Un Año Sin Lluvia di CieloNotturno (/viewuser.php?uid=723117)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter 1 ***
Capitolo 2: *** Chapter 2 ***
Capitolo 3: *** Chapter 3 ***
Capitolo 4: *** Chapter 4 ***
Capitolo 5: *** Chapter 5 ***
Capitolo 1 *** Chapter 1 ***
Le
gocce calde cadevano
velocemente giù in quel piccolo spazio che occupava parte
del bagno.
Scivolavano lungo il mio corpo bollenti lasciandosi dietro una
sensazione
piccante e cocente. I miei capelli ricadevano sulle spalle impregnati
di
fragranza alla vaniglia e al cocco, erano attaccati ai lati delle mie
guancie e
mi provocavano un leggero prurito fastidioso, ma che lasciai comunque
in
secondo piano rispetto ai miei pensieri.
La
doccia.
Il
momento che amavo e odiavo
di più nella giornata. Era una cosa buffa amare e odiare
allo stesso tempo una
cosa, eppure era così.
Era
rilassante, bollente e
piccante nei mesi invernali.
Rinfrescante,
frizzante e
piacevole in quelli estivi.
Un
vero toccasana in entrambi
i casi. Adoravo il getto d’acqua scendere violento su di me
nei giorni afosi
d’agosto e, adoravo ancor di più le goccioline di
lava lungo il mio corpo nei
gelidi freddi di Gennaio.
Ma
la doccia da modo anche di
pensare e questo,non è un vero e proprio toccasana quando
hai dei demoni dentro
da combattere, proprio come me. La mia anima aveva imparato a convivere
con
tutti i mostri accumulati man mano negli anni.
Sbuffai
scocciata e chiusi il
getto d’acqua che colava ancora sulla mia testa.
I
vetri della cabina si erano
appannati e lì dentro si era creata una tale afa da non
riuscire a sopportarla.
Uscii bagnando il pavimento in marmo del bagno della mia, ennesima,
lussuosissima suite in un albergo diverso.
Avvolsi
il mio corpicino in
uno di quei asciugamani riposti sul piccolo mobiletto del bagno.
L’odore di
lavanda mi inebriò subito strappandomi un piccolo sorriso.
Ne
presi un altro, meno di
fretta e studiando meglio ogni suo aspetto. Sembrava esser fatto a mano
e,
sinceramente, non mi sarei stupita se fossi venuta a sapere che la mia
ipotesi
era vera.
Sfiorai
con la punta del
pollice la scritta ricamata in color oro Casablanca
Hotel Times.
Ero
finita a New York questa
volta, definita anche come La
Grande Mela.
Viaggiavo
spesso a causa del
mio lavoro, venivo trasferita di qua e di la ogni tot di mesi, e la
cosa mi
stressava non poco. Non riuscivo a relazionarmi e avere una vita
sociale con un
minimo di normalità.
Sospirai
portando la
salvietta alla mia testa e asciugando con cura i miei capelli, dato che
oggi
non avevo ne tempo ne voglia di passare da un parrucchiere del luogo.
Lasciai
cadere in terra i
tessuti che mi avevano asciugata fino a quel momento ed uscii dal bagno
ritrovandomi nell’altra stanza. Un brivido di freddo mi
percorse la schiena.
Era Novembre e lì faceva parecchio freddo. Non abituata a
quella temperatura
così bassa, dato che ero uscita dal bagno che di
lì in poco era diventato una
piccola stufa, causa la mia doccia lunga e bollente.
Corsi
verso il letto dove
avevo poggiato la mia valigia laccata interamente in viola. Optai per
un abbigliamento
semplice, quel giorno non dovevo accogliere nessun cliente di qualche
particolare ceto alto. Sfilai distrattamente un jeans stretto e una
camicetta
bianca. Semplice e classico.
Quando
mi fui vestita portai
la valigia al lato del letto. Avrei tanto voluto poter sprofondare in
quel
tenero e caldo materasso, sotto le coperte per dormire fino al mattino
seguente. Ma non potevo permettermelo, ovviamente.
Presi
la mia borsa firmata
Luis Vuitton e feci una scaletta mentale di tutte le cose che avrei
dovuto fare
da quel momento fino all’ora di andare a letto.
Andare in metrò 17:10
Arrivare al Vicius Palace 18:00
Primo cliente 18:10
Secondo cliente 18:50
Terzo cliente 19:30
Quarto ed ultimo cliente 20:10
Ritornare in metrò
Mangiare
Nel
mentre ero già fuori l’hotel
catapultata nelle vie caotiche di New York, non che non ci fossi
abituata.
Avevo lavorato sempre in grandi città come Londra, Buenos
Aires, Milano,
Washington e Dublino. Ma New York ha sempre avuto un certo effetto su
di me, è
la città delle grandi occasioni e chissà, magari
una speranza di uscire da
questo circolo vizioso una volta per tutte, c’era anche per
me.
La
metrò non distava molto da
qui e per fortuna ero in anticipo di circa quindici minuti, avrei avuto
il
tempo di bere un cappuccino prima di lavorare.
Entrai
nel primo bar aperto
che mi ritrovai davanti. Beer&Coffè.
Che nome stupido.
Mi
ritrovai a pensare.
Il
locale era mezzo vuoto e
gli unici tavoli pieni erano occupati da uomini in tenuta da operaio,
in
effetti avevo notato lì vicino un’area non
accessibile causa lavori in corso.
Arrivai
vicino al bancone e
poggiai sopra una mano picchiettandoci con le unghie sopra mentre
fissavo
l’uomo dietro d’esso, che puliva un bicchiere di
vetro.
Feci
un piccolo e finto colpo
di tosse per cercare di attirare la sua attenzione e prendere il mio
dannato
caffè prima di far tardi a lavoro.
Iniziai
a spazientirmi
parecchio. Ero una cliente e quel tipo non mi degnava nemmeno di uno
sguardo.
“Scusa,
dovrei ordinare”
Dissi
con un tono decisamente
elevato di acidità nella mia voce. I suoi occhi si alzarono
dal recipiente che
stava pulendo e si incontrarono con i miei. Erano verdi come era verde
il prato
dei parchi di Buenos Aires, verde come l’acqua cristallina
del mare, verde come
il colore della speranza.
“Mi
scusi signorina, cosa
desidera?” la sua voce era un insieme di note gravi che
miscelate insieme
creavano un’armonia mai sentita. Deglutii ritrovandomi per la
prima volta con
la gola secca e con le parole attaccate al palato.
“Cosa
desidera?”
Parlò
di nuovo facendomi
risvegliare dal beato ricordo della sua voce, dandomene un altro
assaggio.
Violetta Castillo era davvero rimasta incantata da una voce e da un
paio
d’occhi? No, non poteva essere.
“Caffè
macchiato” risposi
quasi senza voce, cosa mi stava succedendo? Battei più volte
le palpebre
cercando di ritornare in me.
Lo
guardai muoversi esperto
dietro al bancone notando che sulla camicia che aderiva perfettamente
ai
muscoli delle sue braccia c’era sopra attaccata una piccola
targhetta con su
scritto Leon.
Un
secondo dopo mi ritrovai
davanti agli occhi una piccola tazzina con un cucchiaino
al’interno
“Sono
1.50”
Feci
un lungo sospiro prima
di tirare fuori dalla tasca le monetine e poggiargliele sul banco. 1.50
precisi.
Bevvi
il caffè così
velocemente da sentirlo scendere giù per la gola come una
cascata che graffiava
la mia gola. La lingua mi bruciava e sentivo lo stomaco contorcersi a
quell’azione troppo violenta e sgarbata. Dovevo rimanere
calma, ero agitata per
una sciocchezza.
“Buona
giornata”
Dissi
con la voce ancora
graffiata uscendo di fretta e furia da quel posto.
Fermai
un secondo la mia
camminata feroce e presi un bel respiro prima di riuscire a
regolarizzare il
ritmo dell’aria che entrava ed usciva dai miei polmoni.
Strinsi
il manico della borsa
di marca che portavo in spalle e mi diressi alla metrò.
Non tornerò mai
più in quel posto.
Dopo
buoni cinquanta minuti
passati nel mezzo pubblico e puzzolente che avevo sempre odiato,
riuscii ad
arrivare al Vicius Palace giusto in tempo per il mio primo cliente.
“Salve
Marotti” dissi
guardandolo con occhi sinceramente sprezzanti, come avevo sempre fatto.
Quell’uomo aveva prima salvato la mia vita e poi
l’aveva masticata e sputata su
un piatto troppo sporco per me.
“Ciao
mia bella principessa”
lo sorpassai schifata portandomi al piano di sopra.
C’erano
numerose porte,
precisamente cinque sul lato destro e cinque sul sinistro. Percorsi il
corridoio dall’aria innocente e pura in apparenza fino ad
arrivare alla porta
con inciso sopra il mio nome..Violetta
Castillo.
Entrai,
ormai ero abituata a
tutto questo.
“Ciao
bambolina”
La
voce roca di un uomo sulla
quarantina, poggiato contro il tavolo, mi fece sobbalzare.
Chiusi
gli occhi per un
secondo e lasciai cadere la borsa di fianco alla porta.
“Niente
moine, lascia i soldi
sul tavolo e spogliati in fretta”
Dissi
e iniziai a sbottonare
i bottoni della camicia velocemente, volevo finire presto.
Sono Violetta Castillo e questo
è il mio lavoro.
Look at me
Hola,
se siete arrivati qui
vorrà dire che avete letto il capitolo e ne sono
FELICISSIMA. Grazie per aver
letto e spero vi piaccia, ci ho messo una notte intera per scrivere
questo. Lo
so è poco, ma è solo l’inizio.
Dico
da ora che se non
troverò nessun tipo di interessamento e/o recensione alla
mia storia non credo
di continuarla. Sono una tipa che va avanti se vede che le cose sono
apprezzate
o tantomeno considerate, altrimenti è inutile.
Detto
questo vi lascio qui sotto
il mio account ask se vorreste farmi qualche domanda (anche se ne
dubito) e premetto
che non riesco a stare molto su efp a causa di problemi con il pc di
casa mia [Scrivo
dal computer del mio ragazzo] Perciò se avete qualcosa da
dire c’è ask lì, bellissimo
che aspetta solo voi (ho l’app di ask sul telefono
perciò lì riesco ad andare senza
problemi)
Tutti
i tipi di recensioni e consigli
sono ben accetti a bandierina verde, bianca o rossa che sia.
Ok,
ho finito. Buona notte o Buon
giorno, dipende dai punti di vista hahahah
3
http://ask.fm/CieloNotturno |
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Capitolo 2 *** Chapter 2 ***
“Mamma! Mamma!”
Goccioline di sangue scendevano
lentamente lungo il
suo braccio lasciando una scia calda e liquida, per poi schiantarsi
contro il
parquet in legno lucido, creando un suono appena udibile ma
frastornante al
tempo spesso.
“Mam-Papà!”
Il fiato mi si bloccò in
gola senza riuscire ad
arrivare ai miei polmoni. Tremavo, tremavo come una foglia tremava
d’autunno a
causa del vento, poco prima di cadere e lasciar per sempre il posto
dove era
nata e cresciuta.
I suoi occhi spalancati erano scuri come il
petrolio e mi guardavano
come non avevano mai fatto, erano pieni di pazzia.
Avevo paura di muovermi.
Il tintinnio delle goccioline
risuonava ancora nelle
mie orecchie mentre il mio sguardo si era posato su un coltello.
Un coltello sporco di sangue e
peccato.
Un coltello che teneva stretto
nella mano mi..
Urlai
come facevo ormai ogni
notte. Tastai con le mani le mie guancie e le scoprii bagnate di un
liquido salato
che, in parte, aveva toccato anche le mie labbra. Tirai su col naso per
poi
accendere la piccola abatjour che l’hotel aveva messo a
disposizione.
Notai
che i miei due cuscini
erano finiti in terra e le coperte che mi avevano protetto dal freddo
fino a
quel momento erano appallottolate e raggomitolate sul bordo del letto.
Mi
alzai e poggiai una mano
sulla fronte cercando di bloccare il martellare forte e continuo
presente nella
mia testa. Il freddo mi trafiggeva la pianta dei piedi mentre camminavo
avanti
e indietro per la stanza che ormai era diventata asfissiante.
Erano
tredici lunghi anni che
faceva lo stesso incubo ogni notte.
Adesso
mi farò una camomilla e poi
tornerò a letto
Pensai
mentre le lacrime avevano
finito di scendere a cascata sulle mie guance. Respirai, per poi
accorgermi di
non essere a casa mia ma in una stupida camera d’albergo con
solo una dannata
stanza e un dannato bagno. I miei piani di farmi una camomilla
saltarono.
In
quel momento maledii
tutto. Maledii il mio lavoro per tutto lo stress e per tutti i viaggi
che mi
costringeva a fare, maledii la mia insulsa vita, maledii lo stupido
bisogno di
dormire e di non riuscire a sopravvivere senza.
In
un atto di rabbia e follia
diedi un calcio alla valigia poggiata accuratamente contro il muro,
cadde
provocando un tonfo che mi fece innervosire ancora di più.
Mi
avvicinai al mini frigo
accanto alla porta del bagno e l’aprii prendendo
l’unica bottiglina di acqua
frizzante presente all’interno. Tornai a sedermi sul letto,
leggermente più
calma e iniziai a berla a sorsi.
Sospirai
e dopo essermi
assicurata della mia lucidità nuovamente raggiunta, poggiai
la schiena contro
al materasso. Gli occhi presi a fissare un punto indefinibile nel vuoto
e la
mente che viaggiava, in prima classe nell’aereo dei ricordi.
Mi
girai su un fianco
poggiando la tempia accaldata e dolorante sulla coperta, i demoni non
mi
facevano paura di giorno. Ma la notte, quando venivano a bussare alla
mia porta
non ci vedevo più dal terrore ma il mio istinto masochistico
gli apriva la
porta dandogli libero accesso alla mia mente, portandola fuori dai
limiti e
facendomi perdere la sanità mentale.
“Mamma”
sussurrai a me stessa
mentre gli occhi iniziavano a pizzicarmi brucianti di nuovo.
“Mamma” ripetei
affondando la testa nel materasso che avevo tanto desiderato provare
quel
pomeriggio ma che in quel momento stavo disprezzando come non mai.
La
mattina mi svegliai
acciaccata e con ancora il mal di testa.
Mi
strofinai gli occhi e mi
alzai lentamente dal letto, solo per non peggiorare il dolore alla
schiena. Aprii
le tende facendo così filtrare la luce del sole nella mia
suite.
Erano
solo le nove del
mattino e New York era già in completo movimento. Le
macchine sfrecciavano
veloci sulla strada quasi da non vederle, le persone indaffarate
camminavano
senza neanche accorgersi di quel che accadeva in torno a loro e i
studenti che marinavano
la scuola girovagano nelle vie con cautela per la paura di essere
riconosciuti
da qualche loro familiare.
Sbadigliai
prendendo il
cellulare da sopra al comodino. Un samsung galaxy express due, il mio
bellissimo e amatissimo telefono regalatomi dall’azienda.
Sbloccai
lo schermo per
leggere la scritta “Un nuovo messaggio da Marotti.”
Sbuffai
pesantemente. Di
prima mattina, nel mio giorno libero, già doveva
infastidirmi con i suoi
messaggi?
Buongiorno
Zuccherino, alle 11 passa al
Vicius, dobbiamo organizzarci della tua sistemazione. Kiss.
Roteai
gli occhi per la sua
falsa dolcezza da diabete e poggiai di nuovo il cellulare sul comodino.
Iniziai
ad incamminarmi verso il bagno mentre la mia mente si ritrovava di
nuovo a
vagare tra i ricordi tatuati nel mio cervello.
Marotti.
Un uomo in apparenza
ricco e generoso, che dava speranze ai giovani donandogli posti di
lavoro
sicuri e importanti. Un uomo che accoglieva in casa chi usciva da una
tragedia
e veniva etichettato come sfortunato.
L’uomo perfetto.
Ma
nessuno sa chi è davvero
lui, o quasi nessuno.
“Questa è
Violetta, trattatela bene è una matricola..
ha solo quattordici anni”
Tutte mi squadravano da capo a
piede, come se fossi io
la strana con qualcosa di sbagliato addosso. Erano loro ad essere
vestite e
truccate come delle prostitute.
Abbassai lo sguardo intimorita un
attimo da tutti
quegli occhi puntati su di me. Cosa volevano? Io ero qui solo per una
visita
con il signor Marotti.
“Non si preoccupi
Marotti” una ragazza alta dalla
pelle scura si avvicinò all’uomo che mi aveva
accolta in casa sei anni prima.
Camminava in modo elegante e la sua voce seducente avrebbe potuto
persuadere
tutti. “Ci prenderemo noi cura di lei” gli
scoccò un bacio sulla guancia
accarezzandogli una spalla con le dita lunghe che si ritrovava, coperte
totalmente da anelli argentati.
Diciamo
che la mia vita non
era tra le più comuni e facili.
Uscii
dall’albergo lavata e
vestita. Quel giorno avevo pensato di vestire più
elegantemente. Dovevamo pur
sempre parlare della mia
sistemazione e non di una cosa
qualunque, chissà chi mi avrebbe presentato questa volta,
quale casa mi sarebbe
spettata e in che via, soprattutto.
Il
tailleur blu che mi
fasciava a pennello le forme si intonava con l’eyeliner
colorato che avevo
passato finemente sui miei due occhi. La mia solita, adorata borsa di
Luis
Vuitton oscillava ad ogni passo fatto dal mio vertiginoso tacco.
Cosa dovevo fare precisamente?
Mi avevano chiuso in quella stanza
e se ne erano
andate lasciandomi sole con quest’uomo. Aveva
all’incirca il doppio dei miei
anni ed era il mio triplo. Mi incuteva paura e i miei piedi erano
piantati nel
terreno.
“Fallo
divertire”
Mi aveva detto Ambar, la donna che
aveva fatto poco
prima gli occhi dolci al signor Marotti. Come avrei fatto a farlo
divertire?
“Sei pronta ragazzina?
Guarda che hai sprecato già un
quarto d’ora dei quaranta minuti” la sua voce era
stizzita e si stava
abbassando il jeans che fece cadere all’altezza delle sue
caviglie
“Avanti
spogliati!” continuò
Scossi
la testa cercando di
levarmi le immagini della mia distrutta adolescenza davanti agli occhi.
Mentre
la mia mente vagava in cerca di un argomento più
interessante e meno doloroso
da elaborare, mi ritrovai già davanti al Vicius.
Tanto
meglio
Ridacchiai
entrando
nell’edificio dalle porte raffinate ed eleganti in vetro. Era
impressionante
come il mio corpo si muoveva meccanicamente e automaticamente mentre i
miei
pensieri erano da tutt’altra parte. Credevo di averlo
imparato negli anni, la
routine dei miei giorni era quasi sempre la stessa, cambiavano solo, di
tanto
in tanto, i luoghi in cui mi trovavo.
“Buongiorno
signorina
Castillo”
Un
ragazzo che non avevo mai
visto prima d’allora, vestito in divisa nera mi guardava
sorridendo. Come
sapeva il mio nome? Aveva i tratti del viso dolci e il nasino
all’insù. Mi
faceva quasi ridere quanta dolcezza esprimevano i suoi occhi,
nonostante il
posto dove si trovasse.
“Buongiorno”
risposi per poi
avanzare verso l’ufficio di Marotti.
Entrai
senza bussare e lo
trovai seduto su una poltrona in pelle, di fronte ad un uomo abbastanza
anziano, con i capelli lunghi e grigi fino alle spalle.
“Violetta
mia cara, vieni qui
che ti presento Fernando”
Sospirai
e mi avvicinai a
loro. Sarebbe stata
un’altra mattinata
molto lunga.
Ero
seduta sulla panchina di
un parco di NY. Faceva più freddo del giorno prima o,
almeno, l’aria sembrava
più rude del solito. Le gambe accavallate l’una
sull’altra e la mia adorata
borsa prendeva posto proprio al mio fianco. Il braccio attorno al
manico di
essa per evitare sgradevoli furti da parte di qualche ragazzino che
voleva
avere le attenzioni su di lui facendo il bullo con una ventunenne.
Mi
rigirai attorno al dito le
chiavi della mia nuova e splendente Mercedes. Avevo la patente da un
anno, era
ora che quel riccone di
merda me ne
concedesse una.
Il
venticello freddo sbatteva
contro la mia faccia facendo appassire il colorante rosso sulle mie
labbra. Un
Yves saint laurent della modica cifra di quaranta dollari e ottantatre
centesimi. Girai il polso notando che erano già le 7 e 45 e
che il mio stomaco
iniziava a brontolare dalla fame. Era arrivato il momento di tornare a
casa.
Si,
perché finalmente avevo
ricevuto le chiavi della mia nuova casa. Era nel centro della Grande
Mela e
distava pochi isolati dalla metrò, non che mi servisse
più, adesso potevo
raggiungere il Vicius con la mia macchina.
Sorrisi
tra me e me una volta
seduta sui sediolini in pelle che odoravano ancora di nuovo, pensando
che, in
quel giorno, qualcosa era
andato bene.
Girai
la chiave nella
serratura.Ero arrivata all’indirizzo che mi aveva dato Fernando, il
proprietario del palazzo
dove ero in quel momento, mi aveva detto che la mia casa era la numero
162 del
settimo piano. Ovviamente con scarpe di quella altezza non avrei mai
salito
sette piani di scale, così andai nell’ascensore.
Quello
che mi ritrovai
davanti pareva più un attico affittato dai famosi attori di
Hollywood, che un
appartamento per una persona.
La
mia bocca si
spalancò guardando l’immenso
ambiente circostante a me.
Un
grande salone si estendeva
alla mia vista. Un divano in pelle a isola bianco era posizionato su un
tappeto
color cioccolato. Il camino era già acceso rendendo la casa
calda e
accogliente. Il fuoco giocherellava avanti e indietro facendo
scoppiettare il
legno sotto di esso.
Come
finale una grande
vetrata prendeva tutta la parete infondo dandomi un ottima vista di
almeno metà
New York.
Il
tavolino in vetro
posizionato di fronte al
divano teneva
in piedi un piccolo vaso pieno di violette fresche e profumate con nel
mezzo un
bigliettino rosa.
Mi
avvicinai e lo portai all’altezza
del naso. Profumava di lavanda. Era il suo marchio. Lo aprii
delicatamente
per non stracciare la carta quasi velata e lessi a bassa voce il suo
contenuto.
Ti
piace la tua casetta?
L’ho
consigliata io a Marotti. Solo per
te. Xx
Look at me
Un
altro piccolo capitolo lo
so ma è un miracolo che sia riuscita ad anticipare
l’aggiornamento ad oggi.
Per
la mia felicità oggi è
venuto un tecnico a controllare il pc di casa mia e per
mercoledì la
connessione wifii dovrebbe essere a posto. In questo capitolo non
succede nulla
di che, si viene solo a sapere un pizzico della vita della nostra cara
protagonista.
Ringrazio
TUTTI quelli che
hanno recensito la mia storia e messa nelle seguite o preferite. Tutti
quelli
che l’hanno letta e un grazie a tutti quelli che
l’hanno anche odiata.
Se
vedrò ancora tutto questo
interesse per la storia (che mi rende felicissima. Non mi aspettavo
più di una
recensione) cercherò di continuare ancora presto.
Per
quando il computer sarà
pronto credo di stabilire dei giorni a settimana (2 o 3) dove
aggiornerò ad un
determinato orario.
Un
grazie a tutti ancora e un
bacio.
Cielo
<3
[Account
di Ask se avete
qualche domanda da farmi: http://ask.fm/CieloNotturno ]
|
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Capitolo 3 *** Chapter 3 ***
Lunedì,
il giorno che tutti
odiavano di più al mondo. Dai più grandi ai
più piccini. Il Lunedì è un incubo
da cui ci si sveglia solo ventiquattro ore dopo. L’inizio di
una lunga e
faticosa settimana lavorativa per i grandi, e l’inizio di una
stancante settimana
scolastica per i piccoli. Il giorno dopo la domenica che, a mio parere,
era il
più bel giorno tra tutti. Il mio giorno di riposo che
lì a NY, la mattina
pareva sabato. I negozi aperti e la gente libera da tutti gli impegni
andava
spassandosela per la città.
Avevo
appena finito la mia
sessione mattiniera e mi ritrovai a sbadigliare nella hall del Vicius
Palace.
I
Vicius Palace erano
sparpagliati un po’ per tutto il mondo, tutti sotto il
controllo di Marotti. È
stato qui dove ho sempre lavorato io, in questa, se possiamo definirla
tale,
azienda sforna prostitute. Edifici eleganti e raffinati, dove anche il
minimo
dettaglio era curato alla perfezione, le grandi finestre lucidate ogni
mattina
e ogni sera prima di aprire e chiudere, rendevano il posto illuminato e
davano
un ottima veduta sul resto della città.
Eravamo
lì, quelle della
pausa pranzo delle 12, come fossimo state semplici impiegate che
facevano un
lavoro comune e pulito.
Mi
guardai intorno
sbadigliando ancora una volta e chiedendomi quando i nostri
caffè post pranzo
sarebbero arrivati. Il caffè per me era sacro, mi dava modo
di essere sempre
sveglia e lucida, di riuscire ad incastrare tutti gli impegni delle
giornate
lavorative assieme a quei pochi svaghi che mi concedevo ogni tanto. Il
caffè era
una delle poche cose che non potevano mancare nel mio ciclo giornaliero.
Girai
la testa. Erano tutte
intente a parlare tra di loro. Le solite cose frivole che sotto sotto
un po’
piacevano anche me. Attizzai le orecchie per scoprire che stavano
parlando della
nuova linea di capi di Maximiliano Ponte. Ero sempre stata una patita
della
moda. Amavo spendere i numerosi soldi che guadagnavo ogni mese per capi
dei più
grandi stilisti al mondo, mi piaceva vestire elegante e dare consigli
su un
outfit ben curato ed abbinato.
Battei
le palpebre per
scoprire di star guardando, involontariamente, Camilla Torres seduta
proprio di
fronte a me. Nella sua solita posa da principessa mentre lasciava
asciugare lo
smalto alle unghie dei piedi color celeste. Mi ritrovai a fare una
faccia
schifata per l’orrendo abbinamento fatto tra smalto
posteriore e superiore.
Se
come colore sulle unghie
delle mani aveva optato per un verde cocomero avrebbe dovuto usare uno
smalto
più soft e scuro, a differenza di uno sgargiante e troppo
luminoso.
Distolsi
lo sguardo
portandolo all’infuori della finestra. Pioveva selvaggiamente
e sembrava, ogni
minuto di più, che le gocce d’acqua volessero
spaccare i vetri perfetti di quel
posto.
In
quell’edificio era tutto
così laccato perfettamente da farmi venire il voltastomaco.
L’odore degli spray
era forte da entrarti nelle narici e arrivare alle tempie facendotele
pulsare.
I pavimenti sempre lucidi passati con la cera. Le tendine color oro,
rifinite
in ricamature fatte a mano. Tutto in quel posto sembrava pulito e dava
l’impressione di esserlo a tutti quelli che lo guardavano da
un ruolo
differente da chi ci lavorasse lì. Nessuno se non noi,
sapeva quanto marciume
era presente sotto quello strato di pulito splendente. I fortunati non
sapevano.
“Scusate
per il ritardo,
pioveva talmente tanto da non riuscire ad uscire dal bar”
I
miei occhi si aprirono di
scatto, quasi volessero uscire dalle orbite. Non trovai la forza di
distogliere
lo sguardo dalla finestra, e di girarmi nella direzione da cui
proveniva quel
suono armonioso che mi faceva venire la pelle d’oca.
Strinsi
la mia gamba con la
mano destra, riuscivo quasi a sentire le mie unghie trapassare il
tessuto del
pantalone blu cobalto che indossavo in quel momento. Il braccialetto
che
incorniciava il mio polso tremava creando un tintinnio che mi
infastidì
parecchio dato che mi entrava nella mente confondendosi con il suono
della sua
voce rendendolo meno fluido e più cremoso e confuso.
“Grazie,
poggia sul tavolo
qui. Dietro il bancone c’è Thòmas puoi
pagare benissimo a lui” maledii la voce
stridula di Camilla che si confuse anch’essa con il suono
armonioso della voce
che avevo udito pochi secondi prima. Tornai per pochi secondi in me,
dandomi
della stupida mentalmente per non riuscire a sopportare il fatto che la
sua
voce non fosse l’unico suono che aleggiava dentro me.
“Certo,
buona giornata
signorine”
Sentii
il suono di passi
fatti probabilmente da scarpe da ginnastica inzuppate di pioggia e di
seconda
mano. Mi girai giusto in tempo per scontrare il mio sguardo nei suoi
occhi. Un
secondo che parve durare molto più di quel che, realmente,
fu.
La
sua figura in divisa da
barista si allontanava sempre più da me, avvicinandosi al
ragazzo di nome
Thòmas, di cui avevo fatto la conoscenza solo qualche giorno
prima, quando mi
salutò mentre ero diretta a discutere con Marotti della mia
sistemazione.
Tutte
avevano tra le proprie
mani già la tazzina di caffè fumante che avevo
bramato fino a pochi minuti
prima ma che adesso mi sembrava un semplice intruglio scuro
assolutamente non
paragonabile al colore brillante degli occhi del barista..
“Violet
tu non bevi il tuo
caffè?”
Mi
girai verso la voce che
aveva pronunciato quelle parole lentamente, quasi passandosene ognuna
tra la
lingua e i denti prima di pronunciarle.
Ariana.
L’unica lì che
davvero non mi stava antipatica. Una ragazza soft che non dava
nell’occhio, che
si univa alle chiacchierate ma che non si mischiava al branco di oche.
Veniva
dall’Inghilterra, il
suo accento era forte ma mi piaceva.
Stentai
un sorriso per poi
prendere l’ultima tazzina rimasta sul tavolino di legno
davanti a noi. Ritornai
a guardare verso Thòmas ma questa volta era solo, seduto
sulla sedia girevole
mentre maneggiava abilmente con le dita sulla tastiera del computer che
rifletteva i colori abbaglianti nei suoi occhi. Sospirai bevendo il
caffè a
piccoli sorsi, gustandomi l’unico piacere che la vita mi
aveva concesso.
Pioveva
ancora quando arrivai
a casa con la mia Mercedes.
Premetti
con la punta
dell’unghia coperta da un colore bordeaux che avevo messo il
giorno prima di
partire per New York, il bottone per far scendere al mio piano
l’ascensore.
Il palazzo in cui mi trovavo
era tra i più
belli della città. Un grattacielo di trenta piani pittato di
un grigio
metallico che abbagliava alla vista, nemmeno una crepa o una macchia
sui muri
bianchi candidi come quelli del mio appartamento. L’ascensore
si aprì e io ci
entrai dentro, era completamente in vetro e sinceramente
l’avrei preferito in
un altro modo. Mi innervosiva il fatto che le persone dei piani
posteriori ai
miei potessero vedermi.
La
tasca mi formicolò e capii
che era stato il mio cellulare a produrre quel vibro che mi aveva
solleticato
la pelle.
Due
nuovi messaggi
Premetti
sul primo nel
registro per scoprire che il mittente era ancora una volta Diego.
Non mi
hai ancora detto se la casa che
ho scelto per te ti è piaciuta xx
Decisi
di non rispondere a
quel messaggio come non avevo fatto agli ultimi quindici che mi aveva
inviato
in questa settimana. Mi piaceva tenerlo sulle spine e fare la
disinteressata
nei suoi confronti, non che fossi davvero interessata a lui, era solo
un
cliente invaghitosi troppo. Quando scoprii che a dargli il mio numero
era stato
Marotti iniziai ad odiarlo ancor più di quanto non lo
facessi già, non aveva il
diritto di dare miei dati personali a sconosciuti.
Pigia
il polpastrello del
pollice sul secondo messaggio, dopo aver dato un’occhiata al
piccolo schermo
posto di fianco alle porte meccaniche che mi segnalava che ero ancora
al quarto
piano.
Stasera
passerà un corriere da te
portandoti un vestito. Preparati al meglio, domani sera dobbiamo andare
ad una
festa di persone importanti. Niente brutte figure, indossa il vestito e
ubbidiscimi <3
Marotti.
Non
avevo mai capito perché
dovesse portarci sempre con lui alle stupide feste di persone che non
conoscevo.
Sospirai poggiando la testa al vetro dietro di me che veniva sfruttato
a
parete.
A
tante, forse troppe persone
era nascosta la vera identità dei Vicius. Pochi sapevano che
era un qualcosa di
simile ad un bordello, solo organizzato molto meglio e con regole
più rigide.
Per molti era solo un ufficio di gran classe, a funzione di sorvegliare
e
controllare i pacchi esportati dall’estero.
Spinsi
nella mia tasca
nuovamente il cellulare che a breve avrebbe fatto quattro mesi in mio
possesso.
Chiusi gli occhi per un secondo e mi stupii nel non vedere il solito
nero che
veniva causato dalle palpebre chiuse, ma da due occhi verdi.
Era
così..così reale.
Sembrava mi stessero guardando, che fossero davanti a me.
Aprii
di scatto gli occhi
sentendo il tintinnio che emetteva l’ascensore quando ti
annuncia che sei
arrivato al piano che volevi.
Mi
ricomposi velocemente per
poi uscire da quel posto avviandomi verso la mia porta.
Posai
i due piatti che avevo
tra le mani nel lavello, li avrei lavati l’indomani.
Era
già tardi e la voglia e
la forza di farlo era pari a zero.
Il
vestito che mi aveva
spedito Marotti tramite corriere era arrivato poche ore fa e, ancora,
non avevo
aperto lo scatolo rettangolare che conteneva quel che avrei indossato
la sera
dopo. Nonostante la scritta elegante color argento puro che si trovava
sul
coperchio del recipiente Maximiliano
Ponte mi aveva
incuriosito non poco, non avevo avuto il tempo di studiare il vestito
all’interno. Avevo avuto da cucinare qual cosina da mettere
sotto i denti,
avevo sistemato le ultime cose che erano rimaste nella valigia ed ero
andata a
comprare lo shampoo CocoVanille che avevo finito quella mattina ma che
avevo
completamente dimenticato le ore prima.
Spensi
la luce della cucina moderna
e in marmo che caratterizzava quella casa e mi trascinai nella camera
da letto,
stanca come non mai. L’inizio settimana mi distruggeva sempre
e, ero felice di
poter restare a letto per tutta la restante serata guardando vecchie
serie che
trasmettevano sui canali retrò, ogni sera.
Illuminai
la grande stanza
arredata in stile moderno.
L’armadio
scorrevole era a
specchio così da farmi spaventare ogni mattina al mio
risveglio, guardando la
mia faccia da zombie. Sul grande letto a una piazza e mezzo avevo messo
delle
coperte viola melanzana.
Camminai
verso il termosifone
nascosto dietro il mobiletto della televisione al plasma che avevo
trovato sin
dal primo giorno lì dentro e allungai la mano per toccarlo.
Era tiepido. I
riscaldamenti che avevo acceso poco prima iniziavano a farsi sentire.
Dopo
essermi stiracchiata e
aver sbadigliato per la milionesima volta in quel giorno, andai verso
il letto
scoperchiando la scatola a cui erano stati rivolti i miei pensieri fino
a
qualche minuto prima.
Con
le punte delle dita presi
l’estremità del vestito estraendolo dalla scatola
e tendendo le braccia per
ammirarlo al meglio. Rimasi a bocca aperta per la tale bellezza che
avevo tra
le mani.
Look at me
Hola!
Grazie per aver letto
il capitolo :)
In
teoria non avrei dovuto
aggiornare oggi e finire questo capitolo oggi perché sono
indaffarata per la
partenza a Napoli per le vacanze estive. Sono stata felice del capitolo
scorso
anche se, ad essere onesta, mi sarebbe piaciuto ricevere qualche
recensioncina
in più. Ma va bene.
Passando
al capitolo, anche
questo è corto ma più lunghi di così
non mi vengono hahaha bè i commenti
spettano a voi.
Adesso
è ancora tutto un po’
misterioso ed enigmatico ma man mano che la storia andrà
avanti i pezzi di
puzzle inizieranno a combaciare.
Volevo
ringraziare tutti
quelli che la seguono anche se rimangono in silenzio e un
ringraziamento
speciale a Simonuccia_98_ che mi sta vicina davvero e che segue la mia
storia
con tanto entusiasmo. Grazie.
Passate
a leggere la sua
storia perché merita davvero. http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2655082&i=1
Nel
prossimo capitolo nel
“look at me” ci
sarà una notizia che
potrebbe far piacere anche a voi e vi spiegherò tutto nel
prossimo capitolo.
Un
bacio!
Cielo
<3
|
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Capitolo 4 *** Chapter 4 ***
La
festa sarebbe iniziata
dopo un’ora precisa.
Tutte
le donne al servizio
del Vicius di New York nonché la sede centrale tra tutti,
compresa me, erano
davanti alle grandi porte di vetro dell’edificio che ci
ospitava un’intera
settimana e di cui eravamo a servizio. Entro poco Marotti avrebbe
dovuto fare
la sua venuta, come sempre, in grande stile invitandoci a salire tutte
in due
limousine bianche laccate, come i denti che si faceva sbiancare ogni
mese dal
dentista per non far apparire macchie giallastre a causa della perenne
sigaretta che alloggiava tra le sue labbra secche.
L’aria
fredda e autunnale mi
sferzava il viso lasciandosi dietro tagli invisibili sulla pelle
delicata e
morbida, profumata ancora di un dolce miscuglio di bagnoschiuma alla
vaniglia e
un eau de toilette che avevo comprato poco dopo esser arrivata in
questa città.
Il
vocio delle mie “colleghe”
che chiacchieravano animatamente su come sarebbe stata la serata era
l’unico
suono udibile in quella strada ormai deserta, ma che durante le ore di
Dì
accoglieva un grande via vai di persone e di mezzi pubblici o
personali.
L’unica cosa bella di andare a lavorare era il percorso per
arrivarci. New York
era sempre così bella, così attiva e
così vivace che per un momento faceva
sentire anche me così, come se fossi una studentessa
universitaria che, felice
di studiare per diventare una persona che vale un giorno, si avviava
verso il
luogo che ama e dove risiedevano tutti i suoi amici più
cari. Avendo una
famiglia unita e accogliente che aspettava impaziente il mio ritorno
per
chiedermi come fosse andata la giornata e di accogliermi con un pranzo
caldo
come piaceva a me. Ricevere, nel pomeriggio, messaggi da amiche o
addirittura
dal proprio fidanzato solo perché avevano la voglia di
sentirmi vicino.
Sospirai,
mentre sentivo gli
angoli degli occhi iniziare ad inumidirsi, facendo creare una nuvoletta
d’aria
fredda che, per un attimo, mi fece bruciare l’occhio sinistro
trasportando via
le lacrime di nuovo nei dotti lacrimari che non hanno mai avuto la
possibilità
di rigarmi il volto ancora una volta.
Lo
stridio assordante di
ruote che strusciavano contro l’asfalto rallentando mi
distolse dalla battaglia
silenziosa che stavo facendo contro il freddo prepotente che rimbalzava
dai
miei occhi al mio naso al finire sulle mie labbra asciutte e
disidratante, per
poi ricominciare tutto il processo da capo.
Avanzai
sui miei vertiginosi
tacchi prestatimi quella mattina da Ariana che li portava ai piedi.
Eravamo
finite col parlare dei vestiti che la sera prima erano arrivati nei
nostri
appartamenti, e, notando che le sue scarpe erano del colore uguale a
quello del
mio vestito aveva insistito di prestarmele affinchè le
usufruissi per la festa.
Due
limousine bianche e
perfette erano davanti a noi e, una di quelle, aveva il finestrino
leggermente
abbassato da cui scorgeva una mano callosa che con due dita teneva
salda una
sigaretta mezza finita.
“Allora
principesse, vogliamo
andare a questa festa?”
la sua voce
pareva più allegra e folle del suo solito tono basso e
controllato che aveva
sempre posseduto. Anche se non riuscivo a vederlo a causa dei vetri
oscurati,
avrei giurato che sulle sue gambe era presente una bottiglia di birra
che
teneva sempre “in casi di emergenza” nella
limousine. Scossi la testa schifata
prima di alzare gli occhi al cielo e vedere un ammasso di nuvole grigie
coprire
la luna piena in mezzo a tutto quel nero.
“Violet
ci sediamo vicine?”
Avrei
riconosciuto
quell’accento britannico fra mille, forse era anche il primo
e unico che
davvero non mi infastidiva. Sorrisi girandomi prima di entrare nella
macchina
subito dietro quella che occupava Marotti con altre di noi.
“Certo”
Entrai
con molta lentezza,
facendo attenzione a non danneggiare in nessun modo il vestito che
avevo
indosso e che, in assoluto, era stato il più bello che
l’azienda mi avesse mai
concesso. Il posto di fianco al mio venne occupato in breve tempo da
Ariana
che, al mio contrario, fece tutto velocemente non badando al vestito
fucsia che
ne avrebbe potuto risentire in qualche modo.
Il
vestito a tubino lungo
fino al terreno la faceva sembrare leggermente più alta di
quanto in realtà
era, slanciando il suo busto e, le pailette che ricoprivano tutto il
tessuto le
garantivano la certezza che non sarebbe passata inosservata,
soprattutto agli
occhi attenti dei uomini single, o di uomini semplicemente infedeli.
Le
luci in quel lungo mezzo
di cui, ormai avevo fatto l’abitudine viaggiarci, erano
soffuse e l’aria calda
aveva dato sollievo alla mia povera pelle scossa ininterrottamente da
fremiti
di freddo. Non avevo portato nemmeno un giacchetto con me, per paura di
stropicciare
il tessuto di cui mi ero follemente innamorata.
Accavallai
le gambe facendo
dondolare il piede avanti e indietro nell’attesa di arrivare
presto alla festa
per poterne uscire fuori il prima possibile. Sarebbe stata come tutte
le altre:
Le persone anziane dominavano la sala, parlottando fra di loro di cose
riguardanti lavoro, balli lenti e principeschi che, dai ceti
più alti della
società, venivano definiti una squisitezza per gli occhi di
chi assisteva,
musica dal vivo composta in maggioranza da violini, pianoforti e a
volte
capitava in mezzo per fino qualche arpa..
Poggiai
il mento sul pugno
chiuso sorretto dalla forza del gomito sul finestrino, improvvisamente
erano
diventate tutte silenziose e pensierose lasciandosi alle spalle i
soliti
discorsi che le occupavano nel tempo libero. Il mio dito si
infiltrò tra i
boccoli fatti meno di dodici ore prima da Zike, parrucchiere, a quanto
pare,
fidato di ognuna dipendente del Vicius e che avevo osato provare anche
io. Era
un pimpante giovane sui trent’anni, di origini francesi che,
a volte, si
lasciava trasportare un po’ troppo dal chiacchiericcio e dai
pettegolezzi che
le sue clienti gli confessavano. Di certo, non potevo negare che la sua
fresca
e giovanile bellezza non mi abbia, in un certo senso, rinfrescato gli
occhi
dopo le ore passate a guardare uomini di mezza età, tozzi e
con il viso
perennemente in una smorfia assatanata dalla voglia di cominciare una
lunga
seduta con me. Anche se lunga non era la parola adatta, erano quaranta
minuti
precisi, ne minuto di più, ne minuto di meno. Era
l’unica cosa che ero riuscita
a contrattare con Marotti dopo lunghi giorni di litigate,
così mi concesse di
diminuire l’incontro di venti minuti.
Diedi
una veloce occhiata
alla ragazza seduta di fianco a me, distogliendo per un secondo gli
occhi dal
contorno duro dei finestrini. Aveva uno sguardo vuoto e anche lei, come
me,
sembrava persa in pensieri o ricordi tormentati. Le sue labbra
dischiuse e le
mani intrecciate e poggiate al bacino le davano un’aria
regale che se solo
fossimo state anni e anni a dietro, l’avrei scambiata per la
figlia di un
nobile. Ariana. Mi sembrava una ragazza così inadatta a
quella vita, chissà
come c’era finita anche lei in quel tunnel buio e senza
uscita.
Il
mio sguardo scivolò sulle
altre sei, velocemente e senza soffermarmi troppo su ognuna di loro, ma abbastanza da notare
che i loro pensieri
erano occupati da qualcosa come le unghie, le scarpe o, magari, anche
il bel e
accomodante Zike.
“Siamo
arrivati, potete
scendere” una voce bassa, che proveniva dal lato opposto
della macchina ci fece
risvegliare tutte allo stesso momento e scendemmo tutte sulle
mattonelle della
strada. Ecco che il freddo mi faceva tornare la pelle d’oca.
Vedemmo scendere
Marotti dall’altra macchina con altre sette ragazze dietro di
lui, ci guardò e
ci sorrise. Un sorriso che mi fece voltare lo stomaco.
La
serata si stava svolgendo
come avevo prospettato, nessun tipo di divertimento o altro, solo
musica antica,
vecchi e occhiatine da clienti che avevo servito giorni addietro.
Sbuffai mentre,
seduta al mio tavolo guardavo gli altri fare per le ennesima volta
giravolte su
giravolte su giravolte in coppia con sottofondo un’altra
noiosa canzone,
picchiettavo con le unghie sul pilastro di legno a cui erano poggiate
le posate
sporche che avevamo usato prima per cenare e che a differenza dei
piatti, non
avevano ancora raccolto. Ero l’unica seduta lì
nonostante i numerosi inviti da
giovani ragazzi. Perfino Ariana era andata ad unirsi al ballo per
cercare di
scacciare via la noia.
Girai
il polso guardando
l’orologio che segnava ancora le 10:02, ciò
significava che dovevano ancora
passare minimo tre ore per andare via da quel posto adatto orribilmente
noioso.
Sbuffai ancora una volta ma questa volta con più
aggressività e mi alzai dalla
sedia che aveva preso ormai calore. Un bicchierino di qualcosa mi
avrebbe fatto
bene, e se non l’avrebbe fatto almeno sarei stata occupata
per due o tre minuti.
Il
locale era lussuoso e molto
vasto, i tavoli tutti allineati, i lampadari con mille fronzoli tinti
in oro
attaccati vicino, il parquet che amplificava ogni tacco e i camerieri
che
guizzavano avanti e indietro soddisfacendo e pulendo i clienti. In
fondo alla
sala c’era un piccolo bancone con due pile di piatti puliti e
pronti per essere
utilizzati sopra di esso. Di dietro un grande scaffale conteneva almeno
cento
bottiglie di alcolici diversi ma, di buona marca e raffinati. Mi
diressi lì
dove anche gli sgabelli erano di un colore d’oro e avevano la
spalliera in
legno scuro, rifinito a mano.
Presi
un lembo della mia
gonna tra le dita alzandola delicatamente per non stropicciarla nel
piccolo
lasso di tempo in cui sarei stata seduta sui sgabelli più
raffinati e chic che
avessi mai visto, e di cose eleganti ne avevo viste.
Nella
mia testa risuona la
musica lenta che, a differenza di rilassarmi, mi rendeva nervosa e
infastidita
più di quanto lo fossi già. La porta di fianco al
bancone bianca come il latte
si aprì rivelando due spalle larghe fasciate da una camicia
del medesimo colore
della porta. Camminava lentamente e all’indietro con una
decina di bicchieri di
vetro tra le mani, non facendomi scoprire il volto della persona che,
supponevo,
mi avrebbe servita.
Mi
grattai la guancia interessata
ai buffi spostamenti di camicia bianca nel cercare di non far cadere
tutti i
recipienti e allo stesso tempo entrare dietro al bancone. Un piccolo
risolino
uscì dalle mie labbra attirando l’attenzione della
persona che l’aveva
provocato. Dopo svariati tentativi riuscì a varcare la
piccola porticina che
conduceva al posto barman e a poggiare i bicchieri sotto lo scaffale
che avevo
notato prima.
Si
girò facendomi morire il
sorriso divertito dalle labbra. Lui. Qui.
Cosa
ci faceva?
La
sensazione di lingua secca
e priva di vita tornò nella mia bocca come le precedenti due
volte in cui
l’avevo visto. Il suo viso era incorniciato da un sorriso
imbarazzato causato
probabilmente dalla mia risata. Sentivo improvvisamente come se gocce
di
pioggia stessero cadendo velocemente su di me inzuppandomi i panni e
facendomi
sentire pesante e senza fiato. Perché avevo sempre strane
sensazioni quando
guardavo quel buffo ragazzo che, all’altezza del cuore,
portava sempre una
piccola etichetta con su scritto Leon ?
Look at me
Okay
Ciao! Le prime cose che
dico sono:
Scusate
per il ritardo ma in
questi giorni sono in vacanza e detto sinceramente non ho preso molto
il
computer.
Il
capitolo è cortissimo e mi
scuso davvero tanto ma non avevo altri modi per farlo finire e poi
l’ho fatto
di notte e quindi ho sonno hahaha.
Ho
notato che la storia, come
continua, non piace molto..perchè le recensioni sono scese
da 7 a 3 a capitolo,
e questo mi ha un po’ buttata giù..si. Mi
aspettavo di più, sono sincera ma se
la storia non piace a molti..che ci posso fare io? Ho solo dato del mio
meglio…
Nello
scorso look at me avevo
detto che vi avrei fatto un annuncio ma per problemi esterni quel che
avevo in
mente non si può più fare e magari in futuro vi
farò sapere.
Vi
lascio qui le foto :)
Ciau
e al prossimo capitolo!
Cielo
<3
Zike, il parrucchiere
Ariana e il suo vestito
Il
vestito di Violetta
|
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Capitolo 5 *** Chapter 5 ***
“Mi
dispiace..”
Mi
disse. Mi guardava negli
occhi con i suoi mortificati, di un verde che mi faceva girare la
testa. La
sensazione era strana, molto simile a quella che provai anni fa quando,
per la
prima volta, mi ubriacai. Malibu. 6 Agosto 2011. La data mi rimase
impressa
nella mente, per aver custodito la sensazione più strana,
brutta ma allo stesso
tempo eccitante che avessi mai provato.
“Di..Dello
spettacolino che
hai visto..intendo” continuò premendo le labbra
tra loro rendendole una linea
sottilissima, invisibile alla vista delle persone a distanza di qualche
centimetro da noi.
Deglutii
e inumidii alla
meglio il palato per evitare che le parole rimanessero, ancora,
attaccate lì,
facendomi prudere la gola e bruciare gli occhi.
Con Calma. Ti ha solo parlato.
“Figurati”
Sorrisi,
soddisfatta di come
il mio tono fosse fuoriuscito dalle mie labbra, in modo sicuro. Come
nel mio
solito, quando non avevo lui davanti agli occhi.
Ancora
non avevo capito il
perché di quelle strane sensazioni,
quell’agitazione e quella mancanza di
sicurezza che mi invadeva prendendo possesso di me e facendomi cambiare
completamente
da come ero solita a comportarmi.
Quella
era la terza volta che
lo incontravo, poteva mai essere un caso?
Non
avevo mai creduto nel
destino, e quindi mi convinsi che non poteva essere altro che una
coincidenza e
che, probabilmente, non sarebbe ricapitato vedere quegli occhi da
bambino furbo
e quel sorriso imbarazzato. Improvvisamente sentii la gola secca e il
bisogno
di bere qualcosa, qualunque cosa potesse annaffiare le mie pareti
disidratate.
Alzai
di nuovo gli occhi a
lui e lo scoprii sorridere, più tranquillo di quanto fosse
prima.
“Allora..bè..se
sei qui vuol
dire che vorrai qualcosa da bere”
Sorrisi
inconsciamente,
notando le fossette che si erano formate ai lati delle sue labbra,
mentre mi
sorrideva.
Strinsi
la mano attorno alla
gamba coperta dalla gonna marrone chiaro vellutata.
Cosa sto facendo? Pappamolla
Mi
ripetei in mente una, due,
tre volte.
“Perspicace”
Feci
un piccolo sorriso di
scherno cercando di reprimere all’interno del mio stomaco le
emozioni che avevo
provato fino a qualche secondo prima, nell’intento di far
ritornare la vera me.
La vera Violetta. L’acida e punzecchiante a cui non importava
di far rimanere
male qualcuno, perché quel male che avrebbero provato non
sarebbe mai stato
pari a quello che provava lei ogni singolo giorno.
Poggiai
il gomito sul tavolo,
portando il mento sulla mano chiusa a pugno e guardai che gli angoli
della sua
bocca erano ancora all’insù, non come mi aspettavo.
Sentivo
le interiora
attorcigliarsi e combattere tra di loro in due schiere. Una era
sollevata dal
fatto che il mio scherno non l’avesse toccato, e
l’altra era delusa del fatto
di non aver centrato il bersaglio.
“Allora,
cosa vuoi,
signorina…”
“Violetta”
Le
mie corde vocali vibrarono
prima che il mio cervello elaborasse a pieno quel che
l’enfasi nel suo tono
volesse significare. Solo in quel momento mi accorsi di aver detto il
mio nome
ad uno sconosciuto, o semplicemente a qualcun altro
all’infuori del mio datore
di lavoro e delle mie colleghe. Solitamente era Castillo
che mi chiamava la maggior parte della gente, non sono mai
stata tanto aperta e sentire il mio nome pronunciato da
labbra altrui all’infuori dei miei genitori
mi faceva ribrezzo.
“Va
bene Violetta. Allora
cosa vuoi?”
Lo
stomaco si fece vuoto e,
se non fossi stata seduta, probabilmente sarei finita in terra. Non
avevo
provato ribrezzo. Niente affatto. Era..strano. Non riuscivo a
spiegarlo. Era
come il cappuccino alla mattina, la vasca piena d’acqua calda
in inverno,
l’ombra delle tettoie dei negozi nei giorni caldi e afosi,
come un frappé dai
mille e dolci gusti diversi che scendeva lentamente lungo la tua gola
assaporando e godendoti ogni aroma presente, riconoscendone il frutto e
apprezzandolo
ancora di più in quello stato cremoso e freddo.
“Qualcosa
di freddo”
La
mia lingua aveva un piccolo
falò acceso sopra di essa che scendeva piano nello stomaco
facendomi andare a
fuoco anche quello. Ghiaccio. Avevo
bisogno solo di quello e sarei riuscita a superare altri dieci minuti
di
conversazione.
“Subito”
Ridacchiò
prendendo due
bottiglie in alto, nello scaffale. Una era di colore azzurrino e
riuscivo a
intravedere il liquido che si infrangeva contro il vetro come le onde
si
infrangevano contro il mare, mentre l’altro era di un nero
pece
impossibilitando la vista di quel che ci fosse all’interno.
I
muscoli delle braccia si
tendevano e rilassavano continuamente mentre, con movimenti esperti e
veloci,
miscelava in un bicchiere di vetro con all’interno due
cubetti di ghiaccio, i
due liquidi mettendone un po’ dalla bottiglia azzurra e un
po’ dalla nera.
Doveva fare quel lavoro da molto.
Si
riavvicinò a me porgendomi
il lungo bicchiere con dentro del liquido color giallastro.
“Ecco
a te”
Presi
il bicchiere con una
sola mano, facendo scontrare le mie unghie colorate con il vetro
creando un
piccolo suono che ricordava molto quando due persone facevano toccare i
loro
bicchieri per fare cin cin. Abbassai gli occhi al bicchiere mentre
inumidivo le
labbra di quel alcolico gelato e che sapeva di amaro e dolce insieme.
Quando
finii, pochi minuti
dopo, poggiai il bicchiere al tavolo, finalmente rinfrescata e
stranamente più
lucida di quel che ero prima.
“Quanto
ti devo?”
Mi
schiarii la gola mentre mi
asciugavo le mani umidicce di freddo sulle gambe coperte.
“Oh
niente. E’ gratis. Non lo
sapevi?”
Scossi
la testa.
Aggrottò
per un attimo la
fronte facendo incontrare la pelle sotto al sopracciglio sinistro con
quella
del sopracciglio destro. Mi stava…guardando in modo strano.
“C’è
qualcosa che non va?”
“Hai
un viso familiare..ci
conosciamo già?”
Una
leggera delusione mi
invase dentro, raggelandomi il cuore più di quanto
già fosse. Ci siamo visti due
volte, idiota! Quello
che avrei voluto dirgli. Ma scossi nuovamente la testa, negando quel
che era la
realtà. Se lui non si ricordava di me, neanche io mi sarei
ricordata di lui.
“In
effetti..ti avrò
scambiata per un’altra persona”
Alzò
le spalle per poi
prendere tra la sua grande mano il recipiente vuoto poggiato davanti a
me,
mettendolo in un lavello lì dietro, insieme ad
un’altra decina di bicchieri
perfettamente uguali.
Mi
alzai e con un leggero buona serata
a testa bassa, mi
allontanai al bancone, pronta per tornare seduta al mio posto, a
guardare le
persone volteggiare e volteggiare ancora.
Ero
sotto le coperte da ormai
un’ora e non ero riuscita ancora a prendere sonno.
Mi
giravo a destra e pensavo
ai suoi occhi, mi giravo a
sinistra e
vedevo le sue fossette, mi mettevo
dritta e sentivo di nuovo ci conosciamo
già? nelle orecchie.
Emisi
un verso nervoso e mi
portai il cuscino sulla faccia premendolo così forte da
rimanere senz’aria per
qualche secondo.
Quel
che mi infastidiva di
più non era il non riuscire a dormire ma il pensare
costantemente ad un ragazzo
che a malapena conoscevo. Non mi era mai capitata una cosa del genere.
Non mi
ero mai trovata in difficoltà con la gente, tantomeno con i
ragazzi… Allora
perché con lui riuscivo a malapena parlare?!
La
testa mi scoppiava e se
avessi potuto staccarmela dal collo e poggiarla sul comodino, lo avrei
fatto
con piacere. Lasciai cadere il cuscino di lato e mi alzai dal letto,
scuotendo
i capelli per far cessare il prurito che mi provocavano sulle spalle.
Schiacciai
con l’indice il
tasto al centro del telefono poggiato sulla base
dell’abatjour per scoprire che
erano le 5:04 del mattino e che avevo due messaggi non letti.
Sbadigliai per la
stanchezza e lessi velocemente il destinatario. Diego.
Dolcezza
eri bellissima questa sera con
quel vestito. Marotti è l’amico migliore che ho
mai avuto xX
Vediamoci
domani pomeriggio alle 17
davanti al Vicius? Devo parlarti Xx.
Avrei
dovuto andarci?
Probabilmente
no, avrei
dovuto ignorare ancora una volta i suoi messaggi e farmi i fatti miei,
passando
il pomeriggio a guardare vecchie sitcom. Invece avevo una strana voglia
di
vederlo, di..non sapevo cosa volevo farci ma qualsiasi cosa pur di
cessare il
rumore nella mia testa.
Rilessi
i messaggi dopo
essermi seduta al bordo del materasso e solo in quel momento realizzai
che
Marotti aveva aiutato ancora una volta quel depravato senza avvisarmi
di nulla.
A volte mi chiedevo come sarebbe stata la mia vita se i miei
genitori..fossero
stati con me..
Mi
grattai con le unghie la
radice dei capelli ancora profumati dalla splendida acconciatura fatta
da Zike,
ero sicura che sarebbe diventato il mio parrucchiere. Aveva decisamente
conquistato me e i miei capelli con le sue mani fatate.
Sbuffai
picchiettando le
unghie al volante. L’orologio al mio polso segnava le 16:56.
Entro
quattro minuti avrei
dovuto essere davanti al Vicius, per incontrare Diego, ma ero intasata
nel
traffico di quella caotica città.
Ero
ferma da più di dieci
minuti, le macchine avanti non intendevano muoversi di un solo
centimetro e la
voglia di schiacciare la mano contro il clacson fino a quando tutti non
si
fossero infastiditi era tanta. Il vento che entrava dal finestrino
spalancato
mi faceva oscillare i capelli raccolti in una coda sottile, fatta
velocemente
prima di scendere. Mi si appiccicavano per la faccia e ogni pochi
secondi
dovevo ritirarmeli dietro le spalle, per evitare - se nel caso i
veicoli
intorno a me avessero iniziato a muoversi - di provocare un incidente,
ed era
l’ultima cosa che volevo.
“Anche
tu bloccata qui eh”
Girai
il viso nella direzione
del finestrino, scorgendo una Fisker Karma nera, con il finestrino
abbassato e
un uomo con una leggera barbetta sul mento e il braccio penzolante
fuori. Leon.
1..2..3..
“Già”
sorrisi e sospirai
sollevata. Facevo progressi, ero riuscita a rispondergli quasi subito..
Look At Me
Ciao!
Scusate per il ritardo
ma questo, per me e credo anche un po’ per tutti,
è stato un periodo di vacanza
e non ho passato molto tempo al computer.
Spero
che il capitolo vi sia
piaciuto e come sempre ringrazio tutti quelli che la seguono e che la
recensiscono.
Volevo
avvisarvi che sto
scrivendo anche un’altra storia e se passate a leggerla e a
darmi un parere mi
farebbe molto piacere -anche se sono ancora solo al prologo-
Un
bacio a tutti!
Cielo
<3
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