Amore in corsia

di alberodellefarfalle
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Come batte il cuore ***
Capitolo 2: *** La Follia di una sera ***
Capitolo 3: *** Un istante per tornare a vivere ***
Capitolo 4: *** Favola di Natale: LA REGINA DI GHIACCIO E I PORTATORI DI SPERANZA ***
Capitolo 5: *** Un San Valentino da dimenticare ***
Capitolo 6: *** A come Amicizia ***
Capitolo 7: *** CA ***
Capitolo 8: *** Una giornata normale ***



Capitolo 1
*** Come batte il cuore ***



In una calda (più o meno) domenica di agosto sono tornata su efp. Non vi ho mai dimenticati. Questa idea ronzava nella mia testa da un po', perchè l'ospedale è il mio mondo e perchè mi piaceva l'idea di costruire storie al suo interno. Si comincia con una storia tra studenti di medicina, quelli che si avvicinano più a me (lo sono anch'io del resto). Buona lettura.


Come batte il cuore

 
Claudia e Luca, due studenti di medicina, due colleghi, forse due amici, forse qualcosa di meno o forse qualcosa di più. Al ritorno dalle vacanze estive li aspetta un nuovo studente, Carlo, e l'inizio del tirocinio in reparto tutti insieme. Cosa succederà?

 
 
Il cuore è dotato della capacità di generare autonomamente un impulso che gli permette di contrarsi e svolgere la sua funzione. Il sistema nervoso ha solo la funzione di regolare tale attività autonoma. 
Sono una studentessa di medicina, l’ho studiato, so che funziona così. Allora, perché mi ostino a voler controllare ciò che il mio cuore vuole? Perché cerco in tutti i modi di dimenticare, di convincermi che ormai non provo più niente per lui? Credo che la risposta sia piuttosto semplice: perché non voglio soffrire. 
Mi chiamo Claudia e studio medicina (già detto) e mi sono perdutamente innamorata (aimè) di un mio collega. Ho fatto di tutto in questi anni per conoscerlo con la vana speranza che dall’amicizia passassimo a qualche cosa di più. 
Sono una ragazza piuttosto normale e semplice, con una vita ordinaria. Niente di eclatante, pochi amici, ma buoni e una vita divisa tra la città dove studio e il mio paese di origine, dove torno per i periodi di vacanza. Sono alta normale, capelli castani normali, occhi verdi normali. Insomma sono proprio normale, deve essere per questo che Luca non mi ha notato. Dopo varie fatiche l’ho conosciuto e ho instaurato con lui un buon rapporto, che però non è mai passato alla fase successiva. Siamo sempre rimasti buoni colleghi. E io mi dispero, perché, per quanto non voglia ammetterlo, Luca mi piace tanto e, anche se le mie amiche (Maria e Sara) mi abbiano più volte ripetuto che se “non mi vuole non mi merita”, io penso a lui continuamente e la mia fantasia fa mille viaggi su possibili storie di noi due. Quando ritorno in me, mi ripeto che sono una stupida e che non dovrei perdere ancora del tempo dietro questo scemo oppure mi illudo che ormai non provo più niente per lui. Insomma, cerco di fare quello che so che nemmeno fisiologicamente è possibile: dettare il ritmo al cuore, cosa che, come detto, non è possibile perché il cuore ha la straordinaria (aimè) capacità di contrarsi autonomamente. Per dirla alla Pascal: al cuor non si comanda.
“Ciao, Luca! Come stai? Passate bene le vacanze?” dopo uno sfiorarsi di guance per salutarci, Luca (come dire “parli del diavolo …”) mi sorride. È sempre bello: alto, capelli neri scompigliati, occhi scuri e un bel sorriso che quando mostra (molto raramente, devo dire) fa girare la testa. “Ciao, Claudia. Bene e tu? Hai fatto qualche cosa di bello?” Continuo a sorridere come una sciocca, mentre il cuore (autonomamente) ha deciso di aumentare la frequenza del suo battito. “Niente di particolare: mare, amici, riposo. Vacanze rilassanti e agognate. Tu?” ci avviamo all’interno dell’aula “Io sono stato in giro con i miei amici, ho visto posti spettacolari.” Continua a sorridere e credo di potermi perdere nella luce che vedo nei suoi occhi. Gli hanno fatto proprio bene queste vacanze. Se penso al Luca che ho conosciuto l’anno scorso, sempre musone e molto raramente allegro e affabile, questo sembra tutta un’altra persona. Buon per lui e, spero, buon per me. Vedete: continuo a sperare quando dovrei cominciare a guardarmi intorno. Prendiamo posto uno accanto all’altro e ci prepariamo per seguire la lezione. Da quando ci conosciamo è sempre stato così: la perfetta sincronia dei nostri movimenti, come ci capiamo al volo, come siamo sempre l’uno la spalla dell’altro. Quando lo racconto alle mie amiche, loro dicono che io mi faccio influenzare da quello che provo per lui, ma se ci vedessero capirebbero perfettamente cosa voglio dire. “Ciao, scusami, questo posto è libero?” scuoto la testa al ragazzo che si siede accanto a me “Piacere, sono Carlo. Mi hanno appena trasferito, mi sento un po’ spaesato.” Gli sorrido “Io sono Claudia. È un piacere conoscerti. Se hai bisogno di una guida, io ci sono. Capisco cosa significa, quindi, conta pure su di me.” gli occhi azzurri di Carlo si illuminano di gratitudine. “Domani inizio con i tirocini e non so nemmeno dove devo andare. Questa città è così caotica che so che mi perderò appena metterò piede fuori da quest’aula.” Si passa una mano tra i ricci biondi, imbarazzato “Anche io inizio domani. Se vuoi possiamo andare insieme. Magari ci vediamo qui davanti e ci avviamo. Anche io quando mi sono trasferita qui mi perdevo sempre, è normale. Ti abituerai in fretta.” Carlo si avvicina repentino e mi bacia sulla guancia “Grazie.” Sussurra, mentre io (inevitabilmente) arrossisco imbarazzata. Sento Luca borbottare qualche cosa e mi volto curiosa ad osservarlo. Mi ero quasi (dico quasi) dimenticata di lui. Questo Carlo mi fa proprio bene. Sorrido a questa novità. Era ora che succedesse. Maria e Sara ne saranno felici. Intendiamoci, non che loro non mi abbiano sostenuto nella “storia” con Luca, ma dopo aver visto la sua totale apatia, hanno cercato di farmi desistere, di farmi cambiare strada. Che sia arrivato il momento? Non so come sentirmi a questa eventualità. Luca mi piace, è innegabile, ma stare dietro a qualcuno che non ti vede è faticoso e prima o poi devi andare avanti. Se penso a tutto il tempo che ho “perso” dietro a lui … anche se non lo cambierei per nulla al mondo. “Ciao, io sono Luca.” attraversa quasi furioso il mio posto, per porgere la mano a Carlo “Piacere, Carlo.” Dice agitato. Il “Buongiorno” del professore ci distoglie dai nostri affari e seguiamo la lezione.

Il giorno dopo mi ritrovo in corsia nel gruppo proprio con Carlo e Luca, ritornato il solito musone di sempre. Giuro che mi rimangio quanto detto ieri, l’effetto vacanza deve essere già terminato. Carlo si rivela invece un buon compagno, simpatico e disponibile. Il nostro tutor, il dottor Di Rienzi Renzo (complimenti a mamma e papà per la fantasia), è molto preparato ma anche molto severo. Io, Carlo e Luca ci ritroviamo gli ultimi a lasciare l’ospedale. “Ciao, Claudia, grazie per oggi. Purtroppo devo scappare, altrimenti ti avrei volentieri accompagnato a casa. Potremo recuperare domani, se ti va.” Carlo mi lascia due baci sulle guance, molto espansivo. Essendomi concentrate per tanto, forse troppo tempo, su Luca, che è un ragazzo molto gentile, ma molto riservato, che a volte può sembrare addirittura freddo, mi stupisco del calore di Carlo. “Ciao, Carlo. È stato un piacere. Ci vediamo domani, dato che oggi salti abilmente la lezione.” Scherzo io, mentre Luca, alle mie spalle, si toglie il camice e riprende i suoi effetti personali dall’armadietto che dividiamo. Carlo agita la mano e saluta il mio sempre più musone compagno, uscendo di scena. Io mi volto ad osservare Luca. È la prima volta che facciamo tirocinio insieme e ne sono felice. Nonostante la sua aurea nera di oggi, è sempre un piacere passare del tempo con lui. Insomma, stupido cuore, la smetti di battere così forte al solo saperlo vicino per i prossimi mesi? “Luca, tutto bene?” annuisce. Sembra quasi che non mi abbia neppure sentito. “Se lo dici tu.” Si volta di scatto a guardarmi. È furente. “No che non va bene. Quel Carlo proprio non lo sopporto. Ecco cosa c’è.” Lo guardo stranita. Cosa avrà Carlo che non va? È un ragazzo così gentile. Cosa diamine succede a Luca? Non è mai stato così aggressivo e mai l’ho sentito parlare male di un collega. “Che ti prende?” Chiude con rabbia lo sportello dell’armadietto “Volevo darti questa, questa stupida collanina che ho visto in una bancarella sulla spiaggia di Malta. Volevo dirti che questa estate ti ho pensato molto e mentre i miei amici mi dicevano di cercare una ragazza per divertirmi, io pensavo a te, al nostro rapporto, al tempo che abbiamo passato insieme, a tutto quello che siamo e che potremmo diventare. È da ieri che voglio darti questa stupidissima collanina, ma è arrivato quel tronfio di Carlo, che ti gira sempre intorno e non ci lascia un attimo soli. Ecco cosa mi prende.” Respira affannosamente, mentre lo guardo stupita stringere tra le dita una collanina di cauciù con una tartarughina azzurra per ciondolo. Sbatto le ciglia. Devo essermi sognata tutto, perché è da più di un anno che vorrei sentirmi dire queste parole da Luca. (Piccola parentesi su quanto siano stupidi i “maschi”, che nemmeno si accorgono di quanto una ragazza gli giri in torno e poi, appena compare l’ombra di un altro della propria specie, si mettono a “marcare il territorio” e di quanto noi ragazze ci caschiamo ogni volta). Sospira e si scompiglia ancor di più i capelli “Scusa.” Sussurra “Non … scusa” e fa per andarsene. Per fortuna io mi riprendo dallo shock (da oggi, sono sicura, comparirà sui libri: shock da dichiarazione con sincope da innamoramento – sventata per poco, nel mio caso *) e lo blocco afferrandolo per il polso. “Anche io ti ho pensato molto questa estate, anzi per dirla tutta, ti ho pensato molto in questi mesi, facciamo in questi anni.” E lo guardo intimorita da sotto in su. Luca spalanca la bocca, stupito. Se avessi saputo che bastava un Carlo qualunque per farlo sbloccare lo avrei cercato, avrei chiesto ai miei amici maschi di girarmi un po’ intorno o avrei pagato qualcuno. Se poi ci sarebbero volute un po’ di vacanze per farmi notare da Luca gli avrei pagato un bel biglietto. A saperlo prima! Mi sarei risparmiata un bel po’ di paranoie ed elucubrazioni in merito. Ripresosi dal suo shock da dichiarazione, Luca mi sorride e mi porge la sua, anzi la mia, fantastica collanina, che, ovviamente, nel metterla, si impiglia con lo stetoscopio. Scoppiamo a ridere un po’ imbarazzati. Luca si scompiglia, se è possibile, ancor di più i capelli e si decide a darmi una mano. Le nostre dita restano incrociate anche se la collanina ha trovato il suo naturale posto al mio collo. Luca si avvicina, io mi avvicino, e, con gli occhi che luccicano, le nostre labbra si sfiorano timide, come quando il primo giorno ci siamo conosciuti: un po’ impacciati e timidi, come i nostri caratteri, che tra milioni si sono riconosciuti simili. Quando schiudo le labbra mi pare che un fulmine squarci il cielo oltre la finestra, nonostante sia una splendida giornata. Chiudo gli occhi e lascio che le mie mani trovino posto dietro la sua nuca, mentre quelle di Luca scendono a cingermi i fianchi. Tutto si fa più frenetico e ardito. I nostri corpi aderiscono l’uno all’altro e ci riscopriamo affamati, come se non aspettassimo altro e finalmente lo abbiamo trovato (ecco, in fondo è così, no?). Proprio come quando ci siamo conosciuti, timidi all’inizio, e poi il nostro rapporto si è consolidato inconsapevolmente e ci siamo scoperti molto più che timidi o impacciati, ci siamo scoperti persone calorose, accorate, con mille interessi e passioni, ben tenute nascoste dall’aurea di timidezza che lasciamo valicare a pochi. Così il nostro bacio si fa più profondo e caldo. Ci allontaniamo con fatica e affannati, con il sorriso sulle labbra. “Devo …” mi schiarisco la voce, che chissà dove è andata a finire. Luca mi guarda interrogativo. Mi volto a guardare l’armadietto, su cui siamo finiti addossati. “Ah, si, scusa.” E si allontana da me. Il mio corpo nota la differenza, la grande differenza. Tremante, mi sfilo il camice e lo stetoscopio e recupero le mie cose dall’armadietto. Quando mi volto penso quasi che Luca sia sparito come in un sogno e invece lo ritrovo nell’esatta posizione in cui l’ho lasciato, con un bellissimo sorriso, quel sorriso che, quando lo mostra, fa rischiare una sincope da innamoramento. Mi porge la mano e le nostre dita si intrecciano, come se fossero state create solo per questo. Mi avvicino a lui fino a sfiorargli il petto con la testa. Sento il suo cuore battere frenetico in sintonia con il mio. Anche loro devono essere stati creati insieme, con la capacità di battere all’unisono.


* In medicina si studiano i vari tipi di shock, assegnando differenti nomi in base alle cause. La sincope è lo svenimento. Io e una mia amica abbiamo coniato questi due termini (shock da dichiarazione e sincope da innamoramento – usato anche come sinonimo di: cade ai tuoi piedi) un pomeriggio di folle studio.

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Capitolo 2
*** La Follia di una sera ***


La Follia di una sera.

 
Rebecca ha appena dato un esame, dopo un periodo non proprio facile. Decide di festeggiare e di fare una follia. Cosa porterà nella sua vita la decisione di lasciare da parte la ragione, almeno per una sera?

 
L'esame lo avevo superato, con un bel voto anche. Era arrivato il momento di fare qualcosa di folle per festeggiare. Non che fosse mia abitudine, ma questa volta era stata proprio dura, sia per l'esame, che per la materia, che per il prof, che per il mio ormai ex ragazzo che aveva deciso di lasciarmi nel momento meno adatto: a dieci giorni dall'esame. La sua giustificazione? Ero una pazza scriteriata, tutta dedita allo studio e al lavoro in reparto, mai disponibile. Grazie tante, caro. Lo sapevi dall'inizio che studio medicina e se ci sei dentro non è poi così semplice. Dopo aver pianto un giorno ed essermi ubriacata per bene dopo averlo visto con una sua collega di lettere, evidentemente meno impegnata di me, ho deciso che non valeva la pena perdere mesi di studio così e allora ho impiegato il doppio delle energie per fare questo esame. Adesso sono qui, infilata in un abitino piuttosto corto, gentile prestito della mia amica Alice, ad una festa, con un mojito in mano e musica pulsante nelle orecchie. Non reggerò ancora per molto in questo inferno di caldo, musica assordante, ormai al terzo bicchiere della serata. Ho decisamente bisogno di aria. Alice è ormai un lontano ricordo, stretta al suo Riccardo, chissà dove, mentre io mi faccio largo tra la folla per uscire. Respiro finalmente l'aria frizzantina di febbraio, forse meglio dire gelida e mi stringo le braccia. Stupido abitino troppo corto e scollato di Alice. "Freddo?" una voce profonda alle mie spalle mi fa trasalire. Mi volto tremante non solo per il freddo, ma anche per una punta di terrore. Non sai mai chi incontri. Un ragazzo, un uomo meglio dire, sta appoggiato al muro accanto alla porta, con in mano un bicchiere di vino rosso. Mi stringo nelle spalle "Un po'." Mi fingo indifferente, ma una sana e sensata paura mi attanaglia lo stomaco. Fluente si stacca dalla parete, poggia il bicchiere quasi vuoto a terra e, con passo felpato, si avvicina, levandosi la giacca di pelle e porgendomela. Sbatto le palpebre, interdetta. "È chiaro che tu abbia bisogno di stare fuori da quel posto, almeno per un po’. Di smaltire un po’ di alcol e ripulirti i polmoni con aria fresca. Ti sto solo offrendo il mio aiuto.” Dice, mostrando poi un sorriso di scherno? Di sfida? Di malizia? Malizia? Un altro brivido percorre la mia schiena. Guardo la porta chiusa del locale e sento la musica ovattata attraversarla. Sono disposta a tornare indietro? Non adesso. La testa mi gira terribilmente. Non credo sia stata una buona idea eccedere così con l’alcol. Decido di accettare la strana offerta dello sconosciuto, che resta in maniche di camicia, mentre io mi stringo nella sua giacca di pelle, accogliendo un rivolo del suo profumo. “Grazie.” Sussurro interdetta dalla visuale dei suoi bicipiti muscolosi. Lui torna indietro per recuperare il suo bicchiere di vino e si poggia indifferente alla parete di mattoni. La porta del locale si apre inondandoci di musica, mentre una comitiva di ragazzi esce sghignazzando per accendersi una sigaretta. Uno di loro mi nota e si avvicina. “Ciao, bellezza. Ti va un tiro?” scuoto la testa stringendomi nella giacca dello sconosciuto, e una nuova soffiata del suo profumo invade le mie narici. “Su, solo un tiro.” Si avvicina sempre di più, mentre io mi sento paralizzata. Normalmente avrei urlato e cacciato un bel calcio, ma bisogna ricordare che sono al terzo bicchiere della serata e non sono molto abituata all’alcol, io. “Lascia in pace la mia ragazza.” La voce di quello che ha deciso di ergersi a eroe e salvatore della mia serata ci sovrasta e il ragazzo si scosta sogghignando. “Scusa, amico. Non avevo capito che fosse impegnata.” E si allontana tranquillo, come se niente fosse. “Non dovresti stare sola fuori da un locale. Non si sa mai che gente si incontra.” Alzo un sopracciglio scettica. Si rende conto che nemmeno lo conosco? Respiro, cercando di far entrare quanta più aria nei miei polmoni e un leggero capogiro mi stordisce. L’ormai eroe della serata mi stringe per un braccio e mi sorregge. Finiamo per scontrarci impercettibilmente. Lui annusa i miei capelli e io trattengo il fiato. Che diavolo mi prende. Normalmente non mi comporterei così né con un sconosciuto né con nessun altro. “Allontaniamoci da qui e andiamo in un posto più caldo.” Che sia arrivato il momento di compiere la mia follia? Adesso che sono a questo punto non sono proprio sicura di volerlo, ma non riesco a sottrarmi alla situazione che mi si presenta, così seguo lo sconosciuto, che continua a tenermi per un braccio. Scola l’ultimo sorso di vino e poggia il bicchiere su un muretto, mentre ci incamminiamo verso la sua auto. Sono forse impazzita? Va bene la voglia di una follia, ma salire sulla macchina di uno sconosciuto è da pazzi, malati o non so che altro. Mi blocco, sbarrando gli occhi. Lo sconosciuto mi guarda con due occhi di ghiaccio che, a dispetto del loro colore, sembrano fuoco. “Tranquilla, non ti faccio del male. Se avessi voluto, avrei avuto tutto il tempo per farlo. Ti riscaldi un po’, ti riprendi e poi torni indietro e non ci vedremo più.” Nuovamente, come mia abitudine, alzo un sopracciglio scettica e scruto i capelli castani scompigliati, studio la fronte distesa, gli occhi grigi scintillanti, il naso dritto e le labbra sottili. Un’insana voglia di baciarlo mi pervade. Un nuovo brivido percorre la mia schiena e questa volta non si tratta né di freddo né di paura. Annuisco, scrollando le spalle ed entro nella sua auto, dopo che lui mi ha aperto lo sportello. Entrato anche lui, accende il riscaldamento e sento finalmente i piedi riprendersi dal letargo freddo in cui erano finiti insieme alle mie gambe. Fisso la fila di macchine di fronte a me, in imbarazzo e a disagio. “Mi chiamo Rebecca.” Sussurro dopo un po’ “Mm?” mugugna lo sconosciuto. Mi volto a guardarlo e gli porgo la mano che esce dalle maniche della sua giacca. “Rebecca.” Lui guarda le mie dita e poi decide di stringerle tra le sue “Sei gelata, Rebecca.” Alzo il sopracciglio “E mi chiamo Andrea.” Sorride furbo. Una fila di denti bianchi e perfetti fa capolino fra le sue labbra e nuovamente il mio insensato desiderio di baciarlo si affaccia nella mia mente. “Che ci facevi in un posto come quello in un abito che evidentemente non è tuo?” lo guardo interdetta, mentre le nostre mani sono sospese l’una nell’altra nello spazio che ci divide. “È evidente da come ti muovi che non sei a tuo agio con il vestito che indossi. Continui a tirarlo giù sperando che compaiano dei centimetri in grado di coprire le tua gambe. Non ti sforzare.” Scoppia a ridere, mentre il suo sguardo si accende di divertimento e un pizzico di malizia. Mollo la presa della sua mano e furiosa ritorno a guardare la fila di macchine. Che diavolo ci faccio qui? Sbuffo sentendo un nuovo capogiro. Andrea poggia una mano delicata sulla mia spalla e si fa improvvisamente serio “Stai bene, Rebecca?” annuisco sconfitta e sbuffo “Ho avuto la felice idea di fare una follia dopo i mesi di sfinimento che ho passato. La mia amica Alice mi ha così prestato il suo vestito per venire a questa festa, che poi si è rivelata assordante, affollata e calda e io mi sono buttata su qualche bicchiere, direi di troppo data la mia scarsa abitudine all’alcol, mentre la mia amica non so dove sia finita con il suo ragazzo.” Sbuffo di nuovo per essermi lasciata sfuggire qualche parola di troppo. Mi volto a guardarlo, curiosa, e lo trovo sorridente, niente scherno, scherzo o altro sul suo volto, solo un sano e semplice sorriso. Sorrido anch’io, senza volerlo e restiamo a guardarci per qualche minuto. Poi iniziamo a parlare del più e del meno, di come lui sia finito in quel posto per staccare la spina e di altre cose stupide, senza mai passare oltre per una conoscenza più approfondita. Improvvisamente la tranquillità dell’abitacolo viene spezzata dal suono del mio cellulare. È Alice che mi cerca e vuole tornare a casa. Con orrore mi accorgo che sono le tre e mezza di notte e non oso immaginare come reggerò domani in reparto. Chiusa la telefonata, mi volto verso Andrea che mi guarda strano. Triste? Furioso? Le tre e mezza. La serata è passata e io la mia follia non l’ho fatta. Spinta da un desiderio represso per tutta la sera, mi avvicino ad Andrea e lo bacio sulle labbra. Sento il sapore del vino rosso sulle sue labbra, poi si fa strada il suo vero e intimo sapore. Lui risponde pronto alla mia follia insinuando la lingua tra le mie labbra alla ricerca della mia. La testa mi gira, ma non per l’alcol, ormai del tutto smaltito. Come vorrei essere più folle di così e restare in questa macchina con lui e ovunque mi voglia portare, ma la mia razionalità ricompare e nemmeno l’odio per il mo ex ragazzo mi fanno tornare indietro o l’alcol ormai solo un ricordo. Mi allontano e lo guardo un’ultima volta nei suoi occhi di ghiaccio caldi e lucenti e scendo dalla macchina correndo, consapevole che è stata la mai follia con uno sconosciuto che non rivedrò mai più. Solo quando arrivo a casa stanca mi rendo conto di avere ancora addosso la sua giacca di pelle.

La testa martella forte, attutita da un’aspirina presa appena sveglia. Il correttore ha fatto il suo dovere con le occhiaie, ma ammetto di non essere molto reattiva. Solo dopo due caffè ritorno lucida, anche se con un leggerissimo mal di testa, che cerco di scacciare continuando a massaggiare le tempie, nell’attesa del mio tutor. “Mal di testa?” mi volto di scatto incontrando sue occhi grigi inconfondibili. “Un po’.” Il sentore di deja-vu si fa strada. Andrea è appoggiato al davanzale della finestra di fronte a me e mi studia attento con un sorriso furbo sulle labbra. “Andrea Carilli. Tu devi essere la mia studentessa.” Guardo la sua mano uscire dalla manica del suo camice bianco immacolato. “Mm?” e scoppia in una sonora risata. Avrei mai potuto fare a meno di questo magnifico suono? Credo proprio di no. “Dottor Andrea Carilli, il tuo tutor.” Impacciata, stringo la sua mano e restiamo sospesi come nella sua macchina la sera prima. “Rebecca Ferreri, studentessa di medicina a quinto anno.” Mi passo la lingua sulle labbra e un brivido percorre la mia schiena ricordando il suo sapore sotto quello di vino. Ma come mi è saltato in mente di baciare uno sconosciuto, immaginando di non rivederlo mai più, quando invece questi è il mio tutor, il mio insegnate? Che gran casino e certo il mal di testa non aiuta a rendermi lucida. “Andiamo, Rebecca. Abbiamo del lavoro da fare.” Ed entriamo in reparto per il giro visite, compilare cartelle e cose simili. Andrea, anzi il Dottor Carilli, si mostra molto preparato, ma soprattutto molto professionale, a dispetto della serata di ieri e di tutto il resto e io ne resto allo stesso tempo affascinata, stordita e delusa. Delusa? Cosa mi aspettavo? Io l’ho baciato immaginando di non rivederlo mai più e ora vorrei qualcosa da lui, io che non ho avuto nemmeno il coraggio di vivere quello che avrei voluto ieri sera, perché avrei voluto che quel bacio non si fermasse mai, che ci fosse un seguito, magari su un comodo letto. 
Un nuovo caso giunge in reparto, occupando gran parte del nostro tempo. Quando finiamo vedo che abbiamo superato ampiamente l’ora di pranzo e il mio stomaco brontola incontrollato. Sollevando il capo, trovo il Dottor Andrea Carilli che mi guarda divertito. “Ora di pranzo?” annuisco abbagliata dal suo sorriso e dal colore dei suoi occhi. “Puoi andare. Immagino avrai lezione nel pomeriggio. Ci vediamo domani.” E mi sorride dandomi una pacca amichevole sulla spalla. Pacca che fa calare il gelo sul mio corpo. Che stupida che sono. Mogia mogia mi dirigo nello spogliatoio per prendere le mie cose. La porta non si chiude e furiosa e con stupide lacrime agli occhi faccio forza spingendola. Andrea, anzi il Dottor Carilli, irrompe nella stanza andando a segno chiudendo la porta con due giri di chiave. Lo guardo stupita e scettica, con il mio sopraciglio sollevato, incurante delle lacrime agli occhi. Lui veloce e quasi furente mi spinge al muro e mi bacia con foga. Ritrovo il suo sapore inconfondibile. Sento la pressione del suo corpo sul mio e sento che non mi basta. Anche lui sembra aver bisogno di altro, dal modo in cui mi tocca, si strofina e mi bacia. Ci stacchiamo ansanti e la dura realtà mi piomba addosso: io sono una studentessa e lui il mio tutor. Perché devo essere così razionale in un momento come questo? Mi passo la lingua sulle labbra e questo gesto sembra scuoterlo tutto. Si avvicina repentino e mordicchia il mio labbro. Una scarica di eccitazione mi percuote. “Non qui.” sussurra sulle mie labbra “Non possiamo.” rispondo io. Credo che non mi abbia capito fino in fondo. “Ascolti, io sono una studentessa lei il mio tutor, non possiamo fare questa follia.” Allora perché sento un nodo alla gola mentre lo dico? Perché trovo assolutamente perfetti i nostri corpi l’uno contro l’altro e i nostri respiri mischiati? Andrea Carilli non si infuria, ma anzi mi guarda dolce e mi accarezza la guancia. “Si che possiamo. Io sono Andrea e tu Rebecca e basta. Qui siamo studentessa e tutor, ma fuori possiamo essere tutto quello che vogliamo, come ieri sera. E poi tu non sarai in eterno una studentessa o io il tuo tutor. Abbiamo una via davanti per essere tutto quello che vogliamo. Non ho chiuso occhio ricordando la consistenza delle tue labbra e il tuo sapore. Stamattina quando ti ho vista entrare qui mi sembravi un miraggio, ma non potevo sbagliarmi: indossavi la mia giacca.” Già, avevo la sua giacca. Indossandola avevo la sensazione di avere il suo odore addosso, di non essermi allontanata da lui, di non aver passato delle ore solo con uno sconosciuto, di averlo baciato per non incontrarlo mai più, di aver fatto solo la follia di una sera. Scoppia a ridere e io lo guardo scettica. Lui traccia con l’indice il mio sopraciglio. “Mi piace quando lo sollevi su e adoro come ti sta la mia giacca, ma più di tutto amo come ti sta il camice. Si vede che sei a tuo agio, che è il tuo mondo, il tuo abito. Sei maledettamente bella. Hai rischiato di farmi morire questa mattina e di mandare all’aria il mio lavoro per baciarti di fronte a tutti. Anzi, dobbiamo ricordare al paziente della 23 che sei impegnata e che non può metterti gli occhi addosso così.” Scuoto la testa tra il divertito e il risentito. Il paziente della 23 è un ragazzo di trentacinque anni che mi ha fatto un paio di complimenti appena entrata nella sua stanza, ma nulla di più. Non pensavo che Andrea ne fosse risentito. “Non scherzare, Gianni ci ha spudoratamente provato con te e non mi piace. Posso farti solo io i complimenti e baciarti e stringerti e respirarti e viverti.” Resto interdetta alle sue parole “Rebecca, faccio sul serio, mi piaci sul serio e se continuiamo a stare così giuro che dimentico dove siamo e ti faccio mia su questo pavimento. Vuoi che la faccia io una follia?” Dice con una punta di esasperazione nella voce. Mi prendo qualche minuto per studiarlo. I capelli scompigliati, le labbra sottili leggermente arrossate e gli occhi di ghiaccio scintillanti e caldi, ma soprattutto sinceri. Lo bacio piano e delicata. “Anche io adoro come ti sta il camice e questa mattina mi è quasi venuto un infarto quando ti ho visto, bello e tranquillo appoggiato al davanzale, come se nulla fosse.” Mi mordicchia il labbro “Come se nulla fosse? Ma se il mio cuore andava a cento all’ora? Rebecca, dobbiamo fare un po’ di pratica nell’osservazione del paziente e nel cogliere i segni della malattia.” Dice divertito e io lo spintono, fingendomi offesa. Mi sfilo il camice e ripongo tutto nello zaino. Con la sua giacca tra le mani, ritorno a guardarlo. Sorrido per cancellare la punta di terrore che vedo nei suoi splendidi occhi “Ma tu non eri malato e non era mio compito analizzare il tuo stato.” Si avvicina furbo e mi abbraccia annusando i miei capelli “Ma possiamo giocare al dottore e all’ammalato se ti va.” un brivido percorre la mia schiena “E tu faresti l’ammalato? Ma non sei il mio tutor, quello che deve insegnarmi tutto a quanto dici?” ridacchia divertito “Sarebbe una nuova forma di insegnamento.” Lo allontano e lo guardo seria “Non ti permetto di insegnare così ad altre studentesse.” Lui scoppia a ridere e mi bacia sfuggente “Nessuna studentessa è come te, Rebecca. E io voglio insegnare solo a te. Te lo ripeto: mi piaci sul serio e ho proprio voglia di viverti. Non mi basta la follia di una sera, io voglio una follia che duri per sempre, perché credo non potrebbe bastarmi qualche cosa di meno.” Questa volta lo bacio io. “Va bene Dottor Carilli. Accordo fatto. Sono pronta ai suoi insegnamenti. Ci vediamo questa sera?” chiedo leggera, rassicurata dal suo tocco e dalle sue labbra a pochi millimetri dalle mie. Lui annuisce prima di annullare la distanza tra di noi ma io mi scosto leggermente e gli porgo la sua giacca “E questa è sua e credo stia meglio a lei che a me.” lui la prende e se la getta sulla spalla “Ha molto da imparare, anche su questo, signorina Ferreri. Io credo che stia meglio a lei, ma abbiamo tempo per provare, no? Anzi, a proposito di abiti, crede che possa rivederla con quel magnifico abitino di ieri sera?” Lo guardo sollevando come sempre il sopraciglio “Ma non avevi detto che era evidente che non ero a mio agio.” Annuisce “Ma mi piacciono da morire le tue gambe e vuoi mettere la soddisfazione di prestarti di nuovo la mia giacca e vedertela addosso?” Scoppio a ridere divertita e gli getto le braccia al collo, mentre lui mi cinge la vita e ci baciamo incuranti di tutto e tutti, consapevoli che non si tratta di un singolo bacio tra sconosciuti, ma di uno tra i tanti che ci scambieremo, per l’inizio di qualcosa da vivere insieme, forse una follia per sempre.



Angolo Autrice: Salve a tutti, eccomi qui con una nuova OS. Che ve ne pare? Non chiedetemi da dove sia uscita perchè non ne ho proprio idea ahahahah credo di volerlo io un tutor così. Domanda: credete che vada ancora bene il rating verde o devo passare a quello giallo? Mi fate sapere cosa ne pensate, please? Grazie a tutti per esserci. Un bacio e alla prossima OS che non so chi avrà come protagonisti, forse dei pazienti, ma vedremo cosa ne verrà fuori. Spero che intanto i due capitoli fin qui pubblicati siano di vostro gradimento. Un bacio e a presto.

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Capitolo 3
*** Un istante per tornare a vivere ***


Un istante per tornare a vivere
 
Elisa vuole superare questo periodo difficile e dimenticare tutto. Si sente bloccata in un mondo che non vuole, ma un incontro, o meglio uno scontro inaspettato, cambierà la sua situazione. Elisa si aprirà di nuovo alla vita?

 
La gente va avanti, passa oltre un ostacolo, un rapporto fallito, un progetto andato in fumo, un licenziamento, una partenza forzata, un addio. La gente va avanti, ma tu resti bloccata lì, in un tempo indefinito, senza capire né sapere cosa e come fare. Medici e infermiere indaffarate ti passano sotto gli occhi, odore di disinfettante e medicine da respirare e sembra non scalfirti nulla. 
Sono tre mesi che faccio questa vita, vedo sempre gli stessi muri, le stesse facce, sento gli stessi odori e nessuna cosa sembra avere importanza. Bloccata, come se in coma ci fossi io e non mia sorella. Un incidente. Nemmeno ho capito bene come è avvenuto e siamo qui, io e lei, in una stanza di un ospedale, reparto rianimazione. Lei immobile distesa su un letto, circondata da una serie di “bip”, gli stessi “bip” che sembravano assordarmi i primi giorni e ora nemmeno ci faccio più caso. Mi sono abituata ed è triste. Mi sono abituata a questa immobilità, a questo scorrere del tempo invisibile, a questo odore, a questi “bip” ed è triste e sono triste. Siamo sole, io e mia sorella. I nostri genitori sono morti molti anni fa e noi abbiamo imparato a bastarci l’una a l’altra, a essere l’una la famiglia dell’altra e adesso siamo qui. La nostra casa non è nemmeno più casa nostra. Ci torno solo per dormire qualche ora e fare una doccia e poi torno qui. Per fortuna il mio capo mi ha concesso un’aspettativa e resto qui tutto il giorno in attesa che mia sorella si svegli. Mi sento come in un limbo, senza sapere dove andare e cosa fare. 
“Buongiorno, deve uscire.” Mi comunica fredda un’infermiera. Questa è quella antipatica. Per fortuna è la sola, insieme a due o tre dottori. Troppo spocchiosi, troppo altezzosi, troppo iosonoaldisopradituttoetutti per occuparmi dei sentimenti di quelli che stanno qui, non certo per piacere. Vorrei spiegar loro che di certo non abbiamo scelto io e mia sorella di venire qui. Sbuffo uscendo. In questi tre mesi ho visto di tutto e incontrato gente di ogni tipo, ma anche questo non mi ha sfiorata. Nulla mi interessa. Io sono immobile come mia sorella in quel letto. Scendo al bar a prendere un caffè. Odio vedere gli altri familiari che escono dalle stanze come quella di mia sorella, con occhi arrossati e stanchi, distrutti, proprio come me, sarebbe come specchiarsi e io non voglio vedermi. Per questo non ho fatto amicizia con nessuno. Non voglio trovare legami qui, in questa condizione. Vorrei dimenticare tutto presto. “Ma che ci fai qui?” chiede la barista a un ragazzo che si avvicina al bancone, mentre io osservo la scena con il mio caffè in mano, seduta a uno dei tavoli. “Sorpresa!” Dice felice lui e scoppiano a ridere. Mi ritrovo a sorridere anch’io. Sembra come vedere uno spicchio di normalità in un posto che di normale ha poco, uno spruzzo di felicità dove c’è solo tristezza. Finito il caffè pago e faccio per uscire, ma il ragazzo al bancone si gira e si scontra con me, facendomi cadere a terra. “Oh, mi scusi.” E mi porge una mano, mentre l’altra la tiene ben stretta al corpo, nascosta dal giubbotto. La afferro e mi alzo da terra, mentre i suoi occhi non smettono di studiarmi. Sollevo il capo e incrocio due splendenti occhi verdi, capaci di rapire tutta l’attenzione. “Sta bene? Mi scusi ancora.” Scuoto il capo “Non si preoccupi, va tutto bene.” le nostre mani restano l’una nell’altra “È sicura di stare bene? Mi sembra così …” spalanco gli occhi, sento un leggero rossore alle guance e poi lo guardo accigliata, offesa. Cosa voleva dire? Stanca, spossata, malata, triste? Sono tutte queste cose e molto altro, ma lui, uno sconosciuto, non ha certo il diritto di dire, fare o pensare qualsiasi cosa su di me. “Sto bene.” dico risoluta ed esco a passo spedito sbuffando. Quasi di fronte alla porta che conduce alle scale una mano si poggia sulla mia spalla “Mi scusi.” Poi scivola e mi prende per il polso facendomi girare, senza mai forzare, sorprendendomi con tanta delicatezza. Mi ritrovo a fissare gli occhi verdi dello sconosciuto del bar e nuovamente mi sento terribilmente attratta, rapita. “Mi scusi per prima, non avrei dovuto. Non solo l’ho spinta e fatta cadere a terra, ma mi sono permesso di … Ahi!” Qualcuno lo ha spinto da dietro, colpendolo sulla spalla e facendolo scontare con me. Per non sbilanciarsi e pesarmi addosso, lascia il mio polso e poggia la mano sulla parete che mi sta dietro. Mi ritrovo così costretta in uno spazio piuttosto ristretto, tra la parete e il suo corpo. Un profumo di fresco, limoni mi sembra, mi arriva al naso e poi alla testa, stordendomi leggermente. Imbarazzata lo guardo e ritrovo i suoi occhi ardenti fissarmi, studiarmi, e un leggero sorriso a disegnare le labbra già perfette. “Ecco, non ne combino una giusta.” Si stacca dalla parete, non allontanandosi però molto da me e si porta la mano a tastare delicatamente la spalla colpita. Seguo i suoi movimenti e solo ora mi accorgo che non la muove e che ogni leggero strofinio corrisponde a una smorfia di dolore sul suo viso. D’istinto, circondo con le dita il polso dell’arto sano per fermarlo. “Cosa hai fatto?” Lui si blocca e ritorna a guardandomi, sorridendo un po’ imbarazzato. Mi ripeto mentalmente le parole pronunziate e mi rendo conto di aver commesso due errori: 1. Mi sono rivolta a lui dandogli del tu 2. Mi sono impicciata dei suoi affari, facendo quello che lui ha fatto poco prima con me e per questo guadagnandosi il mio cipiglio. Abbasso gli occhi mortificata “Mi scusi, non avrei dovuto essere invadente con lei.” Cerco di riparare ai miei errori. Mi solleva il mento con due dita, sempre delicato, e ritorna a studiare il mio viso. “Non si preoccupi e devo dire che non mi dispiace che mi abbia dato del tu. Se me lo permette vorrei poterlo fare anch’io.” Annuisco rapita nuovamente dal colore dei suoi occhi. Ora che li osservo meglio, a una distanza piuttosto ravvicinata (e questo mi causa parecchi problemi cardiaci), si possono notare delle sfumature più scure, marroni, immerse in un verde che ricorda molto i prati in primavera. “Bene, mi chiamo Giacomo.” E mi porge la mano. Mi ritrovo nuovamente a stringerla e mi trovo colpita dalla straordinaria delicatezza che sembra accompagnare ogni gesto di quest’uomo. “Sono Elisa.” Il leggero sorriso sulle sue labbra si accentua, senza che le nostre mani si lascino. Poi lui, come scosso da qualcosa, abbandona la stretta e un po’ imbarazzato si passa la mano tra i capelli ricci neri, scompigliandoli leggermente. “Sono un poliziotto e in una sparatoria mi hanno sparato ferendomi alla spalla.” Lo guardo sconvolta e terrorizzata “Non preoccuparti, per fortuna è finita bene. Una ferita non profonda, che però ancora mi da un po’ di fastidio e che mi ha costretto a stare qualche giorno in ospedale e a un forzato periodo di riposo.” Fa una smorfia di disappunto. Deve piacergli molto il suo lavoro. “Oggi sono venuto per un controllo e mi hanno detto che la guarigione procede bene. Sono stato fortunato.” Ritorna a sorridere e di conseguenza lo faccio anch’io. Ha un bel sorriso. Un gruppo di medici e infermieri di corsa ci passa accanto e questo mi riscuote, ricordandomi dove sono e perché. Giacomo mi ha fatto perdere la cognizione del tempo e dello spazio. Per la prima volta in questi tre mesi ho dimenticato per un attimo mia sorella, l’incidente, il coma e il tempo sembra essersi fermato non perché la mia vita si è fermata con lei la sera del suo incidente, ma perché ho passato pochi minuti in compagnia di una persona molto piacevole. L’angoscia mi pervade e mi sento terribilmente in colpa di aver abbandonato mia sorella, di averla dimenticata. Che diritto ho io di vivere se lei è immobile? “Elisa, stai bene?” Ritorno a guardare Giacomo. In realtà non ho mai smesso di farlo, ma era come se non ci fosse, come se i miei occhi non lo vedessero veramente. Mi scruta preoccupato. Annuisco, nascondendo, senza riuscirci, un singhiozzo. Giacomo mi guarda sempre più preoccupato e cerca di scorgere i segni del mio dolore. “Sto bene. Mi spiace, Giacomo, devo andare. Mi ha fatto piacere conoscerti e ti auguro di guarire presto. Buona vita.” E scappo su per le scale, sentendo appena la sua voce chiamarmi per un’ultima volta.

Qualche giorno dopo

Seduta su una sedia, leggo uno dei miei passi preferiti de “Orlando Furioso” di Ludovico Ariosto. Può sembrare pesante, strano, ma mi piace spaziare nella lettura. Si tratta del canto che narra di Astolfo sulla luna in cerca del senno di Orlando. Ogni volta che mi capita di leggerlo ne resto meravigliosamente stupita. Concentrata sulla lettura, sobbalzo spaventata quando una mano si poggia sulla mia spalla. “Scusami, Elisa non volevo spaventarti.” Mi sento dire mentre alzo gli occhi su Giacomo. Rimango colpita nel vederlo in divisa, anche se con la spalla immobilizzata. Gli sorrido per rassicurarlo. “Tranquillo. Che ci fai qui?” mi sorride e si siede accanto a me, sbirciando il libro che tengo tra le mani “Orlando Furioso?” chiede curioso e io annuisco “Lettura interessante. Ero di passaggio in queste zone e sono venuto a trovare un amico.” Lo guardo curiosa e senza che abbia bisogno di chiedere di chi sta parlando lui continua “Si tratta di un mio collega. Hai presente la sparatoria in cui sono rimasto ferito? A me è andata meglio. Questo mio collega invece è stato più sfortunato: è rimasto in come per qualche settimana e dopo il risveglio gli tocca un periodo di riabilitazione in ospedale.” Lo osservo mentre racconta serio e triste del suo collega “Deve essere stato terribile.” Sussurro. Lui, che per tutto il racconto ha tenuto gli occhi fissi di fronte a sé, come in ricordo di quanto successo, ritorna a guardarmi e sorride amaro. “Ho creduto di morire e vedere Marco, il mio collega, inerme su quel letto mi ha fatto sentire terribilmente in colpa. Perché lui e non io?” Una lacrima riga la mia guancia e lui la segue attento, ma prima che giunga salata alle mie labbra, lui la asciuga e lascia che il suo dito umido accarezzi la mia bocca. Io lo lascio fare rapita dai suoi occhi e dalla sua dolcezza. “Tu perché sei qui?” mi chiede piano, quasi con paura che possa scappare di nuovo. Deglutisco a fatica perché la sua storia mi ha naturalmente ricordare mia sorella e la sua immobilità che ha trascinato anche me in un limbo senza tempo, a tutte le volte che ho pensato, come Giacomo, perché lei e non io? “Mia sorella.” Rispondo dopo molto tempo, con ancora il dito di Giacomo sulle labbra, che si muove con esse mentre parlo. Un singhiozzo sfugge al mio controllo e scoppio a piangere, mentre Giacomo mi accoglie tra le sue braccia. Dopo tre mesi piango, perché in tutto questo tempo non l’ho mai fatto. Sono rimasta impassibile, non ho versato neppure una lacrima. Né la stanchezza né il dolore mi avevano fatto crollare e ora, dopo tre mesi, piango tutte le lacrime trattenute e nascoste, inumidendo la divisa di Giacomo. Lui mi stringe al suo petto e mi accarezza i capelli, cullandomi nel suo abbraccio. Non so quanto tempo passiamo così, non so quante lacrime verso, ma alla fine, quando sento di non averne più, mi sento come liberata da un peso, mi sento serena. Mi sollevo e lo guardo con un sorriso sulle labbra e tanta gratitudine. “Mia sorella tre mesi fa ha avuto un incidente ed è in coma.” Lui mi abbraccia di nuovo e poi poggia un bacio delicato sulla mia tempia. Affondo la testa nell’incavo del suo collo e respiro il suo profumo di limoni. Socchiudo gli occhi e osservo le mia dita accarezzare piano la sua spalla ferita. Giacomo sussulta e mi sollevo preoccupata, forse gli ho fatto male. Lui per tutta risposta mi sorride e accorcia ulteriormente la distanza che divide i nostri volti. “Non devi sentirti in colpa. So perfettamente che è difficile, ma non è colpa tua. Ti prego non chiederti perché lei e non tu, non commettere il mio stesso errore.” E continua a sorridermi, mentre il suo respiro accarezza la mia bocca, trasmettendomi un tremito di eccitazione. Dopo tre mesi ho pianto e dopo tre mesi ritorno a sentirmi viva, tra le braccia di un ragazzo che ha rischiato la vita e che ho incontrato nell’unico posto e nel momento nei quali non avrei voluto creare legami e avere ricordi. Anche questo fa parte della vita, come il dolore, la malattia, la tristezza e non possiamo essere noi a decidere quando e come deve avvenire. Gli sorrido e sono io a compiere l’ultimo passo, lasciando che le nostre labbra si congiungano. Lui, come me, viene percorso da un brivido a questo contatto e risponde in pieno al bacio, prima delicato, dolce, quasi timido e poi profondo, sensuale, quasi famelico. Mi sento in un limbo, di nuovo, ma questa volta è un “senza tempo” piacevole e intenso, dove per la prima volta non provo angoscia e soprattutto solitudine. Lo schiarirsi di una voce ci fa sussultare. Alzo gli occhi imbarazzata su un medico che sta in piedi di fronte a noi. “Signorina Elisa, si tratta di sua sorella.” Scatto in piedi terribilmente in colpa per essermi lasciata andare, ma non faccio in tempo a formulare strani pensieri che Giacomo mi imita stringendomi la mano. Mi volto a guardarlo e mi sorride complice. Lui è qui con me, qualsiasi cosa accada. Di rimando stringo ancora di più la sua mano e insieme corriamo alla stanza di mia sorella, con il terrore che sia successo qualcosa di terribile e la speranza che sia arrivata una novità buona. Neppure aspettiamo che il medico ci spieghi cosa voleva dirmi e non facciamo caso a tutti quelli che incontriamo. Di fronte la stanza di mia sorella, di nuovo con le lacrime agli occhi, ma sempre con le dita intrecciate a quelle di Giacomo, scorgo dal vetro due medici e mi faccio prendere dal panico. Scendo a guadare mia sorella e scoppio a piangere per la sorpresa: lei dal vetro mi guarda sorridente. Si è svegliata. Giacomo mi stringe a sé e mi bacia la fronte, asciuga le mie lacrime che scendono incontrollate e mi posa un bacio sulle labbra.
Dopo tre mesi il mio mondo ha ripreso a girare e nella sofferenza ho scorto una briciola di felicità e ora questa felicità si è accresciuta e si accrescerà ancora, perché mia sorella ha ripreso a vivere e io insieme a lei e ho incontrato Giacomo, che ha saputo trovarmi e riprendermi dall’abisso dove ero finita. Adesso la vita ha inizio.


Angolo Autrice: Salve a tutti. Questa storia è diversa dalle altre e ammetto che è stata più difficile da scrivere. Spero vi piaccia. Vi prego, fatemi sapere cosa ne pensate, di questa e di quelle in precedenza pubblicate. Si accettano critiche, proposte, opinioni, qualsiasi cosa. Come scritto nell'introduzione alla raccalto, ho aggiunto all'inizio di ogni capitolo un breve riassunto, così sapete cosa vi aspetta e potete scegliere cosa leggere e quando leggere, trattandosi di storie autonome l'una dall'altra potete scegliere cosa e quando leggere. Spero apprezziate il lavoro fatto. Baci, alla prossima.

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Capitolo 4
*** Favola di Natale: LA REGINA DI GHIACCIO E I PORTATORI DI SPERANZA ***


Liberamente ispirata a una persona molto importante, a cui la dedico con tutto il cuore. Buon Natale!

 
Favola di Natale
LA REGINA DI GHIACCIO E I PORTATORI DI SPERANZA

 

Mi ci vogliono ben due caffè per riprendermi. Questo tirocinio a pediatria mi sta distruggendo. Amo quello che studio, amo quello che farò da grande, ma il tirocinio a pediatria risulta il più impegnativo di tutti. Sarà per i bambini a cui dobbiamo sempre stare appresso? Ma sono così adorabili ed è difficile dire loro di no. Certo, il librone sulla mia scrivania non aiuta molto a rendermi sveglia, felice e pimpante. Se ci penso, mi viene la nausea. Ma chi me l’ha fatto fare programmare un esame a dicembre? Sto impazzendo. “Margherita?” Abbasso lo sguardo su una nanerottola di cinque anni, con due occhioni nocciola che mi fissano supplicanti. “Dimmi, Letizia.” Le sorrido. Come si fa a non amarli? “Vieni a giocare con me? Ti prego!” Gli occhi le si riempiono di lacrime, mentre, singhiozzando, mi dice che ieri sera hanno portato via la sua amica del cuore, nonché compagna di stanza. Per fortuna la bambina di cui parla è stata dimessa, ma Letizia è triste. Come spiegarle adesso che oggi potrò arrivare alla sua stanza solo fra due ore? Oggi il mio tutor mi vuole a suo fianco per affrontare i genitori di Davide. Purtroppo per loro non abbiamo buone notizie. Se penso allo scricciolo di due anni a cui non riusciamo a fare una diagnosi certa, mi viene un nodo alla gola. Se solo riuscissimo a capire perché peggiora di giorno in giorno. Vorrei poter dare ai suoi genitori una buona notizia, vorrei poter donare loro un sereno e felice Natale. Mi riscuoto e abbraccio Letizia per farla calmare. “Tesoro, oggi purtroppo non posso venire a giocare subito con te. Ma ti prometto che appena finisco corro da te e mi faccio perdonare.” Sporge il labbro, triste, e mi guarda con gli occhi lucidi. Come faccio? “Piccola?” una voce alle mie spalle ci distrae e mi volto a guardare chi è. “Se parli con me, non sono piccola.” Dice piccata Letizia, fissando Marco. Scoppio a ridere. Mi alzo e lo vado a salutare con un bacio sulla guancia. “Che ci fai qui?” chiedo curiosa. Lui scrolla le spalle. “Sono venuto a giocare con i marmocchi.” Alzo il sopracciglio, scettica. “Cos’è, i tuoi amichetti ti hanno dato buca e sei in cerca di compagnia?” Chiedo divertita. “Proprio così!” e ghigna “Mi accompagni nella sala giochi e mi fai un po’ di compagnia? Mi sento così solo.” Dice rivolto a Letizia. Lei lo guarda scocciata, poi, sbuffando, stringe la mano che le offre e si allontanano insieme.

Dopo aver parlato con i genitori di Davide, io, il mio tutor e la sua squadra, abbiamo fatto il punto della situazione. Abbiamo rimesso in gioco vecchie ipotesi e proposto di nuove. A Davide domani toccherà una nuova serie di analisi. Spero solo che serva a qualcosa. Sfinita, stremata, ma soprattutto triste, mi avvio allo spogliatoio per recuperare le mie cose. Quando passo di fronte la sala giochi, scorgo dalla porta Marco. È seduto a terra, a gambe incrociate. La risata della piccola Letizia riempie la stanza, mentre Marco la guarda felice. Chissà che cosa hanno fatto tutto questo tempo. Marco si volta a guardarmi e i suoi occhi brillano, i capelli castani risplendono illuminati dal sole e delle simpatiche fossette compaiono a fianco del suo sorriso. Mi fa segno di avvicinarmi a loro. Resto qualche secondo ferma a guardarli. Qualche secondo di troppo, direi. Lui alza un sopracciglio interrogativo e io mi riscuoto. Letizia mi viene incontro. “Finalmente sei arrivata.” Mi abbraccia, mentre io guardo dall’altro Marco, ancora seduto per terra, alle sue spalle. Mi sorride. Ha un bel sorriso, un sorriso che mette il buon umore e io ne ho proprio bisogno. «Secondo me ti piace, è solo che hai paura di ammetterlo. Non succede nulla se lo dici.» Mi ritornano in mente le parole della mia amica Carla. Lei e i suoi discorsi assurdi. Sbuffo e mi siedo di fronte a Marco, con il piccolo koala aggrappato a me. “Allora, che avete fatto di bello?” chiedo ad entrambi. Ovviamente è Letizia a sommergermi di racconti di disegni, giochi, storie e favole. “Sai … “ dice a un certo punto “… abbiamo inventato la storia di una principessa che si divertiva a rincorrere le farfalle. Ma lo sai che le farfalle sono i miei animali preferiti?” E come dimenticarlo? “E poi si sbucciava un ginocchio cadendo e allora arrivava una fata vestita di bianco, che la faceva guarire. L’abbiamo chiamata Margherita, come te. Ti piace?” annuisco e le do un bacio sul nasino. “Ti somigliava anche questa fata. Era bella come te.” Per la prima volta interviene Marco, che mi guada serio, con una strana luce negli occhi. Io arrossisco e ringrazio mentalmente Letizia che mi tiene ancora abbracciata, nascondendomi ai suoi occhi. «Ma poi come fai a dire che non gli interessi? Si vede da come ti guarda che non è così.» di nuovo le parole di Carla. Mi sembra quasi di vedere una sua miniatura, sulla mia spalla, gesticolare mentre parla. Come un diavoletto o un grillo parlante.  
Io e Marco usciamo in silenzio, dopo aver accompagnato Letizia nella sua stanza. Perché mi sento così a disagio? È Marco, solo Marco. Quello stesso ragazzo che ho conosciuto per caso ad un corso facoltativo, un ragazzo che a primo sguardo nemmeno mi stava simpatico. Un ragazzo, che, senza che me ne rendessi conto, è invece entrato a far parte della mia vita, piano, piano. Un ragazzo che mi ha invitato a festeggiare con lui un 27 di una materia data esattamente un anno prima. Me lo ricordo ancora quel giorno: Io e Carla eravamo andati a seguire gli esami di una materia che presto avremmo dato e lì lo avevo rivisto dopo mesi. Io e Marco non avevamo mai avuto un gran rapporto, solo qualche frase scambiata per caso, per cortesia. Niente di più e niente di meno. Carla sosteneva che in realtà ci fosse molto altro sotto, da parte di entrambi. I sorrisi, i racconti che le facevo, per lei erano molto di più. Inguaribile romantica! Lei e le sue favole: fantasticherie di una sognatrice ad occhi aperti. «Regina di ghiaccio», mi avrebbe risposto lei. Al di là delle assurde idee di Carla, Marco è diventato una parte importante della mia vita. Allora perché sentirsi in imbarazzo così? 
“Ti va se mangiamo qualcosa insieme?” mi propone e io sono tentata di rifiutare, ma voglio dimostrare a me stessa che non c’è alcun motivo per rifiutare e continuare a rimuginare sul nostro rapporto. Quindi accetto. Bella coerenza, la mia.  Ci sediamo al tavolo di un bar poco distante e ordiniamo un panino, che divoro, letteralmente. Non mi ero nemmeno resa conto di avere così fame. Ci scambiamo poche parole, su lezioni e argomenti da studiare. Marco è un anno più grande di me ed è sempre pronto a darmi consigli utili. È un buon collega, oltre che un buon amico. Gli piacerebbe diventare un pediatra e io lo vedo proprio circondato dai piccoletti, prendersi cura di loro e dei loro genitori. “Fai l’internato a pediatria adesso?” chiedo curiosa, mentre restano gli ultimi bocconi del mio panino prosciutto e mozzarella. Scuote la testa “No. Ormai da due anni vado lì per le mie vacanze di Natale a passare un po’ di tempo con i bambini ricoverati e i loro genitori. È il periodo più triste dell’anno da passare dentro un ospedale. Mi piace vederli sorridere almeno un po’. É l’unico momento che ho per prendermi cura di loro così, perché per il resto dell’anno mi tocca studiare e frequentare i tirocini e l’internato. Sai bene che è una vita piuttosto frenetica, ma ci tengo a fare questa cosa. Credo che curare una persona sia anche questo.” È un ragazzo eccezionale: ha un grande cuore, è uno studente modello, molto responsabile e poi si vede chiaramente che quello che studia, quello che fa, lo appassionano. Un giorno sarà un grande medico. Poggio la mano sulla sua e anche io sussulto per il contatto inaspettato. Mi guarda interrogativo. Mi schiarisco la voce “Sarai un grande medico.” Sorrido un po’ imbarazzata, ma mi rifiuto di scostare la mano dalla sua. Che diavolo mi prende? Sento diffondersi un leggero rossore sulle guance e il cuore iniziare a battere ad una velocità maggiore. Cosa mi succede? Perché improvvisamente prendere un panino con Marco è diventato così imbarazzante? Perché parlare con lui è diventato così … così … emozionate? Mi alzo di scatto, rossa in viso. “Scusami, devo andare. Ho un esame tra pochi giorni e devo studiare.” Gli sfioro la guancia con un bacio “Auguri, se non ci vediamo, passa delle belle vacanze.” E quasi scappo via. Ma prima di scomparire del tutto dalla sua vista faccio il fatale errore di voltarmi a guardarlo e non posso fare a meno di notare il suo sguardo corrucciato. Agito la mano in segno di saluto e lui risponde aprendosi in un sorriso, facendo ricomparire quelle stramaledette fossette. Io adoro quelle fossette. Mi vorrei prendere a botte in testa. Devo aver preso uno strano virus. Da quando adoro le fossette di Marco? Da quando mi incanto a guardare il suo sorriso e i suoi splendidi occhi nocciola, che brillano? Ma hanno sempre brillato così? 

Carica di un buon risultato ottenuto, ritorno in reparto sorridente e carica di energie come non mi capitava da tempo. L’ansia per l’esame, unita alla stanchezza, mi aveva sfinito. La mia felicità, però, viene subito spazzata via dalla cattiva notizia che mi comunica il mio tutor: la diagnosi per il piccolo Davide non è affatto buona. Ci toccherà comunicarlo oggi ai suoi genitori. Vorrei poter fuggire, dimenticare tutto, o meglio far finta di dimenticare. Ma il mio tutor mi vuole a suo fianco e questa cosa mi sembra così ingiusta. Non sono ancora un medico, non sono ancora pronta per affrontare una situazione del genere. Presa dal panico, chiedo qualche minuto prima di andare dai genitori di Davide e mi precipito fuori per prendere aria. Ma, ancora prima di raggiungere l’ingresso, mi scontro con Marco. Distratta e con il capo chino, non l’ho visto arrivare e ci sono finita addosso. “Scusa. Non ho fatto in tempo a scansarmi.” Mi dice. Io non ho nemmeno la forza, e forse nemmeno la voglia, di allontanarmi. “Che succede?” mi solleva la testa e mi fissa preoccupato. Come farò a diventare un medico se non riesco a reggere una notizia negativa? Forse questo lavoro non fa per me. Scuoto la testa e cerco di cacciare indietro le lacrime. Povero piccolo Davide. Con quale coraggio daremo questa notizia ai suoi genitori? “Ehi, vieni qui.” Mi abbraccia, mi stringe a sé e io non posso più controllare le lacrime. Quando smetto di singhiozzare mi prende per mano e mi conduce attraverso un corridoio e mi fa entrare in una stanza piena di scartoffie, tutta in disordine. Deve essere una specie di archivio o sgabuzzino. La luce della lampadina, unica fonte, è fioca. Attraverso la porta si sentono i bambini del reparto cantare qualcosa. Osservo la porta chiusa e ritorno a pensare al piccolo Davide. Potrà mai tornare a cantare, correre e giocare? “Quando si avvicina il Natale, c’è una tradizione da rispettare in questo reparto: vedere un cartone animato al giorno. I bambini lo adorano e di solito iniziano a cantare le canzoni.” Mi spiega. Deve essere un canto del genere che si sentiva poco fa. Marco sorride quando porto gli occhi su di lui. “Non dovrebbero illudere i bambini così. il mondo reale non è quello dei cartoni animati o delle favole.” Lui per risposta prende le mie mani tra le sue. “Che succede?” mi chiede, serio, quasi preoccupato. Non sono mai stata così cinica, non fino a questo punto. Io sto in silenzio per un po’ ad osservarlo e a bearmi del calore che le sue mani danno alle mie. “Si tratta del piccolo Davide.” Sospiro “Il paziente di due anni di cui ti parlavo l’altro giorno. Non ci sono buone notizie e oggi dobbiamo comunicarlo ai suoi genitori. Mi spieghi come faccio? Come farò? Se resto sconvolta per una cattiva notizia, come farò a fare il medico? Come faremo a dire a due persone eccezionali, due genitori meravigliosi come loro, che il loro bambino ha poche speranze di guarigione? Come faremo a dire loro che forse questo sarà l’ultimo Natale che passeranno insieme? Con quale coraggio voglio fare il medico, se devo dare brutte notizie? Come farò a vivere un Natale gioioso, se so che loro non potranno vivere felici? Come si fa a vivere felici? Come si fa a essere solo portatori di cattive notizie?” Lo guardo, chiedendomi se ha capito qualcosa della raffica di parole che ho sputato. Non so nemmeno se tutto quello che ho detto abbia un senso. “Calmati. Sarai un buon medico e il fatto che tu prenda così a cuore una situazione del genere vuol dire che non sarai solo un buon medico ma un ottimo medico. È inevitabile affezionarsi alle persone, ai pazienti, alle loro storie. Non siamo robot, ma persone. Le cattive notizie ci sono e ci saranno sempre, ma ci sono anche le buone notizie. Resta sempre la speranza, la speranza nella guarigione, la speranza in una possibile cura, la speranza di vivere anche solo pochi giorni, ma felici. Non è detto che per Davide non ci siano speranze. Dobbiamo sempre avere speranza. Ricordalo, non dimenticarlo mai, Margherita: NOI SIAMO PORTATORI DI SPERANZA.” I nostri occhi restano incatenati a specchiarsi gli uni negli altri. NOI SIAMO PORTATORI DI SPERANZA. Risuonano le sue parole. Sembrano rimbalzare alle pareti della stanza e mescolarsi alle voci dei bambini, che hanno ripreso a cantare. 
Sorrido e, come se mi stessi guardando a uno specchio, anche Marco sorride, facendo ricomparire le sue adorabili fossette. A questa visione, non resisto e, repentina, annullo la distanza che ci separa e poggio le labbra sulle sue. Uno sfiorarsi delicato, che sorprende Marco quanto me. Cosa mi è preso? Ma prima che possa ritrarmi, lui mi circonda la vita con un braccio e mi fa più vicina a sé, approfondendo il bacio. Mi lascio andare e, ormai appoggiata completamente a lui, chiudo gli occhi e mi godo la moltitudine di emozioni che mi investe. Le sue mani sono poggiate aperte alla base della mia schiena e fanno una leggera pressione per avvicinarmi a lui, come se fosse necessario, come se il mio corpo non fosse già totalmente contro il suo.  Quando ci allontaniamo per prendere fiato, apro con fatica gli occhi e lo osservo. Sorride e questo basta a spazzare via i miei dubbi. Sorrido anch’io e lo stupore, che avevo intravisto nei suoi occhi, lascia il posto alla pura felicità. “Dimmi perché abbiamo aspettato tutto questo tempo.” mi dice, facendo sfiorare i nostri nasi un po’ freddi, viste le temperature. Il suo respiro si infrange sulle mie labbra e io rabbrividisco di aspettativa e molto altro. “Non lo so.” E scuoto la testa. «Siete due scemi.» ricordo le parole di Carla, che sembra essersi eletta (da sola. Direi che questa è dittatura!) a mio personalissimo “Grillo Parlante”. Scoppio a ridere. “Cosa c’è?” mi chiede Marco, guardandomi con un sopracciglio sollevato, ma senza smettere di sorridere. Spinta da non so quale forza, accarezzo il suo sopracciglio con l’indice, fino a giungere alla sua guancia e a una delle due fossette, ai lati delle sue labbra. “Niente.” E alzo le spalle, con noncuranza. Non mi sembra il momento di dirgli che il mio Grillo Parlante aveva predetto questo momento molto tempo fa. 
“Andiamo? Ti accompagno.” Annuisco e usciamo. Marco mi stringe la mano. “Siamo portatori di speranza.” Mi sussurra per darmi coraggio. SIAMO PORTATORI DI SPERANZA, ripeto tra me e me. 
Attraversando il corridoio, mano nella mano con Marco, riconosco la colonna sonora di “Frozen”. È normale che una ragazza di 23 anni conosca un cartone animato? Sì! E se non lo conoscete è perché non avete un’amica pazza come Carla. «Solo un atto d’amore può sciogliere un cuore di ghiaccio.» Ricordo il mio pazzo Grillo Parlante citare proprio “Frozen”, dicendomi che io, Regina di ghiaccio, prima o poi mi sarei sciolta con Marco. Dovrò darle ragione e se ne vanterà per tutta la vita. Che sfortuna! Sorrido e stringo ancor di più la sua mano. 
Ci fermiamo davanti la porta della camera di Davide per aspettare il mio tutor. Sfioro le labbra di Marco con le mie e mi stringo a lui. Solo qualche altro secondo per attingere un po’ di forza. “Mi aspetti qui? Poi andiamo dagli altri piccoletti a vedere con loro Frozen?” lui annuisce e ci baciamo di nuovo. Un bacio a stampo, molto dolce e molto romantico, in grado di sciogliermi del tutto. Prendo un bel respiro e mi allontano, senza però smettere di specchiarmi nei suoi bellissimi occhi. “Adesso devo andare. Devo compiere il mio atto d’amore: devo portare speranza.” 



Angolo Autrice: lo so che manco da molto tempo, ma ho avuto una vita un po' incasinata. Dedico questo racconto alla mia migliore amica, a cui mi sono ispirata per la protagonista. E lo dedico a tutti quelli che soffrono e a chi si prende cura di loro.
A voi, che in questo anno e mezzo (più o meno) mi avete donato tanto, volevo fare gli Auguri di un Sereno e Felice Natale e di Buon Anno. Che questo 2015 sia per tutti voi un anno pieno di emozioni, esperienze e Amore. Buone feste a tutti! Baci.

Chiara


PS Un pensiero particolare a tutti i "Grilli Parlanti", perchè ognuno ne ha sempre uno e se non ce l'avete, vi auguro con tutto il cuore di trovarlo. Cri cri :*

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Capitolo 5
*** Un San Valentino da dimenticare ***


Lo so che manco da una vita, che non aggiorno da tempi immemori e non era previsto che lo facessi oggi e invece eccomi qui. 
Si tratta di una storia diversa, di uno stile diverso, che sto testando per una long che sto scrivendo, che spero presto di pubblicare.
Questo è il mio piccolo regalo per voi in questo giorno dedicato all'Amore.
BUONA LETTURA e BUON SAN VALENTINO A TUTTI, CHE SIA AMORE PER TUTTI PRIMA O POI.
Baci, Chiara.

 


Un San Valentino da dimenticare

 
Un piccolo incidente costringe Francesca a rinunciare al suo fine settimana e a restare in ospedale. Cosa le riserverà questo piccolo imprevisto? 

 


Non sapeva cosa era peggio: rinunciare per l’ennesima volta al pranzo, un vero pranzo, preparato da sua madre per quella domenica o passare la suddetta domenica, nonché festa delle feste sdolcinate, in ospedale, ma  era lì che doveva stare e doveva ringraziare solo quella pazza scatenata della sua migliore amica. Francesca ritornò a posare lo sguardo sulla gamba sollevata che le faceva un male cane. Aveva avuto uno stupido incidente tre sere prima, quando aveva perso una stupida scommessa ed era stata costretta dalla sua amica Giovanna a salire sul cubo ed improvvisare un passo di danza. Arrossiva al solo pensiero, lei dannatamente timida e imbranata, condannata a ballare davanti a tutti. Ma la tragedia non era successa su quel dannato cubo, non era caduta e contro tutte le aspettative era riuscita a scenderne sana e salva, ma per dimenticare presto l’accaduto si era precipitata al bancone del locale, per la richiesta di un super alcolico, che non era mai arrivato perché lei come una stupida si era dimenticata della piccola scala che divideva la pista da ballo dal resto della stanza ed era praticamente volata giù, rompendosi una gamba e guadagnandosi un trauma cranico. Aveva perso i sensi, per fortuna, così non aveva assistito all’allarme generale, all’imbarazzante carico sull’ambulanza, alle lacrime di Giovanna, giustificatissime del resto. Si era risvegliata in ospedale dopo ore, confusa e stordita, con una gamba ingessata e una fasciatura in testa. Giovanna era al suo fianco, con una faccia distrutta, affiancata dall’amore della sua vita Giulio, che le poggiava una mano delicata sulla spalla. Felice che si fosse ripresa e che non avesse perso la memoria, le aveva spiegato che doveva restare sotto osservazione per qualche giorno, ma che non c’era nulla di cui preoccuparsi. Aveva aggiunto inoltre che avrebbe rinunciato al suo weekend per starle vicino, ma Francesca l’aveva pregata di partire, che se la sarebbe cavata e che avrebbe approfittato di lei per tutto il periodo della convalescenza, del resto sapeva benissimo quanto i due avevano dovuto fare per guadagnarsi quell’agognato fine settimana per loro due. Avevano programmato tutto: Giulio aveva preso tre giorni di ferie, richieste in largo anticipo, Giovanna aveva sbrigato tutte le pratiche a lavoro e infine avevano ottenuto la collaborazione della zia Tania, la loro anziana vicina di casa, aiuto più unico che raro, per occuparsi del piccolo diavoletto Dario, il loro bimbo di due anni. Sorrise pensando alla coppia di amici, che doveva essere in un agriturismo romantico su in montagna a godersi quel momento di solitudine e relax, tutti soli dopo due anni. Del resto dall’arrivo più che inaspettato di Dario, i due non avevano fatto altro che lavorare e occuparsi del bambino, senza l’aiuto di nessuno dei loro genitori, contrari sin dall’inizio alla loro unione e poi infuriati dal fatto che Giovanna a soli ventitre anni avesse deciso di portare a termine la gravidanza, rinunciando alla brillante carriera di avvocato. Lei non aveva rinunciato a un bel niente, dato che quel lavoro nemmeno le interessava e aveva sfruttato la gravidanza come scusa per abbandonare quegli studi che stava facendo solo per far contento suo padre. Se l’avesse veramente voluto non avrebbe mai lasciato l’università, con Giulio, più grande di lei di dieci anni, con un lavoro stabile e ben retribuito, che si era offerto di farsi carico di tutto, anche della gravidanza se avesse potuto. Ridacchiò pensando al ragazzone che si scioglieva appena puntava lo sguardo sulla sua compagna e il loro figlioletto.
-Vedo che sta meglio.- fece irruzione una profonda voce maschile. Francesca alzò scettica lo sguardo e si trovò a dover spalancare la bocca alla vista di un ragazzo alto, dal lungo ciuffo nero e lucente e un sorriso da mozzare il fiato.
-Grmmm …- grugnì lei.
-Sta ridendo.- cercò di spiegare lui divertito, mentre si avvicinava con un carrello delle medicazioni al seguito. –Quando l’altra sera è arrivata era totalmente fuori uso, mi fa piacere vederla sveglia e …- la studiò in viso -… in forma.- Era ormai arrivato al suo letto e stava controllando con sguardo professionale le sue analisi, l’andamento della temperatura e il foglio terapie. –Bene, bene.- borbottava sotto lo sguardo sconvolto della ragazza bruna stesa sul letto. Chi caspita era quel gran figo che stava ai piedi del suo letto? E perché sembrava sapere di lei quando in quei giorni che era stata lì non l’aveva mai visto? E come caspita faceva a contenere quelle braccia muscolose in quella maglia azzurra e aderente? E come si faceva a bloccare il martellare del cuore in petto? Francesca cercò di regolarizzare il respiro, che a sua insaputa era di colpo accelerato e sperò di non essere arrossita più del solito, come succedeva tutte le volte che entrava qualcuno in quella stanza, che la costringeva al supplizio di un ago o di una visita. In quei giorni avevano visto il suo corpo più persone di tutta la sua intera vita. Odiava tutti medici, studenti, infermieri, ma quello lì quello no che non lo avrebbe odiato, una controllatina …
-Sta bene?- chiese il ragazzo osservandola attento e interrompendo i suoi assurdi pensieri. Annuì incapace di rispondere a parole, ma questo non parve tranquillizzare il giovane, che si avvicinò ulteriormente per porsi di fronte ai suoi occhi e studiarle il viso. Le posò un mano fresca sulla fronte accaldata. Tutta quella vicinanza la stava mandando totalmente in tilt. –Forse devo chiamare il dottore. Mi sembra accaldata.- si allontanò leggermente e questo le permise di prendere un respiro profondo, nel tentativo di calmarsi, ma Francesca non aveva previsto che così avrebbe incamerato in una sola volta il suo profumo forte e maschile, che peggiorò in un solo attimo la sua condizione. Il giovane in divisa da infermiere tornò indietro con il termometro e lo avvicinò, cercando di posizionarlo lui stesso, ma fu fermato dalle manate che ricevette da Francesca.
-La smetta, ce la faccio da sola.- disse afferrando l’oggetto e gettando un’occhiataccia al giovane che ridacchiava.
-Almeno so che parla.- e scoppiò a ridere, incapace di trattenersi. Non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma in quei giorni Ettore si era preoccupato per quella ragazza arrivata in stato di incoscienza e con una gamba rotta. Le esigenze della sua famiglia lo avevano costretto a fare cambio con un collega, ma rientrare a lavoro e ritrovarla sveglia e sana lo aveva tranquillizzato e non poco. Non sapeva perché, non sapeva cosa fosse successo esattamente, ma aveva avuto quella ragazza in testa per tutto il tempo che era stato lontano dal reparto. Aveva pensato solo ed esclusivamente a lei e al suo stato di salute, e dire che ormai con la sua esperienza era sempre a contatto con la malattia, aveva visto situazioni decisamente peggiori, ma nessun paziente era riuscito a crucciare il suo pensiero come la bruna stesa in quel letto. Anche con la testa fasciata e un livido nero sulla guancia era bella, anche immobile e con la gamba ingessata e sollevata era affascinante, anche tra le coltri ruvide del letto di ospedale riusciva a immaginare un corpo tonico. Ecco, forse non proprio lo immaginava, ma lo ricordava, dato che era stato lui stesso a prendersi cura di lei nei primi momenti che era giunta lì. Francesca, ricordò il suo nome; com’era Francesca fuori da quella stanza? Che faceva nella vita? Che cosa le era successo di preciso per portarla lì? Le spiegazioni della ragazza che l’aveva accompagnata solo qualche sera prima erano state confuse e insufficienti, ma non era effettivamente quello l’importante, ma che stesse bene, anche se avrebbe dovuto faticare un poco con il gesso.
-Niente febbre.- borbottò la ragazza, riscuotendolo dai suoi pensieri.
-Lasci giudicare me.- disse, prendendole il termometro dalle mani e facendo sfiorare le loro dita e provocando una scarica elettrica che si propagava dall’uno al corpo dell’altro, lasciandoli senza fiato, incapaci di trattenersi dall’alzare gli occhi per incrociare gli sguardi.
-Ettore.- si sentì chiamare dal corridoio –Ettore, corri, ci servi.- continuò una voce femminile.
-Mi scusi … niente febbre.- disse Ettore,abbandonando di corsa la stanza, lasciando tutto com’era, con un’ammutolita Francesca che osservava il fondoschiena dell’infermiere stretto nei pantaloni azzurri.
-Ciao Ettore.- sussurrò tra se, abbandonandosi in assurde fantasie, che non erano proprio tipiche di lei, ma più che altro di Giovanna. Ecco un’altra colpa da imputare all’amica e alla loro continua frequentazione.
***
-Signorina?- si destò richiamata da una voce, che l’aveva perseguitata anche nei sogni. Stropicciò gli occhi e farfugliò qualcosa, arrossendo ritrovando gli occhi neri di Ettore che la scrutavano attentamente. –Si è svegliata, finalmente.- disse il giovane senza nessuna nota di rimprovero, ma con un tono dolce, o così almeno lo percepì Francesca, che prontamente si diede della stupida per averci solo pensato.
-Bene, signorina Lionardi, noto che sta meglio e non trovo motivo di continuare a tenerla ancora qui reclusa.- disse una donna di mezza età dai lunghi capelli rossi e lucenti, la Dottoressa Domitilli, la responsabile del reparto. Quelle parole fecero bloccare di colpo l’infermiere, che stava lentamente lasciando la stanza e invece si voltò sconvolto, puntando lo sguardo prima sulla schiera di medici di fronte al letto e in fine su Francesca, la sua Francesca che guardava confusa la donna. L’aveva rivista solo quella mattina e adesso sarebbe per sempre scomparsa dalla sua vita? Doveva ammettere che aveva puntato su qualche giorno in più per capire se avesse qualcuno accanto, per conoscerla magari e sapere se …
-Vuol dire che posso andare a casa?- chiese incerta, lanciando un’occhiata alla sua gamba e toccandosi la benda della testa, forse un gesto inconsapevole, che però metteva in mostra tutto il suo scetticismo per quella decisione.
-Si, signorina. La temperatura è perfetta, lei è lucida, praticamente non sta prendendo farmaci da trentasei ore e questo non ha cambiato le reazioni del suo corpo.- Francesca spostò lo sguardo sulla flebo attaccata al suo braccio –Quella è solo soluzione glucosata, zucchero insomma.- disse la Dottoressa, come rispondendo alla domanda che la paziente non aveva nemmeno posto, ma che sicuramente affollava la sua testa. Era un semplice modo per capire quanto del dolore dichiarato fosse reale o frutto dello stress, quindi quando possibile sostituivano una flebo con soluzione glucosata, senza somministrare farmaci, un placebo insomma.
–Non vuole passare almeno questa serata con qualcuno di piacevole?- si arrischiò a chiedere un medico più giovane alle spalle della Dottoressa Domitilli. Non l’avesse mai detto, perché si guadagnò un’ occhiata inceneritrice di Francesca e un rimprovero da parte della responsabile che gli chiese di allontanarsi dalla stanza. Ci mancava solo che i medici le chiedessero della sua situazione sentimentale e il quadro era completato per quella odiosa giornata. Non solo aveva dovuto rinunciare al biglietto aereo che l’avrebbe portata a casa a godersi una domenica con la sua famiglia, non solo doveva ricevere gli sms di promozione di ogni azienda, pronti a regalare fantastici regali alle coppie felici, non solo doveva stare in ospedale, adesso doveva pure spiegare a quei "camici bianchi" che non aveva nessuno con cui passare quel dannato San Valentino? Lei era quella del: e anche quest’anno si festeggia l’anno prossimo. Che odio.  Tutti lo sapevano: i suoi amici, la sua famiglia, non era il caso che lo sapessero anche loro. Va bene che non credeva che l’amore si dovesse celebrare in un solo giorno all’anno, ma sarebbe stato carino una volta tanto passare un San Valentino con qualcuno di speciale, ecco perché aveva prenotato quel biglietto, almeno sarebbe stata con la sua famiglia. Tornò a guardare la gamba ingessata e ripensò a quella sera, se solo Giovanna non fosse stata così testarda da trascinarla in discoteca, se solo lei non avesse perso quella scommessa, se solo non fosse stata così dannatamente se stessa. Lacrime di frustrazione le bruciarono agli angoli degli occhi e li strizzò per non farsi beccare in una condizione così pietosa davanti a tutte quelle persone.
-Ma stamattina?- si arrischiò a chiedere in un sussurro strozzato, senza alzare lo sguardo.
-Mi spiace non averglielo comunicato prima, ma abbiamo avuto un’emergenza e solo adesso siamo riusciti a fare il giro visite e controllare la sua situazione. Signorina Lionardi ci sono problemi?- le chiese gentile la responsabile. Se solo tutti i medici fossero stati come lei! Francesca scosse il capo, ricacciando indietro le lacrime e sfoggiando un sorriso.
-Nessun problema, mi lasci solo il tempo di avvisare qualcuno.- disse risoluta.
-Va bene, la lasciamo tranquilla, nel frattempo le farò consegnare i documenti da firmare.- disse la Dottoressa, lasciando la stanza con il suo seguito.
Francesca si rilassò sulle coltri, lasciandosi sfuggire un sospiro tremulo.
-Sei sicura che vada tutto bene?- Francesca sussultò a quella voce, non si era accorta di non essere sola, e non fece in tempo ad asciugare la lacrima ribelle che era scivolata sulla guancia. Ettore se ne accorse e si avvicinò cauto al letto della ragazza. –Mi sembri scossa.- le sussurrò piano, poggiandole una mano dolce sulla spalla, nel tentativo di confortarla. Poi prese un fazzolettino pulito e si arrischiò ad asciugarle il volto. Francesca rimase in silenzio, in contemplazione dei suoi gesti delicati, con il cuore rimbombante nel petto e il viso in fiamme. Una tremito percorse entrambi per il contatto delle loro pelli, come poche ore prima.
-Va tutto bene.- farfugliò appena lui si allontanò con un cipiglio sul viso, consapevole che quello non era il modo giusto di trattare una paziente. Lei rimase perplessa alla vista della durezza che esprimeva il suo viso, che solo pochi secondi prima vicino a lei era dolce e tranquillo.
-Mi scusi, signorina, è che …- tentò di recuperare il ragazzo.
-No, chiamami Francesca, ti prego.- si arrischiò lei, cercando di studiare l’infermiere,  che finalmente tornò a puntare i suoi profondi occhi neri su di lei.
-Va bene, Francesca, ma solo se mi dici qual è il problema.- sorrise lui. La ragazza arrossì, ignara che così avrebbe accelerato ancor di più i battiti del cuore del ragazzo, che ringraziò con tutto se stesso per il fatto che lei non avrebbe mai potuto sentirlo. Eppure come avrebbe voluto altro che Francesca poggiasse la testa sul suo petto per sentire il suo cuore pulsare forte e veloce. Ma cosa diavolo gli stava succedendo? Quella ragazza lo aveva forse stregato?
-Uffa.- sbuffo lei, in un vano tentativo di voltarsi per sottrarsi allo sguardo del ragazzo, dimenticando la gamba. –Ahi … accidenti.- imprecò e maledisse Giovanna, augurandole l’arrivo in anticipo del ciclo proprio per quel fine settimana.
-Fa piano.- le sussurrò Ettore, che in un attimo era giunto al suo fianco e piano l’aveva aiutata a ritornare in posizione. Così però i loro visi si erano trovati molto vicini e entrambi avevano trattenuto il respiro, dilatando le pupille, incapaci di non perdersi l’uno negli occhi dell'altro.
E qualcuno bussò alla porta.
Ettore si ritrasse immediatamente e si rifugiò ai piedi del letto, apparentemente occupato a studiare la terapia, mentre Francesca prendeva un respiro, prima di concedere allo stramaledetto incursore di entrare. Si sorbì con fastidio tutte le indicazioni e appose milioni di firme, ma alla fine finalmente rese ufficiali le sue dimissioni.
Quando restarono soli, Francesca tornò a posare lo sguardo sull’infermiere, che si aggirava per la stanza apparentemente impegnato a sistemare chissà cosa.
-Ettore?- lo chiamò e lo fece bloccare all’istante. Il giovane sollevò di scatto gli occhi, studiandola. Era arrossito, Francesca ne era sicura e sorrise. –Stamattina ti hanno chiamato mentre eri qui.- si giustificò, continuando a sorridere.
-Bene, se hai bisogno di aiuto chiamami. Chi ti viene a prendere? Posso accompagnarlo io qui e dargli una mano per raggiungere la macchina. Ricordagli di portare un cuscino e poi …- iniziò a sciorinare consigli, che Francesca nemmeno ascoltò. Ora si che aveva un piccolo insignificante problema: chi sarebbe venuta a prenderla? Giovanna e Giulio e Matteo e Cesare si stavano godendo il loro fine settimana da coppie felicemente innamorate, Teresa era rientrata come avrebbe dovuto fare lei dalla sua famiglia e Nicola stava lavorando. Fantastico, pensò, tutti i suoi amici erano fuori discussione.  –Francesca?- la chiamò l’infermiere studiando il suo cipiglio –C’è qualcuno che ti viene a prendere, vero?- chiese dubbioso.
-Emmm … veramente ...- quanto era imbarazzante dover spiegare che nessuno sarebbe venuto?
-E allora perché hai firmato, dannazione?- si infuriò Ettore per poi bloccarsi di colpo e puntare lo sguardo sulla bruna –Niente persona speciale per San Valentino?- chiese di botto, con una flebile speranza che gli incendiava il cuore. Francesca negò arrossendo e puntò gli occhi al gesso della gamba, incrociando le braccia al petto infastidita. Ettore rise, rise di gusto e lei fu costretta a sollevare lo sguardo per rimproverarlo almeno con quello, ma non ci riuscì perché si bloccò osservandolo: il sorriso sulle labbra, gli occhi luminosi, il ciuffo leggermente scompigliato, il corpo muscoloso per niente sminuito dalla divisa azzurra da infermiere, e quel suono così bello da far contorcere le budella. Francesca fu certa che il suo cuore avesse smesso di battere e, se non avesse ripreso la sua corsa forsennata tamburellando furioso contro il suo petto, avrebbe detto di essere morta ed essere finita in paradiso. Arrossì, ne fu consapevole, sentì le guance andarle in fiamme e tremò quando Ettore si riscosse e posò lo sguardo profondo su di lei.   –Ti accompagno io, lasciami finire il turno e vengo con te a casa.- Aveva veramente detto quelle parole? Se lo chiesero entrambi, bloccati a fissarsi sotto shock.
-Sei impazzito?- si arrischiò a chiedere Francesca.
-Scusami, hai ragione, non avrei dovuto permettermi, per la verità non avrei dovuto permettermi niente con te.- la sua voce si affievolì piano piano, ma non impedì alla ragazza di sentire tutto e mandarla ancora di più in confusione.
-Che vuoi dire?- farfugliò.
-Lascia stare.- sbuffò il ragazzo. Voleva uscire da quella stanza, immediatamente, ma non riusciva a scollarsi da quel pavimento, non voleva lasciare la sua Francesca così, con quelle assurde parole, in balia di se stessa e di mille dubbi e comunque non poteva, non prima che si fosse accertato che qualcuno l’avesse portata a casa e si sarebbe preso cura di lei. Possibile che fosse totalmente sola? –La tua famiglia? La tua amica? Qualche amico? Il fidanzato?- aggiunse infine, anche se lei aveva negato, voleva essere sicuro che non esistesse nessun fidanzato.
-La mia famiglia abita lontano, avrei dovuto andare da loro questo fine settimana ma ho optato per la vacanza in ospedale.- sbuffò, pensando alle lasagne di sua madre che si era persa. –Giovanna, la mia amica è con il suo compagno. Lo sai che è San Valentino, no? I miei amici “accoppiati” se lo stanno godendo e quelli single sono impegnati in altro.- lo studiò attentamente, stava aspettando che completasse la spiegazione –E non ho il fidanzato, chiaro? Vuoi che metta i manifesti? Vuoi che ti spieghi che volevo andare dai miei per sentirmi meno sola? Vuoi che ti dica che Giovanna tenta di farmi accoppiare con qualcuno da tempo ma sembra che a nessuno vada bene questa stupida e insignificante ragazza? Vuoi che ti dica che l’ultima volta che qualcuno mi ha invita a uscire portavo ancora l’apparecchio ai denti ed ero sicuramente peggio di ora? O veramente non lo so, non devo essere uno bello spettacolo adesso.- Perché si era lasciata sfuggire così tanto con quel ragazzo? Come se avesse avuto bisogno di mettersi ancor di più in ridicolo.
-Senti, Francesca.- disse Ettore, pronto per dirle quanto non fosse per niente insignificante e che era un bellissimo spettacolo su quel letto, con le guance rosse e gli occhi verdi illuminati da milioni di sentimenti e le labbra morbide e un corpo niente male, che gli era rimasto in mente a un solo sguardo e che lo aveva tormentato per giorni. Ma decise di non parlare, sperando che quello che stava per fare non lo avresse per sempre rovinato. Si avvicinò piano, per non metterle paura e si chinò su di lei. –Ti porto a casa io, non accetto repliche.- e le lasciò una carezza sulla guancia in fiamme. Avrebbe voluto baciarla lì, ma non si arrischiò a tanto e prima che avesse compiuto una follia uscì dalla stanza.
***
Ettore la prese in braccio, facendola arrossire, lasciandosi inebriare dal suo dolce profumo. Francesca profumava di fragole, come ricordava perfettamente da quella sera in cui era arrivata incosciente al reparto dove lavorava. Sapeva che non era giusto provare quelle cose per una paziente, sapeva che si stava comportando in modo irresponsabile, ma c’era qualcosa in quella ragazza che lo attirava come nessuna. Aveva voglia di proteggerla, di scoprire cosa le piacesse, cosa la faceva ridere e aveva voglia di vederla arrossire, di sentire la sua risata, le sue parole. La voleva. Quella consapevolezza gli fece affluire il sangue al cervello e si rese conto di essere eccitato. Era eccitato. Se ne sconvolse e pregò con tutto se stesso che Francesca, tra le sue braccia, non se ne accorgesse.
-Mi spiace.- bisbigliò sul suo petto mentre salivano le scale fino al suo appartamento –Peso, non è giusto che tu ti occupi di me, nemmeno mi conosci.- disse mortificata.
-Smettila, Francesca ho …- si fermò per aprire la porta dell’appartamento della ragazza. Accese la luce con fatica e si ritrovò in un monolocale colorato, accogliente, disordinato e profumato come la sua padrona. Sorrise, era una bella casetta. –Complimenti, bel posticino.- avanzò per poggiarla piano sul divano bianco. –Tutto bene?- chiese, studiandola. Era rossa, accaldata e le posò una mano sulla fronte. –Spero non ti sia tornata la febbre, dovremmo accertarcene. Hai il termometro?- Francesca annuì, consapevole che non si trattasse di febbre.
-Perché lo fai Ettore?- gli chiese di getto, non poteva più trattenere quella domanda che rimbombava nella sua mente. Lui la studiò, tentò di allontanarsi, ma la ragazza lo prese per il polso, costringendolo a restare chino su di lei e lui si perse nei suoi occhi verdi e fu incapace di mentire a se stesso e a lei.
-Mi piaci, Francesca, mi piaci in un modo irrazionale che nemmeno io mi so spiegare, non so cosa mi hai fatto. L’altra sera eri incosciente, mi sono preso cura di te e per tutto il tempo che ho dovuto stare lontano dall’ospedale non ho fatto altro che pensare a te. Stamattina ero smanioso di vederti, ma poi ti hanno dimesso e mi sembrava che il mondo potesse crollare, per una ragazza che ho appena visto e sfiorato mi sono sentito sbriciolare. Mi sento un pazzo e forse lo sono e forse adesso tu mi vuoi fuori da casa tua e forse sarebbe la cosa migliore per te e per me perché ti desidero, vorrei baciarti e stringerti e averti per oggi e penso per tutta la mia vita. Devo essere veramente un pazzo. Scusami, Francesca, dimentica tutto se puoi, giuro che non ti disturberò mai. Stammi bene.- e le depose un bacio delicato sulla fronte e si allontanò sconvolto, rifiutandosi di guardarla in faccia. Doveva farsi visitare da qualcuno, ma qualcuno bravo, si disse. Sperò che la ragazza se la cavasse per quella sera dal momento che la stava lasciando sola; poco prima gli aveva spiegato che la sua amica sarebbe tornata la mattina seguente e che sarebbe stata lei a prendersene cura. –Sicura non ti serva nulla?- le chiese, non girandosi a guardarla, in un ultimo frammento di pazzia o forse razionalità, si preoccupava per lei.
-Ho bisogno di te.- sussurrò Francesca, ancora sconvolta da quella dichiarazione. Che era pazzo era sicuro, quale avvenente e prestante ragazzo come Ettore avrebbe potuto provare tutta quella gamma di emozioni per una come lei? Il giovane si voltò sconvolto.
-Cosa hai detto?- farfugliò.
-Che ho bisogno di te.- disse più sicura, azzardandosi a guardarlo. Bastò quello a Ettore per macinare i pochi metri che lo separavano da lei e prenderle il volto infuocato tra le mani e baciarla in un modo che nessuno dei due avrebbe mai dimenticato per tutta la vita, come quel primo San Valentino che passarono insieme, il primo di una lunga serie.

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Capitolo 6
*** A come Amicizia ***


A COME AMICIZIA
Non è forse anche questo amore?
 
Me ne stavo lì, seduta su una sedia, ad aspettare che il Prof mi raggiungesse. Come ogni lunedì, ero in ambulatorio. Indossavo il camice lindo, stetoscopio in tasca (come ogni chirurgo o aspirante tale) e penna in mano. Ero pronta per affrontare un’altra giornata da studentessa di medicina in procinto di raggiungere il primo, solo il suo primo obiettivo.
-Dottoressa ?- mi chiamò un signore. Sollevai gli occhi dal cellulare e sorrisi all’uomo. Anche se non ero nessuno lì dentro, era complicato spiegare ogni volta che quell’appellativo non era adatto a me, così accettavo ogni volta quel “Dottoressa”, sperando che un giorno lo sarei diventata sul serio.
-Mi dica.- lo conoscevo. Frequentavo quel reparto e quell’ambulatorio da tempo tanto da riconoscere i pazienti abituali.
- Il Dottore tarderà molto?- negai, alzando le spalle. Era una domanda a cui non avevo risposta. – Posso chiederle di far sedere il mio amico? Fuori non ci sono più sedie.- gli sorrisi.
-Ma certo, si accomodi pure lei.- e dopo tanti dinieghi, accettò una sedia, la mia, anche per lui.
Li guardai. Venivano ogni lunedì. Due signori di settant’anni più o meno, uno dei quali, il nostro paziente, soffriva di quella malattia di cui tanti della sua età soffrono.
- Sa, ci conosciamo da una vita.- mi disse a un certo punto. All’inizio pensavo fossero fratelli, quando invece il mio professore mi aveva detto che dietro quei due signori che venivano praticamente ogni lunedì c’era una storia diversa e, forse, molto più bella. – Lo conobbi quando avevo diciotto anni. Mi trasferii per cercare lavoro. Sa, Dottoressa, prima era diverso. Partivi, non sapevi cosa trovavi, chi trovavi e non potevi tornare. I soldi li avevi solo per il biglietto di andata, mica per quello di ritorno.- li guardai. Come erano da giovani? Pensai a tutti quei ragazzi che giungevano dall’Africa. Anche per loro era così? – Mi ero trovato una stanza in palazzo brutto, in un quartiere poco raccomandabile, ma quello potevo permettermi. Dovevo ringraziare uno del mio Paese che aveva vissuto lì prima di me e che mi aveva lasciato in “eredità” quel buco. Avevo paura, mi sentivo solo, non avevo niente. Poi però il giorno dopo, quando arrivai a lavoro mi misero di fianco a lui. Io non parlavo con nessuno, non alzavo mai la testa dal bancone. Lui parlava, parlava, non stava mai zitto. Ha continuato per giorni, settimane, fino a quando io non ho iniziato a rispondere alle domande. Così siamo diventati amici. Io avevo diciotto anni, lui venti e da allora non ci siamo mai separati.- mi sorrideva, orgoglioso e felice di quell’amicizia che durava da anni e che, ne ero convinta, non avrebbe mai avuto fine.
-Me lo ricordo quel giorno.- si intromise l’altro. – Lo so che spesso non ricordo nemmeno il tuo nome, ma di quel giorno mi ricordo tutto. Avevi un camice blu con le toppe sulle ginocchia e i capelli ricci ricci come non ne avevo mai visti e stavi zitto.- si strinsero la mano, complici come sempre.
- Mi manchi.- gli rispose.
Sapevo che la malattia peggiorava e ogni giorno si portava un pezzetto della loro vita. Facevo fatica a trattenere le lacrime, ma non potevo piangere, non di fronte a loro. E poi volevo arrivare alla fine della storia.
- Non ha nessuno. Aveva una moglie ma è morta tanti anni fa, come la mia, ma mentre a me la vita ha donato dei figli a lui no. E ora è solo e ha bisogno di me e io di lui. Quando non parla, quando è perso nel suo mondo, parlo io per lui, come lui faceva con me quei primi giorni.- come si faceva a non piangere? Respirai rumorosamente, mentre il Prof, giunto in mio soccorso, mi lasciava una carezza sulla spalla.
-Te l’avevo detto che avevano una storia meravigliosa da raccontare.- annuii tremante, incapace di parlare.
- Su, si comincia.- mi avvisò.
- Dottoressa, le auguro nella vita di trovare delle persone come lui.- disse il nostro paziente.
- E come lui.- gli fece eco l’amico.
Poi li vidi uscire dalla stanza per far posto al primo paziente della giornata.
Sorrisi. Lo speravo anche io.

Lo so, lo so non aggiorno da una vita. Scusate. Troppi impegni, poca ispirazione, una nuova long da portare a termine (un'altra faticaccia). A proposito, se vi va, passate a leggere. SI chiama "UN PRINCIPE SOTTO COPERTURA" e, Signore e Signori, sto finalemtne scrivendo il quarto capitolo (emozione).
Cosa dirvi di queste poche parole? Niente solo che la dedico all'amicizia, quella vera e ai due signori che mi hanno ispirato questa piccolissima storia, esistono veramente. La loro storia non la conosco, ma sono sicura che sia molto più bella di questa.
Vi lascio e vi ringrazio. Mi raccomando: passate a leggere l'altra storia e lasciate un commento. 
Un bacio e alla prossima.

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Capitolo 7
*** CA ***


CA
 

Passare la notte sola non è quello che possa dirsi la cosa migliore del mondo, soprattutto se quella notte non la passi al calduccio sotto le coperte, magari dopo aver visto un bel film, con tanto di pop corn e birra, ma infreddolita, in un paesino sperduto di montagna, a lavorare.
CA, Continuità Assistenziale, la vecchia e cara guardia medica, quella che si chiama per il classico mal di pancia, colpo di freddo,  o per farsi prescrivere quei due o tre mila farmaci pur di non fare la fila interminabile del medico di base.
Intendiamoci, a me piace il mio lavoro, non mi lamento nemmeno se devo misura la pressione per venti volte di fila, ma quando il tuo cordinatore ti piazza quasi tutti i turni di domenica, aggiunge la festa del paese - con conseguente avanti e indietro di indigestioni e sbronze-, hai saputo che hanno aggredito una tua collega in un presidio a pochi chilometri dal tuo, proprio passare la notte da sola, dopo una giornata in cui non hai avuto respiro e a cui si aggiunge una litigata (telefonica) con tua sorella, non è proprio il massimo dell'esistenza.

Poggio la mia "settimana enigmistica" appena sento suonare il citofono e mi precipito al portone, perchè ovviamente il pulsante dell'apertura automatica non funziona. Sbricio la telecamera di sorveglianza per capire di chi si tratta, sempre per il principio che fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio e sempre perchè è l'una di notte e io sono sempre sola.
"E tu che ci fai qui?" chiedo a un'imbacuccato ragazzo, che si fa strada nella sala d'aspetto.
"Posso?" chiede indicando la stanza visite. 
Io annuisco e chiudo il portone, dopo di che lo seguo.
"Prego, accomodati." gli indico la sedia di fronte la scrivania, ma lui non la raggiunge mai perchè si gira verso di me e mi punta con quegli occhi color ghiaccio che sembrano due fanali.
"Ti ho portato della cioccolata calda." mi porge un bicchiere di carta, di cui mi accorgo solo ora, stretto tra le dita inguantate.
"Non dovevi, ti ringrazio. Ma come facevi a sapere che ero qui?" chiedo curiosa, afferrando il bicchiere e portandomelo al naso per annusare l'aroma del cioccolato.
"Fondente, come piace a te." mi sorride "E comunque ho solo avuto fortuna, perchè passavo di qua per caso e ho provato."
Lo guardo scettica "E per caso avevi anche una cioccolata calda in mano, fondente per giunta?" lo prendo in giro.
Lui si toglie sciarpa, berretto e guanti e si passa la mano tra i capelli.
"Oh e va bene ci speravo proprio che fossi di turno." rivela con, cosa era quello?, Imbarazzo?
"Va bene, ma solo perchè mi hai portato la cioccolata calda." riprendo posto dietro la scrivania. "Su, dimmi, posso esserti utile in qualche cosa?" gli chiedo. In fondo sono qui per questo.
"No, nulla, sul serio ero solo di passaggio." fa spallucce.
"Sei sicuro che vada tutto bene?" Insomma non si va all'una di notte in guardia medica, pardonne, in continuità assistenziale per niente "Ho ... " balbetto, dannazione "... ho saputo di tua moglie. Auguri!" gracchio "Lei sta bene?" 
"Lei si." risponde secco, fissandomi con quegli stramaledettissimi occhi color ghiaccio che sembrano volermi congelare qui sul posto, come se ce ne fosse bisogno, come se già non sentissi tutto il freddo di questa notte invernale, come se non sentissi tutto il freddo di essere una donna sola. "Lei si ..." ripete "Io meno."
Lo guardo confusa.
"Come posso aiutarti allora?" aggrotto le sopracciglia.
Poi tutto succede in un attimo
Mi raggiunge alla scrivania e si sporge sopra di essa fino a che i nostri nasi non collidono e sento il suo alito caldo sul viso. La cioccolata trema stretta tra le mie dita e rischio di rovesciarla addosso a lui e addosso a me, ma non sembra nemmeno farci caso.
"Così" E mi bacia.
Io resto troppo sconvolta per fare qualcosa.
Almeno i primi secondi.
Poi realizzo che un ragazzo mi sta baciando, che LUI mi sta baciando e, al diavolo la cioccolata, che finisce abbandonata sulla scrivania, me lo trascino quasi addosso per approfondire quel bacio.
"Perchè?" chiedo col fiato corto, ad occhi chiusi.
"Perchè lo desideravo sin da quando ti sei trasferita nell'appartamento accanto al mio." mi spiega. Anche lui ha il fiato corto e non accenna ad allontanarsi, anche se è messo sdivaccato sulla scrivania, anche se non dovrebbe essermi così vicino - come se non fosse stato più vicino di così -.
"Perchè adesso?" stavolta apro gli occhi e nuovamente vedo i suoi color ghiaccio. Non sono mai stati così vicini, non avevo mai visto quanto fossero chiari e luminosi e profondi.
Lui si allontana, aggira la scrivania e mi raggiunge per inginocchiarsi ai miei piedi. Mi volto a guardarlo e recupera le mie mani, catturandole tra le sue.
"Non chiedermelo." Mi scruta come un cucciolo, un cucciolo spavaldo e affascinante.
"Devo chiedertelo. Ti sei sposato, tua moglie è incinta." anche se è l'una di notte e lui mi ha appena baciato, il mio cervello funziona ancora.
"Ti ricordi di quando prendevamo il caffè e il the insieme?" cambia discorso.
"Come potrei mai dimenticarlo? Erano i momenti migliori di quel primo anno di università in quella città così sconosciuta e  immensa. Eri il mio punto di riferimento per tante cose." sorrido.
"Avrei voluto farlo ogni santo pomeriggio." mi rivela.
"E perchè non l'hai fatto?" sono esasperata.
"Mi ..." tentenna "... avresti baciato." afferma, stupito.
"Ti ho baciato adesso, dopo anni, quando tu hai una moglie incinta a casa che ti aspetta. Certo che lo avrei fatto allora, non desideravo altro." confesso. 
"Perchè non me lo hai mai detto?" il suo tono è dolce, quasi compassionevole.
"Perchè non me lo hai detto tu? Io non aspettavo altro." il mio è infuriato.
"Perchè credevo che ... oh eri sempre così restia." si inalbera lui.
"Io ero una ragazzina timida, alla sua prima esperienza fuori casa, alla sua prima esperienza con un ragazzo. Tu eri più grande, più maturo e poi le vedevo tutte le ragazze che entravano e uscivano dal tuo appartamento. Che dovevo fare secondo te?" sono ancora arrabbiata e gelosa per quelle ragazze.
Lui mi studia attento, capisce cosa provo, questa volta è bravo a leggermi. Mi sorride e si protende di nuovo verso di me e mi bacia. Le sue labbra sono così morbide e fresche e io lo so che non dovrei, che è sbagliato, che non è giusto per sua moglie, per il suo bambino e anche per me, che, oltretutto, sono a lavoro, ma si tratta di lui, della mia prima cotta, di uno dei ragazzi più belli che io abbia mai visto. E allora nulla importa più. Mi faccio travolgere, lo bacio anche io, gli scombino i capelli con le dita, gli mordicchio il collo, mentre lui mi succhia l'orecchio e improvvisamente il suo cappotto è un orpello inutile, il mio camice diventa insopportabile, il suo maglione fastidioso e potrei continuare fino a che non rimaniamo nudi, infreddoliti e terribilmente eccitati, verso mete che forse mai scoprirò, perchè il campanello suona e io ripiombo nella realtà.
Lo guando negli occhi smarrita, mentre mi sistemo il camice e cerco di ricompormi, almeno esteriormente, perchè interiormente è praticamente impossibile.
Lo guardo negli occhi e vorrei cancellare tutto e nello stesso momento vorrei che resti indelebile nella mia mente.

CA, continuità assistenziale, penso che no, CA può significare anche Cazzata Apocalittica.


A volte ritornano, anche cresciuti, anche diversi.
Ci sono cose vere, cose reali scritte qui e cose assolutamente inventate, ma passare ore in CA porta anche a questo.
Spero vi abbia strappato, non so, un'emozione (si dice strappare un'emozione? Forse no). Comunque spero che in un modo o in un altro vi sia piaciuto almeno un po'.
Vi auguro buona notte.

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Capitolo 8
*** Una giornata normale ***


UNA GIORNATA NORMALE

Il mio borsone per la piscina era ormai diventato il mio borsone per andare a lavoro. I miei capelli non sapevo più che forma avessero, costretti sempre sotto una cuffietta. Non c’era quasi più niente di normale. Sempre lo stesso breve tragitto, sempre le stesse cose. Ed ero consapevole che quello fosse solo l’inizio.
“ Stai bene?” ero talmente concentrata che non avevo nemmeno visto chi ci stava accanto al mio armadietto.
“Si.” Risposta automatica, che ormai davo da diversi giorni da quando tutto era iniziato.
“Non è che se mi dici si io ti credo per forza,.” Replicò. Solo allora mi girai a guardarlo. Aveva gli occhi segnati dalla fatica, esattamente come me, ma mi guardava sempre con quell’aria scanzonata e dolce. Lo osservai meglio. Anche strapazzato e stanco era il suo gran bel vedere.
“Ho bisogno di una doccia.” Annunciai recuperando le mie cose.
“Anche io.” E mi venne dietro.
Il tragitto lo facemmo in silenzio, con un vortice di pensieri in testa, tanto da sembrare assordanti. Di fronte alle camere ci separammo. Non sapevo se ero più triste, arrabbiata o stanca.
Lo guardai giusto prima che si intrufolasse dietro la porta bianca. Di certo lui non aveva il mio stesso problema con i capelli. Ridacchiai inconsapevolmente, attirando la sua attenzione.
“Che c’è?” e si avvicinò a me.
“Ammetto che per la prima volta in vita mia sto invidiando la tua capigliatura.” L’avevo preso in giro troppe volte per la sua testa pelata, attribuendola alla sua età, più avanzata negli anni rispetto alla mia.
 “Piccola insolente.” Si guardò intorno dandomi un pizzicotto sul sedere, una volta accertatosi che non c’era nessuno “La vorrei fare con te la doccia.” Mi sussurrò prima di abbandonarmi sulla soglia della porta della mia camera , tutta sola. Ci misi qualche instante per riprendermi. Probabilmente non mi sarei mai abituata.

 

 
Ero tutta intorpidita e sbadigliante quando lo accolsi davanti la porta di casa mia, a piedi nudi.
“Ci hai messo un poco.” Mi lamentai, lasciandolo entrare.
“ Lo sai che dovevo fare attenzione.” Rispose, liberandosi di scarpe e cappotto. Avevamo deciso che la nostra relazione non dovesse venire fuori, non al momento, considerando anche che lui era pur sempre il mio superiore. Non sempre era così semplice trattenersi dal baciarlo lì davanti a tutti o nascondere quello che provavo per lui, ma entrambi sapevamo che quella era la scelta migliore.
“SI, lo so, lo so. Ma se aspettavi ancora un poco mi sarei addormentata.” Gli accarezzai la schiena sotto la maglia leggera e percepii i suoi muscoli contrarsi.
“Nottata dura?” si voltò per abbracciarmi, inglobandomi contro il suo corpo e il suo calore.
“Come tante altre degli ultimi tempi.” Impastai contro i suoi abiti, al di la dei quali percepivo il suo cuore “Tu ne hai avuti tanti?” lo guardai negli occhi. Era evidente quanto fossimo preoccupati, non serviva nemmeno che mi rispondesse per sapere che aveva dovuto dire addio a qualcuno.
Lo baciai così, all’ingresso di casa, a piedi nudi e in tuta.
Lo spogliai senza dire una parola, sospirando solo a ogni tratto della sua pelle che scoprivo. Quando fu nudo sotto i miei occhi, circondai la sua vita con le mani e gli diedi un delicato bacio sulle labbra, prima di dirigermi verso il bagno, lasciando una scia di abiti dietro di me. Mi seguì in silenzio fino ad appoggiarsi contro lo stipite della porta, osservandomi mentre facevo scorrere l’acqua in attesa di quella calda. Mi girai a guardarlo. Era tremendamente bello ed era mio.
“Mi piace quando esaudisci i miei desideri.” Mi canzonò, raggiungendomi e baciandomi in un modo totalizzante e talmente eccitante che mi sembrava di sciogliermi su quel pavimento. Ci  infilammo sotto il getto d’acqua calda e ci occupammo l’uno del corpo dell’altro, in un lento massaggio profumato volto a cancellare ore di lavoro in condizioni estreme, col tentativo, non del tutto riuscito, di scacciare via tristezza, fatica e paura. Lo sentivo dannatamente eccitato sotto le mie mani, contro il mio corpo e tornai a respirare, a sentirmi forte e potente dopo un tempo che mi era sembrato infinito. Quando mi fece sua, ancora lì, sotto le gocce e il vapore, mi sentii perfetta.
Ci asciugammo alla buona e passammo sul letto, per terminare quello che sotto la doccia avevamo solo iniziato. Poi crollammo aggrovigliati alle coperte.
Mi svegliai qualche ora dopo, ferita da un raggio di sole che filtrava dalle finestre lasciate volutamente aperte. Sgattaiolai dal letto senza svegliarlo e misi l’acqua sul fuoco per preparare la pasta. Non sapevo nemmeno che ore fossero, ma dopo un turno di 24 ore, massacrante come quello, non eravamo abituati a guardare l’ora per mangiare o dormire. Era la fame e la fatica a guidarci.
Mi raggiunse mentre guardavo fuori dalla finestra un paesaggio pressoché immobile, mentre aspettavo che il pranzo/colazione fosse pronto.
“Non capirò mai come sopravvivi senza caffè.” Mi canzonò schiacciando la mia schiena contro il suo petto. Sollevai le spalle in risposta. “A che pensi?” continuò.
“Mi chiedevo quando tutto tornerà normale.” Mi accomodai meglio tra le sue braccia, quando abbandonò la tazzina per stringermi meglio a sé.
“Non lo so Amore mio, ma dobbiamo resistere. Per adesso godiamoci quello che abbiamo. Godiamoci i pochi momenti normali che abbiamo e teniamoli custoditi dentro di noi. Godiamoci questa giornata normale, sognando di averne presto tantissime altre.”

So che sono passati tipo secoli e mai mi sarei immaginata di tornare a scrivere in questo momento, ma è successo.
A tutti auguro di avere presto giornate normali. Io vado a dormire, chè domani si riparte.
Buona notte e buona fortuna.

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