Acheon - La Spada di Fuoco

di Audrey_e_Marilyn
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Atto Primo - Prologo ***
Capitolo 2: *** Atto Primo: La Base Rossa ***
Capitolo 3: *** Atto Secondo: A carnevale, ogni scherzo vale ***
Capitolo 4: *** Atto Secondo: Il rubino maledetto ***
Capitolo 5: *** Atto Terzo: Il rapimento ***
Capitolo 6: *** Atto Terzo: Il segreto della Pulzella di Orleans ***
Capitolo 7: *** Atto Terzo: Il Sacrificio di Merrow ***



Capitolo 1
*** Atto Primo - Prologo ***


 
 

Archeon

La spada di fuoco
 

Atto Primo: Prologo


Tutto era luce e buio, un forte boato squarciò i cieli e fece tremare la terra.  Dai cumoli di fumo grigio intravide due grandi occhi vermigli, rossi come il sangue e desiderosi di uccidere, quanto di distruggere. Strinse l’elsa della sua spada e l’impugnò fiero, dalle nebbie scure uscì un imponente drago nero come la pece, portava profonde cicatrici lungo il corpo e le sue grandi ali erano lacerate. Sapeva di avergliele procurate e sapeva che quella battaglia si sarebbe conclusa in quel momento. Il drago lanciò una poderosa fiammata dalle sue nari che riuscì a schivare senza problemi, la belva mostrò gli aguzzi denti intrisi di sangue e saliva. Il drago tentò di azzannarlo, schivò velocemente e fendette la lingua del rettile, questa cadde ai suoi piedi e si dimenava come se mai fosse stata tagliata. La bestia tentò ancora di addentarlo, per schivare il colpo fece un salto talmente alto che quasi sembrò spiccare il volo, atterrò sulla schiena del drago e si aggrappò ad una delle sue enormi squame nere e risalì la sua schiena evitando gli spuntoni, fino ad arrivare alla sua testa. Il drago si voltò di scatto e lo fissò intensamente tanto che riuscì a riflettersi nelle sue pupille malvagie; sputò un soffio di fuoco dalla sua bocca e finì sulla sua spada. Il nero fuoco viscoso venne assorbito dalla argentea lama che venne lambita da una flebile fiamma azzurra, la impugnò e con forza la conficcò nel suo occhio e il sangue che ne sgorgò era nero e freddo come il ghiaccio. Estrasse la spada e provò a conficcarla anche nell’altro occhio, ma la belva scosse freneticamente la testa e gli fece perdere l’equilibrio. Cadde ai piedi dei grandi cancelli, alzò lo sguardo e vide il mostro dimenarsi dal dolore, ondate di fumo nero e denso ricoprirono i cieli, potenti fiammate si disperdevano alla cieca in quel immenso cumulo, una però lo colpì con insistenza. Si parò mettendo avanti a se la spada, ma si bruciò le spalle e la schiena. La sua spada assorbì tutto il fuoco e brillò di una fulgida luce azzurra, una fiamma diversa dalle altre, più forte, più vera, più resistente…  Il drago piombò su di lui con le fauci spalancate, prive di lingua, con un solo colpo conficcò la spada nelle sue fauci e il fuoco che lambiva la lama si diffuse in tutti i cieli, fendendo le nubi nere con raggi di luce. La coda dell’enorme bestia picchio sul suo braccio, perse la presa sulla sua spada che cadde nell’oblio della terra conficcandosi con forza in una roccia. Il mostro nero emise rantoli di dolore, si rannicchiò su se stesso e scomparve così com’era apparso.
 
I cieli si rasserenarono, le trombe cantarono la vittoria con suoni celesti, una luce rosea colorò i paradisi e illuminò ancora la terra con la fresca alba.  Mentre il sole guarì le sue ferite, guardò la sua spada, conficcata nella roccia e sapeva che non sarebbe potuto scendere a riprendere, il veto lo proibiva. I cancelli alle sue spalle si aprirono con un lento cigolio, sentì una mano poggiarsi sulla sua spalla e un breve vociare dietro di lui.
 «Come faremo senza la spada? Il tempo si avvicina Gabriel.»
«Non disperiamo, vi è una soluzione per ogni dilemma.» I suoi occhi erano chiari e glaciali, ma la sua voce era calda e rassicurante. Le sue fattezze erano femminee, ma allo stesso tempo mascoline, lineamenti di un essere asessuato; dalla sua schiena si levarono poderose ali argentee che lo inglobavano dolci.
  «Fratelli io credo di avere la soluzione…» si pronunciò quello che fra i quattro sembrava il più giovane, aveva anche lui un enorme paio d’ali, bianche però. Candide piume bianche, come quelle di una colomba o di un cigno.
  L’ultimo, quello che pareva il più vecchio, intuì i voleri del più giovane: «Uriel, sei certo che sia giusto coinvolgerli? Sono impotenti e quando giungerà il momento non sappiamo se saranno pronti.»
«Lo saranno, perché saremo noi a sceglierli» sorrise il giovane. Staccò con delicatezza una piuma dalle sue ali e proferì: «fratelli, gli uomini non sono tutti nobili è vero, ma noi siamo in grado di riconoscerli  e sappiamo tutti e quattro che solo loro saranno in grado di recuperare la spada di Mikael.»
 «Credo che sia l’unico modo…» disse il guerriero staccandosi una piuma. «Quando verrà il momento noi saremo con loro, pronti a guidarli.» Lasciò volare la sua piuma lungo la volta celeste, era una grande piuma dorata che fluttuava senza peso nell’aria.

Gli altri lo presero da esempio e lasciarono che le loro penne si librassero in cielo, d’un tratto queste si calarono a capofitto nel mondo ad una velocità fulminea, oltre passarono fiumi, monti, laghi, secoli… d’un tratto la piuma dorata si scagliò a capofitto nella schiena di un giovane, questo non se ne rese conto e continuò a pulire le cucine di un immenso castello. Passarono i mesi e quel giovane andò nel luogo ove la spada era caduta, tanto tempo prima, bella e lucente come se fosse stata appena forgiata, i rampicanti che lambivano l’elsa e nascondevano la lama. Il giovine andò titubante verso la spada, ricevendo forti critiche dai coloro che ci avevano provato prima di lui o da quelli che ancora dovevano provarci, ma non ne avevano il coraggio. Sguainò la spada con facilità dalla roccia, una grande luce dorata squarciò le nubi grigie e illumino il ragazzo, grandi urla di gioia riempirono quelle desolate praterie e un grande gruppo di uomini lo sollevò da terra esultando. Attraverso i suoi occhi passarono anni e in letto di morte, dopo un grande regno, il re esalò il suo ultimo respiro e la piuma tornò a volteggiare nei cieli senza metà.

Per molti secoli vagò tra un uomo e l’altro, ma uno fra tutti era importante. Era un grande campo della Lorena, in Francia, e una giovane pulzella prendeva l’acqua dal pozzo. La piuma entrò nel suo petto, ma anche lei non si rese conto di nulla, finché delle strane voci non attirarono la sua attenzione. Le fu chiaro quale dovesse essere il suo destino, la ragazza tagliò i suoi lunghi capelli biondi, si vestì da  soldato ed entrò nella fanteria francese armata con una spada lucente e affilata a tal punto da tagliare profondamente al suo solo tocco. I suoi occhi videro la sanguinosa battaglia d’Orléans e il volto del Delfino che calorosamente l’accolse nella sua dimora, vide la sua cattura e la sua prigionia, una lunga e straziante prigionia fatta di domande e accuse, ma nonostante la galera, nonostante lo strazio e il dolore, mantenne fede a se stessa e al suo voto. Le voci non l’abbandonarono mai, le sentiva vicine, le sentiva in se stessa e le vedeva come se fossero difronte  lei davvero. E poi venne la condanna. La calda aria di Rouen a maggio, la luna piena brillava nel cielo come se la stesse guardando e le pire pronte per essere accese la attendevano con estrema impazienza. Venne legata e li vide accendere il fuoco sotto di lei, sentì l’odore del fumo salire fino alle sue nari e riempirle i polmoni, tossì con irruenza e quando le fiamme iniziarono a lambirle i piedi scorse lontano un fabbro che tentò di rompere la sua spada per riforaggiarne una nuova, ma invano. Il metallo non fondeva, assorbiva il calore e lo rilasciava, la spada era divisa. Sentì le gambe bruciare e il suo grido di dolore si innalzò fino ai cieli e alle cerchie più alte. I suoi occhi si spensero, circondati da fiamme calde, ma quando anche il più piccolo tizzone si spense di lei rimase ancora il suo cuore. Vivo, pulsante e insanguinato. Presero le ceneri della giovane e li lanciarono nella Senna e nelle profondità, nel letto del fiume, ancora oggi il suo cuore batte.
 
Clelia si alzò di scatto, il suo cuore batteva con forza e il sudore scendeva freddo lungo le sue tempie. Si guardò intorno. Era nella sua camera. Sentì un peso sul ventre, guardò in basso ed ebbe un sussulto, ma riprese subito fiato. Un paio di occhi dorati la guardavano in attesa, impazienti e curiosi.
 «Aramis… sei soltanto tu» accarezzò il suo gatto con gentilezza e questo le fece le fusa, mettendole in mano un topo di campagna. «Oh questo… questo è per me? Che bravo cacciatore, perché non te lo mangi?» lo posò per terra, sperando che al gatto venisse fame.
Si alzò dal letto e scese in cucina a bere un bicchier d’acqua, il gatto scese con lei e cominciò a farle le fusa, lo ignorò. Era ossessionata da quel sogno, così reale e nitido, come se davvero fosse accaduta una cosa simile. Lei era la prima a credere a stramberie vare, ci conviveva tutti i giorni, da anni, ma quello era surreale. Guardò fuori dalla finestra e contemplò le campagne senesi, la pioggia che cadeva veloce e frenetica e bagnava il terreno. Se quel sogno aveva davvero a che fare con la realtà, se davvero aveva un significato nascosto allora solo uno avrebbe potuto risponderle. 

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Capitolo 2
*** Atto Primo: La Base Rossa ***




Atto Primo:  La Base Rossa

 
Il sole illuminava mite le campagne senesi che si estendevano infinite intorno a casa sua, il freddo pungente di Febbraio incombeva sulle piante di sua zia, avvolgendole in una morsa letale. Clelia era seduta in cucina con in mano una tazza di caffè e il gatto che le faceva le fusa per avere qualcosa di cui mangiare.
 «Clelia!» esclamò sua zia dalla cucina «è tornato!»
La ragazza rovesciò il caffè sul tavolo e corse fuori in giardino a gran velocità. Nel vivaio c’era un uomo dalla grande stazza, le spalle ampie e le braccia possenti; il volto  incorniciato da una barba ispida e marcato da una profonda cicatrice sulla guancia sinistra che si estendeva fino alla tempia; la grande bocca carnosa si aprì in un ampio sorriso e le sue braccia si schiusero per abbracciarla. Clelia gli saltò al collo e lo strinse a sé con forza.
  «Zio Vasco!» esclamò lei contenta «mi sei mancato!»
«Anche tu tigre» le accarezzò i capelli e la squadrò per qualche secondo «sei cresciuta ancora mentre ero via? Sei una pertica!»
 «Effettivamente ho preso un paio di centimetri» scherzò lei, lo zio le scompigliò i lunghi capelli biondi.
Uscì anche sua zia in giardino che corse subito ad abbracciare il marito, lo strinse a sé e gli diede un bacio sulla cicatrice. Sua zia era una donna molto elegante, dai capelli ricci e corvini, con un gran paio di occhi smeraldini che sapevano scrutarti dentro. Sistemò il colletto della camicia al marito e sorrise contenta: «allora? Come è andata quella cosa?» domandò la donna a bassa voce cercando di non farsi sentire dalla nipote, invano.
 «È andata Dafne… » sussurrò lui tenendosi sul vago, accortasi del buon udito della ragazzina. Lanciò un’occhiata silenziosa alla moglie, che non domandò più alcun che. «Vuoi venire a fare un giro nei boschi, nel mentre la zia prepara da mangiare.»
 «Sì, okay.»                                                                                         
Uscirono dai cancelli della casa e presero una stradina scoscesa che portava ad una fitta boscaglia. Rimasero in silenzio finché non arrivarono  nel cuore del bosco: uno spiazzo d’erba circondato da querce secolari che lasciavano trasparire una luce sfusa che illuminava l’ambiente. Si sdraiò sull’erba, ne mise un filo in bocca e inspirò profondamente quell’aria fresca. Era il suo posto preferito, l’unico luogo in cui davvero trovava la pace.
 «Ho fatto un sogno zio…» cominciò la ragazza guardando il piccolo spiraglio di cielo che si intravedeva fra le fronde.
«Che genere di sogno?»
 «Un sogno molto realistico, quasi come se davvero fosse accaduto… cioè, Giovanna d’Arco è esistita davvero, ma… era un sogno così strano zio non so quasi come descriverlo.»
«Credevo fossi abituata alle stranezza, è il tuo lavoro ucciderle… o sbaglio?»
  «No, non sbagli, ma questi non sono mostri zio, questa è una questione di tutt’altra natura.»
«E che hai sognato, la Madonna?» scherzò lui.
  «No lei no, solo i quattro arcangeli.»
Vasco si fece più interessato e le chiese di spiegarle per filo e per segno ciò che aveva sognato, lo fece. Descrisse particolari e sensazioni, i dubbi e le domande che le avevano afflitto la testa tutta la notte.
 «Alquanto bizzarro come sogno… non raccontarlo agli altri, giù alla base, non capirebbero e chi ci riuscirebbe ti reputerebbe folle.»
«Zio, tu ci credi?»
 «Sì Clelia, sfortunatamente ci credo» suo zio si incupì e si sedette affianco a lei. «Quella spada esiste, se mio fratello non avesse perso tempo a cercarla oggi forse sarebbe qui con te.»
«Mi avevate detto che erano morti in un incidente stradale…»
  «Io e la zia non siamo stati del tutto sinceri con te, scusa. I tuoi genitori, beh loro, lo sai, erano della tua stessa stoffa… cavalieri e di alto rango, un giorno tuo padre s’intestardì nel voler cercare la spada di fuoco, ma fu la sua rovina. Sua, tua, di tua madre… non cercare quella spada Clelia, i tuoi sono stati uccisi per averla, è qualcosa che va oltre ogni fantasia.»
«Sono… sono stati uccisi?»
 «Sì, durante una missione, sedici anni fa, a Parigi. Sono stati ritrovati sotto un cumulo di vetri appuntiti, i giornali e le telecronache hanno bollato il caso come suicidio, ma io so che non è stato così. No, mio fratello non ne avrebbe avuto motivo, aveva te e Ginevra…» le accarezzò la guancia «qualcuno ha voluto tagliare il filo per loro.»
Il cielo si rannuvolò sopra le loro teste e lo zio aiutò Clelia ad alzarsi. La prese per le spalle e insieme tornarono a casa, dove la zia Dafne li aspettava con la tavola imbandita.  Il pranzo trascorse tranquillo, tra risate e battute, ma Clelia ancora sentiva il gusto amaro della verità. I suoi genitori erano stati uccisi per lo stesso oggetto che aveva visto più e più volte in quel sogno, ma non l’avevano mai trovata. Solo leggende, si disse, eppure quelle leggende avevano ucciso i suo genitori.
 «Allora glielo hai detto?» domandò d’un tratto la zia, rivolta al marito. Vasco scosse il capo, il comportamento così evasivo degli zii preoccupò non poco Clelia che, però, rimase in silenzio facendo finta di nulla.
Si alzò dalla tavola e andò in camera sua senza proferir parola, chiuse la porta alle sue spalle e si appoggiò con la schiena allo stipite della porta. Guardò la sua stanza e la foto dei suoi genitori sul comodino affianco al letto. Due uomini, giovani e sorridenti, felici stringevano fra le braccia una bambina di al massimo un anno. Si alzò, prese in mano la cornice e accarezzò il volto sorridente di suo padre come se fosse vivo, come se potesse davvero sentire il tocco delle sue dita attraverso quel freddo vetro. Somigliava molto a sua madre: gli stessi occhi cristallini, chiari come le acque dei caraibi, i lunghi capelli mossi e biondi, le labbra piene e carnose, il sorriso, le lentiggini e la corporatura; tuttavia il carattere impetuoso, scaltro e frenetico lo aveva preso tutto da suo padre.
 Bussarono alla sua porta, lo zio la aprì un poco e si affacciò nella camera della nipote: «tigre, dobbiamo andare…»
 «Arrivo, tu aspettami all’auto.»
Prese la sua divisa dall’armadio e la mise disordinatamente dentro la tracolla, insieme al cellulare e al lettore mp3. Corse al piano inferiore, sua zia le sorrise e le schioccò un bacio sulla guancia.
 «Piccola fai attenzione» la strinse forte in un abbraccio.
«Zia ho diciassette anni e poi sono la migliore nel mio lavoro, non ho bisogno di raccomandazioni» borbottò lei cercando di divincolarsi dalla stretta della donna.
 «Sarai sempre la mia piccina, anche quando sarai sposata.»
«Avanti zia!» la lasciò andare e corse all’auto, dove suo zio la stava già aspettando. «Eccomi, zia Dafne non mi mollava più» si accomodò davanti e allacciò la cintura.
  «Con il lavoro che facciamo ci vuole sempre cautela, vuole solo vederti tornare a casa piccola.»
Accese il motore e partirono alla volta di Siena. Il cielo e l’aria presagivano un imminente temporale, il vento soffiava convulso facendo addirittura piegare i cipressi, ma nell’auto l’aria condizionata riscaldava le mani di Clelia e la musica del cd rimbombava nelle sue orecchie tenendola sveglia.
La città di Siena era animata dal carnevale e dai bambini che giravano per le strade vestiti nei modi più stravaganti, i festoni e i coriandoli coloravano le strade e animavano i rioni. Vasco e Clelia entrarono nel duomo, salutarono gli addetti per nome, attraversarono la ampia cattedrale e si avvicinarono all’altare. Aprirono le piccole ante del tabernacolo, al suo interno una croce d’argento puro, adornata da preziosi rubini e con sopra inciso: “ Milites autem Crucis”.  Prese il mano la croce e la portò dietro il coro, ove c’era una piccola serratura, grande come la croce. Inserì la croce e la girò tre volte verso destra e scattò la porta, immergendosi nel muro e lasciando spazio ad una lunga schiera di ripide e scoscese scale. Clelia prese la grossa fiaccola che stava sistemata al muro, la porta alle loro spalle si chiuse con un cigolio sinistro lasciandoli al buio, illuminati solo dalla flebile luce della torcia. Scesero cautamente le scale fino ad arrivare ad una camera sotterranea che assomigliava ad una palestra, solo che al posto dei pesi vi erano varie tipologie di armi, da quelle bianche a quella da lancio.
 «Clelia! Sei arrivata!» esclamò una ragazzina dal poligono di tiro, le corse incontro e andò ad abbracciarla. Era una ragazza minuta, dal fisico asciutto e allenato, i capelli biondissimi e spettinati lasciati al vento e i chiari occhi grigi che la fissavano felici. «Ti stavamo aspettando, come è andato il weekend?»
 «Non c’è male, ma non vedo l’ora di andare in missione» disse. «Tu e Tommy?»
«Non ci lamentiamo, anche la missione è carina.» sorrise lei. Alle sue spalle comparve un ragazzo alto, biondo scuro e dai grandi occhi castani, lo sguardo magnetico metteva sempre Clelia in soggezione, ma alla fine lui era una delle persone più simpatiche della base.
 «Sì, Emilia ha ragione, sarà bellissimo girare per la Russia alla ricerca di un grosso e peloso lupo mangia uomini!» ridacchio il ragazzo «a Febbraio poi!... Ciao Clelia!» esclamò salutandola con la loro stretta di mano personale. Nessuno avrebbe mai scambiato Tommaso ed Emilia per due gemelli, erano così diversi, eppure così in simbiosi l’uno con l’altra. Lo zio di Clelia continuò il percorso e andò verso la sala grande della base, lasciandola con i suoi due amici. «Ragazzi, è tornata la master!» gridò Tommy e altri amici corsero a salutarla, prima tra tutti Giselle.
 «Oh che bello vederti!» esclamò entusiasta «Non vedo l’ora di farti vedere quello che ho imparato!» Giselle era stata l’ultima ad unirsi ai cavalieri, ma aveva un futuro brillante come tiratrice, aveva battuto ogni record con i coltelli da lancio. Era tanto brava che tutti alla base l’avevano soprannominata occhio d’aquila, sapeva tirare un coltello e fare centro ad una distanza di duecento metri.  Si tirò su i capelli rossi e li legò in una coda mal fatta, sorrise e guizzò con quei suoi occhi azzurri ed impertinenti.
Comparve anche il suo partner, Shane, lui  invece era un membro anziano dell’Ordine, ma non abile quanto Clelia, seppur fosse un grande combattente. Sorrise felice e le diede un cinque : « ecco la mia compagna di scherma» scherzò.
  «Ti batterò sempre Shane, non hai alcuna speranza.»
«Mai dire mai, arriverà qualcuno che riuscirà a stracciarti e quando accadrà ti riderò in faccia» scherzò lui scompigliandole i capelli. Shane era alto, molto alto, e anche se lei di certo non era bassa la faceva sentire piccola ed insignificante, poi con quei due glaciali occhi verdi aumentava quel senso di inadeguatezza. Tuttavia lui non riusciva mai a batterla in niente e quindi riusciva sempre ad essere un passo avanti a lui.
 «Vado a vedere il tabellone delle missioni, dopo facciamo una sfida?» domandò al ragazzo.
«Massì, perché no, questa volta ti anniento bionda.»
 «Non ci conterei troppo!»
Emilia accompagnò Clelia nell’atrio della base, i tavoli circolari erano posizionati a file di tre nella stanza e sui muri erano appesi gli stendardi dell’Ordine. Erano dei grandi vessilli in seta argentea con al centro ricamata con una croce rossa, rossa come il sangue che i loro fratelli avevano sparso per proteggere gli altri uomini, e il numero della base. Erano a migliaia le basi nel mondo e un centinaio solo in Italia, oltre che essere lo stato più prosperoso per l’Ordine era anche il più importante, solo i migliori arrivavano in Italia e venivano selezionati dalle basi di tutto il mondo. Siena era la più importante tra le basi, dopo Roma, e conosciuta solo dai confratelli. È chiamata da tutti Base Rossa, ma anche detta Base 2 ed era relativamente la più grande, nonché quella con più cavalieri.
Vide suo zio intento a fissare il tabellone delle missioni, a braccia conserte, in silenzio. Si avvicinò a lui e guardò i vari incarichi: una missione in Russia già prenotata dai gemelli, una in Spagna… ma se l’erano accaparrata Shane e Giselle. Tutte le missioni erano state prenotate, tranne una. Clelia aveva affrontato mostri ben più sanguinari e senza necessitare di un partner come tutti gli altri cavalieri. Andare a Venezia per uccidere un Gargoyle sarebbe stata una sciocchezza, aveva già svolto innumerevoli volte quel genere di missioni ed era un po’ stanca, voleva qualcosa di nuovo… qualcosa che avrebbe cambiato la sua vita per sempre. Scrisse il suo nome affianco alla casella della missione, con aria di sufficienza.
 «Mi spiace Clelia, se fossi ritornato prima da Roma avresti potuto scegliere quella migliore» disse lo zio.
  «No, va bene così» disse lei «sarà uno scherzo, più sono grossi e più sono stupidi… e poi tu sei il Gran Maestro zio, è ovvio che ripongano maggiore fiducia in te.»
«Sei molto in gamba Clelia, ma i Cavalieri Templari non lavorano da soli… »
  «Parlano di uno che invece, da che è stato introdotto, ha sempre lavorato in solitudine, lo descrivono come un angelo della morte.»
«Clelia… »
 «Ho sempre lavorato da sola, mi sono fatta strada da sola fra tutti i membri di questo ordine,  ho superato anche i più anziani e tu sai che se sono una dei più grandi Cavalieri Templari del mondo è stato solo grazie alla mia determinazione. Io credo di essere pronta per missioni più pericolose, intendo quelle in nero.»
  «Quelle in nero?! Clelia quelli sono segreti che vengono consegnati solo ai Gran Maestri, nessuno le ha mai aperte a parte i tuoi genitori ed io!»
«Non ti sei mai sentito pronto? Pronto per fare qualcosa anche se il mondo è certo del contrario?»
  «Non è quello tigre, non si tratta di tempra, per quello sei pronta da anni… io parlo di mentalità, hai ancora molto da imparare.»
«Perché non ti fidi di me?»
 «Se non mi fidassi di te piccola non ti lascerei mai da sola con la zia» la abbracciò «sei una grande guerriera, ma per essere la migliore hai bisogno ancora di qualcosa.»
«Cosa mi manca?»
  «A Venezia troverai tutte le risposte di cui hai bisogno» sorrise «forza mettiti la divisa e vai ad allenarti con gli altri.»
Andò negli spogliatoi, si fasciò le mani con delle bende e mise la divisa. Era un abbigliamento molto antiquato, ma era più per le cerimonie e gli allenamenti che non per le missioni vere e proprie. La camicia era bianca e le maniche lunghe finivano a sbuffo e cadevano morbide sui suoi palmi, strinse il corsetto finché le forme dei suoi fianchi non vennero rivelate e i seni messi in risalto dalla scollatura della camicia; una collana argentea e tempestata di rubini scendeva lungo il seno rinfrescandole la pelle con la sua fredda superficie, tirò su i pantaloni di pelle che le risaltavano le gambe e legò alla cintura tutte le sue armi. Fece velocemente una treccia e salì al piano superiore, tutti erano in fila a recitare il motto dell’Ordine. Davanti i membri giovani, gli iniziati, in centro i coloro che erano stati trasferiti da poco e al fondo quelli come lei che erano lì da quasi una vita, o comunque un tot di anni sufficienti per essere reputati di classe superiore alla norma. Era una regola che i Cavalieri, prima di ogni allenamento, recitassero il loro inno in memoria dei confratelli che avevano dato la vita per far risorgere questo Ordine dalle ceneri e dal limbo in cui era piombato. Un motto di onore, sacrificio, dolore, sangue… di certo non poteva essere la filastrocca della vispa Teresa, pensò Clelia analizzando la storia del loro Ordine. Finito, suo zio li congedò e li intimò ad allenarsi con ciò che sapevano maneggiare meno bene. Per Clelia era un consiglio un po’ sprecato, lei sapeva usare qualsiasi genere di arma e suo zio l’aveva addestrata al meglio. Shane le andò vicino e sorrise… voleva sfidarla, ancora.
«Molto bene, campo di battaglia?»
  «Ho voglia di fare due tiri con la spada, ti va?»
«Perfetto.»
Percorsero il corridoio di destra, ammirando i ritratti dei grandi Cavalieri che percorrevano con loro il buio e angusto androne. Arrivarono nella più grande stanza della base, illuminata dalla luce fioca e sinistra delle torce che davano all’ambiente un’aria cupa.
 Shane si diresse al centro della sala, estrasse la sua spada, uno stocco francese settecentesco e innalzò la lama: « sto aspettando madame.»
 Clelia invece scelse una sciabola spagnola, poiché il ferro spagnolo era ben più resistente di quello inglese e francese; la lama era a doppio filo, lunga e sottile, l’elsa era ricoperta con uno strato di cuoio nero e la guardia le nascondeva la mano dietro ad un elaborato fregio in oro. «Enguarde!»
Le loro lame si abbassarono fino a sfiorarsi, per qualche secondo rimasero immobili a fissarsi. D’un tratto Shane tentò un affondo, ma Clelia lo respinse schivando il colpo velocemente. Conosceva bene la tattica di Shane, si basava soprattutto sull’attacco che non sulla difesa, quando colpiva di punta era più pericoloso perché metteva più forza nelle braccia, ma se erano laterali erano facili da parare e le aprivano un varco per disarmarlo. Provò ad affondare ancora, ma la colpì alle spalle, lei respinse il colpo deviandolo con la spada, che aveva velocemente portato lungo la schiena. Chiuse gli occhi e inspirò profondamente, la vista non era l’unico senso che serviva in battaglia. Sentì la spada fendere l’aria con un fruscio metallico, senza guardare seguì i movimenti della spada di Shane e la parò con gli occhi chiusi e poi, con gesto fulmineo, riuscì a disarmarlo e ad impossessarsi del suo stocco.
 «Ora posso dire di riuscire a batterti ad occhi chiusi» ridacchiò lei.
«Quando hai imparato a fare una cosa del genere?» domandò lui sbalordito.
  «È un po’ che mi alleno per affinare l’udito, è la prima volta che lo metto in pratica e devo dire che non è andato per niente male!» esclamò lei contenta passandogli la spada.
«Sono sbalordito, migliori di giorno in giorno… prima o dopo dovrai dirmi come fai.»
  I due ritornarono nella sala principale, si salutarono e  andarono ognuno nei loro spogliatoi. Clelia si fece una doccia, era da sola e nessun genere di rumore, solo il silenzio e il leggero fruscio della doccia che le rammentava quel sogno così realistico, la pura che aveva provato e la sensazione del fuoco che le lambiva la pelle.  Quando si stava rivestendo, Emilia e Giselle stavano facendo ritorno dai loro allenamenti.
 «Clelia, ti stava cercando tu zio» le disse la bionda.
«Sì, ha detto di dirti che è urgente» continuò la rossa.
 «Grazie, ci vado subito.»
Corse per le scale e trovò lo zio nel suo ufficio, intento a firmare carte e rinnovare passaporti per tutti i ragazzi della base. Il suo era uno studio piccolo, con una grande libreria dove anche solo un libro in più l’avrebbe sfondata; la scrivania era ampia, ma piena di chincaglierie e fogli volanti, il volto dello zio era illuminato solo da un vecchio lume ad olio, che risaltava la sua bruttissima cicatrice. Lui non le aveva mai detto come se l’era procurata, si rifiutava di dirglielo o si teneva sul vago. Un proiettile, diceva, ma come poteva un proiettile sfregiargli il volto in quella maniera? I medici erano in grado di estrarli senza troppi danni.
 «Mi hai fatta chiamare zio?» domandò lei tossicchiando per attirare la sua attenzione.
Alzò lo sguardo dai suoi documenti e tolse gli occhiali da lettura: «sì, è necessario che tu parta subito per Venezia.»
  «Come, ora? Non posso partire domattina presto?»
«No.»
  «Perché no? Non vedo dove sia il problema.»
«Ehm… è questione di tempistiche tigre, devo accompagnare Emi e Tommaso all’aeroporto .»
 «E che centra? Io a Venezia ci sarei andata comunque da sola, ho la moto parcheggiata dietro il duomo.»
«Allora non ti sarà un problema partire questa notte.»
  «Ma…»
«Nessun “ma” Clelia, devi sottostare ai miei ordini, come tutti qui. Io sono il Gran Maestro, tu sei ancora un’allieva e non puoi permetterti di fare di testa tua, anche se sei mia nipote e la mia miglior combattente.»
  «Come vuoi» rispose atona «vado a fare le valigie allora» fece per uscire dallo studio, ma suo zio le fece cenno di fermarsi. «Che altro c’è Maestro?»
«Porta questi con te, la zia mi ha pregato di darteli.» Le porse un sacchetto pieno di vestiti, tra cui uno che sembrava l’abito di una principessa. «Ci sarà il carnevale a Venezia, puoi usare quel vestito per mescolarti tra la folla... è importante sapersi mimetizzare.»
 «Sembra quasi che tu non mi abbia addestrata, zio, so perfettamente come muovermi.»
«Sì, hai ragione, ultimamente ti do poca fiducia.»
  «Ringrazia la zia da parte mia, io vado a prepararmi.»
Uscì dall’ufficio in silenzio e si diresse ai dormitori. Molti dei ragazzi che diventavano Cavalieri erano orfani e molti venivano iniziati fin da piccoli, come Shane. Le camere erano occupate solitamente dai più giovani, ma anche i membri anziani avevano i loro dormitori personali ed erano per lo più stanze singole e dall’ampiezza maggiore. Clelia risalì le scale e ritornò nel duomo, entrò nel chiostro e guardò le stelle  che brillavano fulgide nel cielo color cobalto, mentre la luna illuminava il pozzo al centro del giardino. Attraversò il resto del chiostro e si diresse negli alloggi del clero; una volta davanti alla mensa guardò la statua marmorea dell’arcangelo Gabriele, essa indicava una piccola fessura impenetrabile per un essere umano. Clelia piegò l’indice della statua e il muro dove c’era la piccola fessura si schiuse, lasciando spazio ad un lungo corridoio. Prese la chiave della sua stanza dal quadro e si diresse velocemente verso di essa. Quando aprì la porta tutto era rimasto esattamente come lo aveva lasciato prima di partire per la missione precedente: il letto disfatto, la scrivania in disordine, le armi per terra e le ante dell’armadio aperte.
 «Ho lasciato un po’ di casino…» si disse.
Prese un borsone e cercò di farci stare tutti i vestiti e gli armamenti, quelli piccoli li nascose nelle tasche interne della giacca di pelle. Si mise i pantaloni militari e legò alla cintura una frusta, un paio di pistole e legò un pugnale nel sostegno legato alla coscia. Legò stretti gli anfibi neri e vi nascose la cerbottana, i dardi e i pugnali da lancio erano sicuri della sua giacca… era pronta ad essere scambiata per una macchina da guerra. I vestiti da militare spesso e volentieri eludevano i sospetti e i documenti finti li confermavano, era facile per i Cavalieri mescolarsi fra la gente. Guardò il vestito che la zia le aveva cucito per il carnevale, era un bell’abito nulla da dire, ma come cavolo avrebbe potuto combattere? Lei aveva sempre una soluzione e uno stupido abito non l’avrebbe certo fermata, o intimorita. Lo sistemò nella sacca e uscì una volta per tutte dal duomo con il bagaglio sulle spalle, lo sistemò nel bauletto e mise in moto. Il motore rombò con forza e partì velocemente per Venezia.

 

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Capitolo 3
*** Atto Secondo: A carnevale, ogni scherzo vale ***


    

Atto Secondo:  A carnevale, ogni scherzo vale


 
Venezia, la città dell’eleganza e dello sfarzo, che vanta di un carnevale entusiasmante e pieno di raffinatezza. Si sistemavano gli ultimi preparativi per la grande serata e Clelia li osservava lavorare compiaciuta, non era mai stata a lì durante il periodo carnevalesco e desiderava vederlo almeno una volta.

Arrivò alla base di Venezia, la basilica di San Marco, entrò nella chiesa e la guardò come lo aveva fatto la prima volta. Era stata in quella base già più volte e per varie missioni, Clelia non sapeva perché, ma Venezia era una calamita per i mostri e almeno una missione, sul loro tabellone, era in quella città. Andò verso il tabernacolo nel quale risiedeva una piccola chiave dorata e tempestata di smeraldi, la girò tre volte e, con un frastuono, al centro della chiesa, si aprì il pavimento in una voragine. Scese delle piccole scalette in legno e percorse il corridoio fino ad arrivare alla sala grande della Base Verde. Era la terza base costruita dai predecessori, ma fu la prima a crollare. I Cavalieri cercavano di farla risorgere dalle ceneri e riportarla al suo antico splendore, ma il Gran Maestro aveva davanti a se un cammino ancora molto lungo e complesso. Proprio a proposito del Gran Maestro, la trovò che allenava i pochi e molto inesperti iniziati. Erano piccoli, molto, e probabilmente erano orfani. Ricordava bene il tempo in cui era stata iniziata, aveva solo sei anni, ma era sempre stata portata… suo zio diceva che invece di giocare con le bambole, preferiva giocare con la sua spada di legno. Sorrise a quel ricordo, ma riguardando quei bambini rammentò la fatica che aveva fatto per formarsi, i sacrifici che aveva dovuto compiere per essere la più brava. A breve avrebbe compiuto diciotto anni e le sembrò troppo quando vide quei bambini allenarsi, sperava che presto anche loro potessero girare il mondo e svolgere missioni, dopotutto era la cosa bella dell’essere Cavalieri.
 «Cassandra!» la salutò Clelia con un cenno della mano.
«Clelia!» la giovane Maestra corse ad abbracciarla. Era esattamente come la ricordava, la pelle olivastra e i capelli scuri, gli occhi castani e il sorriso sempre allegro che culminava in due simpatiche fossette. «Dio mio quanto tempo è passato!» Cassandra aveva giusto ventitré anni e anche se era giovane, era molto in gamba. «Come… come sta Shane? Cerca ancora di batterti?»
 «Sta alla grande… Cass, che domande fai? È ovvio che continua, lo sai che non cambierà mai» cercò di buttarla sul ridere, ma a lei mancava molto il suo vecchio partner e per non soffrire aveva deciso di non parlargli più.
«È il solito testone» rise lei «… Allora che combini qua a Venezia?»
  «Devo uccidere un Gargoyle, tu ne sai qualcosa?»
«È sempre stato visto qua nei dintorni di Palazzo Ducale, ha mangiato un paio di vecchietti e qualche bambino, ma ovviamente la gente è convinta si tratti di un assassino misterioso, va a sapere che c’è nella testa della gente.»
  «Solo qui nei dintorni, ma non ti sembra strano?» le fece notare Clelia.
«Sì, infatti, molto strano… ma i miei alunni hanno un coprifuoco molto ferreo da rispettare e quindi non gli do peso, se loro sono al sicuro non ho da preoccuparmi. Sai, sembra quasi che quel brutto bastardo sappia dove siamo, che resti in attesa per vederci uscire allo scoperto e per poi ucciderci senza alcuna pietà.»
  «Credo tu abbia ragione Cass… quando c’è il carnevale?»
«Domani sera, hai tutto il tempo che vuoi per indagare. Ti do una camera…»
Cassandra accompagnò Clelia ai dormitori e le assegnò una suite meravigliosa: un’ampia stanza colorata di verde e oro con al centro un letto a baldacchino, una cabina armadio e un terrazzo con tende in raso; affianco a lei un bagno che aveva perfino una vasca con funzione idromassaggio e una toilette in legno d’acacia che aveva tre specchi incorporati.
 «Accidenti Cass! A me andava bene anche solo un letto non una suite a cinque stelle!»
«Vuoi davvero farmi credere che la vasca idromassaggio non ti interessa?»
  «… Okay va bene la vasca mi alletta molto, ma non starò mai qui a che mi servirebbe?»
«Non si sa mai, a volte però solo un bel bagno può schiarirti le idee. A presto Clelia» chiuse la porta della camera e la lasciò sola.

Si buttò sul letto, era morbido e poteva sprofondare in quel comodo materasso, la stanza profumava di rose ed era del tutto differente alle camere della sua base… beh certo, se lei avesse trovato un cartone di pizza sotto il suo letto di certo non si sarebbe stupita, visto l’ordine, ma erano così eleganti rispetto a quelle di Siena. Sistemò i suoi abiti nella grande cabina armadio e guardò l’abito per il carnevale: era un abito lungo dal corsetto elaborato, era in velluto rosso e aveva ornamenti in oro, come i pizzi e i merletti; le maniche erano lunghe e in raso, tagliate lungo l’avambraccio e la scollatura era davvero ampia ed elaborata… davvero troppo ampia per Clelia. Si guardò il seno e sperò che potesse riempire il vestito. Se quel che diceva Cassandra era vero, allora combattere con la gonna sarebbe stata una priorità, non poteva rischiare di fare cadere la base tre.

Il mattino seguente il bagliore di un freddo sole invernale illuminava Venezia e Clelia era pronta per scoprire altri indizi sul Gargoyle. Andò nei luoghi del delitto, ma di quattro solo in uno trovò qualcosa: una strana bava rossiccia. Quelle erano creature notturne, uccidevano solo per necessità e si nascondevano tra le gargolle delle chiese, ma in quel periodo anche i mostri più schivi stavano diventando sanguinari e spietati. Principalmente ogni mostro è figlio del male e anche se i Cavalieri provavano ad eliminarli, non potevano farlo del tutto perché il male non sarebbe mai morto. Guardò sotto i suoi piedi per qualche secondo e procedette silenziosamente con le sue indagini. La bava dei Gargoyle solitamente era di uno strano verde acido, diventava di uno strano rosso solo a contatto col sangue umano e una volta assaggiato non ne avrebbe più fatto a meno. Guardò in alto e pensò che il mostro si potesse essere nascosto in cima al campanile. Il carnevale sarebbe stato non solo un ottimo diversivo, ma anche l’occasione perfetta per lei e per il mostro di colpire. Sarebbe stata una reazione a catena che si sarebbe conclusa con la sua vittoria.

  Ritornò nei dormitori e cominciò a prepararsi, si spogliò e corse in doccia. Regnava il silenzio, fino a che Clelia non aprì il getto dell’acqua, d’un tratto mente si lavava i capelli si sentì come avvolta da una strana malinconia e le sembrò che il tempo avesse smesso di scorrere; sentì un fruscio e d’istinto si coprì il corpo, spuntarono davanti a lei la figura di uno schiavo, giovane e scaltro, con in mano l’elsa di una spada. Solo ed esclusivamente l’elsa. Staccò il pomo del resto e lo guardò affascinato, attirato come se ne fosse stato posseduto. Era un rubino rosso sangue e grosso quanto una mela matura, bello e maledetto. Sentì un boato e un esercito di uomini irruppe nel bagno, uomini nascosti da un turbante e con volti arcigni, tentarono di assalirlo, ma questo scappò veloce con solo il rubino in mano e salì sul primo veliero che era attraccato. La scena si dissolse in un fruscio muto e il getto della doccia la colpì sulla schiena caldo e frenetico.
  «Ma che cazzo..?»

Finì velocemente di lavarsi, si infilò nell’accappatoio e andò alla toilette per prepararsi, quando bussarono alla sua porta: «posso entrare?» domandò Cass sporgendosi nella sua camera.
  «Ovvio» sorrise Clelia facendole segno di entrare.
«Vuoi una mano?» domandò gentile la ragazza.
  «Sì grazie, mi faresti un piacere.»
Cassandra le asciugò delicatamente i capelli con l’asciugamano, poi diede una leggera passata con il phon, prese l’arriccia capelli nel cassetto e, ciocca per ciocca, creò dei bei boccoli. Li tirò su con un bellissimo ferma capelli, in argento, simile ad un becco e sorrise: «sei bellissima con questa acconciatura.»
  «Come mai non vieni anche tu al carnevale?»
«Vorrei, ma questa è la tua missione e poi gli iniziati sono troppo piccoli per lasciarli soli» rispose lei sistemandole ancora un po’i capelli.
 «Ma ora chi li sta controllando?»
«Buffy.»
  «Buffy?» Cassandra aprì la porta della camera e fischiò. Dopo qualche secondo un grosso rottweiler, le saltò addosso leccandole tutta la faccia «ho capito chi è Buffy.» Il cane si voltò rabbioso verso di lei, ringhiando, ma quando vide la croce che portava al collo abbaiò contenta e le leccò la guancia.
«Giù bella, Clelia ha da prepararsi ora» il cane le guardò un attimo e uscì correndo così com’era entrato. «È una bravissima guardia notturna» scherzò lei mentre Clelia si puliva i residui di bava dalla guancia con una salvietta. «Forza, ora ti trucco» gongolò lei contenta.
 «Ma devo andare al ballo con una maschera, anche se non mi trucco non muore nessuno» non ne capiva l’utilità, nessuno avrebbe dovuto vederla.
«Andiamo! È il carnevale! Sarebbe un reato non farlo» rise lei truccandola. Clelia dovette ammettere che aveva fatto un bellissimo lavoro, non aveva fatto neanche un po’ di casino con il mascara, cosa che lei faceva di norma e il trucco non era pesante. «Tieni» la sua amica prese dalla sua tracolla una maschera rossa che prendeva metà del volto. La trovò bellissima.
  «Non so come ringraziarti» sorrise prendendola in mano.
«Tranquilla, è stato un piacere…» fece per andare «sa… salutami Shane quando torni a Siena, digli che mi dispiace» chiuse la porta alle sue spalle e Clelia intuì che in quel modo le avrebbe ripagato il favore.

Infilò il vestito e mise la maschera, si sentì davvero una principessa e quanto contrariamente pensato in precedenza, il vestito le calzava a pennello anche sul seno. Scese per le strade e guardò intorno a sé la gente ballare con gioia, ignara che presto una catastrofe si sarebbe imbattuta su di loro macchiando le loro risate di sangue e paura. Qualcuno picchiettò timidamente sulla sua spalla, si voltò di scattò e vide un ragazzo, mascherato ovviamente, che sorrideva cordiale.
 «Mi concede questo ballo signorina?» domandò lui inchinandosi.
 Clelia fissò un secondo il campanile preoccupata, non poteva ballare! Non in un momento come quello, ma d’altro canto aveva sempre desiderato partecipare al carnevale di Venezia: «volentieri» rispose prendendo la sua mano.

I violini cominciarono a suonare allegri, il giovane la portò nella piazza e le mise una mano sul fianco. Rabbrividì, il tocco non era per nulla impacciato e il modo in cui la faceva girare era… bellissimo. Non aveva mai ballato così, anzi… non aveva mai ballato, punto. Però, in piena euforia, un’ombra si calò a capofitto sulla gente e uno spintone la separò dal suo cavaliere. Era il momento.  Seguì il Gargoyle con lo sguardo, non poteva colpirlo con tutta quella gente, corse velocemente nonostante il vestito e lo rincorse fino a quando non atterrò sul ponte dei sospiri. Si affacciò un poco da un edificio e guardò il bambino che teneva appeso per la gamba, quello si dimenava e piangeva piano, intimorito dagli occhi del mostro, rossi come il sangue che tanto bramava. Non poteva lasciare morire il bambino, prese un coltello da lancio, nascosto dentro al corsetto, mirò alla mano del mostro e lo lanciò con forza. Gli trafisse la mano costringendolo a mollare il bambino, questo cadde nel canale e uscì da esso, correndo poi velocemente verso la salvezza. Il mostro si voltò verso di lei furente, ruggì feroce e si avvicinò piano, estrasse la sua sciabola da sotto la gonna dell’abito e si tenne pronta. Il mostro si accasciò a terra con una spada nella schiena, gli infilzò la testa… giusto per assicurarsene.  Il mostro ritornò di pietra, così com’era prima di prender vita. Alzò lo sguardo e vide il giovane che aveva ballato con lei in precedenza.
 «Tu?!» esclamò tra il furente e lo sbalordito.
«Prego, è stato un piacere.»
  «Scusa, ma non ti hanno insegnato a non rubare le missioni altrui?»
Scoppiò a ridere: «questa era la mia missione dolcezza.»
 «No credo ci sia stato un equivoco, questa è la mia missione» si tolse la maschera e andò verso di lui.
«E io ti dico che non è così» ribatté lui ostinato togliendo la sua maschera. Era un ragazzo slanciato, atletico, dalla carnagione olivastra, gli occhi neri come la notte e i capelli castani.  La sua bocca era grande e carnosa, una bocca che si aprì in un sorriso scaltro, che mise in mostra i suoi denti bianchi come la luna. Le prese il mento e sorrise ancora, con quel suo sguardò furbo e tagliente: «infondo aveva ragione… non sei del tutto da buttar via dolcezza.»
Gli scostò malamente la mano: «come prego?»
 «Non sei del tutto da buttar via, cos’è che non ti è chiaro nella frase?»
«Ma chi diavolo sei tu per venire a dirmi una cosa del genere?!»
  «Lo scoprirai presto dolcezza…» disse rimanendo vago « fino ad ora sei stata brava, ma non sei alla mia altezza, dopotutto sei sempre la numero due.»
  «Senti un po’ grandioso pallone gonfiato, non mi faccio fare la predica da chi neppure conosco! Che diritto hai tu di rubarmi la missione e parlarmi in questa maniera?»
«Non farti venire un diavolo per capello carina, è lavoro e basta, non ti ho rubato alcuna missione! Se te ne fossi accorta abbiamo lavorato in coppia.»
  «Ma che stai dicendo?»
«Tu hai salvato il moccioso e hai distratto il mostro abbastanza da permettermi di ucciderlo» alzò le mani al cielo «metà ciascuno.»
 «E allora perché la parte divertente te la sei accaparrata tu?»
«Perché sono il più esperto, oltre che il più grande.»
  «Balle, sei solo un grandissimo presuntuoso!»

Sentirono tre botti, uno dopo l’altro che aprirono un tripudio di incantevoli fuochi artificiali e Clelia volse lo sguardo al cielo per osservarli, giusto un attimo, ma quando stava per chiedere al ragazzo da dove venisse, lui era svanito nell’aria.
Tornò nella sua camera, delusa e arrabbiata, con l’estremo bisogno di chiarire le idee. Si spogliò dell’abito e sciolse i capelli che caddero morbidi sulla sua schiena … non era del tutto da buttar via… quel tale le faceva salire una rabbia!

Sperava di non dover mai più avere a che fare con lui. Si immerse nella vasca, tentando di dare ordine ai suoi pensieri.
Soffiò sulla candida schiuma che si aprì mostrando un veliero che  navigava verso l’ignoto, tra intemperie e malcontento dell’equipaggio. Una tempesta travolse la nave facendola affondare, lo  schiavo scappò su una scialuppa e vagò per giorni con solo la luce flebile del rubino a nutrirlo; giorni e notti di viaggio, finché non naufragò sulle rive dello Yucatan, le vesti strappate e la lunga barba ispida rimarcava il suo volto stanco e provato. La tribù locale dapprima lo scrutò minacciosa e diffidente, ma quando videro il grande rubino si inchinarono ai piedi dell’uomo, lui li guardò con fare superiore e sentì il richiamo dell’avidità farsi in strada nel suo animo corrotto dal potere. Gli uomini lo condussero ad un complesso di templi in oro e lo trattarono come un re, egli viveva di feste, ori e donne… una notte, però, al chiarore della luna piena, sentì strani rumori… rumori che sembravano il lamento di una donna, ferita e addolorata, che si facevano sempre più distanti. Strinse tra le mani il suo rubino che si illuminò di una luce vermiglia e gli illumino il cammino, procedette spedito seguendo le urla sempre più forti e lo portarono ad una piccola grotta umida. Scivolò e cadde un una buca piena di ossa, scorse nel buio un paio di occhi rosso sangue e poi venne il silenzio. Il corpo dello schiavo venne ritrovato privo di vita che galleggiava inerme nel fiume, senza occhi, senza denti, senza unghie… e senza rubino.

L’acqua si increspò nella vasca facendo scomparire la scena fra le bolle dell’idromassaggio, lasciandola col fiato sospeso. Quelle visioni significavano qualcosa, erano un percorso, un percorso che le avrebbe cambiato la vita. Si cambiò velocemente, prese le sue cose e si diresse all’aeroporto, chiamò suo zio chiedendogli di recuperarle un biglietto last minute per Città del Messico.
  «Clelia che cazzo combini? Torna alla base!» esclamò suo zio dall’altra parte.
«Zio, ti prego, fidati di me!» lo scongiurò lei.
 «Tigre io mi fido di te, è solo che…»
«Solo che cosa? Zio fra poco raggiungerò la maggiore età e tu mi mandi una guardia del corpo! E poi dici che non hai paura?»
  «Che guardia del corpo?»
«Non fare il finto tonto! Lo sai! Il ragazzo di ieri lo hai mandato per controllarmi! Questo da te non me lo aspettavo, non credevo ti fidassi così poco di me.»
  «Non so che intendi…»
«Oh certo che lo intendi! Sai una cosa? Me lo trovo da sola un biglietto last minute per Città del Messico, grazie per l’aiuto che non vuoi darmi!» riattaccò frustrata e cacciò il cellulare nella borsa.

Non le importava se suo zio non riponeva fiducia in lei, non ne aveva bisogno, gli avrebbe dimostrato da sola che sapeva farsi valere. Sentiva nel profondo che quel che stava facendo era importante e che avrebbe contribuito a qualcosa di grande. Era pronta e sapeva che sarebbe stato pericoloso, ma non poteva né ignorare, né contrastare il destino. La sua strada era scritta e le sarebbe bastato seguire i suggerimenti delle visioni per trovare la verità. Forse il fato aveva deciso che sarebbe morta prima di trovare tutte le risposte, ma un Templare non prende ordini… da nessuno.

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Capitolo 4
*** Atto Secondo: Il rubino maledetto ***


 


Atto Secondo: Il  rubino maledetto
 

Clelia era seduta in attesa di sentire la chiamata per il suo volo, il suo cuore batteva a mille per l’eccitazione, non aveva mai disubbidito a suo zio! Mai! Sentiva l’adrenalina percorrerle le vene, sentiva di poter fare qualunque cosa. Sentì l’altoparlante annunciare il suo volo, andò velocemente al suo posto e si mise a guardare il finestrino. La musica era alta e batteva sui timpani come un martello, rallegrandola o rattristandola a seconda del ritmo. Più ascoltava quella canzone più la sentiva vicina, il suono caldo e malinconico della chitarra, la profonda voce del cantante che, in quei versi, descriveva bene gli ultimi avvenimenti della sua vita. Gli Incobus non la facevano impazzire, ma Drive la ascoltava ripetutamente!
Guardava dal finestrino assorta nei suoi pensieri, nel mentre la hostess dava gli ultimi avvertimenti sui casi d’emergenza.

L’aereo decollò e guardò la terra farsi più piccola. Quando fu possibile slacciarsi le cinture notò di sbieco un ragazzo con un’aria familiare, costui sorrise e si parò davanti al posto vuoto affianco a lei.
 «È il mio posto» alzò lo sguardo e vide il ragazzo di Venezia, con quel suo sguardo furbo e accattivante, stava lì e metteva in mostra il suo sorriso scaltro.
  «Trovatene un altro.»
«Sono numerati dolcezza» mise il bagaglio sopra la sua testa e si sedette affianco a lei.
  «Senti io non ho bisogno della guardia del corpo, sei pregato di andartene!» esclamò lei prendendolo per il colletto «io non necessito di alcun aiuto e non ti voglio fra i piedi»  lo lasciò e lui batté contro il sedile.
Scoppiò a ridere: «dolcezza, io non sono la guardia del corpo di nessuno!»
  «E allora perché cavolo mi segui come un’ombra? Chi diavolo sei e che vuoi da me?»
«Queste sono già domande più sensate» borbottò, gli porse la mano «Samuele.» Gli strinse la mano e lui sorrise cordiale «tu invece sei Clelia.»
 «Aspetta, come fai a saperlo?»
«So molte cose che neppure immagini» sorrise scaltro e la guardò negli occhi «Clelia io non sono qui per farti da balia… io e te, d’ora in avanti, dovremmo collaborare.»
 «Che? No credo tu abbia sbagliato persona, io lavoro da sola.»
«Anche io… fino ad ora. Senti, io credo che insieme potremmo fare grandi cose, basta guardare il risultato che abbiamo ottenuto a Venezia! Siamo i due migliori e siamo gli unici che lavorano da soli, okay io… io sono stato diciamo “costretto” a scegliere un partner, ma mi fido del mio mentore e se mi dice che sua nipote è una grande guerriera, e che mi avrebbe dato filo da torcere, beh…  non potevo certo tirarmi indietro.»
  «FRENA!» esclamò «è stato mio zio ad abbinarti a me?!»
«Sì, credevo te lo avesse detto...» capì cos’era quello che i suoi zii le stavano nascondendo, loro volevano farla collaborare! Volevano trovarle un partner, no, lei lavorava da sola e avrebbe continuato su quella strada.
  «Credo tu possa tornartene da dove vieni, io non lo voglio un compagno, so cavarmela da sola!»
«Clelia credo che tu non abbia ben chiaro chi sono davvero…»
  «Un fracassa coglioni?»
«No, io vengo da Roma e credo tu abbia sentito parlare molto di me.»
 «Io credo il contrario.»
«Ah quindi dell’angelo della morte non ne hai mai sentito parlare?»
 «Sì e allora?»
«Allora ce l’hai davanti.»
Scoppiò in una risata fragorosa: «certo e io sono la regina d’Inghilterra.»

 Samuele alzò gli occhi al cielo e prese un respiro, tirò su la manica della maglia e le mostrò un tatuaggio. Sembrava un tatuaggio normale, ma Clelia sapeva che lo facevano solo ai membri più importanti dell’ordine. Era una croce lambita da un paio di ali d’angelo, lo si faceva ai grandi assassini e ai temuti, a quelli detti angeli caduti. Per quanto ne sapeva nessuno era stato più considerato un angelo caduto, beh… da almeno tre secoli. «Ora ci credi?»
«Perché collaborare con me? Perché abbassarsi a tanto?»
  «Perché siamo della stessa pasta Clelia, condividiamo qualcosa di più grande che una semplice appartenenza ad un Ordine... Anche se tu sei ben sotto al mio livello.»
«E cosa?» domandò trattenendosi dal saltargli alla gola.
 Sorrise: «credo che tu lo sappia. Tu hai bisogno di me ed io di te, siamo legati ora.»
«Nella tua testa, non nella mia» si voltò dall’altra parte e lo ignorò.
Una hostess passò con il carrello del  cibo, gli andò affianco, lei e Samuele si guardarono storto un attimo, una fulminea e raggelante occhiata.
La notte scese con fatica e Clelia, che non aveva sonno, ne approfittò per cercare informazioni sulla visone dello schiavo. Samuele dormiva profondamente e lei prese un vecchio libro sulla catalogazione dei mostri, trovò poco e nulla, niente che potesse servirle. Rimase alzata tutta la notte, pensando in continuazione al suo nuovo compagno. Come aveva potuto suo zio? Lei non aveva bisogno di un angelo caduto per combattere e quando sarebbe tornata a Siena di certo avrebbe litigato con lui.

L’alba sorse piano sulle giungle dello Yucatan, lambendo le fronde verde smeraldo con una luce rosea. L’hostess di prima venne e sistemò il sedile del suo compagno, questo si svegliò di colpo e la guardò male, prese il suo bagaglio e lo lanciò in testa alla donna. Prese il braccio di Clelia e la sua sacca.
 «Ma sei fuori?!» sibilò lei.
«No, ma ora corri!»
Corsero alla coda dell’aereo, le passò la sua borsa e un paracadute. La hostess li inseguì, ma non era sola, anzi! Con lei ce n’erano altri e tutti avevano sul collo il tatuaggio di un drago nero, un drago che le parve familiare. Samuele aprì la porta dell’aereo.
 «Chi sono quelli?» chiese lei al ragazzo.
   «Non lo so, ma di sicuro non vogliono offrirci un tè!»
 «Dopo di te!» gridò Clelia guardando la foresta sotto di lei.
«Prima le donne!»
  «È una cazzata quella!»
«No è galateo!»

Le diede una spintarella, lei perse l’equilibrio e cadde. Imprecò furiosa e lo vide buttarsi a capofitto nella giungla subito dopo di lei. Aprirono i paracaduti e atterrarono nel bel mezzo della foresta tropicale, l’umidità era terribile e il caldo straziante. Clelia si diede una piccola sberla sul collo per uccidere un insetto, probabilmente una zanzara. Tirarono fuori le loro armi, buttarono a terra le giacche e iniziarono a guardarsi intorno.
«Che cosa volevano?»
«Non lo so, ma credo che lo scopriremo a breve.»
 Clelia si arrampicò su un albero, per avere una visione chiara di dove fossero. Lei sapeva che doveva cercare il rubino, ma non aveva idea da dove cominciare. Intorno c’erano solo alberi e un fiume poco lontano, con una strana baracca in legno. Capì che doveva andare verso di essa. Scese dall’albero e raggiunse il suo “partner”.
 «Qui le nostre strade si dividono, addio.»
 Fece per andare, ma le parole del ragazzo la fecero voltare: «vai dolcezza, non sai neppure da dove cominciare per cercare il rubino»
 «Tu come sai del rubino?» domandò sbalordita.
«Te l’ho detto che non condividevamo solo l’appartenenza ad un Ordine… Tu cerchi quello che cerco io e abbiamo bisogno l’uno dell’altra, è qualcosa che non si può compiere da soli.»
  «È un bluff.»
«Credi che ti direi una cazzata? Sono serio, tu cerchi il pomo di una spada, una spada che assorbe le fiamme.»
  «Io ho raccontato solo a mio zio di queste visioni…»
«Ora capisci?»
  «Lui mi ha vietato di cercare la spada.»
«Anche a me, ma la stiamo cercando lo stesso.»
  «Noi non siamo partner, siamo uniti solo da strane coincidenze e dopo questa gita tu non ti farai più vedere o ti giuro che ti strappo la lingua e la do in pasto ai cani! Sono stata chiara?»
«Chiara» rispose atono. «Qui nei dintorni vive un mio amico, lui saprà aiutarci…» disse scroccando le dita.
Attraversarono la giungla in quasi una mattina, finché non arrivarono al fiume che lei aveva visto dalla cima dell’albero e notò dall’altra sponda una baracca, costruita su un albero. Sembrava un nido d’uccello che sarebbe potuto crollare da un momento all’altro.
 «È questa?» domandò Clelia scettica.
   «Sì, non c’è nessuno che conosca queste foreste come Pedro… è il migliore.»

Entrarono in quella casa, alle pareti innumerevoli foto che ritraevano le bellezze della foresta, per terra una pelliccia di giaguaro che faceva da tappeto, sugli scaffali barattoli pieni di roba indistinta e al fondo della traballante catapecchia un uomo, seduto alla sua scrivania, intento a scribacchiare con un gracchiante pappagallo sulla spalla.
 «Ehilà Pedro!» esclamò il ragazzo sorridente.
L’uomo alzò lo sguardo e sorrise sorpreso: «Sam! Quanto tempo che non ti vedo!» la voce era macchiata da un forte accento spagnolo. Si alzò e andò ad abbracciarlo.
 «Sì, da che ho dovuto uccidere il demone giaguaro… fu molto divertente.»
  «Amigo! Che bello rivederti!» guardò il volto di quel Pedro e fissò per parecchio tempo la cicatrice che gli percorreva l’occhio, un occhio che era vitreo.
«Vedo che l’occhio fortunato è ancora lì» scherzò Samuele dandogli una pacca sulla schiena.
  «Esatto e vede meglio di quello vero, per esempio…» si mise a fissarla e poi la indicò «esta bellissima señorita es tu novia
«Mi novia… eh?! No!»
  «Ah! Sam sei il solito latin lover.»
«Credo ci sia un malinteso» si intromise lei comprendendo che “novia” in spagnolo significava fidanzata.
 «Sì, è tutto un equivoco…»
  «Certo, un malinteso… e io non mi chiamo Pedro Salvador Marcelo Juan Suarez Ramirez!» rise lui battendo le mani sulla grossa pancia «allora amigo, come mai sei qui? Che ti porta dal vecchio Pedro?»
 «Un affare, stiamo cercando un rubino…»
«Rubino? Samuele io non traffico più gemme.»
  «Questo lo so bene, ma non si tratta di una gemma qualsiasi, si tratta del rubino maledetto.»
 L’uomo sussultò, andò a sbattere contro una mensola e fece cadere qualche vasetto. Si frantumarono i mille pezzi e lasciarono che il loro contenuto viscido si spargesse per il tappeto.
«No! Io non ti dirò mai nulla su quel rubino!» gridò spaventato.
   «Sei l’unico che può aiutarci a trovarlo e lo sai.»
«Se è morte ciò che cerchi…»
  «Pedro è una questione vitale.»
Esalò un sospiro affranto: «è nascosto, in una grotta,  il suo guardiano è una bestia sanguinolenta e brutale. Andai anche io alla ricerca di quella gemma da giovane e quel brutto bastardo… a lui devo il mio occhio fortunato» indicò il suo occhio vitreo. «Noi lo chiamiamo Ahuizotl, il divoratore di occhi…  è una bestia piccola, ma crudele e scaltra, usa ogni tranello per farti cadere nelle sue grinfie; gioca con le sue prede come il gatto gioca col gomitolo e quando si stufa… gli salta addosso e mangia gli occhi, i denti e le unghie della sua preda, gustandole a fondo.» Clelia sussultò e lo guardò intensamente, quell’uomo aveva paura di quel mostro e temeva di rincontrarlo. «È una belva demoniaca, è cattiva e gode nel procurare dolore… non scorderò mai quei suoi occhi rossi, i suoi artigli affilati quando mi strapparono l’occhio e quel ghigno malefico disegnato sulla sua bocca canina…»
 «Non vogliamo che tu venga con noi, dicci solo dove poterlo trovare» disse Clelia scorgendo il velo di terrore nei suoi occhi.
   «Alla fonte del fiume, vi darò una giuda… la foresta è molto più pericolosa di quanto sembri.»
«Grazie Pedro, sei un amico» lo ringraziò Samuele dandogli una pacca sulla schiena.
 «Se sentite piangere, scappate.»
Lo guardarono confusi, chi poteva piangere nella giungla?

 Scesero dalla catapecchia e li raggiunse un tipo smilzo, alto e allampanato, dai capelli lunghi e lo sguardo spento. Lo salutarono, ma Clelia non poteva nascondere di essere un po’ perplessa, non sembrava proprio una guida eccellente, tanto meno uno pronto a tutto.
  «Ciao, io sono Tiago Torres» borbottò in tono annoiato, gli porse svogliatamente la mano.
«Noi siamo Samuele e Clelia… » lui gli strinse la mano ossuta e callosa «tanto piacere.»
  «Tiago piantala con queste cazzate e accompagnali alla grotta Tika-Tika!» ordinò severo Pedro consegnando ai due ragazzi delle provvisti e un vecchio liquore invecchiato.
«Dove?! … No… No signore! Io in quella buca maledetta non ci vado! Non ho firmato il contratto per…» il suo capo gli puntò la pistola in mezzo agli occhi. Il giovane deglutì sonoramente.
  «Ho detto: accompagnali alla grotta. Se non lo farai, non solo non ti pagherò più, ti pianto anche un proiettile nel cervello… a te scegliere Tiago.»
«Ho capito! Ho capito!» mugugnò lui in tono lamentoso e scostò piano la pistola con l’indice « ci vado…»
  «Bravo giovinastro.»
«Odio la mia vita…» si lamentò lui tra sé e sé.

Fece loro cenno di seguirlo, i due ringraziarono Pedro velocemente e seguirono Tiago che si era già incamminato. Per tutto il cammino il giovane non fece che compiangersi e polemizzare su quanto Pedro lo pagasse poco, su quanto fosse brutto vivere in un ripostiglio e altre scemenze che Clelia e Samuele, dopo un’ora e mezza, avevano smesso di ascoltare. Lei proprio non capiva, se la sua vita era tanto insoddisfacente perché non alzava le chiappe e non si dava da fare per cambiarla? Troppa pigrizia? O semplicemente nessuna capacità? Lo osservò nella sua barcollante e goffa andatura, era chiaro che la seconda opzione lo rispecchiava maggiormente;  lei si disse che, per un tipo come quello, vivere in un fienile invece che con la madre poteva considerarsi una vittoria. Al calare della sera Tiago si fermò e si sedette su una roccia.
  «Perché ti fermi? C’è ancora della strada da fare» lo intimò Samuele.
«Sei scemo? Andare in giro nella foresta di notte?»
 «Sì, non vedo dove sia il problema.»
«Il problema è che sei fuori di mela amico. Regola numero uno da queste parti: mai, e ripeto, mai viaggiare di notte.»
  «Va bene, abbiamo tutto il tempo di questo mondo e poi la grotta è lontana, ci farà bene riposare un po’» disse Clelia mettendo una mano sulla spalla al compare.
«Vedi? La ragazza è saggia, ascoltala.»
 «Vedi questo? Si chiama pugno e se non taci ti arriva nel naso!» sibilò il ragazzo. Buttò il suo zaino per terra, si sdraiò e ci poggiò la testa.

Clelia tirò fuori le cibarie datale da Pedro e le passò ai due ragazzi, che ancora si guardavano in cagnesco. Iniziò a mangiare il panino, in silenzio,  come tutti gli altri. Lanciò uno sguardo al cielo e nella sua vita non aveva mai visto così tante stelle. Erano così splendenti e luminose, così lontane e seppur così vicine che le sembrò di poterle toccare con un dito. Tiago stappò il liquore e lo annusò.
«Puro nettare» sospirò inebriato, ne bevve un lungo sorso « quel panzone una cosa buona la fa… il liquore»
Samuele accese un fuoco e si sedette affianco a Clelia, che osservava disgustata la loro guida ubriacarsi. Non avrebbe retto tutto quell’alcol, dopo la seconda sorsata già barcollava.
  «Che imbecille…» constatò il ragazzo ridendo.
«Non sfotterlo poverino, ha bisogno di conforto vista la sua schifosa e misera vita» sorrise divertita lei.
  «Hai ragione… tanto tra dieci minuti crolla, sei a uno.»
Samuele fu profetico, esattamente dieci minuti dopo Tiago crollò con ben stretta tra le braccia la bottiglia, parlottava di tanto in tano qualche scempiaggine e poi tornava a russare fragorosamente.
 «Come hai conosciuto Pedro?» gli domandò Clelia curiosa. Era interessata, quello era un uomo particolare e di certo non si trovavano tipi del genere per le strade.
«Un paio d’anni fa, avevo interrotto un suo traffico di legalità discutibile e… beh, mi minacciò di tagliarmi…»
  «La testa?» azzardò lei.
«Ehm, no…»
 «La mano allora»
  «Ancora no, lui… voleva tagliarmi… » guardò in basso verso la patta dei pantaloni «fu tutto un equivoco… Comunque riuscimmo ad allearci, lui recuperò un grosso tesoro e io salvai le popolazioni native da un demone giaguaro.»
Rise: «Ah beh, ti sei fatto conoscere.»
  «Eccome!» le mise una mano sulla spalla «credo sia meglio riposare, lo hai detto tu stessa, domani abbiamo ancora della strada e dovremmo essere preparati.»
«Giusto, il guardiano… credo sia meglio fare i turni, questa foresta ha occhi.»
 Samuele si guardò intorno: «hai ragione. Per ora sto io, poi mi dai il cambio… »  guardò Tiago e sospirò. «Ovviamente su di lui non possiamo contare.»
 «Ovviamente… quando non ce la fai più dammi una scrollata» si sistemò con la testa sulla borsa e prese subito sonno, dato che in aereo il tempo non lo aveva sprecato a dormire.
 
Samuele alimentò il fuoco e attese in silenzio, con le orecchie tese e con attenzione perenne a ciò che lo circondava. Dopo un paio d’ore sentì degli strani rumori in lontananza, come un lamento, il pianto di un bambino, e si facevano sempre più vicini, oltre che insistenti. Scrollò Clelia.
 «Svegliati dolcezza.»
Lei si stropicciò un po’ gli occhi, scroccò la schiena e mugugnò: «tranquillo, ora ti do il cambio… »
 Le tappò la bocca: «ascolta…» sussurrò. 
Clelia gli scostò la mano malamente e poi tese le orecchie, subito sentì il silenzio, ma poi un forte e martoriato pianto si fece più vicino. Si alzò di scatto, prese la sua borsa e le varie attrezzature, lanciò a Samuele le sue e le prese al volo. Il ragazzo estrasse la sua sciabola, mentre Clelia tentò di svegliare Tiago dal suo sonno, senza successo. Prese l bottiglia di liquore e la spaccò, al rumore di vetri infranti la guida si rianimò.
  «Dov’è il liquore?» domandò terrorizzato guardandosi intorno.
«A puttane e ora zittisciti imbecille!» sibilò Samuele infastidito.
Tiago si nascose dietro a Clelia, già armata e pronta, le strinse forte la vita e cominciò a piagnucolare come un bambino: «cosa sono questi rumori?»
  «Samuele perché devo badare io a lui? Non puoi tenerlo tu?»
«No, altrimenti gli faccio ingoiare tutti i denti finché non sta zitto.»
I pianti si fecero più vicini e insistenti, mancava poco: «voglio la mamma…» bisbigliò spaventato stringendo la vita della ragazza.
 «Posso dargli un pugno?» sibilò lei esasperata.
«No, purtroppo ci serve vivo.»
  «Che palle…» lo guardò fredda e gli fece segno di star zitto.
«C-Come volete capo…» il giovane si ammutolì e si inginocchio nascondendosi dietro alle gambe della ragazza.
Finalmente ritrovato il silenzio, videro delle fronde muoversi e lamentarsi. I due si guardarono e si avvicinarono alle frasche, con cautela e la guardia della spada alta sui loro volti.
  «Clelia non mi abbandonare qui da solo…» mugugnò Tiago sottovoce.

La ragazza alzò gli occhi al cielo, prese respiro e si trattenne dal tranciargli la gola. Si avvicinò al cespuglio, fece per infilzarlo, ma ne uscì fuori una bestia. Non era grande più di una lontra, il suo pelo era nero e lucido come fosse bagnato; le zampe erano quelle di un procione, ma gli artigli erano grandi e acuminati come quelli di un’aquila, le zanne comparivano imponenti dalla bocca lunga e sottile che assomigliava molto a quella di un lupo, gli occhi rossi come il sangue e desiderosi di esso; ma la cosa che più attirò i due ragazzi fu la coda, una coda che aveva per apice una mano umana e ben stretto in essa un rubino.
 «È il guardiano… » sussurrò Clelia tenendo la guardia alta e guardando il rubino.
«È vero…» bisbigliò di rimando lui.
 «Un… un rubino vero!» esclamò Tiago, cose verso la belva pronto per strappargli il rubino dalla mano.
«NO!» esclamarono in coro i due cavalieri, ma vanamente.

Il demone si scaraventò sulla guida e gli sbranò il volto, mangiò i suoi occhi e i suoi denti, ne leccò i residui di sangue finché la sua pelle non fu lucida e scivolosa come il suo pelo. Conficcò con violenza i poderosi artigli nel suo petto e Tiago sime sul colpo di porre resistenza. Era morto. Il mostro si girò e ringhiò loro mostrando i suoi aguzzi denti insanguinati. Prese il rubino dalla sua mano umana e lo strinse in una delle sue zampe con avidità. D’un tratto, con la mano all’estremità della coda afferrò la caviglia di Clelia, trascinandola verso di sé. La ragazza gli sparò in mezzo agli occhi, ma la bestia non morì.
 «L’argento su di lui non funziona!» esclamò lei avvicinandosi alle fauci dell’ Ahuizotl.
«Ha per forza un punto cieco! Tu recupera il rubino io cerco il suo tallone d’Achille… »
Clelia cercava di divincolarsi dalla sua presa e tentare di recuperare il rubino, ma con i suoi artigli il mostro le graffiò il braccio. Samuele invece lo osservava attento alle sue mosse, lo colpì con forza in vari punti ma… ma non lo scalfì nemmeno. L’Ahuizotl scoprì le fauci sul volto della ragazza, lei lo prese sotto il collo e cominciò a stringere la giugulare, allontanando il volto dai suoi denti affilati che gocciolavano sangue sul suo viso.
 «Samuele…» disse con voce strozzata «un aiutino sarebbe gradito…»
Il ragazzo conficcò la sciabola nella sua coda, con forza l’animale si divincolò dalla presa di Clelia e la scaraventò contro di lui. Entrambi caddero a terra, uno sopra l’altro, con i loro volti a pochi centimetri di distanza.
 «La coda…» bisbigliò Samuele sulle sue labbra «è il suo tallone… distrailo e colpisci più volte la coda…»
  «Sta succedendo ancora… carino, non so se lo hai capito, ma io NON sono la tua spalla!» sibilò furiosa, rigirò le posizioni e lo atterrò.
«Ti sembra il momento per parlare di supremazia?!» gridò lui guardando la bestia ruggire.
 «E allora tu non dirmi quello che devo fare!»
«Moriremo se continui a blaterare!»
 «Ma blateri anche tu!»

L’Ahuizotl li attaccò, i due si separarono e corsero in direzioni differenti. Sentì la belva correre alle sue spalle, si fermò e fece, a malincuore, quello che Samuele le aveva detto di fare: tentò di distrarre l’animale e lo colpì alla coda ripetutamente e con forza. Il demone si nascose tra le fronde e si muoveva veloce tra le fronde, gli occhi non potevano aiutarla. Li chiuse. Lo sentì muoversi in tondo intorno a lei, senza attaccarla, voleva solo confonderla. D’un tratto non lo sentì più muoversi, aprì gli occhi di scatto e Samuele era difronte a lei con in una mano la bestia e nell’altra il rubino.
 «Consiglio: tieni anche gli occhi aperti la prossima volta» sorrise scaltro. «Comunque la tecnica è buona…»
   «Bravo… cosa vuoi ora, una medaglia?» gli strappò di mano il rubino e lo guardò con rabbia. Ecco perché voleva lavorare da sola!
«Qualcuno ha la luna storta… prego comunque, è stato un piacere lavorare con te» disse indignato.
 «Sì anche per me» ovviamente lo disse più per le convenzioni sociali, perché lavorare con lui era stato terribile. «Porta la pelle di quella bestiaccia a Pedro, gli farai un favore… Addio.»

Si incamminò nella foresta e si orientò seguendo la stella polare. Camminò tutta la notte e trovò un sito Maya pieno di turisti solo la mattina seguente, si unì ad un gruppo e visitò il tempio come se nulla fosse. Mentre la guida parlava lei ne approfittò per prenotare una camera d’albergo, visto che il biglietto del ritorno già lo aveva.
Si sistemò tranquilla nella sua camera d’albergo e continuò a fissare assorta il rubino che sembrava una grossa mela matura. Si chiese come mai Samuele non avesse fatto una piega quando glielo ebbe strappato di mano, quel ragazzo era un mistero per lei. Era veloce, molto agile e di sicuro molto più scaltro di lei… era sempre un passo avanti. Non dormì quella notte, rimase sveglia, con la flebile luce del rubino che le illuminava il volto.
Era appartata nell’aeroporto di Città del Messico, in una torrida giornata di sole, ad aspettare la chiamata del suo volo. Era lì con la musica a tutto volume e un libro tra le mani, convinta che nulla avrebbe potuto disturbare la sua quiete. Si sbagliava. Con la coda dell’occhio notò la hostess dell’andata, fece finta di nulla e si nascose dietro le pagine del suo libro. Il tatuaggio messo in bella vista sul suo collo le sembrò ancora più familiare e pericoloso. Si diresse verso di lei e la guardò dall’alto al basso con quei suoi occhi corvini così freddi e crudeli, la sua bocca si digrignò in un subdolo sorriso che faceva assomigliare il suo neo ad un’orribile verruca. Una strega travestita da fata, pensò lei guardandola giocare coi suoi capelli rossi.
 «Sai cosa voglio Cavaliere… dammi il rubino e nessuno si farà del male.»
«Io non ho proprio un accidente.»
  «Non metterti contro la Confraternita del Drago Nero ragazzina, potresti non uscirne viva… »

Sentì l’ultima chiamata per il suo volo, diede uno spintone alla donna e corse appena in tempo nell’aereo. Si voltò e la hostess chiuse velocemente le porte, lasciando fuori la donna. Il Drago Nero… le venne subito in mente il drago del suo sogno. Era chiaro, una partita a scacchi non si può giocare da soli e lei aveva appena trovato il suo avversario.
 Arrivata all’aeroporto, accese il motore della sua moto e tornò a casa in fretta e furia. Quando arrivò era notte e pioveva a dirotto, quando aprì la porta rimase scioccata e venne invasa da una profonda rabbia. Le sue disavventure sembravano non avere più fine.
 «Ciao Clelia, finalmente sei arrivata, ti stavamo aspettando» sorrise Samuele dal divano.
«Perché cazzo sei in casa mia brutto…»
  «CLELIA!» intervenne suo zio indignato. «Tratta bene il nostro ospite»
Prese un profondo respiro e si morse il labbro con forza: «proprio tu zio parli?... Io non voglio un partner, puoi scordartelo, io lavoro da sola.»
  «Sarai costretta a lavorare con me ragazzina» disse il ragazzo.
«Ordini dai piani alti» continuò suo zio.
 «Che? E da quando gliene frega qualcosa dei Cavalieri a quelli!»
«Ragazzi, si fredda…» si intromise la zia notando l’aria di tensione.

Ognuno si sedette al proprio posto, mangiarono in silenzio finché Samuele e suo zio non ruppero il silenzio riprendendo il discorso di prima.
 «E quindi il cardinale ti ha dato l’ultimatum, eh?» disse Vasco tagliando la carne.
«Purtroppo… dice che la vera virtù dei Cavalieri è l’essere discreti, dice che i miei modi di lavorare lasciano troppo il segno, dice che faccio le cose al contrario e che dovrei imparare un po’ d’umiltà.»
 «Oh tranquillo, un po’ di umiltà non ti farebbe male per niente» Clelia non ne poté più, si alzò dalla tavola indignata e salì in camera sua. Notò con la coda dell’occhio la camere degli ospiti piena di valigie e venne invasa da un’ulteriore e più profonda ira.
 
Il suo gatto, Aramis, giocava tranquillo con il suo gomitolo, ma quando la vide varcare la porta della stanza corse verso di lei a farle le fusa. Era uno dei gatti più intelligenti che lei avesse mai visto, più che intelligente, era più corretto dire empatico. Erano in perfetta simbiosi l’uno con l’altro e lui capiva sempre quando qualcosa non andava. Lo prese in braccio e accarezzò il suo pelo pezzato. Era un gatto bianco con macchie nere e rosse, oltre ad essere una grossa palla di pelo.
 «Clelia…» la voce di Samuele alle sue spalle la fece sussultare.
«Che cosa diavolo vuoi?» domandò tagliente.
 «Mi dispiace averti invaso la casa, ma…»
«Invaso la casa? No, tu hai invaso la mia vita! Sei uno dei pochi che riesce ad urtare il mio sistema nervoso in modo penetrante e l’unico che mi fa vibrare le corde dell’omicidio! Ora, se permetti, me ne torno in camera dove tu non ci sei!» gli sbatté la porta sul muso e si buttò sul letto.

La sua vita era stata cambiata in meno di una settimana da uno stupido e presuntuoso ragazzo. Sarebbe stato un incubo. Pianse per il nervoso e crollò subito dopo per la troppa stanchezza, sperando che il mattino dopo tutto fosse normale.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 5
*** Atto Terzo: Il rapimento ***






Atto Terzo: Il rapimento
 

Nonostante le fosse stato spiegato più e più volte, Clelia ancora non si capacitava della presenza, no dell’esistenza, del ragazzo che le camminava accanto con postura fiera mentre si dirigeva verso il Duomo di Siena. Suo zio aveva liquidato la questione dicendole che erano ordini dai piani alti, che il Cardinale in persona le aveva affiancato Samuele come partner e che avrebbe vissuto con loro.
«Senti ragazzina potresti non trasudare nervosismo? Mi rovini la giornata…» sussurrò il ragazzo al suo orecchio mentre entravano nella chiesa, facendole drizzare i capelli sulla nuca.
«IO rovinerei la giornata a TE?!» sibilò stizzita lei, mentre girava la chiave di rubini e prendeva la fiaccola dal muro «Tu se mai stai rovinando la mia giornata, anzi la mia vita fino ad ora ,tutto sommato, priva di crucci!»
«Come siamo melodrammatiche, guarda che nemmeno io sono entusiasta di essere qui, a Roma stavo benissimo…» rispose lui tranquillo, mentre scendeva la scalinata di pietra ed entravano alla base.
«Anche io stavo benissimo fino a due giorni fa…» borbottò la ragazza dirigendosi verso la sala degli allenamenti.
«Ehi, dove vai?»
«Ad allenarmi no? Sbrigati…» rispose atona Clelia, facendo strada.
 
Una volta arrivata nella sala, molte coppie si stavano allenando nel corpo a corpo, ma lo sguardo della ragazza cadde sui suoi amici. Giselle ed Emi testavano le nuove alabarde. Le erano mancate le sue amiche, sempre così frizzanti e allegre, senza mai alcuna preoccupazione.
 «Clelia! Bentornata!» la salutò Giselle scartando un colpo di Emilia per correre verso di lei.
   «Ehi! E mi lasci qui così?» chiese divertita la bionda che, seguita dal fratello, la raggiunse.
 «Dove sei stata per tutto questo tempo? Dovevi essere qui già da due giorni» le ricordò la rossa abbracciandola, affettuosa come al solito.
«Diciamo che ho deciso di fare una gita fuori programma» rise la ragazza, senza specificare il motivo della sua improvvisa partenza ed evitò inoltre di menzionare il rubino.
   «E che bel souvenir hai portato» ammiccò Emilia, guardando il Samuele che si guardava intorno curioso. Per lui era, stranamente, tutto nuovo… quella base era molto diversa dalla sua. Molto meno fornita, innanzitutto, molto meno ampia e più angusta.
«Ah già… lui è Samuele, viene da Roma… ed è il mio partner» spiegò infastidita la ragazza, mentre l’altro si limitava a salutare il gruppetto con un cenno della mano.
    «Come, come?» la scherzò Shane avvicinandosi, «qualcuno ha fatto una marachella e le hanno affibbiato un babysitter?»
«Piantala Shane!» sibilò Clelia irritata. Doveva per forza aprire quella sua boccaccia? Non poteva stare zitto e farsi i fatti suoi?... No, ovviamente no, dopotutto si trattava di Shane e lui era peggio di una comare quando si impegnava. «Comunque si… il concetto tutto sommato è quello… per trovarne uno alla mia altezza hanno pescato lui» sbuffò la ragazza mentre l’amico andava dal ragazzo.
    «Da Roma eh? Quindi sei uno dei pezzi grossi…»
  «Così dicono… Samuele, piacere» si presentò allungando la mano
    «Shane, piacere mio» rispose stringendo la mano tesa «E questa è la mia partner, Giselle» disse indicando la ragazza dai capelli rossi.
«Oh, ciao… sei un’iniziata? Quanti anni hai? Dodici, tredici?» domandò sinceramente convinto.
 «Ne ho diciassette…»  rispose atona la ragazza.
«Oh… Capisco… Piacere di conoscerti» sorrise spiazzato Samuele,
 «piacere mio» rispose allegra la ragazza, piazzandosi al fianco del partener. Vedendo la corporatura minuta e ottile della ragazza, messa a confronto con quella del ragazzo che al contrario era massiccia e imponente, somigliava un piccolo pulcino.
«So a cosa pensi… sembrano l’articolo “il”»  rise Clelia
«in effetti lo pensavo…»
     «Lo pensano tutti. Piacere, sono Emilia» si presentò la ragazza, spostando scherzosamente Clelia con una spinta. «E lui è il mio gemello, Tommaso»
   «Ciao, molto piacere» salutò il giovane, che fino a quel momento era rimasto discretamente in silenzio al fianco di Clelia. Samuele rimase impressionato, non si assomigliavano per nulla. Lei era solare ed espansiva e lui così… freddo e asettico.
«Dopo aver effettuato i fastidiosi convenevoli riprendete gli allenamenti, su» esclamò severa la ragazza mentre tutti riprendevano le loro occupazioni e lei andava a cambiarsi. «Tu non muoverti chiaro?» disse prima di andare negli spogliatoi per indossare la divisa. Dopo pochi minuti era rientrata nell’arena per trovarsi davanti una scena che la lasciò ammutolita per qualche istante: Samuele, spada alla mano e postura impeccabile, dava consigli a Shane come se fossero amici da una vita.
«Shane, vedo che socializzi» scherzò la ragazza prendendo la spada tra le mani
    «Ovvio, quando mi ricapita di avere consigli da uno come lui?» rise lui, scompigliandole i capelli.
«Beh, avresti sempre potuto chiedere a me, dopotutto mi conosci da più tempo…» disse lei con un mezzo sorriso ad incresparle le labbra. Non capiva, lei lo aveva sempre spronato a migliorarsi e lo aiutava sempre, come poteva ignorarla in quel modo? Un po’ si dispiaceva, si sentiva come se tutti i suoi amici si fossero stancati di lei… i suoi migliori amici per altro.
«Tranquilla non ti rubo il posto» ghignò Samuele rigirandosi la spada tra le mani.
«Certo, come se tu potessi battermi» rise Clelia, sicura di se come non mai, non avrebbe mai permesso a quello sbruffone di superarla ancora.
«Ѐ una sfida ragazzina?» domandò lui divertito avvicinandosi a lei con aria di superiorità. No, lui non le faceva alcun effetto. Nessuno.
«Può darsi…» rispose la bionda, affilando lo sguardo.
«Benissimo… in posizione» disse portando la spada davanti a se, mentre l’arena si svuotava, lasciando spazio a chiacchere curiose e stupite.

Nessuno alla Base Rossa aveva mai osato sfidare Clelia, o almeno non in via ufficiale come quella e molti ragazzi, Shane per primo, erano curiosi di sapere come sarebbe finita.
«Sfida accettata» sibilò imitando il ragazzo e portando la spada davanti a se.
Dopo diversi minuti, in cui Samuele non si era mosso di un millimetro, Clelia decise di attaccare per prima, tentando un affondo veloce in quello che aveva individuato come punto cieco. Si accorse di aver fallito quando il ragazzo parò il suo colpo con facilità, spingendo la spada contro la sua e avvicinandosi a lei. Conosceva la scherma in modo impeccabile… nessuna sbavatura nella postura, nell’attacco, nella difesa…
«Ѐ il meglio che sai fare? Un po’ deludente devo dire» sussurrò strafottente il ragazzo, mentre Clelia si allontanava a passi veloci.
«Sta zitto…» sibilò irritata mentre tentava un nuovo affondo schivato con facilità, aumentando la sua irritazione colpo dopo colpo. Ma non si sarebbe mai lasciata dominare dalla rabbia, nonostante in quel momento fosse forte, aveva un ottimo autocontrollo e dominava perfettamente ogni affondo e ogni stoccata, prontamente parate o schivate dal ragazzo.
«Sul serio, mi aspettavo qualcosa di meglio dalla nipote del Gran Maestro» la prese in giro lui sorridendo come se nulla potesse scalfirlo, mentre lei cominciava a sudare e sentiva il fiato venirle meno.
«Ti ho detto… di stare zitto!» esclamò nervosa mentre tentava un altro affondo. Il ragazzo lo schivò, rapito, portandosi sul suo fianco e le colpì la mano con l’elsa della spada, disarmandola e premendole la lama fredda contro la gola.
«Ho vinto ragazzina» sussurrò soddisfatto al suo orecchio mentre si scostava, godendosi l’applauso dei ragazzi che avevano assistito allo scontro e le risate di Shane. «Una volta che l’avversario è distrutto, psicologicamente e fisicamente, allora sai di avere già vinto.»
    «Allora esiste! Esisti veramente!» rise il ragazzo appoggiandosi contro al muro «Oddio, non credevo fosse possibile… e come promesso rido: ahah!»
   «Tappati quella fogna, Shane!» lo sgridò Giselle, colpendogli il braccio con una pacca, «con tutte le volte che sei e sarai sconfitto da lei hai ben poco da ridere, te lo dico sempre!» il ragazzo smise di ridere e la rossa accompagnò Clelia a cambiarsi negli spogliatoi.

Scese con rabbia e aprì con forza l’anta del suo armadietto, rischiando di romperlo. Tutti i fumi caldi provenienti dalle docce le facevano girare la testa e la rabbia ribolliva feroce nelle sue vene, come un ringhio che brama di essere liberato.
«Quel brutto… presuntuoso!» sbottò irritata mentre si sfilava rabbiosa il corsetto e la camicia.
   «Però è bravo, devi ammetterlo…» disse calma l’altra, mentre si cambiava «Clelia, se hanno scelto lui c’è un motivo, e te lo ha appena dimostrato… è il migliore, l’unico alla tua altezza.»
«Non…» stava per protestare quando la voce di Emilia la interruppe.
    «Non lo accetti Clelia? Ti conviene farlo… e alla svelta»
   «Emilia ha ragione, puoi imparare molto da lui, ha una tecnica impeccabile» concordò Giselle.
«Avete ragione… ma è amaro da buttare giù» sospirò lei mentre si rimetteva i suoi vestiti e andava all’uscita «A domani ragazze» le salutò mentre andava verso l’uscita della Base.
Fuori dal duomo, appoggiato a braccia conserte vicino alla sua moto, stava Samuele con il solito sorriso da schiaffi impresso sul viso. Il sole era appena calato e sullo sfondo il cielo illuminava Siena di un colore roseo.
  «Torniamo a casa?» domandò passandole il casco, lo afferrò con un gesto stizzito mentre saliva sulla moto in silenzio. Dopo pochi minuti arrivarono alla villetta, ne Vasco ne Dafne erano ancora tornati, per cui poteva dar sfogo alla sua frustrazione senza doversi subire i rimproveri del caso.
«Brucia la sconfitta eh?» domandò il ragazzo mentre entrava dopo di lei e si chiudeva la porta alle spalle.
«No… affatto, la tua è stata solo fortuna» sibilò stizzita la ragazza, punta sul vivo. Bruciava eccome.
«Fortuna? Dolcezza, io sono il migliore, non sono fortunato… sono bravo» rispose calmo lui, portandosi davanti a Clelia, che stringeva i pugni con forza.
«Certo, chiunque sarebbe bravo se fosse il protetto del cardinale in persona…»
«Stai insinuando che sono diventato come sono per quello?»
«Sto pensando che quando si è ai piani alti si hanno trattamenti diversi! Io ho versato sangue e lacrime per essere la migliore!» sbottò furente la ragazza.
«Credi che io non mi sia allenato?! Non è che ho schioccato le dita e mi sono ritrovato tutte le nozioni in testa!» replicò infastidito Samuele.
«A che poteva servirti allenarti?! Saresti comunque diventato uno dei pezzi grossi!»
«Ah, e allora oggi come ti ho battuta? Con la forza del pensiero? La dura verità, cara Clelia, è che non riesci ad accettare di essere la numero due!» urlò il ragazzo, oramai furente quanto lei. Anche lui si era allenato duramente per diventare bravo, anche lui aveva dovuto faticare e affrontare lunghe e pesanti ore di addestramento e non sopportava l’idea che una ragazzina, che le avevano affibbiato a forza, potesse anche solo insinuare il contrario.

Clelia stava per replicare, quando la scena davanti ai suoi occhi cambiò, il salotto della sua casa, divenne una stanza piccola e angusta, la polvere dorata splendeva in un fascio di luce che entrava da una piccola finestra, che illuminava un tavolo di legno malmesso al quale sedeva una giovane intenta a scrivere su un cartiglio. Lunghe parole si susseguivano con una calligrafia ordinata, su una pergamena ingiallita. La scena sbiadì in fretta, e Samuele e le sue urla tornarono a riempirle le orecchie.
«Allora? Non dici più nulla?!» domandò stizzito il giovane mentre Clelia si limitava a guardare il vuoto confusa, per poi correre fuori, salire in fretta sulla moto e correre alla Base, aveva già visto cartigli come quelli, e sapeva anche dove trovarli. Si diresse veloce verso la biblioteca, senza accorgersi delle due figure che l’avevano scontrata.
     «Ahi… ehi ma che? Clelia? Che ci fai qua?» domandò confusa Emilia.
«Io… devo andare alla biblioteca.»
   «Che cosa devi cercare?» domandò Giselle.
«Un cartiglio, devo cercare nella sezione proibita.»
     «Uh, roba che scotta» rise Emilia, «possiamo venire?»
«Certo» sorrise Clelia, «in tre faremo di sicuro prima» disse facendo strada verso la biblioteca.

Uno dei privilegi dell’essere un Cavaliere era che potevi accedere a sezioni e luoghi misteriosi di cui nessuno era a conoscenza; uno di questi la sezione proibita della biblioteca, dove erano custoditi cartigli risalenti a diverse epoche storiche e diversi resoconti delle missioni più importanti.
     «Cosa cerchi esattamente Clelia?» domandò curiosa Emilia mentre iniziavano a cercare tra gli scaffali.
«Qualcosa inerente a Giovanna D’Arco, qualcosa di suo… un testo…» spiegò la ragazza, già immersa tra i rotoli, e uno piccolo e consunto catturò la sua attenzione. Lo prese tra le mani, e sentì come se ci avesse già avuto a che fare una volta. Lo aprì e scorse velocemente, «o forse una lettera…» esultò stendendolo bene sul tavolo mentre le due amiche la raggiungevano.
   «Avanti, leggi…» la incitò curiosa Giselle.
«Un momento, è in francese… allora: “Caro Pierre, mio adorato fratello, ti scrivo questa missiva, per salutarti, oramai la battaglia è prossima e io scenderò in guerra insieme ai soldati. Tu sei l’unico che mi accetta, nonostante le mie scelte, anche se non le comprendi e per questo scrivo a te, l’unico di cui mi fidi più che di me stessa. Voglio confidarti un segreto Pierre, grazie a strane visioni e voci che persistono da tempo nella mia testa, sono riuscita a risalire ad una spada mistica, la sua lama è lambita dalle fiamme, ad ogni colpo sparge ceneri scure e il suo affondo è infallibile. Se la mia vita dovesse spegnersi in battaglia, o in qualsiasi altro caso, prendi tu quella spada Pierre, e nascondila, in attesa che un altro prescelto possa impugnarla. Perdonami se non ti do altre spiegazioni, ma ti prego di fidarti di me… ora devo andare, il sole sta già tramontando e devo partire. Addio Pierre, madre, padre… grazie di tutto. Con immenso amore, Jeanne”» lesse Clelia, traducendo dal francese e corrucciando la fronte perplessa.
     «Non ci ho capito granché… ma ho l’idea che tu stia cercando questa spada» dedusse Emilia.

D’un tratto le ampie vetrate della biblioteca vibrarono, frantumandosi in mille pezzi, piccoli e taglienti, che costrinsero le tre ragazze a nascondersi sotto il tavolo in legno. Clelia frugò nelle sue tasche alla ricerca di un’arma… un pugnale, una pistola, almeno la sua cerbottana!... Nulla. Era disarmata.
 «Ma che diavolo succede?!» gridò Emi per sovrastare il rumore di vetri infranti.
«Non lo so…» rispose disorientata « sembrerebbe quasi un’onda d’urto…»
Un forte colpo ruppe il tavolo sovrastante, uscirono da loro nascondiglio in malo modo. Sentì una forte fitta alla mano e guardò il lungo e profondo taglio che si era fatta tagliandosi con un vetro affilato. Il sangue che ne sgorgava era rosso cremisi e scendeva a flotti, poteva sopportare il dolore. Anche il suo labbro sanguinava tingendole la bocca di un rosso corpulento e denso. Dinnanzi a loro due uomini, dall’andatura massiccia ed imponente, che impugnavano solenni le loro spade; al centro una donna, alta, sinuosa, dai fluenti capelli ramati e lo sguardo subdolo, sfoggiava fiera lungo il suo collo un tatuaggio già visto: un drago nero. Rabbrividì e sentì una scossa lungo sua schiena. Adrenalina? No, mai aveva provato una sensazione simile dinnanzi ad un nemico.
  «Avete dei buoni riflessi, non che mi sorprenda… dopotutto fate parte dell’Ordine» notò acida la donna scostando i capelli dal suo magro volto scarno e pallido. Una fredda pelle d’avorio e un paio di occhi smeraldini che le fissavano truci. «Peccato, contavo di farla finita velocemente» borbottò annoiata.
 «Chi sei?» domandò Clelia sulla difensiva.
«Il mio nome è Dana, ma non vedo come possa interessarti fanciullina…»
 «Effettivamente non mi interessa… fuori, questa sezione ai membri dell’Ordine.»
La laida donna scoppiò in una fragorosa e raggelante risata che riempì i meandri vuoti della biblioteca: «ahh,  l’Ordine… certo…» commentò divertita dall’affermazione della ragazza. «Dimmi un po’ ho la faccia di una che segue le regole? Sul serio?» si fece spaventosamente serie, man mano che le parole fluivano dalle sue labbra. «Avanti, spiegami come arrivare alla spada ed io me ne andrò.»
 «Si riferisce a quella lettera?» sussurrò Giselle al suo orecchio, avvicinando cautamente la mano ai coltelli nella sua cinta. Clelia fissava la donna senza sbattere le palpebre e con aria ferrea.
 «Esattamente rossa!» storse la bocca in un ghigno malefico tramutando quell’elegante neo, in una raccapricciante verruca. «Racconta quello che sai e nessuno si farà del male» la minacciò i due uomini si avvicinavano trovi.
 «Ad una come te?» rise Emi «Giammai.»
  «Voi dell’Ordine siete così prevedibili, ma avete ritrovato quel dannato fogliaccio… quel bastardo… lo ha nascosto bene… avanti fanciullina, gira quel pezzo di carta e dimmi se qualcosa non ti suona familiare» la incitò Dana.

Clelia girò il retro del foglio titubante e le sue mani tremavano. Ciò che lesse le fece gelare il sangue nelle vene: “Labirinto nel sottosuolo di Parigi, al di sotto della statua di Giovanna d’Arco. Deceduti: Andrea Franchisio e Ginevra Bianchini. Esito: fallito. Missione: livello nero.” Era la missione in cui i suoi genitori erano morti e la firma di suo zio stava a certificare quanto scritto.  Chiuse gli occhi sentendo un profondo vuoto, un colpo al cuore che faceva più male di una sconfitta.
 «I tuoi genitori sono morti in modo pietoso, tu vorresti fare la loro stessa fine?...Infondo, se sei figlia loro…»
«Non so chi tu sia, o perché brami la spada, ma quel tatuaggio non mi ha portato altro che guai e quindi da me non otterrai nulla strega!» esclamò decisa stringendo il cartiglio.

Dana sospirò teatralmente portandosi una mano al petto, mostrò il labbro inferiore e uno sguardo addolorato. Tutta scena, si disse Clelia, non mi incanta.
 «Non mi lasci scelta fanciullina…» schioccò le dita e di quel rumore veloce e penetrante si fece eco in tutta la sezione. I due uomini si avventarono su di loro come fanno i lupi sulle prede, senza dar loro il tempo di estrarre alcun tipo di arma.
Quando il nemico si avvicinò a lei, respinse il colpo con un corpo a corpo, ma la mano bruciava come lambita dalle fiamme. Il gorilla di Dana tentò un altro affondo, lo schivò lateralmente e prese tra le mani il suo polso. Lo strinse forte e lo girò, impossessandosi così della spada. Guardò la mano girata del suo avversario e come, con una semplice leva, fosse stato in grado di sistemarla. Fu una scena raggelante, non aveva mai visto nessuno risistemarsi un osso rotto in quella maniera, senza mostrare sul volto alcun segno di dolore. Ma almeno aveva recuperato un’arma e aveva “indebolito” l’avversario, anche se sembrava parecchio più resistente di lei e forse lo era, ma doveva trovare un modo per batterlo… e alla svelta. Il rumore delle schegge di vetro rotte sotto i piedi si mescolava con lo stridere delle lame, i coltelli di Giselle fendevano l’aria e il rumore dei colpi batteva nei timpani come il rullo dei tamburi. Il suo nemico era meno forte di quanto immaginasse e i suoi gemiti di dolore si facevano sempre più forti ed insistenti, il suono del ferro le concedeva una scarica di forte adrenalina e il sangue che colava dalle sue labbra fremeva caldo, voleva sentirlo ancora per rendersi conto di quanto poteva spingersi oltre. Gli conficcò una lama nel fianco e guardò la punta della lama fuoriuscire dalla sua schiena con uno scintillio cupo, guardò le due ragazze alle sue spalle mentre il suo avversario rantolava a terra. Giselle, privata dei suoi coltelli, si difendeva a colpi dal grosso uomo dinnanzi a lei e notò un lungo taglio che le percorreva la guancia destra. Stanco del suo continuo schivare la fece sbattere contro la libreria con forza e nell’esatto istante in cui volse lo sguardo verso Emi, la sua più vecchia e cara amica, la terra venne a mancarle sotto i piedi. Dana bloccava Emilia puntandole una pistola alla tempia e un coltello alla gola.
 «Ora basta!» sibilò la strega «dimmi dove si trova quella spada ragazzina, o la tua amica non rivedrà la luce del sole!» minacciò lei premendo il filo della lama sulla pelle della ragazza, tingendola con una sottile linea scarlatta.
  «Clelia non farlo…» mormorò Emi con un filo di voce, mentre tentava di allontanarsi invano dall’arma.
 «Lasciala! Ancora non so nulla su quella dannata spada!» gridò Clelia disperata e ancora indecisa se avvicinarsi o meno, « piuttosto prendi me… sono io quella che vuoi, è con me che ce l’hai, non con lei.»
 «Come ostaggio tu non mi servi a niente. Solo tu puoi condurmi alla spada Clelia e quindi io ti userò… te e tutti quelli che ti affiancano» portò con sé Emilia sul bordo della finestra «la spada, per la biondina… quanto siete disposti a perdere Cavalieri?» rise subdola e sparò al braccio di Clelia. Il proiettile strisciò incandescente sulla sua pelle e fendendole la maglia che poco a poco si colorava di sangue. Dana era sparita, così come i due uomini ed Emilia…. Si sentì sprofondare in un oblio dal quale le sembrava impossibile uscire. Nella biblioteca calò un lugubre silenzio e Clelia corse al capezzale di Giselle, ancora integra, ma molto confusa e dannatamente preoccupata.

 «Non doveva prendere Emilia…» sibilò Clelia trattenendo la rabbia e il dolore. «Dovevo esserci io al suo posto…»
   «Non sono stupidi, tu sei l’unica che può portarli a ciò che vogliono» ribatté Giselle rialzandosi in piedi.
«Gise lei… lei è la mia più grande amica, siamo cresciute insieme in questo posto e la considero quasi una sorella… sono stata una sciocca e un’incapace, come posso pretendere di diventare Gran maestro se non so nemmeno proteggere i miei amici?» i sensi di colpa le attanagliarono il cuore e lo strinsero forte come fosse chiuso in delle catene di titanio.
Giselle posò una mano sulla sua spalla: «torniamo alla base e parliamone con tuo zio, lui saprà cosa fare… inoltre non sarebbe male fare un salto in infermeria, stai… stai grondando sangue» suggerì la ragazza aiutandola ad alzarsi.
«Anche tu sei messa male… andiamo.» Nonostante il dolore che le percorreva il braccio e la mano ancora squarciata, non parlo, non si lamentò, quasi come se quel dolore non fosse nulla comparato a quello che alleggiava nel suo cuore. Percorsero i vicoli di Siena in Silenzio, cercando di non farsi notare troppo. Appena tornate alla base corsero all’ufficio di Vasco. Clelia aprì la porta di colpo era giusto ammettere i propri errori e questa volta aveva superato ogni limite.
 «Zio, è successo un casino!» esclamò trattenendo le lacrime, Giselle entrò con lei ed entrambe rimasero sbalordite nel vedere che erano state precedute. Samuele e Shane erano in piedi, difronte a loro a metà strada tra la rabbia e la preoccupazione. Clelia ingoiò le lacrime e lo sguardo severo e deluso del suo partner la colpirono molto, le fece capire cosa si provava a deludere qualcuno e quale retrogusto amaro lasciava nell’animo.
«Gise dove diamine eri finita?!» sbottò Shane trascinato dalla sua solita ira momentanea, «ti ho cercato in tutto il benedettissimo Duomo accidenti! Mi avevi detto di essere nell’arena!»
 «E tu? Dove cazzo sei andata a cacciarti?! Ti ho cercata per mezza Siena!» aggiunse l’altro, era già sorpresa che fosse venuto a cercarla… si era comportata male nei suoi confronti, davvero male.
Suo zio sogghignava divertito dalla sua scrivania e sistemava i suoi fogli volanti giusto per mettere un po’ in ordine quel casino che era la sua scrivania, poteva passare un’ora solo per cercare  suoi occhiali da lettura… forse anche due ore.
Lei e la sua amica si lanciarono uno sguardo complice e risposero in coro: «in biblioteca.»
«E allora perché sanguinate?» domandò Shane animato da una rabbia fredda ed impulsiva.
  «Noi… ci hanno attaccate» rispose Giselle attirando l’attenzione di Vasco.
«In biblioteca? E da chi?» domandò preoccupato.
 «La Confraternita del Drago Nero zio, ci hanno già attaccati una volta e  vogliono la spada di fuoco» Clelia con serietà poggiando delicatamente il cartiglio, intriso ormai del suo sangue, sulla scrivania di suo zio.
   «Sei andata a cercarla?!» gridò furente «Clelia te lo avevo proibito!» la rimproverò «è per questo che sei sparita dopo Venezia?!»
 «Sì.» Non aveva più paura di affrontarlo, ne aveva voglia di negare l’evidenza. Si meritava la predica e l’avrebbe incassata tutta. «Zio, io devo dare un senso a ciò che vedo…e ora ho un motivo in più per cercarla.» cominciò incupendosi.
 «E quale sarebbe?»
   «Hanno preso Emilia, le risparmieranno la vita solo quando consegnerò loro la spada» spiegò greve e nella stanza calò un pesante silenzio, rotto solo da un affranto sospiro di suo zio.
«Maledetti… Non ci lasciano scelta, dimmi che sai come arrivare alla spada.»
Clelia indicò il foglio sporco di sangue, Vasco lo lesse attentamente e lo vide stringere i pugni. Forse per rabbia, dolore, comunque amari ricordi… «Una visone mi ha portato al rubino che, a rigor di logica, dovrebbe essere il pomo della spada, un’altra al cartiglio di Giovanna d’Arco… Metterò insieme gli indizi, so che sembra strano ma se è l’unico modo lo farò.»
 «Molto bene, sai quello che fai e trovare quella spada è diventata una priorità…»
   «Grazie zio, tornerò presto…»
«Ferma subito l’entusiasmo Clelia, non andrai da sola.»
 «Cosa?! Zio, è colpa mia se hanno preso Emilia come pensi che riesca badare anche ad altri?»
«Scommetto che non è così, altrimenti ora al tuo posto ci sarebbe Emi… Lui verrà con te, siete partner e le cose si fanno in due, perciò verrà in missione con te. Ti dirò di più: Shane e Giselle si uniranno a voi. Ora tu e Gise andate in infermeria, siete malconce.»
 «Agli ordini signore» disse pacata lei uscendo dallo studio, Shane la seguì a ruota accompagnandola al capezzale di Dafne.
 «È la vostra priorità, fate veloci… Clelia dovresti andare in infermeria.»
«No, è già guarita…» guardò la sua mano che ancora sanguinava e la nascose dietro la schiena « a presto zio.»

Uscì veloce dalla porta e sentì la voce di suo zio levarsi in un mormorio distinto: “testona”. Sì, era testarda come un mulo e ne era pienamente cosciente. Sentì i passi di Samuele che la seguivano in silenzio e facevano un rumore molto più forte dei suoi, anzi, quasi li sovrastava. Nessuno dei due aprì bocca finché non si avvicinarono all’uscita.
 «Senti, riguardo alla discussione di prima…»
«Cosa?»
 «Dimentichiamo tutto» propose Samuele «ricominciamo da zero. So perfettamente che mi detesti, oggi lo hai affermato pienamente, ma non potremmo fare questo sforzo? Almeno provare a collaborare per salvare la tua amica…»
Non ci avrebbe guadagnato nulla ad odiarlo in eterno. «Va bene… io non… io non pensavo davvero quello che ho detto, ero solo arrabbiata, mi dispiace…» si scusò e davvero gli aveva chiesto scusa col cuore, non meritava nessuna delle parole che gli aveva detto.
«Sei perdonata.» La attirò a sé e la strinse in un abbraccio.
  «Ma… che stai facendo?»
«Non lo so, sembravi aver bisogno di conforto ed io te lo sto dando. Non preoccuparti per la tua amica, se è tenace quanto te nulla potrà spaventarla…»
Non rispose, si limitò a consolarsi nel calore di quel corpo sconosciuto che in quel momento, così duro e freddo, non faceva altro che confortarla. Si sentiva invasa da un forte dolore e per quanto avesse tentato di trattenere le lacrime, ogni suo sforzo fu vano. Era tutta colpa sua, se fosse stata più attenta e più coraggiosa forse Emi sarebbe stata ancora lì con lei. Lasciò colare le lacrime lungo il suo viso e lo pulivano con righe malinconiche, soffocò i suoi singhiozzi, ma strinse forte Samuele affondando il volto nel suo petto. Era colpa sua, solo sua.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 6
*** Atto Terzo: Il segreto della Pulzella di Orleans ***


 


Atto Terzo: Il segreto della Pulzella di Orleans


La luna illuminava flebile Parigi e si rifletteva appena nella senna come un grosso diamante luminoso, stracciato dalle increspature dell’acqua. Neppure la magia che alleggiava per quella città riusciva ad alleviare quel peso che le cingeva il cure come un filo di spine. Il rapimento di Emi era stato un duro colpo per la Base, ma per lei principalmente: era colpa sua e della sua arroganza se la sua migliore amica era caduta nelle mani nemiche. Era colpa sua e doveva esserci lei al suo posto.
 «Che bella!» cinguettò Giselle guardando ammirata la tour Eiffel, «è esattamente come me l’ero sempre immaginata!».
 «È solo una torre!... Ed è più bella quella di Pisa» ribatté Shane.
«Credo sia solo questione di gusti» borbottò lei. «Allora, ci saliamo sopra?»
«Avremo tempo più tardi per fare i turisti» li interruppe Samuele, «ora cerchiamo la spada.»

Percorsero tutta la Rue des Pyramides e raggiunsero il monumento equestre di Giovanna d’Arco. Si erigeva imponente sulla piazza, placcata in oro e, stretta nella mano destra, la bandiera che sfoggiava con fierezza. Clelia si accucciò per vedere l’incisione sulla targa, ma non vi era nulla di strano, nulla che potesse essere utile alla loro ricerca. Era una semplice statua eretta su un basamento in granito. Qualcosa non tornava. Sarebbe stato troppo facile se no, pensò lei, accarezzando l’incisione con delicatezza.
 «Trovato nulla?» domandò la sua amica, avvicinandosi un poco
«nulla».
 «Siamo venuti qui senza neppure sapere chi fu il destinatario di quella lettera, né che fece, o se entrò davvero in possesso di quello che cerchiamo» brontolò Shane.
«Sbagli» lo interruppe Sam, prima che riprendesse a farneticare, «io e Clelia abbiamo fatto due ricerche prima di partire, ma sappiamo chi fu il destinatario.»
 «Pierre d’Arc, fratello maggiore dell’eroina francese» continuò lei.
«Un poco noto alchimista, possiamo dire che fosse alle prime armi e pare che abbia aderito al circolo degli alchimisti della prima ora solo in tarda età.»
 «E pare che abbia nascosto l’artefatto che cerchiamo nella sua tomba…»
«E dove si trova la sua tomba?» domandò Giselle disgustata.
 «Ci sei sopra in teoria» commentò Samuele indicando il terreno.
Giselle saltò all’indietro disgustata, «oh mio Dio!» esclamò, «ma un cimitero normale no?».
«Erano normali catacombe, ci sono anche a Roma» rispose il suo partner.
«Vuoi dire che per arrivare alla tomba di quell’uomo dobbiamo scendere sottoterra tra pantegane e morti?» domandò ancora lei.
«Esatto, qualcosa ti turba?»
  «Sì, come arriviamo alla tomba?» rispose Shane al posto suo.
«Semplice, andiamo nelle catacombe. Non lontano da qui dovrebbe esserci il museo.»
  «Allora muoviamoci.»


Raggiunsero dopo poco le catacombe e si unirono ad un gruppo di normali turisti; scesero lungo le catacombe fino ad un bivio non sorvegliato e, invece di seguire la guida, presero il corridoio a destra che portava verso il basamento della statua. I cunicoli erano stretti e angusti, l’aria era sottile e odorava di morto, l’umidità condensava e gocciolava dal soffitto… un luogo perfetto per passare le vacanze estive, pensò Clelia, magari con un bell’analcolico alla frutta e un bikini all’ultimo grido. Giselle soffiava sulle sue mani per riscaldarle e si stringeva nella sua giacchetta di jeans, mugugnava disgustata, di tanto in tanto, quando sentiva lo squittio di un topo e stringeva il braccio di Shane finché non assumeva un colore rossastro.
 «Gise, piantala!» esclamò, «mi stai mandando il braccio in cancrena!»
 «Scusa, ma i topi mi fanno davvero un brutto effetto…» borbottò lasciando il braccio del suo partner.
 «Ci siamo» li interruppe Samuele puntando la torcia contro un sarcofago.
Non era la classica tomba che si poteva trovare nelle catacombe: era grande e monumentale, rappresentava un angelo dal volto celato e le ali che lo inglobavano con fare minaccioso; le livellature erano massicce squadrate, quasi spigolose, e stava racchiuso nelle vesti di pietra, scolpite con sagacia e parsimonia, sopra la tomba.
 «Shane, mi passi il tuo machete?» domandò Samuele. Shane gli mise in mano l’arma e con il retro cominciò a battere sulla lapide del defunto, fino a frantumarla in grossi blocchi.
  «Wow…» mormorò Giselle «certo che ne hai di forza».
«Avanti» disse lei «andiamo».

Scese nel passaggio creato dal suo partner e si appiattì al muro, per avere un punto di riferimento, perché non trapelava neppure un flebile barlume e temeva di scivolare. Gli altri tre la seguirono nel tunnel e puntarono le torce per terra, immortalarono involontariamente una pantegana che subito guizzò in un buco. Giselle urlò nauseata e si avvinghiò a Shane.
 «Che schifo! Che schifo!» esclamò saltando sull’ampia schiena del partner, «tutto ma non i ratti!»
 «Taci Giselle!» ribatté Shane caricandosela sulla schiena, «quando urli spacchi i timpani.»
 Dal profondo corridoio filtrò una debole luce purpurea e, man mano che si avvicinavano, essa si faceva più fulgida e illuminava la loro strada, sempre più ripida e scivolosa. Rimasero al centro del sentiero e, ai loro lati, nelle pareti vi erano incastonati dei rubini che riflettevano la luce e la coloravano di un rosso scarno; si avvicinarono sempre di più ad una fulgida luce dorata mescolata a quella rossa riflessa dai rubini, anche se lo spazio intorno a loro continuava a diminuire e l’aria a farsi più rarefatta. Arrivarono ad un bivio, due strade. Una conduceva verso l’alto dalla quale traspariva una luce fioca; l’altra invece conduceva verso il basso e non sembrava avere una fine da quanto era profonda l’oscurità. Al crocevia delle due strade, un libro, sorretto da un leggio formato da due angeli in marmo, inginocchiati e con le ali spiegate; Samuele sfogliò le prime pagine del libro.
«Cazzo…» mormorò lui.
  «Ahia… qui si mette male…» constatò Shane e tutti si raggrupparono intorno al leggio.
«sulphur et mercurius… in una di queste due strade c’è la spada, sì, ma anche il mercurio.»
 «Il mercurio è tossico sotto forma gassosa…» ricordò Clelia, «non è detto che sia sotto forma di gas Sam».
«Oh sì invece… per gli alchimisti questo processo è una sorta di purificazione… dal basso, lo zolfo che è infiammabile e si trova nelle profondità della terra; all’alto, il mercurio in forma gassosa che si mescola all’aria» spiegò Samuele velocemente. Le venne un brivido e volse lo sguardo verso la strada più luminosa, quella che procedeva verso l’alto.
 «E ora?» domandò Giselle.
«Beh, testa o croce…» rispose Shane tirando fuori una moneta.
 «Croce» risposero Samuele e Clelia in coro.
«Se esce testa andremo io e Gise nella strada d’ombra… se esce croce ci andrete voi».
Shane lanciò in aria la moneta, il silenzio calò fra i quattro ragazzi. Clelia incrociò le dita e si morse con forza il labbro, sperava con tutta se stessa che uscisse la croce. I muscoli tesi, gli occhi serrati e il clangore metallico della moneta che fendeva delicata l’aria per poi cadere silenziosamente nella mano di Shane.
 «Allora?» domandò Giselle col fiato sospeso, «cosa è uscito?»
Shane scostò piano la mano dagli occhi e rispose con voce tremante: «croce».
Samuele riprese a respirare e Clelia frugò nella sua sacca alla ricerca del corsetto. Quando lo tirò fuori vide Shane sbiancare, ad un passo dal mancamento.
 «Potrebbe fare un po’ male… ma almeno aiuta a regolare il respiro e a trattenerlo meglio» cercò di rassicurarlo Clelia, nonostante lei per prima odiasse quel corsetto, «io e Gise grazie a questo riusciamo a combattere senza respirare per almeno due minuti…» sapeva non essere di grande incoraggiamento e l’espressione del suo amico confermò il suo poco tatto.
 «Tranquillo, non lo diremo a nessuno…» promise Giselle sorridendogli gentile.
«A nessuno, GIURATE!»
«Giuro» rispose Clelia decisa facendosi la croce sul cuore.
 «Posso farti una foto?... Sai solo per avere qualcosa con cui ricattarti, se mai servisse ovviamente, una volta usciti di qui… nulla di che, giusto uno scatto… non uso il flash»; Clelia gli tirò una poderosa gomitata sul braccio. «Ahi!... e va bene ho capito!...Giuro sul mio onore di Cavaliere Templare che non dirò a nessuno che ti sei messo il corsetto» anche lui fece una croce sul cuore. «Contento?»
 «E che non farai foto….» continuò Shane poco convinto.
«Te lo giuro, non farò foto! Cavolo, sei esasperante!»
Convinto, Shane, si lasciò mettere il corsetto. Non fu difficile per Clelia infilarlo, a parte il fatto che era da donna e che fosse circa di, minimo, tre taglie in meno, la parte difficile fu stingerlo. Lei e Giselle ci misero quasi mezz’ora e le risate di Samuele in sottofondo non resero le cose più semplici.
 «Fatto!» esalò soddisfatta Clelia una volta legato il corsetto.
   «Non… respiro…» mugugnò Shane con voce soffocata.
«Beh, l’intento è quello» rise Giselle.
«Ragazzi voi cercate di metterci il minor tempo possibile, senza dimenticare la spada. Ci rivediamo fuori e se l’uscita non è la stessa per tutti ci ritroviamo alla base» esplicò Samuele mettendo il cellulare in tasca.
 «D’accordo».

Si divisero. Clelia e Samuele imboccarono la strada più buia e man mano che avanzavano l’oscurità si faceva più fitta anche con la luce della torcia, l’odore di zolfo riempiva le loro narici e il sentiero era ripido e sdrucciolevole.
 «Non dovevi fare le foto a Shane…» disse Clelia rompendo il silenzio.
«Non ho fatto nessuna foto…» replicò lui puntando la torcia sul pavimento «…gli ho fatto il video».
 «Tu… fa vedere!» esclamò lei ridendo.
 «Ti giuro che te lo faccio vedere una volta usciti… da… qui».
Davanti a loro vi era un lungo canale rosso sangue, denso e caldo perfino. Clelia sapeva che doveva andare avanti, dopo un primo momento d’indecisione, mise un piede nel canale di sangue e con calma infilò anche il secondo. Procedette normalmente continuando a ripetersi che quello che stava attraversando non era sangue umano. Il canale le parve infinito, ma ad un certo punto, il canale si divise in un bivio: un canale pieno di sangue e uno pieno di acqua.
 «Segui il sangue» disse Samuele alle sue spalle «sangue versato per la Francia… Pierre d’Arc era anche un militare, ricordi?»
 «Sì… un Cavaliere Templare…»
Continuarono a seguire il canale rosso e dopo qualche metro si materializzò davanti a loro una statua in marmo: un angelo incappucciato, senza aureola, avvolto in un manto e nelle ali frastagliate, tra le mani teneva una grossa tavola con riportate alcune frasi dell’apocalisse. Samuele scostò la tavola dalla mano dell’angelo e aprì un piccolo varco.
 «Prego» la incitò «prima le donne…»
«Allora ti conviene sbrigarti» rise lei dandogli una spintarella.
 «Stronza…» abbassò la testa e entrò nel buco. Il silenzio.
«Sam… Tutto bene?» domandò dopo cinque minuti buoni. Nessuno rispose. Si avvicinò alla cavità e subito qualcosa la strattonò portandola dentro. Non era spaventata, ma era sorpresa perché intorno a lei non c’era nulla se non un fitto buio e le pareti gocciolanti della caverna. D’un tratto sentì una forte presa sui fianchi e un leggero morso sul collo; d’istinto si voltò con irruenza e tirò un pugno al suo “aggressore”.
 «CRISTO CLELIA!» gridò Samuele mettendosi le mani sul naso «stavo solo scherzando!»
  «Oddio Sam scusa!» si avvicinò a lui levandogli le mani dal naso «fammi vedere…»
«No grazie, hai fatto abbastanza!»
  « Fammi vedere se il naso è rotto mongolo! Piantala di dimenarti sei peggio di una biscia!» esclamò lei irritata, osservò bene  e sorrise: «tranquillo continuerai ad avere il tuo grazioso nasino alla francese».
«Ah, fai pure dell’ironia dopo avermi dato un pugno del genere?»
 «Eddai, non ti fa mai male niente!» rise lei accendendo la torcia.
«La prossima volta te lo tiro io un pugno sul naso e ne riparliamo…»
 «Me lo rinfaccerai per tutto il viaggio?»
«Anche per tutta la vita se insisti…»

Il buco si apriva in una piccola scappatoia, stretta e angusta, la attraversarono uno per volta, in silenzio e arrivarono in un piccolo santuario, con al centro un altare in granito e sopra di esso un corpo ancora integro. Si avvicinò piano all’uomo, la pelle d’avorio e gli occhi chiusi come se dormisse, la croce d’argento sulla veste e tra le sue mani una pregiata lama, brillante e argentea come appena forgiata.
 «Eccola…» disse Samuele estraendola dalle mani del cadavere, dopo un primo minuto di tombale silenzio tutto cominciò a tremare con forza. «Ah giusto… ci sono i trucchetti…» brontolò ironico «e io che speravo in qualcosa di tranquillo per una volta». Clelia gli strappò di mano la lama e la infilò velocemente nel suo stivale, lo prese per il braccio e si infilarono in una fessura. Erano stretti e lei poteva sentire il fiato del suo amico sul collo. «Accidenti dolcezza, non sapevo avessi una terza!» ghignò lui d’un tratto.
 «Ma che…?!» abbassò lo sguardo e la mano di Samuele era posata sul suo seno «Sam… togli quella mano oppure te la stacco a morsi….»
  «Come sei violenta dolcezza…» sorrise e strinse la presa «e pensare che io ho solo buone intenzioni…»
«Se certo…» gli scostò la mano «non ci provare playboy, te la passo solo perchè sei mio amico…»
 «Grazie per la tua clemenza…» sogghignò lui.
«Prego».
 «Era ironia».
«Anche la mia… forza andiamo» rise lei addentrandosi in un corridoio che dopo un po’ si allargò e in esso alleggiava un forte e pessimo odore, poco dopo uscirono dal cunicolo per arrivare nelle fogne di Parigi.


Uscirono da un tombino e guardarono la statua di Giovanna d’Arco che scintillava sotto i flebili raggi della luna, troppo forti per loro che si erano già abituati al buio del cunicolo. La piazza era vuota e illuminata dalla luce sfusa dei lampioni, nell’aria alleggiava un silenzio inquietante che si mescolava al sibilo di un vento freddo e solitario.
«È tutto troppo… silenzioso…» fece notare Clelia.
«Hai ragione», Samuele tirò fuori le due pistole dalle fondine, « dove sono Shane e Gise?»
  «Devono essere sbucati da un’altra parte…»
«Oh loro saranno impegnati per un po’» ghignò malefica una presenza, nascosta tra le colonne dell’edificio affianco, il volto celato da un nero manto di velluto che calzava morbido lungo le sue forme sinuose. A Clelia non serviva vedere il suo volto per riconoscerla, estrasse la sua pistola dalla fondina e sparò senza scrupoli contro la donna. Si scansò un attimo prima che il proiettile la colpisse, «pessima mira Clelia…» sogghignò malefica.
 «Dana…» digrignò i denti e sparò un altro colpo assicurandosi di prenderla alla testa, ma, ancora una volta, non ebbe successo. Imprecò pesantemente.
 «Andiamo Clelia… sono qui solo per chiacchierare…»
«Non voglio giocare!» gridò furiosa.
 «Perché no?... Infondo ho io il coltello dalla parte del manico…» Dana schioccò le dita e dall’ombra comparve un uomo, rachitico e ricurvo, la spina dorsale e il costato vennero messi in risalto dalla poca pelle che aveva. «Mortimer…» sibilò feroce all’uomo, «vai sotto la luce».  Egli si avvicinò lentamente al centro della piazza e quando i raggi della luna piena lo colpirono la sua pelle scomparve sotto un irto pelo grigio, la pupilla parve scomparire mescolandosi ai suoi occhi corvini e i canini si allungarono lasciando cadere per terra fiotti di viscida bava; a Dana bastò schioccare le dita il lupo si accanì su di loro. «Scappate fringuelli, scappate… non avete dove nascondervi, lui vi troverà…»
 
Fuggirono verso il cimitero e Clelia lanciò a Samuele dei proiettili in puro argento. «Sam!» il ragazzo li prese al volo e caricò frettolosamente la pistola, prese la mira e sparò contro il grosso canide. Lo colpì alla zampa e questo si accasciò terra dolorante permettendo loro un vantaggio di qualche minuto. Si rifugiarono nel cimitero di Parigi e si nascosero dentro un mausoleo di un antica famiglia parigina.
 «Cazzo…» imprecò Samuele cercando di ricaricare le pistole, una delle quali priva di qualsiasi genere di proiettile, « quante munizioni in argento ti rimangono?»
 Clelia frugò nelle tasche dei pantaloni, «solo tre…» gliele mise fra le mani.
«Quindi ho in tutto sei colpi… tu?»
 «Mi restano due pallottole, ma non sono in argento».
«Allora è meglio se al cagnolino ci penso io…» proferì caricando le munizioni «non sarebbe congeniale vivere con un lupo mannaro…»
  «Grazie Samuele, ma sei tu quello che deve fronteggiarlo quindi… pensa a non farti ammazzare piuttosto che a come sarebbe vivere con uno della sua specie» rise lei dandogli una pacca sulla schiena.
«Sarebbe un incubo! Scusa già sei lunatica di tuo, sei una donna coi pro e i contro, se poi ti trasformi in un lupo mannaro io non faccio più vita!» scherzò lui alzandosi.
 «Sono seria Sam… non farti mordere».
«Farò attenzione, parola mia…»

Il silenzio del cimitero venne rotto dal pesante fiato del lupo, gli argentei e affilati artigli graffiarono le lapidi di granito che stridettero al contatto con esse. Dana scese dalla groppa dell’animale e questo cominciò a fiutare meticolosamente l’aria, li avrebbe trovati a breve. Samuele uscì dalla tomba e fischiò al grosso canide che, dopo averlo individuato, si accanì contro di lui come gli avvoltoi si accerchiano attorno ad una carcassa, lo condusse ai margini del cimitero, lontano da Clelia. I passi di Dana si facevano sempre più vicini e il tintinnio dei tacchi faceva eco nel cimitero come il pendolo di un orologio, si allontanò dalla tomba e anche lei uscì allo scoperto, armata e con la guardia alta, ma la sua carnefice non era davanti a lei. Sentì  un flebile spostamento d’aria alle sue spalle e si voltò di scatto, sparando un colpo a vuoto. I suoi muscoli erano tesi e l’adrenalina circolava nel suo corpo accelerando i suoi battiti cardiaci.
 «Colpo mancato signorina...» ghignò Dana seduta su una lapide « ritenta, la prossima volta avrai più fortuna…»
 «fossi in te non farei dello spirito… so come cogliere la gente alla sprovvista».
«Di certo non mi farò bagnare il naso da una diciottenne» rise lei giocando con una ciocca dei suoi fluidi capelli.
 «Dove tieni Emi? Perché sei qui e cosa vuoi da me?» domandò con schiettezza.
«Quante domande tutte assieme ragazzina, frena altrimenti potrebbe esploderti il cervello… Sono qui solo per vedere come procede la ricerca della spada, vogli assicurarmi che tu e il tuo Ordine manteniate la promessa».
 Clelia guardò lo stivale in cui teneva la lama con la coda dell’occhio, «noi cavalieri manteniamo sempre la parola data» ribatté piccata.
Dana scoppiò in una fragorosa risata: «nessuno di voi mantiene le promesse, basta guardare tuo padre…»
 «Mio… mio padre?»
«Come? Il Gran Maestro non…» rise ancora più forte e per poco non scivolò dalla lapide. «Tu non sai nulla, non è così?» le parve molto una domanda retorica e quindi non rispose. Dana le fece segno di seguirla e non seppe perché, ma la seguì senza aprir bocca.

Arrivarono fino ai margini del cimitero e, in un piccolo spiazzo circondato dai cipressi, due lapidi in marmo, molto austere e prive di fiori o candele. Dana si sistemò dietro di esse aspettando che Clelia si avvicinasse, lo fece con riluttanza e guardò le foto sulle lapidi, ebbe un sussulto. Erano le sepolture dei suoi genitori. Si inginocchiò dinnanzi ad esse e le lacrime cominciarono a colarle dal volto in silenzio, senza che lei potesse fermarle o ingoiarle.
 «Povera cara, piccola ed ignara creatura…»le prese il mento tra il pollice e l’indice alzandole il volto, « deve essere dura scoprire di essere la figlia di due traditori».
 «I miei…che cosa?»
  «I tuoi genitori erano dei traditori dell’Ordine convertiti alla Confraternita» cominciò lei  guardandosi assorta la manicure, «vennero a Parigi per il rito d’iniziazione dove maledissero il tuo nome, il loro giuramento da Cavalieri Templari e qui, in questa città, abbracciarono le nostre regole e inostri dogmi, li fecero loro… peccato che, nella punta di diamante del rito, tuo zio irruppe con rabbia durante la cerimonia e non solo li uccise, ti strappò via da loro. Io ero lì».
Nel suo cuore e nella sua mente imperversarono un’infinità di dubbi e di domande: i suoi genitori erano dei traditori e suo zio, il fratello di suo padre, il loro carnefice. Sentì una lancinante fitta al petto, una crepa sul suo cuore che, poco a poco, diventava una voragine. «No…» mormorò sconvolta, «non… no può essere» le lacrime le rigavano il viso con insistenza, quasi a consumarlo.
«Sì invece, è così… tu sei solo una pedina Clelia, rinnegata da tutti… perfino dalla famiglia» scoprì i candidi denti nel suo solito ghigno malefico. Accecata dalla rabbia e dal dolore, estrasse il pugnale dalla tasca intera dello stivale e lo conficcò nella spalla di Dana che urlò per il dolore. «Piccola bastarda» sibilò allontanandosi da lei, «non è finita ragazzina, la guerra è appena iniziata… ma… fossi in te, cercherei il tuo amico» fischiò e scomparve nell’ombra, così com’era apparsa.


Clelia scattò in piedi e cominciò a cercare Samuele, lo chiamò a gran voce e scandagliò i vari sepolcri familiari, ma di lui nessuna traccia. Se anche a lui fosse accaduto qualcosa non se lo sarebbe perdonato, non poteva più fidarsi di nessuno se non di lui e neppure sapeva fino a che punto poteva confidarsi, ma… era tutto quello che le rimaneva, si sentiva tradita e pugnalata dalla sua stessa famiglia, si sentiva l’unico agnello in un branco di lupi. Per la prima volta si sentiva indifesa.
 «Samuele!» gridò disperata, « dove sei?»
«Sono qui» rispose comparendo tutto d’un tratto alle sue spalle, «non c’è bisogno di strillare come un’aquila»
Clelia gli saltò al collo contenta e lo strinse forte, ma tutta la sua euforia si spense quando sentì uno strano calore, una strana sensazione di umido le percorreva piano il braccio, si sciolse dall’abbraccio e guardò la manica della sua camicia bianca, tinta di rosso e fradicia di sangue. Alzò lo sguardo verso la divisa del suo partner e, oltre che essere strappata e insanguinata, era marcata da una ferita fresca che partiva dalla sua spalla fino al suo petto.
 «Sam… mi avevi dato la tua parola…» bisbigliò con voce tremante, «avevi promesso che avresti fatto attenzione…»
 «Ma sto bene…»
«Dobbiamo trovare Shane… lui ha il kit del pronto soccorso, forse siamo in tempo per…»
 «Clelia basta, sto bene io non sento il dolore, non mi fa male…»
«Ma quanto sei scemo?!» urlò, «se ti ha morso è la fine! Devo vedere che cos’hai…»
 «Anche se mi avesse morso che cosa cambia? Al massimo nelle notti di luna piena mi metti in cantina!»
 «Siamo Cavalieri Samuele, se diventi un lupo mannaro mi obbligheranno ad ucciderti!»
Samuele si ammutolì e lei comprese che si era completamente dimenticato di quel particolare. Lei non poteva e non voleva fargli del male, lo stesso valeva per lui. Nessuno dei due avrebbe mai torto un capello all’altro. «Dobbiamo trovare Shane e Giselle… ORA!» sentenziò Samuele, sempre più pallido.


Clelia rintracciò i suoi compagni con un colpo di telefono e i quattro si riunirono nell’infermerie della base parigina, Samuele era sempre più pallido e continuava a perdere sangue a fiotti.
 «Okay, ora disinfetto la ferita così vediamo se si tratta effettivamente di un morso o di un graffio…» proferì Shane prendendo dalla sacca dell’acqua ossigenata e del cotone.
 «Perché, c’è differenza tra l’uno e l’altro?» domandò Giselle  saltellando intorno al partner per sbirciare quello che faceva.
  «Sì, molta a dire il vero… se ti mordono sei condannato a mutare in un lupo mannaro ad ogni luna piena dimenticando completamente la tua identità; quando ti graffia, invece, non cambia nulla in te fisicamente solo si comincia a prediligere la carne al sangue e  si tende a comportarsi in modo strano durante le notti di luna piena… tutto qui» spiegò lui mentre puliva meticolosamente la ferita di Samuele che, di rimando, faceva qualche smorfia ogni volta che gli versavano l’acqua ossigenata sula ferita. «Sei fortunato Sam, è solo un graffio» sentenziò Shane e Clelia, a quell’affermazione, poté tirare un sospiro di sollievo. Era fuori pericolo, non avrebbe dovuto ucciderlo. Giselle aiutò il suo compagno a mettere i punti e le bende, poi, una volta finito, tornarono nelle loro stanze lasciandoli soli.

Calò il silenzio. Clelia passò a Samuele una felpa e si sedette affianco a lui sul lettino dell’infermeria, così vuota e fredda, senza colori, scarna e austera; un’unica finestra, chiusa e  nascosa da una fitta tenda. Continuava a far dondolare le gambe e a giocare con le punte dei capelli, incapace di intrattenere una conversazione, rabbia? Paura? O forse entrambe?... Non sapeva bene cosa dire e se le conveniva veramente farlo.
 «Che cosa succede?» domandò lui spezzando il silenzio.
«Perché dovrebbe succedere qualcosa?»
 «Perché hai la faccia di una che deve dire qualcosa… avanti dolcezza, spara»
«Credo di essere solo confusa, di aver bisogno di chiarimenti e di certezze… per ora ho solo tanti dubbi e troppe domande, tutte senza risposta» cominciò lei guardando la punta degli stivali per non incrociare il suo sguardo.
 «Ebbene?... Quali sono questi dilemmi?» gli raccontò tutta la storia che Dana gli aveva riferito, non voleva essere sgridata o aggredita, ne tantomeno compatita o consolata, voleva un consiglio, un giudizio. «Credi davvero che il mio mentore, tuo zio, ti mentirebbe su una questione del genere?»
 «No… il mio cuore non lo pensa, ma la mia mente… è che mi da poca fiducia ultimamente, fa tutto di nascosto e mi tiene segrete delle questioni, che possono riguardarmi o meno, anche se prima non mi nascondeva nulla… insomma avrebbe potuto dirmi che i miei genitori erano dei traditori e che sarei dovuta appartenere allo schieramento nemico, quanto gli costava dirmi la verità?»
 «Tu parli di verità, ma la verità non è sempre bella e magari non ti ha detto nulla perché eri, o sei, troppo immatura per coglierne il senso. Tu da lui pretendi fiducia, ma tu per prima non gliene stai dando… ricorda Clelia, i genitori non sono quelli che ci mettono al mondo, ma quelli che ci crescono, se  considerassi questa teoria al contrario mi sarei già impiccato almeno tre volte» rise amaro. «Sai qual è il tuo problema? Tu non ti fidi di niente e di nessuno, non sai affidare la tua vita a nessun’altro se non a te stessa per… per paura che ti pugnalino alle spalle».
 «E tu come lo sai?»
«Perché è il mio stesso problema è il motivo per cui siamo partner».

Lo sentì più vicino quella sera, meno perfetto, e il fatto che si fosse aperto un po’ con lei le fece dimenticare per un attimo tutti quei dubbi e le domande che le attanagliavano feroci la testa. Oltretutto lui non le aveva sbraitato, non l’aveva compatita, si era confrontato con lei in modo molto ragionevole e razionale, con quelle poche parole era riuscito a darle un’altra prospettiva della situazione. Samuele aveva mescolato le carte a suo favore, la sua opinione di lui era cambiata radicalmente e incominciava a credere che non fossero poi così diversi, anzi, erano fin troppo simili.
 
 P.S. Scusate il ritardo e se è scritto un po' male, ci sono stati dei problemi durante la battitura, per il resto speriamo vi piaccia :)
 
 
 
 

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Capitolo 7
*** Atto Terzo: Il Sacrificio di Merrow ***



 
 

Atto Terzo:  Il Sacrificio di Merrow
 
Il viaggio a Parigi li condusse ad un altro pezzo della spada e all’indizio successivo: una moneta dorata finemente incisa.
 «È troppo piccola!» sbottò Samuele posando malamente la moneta sul tavolo intorno al quale erano raccolti, «non si legge niente!».

Erano circa le nove del mattino e si erano raccolti nel bar dell’aeroporto in attesa del volo che li avrebbe riportati in Italia. Nessuno dei quattro aveva dormito granché e le occhiaie violacee intorno ai loro occhi lo dimostravano.
 «Nessuno ha una lente?» domandò Clelia scostando una ciocca di capelli biondi dal viso. Shane non l’aveva mai vista in quello stato e la conosceva da anni, probabilmente era stata al capezzale di Samuele vista la sua brutta ferita, pensò velocemente e, conoscendola, era stato così.
 «Io…» rispose lui prontamente tirandola fuori dallo zaino. La sua amica la prese in mano e cominciò ad esaminare le scritte con attenzione.
 « “Là dove la magia è viva”…» lesse Clelia sul bordo della moneta.
 «Disneyland!» esclamò Shane con un sorriso.
«Ti prego vai avanti…» la intimò Giselle pizzicando scherzosamente il fianco del suo partner.
  « “Cerca Jack-in-the-Green, oltre la culla di uno spunkie, danza con un folletto in una notte di luna; oltre la croce di Silke, il labirinto del Leprechaun, sotto i piedi della Dulhan e segui la Banshee. La stella di Merrow in cambio di un’altra, o una triste canzone verrà cantata.” »
Macabro, pensò Shane, molto macabro. Sembravano quelle canzoncine che cantavano la notte di Halloween, giusto per metterti paura… erano storie…. Non erano mai vere… o comunque non andavano prese alla lettera.
 «Allegria portami via…» borbottò Samuele « per quanto carina, questa maledetta filastrocca non ci porta da nessuna parte» asserì infastidito. Shane non poté dargli torto, trovarono quella moneta sulla lama della spada grazie a Clelia che d’un tratto la strappò di mano al suo partner e prese la valuta.
 «Invece lo sappiamo» li contradisse Giselle passandosi la moneta tra le mani.
«Ma non da alcuna coordinata…» disse poco convinto.
 «Sì ti dico! Jack-in-the-Green, spunkie, Silke, Dullhan, Leprechaun, Merrow…. Sono tutte fate irlandesi» replicò lei piccata.
 «Come lo sai?!» domandò Shane sbalordito.
«Io sono irlandese… non dirmi che non te lo ricordi?»
Non seppe bene che rispondere. Se lo ricordava eccome… in un possibile universo parallelo. «Certo che me lo ricordo!» esclamò, peccato che Gise non credette ad una sola delle sue parole, «ora che me lo hai detto, sì, me lo ricordo…»
La sua partner roteò gli occhi divertita e ricominciò a parlare: «ricordo una piccola isola ad est dell’Irlanda , mia nonna mi ci portò da bambina…»
«Perfetto!» esultò Samuele, «ricordi anche come si chiamava?» domandò.
  «Mia nonna la chiamava “Jack-in-the-Green”, mentre i suoi abitanti la chiamavano “Isola di Merrow”… in ogni caso è un buon punto di partenza, no?» sorrise lei arricciando il naso. «Si può arrivare là con un semplice traghetto».


Salirono in fretta sul primo aereo diretto a Dublino. Il viaggio non fu per niente lungo, solo turbolento e rumoroso. A differenza dei suoi compagni, che ebbero la fortuna di  potersi sedere tutti e tre vicini, lui si ritrovò in mezzo a due vecchiette amanti dei romanzi rosa… erotici. Non che avesse nulla contro Christian Grey, ma dopo un’ora e mezza di ininterrotte chiacchiere su di lui poté dire di conoscere il libro senza averne letta neppure una riga. Quando scesero da quel terribile aereo corse affianco a Giselle e la abbracciò, fortuna che lei era tanto candida ed innocente, lei non gli avrebbe mai parlato di quel sadomasochista grigio!
 «Shane… staccati… mi stai stritolando…» borbottò lei sommersa dalle sue enormi braccia.
«Oh mi dispiace…» si scusò lui spolverandole i vestiti e aggiustandole un poco i rossi capelli spettinati.

Una mezz’ora dopo salirono sul traghetto e, se il viaggio in aereo fu una tortura, quello via mare fui ancora peggio! Erano tutti stretti su una panca e lui si era ritrovato in mezzo ad un obeso cinese di minimo duecento chili con l’alitosi e un emirato arabo che continuava a sporcargli i pantaloni con la salsa tartara del suo fish and chips. I miei poveri pantaloni nuovi, pensò demoralizzato, chissà quante lavatrici dovrò fare! Sospirò amareggiato e infilò le cuffie dell’mp3. I suoi tre compagni  stavano belli larghi e chiacchieravano amabilmente coi loro vicini: Giselle e Clelia discutevano sul nuovo disco dei “One Republic”, mentre Samuele commentava la partita di rugby che passavano sul piccolo schermo del traghetto. Perché, fra tutti, quello più sfigato con gli incontri era lui?! Non gli andava molto a genio quella situazione, perché a lui non capitava mai vicino ad una bella ragazza? --Beh è ovvio idiota, l’unica volta che è successo sei stato mollato per uno stipendio- pensò Shane tra sé e sé. Forse era meglio rimanere sfigato piuttosto che avere fortuna per poi ritrovarsi col cuore a pezzi senza nessuno che ti aiutasse a raccoglierli. «Che vita di merda» brontolò seccato senza preoccuparsi troppo dei suoi due vicini puzzolenti che non migliorarono di certo il suo terribile mal di mare.  Quando mise un piede a terra fece un lungo e profondo respiro, riempiendo i polmoni di aria pulita e non contaminata dall’olezzo di aglio e cipolla.

Il villaggio in cui attraccarono era modesto, in cui uomo e natura diventavano un tutt’uno; le case erano semplici, in legno e i tetti in paglia, dall’aria calda e accogliente.
 «I tipici cottage…» commentò Clelia caricando la pistola.
 «Non perdiamoci in un bicchier d’acqua… Giselle, dove dobbiamo andare?» domandò Samuele alla rossa mentre i rispettivi partner sistemavano le armi. La ragazza ci pensò su qualche minuto, poi parve illuminarsi.
«Il conte cavaliere che regnò sulle Merrow…» borbottò lei tra sé e sé, «Dobbiamo dirigerci al maniero in cima alla collina» sentenziò lei indicando un grosso catello in pietra grigia, grezza e ricoperta di rampicanti, preceduta da un rigoglioso giardino perfettamente curato con siepi e cespugli di rose.
 «Che posto è questo Gise? E perché quella frase?» domandò confuso.
  «Era una vecchia legenda, si dice che il vecchio conte di questo rudere  conquistò la fiducia delle sirene. Alla sua morte predisse al popolo delle Merrow l’arrivo di un nuovo conte che avrebbero seguito e protetto…» spiegò lei cominciando la salita verso il colle.
«Che si riferisca ad uno di noi?» domandò Samuele.
  «Dubito Sam, sono solo leggende centenarie» rise Giselle fermandosi davanti al cancello della reggia. Si chinò e cominciò ad osservare una piccola statuetta in marmo. «Che cosa… stai cercando?» domandò Samuele perplesso.
«Gli spunkie…» rispose laconica la rossa.
  «Tradotto per noi poveri ignoranti?» continuò Sam
«gli spunkie sono i fuochi fatui, ovvero le anime dei bambini morti senza battesimo…»
  «Continuo a non trovare il filo del discorso Gise…»
«Non sono seppelliti nei cimiteri, quindi eressero dei piccoli altari commemorativi» illustrò lei mostrando una piccola e delicata statuetta in marmo rappresentante una donna alata che reggeva tra le braccia un neonato. «E con i bambini addormentati dalle sirene ci siamo… prossima tappa?» domandò entrando  nel giardino del palazzo.
 «La danza di un folletto in una notte di luna» le ricordò Clelia mostrandole un foglietto dove, durante il volo, si erano riscritte la filastrocca.

Giselle indicò un piccolo rialzo al centro del giardino su cui stava un’enorme cerchio di pietre, «è una riproduzione, ma andrà bene ugualmente» disse lei mettendosi al centro.
 «Che cosa rappresenterebbe?» domandò l’amica indicando i massi, la rossa sorrise e raccontò che secondo la leggenda i folletti danzassero in cerchio nelle notti di luna piena e che, le pietre, rappresentassero le loro impronte.
 «Certo che avevano dei piedi enormi per essere dei folletti» ironizzò Shane  mentre riprendevano a camminare.
 Si fermarono dinnanzi al portone del castello. Non aveva mai visto nulla di più grande e di così elaborato, era semplice quercia con intarsi floreali e decorazioni dello stesso stile in ferro battuto. Lui e Samuele si rimboccarono le maniche e spinsero le ante per aprirlo.
 «Ma una porta di servizio no?» ringhiò Samuele che, con  forza, spalancò piano le porte d’ingresso.
«Questa È la porta di servizio Sam» rise la rossa dandogli una pacca amichevole sulla spalla, ricevendo in cambio solo un’occhiata truce e seccata. «Beh? Perché mi guardi in questo modo? Entra invece di guardarmi come se ti avessero appena picchiato… »cinguettò lei entrando nel lungo corridoio del palazzo, pieno di porte e armature impolverate.
 «Dietro ad una di queste dovrebbe esserci la croce di Silke» dedusse Clelia appoggiandosi al muro vicino ad un’armatura munita di alabarda.
 «Per quanto ricordo le Silke erano fate amichevoli, ma piuttosto dispettose e i paesani le tenevano lontane con delle croci di frassino»
 «chiamatela Wikipedia» scherzò Shane scompigliandole i capelli.
 «Come sei simpatico!» rispose acida lei arricciando il naso.
 «Non vedo croci qui intorno…» disse lui.
«A meno che non basti cercare una porta» ribatté Samuele fermandosi dinnanzi ad una di esse «è in frassino» disse indicandola, «così come il decoro»

Clelia la aprì piano ed entrò titubante. «Via libera» disse, e tutti la seguirono in silenzio. Davanti a loro si aprì  un lungo e stretto corridoio di pietra così come la scala con cui terminava.
 «Fammi indovinare» disse Shane fermando la sua compagna «Leprechaun?»
«Esatto!» esclamò sorpresa « sono i folletti amanti dell’oro, lo nascondono in dei labirinti nel sottosuolo » sospirò la sua partner cominciando a scendere lungo le ripide e fredde scale. Finirono esattamente in un freddo, buio e asettico corridoio, pino di inquietanti ritratto dallo sguardo glaciale e perfido che si posava sulle spalle anche quando li superavi. Gli venne quasi la nausea dopo ore ininterrotte a cercare l’uscita in quell’antro buio. Nulla. Almeno finché Clelia  non tirò fuori una vecchia sciarpa e cominciò a sfilarla. Persero un sacco di tempo prezioso, ma almeno riuscirono ad uscire da quei cunicoli stretti e ombrosi che puzzavano di morto anche se fuori il sole già stava calando. Si persero un attimo a guardare il tramonto su una grossa terrazza di strapiombo che si affacciava sul mare smeraldino.
 «Non è possibile… » sospirò Samuele esasperato «tutta questa fatica per un fottuto vicolo cieco?!»
  «No… aspetta….» lo contradisse Clelia scendendo dalla terrazza «qui c’è una porta…» disse indicandola. Era massiccia, in pietra, ricca di incisione in rame e con un piccolo foro circolare nel centro.
 «Fantastico dolcezza, come la apri se non abbiamo la chiave?» domandò Shane scettico come al solito.
«Magari era nel labirinto… forse dovremmo tornare indietro a cercarla….» propose Samuele partendo già in quarta.
  «Fermo!» lo bloccò Clelia «noi abbiamo la chiave» disse lei mostrandogli la moneta dorata per poi inserirla delicatamente nel foro della porta che, con uno scatto sordo, si aprì.
«Sei una grande Clelia!» esclamò lui scendendo le scale che si erano aperte sotto di loro.
 «Ah… adesso sarei una grande?» rise lei.
«Sì perché mi sei utile…» sghignazzò lui.
 «Ma fottiti» scherzò lei seguendolo.

Mentre i due cominciarono a scendere, Shane e Giselle rimasero sulla terrazza. L’aria era leggera e i gabbiani volteggiavano sopra il pelo del mare alla ricerca di qualche pesciolino last-minute da ingurgitare. Nulla di anomalo eppure fra di loro si insinuò uno strano silenzio che mai, in due anni che lavoravano insieme, venne a crearsi. Non era imbarazzo, né tanto meno vergogna… conosceva bene Gise e sapeva che qualcosa non andava.
 «Tutto bene? Sembri preoccupata…» disse lui rompendo il silenzio. Sapeva e vedeva che qualcosa la opprimeva, anche lui aveva un brutto presentimento che gli percorreva la spina dorsale.
«Pensavo alla filastrocca… “una triste canzone”… mi chiedo se… se vogliano un sacrificio in cambio della spada» sussurrò grave lei giocando con una ciocca di capelli.
« In cambio volevano una stella…» cominciò ad allarmarsi lui.
 «Shane.. nessuno di noi ha una stella» sentenziò lei seria.
«Clelia…» sussurrò con voce tremante. Ma certo! Si sarebbe sacrificata per tutti! Per quanto potessero sempre punzecchiarsi, per quanto potessero apparire “rivali” loro erano a mici da sempre. Ricordava ancora il giorno in cui li introdussero all’Ordine, due bambini, pieni di voglia di fare e con una grande grinta che volevano esprimere in ogni modo. Sentiva le varie voci che giravano sul conto della sua amica, tutte menzogne.  Lei non era la migliore perché avesse voluto esserlo, no… gli altri si aspettavano sempre il meglio da lei e, di conseguenza, lei lo pretendeva da sé stessa anche quando non poteva farcela da sola. Poteva sembrare una strafottente, ma a conosceva abbastanza bene per poter affermare il contrario. Non era migliore di lei, né voleva esserlo, ma era la sua più grande amica  e vederla in quelle condizioni, senza quel suo vivace sorriso era come ricever un forte pugno allo stomaco. Né lui né Gise le avrebbero permesso di sacrificarsi, non seppe bene il perché ma nel profondo sentì che era giusto così. «Dobbiamo trovare una soluzione» borbottò.
 «C’è… e spero che basti» sospirò Giselle affranta mentre raggiunsero i due amici.

La scala terminò in una grossa sala circolare, senza porte né finestre, colorata di un grigio scarno. L’aria era fitta e viziata, tutto ricoperto di polvere e ragnatele. L’unico elemento della stanza era un quadro, rappresentante un’armatura vuota e con l’elmo sottobraccio.
 «Questo quadro è raccapricciante!» esclamò Shane guardandolo da vicino.
«Tuttavia è azzeccato, le Dullhan sono fate guerriere senza testa»
 «quindi se si dice sotto i piedi della Dullhan…» sussurrò lui avvicinandosi ai pannelli che percorrevano la parte bassa della stanza, col piede diede al pannello sotto il quadro un piccolo calcetto e, questo, si staccò facilmente dalla sua sede, rivelando un piccolo antro.
 «Wow Shane!» esclamò la sua partner con un fischio «a volte mi sorprendi» rise entrando nella botola.
 «Solo a volte?» rise lui seguendola. I quattro percorsero quel lungo e stretto corridoio a gattoni guardando gli affreschi mitologici rappresentati le varie guerre delle tribù celtiche che insediarono quei luoghi. «Ehi Gise, quella ti assomiglia!» rise lui indicandole una fata dai capelli rossi.
 «Strano… manca lo sposo» rise lei a sua volta.
 «Sposo?» domandò confuso.
«Questa è la scena in cui, la regina delle fate, Titania, ricevette la proposta di matrimonio da parte del conte cavaliere. Ella chiese la luna in cambio della sua mano ed egli mantenne la promessa regalandole ciò che lei bramava» raccontò lei proseguendo lungo il corridoio.
 «E come fai a donare la luna?» domandò Samuele «è impossibile».
«Puoi se colei a cui la doni la considera tale» sorrise lei.
 «Fa molto zucchero e cannella questa storia » rise Clelia mentre uscivano dall’antro, «ora dobbiamo seguire la Banshee… Gise stranamente so cos’è una Banshee».
 «E come lo sai?» domandò lei inarcando un sopracciglio.
 «Semplice: Ho letto la saga d Harry Potter. Se ne parla abbastanza » rise lei.

Lo sapeva anche lui che cos’era una Banshee, erano quelle fate che si presentavano alle porte delle nobili famiglie irlandesi piangendo lacrime d’ambra per annunciare una morte imminente. Arrivarono ad un bivio e Giselle prese velocemente la strada a destra da dove proveniva il pianto straziato di una donna che pareva assordarli, nonostante fosse quasi come un sussurro. La paura d una morte imminente gli stringeva il petto come fosse tra le spire di un pitone con le membra di filo spinato e, infine, la conclusione della loro piccola avventura si presentò dinnanzi ad una bambina, esile e pallida con dei lunghi capelli che accarezzavano il pavimento e le nascondevano due grandi occhi azzurri, trasparenti come il vetro.
 «Stella o sangue, cosa offrite in cambio della spada?» domandò con voce cristallina.
   «Tu mostrami ciò che cerco, o nobile Merrow, ed io deciderò il pagamento» si fece avanti Giselle con un inchino sentito e profondo. Tra le mani della fata comparve l’elsa della spada con una gemma incastonata alla base della lama.
 «Noi non abbiamo una stella» sussurrò Clelia a Samuele allarmata.
«Stella o sangue fanciulla?» domandò nuovamente la fata.
 «Se scegliessimo il sangue?» domandò Samuele portando Clelia dietro di sé.
 «Uno di noi dovrà morire per pagare il prezzo» rispose Giselle tenendo lo sguardo basso.
«Vado io» rispose Clelia senza esitare scostando piano Samuele.
 «Non dire cazzate Clelia! Tu sei importante, servi viva!» esclamò Samuele trattenendola, «tutti noi serviamo vivi! »
Nessuno si rese conto che Giselle si avvicinò alla Merrow che, nuovamente le domandò: « per l’ultima volta fanciulla, stella o sangue?» i tre udirono le parole ferree della fata e volsero lo sguardo su Giselle.
 «Gise no!» gridò Clelia cercando di raggiungerla, «ti prego… non posso perdere anche te» al scongiurò lei con gli occhi lucidi. Shane sapeva che la sua amica avrebbe tanto voluto piangere, ma non lo faceva mai a meno che non fosse sola, era la regola per ogni cavaliere: “nessuna lacrima bagna il viso di un prode”. Molte altre regole furono stipulate al tempo, ma, tra tutte, la peggiore era la numero tre.
 «Va bene così» sorrise Giselle «offro il sangue in cambio della spada» asserì sicura alla Merrow.
«Molto bene…»

Alle spalle della fata comparì un’ampolla e l’acqua al suo interno cominciò ad incresparsi, fino ad alzarsi e avvolgere il corpo di Giselle.
 «Ferma!» gridò Shane, portandosi tra Giselle e la fata.
«Spostati giovane, ha fatto la sua scelta…» rispose la bambina con un’inquietante pacatezza mentre le spire d’acqua continuavano ad avvolgere la sua amica, lentamente, iniziando a nasconderne il corpo.
  «Va… va bene così Shane…» sussurrò lei con voce soffocata, quella di chi si sente l’aria venirle meno nei polmoni. Guardò le sue labbra e notò quanto fosse falso e teso il suo sorriso.
«No! Non va bene così! Tu HAI una stella Gise!» gridò lui e l’acqua, che oramai stava stringendo ferocemente l’esile corpo della sua amica, si dissolse cadendo a terra in una pozza.
  «Stella?» domandò la fata guardandola con attenzione «tu possiedi una stella?» strinse forte l’elsa fra le mani.
 «N-No… » tossì lei «nessuna» rispose con fiato corto.
«Lei non ha stelle… ma io si» sentenziò facendosi avanti.
  «Tu… Tu possiedi la stella di Merrow ragazzo?» strabuzzò gli occhi che brillarono di speranza e la sua bocca si aprì in un sorriso enigmatico.
«Non so se è all’altezza ma…»  Shane cominciò a sbottonare la camicia e la sfilò velocemente, mostrando un tatuaggio, all’incirca all’altezza del suo cuore, a forma di stella con una  “C” nel centro. «Ho fatto questo… tanto tempo fa».
  «Shane…» sussurrò Clelia tristemente che, insieme a Samuele, aveva assistito alla scena e ancora la tratteneva tra le sue braccia per impedirle di avvicinarsi. «È il tuo unico legame con lei…» la sua voce tremava e a stento tratteneva le lacrime.
 «Non importa se serve a risparmiare la vita di Giselle preferisco dimenticare piuttosto che torturarmi… credo che… avrei dovuto voltar pagina già da tempo ma non ho mai avuto il coraggio per farlo». Nessuno a parte Clelia sapeva della sua relazione con Cassandra,  lei aveva mantenuto il segreto fino all’ultimo. Quando venne a conoscenza del tradimento della ragazza fu la prima a darle contro, Cass si vendette ad un altro uomo solo per poter diventare il Gran Maestro di Venezia prima di lui. Il fatto che fosse andata a letto con un altro alla fine non gli fece male più di tanto, poteva scegliere se farlo o no… quello che davvero lo aveva distrutto erano le parole che ogni notte si dicevano, i baci, le effusioni… perfino il sesso in sé era una bugia… una bugia per scavalcarlo. Patì le pene dell’inferno per diventare Gran Maestro a Venezia, anni e anni di duro allenamento buttati al vento perché la sua partner, nonché la sua amate, si era venduta per avere quel posto. Lui aveva rischiato TUTTO per lei, tutto. Quella maledetta regola che tutti i cavalieri temevano, odiavano… Quella maledetta regola numero tre… sapeva che se lo avessero scoperto con Cassandra probabilmente avrebbe perso gli onori e il lavoro… ma era il meno… le punizioni vere variavano a seconda della sorta di rapporto instaurato col partner. Mai innamorarsi del proprio partner… almeno se si ha un briciolo di sale in zucca. No, lui era troppo innamorato… si sarebbe tagliato anche una mano per lei, se solo glielo avesse chiesto. In meno di una settimana si era ritrovato da solo, costretto a ricominciare da zero una carriera affiancato ad una ragazzina impacciata e per nulla esperta. Quando arrivò Giselle fu inizialmente molto freddo con lei si parlavano solo durante gli allenamenti, lei era molto inesperta e Clelia, quando poteva, gli dava una mano. Quella piccola ragazzina era diventata in breve tempo la sua più fidata amica, la sua dolcezza riusciva sempre a strappargli un sorriso. «Cassandra è il passato e quindi… Merrow ti offro la mia stella».
 «Questo simbolo ti è molto caro, se la offri di quel disegno non rimarrà nulla» disse la fata poggiando la piccola mano ossuta sul suo petto.
  «Non mi interessano le conseguenze…»
«E sia…» scostò la mano dal suo petto e sul suo palmo comparve il tatuaggio di Shane, il quale al suo posto ebbe solo un’irritazione. Posò poi la mano sulla gemma alla base della lama imprimendovi il simbolo. « Lo scambio è stato fatto!» annunciò solenne la Merrow, «oh giovane, tu che hai offerto il tuo amore in cambio di una vita, a te, io, porgo la spada di fuoco e ti riconosco come Conte; non dimenticarlo… ora le Merrow sono il tuo popolo» Shane prese fra le mani l’elsa della spada e la tenne stretta. Le ultime parole della fata arrivarono a loro flebili mentre l’acqua sul terreno si alzò nuovamente ritornando dentro la boccetta dalla quale era uscita.


Una forte botta di sonno lì colpì, si accasciarono sul freddo terreno e quando riaprirono gli occhi si ritrovarono sulla spiaggia su cui attraccarono il giorno prima. Shane aprì piano gli occhi e si sedette sulla spiaggia, d’un tratto Gise gli coprì le spalle con la sua camicia.
 «A saperlo che eri un conte non ti sfottevo così tanto» rise Samuele spolverando via la sabbia dai vestiti.
 «Simpatico…» ironizzò lui guardando il lungo mare.
«Shane… grazie» sorrise lei, « so quanto fosse importante per te..» sussurrò come se fosse in imbarazzo o si sentisse in colpa.
 «Vieni qui scimmietta!» la prese per il braccio e la abbracciò, «tu sei più importante…»
«Grazie Shane… davvero» rise lei abbracciandolo. «Dov’è Clelia?» domandò poco dopo guardandosi intorno con i suoi occhioni azzurri.
 «Bella domanda» concordò Samuele cominciando a cercarla, «dove cazzo si è cacciata?...Clelia!» la chiamò, ma nessuno rispose. «Clelia!» da dietro uno scoglio, comparve la ragazza con un andatura un po’ tentennante, Samuele le corse incontro e la aiutò a reggersi. «Cos’è successo?» domandò.
 La ragazza sussultò e diede un forte spintone a Sam come se fosse spaventata da lui, da tutti loro che si erano raccolti a vedere che cosa le stesse succedendo. Le sue pupille erano dilatate e il suo sguardo perso nel vuoto, lacrime le rigavano lente il viso ma le sue palpebre non battevano. Samuele la scrollò e parve riprendersi. Come un bambino  che ha appena avuto un incubo.
 «Sto… Stonehenge!» disse con un filo di voce, «do… dobbiamo andare a Stonehenge».
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 

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