi piaccia.

 
Capitolo Terzo – Indecisione
 

«Per un motivo che ignoro,
mi piaci moltissimo.
»
Franz Kafka


 

“Tu non sei normale, Ran.”
Dopo aver ascoltato a bocca aperta il racconto della sua amica, Sonoko Suzuki non trovò espressione migliore di questa, a suo giudizio, per delineare e descrivere l’operato della karateka.
“Ma perché?” la rimbeccò lei, gonfiando le guance. I ragazzi loro compagni di classe camminavano con passo veloce in direzione del cancello della scuola; suonata la campanella di fine lezione nessuno aveva più voglia di rimanere lì. E loro invece, battibeccando, si muovevano lente, quasi volendosi fermare nel centro del cortile per discutere meglio della faccenda.
“Perché? Lo ami da…quanti anni? Quattro forse, o di più? Collezioni giornali, articoli, vedi programmi tv che non vedresti mai e che anzi di solito schernisci, se sai di una sua ospitata o anche solo di un suo intervento di cinque secondi…ora finalmente ti capita a tiro, e che fai?!”
“Io non lo amo!” fu la prima cosa che, di quella frase, tenne ad obiettare. “Semplicemente…lo stimo molto…”
“Sì, stima! Stima è proprio il termine appropriato!” replicò la ricca ereditiera. “E proprio così che si dice quando si vorrebbe saltare addosso ad un ragazzo!”
“Io non voglio…!” fece per obiettare di  nuovo, ma stavolta Sonoko non le concesse di prendere la parola:
“Senti, di solito è naturale che quando si incontra di persona chi si ha sempre stimato da così tanto tempo si provi qualcosa di speciale, per lui. Capiterebbe a chiunque! E’ come scontrarsi con i proprio sogni, e venirne inghiottiti.”
Ran la ascoltò senza interromperla, seppur rossa in viso:
-Ecco perché continuo a confidarmi con Sonoko…- sorrise tra sé e sé –Nonostante la sua apparente superficialità, possiede una sensibilità particolare…Ha occhio per certe cose…-
“Ma di solito quando capita questo il consiglio che la fan deve ricevere immediatamente è: la persona che hai di fronte è diversa da quella che credi, fa’ attenzione e vieni via prima di scottarti! Il tuo problema è che la situazione è all’opposto; a meno che tu non sia così tanto…” fece una pausa, prendendola in giro “…a meno che tu non lo stimi così tanto da non vederne i difetti, da come me ne hai parlato sembra abbastanza simile al dipinto che avevi fatto di lui…e allora? Magari non lo è affatto, è tutto il contrario e ti sta ancora mostrando il suo profilo pubblico…ma se non lo frequenti un po’, se non lo conosci meglio, come farai a capirlo?”
Paonazza in viso, la ragazza osò chiedere: “ E allora…come avrei dovuto fare secondo te?”
“ 348. 2719793. Questo è il mio numero, aspetto una tua telefonata…sono sempre disponibile per te! Dovevi rispondergli così.”
“Ma che dici? Sarei parsa interessata a lui.”
“E non lo sei?”
“Beh…lo avrebbe capito anche lui.” Eluse alla bene e meglio la domanda, ma la Suzuki era troppo esperta in quel campo per lasciargliela passare:
“E’ un grande investigatore, lo capirà comunque…sempre che non l’abbia già capito.”
“Credi sia possibile?” sbottò, sentendosi a disagio solo pensando che quella possibilità potesse concretizzarsi. Allora proseguì: “Vedi Sonoko, è per questo che non gli ho dato subito il mio numero! Non vorrei sembrare una ragazzina superficiale che è interessata a lui solo perché è famoso e lo considera un vip. Ho già pensato a tutto: mi ha detto di aver frequentato la scuola di calcio nella mia stessa palestra, dove mi alleno ora…La prima volta che sostituirò Koromo-sensei entrerò in ufficio e cercherò nei registri il suo indirizzo, poi gli lascerò il mio numero nella cassetta. Ma senza nome, per vedere se si ricorda e se capisce…o forse dici che è meglio con il nome? Per non sembrare vanitosa…e se pensasse che sono una facile? Se parlasse con i suoi amici e si dicessero che una che dopo solo tre giorni che lo conosce ha accettato di trascorrere tutto il pomeriggio in un angolo isolato del parco di Beika, anzi che al primo appuntamento già è andata con lui al bar…oddio, Sonoko, sto dando l’idea di una facile?”
Ran era una ragazza intelligente, oltre che molto dolce; e cercava sempre di seguire il modello di suo padre e di Shinichi, naturalmente, e cioè di adottare una forma mentis razionale. Ma quando si trattava del giovane detective non capiva più niente, entrava nel pallone: confusione totale.
Ma l’amica sorrideva sorniona: “Quindi è vero che sei interessata a lui, eh, ti sei tradita…”
“Dopo quella frase ho pronunciato almeno una cinquantina di parole!” le fece notare, sbuffando.
-Ma quando ci si mette, sa essere davvero molto superficiale…- proseguì la scia dei pensieri precedenti, attendendo una sua risposta.
“Mi pare che tu stia correndo un po’ troppo, Ran! Ragiona: se non fossimo tutti un po’ facili non faremmo mai amicizia. Rimanere sempre con la puzza sotto il naso, non sorridere mai, stare sulle proprie…ma che mondo sarebbe, tutto pieno di musoni saccenti e basta! Tu sei una persona solare, che ama stare tra la gente, disponibile ad aiutare chi è in difficoltà…noi che ti conosciamo bene, lo sappiamo. E se questo Kudo dovesse scambiare la tua magnanimità per piaggeria, o peggio…Beh, non sarebbe il grande detective che si vanta d’essere.”
“Sonoko…” colpita da quelle parole sincere, Ran si slanciò per abbracciarla. Mentre erano guancia a guancia, la biondina ridacchiò: “Ma comunque fare tutto questo casino per dargli il tuo numero…e se pensasse che sei una stalker?” le diede corda, colpendo precisamente il bersaglio nel centro.
“Voglio dire…tu ti alzi, ti lavi, esci per andare a capire chi ha ucciso il bel ragazzo che si guardava un film da solo in casa e aveva tante fan perché era affascinante, e nella cassetta delle lettere ti ritrovi un biglietto anonimo con un numero di telefono…”
“Dici??” ci cascò subito Ran, pensierosa. Sonoko scoppiò a ridere.
“Scherzi a parte, io aspetterei che contatti tuo padre. Sembrerà più sobrio.”
“E se non dovesse farlo?”
“Hai detto che ama indagare! Credi lascerà questa indagine?”
“Non lo so. Sembrava molto preso da questa che ha a che fare con il karate…”
“Mhm…” Sonoko fece per dire qualcosa, ma ad un tratto improvvisamente i suoi occhi brillarono.
Tacque di colpo, fissando gli occhi davanti a sé.
“Che c’è?” Ran colse subito il cambiamento della compagna, e si volse nella sua direzione di sguardo: “C’è Kyogoku?”
Makoto Kyogoku era un amico di Sonoko. Si erano conosciuti in palestra, quando la ragazza era accorsa a tifare per Ran durante una gara importante. Il giovane, karateka anche lui, soprannominato ‘Il principe dell’attacco’ l’aveva notata, e il caso aveva fatto il resto: incontratisi per caso durante una vacanza, erano diventati amici…*
Si piacevano, si piacevano moltissimo. Ma lui era estremamente timido; Sonoko cercava di sbloccarlo in qualche modo, di fornirgli l’occasione di agire: ma lui esitava, balbettava, s’irrigidiva.
“Non direi proprio…” sibilò pettegola, aprendo la cartella per strappare un pezzettino di carta da un quaderno.
“Cosa fai?”
“Tieni!” le porse foglietto e una penna “Scrivi qui il tuo numero e lanciaglielo!”
“Ma cos…” Anche Ran allora ebbe una folgorazione. Mise a fuoco un punto pochi metri avanti a lei, la colonna in marmo di fianco il cancello della scuola: ed eccolo lì, avvolto del suo charme.
Un piede poggiato sul muro alle sue spalle, per bilanciare la schiena contro la parete. Completo di pantaloni e giacca molto chiaro, gli risaltava il fisico allenato grazie anche al bianco della camicia. Occhiali da sole che le impedivano di capire se l’avesse visto o stesse guardandosi intorno, e capelli scompigliati dal vento abbastanza da darne l’impressione di ragazzo anti conformista e sicuro di sé- come poi effettivamente era- che tanto la faceva impazzire.
“Chiudi la bocca Ran, la bava ti sta colando sulla camicetta!” le sussurrò Sonoko, schernendola.
“Che…come…”
“Oh, non fare la timida proprio ora! E’ venuto lui a cercarti, e per la seconda volta in pochi giorni. Direi che sta correndo il rischio di sembrare uno facile pur di vederti, no? Perciò puoi, anzi devi, fare altrettanto!”
Quindi la afferrò per il polso e, fingendo disinvoltura s’avviò trainandola nella sua direzione.
Shinichi sorrideva, le braccia incrociate al petto: mentre loro si avvicinavano non si mosse di un millimetro, ma continuò a sorridere.
Le aveva viste. Le aveva viste da molto prima che loro si accorgessero di lui, e gongolava della sua fama.
Solo quando furono vicine, a circa un metro da lui, portò le braccia lungo i fianchi e, issandosi sul piede alzato tornò in posizione eretta.
Ran gli sorrise, e nient’altro, incapace di proferire parola.
Confusione totale.
“Kudo Shinichi, ma sei tu?” una ragazza in tenuta sportiva –quindi pantaloncini corti e maglietta bianca attillata- gli si avvicinò senza porsi tanti problemi.
Lui disse di sì semplicemente ampliando il sorriso.
“Mi fai un autografo? Sono una tua grande ammiratrice!”
“Ma certo.” Rispose, estraendo dall’interno della giacca un pennino con punta dorata.
La giovane gli offrì il braccio nudo.
“Qui?” le domandò lui, l’espressione compiaciuta ma divertita allo stesso tempo.
All’assenso di lei le fermò il polso con una mano, mentre con l’altra apponeva la firma sulla carne.
Ran, dapprima impressionata dalla sfacciataggine di lei, osservò quel movimento come rapita: nella sua mente già pensava a cosa avrebbe provato se il ragazzo l’avesse afferrata così come con quella ragazzina, e tenuto stretta: e poi se, con l’altra mano avesse impresso…
Scrollò la testa, volendo distrarsi; e si accorse che dietro il giovane si formava la coda, attorno a lui si andava pian piano componendo una ressa.
“Mi aspetti al nostro bar, signorina?” le disse allora lui, il sorriso sornione di chi sa che ne avrà da fare per un po’.
Quell’aggettivo usato con tanta nonchalance la fece tentennare.
-Nostro…-
“Ce n’è uno qui dietro l’angolo, con poca gente a quest’ora.” Le corse in aiuto Sonoko, vedendola in panne “Si chiama C’era una volta, ti aspettiamo lì. Va bene?”
“Ohhh” finse un’esclamazione sorpresa per la sicurezza dimostrata dalla biondina “Va benissimo.”
 
§§§ 
 
 
Avevano sadicamente scelto il tavolo di fronte la vetrata principale, e potevano vedere distintamente Shinichi, ancora di fronte il portone dell’edificio scolastico; firmava autografi e sorrideva alla miriade di ragazze, dai quindi ai diciannove anni, accorse intorno a lui non appena l’avevano riconosciuto.
“Ma guardalo…” Ran afferrò un pugno di arachidi dalla terza coppa divorata nel giro di sei, sette minuti.
“Lo stimi ancora, cara?” le fece la linguaccia Sonoko, poi ridacchiando: “E’ normale, è famoso e lo sa. Lo hai visto fare la stessa cosa mille volte, in tutti quegli articoli che ti leggi, e in tv, e…”
“Dal vivo fa un effetto diverso.” Terminò anche quella colpa, deglutendo intere le noccioline.
“Comunque, pare si sia liberato. Vi lascio soli!” le ammiccò, facendo per alzarsi dal tavolo ma Ran la bloccò:
“Non potresti…rimanere?” le domandò con un fil di voce, gli occhi ridotti a due puntini.
“Sonoko Suzuki!” con la velocità della luce Kudo le aveva raggiunte. In realtà quando si erano allontanate dalla confusione, le aveva seguito con lo sguardo e aveva visto chiaramente il tavolo che avevano scelto –e come lo avevano fissato per tutto il tempo. La cosa lo divertiva.
“O sbaglio? Sei la figlia minore del leader della compagnia Suzuki.” Con due falcate le raggiunse, poi: “Ma stavi andando via?” in riferimento al suo essere in piedi.
“No.” Rispose subito lei, pronta.
“Non sei la figlia di Suzuki?” la prese in giro, ridendo spavaldo. Di rimando, anche Ran si ritrovò a sorridere: adorava quel suo modo di fare canzonatorio, giocoso. La metteva subito di buon umore, comunicandole serenità e pacatezza.
“Sì, in persona. Ma non stavo andando via! Solo, mi chiedevo se non fosse meglio cambiare posto.”
“Concordo. Qui siamo in bella vista, non vorrei essere disturbato di nuovo. C’è una sola inferiore, vero?”
-Ma come diamine l’ha capito?- volle significare l’occhiata che Sonoko lanciò a Ran, che rispose con un sorriso che voleva dire: -Perché è lui!-
“Andiamo lì.”

§§§

“I signori desiderano…?” non appena i tre ragazzi furono scesi nella saletta sottostante la cameriera di turno aveva evidentemente riconosciuto il giovane e si era fiondata al loro tavolo. Se non altro, comunque, la sala era vuota.
“Tre frullati di mango, grazie.” rispose lui all’istante, mentre si sedeva di fronte le due ragazze.
“Subito, Kudo-san.” Gli fece capire d’averlo riconosciuto e, le guance paonazze. Non era una donna audace come le studentesse di poco prima, era timida, impacciata: ma era anche lei, palesemente, una sua fan.
“Spero vi piaccia il mango” disse quando la cameriera ebbe lasciato la sala. “E’ il frutto che richiede maggior tempo di preparazione, saremo in pace per almeno una decina di minuti.” Confidò.
Poi voltò il volto specificamente verso Ran, e le sorrise:
“C’era una volta…” finalmente si sfilò gli occhiali, gli occhi di un celeste accesso e limpido,  rivelando di aver sempre tenuto lo sguardo fisso sulla Mouri.
Quell’improvviso diretto contatto visivo la fece arrossire, ma non abbassò il viso, sorreggendolo.
“…una ragazza che non aveva un numero di cellulare. E così il ragazzo fu costretto a cercarla a scuola.” Poggiò gli occhiali sul tavolo, portandoci anche i gomiti.
La fissò con espressione divertita per ancora qualche secondo, poi volse l’attenzione a Sonoko:
“Comunque, piacere, signorina Suzuki. Sono Shinichi Kudo.” Disse, e il suo sorriso fece trasparire la consapevolezza dell’inutilità di quella precisazione.
Infatti lei: “La tua fama ti precede.” Prese a dargli subito del tu, perciò lui fece altrettanto:
“Ti ha parlato di me Ran?” sfottè, ma la ragazza ebbe risposta pronta:
“Sì, le ho detto che c’era un tipo strafottente che mi infastidiva.”
“Strafottente…” ripetè lui, tornando a fissarla in quel modo negli occhi. Uno sguardo divertito e giocherellone, eppure profondo, che sembrava volerla distrare con l’apparenza di non essere serio, e invece metterla a nudo, scavarle nelle profondità dell’animo.
“Stai lavorando anche tu al caso della rapina?” Sonoko cercò di sviare i dubbi di Ran, ed estorcergli quindi se sarebbe o no tornato da Kogoro.
Fu inutile.
“Devo ancora deciderlo. O meglio, io ho deciso, ma c’è chi deve ancora deciderlo.” Lo disse con tono ironico, tranquillo: eppure Ran colse anche la polemica di quell’affermazione. Per lui lavorare era complicato, era un detective discusso, per quanto famoso, come le aveva detto lui stesso il giorno del loro primo incontro.
“E voi?”
“Prego?”
Shinichi rise: “State spiando tuo padre? Indagate anche voi, metodo vostro, al caso della rapina?”
Colpite e affondate.
Ma Sonoko tentò di negare: “A me le indagini non interessano. Ne so qualcosa solo perché Ran non fa che parlarne, ha lo stesso pallino del padre.”
-Ne parlo perché riguardano Shinichi…-la corresse nella sua testa, ma si guardò bene dal pronunciarlo ad alta voce. Delle inchieste in sé per sé non le importava niente.
“E tuo padre è contento?” rise di nuovo.
Ran tentennò, rispondendo con una frase di circostanza. Era più imbarazzata del solito: le accadeva perché i suoi sentimenti non erano più distinti, così come la situazione.
Prima aveva un quadro ben chiaro in mente: lei ammirava e forse aveva un debole per Shinichi, un detective famoso, poi incontrato una volta per caso, che aveva confermato l’idea che lei si era fatta a proposito: era un Uomo.
Ma in quei giorni le carte s’erano mischiate: Shinichi era anche un ragazzo accattivante, malizioso, sempre ironico e con la battuta pronta, oltre che con l’intelligenza fiera e scattante di chi, anche se pare distratto o attento ad altro, in realtà non si lascia sfuggire niente;  e non era più solo Il detective, stava diventando il detective Shinichi, che la cercava, l’aspettava dopo gli allenamenti, la portava nel parco di Beika, addirittura l’andava a prendere a scuola. Ed il suo debole per lui si stava mutando in relazione al mutare del loro rapporto: lei era sorpresa, ammirata, meravigliata.
Aveva pensato di poterlo battere sul tempo, e aveva fatto un colossale buco nell’acqua: come se sapesse quali fossero i suoi piani, come se volesse dimostrarle subito come stavano le cose, e dirle: “Non sono mai io quello che subisce l’azione. Io la attivo, e la cavalco, e sono anche in grado di prevedere la corrispondente reazione.”
Proprio quando pensava di averlo inquadrato, almeno un po’, ecco che lui deragliava dal binario della previsione e della probabilità per approdare ad una nuova strada, inimmaginabile e del tutto inaspettata.
Shinichi Kudo era imprevedibile: ne era infastidita. Ne era impressionata, e colpita.
Ne era affascinata.
“Perciò sei qui per chiedere il numero a Ran?” dopo un paio di frasi di circostanza tra i due, Sonoko pensò bene di accelerare un po’ le cose, ed ignorò bellamente il calcione che l’amica le diede sotto il tavolo.
“No.” Quindi mise una mano nella tasca interna della giacca, traendone un foglietto di carta strappato, per poi poggiarlo sul tavolo, di fronte a lei.
“Sono qui per darle il mio.”
Due a zero! Di nuovo quel che pensavano fosse chiaro ed inevitabile si dimostrava tutto fuorché scontato, imprevedibile.
“Avrei qualcosa da dire a Mouri, e vorrei che mi aiutassi.” D’un tratto divenne serio, e l’espressione saccente si tramutò in professionale. Ma solo per un secondo:
“Visto che non può sapere dei miei contatti con te…” alluse alla sera precedente, quando la giovane gli aveva proibito di palesarsi di fronte suo padre “…vorrei sapere più o meno dove poterlo casualmente incontrare, e poterci scambiare quattro chiacchiere.”
“Quando anche l’ispettore è presente?” e non attese la replica di lui: “Certo, non appena la squadra viene in agenzia da papà ti telefon…”
“No.” La interruppe. “Ci penserà tuo padre poi a riferire anche a Megure. Io voglio incontrare lui soltanto.”
“Oh.” Si meravigliò, comunque prendendo tra le mani quel bigliettino scarabocchiato.
Shinichi c’era scritto sopra le cifre segnate a numero, e nient’altro: Shinichi, come fosse un suo amico d’infanzia e non una persona famosa conosciuta da neanche una settimana.
“Ci sono dei problemi?” s’allarmò, ricordando anche le parole origliate qualche giorno prima:
 
“Il capoquestore Ikari è colluso con quell’organizzazione criminale.”
 
Lui sapeva…?
“Assolutamente no.” Replicò, sicuro.
“Allora perché vuoi parlare solo con lui?”
“Perché odio la formalità.” Rispose, e lei non stentò a crederci: lo ripeteva spesso nelle interviste, quando gli chiedevano le ragioni della sua condotta poco convenzionale.
Eppure, Ikari…
“Tanto che avrei detto a te cosa riferirgli, e poi lui avrebbe deciso se rispondermi o no, di persona o sempre tramite te. Sono solo alcune mie osservazioni sull’indagine, niente più…Ma tu sei restia a far sapere che ci conosciamo.”
“Ah, perché vi conoscete? Nel senso…” Sonoko non perse occasione, e Ran le tirò un secondo calcio sullo stinco.
“Sì, beh…ci siamo conosciuti.” Parve esitare prima di rispondere, come se si stesse trattenendo dal fare una battuta che forse due diciassettenni non avrebbe gradito.
La cameriera fece di nuovo il suo ingresso nella saletta, un vassoio portato a stento per l’emozione di star servendo proprio lui: e infatti quando dovette offrigli il bicchiere le scivolò dalle mani, e quasi gli cadde addosso. Fortunatamente lui ebbe i riflessi pronti e l’afferrò al volo, portandolo sul tavolo.
Mentre lei si scusava e lui la rassicurava, Ran si estraniò di nuovo:
-Caspita, che agilità! Chissà se è sempre così agile…- e la mente fluttuava di nuovo nel campo della sensualità ipotizzata quando la giovane inserviente, timidamente gli chiese un autografo.
Shinichi piaceva moltissimo alle donne, era chiaro.
Le due ragazze si lanciarono uno sguardo d’intesa, poco prima di rimanere nuovamente tutti e tre soli.
“Non c’è mai un uomo  a chiederti l’autografo?” Sonoko si beccò il terzo calcio da sotto il tavolo, e lui rise:
“E’ un modo elegante per dirmi che un tuo amico vuole il mio autografo?” portò la cannuccia alla bocca, ma prima di iniziare a bere aggiunse:
“I vostri fidanzati, forse?”
“Non siamo fidanzate.” Rispose Ran, subito, come se volesse subito fuorviare quel suo sospetto.
“Ah no?” se ne assicurò, e stavolta fu Sonoko a replicare:
“Tu lo sei?” sapeva bene che anche Ran glielo aveva chiesto pochi giorni prima, ma volle sondare per bene il terreno.
“No.” Rispose lapidario.
“Sicuro? Non parleremo certo con i giornalisti, sai! Se si tratta di un rapporto proibito, fazioni avverse, possibili avversari…”
Quarto calcio.
“Da quel punto di vista, la mia vita non è così avvincente.” Si lasciò andare una mezza rivelazione.
“Sei un maschilista? Uno di quelli da una notte e via?” Si aspettava l’ennesimo calcio di Ran, eppure la piedata non arrivò. Evidentemente, visto il fascino che palesemente esercitava sul genere femminile, quel dubbio s’era instillato forte in Ran, che ora non era più capace di ignorarlo, come invece per mesi aveva fatto.
“Mi stai chiedendo con quante donne sono stato a letto, Suzuki?” A domanda diretta, risposta secca. Shinichi non aveva peli sulla lingua, o tabù: e adattava perfettamente il suo registro e il suo comportamento all’interlocutore che aveva di fronte a sé.
Sonoko scrollò le spalle, un po’ in imbarazzo.
In quel momento, il telefono del ragazzo prese a suonare ed entrambe lo maledirono, salutando per sempre la sua risposta. Il giovane lo estrasse dalla tasca e scrutò il display per leggere il nome scritto sopra, quindi si alzò dal tavolo afferrando gli occhiali da sole.
Stava andando via, e si congedò da loro con uno sguardo di commiato.
-Vabbeh, il suo numero me l’ha dato…- pensò, stringendo forte in grembo quel foglietto di carta, l’unico contatto tra loro.
Ma, per la terza volta in quella mattina, Shinichi la stupì:
“Io credo che ogni persona che passa nella nostra vita sia unica. Lascia sempre un po’ di sé e si porta via un po’ di noi. Ci sarà sempre chi si è portato via molto, ma non ci sarà mai chi non avrà lasciato nulla. Questa è la più grande responsabilità della nostra vita*, sapere cosa lasciamo a chi incontriamo. Ma la responsabilità che dobbiamo a  noi stessi è riconoscere cosa ciascuna persona può darci: della vanagloria, dell’ego, della superficialità, e di tutto quel che il sesso di una notte può comportare, non mi faccio nulla. Da un punto di vista spirituale, non mi sento arricchito da nessuna di queste possibilità.”
 
 §§§
 
“Sarà pure un detective di fama internazionale, ma ti vuole abbordare con le stesse patetiche scuse dei ragazzini di quindici anni! Che bella frase da rimorchio, perché non aveva il coraggio di chiedertelo chiaramente: I vostri fidanzati, forse? Una fantasia che non ti dico.”
“Figurati se gli interessava sapere…” cercò di smorzare lì il discorso, ma l’ereditiera oltre la cornetta telefonica non volle saperne:
“Sì, gli interessa. Posso osare un parere, Ran?”
“Sentiamo” sospirò. Dalle occhiate che poche ore prima i due si erano scambiati, non le avevano dato l’idea di essersi troppo simpatici.
“E’ uno sbruffone, saccente, montato e pieno di sé che gongola della sua fama. E sa anche di essere affascinante, ci si atteggia ancora di più e se ne compiace. Bada bene a quel che succede, e a quel che farà con te.”
Ran scoppiò a ridere: “Ma cosa vuoi che faccia?”
“Portarti a letto!”
“Ma sei pazza?”
“Credi non lo faccia? I vip fanno sempre così.”
“Ma lui non è un vip! E’ un investigatore.”
“E’ la stessa cosa. E’ discusso e famoso quanto un vip. E gli piaci.”
“Ma che dici?!” il cuore di Ran perse un battito.
“Non dovrei dirtelo perché sei ossessionata da lui e dai tuoi ritagli di giornale disseminati in tutta casa, ma lo faccio perché…è meglio che tu lo sappia sin da ora, secondo me. Il compito di un’amica è quello di aprire gli occhi a chi li vuole tener chiusi: gli piaci. Fisicamente, almeno. Si capisce da come ti guardava.”
“Non mi guardava in nessun modo.” Cercò di tagliare corto. Eppure si alzò dal letto su cui era distesa e si precipitò all’armadio, aprendone l’anta per osservare il suo riflesso nello specchio: indossava ancora i vestiti dell’incontro. Si girò di profilo, scorgendosi sul vetro: si passò una mano sulla pancia, temendo fosse un po’ troppo gonfia; poi puntò gli occhi sul seno:
-Beh…questo…- si ritrovò a pensare con gli occhi ridotti a due minuscoli puntini – lo può aver apprezzato, è una bella parte del mio corpo…-
“Ti ha guardato in quel modo, fidati. Lo so capire, io. E non mi stupirei se con la scusa dell’indagine o di che so io cercasse di sedurti. Poi ti direbbe che tu sei grande e che hai scelto anche tu di fare quel che hai fatto, bla bla bla…attenta a te. Voglio dire, se decidi di starci, va bene. Ma devi esserne consapevole, non devi lasciarti abbagliare!”
“Smettila di dire idiozie, Sonoko!!” completamente rossa in faccia, tornò frontale allo specchio, ruotando un po’ la testa per osservarsi meglio.
Con tutte le attrici, donne di spettacolo e poliziotte che conosceva, possibile che…?
Una vibrazione del cellulare la fece trasalire, come se i suoi pensieri fossero stati trasmessi oltre il cervello lungo la linea telefonica.
“Scusami Sonoko, ho l’avviso di chiamata! Dev’essere mio padre, non è ancora rientrato.”
“Figuriamoci…non pensare di scapparmi! Ricordati bene quello che ti ho detto.”
“Non preoccuparti per me.” E nonostante tutto, lo disse con sincera gratitudine: sapeva che Sonoko parlava solo per il suo bene. O almeno, per quel che credeva fosse il suo bene.
Senza neppure visionare il display accettò la chiamata in entrata:
“Pronto?”
“Ciao, Ran. Perdonami il disturbo, a quest’ora. Hai cinque minuti per me?”
Si sentì soffocare all’istante.
“Sh-Shinichi!” non riuscì a trattenersi, palesando la sua sorpresa- e probabilmente il suo imbarazzo.
Lui, dall’altra parte, ridacchiò.
“In persona, signorina. Non mi hai fatto uno squillo dieci minuti fa?”
Ran tacque. Sì, l’aveva fatto. Presa una coraggiosa follia, aveva deciso di telefonargli…solo uno squillo. Dopo quell’affermazione repentina di Sonoko che aveva scatenato la pronta reazione del ragazzo:
 
“Mi stai chiedendo con quante donne sono stato a letto, Suzuki?”
 
si era ingelosita. Molto sciocco e infantile da parte sua, ma era stata un’invidia logorante che non aveva saputo controllare. Il pensiero era stato: -Vediamo se capisce che sono io…- e quando lui non aveva immediatamente ritelefonato o mandato un sms chiedendo chi fosse, o peggio facendo un nome femminile a lei sconosciuto, si era dimenticato d’averlo fatto. O forse il suo inconscio l’aveva rimosso.
Fatto sta che quelle telefonata non se la sarebbe mai aspettata.
“Eri tu, no?”
“E tu come l’hai capito?”
“Sono il miglior detective che tu abbia mai incontrato. Con tutto il rispetto per tuo padre, s’intende.”
Sbuffò. Poi si fece pensierosa: “Perché vuoi incontrarlo?”
“E’ molto importante per me, Ran.”
“Per caso, c’entra…” e si morse la lingua. Poteva dirlo? No, non poteva. Però…
 
“Tutto a posto, papà?”
L’uomo sollevò gli occhi dalla scrivania a quella che ancora soleva definire la sua bambina.
“Ti senti bene?”
“ Ikari Shima.”
“Chi è?” la ragazza iniziò a preoccuparsi. In realtà conosceva quel nome; ma sperava di sbagliarsi.
“Il capoquestore, Ran. Megure teme che potrebbe intromettersi nell’indagine, in qualche modo.”
“Perché dovrebbe?”

“Perché Kudo non piace ai piani alti.” Tagliò corto, con severità, come se rimproverasse lei dei metodi dell’investigatore più giovane.
“E il suo intervento potrebbe causarci dei guai.”
 
 
“C’entra…?”
“Shinichi, io…”
“Non voglio ingannarlo, Ran. E non sono complice di nessun cattivo progetto. Te lo assicuro. Te lo giuro.” La incalzò.
“C’entra con Ikari?”
“Chi ti ha fatto questo nome?”
“Non ti pare di pormi troppe domande?”
“Ne avrei ancora di più.”
“Tipo?” stavolta fu lei a incalzarlo. Odiava e amava allo stesso tempo battibeccare con lui. Come si conoscessero da anni e fossero amici di vecchia data che dopo anni e anni ancora litigano per le inezie.
“Tipo, perché una bella ragazza come te non ha un fidanzato?”
Deglutì saliva.
 
“E gli piaci!”

“E questo cosa c’entra con l’indagine, scusa?”
“Sei tu a non volerlo, Ran?”
“Non c’entra nulla con l’indagine, Shinichi.”
“Oppure sei innamorato di qualcuno che non si accorge di te?”
“Non ti riguarda.”
“Delusione d’amore?”
“Non parlerò di questo con te.”
“Sei fidanzata e vuoi tenerlo nascosto?”
“Non sono fidanzata.” Tenne a precisare.
 
“E gli piaci!”
 
“E innamorata?”
“Di che t’impicci?”
“Ti piace qualcuno?”
 
“Portarti a letto!”
 
Deglutì ancora saliva.
 
“E tu? Sei innamorato in questo momento?” riuscì a dire, pur rossa in volto. E poteva tranquillamente vedere il suo stesso imbarazzo riflesso sullo specchio di fronte a sé.
“La prima domanda da fare è se sono fidanzato.” La corresse.
“Non fare il detective saccente con me!”
“Ma lo sono!”
“Fidanzato?”
“Detective saccente! Ma se per prima cosa mi avessi chiesto se fossi fidanzato, ora non avresti avuto questo dubbio.”
“Di certo sei insopportabile.”
“No.”
“No cosa?”
“Non lo sono.”
“Innamorato o insopportabile?”
Rise: “Non sono innamorato di nessuna donna. Vuoi chiedermi anche tu ora con quante donne sono andato a letto, come la tua amica?”
Avvampò ancor di più e ringraziò il cielo di essere al telefono, così a lui invisibile e meno vulnerabile:
“Avrei detto con nessuna.” Lo punzecchiò, e lui scoppiò a ridere.
“E tu?”
“Non sono il tipo di domande che si fanno a una ragazza.”
“Hai diciassette anni. La risposta corretta è: Con nessuno, vuoi scherzare?!”
“Ripeto: cosa te ne importa?”
“Niente….” Rispose, ma il tuono fu piuttosto allusivo.
“Ran?! Sei in camera tua?” dall’altra parte dell’appartamento la raggiunse la voce di suo padre, e il cellulare quasi le cadde di mano.
“RAN?!”
“S-sì!” fu costretta a rispondere. E prima ancora che potesse inventarsi qualcosa, Kogoro le piombò in camera.
“Con chi parli?”
“E’ tuo padre, per caso?” le sussurrò Shinichi oltre la cornetta.
“Co-con Sonoko!!!” rispose con foga.
“Ohhh…” fischiettò Shinichi.
“D’accordo.” Rispose invece il padre “Hai già cucinato? Ho fame!”
“No…cioè sì, io…sì sì, devo solo riscaldare…ho fatto il ri-riso al curry con le polpette di gamberi…”
“Ottimo. Sbrigati allora, ti aspetto in cucina.” E lasciò la camera.
“Sei una ragazza bugiarda, eh? Buono a sapersi…” cinguettò Shinichi, facendola arrossire nuovamente: il suo tono era languido.
“Shinichi…”
“Ran.” La voce tornò seria. “Non ho cattive intenzioni. Te lo giuro. Mi faresti davvero un grande favore se…se mi accontentassi. Se soddisfacessi la richiesta di oggi pomeriggio.” Rimase vago, temendo che Kogoro fosse ancora nei dintorni e potesse sentirlo.
“Va bene.” Disse solo, prima di congedarsi.
“Ciao, Shinichi.”
“Ciao, Ran…salutami il tuo non fidanzato.” E non le diede il tempo di replicare, perché riagganciò. Lei si ritrovò a osservare come inebetita il cellulare tra le mani, uno strano sorrisetto divertito dipinto sul volto.
Poi si riscosse, e raggiunse il padre in cucina; mentre apparecchiava, lui le domandò:
“Vai a scuola domani?”
“Certo.”
“Portati le chiavi di casa, allora.”
-Lo faccio sempre….- pensò, ma si guardò bene dal contraddirlo.
“Domani vado alle corse dei cavalli.”
 
 

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Precisazioni:
*Makoto Kyogoku: Ho cercato di rimanere fedele alla presentazione ed al carattere che ne da Gosho nel manga.
*Ogni persona che passa nella nostra vita è unica. Lascia sempre un po’ di sé e si porta via un po’ di noi. Ci sarà sempre chi si è portato via molto, ma non ci sarà mai chi non avrà lasciato nulla. Questa è la più grande responsabilità della nostra vita: è la frase originale di Borges. Io l’ho riadattata e ampliata per contestualizzarla.

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Capitolo 5
*** Capitolo Quarto - Fuoco di paglia? ***


Salve a tutti!!
Ringrazio coloro che mi hanno reso tanto contenta con le loro recensioni ^----^ e coloro che hanno inserito la storia tra i preferiti o le seguite. Grazie di cuore! :D
Spero che anche questo nuovo aggiornamento vi piaccia!

 
Capitolo Quarto – Fuoco di paglia?
 

«L'uomo è uomo, e quel poco d'intelligenza
che egli può avere serve a poco o a niente
quando arde la passione.»

Johann Wolfgang Goethe 


 

Ferma ed immobile in attesa che il destino le si presentasse, e reclamasse inesorabilmente i suoi programmi; questa era la situazione tipo che da sempre aveva desiderato, con tutta l’anima, evitare: lasciarsi gradualmente invischiare in una frivola apatia* capace di distrarla e, soprattutto, frapporsi tra il suo presente e la sua meta. Voleva essere lei a decidere in quale direzione andare, e non che il vento la trasportasse come una foglia troppo debole per mantenere il legame vitale con l’albero, ma troppo forte per sgretolarsi con felice cupio dissolvi in mille minuscoli residui, al pari del polline d’un fiore di cui non resta altro che la lontana fragranza trasportata dalla brezza per alcuni metri, prima di svanire come non fosse mai esistita.
Ogni decisione era ponderata minuziosamente, nella consapevolezza che non esisteva alcun fato superiore, alcun destino, alcun progetto deterministico: nella disperata speranza d’essere lei a decidere della sua vita, ne traeva esaltazione ed angoscia allo stesso tempo. Perché consapevole dell’enorme potere, e così delle implicazioni da esso scaturite: lei era sola di fronte alle sue scelte, perché nessun altro le aveva prese al suo posto, da nessuno era stata condotta lì, in quel punto, se non dalle sue gambe: così sperduta, gettata nel mondo, sola e senza scuse, Ran era condannata ad essere libera. Nessun altro se non la sua propria coscienza legittimava la sua condotta.
Vasta libertà, spropositate possibilità, infinito rischio: l’oceano le si spalancava sulla cima degli eventi futuri e solo lei reggeva il timone della zattera. Merito per aver cavalcato l’onda anomala, colpa per essere incappata nel gorgo centrale della più feroce tormenta. L’orizzonte le appariva libero, anche se non era sereno.*
Il suo sogno era il suo scopo; ma nel suo sogno si contemplava tutto il suo mondo. Quella dimensione di valori e affetti, di amore in ogni sua forma- dalla più amichevole alla più erotica- che è tanto potente da straripare oltre l’anima stessa, stimolato non da secondi fini ma generato dall’abbondanza di serenità a risiedere nel cuore. Questo lei voleva essere, ricchezza aristocratica di animo e di forma, un sinolo di  forza spirituale e fermezza di carattere da possedere per se stessa ed elargire agli altri; questo voleva che fosse il suo mondo, persone imprevedibilmente pittoresche ma allo stesso tempo fermi nelle loro scelte, imponderabili e sicure.
Non riusciva quasi mai nei suoi obiettivi; l’ideale se stessa collimava raramente con la Ran reale; ogni decisione era seguita da indecisione: il dubbio di aver sbagliato, ed essere caduta nell’azione opposta a quella più sensata. I passi indietro, poi di nuovo avanti: devi indietreggiare, no! Devi continuare a testa alta.
E le persone che aveva intorno non le parevano di certo migliori; i più grandi affetti si prostravano ai piedi degli egoismi personali: i suoi genitori ne erano esempio. L’amore per lei o per la famiglia, per il loro progetto o qualunque fosse stata l’idea che di fronte all’altare avevano in qualche modo e con una certa intensità cullato non avevano impedito loro di prendere vie tanto diverse da vedersi raramente; il padre nell’agenzia investigativa a bere birra tra un caso e l’altro, la madre ad argomentare sentenze che vinceva quasi in toto. La regina del foro e il detective di Beika Choo.
Li amava: li stimava profondamente per alcuni lati del loro carattere, avrebbe compiuto i sacrifici estremi per loro. Ma non sentiva di poterli appoggiare in tutto e per tutto, alcune loro scelte, atteggiamenti, idee…un altro mondo.
C’era un’unica persona che le dava piena fiducia; che sapeva, ne era certa, fosse consapevole quanto lei del grave peso di una scelta, di ciò che essa comporta: che ogni nostro atto non è estraneo da ingerenze ed anzi, l’uomo che vede il tramonto d’un giorno ignora che per suo figlio sarà l’alba.
Ed era qualcuno su cui aveva da sempre riposto ogni speranza, una piccola luce a intermittenza, talvolta più flebile talvolta più forte, che mai scompariva del tutto dalla sua vita: non si trattava di un fuoco di paglia, era un’intesa di mente e di spirito.
Era Shinichi Kudo, e dopo averlo personalmente incontrato quell’intesa era diventata anche di corpo.
Il tono di voce sicuro e il brillare degli occhi a ricordarle ogni momento la sua tenacia.
Prese un respiro profondo prima di estrarre il suo telefono cellulare dalla tasca della gonna, quindi compose il suo numero….poi riagganciò.
-Meglio così…- pensò, avvampando, nella convinzione che a chiamarlo avrebbe dimostrato una eccessiva sfacciataggine.
Digitò un rapido sms:
 
Mio padre sta andando alle corse dei cavalli nel distretto di Fukuia, ma non so da quale spalto assisterà. La corsa inizia alle 11.30.
 
Poi lo cancellò, scuotendo il capo tra sé e sé.
No, non gli avrebbe inviato un sms.
Gli avrebbe telefonato.
 
 
§§§
 
 
 
“Ma chi si crede di essere?!” lo sbuffo seccato le arrivò chiaramente attraverso la cornetta del telefono senza fili, che reggeva tra orecchio e spalla.
Da mezz’ora continuava a sciacquare lo stesso piatto, che non solo era stato ripulito da ogni traccia di cibo, e di sapone; molto presto si sarebbe ossidato!
“Perché non vieni a vivere da me? Te l’ho detto mille volte…”
“…e io mille volte ti ho detto di no! Non posso  lasciare papà da solo, mamma! Si è dimenticato dell’apputnamento, ma avrà avuto di sicuro da lavorare e…”
“Da lavorare? Ran, da una settimana gli ricordo che oggi doveva venire qui in ufficio per ascoltare la mia cliente. Anzi, doveva esserne onorata! Anziché suggerirle di rivolgersi ad un detective con la d maiuscola, le ho combinato un incontro con lui! Gli trovo il lavoro, che lui non si merita! Se pensa di passarla liscia anche stavolta, si sbaglia…”
Sua madre, Eri Kisaki, era soprannominata La regina del foro. Era l’avvocatessa più stimata e riconosciuta, ma per questo aveva anche molti clienti, poco tempo libero, e una grande intransigenza.
Spesso si era chiesta come, all’inizio, lei e suo padre si fossero trovati: i loro caratteri erano quelli che molto gente avrebbe definito come incompatibili.
“Sono sicura che è stato trattenuto in centrale.”
“Rincaserà ubriaco fradicio, Ran.”
La ragazza posò il piatto, ma non chiuse il rubinetto dell’acqua; la mente continuava a pensare ad altro, sebbene le parole pronunciate alla madre fossero sensate.
Sperava che Kogoro stesse facendo tardi per via di Shinichi; che si fossero incontrati, si fossero parlati, si fossero alleati. Non era preoccupata, non per la salute del padre, quanto meno; ma era agitata, trepidante. Le sarebbe tanto piaciuto che anche l’uomo cambiasse idea su Shinichi, che finalmente capisse che bella persona era, e che…
“Suonano alla porta, mamma! Dev’essere lui!” cinguettò allegra, desiderosa di buone notizie, in quel senso.
“Oppure gli agenti che sono stati costretti a scortarlo a casa perché non infastidisse le ragazzine in minigonna.”
“Mamma…”
“Buonanotte, Ran. E pensa a quello che ti ho detto.” L’avvocatessa riagganciò senza darle tempo di rispondere.
In un lampo chiuse l’acqua e si precipitò alla porta, per accogliere suo padre, burbero come al solito.
“Quanto ci hai messo, che stavi facendo?”
“Ero al telefono con la mamma, papà! Ti sei dimenticato di andare da lei!”
“Non mi sono dimenticato, non ci sono andato e basta. Crede di farmi l’elemosina? Si sbaglia di grosso, non ho bisogno dei clienti che mi procura lei! Sono un grande investigatore, il migliore di tutti, e non ho bisogno di niente da lei!”
Questi erano Kogoro ed Eri.
L’uomo filò dritto in cucina, accucciandosi sul tatami con l’intenzione di mangiare immediatamente, ma, pur la tavola apparecchiata, i piatti erano vuoti.
“Non ceniamo questa sera?”
“Sì, papà. Ti faccio subito il piatto.” Sbuffò lei, rassegnata. In altre occasioni avrebbe insistito in favore di sua madre, cercando di fargli capire, anzi di ricordargli, quanto fosse orgogliosa; e come quello fosse il modo che aveva per dimostrargli il suo affetto, e la sua stima. Ma in quel caso c’era qualcosa che le premeva di più, perciò lasciò correre.
“Dove sei stato oggi?”
“Con l’ispettore, come al solito.”
“In centrale, quindi?”
“In centrale, sì.”
“Davvero?”
Il dialogo s’era svolto senza che si fossero guardati negli occhi; allora Ran trattenne la ciotola di riso tra le dita mentre Kogoro cercava d’afferrarla, in modo tale da costringerlo a sollevare lo sguardo.
Vacillò.
“In centrale. Sì.”
Ran sospirò, afflitta. Forse Shinichi lo aveva seguito di nascosto; forse aveva altri impegni e non era andato, forse aveva cambiato idea. Eppure quando l’aveva avvisato, lui era stato molto laconico, come se avesse deciso di raggiungerlo immediatamente:
“Bene, ho capito! Ti ringrazio di cuore, Ran.”
“…e poi tornando indietro ho incontrato il tuo amico.”
Il cuore ebbe un tuffo.
“Il mio…amico?”
Era avvampata.
“Quel ragazzino che gioca a fare l’investigatore.” Fece una pausa. “Abbiamo parlato un po’.”
“Di cosa?”
“Lavoro. Volevi ti offrissi in sposa?” la incenerì con gli occhi.
“Non essere sciocco, papà!”
Kogoro fingeva di non accorgersi, ma sapeva da quanto tempo Ran seguisse le gesta del giovane. Ignorava, certo, i loro rapporti, ma sapeva che lei nutriva un debole per lui. Lo sapeva benissimo;  e la cosa lo infastidiva molto.
“Abbiamo parlato un po’ dell’indagine. E poi mi ha dato il suo indirizzo, se dovesse servirmi.” Si fece sfuggire.
“Perché dovrebbe servirti?”
“Non ti riguarda, tu di indagini non ne capisci niente! E ora, lasciami mangiare.” Troncò il discorso, e inutile fu cercare di riprenderlo.
Ma nella mente della karateka si era fatta largo un’idea che, più avanti nel tempo, avrebbe sorpreso persino lei stessa; un’azione propria più di Sonoko che non di Ran. Ma forse per via dei suoi consigli, forse per il soggetto in questione, che di ora in ora le appariva sempre più affascinante, forse per ripicca contro suo padre, forse a causa di tutti questi fattori insieme…quella notte frugò silenziosamente nelle tasche di ogni pantalone, giacca e cappotto di suo padre finchè non trovò il suo biglietto da visita; l’indirizzo troneggiava in corsivo sotto il suo nome: via Beika 2/21.
 
§§§
 
“Avanti, avanti, Minnie! CAVALCA!” Ruggì Kogoro,  sbracciandosi come preso da attacchi epilettici dal più alto degli spalti: si rifugiava sempre lì, con un cappottone marrone in stile Commissario Maigret, e un paio di occhiali da sole bel calcati per coprirgli il volto. In realtà, era presumibile ritenere che, anche se si fosse seduto in prima fila a faccia ben scoperta nessuno l’avrebbe riconosciuto; o se l’avessero riconosciuto, quelli che in totale sarebbero andati a chiedergli l’autografo ed importunarlo sarebbero stati probabilmente due. Nel corso di due mesi. Ma a lui piaceva cullarsi in questa idea di necessario anonimato; e si conciava a quel modo, senza capire che così vestito di un abbigliamento tipico dei film d’azione di quart’ordine, che vantavano un cast di attori smarriti nel tempo e negli spot pubblicitari di patatine e mobili usati, dava ancora più nell’occhio; anche i fantini in gara alzando per un istante gli occhi l’avrebbero notato per pensare: "Ma quello...?".
“Ma lei non è il detective Mouri?”
Una voce alle sue spalle lo richiamò.
Si voltò con uno sbuffo seccato, quando dentro di sé il suo ego aveva preso a gonfiarsi di voli pirotecnici circa la sua fama e, soprattutto, il suo favore in tutto il Giappone.
“Oh…sei tu.” Rimase deluso quando si ritrovò di fronte Kudo.
Il detective più giovane era vestito in maniera estremamente normale; e lui, di cercare di passare inosservato, avrebbe avuto motivo. Ma non c’è nulla di più sfuggevole dell’ovvio*, e nessuno lo sapeva meglio di Shinichi: abbigliato normalmente, avrebbe attirato ancora meno l’attenzione.
Jeans neri e giubbetto in pelle da moto; occhiali da sole e casco sul braccio destro.
“Ti ho visto mentre scendevo le gradinate. Posso darti del tu, vero?”
“Preferirei di no.” Tagliò corto, tornando a rivolgere gli occhi sulla gara e dando a lui le spalle.
Shinichi rise.
Gli si affiancò, proseguendo:
“Ha ragione. L’età si rispetta.” Che voleva significare: Se ti do del tu, è perché sei più grande –vecchio!- di me, non certo perché sei migliore.
Mouri lo capì subito; si voltò con occhi infiammati verso il giovane, per rispondere a tono, ma vide sul suo volto dipinto un sorriso divertito; non derisorio, ma affabile.
Si sfilò gli occhiali per scrutarlo negli occhi:
“Ora ho la sua attenzione, Mouri-kun!”

L’uomo sospirò, piegando la bocca in una smorfia infastidita.
“Segue sempre le corse?”
“Sì. Mi piace venire qui.”
Poi, titubante se troncare o meno il dialogo, decise infine di proseguire.
“E tu, ragazzino?”
Shinichi sorrise tra sé e sé, notando che mai lo aveva chiamato per nome, né tanto meno per cognome. Gli appellativi erano: ragazzino, ehi tu, oh. Una volta, la prima volta in cui si erano incontrati, l’aveva addirittura apostrofato ‘sbarbatello’ con l’ispettore Megure; pensando di non essere sentito da lui, aveva detto all’omone: “Ma è sicuro che possiamo fidarci di questo sbarbatello?”
“Non vengo molto spesso, in realtà. A me piace il calcio. Ci ho anche giocato, fino a un paio di anni fa.”
“Eri bravo?”
“Non me la cavavo male.” Evitò di dire che era stato richiesto per entrare nei Tokyo Spirits, ma che aveva rifiutato perché riteneva il calcio utile solo all’allenamento necessario per inseguire i criminali. Aveva interrotto quando aveva cominciato ad imparare il Jeet Kune Do* , ma l'impossiblità del suo maestro a proseguire gli allenamenti l'aveva costretto di nuovo all'immobilità. I nemici si facevano più forti e lui doveva essere in grado di difendersi.
“Io non so andare a cavallo, ma mi piace guardarli. E mi piace anche scommettere.”
“L’avevo intuito…” ammiccò Shinichi, ricordando il modo scomposto con cui si stava sbracciando per tifare prima che lui lo salutasse. Ci fu una breve pausa; poi, Kudo pensò che fosse giunto il momento di testare le cose.
“Mouri. Ci sono alcuni punti dell’indagine che non mi sono molto chiari.”
“Parli della rapina?”
“Sì. Perché rapinare  di sabato mattina? Capisco ci sia poca gente, ma a maggior ragione: di solito più clienti significano più ostaggi. Perché rinunciarvi? E poi, leggendo i rapporti che l’ispettore Megure mi ha fornito, ho scoperto che dentro la banca è entrata una persona soltanto…la donna che è poi stata ritrovata uccisa nel capannone. Lo testimonia il fatto che il proiettile che l’ha uccisa appartiene alla sua stessa pistola, probabilmente il complice o gliel’ha sottratta, o gliel’aveva prestata in precedenza. Ma perché il complice l’ha aspettata in macchina? Perché non è entrato con lei? E quando poi ha sentito il colpo provenire dall’interno della banca- quel proiettile che abbiamo ritrovato conficcato nella colonna e che ci ha permesso il confronto- perché non l’ha raggiunta? Perché l’ha lasciata sola? Non è ragionevole.
Se avesse voluto ucciderla avrebbe fatto meglio a fingere un incidente durante la rapina stessa, o a inscenare un incidente automobilistico. Perché freddarla in un vecchio capannone?”
“Forse credeva che così facendo il cadavere non sarebbe stato rinvenuto.” Kogoro cercò di seguirlo nei suoi ragionamenti, anche se il cervello di Shinichi lavorava più velocemente del suo.
“O almeno non subito. Hanno commesso la rapina di sabato mattina perché erano inesperti e non erano interessati agli ostaggi, ma solo ai soldi…e avere meno gente tra i piedi gli avrebbe potuto rendere l’opera più facile, nella loro opinione. E la donna è entrata da sola perché…beh, forse l’altro faceva da palo. Lei pensava di potersela cavare da sola e di non avere bisogno d’aiuto. E’ come hai detto tu, la spiegazione più probabile: si mettono d’accordo, si dividono i compiti, eseguono la rapina e durante la fuga litigano, allora lui la ammazza e poi scarica il corpo in quel capannone, convinto che, essendo abbandonato, nessuno l’avrebbe trovato, e il tempo tra la morte ed il rinvenimento gli avrebbe fornito il tempo necessario per scappare.”
“Non è detto. Non abbiamo ancora ritrovato l’automobile, forse la donna è stata uccisa nel capannone. Dovremmo perquisire la macchina con il luminol per essere sicuri che le abbia sparato lì dentro.”
“Certo, certo.” Si corresse in fretta Kogoro “è quello…è quello che intendevo.” Balbettò.
Il volto del ragazzo, da corrucciato e teso che era divenuto, tornò affabile.
“Comunque, speriamo di trovare presto qualche traccia che ci indichi la strada da seguire.”
Quella frase fu di troppo. Avendo parlato del capoquestore Ikari pochi giorni prima, Kogoro interpretò subito quell’affermazione in maniera singolare, e gli domandò immediatamente:
“Non ti fidi della polizia?”
Ecco a cosa aveva portato quel discorso.
-Questo ragazzino sa che…?-
Kudo sorrise; fu un’espressione del volto malinconicamente distesa.
“Non di tutta.”
 
 
Ran non sapeva niente del dialogo avuto tra i due uomini, né sospettava fossero arrivati a parlare del capoquestore. Ma era curiosa…e preoccupata. Sino al giorno prima aveva avuto la certezza di poter conservare un legame con Shinichi in virtù del favore che lui le aveva chiesto: metterlo in contatto con suo padre. Ma quando quel contatto si fosse stretto con Kogoro direttamente, che ruolo avrebbe avuto lei? E se non lo avesse più rivisto? E se non ci avesse più parlato?
Per tutta quella mattina trascorsa a scuola, non fece che ficcare la mano in tasca per assicurarsi che il foglietto con l’indirizzo di Shinichi fosse ancora  in suo possesso –come se non lo ricordasse nitidamente a memoria. Ma quel biglietto da visita era qualcosa di reale.
E’ possibile concretizzare qualcosa che è di per sé intangibile? Felicità, speranza, sogni, paure…come li quantifichi? Come li rendi vivi, visibili ai tuoi occhi? Sono sentimenti e sensazioni che svaniscono in un lampo, così come all’improvviso sono comparsi.
Quel foglietto di carta era il suo legame concreto con Shinichi Kudo.
Stava tornando verso casa a lezioni concluse quando le squillò il cellulare.
“Ran! Sto andando dall’ispettore Megure, mangia pure qualcosa fuori con la tua amica riccona, se vuoi.”
“Perché? Ci sono novità sull’indagine?”
“Sì.” Non stava più nella pelle dal dirle le novità; e non certo per l’inchiesta in sé…
“Quel tuo amichetto si era lasciato sfuggire un indizio importantissimo! L’agente Furuya* questa mattina ha avuto un’illuminazione ed è andato in obitorio per riesaminare il cadavere della ragazza; le ha trovato addosso un cellulare che a lui, che ha esaminato il corpo quando è stato trovato, era sfuggito, evidentemente.” Sottolineava quella mancanza con boria e soddisfazione.
“Ne hanno estratto i tabulati e pare che l’ultimo numero chiamato appartenga ad un certo Oki Ruroshi. E’ proprietario di una villa piuttosto modesta ai confini della periferia. Andiamo a farci quattro chiacchiere.”
Non le diede il tempo di rispondere, proprio come sua madre aveva fatto la sera prima, che le riagganciò in faccia. Ma a lei non importò; pensò solo:
-Possibile che Shinichi non se ne sia accorto?-
Decise senza quasi rendersene conto di andare a casa sua: la mente le diceva di avvisarlo delle novità e ragguagliarlo dell’errore commesso, il cuore le suggeriva di utilizzare qualunque possibile pretesto per rivederlo.
Girò i tacchi e si diresse in via Beika; non era troppo lontana dalla sua scuola.
-Ok, Shinichi probabilmente non aveva visto quel telefonino. E con questo? Non gli è concesso un errore?
Quando qualcuno è bravissimo, le persone attorno a lui diventano ancora più severe: e gli sbagli che in altri sono immediatamente giustificabili, se commessi da lui diventano gravissimi. Non si è comportato da gradasso, reclamando di sua proprietà l’indagine e volendo tenere tutte le informazioni per sé. Appena ha sospettato che il caso dell’assassinio su cui stava lavorando e la rapina analizzata da mio padre e dall’ispettore potessero essere collegate, li ha avvisati subito, chiedendo la loro collaborazione. Anzi, offrendo la sua, di collaborazione. Non mi pare atteggiamento di una persona boriosa che vuole fare tutto da solo, con le sue forze. A papà è antipatico a prescindere…me ne dispiace molto. Ma è un errore soltanto, e come tale va computato.-
E non elucubrava questi pensieri per giustificare Shinichi ad ogni costo, o peggio ancora, per giustificare se stessa e difendere in un’ aurea cornice l’idea che si era fatta di lui. Lo pensava spontaneamente, senza volontà polemiche, senza risentimento; era una semplice considerazione che le occupò la mente finchè non raggiunge Villa Kudo: una meravigliosa abitazione in stile occidentale, dall’ampio cortile tutt’intorno, e un grande cancello ad isolarlo dalla strada, comunque poco trafficata.
Ne rimase affascinata; ma molto presto qualcos’altro attirò la sua attenzione.
“A presto, Hidemi.”
La voce di Shinichi.
Si affacciò oltre il cancello e vide il detective sulla soglia della porta, in camicia bianca e pantaloni eleganti. I piedi però erano nudi. Di fronte a lui una donna molto alta, e bella, avvolta in un tailleur elegante e molto raffinato, che le evidenziava le curve.
Gli stava dicendo qualcosa, ma parlava a voce talmente bassa che non riuscì a cogliere le parole; le dava  le spalle, perciò non fu capace di leggerle le labbra. Mentre si sporgeva di più, lo stomaco le si contorceva.
-Chi è questa donna?!-
Non pensò di avere a che fare con un detective…con Il Detective. Dopo cinque secondi che tentava di spiarli, lui si sentì osservato e mentre ancora la giovane gli parlava, lui volse gli occhi oltre le spalle di lei, e vide la liceale.
Contemporaneamente lui sgranò gli occhi e lei avvampò:
“Ran!” la chiamò, interrompendo la mora di fronte a lui che, allarmata, si voltò. La giovane la vide in faccia: era altrettanto bella. Un volto chiaro, gli occhi azzurri e meravigliosamente truccati. Le parve di conoscerla.
-Ma certo! E’ un’attrice…- realizzò, cercando nella sua mente il nome che la gelosia le impediva di ricordare.
Shinichi poggiò una mano sulla spalla della donna, e la rassicurò:
“E’ la figlia di un collega.”
Quella presentazione le diede sui nervi. Dal canto suo, Hidemi parve rasserenata.
“Buonasera, signorina…Ran, giusto?”
“Esatto.” Mugugnò a mezza bocca, i pugni distesi lungo i fianchi.
“Si è fatto tardi, io devo andare.” Tornò a rivolgersi al ragazzo, che le sorrise:
“Certo. Buona serata…e buon lavoro.” Aggiunse repentino, con un mezzo sorriso “Ti accompagno.”
E non curandosi d’essere scalzo, la scortò lungo il vialetto sino al cancello; le aprì galantemente la porta e la fece uscire.
“Arrivederci, signorina Ran.”
“Salve.” Le rispose seria, infischiandosene del sorriso gentile che l’attrice le aveva rivolto. Rimase immobile a guardarla andare via, salendo in una macchina blu metallizzata di gran classe.
“Alle coincidenze, io non credo.” La richiamò Shinichi, appoggiando la testa alla mano che ancora reggeva il cancello.
“Perché sei qui?”
“Chi è quella donna?”
“Perché sei qui?”
“Mhm…” Ran non rispose, tornando a guardare l’automobile guidata da lei che, proprio in quel momento, passava davanti alla villa. I due si salutarono di nuovo con un sorriso.
“E’ la tua amante segreta? Si è spaventata perché pensava che fossi una giornalista in caccia di scoop?” cercò di scoprire, nelle sue intenzioni quella di fingersi pettegola e sfacciata quando a muoverla era solo l’acuta e profonda gelosia.
Shinichi le regalò un sorriso impertinente.
“Vuoi entrare, Ran?” E, terza persona a non attendere una sua risposta, le diede le spalle facendole strada verso la porta.
Lo seguì, allo stesso tempo imbarazzata ed elettrizzata. Ma non riusciva a non pensare che Shinichi indossava una camicia bianca, sciattata e sbottonata di parecchio; ed era scalzo. E aveva appena salutato una bella donna, probabilmente prima entrata in casa sua.
La testa volò a quel che dentro quella casa poteva essere successo, a quel che poteva essersi consumato in quelle mura. E lo stomaco le mandò segnali di dolore.
“Scusami, non sarei dovuta piombarti qui all’improvviso.” Si decise a dirgli, mentre varcava la soglia dell’abitazione. “Avrei fatto meglio a telefonarti.”
“Non ti preoccupare.”
Chiuse la porta alle sue spalle con un colpo secco, e la guardò negli occhi:
“Hidemi non è la mia amante.” Le rivelò.
Ran arrossì; desiderò ardentemente che quell’affermazione accompagnata dall’azione decisa volesse nascondere qualcosa come: “Lei non è la mia amante, io non sono fidanzato e non ho nessuna donna a cui dovere fedeltà. Ed ora sei tu la donna che è qui, in casa mia, chiusa in casa mia.”
Ma scosse violentemente il capo, cercando di tornare coi piedi per terra.
“E chi è?”
“Un’amica.”
“E’ un’attrice.”
“Una cosa non esclude l’altra.”
“Le attrici sono sempre coinvolte in torbide relazioni con uomini famosi.”
“Mia madre era un’attrice.”
“Lo so.”
Le lanciò un’occhiata divertita, e lei si corresse: “Cioè…devo averlo sentito da qualche parte.”
Così battibeccando giunsero in salotto, dove Ran rimase a bocca aperta di fronte ad una libreria spaventosamente enorme. Solo allora ricordò che suo padre, Yusaku Kudo, era uno scrittore.
“Dimmi, Ran. Vuoi qualcosa da bere?”
Uno scrittore e un’attrice che l’avevano educato secondo i modi galanti e chic dell’alta borghesia cui la loro famiglia apparteneva.
“No, Shinichi. Ti ringrazio! Ma devo urgentemente parlarti.”
“Ebbene, dimmi.”
“L’ispettore Megure ha rinvenuto, per opera dei suoi agenti, un telefono cellulare sul corpo della donna uccisa. In base a quello sono arrivati ad un certo…Ruii…mh, non ricordo il nome preciso, ma comunque un uomo che possiede una casa in periferia, e sta andando da lui. Aspetta…Oki Rurushi!”
Shinichi era impallidito di colpo:
“Un cellulare?!”
Lei annuì.
“Mi pare che fosse l’ultima chiamata in uscita quella fatta a questo signore…”
In un batter d’occhio si infilò la giacca e prese il cappotto.
“Vai da loro? Non so di preciso l’indirizzo…”
“Non importa, potrò facilmente reperirlo con una telefonata.” Sembrava parlare più con se stesso che con lei, che avrebbe voluto in qualche modo rassicurarlo:
“Calmati, non è colpa tua. Ti sono venuta ad informare subito, sei al loro stesso passo, non preoccuparti!” ma temette di farlo innervosire, e non seppe partorire nient’altro. Quindi tacque.
Lo osservò muta mentre afferrava il casco e qualche altro oggetto dal cassetto della scrivania, posizionata di fronte quell’enorme libreria-biblioteca personale.
“Non vorrei sembrarti scortese, Ran, ma a meno che tu non voglia rimanere qui in casa mia da sola, sono costretto a chiederti di uscire.”
“Ma certo, ma certo! Scusami Shinichi!” fece retro font, con lui al seguito.
“Tutt’altro!” chiuse la porta di casa alle loro spalle, dopo aver afferrato le chiavi al volo. Calzò il casco, e si affrettò lungo il vialetto: “Sei stata molto gentile, oltre che utile, ad avvisarmi.”
Saltò in sella alla moto e mise in moto allo stesso tempo: “Grazie di cuore, Ran!” le gridò mentre partiva in direzione centro.
 
§§§
 
I poliziotti, con al seguito Kogoro, parcheggiarono proprio all’angolo della villa, piuttosto dissestata e simile ad un vecchio capannone.
“Che aria spettrale…” commentò Kogoro, slacciandosi la cintura di sicurezza. Fece per scendere dalla vettura, ma l’ispettore lo bloccò.
“Fermo, Mouri! Guarda.”
Di fronte al cortile incolto e colmo di erbacce, due macchine parcheggiata in mezzo al campo e, attorno, tre uomini a discutere. Tre brutti ceffi.
“Scendiamo silenziosamente senza farci vedere e stiamo pronti ad intervenire. Ma rimaniamo immobili per il momento.” Ordinò ai suoi uomini e, indirettamente, anche a Kogoro. Poi gli additò una chiavetta USB che l’uomo biondo tra i tre, reggeva tra le dita:
“Potrebbero esserci le prove della rapina, se quelli sono complici dell’assassino. Magari le registrazioni di video-sorveglianza della banca, o i dati che hanno usato per raggirare la sicurezza. Puntiamo a quella.”
Si accucciarono sulle ginocchia, celandosi dietro gli pneumatici.
“Non interveniamo, o potrebbero scappare e distruggere le prove. Non devono vederci.”
D’un tratto una mano afferrò Kogoro per una spalla, e lui trasalì.
“Che cosa ci fai tu, qui?!” sbraitò, tirandola per un braccio affinchè s’accucciasse anche lei.
“Mi hai fatto venire un infarto, ma che idee ti vengono?!” non attese la risposta: “Sei pazza, perché sei qui?” insistette, stringendo la presa.
“Io volevo…” balbettò lei, in difficoltà. Non aveva pensato ad una scusa, eppure non si sentì in colpa, né si pentì.
Era lì per Shinichi.
Avrebbe aiutato quel ragazzo coraggioso con le unghie e con i denti.
“…volevo essere d’aiuto.” Non mentì, omettendo il soggetto della sua frase.
“Aiuto in cosa?! Come hai fatto a sapere che eravamo qui?”
“Io…sono venuta in centrale, e Reika-san mi ha detto che…”
Era vero.
Ma intervenne l’ispettore: “Silenzio, Mouri, o ci scopriranno. Ran-chan, questo non è un gioco, non dovevi permetterti di venire sin qui. Ma oramai non puoi più andare via, perciò resterai, ma in silenzio.” Tornò a rivolgersi a Kogoro:
“Non dobbiamo farci vedere. Non si tratta soltanto della rapina, lo sai. Dobbiamo pazientare a capire a cosa, e soprattutto a chi, ci porteranno questi ceffi. La fretta non aiuta, ora non possiamo far altro che aspettare.”
L’uomo annuì, poi lanciò un’occhiata ammonitrice alla figlia.
“Ok ok…starò zitta! Promesso. Non dirò una parola e non farò rumore.”
Si volse dunque ad osservare la situazione: muniti di pistole armate e binocoli, gli agenti non staccavano loro gli occhi di dosso. Quei tizi, dal canto loro, comunicavano concitatamente tra loro; poi si diressero verso un vecchio armadietto, pur munito di combinazione. Dopo averlo aperto ne estrassero una scatola di cartone, e la poggiarono a terra. Quello più basso si rivolse al biondo, che annuì e tirò fuori dalla tasca una chiavetta USB.
Furuya scattò sulle gambe e mirò, la pistola pronta a fare fuoco; ma Megure velocemente gli pose una mano sul braccio.
“Non ancora!” sussurrò.
In quel momento, Ran percepì qualcosa. Non propriamente un rumore, fu piuttosto una sensazione. Non seppe il motivo, non lo comprese neppure quando ci ripensò a posteriori; eppure, per qualche ragione, si voltò verso sinistra, e le sue pupille si dilatarono: ecco Shinichi comparire dall’angolo opposto, proprio dirimpetto ai due uomini, a destra degli agenti di polizia, i quali, si accorsero della sua presenza soltanto quando udirono un rombo, forte e rapido, come fosse un tuono che squarcia velocemente il cielo, ma sancisce la fine del temporale.
Il detective sparò quel colpo con estrema precisione, le ginocchia leggermente flesse e un gomito ad angolo retto per reggere il rinculo dello sparo, mentre l’altro braccio, teso, aveva assicurato al proiettile di colpire in pieno il bersaglio.
Il colpo sfiorò l’uomo biondo, facendogli volare dalle mani la pennetta USB che gli agenti avevano puntato.  Non fece in tempo a voltarsi che un secondo sparo colpì il compagno col cappello, causandogli un graffio sulla guancia sinistra, per poi infrangersi sul metallo del capannone.
“Ma che diavolo sta facendo?!” Megure lo scrutò per lungo tempo, basito.
“Ama le entrate in scena, il tuo amico!” Kogoro la rimbrottò, lanciandole uno sguardo velenoso, quasi avesse sparato lei stessa. Il tono di voce era duro, intransigente:
“Possibile non capisca che così facendo capiranno di essere braccati e distruggeranno le prove?!”
Uno degli uomini vestiti di scuro ordinò qualcosa ad un altro del gruppo, che prontamente si diresse verso lo scatolone a terra estraendone un cellulare che, con decisione, calpestò sino a ridurlo in un grumo di circuiti e sensori.
“Maledizione!” gemette Megure, tutti gli agenti in allarme.
“Cosa facciamo, signore?” lo incalzò Furuya “Interveniamo anche noi?”
“A questo punto, tanto vale.” Si alzò in piedi, estraendo la pistola dalla fodera.
“UOMINI! Cercate di salvare almeno la chiavetta, recuperatela intatta!”
Come se l’avessero sentiti, provvidero a distruggere anche quell’ultima importante prova, dandola alle fiamme d’un accendino celato nelle tasche.
Lo scontro fu impari: un paio di proiettili volarono, qualche minaccia, un “Fermi, polizia!” che non valse alcun che. In poco tempo quel gruppetto di uomini saltò nelle due automobili scure, e scomparve dietro un grande polverone.
Nessuno provò a rincorrerli. Neanche Shinichi.
Ran, allarmata e con il cuore in tumulto, si voltò per scrutarlo: il braccio con l’arma lungo il fianco, l’altra mano sulla vita e lo sguardo  proiettato lontano, preoccupato. Prima che Kogoro la strattonasse rudemente verso la volante, riuscì a vederlo mordersi con violenza un labbro.
 
 
 
 
Seduta di fronte la macchinetta del caffè, al primo piano della centrale, la ragazza attendeva il padre da buoni tre quarti d’ora. Forse di più. Era ancora in riunione con Megure, e più di un agente si era allontanato dalla stanza timoroso, come se all’interno si stesse svolgendo un incontro concitato, nervoso.
Come se Megure fosse arrabbiato.
Nella sua mente in continuazione s’addensavano i colori a formare l’immagine di Shinichi, teso e nervoso, osservare la fuga degli uomini.
-E se anche avesse sbagliato?- ammise, per quanto le paresse strano.
-Perché si arrabbiano così tanto? Chiunque può sbagliare, e lui l’ha fatto in buona fede! Voleva arrestarli, e ha contato nelle sue capacità. Forse un po’ troppo…forse ha peccato di superbia. E con questo? E’ bravissimo, glielo riconoscono tutti. Non dovrebbero arrabbiarsi così tanto, non è giusto.-
Si ritrovò a difenderlo, senza esitazione. Sebbene, comunque, in lei una vocina le diceva che non poteva aver sbagliato; che doveva esserci qualcos’altro sotto, che l’apparenza fosse erronea.
…che Shinichi avesse agito di proposito nella maniera sbagliata…
Furuya uscì dalla stanza, il volto tirato e le labbra curvate in una smorfia di preoccupazione.
“Furuya-san!” lo chiamò Ran, scattando in piedi.
L’agente la notò solo allora, e si avviò verso di lei sorridendole cordialmente.
“Ran-san, tuo padre è ancora dentro. Credo ne avrà ancora per un po’…”
“Ma perché si arrabbiano tanto?” non finse neppure di essere poco interessata, le parole le travolsero la bocca inconsciamente.
Lui sospirò, grattandosi la testa. Evidentemente non poteva parlare. Eppure parlò:
“L’errore di Kudo è stato troppo grossolano…”
Fece per difenderlo, ma la prosecuzione le fece scivolare la borsa dalle dita.
“…per essere stato compiuto inconsapevolmente.”
“Bene!” sorrise, chinandosi per raccoglierla. “Aveva in mente qualcosa, dunque! Che piano?”
Furuya sospirò.
“Evitare che arrivassimo al vero mandante della rapina.”
“E perché mai dovrebbe impedirvi…?”
“Perché è loro complice.”
La borsa le cadde nuovamente dalle mani, ma lei non si chinò più a raccoglierla.
Rimase in silenzio per parecchi istanti, che divennero minuti. Come se stesse incassando il colpo.
Furuya interpretò quel silenzio come confusione; non sapeva del debole che lei nutriva per il ragazzo, e credette che la sua perplessità fosse originata dalla domanda: “Come può un investigatore, come è mio padre ad esempio, essere complice di criminali?” quindi decise di spiegarle le loro supposizioni:
“E’ evidente che si nasconde qualcuno di più imponente dietro questa rapina. Non mi perdo in dettagli, ma l’ispettore Megure ne è sicuro. Un pesce più grande che, per qualche motivo, dirige questo genere di reati, e ne trae profitto.”
Questo qualcuno, Ran lo sapeva, era il capoquestore Ikari.
 
“Tutto a posto, papà?”
L’uomo sollevò gli occhi dalla scrivania a quella che ancora soleva definire la sua bambina.
“Ti senti bene?”
“ Ikari Shima.”
“Chi è?” la ragazza iniziò a preoccuparsi. In realtà conosceva quel nome; ma sperava di sbagliarsi.
“Il capoquestore, Ran. Megure teme che potrebbe intromettersi nell’indagine, in qualche modo.”
“Perché dovrebbe?”

“Perché Kudo non piace ai piani alti.” Tagliò corto, con severità, come se rimproverasse lei dei metodi dell’investigatore più giovane.
“E il suo intervento potrebbe causarci dei guai.”
 
Possibile che fin da allora…?
“Ed è assurdo pensare che per così lungo tempo e in maniera così esponenziale abbia avuto successo nei suoi misfatti ed allo stesso tempo non si sia fatto scoprire, senza essersi avvalso dell’aiuto di qualcuno. Chiamali infiltrati, se vuoi, o spie…sono suoi complici, nei nostri ranghi, mischiati a noi, che fingono di volerlo arrestare ed in realtà lavorano per lui.”
Ran continuava a guardarlo perplessa ed allibita, e d’un tratto era impallidita.
L’agente continuò a non comprendere fino in fondo quella sorpresa dipinta sul suo volto bianchissimo, e si congedò con una semplice scrollata di spalle:
“Sai, probabilmente li paga bene. E ai tipi come Kudo…beh, li leggiamo tutti i giornali. Lo sappiamo che è un ragazzino arrogante, che si bea del suo successo e si fa grande della sua fama. Persone tanto famose hanno sempre qualche altarino da nascondere, e soprattutto il successo da loro alla testa. Non riescono a gestirlo. E senza rendersene conto, tradiscono la loro causa. Ad essere onesto, mi era parso strano che non avesse subito trovato quel cellulare addosso alla vittima…era in una tasca interna della giacca, facilissimo da rinvenire. Ora so che non ha sbagliato; l’ha visto eccome, ma l’ha tenuto nascosto.”
La porta della stanza si aprì, ed una giovane agente con i capelli raccolti in una coda di cavallo ne uscì.
“Karei-san! A che punto è, Mouri-san?” le domandò Furuya.
“Credo abbia quasi fatto, sta uscendo.”
“Oh, bene, Ran-san. Potete tornare a casa, aspetta ancora qualche minuto e vedrai che tuo padre uscirà.”
Si inginocchiò per raccoglierle la borsa, ma lei pareva assente.
“Che cosa…farete…ora?” riuscì a domandare, afferrando con mani tremanti il borsone.
“Ne prenderemo atto. Kudo se ne pentirà molto presto.” Rispose il poliziotto, deciso.
 
“Sono il miglior detective che tu abbia mai incontrato. Con tutto il rispetto per tuo padre, s’intende.”
 “Perché vuoi incontrarlo?”
“E’ molto importante per me, Ran.”
“Per caso, c’entra…”

“C’entra…?”
“Shinichi, io…”
“Non voglio ingannarlo, Ran. E non sono complice di nessun cattivo progetto. Te lo assicuro. Te lo giuro.” La incalzò.
“C’entra con Ikari?”
“Chi ti ha fatto questo nome?”

“Non ti pare di pormi troppe domande?”
“Ne avrei ancora di più.”
 
Lentamente si sedette, anzi: cadde pian piano sulle sua gambe, e per fortuna trovò la sedia a bloccare il movimento.
Si sentiva mancare.
“Arrivederci, Ran-san. Due minuti e tuo padre arriva.”
Le importava davvero di aspettare suo padre?
 
“Io credo che ogni persona che passa nella nostra vita sia unica. Lascia sempre un po’ di sé e si porta via un po’ di noi. Ci sarà sempre chi si è portato via molto, ma non ci sarà mai chi non avrà lasciato nulla. Questa è la più grande responsabilità della nostra vita, sapere cosa lasciamo a chi incontriamo. Ma la responsabilità che dobbiamo a  noi stessi è riconoscere cosa ciascuna persona può darci.”
 
Le importava davvero di aspettare suo padre?
No, non le importava.
Non ci pensò due volte, anzi neanche una: non pensò affatto, le venne spontaneo, come spontaneo è lo scroscio di un’ onda sullo scoglio che ne limita la forza d’urto. Ma in lei avvenne l’esatto opposto:  l’energia che quelle idee, quel pensiero, quel modo di concepire la vita –che nel modo di fare e nella condotta di Shinichi vedeva da anni riassunta-  non fu arginata da nessun ostacolo, e divampò violenta.
In un batter d’occhio fu in piedi e, senza curarsi che di lì a poco suo padre sarebbe rincasato, probabilmente al fianco di sua madre per la mensile litigata riguardo la decisione di tornare o non tornare a vivere con loro, uscì in tutta fretta dalla centrale di polizia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Precisazioni d’autrice:
 
 
*Frivola apatia: espressione psichiatrica propria del dottor Massimo Recalcati.
* così sperduta, gettata nel mondo, sola e senza scuse, era condannata ad essere libera: espressione sartriana.
* L’orizzonte le appariva libero, anche se non era sereno: espressione di Nietzsche in Così parlò Zarathustra.
*Non c’è nulla di più sfuggevole dell’ovvio: frase-manifesto di Sherlock Holmes.
*Quel che ho scritto sul calcio, è vero. Conan racconta ad Ai di aver ricevuto, e rifiutato, la proposta di giocare con la squadra. Quel che invece riguarda il Jeet kune do- arte marziale intuita e sintetizzata dal celebre sifu Bruce Lee negli anni sessanta - è di mia invenzione.
*Agente Furuya: altro agente di mia invenzione.
 
 
 
 

 
 

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Capitolo 6
*** Capitolo Quinto - Nell'occhio del ciclone ***


Capitolo Quinto – Nell’occhio del ciclone


 
 

«Non stentai a riconoscerla, anzi trasalii al primo vederla,
fu perché era tanto donna da non poter essere confusa con nessuna.»
Italo Calvino



 

No, non le importava.
Non ci pensò due volte, anzi neanche una: non pensò affatto, le venne spontaneo, come spontaneo è lo scroscio di un’ onda sullo scoglio che ne limita la forza d’urto. Ma in lei avvenne l’esatto opposto:  l’energia che quelle idee, quel pensiero, quel modo di concepire la vita –che nel modo di fare e nella condotta di Shinichi vedeva da anni riassunta-  non fu arginata da nessun ostacolo, e divampò violenta.
In un batter d’occhio fu in piedi e, senza curarsi che di lì a poco suo padre sarebbe rincasato, probabilmente al fianco di sua madre per la mensile litigata riguardo la decisione di tornare o non tornare a vivere con loro, uscì in tutta fretta dalla centrale di polizia.
Come quel pomeriggio, pioveva: non aveva cessato per un solo istante. Quasi noncurante delle gocce d’acqua che gelate le dipingevano forme senza senso sulle braccia nude e poi le si freddavano addosso come chicchi di ghiaccio, corse d’un fiato per tutto il corso Beika, raggiungendo la strada in cui dimorava lui.
Non passò neppure da casa; dalla centrale volò direttamente lì.
Trovò il cancello aperto e non si preoccupò di avvisarlo del suo arrivo; suonò direttamente alla porta principale, comprendendo che il ragazzo fosse sveglio dal momento che dalla finestra a piano terra filtrava la luce del salone.
Lui aprì la porta quasi subito, vestito solo di pantaloni del pigiama, o forse di una tuta un po’ mal ridotta, e una canottiera bianca attillata.
Non l’aspettava.
Quando la vide e realizzò che dietro la soglia del suo portone era davvero lei, strabuzzò gli occhi, sorpreso –lei lo notò subito.
“R-Ran!” si fece sfuggire, stranamente incapace di celare la sorpresa. “Che cosa ci fai qui?”
Era scalzo e profumava di doccia appena fatta. Quando aveva aperto la porta una fragranza l’aveva avvolta; e, se il momento e le condizioni fossero state differenti, Ran sarebbe stata talmente tanto affascinata ed intimidita allo stesso tempo da non riuscire a proferire parola e rimanere lì, ferma, immobile, in silenzio a fissarlo.
Ma il coraggio e la serietà delle frasi che doveva dirgli urgevano: parlò disinvolta, pur non riuscendo ad evitare di arrossire lievemente.
“Pensano che tu l’abbia fatto di proposito, Shinichi. Che tu abbia sparato addosso a quell’uomo per far saltare l’operazione!” riferì, concitatamente e con ardore.
Lui, con ancora la mano sulla maniglia della porta, la scrutò con sguardo serio; riflettè un paio di secondi con viso assolutamente neutro, bravo a nascondere qualunque fosse il pensiero che gli stava attraversando la testa. Come dopo attenta analisi, sospirò; di nuovo Ran ebbe l’impressione che dalla luce dei suoi occhi trapelasse quel vortice di pensieri velocissimi e pronti che le parole nascondevano, ma lo sguardo no.
“Entra.”  Le disse, facendosi da parte per lasciarla passare.
Non se lo fece ripetere due volte, e mise piede nella casa; non appena ebbe fatto un passo, Shinichi le richiuse velocemente la porta alle spalle.
La giovane pensò che tanta fretta fosse dovuta alla volontà di sapere di più, a capire perché; poteva immaginare la delusione di un uomo che dedica la vita al suo lavoro, che in realtà non vive come semplice mestiere e che per questa ragione crede in quello che fa, e quindi lo fa bene. Ineccepibile.
-Forse avrei dovuto prenderla alla larga…- si rimproverò, le mani strette in grembo.
Il detective si voltò di nuovo ad osservarla, stavolta con più facilità: la luce filtrata attraverso la porta non aveva totalmente sconfitto il buio della notte, e aveva potuto soltanto intuire quanto bagnata fosse la giovane. Ne ebbe la conferma e le diede le spalle:
“Vieni.” Le disse solo, facendole strada.
La condusse in salotto, o nella libreria. Come avrebbe dovuto chiamare quella sala? Nonostante il ricordo della prima volta lì dentro fosse ancora vivido, si stupì di nuovo di fronte quel mare magnum di libri, fascicoli, documenti e foto. Casa sua era come un archivio, una banca dati…eppure era quasi sicura che fosse di mera utilità pratica, al giovane. Consultare un dossier gli permetteva di risparmiare tempo, ma se non lo avesse comunque avuto a disposizione sicuramente la sua memoria non l’avrebbe abbondonato: ricordava tutto, ogni cosa, e nei dettagli.
“Siediti vicino al camino.” Notò solo allora il fuoco in fondo al salotto, non troppo alto ma abbastanza consistente da scaldare la casa. In effetti, appena entrata aveva subito percepito la differenza con l’esterno ed un piacevole tepore l’aveva riscaldata.
“Non so come si dica in termini tecnici, ma è di fatto questo quello che dicono.” Riprese il discorso da dove l’aveva interrotto, ignorando il suo consiglio perentorio.
Shinichi fece per parlare, poi richiuse la bocca senza dire nulla. Di nuovo quello sguardo dubbioso, quell’ombra di incertezza che cercava di celare dal giorno in cui l’aveva sottoposta a quell’improvvisato interrogatorio.
Quali considerazione celavano quei lampi di esitazione?
“Come lo sai?” le chiese, dopo attenta ponderazione. Evidentemente, stava scegliendo accuratamente le parole.
“Me lo hanno detto, in centrale. C’è anche l’ispettore Megure.”
I suoi occhi si dilatarono, incapaci di nascondere lo sbigottimento.
Ma tra tutte le domande che lei si aspettava, lui le porse quella che mai avrebbe immaginato:
“Sei venuta subito qui?”
“S-sì…” rispose, esitante.
“Da lì?”
Annuì ancora.
“Perché?” la incalzò.
“Per…per informarti!”
“Te l’ha detto tuo padre di avvisarmi?”
“No!” le dispiacque dover aggiungere: “Mio padre è d’accordo con l’ispettore…”
Se sperava in una solidarietà tra colleghi investigatori, sbagliava:  a Kogoro non piaceva già quando ne leggeva le imprese sui quotidiani, figurarsi nel momento in cui Megure gli aveva rivelato i suoi dubbi.
“Sono stati loro a dirti di venire? Per farmi in qualche modo…” ma lei non gli fece finire la frase:
“NO!” scandì con forza, avvicinandosi a lui “No, non è una trappola, Shinichi! Ti assicuro, ti assicuro che quello che ti dico è vero: loro pensano che tu sia coinvolto, che abbia dei legami di qualche tipo con quei rapinatori, che stai cercando di facilitarli. Cioè, non lo so cosa vogliono in realtà…ma io non sono qui perché me l’hanno chiesto. Sono qui per avvisarti di questo, in modo tale che tu possa…decidere opportunamente cosa fare. Ma nessuno, nessuno sa che io sono qui.”
“E perché?”
Immobile, austero: Shinichi non muoveva un muscolo.
“Come fai a sapere che non hanno ragione? Si tratta di tuo padre, dopotutto.”
La guardò intensamente e, per la prima volta, lei non abbassò lo sguardo e neppure arrossì: non era il momento per la pudicizia da adolescenti.
“Lo so e basta.”
“Ah, sì? E chi te lo dice?”
“Non dire sciocchezze…”
“Magari ora mi hai dato modo di organizzarmi ancora meglio con i miei complici, e hai rovinato l’indagine di tuo padre.”
“Impossibile. So da che parte stai.”
“Non da quella di Kogoro, ovviamente.” Lo chiamò per nome per enfatizzare ancora di più il concetto: per tutto quell’intenso scambio di battute, i due si erano guardati negli occhi senza mai interrompere il contatto visivo. E nel parlare, nessuno aveva esitato.
Il botta e risposta proseguì:
“Tu sei dalla parte della verità. Le appendici non contano.”
Non le rispose.
Le persone comuni- normali!- avrebbero reagito in mille modi, del tutto comprensibili: arrabbiandosi, dispiacendosi, persino diffidando…non si sarebbe meravigliata se Shinichi l’avesse cacciata, credendola una trappola ordita per metterlo sotto pressione e fargli sbagliare le mosse.
Ma lui non fece nulla di tutto ciò: Shinichi si morse un labbro, evidentemente volendo impedire ad un sorriso dei suoi di farsi largo sulla bocca chiusa.
“Mhm…” disse solo, portando le mani ai fianchi.
“Hai fatto male a venire qui.” Le disse quando il pericolo di riderle in faccia fu evitato.
“Perché? Io…io non volevo metterti ulteriormente nei guai!” si scusò subito, allarmata. Ecco perché sorrideva, perché lei era un’incapace, stupida ragazzina che della vita non sapeva niente!
“Vado via subito, volevo solo tu lo sapessi!” e senza neppure aspettare la sua risposta gli diede le spalle, sfrecciando in direzione dell’uscita.
Kudo le bloccò un polso, facendola voltare ed ergendosi di fronte a lei con sorriso…spavaldo.
“Io non sono in nessun guaio.” Le disse, spostando gli occhi sulla mano che le tratteneva il braccio.
Quindi strinse la presa, aggiungendo: “Ma tu sì. Se io fossi davvero colluso con quelli, tu saresti una testimone scomoda, per di più collegamento prezioso con Mouri e con la polizia.”
Con occhi vivaci la fissò mentre accompagnava le parole ad eloquenti movimenti del corpo; attirandola a sé, concluse il ragionamento:
“…e saresti nelle mie mani, ora.”
Lei non rispose, dandogli ad intendere che non contemplava assolutamente la possibilità che fosse amico di quei criminali. Ma lui  non parve soddisfatto. Con una rapidità che la spiazzò tanto da impedirle di reagire, le afferrò anche l’altro polso ma anziché avvicinarla a lui la tirò indietro, costringendola a camminare spingendole le gambe con le cosce.
La ragazza si ritrovò con le spalle poggiate alla libreria, incastrata tra gli scaffali ed il suo corpo, le braccia bloccate lungo ai fianchi dalla salda presa di lui.
Non la toccava con il corpo; ma, di proposito, le era talmente vicino che Ran poteva percepire chiaramente l’aria spostata dal movimento del torace di lui, che si alzava ed abbassava mentre respirava.
Non si toccavano in alcun modo, ma erano vicinissimi: e questo era peggio che esser a contatto.
Come quando sai che sta per succedere qualcosa, lo percepisci distintamente e sei consapevole sia questione di secondi: ma questo qualcosa non succede, e i secondi scorrono, e tu stai lì, impotente, inerme, e aspetti qualcosa che non capita, ma sai debba capitare. Una corda di violino tirata sempre di più, che non si spezza ma è praticamente già spezzata.
“Come puoi esserne sicura?” la incalzò “Come puoi sapere con certezza che non abbiano ragione? Che io sia davvero così per bene?”
Troneggiò su di lei, inserendole una gamba tra le ginocchia, facendo sì che i pantaloni della tuta andassero a toccare l’interno coscia nudo, sotto la gonna scolastica bagnata dalla pioggia.
“E se anche non fossi d’accordo con quei ceffi, come puoi presentarti qui, a quest’ora della sera, senza avvisare nessuno che sei qui, da me, sapendo di non rischiare? Come puoi sapere che non cercherò di trarre vantaggio dalla tua presenza?”
Spinse un po’ la gamba sulla sua, come per farle capire a cosa fosse andata incontro con cuore ingenuo.
“Alcuni lo dicono, sai? Che sono libidinoso, e gaudente. Che sono…”
“…che sei un ragazzino arrogante, che si bea del suo successo e si fa grande della sua fama. Sbagliano.” Ripose lei, subito.
“Ah, sì? E allora la donna dell’altro giorno?”
“Se…se c’è stato qualcosa tra voi…” quella possibilità effettivamente non poteva escluderla, e la feriva. Ma la conclusione non era immorale, tutt’altro: “…anche lei lo deve aver voluto. Non credo faresti qualcosa ad una ragazza che non vuole. Lo so.”
E non era una minaccia. Chiaramente, Ran non aveva paura; Shinichi stava cercando di spaventarla, innestarle il dubbio di aver commesso un grosso errore, ma non c’era riuscito neppure per un secondo.
Lei si fidava di lui, completamente; e solo allora Shinichi lo capì. Aveva, sin da quel giorno in palestra –sì, l’aveva vista, con la coda dell’occhio, sobbalzare alla sua vista e nascondersi sotto gli spalti per l’emozione!- capito subito che la giovane figlia di Mouri aveva un debole per lui: arrossiva quando parlava, non lo fissava negli occhi, fingeva di non guardarlo se non erano vicini e quando lui si voltava lei subito lo scrutava attentamente in volto. Dapprima non era stato troppo colpito: di fan ne aveva tante, una in più o in meno non avrebbe fatto differenza. Poi però aveva notato un atteggiamento diverso dalle solite ammiratrici che chiedono autografi, cinguettano, gioiscono della sua presenza: lei era forte, non lo assecondava se non era d’accordo con lui; non cercava a tutti i costi di apparirgli come credeva a lui potesse piacere, era lei soltanto: lo aveva intuito quando gli aveva chiesto, senza giri di parole, se il suo fosse un interrogatorio a sue spese; e lo aveva definitivamente capito nel momento in cui gli aveva negato il numero di telefono.
Da quel giorno, era rimasto colpito, in qualche modo, da lei: usarla per avere informazioni sui luoghi frequentati da Kogoro non era stata una conseguenza della sua influenza su di lei, ma un favore professionale chiesto con sincerità e disinteresse.
Pensava che gli avrebbe mandato un sms, invece gli aveva telefonato: si era assicurata che la situazione fosse tanto grave da richiedere quell’incontro fuori formalità per dirgli dove si trovasse il padre, e sebbene fosse palesemente in imbarazzo a trovarsi da sola a casa sua, aveva subito accettato di andare per sapere della questione.
E di fronte a tanta forza, non aveva saputo mentirle; aveva di certo omesso qualcosa –più di una cosa soltanto- ma quel che le aveva detto era vero. Nessuna bugia, nessun mezzuccio per ottenere l’informazione che voleva.
E anche allora: nessuna mossa studiata per cercare di colpirlo, nessuna battuta, nessun’allusione. Incuriosito da quel comportamento tanto compito per appartenere a una fan, non aveva resistito e si era lanciato in quel malizioso discorso approfittando della presenza di Hidemi, chiaramente a lei sgradita: ma niente, da parte di Ran neppure un piccolo segno di cedimento.
Immediatamente la curiosità si era tramutata in una sorta di strano rispetto nei confronti di una diciassettenne tanto forte; e non solo di spirito, ma anche di corpo. Se non avesse fatto attenzione, quel giorno al parco l’avrebbe atterrato: a lui, che combatteva contro i peggiori delinquenti ogni giorno!
E quando se l’era ritrovata alla porta, fradicia, concitata, a spiattellargli a macchinetta i piani segreti della polizia, per un istante aveva temuto che quel carattere tanto lodevole fosse stato deciso a tavolino per imbrogliarlo. Certo, quel giorno al bar le era parsa sincera: l’aveva scrutata con attenzione per tutto il tempo, ed era sicuro che davvero non sapesse nulla di Ikari, e che era certa suo padre non avesse legame alcuno con lui ed i suoi traffici- che anzi, sicuramente ignorava. Ma come poteva escludere che, a sua insaputa, Kogoro fosse dalla parte del capoquestore, e che insieme a Megure stesso, o senza, o con chissà chi altri, progettavano di usare Ran come capro espiatorio per metterlo in difficoltà e fargli compiere azioni affrettate, perciò rovinose? Ma ci aveva impiegato davvero poco tempo per capire che no, non era stato suo padre a dirle di venire. Non glielo aveva ordinato nessuno, l’aveva deciso da sola,  e gli stava dicendo la verità.
Quella sera, in quel momento, Ran gli stava dimostrando qualcosa di più: per un motivo che lui non riusciva veramente ad afferrare, si fidava ciecamente di lui.
Non lo avrebbe ostacolato.
“Non ti fidi di me, vero, Shinichi?”
Avrebbe potuto dirgli mille cose: dal “Levati, idiota, lasciami andare!” al “Sei un pazzo narcisista! Chi ti credi di essere?”, senza contare che avrebbe semplicemente potuto liberarsi con una mossa di karate.
Eppure, la cosa che trovò più urgente ed impellente in quel momento fu chiedergli se si fidasse di lei.
Questo, fu l’ultimo motivo che gli tolse ogni dubbio sul suo conto: quei lampi di esitazione che gli attraversavano rapidamente gli occhi prima di essere ricacciati in profondità, e che riguardavano i suoi dubbi sulla sincerità di Ran, crollarono.
Non nutrì più il minimo dubbio.
Erano ancora rimasti in quella posizione, e lei non si era allontanata al suo appressarsi: non si appoggiava agli scaffali, cercando riparo nella libreria. Lo guardava con genuinità e un pizzico di tristezza.
Le sorrise.
Per la prima volta, non fu il sorriso spaccone, o spavaldo, o saccente, o derisorio: o uno di quei mille sorrisi che comunque rispecchiavano il suo lato snob e sbruffone.
Le sorrise come sorrideva Shinichi, e non il detective Kudo.
“Mi fido.” Le disse semplicemente, e non potè ignorare gli occhi di lei illuminarsi.
Sospirò, come se si fosse cimentato in una grande rivelazione; in realtà, le mille elucubrazioni elaborate nel giro di pochi minuti –E’ qui per me, E’ qui perché gliel’ha detto suo padre, Sta mentendo, Ha sempre mentito, e poi la linea ascensiva: E’ qui per me, E’ sincera, E’ con me-  lo avevano turbato, affaticato.
Ran ricambiò il sorriso, poi avvampò, abbassando il volto; come se avesse realizzato solo allora, una volta scampato il pericolo, la situazione in cui davvero si trovava.
Lui le piaceva, e lui lo sapeva.
E in altre circostanze, quella consapevolezza, unita alle particolari occasioni della serata che stavano vivendo, avrebbe portato ad una conclusione soltanto.
Spostò l’attenzione sulle sue labbra, serrate pur in un sorriso contento dopo la risposta che le aveva dato.
Quindi si soffermò sul suo corpo; la giacca aperta e sbottonata per la corsa, la camicia oramai del tutto trasparente perché bagnata dalla pioggia a sottolineare i contorni del reggiseno, l’ombelico visibile.
Proprio mentre lui abbassava lo sguardo lei lo alzava, perciò si accorse subito di cosa Shinichi stesse scrutando, come la stesse scrutando. Ed erano ancora vicinissimi.
Le mancò il fiato, ma non fece nulla; immobile, cullata dagli eventi, rimase ad aspettare che lui terminasse di spogliarla con gli occhi, e sussultò quando le mani, dalla presa sui polsi, passarono a circondarle la vita.
Shinichi risollevò il volto, per incontrare lo sguardo speranzoso di lei; di nuovo, le sorrise sincero.
“Mettiti…mettiti vicino al camino.” Le disse per la seconda volta, allontanandosi da lei ed interrompendo ogni contatto fisico.
“C-come?” gli occhi ridotti a due puntini, Ran rimase un po’ delusa dall’esito di quel discorso; credeva che lui avrebbe…
“Cosa vuoi?” le chiese poi.
-Oh, è un modo per dirmi che posso anche togliere il disturbo…- comprese e, un po’ avvilita, si scansò dalla libreria. Ma Shinichi proseguì:
“Caffè? O thè? Forse ho della cioccolata solubile…”
“Eh?”
“Per scaldarti un po’, no? Mica vorrai riandare via così bagnata, e poi fuori sta ancora piovendo. Aspetta che smetta.”
 
 
Sulla poltrona vicino al camino, la ragazza si strinse un po’ nella coperta che Shinichi le aveva offerto prima di sparire oltre la porta del salone con la frase: “Aspettami, torno subito.”
Si guardò intorno, un po’ frastornata: aveva vissuto cinque minuti di piena adrenalina, e se ne stava rendendo conto solo a cose fatte.
Ripensò alla gamba di Shinichi tra le sue, al suo sguardo famelico sul suo corpo…alla frase: “Mi fido” pronunciata così sinceramente.
“Niente cioccolata, mi ero sbagliato. Ho trovato queste, però.” Il ragazzo irruppe nella sala rubandola ai suoi pensieri, che però la fecero sentire colpevole e quindi, la fecero anche divenire paonazza all’istante.
“Oh, grazie, non do-dovevi!” replicò, mentre lui poggiava sul tavolinetto di fronte il camino un vassoio con una teiera di acqua bollente e varie bustine di thè dalle fragranze diverse.
“Non sono bravo in questo genere di cose, perciò serviti pure da sola.” Le lanciò un mezzo sorriso imbarazzato – per la prima volta a disagio!- andandosi a sedere nel divano di fronte, ma lontano, da lei.
Ben lontano.
“Grazie.” ripetè lei, contemplando i vari gusti. Ma ancora pensando ai sospetti della polizia.
“A voi ragazze di solito piace quello alla curcuma e menta, vero? Mia madre voleva sempre quello…questa robaccia sono rimasugli suoi.”
“Viveva con te, vero? Ora, se non sbaglio, è a Los Angeles.”
“Esatto. Ogni tanto torna, però.” E lo disse con uno sbuffo, come se la cosa lo infastidisse anziché renderlo felice.
Calò il silenzio mentre lei sorseggiava la bevanda calda e lui, stranamente, distoglieva lo sguardo.
Ran non lo sapeva, ma lui si stava trattenendo: non meritava il comportamento riservato alle comuni fan, non con quella forza d’animo e quella fiducia smisurata che riponeva nei suoi confronti. Shinichi avrebbe fatto in modo di meritarsela, visto che la giovane gliel’aveva concessa a  scatola chiusa.
“Shinichi…” lo chiamò lei, dopo un po’.
“A proposito di quello che ti ho detto…come pensi di fare? Cioè, non voglio sapere i tuoi progetti.” Si affrettò subito “…ma, beh, ecco…ti…ti posso consigliare di fare attenzione?”
Lo guardò preoccupato, pensando di ritrovare rispecchiata la sua ansia negli occhi di lui. E invece niente: Kudo appariva sereno.
Ed il sorriso eloquente che le rivolse, dopo quella raccomandazione, la folgorò. Che lui…?
“Tu…sei, sei stato in centrale oggi, per caso? Eri lì quando Furuya …Tu sai che Furuya…”
“Sì, lo so. Ma sai, non mi sono fermato lì con loro, non sono soliti parlare benissimo di me."
Sapeva tutto. E in quella dichiarazione di consapevolezza, in lui tornò a dominare il detective orgoglioso e sicuro di sé, distaccato e scontroso.
"Tu...sai che..."
"Mph, credi che io  viva sulle nuvole? Dicono che io sia ancora più arrogante da quando sono amico suo. Un mese fa ero un eroe, ora improvvisamente uno sbruffone. Come si spiega quest'incoerenza? Io sono sempre io. Sono sempre stato un eroe, sarò sempre uno sbruffone. Purchè scelgano. Sono lo stesso di un mese fa, non c'è nulla di diverso in me." Scattò in piedi, avvicinandosi all’enorme finestra che dava sul cortile buio.
“Amico di chi?” gli chiese, trascinata dal discorso.
“Del rapinatore?” le suggerì lui, poggiandosi con le spalle al vetro.
“Non dire idiozie!” lo rimproverò, e lui rise:
“Sono lusingato da tanta fiducia.” Le rivelò, e non c’era alcuna piaggeria nella frase.  La stava implicitamente ringraziando, guardandola con gratitudine.
“P-prego, te la meriti!” abbassò gli occhi, imbarazzata da quello slancio di intimità.
“Ma…di che amico parli?” insistette, poggiando sul tavolino la tazza vuota.
“Quel telefono era segreto, Ran.”
“Quale?”
“Quel cellulare che la polizia ha usato per risalire ai tabulati e così arrivare al casale e ai tizi di oggi.”
“Che significa segreto?”
“Significa che la ragazza uccisa lo teneva di nascosto.”
“Ma se la polizia gliel’ha trovato addosso…”
“Non di nascosto alla polizia.”
“E allora di nascosto da chi?”
Il telefonino di Ran li interruppe, facendoli anzi sussultare.
-Sonoko? Cosa vuole, proprio adesso?!- imprecò, scorgendo il suo nome sul display.
“Scusami io devo…devo rispondere, ma ci metto cinque secondi!”
“Prego.” La rassicurò, tornando a sedersi sul divano.
“Ma dove sei, Ran?! Tuo padre mi ha telefonato, sconvolto, dicendomi che è tornato a casa e non ti ha trovato. Gli ho detto che sei a casa mia e che avevamo deciso di dormire insieme per un pigiama party, ma ha detto che domani mattina ti verrà a prendere lui, qui.” L’aggredì al telefono l’amica non appena ebbe digitato il tasto di chiamata, mettendola subito sull’attenti.
“Oh, meno male, Sonoko! Grazie, mi hai tolto dai guai.”
“Ma tu dove sei?”
Compreso l’interlocutore dell’altro capo della linea telefonica, Shinichi non esitò ad esclamare con fare ironico:
“Te l’avevo detto che a venire qui tutta sola ti saresti cacciata nei guai…”
E mentre le ridacchiava, attraverso  il cellulare Sonoko balzò:
“Di chi era questa voce, Ran? Oh mi dio, sei con Kudo?? Che state facendo?”
“Niente!!” replicò tutta paonazza, coprendo con la mano libera il microfono del telefono, nel tentativo di nascondere a Shinichi quelle insinuazioni.
“E perché sei con lui a quest’ora della notte??”
“Guarda che sono sole le undici e mezza.”
“E’ mezzanotte meno dieci.”
“E’ uguale.”
“Ti ho disturbato sul più bello, per caso?”
“No, Sonoko, dacci un taglio!”
Il detective portò le ginocchia al petto, poggiando i piedi sopra il divano. Quindi, ridacchiando, prese a giocare un pallina di carta stropicciata, tirandola da una mano all’altra.
“Ti credo, proprio. Comunque temo che dovrò interrompervi, perché devi venire qui! Mia sorella può venirti a prendere senza  che papà lo sappia, ma non può aspettare che voi abbiate finito…”
“Ma finito cosa?!” la rimbeccò, sempre più rossa in volto.
“Non dirmi che è stato così fesso da darti buca! Ma non ha visto che gambe snelle che hai? Passamelo! Ci parlo io!”
Un gocciolone si formò sulla testa di Ran: -Non cambierà mai…-
Spostò lo sguardo su Shinichi, il quale, ancora intento a giocare, le sorrideva, gentile.
Ricambiò il sorriso e smise di ascoltare gli sproloqui di Sonoko.
“…mi hai capito, Ran?! Dammi l’indirizzo, mia sorella arriverà tra un quarto d’ora.”
“Oh, beh…” forse tutta quella pubblicità Shinichi non l’avrebbe gradita.
“Che c’è?” capì al volo quando lei si girò a guardarlo preoccupata.
“Devo andare da Sonoko per far credere a mio padre che ho trascorso la notte a casa sua…”
“Che bambina bugiarda…” le disse, un’espressione maliziosa sul volto.
“Devo sentirvi tubare per forza?” riecheggiò la voce della biondina dal cellulare, e stavolta fu evidente che anche Shinichi sentì.
Avvampò, mentre lui ridacchiava:
“Dove abiti, ereditiera?” le domandò oltre la cornetta “Ti accompagno io.” Si rivolse poi a Ran.
“Mia sorella è già in strada.” Rispose Sonoko “ Se puoi dirci dove abiti, grande detective, la passa a prendere.”
Ran sospirò, afflitta, mentre Shinichi e Sonoko parlavano tra loro come fosse la cosa più normale del mondo: -Sto facendo la figura della ragazzina…-
“Dille che si sbrighi, così approfittate del momento. Ha smesso di piovere per ora.” Fu la formula di congedo del detective, seguita da Ran:
“Grazie di cuore, Sonoko. A tra poco.”
Chiusa la telefonata si accorse che il moretto stava indossando una giacca blu.
“Che fai?” gli domandò.
“Dai, preparati! Ti accompagno fuori. Aspettiamola insieme, questa seconda Suzuki.”
“Non ce n’è bisogno, anzi, mi scuso per il disturbo che…”
“Disturbo? Mi scuso io per il disturbo.” Le ricordò, fissandola ancora con quell’espressione di gratitudine che, poco prima, l’aveva imbarazzata.
“Ma…non è il caso che esca anche tu.” Gli sorrise “Sta arrivando un temporale.”  Aggiunse poi.
Lui, sornione, le rispose: “Ho ancora qualche minuto!” prendendola in giro, e ammiccandole.
Lei rise: era la risposta che gli aveva dato lei, il giorno del loro primo incontro.
 
Annuì, le guance ancora un po’ accaldate che però erano ben celate dalle gocce di pioggia che le avrebbero comunque arrossato in volte per la reazione tra colore del corpo e freddo dell’ambiente circostante.
“Sta arrivando un temporale.” La ammonì e lei temette che fosse una maniera gentile per congedarla:
“Ho ancora qualche minuto!” si affrettò a rispondere, muovendo un passo in avanti. L’istante dopo credette di apparirgli irruenta, quindi fece un passo indietro. Non seppe più come comportarsi e fissò gli occhi sulle sue scarpe.

 
 
-Che memoria di ferro…- pensò, lieta che ricordasse un dettaglio di così poco conto, che però per lei valeva molto.
Uscirono di casa, ed Ayako era già lì, in macchina oltre il cancello.
“Questi ricconi hanno gli shuttle, altro che automobili.” Commentò Shinichi, gli occhi ridotti a due fessure.
“Beh allora…grazie ancora e…” fece per congedarsi, ma lui la afferrò per un braccio.
“Corri!”
“Ehy!!” rise lei, lasciandosi trascinare.
Mentre la raggiungevano, il giovane le poggiò sulle spalle la sua giacca.
“Ma no, non ti preoccu…”
“Me la ridarai domani. Ok?” la zittì. E lei colse la palla al balzo:
“Vieni  tu? Mio padre domani pomeriggio va alle corse dei cavalli.”
Si morse la lingua quando quella frase le suonò simile a quella che una giovane donna pronuncia al suo amante clandestino. Anche Shinichi percepì l’ambiguità della situazione ,perché rise.
Ma rispose semplicemente: “Va bene.”
Non addusse ulteriori pretesti che giustificassero la sua visita all’agenzia investigativa, se non incontrare lei.
Le guance s’imporporarono, mentre lui le apriva la portiera:
“Buonasera, signorina Suzuki.” Capì subito che la mora era diversa dalla sorella, se non altro nella forma.
“Buonasera a lei.” Replicò, sorridente.
“Le consegno la bimba qui.” La sfottè, ma nel suo tono di voce Ran potè scorgere una nota affettuosa.
“Mi raccomando, Ran-chan, appena arrivi a casa ti lavi i denti, ti metti il pigiamino, e poi subito a letto!”
Ayako rise, mentre la ragazza lo guardava con aria di sfida:
“Dici lo stesso anche alle tue amiche attrici?” gli rinfacciò, tirando fuori quel fatto che in realtà mai aveva digerito.
“Non ho amiche attrici. Ho una…informatrice attrice, che si chiama Hidem. Viene a darmi delle indicazioni di natura professionale, professionalmente parliamo, e professionalmente se ne va.”
“Sì sì…”
Il discorso parve lì finito, e Shinichi salutò la Suzuki ad alta voce. Ma mentre richiudeva lo sportello, sussurrò all’orecchio di Ran:
“Non essere gelosa, tu sei stata l’unica donna che ho sbattuto contro la libreria di papà…”
Non attese risposta, lanciandole uno sguardo malizioso che la fece avvampare.
Come se questo non bastasse, mentre dava loro le spalle –nude, perché di nuovo in canottiera- per tornare a casa, Ayako squittì:
“Sonoko mi aveva detto che eri a casa di un ragazzo per cui hai un debole…ma, Ran, wow! Quando si cominciano a frequentare i ragazzi, al liceo, non sono mai così belli! Che pettorali ha questo? E guarda che sede…” fece per aggiungere, guardandolo camminare in lontananza.
Dopotutto, era la sorella di Sonoko Suzuki.
“E’ un mio amico, Ayako.” La interruppe, oramai violacea in faccia.
“Un amico affascinante e di classe, complimenti!”
Shinichi osservò dalla finestra a piano terra le due chiacchierare in macchina per ancora qualche minuto, prima che la donna rimettesse in moto e partisse.
Sospirò, sparecchiando il tavolino; dal vassoio prese la bustina vuota.
Ran aveva scelto curcuma e menta.
 
 
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Eccomi qui di nuovo ^^ 
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, qui c'è una bella scena ShinxRan; inoltre, iniziamo finalmente a capire anche cosa pensa Shinichi -ve l'aspettavate che l'avesse vista, in palestra, nascondersi sotto il gradone?
Grazie di nuovo a tutti coloro che hanno lasciato una recensione, per me è un piacere ed un onore allo stesso tempo.
Un grande, grandissimo bacio,
Cavy

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Capitolo 7
*** Capitolo Sesto - Nubi all'orizzonte ***


Capitolo Sesto – Nubi all’orizzonte
 

«Squassa Eros
l'animo mio, come il vento
sui monti
che investe le querce.
»
Saffo


 

Ed eccolo lì, come aveva promesso, a bussare alla sua porta.
Era arrivato quando, fortuitamente, suo padre non era a casa; il suo telefonino aveva squillato e lei, visto il numero privato, non aveva lontanamente pensato a lui:
“Sonoko! Non ho intenzione di ripeterti quel che da questa mattina a scuola ho continuato a dirti sino alla sfinimento. Ieri sera non è successo nulla, la capisci questa parola? Nulla! Perciò smettila.”
“Davvero per te è nulla?” una voce suadente e profonda la rimbeccò dall’altra parte della cornetta.
“Sh-Shinichi!”
-Perché non mi ha interrotto prima?- si chiese retoricamente.
“Per me invece è stato molto…” proseguì, con tono di voce fermo.
“Co-cosa c’è?”
“Scendi! Sono qui sotto.”
“Ti apro la porta, sali!” si ritrovò a dirgli, senza pensare.
“Ma no, ma no; meglio che sia tu a scendere in strada.” Le replicò, stranamente elusivo. Lei non ne afferrò subito il motivo, credette forse che fosse imputabile al timore che suo padre rientrasse e lo trovasse in casa sua; d’altronde sospettandolo complice di quei rapinatori, la probabile ed intuibile reazione di Kogoro non sarebbe stata delle migliori. Afferrò la giacca –che appena rincasata aveva provveduto a stirare nella convinzione che, se non fosse venuto a riprendersela, gliel’avrebbe personalmente restituita- e si fiondò in strada; prese la via delle scale, poi si arrestò di scatto, rischiando di piombare a terra per l’attrito. Tornò rapidamente indietro e si specchiò nella vetrina della porta: si aggiustò i capelli, e si lisciò la maglietta con la mano perché non fosse troppo stropicciata. Poi, dopo un rapido accenno del capo che valesse dal consenso al suo riflesso sul vetro trasparente, riprese le scale e scese.
Messo piede fuori, sul marciapiede, lo vide: appoggiato contro la colonna di marmo che segnava l’ingresso del Poirot, il bar che la famiglia Mouri aveva come vicino di casa al piano di sotto.
“Ecco la tua giacca, ti ringrazio molto per ieri!” non gli diede il tempo di parlare, preda di un insolito imbarazzo; ogni qual volta le pareva di aver superato lo scoglio della timidezza e di essere a buon punto, ecco che senza motivo la voce le tremava e il pensiero le si offuscava; dalla bocca non le uscivano che frasi scontate o di senso tutt’altro che compiuto, affermazioni strani e bambinesche, tutto fuorché eleganti giochi di parole o maliziose allusioni che potessero intrigarlo.
Non era una donna, si rimproverava, e non riusciva a stare tra la gente in maniera normale; o quanto meno, non tra la gente che le piaceva, e non nel modo che lei desiderava. Le sarebbe piaciuto comunicare un’immagine di sé completamente diversa da quella che, ne era certa, esprimeva quando era al centro dell’attenzione, che l’interlocutore fosse uno o che fossero cento; voleva essere spigliata, e invece s’ingarbugliava nella prima parola pronunciata, anche se aveva ripetuto il discorso sino a cinque secondi prima, per volte innumerevoli; voleva avere uno sguardo che parlasse per lei, e invece lo teneva, spontaneamente, quasi sempre basso, come timorosa che i suoi occhi scorgessero qualcosa senza permesso; non capiva che il connubio di quelle caratteristiche comunicavano un atteggiamento estremamente dolce, e pacato. Comunicava l’idea di una persona tranquilla, e tanto sicura di sé da non curarsi degli altri; una ragazza gentile che non voleva apparire, stra apparire; talvolta quell’immagine di lei le andava bene. Ma quel giorno no; mai come allora desiderò essere più decisa, autoritaria e persino frivola, un po’ come quell’attrice che era uscita dalla porta di Villa Kudo qualche giorno prima. Agli occhi di Shinichi voleva manifestarsi come una femme fatale , e sempre accadeva qualcosa che le conferiva le sembianze, piuttosto, di una goffa karateka che sa lanciare colpi ma non sa camminare sui tacchi.
“Oh, che efficienza. Grazie, Ran.” Nonostante la frase fosse semplice e quasi banale, la pronunciò con un tono tale ed un’espressione del volto che parve aver pronunciata una grande massima.
E’ tutta una questione d’atteggiamento, le aveva sempre detto Sonoko, che di lei si atteggiava di gran lunga meglio.
“Io non sono spigliata come te, Sonoko!” la rimbeccava lei, e la risposta che riceveva era colma di tenerezza:
“Oh, Ran, ma lo so…!”
Non rispose nulla, improvvisamente rattristita dai suoi limiti, che allora nella sua mente stavano assumendo dimensioni gigantesche.
Dimenticò di essere davanti ad un detective; un ottimo detective.
Afferrò la giacca e cercò di guardarla negli occhi, ma non ci riuscì dal momento che lei li teneva bassa, pudica.
Perciò si avvicinò a lei un po’, ma ancora Ran non reagì. Ma neppure fece per tornare a casa.
Quindi parlò:
“Qual è il problema, Ran?”
Il modo con cui pronunciava il suo nome…tutte le volte che capitava, lei sussultava. Come se fosse la prima volta che sentiva la voce di lui articolare quel suono, che mai avrebbe creduto possibile di sentire.
Mordendosi un labbro, scosse la testa.
“Nulla!”
“Oh, e invece sì. Dimmi, cosa c’è?”
Tacque per un paio di istanti; quindi:
“Da cosa l’hai capito?”
“Sono un investigatore, Ran. Se si tratta di come stai, lo capisco dal tono della tua voce…”*
Lei sorrise, arrossendo sulle gote. Fece spallucce, stringendosi nelle spalle.
“Non c’è niente, ti ringrazio. Mi sono solo…svegliata di cattivo umore.”
Per tutta risposta lui si sedette sul primo gradino che conduceva all’agenzia investigativa Mouri, senza aggiungere nient’altro. Seppur incuriosita anche lei fece lo stesso, in silenzio.
Rimasero così per un po’, lui che la scrutava e lei che si reggeva le gambe con le mani.
Lui esordì, d’un tratto:
“Devi imparare ad essere debole.”
“Mhm?” finalmente sollevò gli occhi, fissandoli nei suoi.
“So bene quanto sia difficile esserlo. Ammiro la tua autonomia e la tua determinazione, ieri sera hai dimostrato una forza d’animo che mi ha impressionato molto. Sei forte, e non parlo soltanto di forza fisica, che in te è comunque indubbia. Ma devi anche essere debole. Con qualcuno devi essere debole, alla fine. Puoi tirare questa molla, e tirarla ancora, ma arriverà il momento in cui invece di allungarsi si frantumerà: non procedere per forza di inerzia ed accumulazione, procedi per te stesso.”
Fece per rispondere qualcosa ma la bloccò sul nascere:
“Non ti sto dicendo di abbandonarti senza riserve alle tue peggiore paure, sarebbe un consiglio sciocco. Le paura vanno combattute. Ma se non ne prendi coscienza, contro cosa lotterai? Come puoi uccidere un dragone se prima non lo vedi? Individua qualcuno che non approfitterà di vederti a nudo e sii debole.”
“…e tu?” replicò Ran: non si accorse che, quando tornava a suo agio, era dotata di notevole acume, e sagace ironia. Se lo avesse capito, si sarebbe tirata su di morale; e avrebbe avuto un po’ più stima di sé.
“Dai per scontato che io abbia paure. Io non sono spaventato da nulla!” si aspettava una risposta del genere, conoscendolo. E lo conosceva molto bene. Aspettò un po’ e quella replica non arrivò; allora si voltò nuovamente a guardarlo e si accorse che la stava fissando con una strana espressione in volto.
Il sorriso un po’ malinconico che le concesse come risposta fu molto eloquente, seppur sorprendente, allo stesso tempo; ne rimase quasi scottata, e distolse immediatamente lo sguardo. Mentre si scrutava le punte dei piedi
“Come?” domandò, semplicemente lui.
“Eh?”
“Tu come faresti ad essere debole?”
“Io…mi fiderei del mio intuito. Mi suggerisce quando una persona è buona oppure cattiva, no? Potrà suggerirmi anche di chi fidarmi.”
“A me lo ha già suggerito.” Le rivelò, rispondendo in ritardo alla domanda di lei.
 “So che…so che non approfitterà delle mie debolezze. Ma non so come potrebbe reagire di fronte ad esse.”
Ran lo fissò con sguardo interrogativo e lui, tornando a fissarsi le mani, le sfregò tra loro prima di aggiungere:
“Non c’è nessuno con cui io sia sempre e completamente me stesso. Sono un investigatore saccente, sbruffone, snob. E’ vero…ma sono anche altre cose, e queste cose non renderebbero molto onore alla mia immagine, all’immagine che voglio dare di me.”
Quella somiglianza introspettiva la stupì.
Esitò ancora: “Sono…” e tacque.
“Sei caparbio, tenace, fiero.” Gli disse Ran, dando finalmente voce ai pensieri che per mesi e mesi aveva nutrito in sé davanti alla tv o alla radio.
“Sei lava incandescente che travolge con impeto qualunque cosa trovi sulla sua via. E sei…” arrossì, grattandosi una guancia con l’indice: “…carismatico e affascinante.”
Shinichi la stette ad ascoltare con un’espressione divertita a illuminargli il volto, e quando ebbe finito di parlare si morse una guancia dall’interno della bocca.
“Mhm…” disse solo, non staccandole gli occhi di dosso.
“Chiunque ti conosca almeno un po’ sa che sei questo, e molto di più. E se il tuo intuito ti suggerisce di metterti a nudo con lui, o lei che sia…” si affrettò a mostrarsi disinvolta, ma lui subito comprese l’allusione:
“Non stavo parlando di Hidemi.” Ridacchiò. “Ti ho già detto che noi non siamo…”
“Chiunque sia…” lo interruppe come per non dare importanza a quella rivelazione “…è sicuramente qualcuno che conosci da un po’, e bene, se vuoi fidarti di lui. Perciò…”
“In realtà è effettivamente una lei.” La interruppe ancora, seccandola.
“Vai, allora.” Provò a fare l’amica, desiderando in ogni maniera di vederlo di nuovo se stesso. Quell’atteggiamento mogio non gli si confaceva affatto “E dille che sei anche…”
“Sono anche un amico preoccupato.” Disse in un sol fiato come in un incontrollabile atto liberatorio. “Un amico preoccupato per un amico.”
“Con chi è che vuoi metterti a nudo, Shinichi?” le brillarono gli occhi quando le attraversò la mente l’idea che, forse, la persona con cui voleva davvero essere se stesso…
“Con te.” Soffiò, abbassando gli occhi per qualche secondo come per prendere la forza per poterla di nuovo scrutare in volto:
“Continuerai a pensare che sono il numero uno quando ti dirò chi sono davvero?”
Ran rimase molto colpita da quella domanda: allora lui sapeva! Aveva sempre saputo il suo debole per lui? Oppure si riferiva alla lealtà dimostrata il giorno prima? La sua espressione dubbiosa gli fece capire di avere forse, parlato troppo. Se ne pentì; poi pensò che anche quello era lui, e decise di proseguire:
“Non vorrei che … cambiassi idea su di me.”
Ran lo fissò con attenzione: si stava pavoneggiando come al solito?
Ci impiegò un istante per capirlo: no. Era sincero. E la fissava in un modo che…
Senza quasi rendersene conto si avvicinò a lui, un turbinio di pensieri capaci di ridursi in uno:
“Vuoi essere debole con me, Shinichi?”
I suoi occhi furono attraversati da un lampo di resa.
Ma durò per pochi secondi; vide chiaramente nel suo volto il momento in cui lui desiderò abbandonarsi; ma distinse anche chiaramente l’istante in cui decise che, no, non si sarebbe abbandonato.
“Avevamo detto mettersi a nudo!” sviò l’argomento, il sorriso malizioso: “E’ un po’ diverso…”
Avvampò, compresa l’allusione. Piccata da quel repentino cambio d’umore, si lasciò sfuggire:
“Hidemi va benissimo per metterti a nudo!” quindi si alzò di scatto, gelosa di lui, di lei, di loro, dell’immagine che aveva ancora stampata in mente da quattro giorni.
Shinichi la afferrò per il polso, volendola costringere a tornare seduta sul gradino accanto a lui; peccato che lei tentò di dimenarsi e, per tutta risposta, gli cadde in braccio.
Scattò sul posto, imbarazzata. E cercò immediatamente di tornare in piedi, ma lui la trattenne:
“E tu non vuoi metterti a nudo con me?” scherzò, ma quell’ombra di malizia non gli abbandonava lo sguardo.
Continuò a tenerla stretta e lei non vide altre possibilità se non incalzarlo:
“Sarebbe questa la tua debolezza? Essere ancora più audace di quanto non sei già normalmente?” alluse alle battute che da giorni le ripeteva, ma che poi lasciava cadere. Quella sera invece pareva non intenzionato ad abbandonare l’atteggiamento suadente che, tuttavia, le faceva mancare il fiato.
Lui sorrise, e non smentì del tutto:
“Non vuoi sapere cosa penso, a questo proposito.”
“Se è qualcosa di sporco, non dovrei di certo.” Si finse disinvolta, cercando di non fargli notare più di tanto l’imbarazzo. Non riuscì tuttavia a smorzare la tensione:
“Allora perché chiedermelo?”
“Non è quello che ti stavo chiedendo.” E stavolta nel suo tono di voce non potè nascondere la delusione provata quando aveva capito che no, neanche quel discorso era servito a far fidare Shinichi completamente di lei.
Ignorava che lui cercava di trattenersi; che se si fosse abbandonato davvero alle sue debolezze…
“Volevo sapere cosa ti preoccupa, e magari aiutarti a risolvere il problema.” Si issò di nuovo sulle ginocchia per alzarsi, e lui glielo permise: aveva compreso la delusione nella sua voce.  Solo quando fu in piedi, pur rimanendo lui seduto, le rispose guardandola negli occhi. Voleva la verità? Ebbene, l’avrebbe avuta.
“Mi preoccupa l’attrazione che provo per te. Se fossi stata una qualunque, probabilmente saresti già passata dal mio letto. Ma mi hai colpito profondamente, e capisco molto bene che hai un debole per me, e non so fino a che punto io possa spingermi. Perciò nel dubbio, preferisco lasciar stare. Essere debole con te significa abbandonarmi al mio istinto, no?” le rimbeccò. “ Se fossi stato debole con te, ti avrei baciata. Ti avrei baciata la sera in cui ti sei presentata alla mia porta, zuppa di pioggia, solo per avvisarmi che ero nei guai. E poi non mi sarei fermato.”
Un brivido di consapevolezza le gelò la schiena: recepì quelle parole non come avvertimento, né come minaccia di seduzione o invito a stare attenta, mantenersi cauta. Fu come una bomba a mano lasciata innescare, il gancetto disinserito che travolge tutto senza curarsi di niente.
Non pensò al domani, all’indagine, a suo padre; non pensò alle altre, alla gelosia, alla paura.
Non lo fece neanche riprendere fiato dopo quel discorso che, immediatamente, s’inginocchiò per baciarlo: gli assalì il volto, facendo scontrare violentemente le loro bocche. Lei la aprì immediatamente, decisa a rispondere in quel modo alla sua velata e implicita richiesta. Ma lui non parve convinto; le labbra chiuse, aveva serrato gli occhi ma rimaneva immobile, seduto sul gradino. L’aveva sorpreso di nuovo: le mani, come per cercare di proteggersi dal calare del suo corpo contro di lui –aveva temuto si stesse inginocchiando per dargli uno schiaffo!- erano aperte, di fronte al torace, sospese a mezz’aria come indecise.
Ran gli afferrò le spalle, prendendo a mordergli un labbro. E a quel punto anche Shinichi aprì la bocca, ricambiando dapprima il morso anziché il bacio. Colpita dalla sua foga fece per tirarsi indietro in un movimento involontario, ma lui le circondò la schiena con le mani stringendola a lui e costringendola ad approfondire quel contatto. Le diede piccoli morsi sul contorno della bocca finchè lei non gli leccò l’angolo tra le due labbra; e allora anche lui si abbandonò a se stesso e alle sue voglie, permettendo finalmente alle due lingue d’incontrarsi.
Fu un bacio impetuoso, passionale, quasi violento. Per Ran fu il sublimare di un sogno durato mesi e mesi, la concretizzazione di un percorso fatto con grande coinvolgimento: aveva apprezzato Shinichi sui giornali, l’aveva ammirato in tv e l’aveva amato dal vivo. Era tutto quello che si era sempre immaginata, il timore di averlo idealizzato o aver proiettato su di lui desideri e sogni che invece appartenevano a lei era naufragato: Shinichi era così, e basta.
Se ne era innamorata.
E lui…lui parve quasi volerle dimostrare a cosa sarebbe andata incontro se non avesse accettato la distanza che l’investigatore tentava di ristabilire.
“Continua a darmi corda, e finirai nelle mie mani” parevano essere le parole di quel bacio travolgente. Eppure, quando rimasero entrambi senza fiato, in un ultimo anelito di dolcezza lei non volle staccarsi; rimase appoggiata con il naso contro il suo, riprendendo fiato con la bocca aperta e la voglia di baciarlo ancora. Ci provò, ma lui si tirò indietro: e con tono di voce gentile e dolce, le disse:
“Grazie per essere venuta ad avvisarmi subito, ieri sera. Non me l’aspettavo…ne sono rimasto sorpreso.”
E con fare protettivo e affettuoso, le stampò un  rapido bacio a fior di labbra.
Scattò in piedi, invertendo le posizioni e portando lei a sedersi sul marmo dello scalino.
Il lavoro mi chiama!” le ammiccò, prima di volgerle le spalle e andare. Era la stessa frase con cui si era congedato da lei il giorno del loro primo incontro, entrambi se ne ricordavano. Ma quella volta volle aggiungere una precisazione non di poco conto:
“ E quel lavoro non si chiama Hidemi!”
 
§§§
 
“Per oggi è tutto, Mouri. Ti ringrazio per essere rimasto così a lungo per la deposizione, e mi dispiace sia stato necessario.” Megure chiuse con una mossa secca il rapporto sulla fallita retata del giorno prima.
Kogoro si alzò dalla poltrona di fronte la scrivania del poliziotto, e fece un cenno del capo:
“Non si preoccupi, andava fatto. Ma cos’ha deciso poi?”
“Riguardo cosa?”
“Riguardo Kudo.” S’intromise Furuya, scambiandosi un’occhiata complice con Kogoro.
“Vuole escluderlo dalle indagini?”
“Se vuole, posso seguirlo di nascosto.” Si offrì l’agente. “Non se ne accorgerà.”
Megure sospirò.
 
§§§
 
“Puoi parlare?” fu l’esordio di quella telefonata segreta.
“Sì, scusami. Io ero…impegnato.” Shinichi sorrise tra sé e sé, rifugiandosi dietro l’angolo del complesso di edifici a cui apparteneva anche l’appartamento dei Mouri. Non appena aveva sentito il telefono vibrare nella tasca interna della giacca, aveva pensato di dover correre via per rispondere; ma quel bacio l’aveva travolto, e lui aveva preferito ignorare, per qualche istante, il lavoro, le preoccupazioni, il mondo esterno. Che il suo telefonino stesse suonando non glien’era importato più molto.
“Ascoltami, Hidemi…”
“Lo so, è venuta da me. Ieri.” Aggiunse, repentino. Sollevò gli occhi; il cielo cominciava a farsi scuro, delle nubi si condensavano oltre i raggi, già deboli, del sole.
“Mi ha ragguagliato sulla situazione.”
“Molto bene, così risparmieremo tempo.”
“Come vanno le cose?” si affrettò a chiedergli prima che riagganciasse.
“Mi hai appena detto che Hidemi…!”
“A te, intendo. Come ti vanno le cose?”
Un tuono si diffuse per l’aria elettrica della città già scura a causa dello smog. D’improvviso il sole era scomparso e minacciava temporale.
“Tutto a posto.”
“Davvero?”
“Certo, non preoccuparti. Anzi, volevo ringraziarti. Io…ho saputo. Ti sei messo nei guai per farlo, non è vero?”
“Non stare a preoccuparti per me, è tutto a posto. Pensa a te, piuttosto.”
“Se dovessi avere problemi…” insistette, e quindi Kudo si ritrovò a rivelare, con un mezzo sorrisetto:
“Non avrò problemi. Ho trovato un’alleata inaspettata.”
“Ah, sì?” lo sfottè con tono ironico “Una donna, eh? Strano. Non piaci per niente alle donne, eh, piccoletto?”
Shinichi rise, poi tornò repentinamente serio:
“Fai attenzione.”
“Puah. Piuttosto, visto che hai parlato con Hidemi, ti dirò una cosa soltanto. Ho un nome per te.”
 
§§§
 
“Se ne accorgerà eccome, invece.” Replicò l’ispettore, afferrando il dossier per inserirlo nella sua cartella.
“E’ bravo. Molto più bravo di quanto si possa credere. Non ho ancora deciso come agire.” E senza aggiungere altro, fece capire ai due uomini che erano congedati.
Fuori dal suo ufficio, Mouri si sentì libero di esprimere il suo dissenso:
“Perché l’ispettore si pone questi problemi?”
“Suppongo sia preoccupato, e molto.” Rispose l’agente Furuya, comprensivo “Ikari…lui è potentissimo. Con uno schioccare di dita può sottrarci l’indagine e noi non potremmo fare più nulla; comanda lui, e noi dobbiamo muoverci con attenzione. Probabilmente, teme che se Kudo si insospettisse, avvertirebbe immediatamente il capoquestore.”
 
§§§
 
Ripose il telefono in tasca, e sollevò la giacca che Ran gli aveva restituito –era possibile che fosse addirittura profumata? L’aveva forse lavata?- sopra la testa per proteggersi dalle prime gocce di pioggia, preludio di un poderoso acquazzone.
Negli ultimi tempi, non faceva che piovere; che fosse un segno del destino?
Shinichi non credeva al destino. Eppure poteva quasi sembrare che il cielo piangesse per la cattiveria degli uomini.
-Sospettavo qualcosa, in effetti. – Ragionò sugli argomenti di quella chiamata, mentre di fretta correva verso casa.
-Ma temevo di sbagliarmi.-
Assottigliò gli occhi, incurante del fango che gli sporcava le scarpe.
-Devo elaborare un piano d’azione…Anche se… ho già in mente qualcosa.-
 
 
 
 
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Precisazioni d’autrice:
 
Sono un investigatore, Ran. Se si tratta di come stai, lo capisco dal tono della tua voce…: Lo dice davvero. Nell’episodio Il Diplomatico.
Ichi-chan: è un’abbreviazione del nome di Shinichi, che a primo acchitto può risultare affettuosa e giocosa. In realtà qui viene usata dal suo interlocutore con un altro scopo: Ichi in giapponese significa numero uno. L’appellativo dunque è qualcosa come: Signor numero uno.

§§§

Note d'autrice:
Perdonatemi il grande ritardo, sto di nuovo percorrendo una cattiva strada, vero? xD Cado nei vecchi difetti :'(
Non so se ad Agosto farò in tempo a postare, ma non credo :( Diciamo che definisco preventivamente questo sesto capitolo un regalo di buone vacanze, con l'augurio di risentirci a settembre.
Ringrazio ancora molto, anzi moltissimo, chi ha recensito, chi ha inserito la fic tra preferite, seguite e che più ne ha più ne metta.
Grazie di cuore dalla vostra Cavy!

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Capitolo 8
*** Capitolo Settimo - Fervore ***


Avete ragione. Totalmente.

È passata una eternità, lo so. Anni, e anni e anni e anni…beh, insomma: ci siamo capiti. Non ho scuse, perciò non vi tedierò con le motivazioni che mi hanno costretta ad accantonare momentaneamente –ehm ehm…- questa storia, so di essere imperdonabile. Ma se ancora vi è rimasta un po’ di curiosità o voglia di leggere, se ancora questa fic può avere un po’ di presa, se oramai la trama di DC non è andata troppo avanti perché questi capitoli non siano eccessivamente OOC... io ne sarò davvero contenta: per me è stato un grande, enorme piacere tornare finalmente a scrivere. Si tratta, per me, di un atto liberatorio, capace di mettermi in comunicazione con un'altra, bellissima dimensione. (Ho cambiato addirittura l'avatar per festeggiare il mio grande ritorno! Niente male, no? - Sopportate il delirio di una povera pazza.)

Ringrazio di cuore tutti coloro che, nonostante la mia lunga assenza, hanno continuato ad inviarmi tramite le recensioni ed i messaggi il loro supporto e il loro affetto: ogni parola di incoraggiamento che leggevo, per me, è stata davvero molto importante.
Anche per merito vostro ora sono di nuovo qui. Non posso non citare e ringraziare in particolare la carissima _Rob_ .

 
Capitolo Settimo
Fervore

 

«Eppure resta,
che qualcosa è accaduto, forse un niente
che è tutto.»
Eugenio Montale

 
 
Acquattato dietro una panchina in acciaio, il giovane investigatore afferrò la ragazza per un braccio, tirandola a sé: “Sta’ giù, ho detto!”, l’ammonì, finché lei non s’inginocchiò accanto a lui. Le circondò una spalla con l’avambraccio, per farle da scudo con la sua schiena; entrambi celati dalla visuale dei cecchini, i proiettili non potevano raggiungerli e andavano al contrario ad infrangersi contro l’acciaio della panchina.
“Kogoro, sta bene?” si sporse leggermente con il capo, lanciando un’occhiata al cespuglio a un paio di metri da loro, dove aveva gettato il detective più grande con una spallata, qualche secondo prima.
“Sì, io sto bene! E voi?” rilanciò l’uomo in soffio, facendo per sporgere la testa oltre le foglie.
“Non si faccia vedere!” gridò lui, sapendo che ai cecchini bastava un secondo di disattenzione delle loro prede per mirare e colpire. E mentre l’uomo si ri-accartocciava su se stesso, Shinichi strinse Ran ancora a sé, sentendola tremare: “Non avere paura.”
Scoccò uno sguardo oltre la spalla di lei: alla loro sinistra, l’oscurità del parco di Beika che costeggiava la strada; alla loro destra, un piccolo supermarket aperto a tutte le ore, ma deserto. Alle loro spalle, tre edifici l’uno affianco all’altro, sede di alcuni appartamenti ma per lo più di uffici di marketing: non poteva essere che quello il luogo da cui sparavano i cecchini. Il parco sarebbe stato troppo buio per dei tiri tanto precisi –il primo sparo gli aveva trapassato il colletto della camicia con un sibilo profondo-, e l’angolazione degli spari ne denunciava la provenienza da una postazione più alta rispetto alla loro, e anche rispetto al basso capannone in cui era allocato il supermercato notturno. Quindi, dedotto razionalmente il luogo dell’appostamento dei criminali, si voltò con accortezza verso quei tre palazzi, per cercare di capire da quale esattamente provenissero le pallottole.
Ruotando lentamente il busto per una torsione di trecentosessanta gradi, si accorse che in automatico anche Ran faceva altrettanto.
 “Chi sono?” gli domandò, osservandolo mentre sbirciava la cima degli edifici attraverso una delle fessure della panchina. Non tremava più.
Secondo edificio, ultimo piano, finestra di mezzo: era da lì che sparavano!
“Hai uno specchietto?” le soffiò in risposta, meravigliandola.
“Allora?” la incalzò, vedendola esitare “Dammelo subito!” ma proprio in quell’istante, gli spari cessarono.
“Hanno smesso?”
“Continua a stare giù, Ran.” Le spinse leggermente il capo con la mano, affinché non si alzasse. Frattanto, infilò l’altra mano nella tasca dei suoi jeans, laddove l’aveva vista guardarsi quando le aveva fatto quella domanda. E infatti, lì trovo un piccolo specchietto tascabile. Chiamò Kogoro, e facendo scivolare quell’oggetto di make up sul pavimento, gli disse: “Senza entrare sotto il loro tiro, fallo brillare!”
“Perché?” gli domandò Ran, mentre lo osservava, ancora inginocchiato, stendere una gamba per afferrarsi la cintola.
“Per capire quanti sono…” rispose, estraendo una pistola che, fino ad allora, aveva tenuto nascosta tra la cintura dei pantaloni e la camicia, dietro la schiena. Una Glock 2.
Quando un nuovo sparo frantumò lo specchietto, affermò: “Sono due. Uno spara a noi, e uno spara a tuo padre.” Poggiò entrambe le mani, chiuse attorno alla pistola, sulla cima della panchina e, dopo aver preso la mira, fece esplodere un paio di colpi in direzione di quella finestra, sorridendo impercettibilmente quando la vide, da lontano, frantumarsi. Fu allora che lo vide: un piccolo scintillio, come una lucciola chiara, splendere da lassù: un puntatore!
Assottigliò gli occhi e mirò proprio lì: esplose il colpo, senza sapere che la donna dai capelli corti distesa sulla pancia dietro il fucile, in quella stanza all’ultimo piano, imprecasse: “Merda, mi ha distrutto il puntatore!”
“Che cosa facciamo?” la voce del suo complice le giunse dal trasmettitore ai suoi piedi.
“Ritiratevi.” Proferì una voce che entrambi conoscevano bene. Dalle ricetrasmittenti di entrambi, risuonò dura: “Avreste dovuto colpirlo con un solo colpo, non scaricargli addosso un caricatore intero. Siete degli incapaci. Filatevela, prima che arrivi la polizia.”

“Shinichi…” lo chiamò Ran, mentre ancora il giovane era teso con la pistola tra le mani.
“Credo di aver distrutto le loro armi, Ran. Se sono furbi, staranno scappando adesso…” le spiegò, dandole modo di capire per quale motivo gli spari fossero cessati per la seconda volta.
Attese un paio di secondi e poi, con misurata lentezza, si alzò in piedi: nessun colpo fendette l’aria. Il giovane detective allora si sciolse un sospiro, sicuro di avere ragione. Anche Ran allora si alzò, e così Kogoro, uscendo da quel nascondiglio improvvisato, il vestito elegante tutto sciattato e coperto di foglie e terriccio.
“Ma che diavolo…” borbottò, facendo per riavvicinarsi ai due ragazzi - ma una sgommata di pneumatici attirò l’attenzione di tutti e tre: si voltarono, senza vedere nulla. Tra di loro, Kudo scattò, correndo verso nord. Allora anche padre e figlia lo seguirono, e quando svoltarono l’angolo si ritrovarono di fronte al parcheggio coperto degli uffici di quel palazzo. Ran si volse a scrutare Shinichi, il quale aveva arrestato la sua corsa e aveva allungato le braccia, impugnando ancora la Glock. In trepidante attesa, non si mossero: d’un tratto, anticipata ancora una volta dal rumore delle ruote sull’asfalto, una Porsche 911 nera sfrecciò verso l’autostrada. Per l’aria echeggiarono gli ultimi tre spari che Shinichi aveva in canna, i quali andarono a conficcarsi nel cofano dell’auto.
“Gran bella mira, ragazzino…” borbottò col fiatone Kogoro, passandosi una mano sulla fronte sudata per la corsa e, soprattutto, la tensione del pericolo scampato, “Non hai preso una ruota neanche per sbaglio…”
“Non miravo alle ruote.” Rispose lui, continuando a scrutare quell’auto finché essa non scomparve oltre la strada.
 
 
“Non ho visto la targa, è successo tutto troppo in fretta, Ispettore Megure. L’auto era una decappottabile, era scura…nera? No, blu…no, nera…” rimuginava Kogoro, seduto sul sedile posteriore di un’auto della polizia. Tre volanti infatti erano sopraggiunte sul posto una decina di minuti dopo la sparatoria, allertate da una telefonata spaventata del proprietario di quel piccolo supermarket in fondo alla strada.
Un Megure allarmato si era lanciato fuori dal veicolo, per soccorrere quei tre che, ancora un po’ scossi, avevano cercato riparo sulla panchina che tanto bene era servita loro da scudo, o meglio: Kogoro e Ran erano seduti, mentre il ragazzo era in piedi, davanti a loro, con le braccia incrociate e lo sguardo serio, come se quel che avesse vissuto non fosse diverso dalle sue solite attività giornaliere. Stavano parlando, deducendo, ragionando sull’accaduto, cercando di mantenere uno sguardo lucido – ma probabilmente il giovane era l’unico a riuscirci, e Ran se n’era accorta benissimo.
Accertatosi che stessero bene, Megure li aveva divisi: lui stava raccogliendo la deposizione della famiglia Mouri, mentre il detective Kudo era stato affidato alla professionalità del braccio destro dell’ispettore, il detective Wataru Takagi. L’uomo, col taccuino nelle mani, procedeva con le domande di routine al giovane, appoggiato con la schiena al cofano di una delle volanti.
“E tu, Ran, che mi dici?”
Ma la ragazza non rispose: continuava a fissare il ragazzo, esattamente come aveva fatto per tutta la durata di quell’affrettata testimonianza. Lo vedeva, ancora con le braccia incrociate al torace, ascoltare pacato le parole dell’agente. Rispondeva affettatamente, laconico, senza perdersi in dettagli.
“Ran?”
Appariva tranquillo, eppure austero. Lo fissò: il giacchetto slacciato e un po' impolverato, i capelli scompigliati e il volto illuminato dalle sirene delle volanti -di quando in quando, le sue guance assumevano una sfumatura rossa, che poi pian piano si scuriva sino al blu, per poi tornare ad inarrossarsi-; insomma, perfettamente a suo agio, circondato ad agenti di polizia e paramedici accorsi sul luogo.
Aveva assistito ed anzi, ammirato, così tante volte scene di quel tipo, dalle carrellate di immagini mandate in onda sui notiziari, dalle foto sui giornali o gli articoli di cronaca: tante e tante volte, seguendo le gesta del suo detective preferito –rideva sempre a quel pensiero: avrebbe dovuto essere suo padre! - non le era capitato davanti agli occhi nulla di diverso. Eppure, in quel momento, quella sera, osservando senza interruzione Shinichi parlare con il poliziotto, dopo essere stata coinvolta in una sparatoria e aver quasi partecipato ad un inseguimento, non sentiva nient’altro che entusiasmo addosso: era su di giri, era…contenta.
-È forse effetto dell’adrenalina, questo? -
“Ran, mi senti? Stai bene, cara?”
Fissava Shinichi, ed era contenta di trovarsi lì con lui, sulla scena di un crimine. O beh, quasi…
“Ran!” Kogoro la scrollò per le spalle, temendo che il suo atteggiamento fosse frutto di una specie di shock post traumatico.
“Oh, papà! Ispettore...” si riscosse, tornando come d’improvviso nella realtà invece che nella bolla di sapone in cui si era accoccolata. “Sì, io…perdonatemi, non stavo ascoltando: che cosa mi avete chiesto?”
Improvvisamente, l’esaltazione si tramutò in smaniosa frustrazione.
-Sono patetica. - si disse, mordendosi un labbro – Ma che cosa spero? Non sono sulla scena del crimine con lui, sono solo capitata per caso in un’operazione...-
Tornò con la mente alle circostanze che avevano portato a quell’incidente.
 
“Papà!” gridò la ragazza, prendendo a correre in direzione dell’uomo che aveva riconosciuto sul marciapiede opposto, di fronte all’insegna rovinata dell’edicolante.
Kogoro neppure si voltò, continuando a scrutare con attenzione il terreno sotto i suoi piedi.
“Papà!” insistette Ran, poggiandogli una mano sulla spalla, “Cosa stai facendo, dove sei stato? Si è fatto tardi, non rispondevi al telefono. Stavo venendo a cercarti al distretto…”
“Sì, hai ragione, ero lì…” lanciò un ultimo sguardo alle sedie di plastiche poste al fianco della loggia dell’edicola, poi con un sospiro si arrese.
“Ma cosa stai cercando?”
“Un indizio.”
“Di cosa?”
“Cosa sono tutte queste domande? Di cosa ti impicci? Sai bene che dell’indagine non dovrei neppure parlartene!”
“Ma papà, sono le sette passate e sei ancora in giro. Certo che dovresti parlarmene. Almeno nei limiti che mi consentano di sapere dove ti trovi, per avvisare qualcuno se dovessi ritardare più del dovuto…se ti capitasse qualcosa…”
“E’ una saggia tecnica, questa.” Esclamò una voce alle loro spalle, richiamando l’attenzione di entrambi. Padre e figlia si voltarono, trovandosi davanti gli occhi brillanti e il sorriso furbo di Shinichi Kudo.
La giovane avvampò, mentre lui proseguiva: “Anzi, per la verità è proprio una strategia, e piuttosto diffusa, anche. Si usa spesso tra partner: il primo poliziotto comunica sempre i suoi spostamenti al secondo, e viceversa. Perché se d’un tratto si perdono le tracce dell’uno o dell’altro, è più facile capire da dove iniziare le ricerche, o quanto meno riuscire a ragionare a ritroso*: una capacità molto utile e molto facile, ma che in genere non viene messa in pratica. Nei problemi quotidiani della vita è più utile ragionare guardando avanti, e così l’altro sistema viene trascurato…la maggior parte delle persone, se descrivete una successione di eventi, vi diranno quali sono i risultati. Esistono però altre persone, poche, che, se raccontate un risultato, sono in grado di evolvere dalla loro consapevolezza interiore i vari passi che hanno condotto a quel risultato specifico.”
Annuì all’edicolante che gli chiedeva, con il sorriso cordiale che si rivolge ai clienti abituali, se desiderasse acquistare sempre il solito giornale. Afferrò il quotidiano in cambio di qualche spiccio, sotto le parole un po’ imbronciate dell’investigatore più grande: “Con l’uso dei gps oggi non è più necessaria una accortezza tanto rigida.”
“Dipende dal telefono.” Gli sorrise, e alla muta domanda del padre, rispose Ran: “Credo…credo che se si spenge il telefono, poi diventi impossibile tracciarne il segnale.”
“Esatto.” L’apostrofò canzonatorio il ragazzo, brandendo il quotidiano come fosse un’arma sotto gli occhi della karateka, “E cos’altro ha insegnato, Kogoro, a questa sua figlia così sveglia? Come la addestra per diventare una poliziotta?”
E mentre l’uomo borbottava un seccato “Figurarsi, Ran ha ripreso la medesima petulante parlantina di sua madre…”, la giovane, ignorandolo, rispondeva per le rime:
 “Tanto per cominciare, che è inutile acquistare il giornale a questa ora della sera. Le notizie saranno già vecchie. Non ci vuole un padre a insegnarlo, ma solo il buon senso.”
“Gne gne gne…” le mimò con le labbra Shinichi, attento che solo lei cogliesse la canzonatura – cosa che in effetti avvenne, facendola ridere.
“Sai, ragazzo, dovresti preoccuparti di qualcos’altro che le notizie sui giornali.” Lo richiamò Kogoro, uno scrupolo di coscienza che non lo abbandonava da quel casuale incontro alle corse dei cavalli, “C’è stato un interrogatorio oggi. Un tizio…”
“Lo so.” Gli sorrise di rimando, avviandosi dall’altro lato della strada.
Kogoro e Ran lo seguirono.
“Lo sai? E come?”
“Non mi sottovaluti: ho le mie fonti.”
“Sarei davvero curioso di conoscerle, giacché è una notizia veramente fresca…”
“Chi avete interrogato, papà?” s’intromise la ragazza, cercando di sostenere la loro falcata concitata. Così, mentre si avviavano verso il quartiere di Beika Choo, i tre si ritrovarono, senza averlo previsto, a discutere dell’indagine sulla rapina che teneva tutti col fiato sospeso. Una rapina, come sottolineavano i giornalisti che avevano intervistato il grande detective Kudo, compiuta in maniera singolare un sabato mattina quasi alla fine del mese–perché proprio quel giorno, quando tutti i conti sono quasi vuoti?-, da un solo rapinatore, mentre l’altro aspettava in macchina col motore acceso –perché non dare man forte alla sua complice, anziché rimanere immobile e passivo nell’auto?- e che pertanto portava con sé una serie di stranezze culminate nella morte delle prima rapinatrice –era scaturita una lite tra i due circa la refurtiva? Il secondo uomo aveva sin dall’inizio progettato di uccidere la complice una volta ottenuto i soldi? Si era trattato di un incidente e la donna era morta come una vittima casuale?-.
“Attraverso i tabulati telefonici del secondo cellulare* della donna, siamo risaliti a un numero che tornava molto frequentemente e spiccava tra gli altri, che anzi erano pochissimi. Si potrebbe quasi dire che quel numero era l’unico con cui la ragazza intrattenesse telefonate o inviasse sms. Allora abbiamo rintracciato questo numero e abbiamo scoperto che apparteneva ad un uomo, di nome…”
“Non sono importanti tutti questi dettagli.” Tagliò corto Shinichi, in maniera un po’ brusca. “Che cosa vi ha detto?”
“Non l’abbiamo interrogato come sospettato, ma soltanto come persona che poteva conoscere la vittima e avrebbe pertanto potuto darci informazioni utili per l’indagine. Ma si è rifiutato di parlare: non ci ha detto neppure perché la conoscesse o che rapporto avessero. Si è immediatamente appellato ai suoi diritti, e con una calma quasi serafica ha affermato che, se non era sospettato, non poteva essere trattenuto in centrale. Ha detto di non avere nessuna informazione utile e che gli dispiace di averci fatto perdere tempo, ma che ci consiglia di dare un’occhiata anche agli altri numeri di telefono emersi dai tabulati…”
“Scarica-barile?”
“Probabile. Se devo essere sincero, era parecchio presuntuoso…come dire…snob…”
“Non ne dubito.” Sorrise Shinichi, gli occhi attraversati da uno strano bagliore.
“L’hai interrogato anche tu?” gli chiese allora Kogoro, ma il ragazzo scosse la testa: “Non l’ho interrogato.”
“E’ brutto che una persona sia tanto chiusa, però.” Intervenne allora Ran, ricevendo un’occhiataccia da suo padre, che voleva significare: “Non ti intromettere con le tue chiacchiere in questioni importanti.”
“Cosa c’è? E’ vero.” Insistette però lei. “Voglio dire, il progresso della società civile dovrebbe andare di pari passo con l’empatia, non credi? Se io posso fare qualcosa che aiuti un’altra persona, perché rifiutarmi di farlo? È meschino…”
“Le tue chiacchiere di commento alle notizie di cronaca che vedi in tv quando sei a casa da sola in pigiama non ci sono utili, adesso…” borbottò il padre, ma Shinichi prese la parola:
“Però sua figlia ha ragione, Kogoro.” Quindi guardò Ran, serio: “Sai, una delle cose che ho imparato facendo questo lavoro è che, purtroppo, la conoscenza non equivale alla magnanimità. Grandi uomini, dotati di mezzi potenti o di grande cultura e influenza, non sempre fanno la scelta giusta. Si pensa, erroneamente, che le persone intelligenti o brillanti siano, in automatico, anche persone buone e disponibili. La verità dei fatti, sino ad ora, è che non è così: non vai al liceo, Ran? Quanti intellettuali si sono schierati contro le leggi di Norimberga e quanti a favore?”

“Credo che vi stiate perdendo in elucubrazioni inutili.” Riprese Kogoro, le mani nelle tasche, “Il presente è presente, che cosa andate a pensare? Le decisioni del passato non si possono cambiare, ed inoltre non si possono giudicare le persone per scelte che hanno preso o non preso. Non sapete perché hanno agito in quel modo anni e anni fa, e poi le distinzioni politiche di allora non ci sono più oggi. Sono problemi che non vi dovreste porre.”
“Cosa dici, papà? Il passato dovrebbe insegnarci, se non altro, che particolari fatti conducono ad inevitabili conseguenze. Se non vogliamo di nuovo quella conseguenza, dobbiamo impedire che quel medesimo fatto si riproduca.”
“Non è questione politica.” Le diede man forte il ragazzo “Credo che il pretesto di un’analisi oggettiva sia, talvolta, utile per non prendere posizione. Non dico che alcuni eventi non vadano soltanto analizzati senza frapporvi giudizi etici, anzi questo è vero. Ma è il primo gradino della conoscenza. Io trovo un cadavere e lo esamino, insieme alla scena del crimine. Se mi perdo in giudizi di valore –la vittima aveva meritato di morire? L’assassino ha agito in maniera furba e quindi amorale?- perdo di vista gli indizi necessari per la risoluzione del caso. Ma in un secondo momento non posso non pensare che se un uomo esplode un colpo per difenderne un altro in pericolo, compie un’azione. Se un uomo esplode un colpo perché vuole impadronirsi dei soldi di chi uccide, compie un’altra azione. Credo che agire senza tenere in mente le portate morali delle nostre azioni sia da irresponsabili.”
“E l’indifferenza alla riflessione morale è da irresponsabile allo stesso modo.” Gli disse Ran, facendolo sorridere, “Come se tra coloro che scelgono l’onestà, ve ne sia una parte la cui scelta è indirizzata solo dalla paura che qualcun altro li scopra disonesti. Che qualcun altro li veda.”
“Tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ci guardi. A seconda del tipo di sguardo sotto il quale vogliamo vivere, potremmo essere suddivisi in quattro categorie. La prima categoria desidera lo sguardo di un numero infinito di occhi anonimi: in altri termini, desidera lo sguardo di un pubblico. La seconda categoria è composta da quelli che per vivere hanno bisogno dello sguardo di molti occhi a loro conosciuti. Essi sono più felici delle persone della prima categoria le quali, quando perdono il pubblico, hanno la sensazione che nella sala della loro vita si siano spente le luci. C’è poi la terza categoria, la categoria di quelli che hanno bisogno di essere davanti agli occhi della persona amata. La loro condizione è pericolosa quanto quella degli appartenenti alla prima categoria. Una volta o l’altra gli occhi della persona amata si chiuderanno e nella sala ci sarà il buio. E c’è infine una quarta categoria, la più rara…”
“… quella di coloro che vivono sotto lo sguardo immaginario di persone assenti. Sono i sognatori.” *
I due ragazzi si sorrisero mentre Kogoro arrestava il passo.
“Tu, ragazzino, fai tutti questi ragionamenti perché non hai altro a cui pensare o perché ti senti colpevole per qualcosa di orribile che hai fatto, e cerchi una giustificazione morale al tuo agire?”
“Giustificazione morale?”
“Io non so ancora se posso fidarmi di te. Da che parte stai?”
Ma Shinichi non fece in tempo a rispondere, perché si udì chiaramente un proiettile fendere l’aria.
 
-Svegliati, Ran. Dovresti essere importante per lui solo perché la pensate ugualmente su una questione di ordine morale? E quanti altri ne avrà incontrati nella sua vita così? Non sei sulla scena del crimine con Shinichi. Sei con tuo padre, coinvolta in una indagine di cui non sai nulla e della quale non capisci un’acca. Stai parlando con l’ispettore Megure, non con Shinichi. E poi, sentiti: ma come lo chiami? Shinichi, per nome! Credi sia un tuo amico? In questo momento, nonostante il suo comportamento con te sia stato…ambiguo…nonostante quelle parole, quel bacio…
Nonostante tutto questo, io non sono una sua priorità, adesso. Com’era ovvio, come avrebbe dovuto esserlo fin dall’inizio, per me. Dovevo sapere a cosa andavo incontro. E invece…che stupida, stupida sono stata! -
Gli occhi iniziarono a pizzicarle, le veniva da piangere per la delusione. Passò un istante e si sentì avvampare dall’imbarazzo, come se in quello spiazzo tutti sapessero, come se tutti avessero chiaro davanti agli occhi la sua cotta da ragazzina per un detective mondano che mai l’avrebbe ricambiata con la stessa intensità di sentimenti che lei provava; come se tutti, per questo, la deridessero.
-Non avrei mai dovuto neppure cominciare, lasciarmi andare a tutto questo…Avrei dovuto capire fin da subito che ci sarei rimasta male, che ci avrei sofferto…-
Scoccò l’ennesima occhiata in tralice al detective, e trasalì: le era parso che lui avesse lo sguardo posato su di lei, e che quando si era voltata, l’avesse distolto.
Possibile?
Di nuovo, nel giro di pochi secondi, il suo umore mutò. Voleva esultare, ma non si voleva auto-convincere: era successo davvero? O il suo inconscio non si arrendeva, e allo scopo di non soffrire le procurava queste suggestioni?
“Io…non l’ho vista bene neppure io, ispettore, mi dispiace. Ha ragione mio padre, era un’automobile scura, una decappottabile…”
“Capisco. Stai tranquilla, Ran-chan. Siete stati molto bravi. Ora però bisognerà capire se gli aggressori avevano come obiettivo te, Kogoro, oppure Kudo-kun…”
Kudo-kun.
Senza neppure rendersi conto, Ran gli lanciò un’altra occhiata: ed ecco che lo colse, stavolta senza ombra di dubbio, mentre anche lui la osservava. Ma non distolse lo sguardo: i due ragazzi si scrutarono per qualche momento, il cuore di lei batteva all’impazzata. Quindi, Shinichi le sorrise, mentre apriva la bocca, probabilmente per rispondere a una domanda di Takagi.
La fissò per qualche altro secondo, poi tornò a scrutare il volto dell’interlocutore.
La karateka abbassò lo sguardo, arrossendo: ma non era più il rossore di una delusione imbarazzante, al contrario: era il rossore dell’eccitazione.
-Allora…allora forse…-
Stette ad ascoltare -a fingere di ascoltare: non riusciva a seguire il dialogo tra l’ispettore e suo padre per più di qualche manciata di secondi; poi, di nuovo, la mente tornava al suo giovane detective preferito, e lo sguardo volava a lui; e più di una volta, i due ragazzi si osservarono negli occhi per un po’; di volta in volta, il volto di Shinichi si dipingeva di sempre maggiore divertimento, come se si trovasse in un pub, anziché in un luogo gremito di poliziotti- per un tempo che le parve interminabile. Poi, finalmente, lei e suo padre vennero congedati.
Voleva andare a parlargli: ma come?
“Forza, Ran. Torniamo a casa.” La richiamò Kogoro.
“Ma, veramente…”
“Cosa c’è?”
“È che io…”
“Non stai bene, tesoro?”
“No, papà. Soltanto…”
Kogoro sospirò, afflitto: “Piccola, vuoi dormire da tua madre, stasera? Se sei preoccupata, finché non scoprono chi fossero quei tizi, e con chi ce l’avessero…”
“Cosa? No!” la ragazza si affrettò a chiarire quell’equivoco, “Assolutamente no, papà. Voglio stare con te, davvero.”
L’uomo si aprì allora in un sorriso sincero, “Andiamo a casa, piccola.”
 
°§°

“Sei impazzito? Perché l’hai fatto, eh?”  gli ringhiò addosso l’uomo dai capelli corti, irrompendo nella sua stanza.
L’uomo dai capelli lunghi non lo guardò neppure in faccia; afferrò una sigaretta dal pacchetto poggiato di fianco allo schermo del computer, e se la ficcò in bocca.
“Non io, ma quei due.”
“Su tuo ordine.”
“Tu hai procurato un gran caos, e noi abbiamo provato a risolverti il problema.”
“Il gran caos lo avete fatto voi: avete sparato addosso a un investigatore! Cosa credi che faranno adesso, loro? Indagheranno, risponderanno all’attacco.”
“Le cose sono due.” Si accese la sigaretta, inspirando il tabacco “O sei un gran codardo, e temi la polizia; oppure vuoi tenere fuori quel detective dal mirino, per chissà quale motivo. In entrambi i casi, non mi sta bene. E non sta bene neanche a Lui. Senza considerare il fatto, che abbiamo ancora la questione di quella ragazzina in ballo.”
“Bisogna agire con cautela, tu sei troppo impulsivo. Non ragioni, non capisci che così ci stiamo scavando la fossa da soli.”
“Dimostrami di non essere un codardo. Va’ da quella ragazzina, e rimettila in riga. Non importa come: viva o morta, non deve più starci tra i piedi.”
 
°§°

Si voltò, insonne, dal lato opposto del letto. Che delusione!
Poi, tra sé e sé, ridacchiò: le avevano sparato addosso e tutto quel che riusciva a pensare era di essere contrariata perché non aveva potuto parlare con quell’arrogante investigatore.
-Sì, decisamente arrogante…- pensò, con una punta di ironia. Le piaceva quando faceva l’arrogante…
Sbuffò, cacciando le lenzuola con i piedi fino al bordo del letto. Quelle occhiate che si erano lanciati, le davano qualche speranza: un piccolo gradino a cui aggrapparsi, quando pensava a lui e un nodo le si piazzava nel bel mezzo dello stomaco. Le piaceva, ma era davvero un’incognita.
“Mhm?” notò solo allora che il suo telefono vibrava. Lo afferrò, un sms:
«Dorme, signorina Mouri?»
Balzò in piedi sul materasso, incredula: rilesse quelle tre parole almeno una dozzina di volte, raggiante.
Cosa c’è, di grazia?
No, troppo banale. Cancellò e riscrisse:
Pensava a me, signor detective?
Avvampò.
Sperava fosse così, dal momento che lei sì, pensava a lui, eccome. Ma non volle rischiare con un messaggio tanto audace. Riprese a digitare un terzo messaggio:
«Potrei chiederle altrettanto, signor Detective.»
Attese la risposta che giunse qualche minuto dopo: con il telefono tra le mani, la giovane leggeva e rileggeva quel messaggio come se quell’operazione avrebbe permesso alla replica dell’investigatore di materializzarsi sul display.
«Se non le è di troppo incomodo, perché non scende un minuto sotto il suo appartamento?»
Il cuore le balzò nel petto.
Che lui…?
«Perché, sei qui sotto?»
«Sì.»
 
Erano trascorse all’incirca cinque ore da quell’incidente, ed eccolo di nuovo di fronte a lei. Si era spogliata di quella maglietta ridicola del pigiama –larga, a maniche lunghe, persino a fiori! -, indossando la prima canottiera che le sembrasse carina dall’armadio –suo padre l’avrebbe definita troppo scollata-, ma lasciando i pantaloncini della sua tenuta notturna. Così, in shorts e canottiera chiari, si era guardata allo specchio, aggiustando i capelli raccolti uno chignon improvvisato e, facendo attenzione a non far rumore nell’appartamento, si era precipitata per le scale.
Shinichi l’aspettava, seduto sul bordo del marciapiede, dandole le spalle: questo la colpì; solitamente le sue posture erano sempre così calcolate e studiate, che quell’atteggiamento spontaneo tradiva qualcosa di diverso.
“Che succede?” le venne spontaneo, facendolo voltare nella sua direzione.
“Ciao anche a te, signorina che conosce Kundera.” La salutò, alzandosi. Poi la squadrò da capo a piedi: “Dormi così?”
“Problemi?”
“No, anzi. Stai bene.”
“Non credevo fossi qui per una consulenza di moda.”
“Ti ho detto che stai bene.” Rise, passandosi una mano tra i capelli. Fu allora che Ran notò che il giovane, al contrario, indossava ancora i vestiti di quel pomeriggio.
“Come stai?” gli domandò, muovendo qualche passo verso di lui.
“Tutto a posto. Tu, piuttosto: come ti senti? Non credo sia qualcosa che vivi tutti i giorni…”
“Anche io. Non ho avuto paura.”
“Perché?”
“Perché c’eri tu.”
Non si rese neppure conto di averlo detto, se non quando fu troppo tardi: vide Shinichi strabuzzare gli occhi, ma non si pentì delle sue parole. Era vero. Inoltre, che cosa voleva dire? Nulla. Lui era un bravo detective, lei lo pensava e che lui lo sapesse pure. Non voleva vergognarsi di questo, anzi: desirava lui capisse la stima che nutriva nei suoi confronti.
“Ah sì?” ed eccolo, quel sorriso da arrogante a incorniciargli il volto stanco.
“Perché sei qui? Cosa succede, Shinichi?” lo chiamò per nome: quei lineamenti tirati, quelle occhiaie…se c’era qualche problema, voleva saperlo. Voleva aiutarlo.
“Io…io volevo scusarmi con te. Mi dispiace per quello che è successo oggi.”
“Non è colpa tua.”
“Lo è. Sono un tutore della legge, dovrei evitare che…”
“Oh, ma non ti stanchi mai di essere così egotico?” lo apostrofò, sperando di alleggerire la discussione. E in effetti, lui sorrise.
“Non è anche per questo che ti piaccio?” rincarò.
“Non mi piaci affatto.”
“Un po’ ti piaccio.”
“Ti piacerebbe.”
“Sì, mi piacerebbe.”
La ragazza lo fissò con espressione interrogativa, e lui mosse qualche passo verso di lei, azzerando quasi del tutto la distanza tra loro.
“Sono venuto qui anche perché, io…” esitò, guardandole le labbra.
Esitò anche lei: “C-cosa?”
Rimasero così, vicini: la ragazza poteva udire il respiro di lui sul mento.
“Tirati indietro, Ran.”
“Come? Da dove, perché? Ti ho compromesso l’indagine?” immediatamente, ecco di nuovo quella orribile sensazione di delusione mista a disinganno che si impadroniva di lei, frustrandola.
Ma lui rise, poggiandole le mani sui fianchi. La guardò su tutto il corpo, mentre diceva: “No. Intendevo, fisicamente. Allontanati da me, adesso, per favore. Perché altrimenti…”
“Speri forse di spaventarmi? Hai visto come sono brava nel karate…”
Fece risalire lo sguardo, puntandolo negli occhi di lei: così determinati, così sicuri. Come quella sera, qualche giorno prima, a casa sua.
Risalì con le mani fino al suo volto, dischiudendole le labbra con i pollici. Si avvicinò a lei e le leccò con la punta della lingua il bordo della bocca, disegnandone il perimetro. Attese qualche secondo, ma Ran non si scansò. Allora, la baciò. Le tenne fermo il volto, anzi attraendolo verso il suo perché il contatto fosse maggiore, e più acceso. Ran, dal canto suo, si sentì mozzare il fiato: qualche giorno prima era stata a lei a fare il primo passo, ma quella sera non c’era ombra di dubbio su chi avesse agito. Shinichi la stava baciando! Il respiro mancò presto ad entrambi, e li costrinse a separarsi.
“È così che non ti piaccio?” le sussurrò sulle labbra, guardandola con una luce piuttosto maliziosa negli occhi. “E se ti piacessi, cos’altro mi lasceresti farti?”
“Un po’…mi piaci…” ammise lei, su di giri, elettrizzata dal fatto che ancora le teneva il volto tra le mani.
“Lo dici solo perché hai paura di cos’altro ti farei…”
“Chiacchieri tanto, ma perché non me lo fai vedere?” gli soffiò sulla bocca, sperando che lui raccogliesse la sfida.
“Non dirlo due volte.”
“Chi è che ha paura, adesso?”
Non si riconosceva in quello scambio di battute: ma era davvero lei a parlare così audacemente?
Non ebbe il tempo di riflettere troppo: la condusse con decisione nell’androne dell’edificio, facendole risalire qualche gradino perché non si trovassero nel bel mezzo del marciapiede. Quindi, al riparo dalla luce dei lampioni o dei fari delle auto che passavano, rischiarati soltanto dalla fievole luce della luna che filtrava oltre il cornicione dell’ingresso, la spinse con la schiena contro il muro, baciandola di nuovo; Ran gli intrecciò le braccia intorno al capo, per avvicinarsi di più a lui che, per tutta risposta, la tirò ancora di più a sé poggiandole una mano sulla schiena. E stavolta, Shinichi non smise: si allontanava qualche secondo per riprendere fiato, e la baciava di nuovo, ancora e ancora, con impeto sempre maggiore.
-Non finirà bene…- si ammonì lei –Finita questa indagine, lui se ne andrà e io starò malissimo…-
Intimorita a quell’idea, si scansò; ma proprio in quel momento, gli occhi le caddero sul suo collo, ed anzi sul colletto della sua camicia: e notò quel foro di proiettile che si era procurato qualche ora prima.
“E questo?” lo afferrò, realizzando solo allora quanto Shinichi avesse davvero rischiato quel pomeriggio.
“Lascia perdere.” Tagliò corto lui, afferrandole la mano e facendo per baciarla ancora, ma lei insistette: “Ma sei ferito? Ti sei fatto medicare?”
“Non sono ferito.” Le soffiò sulle labbra, stringendola saldamente per i fianchi.
“Vieni in ufficio.” Gli disse, mentre lui le massaggiava la schiena e la pancia “È…è quella porta, sotto il nostro appartamento. È l’ufficio di papà, non c’è nessuno. Ti…ti medico io…”
“Non sono ferito” ripeté ancora, continuando a toccarla. La stava immaginando nuda.
Era su di giri, era totalmente incapace di controllarsi. Non gli era mai capitato prima di allora di perdere a tal punto la razionalità: al contrario, si era sempre fregiato di riuscire a conservare lucidità e auto-controllo in qualsiasi circostanza, anche sotto pressione. Eppure, quella ragazza non gli faceva capire più niente. Il modo in cui aveva parlato, qualche ora prima…
Che cosa gli prendeva?
Sollevò il viso per scrutarla meglio: l’oscurità di quell’ambiente le rendeva gli occhi più belli.
“Sei sicuro?”
“Se non credi alle mie parole, dovrai spogliarmi e controllare tu stessa.”
Voleva cedere e lasciarsi travolgere da lui: ma aveva così paura di quel che ne sarebbe stato dopo…E inoltre, in quel momento un lampo le attraversò il cervello: e se non gli fosse piaciuta? Quanto poteva valere rispetto alle attrici cui era abituato lui?
“Sono seria.”
“Anche io.”
“Voglio aiutarti, Shinichi, voglio essere tua amica. Non tenermi fuori dai tuoi affari…”
“Dopo aver parlato con Takagi, mi sono visto con altri colleghi per parlare con loro di quanto accaduto. Ci abbiamo ragionato un po’ su, e quando abbiamo finito ero stanchissimo, e preoccupato. E l’unica cosa di cui avevo voglia era vedere te.” Le disse, tutto d’un fiato, dimostrando anche a se stesso di come, per la prima volta in vita sua, fosse completamente preda delle sue emozioni. Ma perché gliel’aveva detto?
Cionondimeno, a quel punto, tanto valeva proseguire così. Anche perché, per quanto si imponesse l’auto controllo, pareva proprio che non riuscisse a mantenerlo: aveva ceduto ed era andato da lei, all’una del mattino, pur sapendo fosse una pessima idea. Si era imposto di non fare nulla, di parlarle soltanto e assicurarsi che stesse bene, e invece l’aveva baciata. Aveva cercato di allontanarsi e andarsene, e si era ritrovato con lo spingerla dentro quell’androne e, non contento, desiderare di averla lì, in quel momento, riuscendo a stento a mantenere il controllo sul proprio corpo e sulle proprie azioni.
“Perciò, non ti conviene invitarmi nel vostro ufficio. Perché se ci metto piede, non sarà certo per farmi medicare.”
Era stato troppo impulsivo e troppo sincero: si aspettava mille reazioni da quella ragazza così forte, e ne avrebbe giustificata ciascuna. Che lo respingesse con vergogna, che lo invitasse a procedere con calma per pudicizia, che gli ricordasse che suo padre dormiva a pochi metri da loro, che gli confidasse di non conoscerlo abbastanza da cedere così repentinamente. Esaminò nella sua mente ogni possibile risposta, e si preparò a tornarsene a casa come il più tipico degli stupidi imbecilli da bar; ma Ran, con le guance imporporate e un sorriso imbarazzato, gli poggiò le mani sul petto, sbottonandogli i primi bottoni della camicia chiara. Alzò per un frammento di secondo gli occhi sul suo volto, poi continuò fino a scoprirgli leggermente anche la pancia.
“Dicevi la verità…non sei ferito…” sussurrò, aprendogli poi la camicia, pur con un po’ di esitazione.
Neppure lei era più in sé. Voleva soltanto assecondare quella situazione, e di tutto il resto si sarebbe preoccupata in seguito. C’era Shinichi Kudo davanti a lei! Che ogni altra cosa aspettasse.
Lo guardò negli occhi e lo vide sorridere:
“Sei una ragazzina veramente incosciente…” le soffiò “Non capisci quello che stai facendo…”
“Lo capisco benissimo, invece.” E per dargli prova di quanto aveva appena detto, si avvicinò al suo volto e passò la lingua sulle sue labbra, come aveva fatto anche lui poco prima. Gli pose una mano sulla guancia, applicando un po’ di pressione affinché aprisse la bocca; immediatamente Shinichi ricambiò, e si baciarono ancora.
Lo afferrò per il colletto slacciato e, mentre si baciavano, lo tirò con sé di fronte alla porta dell’ufficio; la aprì e lo condusse dentro, gettandolo a sedere sul divano che di solito accoglieva i clienti –rari- che si rivolgevano a suo padre per un’indagine.
Shinichi, sorpreso e divertito allo stesso tempo, arreso alle sue pulsioni così come Ran si era arresa alle sue, la lasciò fare, seguendola con gli occhi mentre si ergeva sopra di lui facendo leva sulle sue ginocchia, superandolo in altezza. Poggiò la fronte sulla sua, e gli sorrise.
Shinichi allora gli afferrò con le mani le cosce lasciate scoperte dagli shorts del pigiama, tirandole le gambe a contatto col suo torace nudo.
“Non sei che un detective arrogante…”
Lui rispose con un sorriso spavaldo, facendo risalire le mani, passando per i glutei ed infilandole sotto la canottiera. Le passò le mani su tutta la schiena, lanciandole uno sguardo elusivo quando s’accorse che non indossava il reggiseno.
Lei si chinò su di lui, come per baciarlo, ma si arrestò a pochi centimetri dalle sue labbra, nel momento in cui anche lui aveva fermato le mani sulle spalle di lei. A malapena trattenne un gemito, che si riversò in parte sulla bocca del detective, quando lui ripercorse di nuovo la schiena della giovane, a piene mani, dal collo alla vita. Allora le morse il labbro, attirandola a sé cosicché il suo ventre si poggiasse sul petto di lui. Sospirò ancora rumorosamente, mandandogli il sangue al cervello: afferrò i bordi della canottiera, e la lasciò nuda.
Ran rimase ferma, in imbarazzo, con la fronte appoggiata ancora sulla sua; Shinichi la scrutò completamente, facendo scorrere le mani di nuovo sulle sue gambe, perché si sedesse sul suo grembo più comoda. Risalì poi con gli occhi sul viso di lei, scoprendolo imporporato dall’imbarazzo.
“Mi vuoi, Ran?” si assicurò in ultimo barlume di lucidità. Le afferrò il capo con le mani, sciogliendole i capelli cosicché gli ricadessero sul viso.
“Sì.” Rispose in un bassissimo sussurro, arrossendo ancora di più.
Per tutta risposta, lui si tolse la camicia sbottonata e la attirò a sé, facendo scontrare i loro corpi con foga. Stavolta, lei non poté trattenere un gemito, cui fece eco anche Shinichi. Gli passò le mani sul petto, sull’addome e sui fianchi, facendolo trasalire.
Si baciarono. Ancora e ancora, continuando a toccarsi e scontrarsi così, per metà nudi, desiderosi l’uno dell’altra.
Improvvisamente però, la luce della stanza s’accese e la voce di Kogoro echeggiò nel locale:
“Ran?”
 
[1] Sappiamo essere una citazione cara al nostro Shinichi, memore delle sue letture di Sherlock Holmes, A study in scarlet.
[2] Come è ricordato nel capitolo quinto, la polizia ha scoperto un secondo cellulare, nascosto, tra gli oggetti personali della donna. Ran avvisa Shinichi di questo dettaglio correndo a casa sua.
[3] L’insostenibile leggerezza dell’essere, Milan Kundera.

Grazie ancora, di vero cuore, a chi è arrivato sin qui.

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Capitolo 9
*** Capitolo Ottavo - Tortura ***


Capitolo Ottavo - Tortura

 
 
Alla fine del capitolo si trova una scena un po’ violenta. Non ho voluto alzare a livello rosso il rating della fic perché negli altri capitoli mi trattengo maggiormente, ma in questo contesto mi è sembrato necessario. Dunque, chi sia particolarmente suggestionabile, farebbe meglio a evitare l’ultimo paragrafo perché è praticamente RATING ROSSO.
 

Con un particolare ringraziamento a Rob,

 
 
«Hieme et aestate, prope et procul,
usque dum vivam…O grande e caro Iddio,
fammi vedere per un attimo solo, nel bianco
di quella nuvola, il profilo dell’uomo a cui lo dirò.»

Beppe Fenoglio
 
 
 
“Vieni qui, avanti: fatti sotto. Io non ho paura di te!”
“Ed è per questo che ti prenderò. La paura è una tra le più grandi forme di difesa. Pensi di essere coraggiosa? Invece non sei che un’incosciente e avventata ragazzina…”
 
Sonoko strinse il pugno contro il bracciolo del suo posto, trattenendosi a stento dal serrare gli occhi per non vedere i canini affilati del vampiro sullo schermo penetrare la carne morbida del collo della fanciulla – Yoko Okino trattava con maestria ogni ruolo le assegnassero.
L’ereditiera della famiglia Suzuki seguiva il film in perpetua tensione, ogni muscolo del corpo contratto che vibrava alla prima nota in falsetto del soundtrack, quando la giovane esploratrice apriva una porta o quando strisciava a terra per non farsi scorgere dalle creature cui dava la caccia.
 
“Ti mostrerò la differenza tra paura e incoscienza. Anche subito, se è questo che desideri…”
“La paura è assenza di lucidità, è l’irrazionalità che dirige il corpo. L’incoscienza è la paura riflettuta: è azzardo a capo della mente. Può vincere, se il caso l’aiuta. E chi osa, vince.”
 
Quando il vampiro si gettò contro la donna, gli altoparlanti tuonarono con una melodia in do minore: Sonoko trasalì, aggrappandosi al braccio della sua amica. Solo allora si accorse che Ran, la quale era di solito proclive ad abbandonare la sala di proiezione non appena il mostro di turno faceva la sua apparizione nel film, non aveva paura: il corpo morbidamente adagiato contro lo schienale, lasciava che i frammenti della pellicola le scorressero davanti agli occhi senza mostrare alcuna reazione intimorita.
“M-ma come fai, Ran? Io ho i brividi!” le sussurrò all’orecchio, facendola sussultare.
Le lanciò un sorriso silenzioso, senza replicare: cosa avrebbe dovuto dirle? Che da quando il film era iniziato non stava seguendo assolutamente un bel nulla? D’altronde Sonoko era stata così gentile ad invitare lei a quella prima del nuovo film di Yoko Okino, offrendole il secondo biglietto dei due che la produzione aveva regalato alla Suzuki Company in virtù del forte finanziamento ricevuto, che Ran non avrebbe davvero potuto rifiutare; in verità, per un istante, era stata sul punto di declinare: ma tanto l’entusiasmo della sua migliore amica quanto la voglia di distrarsi dalla sua ossessione l’avevano persuasa che quello spettacolo fosse un’ottima scusa per distogliere la mente da ciò che era avvenuto due notti prima. Eppure, dal momento in cui si era seduta, non aveva smesso di pensare neppure per un breve momento. In più, il tempo che trascorreva non l’aiutava a razionalizzare l’accaduto ed assumere una visione più distaccata ed oggettiva, al contrario: a interpretazione susseguiva interpretazione, e ciascuna di esse dipingeva la situazione con tratti sempre più cupi e foschi. Come in un vortice a cono ribaltato: dal gradino più alto, pur funesto, Ran si sentiva precipitare per le scale sino al punto più profondo e tetro, adottando prima una teoria –Shinichi si è pentito-, poi un’altra ipotesi –Shinichi ha pensato fossi una ragazzina-, infine una terza via di analisi –Shinichi non mi vuole più vedere-; improvvisamente, uno spiraglio di razionalità s’irradiava in quella tela tetra –Shinichi è molto occupato nell’indagine, appena potrà mi cercherà- ma permaneva con la stessa durata di un raggio di sole che s’infrange, filtrato da un vetro, su un oggetto. Ed ecco che, come il raggio di luce muta immediatamente colore dipendendo dalla posizione del vetro, mostrando rapidamente tutte le scale del suo spettro, così anche Ran subito ricadeva nelle paure precedenti, ed anche peggiori: Shinichi ha conosciuto un’altra, magari una sua ex; magari quell’attrice, magari una poliziotta; ha pensato non valesse la pena rischiare la reputazione con la figlia di un investigatore legato alla questura di Tokyo; e così mille ipotesi, delle quali l’unica costante era il suo torto. Ran era convinta che, qualunque cosa fosse andata storta e avesse indotto l’investigatore ad ignorarla per tutta la durata di quei due giorni, ciò era dipeso da un suo errore, e di questo non si poteva perdonare. Si rimproverava, con grande turbamento delle sue emozioni, di aver perduto la sua unica occasione di poter fare colpo sul grande e famoso Shinichi Kudo…sul suo Shinichi, un detective professionale ed un uomo perfetto –non perfetto in assoluto, naturalmente, ma perfetto per lei.
Si sentiva colpevole: il caso le aveva concesso la possibilità di provare a conquistarlo, di fargli provare almeno una stilla dell’infinito sentimento che lei nutriva per lui…e lei? Come rispondeva al destino? Rovinando tutto – e non sapeva neppure come aveva rovinato tutto!
 
 
Lei si chinò su di lui, come per baciarlo, ma si arrestò a pochi centimetri dalle sue labbra, nel momento in cui anche lui aveva fermato le mani sulle spalle di lei. A malapena trattenne un gemito, che si riversò in parte sulla bocca del detective, quando lui ripercorse di nuovo la schiena della giovane, a piene mani, dal collo alla vita. Allora le morse il labbro, attirandola a sé cosicché il suo ventre si poggiasse sul petto di lui. Sospirò ancora rumorosamente, mandandogli il sangue al cervello: afferrò i bordi della canottiera, e la lasciò nuda.
Ran rimase ferma, in imbarazzo, con la fronte appoggiata ancora sulla sua; Shinichi la scrutò completamente, facendo scorrere le mani di nuovo sulle sue gambe, perché si sedesse sul suo grembo più comoda. Risalì poi con gli occhi sul viso di lei, scoprendolo imporporato dall’imbarazzo.
“Mi vuoi, Ran?” si assicurò in ultimo barlume di lucidità. Le afferrò il capo con le mani, sciogliendole i capelli cosicché gli ricadessero sul viso.
“Sì.” Rispose in un bassissimo sussurro, arrossendo ancora di più.
Per tutta risposta, lui si tolse la camicia sbottonata e la attirò a sé, facendo scontrare i loro corpi con foga. Stavolta, lei non poté trattenere un gemito, cui fece eco anche Shinichi. Gli passò le mani sul petto, sull’addome e sui fianchi, facendolo trasalire.
Si baciarono. Ancora e ancora, continuando a toccarsi e scontrarsi così, per metà nudi, desiderosi l’uno dell’altra.

Animata da un’intraprendenza che a priori non si sarebbe mai saputa attribuire, Ran fece lentamente scorrere le mani dalle spalle sino alla cintura di lui, per poi afferrarne la fibbia. Fu allora che Shinichi le bloccò i polsi, trattenendo il respiro.
La ragazza rimase paralizzata, sentendosi immediatamente divampare della verecondia tipica di chi non è usata alla sfrontatezza.
“Scusami, io…”
“Zitta. Non senti nulla?”
A quel punto, racimolò quel poco d’audacia che le era rimasto e alzò gli occhi per incrociare i suoi; distolti dal corpo che da tempo stava contemplando, ispezionavano rapidamente l’appartamento.
Rimasero in silenzio per un po’, come in attesa di qualcosa, finché entrambi non videro chiaramente un’ombra attraversare il corridoio esterno dell’agenzia investigativa.
Contemporaneamente, trasalirono.
“È mio padre!” squittì Ran mentre già Shinichi tentava di sollevarla per i fianchi per riuscire ad alzarsi. In un batter d’occhio la giovane si ritrovò a terra, la magliettina tra le mani che tremavano e a malapena riuscivano a vestirla nuovamente, quando invece la situazione richiedeva una particolare velocità. Improvvisamente però, la luce della stanza s’accese e la voce di Kogoro echeggiò nel locale:
“Ran?”
L’ex poliziotto aprì la porta, facendo capolino nella stanza.
“Ma cosa stai facendo?”
Avvampando, non seppe rispondere. Si voltò per cercare aiuto nel ragazzo, ma dietro di lei carponi sul pavimento, il posto sul divano era vuoto. Tirò un sospiro di sollievo, comprendendo che il detective era stato più rapido di quanto lei non aveva saputo fare, e tornò a rivolgersi all’uomo in pigiama di fronte a lei:
“Io…avevo sentito…dei…rumori…”
Pregò che il padre non si spingesse a guardare oltre il divano, dove Shinichi, accucciato, stava pazientemente riabbottonandosi la camicia.
“E cerchi qualcosa a terra?”
“Ho…ho pensato che…” si alzò, tremolante “Nulla…no-non importa, papà. Torniamo a letto…”
“Hai le stesse idiosincrasie di tua madre.” Decretò lapidario, sbadigliando. Fortunatamente, non sospettò oltre e si incamminò per le scale. Ran fece altrettanto, lanciando un’occhiata alla porta socchiusa dell’agenzia. Non seppe trovare alcuna scusa per indugiare oltre in quella stanza, perciò, in imbarazzo ma ancora esaltata, si avviò verso casa.
 
 
Pertanto, la sua premura maggiore era di aver fatto la figura della bambina; era che Shinichi pensasse lei fosse una bambina.
Nonostante non ignorasse il suo aspetto fisico ed anzi, fosse consapevole della scultoreità del suo corpo grazie agli anni di karate praticato (e su questo molto spesso avesse provato a far leva, con i giusti vestiti e colori appropriati), Ran aveva sempre voluto puntare sulla mente per colpirlo: l’idea che Shinichi la trovasse affascinante o in qualche modo bella l’avrebbe lusingata, ma mai avrebbe voluto che il giudizio si appiattisse su quell’unica caratteristica. Quante belle donne aveva visto e avrebbe potuto vedere, con il lavoro che praticava? Certo, avrebbe potuto incontrare anche donne estremamente acute e intelligenti, sempre per via della sua professione. Ma, consapevolmente, Ran voleva appartenere alla categoria delle ragazze brillanti, nella personale classifica dell’investigatore. Voleva che Shinichi pensasse a lei in quei termini, quanto meno: voleva risaltare al cospetto della sua mente.
Nondimeno, cosa aveva ottenuto? Il parossismo del contrario: Shinichi aveva potuto pensare fosse una ragazzina, una bimbetta immatura, e per questo l’interesse per lei era scemato, o peggio: ignorandola in quel modo, le stava implicitamente suggerendo di troncare ogni rapporto, che lui non desiderava affatto prolungare oltre il necessario.
Quando Sonoko, film concluso, le si rivolse per invitarla a mangiare una pizza, a Ran veniva da piangere.

§°§

Sospirò, accucciandosi sul gradino di una piccola scalinata, celata alla vista dagli arbusti del giardino incolto che quel parchetto blandiva.
Scrutò l’orologio da polso: l’una e venti del mattino.
Sperò che tutto stesse andando per il meglio, scoccando un’occhiata al magazzino diroccato a qualche centinaia di metri da lui. Scompigliandosi i capelli con una mano, si rigettò la frangia all’indietro ma delle ciocche continuarono a danzargli al vento di fronte agli occhi, facendolo sbuffare.
Poggiando la schiena contro un altro gradino, chiuse gli occhi; la leggera brezza che soffiava quella notte gli suggerì il respiro delicato di Ran sulla sua pelle, due giorni prima. Sorrise, pensando a come anche allora si fosse accucciato per non farsi vedere da qualcuno, e il sorriso s’allargò ancor di più in viso quando si disse mentalmente che aveva temuto più Kogoro allora di quanto non temesse in quel momento gli uomini all’interno del magazzino cadente.
Quella ragazza gli aveva fatto perdere il controllo, di nuovo…
Trasalì, spalancando gli occhi. Non era il momento di distrarsi!
Si issò sulle ginocchia, tornando in piedi; sgranchendosi le gambe, s’illuse di accantonare il profumo della giovane che da due giorni non riusciva a dimenticare: non appena chiudeva gli occhi, ecco le forme di Ran a delinearsi con precisione di fronte a lui, sotto le sue mani, pronte al suo tocco…
Un vetro andò in frantumi e Shinichi Kudo si voltò: al quarto piano del fatiscente edificio, una finestra era stata colpita con forza dall’interno, e i cocci precipitavano sin sulla strada producendo dei bagliori fulminei come minuscole stelle comete in picchiata.
Senza esitazione, contravvenendo agli accordi presi il mattino precedente, il giovane detective non attese alcun segnale e accorse all’entrata dell’edificio in rovina, correndo su per le scale.
 
§°§
 
“Stupida ragazzina!” le sputò addosso, accompagnando il movimento delle labbra con quello dei piedi e ficcandole la punta della scarpa nel fianco.
Quella non rispose nulla, neppure gemette; come senza vita, fece scivolare la schiena contro il muro, finché non si trovò seduta a terra, per quanto il polso ammanettato alla manopola del termosifone glielo permettesse.
“Adesso sta’ qui, e poi…-
“Non essere tanto maleducato.” Lo interruppe il suo partner d’azione, estraendo una sigaretta dalla tasca interna del cappotto scuro.
“Mia cara, avevo chiesto a qualcun altro di occuparsi di te, ma purtroppo quel tipo è sempre indaffarato, ultimamente. E noi non abbiamo troppa pazienza, perciò…- sbuffò fuori dalla bocca un alito di fumo.
–rispondi, e fa’ in fretta. Porterai a termine il progetto, oppure no? Non avrai altre spiegazioni oltre a quelle che già ti abbiamo generosamente elargito.”
La donna tacque, mantenendo lo sguardo puntato al pavimento. Non sembrava nemmeno respirare; era immobile, inginocchiata a terra, come una bambola bellissima, diafana ma senza vita, di quelle della Hinamatsuri *. Se uno di quei due uomini le avesse sollevato il volto, avrebbe notato che anche i suoi occhi erano vietri e vuoti esattamente come quelli finti, pur luminosi, di una bambola.
“Hai preso la tua scelta. Decideremo cosa fare di te.”
L’uomo biondo più alto buttò a terra la sigaretta ancora accesa, calpestandola con il tacco dello stivale nero, sbriciolandola attorno alle gambe della donna.
“Tienila pure in tasca, se la vuoi come ultimo desiderio.”
Poi, con un gesto di scherno, le lanciò addosso una sigaretta nuova, appena presa dal pacchetto.
Quando i due uomini uscirono dalla stanza, lei ripose la sua mano nella tasca.
 
§°§
 
“Non mangi niente? Ti sei messa di nuovo a dieta?”
Ran sussultò, trascinata nella realtà da quelle parole. Sorrise alla sua migliore amica, spostando con la forchetta * da una parte all’altra del piatto il cibo ordinato. Non aveva voglia di mangiare.
“Stai bene, Ran?” ma quando la karateka annuì, Sonoko non le credette. “È da oggi che sei strana. È successo qualcosa? Forse hai visto qualcosa che ti ha spaventata quando sei andata da tuo padre alla centrale di polizia? Prima mi hai detto di aver fatto tardi perché gli hai portato le chiavi di casa, che aveva dimenticato come al solito. Sei dovuta salire sino nell’ufficio dell’ispettore Megure? Hai visto qualcosa di brutto?”
“No, Sonoko. Cioè, in realtà ho incontrato una persona…” soltanto allora le guizzò alla mente il singolare incontro di quel pomeriggio, con quello che suo padre aveva già qualche giorno prima definito un sospettato dell’inchiesta su cui sia lui che Shinichi lavoravano.
-Shinichi…-
Ogni pensiero tornava a lui. Di nuovo l’immagine del detective scacciò dalla mente ogni altra idea dalla testa, compresa la particolare conversazione avuta con quell’uomo qualche ora prima. Ma cosa importava di quel tizio? Cosa importava di tutto il resto?
Era una ossessione, un pensiero dominante.
 
Dolcissimo, possente
Dominator di mia profonda mente *

 
“Sonoko, non chiedermi niente. Devo assolutamente andare via, ma non vado a casa. Devo…fare una cosa. Potresti coprirmi? Dì a papà che sono con te, se ti telefona.”
Non le diede il tempo di accettare –ma certo che avrebbe accettato! Sonoko era la sua migliore amica, ed erano sempre state complici, fin dall’infanzia, quando la giovane ereditiera sgattaiolava via dalle lezioni di ceramica * che entrambe seguivano per andare all’appuntamento con il ragazzo di turno. “Uno stupidotto, Ran, non hai idea.” Le diceva poi il giorno dopo, insoddisfatta dalla mediocrità del suo cavaliere- che si alzò dalla sedia e corse via dal ristorante, dirigendosi a gran velocità verso villa Kudo. Convinta che quel pensiero non l’avrebbe lasciata in pace fin quando non si fosse decisa a fronteggiarlo, corse per molto e dopo un tempo per lei incalcolabile giunse di fronte al cancello chiuso della residenza dell’investigatore.
Lì, da sola, circondata dal buio della notte e da quei luoghi così familiari per il ricordo che ne conservava da giorni, si sentì avvampare nonostante non le stesse capitando assolutamente nulla di particolare: si trovava in una strada come un’altra, di fronte a una porta chiusa come ne vedeva a bizzeffe di giorno in giorno, e nessuno intorno certificava alcunché.
Eppure il cuore le martellava violentemente nel petto, come se quei luoghi fossero intrisi della presenza di lui -e questo le capitava realmente, in quel momento, poiché ciò che percepiva era frutto delle sensazioni sperimentate lì, per la prima volta così forti e dirompenti che mai avrebbe potuto dimenticare, anche quando avrebbe disperatamente voluto riuscirci.
Una Toyota chiara attraversò la strada lentamente, puntandole i fari addosso così rischiarando la sua sagoma che piroettò distorta sul muro della cancellata. Arrossì violentemente, arretrando di qualche passo affinché ogni testimonianza della sua presenza si dissipasse: incosciamente, rivolse uno sguardo allarmato all’automobile, come se il conducente sapesse per quale motivo lei si trovava davanti a quel portone e la deridesse per questo.
Sei qui per lui, era l’urlo silenzioso che ogni oggetto là attorno emanava.
Deglutì, nel tentativo di calmarsi. Velocemente percorse la distanza tra il cancello e l’angolo della strada, nascondendosi dietro il muretto che delimitava l’incrocio tra due vie: poggiò le spalle contro il muro e prese fiato. Perché il cuore batteva così forte?
Prese un secondo respiro e repentinamente, quasi fosse un’epifania, constatò che quelle che stava provando fossero sensazioni piacevoli: se ne sentiva arricchita, la sua anima irrazionale e sognatrice respirava aria pulita dopo averla desiderata per tanto tempo, pur non sapendo dire che odore emanasse. Adesso lo sapeva, e le piaceva tanto da toglierle il fiato.
Tanto su di giri quanto lo era stata pochi istanti prima, tornò di fronte al cancello Kudo. Rossa in volto, ignorò il suo imbarazzo e fece per suonare al citofono.
“Ran! Cosa ci fai qui?” una voce inconfondibile la bloccò, facendola voltare.
“Non è assolutamente questo il momento, devi andartene!” la rimproverò senza aspettare la sua risposta, quando ancora la ragazza non lo aveva neppure guardato in volto.
Finalmente, dopo due giorni, lo vide. I vestiti erano stropicciati e impolverati, il cappotto di tessuto completamente coperto di cenere e foglie secche, i vestiti impregnati dall’odore dell’alcol.
Lo fissò negli occhi e vi colse preoccupazione. Perché mai Shinichi era così turbato? E cosa ci faceva, in quelle condizioni, alle due di notte passate? Soltanto allora si capacitò dell’uomo al suo fianco: un tizio alto, con i lunghi capelli scuri arruffati sotto un berretto nero, gli occhi verdi che la scrutavano assottigliati, esaminandola. Con un braccio circondava le spalle dell’investigatore, più basso di lui, che lo sorreggeva con una mano.
Sebbene la situazione fosse chiaramente delicata, a Ran parve di leggere una nota di divertimento negli occhi di quell’uomo.
Sei qui per lui, di nuovo quel grido…
Deglutì, parlando nonostante l’imbarazzo che le divampava nel cuore in misura esponenziale.
“Shinichi, io…”
Udendolo apostrofare in quel modo, la luce divertita negli occhi di quel tipo s’accentuò, e un leggero sorrisetto andò a incrinargli il volto, prima truce.
-Truce?- Ran esitò un momento, colta dal dubbio di aver già visto altrove, prima di allora, quell’uomo dall’aspetto altero.
“Ran, davvero, non è il momento, è pericoloso per te stare qui.”
“Che cosa succede?”
“Non posso dirtelo.”
“Sei nei guai?”
“Sono un investigatore, svolgo il mio lavoro.”
Quei primi momenti di esitazione che avevano sorpreso Shinichi al pari di un ragazzetto del liceo rapidamente sparirono sotto il peso della responsabilità morale cui si ricordò d’essere investito.
Incredibile come quella ragazza lo facesse vacillare! Con enorme stupore e un pizzico di fastidio, Shinichi Kudo si rese conto che le sue mani tremavano, e non certo per il peso dell’uomo che sorreggeva, ma per l’emozione di trovarsela sorprendentemente lì davanti, a pochi passi da lui. Di fronte casa sua, di nuovo.
Deglutì e ignorò quel nodo piacevole alla bocca dello stomaco, ostentando un atteggiamento freddo e professionale.
“Devi andartene, Ran.”
Riprese a camminare portando l’altro a braccio, ma entrambi si muovevano con evidente difficoltà, stanchi dalla distanza già percorsa.
In un baleno, la ragazza fu loro di fianco.
“Vi aiuto io.” Asserì, offrendo la propria spalla come supporto all’altro braccio dell’uomo.
Shinichi sbuffò e quello, incredibilmente, ridacchiò. Accettato l’aiuto della giovane, bofonchiò:
“Tu devi essere il motivo per il quale Shinichi-san mi risponde sempre in ritardo…”
“Ti ho già detto che avevo un contrattempo.”
“Sto appunto alludendo al fatto che sia lei, il contrattempo.” *
Ran gli lanciò uno sguardo, ed ebbe l’impressione fosse impercettibilmente arrossito sulle gote, oltre quella corazza d’indifferenza di cui continuamente s’ammantava. Stranamente soddisfatta, aiutò i due a varcare la soglia del giardino, e poi di casa.
Le luci del soggiorno le permisero di meglio scrutare quel singolare accompagnatore dell’investigatore: la camicia era sporca più di quella del ragazzo e il volto ferito da alcuni lividi piuttosto evidenti. Una chiazza scura sulla parte destra della fonte, come avesse sbattuto il capo da qualche parte di appuntito; e un’altra dalla tonalità leggermente più chiara, quindi procurata più di recente, sul mento. Anche lui puzzava di alcool.
Si chiese cosa fosse mai potuto essere successo. Lo fissò per un po’, dubbiosa: improvvisamente, ricordò.
-È l’uomo che ho incontrato questo pomeriggio alla centrale di polizia! Il sospettato dell’omicidio su cui indagano Shinichi e papà…-
“Prendici un secchio con dell’acqua e un asciugamano, per favore. Grazie, Ran.”
Perché erano ridotti così? E perché Shinichi conosceva quell’uomo? Qualche giorno prima, ai tempi del primo interrogatorio di quel tipo, Ran ricordava chiaramente come Kogoro e Shinichi avessero parlato di lui * e di come Shinichi non avesse minimamente accennato al fatto di conoscerlo, né addirittura avere un rapporto tale da ospitarlo in casa sua dopo quella che i segni parevano additare come una lotta riuscita male. Perché aveva taciuto?
-Perché nascondono qualcosa, ovviamente.-
“Hai paura?” si ritrovò Shinichi alle spalle, e sussultò. L’asciugamano che stava bagnando sotto il getto del lavandino le scivolò tra le dita, schizzandola in viso.
“Curioso, è la stessa domanda che mi ha fatto il tuo amico questo pomeriggio.”
L’espressione interrogativa di Shinichi la indusse a continuare.
“L’ho incontrato questo pomeriggio, alla centrale di polizia. Papà mi ha detto che è uno dei sospettati per l’omicidio di quella ragazza, che il suo numero di telefono è in assoluto il più chiamato da quanto compare nei tabulati del secondo telefono che le hanno trovato addosso. Che non ha un alibi, che nega ogni rapporto con lei. Per questo lo hanno convocato una seconda volta.”
“E cosa gli hai risposto?”
Rimase sorpresa da quella replica impudente. Il detective glissava su tutta la questione, non le spiegava nulla. Un ruggito d’orgoglio la fece parlare, esattamente come qualche ora prima:
“Non ho paura. Sto solo riflettendo.”
“Rifletti un po’ troppo.”
“Da che pulpito!”
Le loro mani s’intrecciarono sotto il flusso del rubinetto, per strizzare l’asciugamano raccolto dal fondo del lavabo.
“Perché sei qui?”
“Perché volevo vederti.”
Ancora una volta, le parve arrossisse mentre abbassava lo sguardo ai suoi piedi.
“Mi dispiace. Come vedi, ho avuto un problema da gestire.”
“Voglio solo sapere se ti sei pentito…”
“Affatto.”
“Cosa gli stai facendo?”
“Lo sto medicando. Ma forse, questo riuscirà meglio a te. Lo faresti per me, Ran?”
“Dimmi cosa gli è successo.”
“No.”
“È un tuo amico?”
Annuì.
“Non è colpevole, Ran. Te lo giuro, non ha fatto nulla di male. Tutt’altro.” Parlò, e i suoi occhi divennero improvvisamente molto tristi.
La giovane karateka, avvezza ai medicamenti successivi agli incontri di karate, fu una valida infermiera per risanare le ferite, non troppo gravi, di quell’uomo sdraiato sul divano del soggiorno di villa Kudo. Shinichi e lui nel frattempo, si erano scambiati qualche parola di cui lei non aveva saputo cogliere il significato.
“Vi lascio da soli.” Gli sorrise, facendo per andarsene.
“Aspetta!” la richiamò il ragazzo e il suo cuore prese nuovamente a palpitare.
“Sì?”
“Passa dall’uscita sul retro. Per questa sera, è meglio.”
“Oh…” delusa da quel misero avvertimento, fece un cenno di saluto all’uomo che però teneva gli occhi chiusi –ma dubitava fortemente si fosse addormentato- e si recò in cucina, da dove sarebbe uscita.
Una mano le si posò sulle spalle.
“Scusami se non ti accompagno. Mi si è presentato un problema, e debbo risolverlo urgentemente.” Shinichi l’aveva raggiunta e conversava con lei a bassa voce, forse perché credeva che il suo ospite dormisse, o forse perché non voleva farsi sentire.
“Mi fido di te. Se dici che è innocente, allora ti credo.”
Ed era vero. Qualunque cosa capitasse, la sua fiducia nei confronti del giovane investigatore prodigio era incrollabile. Quello slancio incondizionato la faceva sentire allo stesso tempo potente e protetta.
“Non dirlo a nessuno, Ran. Non dire di averlo visto, di averlo medicato. Non dire assolutamente che io e lui ci conosciamo. Questo è un grande segreto, ed è di vitale importanza che non si sappia.”
Avrebbe voluto chiederne il motivo, ma l’espressione tanto seria quanto tesa del ragazzo la fece desistere.
“Non lo dirò a nessuno.”
Shinichi Kudo era, per prima cosa, il più grande detective che lei avesse mai incontrato. Professionalmente parlando –e probabilmente, non solo- avrebbe fatto qualunque cosa le avesse chiesto. E quella richiesta non faceva eccezione.
“Ran?”
“Quello che vuoi.”
“Posso…chiederti, se vuoi aspettare?”
“Aspettare che cosa?”
“Lo sai.”
“Che intendi?”
“Lo hai capito benissimo, stupida.” La rimbeccò, per la terza volta rosso in volto nonostante tentasse di celare l’imbarazzo con il sarcasmo. E stavolta Ran fu sicura del rossore che gli imporporava il viso. Rise.
 “Non lo so. Ho tanti ammiratori…”
“Li farò arrestare tutti.”
“Mio padre non c’è ancora riuscito.”
“Puoi scommetterci che ci riuscirò io.”
“E io cosa dovrei fare alle tue ammiratrici?”
“Nulla, perché io lo sto chiedendo a te, non a loro.”
“E cosa dovrei aspettare, esattamente?”
“Tu cosa vuoi aspettare, esattamente?” rispose tanto allusivo quanto lo era stata lei, sorridendole malizioso.
Non replicò, mordendosi un labbro divertita.
Il giovane si sporse verso di lei, che chiuse subito gli occhi. Il caldo tocco delle sue labbra, però, giunse sulla guancia della ragazza, che comunque trasalì. Strinse le braccia attorno al collo del detective, rabbrividendo quando lui le sussurrò: “Grazie, Ran.”
Dopo qualche secondo, tuttavia, aggiunse maliziosamente: “Pensa a cosa vuoi io ti faccia, per sdebitarmi.”
Ma la karateka colse l’occasione, e si propose di rivolgergli una domanda in termini di massima dolcezza. Tuttavia, quando parlò, la voce uscì timida e impacciata:
“Puoi mandarmi un messaggio, qualche volta?”
Shinichi sorrise.
Lanciò uno sguardo oltre la porta del salotto, scorgendo il suo amico ancora sdraiato sul divano con gli occhi chiusi.
“Dai, ti accompagno a casa.”
 
§°§
 
Dai finestrini oscurati della Toyota chiara, la donna poggiata al sedile del guidatore sbuffò fuori dei cerchi di fumo che s’addensarono al contatto con l’aria fredda della notte.
Seduta con tanta eleganza, quasi come si trovasse a posare per il trailer d’un film o la copertina di un giornale anziché a bordo di una macchina in totale solitudine, riusciva a passare inosservata come fosse assente.
Pur parcheggiata diversi metri in lontananza rispetto all’abitazione del famoso investigatore, distingueva molto bene l’ingresso secondario, sul retro del giardino della villa. Vide Shinichi e Ran uscire, l’uno a fianco dell’altro, conversando di qualcosa che li aveva portati a punzecchiarsi vivacemente.
Lei non sembra una poliziotta, aveva pensato la donna, in attesa di un qualche evento eccezionale che però non si verificò. Attese fino al ritorno del ragazzo, circa dieci minuti dopo. Si raccolse i capelli biondi in uno chignon alto sul capo, e avviò il motore dell’auto.
 
§°§
 
Osservò il suo riflesso nello specchio mentre si asciugava il volto, china sul lavandino del bagno. Sorrideva tra sé e sé ripensando al momento in cui le sue dita si erano intrecciate con quelle del giovane investigatore, sotto il flusso gelido dell’acqua corrente, qualche ora prima. Aveva percepito soltanto lei la medesima…malizia, in quel momento? Era stata l’unica a provare una forte scossa e a desiderare di poter bloccare il flusso del tempo sotto lo scorrere dell’acqua? E Shinichi sapeva quello che aveva fatto, si era reso conto di quel movimento che per lei era significato così tanto, oppure la ragazza aveva vissuto un’esperienza totalmente individuale dettata dalla contingenza del momento?
Decise di non curarsene, e di godere semplicemente di quel che era successo, ignorando finché possibile qualunque ragionamento le suggerisse la sua mente iper-attiva, secondo la pessima abitudine di pensare troppo e meditare ancora di più del necessario.
Osservò nello specchio il suo volto raggiante.
Si diede della stupida, a gioire come una bambinetta per qualcosa che forse era accaduto soltanto nella sua testa.
Eppure…
Posso chiederti…se vuoi aspettare?
Iniziando a strofinarsi lo spazzolino sui denti, si sentì entusiasta, forte, elettrizzata.
Doveva distrarsi. Doveva cacciare via quell’eccitazione dal corpo, altrimenti non sarebbe mai riuscita a prendere sonno –e se suo padre l’avesse colta, poi, alle tre del mattino a lavarsi i denti!
Sospirò, mentre si rimboccava le coperte e, al buio, tentava di divagare la mente.
Ripensò allora a quel tipo sdraiato sul sofà del ragazzo, quell’espressione del volto divertita talmente diversa rispetto all’atteggiamento assunto ore prima di fronte la questura.
 
 
Con lo sguardo chino e la mente lontana, Ran percorreva velocemente il marciapiede alberato che l’avrebbe condotta all’ingresso principale, le chiavi di casa già strette nella mano destra per poterle rapidamente cedere a suo padre e poi correre da Sonoko. Come auspicava che l’amica l’aiutasse a rasserenarsi! Nondimeno, la speranza divideva un posto del suo cuore con la disillusione: ciò che Shinichi rompeva, soltanto Shinichi poteva aggiustare.
Se i suoi pensieri erano naufragati a causa sua, potevano ritrovare un approdo sicuro soltanto per merito suo. Insomma, una strada senza uscita, per la sua psiche innamorata.
Convinta di aver rovinato per sempre il rapporto con quel ragazzo per cui aveva provato un dolcissimo sentimento ancora prima di conoscerlo davvero, non riuscì a trattenere le prime lacrime, che iniziarono a scorrerle in viso copiosamente.
Quasi non si accorse di una sagoma poco distante da lei, sin quando quasi non si incrociarono lungo il breve sentiero. Alzò casualmente gli occhi, e si ritrovò quelli verdi dell’uomo, severi, puntati su di lei.
“Stai piangendo, ragazzina?”
Batté le palpebre un paio di volte, stupita che lui si stesse rivolgendo a lei, una sconosciuta, con tono tanto algido.
“Sei una di quelle ragazzine che piangono sempre?”
Inspirò, passandosi una mano sulla frangia per liberarsi la fronte mentre il vento le scompigliava le punte dei capelli.
“E se fosse?”
“Perché piangi?” proseguì quello.
Oramai erano entrambi fermi, l’uno di fronte all’altro.
“Hai paura?”
“Non ho paura. Sto solo riflettendo.”
L’uomo dai capelli lunghi estrasse una sigaretta e la mise tra i denti.
“E allora perché piangi?”
Accese la sigaretta mentre Ran gli rispondeva, piccata: “Cosa importa?”
“Mi ricordi una ragazza. Era una stupida che piangeva di nascosto e non si confidava mai con gli altri. Era veramente una sciocca.” *
Non attese la risposta, e dopo averla superata se ne andò, il passo veloce e le mani nelle tasche dei pantaloni neri.
 
 
Prima di poter trarre qualche indizio, tuttavia, era già scivolata nel sonno con il dolce ricordo delle ore appena trascorse e una sensazione di completa piacevolezza a scaldarle il volto.
 
§°§
 
Shinichi Kudo percorreva a grande falcate la distanza che copriva l’agenzia investigativa Mouri dalla sua villa a Beika. Lo aveva lasciato da solo e aveva uno strano presentimento. La telefonata che avevano avuto due giorni prima lo aveva già messo sul chi va là, sia perché aveva dedotto da sé l’alone di pericolo sempre più spesso che si stava stringendo attorno all’amico, sia perché l’uomo stesso gli aveva parlato con tono di voce che doveva sembrare normale, ma che il ragazzo aveva saputo riconoscere come decisamente preoccupato.
“Li incontrerò nel vecchio magazzino in disuso di Haido, all’una del mattino. L’ora in cui quei due terminano le loro operazioni, troppo tardi per vecchi incarichi ma troppo presto per i nuovi.”
E poi la richiesta.
“Verrai a controllare la situazione, Shinichi?”
 Una domanda che non gli aveva mai posto prima di allora, sebbene lui si fosse offerto spontaneamente di farlo molte altre volte in passato in caso di circostanze di quel tipo.
E se gliel’aveva chiesto così esplicitamente, temeva il peggio. Entrambi sapevano cosa sarebbe potuto accadere, quella notte, e nessuno di loro si era tirato indietro.
“Aspetta fuori, non farti assolutamente vedere. Se noti qualcuno di loro monitorare l’edificio dall’esterno, vattene. Non è il caso che tu ti esponga in questo modo, proprio adesso. Se invece sarai solo lì fuori, non fare nulla. Te lo ripeto, aspetta. Aspetta finché non te lo dico, mi farò vivo io. Non devi entrare. Hai capito, Shinichi? Non entrare.”
Shinichi Kudo non aveva mai accettato ordini nella sua carriera, sin da quando aveva risolto il suo primo caso a bordo di un aereo diretto a New York, a 16 anni *. E lui questo lo sapeva benissimo: era anche per questo che era rimasto tanto colpito dall’investigatore, perciò non gli aveva mai dato alcun comando. D’altronde, non era mai stato necessario: le loro menti procedevano alla medesima velocità, le idee si compenetravano per risolversi in un’unica strategia, sempre.
Per questa ragione Shinichi aveva compreso, non appena ebbe udito le indicazioni dell’amico, che questi non gli stava fornendo ordini, ma raccomandazioni: lui era preoccupato che qualcosa andasse storto. Ed esattamente per questo, di guardia a quel vecchio magazzino sin dalle undici della sera precedente, non aveva esitato neppure un momento quando la finestra era andata in pezzi, segnalando che qualcosa decisamente stesse andando storto.
Entrò dall’ingresso di servizio da cui Ran e lui erano usciti qualche minuto prima, e si affrettò tanto da non notare la Toyota chiara distante diversi metri dalla casa. Corse nel salone, che scoprì vuoto. Lo cercò in ogni stanza della casa, chiamandolo a gran voce per nome.
Solamente quando entrò in bagno, trovò un biglietto poggiato sulla mensola dello specchio.
L’armadietto delle medicine contava delle aspirine di meno, e Shinichi lesse ad alta voce:
“Non esporti troppo. Se qualcosa va storto – Shinichi imprecò -almeno uno di noi due deve proseguire l’indagine, e io non mi fido di nessun’altro.”
Quella notte il detective migliore del Giappone non riuscì a prendere sonno. Gli eventi da poco capitati si ripresentavano regolarmente nella testa nel momento in cui chiudeva gli occhi per assopirsi, sempre più vividi, sempre più reali. Anche ciò che non aveva visto direttamente, ma che lungo il tragitto di ritorno gli era stato raccontato dall’amico, gli parve tanto reale da poterlo percepire concretamente, quasi come se lo avesse vissuto lui stesso.
 
 
Non appena entrò in quella vecchia sala, probabilmente in passato piena di scatoloni e paccottiglia da trasportare da un capo all’altro della metropoli, l’uomo totalmente vestito di nero che l’aveva accolto all’ingresso dell’edificio arrestò il passo.
Lui fece altrettanto, scoccandogli uno sguardo che non poté incontrare quello dell’altro, celato dagli spessi occhiali dalla montatura scura che indossava sempre. Non ricordava di averlo visto senza neppure una volta. Basso e muscoloso, quell’uomo non brillava per l’intelligenza, ma per i modi rozzi e spiccioli: poco incline al ragionamento, abitualmente pronto all’attacco.
Soffermò allora la sua attenzione sul tipo di fronte a lui, il quale, chinato su una scatola molto ampia, si ripuliva le mani nude.
Si ricacciò i lunghi capelli dietro le spalle mentre osservava l’altro muoversi con una calma imperturbabile, come se non li avesse sentiti arrivare e credesse ancora di essere solo. Ma era una pantomima: ci avrebbe scommesso, il suo udito finissimo quale quello di un predatore l’aveva informato persino dei loro passi sulle scale.
“Immagino tu sappia perché sei qui.” Proferì dopo aver indossato i guanti neri. Lanciò una eloquente occhiata all’altro, più tarchiato, che afferrò al volo il comando e andò a chiudere la scatola con una velocità che gli mise i brividi.
Lo vide buttare a terra il panno con cui si era ripulito le mani, e lo scorse impregnato di sangue. Ma lui non era ferito, rifletté.
I capelli, lunghi quanto i suoi, gli ricadevano lungo le spalle, e il loro colore argenteo donava a tutta la sua corporatura un tocco… maligno. Tale colore, che su altri avrebbe prodotto un effetto delicato, su quell’uomo non produceva altro che connotazione spettrale, in virtù del forte contrasto tra gli abiti, completamente tinti di nero, e lo sguardo di ghiaccio.
“Cosa diavolo vuoi, Gin?”
Finalmente il biondo si voltò, e lo fissò negli occhi.
“L’operazione è fallita. Ma questo già lo sai, non è vero?”
“Ti avevo detto di agire con cautela. La tua impulsività ci ha rovinati. Come avevo previsto, ci hai scavato la fossa tu stesso.”
“Un tizio dalla faccia da scemo ha avvisato Whisky*, che era, camuffato da vecchio, a guardia del posto. Gli si è avvicinato e gli ha detto d’andarsene, che stava per succedere qualcosa. Che era in pericolo.” Calcò la voce sull’ultima frase, accendendosi una sigaretta.
“E chi era?” domandò lui, altrettanto imperturbabile.
“Perché non me lo dici tu, Rye?”
“Come credi che possa saperlo?”
“Ti avevo chiesto, inoltre, di occuparti di quella ragazzina. Non mi pare che tu abbia fatto ancora nulla. * Ho dovuto farlo io.”
“Con la tua avventatezza da barbaro non arriveremo mai a nulla, Gin.”
“Rifletti troppo. A forza di riflettere rischi di rimanere imbrigliato e impiccarti da solo. Tu non sei d’accordo con me, Vodka?”
L’uomo con gli occhiali da sole, al fianco di Rye, annuì. Poi, come quella frase fosse un segnale precedentemente stabilito, assestò un calcio alle ginocchia di Rye, facendolo cadere carponi. Non si aspettava quel colpo, perciò non riuscì a difendersi. Ma, quando si ritrovò a terra, comprese che quell’incontro cui Gin e Vodka l’avevano chiamato non si trattava di un rendez vous galante, e fece per muovere la mano alla fondina della sua pistola.
“Non così in fretta, amico.” Percepì la fredda canna dell’arma di Vodka sotto il mento, e alzò lo sguardo a Gin. Questi s’era avvicinato a lui, e lo squadrava dall’alto con malevola fierezza.
“Sei un traditore. E tu lo sai cosa facciamo ai traditori.”
“Tu sei un pazzo.” Gli disse pacato, quasi stessero conversando del tempo o delle stagioni. Non lasciando trapelare il minimo cenno di paura, fece indispettire Gin che, solitamente, manteneva il pieno controllo di sé; ma quell’uomo, quel maledetto bastardo di Rye, quante volte gli aveva mandato il sangue al cervello! E più di tutto, quella calma con cui sembrava affrontare persino l’assassinio di un altro membro dell’Organizzazione, lo mandava in bestia.
Rye era fiero e coraggioso, era arrogante e borioso. Gli puntò la pistola alla tempia, liberando Vodka dall’incombenza di tenerlo a tiro e questi si allontanò di qualche metro, oltre le spalle dell’uomo, che non poté più seguirne le mosse. Di fronte a lui, soltanto il biondo e la sua arma.
“Sei stato il mio braccio destro per un po’. Ed ho capito questo, su di te. O sei uno sporco traditore, o sei uno schifoso coniglio. Oppure sei un puttaniere che ha goduto a farsi quella puttana e poi s’è tirato indietro.”
Vodka poggiò una bacinella d’acqua tra Gin e Rye, tornando al fianco di quest’ultimo.
Rye capì.
“Dunque, quale delle tre?” domandò Gin.
Lui non rispose, continuando a fissarlo senza esitare neppure per il breve momento di un battito di ciglio.
Il biondo gli sorrise. Proprio quando Rye vide quello abbassare la pistola, sentì la mano di Vodka afferrarlo per i capelli e fargli precipitare la testa nel secchio colmo di acqua gelida resa pruriginosa dall’alcool mescolato al suo interno.
Rye non oppose resistenza, trattenendo il respiro.
Se lo torturavano, non sapevano bene cosa pensare. Se lo avessero saputo, lo avrebbero ucciso. C’era ancora un’alta probabilità di uscirne vivo.
Questo sillogismo lo aiutò a mantenere la calma, in apnea dentro la bacinella.
Nel momento in cui Vodka lo fece riemergere, inspirò l’aria che gli bruciò i polmoni: reazione al freddo e alla percentuale alcolica dell’acqua in ammollo.
“Cosa sei, Rye?” proseguì Gin, che nel frattempo aveva preso una sedia su cui aveva preso posto a gambe larghe, con le mani appoggiate in cima allo schienale.
Per quanto dannato tempo lo avevano tenuto là sotto?
“Sei una spia, è vero? Per chi lavori? Cosa sanno di noi?”
Per tutta risposta, con tono di voce impassibile e occhi sollevati, quello proferì: “Sei un pazzo impulsivo, Gin.”
Al segnale convenuto, di nuovo Vodka lo spinse nell’acqua, tenendogli la testa sotto la superficie ghiacciata. Stavolta lo tennero per più tempo, e faticò a mantenere il respiro.
Lo sollevarono e il biondo rincarò: “Dimmi chi sei.”
“Spera che io sia un traditore, Gin. Perché dopo questo scherzetto, se sono uno dei vostri, come io sono, t’assicuro, t’ammazzerò con le mie mani.” Ancora inalterabile, Rye sembrava non provare alcuna emozione.
Di nuovo giù nell’acqua, la faccia sbattuta violentemente, ebbe la medesima sensazione di uno schiaffo tirato a mano aperta in pieno volto, e le orecchie iniziarono a bruciare.
“Cosa ti ha detto quella puttana?
Il rancore serbato per giorni deflagrò: con uno scatto felino si liberò dalla presa di Vodka e fu sopra a Gin, pronto a colpirlo. Udì però dietro di lui un fruscio sempre più vicino, e capì che l’altro si stava affrettando a recuperare la presa su di lui. Scorse nel riflesso dell’acqua la pistola impugnata al contrario alzata oltre la sua testa, e quando la sentì fendere l’aria si scansò rapidamente, cosicché il colpo di Vodka andasse a colpire Gin in pieno volto. Il biondo cadde a terra, e Rye si girò.
“Bastardo…” ringhiò contro di lui, e se non avesse indossato gli occhiali il suo sguardo avrebbe tradito la rabbia cieca che in quel frangente lo animava. Senza perdere tempo a prendere la mira sparò un colpo, ma l’uomo dai lunghi capelli neri riuscì a evitarlo gettandosi a terra, colpendo però con la testa il bordo del secchio ancora pieno. Cadde per terra rovesciando tutta l’acqua, proprio mentre il proiettile viaggiava a velocità della luce oltre il corpo di Rye, andando a schiantarsi contro il vetro della finestra alle loro spalle, mandandolo in frantumi. Pronto a esplodere il secondo colpo, Vodka perse qualche secondo a mirare adeguatamente, e gli fu fatale: con un gesto rabbioso, Rye afferrò il secchio oramai vuoto e lo calò con violenza sulla testa dell’uomo, tramortendolo.
Rimase immobile per parecchio tempo, aspettandosi da un momento all’altro che uno dei due si rialzasse e lo uccidesse.
Per fortuna, questo non accadde: Gin e Vodka erano svenuti, privi di conoscenza, riversi a terra nel polvericcio di quell’edificio in rovina e raccapricciante.

Tirò un lungo sospiro di sollievo, accasciandosi a terra lui stesso: si toccò con una mano la testa, che gli pulsava impetuosamente per il colpo contro la bacinella. Non appena entrò in contatto con la ferita, dal cranio partirono delle fitte che gli trafissero violentemente tutto il corpo, mozzandogli il respiro.
Portò la mano insanguinata di fronte agli occhi, e vide che l’immagine non gli appariva troppo nitida. Chiuse gli occhi, cercando di riprendere fiato, ma non ci riuscì.
Improvvisamente, udì dei passi. Passi veloci di qualcuno che correva su per le scale, e che da lì a pochi secondi l’avrebbe raggiunto.
Disteso a terra, Rye non riusciva a muoversi. Troppo dolore, poche energie.
“Maledizione, non così…” imprecò a denti stretti, respirando affannosamente.
Con le ultime forze rimaste, si issò sulle ginocchia, provando un dolore lancinante.
I passi erano sempre più vicini, sempre più rapidi.
Reggendosi la testa con le mani nel vano tentativo di lenire il dolore, Rye imbracciò la pistola di Gin e la sollevò a malapena all’altezza del torace. Mosse qualche passo verso la porta, desiderando nascondersi dietro lo stipite per coglierlo alle spalle. Ma una fitta acuta lo travolse, e le gambe gli cedettero proprio nel momento in cui Shinichi Kudo faceva il suo ingresso, affannato, nel vecchio stanzone.
Rye cadde sulle ginocchia e il detective lo afferrò per le spalle, aiutandolo a raggiungere il pavimento con minore impeto.
“Akai-san!” lo apostrofò, e sentendosi chiamare in quel modo l’agente dell’FBI tornò finalmente a respirare. Sospirò, lasciandosi cadere.
“Non ti affaticare, Akai-san. Ti aiuto io.”
Privo di ogni energia persino per sollevare lo sguardo, Shuichi s’abbandonò alle mani robuste dell’amico, sul punto di perdere conoscenza. Non disse nulla, e aprì la mano da cui scivolò via la beretta di Gin.
“Akai-san!” lo chiamò di nuovo Shinichi, cercando di mantenerlo sveglio.
“Shuichi!” fu l’ultimo suono che l’agente speciale udì, prima di svenire.
 
 
 
 
§°§ §°§ §°§
 
 
 
[1] Festa delle bambole o Festa delle bambine, è una ricorrenza giapponese che cade il 3 marzo, cioè il terzo giorno del terzo mese. In questa occasione sono preparate delle piattaforme con un tappeto rosso, sulle quali è esposto un insieme di bambole ornamentali che raffigurano l’imperatore, l'imperatrice, gli attendenti e i musicisti della corte imperiale con vestiti di corte del periodo Heian.
[2] Ho italianizzato la scena adottando posate europee al posto delle bacchette.
[3] Sono fissata con la poesia. Ho voluto inserire qualcosa di Leopardi. Perdonatemi!
[4] Ho preso ad esempio e incastonato nella storia gli episodi in questione, Il corso di ceramica.
[5] È successo nel capitolo sei, Nubi all’orizzonte:
 
“Puoi parlare?” fu l’esordio di quella telefonata segreta.
“Sì, scusami. Io ero…impegnato.” Shinichi sorrise tra sé e sé, rifugiandosi dietro l’angolo del complesso di edifici a cui apparteneva anche l’appartamento dei Mouri. Non appena aveva sentito il telefono vibrare nella tasca interna della giacca, aveva pensato di dover correre via per rispondere; ma quel bacio l’aveva travolto, e lui aveva preferito ignorare, per qualche istante, il lavoro, le preoccupazioni, il mondo esterno. Che il suo telefonino stesse suonando non glien’era importato più molto.
“Ascoltami, Hidemi…”
“Lo so, è venuta da me. Ieri.” Aggiunse, repentino. Sollevò gli occhi; il cielo cominciava a farsi scuro, delle nubi si condensavano oltre i raggi, già deboli, del sole.
“Mi ha ragguagliato sulla situazione.”
“Molto bene, così risparmieremo tempo.”
“Come vanno le cose?” si affrettò a chiedergli prima che riagganciasse.
“Mi hai appena detto che Hidemi…!”
“A te, intendo. Come ti vanno le cose?”

 
[6] Nel capitolo sette, Fervore.
[7] Se questo scambio di battute vi suona familiare, abbiate fede e proseguite nella lettura. Presto (cioè, “presto”…) capirete il perché.
[8]  Dagli episodi Il Primo Caso di Shinichi.
[9] Non esiste nel manga un personaggio con questo nome, non faccio riferimento a nessuno di conosciuto.
[10] Alcune battute di questo dialogo si riferiscono al precedente incontro tra Gin e Rye, nel capitolo settimo:
 
“Sei impazzito? Perché l’hai fatto, eh?”  gli ringhiò addosso l’uomo dai capelli corti, irrompendo nella sua stanza.
L’uomo dai capelli lunghi non lo guardò neppure in faccia; afferrò una sigaretta dal pacchetto poggiato di fianco allo schermo del computer, e se la ficcò in bocca.
“Non io, ma quei due.”
“Su tuo ordine.”
“Tu hai procurato un gran caos, e noi abbiamo provato a risolverti il problema.”
“Il gran caos lo avete fatto voi: avete sparato addosso a un investigatore! Cosa credi che faranno adesso, loro? Indagheranno, risponderanno all’attacco.”
“Le cose sono due.” Si accese la sigaretta, inspirando il tabacco “O sei un gran codardo, e temi la polizia; oppure vuoi tenere fuori quel detective dal mirino, per chissà quale motivo. In entrambi i casi, non mi sta bene. E non sta bene neanche a Lui. Senza considerare il fatto, che abbiamo ancora la questione di quella ragazzina in ballo.”
“Bisogna agire con cautela, tu sei troppo impulsivo. Non ragioni, non capisci che così ci stiamo scavando la fossa da soli.”
“Dimostrami di non essere un codardo. Va’ da quella ragazzina, e rimettila in riga. Non importa come: viva o morta, non deve più starci tra i piedi.”


§  °     §


Note dell’autrice: Salve a tutti! In primo luogo, torno a ringraziare di vero cuore tutti coloro che hanno letto, e ancora di più chi ha recensito lo scorso capitolo. Dopo aver atteso così tanto per ricominciare a pubblicare gli aggiornamenti, ero convinta che nessuno avrebbe più avuto la voglia di leggere la storia. Trovare le recensioni è stata una meravigliosa, splendida sorpresa. Quindi, ancora: grazie! Grazie in particolar modo a: aoko_90, _Rob_, mikietta, mangakagirl, Cia_, Laix, Shin17, SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate.
E come sempre il grazie più affettuoso va a _Rob_, carissima collega e complice che mi sprona sempre e mi incoraggia. Grazie cara!
 
In merito al capitolo appena terminato: dalle recensioni lette, ho pensato fosse il momento di dichiarare esplicitamente l’identità dei loschi figuri in nero di tutti i capitoli precedenti: i Mib! Anche perché siete state così brave da avermi scoperto, quindi non aveva più senso lasciare in piedi questo mistero: complimenti! =D E inoltre, ecco entrare in scena il bravissimo e fuori classe…Shuichi Akai! Spero davvero non sia risultato troppo OOC. Gosho l’ha talmente, diciamo così, variato, ultimamente, che non sono sicura di essere riuscita a inquadrare per bene il suo carattere.
 
Da questo capitolo in poi, la situazione entra un po’ più nel vivo dell’indagine e alcuni nodi disseminati qua e là vengono al pettine – il progetto portante, sempre relativamente all’inchiesta poliziesca, di questa fanfiction si rivelerà molto presto, e mi auguro davvero di non aver preso una strada troppo OOC o, peggio ancora, banale, su cui costruire tutta la trama. Era un’idea che, prima di cominciare a scrivere questa fic (anni e anni e anni e anni e anni fa…) mi ronzava in mente da parecchio e avevo voluto mettere per iscritto, ma ora come ora, a distanza di tanto tempo, mi sembra forse una scelta azzardata. Vedremo se vi piacerà oppure no.
Nei prossimi capitoli, se avrete la pazienza di aspettare i miei aggiornamenti (sigh!) capirete di cosa sto parlando e a quale struttura portante sto facendo riferimento. Per il momento, vi basti sapere che da brava vigliacca sto mettendo le mani avanti!
Grazie di cuore a chi sarà arrivato fin qui, e a chi recensirà la storia.

Un abbraccio fortissimo dalla vostra ritardataria e disordinata Cavy :*

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Capitolo 10
*** Capitolo Nono - Distrazione ***


Capitolo nono
Distrazione

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«“Sono innamorato? Sì, perché sto aspettando.”
L’altro, invece, non aspetta mai. Talvolta, ho
voglia di giocare a quello che non aspetta;
cerco allora di tenermi occupato, di arrivare in ritardo;
ma a questo gioco, io perdo sempre: qualunque cosa io faccia,
mi ritrovo sempre sfaccendato o, per meglio dire, in anticipo.
La fatale identità dell’innamorato è: io sono quello che aspetta.»
Jorge Louis Borges
 
 
 
 
Con il consueto e oramai indispensabile ringraziamento alla carissima Rob,
 
 
 
 
Le sagome di due corvi si stagliavano, appese, su un ramo del salice in giardino, irradiate dalla flebile luce lunare come se avessero volontariamente scelto la posizione al centro del palcoscenico, laddove l’occhio del faro isola e centra l’attore principale. Erano impettiti, fermi, con gli artigli conficcati nel legno come se ne stessero succhiando via la linfa, e Shinichi riusciva a scorgere il riflesso rossastro di quegli occhietti impassibili - una sfumatura che, messa in risalto dal nero del piumaggio, attribuiva loro una natura quasi demoniaca.
Correva a perdifiato, intenzionato a raggiungerli: sentiva le gambe formicolare e i piedi indolenzirsi via via che perpetrava lo sforzo della corsa, eppure non cedeva e ignorando le grida di dolore del corpo continuava, protendendo verso di loro le braccia. Arrivava ai piedi dell’albero e questo sembrava precipitare all’indietro; di nuovo riprendeva a correre e quasi poteva vedere lui stesso le sue mani protendersi in un gesto all’apparenza eroico, ma che lui riconosceva come disperato.
Finalmente, raggiungeva l’albero e, dopo una esitazione –che, seppur breve, procurava in lui la vergogna che ombreggia il codardo- faceva per afferrare quelle zampette rapaci come le hanno le aquile e preistoriche come quelle di dinosauri. Il primo corvo esplodeva in un gracchio lugubre e, aprendo repentinamente le ali per apparire più grande di fronte a quello che riconosceva come un nemico, spiccava il volo emettendo versi sempre più acuti; l’altro non era altrettanto rapido, e Shinichi l’afferrava: ma l’animale gli conficcava le unghie nella carne, e un sangue rosso vermiglio –rosso quanto quegli occhietti spettrali- immediatamente gli colava dal braccio giù sui vestiti, a impregnargli la vista e l’olfatto d’un odore acerbo quale quello del ferro arrugginito.
Come era stato anche per le due notti precedenti, a questo punto dell’incubo Shinichi aprì gli occhi di scatto e s’affrettò a sedersi sul letto, guardandosi intorno con l’immagine di quei due maledetti corvi ancora negli occhi, certo di trovarli volteggiare sopra la sua testa come rapaci pronti a precipitare sulle carcasse da divorare. *
Impiegò qualche secondo a capacitarsi dell’irrealtà che gli si era proiettata nella testa: la dimensione onirica gli s’imponeva come realtà filtrata da un diverso canale percettivo, lasciandogli addosso una sensazione sgradevole – che qualcuno avrebbe definito angoscia, ma che il giovane detective sminuiva come stress o premura data dalla brusca accelerazione che, contro la sua volontà, l’indagine sui Mib stava subendo.
Si distese di nuovo, deciso a ignorare quel sogno per assopirsi nuovamente il prima possibile. E tuttavia, gli occhi serrati, il cervello non ne voleva sapere, ma anzi aveva già ripreso a lavorare meticolosamente sul caso: la tortura ad Akai, la retromarcia coatta, il pericolo corso dall’agente Hondou a causa di una stupida foto – tutti fatti che aveva affrontato con grande ardimento e contro i quali avrebbe agito ancora e ancora senza tirarsi indietro, ma che si succedevano nell’inconscio della sua mente in un reflusso di eventi pericolosi che l’organismo stava faticando a digerire.
Shinichi non aveva provato paura neppure per un secondo – non per se stesso, almeno. Ma percepiva con grande chiarezza il dolore delle persone che lo circondavano: la frustrazione di Kir che, sempre pronta all’eventualità di essere scoperta e uccisa, lottava dall’interno in un continuo gioco di gerarchie, costretta talvolta a eseguire degli ordini raccapriccianti per scalare i gradini dell’Organizzazione – e quel maledetto articolo di giornale che aveva rischiato di mandare tutto all’aria!; agenti di volta in volta sempre più disillusi, l’intenzione di arrestarli che progressivamente si era tramutata in una speranza, e poi pian piano in anelito, quando non in slancio idealistico e puramente immaginifico; tutte le vittime inconsapevoli, che si erano lasciate risucchiare dal gorgo di quegli uomini e non erano più riuscite a salvarsi: uomini corrotti e stupidi, intenzionati a sfruttare i benefici che un’organizzazione criminale di tale portata poteva arrecare, imprigionati nei loro affari prima ancora di rendersene conto…tutto questo, e poi Shuichi.
Akai, infiltrato nell’Organizzazione con il nome in codice di Rye e l’identità fasulla di Moroboshi Dai, provava in quei giorni un dolore estremo, ma schivo e solitario quanto, e forse più, del Detective dell’Est, esternava raramente i segnali della sua misera condizione.
Shinichi sapeva che stava resistendo a denti stretti, appeso con le unghie a una superficie in grave pendenza, deciso a fare tutto quanto era in suo potere per arrestarli dal primo all’ultimo – o almeno, Gin e Vodka, per incominciare: quei due luridi esseri colpevoli di azioni terribili.
Shinichi sapeva.
La condizione di Akai era pericolosa, e la decisione più sensata da prendere, in seguito agli ultimi avvenimenti, sarebbe stata quella di abbandonare immediatamente la sua copertura e tornare a gestire l’indagine extra limen, dall’esterno, coordinando le azioni dei suoi colleghi dell’FBI. Non ne avevano parlato esplicitamente, ma entrambi l’avevano capito ancor prima di quell’aggressione nel vecchio magazzino, un evento che naturalmente aveva sottratto loro ogni possibile dubbio: Gin sospettava, per quanto ancora Rye avrebbe mantenuto la sua immagine di criminale?; eppure, Shuichi non avrebbe abbandonato quel ruolo dopo tanta fatica, proprio allora che qualcosa sembrava si stesse muovendo: sì, l’operazione di smantellamento coordinata da James Black dopo la soffiata di Akai era rovinosamente fallita a causa dell’errore di un agente appena trasferito * –Andre Camel, un uomo tanto inquietante tanto sensibile alla propria colpevolezza-, ma non importava; l’operazione successiva sarebbe andata meglio, doveva andare meglio. Shuichi insisteva tenacemente a costo della sua vita e Shinichi sapeva che non si sarebbe tirato indietro almeno fin quando almeno quella ragazza non fosse stata tratta in salvo: Akai non gliene aveva fatto cenno neanche una volta, non ce n’era bisogno. Lei era il pegno con cui riscattare il suo fallimento più grande.
Entrambi sapevano, e il detective percepiva profondamente il dolore e la frustrazione di quello che aveva avvicinato come collega e presto era divenuto un amico.
Rinunciò a dormire e s’alzò, scoccando uno sguardo oltre la persiana aperta: quel salice che nel sogno era preludio all’apparizione dei corvi ondeggiava flessuosamente, di fronte ai suoi occhi svegli, per effetto del vento –l’albero che suo padre aveva voluto piantare nel giardino della Villa quando Shinichi frequentava le scuole medie. Quel piccolo elemento di realtà nel sogno era forse ciò che più lo inquietava quella notte.
Sceso al piano inferiore, si diresse in cucina per cercare nel frigorifero qualcosa che potesse conciliare il sonno: del latte, forse, o almeno un po’ di caffè avanzato? La scarsa premura che il ragazzo aveva per le questioni domestiche si traducevano in credenze completamente vuote, dal momento che i pasti erano quasi sempre consumati all’esterno –lui, il grande detective del nuovo secolo, che neppure sapeva cucinare qualche chicco di riso. Soltanto piatti d’asporto o cibi preconfezionati.
Lanciò uno sguardo all’orologio mentre beveva dell’acqua minerale: le due e quaranta del mattino.
L’attenzione fu attirata dal cellulare poggiato sul tavolino. Lo prese, indeciso.
Shinichi Kudo era sempre stato un ragazzo solitario. Nel corso del tempo, ed anzi anche negli anni della scuola, la gran parte dei suoi conoscenti aveva pensato di poterlo inquadrare nel tipo del giovane sicuro di sé e snob, perciò naturalmente portato all’esclusione degli altri per interesse di se stesso. Una opinione corroborata e rafforzata dal suo atteggiamento spavaldo e vanaglorioso, specie nei tempi d’esordio della sua attività di investigatore: lettere di ammiratrici che il suo armadietto scolastico a malapena riusciva a contenere, fan che lo rincorrevano per la strada nel tentativo di strappargli un autografo o, almeno, una parola, giornalisti che gli si accalcavano intorno per assicurarsi la prima intervista sull’ultimo caso chiuso, la cascata di fotografie e articoli di giornali che lo ritraevano negli atti più ostentati della propria abilità.
Shinichi Kudo era famoso, ed era ritenuto dai più un giovane altezzoso, a tratti arrogante, e nondimeno lui non aveva mai smontato questa descrizione ufficiale.
Una delle sue anime, quella che effettivamente si abbeverava a un certo snobismo intellettuale, lo convinceva dell’inutilità di qualunque tentativo teso a smontare quell’immagine di lui tanto parziale; pertanto, Kudo Shinichi era persuaso nell’idea che, se qualcuno lo ritenesse saccente e pieno di sé, ebbene lo credesse pure: non avrebbe fatto nulla, per dimostrare il contrario. E per cosa, poi?
Osserva ciò che è in superficie e gettalo senza curartene: ciò che si mostra con grande facilità non abbia il tuo interesse. Nulla è più prezioso di ciò che dev’essere svelato. *
La sua vera identità rispondeva all’imperativo morale di auto-conservazione: conoscere se stessi, tendere alla perfezione, cercare sempre l’azione migliore – i tre cardini della sua etica.
Il detective Kudo era un ragazzo dall’arroganza spiccata; ma Shinichi era un giovane che si crogiolava allegramente nella saccenza che ostentava con malizia irriverente e, all’occorrenza, persino auto-ironica, sebbene naturalmente non gli fosse estraneo un certo mordace sarcasmo pronto a venir fuori quando qualcosa lo spazientiva.
Questo si traduceva in una sostanziale selezione del suo tempo libero: pochi amici, pochi svaghi. Il suo ego, che pure veniva profondamente stuzzicato e compiaciuto dall’apprezzamento di un numero davvero considerevole di donne, s’arrestava di fronte alla concretizzazione di quell’ammirazione che altri avrebbero colto al volo. Nessuna storia passionale con attrici famose, nessuna avventura con femme fatales o donne dal fascino magnetico: Shinichi Kudo era sostanzialmente noncurante del potenziale sensuale della sua fama, ed anzi probabilmente in alcuni frangenti si sarebbe potuto definire persino lento a cogliere i segnali dei flirt cui le ragazze lo invitavano.
L’anelito ai valori assoluti indotto dalla sua morale lo portava a rifiutare automaticamente la possibilità di una relazione di comodo: non avrebbe pagato lo scotto del compromesso per evitare la solitudine, poiché non la temeva.
E però, tutto ciò non era bastato a renderlo totalmente immune alla repentina irruzione di particolari sensazioni: una ragazzina stava attirando la sua attenzione in una maniera tanto rapida quanto irrazionale –un’irrazionalità che lui non riusciva ad accettare e che pure lo sopraffaceva quando lei compariva in scena. Abituato a non porsi affatto tale problema, si stupiva di quanto Ran abitasse il suo immaginario, e si stizziva nel sorprendersi tanto spoglio di fronte a delle emozioni che in passato non aveva provato. Scoprire il batticuore che l’assaliva se la ragazza gli compariva davanti senza preavviso, sorprendere le mani tremargli quando i loro sguardi si fossero incrociati e soprattutto distrarsi da un ragionamento deduttivo perché l’immagine del corpo di lei s’impossessava della sua mente analitica…tutto questo lo meravigliava poiché gli rivelava l’esistenza di uno Shinichi pericolosamente sentimentale, interessato più al sapore di quelle labbra delicate che alla conversazione con un poliziotto. Uno Shinichi prevedibile e incauto.
Ogni volta si dava mentalmente dello stupido e si ammoniva da solo affinché si scrollasse di dosso quella frivolezza atipica; ma sempre, prima o poi, si ripresentava l’occasione e lui si meravigliava d’essere incapace di gestirla. Si meravigliava che la prima reazione a quelle sensazioni fosse entusiasta, e che il primo desiderio ad affiorare nel suo inconscio riguardasse il corpo della ragazza.
 
“Posso…chiederti, se vuoi aspettare?”
 
Era stato ridicolo!
 
“Puoi mandarmi un messaggio, qualche volta?”
 
Ed era stato un imbecille che le aveva scritto il mattino dopo, ed aveva chattato con lei come uno studentello alle prime armi.
Con quel cellulare tra le mani, quasi non si rese conto di ciò che aveva appena digitato:
 
«Non prenderla sul personale, ma spero che tu non riesca a dormire, sai?»
 
Di nuovo preda dell’irrazionalità, aveva agito contro ogni logica –e stava rischiando addirittura di comportarsi in maniera non professionale: un rimprovero che, ne andava molto fiero, mai nessuno aveva potuto rivolgergli. Ma cosa diavolo gli prendeva? Quel suo gemito a malapena strozzato quando l’aveva toccata, ancora nelle orecchie…
Sbuffò, gettando il telefono con un gesto di stizza contro se stesso e la sua riscoperta impulsività.
 
“Tu devi essere il motivo per il quale Shinichi-san mi risponde sempre in ritardo…”
“Ti ho già detto che avevo un contrattempo.”
“Sto appunto alludendo al fatto che sia lei, il contrattempo.”
 
Aveva sghignazzato Shuichi, facendolo avvampare immediatamente, poiché in pochi secondi aveva capito perfettamente la situazione: Shinichi era distratto da Ran.
Lo squillo del telefono lo fece sobbalzare:
 
«Sei preda dell’insonnia, grande detective?»
 
Per la seconda volta scagliò il telefono lontano da sé, affrettandosi a spengere la luce e tornare al piano di sopra nel suo letto.
Pochi istanti dopo, tuttavia, la cucina fu nuovamente illuminata a giorno e, con uno sbuffo seccato, il detective recuperò il cellulare per portarlo con sé nella stanza:
 
«Cosa fa una ragazza per bene sveglia a quest’ora?»
«Sherlock Holmes si è ritrovato improvvisamente da solo e si annoiava?»
«Stai aggirando la domanda, dovrò forse preoccuparmi?»
«Un grande detective ha di certo preoccupazioni più importanti…»
 
Il ritmo serrato delle loro conversazioni, il modo in cui lei riusciva a sostenere i suoi affondi ed anzi a rilanciarli, ciò che non veniva detto eppure s’imponeva nell’aria come un audace convitato di pietra – Shinichi era assediato e s’affannava inutilmente attorno alla resa.
 
«Mi offro per salvare il dongiovanni di turno dalle violente mani di tuo padre.»
«Dovresti offrirti per salvarlo dalle mie…»
«Se sei sempre così violenta non troverai marito!»
«E quale moglie vorrà un fastidioso so-tutto-io?»
 
Il giovane detective sorrise e, indulgente con se stesso, cedette per la seconda volta a quel bisogno che, nei momenti di crisi, sentiva così urgente da offuscarlo:
 
«Voglio vederti.»
 
§§§
 
Intrattabile.
Questo l’aggettivo con cui si era sentita apostrofare almeno quattro volte nell’arco della giornata – sua madre per telefono, Sonoko in classe, e Kogoro dapprima al telefono, quando le aveva chiesto di comprare del riso per la cena prima di tornare a casa, e poi anche di persona nel tentativo di arginare le critiche contro il suo terzo bicchiere di saché durante la cena: insomma, un record!
Era forse colpa sua? Era colpa sua se quell’arrogante sbruffone so-tutto-io era un superficiale e vanaglorioso imbecille?
A metà cena, con il pretesto di essere totalmente sazia della vista di suo padre preda della solita bottiglia, s’era alzata per rifugiarsi in cucina, a lavare i piatti: la solitudine della stanza e il rumore dell’acqua la celavano da Kogoro, dagli altri, dal mondo; non voleva vedere né parlare con nessuno, voleva stare da sola e basta. Non le interessava niente, non voleva argomentare né spiegare il benché minimo infinitesimale nulla in merito al suo cattivo umore.
Sì, era colpa sua. Colpa sua che era una ragazzina e s’era lasciata prendere in giro da un investigatore.
Il detective Mouri fece capolino dal salotto per monitorare la condizione della figlia: la vide talmente intenta nel riasciugare le stoviglie, che con uno sbuffo sonoro –che avrebbe dovuto tradurre un “Solo tu sai cosa t’è preso, Ran” - se ne tornò in camera, pronto alla maratona film con attrice protagonista la sua amata Yoko Okino.
Risciacquando gli ultimi piatti, la ragazza si ritrovò a pensare che il beneficio dell’acqua avrebbe piuttosto dovuto cancellarle i ricordi dalla mente, come le acque prodigiose del Lete, fiume dove immergersi per ritrovare la purezza originaria; mentre la sua, di purezza originaria, si annidava nei tempi che avevano preceduto l’incontro con Shinichi Kudo: ma non di certo l’incontro fisico, reale, bensì la prima volta in cui i suoi occhi si erano posati sul suo volto sorridente intento a rispondere al giornalista di turno. Sarebbe stato meglio non aver mai provato interesse per quello snob, mai aver covato un debole per lui! Mai!
“Cosa vuoi che ti dica? Oggi è intrattabile… lasciami in pace, parla con lei se ci tieni a farti trattar male. Sono molto indaffarato adesso!” sentì Kogoro decretare, probabilmente al telefono con Eri Kisaki – ecco, per la quinta volta! Record imbattuto di malumore per Ran Mouri.
Era colpa sua e basta, Shinichi non aveva responsabilità. Stava a Ran capire, e ridimensionare i suoi desideri: aveva sperato troppo, si era illusa dell’unicità di un sentimento che probabilmente non si era neanche affacciato nell’animo del ragazzo; non per demerito, ma poiché Shinichi Kudo non avrebbe mai potuto prendersi una cotta per Ran Mouri. Come le era potuto venire in mente?
Quella mattina, mentre andava a scuola, aveva visto troneggiare la foto del detective privato da un giornale appeso all’edicola all’angolo con il quartiere di Beika, vicino la stazione di polizia. Con il sorrisetto sulle labbra più incurvato delle altre volte (“Shinichi non è più la persona di cui sento parlare, è la persona con cui parlo…” aveva cinguettato tra sé e sé, acquistando la rivista), s’era affrettata a leggere l’articolo che lo riguardava: delle novità sull’indagine, forse? O il suo consapevole commento a qualche fatto d’attualità? Avrebbe persino potuto usare quella nuova intervista come scusa per contattarlo…
Invece, il breve trafiletto rivelava che Shinichi aveva un’amica segreta, probabilmente famosa: il giovane detective era immortalato di profilo, con la schiena appoggiata al tronco di un albero e le mani in tasca, in compagnia di una ragazza fotografata di spalle, i capelli ricci raccolti in una coda di cavallo e l’abbigliamento molto elegante – completo di gonna e giacca chiari, scarpe rigorosamente alte, sciarpona maculata e occhiali da sole.
Il gossip s’era scatenato: non c’era stato opinionista tv, cronachista, conduttore o radiocronista che non avesse ipotizzato un nome, e naturalmente ogni nominativo proveniva dalla lizza delle Veneri dello spettacolo. Tra coloro che parlavano di attrici e chi ipotizzava cantanti, la parte più consistente percentualmente era quella che puntava su qualche modella – una bellezza adatta al carisma del detective più affascinante della metropoli, recitava il giornale.
Dapprima, Ran aveva sperimentato la fase della negazione: i giornalisti hanno sovrinterpretato un nonnulla - non è nessuno, è una conoscente, è una cliente, è una sua amica – ,il ventaglio delle possibilità era molto ampio ma molto vago, perché preoccuparsi di una donna con cui Shinichi stava parlando in un parco? Poteva essere persino una sua fan che, avendolo riconosciuto, l’aveva importunato per un autografo e lui, gentile, aveva accettato…
Nondimeno, in un secondo momento, un dettaglio sconcertante le aveva procurato il rallentamento del battito cardiaco: Ran aveva riconosciuto nella ragazza della foto l’attrice vista a casa di Shinichi giorni addietro, la Hidemi che lasciava casa sua di notte *, e aveva sentito tutto il corpo congelarsi.
 
“A presto, Hidemi.”
La voce di Shinichi.
Si affacciò oltre il cancello e vide il detective sulla soglia della porta, in camicia bianca e pantaloni eleganti. I piedi però erano nudi. Di fronte a lui una donna molto alta, e bella, avvolta in un tailleur elegante e molto raffinato, che le evidenziava le curve.
Gli stava dicendo qualcosa, ma parlava a voce talmente bassa che non riuscì a cogliere le parole; le dava le spalle, perciò non fu capace di leggerle le labbra. Mentre si sporgeva di più, lo stomaco le si contorceva.
-Chi è questa donna?!-
Non pensò di avere a che fare con un detective…con Il Detective. Dopo cinque secondi che tentava di spiarli, lui si sentì osservato e mentre ancora la giovane gli parlava, lui volse gli occhi oltre le spalle di lei, e vide la liceale.
Contemporaneamente lui sgranò gli occhi e lei avvampò:
“Ran!” la chiamò, interrompendo la mora di fronte a lui che, allarmata, si voltò. La giovane la vide in faccia: era altrettanto bella. Un volto chiaro, gli occhi azzurri e meravigliosamente truccati. Le parve di conoscerla.
-Ma certo! È un’attrice…- realizzò, cercando nella sua mente il nome che la gelosia le impediva di ricordare.
Shinichi poggiò una mano sulla spalla della donna, e la rassicurò:
“È la figlia di un collega.”
Quella presentazione le diede sui nervi. Dal canto suo, Hidemi parve rasserenata.
“Buonasera, signorina…Ran, giusto?”
“Esatto.” Mugugnò a mezza bocca, i pugni distesi lungo i fianchi.
“Si è fatto tardi, io devo andare.” Tornò a rivolgersi al ragazzo, che le sorrise:
“Certo. Buona serata…e buon lavoro.” Aggiunse repentino, con un mezzo sorriso “Ti accompagno.”
E non curandosi d’essere scalzo, la scortò lungo il vialetto sino al cancello; le aprì galantemente la porta e la fece uscire.
“Arrivederci, signorina Ran.”
“Salve.” Le rispose seria, infischiandosene del sorriso gentile che l’attrice le aveva rivolto. Rimase immobile a guardarla andare via, salendo in una macchina blu metallizzata di gran classe.
“Alle coincidenze, io non credo.” La richiamò Shinichi, appoggiando la testa alla mano che ancora reggeva il cancello.
“Perché sei qui?”
“Chi è quella donna?”
“Perché sei qui?”
“Mhm…” Ran non rispose, tornando a guardare l’automobile guidata da lei che, proprio in quel momento, passava davanti alla villa. I due si salutarono di nuovo con un sorriso.
“È la tua amante segreta? Si è spaventata perché pensava che fossi una giornalista in caccia di scoop?” cercò di scoprire, nelle sue intenzioni quella di fingersi pettegola e sfacciata quando a muoverla era solo l’acuta e profonda gelosia.
Shinichi le regalò un sorriso impertinente.
“Vuoi entrare, Ran?” E, terza persona a non attendere una sua risposta, le diede le spalle facendole strada verso la porta.
Lo seguì, allo stesso tempo imbarazzata ed elettrizzata. Ma non riusciva a non pensare che Shinichi indossava una camicia bianca, sciattata e sbottonata di parecchio; ed era scalzo. E aveva appena salutato una bella donna, probabilmente prima entrata in casa sua.
La testa volò a quel che dentro quella casa poteva essere successo, a quel che poteva essersi consumato in quelle mura. E lo stomaco le mandò segnali di dolore.
“Scusami, non sarei dovuta piombarti qui all’improvviso.” Si decise a dirgli, mentre varcava la soglia dell’abitazione. “Avrei fatto meglio a telefonarti.”
“Non ti preoccupare.”
Chiuse la porta alle sue spalle con un colpo secco, e la guardò negli occhi:
“Hidemi non è la mia amante.” Le rivelò.
Ran arrossì; desiderò ardentemente che quell’affermazione accompagnata dall’azione decisa volesse nascondere qualcosa come: “Lei non è la mia amante, io non sono fidanzato e non ho nessuna donna a cui dovere fedeltà. Ed ora sei tu la donna che è qui, in casa mia, chiusa in casa mia.”
Ma scosse violentemente il capo, cercando di tornare coi piedi per terra.
“E chi è?”
“Un’amica.”
“È un’attrice.”
“Una cosa non esclude l’altra.”
“Le attrici sono sempre coinvolte in torbide relazioni con uomini famosi.”
“Mia madre era un’attrice.”
“Lo so.”
Le lanciò un’occhiata divertita, e lei si corresse: “Cioè…devo averlo sentito da qualche parte.”
 
 A quell’epifania era conseguita una indomabile sensazione di nausea, cui poi s’era sostituita la stizza. Da allora in poi le fasi del suo umore si erano rincorse velocemente in un saliscendi di emozioni: dolore, speranza, sospetto, certezza, amore, astio; ogni emozione era ugualmente accompagnata, tuttavia, dal gelo che percepiva fisicamente all’interno del corpo e al tremore delle dita e della fronte.
Sbuffando, chiuse il rubinetto. Aveva cercato di distrarsi, ma non era servito a nulla: qualunque attività che in altri momenti le avrebbero giovato, in quel frangente non riuscivano ad impegnarla per più di qualche minuto.
Shinichi aveva un’amante, e neppure glielo aveva detto. Anzi, le aveva spudoratamente mentito.
Nel preciso istante in cui Ran era approdata a quella consapevolezza, lo aveva odiato. Un sentimento che mai avrebbe pensato di poter provare nei confronti di quell’investigatore, aveva imputridito per sempre l’immagine e la stima che da tanto tempo la giovane nutriva per lui. D’accordo un’amante, di certo non poteva sperare non avesse mai intrattenuto dei rapporti con una donna: ma perché non dirle la verità? Perché nasconderla?
La denigrazione degli esseri che amiamo ci distacca sempre un po’ da loro. Non bisogna toccare gli idoli, altrimenti la doratura ci rimane sulla dita. * 
Si gettò sul letto con ancora la divisa scolastica, abbandonandosi sul materasso con un tonfo sordo. Era senza forze.
“Vai già a dormire, Ran? Sono appena le nove e un quarto…”
“Buonanotte, papà.”
Un ennesimo sbuffo chiuse la conversazione tra Kogoro e la figlia, totalmente apatica.
Si girò su un fianco, nascondendo il volto nell’incavo del gomito.
-Che scema sono stata…mi ero ripromessa di non sperarci troppo, di non illudermi…-
Voleva disperatamente dormire, perdere conoscenza, smettere di pensare a quell’immagine di lui e lei insieme che pure le si ripresentava con regolarità. Come poteva una sola foto ridurla in quello stato? Mentre le guance si bagnavano delle prime lacrime, la giovane chiudeva gli occhi e s’abbandonava a qualcosa di ancor peggiore della sofferenza, la volontà di soffrire. Per un motivo che non sapeva spiegarsi, Ran non voleva pensare ad altro, non voleva cancellarsi dalla mente i loro volti a poca distanza, non voleva eliminare il detective dai suoi pensieri: di conseguenza, ecco subito manifestarsi i in lei il desiderio di richiamare alla mente quei momenti trascorsi con lui, quelle battutine maliziose e quel sorriso impertinente, quegli occhi che la scrutavano rivelandole un vivace bagliore oltre le pupille, quegli incontri quasi segreti tra loro che, in virtù proprio della discrezione con cui s’erano svolti, le avevano mandato il sangue alla testa nella convinzione che significassero qualcosa. Ricordare era tremendamente doloroso –a ogni ricordo si accompagnava l’emozione provata, che le scaldava il cuore: ma subito dopo quel calore si congelava nella consapevolezza che momenti come quelli non ce ne sarebbero stati mai più, e che invece un’altra ne avrebbe goduto-, eppure non riusciva a farne a meno ed anzi, le pareva indispensabile.
In quella stessa posizione, trascorse la serata versando in una condizione affranta. Quando l’orologio sul comodino segnò le due del mattino, si alzò, svestendosi e preparandosi alla notte –che, già sapeva, avrebbe trascorso vigile e triste. Dopo una rapida doccia che sperava l’avrebbe aiutata e invece non valse a nulla, con la pancia sul materasso e le braccia poggiate sul cuscino, recuperò il cellulare e ne sbloccò lo schermo. Cinque chiamate senza risposta e un sms: la sua migliore amica le aveva telefonato tre volte nel corso della serata –doveva essere in pena per lei, il giorno dopo l’avrebbe chiamata-, sua madre una volta e l’ultima telefonata apparteneva a Kazumi-sempai. Solo allora ricordò gli allenamenti del giorno dopo, le gare nazionali si avvicinavano a grandi falcate. Improvvisamente, desiderò che fosse già giorno: il karate era una delle poche attività capace di rasserenarla, le braccia e le gambe si muovevano quasi automaticamente, trascinate dal ritmo degli esercizi a corpo libero o del combattimento.
Eppure, anche quell’attività era compromessa: anche il karate, oramai, le ricordava Shinichi…*
Sbuffò, come suo padre aveva fatto più volte quella sera. Aprì il messaggio pronta a rispondere ai rimproveri di Kazumi, ma le mani le tremarono e il telefono quasi le sfuggì.
Sussultò su letto, inarcando la schiena:
 
«Non prenderla sul personale, ma spero che tu non riesca a dormire, sai?»
 
Avrebbe dovuto arrabbiarsi e, con sdegno e superiorità, spegnere il telefono ed ignorarlo.
Ma le piaceva.
Tantissimo.
– Come vorrei poter essere orgogliosa quando si tratta di lui… -
Con il cuore che le batteva forte come se il ragazzo fosse lì davanti rispose immediatamente, pur non riuscendo a evitare una piccola allusione:
 
«Sei preda dell’insonnia, grande detective?»
 
Rotolò sul materasso, sgranchendosi le gambe: perché le aveva scritto?
 
«Cosa fa una ragazza per bene sveglia a quest’ora?»
«Sherlock Holmes si è ritrovato improvvisamente da solo e si annoiava?»
«Stai aggirando la domanda, dovrò forse preoccuparmi?»
«Un grande detective ha di certo preoccupazioni più importanti…»
 
La stava pensando? Le guance, ancora bagnate, s’infiammarono.
Le sarebbe bastata la certezza che avesse pensato a lei almeno una sola volta con la medesima intensità con cui era solita abbandonarsi a lui nella propria fantasia.
 
«Mi offro per salvare il dongiovanni di turno dalle violente mani di tuo padre.»
«Dovresti offrirti per salvarlo dalle mie…»
«Se sei sempre così violenta non troverai marito!»
«E quale moglie vorrà un fastidioso so-tutto-io?»
 
Quasi dimentica del risentimento provato per l’intero giorno, fu soddisfatta da quel semplice scambio di battute: come adorava parlare con lui, come si sentiva bene quando parlava con lui!
-Sono veramente stupida...-
Si addormentò con il telefono in mano e un sorriso sincero a incresparle le labbra.
 
 
§§§
 
“Rye deve morire.”
La frase tagliò l’aria, ma nessuno dei tre presenti parve particolarmente colpito dalla gravità dell’asserzione. Al contrario, la donna rise, melliflua:
“Non essere sciocco, Gin. I membri della nostra organizzazione non dipendono dal tuo favore.”
L’uomo strinse la presa sul volante della splendida Porsche su cui viaggiava a tarda ora della notte.
“Quel bastardo è una spia. Io lo so.”
“E perché? Perché si è difeso anziché lasciarsi ammazzare da voi due bestioni?” lei rise ancora, appannando il vetro posteriore con il fumo della sua sigaretta.
“Afferreresti al volo qualunque scusa per ucciderlo. Ma che tu non lo veda di buon occhio non è una motivazione valida per la sua rimozione agli occhi di quella persona.”
“E con la ragazzina come la mettiamo, capo?” s’intromise Vodka: captare l’agitazione del partner era uno dei pochi talenti che aveva a disposizione, pertanto cercò di sviare l’argomento da quell’impasse che tanto sembrava innervosire il biondo.
“Ha preso la sua scelta e ne pagherà le conseguenze.” Proferì lei, serafica. Ma Gin prese la parola con un ghigno:
“Aspettiamo la decisione di quella persona.  Se il mio odio per quel bastardo non è una motivazione valida a una rimozione, non lo è nemmeno il tuo. Ed inoltre, lei…”
“Rye ti è mortalmente antipatico. Ma lei no, non è vero, Gin? È la tua gattina…” disse senza celare il sarcasmo dell’affermazione.
“Poor little kitty…”
Lui non rispose, gettando il mozzicone di sigaretta dal finestrino.
“Ad ogni modo, credo che per intanto quella persona si stia muovendo attraverso uno dei nostri canali per risolvere il polverone che avete alzato voi.” Sospirò, poggiando la guancia sul palmo della mano smaltata mentre le luci notturne delle abitazioni si mescolavano davanti ai suoi occhi oltre il finestrino oscurato.
“Your methods are always so rough…”
 
§§§
 
Non le aveva più risposto.
A dodici ore di distanza da quel breve scambio di sms, il suo giudizio in merito non si era ancora ben delineato: era stato un codardo emotivo a non ammettere di volerla incontrare, cancellando in fretta e furia quella frase compromettente dalle bozze dell’archivio, oppure si era comportato professionalmente, evitando una rischiosa sovrapposizione di piani?
Nondimeno, era lì, tra gli spalti, sul gradone più alto della palestra, e in disparte dagli altri pochissimi astanti, scrutava con attenzione il combattimento al centro del tatami: Ran aveva sconfitto tutti gli avversari.
Shinichi la guardò: i capelli legati in una coda di cavallo e la divisa leggermente aperta in seguito ai movimenti effettuati, gli parve di poter intravedere la biancheria intima ben tirata di fronte lo sterno. Arrossì distogliendo lo sguardo e dandosi mentalmente dell’idiota, mentre ancora non aveva deciso se farsi notare oppure no.
 
“Non sei che un detective arrogante…”
Lui rispose con un sorriso spavaldo, facendo risalire le mani, passando per i glutei ed infilandole sotto la canottiera. Le passò le mani su tutta la schiena, lanciandole uno sguardo elusivo quando s’accorse che non indossava il reggiseno.
Lei si chinò su di lui, come per baciarlo, ma si arrestò a pochi centimetri dalle sue labbra, nel momento in cui anche lui aveva fermato le mani sulle spalle di lei. A malapena trattenne un gemito, che si riversò in parte sulla bocca del detective, quando lui ripercorse di nuovo la schiena della giovane, a piene mani, dal collo alla vita. *
 
Perché era lì?
Voleva vederla…
Sbuffò, scompigliandosi i capelli con una mano.
Tornò a rivolgere la sua attenzione al centro della palestra e comprese fosse necessario decidere in fretta: gli atleti, dopo il saluto rituale, si stavano dirigendo verso gli spogliatoi. Attese che anche Ran facesse altrettanto, persuaso che di fronte ad una sua azione la decisione si sarebbe fatta improvvisamente più facile: andar via o restare? Ma la giovane non seguì gli altri. Dopo aver scambiato qualche parola con quella che doveva essere la più alta cintura tra i presenti, riprese gli esercizi d’allenamento.
 
Non le aveva più risposto.
Appena sveglia, quella stessa mattina, aveva afferrato il telefono con l’entusiasmo infusole dalla risposta che dava per scontata: e invece, nulla. Si era pentita immediatamente del tono allusivo adottato negli sms: forse Shinichi si era offeso e l’aveva ignorata come si fa con una impicciona scocciatrice.
Esattamente come aveva deciso la sera precedente, dunque, si era barricata in palestra con il preciso obiettivo di liberare la mentre oltre il recinto dei suoi sentimenti. Pertanto, quand’anche tutti gli avversari furono finiti e Kazumi-sempai l’ebbe salutata, Ran proseguì con gli allenamenti, comunque indispensabili per arrivare sicura di sé al torneo.
Trascinò uno dei manichini dall’angolo del tatami al centro della pista, aggiustandone la posizione: doveva farlo cadere con il solo uso dei piedi. Strinse la cintura e inspirò; quindi, i colpi si susseguirono con rapidità, tutti simmetrici ed egualmente potenti nei punti che mirava. Il manichino cadeva e lei lo riportava in posizione eretta per riprendere la lotta.
“Anche io mi trattenevo in palestra dopo la fine degli allenamenti, quando giocavo a calcio, al liceo.”
Sussultò come aveva fatto la notte prima, il medesimo tremore a offuscarle i sensi.
“Mi volevo allenare più degli altri.”
Si voltò con gli occhi spalancati e il volto arrossato: Shinichi, di fronte a lei, si avvicinava alla pista con il solito sorriso impertinente e le mani nelle tasche dei jeans chiari. La camicia azzurra, sbottonata sul collo, metteva in risalto il fisico asciutto e scultoreo.
Il cuore le tamburellava troppo forte nel petto perché potesse rispondergli: si limitò a fissarlo mentre scendeva i gradoni e la raggiungeva sul tatami. Quando avrebbe ripensato a quel momento –annoverato tra quei ricordi che, nei momenti di crisi le piaceva e spiaceva ricordare-, l’immagine di lui si sarebbe mescolata ad una certa ironia nel pensiero che quell’entrata in scena appariva come il grande colpo di scena di un film d’azione – o d’amore.
La fissò negli occhi ostentando l’azzurro vivace dei suoi, poi interruppe il contatto visivo per esaminare dall’alto in basso il manichino:
“Però, quest’affare non oppone resistenza…”
Ran sospirò, e non si accorse che l’atteggiamento sostenuto che si era ripromessa d’adottare si frantumasse di fronte all’urgenza di fingere disinteresse mostrando disinvoltura. Fu talmente felice di vederlo, ed entusiasta che fosse stato lui a cercarla, che il piacere d’averlo lì davanti superò tutto il resto, preoccupazione, astio, imbarazzo; e replicò:
“Gli avversari veri li ho già battuti tutti.”
“E dovrei crederti?” la sfidò lui, impertinente.
Era una menzogna, naturalmente: l’aveva vista con i suoi occhi. Eppure, con lei, Shinichi si sentiva tornare bambino *, e si divertiva a punzecchiarla più di quanto si divertisse a smontare l’improbabile deduzione di qualche imbecille.
“Credevo avessi capito che sono brava.”
“Signorina Mouri, lei è così brava da battere tutti?”
“Lo sono a sufficienza per battere lei, detective Kudo.”
“Eppure potrei insegnarle qualcosa che non sa fare. Intendo, Mouri-san, che potrei adeguatamente istruirla.”
“Vengo adeguatamente istruita da quando ho sette anni, Kudo-san.”
Stentavano a rimanere seri, gli occhi brillavano a entrambi. Chi, dall’esterno, li avesse visti in quel momento non avrebbe esitato un secondo a decretare che stessero flirtando, lasciando ai movimenti del corpo o la vivacità degli occhi i significati che le parole non erano libere d’esprimere.
“Non mi riferisco a mosse che abbiano strettamente a che fare con il karate.”
“Quel genere di mosse, Kudo-san, le insegni pure alle sue amanti clandestine. A me non interessano.”
Gli occhi del ragazzo guizzarono, maliziosi, sul viso di lei e Ran seppe d’essersi tradita.
Finse comunque indifferenza mentre Shinichi taceva.
“Cosa va a pensare, signorina?” si decise poi a dire.
Lei non rispose, osservandolo fare il giro del manichino e poggiarvi le mani sopra.
“Quali generi di mosse il suo inconscio le suggerisce di farsi insegnare?”
Spinse il manichino un po’ più in là, aggiungendo: “Con chi pensa di dover rivaleggiare?”
“Non spostarlo, mi sto allenando.” Finse di recuperare serietà, poiché non sapeva come replicare. Ma il giovane non aveva intenzione di cedere il passo:
“Voltati.”
Ran rimase ferma, incuriosita ma imbarazzata di fronte alla sicurezza e alle velate insinuazioni di lui. Non si sorprendeva neanche più dei diversi stati d’animo che sperimentava allorché il ragazzo le si presentava davanti: la disinvoltura e la vergogna si alternavano sino a mescolarsi in un ibrido di pudica esaltazione.
“Avanti, voltati. Ti insegno ad arrestare.”
Mosse rapidamente dei passi verso di lei, finché non l’ebbe raggiunta e, senza aggiungere ulteriori spiegazioni, la fece voltare tenendola per le spalle.
“Prova a liberarti.” Le disse, dopo averle immobilizzato i polsi dietro la schiena con un rapido movimento delle mani.
Incredibilmente, Ran non ci riuscì.
“Forza, cosa aspetti?” la incalzò, la presa ben salda.
Fece per roteare il busto con l’intenzione di colpire la gamba con il piede e farlo cadere, ma le sue parole la distrassero:
“Non ci riesci? Forse dovresti allenarti di più, anziché perdere il tempo a leggere giornaletti…”
Colta alla sprovvista, affondò malamente il colpo, e Shinichi ne approfittò per farla rovinare a terra, assicurandole le mani ancora dietro la schiena e accompagnandone la caduta fino a inginocchiarsi al lato di lei.
“Sei morta.” Cantilenò, supponente.
“Non è un video game.” Lo rimbeccò.
“Ok, allora sei semplicemente a tappeto.”
“Non è neppure pugilato.”
“Il punto fondamentale che stai ignorando è che ho vinto.”
“Lasciami andare.”
“Non ti ho sentito dire che ho vinto…”
Non si aspettava che una prolungata resistenza: ma non capì che quella posizione e quel contatto stretto sui polsi la facevano sentire tremendamente inerme al suo cospetto, imbarazzandola moltissimo – e quelle parole che le si erano fissate nella testa moltiplicavano la sensazione. Senza esitare, ammise:
“Bene, hai vinto. Adesso lasciami andare.”
Fu una risposta brusca, e Shinichi, sorpreso, allentò immediatamente la presa, scrutandola rialzarsi in fretta e aggiustarsi la divisa.
Ancora flesso sulle ginocchia, tornò serio:
“Scusami, non volevo farti male.”
“Non mi hai fatto nulla.”
“Davvero, mi dispiace.” Si alzò, portandosi di fronte alla ragazza. “Stavo solo scherzando.”
“Ti ho detto che non mi hai fatto niente.” Insistette lei, ma il suo sguardo continuava ad indugiare verso il basso.
Con un gesto repentino, Shinichi le afferrò la mano; Ran, per tutta risposta, fece per allontanarsi da lui, ma arrestò i movimenti quando ebbe alzato lo sguardo: le guance lievemente imporporate, le parve si trovasse a disagio.
“Non volevo assolutamente farti male.” Ripeté, massaggiandole il polso. “Scherzavo.”
Non capì se si stesse riferendo a quella strana mossa oppure alla mordace battuta, e preferì non chiederglielo. Rimase ferma, mentre lui le massaggiava delicatamente il polso, facendo poi altrettanto con la mano sinistra.
“Non mi hai fatto niente.” Insistette ancora Ran, ma le uscì solo un flebile sussurro che Shinichi forse neppure udì – e se lo udì, lo ignorò, continuando quell’operazione di medicamento improvvisato.
“Per quanto ne hai ancora con gli allenamenti?”
“Perché?”
“Ti accompagno a casa.”
“Potrei rimanere forse ancora un paio d’ore. Perciò, non preoccuparti: io…”
“Ti aspetto.”
“Non ce n’è bisogno. Io…”
“Ti aspetto qui.”
“Stanno per arrivare i tornei. Debbo allenarmi, io…”
“Non posso stare qui sui gradoni?”
“E perché dovresti starci?”
“Perché voglio vederti.”
Ecco fatto. Ciò che si era rifiutato di ammettere mediante il filtro d’un apparecchio gliel’aveva detto in faccia, guardandola negli occhi.
Ran avvampò, deglutendo aria. Quelle stesse parole che lei stessa gli aveva rivolto qualche giorno prima…
 
Le loro mani s’intrecciarono sotto il flusso del rubinetto, per strizzare l’asciugamano raccolto dal fondo del lavabo.
“Perché sei qui?”
“Perché volevo vederti.”
Ancora una volta, le parve arrossisse mentre abbassava lo sguardo ai suoi piedi. *
 
 
“Hai…hai di meglio da fare, presumo. Ed io… io ho bisogno di stare in pace mentre mi alleno.” Finse di ignorare ciò che aveva appena sentito, ma non riuscì a reggere troppo a lungo i colpi dell’investigatore:
“Avevo voglia di vederti.” Le ripeté.
“Ho bisogno di stare in pace.”
“Non ti darò fastidio. Mi siedo qui e ti guardo soltanto.”
Se vi interessa di me quanto dite, allora ridatemi la pace.
Non ho pace da dare. Solo miseria, o la felicità più grande.*
Sorrise tra sé e sé, ricordando d’aver trascorso notti insonni sognando un’avventura così. Sognando Shinichi ancora prima di incontrarlo.
“Sei anche un voyeur, dunque. Questo i giornaletti non lo sanno…”
Il detective, che frattanto aveva preso posto su uno dei gradoni inferiori, vicini ai tatami, stette al gioco:
“E tu lo rivelerai?”
“Dipende.”
“Da cosa?”
“Da come ti comporterai.”
“Farò il bravo.”
 
Effettivamente, aveva atteso. Fu una piccola prova cui Ran lo sottopose, l’allegria che cresceva proporzionalmente al tempo che lui trascorreva seduto sul bordo dello spalto più vicino al tatami, controllando di tanto in tanto il cellulare e muovendo il pollice come se stesse leggendo qualcosa sul display. Proprio quando lo aveva visto più distratto, si era avvicinata a lui di soppiatto, nel tentativo di sorprenderlo; l’investigatore, allora, aveva automaticamente portato il telefono dietro la schiena, simulando poi un sorriso cordiale – gesto che l’aveva un po’ contrariata: stava forse messaggiando? E con chi? Con Hidemi?
“Ti sei allenata abbastanza per oggi, basta così.” Le aveva detto, sbarazzino, spingendola a cambiarsi ed aspettandola ancora, fuori dall’edificio, quando il sole stava cominciando a tramontare.
Uscì dallo spogliatoio e lo vide, appoggiato con la schiena a un muretto basso di mattoni. I loro sguardi s’intrecciarono, e gli sorrise.
– Bellissimo… -
I raggi del sole, filtrati dalle nubi, gli colpivano per metà il corpo, immortalandogli il fisico come fosse in posa per una litografia. Gli occhi gli brillavano, perennemente illuminati di una brillante perspicacia.
 “Allora, come va l’indagine?” Gli domandò, raggiungendolo.
Entrambi oltrepassarono il cancello in muratura, il crepuscolo che irradiava una luce rosata lungo il sentiero che percorrevano l’uno a fianco dell’altra.
“Vuoi davvero parlarne?” l’apostrofò, schernendola un po’. Lei mise un broncio dispettoso, dandogli un leggero colpetto su una spalla.
“E vuoi parlarne così, per strada?”
Era riuscito a nasconderle la ricerca che aveva effettuato con il suo cellulare in palestra, trovando un piccolo pub fuori zona dove era già stato una volta e che sperava fosse aperto anche a quell’ora.
“Vuoi venire a parlare con mio padre? A quest’ora dovrebbe essere a casa…”
Camminando, la ragazza distolse lo sguardo dal suo volto per aggiustare una bretella del borsone che, troppo lunga, le impediva i movimenti. Perciò non poté scorgere l’espressione dell’investigatore mentre pronunciava una frase che la fece palpitare – non una domanda, né un invito, semplicemente un’asserzione pronunciata con tanta naturalezza quanta convinzione, che non dava luogo a nessun rifiuto. Il sangue le pulsò velocemente dai polsi alle guance e non riuscì a farfugliare nulla di senso compiuto per tutto il rimanente percorso che fecero insieme, ma uno sciocco sorriso comparve a incresparle le labbra.
“Piuttosto, andiamo a mangiare qualcosa, c’è un locale carino nel quartiere di Haido. Mettiti il cappotto, ci impiegheremo una ventina di minuti.”
 
§§§
 
“Scusa per l’ora tarda, Kogoro. Ma domani mattina l’ufficio stampa farà rimbalzare la notizia in ogni notiziario cittadino, e giocare d’anticipo è vitale.”
Prima ancora che sua figlia tornasse dagli allenamenti di karate –l’uomo aveva notato con disappunto l’enorme ritardo che la ragazza aveva accumulato rispetto all’orario ordinario dei suoi spostamenti-, il citofono aveva suonato e lui aveva risposto già predisposto al rimprovero. L’attitudine un po’ distratta che non lo aiutava nella professione di investigatore privato non gli aveva permesso di notare che a squillare fosse stato l’apparecchio dell’agenzia, non dell’appartamento, e dunque Kogoro si era sorpreso di fronte alla voce costernata dell’ispettore Megure: “Sei solo? Allora, per favore, fammi salire.”
“Non si preoccupi, ispettore. Che cosa succede, c’è qualche problema?” aprendo la porta ed invitandolo ad entrare, s’accorse che l’agente di polizia era a sua volta da solo, privo del solito corteggio degli agenti di servizio che, nell’orario di lavoro, lo scortavano dappertutto.
“Direi di sì. La questione è più grave di quel che sospettavo, e credo anche più pericolosa del previsto. Se i miei dubbi si rivelano fondati, ci sarà bisogno di un impegno non indifferente. Posso contare su di te, Kogoro?”
Il detective immediatamente annuì, affrettandosi a prendere posto sul divano al centro della stanza e aspettando che l’ex collega facesse altrettanto. Non era dotato di un intuito particolarmente ricettivo e di particolari conoscenze tecnologiche, ma Kogoro Mouri aveva qualcosa che lo differenziava da qualunque altro: un’onestà tanto spiccata da portarlo anche a mettere in gioco se stesso perché vincesse la giustizia. Tutta la polizia ricordava con rispetto l’arresto che aveva fatto qualche tempo prima: un suo vecchio compagno della scuola di judo aveva ucciso una loro amica comune e lui non aveva esitato un attimo a rendere pubblica la sua colpevolezza, prendendosi anche la libertà di esprimere un giudizio personale sulla sua condotta efferata, atterrandolo con un colpo di judo quando questi, preso dal furore dell’ira, s’era scagliato contro di lui. *
“Ebbene, ascolta, Kogoro. L’indagine sulla morte di quella ragazza verrà chiusa stasera.”
L’uomo trasalì: “Avete trovato il colpevole? È quel tizio che abbiamo convocato due volte, quello che lei aveva chiamato con tanta frequenza con il secondo cellulare?… come si chiama, aspetti… Akai?”
“Non abbiamo trovato il colpevole, Kogoro.”
“E allora perché chiudete il caso?”
“Per insufficienza di prove, e per non disperdere le energie della polizia in una strada senza uscita. Questi sono gli ordini del vicequestore Ikari.”
“Sta scherzando? È passato troppo poco tempo, l’identità della ragazza è ancora sconosciuta e…”
“Io continuerò ad indagare, Kogoro. Quella ragazza poteva essere la fidanzata, la figlia o la sorella di qualcuno che merita la verità…il suo assassinio non può restare impunito, sebbene la sua morte forse sia legata a quella rapina.”
“Sono con lei, ispettore.”
L’uomo sorrise. Immaginava la risposta di Kogoro ancor prima di mettere piede nella sua agenzia investigativa.
“Credi che dovremmo ricorrere anche all’aiuto di Kudo? È dotato di un intuito molto fine, potrebbe notare qualcosa che a noi è sfuggito…”
“Per il momento non mi sembra che abbia notato un granché…” alluse, polemico. Quel ragazzino non gli stava affatto simpatico: tutta quella spocchia da grande detective di cui s’ammantava, a che pro? Non gli pareva proprio avesse capacità particolari, o quanto meno sino a quel momento non aveva dimostrato loro un bel nulla – e come se non bastasse, guardava la sua bambina con degli occhi che non gli piacevano affatto. Forse era abituato a sedurre le più belle attrici sulla scena, o le modelle più famose del momento, ma cosa s’illudeva di ottenere con la sua ingenua Ran?
E inoltre, c’era stato quell’episodio alla villa…
 
In quel momento, Ran percepì qualcosa. Non propriamente un rumore, fu piuttosto una sensazione. Non seppe il motivo, non lo comprese neppure quando ci ripensò a posteriori; eppure, per qualche ragione, si voltò verso sinistra, e le sue pupille si dilatarono: ecco Shinichi comparire dall’angolo opposto, proprio dirimpetto ai due uomini, a destra degli agenti di polizia, i quali, si accorsero della sua presenza soltanto quando udirono un rombo, forte e rapido, come fosse un tuono che squarcia velocemente il cielo, ma sancisce la fine del temporale.
Il detective sparò quel colpo con estrema precisione, le ginocchia leggermente flesse e un gomito ad angolo retto per reggere il rinculo dello sparo, mentre l’altro braccio, teso, aveva assicurato al proiettile di colpire in pieno il bersaglio.
Il colpo sfiorò l’uomo biondo, facendogli volare dalle mani la pennetta USB che gli agenti avevano puntato.  Non fece in tempo a voltarsi che un secondo sparo colpì il compagno col cappello, causandogli un graffio sulla guancia sinistra, per poi infrangersi sul metallo del capannone.
“Ma che diavolo sta facendo?!” Megure lo scrutò per lungo tempo, basito.
“Ama le entrate in scena, il tuo amico!” Kogoro la rimbrottò, lanciandole uno sguardo velenoso, quasi avesse sparato lei stessa. Il tono di voce era duro, intransigente:
“Possibile non capisca che così facendo capiranno di essere braccati e distruggeranno le prove?!”
Uno degli uomini vestiti di scuro ordinò qualcosa ad un altro del gruppo, che prontamente si diresse verso lo scatolone a terra estraendone un cellulare che, con decisione, calpestò sino a ridurlo in un grumo di circuiti e sensori. *

 
“In realtà è stata la sua indicazione a permetterci di collegare l’assassinio alla rapina, benché non fosse del tutto corretta.*  Tuttavia, alla villa ha avuto un atteggiamento che non mi ha convinto.” Megure parve leggergli nel pensiero, sorprendendolo. “Per non parlare poi, di quella sparatoria in cui siete rimasti coinvolti entrambi…” *
 
§§§
 
“Akai-san, accomodati.”
Shinichi si fece da parte per permettere all’agente dell’FBI di varcare la soglia della sua villa.
Shuichi entrò nel corridoio, scivolando fuori dalle scarpe; mentre l’investigatore richiudeva la porta, lui apriva l’armadietto a pochi passi da loro, per recuperare le pattine. Sorrise capacitandosi della familiarità con la quale si comportava all’interno di quella casa, quanto e forse più della domestichezza che aveva nel suo appartamento: tante volte era stato in quell’enorme villa, da quando aveva legato con Shinichi, da considerarla quasi casa sua. Eppure, Akai assumeva sempre un certo riserbo al momento di entrare nel grande salotto, le cui pareti erano interamente coperte dai libri conservati con amore dal padre dell’amico.
Neppure quella sera fece eccezione: dopo aver bonariamente rimproverato il ragazzo per il luogo del loro incontro, mentre ne ascoltava la risposta non poté fare a meno di alzare lo sguardo verso gli scaffali di quella biblioteca dalle proporzioni gigantesche.
“Non preoccuparti, Akai-san. Vedersi a casa mia è molto più sicuro che incontrarsi fuori, dopo quello che è successo con Hidemi la stampa non si accontenterà finché non avrà dato un volto alla mia amica. È una fortuna che non l’abbiano ripresa in faccia e che la sua copertura non sia saltata. Qui dentro, almeno, siamo riparati. E poi, se qualcuno ti avesse seguito, te ne saresti accorto senza dubbio.”
“La vita sentimentale del miglior detective del Giappone attira parecchie attenzioni, eh?”
Shinichi sorrise, arrossendo lievemente ma cercando di dissimularlo; provava una profonda stima per Shuichi Akai, uno degli agenti più intelligenti che avesse mai incontrato. Non avevano mai chiaramente parlato dell’opinione che l’uno nutriva dell’altro, dal momento che l’aver deciso di comune d’accordo di lavorare insieme ad un progetto tanto arduo costituiva di per sé un’eloquente risposta a quella domanda mai posta ad alta voce. Pertanto, Shinichi naturalmente intuiva quanto la considerazione che aveva di lui gli fosse nota –era, dopotutto, uno dei pochissimi uomini cui l’investigatore rivolgeva il suffisso san anche dopo aver superato l’iniziale rapporto di stretta formalità *-, e immaginava anche che, specularmente, l’agente avesse elaborato un giudizio positivo su di lui; nondimeno, nelle occasioni in cui sentiva dichiararlo esplicitamente (il miglior detective del Giappone pronunciato con un tono che alla bonaria ironia aveva mescolato l’affetto), se ne compiaceva come un bambino di fronte l’orgoglio del padre.
“Sono persuaso, tuttavia, che i giornalisti non conoscano la tua nuova amica…” alluse, prendendo posto nella poltrona al centro della stanza. L’investigatore alzò gli occhi sul suo volto, scorgendo il lieve sorriso in cui gli s’era increspato: Shuichi si esprimeva sempre, anche nelle conversazioni più private, con calcolata raffinatezza e naturale eleganza. I suoi modi erano sempre gentili e riservati, nonostante le affermazioni tendenzialmente fossero estremamente puntuali.
Un uomo di gran classe, lo apostrofava sempre sua madre Yukiko, dal quale Shin-chan avrebbe dovuto apprendere quella cavalleria che la sua boria gli impediva di possedere fino in fondo.
Il ragazzo sorrise sardonico, conscio che sua madre ignorasse quanto Shuichi Akai sapesse essere spavaldo e sicuro di sé - forse persino più di lui!-, in particolari circostanze, e come loro due fossero, in ultima analisi, profondamente simili.
“Sono stato discreto.” Rispose all’allusione, dirigendosi verso la scrivania di Yusaku alle loro spalle. Afferrò la bottiglia posta al fianco dello schermo del pc, e sviò: “Vuoi un bicchiere di Bourbon?”
“Molto gentile. Sei stato a cena con lei?”
Offrendogli il bicchiere, Shinichi si sentì oggetto di un processo deduttivo cui di solito partecipava come soggetto pienamente attivo: la repentina telefonata del collega lo aveva colto alla sprovvista e quell’incontro si era deciso con tanta rapidità che non aveva fatto in tempo a cambiarsi, così jeans chiari con la camicia azzurra tradivano un look diverso dal solito completo blu con cui era per lo più solito mostrarsi al pubblico.
Shuichi non attese una risposta di cui non aveva bisogno. Aggiunse, sorseggiando il suo alcolico: “Un outfit casual che ti dona molto.”
L’espressione del volto era distesa in una manifestazione di ironia complice capace di contagiare anche il ragazzo, il quale, con la medesima complicità divertita, commentò:
“Avevo il frigorifero vuoto e sentivo la mancanza della tua ottima cucina.”
Visto ciò che l’agente aveva dovuto vivere e ancora stava cercando di contrastare, Shinichi non volle indulgere in ulteriori confidenze –e cosa dirgli, poi? Che si sentiva stupido quando la karateka lo fissava negli occhi col sorriso gentile sulle labbra?-, e  prese posto davanti a lui.
“Che cosa succede?”
“C’è un problema.”
Nessuno dei due s’accorse dell’inverosimiglianza della situazione: erano abituati, dopotutto, a trattare con sarcasmo le questioni più delicate, e passare dai discorsi leggeri a quelli più complicati era una routine propria del loro mestiere.
“Quindi sei venuto a darmi una buona notizia: abbiamo un solo problema.”
Si scambiarono un sorriso, quindi Akai continuò:
“Ti ho chiesto di fare molte cose che non avevamo previsto, originariamente. Mi dispiace per questo. Mi rendo conto che…”
“Akai-san. Non c’è bisogno che tu mi dica niente. Sapevo a cosa andavo incontro quando ho cominciato, e sapere di lavorare al tuo fianco è ciò che mi permette di conservare sicurezza.”
“Questa è una bugia, ma ti ringrazio per averla detta.” L’agente dell’Fbi gli sorrise ancora una volta, assumendo quell’aspetto spavaldo che Shinichi aveva da poco rievocato:
“Detective Kudo, che ne dici di andare al Tropical Land?”
 
§§§
 
Nota dell’autrice: Salve a tutti! Come avete trascorso l’estate? =D
Come avevo annunciato nella risposta ad alcune recensioni, sto nutrendo il malsano desiderio di esaminare meglio l’introspezione di Shinichi. Per me è davvero molto difficile, perché lui si mostra sempre come eroico, coraggioso, infaticabile; e tuttavia ci sono stati in passato dei momenti in cui chiaramente Shinichi è stato travolto dalle responsabilità di cui si prende carico –il suicidio della pianista, la morte di Akemi, le lacrime di Ran e così via dicendo. La discrasia tra l’animo, per quanto vogliamo maturo e ponderato, di un ragazzo giovanissimo e l’indole dell’investigatore è uno dei tratti secondo me potenzialmente più interessanti del suo carattere: come può un ragazzino affrontare e gestire vicende e situazioni che alcuni uomini grandi e maturi non saprebbero neppure occhieggiare? E come coniugare tutto questo con la vita più privata ed intima, e quella natura sensibile che ogni tanto lascia venire a galla? Insomma, senza tirarla troppo per le lunghe, ho provato a fare questo, ma ho davvero la grande remora di averlo reso uno Shinichi OOC. Spero vogliate farmi sapere cosa ne pensate: siate indulgenti :D
 
Come dedotto da Laix (ora posso risponderti! =P) la Hidemi del capitolo cinque è giustappunto Hidemi Hondou, aka Kir – e anche in questa storia è un agente sotto copertura nell’Organizzazione. Per il momento, gli altri misteri non posso ancora rivelarli, ma nel prossimo capitolo si esplicherà bene un fatto che, credo, metterà definitivamente a nudo quella struttura cui facevo riferimento nel precedente capitolo, e che continuo a sperare non sia un azzardo nell’impalcatura di questa fic.
 
L’indagine che costituisce il filo conduttore di tutta la storia mi sta dando qualche piccolo problema –non so bene dove posizionare alcuni indizi, ahimè, sono sempre stata una frana in queste cose…- ma sto cercando di recuperarne gradualmente i fili e organizzarne le parti in maniera tale che la contraddizione che in apparenza sembra rivestire tutto quanto possa chiarirsi al momento opportuno (augurandomi di riuscire anche a sorprendervi un pochino!)
 
Mi sembra d’aver detto tutto. Grazie di cuore, naturalmente, a tutti coloro che hanno letto i precedenti capitoli, e ancora di più ai miei carissimi recensori che mi allietano sempre moltissimo: shinichi e ran amore, Shin17, _Rob_, SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate, Laix e Sana_jasm97.
Un abbraccio fortissimo dalla vostra Cavy <3
 
 
 
 
 
 
 
[1] Nel manga i Mib erano spesso associati ai corvi. Nelle loro ultime apparizioni questa simbologia sta venendo meno, ma mi ha sempre colpito perché la trovo vagamente espressionista, quindi ho deciso di riportarla qui. Spero che l’effetto non risulti eccessivamente banalizzato.
[2] Episodio realmente accaduto nel manga, anche se rievocato soltanto nel flashback di Camel stesso e Jodie negli episodi del Red Clash. L’ho accennato indirettamente anche nel capitolo otto:
 
Finalmente il biondo si voltò, e lo fissò negli occhi.
“L’operazione è fallita. Ma questo già lo sai, non è vero?”
“Ti avevo detto di agire con cautela. La tua impulsività ci ha rovinati. Come avevo previsto, ci hai scavato la fossa tu stesso.”
“Un tizio dalla faccia da scemo ha avvisato Whisky[2], che era, camuffato da vecchio, a guardia del posto. Gli si è avvicinato e gli ha detto d’andarsene, che stava per succedere qualcosa. Che era in pericolo.” Calcò la voce sull’ultima frase, accendendosi una sigaretta.
“E chi era?” domandò lui, altrettanto imperturbabile.
“Perché non me lo dici tu, Rye?”
“Come credi che possa saperlo?”
 
[3] È una frase di Kierkegaard. Purtroppo non è una citazione precisa, perché non riesco proprio a ritrovarla: l’ho riportata mediante il filtrato della mia memoria, perciò temo che sia piuttosto pressappoco.
[4] Dal capitolo quarto.
 
 
[5] Dal romanzo di Flaubert, Madame Bovary. Ringrazio IamShe per avermela segnalata.
[6] Dal capitolo uno.
[7] Dal capitolo sette.
[8] Umorismo macabro, vi chiedo perdono :D
[9] Dal capitolo sette.
[10] Uno tra i dialoghi più famosi tra Alexiej Vronskij e Anna Karenina, dall’omonimo libro di Tolstoj.
[11]Dagli episodi, Omicidio alle terme.
[12] Dal capitolo cinque
[13] Nel capitolo uno.
[14] Dal capitolo sei.
[15] È un dettaglio che ho notato nel manga, e che mi ha sempre solleticata un po’. Conan si rivolge continuamente ad Akai come Akai-san, anche quando sono da soli. Non mi sembra, e spero di non sbagliare, che questo trattamento speciale sia riservato da Conan anche a qualcun altro.

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Capitolo 11
*** Capitolo Dieci - Tropical Land ***



Capitolo Dieci- Tropical Land
 
 
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Con tanti auguri per le feste a tutti i miei lettori,
e in particolare alla carissima e sempre disponibile
Rob, la complice numero uno


 
«Ti ho amato e ti amo nonostante la verità.
La verità non cambia nulla di ciò che proviamo per gli altri.
È la grande tragedia dei sentimenti.»
Joel Dicker


 
 
Dal momento che gran parte del capitolo è costituita da flashback, per stavolta ho preferito contrassegnare i paragrafi analettici dal corsivo, per non appesantire la vista alla lettura.
 



“Buonasera, ragazzi! Cosa vi porto?” un giovane cameriere si era avvicinato con atteggiamento spigliato, ma Ran, nonostante fosse solitamente una ragazza estremamente educata, non alzò neanche gli occhi per accennare un sorriso. Rimase in silenzio, fingendo di sistemare il cappotto sullo schienale della sedia in equilibrio con la sacca della palestra; in realtà, era preda di un potente imbarazzo, tanto profondo da non riuscire a pensare lucidamente che un solo, lento, scandito gesto alla volta. Con gran cautela, guardò di sottecchi il detective, senza però voltarsi: lui aveva già preso posto di fronte a lei, e, seduto aspettava evidentemente una sua reazione. Era proprio questo a imbarazzarla: in quel momento, si sentiva come su un palcoscenico, nuda di fronte agli occhi del suo spettatore con tutte le sue incertezze, i suoi limiti e le sue insicurezze. La gioia immediata che l’aveva invasa quando aveva sentito Shinichi pronunciare quella frase –per i primi dieci secondi aveva continuato a pensare d’aver frainteso totalmente la richiesta- stava gradualmente lasciando spazio al timore: in quella sera, si sarebbe giocata tutto: come se ogni azione compiuta dal giorno in cui i loro occhi si erano incrociati nell’agenzia investigativa di suo padre [1] fosse stata interamente cancellata, e allora non rimasse nient’altro che i frutti che la performance cui stava per prendere atto avrebbe portato. E lei non si sentiva all’altezza.
Aveva provato anche in passato quella medesima sensazione: ansia da prestazione, ogni volta che il candidato che la precedeva nella lista dei partecipanti scendeva dal ring, e solo qualche istante la separava dall’incontro. Nondimeno, messo piede sul tatami, la paura si dileguava pian piano lasciandosi sostituire dall’entusiasmo del combattimento e dalla sua passione per il karate.
Aveva pensato sarebbe accaduto lo stesso: messo piede nel pub, la preoccupazione e la vergogna sarebbero scemati fino a svanire, e invece era capitato l’esatto opposto. Shinichi le aveva tenuto aperta la porta del locale, e lei, entrata, si era ritrovata catapultata dentro un salotto gigantesco, pieno di tavoli e divanetti, gremito di clienti e chiacchiericcio. In fondo alla sala aveva visto aprirsi una grande veranda illuminata da piccole lampadine pendenti dai gazebi circostanti, e la luce all’interno non era che il riflesso di quella esterna, perciò l’ambiente era piuttosto oscuro, soffuso.
Non aveva saputo muovere un passo e, fingendo di aspettare che il suo accompagnatore la raggiungesse, aveva atteso Shinichi rivolgendogli un timido sorriso.
 
“Ran!!” si sentì apostrofare, e si voltò. Sonoko le stava correndo incontro, ma la minigonna che aveva scelto di indossare le rendeva goffa la camminata.
La castana salutò l’amica, cercando immediatamente di stabilizzare i loro discorsi su un territorio neutro.
“È stata una bella idea venire qui! Proprio ieri sera ho visto un servizio in tv dedicato interamente alla ruota panoramica di questo luna-park, dicevano che al punto più alto si riesca addirittura a vedere…”
“Oh, Ran, Ran, Ran. - La interruppe l’altra, pestifera. Un sorrisetto malizioso le spiccava sulle labbra –Ora ti ricordo perché siamo qui.”
La prese a braccetto, e con una piroetta la indirizzò verso un chiosco di granite poco distante da loro.
“La bellezza di due, dico due, sere fa dovevamo andare al cinema insieme, e questa povera fanciulla ti ha aspettato per ben venti minuti davanti alle sale, prima di ricevere un misero sms: sono in un pub con Shinichi, dopo ti racconto, e cosa ha ricevuto in cambio? Una telefonata striminzita in cui non mi hai raccontato praticamente nulla. Perciò, adesso, sputa il rospo: voglio sapere tutto!”
“Perché tanto entusiasmo, Sonoko? In fin dei conti eravamo già state con lui in un bar, e insieme! [2] Te lo ricordi? È semplicemente ricapitata la stessa cosa, ma senza di te…”
Le due ragazze si sedettero ad uno dei tavolini nei pressi del chioschetto, richiamando l’attenzione del cameriere.
“Ran, ti prego. Non fare la finta tonta! Un conto è Shinichi Kudo che ti aspetta fuori scuola, firma un numero spropositato di autografi, viene al bar e si piglia una spremuta, in pieno giorno, con me presente. Un conto è Shinichi Kudo che, praticamente, ti viene a prendere in palestra e ti porta, di sera, in un pub, da sola e bevete champagne insieme!”
“Ma quale champagne!”
“Qui non serviamo champagne. Volete la lista dei gusti?” il cameriere, appena sopraggiunto, aveva frainteso la frase della ragazza. Sonoko allora, con un’espressione dispettosa stampata sul viso, prese la parola: “Ma se lo serviste a quest’ora a due ragazzi cosa pensereste? Che sono fidanzati?”
“Sonoko!”
“Che lui ci stia spudoratamente provando?”
“Sonoko, dacci un taglio! Sì, ci porti la lista per favore.”
Il ragazzo si allontanò ridacchiando e Ran lanciò uno sguardo all’amica come se volesse incenerirla.
“Smettila, Sonoko.”
“Allora sputa il rospo, ti dico. Non puoi essere così ingenua da non capire che quello sbruffone d’un investigatore ci sta provando con te.”
“Ancora?”
“Dimmi la verità, Ran, subito!”
“La verità è che…- paonazza, sospirò -… io non so cosa pensare, davvero. Sono passati due giorni da quella sera, io non me l’aspettavo, e ancora non riesco a smettere di pensarci.”
“Oh, adesso ragioniamo.” Esultò la biondina, schioccando rumorosamente le dita.
“E più ci penso, più sento l’entusiasmo crescermi dentro. Non so come spiegarlo, è come se sentissi un’energia tale da non riuscire a star ferma, devo sempre muovermi, fare qualcosa, pensare…”
“Eccolo il problema: tu pensi troppo, Ran! Ma a cosa vuoi pensare?” Sonoko si sporse con il busto verso l’amica, i gomiti sul tavolo.
“Senti, prima di ora noi siamo già stati insieme da soli. Ok?” Ran non aveva minimamente accennato all’incontro che i due avevano avuto quella fatidica notte dopo la sparatoria, né aveva intenzione di raccontarglielo.[3] D’altronde, non sapeva neanche lei cosa pensare o come interpretare la rapida successione di fatti che mai aveva sperato di poter vivere e che, in quel momento, la stavano travolgendo procurandole una gioia che solo la confusione poi riusciva a smorzare.
“E non nego che talvolta sia stato anche a lui a cercarmi, ma, più o meno, sempre per motivi professionali: per parlare con mio padre, per sapere che mosse di karate adoperare, per questioni che riguardavano l’indagine…capisci? Insomma, riesco a trovare una spiegazione sensata quasi per tutto… ma non per questo.”
 
“Perché non ci lascia il menù e ripassa tra qualche minuto?” pronunciò allora Shinichi, affabile. Il cameriere annuì e si dileguò oltre il buffet poco distante da loro.
Rimasti soli, Ran trovò infine il coraggio di sedersi. Prese posizione di fronte al detective, poggiando i gomiti sul piccolo tavolino quadrato dove una giovane inserviente li aveva accompagnati poco prima, e accavallò le gambe con il proposito di apparire disinvolta. Nondimeno, lo sguardò le volò alle altre donne in quel pub, e poi di nuovo sulla sua uniforme scolastica. Se avesse saputo che dopo gli allenamenti Shinichi le avrebbe proposto quel locale –totalmente fuori zona- di certo avrebbe optato per un altro cambio, anziché la sua divisa con la gonna plissettata a la giacca dello stesso colore.
- Un abbigliamento da ragazzina… - si compatì mentalmente, scrutando con rinnovata soggezione gli abiti eleganti e sofisticati delle altre clienti.
“Non preoccuparti, non devi bere per forza.” Shinichi richiamò la sua attenzione, equivocando il motivo del disagio della giovane che le sedeva di fronte.
All’espressione interrogativa di lei, continuò: “Non so cosa tu sia abituata a bere con i tuoi amici ragazzini che ti portano fuori. Ma se non sei solita servirti di alcolici, non devi preoccuparti di fare una brutta figura. Prendi quello che vuoi. Una spremuta, magari?”
E voltò nella sua direzione il menù che reggeva tra le mani.
“I miei amici ragazzini?” gli fece eco, afferrando la seconda lista che il cameriere aveva poggiato sul tavolino. Ma il giovane la bloccò:
“Leggi pure dal mio.” Insistette e lei, alzando gli occhi sul suo viso, vi scoprì un sorriso malizioso, che la contagiò. Le labbra increspate a sua volta, fu costretta a sporgersi verso di lui per poter leggere ciò che le stava indicando con l’indice, e vide Shinichi fare altrettanto. I loro visi quasi si sfioravano, sopra il foglio delle bibite.
“Arancia?” le propose, e lei afferrò un lembo della carta.
“Mhm…l’arancia non mi piace…” lui mosse le dita, a contatto con quelle di lei.
“E cosa ti piace allora?”
Contemporaneamente, i due giovani alzarono lo sguardo e si fissarono.
“Non esco con i miei amici ragazzini.” Precisò.
“Che cosa ci fai, se non ci esci?”
“Non ci faccio niente.”
“Sei una piccola bugiarda.”
“Uno sbruffone come te non ha il diritto di parlarmi così.”
“Sei troppo carina perché qualche imbecillotto non ti ronzi attorno, ma finora me l’hai sempre nascosto.”
“Sono una ragazzina che sta seduta al tavolo di un pub con la divisa della scuola.”
“Sì, in effetti quella gonna è un po’ troppo lunga, ma confido che la prossima volta mi delizierai con una più corta.”
“Ecco il re degli imbecillotti che mi ronzano attorno.”
Il detective scoppiò a ridere e Ran tornò a poggiarsi contro lo schienale della sedia, soddisfatta.
Lui la guardava ancora maliziosamente, un dito poggiato sul labbro e il braccio sul tavolo.
“E tu, invece? Che cosa prendi?”
“Sono indeciso.”
 
“Signorine, avete deciso cosa volete in alternativa allo champagne?” il cameriere, nuovamente avvicinatosi al loro tavolo, pensò di esordire con spirito, persuaso di aver trovato modo di approcciare le ragazze; ma Sonoko, repentina, sbottò:
“Stiamo parlando! Portaci due granite a tua scelta e togliti di mezzo!”
Ran ridacchiò, a disagio: “Sonoko…”
“Continua a raccontarmi! Sono sicura che ci sta provando, è davvero troppo evidente.”
“Ascolta. Io sono disposta ad ammettere che, se qualunque altro ragazzo si fosse comportato in questo modo, con me, non avrei avuto dubbi sul suo…beh…- arrossì, abbassando gli occhi.
“Sul suo volerti portare a letto?”
-Sul suo interesse.” Sospirò mentre Sonoko sghignazzava, pettegola. “Ma lui non è una persona qualunque, lui è Shinichi Kudo. Io non posso credere che lui…-
“Non credi che sia un uomo, Ran? Non capisco come tu possa tentennare in questo momento! Approfitta dell’occasione, aspetti questo da tutta la vita!” la ragazza parlava con enfasi, ingigantendo la questione e perdendo completamente di vista l’obiettivo –lei era innamorata di Shinichi, non aveva una cotta che da un momento all’altro sarebbe svanita come la sabbia soffiata via dalle dita.
Eppure, a suo modo, parlava a buon diritto: Ran sapeva che in fin dei conti, Sonoko aveva ragione: avrebbe dovuto vivere con spensieratezza quel momento che, in passato, neppure aveva mai osato immaginare, tanto le sembrava improbabile. Ma non riusciva a trovare un significato logico agli avvenimenti degli ultimi giorni, e lei non poteva agire se non scovava il senso di ciò che le accadeva intorno. Persino quella notte sotto l’appartamento poteva paradossalmente essere comprensibile: lasciarsi andare per qualche momento ai propri istinti poteva essere attrazione, ma cedere a un appuntamento doveva essere qualcosa di più. E Ran non poteva credere che Shinichi provasse per lei qualcosa di più che attrazione per un tempo che superasse i quindici secondi; l’attimo dopo, ecco che si dava della stupida e si ammoniva, già disillusa, di non crearsi delle false speranze alla cui frantumazione sarebbe caduta prona molto presto. La sola idea che quella Hidemi fosse sua amante le aveva procurato un dolore fortissimo, e singolare: tutto si era tradotto in assenza di rancore, risentimento o rabbia, e la grande vincitrice tra le sue passioni era stata l’apatia. Non voleva sentirsi ancora così, e per proteggersi da quella sofferenza era indispensabile per lei non lasciarsi andare, vivere con leggerezza quel momento, senza troppe aspettative.
…ma come poter controllare i guizzi del suo animo quando Shinichi le dava spago? Quando la cercava, le sorrideva, le faceva battutine maliziose, e persino la sfiorava con mani che, lei se ne accorgeva, fremevano per il desiderio di toccarla meglio, e più a fondo?
 
“Sono indeciso.”
Fu Ran a ridere, dipingendo la faccia del ragazzo in una smorfia interrogativa.
“Cosa c’è?”
“Non lo so, ma mi fa ridere.”
“Che cosa?”
“Il fatto che tu sia qui, con me, seduto a questo tavolo. E che io possa vedere il grande detective Kudo sorseggiare qualcosa.”
“Addirittura…”
“Ti ho offeso?”
“No, ma credo proprio che tu abbia visto il grande detective Kudo fare ben altro.” Si morse un labbro, e lei arrossì di nuovo.
“Posso essere sincero, signorina Ran?”
“Mi dica, signor Kudo.”
“Prendo quello che vuole, se lei mi assicura che così riuscirò a sedurla.”
La giovane strabuzzò gli occhi e il ragazzo, sorpreso dalla reazione intimidita, tacque di colpo.
“Sto scherzando.” Aggiunse repentino, un lieve rossore che compariva anche sul suo volto.
Ad ogni modo, al cameriere, Shinichi ordinò due spremute.
“Non mangi nulla?” le chiese poi “Sei a dieta?”
Lei rise, senza smentire. Sperò che il suo intuito da detective non gli rendesse chiaro il disagio che le avrebbe procurato mangiare di fronte a lui.
 
“Ran! Ma stai scherzando? Mi prendi in giro!” Sonoko interruppe il racconto, battendo entrambe le mani sul tavolo.
“Che dici?” avvampò, trasalendo.
“Che cosa significa questo?”
“Quando…quando mastichi, la faccia si deforma…” balbettò, gli occhi ridotti a due puntini.
“Questo Kudo ti piace troppo, Ran.” Decretò “Ti fa pensare delle gran stupidaggini!”, ma la giovane subito rispose:
“Non chiamarlo per cognome. Suona così formale…”
Il cameriere tornò al loro tavolo, e portò due granite alla fragola. La castana sorrise, mentre la biondina la schernì civettuola: “Prendiamo delle patatine o ti vergogni che ti si deformi la faccia?”
 
“Ti dispiace se io prendo qualcosa? Approfitto per cenare, in casa non ho niente di pronto.”
“Non sai cucinare?”
“Mi insegneresti tu?”
“Ho l’impressione che butteremmo il nostro tempo.”
“Hai ragione, ci sono modi migliori per impiegarlo.”
“Ad esempio?”
“Vieni una sera a cucinare per me, a casa mia, e te ne mostro uno…”
Ran trovò la visione di Shinichi che mangiava assolutamente tenera. La maniera che lui assumeva le moltiplicava silenziosamente l’entusiasmo, perché aveva l’impressione che si comportasse naturalmente, mostrandosi a lei per com’era davvero e non per l’immagine che avrebbe voluto dare di sé – era già successo, ma, sempre di più, le parve che pian piano si stesse lasciando conoscere, e lei lo reputava delizioso.
Si rese conto di starlo ad osservare con troppo coinvolgimento mentre, addentando delle verdure condite, le parlava di sua madre e del suo passato da attrice famosa – di come, quando era più piccolo, si divertiva a vederla camuffarsi nei travestimenti più buffi e la faceva arrabbiare, domandandole: “Perché tanta fatica? Sono anni che non calchi le scene, non ti riconoscerà più nessuno neppure se mostri chiaramente la tua identità.”
Rideva sinceramente ai suoi aneddoti, poggiava il mento sul dorso della mano e stava ad ascoltarlo parlare con espressione sognante, grata di ogni dettaglio privato che lui si fidava di raccontarle, e non ce n’era uno che smentisse l’idea meravigliosa che nutriva di lui. Lo guardava abbassare lo sguardo sul piatto e accompagnare le sue parole con ampi gesti delle posate, e sentiva le sue emozioni divampare.
Venne il momento in cui Shinichi le chiese di lei, di suo padre e di sua madre, e contro ogni previsione pessimistica, Ran non provò alcun imbarazzo a parlargli apertamente di lei, ma non seppe fissarlo negli occhi: conversava puntando gli occhi su un cameriere, su un cliente, su una colonna al lato della sala. Solo di tanto in tanto, sentiva forte l’esigenza di scrutarlo, non resisteva, e lanciava un’occhiata al suo viso, scoprendolo interessato al volto di lei. Se ne compiaceva, esitava qualche momento dello sguardo del ragazzo puntato su di lei – e del modo in cui quello sguardo la leggeva – e di nuovo ruotava il corpo, interessandosi delle sue mani intrecciate sul tavolo.
C’era stato un momento, addirittura, in cui le era sembrato di averlo colto in flagrante:
“Quel giorno mia madre non aveva fatto che cucinare, tutto il tempo passato sui fornelli. E mio padre, a cena, lo sai cosa le disse? ‘Ma Eri, questa robaccia è disgustosa! Come ti viene in mente di servirmela?’[4] Naturale che dopo anni e anni così, mia madre adesso sia furiosa! Non trovi?” e gli aveva puntato lo sguardo addosso: lo aveva scoperto fissarla con gli stessi occhi con cui lei fissava lui, ed infatti non aveva saputo aggiungere nient’altro che un: “Naturale, naturale” trasognato, le spalle sbilanciate verso di lei, il peso del corpo totalmente concentrato sui gomiti poggiati sul tavolo, i muscoli ben evidenti dalla giacca tirata che tale posizione stringeva attorno alle braccia.
Quell’immagine le piacque tanto che, nei giorni a venire, le sarebbe tornata alla mente innumerevoli volte, e sempre accompagnata dallo stesso commento sussurrato a fior di labbra: “Che stupido…”
Avrebbe voluto zittirsi sul momento e toccargli le spalle, il petto: accarezzarlo risalendo dalle spalle, scompigliargli i capelli e baciarlo.
Parlarono a lungo, complici, divertiti, sereni.
Quella sera si stava creando un’atmosfera che Ran avrebbe ricordato, felice, per tantissimo tempo, e che sarebbe valsa a consolarla da qualsiasi tristezza: qualcosa di magico.
Tuttavia, una improvvisa telefonata aveva interrotto la loro serata.
“Non preoccuparti, dimmi pure.” Aveva risposto, affabile, e la gelosia di Ran era tornata ad essere particolarmente ricettiva.
“Quando?” il tono s’era fatto serio, e aveva ruotato il braccio per guardare il suo orologio da polso.
“Un’ora? Ehm…” aveva titubato per qualche secondo, poi aveva ceduto. E Ran si era intristita di colpo. “Va bene, a tra poco.”
Chiudendo la chiamata, le aveva sorriso. “Ti chiedo scusa, Ran. Ma…”
“Immagino che bisognerà chiedere il conto.” Lo precedette, cercando di dissimulare il disappunto.
“Non ho fatto in tempo a chiedere il dessert.”
“Hai mangiato a sufficienza, non avevi bisogno del dessert.”
“Non lo avrei ordinato mica per fame…” alluse, facendo cenno al cameriere.
“E allora perché?”
“Per fartelo assaggiare con la mia forchetta.”
L’inserviente presentò il conto e Ran fece per aprire il borsone, ma Shinichi le vibrò un lieve calcio sotto il tavolo. Pagò per entrambi e si alzò, aggiustandosi leggermente i bordi della camicia.
“Quando ti ho chiesto di venire qui, non ho preso proprio in considerazione la possibilità che pagassi tu.”
“Un gesto molto carino.” Gli concesse, recuperando il cappotto. Il rossore che le imporporava le guance aumentò quando lo sentì parlare alle sue spalle.
“Lascia…” le si era avvicinato, e l’aiutò a vestire entrambe le maniche. Poi le sostenne la cinghia del borsone finché non l’ebbe messo a tracolla.
“Avresti accettato?”
“Che cosa?”
Le liberò i capelli dal collo del giacchetto, cosicché le ricadessero lungo la schiena, ribelli.
“Di assaggiare il mio dolce.”
“Dipende. Che dolce avresti preso?”
“Oh, dunque non avresti detto di sì a prescindere!” si finse offeso, e lei ridacchiò.
 
“Secondo te era un appuntamento?” tentennò, arricciando il naso.
“Certo che era un appuntamento!” la rimbeccò, entusiasta quanto e forse più di lei.
“Ma scusa, Ran, ricapitoliamo: ti ha portata in un pub, di sera. Si è messo a fare il cretino, a sfiorarti le mani, a fare battute maliziose, Leggi dal mio menù bla bla. E hai ancora dubbi? Non capisci che si sta comportando come il più banale degli uomini quando ci provano con una ragazza?”
Scrollò le spalle, senza rispondere. La mente rievocò la conversazione avuta a fine serata, ma si guardò ben dal raccontarla all’amica. Tacque ogni altra cosa, come aveva taciuto gli eventi della notte della sparatoria.
 
La accompagnò a casa, e Ran gioì ogni volta che, con una scusa (“Se non la smetti di dire stupidaggini che non si addicono a una signorina, ti darò uno spintone ancora più forte di questo”) lui non esitò, audacemente, a sfiorarle le gambe o le braccia. Camminare al suo fianco, nell’oscurità della sera inoltrata: qualcosa che sperò ardentemente capitasse ancora.
Non voleva rovinare quella serata, ma sapeva che, rincasata, un dubbio le avrebbe contaminato il ricordo, altrimenti splendido, delle ore appena trascorse ed era desiderosa di godersi solo il fervore di un’emozione rivissuta a posteriori. Perciò, allorché i due ragazzi ebbero raggiunto l’agenzia investigativa –le luci erano spente, suo padre dormiva tranquillo credendola al cinema con Sonoko-, Ran sospirò e, contraendo i muscoli delle mani nelle tasche del cappotto, domandò:
“Era Hidemi al telefono?”
Shinichi aggrottò le sopracciglia, sorpreso. Aveva creduto che quell’argomento fosse stato esaurito con le allusioni del pomeriggio.
“Ti vedi con lei adesso?” poi, quasi pentita –non era più tanto sicura di voler conoscere la risposta- aggiunse: “Non sei costretto a dirmelo, ma…”
“Hidemi è la mia informatrice, te l’ho già detto e non mentivo.” Prese la parola, muovendo qualche passo verso la karateka. Si fermò a poca distanza da lei, e proseguì: “Mi mette al corrente di alcuni movimenti che, per un’indagine che sto seguendo, sono vitali. Viene a casa mia perché è più sicuro, se nessuno la vede entrare oppure uscire. Ed infatti, per una volta che ci siamo incontrati in un parco, nonostante tutte le misure adottate, siamo finiti sul giornale. È una fortuna che la foto la ritraesse di spalle, se qualcuno l’avesse riconosciuta l’indagine sarebbe stata compromessa irrimediabilmente, e probabilmente la stessa Hidemi avrebbe corso un grosso pericolo.”
Aveva parlato tutto d’un fiato, serio, e la ragazza non aveva potuto fare a meno di prestar fede a ogni parola proferita.
Sebbene fosse consapevole di non doverle tanti dettagli, e che anzi probabilmente non avrebbe dovuto essere tanto didascalico, Shinichi volle fugare qualunque potenziale dubbio e, arrendendosi definitivamente a quel lato così sentimentale che nei giorni continuava a farsi largo nel suo ostentato snobismo, aggiunse:
“Mi vedo con Shuichi Akai. Ricordi chi è?”
La ragazza annuì, e lui le sorrise di rimando. “Nessuna amante segreta.”
Quest’ultima affermazione però gli suonò troppo sentimentale, e provò imbarazzo, quindi mutò tono di voce, facendosi nuovamente serio.
“Non…non devi dire a nessuno quello che ti ho raccontato. È estremamente importante che nessuno sappia nulla, perciò, per favore, non farne parola con nessuno.”
Ran lo vide abbassare lo sguardo, e fraintese la vergogna con il disappunto; pertanto, pur sollevata dalla notizia, si sentì in colpa per avergli lanciato una velata accusa –Ti vedi con un’altra donna un’ora dopo essere uscito con me?- e cercò un modo per alleggerire la tensione.
“Quindi…che dolce avresti preso?”
Il ragazzo batté ripetutamente le palpebre, meravigliato.
“Se Shuichi Akai non ti avesse telefonato. Cos’avresti preso? A me piace il soufflé.”
“Non avrei mai preso il soufflé. Sorbetto soltanto.”
“Allora niente assaggio. Ti piace il sorbetto?”
“No, ma ti avrebbe fatto una buonissima impressione, quando ne avresti sentito il retrogusto in bocca.”
“Ti ho appena detto che non lo avrei assaggiato, non avrei sentito nessun retrogusto.”
“Lo avresti sentito quando ti avrei baciato.”
Quel sorrisetto malizioso gli tornò a guizzare sulle labbra, e la ammutolì. Non disse nulla neppure quando, poco dopo, il giovane le aggiustò un bottone del cappotto che si era slacciato dall’alamaro. La mano risalì sino ad accarezzarle la guancia: il cuore di Ran prese a battere ferocemente, e sperò che il ragazzo traesse a sé il volto perché le labbra si incontrassero ancora.
Attese, ma Shinichi non faceva altro che scrutarle la bocca, immobile, la mano calda ancora sulla guancia. Con uno slancio che non credeva d’avere, esattamente come la notte della sparatoria, Ran si protese verso di lui e gli sfiorò le labbra, con rapidità, per poi allontanarsi timidamente. Ma lui la trattenne arrestando il movimento della nuca di lei con le dita, e stavolta la trasse effettivamente a sé, ma non le baciò le labbra. Le posò un bacio delicato sulla guancia libera. Ran chiuse gli occhi e lo sentì seminare una lieve scia di baci, dallo zigomo all’angolo della bocca: lì si fermò, insistendo su quel punto con particolare sapienza.
Lei si sollevò sulle punte, stringendogli un braccio intorno alle spalle perché quei baci fossero più intensi. Percepì allora sulla sua pelle il sorriso di Shinichi, e poi lo sentì sussurrare:
“Che c’è? Vuoi che ti baci davvero, signorina Ran?”
“Sei solo un arrogante…”
“Sta’ zitta…”
“Imbecillotto…” gli fece il verso, e la presa sulla sua nuca aumentò: il detective le stava piegando la testa di lato.
“Zitta…”
“So-tutto-io…”
“T’ho detto di stare zitta...” sussurrò, prima di posarle un bacio nell’incavo del collo.
Con voce esile per l’eccitazione, lei insistette:
“Fanatico di misteri…”
Continuò a baciarle il collo a fior di labbra, ma ad ogni parola che la ragazza aggiungeva il tocco di lui si accentuava, più pressato e più umido.
Ran si strinse con maggior forza al corpo dell’investigatore che, a sua volta, la afferrò per un fianco portandola a contatto con la sua pancia. Le inferse un morso lieve e lei sussultò; dal fianco, la mano s’infilò dietro la schiena e scese, arrestandosi poco sopra il sedere.
“Sto per comportarmi in maniera davvero poco galante…” le soffiò sul collo, facendola sorridere.
“Non sei più galante da un pezzo.”
“Ma tu mi hai dato dell’arrogante so-tutto-io.”
“Dimentichi imbecillotto fanatico di misteri…”
La mano scese ulteriormente, tirando a sé la ragazza per le cosce: lei finse di resistere, facendo ostacolo con le mani sulle sue spalle.
“Ti ritrai?”
“Non dovrei?”
“Vuoi che ti baci davvero, oppure no?”
“No.”
Shinichi sorrise, divertito. Esitò per un breve istante, poi allentò la presa.
“D’accordo…”
 
Erano trascorsi due giorni, e ancora Ran non aveva deciso se quella reazione fosse stata un bene o un male.
 
§§§
 
Le nove e quarantacinque. Il grande orologio a pendolo del luna-park batteva dodici tocchi.
Due riflessi intermittenti, dalla sfumatura vermiglia, lampavano dal tetto di un edificio per la manutenzione dei giochi a ridosso dell’otto volante. Mescolandosi tra la folla in fila per i biglietti della casa degli orrori, Shinichi Kudo aveva immediatamente cercato il punto più alto nei pressi del luna-park, immaginando sarebbe stato il luogo più adatto per un appostamento; una volta localizzato, aveva subito visto quegli scintillii ripetersi con regolarità ogni dieci secondi: erano fucili, il cui riflesso si colorava di rosso per contrasto con le luci artificiali che l’oscurità di quella notte faceva risaltare più del solito.
- Chianti e Korn, i cecchini dell’Organizzazione. -
Sorpassando con nonchalance le transenne delle montagne russe, s’appoggiò con la spalla a un muretto di mattoni chiari, calando le mani nelle tasche dei jeans.
- Gli stessi che hanno sparato addosso a me, Ran e Kogoro qualche giorno fa…-
Calcolando la traiettoria dei fucili, Shinichi poteva facilmente circoscrivere la probabile area d’azione degli altri Mib presenti quella notte al Tropical Land.
 
“Il Tropical Land? Perché s’incontreranno lì?” mentre l’amico gli esponeva i fatti, non aveva saputo tacere; s’era sorpreso, a sentir pronunciare il nome di un luogo tanto farsesco per un’operazione del genere.
“Credo che quei corvi abbiano un concetto molto deviato del famoso ‘Nascondi una foglia nel bosco’. Un luna-park è l’ultimo posto dove la polizia andrebbe a cercare movimenti sospetti, e dove chiunque altro potrebbe insospettirsi.”
“Hai ragione. Inoltre, quel parco divertimenti è stato aperto da poco tempo ed è sempre gremito di persone. In una confusione tale, nessuno noterà lo scambio.”
Fece una breve pausa prima di riprendere la parola:
“Hai già capito cosa sto per chiederti, non è così?” Alzando lo sguardo per incontrare quello sicuro di Shinichi Kudo, lui non ebbe bisogno di una risposta.
“Ho l’impressione che ciò che stai pensando e tu ciò che penso io coincida, Akai-san.” [5]
 
Ed infatti, alzò lo sguardo e vide un uomo calvo e tarchiato totalmente vestito di nero. Sorrise tra sé e sé, soddisfatto per la deduzione corretta che gli aveva immediatamente permesso di scovare la foglia nel bosco, e si scostò dal muro pronto a seguirlo; tuttavia, l’uomo sembrava attendere qualcuno, e allora il ragazzo, che oramai s’era mosso e non poteva assumere di nuovo la medesima posizione, si mescolò alla gente accalcata davanti lo stand dello zucchero filato, scrutando con attenzione quel tizio sospetto.
Si possono capire molte cose semplicemente osservando la persona che si ha davanti. La deduzione, mio buon Watson, è un’arte.[6]
L’uomo era basso e decisamente robusto, il tessuto del completo nero di buona fattura e il colletto della camicia perfettamente stirato. Dunque un uomo ricco, sposato - o pronto a pagare una governante che attendesse al suo bucato, la fede non l’aveva, dopotutto. Un orecchino di forma circolare, tuttavia, tradiva un passato da anticonformista, tratto di cui il detective ebbe la conferma quando fece calare lo sguardo sulla mano destra, parzialmente occupata da una scritta inglese tatuata sulle nocche delle dita. Tiger.
Shinichi aveva letto tutte le schede delle persone coinvolte in quell’affare, perciò non ebbe dubbi sull’identità del sospettato: Oki Rurushi [7].
L’investigatore sorpassò un paio di bambini in coda, per cambiare posto e osservare l’uomo da un’altra angolazione: la sua attenzione si fermò alla ventiquattrore che teneva tra le mani, attento che non subisse nessun urto inferto casualmente dai passanti.
- Quelli debbono essere i soldi… -
Continuando a camminare per fingere disinteresse, alzò lo sguardo ed ebbe la certezza che Chianti e Korn stessero puntando quell’uomo. Per un momento sentì l’impulso di gettarsi su di lui e salvarlo dagli spari
L’impulsività è nemica della facoltà logiche. [8]
…ma capì la situazione in tempo per fermarsi:
- Se avessero voluto ucciderlo subito, gli avrebbero dato appuntamento in un luogo più appartato. Non spareranno nel mezzo della folla, attirerebbero troppo l’attenzione, specie dopo il polverone dell’altra notte. I cecchini sono qui per precauzione, c’è qualcun altro che ha il compito di occuparsi di lui…-
Girò intorno ad un cestino dell’immondizia e si sedette su una panchina colorata, poggiando i gomiti sulle ginocchia.
– Dunque, ragioniamo. Ci sono Korn, Chianti… -
Ma a interrompere il procedimento deduttivo, la verità dei fatti: l’intuizione del detective venne confermata dall’apparizione repentina di un altro uomo alle spalle di Rurushi.
-… ed ecco Vodka. –
Dopo aver sillabato qualche parola che Shinichi non riuscì a comprendere, i due scomparvero nel vicolo tra due negozi dalle saracinesche abbassate. Scattò in piedi per seguirli, ma urtò con la spalla qualcuno che dietro di lui era piegato sulla panchina.
“Mi scusi…” s’affrettò a dire senza neppure voltarsi, lo sguardo fisso su Vodka per non perderlo.
“Ehi…” sentì una voce femminile lamentarsi, ma non prese in considerazione per un solo istante la possibilità di voltarsi e porgere delle scuse più appropriate. Probabilmente, non l’aveva neppure udita parlare.
Notare tutto senza distrarsi neppure un minuto. La totalità, caro Watson, è l’orizzonte di un investigatore. Il compenso è la tua vita.
Corse in direzione di quel vicolo, percorrendolo con circospezione e guardandosi intorno: i negozi ai lati del viottolo erano chiusi per inventario, oltre gli edifici si apriva uno spiazzo senza pavimentazione e piuttosto trascurato, intorno solo erbaccia e qualche cassetta di legno vuota abbandonata a terra. Arrestò il passo all’angolo dell’ultimo edificio, celando la sua presenza dagli altri due: si trovavano alle spalle della ruota panoramica, davanti a un grande blocco di cemento che in passato forse aveva costituito una delle basi dell’attrazione.
Shinichi sporse la testa oltre il muro, calando la mano nella tasca del cappotto verde che aveva indossato.
“Scusi il ritardo…” esordì Vodka, ironico. Appoggiò una mano contro il blocco di cemento, e si godette lo spettacolo di quell’uomo terrorizzato “…signor Rurushi Oki.”
“Ho…ho rispettato gli accordi, sono solo!” Disse Rurushi, la valigetta stretta in grembo.
“Certo, lo sappiamo…Abbiamo controllato dall’otto volante.” Gli si avvicinò.
“Presto, la roba!”
“Calma, amico. Prima i soldi…”
“Ecco: questi penso bastino!”
Aprì con uno scatto la ventiquattrore, al cui interno –come previsto- erano ordinate le serie di banconote; contemporaneamente, Shinichi sporse il braccio oltre il muro reggendo nella mano la piccola fotocamera che aveva appena estratto dalla tasca del soprabito verde.
- Wow…sono almeno cento milioni di yen…-
“Bene, affare fatto.” Sancì Vodka, afferrando malamente la valigetta e senza neppure accennare a contare le banconote.
“Presto allora, la registrazione…!”
– Registrazione? –
“Ecco a te…” Vodka estrasse una piccolissima chiavetta usb dalla tasca della giacca e gliela lanciò. Rurushi l’afferrò con un sussulto: Shinichi distinse chiaramente del sudore a imperlargli la faccia.
“La registrazione della conversazione avuta con noi l’altro giorno. La tua collaborazione, da questo momento, non ci serve più.”
“E che mi dici delle altre cose che provano che io…”
“Tutto cancellato. Adesso puoi tornare ai tuoi incontri clandestini di boxe.”
Shinichi continuò a scattare foto, l’orecchio teso a captare qualunque indizio su cui ragionare.
“Con tutti i soldi che mi avete chiesto per non fregarmi, la cifra che mi avevate dato ve l’ho restituita tutta, anzi vi ho pagato persino di più!! Praticamente ho svolto quell’incarico gratuitamente, e adesso sono di nuovo coi debiti fino al collo. Che c’ho guadagnato?”
Rurushi aveva paura, però si lamentava; piagnucolava sudando, pretendeva di persuaderli con la contrattualità.
“La vita, ecco cosa. Il crimine si paga, amico. Se non volevi avere debiti, non dovevi scommettere su quei tuoi ridicoli pugni, che non ti fanno più vincere nemmeno un incontro.” Vodka era superiore, divertito, minaccioso: un connubio di atteggiamenti si susseguivano senza ordine, Shinichi capì che non poteva essere di certo lui l’uomo di comando dell’Organizzazione.
Che niente sia mai lasciato al caso, Watson. La vera abilità risiede nella capacità di previsione.
“Dammi retta, da oggi scommetti sulla tua sconfitta. Ti spaccheranno il muso sul ring, ma almeno non ti sgozzeranno per avere i soldi che non riesci a procurarti.”
Si perdeva in troppe chiacchiere, era un imbecille. Strano che l’avessero mandato solo…
“Rispetto a quel che fa la vostra organizzazione, quello che faccio io…”
“Ti consiglio di tacere.”
Uno scricchiolio alle sue spalle.
Era talmente preso dalla conversazione tra quei due, animato dalla preoccupazione di comprendere il prima possibile ciò di cui stavano parlando e collocare quell’avvenimento in un quadro più generale, che non si sarebbe neppure voltato se quel rumore quasi impercettibile non fosse stato accompagnato da una frase, pronunciata quando l’imprecazione di Rurushi terminava: “Sei uno sciacallo!”
“Adesso hai finito…-
Una voce roca e gutturale. Shinichi sussultò voltandosi di scatto, dimentico di ogni mossa di karate o di jeet kune do che Ran e Shuichi gli avevano pazientemente insegnato. Sentì il cuore risalire sino alla gola ancor prima di capire a chi appartenesse quella voce, simile a un’epifania puramente percettiva giacché l’uomo dietro di lui, totalmente vestito di nero e abile nei movimenti, si mimetizzava con l’oscurità della notte.
Non lo aveva sentito arrivare.
Un fruscio lo portò ad alzare gli occhi, ma poté distinguere a malapena un oggetto sollevato oltre la sua testa. Fece per muoversi e prendere le distanze dall’ombra che, vicinissima, lo minacciava; ma non riuscì neppure ad accennare un gesto, perché uno strano bagliore attirò la sua attenzione, facendogli muovere gli occhi prima dei muscoli: i capelli, d’un candore spettrale, erano l’unica parte del corpo a distinguersi da quella informe massa di nero.
Mentre udiva chiaramente il rumore prodotto dall’oggetto indistinto sferzare l’aria, segno che stava per calargli sulla testa, fece a malapena in tempo a scrutare gli occhi di quell’uomo, glaciali come quelli di un androide.
- Che sguardo inquietante…Lo sguardo di uno spietato assassino…Quest’uomo è… -
Gin vibrò il colpo con potenza calcolata: la spranga di ferro che aveva raccolto tra i detriti di quel pratone atterrò sulla testa del giovane detective, scaraventandolo a terra con la faccia rivolta sull’erba.
-…di giocare al detective.”
 
§§§
 
Le nove e quarantacinque. Il grande orologio a pendolo del luna-park batteva dodici tocchi.
“Chiamalo!” squittì Sonoko, ammiccandole.
“Che cosa?”
Le due amiche avevano terminato le granite e si erano messe in fila per pagare la loro consumazione.
“Dai! Chiamalo. Fallo venire qui! Voglio vedervi tubare!” cinguettò pettegola, facendo avvampare la ragazza per l’ennesima volta.
“Non avrei dovuto raccontarti niente.” Le fece la linguaccia, mentre quel cameriere di poco prima passava loro di fianco per pulire i tavoli. Urtò leggermente il braccio della giovane ereditiera, così gli spicci che teneva nella mano tintinnarono a terra.
“Mi dispiace, la aiuto subito!” si offrì, ma loro declinarono. Dopo averli pazientemente raccolti, si misero a contarli poggiandosi su una panchina poco distante dal chiosco.
“Ran, posso farti una domanda?” esordì d’un tratto, e il suo tono non piacque affatto alla giovane karateka.
“Sì…” rispose comunque, mordendosi un labbro.
“Fino a che punto ti spingeresti con lui?”
 
Sospirò ancora rumorosamente, mandandogli il sangue al cervello: afferrò i bordi della canottiera, e la lasciò nuda.
Ran rimase ferma, in imbarazzo, con la fronte appoggiata ancora sulla sua; Shinichi la scrutò completamente, facendo scorrere le mani di nuovo sulle sue gambe, perché si sedesse sul suo grembo più comoda. Risalì poi con gli occhi sul viso di lei, scoprendolo imporporato dall’imbarazzo.
“Mi vuoi, Ran?” si assicurò in ultimo barlume di lucidità.
“Sì.” Rispose in un bassissimo sussurro, arrossendo ancora di più.
 
“Che-che dici?”
“Hai capito benissimo, furbetta. Se lui volesse…- non portò a termine la frase, perché di nuovo ricevette una spallata e, per la seconda volta, le monetine rotolarono a terra, sparpagliandosi sul marciapiede.
“Ehi…” polemizzò, voltandosi indietro.
Ran e Sonoko strabuzzarono gli occhi quando si trovarono davanti il protagonista della loro conversazione: Shinichi Kudo troneggiava a pochi passi da loro, dei jeans scuri e un cappotto verde con il cappuccio blu.
Immediatamente, il sangue le infiammò le gote. Da quanto tempo era dietro di loro, cosa le aveva sentire dire?
“Mi scusi…” rispose lui, senza neppure indirizzare lo sguardo nella loro direzione. Allora fu chiaro e entrambe che il detective privato non le aveva viste, tanto era preso ad osservare qualcosa oltre la calca di quella sera.
Di nuovo, la gelosia divampò nell’animo della ragazza, arrotolandole lo stomaco dal risentimento.
- Deve incontrare anche qui Shuichi Akai? – ironizzò, polemica. Il timore che potesse avere appuntamento con una donna si dileguò quando l’attenzione venne attirata dallo sguardo di lui: era proiettato verso un obiettivo preciso, e irrigidiva il viso in un’espressione di tesa concentrazione.
– Segue qualcuno. -
Sonoko cercò di chiamarlo ancora, ma il ragazzo si allontanò rapidamente dopo aver lanciato uno sguardo verso l’alto.
“Shinichi!” lo chiamò allora Ran, muovendosi verso di lui. Cercò di afferrarlo per la manica del cappotto ma non fu rapida abbastanza: il laccio della scarpa da ginnastica che calzava si ruppe per intero, facendola inciampare.
- Cattivo segno... –
Lo osservò correre via, e le sembrò di poter persino distinguere il rumore dei suoi passi da quello di tutti gli altri presenti.
Ebbe un bruttissimo presentimento, e si voltò per parlare con Sonoko.
 
 
§§§
 
Rurushi cessò fulmineo ogni tentativo di trattiva e corse via, la chiavetta usb ben stretta nel palmo della mano. Vodka non lo vide scappare, guardingo di fronte al corpo inerte del ragazzo.
“Ti sei fatto seguire.” lo ammonì Gin, lapidario, scatenando nell’altro un tremore impercettibile.
“Lo-lo facciamo fuori?” cercò di rimediare all’errore commesso, pronto a risolverlo in prima persona: estrasse la pistola dalla giacca, e tolse la sicura tirando indietro il grilletto.
“Non con la pistola.” Lo bloccò il biondo, chinandosi sulle ginocchia vicino la bocca del ragazzo.
Shinichi era disteso a terra, a pancia in giù: nella caduta, aveva battuto il volto contro il terriccio, ferendosi lo zigomo e graffiandosi una tempia. Il colpo sulla testa era stato tanto violento da aprirgli una ferita, e il sangue oramai macchiava l’erba. Nonostante il dolore penetrante gli scuotesse il corpo, era ancora cosciente: pur con fatica, teneva gli occhi aperti, nondimeno ogni forza era esalata via e gli era impossibile anche solo deglutire.
“È meglio questa. È la nuova sostanza che l’Organizzazione ha creato: nel cadavere non lascia tracce, consente il delitto perfetto.” Estrasse un portasigarette in metallo e, aprendolo, ne tirò fuori una pillola per metà bianca e per metà rossa.
“Un ultimo omaggio alla nostra piccola Sherry.”
Afferrò l’investigatore per i capelli, sollevandolo con forza da terra. Lui gemette, una serie di fitte che dalla nuca si ripercuotevano lancinanti sulla colonna vertebrale. Allora chiuse gli occhi, cercando di resistere alle scosse di dolore propagate simultaneamente. Grazie a un estremo guizzo di energie, afferrò la giacca di Gin con una stretta notevole per le condizioni in cui versava; l’uomo credette che il giovane volesse opporre resistenza, così, ghignando, gli ficcò la pasticca nella bocca forzandogli la testa indietro mentre serrava crudelmente la presa sulla frangia.
 “Però, sugli umani non è stata ancora provata…”
Diede un ultimo tiro ai capelli, allargando ulteriormente la ferita che la spranga aveva aperto. Solo quando sentì il giovane abbandonare la stretta sulla giacca, aprì la mano: il capo di lui precipitò a terra, urtando ancora una volta contro i sassi che gli graffiarono la pelle.
D’un tratto, si rese conto che non l’aveva neppure guardato in faccia. Chi diavolo era quel tipo?
Allungò nuovamente la mano per sollevargli la testa e voltarlo, ma Vodka, taciturno fino ad allora, riprese la parola: “Sento dei passi, meglio andare!”
Era vero: qualcuno stava correndo verso di loro, e presto sarebbe sbucato dal viottolo buio: il suono delle scarpe che urtavano il terreno si faceva sempre più vicino, perfettamente udibile.
“Sì…- il biondo si risollevò, tornando in piedi. Lanciò un ultimo sguardo alla schiena del ragazzo, e lo vide stringere convulsamente l’erba tra le dita. Comprese che la pillola stava facendo effetto e che presto sarebbe morto: il suo volto era inutile ed anonimo, come quelli di mille altri imbecilli.
Pertanto, rinunciò a scoprirne l’identità; in fin dei conti, non gliene importava affatto. Si calcò meglio il cappello sulla testa e seguì Vodka, oltre il muro divisorio che dava sulla strada.
Gin svanì sotto il suo cappotto come un corvo si contrae al riparo delle ali.
- Addio, super-detective.”
 
§§§
 
Aprì con fatica un occhio, ma un dolore terribile gli squassò le tempie; allora lo richiuse immediatamente, sospirando.
Aveva sentito anche lui quei passi, e continuava a udirli sempre più vicini.
Doveva alzarsi e dileguarsi il prima possibile, non aveva tempo. Con un grande sospiro tentò di issarsi sul busto, ma si ritrovò a strappare l’erba del terriccio che pochi istanti prima aveva afferrato per resistere alle scariche di dolore.
– Eh eh…in che squallida prestazione mi sono esibito, stasera…-
Due ginocchia gli si affiancarono e una mano gli si posò sulla schiena.
 – Mi sa che sono morto… -
Attese, senza forze, di sentire la canna di una pistola a contatto con la nuca.
Al contrario, due dita tremanti gli circondarono il polso, probabilmente per verificare il suo battito cardiaco. Poi, una voce lo sorprese a tal punto da pensare d’essere in pieno stato di shock post traumatico.
“Shinichi?”
Sospirò ancora, scaricando la tensione accumulata.
– Devo essere davvero in gravi condizioni… -
“Shinichi, riesci a sentirmi? Shinichi!”
– Oramai sento la tua voce dappertutto…-
“Mi senti? Svegliati, avanti! Apri gli occhi!”
– Ran… -
“Shinichi!”
Aprì piano un occhio, e notò che le fitte alla testa si erano placate. Vide davanti a lui due gambe nude, inginocchiate: solo le cosce erano fasciate da dei calzoncini grigi.
“Shinichi!”
Una mano gli si posò sulla fronte, perciò provò a sollevare lo sguardo. Ma ecco di nuovo quelle fitte insopportabili che gli fecero strizzare le palpebre.
“No, no! Cerca di non dormire, Shinichi. Resta con me, coraggio!”
Aprì ancora una volta gli occhi, e si ritrovò davanti il viso della ragazza, che s’era accovacciata perché lui potesse vederla.
“Bravo, Shinichi, così. Riesci a sentirmi?”
Una goccia d’acqua gli cadde sul naso, solleticandolo. Era una lacrima: la ragazza stava piangendo.
Chiuse gli occhi ancora, per raccogliere le forze che stava richiamando con tenacia stoica, e finalmente riuscì a far scivolare le braccia sino a che le mani non furono all’altezza delle spalle. Contò fino a tre e si issò sui gomiti, soffocando un gemito di dolore.
“Non alzarti! Hai una ferita sulla testa, dovresti rimanere immobile…”
“Non ho…mai…perso conoscenza…” riuscì a sillabare, dopo essersi schiarito la voce un paio di volte.
“Ma parli a fatica…”
Shinichi si sistemò carponi, le ginocchia e i palmi delle mani a sollevarlo dal terreno.
Ran gli teneva una mano sulla schiena, e, ancora china, gli scrutò il volto: nonostante il buio della zona che a malapena era raggiunta dalle luci del luna-park, distinse i graffi che si era procurato battendo la faccia contro i sassolini e il terriccio. Lo vide muovere la mascella verso destra, e pensò che non riuscisse a parlare –o che il trauma avesse coinvolto anche i denti. Invece, il ragazzo sputò fuori dalla bocca una pillola bianca e rossa, con un gesto di stizza che lei non riuscì a cogliere fino in fondo.
“Per non deglutire questa…” le spiegò poi, il respiro ancora un po’ affannato.
“Che cos’è?”
“Non toccarla!” la ammonì. “È un veleno.”
“Un-un veleno?”
Riuscì a sedersi sul terreno, poggiando una mano sul ginocchio di lei.
Si portò una mano alla testa, ridacchiando:
“Pare che io sia ancora vivo…”
“Non dirlo neanche!” singhiozzò lei, che gli aveva afferrato il polso, pronta a sorreggerlo.
Gli teneva ancora una mano sulla schiena, e solo allora Shinichi recuperò la padronanza della situazione, tornando a vestire i panni dell’investigatore.
“Che cosa fai qui, Ran?”
“Ero con Sonoko. Ti ho visto passare…”
“Perché mi hai seguito?”
“Perché ho avuto un brutto presentimento.”
“Molto brava, io non l’ho avuto.” Lo vide abbassare lo sguardo, liberandosi la fronte dalla frangia spettinata. Nonostante tutto, il suo tono di voce era ironico.
“Tu sei un pazzo…” lo rimproverò lei, riuscendo a stento a trattenere i singhiozzi che fino ad allora aveva accantonato per dedicare ogni energia al soccorso del ragazzo.
Le sorrise, spavaldo.
“Ti stai finalmente rendendo conto di quanto?”
Ran gli passò le dita sulle labbra, sussurrando: “Ti fa male?”
“No. Mi fa male la test…- ma non poté terminare, perché lei lo baciò.
Lo baciò davvero, aprendogli la bocca con le sue labbra e sfiorandogli subito la lingua.
Shinichi serrò gli occhi, rendendo quel bacio ancora più intenso, quasi aggressivo.
La lasciò senza fiato, costringendola a separarsi da lui quasi subito; ma non appena si fu staccata, lui la prese per i fianchi e la tirò di nuovo a sé, baciandola di nuovo.
“Shinichi…” ansimò, poggiando la fronte sulla sua e guardando da vicino i segni che gli graffiavano il viso.
“Me lo dovevi da due giorni, Ran. Ho dovuto farmi pestare per averlo? Non ti ci abituare.”
Risero entrambi, e lui le passò una mano sulle guance – lentamente, le forze che ancora scemavano a causa del dolore alla testa.
“Perché piangi?”
“Perché ho pensato…che…” la voce le morì nella gola, e gli occhi tornarono a lacrimare.
“Che fossi morto?”
“Sì.”
“Un uomo mi ha colpito in testa.” Ammise, carezzandole una gota. “Non l’ho sentito arrivare.”
“Sei ferito, hai il cappuccio sporco di sangue.”
“Sei stata fortunata, Ran. Lo sai che sulla scena di un crimine il primo sospettato è sempre la persona che trova il corpo?”
“Non sei ancora fuori pericolo. Io vorrei picchiarti in questo momento.”
“Ho sempre immaginato che una karateka amasse divertirsi in modi violenti…” alluse, il sangue che ricominciava a circolare bene nel corpo colorandogli il viso, prima pallido.
“Smettila di fare lo stupido.” Lo ammonì, ma lui continuò: “Vuoi mostrarmene qualcuno?”
“No. Voglio portarti in ospedale.”
“Mi dici sempre di no, è una tattica?”
“Basta, andiamo in ospedale. Sei ferito.”
“Funziona molto bene. Ogni volta che mi dici di no, non sai che voglie che mi vengono…”
“Lo vedi? La botta ti ha compromesso il funzionamento cerebrale, stai dicendo delle stupidaggini.”
Entrambi sentirono che la tensione era scemata e il pericolo era scampato, perciò si abbandonarono a quelle schermaglie che, tra di loro, divenivano sempre più abituali. Nondimeno, l’adrenalina nata dalla paura persisteva, ma si adattava alla rinnovata situazione, trasformandosi in eccitazione – e quel bacio non aveva aiutato a diminuirne gli effetti.
Shinichi la osservò: sotto il maglione a collo alto s’intravedeva una magliettina bianca, e il cappotto azzurro era slacciato ai due lati dei fianchi.
“Vuoi sapere che voglia ho adesso?”
“Ti aiuto ad alzarti. Appoggiati a me.”
“Vorrei vederti come ti ho vista quella notte.
“È la commozione cerebrale a parlare. Stai perdendo tutta la tua rinomata intelligenza.”
Con fatica, il detective s’alzò in piedi, aggrappandosi al braccio di Ran con una mano. Solo allora la ragazza vide che anche la maglietta gialla di lui era macchiata di rosso.
“Ho avuto tanta paura, Shinichi.” Gli confidò, a bassa voce. Lui le poggiò una mano sopra la testa, scompigliandole i capelli.
“Non temere, ne ho viste di peggiori.” Mentì, per tranquillizzarla.
Ma una nuova fitta alla tempia lo tradì subito, e le dita tornarono a tingersi di rosso nel tentativo di alleviare quella pulsazione.
“Devi andare in ospedale…” insistette lei, ma lui scosse la testa.
“No. Non ce n’è bisogno, non è grave. Devo solo medicarmi la ferita e metterci una fasciatura.”
“Ma potrebbe peggiorare!”
Di nuovo, l’investigatore si trovò a fronteggiare l’inconveniente di una ragazzina che lo metteva in difficoltà con riferimenti puntuali; scelse senza esitazione di essere sincero, e parlò:
“Non posso andare in ospedale, Ran. Non bisogna assolutamente attirare l’attenzione in questo momento, e già c’è stato sufficiente polverone mediatico a mettere a rischio l’operazione. La mia aggressione non passerebbe sotto silenzio, e io non posso permettere che le cose vadano male.”
“Allora ti medicherò io. Mio padre sta giocando a mahjong, non tornerà prima dell’alba: vieni a casa mia.”
Il detective annuì, ma, nonostante la fiducia che nutriva in quella impicciona, celò come meglio poté una pistola nella cintura dei jeans.
La calibro ventotto che aveva sottratto a Gin.
 

Note dell’autrice: Ok, ok, ok. Lo so.
Con calma, vi spiego tutto =D
 
Allora: l’appuntamento tra Shinichi e Ran è qualcosa che dovevo scrivere da tanto tempo, ci ho messo davvero poco perché ho riversato tutto quello che avevo sul foglio bianco. Come al solito, spero sia stato corrispondente all’immagine di entrambi.
La presenza di Sonoko mancava da un bel po’, e non volevo escluderla d’un tratto dalla storia dal momento che in questa fic è praticamente la più grande confidente di Ran – non conoscendo Kazuha, non parla dei suoi sentimenti per Shinichi con nessun’altro, per il momento.
 
Ma quel che volete sapere di più è il famoso episodio al Tropical Land, suppongo. Avevate pensato si fosse rimpicciolito, eh?! No, i miei occhi contemplano soltanto uno Shinichi adulto e consapevole. =P Tuttavia, questo episodio meglio di altri mi permette di rivelare finalmente quella struttura portante di cui vi parlavo nei precedenti capitoli, il progetto, insomma, su cui si basa questa fic. Ho pensato sarebbe stato interessante riprendere alcuni momenti particolarmente salienti nella trama di DC, quindi momenti d’autore, per riproporli in un contesto un po’ diverso, nel quadro generale di una What if?. Questo non è il primo che propongo (nei capitoli passati ho fatto cenno al primo incontro, anche se un po’ modificato, tra Ran e Shuichi Akai, e un rapidissimo commento sull’errore di Andre Camel che è costata l’operazione di Shuichi) ma è sicuramente il primo più importante, e più esteso, su cui mi soffermo. Spero non si tratti di una scelta troppo azzardata, o banale, o poco originale, o insensata, o stupida…insomma: spero non si tratti di una cattiva scelta, che vi faccia scadere la mia storia. Ripercorrere questo momento, che è quello d’avvio del manga, è stato per me particolarmente significativo – il primo grande incontro tra Shinichi e Gin.
Spero davvero che la mia trovata possa essere quantomeno decente, e che non vi abbia invece fatto rabbrividire. Sarò contenta se vorrete dirmi che cosa ne pensate: naturalmente, sono accette anche le critiche!
Un bacio grande dalla vostra Cavy :*
 
[1] Nel capitolo primo.
[2] Nel capitolo due.
[3] Nel capitolo sette.
[4] Aneddoto dal quarto film.
[5] È la stessa frase che Conan pronuncia a Shu sul tetto dell’ospedale, durante l’arco del coma di Kir.
[6] Da Uno studio in rosso.
[7] Dal capitolo quattro.
[8] Altro aforisma di Sherlock Holmes.

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