Un Año Sin Lluvia

di CieloNotturno
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter 1 ***
Capitolo 2: *** Chapter 2 ***
Capitolo 3: *** Chapter 3 ***
Capitolo 4: *** Chapter 4 ***
Capitolo 5: *** Chapter 5 ***



Capitolo 1
*** Chapter 1 ***


Le gocce calde cadevano velocemente giù in quel piccolo spazio che occupava parte del bagno. Scivolavano lungo il mio corpo bollenti lasciandosi dietro una sensazione piccante e cocente. I miei capelli ricadevano sulle spalle impregnati di fragranza alla vaniglia e al cocco, erano attaccati ai lati delle mie guancie e mi provocavano un leggero prurito fastidioso, ma che lasciai comunque in secondo piano rispetto ai miei pensieri.

La doccia.  

Il momento che amavo e odiavo di più nella giornata. Era una cosa buffa amare e odiare allo stesso tempo una cosa, eppure era così.

Era rilassante, bollente e piccante nei mesi invernali.

Rinfrescante, frizzante e piacevole in quelli estivi.

Un vero toccasana in entrambi i casi. Adoravo il getto d’acqua scendere violento su di me nei giorni afosi d’agosto e, adoravo ancor di più le goccioline di lava lungo il mio corpo nei gelidi freddi di Gennaio.

Ma la doccia da modo anche di pensare e questo,non è un vero e proprio toccasana quando hai dei demoni dentro da combattere, proprio come me. La mia anima aveva imparato a convivere con tutti i mostri accumulati man mano negli anni.

Sbuffai scocciata e chiusi il getto d’acqua che colava ancora sulla mia testa.

I vetri della cabina si erano appannati e lì dentro si era creata una tale afa da non riuscire a sopportarla. Uscii bagnando il pavimento in marmo del bagno della mia, ennesima, lussuosissima suite in un albergo diverso.

Avvolsi il mio corpicino in uno di quei asciugamani riposti sul piccolo mobiletto del bagno. L’odore di lavanda mi inebriò subito strappandomi un piccolo sorriso.

Ne presi un altro, meno di fretta e studiando meglio ogni suo aspetto. Sembrava esser fatto a mano e, sinceramente, non mi sarei stupita se fossi venuta a sapere che la mia ipotesi era vera.

Sfiorai con la punta del pollice la scritta ricamata in color oro Casablanca Hotel Times.

Ero finita a New York questa volta, definita anche come La Grande Mela.

Viaggiavo spesso a causa del mio lavoro, venivo trasferita di qua e di la ogni tot di mesi, e la cosa mi stressava non poco. Non riuscivo a relazionarmi e avere una vita sociale con un minimo di normalità.

Sospirai portando la salvietta alla mia testa e asciugando con cura i miei capelli, dato che oggi non avevo ne tempo ne voglia di passare da un parrucchiere del luogo.

Lasciai cadere in terra i tessuti che mi avevano asciugata fino a quel momento ed uscii dal bagno ritrovandomi nell’altra stanza. Un brivido di freddo mi percorse la schiena. Era Novembre e lì faceva parecchio freddo. Non abituata a quella temperatura così bassa, dato che ero uscita dal bagno che di lì in poco era diventato una piccola stufa, causa la mia doccia lunga e bollente.

Corsi verso il letto dove avevo poggiato la mia valigia laccata interamente in viola. Optai per un abbigliamento semplice, quel giorno non dovevo accogliere nessun cliente di qualche particolare ceto alto. Sfilai distrattamente un jeans stretto e una camicetta bianca. Semplice e classico.

Quando mi fui vestita portai la valigia al lato del letto. Avrei tanto voluto poter sprofondare in quel tenero e caldo materasso, sotto le coperte per dormire fino al mattino seguente. Ma non potevo permettermelo, ovviamente.

Presi la mia borsa firmata Luis Vuitton e feci una scaletta mentale di tutte le cose che avrei dovuto fare da quel momento fino all’ora di andare a letto.

Andare in metrò 17:10

Arrivare al Vicius Palace 18:00

Primo cliente 18:10

Secondo cliente 18:50

Terzo cliente 19:30

Quarto ed ultimo cliente 20:10

Ritornare in metrò

Mangiare

Nel mentre ero già fuori l’hotel catapultata nelle vie caotiche di New York, non che non ci fossi abituata. Avevo lavorato sempre in grandi città come Londra, Buenos Aires, Milano, Washington e Dublino. Ma New York ha sempre avuto un certo effetto su di me, è la città delle grandi occasioni e chissà, magari una speranza di uscire da questo circolo vizioso una volta per tutte, c’era anche per me.

La metrò non distava molto da qui e per fortuna ero in anticipo di circa quindici minuti, avrei avuto il tempo di bere un cappuccino prima di lavorare.

Entrai nel primo bar aperto che mi ritrovai davanti. Beer&Coffè.

Che nome stupido.

Mi ritrovai a pensare.

Il locale era mezzo vuoto e gli unici tavoli pieni erano occupati da uomini in tenuta da operaio, in effetti avevo notato lì vicino un’area non accessibile causa lavori in corso.

Arrivai vicino al bancone e poggiai sopra una mano picchiettandoci con le unghie sopra mentre fissavo l’uomo dietro d’esso, che puliva un bicchiere di vetro.

Feci un piccolo e finto colpo di tosse per cercare di attirare la sua attenzione e prendere il mio dannato caffè prima di far tardi a lavoro.

Iniziai a spazientirmi parecchio. Ero una cliente e quel tipo non mi degnava nemmeno di uno sguardo.

“Scusa, dovrei ordinare”

Dissi con un tono decisamente elevato di acidità nella mia voce. I suoi occhi si alzarono dal recipiente che stava pulendo e si incontrarono con i miei. Erano verdi come era verde il prato dei parchi di Buenos Aires, verde come l’acqua cristallina del mare, verde come il colore della speranza.

“Mi scusi signorina, cosa desidera?” la sua voce era un insieme di note gravi che miscelate insieme creavano un’armonia mai sentita. Deglutii ritrovandomi per la prima volta con la gola secca e con le parole attaccate al palato.

“Cosa desidera?”

Parlò di nuovo facendomi risvegliare dal beato ricordo della sua voce, dandomene un altro assaggio. Violetta Castillo era davvero rimasta incantata da una voce e da un paio d’occhi? No, non poteva essere.

“Caffè macchiato” risposi quasi senza voce, cosa mi stava succedendo? Battei più volte le palpebre cercando di ritornare in me.

Lo guardai muoversi esperto dietro al bancone notando che sulla camicia che aderiva perfettamente ai muscoli delle sue braccia c’era sopra attaccata una piccola targhetta con su scritto Leon.

Un secondo dopo mi ritrovai davanti agli occhi una piccola tazzina con un cucchiaino al’interno

“Sono 1.50”

Feci un lungo sospiro prima di tirare fuori dalla tasca le monetine e poggiargliele sul banco. 1.50 precisi.

Bevvi il caffè così velocemente da sentirlo scendere giù per la gola come una cascata che graffiava la mia gola. La lingua mi bruciava e sentivo lo stomaco contorcersi a quell’azione troppo violenta e sgarbata. Dovevo rimanere calma, ero agitata per una sciocchezza.

“Buona giornata”

Dissi con la voce ancora graffiata uscendo di fretta e furia da quel posto.

Fermai un secondo la mia camminata feroce e presi un bel respiro prima di riuscire a regolarizzare il ritmo dell’aria che entrava ed usciva dai miei polmoni.

Strinsi il manico della borsa di marca che portavo in spalle e mi diressi alla metrò.

Non tornerò mai più in quel posto.

Dopo buoni cinquanta minuti passati nel mezzo pubblico e puzzolente che avevo sempre odiato, riuscii ad arrivare al Vicius Palace giusto in tempo per il mio primo cliente.

“Salve Marotti” dissi guardandolo con occhi sinceramente sprezzanti, come avevo sempre fatto. Quell’uomo aveva prima salvato la mia vita e poi l’aveva masticata e sputata su un piatto troppo sporco per me.

“Ciao mia bella principessa” lo sorpassai schifata portandomi al piano di sopra.

C’erano numerose porte, precisamente cinque sul lato destro e cinque sul sinistro. Percorsi il corridoio dall’aria innocente e pura in apparenza fino ad arrivare alla porta con inciso sopra il mio nome..Violetta Castillo.

Entrai, ormai ero abituata a tutto questo.

“Ciao bambolina”

La voce roca di un uomo sulla quarantina, poggiato contro il tavolo, mi fece sobbalzare.

Chiusi gli occhi per un secondo e lasciai cadere la borsa di fianco alla porta.

“Niente moine, lascia i soldi sul tavolo e spogliati in fretta”

Dissi e iniziai a sbottonare i bottoni della camicia velocemente, volevo finire presto.

Sono Violetta Castillo e questo è il mio lavoro.

 

 

Look at me

Hola, se siete arrivati qui vorrà dire che avete letto il capitolo e ne sono FELICISSIMA. Grazie per aver letto e spero vi piaccia, ci ho messo una notte intera per scrivere questo. Lo so è poco, ma è solo l’inizio.

Dico da ora che se non troverò nessun tipo di interessamento e/o recensione alla mia storia non credo di continuarla. Sono una tipa che va avanti se vede che le cose sono apprezzate o tantomeno considerate, altrimenti è inutile.

Detto questo vi lascio qui sotto il mio account ask se vorreste farmi qualche domanda (anche se ne dubito) e premetto che non riesco a stare molto su efp a causa di problemi con il pc di casa mia [Scrivo dal computer del mio ragazzo] Perciò se avete qualcosa da dire c’è ask lì, bellissimo che aspetta solo voi (ho l’app di ask sul telefono perciò lì riesco ad andare senza problemi)

Tutti i tipi di recensioni e consigli sono ben accetti a bandierina verde, bianca o rossa che sia.

Ok, ho finito. Buona notte o Buon giorno, dipende dai punti di vista hahahah

http://ask.fm/CieloNotturno

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Capitolo 2
*** Chapter 2 ***


“Mamma! Mamma!”

Goccioline di sangue scendevano lentamente lungo il suo braccio lasciando una scia calda e liquida, per poi schiantarsi contro il parquet in legno lucido, creando un suono appena udibile ma frastornante al tempo spesso.

“Mam-Papà!”

Il fiato mi si bloccò in gola senza riuscire ad arrivare ai miei polmoni. Tremavo, tremavo come una foglia tremava d’autunno a causa del vento, poco prima di cadere e lasciar per sempre il posto dove era nata e cresciuta.

I suoi occhi spalancati  erano scuri come il petrolio e mi guardavano come non avevano mai fatto, erano pieni di pazzia.

Avevo paura di muovermi.

Il tintinnio delle goccioline risuonava ancora nelle mie orecchie mentre il mio sguardo si era posato su un coltello.

Un coltello sporco di sangue e peccato.

Un coltello che teneva stretto nella mano mi..

 

Urlai come facevo ormai ogni notte. Tastai con le mani le mie guancie e le scoprii bagnate di un liquido salato che, in parte, aveva toccato anche le mie labbra. Tirai su col naso per poi accendere la piccola abatjour che l’hotel aveva messo a disposizione.

Notai che i miei due cuscini erano finiti in terra e le coperte che mi avevano protetto dal freddo fino a quel momento erano appallottolate e raggomitolate sul bordo del letto.

Mi alzai e poggiai una mano sulla fronte cercando di bloccare il martellare forte e continuo presente nella mia testa. Il freddo mi trafiggeva la pianta dei piedi mentre camminavo avanti e indietro per la stanza che ormai era diventata asfissiante.

Erano tredici lunghi anni che faceva lo stesso incubo ogni notte.

Adesso mi farò una camomilla e poi tornerò a letto

Pensai mentre le lacrime avevano finito di scendere a cascata sulle mie guance. Respirai, per poi accorgermi di non essere a casa mia ma in una stupida camera d’albergo con solo una dannata stanza e un dannato bagno. I miei piani di farmi una camomilla saltarono.

In quel momento maledii tutto. Maledii il mio lavoro per tutto lo stress e per tutti i viaggi che mi costringeva a fare, maledii la mia insulsa vita, maledii lo stupido bisogno di dormire e di non riuscire a sopravvivere senza.

In un atto di rabbia e follia diedi un calcio alla valigia poggiata accuratamente contro il muro, cadde provocando un tonfo che mi fece innervosire ancora di più.

Mi avvicinai al mini frigo accanto alla porta del bagno e l’aprii prendendo l’unica bottiglina di acqua frizzante presente all’interno. Tornai a sedermi sul letto, leggermente più calma e iniziai a berla a sorsi.

Sospirai e dopo essermi assicurata della mia lucidità nuovamente raggiunta, poggiai la schiena contro al materasso. Gli occhi presi a fissare un punto indefinibile nel vuoto e la mente che viaggiava, in prima classe nell’aereo dei ricordi.

Mi girai su un fianco poggiando la tempia accaldata e dolorante sulla coperta, i demoni non mi facevano paura di giorno. Ma la notte, quando venivano a bussare alla mia porta non ci vedevo più dal terrore ma il mio istinto masochistico gli apriva la porta dandogli libero accesso alla mia mente, portandola fuori dai limiti e facendomi perdere la sanità mentale.

“Mamma” sussurrai a me stessa mentre gli occhi iniziavano a pizzicarmi brucianti di nuovo. “Mamma” ripetei affondando la testa nel materasso che avevo tanto desiderato provare quel pomeriggio ma che in quel momento stavo disprezzando come non mai.

 

La mattina mi svegliai acciaccata e con ancora il mal di testa.

Mi strofinai gli occhi e mi alzai lentamente dal letto, solo per non peggiorare il dolore alla schiena. Aprii le tende facendo così filtrare la luce del sole nella mia suite.

Erano solo le nove del mattino e New York era già in completo movimento. Le macchine sfrecciavano veloci sulla strada quasi da non vederle, le persone indaffarate camminavano senza neanche accorgersi di quel che accadeva in torno a loro e i studenti che marinavano la scuola girovagano nelle vie con cautela per la paura di essere riconosciuti da qualche loro familiare.

Sbadigliai prendendo il cellulare da sopra al comodino. Un samsung galaxy express due, il mio bellissimo e amatissimo telefono regalatomi dall’azienda.

Sbloccai lo schermo per leggere la scritta “Un nuovo messaggio da Marotti.”

Sbuffai pesantemente. Di prima mattina, nel mio giorno libero, già doveva infastidirmi con i suoi messaggi?

 

Buongiorno Zuccherino, alle 11 passa al Vicius, dobbiamo organizzarci della tua sistemazione. Kiss.

 

Roteai gli occhi per la sua falsa dolcezza da diabete e poggiai di nuovo il cellulare sul comodino. Iniziai ad incamminarmi verso il bagno mentre la mia mente si ritrovava di nuovo a vagare tra i ricordi tatuati nel mio cervello.

Marotti. Un uomo in apparenza ricco e generoso, che dava speranze ai giovani donandogli posti di lavoro sicuri e importanti. Un uomo che accoglieva in casa chi usciva da una tragedia e veniva etichettato come sfortunato. L’uomo perfetto.

Ma nessuno sa chi è davvero lui, o quasi nessuno.

“Questa è Violetta, trattatela bene è una matricola.. ha solo quattordici anni”

Tutte mi squadravano da capo a piede, come se fossi io la strana con qualcosa di sbagliato addosso. Erano loro ad essere vestite e truccate come delle prostitute.

Abbassai lo sguardo intimorita un attimo da tutti quegli occhi puntati su di me. Cosa volevano? Io ero qui solo per una visita con il signor Marotti.

“Non si preoccupi Marotti” una ragazza alta dalla pelle scura si avvicinò all’uomo che mi aveva accolta in casa sei anni prima. Camminava in modo elegante e la sua voce seducente avrebbe potuto persuadere tutti. “Ci prenderemo noi cura di lei” gli scoccò un bacio sulla guancia accarezzandogli una spalla con le dita lunghe che si ritrovava, coperte totalmente da anelli argentati.

Diciamo che la mia vita non era tra le più comuni e facili.

Uscii dall’albergo lavata e vestita. Quel giorno avevo pensato di vestire più elegantemente. Dovevamo pur sempre parlare della mia sistemazione e non di una cosa qualunque, chissà chi mi avrebbe presentato questa volta, quale casa mi sarebbe spettata e in che via, soprattutto.

Il tailleur blu che mi fasciava a pennello le forme si intonava con l’eyeliner colorato che avevo passato finemente sui miei due occhi. La mia solita, adorata borsa di Luis Vuitton oscillava ad ogni passo fatto dal mio vertiginoso tacco.

Cosa dovevo fare precisamente?

Mi avevano chiuso in quella stanza e se ne erano andate lasciandomi sole con quest’uomo. Aveva all’incirca il doppio dei miei anni ed era il mio triplo. Mi incuteva paura e i miei piedi erano piantati nel terreno.

“Fallo divertire”

Mi aveva detto Ambar, la donna che aveva fatto poco prima gli occhi dolci al signor Marotti. Come avrei fatto a farlo divertire?

“Sei pronta ragazzina? Guarda che hai sprecato già un quarto d’ora dei quaranta minuti” la sua voce era stizzita e si stava abbassando il jeans che fece cadere all’altezza delle sue caviglie

“Avanti spogliati!” continuò

Scossi la testa cercando di levarmi le immagini della mia distrutta adolescenza davanti agli occhi. Mentre la mia mente vagava in cerca di un argomento più interessante e meno doloroso da elaborare, mi ritrovai già davanti al Vicius.

Tanto meglio

Ridacchiai entrando nell’edificio dalle porte raffinate ed eleganti in vetro. Era impressionante come il mio corpo si muoveva meccanicamente e automaticamente mentre i miei pensieri erano da tutt’altra parte. Credevo di averlo imparato negli anni, la routine dei miei giorni era quasi sempre la stessa, cambiavano solo, di tanto in tanto, i luoghi in cui mi trovavo.

“Buongiorno signorina Castillo”

Un ragazzo che non avevo mai visto prima d’allora, vestito in divisa nera mi guardava sorridendo. Come sapeva il mio nome? Aveva i tratti del viso dolci e il nasino all’insù. Mi faceva quasi ridere quanta dolcezza esprimevano i suoi occhi, nonostante il posto dove si trovasse.

“Buongiorno” risposi per poi avanzare verso l’ufficio di Marotti.

Entrai senza bussare e lo trovai seduto su una poltrona in pelle, di fronte ad un uomo abbastanza anziano, con i capelli lunghi e grigi fino alle spalle.

“Violetta mia cara, vieni qui che ti presento Fernando”

Sospirai e mi avvicinai a loro. Sarebbe  stata un’altra mattinata molto lunga.

 

Ero seduta sulla panchina di un parco di NY. Faceva più freddo del giorno prima o, almeno, l’aria sembrava più rude del solito. Le gambe accavallate l’una sull’altra e la mia adorata borsa prendeva posto proprio al mio fianco. Il braccio attorno al manico di essa per evitare sgradevoli furti da parte di qualche ragazzino che voleva avere le attenzioni su di lui facendo il bullo con una ventunenne.

Mi rigirai attorno al dito le chiavi della mia nuova e splendente Mercedes. Avevo la patente da un anno, era ora che quel riccone  di merda me ne concedesse una.

Il venticello freddo sbatteva contro la mia faccia facendo appassire il colorante rosso sulle mie labbra. Un Yves saint laurent della modica cifra di quaranta dollari e ottantatre centesimi. Girai il polso notando che erano già le 7 e 45 e che il mio stomaco iniziava a brontolare dalla fame. Era arrivato il momento di tornare a casa.

Si, perché finalmente avevo ricevuto le chiavi della mia nuova casa. Era nel centro della Grande Mela e distava pochi isolati dalla metrò, non che mi servisse più, adesso potevo raggiungere il Vicius con la mia macchina.

Sorrisi tra me e me una volta seduta sui sediolini in pelle che odoravano ancora di nuovo, pensando che, in quel giorno, qualcosa  era andato bene.

 

Girai la chiave nella serratura.Ero arrivata all’indirizzo che mi aveva dato Fernando, il proprietario del palazzo dove ero in quel momento, mi aveva detto che la mia casa era la numero 162 del settimo piano. Ovviamente con scarpe di quella altezza non avrei mai salito sette piani di scale, così andai nell’ascensore.

Quello che mi ritrovai davanti pareva più un attico affittato dai famosi attori di Hollywood, che un appartamento per una persona.

La mia  bocca si spalancò guardando l’immenso ambiente circostante a me.

Un grande salone si estendeva alla mia vista. Un divano in pelle a isola bianco era posizionato su un tappeto color cioccolato. Il camino era già acceso rendendo la casa calda e accogliente. Il fuoco giocherellava avanti e indietro facendo scoppiettare il legno sotto di esso.

Come finale una grande vetrata prendeva tutta la parete infondo dandomi un ottima vista di almeno metà New York.

Il tavolino in vetro posizionato di fronte  al divano teneva in piedi un piccolo vaso pieno di violette fresche e profumate con nel mezzo un bigliettino rosa.

Mi avvicinai e lo portai all’altezza del naso. Profumava di lavanda. Era il suo marchio. Lo aprii delicatamente per non stracciare la carta quasi velata e lessi a bassa voce il suo contenuto.

Ti piace la tua casetta?

L’ho consigliata io a Marotti. Solo per te. Xx

 

Look at me

 

Un altro piccolo capitolo lo so ma è un miracolo che sia riuscita ad anticipare l’aggiornamento ad oggi.

Per la mia felicità oggi è venuto un tecnico a controllare il pc di casa mia e per mercoledì la connessione wifii dovrebbe essere a posto. In questo capitolo non succede nulla di che, si viene solo a sapere un pizzico della vita della nostra cara protagonista.

Ringrazio TUTTI quelli che hanno recensito la mia storia e messa nelle seguite o preferite. Tutti quelli che l’hanno letta e un grazie a tutti quelli che l’hanno anche odiata.

Se vedrò ancora tutto questo interesse per la storia (che mi rende felicissima. Non mi aspettavo più di una recensione) cercherò di continuare ancora presto.

Per quando il computer sarà pronto credo di stabilire dei giorni a settimana (2 o 3) dove aggiornerò ad un determinato orario.

Un grazie a tutti ancora e un bacio.

 

Cielo <3

 

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Capitolo 3
*** Chapter 3 ***


Lunedì, il giorno che tutti odiavano di più al mondo. Dai più grandi ai più piccini. Il Lunedì è un incubo da cui ci si sveglia solo ventiquattro ore dopo. L’inizio di una lunga e faticosa settimana lavorativa per i grandi, e l’inizio di una stancante settimana scolastica per i piccoli. Il giorno dopo la domenica che, a mio parere, era il più bel giorno tra tutti. Il mio giorno di riposo che lì a NY, la mattina pareva sabato. I negozi aperti e la gente libera da tutti gli impegni andava spassandosela per la città.

Avevo appena finito la mia sessione mattiniera e mi ritrovai a sbadigliare nella hall del Vicius Palace.

I Vicius Palace erano sparpagliati un po’ per tutto il mondo, tutti sotto il controllo di Marotti. È stato qui dove ho sempre lavorato io, in questa, se possiamo definirla tale, azienda sforna prostitute. Edifici eleganti e raffinati, dove anche il minimo dettaglio era curato alla perfezione, le grandi finestre lucidate ogni mattina e ogni sera prima di aprire e chiudere, rendevano il posto illuminato e davano un ottima veduta sul resto della città.

Eravamo lì, quelle della pausa pranzo delle 12, come fossimo state semplici impiegate che facevano un lavoro comune e pulito.

Mi guardai intorno sbadigliando ancora una volta e chiedendomi quando i nostri caffè post pranzo sarebbero arrivati. Il caffè per me era sacro, mi dava modo di essere sempre sveglia e lucida, di riuscire ad incastrare tutti gli impegni delle giornate lavorative assieme a quei pochi svaghi che mi concedevo ogni tanto. Il caffè era una delle poche cose che non potevano mancare nel mio ciclo giornaliero.

Girai la testa. Erano tutte intente a parlare tra di loro. Le solite cose frivole che sotto sotto un po’ piacevano anche me. Attizzai le orecchie per scoprire che stavano parlando della nuova linea di capi di Maximiliano Ponte. Ero sempre stata una patita della moda. Amavo spendere i numerosi soldi che guadagnavo ogni mese per capi dei più grandi stilisti al mondo, mi piaceva vestire elegante e dare consigli su un outfit ben curato ed abbinato.

Battei le palpebre per scoprire di star guardando, involontariamente, Camilla Torres seduta proprio di fronte a me. Nella sua solita posa da principessa mentre lasciava asciugare lo smalto alle unghie dei piedi color celeste. Mi ritrovai a fare una faccia schifata per l’orrendo abbinamento fatto tra smalto posteriore e superiore.

Se come colore sulle unghie delle mani aveva optato per un verde cocomero avrebbe dovuto usare uno smalto più soft e scuro, a differenza di uno sgargiante e troppo luminoso.

Distolsi lo sguardo portandolo all’infuori della finestra. Pioveva selvaggiamente e sembrava, ogni minuto di più, che le gocce d’acqua volessero spaccare i vetri perfetti di quel posto.

In quell’edificio era tutto così laccato perfettamente da farmi venire il voltastomaco. L’odore degli spray era forte da entrarti nelle narici e arrivare alle tempie facendotele pulsare. I pavimenti sempre lucidi passati con la cera. Le tendine color oro, rifinite in ricamature fatte a mano. Tutto in quel posto sembrava pulito e dava l’impressione di esserlo a tutti quelli che lo guardavano da un ruolo differente da chi ci lavorasse lì. Nessuno se non noi, sapeva quanto marciume era presente sotto quello strato di pulito splendente. I fortunati non sapevano.

“Scusate per il ritardo, pioveva talmente tanto da non riuscire ad uscire dal bar”

I miei occhi si aprirono di scatto, quasi volessero uscire dalle orbite. Non trovai la forza di distogliere lo sguardo dalla finestra, e di girarmi nella direzione da cui proveniva quel suono armonioso che mi faceva venire la pelle d’oca.

Strinsi la mia gamba con la mano destra, riuscivo quasi a sentire le mie unghie trapassare il tessuto del pantalone blu cobalto che indossavo in quel momento. Il braccialetto che incorniciava il mio polso tremava creando un tintinnio che mi infastidì parecchio dato che mi entrava nella mente confondendosi con il suono della sua voce rendendolo meno fluido e più cremoso e confuso.

“Grazie, poggia sul tavolo qui. Dietro il bancone c’è Thòmas puoi pagare benissimo a lui” maledii la voce stridula di Camilla che si confuse anch’essa con il suono armonioso della voce che avevo udito pochi secondi prima. Tornai per pochi secondi in me, dandomi della stupida mentalmente per non riuscire a sopportare il fatto che la sua voce non fosse l’unico suono che aleggiava dentro me.

“Certo, buona giornata signorine”

Sentii il suono di passi fatti probabilmente da scarpe da ginnastica inzuppate di pioggia e di seconda mano. Mi girai giusto in tempo per scontrare il mio sguardo nei suoi occhi. Un secondo che parve durare molto più di quel che, realmente, fu.

La sua figura in divisa da barista si allontanava sempre più da me, avvicinandosi al ragazzo di nome Thòmas, di cui avevo fatto la conoscenza solo qualche giorno prima, quando mi salutò mentre ero diretta a discutere con Marotti della mia sistemazione.

Tutte avevano tra le proprie mani già la tazzina di caffè fumante che avevo bramato fino a pochi minuti prima ma che adesso mi sembrava un semplice intruglio scuro assolutamente non paragonabile al colore brillante degli occhi del barista..

“Violet tu non bevi il tuo caffè?”

Mi girai verso la voce che aveva pronunciato quelle parole lentamente, quasi passandosene ognuna tra la lingua e i denti prima di pronunciarle.

Ariana. L’unica lì che davvero non mi stava antipatica. Una ragazza soft che non dava nell’occhio, che si univa alle chiacchierate ma che non si mischiava al branco di oche.

Veniva dall’Inghilterra, il suo accento era forte ma mi piaceva.

Stentai un sorriso per poi prendere l’ultima tazzina rimasta sul tavolino di legno davanti a noi. Ritornai a guardare verso Thòmas ma questa volta era solo, seduto sulla sedia girevole mentre maneggiava abilmente con le dita sulla tastiera del computer che rifletteva i colori abbaglianti nei suoi occhi. Sospirai bevendo il caffè a piccoli sorsi, gustandomi l’unico piacere che la vita mi aveva concesso.

 

Pioveva ancora quando arrivai a casa con la mia Mercedes.

Premetti con la punta dell’unghia coperta da un colore bordeaux che avevo messo il giorno prima di partire per New York, il bottone per far scendere al mio piano l’ascensore.

 Il palazzo in cui mi trovavo era tra i più belli della città. Un grattacielo di trenta piani pittato di un grigio metallico che abbagliava alla vista, nemmeno una crepa o una macchia sui muri bianchi candidi come quelli del mio appartamento. L’ascensore si aprì e io ci entrai dentro, era completamente in vetro e sinceramente l’avrei preferito in un altro modo. Mi innervosiva il fatto che le persone dei piani posteriori ai miei potessero vedermi.

La tasca mi formicolò e capii che era stato il mio cellulare a produrre quel vibro che mi aveva solleticato la pelle.

Due nuovi messaggi

Premetti sul primo nel registro per scoprire che il mittente era ancora una volta Diego.

Non mi hai ancora detto se la casa che ho scelto per te ti è piaciuta xx

Decisi di non rispondere a quel messaggio come non avevo fatto agli ultimi quindici che mi aveva inviato in questa settimana. Mi piaceva tenerlo sulle spine e fare la disinteressata nei suoi confronti, non che fossi davvero interessata a lui, era solo un cliente invaghitosi troppo. Quando scoprii che a dargli il mio numero era stato Marotti iniziai ad odiarlo ancor più di quanto non lo facessi già, non aveva il diritto di dare miei dati personali a sconosciuti.

Pigia il polpastrello del pollice sul secondo messaggio, dopo aver dato un’occhiata al piccolo schermo posto di fianco alle porte meccaniche che mi segnalava che ero ancora al quarto piano.

Stasera passerà un corriere da te portandoti un vestito. Preparati al meglio, domani sera dobbiamo andare ad una festa di persone importanti. Niente brutte figure, indossa il vestito e ubbidiscimi <3

Marotti.

Non avevo mai capito perché dovesse portarci sempre con lui alle stupide feste di persone che non conoscevo. Sospirai poggiando la testa al vetro dietro di me che veniva sfruttato a parete.

A tante, forse troppe persone era nascosta la vera identità dei Vicius. Pochi sapevano che era un qualcosa di simile ad un bordello, solo organizzato molto meglio e con regole più rigide. Per molti era solo un ufficio di gran classe, a funzione di sorvegliare e controllare i pacchi esportati dall’estero.

Spinsi nella mia tasca nuovamente il cellulare che a breve avrebbe fatto quattro mesi in mio possesso. Chiusi gli occhi per un secondo e mi stupii nel non vedere il solito nero che veniva causato dalle palpebre chiuse, ma da due occhi verdi.

Era così..così reale. Sembrava mi stessero guardando, che fossero davanti a me.

Aprii di scatto gli occhi sentendo il tintinnio che emetteva l’ascensore quando ti annuncia che sei arrivato al piano che volevi.

Mi ricomposi velocemente per poi uscire da quel posto avviandomi verso la mia porta.

 

Posai i due piatti che avevo tra le mani nel lavello, li avrei lavati l’indomani.

Era già tardi e la voglia e la forza di farlo era pari a zero.

Il vestito che mi aveva spedito Marotti tramite corriere era arrivato poche ore fa e, ancora, non avevo aperto lo scatolo rettangolare che conteneva quel che avrei indossato la sera dopo. Nonostante la scritta elegante color argento puro che si trovava sul coperchio del recipiente Maximiliano Ponte mi aveva incuriosito non poco, non avevo avuto il tempo di studiare il vestito all’interno. Avevo avuto da cucinare qual cosina da mettere sotto i denti, avevo sistemato le ultime cose che erano rimaste nella valigia ed ero andata a comprare lo shampoo CocoVanille che avevo finito quella mattina ma che avevo completamente dimenticato le ore prima.

Spensi la luce della cucina moderna e in marmo che caratterizzava quella casa e mi trascinai nella camera da letto, stanca come non mai. L’inizio settimana mi distruggeva sempre e, ero felice di poter restare a letto per tutta la restante serata guardando vecchie serie che trasmettevano sui canali retrò, ogni sera.

Illuminai la grande stanza arredata in stile moderno.

L’armadio scorrevole era a specchio così da farmi spaventare ogni mattina al mio risveglio, guardando la mia faccia da zombie. Sul grande letto a una piazza e mezzo avevo messo delle coperte viola melanzana.

Camminai verso il termosifone nascosto dietro il mobiletto della televisione al plasma che avevo trovato sin dal primo giorno lì dentro e allungai la mano per toccarlo. Era tiepido. I riscaldamenti che avevo acceso poco prima iniziavano a farsi sentire.

Dopo essermi stiracchiata e aver sbadigliato per la milionesima volta in quel giorno, andai verso il letto scoperchiando la scatola a cui erano stati rivolti i miei pensieri fino a qualche minuto prima.

Con le punte delle dita presi l’estremità del vestito estraendolo dalla scatola e tendendo le braccia per ammirarlo al meglio. Rimasi a bocca aperta per la tale bellezza che avevo tra le mani.

 

Look at me

Hola! Grazie per aver letto il capitolo :)

In teoria non avrei dovuto aggiornare oggi e finire questo capitolo oggi perché sono indaffarata per la partenza a Napoli per le vacanze estive. Sono stata felice del capitolo scorso anche se, ad essere onesta, mi sarebbe piaciuto ricevere qualche recensioncina in più. Ma va bene.

Passando al capitolo, anche questo è corto ma più lunghi di così non mi vengono hahaha bè i commenti spettano a voi.

Adesso è ancora tutto un po’ misterioso ed enigmatico ma man mano che la storia andrà avanti i pezzi di puzzle inizieranno a combaciare.

Volevo ringraziare tutti quelli che la seguono anche se rimangono in silenzio e un ringraziamento speciale a Simonuccia_98_ che mi sta vicina davvero e che segue la mia storia con tanto entusiasmo. Grazie.

Passate a leggere la sua storia perché merita davvero. http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2655082&i=1

Nel prossimo capitolo nel “look at me”  ci sarà una notizia che potrebbe far piacere anche a voi e vi spiegherò tutto nel prossimo capitolo.

Un bacio!

 

Cielo <3

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Capitolo 4
*** Chapter 4 ***


 

La festa sarebbe iniziata dopo un’ora precisa.

Tutte le donne al servizio del Vicius di New York nonché la sede centrale tra tutti, compresa me, erano davanti alle grandi porte di vetro dell’edificio che ci ospitava un’intera settimana e di cui eravamo a servizio. Entro poco Marotti avrebbe dovuto fare la sua venuta, come sempre, in grande stile invitandoci a salire tutte in due limousine bianche laccate, come i denti che si faceva sbiancare ogni mese dal dentista per non far apparire macchie giallastre a causa della perenne sigaretta che alloggiava tra le sue labbra secche.

L’aria fredda e autunnale mi sferzava il viso lasciandosi dietro tagli invisibili sulla pelle delicata e morbida, profumata ancora di un dolce miscuglio di bagnoschiuma alla vaniglia e un eau de toilette che avevo comprato poco dopo esser arrivata in questa città.

Il vocio delle mie “colleghe” che chiacchieravano animatamente su come sarebbe stata la serata era l’unico suono udibile in quella strada ormai deserta, ma che durante le ore di Dì accoglieva un grande via vai di persone e di mezzi pubblici o personali. L’unica cosa bella di andare a lavorare era il percorso per arrivarci. New York era sempre così bella, così attiva e così vivace che per un momento faceva sentire anche me così, come se fossi una studentessa universitaria che, felice di studiare per diventare una persona che vale un giorno, si avviava verso il luogo che ama e dove risiedevano tutti i suoi amici più cari. Avendo una famiglia unita e accogliente che aspettava impaziente il mio ritorno per chiedermi come fosse andata la giornata e di accogliermi con un pranzo caldo come piaceva a me. Ricevere, nel pomeriggio, messaggi da amiche o addirittura dal proprio fidanzato solo perché avevano la voglia di sentirmi vicino.

Sospirai, mentre sentivo gli angoli degli occhi iniziare ad inumidirsi, facendo creare una nuvoletta d’aria fredda che, per un attimo, mi fece bruciare l’occhio sinistro trasportando via le lacrime di nuovo nei dotti lacrimari che non hanno mai avuto la possibilità di rigarmi il volto ancora una volta.

Lo stridio assordante di ruote che strusciavano contro l’asfalto rallentando mi distolse dalla battaglia silenziosa che stavo facendo contro il freddo prepotente che rimbalzava dai miei occhi al mio naso al finire sulle mie labbra asciutte e disidratante, per poi ricominciare tutto il processo da capo.

Avanzai sui miei vertiginosi tacchi prestatimi quella mattina da Ariana che li portava ai piedi. Eravamo finite col parlare dei vestiti che la sera prima erano arrivati nei nostri appartamenti, e, notando che le sue scarpe erano del colore uguale a quello del mio vestito aveva insistito di prestarmele affinchè le usufruissi per la festa.

Due limousine bianche e perfette erano davanti a noi e, una di quelle, aveva il finestrino leggermente abbassato da cui scorgeva una mano callosa che con due dita teneva salda una sigaretta mezza finita.

“Allora principesse, vogliamo andare a questa festa?”  la sua voce pareva più allegra e folle del suo solito tono basso e controllato che aveva sempre posseduto. Anche se non riuscivo a vederlo a causa dei vetri oscurati, avrei giurato che sulle sue gambe era presente una bottiglia di birra che teneva sempre “in casi di emergenza” nella limousine. Scossi la testa schifata prima di alzare gli occhi al cielo e vedere un ammasso di nuvole grigie coprire la luna piena in mezzo a tutto quel nero.

“Violet ci sediamo vicine?”

Avrei riconosciuto quell’accento britannico fra mille, forse era anche il primo e unico che davvero non mi infastidiva. Sorrisi girandomi prima di entrare nella macchina subito dietro quella che occupava Marotti con altre di noi. “Certo”

Entrai con molta lentezza, facendo attenzione a non danneggiare in nessun modo il vestito che avevo indosso e che, in assoluto, era stato il più bello che l’azienda mi avesse mai concesso. Il posto di fianco al mio venne occupato in breve tempo da Ariana che, al mio contrario, fece tutto velocemente non badando al vestito fucsia che ne avrebbe potuto risentire in qualche modo.

Il vestito a tubino lungo fino al terreno la faceva sembrare leggermente più alta di quanto in realtà era, slanciando il suo busto e, le pailette che ricoprivano tutto il tessuto le garantivano la certezza che non sarebbe passata inosservata, soprattutto agli occhi attenti dei uomini single, o di uomini semplicemente infedeli.

Le luci in quel lungo mezzo di cui, ormai avevo fatto l’abitudine viaggiarci, erano soffuse e l’aria calda aveva dato sollievo alla mia povera pelle scossa ininterrottamente da fremiti di freddo. Non avevo portato nemmeno un giacchetto con me, per paura di stropicciare il tessuto di cui mi ero follemente innamorata.

Accavallai le gambe facendo dondolare il piede avanti e indietro nell’attesa di arrivare presto alla festa per poterne uscire fuori il prima possibile. Sarebbe stata come tutte le altre: Le persone anziane dominavano la sala, parlottando fra di loro di cose riguardanti lavoro, balli lenti e principeschi che, dai ceti più alti della società, venivano definiti una squisitezza per gli occhi di chi assisteva, musica dal vivo composta in maggioranza da violini, pianoforti e a volte capitava in mezzo per fino qualche arpa..

Poggiai il mento sul pugno chiuso sorretto dalla forza del gomito sul finestrino, improvvisamente erano diventate tutte silenziose e pensierose lasciandosi alle spalle i soliti discorsi che le occupavano nel tempo libero. Il mio dito si infiltrò tra i boccoli fatti meno di dodici ore prima da Zike, parrucchiere, a quanto pare, fidato di ognuna dipendente del Vicius e che avevo osato provare anche io. Era un pimpante giovane sui trent’anni, di origini francesi che, a volte, si lasciava trasportare un po’ troppo dal chiacchiericcio e dai pettegolezzi che le sue clienti gli confessavano. Di certo, non potevo negare che la sua fresca e giovanile bellezza non mi abbia, in un certo senso, rinfrescato gli occhi dopo le ore passate a guardare uomini di mezza età, tozzi e con il viso perennemente in una smorfia assatanata dalla voglia di cominciare una lunga seduta con me. Anche se lunga non era la parola adatta, erano quaranta minuti precisi, ne minuto di più, ne minuto di meno. Era l’unica cosa che ero riuscita a contrattare con Marotti dopo lunghi giorni di litigate, così mi concesse di diminuire l’incontro di venti minuti.

Diedi una veloce occhiata alla ragazza seduta di fianco a me, distogliendo per un secondo gli occhi dal contorno duro dei finestrini. Aveva uno sguardo vuoto e anche lei, come me, sembrava persa in pensieri o ricordi tormentati. Le sue labbra dischiuse e le mani intrecciate e poggiate al bacino le davano un’aria regale che se solo fossimo state anni e anni a dietro, l’avrei scambiata per la figlia di un nobile. Ariana. Mi sembrava una ragazza così inadatta a quella vita, chissà come c’era finita anche lei in quel tunnel buio e senza uscita.

Il mio sguardo scivolò sulle altre sei, velocemente e senza soffermarmi troppo su ognuna di loro,  ma abbastanza da notare che i loro pensieri erano occupati da qualcosa come le unghie, le scarpe o, magari, anche il bel e accomodante Zike.

“Siamo arrivati, potete scendere” una voce bassa, che proveniva dal lato opposto della macchina ci fece risvegliare tutte allo stesso momento e scendemmo tutte sulle mattonelle della strada. Ecco che il freddo mi faceva tornare la pelle d’oca. Vedemmo scendere Marotti dall’altra macchina con altre sette ragazze dietro di lui, ci guardò e ci sorrise. Un sorriso che mi fece voltare lo stomaco.

 

La serata si stava svolgendo come avevo prospettato, nessun tipo di divertimento o altro, solo musica antica, vecchi e occhiatine da clienti che avevo servito giorni addietro. Sbuffai mentre, seduta al mio tavolo guardavo gli altri fare per le ennesima volta giravolte su giravolte su giravolte in coppia con sottofondo un’altra noiosa canzone, picchiettavo con le unghie sul pilastro di legno a cui erano poggiate le posate sporche che avevamo usato prima per cenare e che a differenza dei piatti, non avevano ancora raccolto. Ero l’unica seduta lì nonostante i numerosi inviti da giovani ragazzi. Perfino Ariana era andata ad unirsi al ballo per cercare di scacciare via la noia.

Girai il polso guardando l’orologio che segnava ancora le 10:02, ciò significava che dovevano ancora passare minimo tre ore per andare via da quel posto adatto orribilmente noioso. Sbuffai ancora una volta ma questa volta con più aggressività e mi alzai dalla sedia che aveva preso ormai calore. Un bicchierino di qualcosa mi avrebbe fatto bene, e se non l’avrebbe fatto almeno sarei stata occupata per due o tre minuti.

Il locale era lussuoso e molto vasto, i tavoli tutti allineati, i lampadari con mille fronzoli tinti in oro attaccati vicino, il parquet che amplificava ogni tacco e i camerieri che guizzavano avanti e indietro soddisfacendo e pulendo i clienti. In fondo alla sala c’era un piccolo bancone con due pile di piatti puliti e pronti per essere utilizzati sopra di esso. Di dietro un grande scaffale conteneva almeno cento bottiglie di alcolici diversi ma, di buona marca e raffinati. Mi diressi lì dove anche gli sgabelli erano di un colore d’oro e avevano la spalliera in legno scuro, rifinito a mano.

Presi un lembo della mia gonna tra le dita alzandola delicatamente per non stropicciarla nel piccolo lasso di tempo in cui sarei stata seduta sui sgabelli più raffinati e chic che avessi mai visto, e di cose eleganti ne avevo viste.

Nella mia testa risuona la musica lenta che, a differenza di rilassarmi, mi rendeva nervosa e infastidita più di quanto lo fossi già. La porta di fianco al bancone bianca come il latte si aprì rivelando due spalle larghe fasciate da una camicia del medesimo colore della porta. Camminava lentamente e all’indietro con una decina di bicchieri di vetro tra le mani, non facendomi scoprire il volto della persona che, supponevo, mi avrebbe servita.

Mi grattai la guancia interessata ai buffi spostamenti di camicia bianca nel cercare di non far cadere tutti i recipienti e allo stesso tempo entrare dietro al bancone. Un piccolo risolino uscì dalle mie labbra attirando l’attenzione della persona che l’aveva provocato. Dopo svariati tentativi riuscì a varcare la piccola porticina che conduceva al posto barman e a poggiare i bicchieri sotto lo scaffale che avevo notato prima.

Si girò facendomi morire il sorriso divertito dalle labbra. Lui. Qui.

Cosa ci faceva?

La sensazione di lingua secca e priva di vita tornò nella mia bocca come le precedenti due volte in cui l’avevo visto. Il suo viso era incorniciato da un sorriso imbarazzato causato probabilmente dalla mia risata. Sentivo improvvisamente come se gocce di pioggia stessero cadendo velocemente su di me inzuppandomi i panni e facendomi sentire pesante e senza fiato. Perché avevo sempre strane sensazioni quando guardavo quel buffo ragazzo che, all’altezza del cuore, portava sempre una piccola etichetta con su scritto Leon ?

 

 

Look at me

Okay Ciao! Le prime cose che dico sono:

Scusate per il ritardo ma in questi giorni sono in vacanza e detto sinceramente non ho preso molto il computer.

Il capitolo è cortissimo e mi scuso davvero tanto ma non avevo altri modi per farlo finire e poi l’ho fatto di notte e quindi ho sonno hahaha.

Ho notato che la storia, come continua, non piace molto..perchè le recensioni sono scese da 7 a 3 a capitolo, e questo mi ha un po’ buttata giù..si. Mi aspettavo di più, sono sincera ma se la storia non piace a molti..che ci posso fare io? Ho solo dato del mio meglio…

Nello scorso look at me avevo detto che vi avrei fatto un annuncio ma per problemi esterni quel che avevo in mente non si può più fare e magari in futuro vi farò sapere.

 

Vi lascio qui le foto :)

Ciau e al prossimo capitolo!

 

Cielo <3

 

Zike, il parrucchiere

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Ariana e il suo vestito

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Il vestito di Violetta

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Capitolo 5
*** Chapter 5 ***


“Mi dispiace..”

Mi disse. Mi guardava negli occhi con i suoi mortificati, di un verde che mi faceva girare la testa. La sensazione era strana, molto simile a quella che provai anni fa quando, per la prima volta, mi ubriacai. Malibu. 6 Agosto 2011. La data mi rimase impressa nella mente, per aver custodito la sensazione più strana, brutta ma allo stesso tempo eccitante che avessi mai provato.

“Di..Dello spettacolino che hai visto..intendo” continuò premendo le labbra tra loro rendendole una linea sottilissima, invisibile alla vista delle persone a distanza di qualche centimetro da noi.

Deglutii e inumidii alla meglio il palato per evitare che le parole rimanessero, ancora, attaccate lì, facendomi prudere la gola e bruciare gli occhi.

Con Calma. Ti ha solo parlato.

“Figurati”

Sorrisi, soddisfatta di come il mio tono fosse fuoriuscito dalle mie labbra, in modo sicuro. Come nel mio solito, quando non avevo lui davanti agli occhi.

Ancora non avevo capito il perché di quelle strane sensazioni, quell’agitazione e quella mancanza di sicurezza che mi invadeva prendendo possesso di me e facendomi cambiare completamente da come ero solita a comportarmi.

Quella era la terza volta che lo incontravo, poteva mai essere un caso?

Non avevo mai creduto nel destino, e quindi mi convinsi che non poteva essere altro che una coincidenza e che, probabilmente, non sarebbe ricapitato vedere quegli occhi da bambino furbo e quel sorriso imbarazzato. Improvvisamente sentii la gola secca e il bisogno di bere qualcosa, qualunque cosa potesse annaffiare le mie pareti disidratate.

Alzai di nuovo gli occhi a lui e lo scoprii sorridere, più tranquillo di quanto fosse prima.

“Allora..bè..se sei qui vuol dire che vorrai qualcosa da bere”

Sorrisi inconsciamente, notando le fossette che si erano formate ai lati delle sue labbra, mentre mi sorrideva.

Strinsi la mano attorno alla gamba coperta dalla gonna marrone chiaro vellutata.

Cosa sto facendo? Pappamolla

Mi ripetei in mente una, due, tre volte.

“Perspicace”

Feci un piccolo sorriso di scherno cercando di reprimere all’interno del mio stomaco le emozioni che avevo provato fino a qualche secondo prima, nell’intento di far ritornare la vera me. La vera Violetta. L’acida e punzecchiante a cui non importava di far rimanere male qualcuno, perché quel male che avrebbero provato non sarebbe mai stato pari a quello che provava lei ogni singolo giorno.

Poggiai il gomito sul tavolo, portando il mento sulla mano chiusa a pugno e guardai che gli angoli della sua bocca erano ancora all’insù, non come mi aspettavo.

Sentivo le interiora attorcigliarsi e combattere tra di loro in due schiere. Una era sollevata dal fatto che il mio scherno non l’avesse toccato, e l’altra era delusa del fatto di non aver centrato il bersaglio.

“Allora, cosa vuoi, signorina…”

“Violetta”

Le mie corde vocali vibrarono prima che il mio cervello elaborasse a pieno quel che l’enfasi nel suo tono volesse significare. Solo in quel momento mi accorsi di aver detto il mio nome ad uno sconosciuto, o semplicemente a qualcun altro all’infuori del mio datore di lavoro e delle mie colleghe. Solitamente era Castillo che mi chiamava la maggior parte della gente, non sono mai stata tanto aperta e sentire il mio nome pronunciato da  labbra altrui all’infuori dei miei genitori mi faceva ribrezzo.

“Va bene Violetta. Allora cosa vuoi?”

Lo stomaco si fece vuoto e, se non fossi stata seduta, probabilmente sarei finita in terra. Non avevo provato ribrezzo. Niente affatto. Era..strano. Non riuscivo a spiegarlo. Era come il cappuccino alla mattina, la vasca piena d’acqua calda in inverno, l’ombra delle tettoie dei negozi nei giorni caldi e afosi, come un frappé dai mille e dolci gusti diversi che scendeva lentamente lungo la tua gola assaporando e godendoti ogni aroma presente, riconoscendone il frutto e apprezzandolo ancora di più in quello stato cremoso e freddo.

“Qualcosa di freddo”

La mia lingua aveva un piccolo falò acceso sopra di essa che scendeva piano nello stomaco facendomi andare a fuoco anche quello. Ghiaccio. Avevo bisogno solo di quello e sarei riuscita a superare altri dieci minuti di conversazione.

“Subito”

Ridacchiò prendendo due bottiglie in alto, nello scaffale. Una era di colore azzurrino e riuscivo a intravedere il liquido che si infrangeva contro il vetro come le onde si infrangevano contro il mare, mentre l’altro era di un nero pece impossibilitando la vista di quel che ci fosse all’interno.

I muscoli delle braccia si tendevano e rilassavano continuamente mentre, con movimenti esperti e veloci, miscelava in un bicchiere di vetro con all’interno due cubetti di ghiaccio, i due liquidi mettendone un po’ dalla bottiglia azzurra e un po’ dalla nera. Doveva fare quel lavoro da molto.

Si riavvicinò a me porgendomi il lungo bicchiere con dentro del liquido color giallastro.

“Ecco a te”

Presi il bicchiere con una sola mano, facendo scontrare le mie unghie colorate con il vetro creando un piccolo suono che ricordava molto quando due persone facevano toccare i loro bicchieri per fare cin cin. Abbassai gli occhi al bicchiere mentre inumidivo le labbra di quel alcolico gelato e che sapeva di amaro e dolce insieme.

Quando finii, pochi minuti dopo, poggiai il bicchiere al tavolo, finalmente rinfrescata e stranamente più lucida di quel che ero prima.

“Quanto ti devo?”

Mi schiarii la gola mentre mi asciugavo le mani umidicce di freddo sulle gambe coperte.

“Oh niente. E’ gratis. Non lo sapevi?”

Scossi la testa.

Aggrottò per un attimo la fronte facendo incontrare la pelle sotto al sopracciglio sinistro con quella del sopracciglio destro. Mi stava…guardando in modo strano.

“C’è qualcosa che non va?”

“Hai un viso familiare..ci conosciamo già?”

Una leggera delusione mi invase dentro, raggelandomi il cuore più di quanto già fosse. Ci siamo visti due volte, idiota! Quello che avrei voluto dirgli. Ma scossi nuovamente la testa, negando quel che era la realtà. Se lui non si ricordava di me, neanche io mi sarei ricordata di lui.

“In effetti..ti avrò scambiata per un’altra persona”

Alzò le spalle per poi prendere tra la sua grande mano il recipiente vuoto poggiato davanti a me, mettendolo in un lavello lì dietro, insieme ad un’altra decina di bicchieri perfettamente uguali.

Mi alzai e con un leggero buona serata a testa bassa, mi allontanai al bancone, pronta per tornare seduta al mio posto, a guardare le persone volteggiare e volteggiare ancora.

 

Ero sotto le coperte da ormai un’ora e non ero riuscita ancora a prendere sonno.

Mi giravo a destra e pensavo ai suoi occhi, mi giravo a sinistra e vedevo le sue fossette, mi mettevo dritta e sentivo di nuovo ci conosciamo già? nelle orecchie.

Emisi un verso nervoso e mi portai il cuscino sulla faccia premendolo così forte da rimanere senz’aria per qualche secondo.

Quel che mi infastidiva di più non era il non riuscire a dormire ma il pensare costantemente ad un ragazzo che a malapena conoscevo. Non mi era mai capitata una cosa del genere. Non mi ero mai trovata in difficoltà con la gente, tantomeno con i ragazzi… Allora perché con lui riuscivo a malapena parlare?!

La testa mi scoppiava e se avessi potuto staccarmela dal collo e poggiarla sul comodino, lo avrei fatto con piacere. Lasciai cadere il cuscino di lato e mi alzai dal letto, scuotendo i capelli per far cessare il prurito che mi provocavano sulle spalle.

Schiacciai con l’indice il tasto al centro del telefono poggiato sulla base dell’abatjour per scoprire che erano le 5:04 del mattino e che avevo due messaggi non letti. Sbadigliai per la stanchezza e lessi velocemente il destinatario. Diego.

 

Dolcezza eri bellissima questa sera con quel vestito. Marotti è l’amico migliore che ho mai avuto xX

 

Vediamoci domani pomeriggio alle 17 davanti al Vicius? Devo parlarti Xx.

 

Avrei dovuto andarci?

Probabilmente no, avrei dovuto ignorare ancora una volta i suoi messaggi e farmi i fatti miei, passando il pomeriggio a guardare vecchie sitcom. Invece avevo una strana voglia di vederlo, di..non sapevo cosa volevo farci ma qualsiasi cosa pur di cessare il rumore nella mia testa.

Rilessi i messaggi dopo essermi seduta al bordo del materasso e solo in quel momento realizzai che Marotti aveva aiutato ancora una volta quel depravato senza avvisarmi di nulla. A volte mi chiedevo come sarebbe stata la mia vita se i miei genitori..fossero stati con me..

Mi grattai con le unghie la radice dei capelli ancora profumati dalla splendida acconciatura fatta da Zike, ero sicura che sarebbe diventato il mio parrucchiere. Aveva decisamente conquistato me e i miei capelli con le sue mani fatate.

 

Sbuffai picchiettando le unghie al volante. L’orologio al mio polso segnava le 16:56.

Entro quattro minuti avrei dovuto essere davanti al Vicius, per incontrare Diego, ma ero intasata nel traffico di quella caotica città.

Ero ferma da più di dieci minuti, le macchine avanti non intendevano muoversi di un solo centimetro e la voglia di schiacciare la mano contro il clacson fino a quando tutti non si fossero infastiditi era tanta. Il vento che entrava dal finestrino spalancato mi faceva oscillare i capelli raccolti in una coda sottile, fatta velocemente prima di scendere. Mi si appiccicavano per la faccia e ogni pochi secondi dovevo ritirarmeli dietro le spalle, per evitare - se nel caso i veicoli intorno a me avessero iniziato a muoversi - di provocare un incidente, ed era l’ultima cosa che volevo.

“Anche tu bloccata qui eh”

Girai il viso nella direzione del finestrino, scorgendo una Fisker Karma nera, con il finestrino abbassato e un uomo con una leggera barbetta sul mento e il braccio penzolante fuori. Leon.

1..2..3..

“Già” sorrisi e sospirai sollevata. Facevo progressi, ero riuscita a rispondergli quasi subito..

 

Look At Me

Ciao! Scusate per il ritardo ma questo, per me e credo anche un po’ per tutti, è stato un periodo di vacanza e non ho passato molto tempo al computer.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e come sempre ringrazio tutti quelli che la seguono e che la recensiscono.

Volevo avvisarvi che sto scrivendo anche un’altra storia e se passate a leggerla e a darmi un parere mi farebbe molto piacere -anche se sono ancora solo al prologo-

Un bacio a tutti!

 

Cielo <3

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