Friday Lullaby

di BlueSkied
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Pink, orange, red ***
Capitolo 2: *** Heaven or Las Vegas ***
Capitolo 3: *** Shining Road ***
Capitolo 4: *** Lilies ***
Capitolo 5: *** Miranda, love me ***
Capitolo 6: *** Morningrise ***
Capitolo 7: *** Mephisto ***
Capitolo 8: *** Mesmerism ***
Capitolo 9: *** What the water gave me ***
Capitolo 10: *** All this and Heaven too ***
Capitolo 11: *** A Passage to Desire ***
Capitolo 12: *** Stonegarden ***
Capitolo 13: *** In this Divide ***
Capitolo 14: *** From Heaven to Dust ***
Capitolo 15: *** Restless ***
Capitolo 16: *** Enter ***
Capitolo 17: *** Gretchen am Spinnrade ***
Capitolo 18: *** Carnaval ***
Capitolo 19: *** Gymnopedies n.1 ***
Capitolo 20: *** Hymn for the Missing ***
Capitolo 21: *** Rondes printanières ***
Capitolo 22: *** Vapour Trail ***
Capitolo 23: *** We hit a wall ***
Capitolo 24: *** What else is there? ***



Capitolo 1
*** Pink, orange, red ***


 

FRIDAY LULLABY

 

Visto che i personaggi sono molti, preferisco fare un elenco, almeno dei principali, in modo da aiutare la vostra (e a tratti) la mia memoria. BlueSkied




- Leroy Bjornstahldt

- Jerome Dampton - Lavier

- Rebecca Morris

- Melissa Whistler

- Sebastian Waterhouse

- Shannon Desmond

- Nicholas Leighton

- Javesh Sherawat

- Robert Stonehall

- Jennifer Lewis

- Blaise Delveaux

- Viola Waterhouse

- Miranda Whistler

- Sybil Bjornstahldt

 

1. Pink, orange, red

 

Non andava troppo veloce. Si era solo distratto un millesimo di secondo per rispondere al cellulare, che vibrava insistente sul sedile del passeggero. Era allora che era apparso il lampo rosso, fulmineo, volato ad abbracciare il paraurti dell'auto.
L'uomo rimase paralizzato al volante, gli occhi fissi nella semi oscurità e il piede ancora disperatamente schiacciato sul freno. Un colpo improvviso al finestrino lo fece trasalire: un tizio gli gesticolava di uscire dalla macchina.
Obbedì. Attorno al luogo dell’incidente si stava già radunando la solita folla di curiosi impressionabili. Le loro voci indistinte suonavano come un cupo ronzio di calabroni. Lui non guardò nessuno e si incamminò nel fascio di luce arancio-biancastro proiettato dai fari, che illuminava a giorno quella scena da telefilm.
La ragazza giaceva distesa sulla schiena, a circa un metro e mezzo dall'auto, le braccia piegate sul busto, quasi avesse tentato di proteggersi dal colpo improvviso. Era stata un’apparizione scarlatta, quasi caduta sul cofano, non c'era modo, non c'era modo di evitare l'impatto. 
La contemplò in silenzio e il suo unico pensiero fu: “ Se è morta, sono nella merda.”
Non era morta, non ancora almeno, non sembrava nemmeno ferita. Le uniche tracce visibili erano un rivoletto di sangue che usciva dal naso e un altro da un angolo della bocca, che spiccava appena sul rossetto rosa, così esiguo da non raggiungere neppure il mento.
Gli venne stupidamente in mente Biancaneve: la ragazza era pallida, con un abito di lino rosso, stesa sull’asfalto nero, e pensò fosse colpa dello shock.
Anche i capelli erano rossi, e formavano intorno alla testa qualcosa che somigliava a un cuscino di rose o a un’aureola infuocata. 
Un angelo preraffaellita. Si meravigliò che non avesse in mano un violino.
In quell’istante, un movimento concitato lo riportò alla realtà: un ragazzo e una ragazza si fecero largo a spintoni tra la folla e si inginocchiarono accanto alla vittima. 
Dissero qualcosa che lui non afferrò, ma vide il ragazzo che, in un gesto di pudore quasi fraterno, tirava giù la gonna della ragazza, a coprirle le ginocchia nude. 
Arrivò un’ altra figura solitaria, da sinistra, un altro giovane pallido, che, come lui, non sembrava sapere dove fosse. 
I loro sguardi si incrociarono per un secondo, ma la sirena lamentosa dell’ambulanza impedì qualunque altro gesto di partecipazione.
Gli infermieri scesero di corsa (altri angeli, stavolta bianchi) tastarono il polso, aprirono quelle palpebre serrate per esaminare uno sguardo assente, controllarono i paramentri vitali, cercarono fratture, possibili emorragie, e infine la caricarono sul mezzo, diretti al vicino Royal Hospital. I tre amici della ragazza, quasi all'unisono, rivolsero all'investitore strani sguardi: non sembravano accusarlo, era come se non sapessero cosa dire. Quello pallido se ne andò per primo, con un gesto di secco rifiuto, le mani tra i capelli e un'imprecazione soffiata tra i denti.
L'altro toccò il braccio della ragazza, che parve riscuotersi: annuì e aprì bocca, con difficoltà:
- Non è colpa sua - dichiarò, rivolta all'uomo, gli occhi gonfi di lacrime - è colpa mia - 
Poi parve incapace di dire altro. Crollò il capo e l'amico la circondò con un braccio. L'investitore li guardò allontanarsi, certamente in direzione dell'ospedale, ancora impalato a poca distanza dalla macchina, sordo al capannello di testimoni, che un po' stava dileguandosi, mentre qualcuno restava lì a commentare l’accaduto o i più volenterosi e pettegoli, si accalcavano intorno agli agenti di polizia, nel frattempo sopraggiunti, per raccontare quello che avevano visto.
L'investitore fu interrogato e accompagnato alla centrale. In seguito, sarebbe emerso che non era stata colpa sua, e l’incidente restò conseguenza di una fatalità. Ma lui, comunque, non riusciva a togliersi dalla testa l'immagine dell'altra ragazza, l'amica, che si accusava.

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Capitolo 2
*** Heaven or Las Vegas ***


2. Heaven or Las Vegas



Trecentoquaranta giorni prima, chiaramente inconsapevoli di quello che sarebbe accaduto, le ragazze sedevano una di fronte all'altra a un tavolo della biblioteca scolastica, immerse nei compiti di trigonometria. 
Voltando una pagina del quaderno, Melissa sospirò, constatando che il risultato non tornava, e lanciò un'occhiata a Rebecca, che fece una smorfia di disappunto. Quasi obbedendo a un ordine, entrambe chiusero i quaderni all'unisono.
- Ok, mi arrendo - dichiarò Rebecca, passandosi le mani nei capelli. L'altra annuì, distratta, perché guardava la porta alle spalle dell'amica. All'improvviso si chinò in avanti, con un'espressione a metà tra l'urgenza e il divertimento:
- Non ti voltare -  raccomandò a Rebecca, trattenendo a stento una risata. 
- Perché? - chiese lei, facendo per girarsi, ma cambiando subito idea.
- Jerome Dampton è appena arrivato e si è seduto due tavoli dietro di te - fu la risposta. Rebecca sbuffò, spazientita:
- Se continua così, lo credo che la gente si faccia strane idee - disse, seccata.

Melissa la studiò:
- Se ti chiedesse di uscire, rifiuteresti? - domandò. Rebecca annuì decisamente:
- Certo, non so praticamente chi sia - protestò. Fece una pausa e aggiunse, meno drastica:
- Magari è fantastico, ma, appena arrivato, si è subito aggregato ai peggiori che poteva scegliere - rilevò.
Melissa non poteva che trovarsi d'accordo.

Tutto era cominciato un paio di settimane prima. Mentre loro due erano nel bagno delle ragazze, a chiacchierare di fronte ai lavabi, un gruppetto qualche anno avanti a loro aveva intavolato un'animata discussione. Sembravano tutte eccitate per qualcosa che loro ignoravano compleamente, almeno finché, una non si era rivolta a Melissa:
- Conoscete Jerome Dampton? - aveva chiesto, misteriosamente nervosa.
- Chi?- avevano replicato lei e Rebecca, piuttosto perplesse.
- Ma in che mondo vivete, ne parlano tutti - aveva ribattuto quella, delusa, come se stesse parlando di una verità universale.
- Beh, la scuola è grande, non abbiamo la pretesa di sapere tutto di tutti quelli che la frequentano - aveva osservato Rebecca, con una nota di evidente sarcasmo che la ragazzina non notò. Rebecca non capiva perché certa gente ritenesse così fondamentale venire a conoscenza dei fatti altrui.
- Lui fa l'ultima classe, come voi - era intervenuta un'altra, che pareva leggermente più ragionevole - Il ragazzo francese - aveva poi specificato.
Rebecca e Melissa si erano scambiate uno sguardo, poi quest'ultima aveva avuto un lampo di comprensione:
- Ma sì, ho capito di chi parlano - aveva detto - Me ne ha accennato Roy - spiegò.
Le ragazzine avevano drizzato le orecchie, come una muta di Setter:
- E che ti ha detto? - avevano chiesto, ansiose.
- Ahem ... - Melissa aveva tossicchiato, in difficoltà - Credo che le sue parole esatte siano state "Idiota " e "Borioso" - aveva ammesso, spegnendo le espressioni raggianti delle sue ascoltatrici come lampadine fulminate. Rebecca era scoppiata a ridere:
- Tanto a Leroy non piace mai nessuno - aveva tentato di rimediare, senza troppi risultati.
- Ma che ha di tanto speciale, a parte essere nuovo? - aveva voluto sapere, dopo un attimo.
Le aveva risposto quella un po' più seria:
- Se non l'avete visto, non potete averne idea. Mai visto qualcuno così bello -  e ne sembrava veramente convinta. Le altre avevano annuito, coralmente.
- Gesù, ci è capitato Edward Cullen - aveva osservato Melissa, con ironia scettica.
- Com'è che non ce ne siamo accorte? - si era chiesta Rebecca - Che lezioni frequenta? - aveva domandato, ma la ragazzina aveva fatto spallucce:
- Speravamo poteste dircelo voi - aveva ammesso - Si vede che voi siete di un'altra pasta - notò, con una certa ammirazione.
Le ragazze l'avevano fissata, senza capire.
- Così popolari da poter ignorare la popolarità degli altri - aveva spiegato lei. Loro erano veramente scoppiate a ridere:
- Popolari, noi? Tu...ci conosci? - aveva azzardato Melissa, e la ragazzina aveva annuito:
- Certo, Whistler e Morris, tastiere e voce dei Midwinter's Nightmare. Siete forti - aveva detto.
- Grazie - avevano risposto, lusingate e un po' stupite di avere una piccola fan potenziale in mezzo ad adoratrici di Jonas Brothers e simili.
- Beh, scusate se vi abbiamo disturbato - aveva replicato lei, con un'occhiata alle sue amiche, che erano uscite e l'aspettavano in capannello fuori dalla porta. Aveva salutato e se n'era andata.
Comunque, al termine della mattinata, loro avevano voluto indagare su questo Jerome Dampton dalla bellezza incredibile, scoprendo che aveva cominciato a frequentare qualche giorno dopo l'inizio ufficiale delle lezioni, era in effetti francese, ed era entrato, fin da subito, nella cricca di Robert Stonehall.
Ricchi e superficiali, i membri della cricca di Stonehall erano quanto di più lontano potesse esistere da loro, e sapere che Jerome Dampton ne faceva parte spense definitivamente la curiosità di Rebecca e Melissa nei suoi confronti.
Era bello, questo non si poteva negare, ma questo non giustificava l'ossessione che metà delle studentesse pareva aver sviluppato. Non parlavano d'altro, lo seguivano e lo spiavano, senza che nessuna fosse ancora riuscita ad attirare la sua attenzione, o così credevano.
Fu proprio Rebecca a rendersi conto che, immancabilmente, dove il loro gruppetto andava, lui c'era.
Le ragazze e i loro amici, quasi tutti membri della band, occupavano sempre lo stesso tavolo della mensa, e lei sorprese Dampton a fissarli, più di una volta, senza neanche tentare di nasconderlo, cosa che succedeva alle lezioni che condividevano gli uni o gli altri e in biblioteca, come quel giorno.

Melissa conosceva bene il lieve egocentrismo della sua migliore amica, era fatta così. Le insistenti voci che volevano lei al centro dell'attenzione del bel ragazzo francese non potevano dispiacerle più di tanto, ma sapeva perfettamente anche che lei era una persona troppo equilibrata per crogiolarsi in quel corteggiamento muto.
Guardò Dampton con la testa ostentatamente china sui libri, chiedendosi davvero cosa avesse in mente, ma prima che potesse fare una qualsiasi osservazione, Sebastian Waterhouse, il batterista della band, le raggiunse, con un sorriso smagliante:
- Ho una notizia fantastica - esordì, sedendosi accanto a  lei, che spostò un po' la sedia per fargli posto. Rebecca parve riscuotersi da una fantasticheria, e si protese ad ascoltarlo.
- Ho preso accordi con quel mio amico alla Neverland Records. Possiamo iniziare a registrare a dicembre - annunciò Sebastian, raggiante.
Le ragazze si trattennero dall'urlare di gioia: entrambe lo abbracciarono e Rebecca gli stampò un bacio sulla guancia:
- Che faremmo senza di te? - dichiarò, estasiata. Non si accorse che lui era arrossito, ma Melissa, che conosceva la sua colossale cotta per l'amica, lo notò, però fece finta di niente.
- Neverland Records - disse, invece - Una casa discografica piccola, indipendente, anche se è il meglio che ci poteva capitare - rifletté.
Lui assentì:
- Non è la 4AD, ma per cominciare è perfetta - spiegò.
- Dobbiamo dirlo agli altri - intervenne Rebecca, alzandosi e radunando le sue cose.
Mentre uscivano, a Melissa non sfuggì lo sguardo di Jerome Dampton, che studiava Rebecca come chi cerchi di risolvere un'enigma.

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Capitolo 3
*** Shining Road ***


3. Shining Road




Certe persone nascono per essere folgorazioni, per brillare più degli altri, e Rebecca Morris era fra loro, Jerome Dampton - Lavier l'aveva capito fin dal primo sguardo.
Sinceramente poco convinto di poter trovare qualcuno d'interessante in quella nuova situazione, non aveva osservato attentamente i compagni di classe, almeno per i primi giorni. Con i suoi trascorsi, non aveva molta voglia d'imbattersi in possibili tempeste. Era andato via da Parigi per stare tranquillo, ma presto comprese che il suo era un desiderio semplice, ma irrealizzabile.
Alzati gli occhi da un libro, a lezione, lei era letteralmente apparsa davanti a lui. All'istinto osservatore di Jerome erano stati sufficienti pochi dettagli per ritrarla completamente, almeno all'esterno.
Alta e snella come una giovane palma, drappeggiata nel pullover e nella gonna della divisa come in un chitone greco, aveva lineamenti straordinari, affilati ed eleganti: occhi verdi dal taglio felino, capelli scuri che arrivavano a stento fin sotto le orecchie e una bocca sottile, ma piena d'espressività.
Il ragazzo ne aveva studiato minuziosamente fino al più piccolo movimento, dai sorrisi alle smorfie di disapprovazione o noia. Diceva tutto senza parlare, con pochi gesti delle mani, belle e nervose, e qualche guizzo degli occhi, luminosi e penetranti, di cui, quasi disperatamente, cercò d'incontrare la luce, ma senza riuscirci. L'attenzione e le parole di lei erano rivolte esclusivamente ad altre due ragazze, una seduta al suo fianco, l'altra nel banco alle sue spalle.
La prima, con il mento appoggiato familiarmente sulla sua spalla, rivelava un'intimità maturata in anni di amicizia, e pareva la sua controparte: là dove Rebecca (ma ancora non ne conosceva il nome) appariva incisiva e preponderante, l'altra era delicata, dimessa, una bellezza da cartolina. Per tutto il tempo in cui l'osservò, Jerome di lei non vide altro che un piccolo scampolo di pallido profilo perduto e la magnificenza dei capelli, una folta chioma rossa che si spandeva su schiena e spalle come un mantello intessuto di rame. Mentre parlava, stava quasi raccolta in sé stessa, e i suoi gesti erano lenti, riflettuti.
La terza, forse, era poco meno appariscente, ma non per questo meno intrigante. Stava sporta in avanti, assorbendo le parole dell'amica con atteggiamento granitico. Di lei, il ragazzo aveva chiara visuale del profilo, e lo trovò adulto, dalle linee decise. Non concedeva dolcezze a sé stessa, stringendo i lunghi capelli castani in una coda, stretta e alta, senza orecchini, braccialetti o piccoli anelli. Aveva occhi nocciola, severi e dritti all'interocutore e restava immobile, congelata, nessun moto dell'anima a far capire cosa pensasse. Ascoltava e annuiva o scuoteva la testa, senza ulteriori aggiunte.
Di nessuna delle tre riuscì a sentire la voce, ma poteva riuscire ad immaginarle, in qualche modo: secca e piana quella della terza, sottile e morbida quella della seconda, vibrante e profonda quella della bella Cleopatra. Ignorando come si chiamasse, nella sua testa Rebecca assunse quel soprannome.
La fascinazione di Jerome aveva attecchito; il suo prossimo passo era riuscire a conoscere tutto di loro.

Robert Stonehall aveva un'espressione indimenticabile, quando Jerome gli chiese di raccontargli quel che sapeva di Rebecca Morris.
- Amico mio - gli disse, ripresosi dallo stupore iniziale - Mi dispiace dirtelo, ma quella merce è troppo, anche per te -
- Mettimi alla prova - l'aveva sfidato l'altro. Robert aveva sorriso e scosso la testa, tirando una boccata dalla sigaretta.
La sua cricca era composta principalmente da oche e deficienti, ma lui non lo era affatto, anche questo Jerome l'aveva intuito in un lampo. Anche lui aveva un suo polo d'attrazione, un fascino da leader che gli faceva radunare intorno ragazze vanesie e facili e ragazzi deboli ma con pretese da duri.
Li disprezzava, uno dopo l'altro, ma stava con loro per convenienza: conoscevano gente, potevano essere utili in molti modi. Robert Stonehall era consapevole di essere un bastardo, ma in Jerome aveva trovato qualcuno molto più intelligente, con dei segreti da mantenere, e lo rispettava.
Fu solo per quel seme di rispetto e di possibile amicizia che esaudì la sua richiesta.
All'intervallo, il cortile era illuminato dal sole giallastro del settembre londinese. Tra ragazze che trafficavano istericamente con i cellulari e ragazzi che fumavano e cazzeggiavano, Cleopatra e i suoi amici formavano un gruppo solido, impenetrabile.
Lei era al centro, come nella sua sede naturale, circondata dagli altri quasi secondo una gerarchia istintiva. Le ragazze che già Jerome aveva notato a lezione le stavano ai due lati, ancillari, mentre altre due ragazze, poco più piccole, le stavano di fronte, parlandole. Gli altri erano maschi, un po' sparsi.
Robert li indicò tutti, uno a uno:
- La tua bella - esordì - Si chiama Rebecca Morris, sua madre è d'Israele. è la loro cantante -
Jerome avrebbe voluto chiedere di chi era la cantante, ma attese che l'altro andasse avanti.
- La sua amica, quella rossa, Melissa Whistler. Penso che stia alle tastiere, ma non ne sono sicuro, e a dirti la verità non m'interessa un granché di quella spaghetti, mafia e mandolino - proseguì Robert. Un'italo - inglese, dunque, registrò Jerome, passando oltre il banale stereotipo.
 - L'altra, Shannon Desmond. Se vuoi la mia opinione, molto carina, ma fredda come un'iceberg - commentò Robert, parlando della ragazza castana ed evidentemente irlandese. Jerome notò il disappunto della sua voce, ma in quel momento gl'interessava di più sapere quel che aveva da dire sugli altri.
Il successivo fu un ragazzo allampanato con i capelli rossi, Sebastian Waterhouse, batterista. Era figlio di un medico e irriducibilmente hippie, a quanto pareva. Stava a braccia incrociate, ascoltando attentamente il dialogo fra le ragazze e intervenendo, di tanto in tanto.
Poi toccò a sua sorella, una delle due più giovani, Viola, allampanata quanto lui, ma con lunghi capelli scuri e occhi vivaci. Sembrava incapace di stare ferma, ed esponeva le sue considerazioni con notevole energia. Venne fuori che era del penultimo anno e che suonava la chitarra.
L'altro chitarrista era indiano, Javesh Sherawat, piccolo e magrolino, ascoltava il dialogo in quel silenzio meditativo che nell'immaginario è insito in quella cultura.
L'ultima delle ragazze era sorella minore di quella Melissa, simile a lei in tutto e per tutto, tranne che per i capelli, più tendenti al biondo, e per il resto non molto , tanto che non ne ricordò il nome
L'ultimo fra i ragazzi fu l'unico di cui Jerome incontrò lo sguardo. Si chiamava Leroy Bjornstahldt, era il loro bassista mezzo svedese. Talmente pallido nella persona da sembrare scolorito, restava in disparte, incupito, una sigaretta fra le labbra inesistenti e il corpo, lungo e sottile, appoggiato al muro, con indifferenza. Assai di frequente, Melissa Whistler si volgeva verso di lui, comunicando con gli occhi e ricevendo in risposta solo cenni sbrigativi. Il ragazzo non guardava niente e nessuno, ostinatamente fisso a studiare la terra sotto i suoi piedi, isolato dagli auricolari infilati nelle orecchie.
A un certo punto, all'improvviso, aveva alzato la testa, puntando proprio nella direzione di Jerome e Robert. Li aveva scrutati per pochi secondi, gli occhi celesti stretti di disprezzo e sospetto, poi era tornato alle sue fantasticherie.
Jerome aveva continuato a guardarlo, per poi abbracciare tutto il gruppo in un'unica panoramica. Come i protagonisti di un film, spiccavano a fuoco tra comparse sfocate. Impossibili da non notare, pur non facendo niente per attrarre l'attenzione. Erano primi attori, senza recitarne la parte. Folgorazione.
Erano una band, anche questo faceva parte del loro fascino, con un nome profetico: Midwinter's Nightmare, Incubo di metà inverno, chiara antitesi del Midsummer's Night Dream shakespeariano, una favola, la loro, che non lasciava immaginare un lieto fine.
Jerome Dampton - Lavier sapeva che Robert Stonehall non capiva la sua ossessione, e non sarebbe stato lì a cercare di spiegargliela. Ora aveva i mezzi per avvicinarli, per avvicinare la bella Rebecca, ma la questione stava nel capire come usarli.
A questo pensava, guardando Rebecca, Melissa e Sebastian lasciare la biblioteca.
E poi, d'un tratto, l'idea folgorante.

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Capitolo 4
*** Lilies ***


4. Lilies

A volte, tra sé li chiamava per nome: Jane, Kit, Emily, Will, decine di John, ma anche Friedrich, Victor, Daphne e mille e mille altri. Ne riconosceva le costole al tatto, come quando suo padre la prendeva sulle spalle e le diceva di toccare, d'imparare la differenza: brossura, pelle trattata, cartone, velluto. E ognuno di loro aveva la propria consistenza, i granuli e le pieghe identificativi come rughe o nei, ognuno di loro parlava, pur stando chiuso.
Rebecca, alla sua parte più infantile, giurava di sentire le loro voci sussurrare ininterrottamente. Ripetevano le storie contenute al loro interno, a volte ridevano allegri, altre sghignazzavano malignamente. Spesso urlavano o piangevano, ma non tacevano mai, e non avrebbero taciuto, finché qualcuno avrebbe continuato a prenderli fra le mani, a immergersi nelle onde ordinate dei loro paragrafi, a far vivere dentro la testa e il cuore i tumulti dei loro abitanti.
Spesso sentiva dire che i libri erano piccoli universi, ma secondo lei assomigliavano di più a delle persone: potevano essere timidi o sfrontati, abbattuti o fieri, ma tutti avevano un tono di voce, un odore, un tipo di pelle e un carattere che era proprio e diverso da uno all'altro.
Per questo, leggendo, inconsciamente li accarezzava e graffiava, a seconda di cosa stessero raccontando. Non era niente di diverso da una piacevole chiacchierata o da una lite furiosa. Potevano essere terribili come un giuramento di vendetta o morbidi come una dichiarazione d'amore, ma nessuno era mai terminato senza aver lasciato una traccia di sé.
Con l'età Rebecca aveva capito quello che le diceva spesso Melissa, che si può amare qualcosa molto più intensamente di qualcuno, perché è un sentimento sempre ricambiato, e Rebecca amava i libri.
Teneva le dita posate su un'edizione del 1920 de La sposa di Messina di Schiller, quando un movimento improvviso la fece sobbalzare. Una coda soffice e bruna sfiorò la sezione di Teatro tedesco e Rebecca incontrò lo sguardo arancione del suo gatto.
Ridendo fra sé, raccolse l'animale tra le braccia e continuò il giro fra gli scaffali. Era suo compito, nel finesettimana, controllare che tutti i libri in negozio fossero in ordine, anche se di solito il suo lavoro non era impegnativo: i suoi genitori erano talmente pignoli, che difficilmente si sarebbero fatti sfuggire qualcosa.
Oltretutto, quel pomeriggio poteva stare ancora più tranquilla, perché i clienti erano davvero pochi. La libreria antiquaria era frequentata sempre dalla stessa gente, vedove e professori in pensione. Infatti, come da registro, nella sezione Gialli stava appostata la signora Truemay, avida collezionista di Agatha Christie, mentre nella sezione di Storia Orientale pascolava il professor Humber, sempre a caccia di rarità sull'Antico Egitto. La ragazza li salutò con la mano, passando, e stava per salire al piano superiore, quando lo scacciaspiriti alla porta tintinnò.
Poco mancò che il gatto le scivolasse di braccio: sulla soglia era apparsa l'ultima persona che si sarebbe aspettata di veder entrare in negozio. Incerta per un secondo, decise di sgattaiolare nell'ombra, in osservazione. Voleva proprio vedere che cosa avrebbe fatto.

Jerome Dampton si aggirò per un paio di minuti, le mani in tasca, guardandosi in giro evidentemente alla ricerca di qualcosa, o qualcuno. Non si scoraggiò, constatando l'assenza di chicchessia, ma puntò dritto e sicuro verso la sezione di Arte, fuori dal raggio della scala.
Rebecca sbuffò, risolvendosi a doverlo seguire. S'insinuò fra gli scaffali tra Moda e Giardinaggio e rimase a guardare.
Era molto diverso senza la divisa scolastica, sembrava ancora più carino. Aveva una posa naturalmente chiasmica, che si notava quando era  fermo e in piedi, come in quel momento. Non era tanto alto come le era parso in un primo momento, ma ogni proporzione si accordava con l'altra, in modo straordinariamente fine, quasi efebico. Rebecca capì facilmente come mai era diventato l'oggetto del desiderio delle ragazze più piccole, e si chiese quanto si sarebbero sorprese nel vederlo sfogliare, con interesse, cataloghi di mostre.
Quel ragazzo era un mistero; forse davvero era attratto da lei, come sembravano pensare tutti, ma lei cominciò a pensare che probabilmente nascondeva qualcosa.
Alla fine, la curiosità la vinse: posò il gatto a terra e si avvicinò al suo strano compagno di scuola.
- Hai trovato qualcosa che ti piace? - chiese, affiancandosi a lui, le mani dietro la schiena.
Jerome Dampton si voltò e sorrise, con un'espressione di pura gioia. Era un bel sorriso il suo, chiaro e aperto.
- Oh, sì, in verità - rispose, in tono leggero - Questo catalogo su Chardin è fantastico - e lo mostrò. Aveva pochissimo accento, ma il modo fluido con cui pronunciò " Chardin " avrebbe fatto sciogliere un sasso.
Rebecca si rese conto di stare fissandolo e si riscosse:
- Immagino di sì - replicò, in fretta, ma lui parve non accorgersi del suo imbarazzo. Sorrise ancora e le tese la mano:
- Scusa, credo di non essermi presentato: Jerome Dampton - Lavier. Frequento la St. James, ma penso che tu già lo sappia - disse.
La ragazza accettò la stretta e ribatté:
- Non penso che ci sia bisogno di dirti io chi sono -
- No, infatti. Forse saprai anche che non sono qui per caso, Rebecca - replicò lui, guardandola con intensità.
- Vuoi chiedermi di uscire ora o preferisci prima fare altre due chiacchiere? - chiese Rebecca, decisa a tagliare la testa al toro il prima possibile.
Jerome mise un'espressione di stupore autentico, poi scoppiò a ridere:
- Dio, sono un attore terribile. Temo si sia creato un mezzo malinteso - rispose. Davanti alla perplessità di lei, si affrettò a spiegare:
- Non volevo chiedere di uscire a te, benché tu sia una ragazza splendida. Avevo in mente un'uscita di gruppo, in realtà -
Rebecca rimase per un istante di sale: a parte la spontaneità di quel complimento, non era sicura di aver capito:
- Vuoi uscire con me e con i miei amici? - tentò, e Jerome annuì.
- Perché? Cos'hai in mente? - chiese, sospettosa. Lui sospirò:
- Avevo già messo in conto una reazione del genere. Puoi smettere di preoccuparti: non mi manda Robert Stonehall né nessuno dei suoi. Non sono un sabotatore o una spia - e lo disse quasi ridendo fra sé.
La ragazza lo squadrò un lungo istante, poi parlò:
- Sa Dio cosa ti ha detto Robert su di noi, ma ti voglio credere - replicò, meno diffidente. Non era nello stile di Rob fare quel genere di cose.
- Niente di così tragico, ma mi pare di capire che i rapporti sono stati burrascosi - osservò Jerome - E che voi due non vi siate lasciati molto civilmente - aggiunse, un po' esitando.
- Te l'ha detto lui, di noi? - chiese Rebecca, con calma indifferente, ma Jerome scosse la testa:
- L'ho intuito. L'amore finito lascia sempre una certa sfumatura nel tono di voce - dichiarò. La ragazza, suo malgrado, era colpita. Quel ragazzo andava approfondito, messo in chiaro adesso che ciò a cui mirava non era lei. Però doveva scoprirlo.
- E va bene - decise, infine - Domani suoniamo al Green Fairy, alle nove. Sei il benvenuto -
Il ragazzo francese sorrise di nuovo:
- Grazie, non te ne pentirai, Rebecca - disse.
- Non darmi un motivo per farlo - fu la sua replica.
Un distinto rumore di fusa risuonò fra di loro: il gatto andava strusciandosi fra le gambe in cerca di coccole. Jerome lo accarezzò, lisciando il folto pelo bruno e bianco e lesse ad alta voce il nome sulla targhetta: - Darcy -
Fissò Rebecca, con aria divertita - In effetti, un po' l'aria da Lizzie ce l'hai, ma secondo me, sei molto più Cleopatra -
Lei lo guardò, senza capire.
- Piuttosto che consegnarti al nemico, meglio l'aspide - precisò Jerome Dampton - Lavier, e con un cenno di saluto, se ne andò.

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Capitolo 5
*** Miranda, love me ***


5.  Miranda, love me


Il retro vagamente fumoso del Green Fairy era ormai un ambiente noto: lì i Midwinter's Nightmare avevano cominciato a costruire piccoli castelli in aria, sperando di raccogliere abbastanza seguito da vederne le torri. Per ora, se ne scorgevano appena fossati e portali, ma era pur sempre qualcosa.
Leroy, seduto su di un amplificatore, scosse la cenere dalla sigaretta, guardando le ragazze truccarsi e scuotendo la testa alle loro chiacchiere. Non poteva crederci.
- Perché non l'hai mandato al diavolo? - chiese, per l'ennesima volta a Rebecca, che chiuse il mascara con due gesti decisi e si voltò ad affrontarlo:
- Si può sapere qual é il tuo problema, Roy? Stai diventando petulante - lo rimbeccò, con impazienza. Ne sostenne lo sguardo acido e aggiunse, per nulla intimorita:
- Non sappiamo nulla di lui, come puoi essere così prevenuto? -
L'altro si alzò, puntandole il dito contro, come chi dimostri una verità inoppugnabile:
- Precisamente quel che volevo dire. Che ne sappiamo di che vuole o di cosa gli frulla nel cervello? - dichiarò, fissandola.
- Dico, ma l'avete visto? - insisté, cercando il sostegno degli altri - Come si veste, con chi va in giro... è evidente che non c'entra nulla con noi, sarà un figlio di papà o chissà che altro - mugugnò, sfumando con la voce, visto che nessuno pareva dalla sua parte.
- Mel, aiutami, Cristo! - inveì, rivolto a Melissa, come ultima risorsa. Niente lo irritava come essere contraddetto.
La ragazza sussultò impercettibilmente, la mano che corse alla piccola croce che portava sotto ai vestiti. Abbassò lo sguardo e mormorò:
- Non imprecare, ti prego -
Alzò la testa, timidamente, e gettò un'occhiata su tutti, prima di rispondere:
- Io penso...penso che non ci sia nulla di male, Roy - disse.
- Oh, anche tu, maledizione! - sacramentò di nuovo lui, ma Sebastian, sedutogli accanto, gli afferrò un polso, con decisione:
- Adesso, calmati - lo ammonì, fermamente. Leroy si liberò dalla presa, ma non si mosse e non parlò più. Rebecca, risentita per l'ostinazione dell'amico e in colpa per aver turbato Mel, sospirò forte e batté le mani:
- Beh, è fatta. Coraggio, dobbiamo suonare, non possiamo farci mettere nei casini da una situazione così stupida- decise. Il resto del gruppo annuì, e Viola si alzò per passare un braccio intorno alle spalle di Melissa:
- Lascia perdere, sei dalla parte del giusto - la tranquillizzò. L'altra sorrise, un po' più convinta, e si lisciò le pieghe del vestito di velluto. Non era farina del suo sacco la moda gotica, ma ormai era come un segno distintivo per lei.
Shannon fece capolino dalla tenda che separava la stanzetta dal palco, con un vassoio in mano:
- Sbrigatevi - li incitò - è quasi ora - e sparì nuovamente.
Le ragazze si abbracciarono brevemente, snocciolando una filastrocca che era il loro portafortuna, mentre Javesh e Sebastian si davano il cinque e sussurravano: " Merda!". Roy non si unì a loro, ma si limitò a pestare la cicca e a buttarla in un sacco dell'immondizia.
Da pochi metri di distanza arrivava il chiacchiericcio allegro e il tintinnio di bicchieri tipico di ogni pub, pronto per essere presto interrotto.

Jerome entrò nel locale pochi minuti prima dell'inizio del live, ordinò una cola e sedette in un angolo buio e appartato, ma dal quale il palco era perfettamente visibile. Controllò il cellulare, per ingannare l'attesa, ma una serie di fischi e applausi distolse presto la sua attenzione. La band prendeva posto attorno agli sgangherati sistemi d'amplificazione e sotto le luci troppo forti degli spettacoli a buon mercato.
Distinse subito la figura di Rebecca, al centro come al suo solito, avvolta in una tunica scintillante a motivi etnici. La proibizione scolastica del trucco la penalizzava molto, si disse. Gli altri non avevano scelto abiti particolari, sembrando privilegiare la comodità all'immagine, tranne la tastierista: il look da gothic lolita le donava, ma pareva, per qualche motivo, lontano dalla sua personalità. Vedendola seduta al suo strumento, Jerome la paragonò più a una fanciulla di Renoir, che a una bambola dai tratti vampirici.
Quello dall'aria veramente dark wave, quasi uscito da un video dei Bahaus, era il bassista biondo, che aveva già notato nel cortile della scuola. Il bagliore artificiale dei proiettori gli dava un aspetto tetro, malsano. Pure, Jerome lo osservò attentamente, senza perdere un punto delle sue mosse.
Sebastian diede il via alla musica, con tre colpi di bacchette, e la visuale cedette il posto al suono. Il ragazzo ignorò le voci stonate degli altri avventori del pub, ma si concentrò sulla cover morbida e vagamente triste di " Mr. Brightside" dei Killers, che i Midwinter's Nightmare stavano eseguendo.
Usavano gli accordi di chitarra profondi ed evocativi e le code di tastiera filamentose e oniriche dello shoegaze, come se non avessero ascoltato altro fino ad allora. Non c'era nulla del rock improvvisato dei gruppi emergenti, niente del pop ingenuo che attrae il pubblico. Avevano scelto delle correnti volutamente e consapevolmente di nicchia, rielaborandole in un modo personalissimo. Riuscirono a dare un tocco dream pop, squillante e dolce, a "Lullaby" dei The Cure, e Rebecca, con la sua strana voce pastosa e magnetica, mutò "Alison" degli Slowdive da ballata ritmica a una specie d'invocazione corale.
Jerome ascoltò con ammirazione crescente la sensuale depressione del loro primo brano originale "Burning", e si lasciò andare alla malinconia struggente del loro unico pezzo strumentale "The Black-Haired Mermaid".
Alla fine, si era deciso.

Viola si stiracchiò e si sistemò meglio il peso della custodia sulla spalla, mentre aspettava che tutti uscissero nel parcheggio. Era contenta che il pubblico, sebbene contenuto, si dimostrasse entusiasta. Le cose sembravano essersi rilassate: Roy uscì con un braccio attorno alla vita di Melissa, decisamente più socievole del solito e suo fratello Seb portava Rebecca sulla schiena, fingendo che pesasse un quintale:
- Continua a metterti quei tacchi orrendi, poi vedi come ti diventano le caviglie - la rimproverò bonariamente, facendola scendere. Lei gli mostrò la lingua e si lamentò:
- Mi fanno male i piedi più del solito. Eppure, ho queste scarpe da più di un anno - Mutò espressione, diventando tutta uno zucchero:
- Grazie, Seb, sempre il mio cavalier servente - gli sorrise, ignorando o fingendo d'ignorare, le sue guance arrossite di colpo, facilmente non notabili per via del buio.
- Le cose sono andate di seta, comunque - osservò Shannon, unitasi a loro per salutarli. Mel annuì:
- Contiamo su di te per la notte di Halloween, Shane - si raccomandò, vivamente approvata dal resto della band.
- Sarà fantastico, ma dobbiamo farci i costumi - notò Viola, perplessa, ma Melissa la liquidò con un cenno della mano:
- Ci penso io - assicurò.
Avrebbero continuato a chiacchierare ancora, se un'ombra non di fosse avvicinata loro, interrompendo i loro discorsi:
- Cherchez le diable - commentò Rebecca, scorgendo l'ormai conosciuta figura di Jerome Dampton. Senza aggiungere altro, gli andò incontro e lo trascinò, letteralmente, dagli altri.
- Jerome Dampton-Lavier, nostro fresco fan - lo presentò, ironicamente.
La temperatura scese di qualche grado, ma Viola, più bendisposta degli altri per natura, gli tese la mano e si presentò a sua volta. Con disappunto di Leroy, Melissa seguì il suo esempio e così il resto del gruppo. Alla fine rimase solo lui, testardamente immobile e a braccia incrociate:
- Avanti, Roy, non fare l'idiota - lo riprese Sebastian, cui la maleducazione pareva un difetto terribile.
- Non mi fido di lui - dichiarò l'altro, senza scomporsi.
Jerome alzò le mani, in segno di resa:
- Vengo in pace, posso giurarlo. Volevo solo sentirvi suonare e penso che siate straordinari. E non mi dispiacerebbe fare due chiacchiere, in futuro - puntualizzò, sostenenendo lo sguardo dell'avversario.
Vistosi accerchiato, Roy gli concesse una brevissima stretta di mano:
- Ti tengo d'occhio, però - precisò, facendo scoppiare a ridere Rebecca:
- Oh, piantala di fare il boss - lo rimbeccò, poi aggiunse, rivolta a Jerome:
 - Jaime...posso chiamarti così, vuoi? Dicevo, ti aspettiamo domani al nostro tavolo. Non mi deludere - 
Lo salutò con una strizzatina d'occhio e se ne andò prendendo sottobraccio Mel e Viola.
Gli altri gli diedero brevi cenni di congedo e si dispersero a loro volta. Jerome s'incamminò verso la metro lentamente, ma con gran soddisfazione.   

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Capitolo 6
*** Morningrise ***


6. Morningrise


Mandy non toccava mai le cose di sua sorella, e adesso, le pareva strano doverlo fare.
C'era una calma singolare, nella camera che da sempre dividevano, e lei stava provando a fingere che Melissa fosse a scuola o in viaggio, ma era impossibile dimenticare la verità.
Cercando di mantenere il sangue freddo e di non scoppiare a singhiozzi, Mandy aprì l'armadio coperto di foto e poster, scegliendo quello che la mamma le aveva detto di prendere. Osservò i vestiti neri, rossi, viola, blu, le gonne orlate di pizzo, le maniche a losanga, fiocchi, lacci e stecche di plastica sotto i corsetti, seta, velluto, ciniglia. Era una bambola gotica, la dolce ed equilibrata Mellie, senza che né i genitori né lei capissero perché.
Trovò gli abiti normali quasi nascosti dietro, e l'uniforme scolastica davanti a tutto, dove anche lei la teneva, ma non ci badò: Melissa non doveva più metterla, ora che aveva finito il liceo. C'era un suo lungo capello rimasto attaccato al pullover. Mandy lo prese e lo tese fra le dita, ripensando alle milioni di volte in cui avevano litigato, da bambine, tirandoseli a vicenda, e quante volte se li erano spazzolati. Lo lasciò cadere, poi se ne pentì: in ospedale glieli avevano tagliati e forse non sarebbero più cresciuti. Forse.
Represse il pensiero come se stesse resistendo a un conato di vomito. Era insopportabile.
Finì il suo lavoro e sbatté l'anta, quasi a volerci chiudere il terrore dentro, e il silenzio tornò a premerle sulle orecchie. Non c'era mai silenzio in casa, con sua sorella che si esercitava ossessivamente al piano. Aveva un legame morboso con il suo strumento: quando Miranda, a cinque anni, aveva versato il té per sbaglio sulla tastiera, a Melissa era venuto un attacco d'asma, e papà aveva dovuto portarla di corsa al pronto soccorso. Ora che ci ripensava, Mandy si accorse di sentirsi come quella volta, anche se la colpa non era affatto sua.
Aveva una sorella delicata, febbrilmente sensibile, quasi inadatta al mondo, e lo sapeva da sempre, tanto da considerarsi spesso la maggiore. Melissa non era una guida, era qualcuno da proteggere, e questa volta non aveva potuto farlo.
Come aveva fatto a non spezzarsi nell'urto, quella creatura di cristallo? Fragile come le farfalle di carta e filo da cucito che costruivano da piccole, era rimasta sospesa nel sonno, torgliendolo a tutti gli altri, senza una teca di vetro che la separasse dall'ambiente, ma una stanza di rianimazione, respiratore e flebo.
Mandy sedette sul suo letto freddo, fissando le foto sull'armadio: ce n'era anche una di quella sera al Green Fairy. Mel era tornata e le aveva raccontato che Roy s'era arrabbiato per via di Rebecca e quel ragazzo nuovo. Solo adesso capì che era stato in quel momento che tutto era cambiato e ricominciato daccapo.
Il viaggio di quella macchina era partito da lì.

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Capitolo 7
*** Mephisto ***


7. Mephisto


Mentre tornavano a casa dal Green Fairy, si alzò vento: Roy passò la giacca a Mel, infilandosi le mani in tasca e replicando con un gesto burbero ai suoi ringraziamenti. Avevano lasciato Rebecca e Viola da poco, e non si erano scambiati una parola. In realtà, fra loro non c'erano mai grandi conversazioni, eppure si capivano lo stesso.
Lui era seccato con sé stesso per quella reazione idiota, e pensò che forse era il caso di scusarsi. Lo faceva poco e quasi solo con lei, ma non sapeva mai da dove cominciare.
- Mi dispiace d'essermela presa con te - borbottò, dopo alcuni minuti di penosa indecisione. Mel fece spallucce:
- Oh, non importa - ribatté, con leggerezza.
Roy la fissò, indispettito: qualsiasi altra ragazza gli avrebbe almeno tenuto il broncio, ma lei era sempre pronta a giustificare i suoi comportamenti da scemo.
- Come, non importa, sono stato uno stronzo! - esclamò, tra il perplesso e l'incredulo. Melissa lo guardò a sua volta:
- Non più di altre volte - osservò, ragionevole. Leroy si accigliò, ma non disse nulla, perché lei riprese:
- Mi spieghi perché quel Jerome ti sta tanto sulle palle? - gli chiese, e lui s'incupì ancor di più: tirò un calcio a una lattina abbandonata sul marciapiede e sbuffò:
- Non mi piace, nasconde qualcosa - rispose, senza esser capace di spiegarsi meglio. Era una specie di sesto senso.
- Non ti piace mai nessuno - gli fece notare Mel, con un mezzo sorriso - Magari su di lui ti sbagli - ipotizzò. Lui la scrutò, scettico:
- Sì, certo. Allora perché ha quello stupido atteggiamento da "figo e tenebroso"? Perché prima si infila nella cricca di Stonehall e poi viene a cercare noi? è strano o no?- illustrò. Lei fece di nuovo spallucce:
- è nuovo, starà cercando di fare amicizia- intuì - Lo trovi figo e tenebroso? - volle sapere, con una risatina.
- Oh, piantala, è Rebecca che l'ha chiamato così - ribatté l'altro, impallidendo senza motivo apparente - Non mi dirai mica che ti piace? - la incalzò, incredulo.
Mel, al contrario, arrossì:
- Certo che no. Lo sai che non mi piace nessuno - replicò, in un sussurro.
Quella frase li portava su uno strano terreno sdrucciolevole, che non avevano mai affrontato in modo chiaro: Leroy sapeva molto bene che la sua amica riteneva il loro rapporto ben più di un'amicizia, e doveva ammettere con sé stesso che Melissa non gli era indifferente. Avevano bisogno uno dell'altra, per quelle incomprensibili logiche che a volte legano le persone. Lei, con tutta la sua delicatezza, era una delle due persone al mondo capaci di sostenerlo.
Ma cos'era lui per lei, Roy non lo capiva, e non gliel'aveva mai chiesto.
- Perché io? - domandò, a freddo. La vide mordersi le labbra, come faceva istintivamente ogni volta che era in difficoltà. Guardò in alto, scostandosi i capelli dagli occhi e sospirò:
- Tu sei la mia missione - confessò. Si fermarono, come se quella frase fosse un muro davanti a loro.
- Missione? -
Lei annuì, fissandolo:
- Le cose non avvengono per caso. Se io e te abbiamo passato quello che abbiamo passato, ci dev'essere un motivo, e tu hai bisogno di me, finché arriverà il momento in cui sapremo vivere da soli -
Leroy abbassò lo sguardo. Non gli piaceva tornare indietro con la memoria, non a quel periodo, e lei gli sembrò come quella volta, forte e dolce. Una parte di quel discorso lo infastidì:
- Pensi che impareremo a vivere da soli? - le chiese. Lei annuì:
- Sì. Imparano tutti, prima o poi -
Se fossero stati due persone diverse, o se quello fosse stato un film, forse si sarebbero abbracciati o baciati.
Invece, ripresero a camminare, e non dissero più nulla, fino al momento di salutarsi.

Il salotto era immerso nell'oscurità. Sua madre era ancora fuori, per il turno, e Abigail forse era fuori. Non gli importava un granché: salì le scale in silenzio, ma dalla camera di Sally si udiva una musichetta allegra, un jingle da cartone animato. Roy bussò, piano, e sua sorella lo invitò a entrare.
Era seduta sul pavimento, nel suo pigiama a orsacchiotti, gli occhi fissi alla piccola tv, nonostante fosse mezzanotte passata.
- Che fai ancora sveglia, lo sai che ora è? - la rimproverò. Sally si voltò e zampettò fino a lui, abbracciandolo:
- Aspettavo che tornassi - spiegò. Lui la prese in braccio, con difficoltà perché ormai era grande, e la portò fino al letto:
- Ok, ma ora sono qui, quindi dormi - osservò, rimboccandole le coperte. Si mosse per spegnere il televisore e la luce, le augurò la buona notte e stava per uscire, ma Sybil protestò:
- Dai, Roy, raccontami qualcosa -
- Tipo? - si arrese, tornando indietro.
- Tipo com'è andata stasera. C'era tanta gente? -
- Abbastanza -
- E voi siete stati bravi? -
- Sì, Sally -
- Come i Beatles? -
Roy rise:
- No, non come loro, ma ci proviamo. Ora vai a dormire, che ho sonno anche io -
Sybel lo guardò per un po', poi notò:
- Hai le nuvole sopra la testa. Chi ti ha fatto arrabbiare? - chiese, acuta come sempre, nonostante i suoi otto anni.
- Nessuno, è solo una storia stupida. Abbiamo un nuovo amico, ma a me non piace - spiegò, più semplicemente possibile.
- Magari se ci parli, poi ti piace - ipotizzò, guardandolo con il visetto contratto di sospettosità:
- Scommetto che non ci hai nemmeno parlato - concluse.
- Allora ci parlerò, così forse le nuvole sopra la testa vanno via - disse il fratello, più per accontentarla che altro.
- Se diventate amici, le nuvole sulla testa non le avrai più, Nessuno che ha degli amici si può arrabbiare - notò lei, con limpidezza.
A volte, Leroy voleva avere la sua fiducia e la sua intelligente apertura verso il mondo. Benché fosse così piccola, Sybel lo superava, lo reggeva. Il suo secondo pilastro di vetro.
Si sentì minuscolo di fronte a lei e a Melissa: entrambe così indifese, entrambe così indistruttibili. Chissà come facevano.



 

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Capitolo 8
*** Mesmerism ***


8.  Mesmerism


Non a caso gli antichi romani rappresentavano la Fama come una donna alata che suonava una lunga tromba: rendeva perfettamente l'idea di un gran chiasso, che si diffondeva in lungo e in largo. Allo stesso modo, la notizia che Jerome Dampton era amico dei Midwinter's Nightmare percorse il liceo St. James come un urlo, arrivando presto ad ogni orecchio, interessato o meno.
Nelle settimane successive a quel timido tavolo rotondo avvenuto nel parcheggio del Green Fairy, tutti poterono notare come tale novità fosse perfettamente evidente: ormai Dampton sedeva allo stesso tavolo dei ragazzi a pranzo, studiava con loro in biblioteca, era un'ombra sempre presente alle loro esibizioni.
Da subito, circolò la leggenda che la schizzinosissima Morris fosse di nuovo impegnata, spezzando più o meno segretamente decine di cuori maschili, e ancor più tacitamente anche qualcuno femminile. Di contro, la voce che l'ambito nuovo studente fosse stato accalappiato dalla ragazza più popolare della scuola, creò mugugni ed entusiasmi forse maggiori: i più insistenti amanti del gossip della scuola braccarono il gruppo per giorni, cercando di cogliere i due di sorpresa, o come minimo, di farsi rivelare qualcosa dagli amici. Ma tutto taceva.
Nessuno di loro era tanto lontano da simili sciocchezze quanto Shannon, la più riservata e impenetrabile del gruppo. In realtà, come tutti quelli che parlano poco, aveva da tempo intuito come si dipanasse la fitta ragnatela di sentimenti che legavano i suoi amici l'uno all'altro: l'inconfessata passione di Sebastian per Rebecca, il rapporto simbiotico tra Leroy e Melissa, la storia fra Javesh e Viola che andava avanti da tempo, senza che non lo sapesse nessuno. Per quanto riguardava Jerome, di una sola cosa era certa: Becky non gli interessava affatto, ma non per curiosità era voluto entrare nel loro gruppo. Prima o poi si sarebbe svelato, qualunque cosa stesse tenendo nascosta, e allora sarebbero stati guai per tutti. Shane, come la chiamavano in casa, aveva un talento particolare nel fiutare problemi in vista.
Per questo non si sorprese quando, un venerdì, uscendo dalla biblioteca con Becky e Mel, si trovarono faccia a faccia con Stonehall e l'ultima delle sue odalische, Jennifer Lewis. Shannon si chiese intimamente come mai ci avessero messo così tanto a farsi vivi.
Se comunque avevano esitato, in quel momento non persero tempo: la Lewis si mise a girare intorno alle tre ragazze con una risatina insulsa, mentre Stonehall, tranquillamente appoggiato a un armadietto, osservava la scena, impassibile. Chiaramente, stava lasciando solo che la sua oca si divertisse un po' per conto suo. Lui non si abbassava ai livelli del suo corteggio.
Jennifer versò nelle orecchie di Rebecca una scontata sequela di battute sul sesso, di facili insulti, di stupide osservazioni, poi Robert la richiamò all'ordine:
- Direi che così può bastare, Jen. Vattene - le ordinò, con voce annoiata. Quella provò a protestare, ma lui non mutò espressione, e lei dovette arrendersi, sparendo in un tintinnio di bigiotteria scadente. Fu solo quando se ne fu andata che Stonehall mise una faccia vagamente imbarazzata:
- Scusa, Becca. Devo farli contenti in qualche modo - si giustificò, con un mezza risata.
- è quello che hai voluto - replicò lei, che non aveva ascoltato una sola parola della diffamatoria, ma aveva tenuto tutto il tempo gli occhi fissi su di lui - Quando avrai deciso di crescere un po' ne riparliamo, eh? -
- Io forse devo crescere, ma tu devi essere un po' meno ingenua. Ogni tanto un compromesso va accettato, e tu non l'hai mai fatto - ribatté Robert.
- Che diavolo vorrebbe dire? -
- Vuol dire che devi pensare che ogni tanto qualcosa sfugga al tuo controllo, non vorrai davvero pensare di poter sempre fare a modo tuo, no? -
- Chi me lo impedisce, tu? -
- Te lo stai impedendo da sola. Vedi e non guardi, senti e non ascolti. Come potevamo andare avanti? -
- Sei tu che te ne sei andato e hai preferito loro a noi, idiota. Non puoi dare la colpa a me! -
- No, infatti. Il mondo non gira intorno a te, Becca -
- Se è per questo, nemmeno intorno a te -
- Vedo che ci siamo intesi -
E detto questo, Robert si voltò e se ne andò, lasciando le tre perplesse e senza parole.
Melissa fu la prima a riprendersi:
- Che cavolo ha detto? - chiese, e Becky si strinse nelle spalle:
- Sta solo recriminando ancora perchè ci siamo lasciati e perché ora pensa che Jaime stia con me - rispose.
Shannon, però, aveva sentito altro in quel discorso: di certo c'entrava Jerome, sembrava sapere qualcosa che loro ignoravano. Ma cosa, era impossibile saperlo.

 

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Capitolo 9
*** What the water gave me ***


9. What the water gave me


Sebastian non avrebbe fatto tutta quella strada a condizioni normali: Pinner era lontano, e lui prendeva malvolentieri la metropolitana per tratti così lunghi, ma la vecchia insegnante di piano di Mel viveva lì, e lei andava a trovarla, di tanto in tanto. Scese ad Eastcote, gironzolando per la stazione con aria contrita, ascoltando cupamente Florence Welsh che gorgheggiava nelle sue cuffie.
What's App trillò, annunciandogli che Mel aveva ricevuto il suo messaggio, ma ciò non interruppe il suo peregrinare, casomai lo modificò: iniziò a costeggiare i sedili, lanciando occhiate torve ai cartelloni pubblicitari, come se loro potessero rispondere ai suoi dubbi.
Era già un po' che ci rimuginava, ma era un'idea che era nata per caso. Una specie di epifania, senza un senso strettamente logico, senza veri indizi. Brancolava tra il desiderio di sputare fuori tutto e tenersi ogni cosa per sé, ma doveva sciogliere quella matassa.
Il ragazzo era perfettamente consapevole che quell' impulso era dettato dalla gelosia, il mostro che aveva gli occhi dello stesso colore di chi la suscitava, ma tentava di nobilitarlo sotto il mantello di una volontà protettiva e cavalleresca.
Ciò non toglieva che l'intera faccenda lo seccasse incredibilmente.
Finalmente, Melissa comparve in fondo alle scale in direzione di Aldgate, scendendo i gradini con leggerezza. Sebastian si scrollò l'attesa e il malumore di dosso e la salutò con un abbraccio, affondando il corpo nella familiarità della sua maglia di raso. Lei scosse i boccoli da davanti agli occhi e lo fissò con fronte accigliata:
- So cosa ti ha spinto a inseguirmi fin qui - esordì, con un sorriso amaro.
- Allora è vero - replicò lui, con aria  se possibile ancora più seccata - Come sta Becky? - chiese, tentando di rimanere distaccato.
L'amica lo squadrò:
- Lo sai che nulla la sconvolge. Benché meno le illazioni senza senso di un ex -
- Forse non sono così insensate -
Melissa si tirò i capelli dietro un orecchio, prendendo tempo:
- C'è qualcosa che devo sapere? - intuì, con scarsa convinzione.
Sebastian sospirò. Si accese una sigaretta e guardò dritto negli occhi l'amica, il disagio in ogni millimetro del viso:
- Senti, è solo un pensiero stupido. Può darsi che mi stia sbagliando alla grande - esordì.
Lei lo esortò ad andare avanti, impaziente.
- A Jaime non interessa affatto Rebecca. Oserei dire che non gli interessa nessuna di voi -
Era sufficiente perchè Mel capisse quanto bastava:
- Jamie è gay. Ovvio, come mai non ci abbiamo pensato prima? - La prese sorprendentemente meglio di quanto lui si aspettasse.
- Quindi non credi sia assurdo? -
- No, affatto. Solo questo poteva indurlo ad essere tanto schivo - Melissa sorrise - Becky può stare tranquilla allora. E anche tu -
Il ragazzo arrossì:
- Non essere sciocca, Mel -
Lei gli lanciò un'occhiata scettica:
- Un ragazzo trasparente come un fiume. Saresti il sogno di chiunque. Comunque sia, io non so niente, tu non sai niente. Può darsi ci sbagliamo clamorosamente, ma non vedo cos'altro Robert può sapere che noi non sappiamo -
Sebastian annuì, con aria incerta. Non sapeva se quella sua trasparenza fosse un bene o un male. Forse non sarebbe stato così brutto riuscire a tenere nascosto qualcosa.







 

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Capitolo 10
*** All this and Heaven too ***


10.  All this and Heaven too


Rebecca era una specie di anguilla. Tutto le scivolava addosso. Benché fossero passati diversi giorni dallo spiacevole episodio con Robert, i suoi inutili scherani continuavano a insultarla, più o meno velatamente. Qualcuno aveva fatto rotolare fino a lei, in biblioteca, un pezzetto di carta appallottolato con scritti vari sinonimi dello stesso epiteto, facilmente immaginabile. Parole che erano apparse anche sul suo armadietto e tratteggiate in rossetto su una sua felpa, lasciata nello spogliatoio della piscina scolastica.
Nessuna di queste intimidatorie aveva funzionato, ma Becky doveva ammettere con sé stessa che stavano cominciando ad annoiarla. L'unica cosa che la seccava veramente, era il coinvolgimento indiretto delle sue amiche. Mentre usciva da una lezione, Shane era stata urtata così violentemente da farla cadere a terra, e Mel aveva rinvenuto alcuni suoi spartiti incastrati in un gabinetto. Quella storia doveva finire, in un modo o nell'altro, solo che lei non aveva idea di come riuscirci.
Seduta su un amplificatore in disuso, in anticipo per le prove, la ragazza sbuffò, riportando la sua attenzione sui testi scribacchiati nella grafia ordinata, ma frettolosa, di Leroy. Gli aveva chiesto di proporre qualche nuovo pezzo, ma i suoi versi erano sempre così, irrimediabilmente cupi. Profondi abissi di depressione, sfiducia in sé stessi e desiderio di rivalsa, anche violenta, non potevano certo lenire il disappunto di Rebecca.
L'ultimo brano che erano riusciti a mettere insieme l'avevano provato una settimana prima, ed era totalmente diverso dal loro stile: un'oscura beauty and the beast dove la voce maschile latrava di occasioni perdute, tra graffianti riff di chitarra e la parte di tastiera più lugubre che Melissa avesse dovuto eseguire. La band l'aveva approvata solo perché la voce di Becky era chiamata a interpretare versi più positivi, e avrebbe sollevato l'intero tenore del pezzo. Però cantarlo l'angosciava.
I loro testi di solito li scrivevano Mel e Sebastian, e nessuno poteva definirli tristi. Erano malinconici, tutt'al più, un po' nostalgici, ma in quelli di lei c'era tenerezza, in quelli di lui la luce di pomeriggi estivi e in entrambi l'amore era difficile, ma comunque felice.
C'erano troppe trappole e ossessioni nelle parole di Roy, si disse alla fine. Il che era realistico, e quindi terrificante. Il loro nome, Midwinter's Nightmare, evocava la paura, ma come lo faceva Jack - O'- Lantern. Uno scherzo, un'esorcizzazione. Leroy con la morte e la paura non ci sapeva scherzare e non li poteva esorcizzare. Melissa diceva che gli erano entrate dentro, e visti i suoi trascorsi, Rebecca non se ne stupiva.
Tutto di colpo, le sue piccole angosce le apparvero totalmente insignificanti.
- Sei proprio una stupida - si disse, rimettendosi in piedi e lisciandosi i jeans. Dopotutto, la musica per quei testi si poteva comporre...
- Chi è stupida? - chiese una voce, inaspettata. Becky si voltò e scoprì il viso cinematografico di Jerome che la guardava, con un mezzo sorriso stamapato ad arte.
- Un sacco di gente - fu la risposta di lei, che replicò al sorriso con una smorfia buffa - Non ti vediamo da un po' - precisò, dopo un attimo di pausa.
L'imbarazzo apparve su quel volto sorridente, anch'esso inevitabilmente affascinante:
- Non volevo peggiorare le cose. In realtà sono qui per scusarmi - spiegò.
Lei si accigliò:
- Perché? Non è colpa tua se il mio ex è un imbecille - ribattè, ma Jaime scosse la testa:
- Penso che avrei dovuto essere chiaro fin da subito, e ora vi ho messi tutti nei guai - disse, realmente mortificato.
- Oh, questi non sono guai. Questi - Rebecca gli porse le pagine con i testi da vagliare - Sono guai -
Jaime li lesse con attenzione:
- Chi li ha scritti? - chiese.
- Leroy. Che ne pensi? - replicò lei.
L'altro si strinse nelle spalle:
- Non saprei. Lui è...un enigma - disse, con sincerità. Rebecca rise:
- Non l'abbiamo mai capito del tutto nemmeno noi. Tranne Mel, naturalmente -
- Lui mi ricorda me, un sacco di tempo fa. Rabbioso come un rottweiler - confessò Jerome, all'improvviso. Rebecca si accigliò ma non lo interruppe.
- Mi è successo qualcosa che mi ha reso uno stronzo. Non mi fidavo di nessuno, trattavo tutti con disprezzo e sono rimasto solo. Poco male, mi dicevo, meglio così. Una persona importante mi ha spezzato il cuore, in ogni modo possibile e io non volevo più avere a che fare con la vita. Ma avevo la mia famiglia, ancora qualche amico che non mi aveva abbandonato, e potevo andare via, ricominciare da un'altra parte - raccontò.
- Per questo sei venuto qui - intuì Rebecca e lui annuì:
- Mi spiace per quello che state passando a causa mia, ma ti posso assicurare che non sono interessato a te, non in quel senso. Siete amici che vorrei far entrare nella mia vita, se voleste -
- Sono più che pronta ad essere tua amica, lo siamo tutti. E puoi tenere il tuo segreto per te, finché non vorrai rivelarlo - ribatté lei, con un sorriso.
- Non vedo perché aspettare ancora - fu la replica. Poi le raccontò ogni cosa, fino all'ultimo dettaglio.
E Rebecca comprese davvero che le sue erano sciocchezze, in confronto.

 






 

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Capitolo 11
*** A Passage to Desire ***


11.  A Passage to Desire


" Sono uno che osserva ". Così disse di sé Jaime, a un certo punto di quella confessione.
Alle ragazze succedeva prima. Bambine sottili come rami o soffici come dolcetti, da un giorno all'altro rompevano il guscio e diventavano qualcosa di completamente diverso. Le gambette tozze si allungavano e comparivano colori più adulti sulle unghie. Tenere ombre davano nuovi profili al torace, che facevano star svegli i ragazzi di notte e li inducevano a dare a quelle poesie nomi volgari, per dimostrare di essere uomini. Per loro la faccenda era lenta come melma, e più intricata. Le ossa del bacino aggettavano spigolose da ventri ancora infantili, sotto le membra delicate nasceva una nuova forza, profonda come la voce che cambiava, più stonata alle proprie orecchie ogni giorno che passava. Il quattordicenne Jerome era stato incuriosito dallo sboccio femminile, ma affascinato da quello maschile.
Si sorprendeva spesso a studiare le linee più dure delle labbra di un amico, chiedendosi inconsciamente cosa avrebbe provato nel sentirle toccare le proprie, guardava quei corpi a metà e provava a immaginare come sarebbero evoluti, in quali curve, in quali aggetti, come sarebbe apparsa in pochi anni la peluria sui volti, ancora troppo simile a quella delle pesche.
Era sempre stato attratto dalla bellezza, e rimirava le ragazze come si ammira un dipinto, i ragazzi con lo stesso desiderio di accarezzare il marmo di una statua.
Non aveva idea di cosa tutto ciò significasse, almeno finché non aveva incontrato lui.
Blaise era il più infame e arrogante bastardo del creato, fatto apposta per imporre agli altri l'umiltà. Aveva un anno più di Jaime, ed era l'essere umano più bello su cui avesse messo gli occhi, o perlomeno era questo che gli suggerivano la sua mente di adolescente infatuato e le dolorose contrazioni del cuore ogni qual volta lui gli restituiva lo sguardo o gli rivolgeva la parola.
Credeva fosse una violenta idolatria, di quella che spinge un ragazzo più giovane a divinizzarne uno più grande, ma non poteva immaginare di chiamarlo amore, finché quella crudele meraviglia non l'aveva spinto contro un muro incrostato di graffiti e divorato l'anima con un bacio.
Chiaramente, da quel momento lui era diventato tutto il suo universo, e gli aveva aperto gli occhi sulla realtà, fatto prendere coscienza della sua avvenenza. Jaime si dimenticò in un attimo della bestia a cui s'era dato, e vide solo il principe che credeva esistesse, dietro quella facciata di viscida ipocrisia. Blaise era un manipolatore, distruggeva le amicizie per noia e la fiducia per indolenza, mentiva per svago e diffamava per convenienza, ma il suo ingenuo ragazzo non vedeva nulla di questo. La sua prepotenza gli parve autorità, la falsità astuzia. Venne svezzato ai sensi e credeva che quello fosse amore ricambiato.
L'incantesimo si spezzò in modo malignamente banale: Jaime trovò Blaise con un altro ragazzo, e si sentì rispondere che doveva aspettarselo, perché anche dei bei faccini si finisce per stancarsi.
Con la dignità e i sentimenti in cenere, Jaime aveva rifiutato qualsiasi aiuto e conforto, anche perché si era costretto a spiegare a suo padre la sua vera natura. Era un uomo inflessibile, ma Jerome era il suo unico figlio: si sforzò di comprendere e accettare, ma il loro legame non fu più saldo come prima. Sua madre invece lo sostenne, e di questo il ragazzo le sarebbe stato grato fino alla morte. Lei aveva suggerito che, visto che l'occasione si presentava per via del lavoro, tutti si trasferissero nella città d'origine dei Dampton, e così avevano fatto.
Con naturalezza Jerome si trovò a passare da quegli eventi al presente, confidando a Rebecca di aver sperato di ammutolire il suo cuore. Ma non ce l'aveva fatta. Si era sentito calamitato dal loro gruppo come da un richiamo irresistibile. Le descrisse le sue impressioni quando aveva visto lei, Melissa e Shannon insieme la prima volta, con il tono vibrante dell'estimatore di un'opera d'arte, e con un accento molto più sensuale cosa aveva provato nel conoscere i ragazzi. Rebecca si trovò ad arrossire, quando lui le fece notare come risaltasse il candore dell'incarnato di Sebastian ogni volta che lui si passava le dita nei capelli. Rise, quando rammentò l'abitudine di Javesh di mettere la punta della lingua nello spazio tra gli incisivi, mentre parlava.
Poi la sua voce ebbe una specie di affossamento, in qualcosa di simile a una paura estatica. " E lui... " esordì, raucamente, il groppo in gola che lo terrificava. Occhi freddi come l'acqua che gli avevano sfondato la mente, fini capelli chiarissimi, impalpabili come petali di un soffione, quella pelle trasparente, perlacea a contrasto con gli abiti scuri.
Tutta quella rabbia, diffidenza e disperazione lo stavano facendo diventare pazzo, e nel suo petto ricominciava a contorcersi il nerbo maledetto. Ma di lui non sapeva nulla, era inarrivabile come una scultura di ghiaccio, però lo bruciava come un fuoco di cui non comprendeva l'innesco.
Rebecca capì quello che lui le disse e promise di mantenere il suo segreto, nonostante la bilancia oscillasse fra la sua migliore amica e questo ragazzo che chiedeva il suo aiuto. Promise anche a sé stessa che avrebbe tenuto in equilibrio i piatti, finché avesse potuto.    


 






 

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Capitolo 12
*** Stonegarden ***


12.  Stonegarden

Lo scorrere dell'abitudine riprese un corso più o meno regolare: i Midwinter's Nightmare e quel nuovo elemento peregrino tornarono a fare gruppo compatto in giro per la scuola, ma le chiacchiere e i pettegolezzi scemarono fino ad esaurirsi, per spostarsi su altri oggetti estranei. Quel genere di cose funzionava così.
Le ragazze avevano preso ad invitare Jaime per il tè, e a portarselo in giro in combriccola, e ovviamente lui aveva ricominciato ad assistere alle prove. S'impegnò anche a diffondere la musica degli amici dove poteva, e aprì un blog a loro dedicato. Tranne Rebecca, nessuno poteva veramente spiegarsi cosa fosse cambiato in una manciata di giorni, eppure era un fatto, e finirono per accettarlo.
Sebastian per primo, visto che pareva del tutto scongiurato un possibile interesse di Jerome per Becky, anche se non aveva più accennato ai suoi sospetti con Melissa, si concentrò su problemi più pressanti.
Le sessioni di registrazione dovevano cominciare di lì a un mese, ma quelli della casa discografica continuavano a procrastinare, per un motivo o per l'altro, e lui voleva trovare una soluzione.
Il pomeriggio dell'appuntamento pioveva appena, ma era sufficiente per dare fastidio. Avviandosi a piedi, il ragazzo maledì mentalmente il clima londinese.
Dopo poca strada, incrociò un'auto ben nota: Jaime veniva dalla direzione opposta. Accostò e tirò giù il finestrino:
- Non ci sono le prove oggi? - chiese, perplesso. Sebastian scosse la testa:
- Rimandate a domani. Viola si è scordata di dirtelo, eh? -
L'altro annuì:
- Dove vai? Ti do uno strappo - aggiunse, con un'occhiata critica alla pioggerella isterica. L'amico accettò con gratitudine e occupò il lato del passeggero. Gli spiegò dove doveva andare, poi aggiunse:
- Dobbiamo passare prima a prendere Roy, se non ti spiace -
- No, affatto. Dimmi la strada, però, non ho idea di dove viva - chiese Jaime, con fare ingiustificamente mortificato. Sebastian se ne accorse, ma ne rise:
- Non ti preoccupare. Conosco Roy da una vita, ma credo di aver visto per la prima volta casa sua un anno e mezzo fa - spiegò.
Alla mezza occhiata scettica di Jaime, replicò:
- Lui è fatto così. Una conversazione della durata di cinque minuti è un successo - rivelò.
Evidentemente, non notò il furtivo mordicchiarsi del labbro di Jaime, chiaro indice di nervosismo e possibile indizio per le sue ipotesi, perché cambiò totalmente argomento:
- L'altra sera mio padre mi ha mostrato il suo annuario di Oxford. Pare che lui e tuo padre si conoscessero - raccontò.
Questo colse Jerome abbastanza di sorpresa. Benché avesse parlato ai genitori degli amici, suo padre non aveva accennato a una conoscenza. Ma forse, ricordò a sé stesso, lui non aveva menzionato alcun cognome.
- Come si chiama tuo padre? - chiese, per fugare il dubbio. Non aveva ancora incontrato la famiglia di Sebastian e Viola, anche perché il lavoro induceva la madre e il padre a stare spesso lontani da casa.
- Michael Waterhouse, si sono laureati nello stesso anno, il 1982. Penso abbiano la stessa età - rispose.
- Gliene parlerò - promise Jaime - Se lo ricorderà, immagino -
- A quanto m'ha detto, loro due e Lance Stonehall formavano un trio degno di Hogwarts - proseguì Sebastian. Il che fu una vera sorpresa per Jaime, che per poco non inchiodò:
- Davvero? Rob non mi ha mai detto nulla di tutto questo - ribatté, perplesso.
- Non sono sicuro che lo sappia, in realtà. A quel che mi ricordo, lui e suo padre non si scambiano una parola da anni - gli confidò Sebastian. In effetti, Jerome sapeva che i rapporti tra Robert e i suoi genitori erano quasi inesistenti.
- Sai, è buffo - esordì Sebastian, dopo qualche attimo di silenzio pensieroso - Noi tre avremmo potuto essere come loro, se le cose fossero andate diversamente -
- Tu e Robert eravate molto amici, mi ha detto -
Sebastian annuì:
- Tanto amici, che quando abbiamo puntato alla stessa ragazza, io mi sono tirato indietro per non dargli un dispiacere. Un generoso fesso - dichiarò, in tono amaro.
- Generoso, di sicuro. Ma non credo fesso - lo rassicurò Jaime. L'altro fece una smorfia a metà tra il divertimento e il disappunto:
- Lui per me non lo avrebbe fatto, stanne certo. Penso che non dimenticherò mai quando l'abbiamo conosciuta. Eravamo insieme a guardare le prove del club di teatro, e Becca recitò un paio di battute di Ariel. Ho visto la sua espressione mentre la ascoltava, ma so ancora meglio cosa ho provato io. E credi a me, quando ti dico che già a tredici anni, lei faceva voltare le teste nei corridoi - ricordò. Jerome non ebbe nessuna difficoltà a crederlo, in effetti.
- Sono stati insieme quasi due anni, e io ero pure felice per loro - proseguì Sebastian - Non avevo speranza con lei, ero un mucchietto d'ossa con l'apprecchio fisso e troppe lentiggini. Poi mi sono lasciato crescere i capelli e ho cominciato a fare yoga. Ho avuto un paio di ragazze, ma nel frattempo Robert è diventato un frustrato imbecille e Rebecca si è stufata dei suoi atteggiamenti da bullo. Ed eccoci qui -
Il non detto era sottointeso. Jaime fu tentato di parlargli di Blaise e di tutto il resto, spinto dal desiderio di ricambiare la sua confidenza, ma Sebastian gli fece cenno di accostare, prima che avesse tempo anche di pensare a cosa dire e come dirlo.

Fosse stato un po' meno saldo di nervi, il pensiero di chi stava per salire in macchina gli avrebbe fatto sudare freddo, ma l'abitudine alla dissimulazione l'aveva reso immoto come la pietra. Jerome riteneva di aver fatto per il meglio, confessando tutto a Rebecca. Era stufo di fingere e voleva conquistare la fiducia sua e degli altri. Ma la parte su Leroy gli era rotolata fuori dalla bocca quasi involontaramente.
Era successo immediatamente, al primo scambio di sguardi nel cortile, quando aveva visto tutto il gruppo insieme: un solo lampo di quelle iridi d'acqua, ed era stato consapevole di essere fregato.
Non aveva nemmeno provato a resistere all'impulso di entrare a far parte della sua cerchia, giustificando sé stesso con la debolissima scusa di voler farsi degli amici. Loro lo incuriosivano, ma c'era lui dietro, senza nessun motivo razionale. Il fatto che fosse così ostico da capire, da conoscere, perfino quasi da vedere, l'aveva spinto con più veemenza. Da abile mentitore, non aveva fatto trapelare nulla, illudendosi di poter dimenticare quell'embrione di sentimento, ma rivelarlo l'aveva reso terribilmente concreto. Ora si doveva sforzare di non guardarlo più del dovuto, e non cercava nemmeno di parlarci. Voleva estinguere quella follia prima che diventasse ingestibile.
Eppure, quando sentì la portiera aprirsi e chiudersi, fu come se avesse ingoiato un sasso. Gli gettò un'occhiata dallo specchietto retrovisore e colse un frammento di un ghigno del tutto nuovo nella gamma di espressioni che aveva osservato e mentalmente catalogato. Pareva divertito.
- Abbiamo l'autista, adesso? - disse, in un sussurro appena più udibile del solito, le tracce di quel mezzo sorriso già sparite. Sebastian, dal posto davanti, fece spallucce mentre si legava la cintura di sicurezza:
- Ti spiace? - gli chiese, ironico.
Prima che potesse replicare, Jaime si lasciò sfuggire un commento:
- Potresti anche farci l'abitudine - prima di darsi dell'idiota. Non aveva messo in conto di poter cominciare a comportarsi come una ragazzina in fregola.
- Perché no? - ribatté Roy, dopo un attimo e un fugace aggrottarsi di ciglia, che poteva voler dire tutto o niente.
Il resto del viaggio proseguì senza altri sfondoni o imbarazzi impliciti, con Leroy e Sebastian che discutevano animatamente della casa discografica. Quando arrivarono a destinazione, le loro vedute erano ancora decisamente diverse, ma visto che fra i due Seb era il più diplomatico, fu lui a entrare da quei tizi. Jaime e Roy rimasero ad aspettarlo in un cortile disordinato sul retro degli uffici, reso ancora più spiacevole da quella pioggia che pareva nebbia pesante.
Per diversi minuti nessuno dei due aprì bocca, poi Leroy si tastò le tasche dei pantaloni, imprecò e chiese all'altro un accendino. Lo prese e gli offrì una sigaretta:
- Odio fumare da solo - disse - Mi fa sembrare un cazzone depresso peggio di quanto già non sia -
Tirò qualche boccata, poi si girò fra le dita l'accendino e sbuffò:
- Un accendino d'argento. Porca puttana - commentò, restituendoglielo. Jaime si disse, forse per la centesima volta, che aveva la parlata più volgare che avesse mai sentito, pure, gli piaceva anche quella. Scosse la cenere dalla sigaretta e replicò:
- Solo un regalo. Perché " Porca puttana "? Mai visto un accendino d'argento? -
Roy colse volentieri la provocazione. Esibì un altro ghigno:
- Solo nelle tasche dei figli unici tanto ricchi da potersi pulire il culo con le banconote da cinquanta sterline - ribatté. Sboccato, rissoso e totalmente sfacciato. Il suo esatto opposto. Potevano andare bene insieme come due facce della stessa moneta. Magari un penny d'argento.
- Hai fratelli? - gli chiese Jaime, cercando di cogliere l'occasione di studiarlo un po'.
Leroy annuì:
- Una sorella maggiore che è come se non esistesse, e una sorella minore che è più intelligente di me e te messi insieme - rispose. Lo fissò a lungo: la maggior parte delle volte, mentre parlava non guardava nemmeno di striscio l'interlocutore, altre gli piantava gli occhi addosso come se potesse vedergli dentro le risposte.
- Penso che ti farebbe a pezzi con gli scacchi - aggiunse, poi indicò verso la tasca dove giaceva l'accendino - Un accendino con incisa una regina. Qualcosa da giocatore di scacchi ossessionato - rilevò.
- Giochi a scacchi?- domandò Jaime, trattenendo a stento l'esultanza. Non si conosceva nessuno come quando si era ai due lati del tavolo.
Roy annuì:
- Presidente del club degli scacchi. Ma Sybil mi suona per bene ogni volta che facciamo una partita - ammise, poi quel ghigno ricomparve:
- Vinci contro di me e potrei considerarti qualcosa di diverso dalla mia attuale opinione di te - propose.
Jaime non indagò sulla sua opinione, ma accettò la sfida, promettendosi che si sarebbe impegnato come non mai. E quella conversazione era durata ben sei minuti e mezzo. Un trionfo.

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Capitolo 13
*** In this Divide ***


13. In this Divide


Viola adorava suo fratello. Loro erano fra quei fortunati che non litigano mai, il massimo del loro diverbio era farsi una linguaccia. La loro camera era un solo, grande spazio, con una parete a dividere la parte dell'uno e dell'altra e una porta interna, cosa che li aveva abituati a fare la spola da una stanza all'altra, senza alcun tipo di restrizione. Quella sera, dall'antro di Sebastian non proveniva  nessun rumore, e per rumore s'intende musica. Non passava minuto nelle ore diurne in cui ci fosse silenzio in quell'angolo di casa. Lo stereo spandeva continuamente sottili note di arpe, flauti, sithar, gorgheggi in lingue sconosciute. Se tutto taceva, qualcosa non andava decisamente per il verso giusto. La ragazza abbandonò i compiti e chiamò, dall'altro lato del muro. Lui le rispose, quindi non dormiva.
Lo trovò appollaiato sulla poltrona sfondata che aveva insistito per sistemare sotto la finestra, intento a comporre origami. Lo faceva quando era preoccupato o stressato. Viola contò un topo, un cigno e due elefanti: doveva essere veramente giù. Sedette sul letto, a gambe incrociate, aspettando che cominciasse a parlare, e intanto occhieggiò i ben noti poster che costellavano le pareti: profili di montagne, laghi, templi induisti, rovine greche, carri allegorici. La gente pensava fosse una specie di hippie, ma in realtà Sebastian era un abitante del mondo. Ogni cultura lo interessava, mangiava e ascoltava roba che proveniva da ogni angolo del pianeta, conosceva ben più lingue di quante gliene sarebbero mai state utili. Un moderno esotista, forse, o un aspirante antropologo.
Per quanto riguardava tutto quello che era al di fuori di lui, niente lo batteva in perspicacia. Ma era un disastro nell'introspezione, e a quel punto serviva sua sorella, che degli altri magari non capiva niente, ma di lui finché voleva.
Sebastian accartocciò l'ultimo origami, un gatto venuto tutto storto, e si andò a sedere vicino a lei, staccando dal muro un oggetto che Viola conosceva bene: era da quando aveva sei anni che Seb raccoglieva ogni genere di piccola cianfrusaglia e la infilava in quel filo di lana, componendo una bizzarra catena di ricordi.
C'erano tappi di bottiglia di bevande straniere, conchiglie, monete, biglietti di ogni tipo, una mano di Fatima, un ankh di plastica, un dente di squalo, il primo plettro di Viola, color madreperla con il disegnino di un'ape con gli occhiali da sole. E una piccola B di metallo.
Fu quella che lui le mostrò:
- Te la ricordi? - le chiese, e Viola, naturalmente, annuì.
Come dimenticarlo? Erano passati, tutto sommato, pochi anni, ma parevano secoli prima. Quando lei lo chiamava ancora Bastian, affascinata dal personaggio di Michael Ende, e permetteva agli altri di chiamare lei Vi.
Bastian e Vi, un quasi adolescente e una non più bambina, andavano a giocare in un minuscolo parco giochi, piuttosto malandato, non molto distante da casa. Lei aveva le sue amichette, e lui tirava calci a un pallone sempre con lo stesso gruppetto di bambini. Uno di loro era il capo della combriccola: un po' più alto, un po' più sveglio, e con vestiti migliori di quelli degli altri, ma che s'infangavano ugualmente. Allora, gli altri lo chiamavano ancora Robbie, ma avrebbero smesso non troppo tardi. Robbie, Bastian e Vi avevano una cosa in comune, e cioè, ad accompagnarli al parco ci pensavano le tate.
Forse per questo fecero amicizia. Vi era troppo piccola, ed era pure una femmina, quindi fu scartata presto dai loro giochi, ma chiaramente non ci badò. Bastian e Robbie divennero inseparabili. I bambini del parco impararono in fretta che, se si giocava, si giocava a quello che volevano loro, e con le regole che loro dicevano. Chi non voleva, poteva andarsene. Robbie era la cottarella delle bambine, con gli occhi dalle ciglia lunghe e i ricci biondo sabbia. Bastian aveva le idee, e sapeva come realizzarle.
I due attrassero altri gregari, in breve tempo: Roy, già allora magrolino e solitario, la sua timida amica Mellie, con i capelli rossi sotto un basco di lana e l'inalatore sempre a portata di mano e Mandy, che aveva paura di andare in altalena. La scuola non li separò, ma fu lì che le cose cominciarono a sbriciolarsi.
Aveva un vestito azzurro, sandali alla schiava bianchi e i capelli lunghi di una creatura che non è bambina ma nemmeno donna. Vi la conosceva, perché era amica di Mellie, ma Bastian e Robbie non l'avevano mai vista. Era il momento della schiusa, di quando si cominciavano a portare reggiseni e a contare i giorni del mese, ma di questo non avevano idea, fino a quel momento.
" All hail, great master; grave sir, hail! "
Con una battuta, la piccola fanciulla con la rete nel nome aveva avvinghiato i ragazzini, che erano stati così catapultati nel mondo delle femmine. Vi smise in quel periodo di essere Vi e cominciò ad essere Viola, ad ascoltare rock, a farsi una vita lontana dal parco giochi, che fu disertato. Non era presente quando Sebastian, Robert e Rebecca uscivano insieme, ma li immaginava spesso, stesi sul pavimento polveroso della vecchia libreria a ridere di stupidaggini e mangiucchiare schifezze. Darcy non era che un gattino, con le unghie che si incastravano nelle maglie dei pullover, sotto i quali battevano i tre cuori in diversi tumulti. Il caso aveva voluto che i loro nomi avessero un perno centrale identico, quella B che uno di loro trovò in un portachiavi di metallo, e che si passavano a settimane alterne, come un sigillo d'amicizia.
Ma poi Rebecca e Robert smisero di ridere e iniziarono a mormorare, sussurrandosi cose che andavano bene per due, non per tre. E Sebastian, vittima di quell'incantesimo, avrebbe potuto lottare, ma i suoi sentimenti non erano importanti come quelli del suo amico, del suo fratello da un'altra madre, così rinunciò.
Invano, perché meno si era bambini, più si diventava lontani. Robert voleva consenso, Rebecca applausi, e fu chiaro che non sarebbero riusciti a condividere il palco. L'ambizione di lui e l'egoismo di lei divennero un muro invalicabile. Robert divenne Stonehall, un estraneo, come se qualcuno lo avesse strappato dalla sua pelle originaria. Cercò di convincere Sebastian, pallida ombra di entrambi, ad accettare il suo nuovo corso, ma non erano più piccoli, adesso le regole erano diverse. Ad un certo punto, far finta di non conoscersi era diventato più semplice. Ma Sebastian aveva tenuto quella B, per ricordarsi di ciò che aveva avuto e poi perduto.
Guardò sua sorella e sospirò:
- Vorrei che le cose non dovessero cambiare, ma tutto scorre e non riesco a trattenerlo. Domani sarò già un'altra persona, rispetto a questo preciso momento - dichiarò.
- è così che si diventa grandi - replicò Viola, una volta Vi, tirando su il cappuccio della felpa dei Metallica e abbracciandolo.

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Capitolo 14
*** From Heaven to Dust ***


14.  From Heaven to Dust


- Oggi non posso restare. Ho la prima lezione con quello nuovo -
Melissa lo annunciò a Becky e Shane mentre sfogliava con calma apparente uno spartito stropicciato dall'uso. Con " Quello nuovo " intendeva l'insegnante di pianoforte, dato che la sua era partita una settimana prima per il Giappone. La prima, quella che le aveva inculcato l'idea dell'esercizio costante, quindi ossessivo, doveva già essere viva ai tempi di Liszt, quindi l'aveva passata a un giovane allievo, che dava lezione in un attico vista Westminster Abbey. Le ragazze non avrebbero saputo dire cosa rendeva il viso dell'amica verdastro come il latte cagliato, se quel particolare, o il fatto che per la prima volta a insegnarle sarebbe stato un uomo. Esclusi suo padre e i ragazzi della band, il mondo di Mel era un gineceo: la nonna scomparsa da tempo, sua madre, sua sorella, le sue zie, la vecchia e militaresca Mrs. Darley, poi Miss Trenton. Un universo di riti cattolici, dolci della domenica, questioni femminili sussurrate all'orecchio, asma e pianoforte.
Miranda, sebbene fosse poco più piccola di Mel, ne aveva assorbito meno, anche perché non era vittima della fragilità di salute e della monomania della sorella maggiore che, suo malgrado, pencolava tra quella realtà casalinga antiquata e la sua vita all'esterno, tra il Gothic Metal e lo Shoegaze, i social network e un amico borderline.
Quasi potesse sentire i loro pensieri, chiuse lo spartito e osservò:
- Secondo voi, perché mai il figlio di un Pari del Regno dovrebbe dare lezioni di piano a ragazzini dell'East End? -
- Retaggio della filantropia vittoriana, direi - replicò Shannon, distrattamente - Piuttosto, come si chiama? Cosa ne sai? - chiese, dando voce alla curiosità che serpeggiava tra le ascoltatrici.
Melissa mise su un'aria estremamente infelice, per qualche motivo noto solo a lei:
- Nicholas Roman Leighton - rispose, controvoglia - Sempre ammesso che questo sia l'ordine giusto. Mrs. Darley l'ha sempre chiamato Roman, ma quando mi ha risposto al telefono, l'ha fatto come Nick. Dubito che lo chiamerò per nome, comunque. E a parte che è ricco sfondato e figlio di un lord, non so altro - spiegò.
- Forse si chiama davvero Nicholas - aggiunse, dopo una pausa di pensosa riflessione - Mrs. Darley mi chiama Christabel da anni -
Mel detestava con tutte le forze il suo secondo nome, di solito faceva finta di non averlo. Solo essere nervosa o preoccupata poteva spingerla a infrangere quella regola ferrea. Shannon e Rebecca si scambiarono un'occhiata esplicita, poi quest'ultima intervenne:
- Chi se ne frega di come si chiama. Speriamo sia carino -
L'amica la guardò, in modo particolarmente truce:
- Non dev'essere carino, deve riuscire a farmi arrivare fino in fondo a Rachmaninov senza che mi cadano le dita - ribatté. Mandy, che le era seduta accanto e che aveva seguito l'intera conversazione senza aprire bocca, s'inserì:
- Certo, Mellie, veramente, perché non fai Chopin come tutti? Magari, gli starai più simpatica, se non fai il fenomeno- disse, con sulla faccia ben scritto che di Rachmaninov doveva averne le tasche piene.
- Perché Chopin lo fanno tutti - replicò sua sorella, con un sarcasmo cattivo che non le apparteneva affatto - E non m'importa se gli sto simpatica o meno, lui deve insegnarmi ad essere un fenomeno -
Quel suo lato di fanatismo era il peggiore dei suoi difetti. Indifesa e timida in qualsiasi altra cosa, non riusciva a transigere sulle sue capacità pianistiche. Era dotata, e questo l'aveva spinta a gettarsi sulla branca sensibilissima del virtuosismo, e quella non era una strada per i senza pretese.
Erano scivolate in un terreno senza via d'uscita, non c'era modo di distrarla, quand'era così. Le tre si guardarono, poi attaccarono un discorso completamente a caso e beatamente frivolo. Le sarebbe passata presto, dovevano solo sperare che l'insegnante di piano facesse il suo dovere.

Sebbene impegnato a sua volta in una discussione settaria, Leroy non aveva perso una virgola del discorso delle ragazze.
- Mel! - chiamò, dall' altro lato del tavolo - Ti ci porto io a Westminster - propose. Lei annuì, vagamente. Anche lui conosceva quel suo lato di pianista compulsivo-ossessiva, e sapeva come prenderla.
Tornò, come se non si fosse interrotto, al dibattito sulle aperture irregolari negli scacchi. Jaime stava cercando di farsi spiegare l'attacco Durkin, ritenendo comunque che l'apertura Amar fosse migliore. Roy sapeva bene che quell'apertura limitava alla grande il cavallo bianco, quindi era in completo disaccordo con lui, ma Jaime continuava a insistere sul fatto che l'Amar fosse  introduzione all'arrocco, quindi efficace per un gioco aggressivo, potendo a quel punto il giocatore muovere due pedine insieme.
A Leroy non piaceva quel tipo di gioco tutto in attacco, veloce, consumato. A Jaime sì, visto che continuava a cercare di dargli il matto dell'imbecille ogni partita, e perdeva sempre. In questo, Roy e Mel erano molto simili: magari si muovevano lentamente, ma ogni passo doveva essere dritto. Come al solito, la questione si chiuse con un nulla di fatto. Nemmeno Jerome era uno che desisteva.
Più tardi, in macchina, Melissa stava ancora masticando nervosismo.
- Ti preoccupa così tanto questo tizio? - le chiese Leroy. Lei annuì:
- è un uomo, ed è bravo. Mi riterrà una ragazzetta pretenziosa - rivelò - Con una donna è più facile. Non ti giudica perché sei giovane e vuoi fare del tuo meglio -
- Ma anche questo è giovane, no? Magari avrà una...mente aperta - replicò Roy, calcando sulle ultime due parole come se fossero strane.
- Sai, spero sia uno sgorbio - riprese lei - Se fosse pure bello, allora mi riterrà veramente assurda. Li ho visti, quei barbogi e quegli idioti imbalsamati. Ognuno pensa d'essere Bach redivivo e Mozart risorto -
- Cosa potrebbe volere di più, una giovane pianista bella e brava - ribatté l'amico, ma Mel scosse la testa:
- Una bambolina che strimpella una tastiera, piuttosto - dichiarò.
Roy sospirò:
- Senti, forse è un idiota, forse no. Sai mi sono dovuto ricredere sui bambocci, da qualche tempo a questa parte - confessò.
- Jaime dev'essere proprio bravo, allora - rilevò lei, con una mezza risata.
- Perde come un cretino, sei vuoi sapere la verità, ma non è un cretino. Potrebbe pure arrivare a starmi simpatico - disse Leroy, con calma.
Mel sgranò gli occhi:
- Il cielo sta per caderci sulla testa -

Il palazzo dove Leighton teneva lezione era ancora peggio di quanto Melissa si fosse aspettata: marmo, stile Inigo Jones, e scalinate degne dell'opera. Si meravigliò che non ci fosse il valletto all'ascensore, una cabina spaziale di vetro da cui si vedeva scintillare quieto il Tamigi oltre il palazzo del Parlamento e i torrioni dell'abbazia.
Quando le fu finalmente aperto, i suoi peggiori timori si tramutarono per un attimo in realtà: Nicholas Roman Leighton era attraente, e anche parecchio. Alto, con i capelli scuri e gli occhi chiari, indossava una camicia chiaramente di sartoria, su pantaloni neri. Pur essendo un abbigliamento semplicissimo, grondava rango. Il " Prego, Christabel, entra " non migliorò l'umore della ragazza:
- Mr. Leighton, io veramente mi chiamo Melissa - puntualizzò, sentendosi arrossire. Che Mrs. Darley fosse rimbambita era un fatto, si disse, amaramente.
Lui rise:
- Perdonami, ti prego. Celia mi ha assicurato ti chiamassi Christabel - spiegò.
- è il mio secondo nome, non lo usa nessuno - precisò Mel, appena appena un po' più a suo agio.
- Un peccato - rilevò l'insegnante - Un bel nome classico -
Dopodiché le chiese se poteva offrirle del té, e al suo diniego la fece accomodare al piano:
- Allora, vediamo cosa sai fare - la invitò - Che hai portato? -
- Il secondo concerto per pianoforte di Rachmaninov - replicò lei, sul punto di sentirsi male. La sua risposta era tutto.
Nicholas Leighton sorrise, con genuina sorpresa:
- Sentiamo. Solo il primo movimento -
Il fatto che non avesse fatto commenti, lo promosse agli occhi della ragazza. Cominciò a suonare, e non pensò più a nulla finché non ebbe finito.
Quando rialzò gli occhi dalla testiera, notò che l'insegnante la guardava. Sostenne il suo sguardo, senza nessuna particolare espressione.
- Sono contento che Miss Trenton sia andata in Giappone - commentò - Penso di aver poco da insegnarti, ma quel poco ci tengo a farlo - decise.
- C'è sempre da imparare. Chi dice di aver finito, è il primo a dover proseguire - disse lei, ricordando una frase della vecchia Darley.
L'insegnante sorrise, evidentemente d'accordo:
- Dammi del tu, e chiamami Nick. Non sono poi tanto più grande di te, e nemmeno migliore -
 


 
 





 

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Capitolo 15
*** Restless ***


15. Restless

La connessione internet al Green Fairy era lenta. Sebastian tamburellò nervosamente con le dita sul tavolo dove era posato, in equilibrio un po' precario, il portatile di Javesh.
- Ancora niente? - chiese al suo chitarrista, per la decima volta.
- La pazienza è la virtù dei forti - replicò Javesh, imperturbabile come al solito. Sebastian sbuffò, e lanciò un'occhiata verso il locale principale, dove sul palco gli altri mettevano a punto gli strumenti per quella sera. Era presto, ma non poteva smettere di chiedersi se la loro estenuante campagna pubblicitaria avesse avuto successo. Avevano pure messo alcuni brani inediti in ascolto gratuito su una delle molte piattaforme dedicate disponibili in rete, ma lui pareva essere l'unico in fremente attesa. " Finché non incideremo qualcosa, è inutile aspettarsi granché " l'aveva ammonito Viola, molto più cauta nelle sue speranze.
Era comunque pur vero, che il loro raggio di azione si stava espandendo. Una settimana prima erano perfino riusciti a ottenere di suonare tre pezzi in un pub in piena Soho. Era stato esageratamente felice, quando gli avventori avevano chiesto loro il bis di " Burning ".
Finalmente, la pagina che cercavano di aprire da dieci minuti finì di caricare, e apparve il conteggio degli ascolti per ciascuna canzone. Seb si avvicinò allo schermo e studiò con aria critica i risultati.
- Strano - disse, dopo un po'. Javesh si strinse nelle spalle:
- Perché? Anche quelli alla Neverland ti hanno detto che è il nostro pezzo più forte - osservò.
- Speravo nella title track, in realtà, quella è più di qualità, ci sono più strumenti - ribatté l'altro, sempre perplesso.
- " The blackest fairytale " arriva meglio. è emozionante - dichiarò Javesh, di contro ben convinto.
I due si scambiarono un'occhiata, poi Sebastian si arrese:
- E va bene. Vox populi, vox dei. Scegliamo questa. Dobbiamo trovare un'idea veramente superlativa, però - disse, ma l'altro lo tranquillizzò:
- Ma guardaci, abbiamo nella band tre ragazze bellissime. Qualunque videoclip funzionerà -
Sebastian annuì, poi si accigliò:
- A proposito, perché non sapevo che tu esci con mia sorella? - domandò, polemico. Javesh rise:
- Andiamo, tua sorella è grande e vaccinata e tu mi conosci bene. Sono un signore, lei può confermartelo - dichiarò, alzando la mano sinistra a mo' di giuramento. Sebastian tenne il broncio forse per altri due secondi netti, poi scosse la testa:
- Se fai cazzate, poi sono fatti tuoi - lo avvertì, alzandosi e avviandosi verso la porta.
Trovarono gli strumenti pronti, le ragazze intente a dividersi una ciotola di arachidi, e Roy e Jaime seduti davanti a un foglio, vergato di una serie di sigle incomprensibili. Schemi scacchistici, a tutta apparenza. Appena Sebastian e Javesh fecero la loro comparsa, tutti s'interruppero e si voltarono a guardarli.
- Allora? - chiese Roy, in tono vagamente annoiato. Era stato l'unico contrario all'idea di girare un videoclip del primo pezzo registrato. Aveva accettato solo a patto di comparire il meno possibile.
- The blackest fairytale ha ottenuto più ascolti, e in effetti, è quella che piace di più anche ai discografici - ammise Sebastian, ripetendo le parole di Javesh. Becky, Mel e Viola si scambiarono il cinque.
- è davvero bellissima - commentò Shannon, uscendo per portare via la ciotola delle arachidi, ormai vuota.
- Siamo tutti d'accordo? - chiese Javesh. Gli altri annuirono:
- Come facciamo per il video? - intervenne Melissa.
- Dobbiamo scriverci una sceneggiatura, trovare un posto, i costumi, se ci servono, cose così - replicò Sebastian. Sul pub cadde un silenzio pensoso.
- Io userei una location tipo casa abbandonata, qualcosa che suggerisca l'idea di disfacimento - propose Jaime, a sorpresa. In effetti, la canzone parlava di un amore finito. Avrebbe avuto senso.
- Ricordiamoci che non abbiamo soldi e che nessuno ci conosce. Io continuo a dire che è troppo presto - rammentò Roy, ma Rebecca sbuffò:
- E dai, mica dobbiamo affittare Regent's Park o assoldare centinaia di ballerine hip hop. C'è Aldertown House, la usano per i video amatoriali - rilevò. Mel annuì, con entusiasmo:
- Posso trovare io i costumi...e ho già un'idea per il soggetto - si fece avanti.
- Racconta - la esortò Sebastian.
L'idea si rivelò seducente. Fu approvata dopo una rapidissima votazione, e riuscì a convincere anche lo schizzinosissimo Leroy, perché includeva l'impiego di maschere.

Parecchio dopo la fine dell'esibizione, mentre i clienti cominciavano a sciamare allegramente fuori dal Green Fairy, Shannon lo vide. Rintanato nell'angolo più lontano della sala, sembrava ubriaco, ma non poteva esserlo. Robert Stonehall aveva lo sguardo lucido e rossastro di chi aveva preso qualcosa di peggio di un po' di birra.
Attese che suo padre e i suoi fratelli fossero impegnati sul retro, poi gli si avvicinò con decisione e lo trascinò fuori. Trascinò perché era quasi inerte.
Senza pensare a chi era e perché fosse lì, gli cacciò le dita in gola e lo costrinse a vomitare. Aveva già visto qualcuno in quello stato, anche se sembravano mille anni prima, e sperava che non le capitasse più.
Ci volle un tempo angosciosamente lungo perché lui si riprendesse un po'. I tranquillanti che aveva ingoiato erano forti, ma non in quantità tale da fargli del male veramente. Shannon lo spinse a sedere su uno dei bidoni dell'immondizia meno sporchi, poi si affacciò all'ingresso del pub, avvertendo suo padre che sarebbe tornata da sola. Eoin, suo fratello mezzano, fece qualche storia, ma non insisté eccessivamente. Fu solo quando vide il terzetto chiudere e andare via, con le raccomandazioni di rientrare subito, che tornò da Robert.
- Mi faccio dare quella roba da certi amici. Mi fa dormire - spiegò, dopo anni di silenzio. Lei scosse la testa:
- Gli stessi amici che ti sei scelto. Che ci facevi qui? - gli chiese, cercando di non essere troppo dura.
- Volevo vedervi. Non pensare male, volevo solo vedere come ve la passavate. Niente nostalgia - replicò, la voce impastata dall'effetto delle pillole.
- Devo far venire un'ambulanza - l'avvertì Shannon, ma lui scosse rabbiosamente il capo:
- Col cazzo - le porse il suo telefono, dopo aver digitato un numero - Chiama e digli che mi vengano a prendere. Non ti disturberò oltre, stai tranquilla -
Lei esitò, poi fece come le era stato detto. Robert Stonehall non era affar suo, in fondo.
- Non tutti possono scegliere di essere felici - le disse, mentre aspettavano - Però si può scegliere di essere dei bastardi senza amici, come me, il che è anche meglio, se lo vuoi sapere -
Shannon non replicò. Non aveva nulla da dirgli, e lui non voleva le sue parole.
Uno dei suoi scherani della scuola fece la sua comparsa. Lo caricò in macchina, ma Robert fece cenno a Shannon di avvicinarsi:
- Non c'è bisogno che ti dica che io qui non ci sono mai stato, vero? - Lei annuì.
- Non tornerò più, non temere - aggiunse, ma Shannon replicò:
- Non ti ho detto di non farlo -
Robert si limitò a restituirle uno sguardo vago, poi ordinò al tizio di partire.
Di lui non rimase che una poltiglia di pillole maldigerite sul retro del pub.

 

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Capitolo 16
*** Enter ***


16. Enter


Una delle altalene cigolava da far uscire scemi. La lieve brezza quasi invernale la muoveva pigramente, ma con abbastanza energia da creare quel pigolio. Leroy era seduto sull'altra, con una sigaretta spenta in bocca, Jerome gironzolava in giro, guardandosi intorno.
- Sembra abbandonato - osservò. Roy annuì:
- Ne hanno costruito un più grande, a qualche isolato. Ora qui non ci viene più nessuno - spiegò. Strisciò per terra con un piede, rotolando un sasso per pura noia:
- Ce l'avevi un posto così, a Parigi? - chiese, cercando di mostrare interesse. Jaime parlava un sacco, a differenza di lui. Forse per questo stava cominciando ad apprezzarne la compagnia, suo malgrado. Diceva molto, ma tutto aveva un senso. Non sprecava una parola per stupidaggini.
- Sì, ma era molto più verde - rispose, asciutto. Appunto, niente fronzoli inutili.
- Sai, sta cominciando a piacermi l'averti tra i piedi - esordì Roy, dopo un lungo silenzio. Jaime rise:
- Soprattutto perché non riesco a batterti - dichiarò. Roy sbuffò:
- Se giochi come uno scemo, non è colpa mia - rilevò. Jaime sorrise ancora, poi si guardò di nuovo intorno:
- Perché siamo venuti qui? - chiese, sinceramente curioso.
- è un posto, come dire, importante.  Dove si portano gli amici - rispose Roy, con calma.
Jaime ebbe un mezzo sorriso, tra lo scettico e lo speranzoso:
- Siamo amici, adesso? - domandò, con cauta leggerezza. Leroy annuì:
- Ti sono grato per quello che stai facendo per noi. Sono uno stronzo che se ne fotte di tutto, ma so provare gratitudine - spiegò. Lo guardò e aggiunse:
- La band sta avendo una spinta da quando ci sei tu, probabilmente perché ci siamo dati tutti una svegliata. Hai portato solo casino, ma è stato un casino utile. Ci ha indotti a guardarci dentro, gli uni con gli altri -
Jaime lo ascoltò, con attenzione:
- Grazie... - cominciò, ma Roy lo interruppe:
- Non mi ringraziare, è la verità. L'anno è quasi finito, e noi stiamo cambiando. Forse servivi tu perché ce ne accorgessimo. Sei la ninnananna del venerdì - disse, mettendo una versione malinconica del suo solito ghigno.
Qualcosa, in quelle parole, fece sobbalzare lo stomaco di Jerome:
- Che vuol dire? - chiese, in un sussurro involontario.
- Una cosa che ci siamo sempre detti io e Sybil. Il venerdì è l'ultimo giorno prima del fine settimana, e tutti si aspettano grandi cose dal fine settimana: dolci, dormire di più, una festa...il venerdì si spera che tutte queste cose possano accadere, ma si ha anche paura di venire delusi. La ninnananna è l'ultima cosa che si ascolta prima di dormire, crediamo che tenga lontani gli incubi e che incoraggi i sogni.
La ninnananna del venerdì è questo misto di speranza e paura, la sveglia che ti dice che la settimana è finita, il giorno è finito, e quello che deve succedere dipende da te - raccontò Leroy.
Dopodiché si accese la sigaretta, lasciando che i pensieri dell'amico fluttuassero insieme alle nuvole di fumo.
 
 







 

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Capitolo 17
*** Gretchen am Spinnrade ***


17. Gretchen am Spinnrade

" Your peace is gone, your heart is heavy. You will find it never and never more "
Riuscì a percepire solo il primo verso della canzone, mentre Mandy metteva gli auricolari nelle orecchie della sorella. Non credeva veramente funzionasse, però lo faceva tutti i giorni.
All'inizio le aveva portato la sua intera discografia pianistica: Chopin, Liszt, Schubert, Rachmaninov e forse ancora una decina d'altri. Ora aveva cominciato con le registrazioni del gruppo.
Sua madre riuscì a riconoscere quel pezzo, era quello del video. Il titolo rimandava a una fiaba oscura, deviata, e Melissa aveva scritto il testo aprendolo con una citazione dal lied " Gretchen am Spinnrade " di Schubert, un pezzo di tetro e ansioso smarrimento.
Anche il videoclip pareva suggerirlo: sua figlia glielo aveva raccontato. Rebecca percorreva i corridoi di una casa abbandonata, vestita di bianco, alla ricerca di sé stessa, ma alla fine trovava solo il suo alter ego, vestito di nero, oltre uno specchio.
Un'idea semplice, aveva detto Mellie, guardandola con negli occhi tutto il desiderio di approvazione che aveva sempre cercato da lei, dal padre e perfino da Miranda. Le sembrava quasi strano che per compiacerli e non farli preoccupare, sua figlia non si svegliasse in quel preciso istante.
Come nei giorni precedenti, il loro desiderio cadde nel vuoto, e lei restò immobile, con il respiratore davanti la bocca, la flebo al braccio e la testa avvolta nelle bende, gli occhi inesorabilmente serrati. I suoi splendidi capelli erano svaniti, falciati dal rasoio, mentre si tentava di salvarle la vita. Era viva, sì, ma non viveva.
Simonetta sollevò lo sguardo dalle figlie e lo lasciò vagare fuori dalla stanza, attraverso il vetro. Lei veniva ogni pomeriggio, ma non entrava mai.
Rebecca sussultò, quando si sentì chiamare: si voltò e le sue labbra tremarono, nel rispondere al saluto. In casa Whistler era di famiglia, ma adesso sembrava che non volesse farsi notare.
Rimase con le mani in tasca, profondamente a disagio, annuendo o facendo segni di diniego, alle domande che le venivano rivolte. Era pallida e tirata, assai diversa dalla ragazza spavalda che Simonetta conosceva fin dai tempi dell'infanzia.
La scrutò a lungo:
- Perché non entri? - le propose, ma Rebecca scosse la testa:
- Non...posso - replicò, sull'orlo delle lacrime. Certamente non le prime, visti i suoi occhi gonfi - Sono una codarda - aggiunse, mentre il pianto sgorgava, lento e silenzioso. La madre della ragazza addormentata l'abbracciò:
- Lei ti vuole tanto bene - le disse - E ti stima moltissimo. Melissa non ha altre amiche come te -
Quelle parole si contorsero dentro Rebecca. Un affetto esageratamente immeritato. Se era veramente sua amica, non avrebbe dovuto fare quello che le aveva fatto, ma aveva creduto che non avrebbe capito. Dopo una vita trascorsa insieme, invece era stata proprio lei a non capire. Ma non raccontò la propria colpa a sua madre.
- Voglio solo che si svegli - riuscì a dire. Simonetta le restituì uno sguardo neutro:
- Lo vorrei anche io -
Sarebbe stato bello poter incolpare qualcuno.



 

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Capitolo 18
*** Carnaval ***



18. Carnaval


La porta scricchiolò troppo forte per i gusti dei ragazzi. Qualcuno ridacchiò nervosamente, altri si guardarono intorno nervosamente, come se qualcuno potesse aver sentito quel rumore nel mezzo della notte, in una strada isolata. Faceva un freddo cane, nessuno si avventurava fuori a quell'ora. Tranne quel manipolo reso allegro dall'ebbrezza del successo e un paio di birre scolate di straforo.
Jaime aprì completamente la porta, trattenendo una risata, e fece cenno agli altri di entrare, velocemente. Gli amici gli sfilarono davanti, ma Shane e Mel non mancarono di scoccargli occhiate di disapprovazione:
- Non dovremmo essere qui - lo ammonì la prima, ma entrò comunque. Una risata e una specie di squittio di sorpresa echeggiarono contro le alte pareti:
- Una piscina coperta! - esclamò Becky, felice come una bambina - Bel modo di festeggiare! - approvò, ridendo. Le ciglia severe di Shannon si arcuarono ancora di più:
- Di chi è questo posto? - chiese, in tono sospettoso. Jaime scosse la testa, in un gesto conciliante:
- Stai tranquilla, è mio - la informò, con un mezzo sorriso. Roy esibì il suo solito ghigno, comparendogli a fianco:
- Chissà perché non mi stupisce - dichiarò, sarcastico. Gli diede un pugno amichevole sulla spalla:
- Vado a cambiarmi - annunciò, seguito entusiasticamente da Rebecca, Sebastian, Viola, Javesh e una riluttantissima Shannon.
- Non vieni anche tu? L'acqua è calda - chiese Jaime a Melissa, accorgendosi che era rimasta indietro. Lei scosse la testa:
- Non so nuotare, nemmeno stare a galla - disse. Prima che Jaime potesse replicare, incrociò le braccia e andò a sedersi a bordo vasca, su una delle panche di legno che la costeggiavano.
Incerto se insistere o no, Jerome decise per la seconda opzione e si avviò a raggiungere gli altri. Appena oltrepassato l'ingresso della stanzetta adibita a spogliatoio maschile, fu investito da un oggetto morbido. Sbuffò, gettando alla cieca la maglietta appallottolata, e colpendo il responsabile: Leroy era già in costume, e faceva dondolare pigramente in mano la maglietta:
- Sbrigati - gli disse, uscendo. Jaime fu grato del fatto che non avesse indugiato oltre, costringendolo a cercare di non arrossire davanti ai ragazzi. Di là dalla parete giungevano le chiacchiere allegre delle ragazze.
Cinque minuti dopo, erano tutti impegnati in allegri tuffi, e a schizzarsi l'acqua addosso a vicenda. Javesh e Sebastian ingaggiarono una gara di apnea, mentre Viola faceva del suo meglio per farli ridere. Rebecca e Shannon li guardavano, ma a Jerome non sfuggì che la prima guardava verso le panche in continuazione.
Melissa se ne stava mezza raggomitolata, gli occhi fissi all'acqua, ma chiaramente non stava guardando niente e nessuno. Jaime puntò nella sua direzione, deciso a parlarle, ma Roy emerse vicino al bordo, guardò da lei a lui, poi gli si approssimò, in un paio di bracciate:
- Lasciala stare, per ora - gli disse.
Jaime non capì:
- è da prima di Natale che fa così. Pensavo fosse preoccupata per l'uscita dell'album. Non dovrebbe andare meglio? - chiese, confuso.
L'acqua clorata si rifletteva negli occhi glaciali di Leroy, facendoli brillare di una luce artificiale:
- Non so cos'abbia - ammise - Mi aspettavo oggi facesse i salti di gioia. Si è impegnata così tanto, eppure adesso sembra non importarle più niente. Saranno due settimane, che non parliamo decentemente -
- Rebecca ne sa nulla? -
- Direi proprio di no -
Rebecca rideva e scherzava con gli altri, ma si vedeva che stava facendo uno sforzo. Sembrava arrabbiata e dispiaciuta, ma sapeva celarlo molto bene.
Non era una situazione nuova, purtroppo. Negli ultimi giorni le cose erano piuttosto difficili, tra Melissa e il resto del gruppo. Appena avevano finito le registrazioni, era completamente sparita. Non restava con gli amici neppure dopo scuola, perché aveva lezioni di pianoforte tutti i giorni. Mandy aveva detto che spesso finiva per addormentarsi sulla tastiera, e che se la madre non l'avesse costretta a venire a tavola, non avrebbe nemmeno mangiato.
Jerome si era sorpreso, quando l'aveva vista alla sede della Neverland per la pubblicazione dell'album. Ccredeva non si sarebbe presentata. Eppure, con la testa non era lì.
Becky si era lamentata con lui fino allo sfinimento, Leroy non era il tipo da lamentarsi, ma chiaramente la faccenda non stava bene neppure a lui. Jaime si era detto che non erano affari suoi, pure si stava preoccupando. Un cambio d'atteggiamento così improvviso era strano.
- Non è gelosa, vero? - se ne uscì, all'improvviso. Roy lo guardò, sembrò sul punto di scoppiare a ridere, ma non lo fece:
- Di te? Lo è sicuramente. Ormai io e Rebecca stiamo molto più tempo con te che con lei - osservò - Ci lascerà. Non ha mai conosciuto nessuno che le ha fatto guardare oltre di noi, ma adesso ha quel tipo -
- Chi, il maestro di piano? -
- Chi altrimenti? L'ultima volta che abbiamo parlato, mi ha detto: Non ho mai suonato così.- Leroy fece una pausa, poi sospirò:
- Per me è sempre stata una coperta. Rassicurante, familiare. Non altro. Ora sta bruciando. Quel tizio per lei è benzina buttata sul fuoco - disse.
- è innamorata? -
Roy annuì:
- In un modo in cui solo una come lei può esserlo - spiegò, ma non andò oltre.
Un'improvviso scoppio di grida entusiaste e un applauso li fecero voltare: Rebecca s'era aggrappata al collo di Sebastian e l'aveva coinvolto in quello che era, inequivocabilmente, un bacio appassionato.
I due scoppiarono in una risata e si unirono all'ilarità generale:
- Era ora! - urlò qualcuno, appoggiato da altre risa.
I ragazzi si separarono, uno con l'espressione stordita ma felice, l'altra con la faccia del trionfo. Si sciolse da lui e nuotò fino al bordo della vasca. Scambiò poche parole con Melissa, poi uscì e l'abbracciò. Si tuffò di nuovo dentro, mentre l'amica si asciugava gli occhi.
Leroy, che aveva seguito attentamente l'intera scena, osservò:
- Le ragazze sono un abisso che non voglio nemmeno sforzarmi di capire -
Jaime tentò un azzardo:
- E i ragazzi? - gli chiese, in tono lievemente provocatorio. Sul suo volto apparve una versione luciferina del suo solito ghigno:
- Chi può saperlo? - replicò.

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Capitolo 19
*** Gymnopedies n.1 ***


19. Gymnopedies n.1

Shannon era un muro di concretezza. Ben lontana dalla volatile fama di gloria di Rebecca, spesso rideva intimamente delle sue oscillazioni tra come voleva apparire e come appariva effettivamente.
In realtà, Becky non era affatto complessa, quando si sollevava il velo ingombrante della sua personalità. Anzi, era perfino un po' banale nella sua ansia di mettersi in mostra, sia nel bene che nel male. E il bello è che la maggior parte delle volte non se ne rendeva nemmeno conto. Aver tenuto il povero Sebastian sulle spine così tanto tempo,faceva parte di quel giochetto, ma lei non se n'era accorta. Alla fine, il suo era semplicemente desiderio di farsi benvolere, ma non aveva capito che non aveva bisogno di sbracciarsi tanto per riuscirci. Shannon lo sapeva, ormai. Per questo, riconobbe bene l'espressione di sincero dispiacere che le si dipinse in volto, quando le raccontò di Robert.
Aveva aspettato un po' a farlo, perché, prima di ogni altra cosa, voleva trovare il principio di quella matassa da sola. Ma sarebbe stato mostruoso non mettere Rebecca a parte della cosa.
- Viene al pub una sera a settimana, a caso, quando non c'è quasi più nessuno e quando è certo non ci sia tu, anche se non so come faccia a saperlo di preciso - disse Shannon, dopo che la prima registrazione della Gymnopedies n.1  di Satie tacque. Melissa era notevole, in effetti. Tutto quell'esercizio serviva, in fin dei conti.
Rebecca fissò il riproduttore multimediale con la freccetta che lampeggiava, come a chiedere di essere cliccata, ma lei la ignorò:
- Pasticche - osservò, con la voce ridotta a un brivido. Era una persona empatica, e questo le sarebbe bastato per conquistarsi l'affetto altrui. Ma non lo vedeva.
Shane annuì:
- Non so chi gliele dia, ma in realtà non importa molto. Il fatto è che dice un sacco di cose - proseguì. Rebecca si accigliò:
- Del tipo? -
- Del tipo: odio mio padre, la vita fa schifo, sono ricco e depresso - replicò Shannon, senza riuscire ad evitare una punta di cinismo. Becky se ne accorse e le scoccò una mezza occhiataccia:
- Non essere così cattiva con lui -
- Non sono cattiva, è la verità. Ha ogni mezzo per andarsene di casa, se non sopporta la sua famiglia, e gli amici idioti se li è scelti da solo. Deve piantarla di piangersi addosso e affrontare la realtà -
Rebecca si morse un labbro:
- Non per tutti è così facile - osservò. Shane scosse la testa:
- Non stiamo parlando di un orsetto del cuore, ma di Robert Stonehall. è venuto da me per un motivo, e intendo aiutarlo, se me lo lascerà fare -
Tralasciò di entrare nel dettaglio di quegli incontri allucinanti, durante i quali, metà delle volte, lui rideva e la sfotteva, l'altra metà piangeva e l'abbracciava. Lasciò perdere, perché implicava tutta una serie di emozioni complesse che Shannon, da vero muro di concretezza, riconosceva, ma non desiderava condividere con Becky. Era pur sempre il suo ex ragazzo.
- Non parla mai di me? - chiese Rebecca, con preoccupazione. Shannon scosse la testa, ma non aggiunse altro. In effetti, non la nominava mai, tranne una volta. Shannon gli aveva detto che lei e Sebastian ora stavano insieme, e lui aveva annuito, approvato:
- Doveva scegliere lui, fin dall'inizio. Becca non ci prende mai al primo colpo -
Dietro gli occhi da Cleopatra dell'amica, Shane vide un lampo di quel dispiacere, ma era vago, passeggero. Era un po' il suo bello: Rebecca non era mai uguale a sé stessa.

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Capitolo 20
*** Hymn for the Missing ***


20. Hymn for the missing

Erano attimi di precipitazione. Le cose stavano andando a posto naturalmente, facilmente. La storia della ninnananna del venerdì era probabilmente vera: un breaking point, una parola detta e che non poteva essere ritirata. Gome una goccia di pioggia che cade e sparisce nella terra. Così naturale, così semplice, così definitivo. Una sensazione che si può provare solo a diciotto anni, quando tutto è importante.
Il loro era uno strano modo di essere amici, ma Jerome non avrebbe dovuto stupirsi, dati i presupposti. Comunque, aveva ormai capito da un pezzo che una volta schiuso il guscio di Leroy, ne aveva la chiave. Si disse che ci sarebbe stato tempo dopo, una marea, un'infinità di tempo. Infranta la superficie, doveva inspirare e tuffarsi, rischiando di spezzarsi.
Nessuno dei loro pomeriggi scorreva uguale, ed erano quasi totalmente silenziosi. Le parole non erano il regno di quello strano ragazzo sbiadito nei colori quanto flamboyant nell'anima. Con timore, Jaime aveva guardato in quell'esplosione di complessità, studiandone un frammento alla volta. Si potevano distinguere alcuni sentieri, alcune isole, nell'interiorità di Roy, ma bisognava navigare con attenzione. Jaime, da parte sua, era stato trasparente e chiaro come carta. C'erano volute un paio di sessioni per sviscerare tutta la faccenda di Blaise, fin nei suoi più infami e meravigliosi recessi. In quel momento, Jerome aveva giocato il tutto per tutto, come quando cercava di fare scacco matto sacrificando anche tre o quattro pezzi. Di solito, perdeva. Quella volta no.
Leroy lo aveva ascoltato con l'aria di non sentire una parola, come al solito, poi si era voltato verso di lui, l'aveva fissato con quei suoi occhi incolori, un'ombra del tipico ghigno sulla bocca.
- Non è molto diverso da quanto è successo a me, in effetti - aveva ammesso, placido, calmo. E fiammeggiante. Così era cominciata la sua precipitazione.
Si chiamava Caleb, e anche se era difficile da credere, era la persona più dolce del mondo. Era difficile da credere perché era cresciuto in strada, nell'Isola dei Cani. Niente famiglia, andava e veniva dagli istituti, e di angelico o di satanico aveva ben poco. Come Roy a tredici anni, si fosse trovato in compagnia di quella risma, era poco importante. C'entrava un vago interesse per i graffiti, per i quali aveva scoperto presto di non avere alcun talento. Così aveva ripiegato sulla chitarra, e lui e Cal passavano le giornate ciondolando per la strada, a raccogliere spiccioli strimpellando Anarchy in Uk. Spiccioli che finivano in sigarette, e poi in cannabis e birra. Pure, mezzo ubriaco e mezzo fatto, Caleb diceva cose semplici e sensate: " Sei un amico, sei un fratello, non lasciarmi, ti amo. Ti amo. Ma non dirlo a nessuno, non voglio farmi chiamare checca ". E Roy, naturalmente, non l'aveva detto a nessuno. Anche in quel momento si tenne per sé i dettagli di quel primo, insolito, unico amore. Mentre parlava, le lacrime presero a scendere in automatico, senza che lui facesse nulla per trattenerle, fermarle o nasconderle. Era andata avanti poco, tutto sommato. Cal aveva iniziato a tirare, e Leroy ci sarebbe pure stato, se Melissa non l'avesse dissuaso a suon di urli, in una notte d'estate, caldissima e folle. Era questo il loro legaccio.
- Ma Melissa, di Caleb non ha mai saputo nulla - dichiarò Roy, stranamente solenne - Sa che stavo per fare una cazzata, che c'era qualcuno che mi stava spingendo a farla, ma non sa chi e perché. Non avrebbe capito, allora -
- E adesso? -
- Adesso è inutile che lo capisca. Caleb è morto. L'idiota è andato in overdose -
Un leggero silenzio sfilacciato seguì quelle parole. Jaime sentì nella sua testa le ultime note della ninnananna del venerdì. La notte iniziava, ed era luminosa e terribile come il giorno. Leroy aveva una vaghissima spolverata di lentiggini pallide sul naso. Non se n'era mai accorto. Non finché sentì le sue labbra posarsi a un angolo della sua bocca, quasi a chiedergli il permesso. Si concentrò su quelle lentiggini quasi invisibili, su ogni minima increspatura di quelle labbra gelide, su un soffio di respiro che colse di striscio. Era un esteta, doveva osservare tutti i dettagli. Lasciò scivolare con stupefazione le dita nei suoi capelli, sottili e chiari come ragnatele, scese con la mano lungo la linea del collo e poi quella del mento, e il suo modello restava immobile, la bocca premuta contro la sua, una mano affondata nelle pieghe della sua maglietta, a tenergli il cuore in sua balìa. La fretta avrebbe rovinato tutto, così scelsero la staticità e la lentezza. Mai come in quel momento si sarebbero conosciuti, vissuti. Andava centellinato ogni millimetro di pelle. Appena cominciato, divenne chiaro a entrambi che quel bacio avrebbe potuto prolungarsi per ore. Parve loro d' iniziare da capo a ogni contatto, a ogni respiro preso. E tutte le volte, in quelle solitudini infinitesimali, c'era una frase, una confessione senza parole. Jerome disse a Leroy cosa aveva fatto per potergli parlare la prima volta, quando si accorse che aveva un molare emerso per metà. Leroy gli confessò che gli avrebbe strappato i vestiti di dosso sin dal primo sguardo, e che l'aveva odiato per questo, mentre percorreva l'impercettibile contorno di una piccola cicatrice sul labbro inferiore.
Sembrarono ore, furono pochi minuti. Mentre tornavano a vedersi, Leroy disse, a voce stavolta:
- Anche questo è qualcosa che non c'è bisogno sappia nessuno, sai? -
Jerome fu d'accordo.
 

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Capitolo 21
*** Rondes printanières ***


21. Rondes printanières


Il sereno ritratto della signora di campagna in bianco la osservava impassibile come ogni volta. Mel pensò, come al solito, che potesse essere la copia di un Gainsborough, ma si aggiunse una strana intuizione, che forse era un vero Gainsborough. Non si sarebbe stupita, concordò con sé stessa. Quel pensiero futile era sgusciato dalla sua testa quasi di soppiatto, come a sfuggire ai temi isolati, febbrili e isterici che germogliavano dallo stereo. Lo stesso Nick, in piedi vicino alla finestra, sembrava un elemento estraneo e pericolosissimo. C'era qualcosa di velenoso, nella Sacre du Printemps. Melissa non distolse gli occhi dal quadro, ma capì di non riuscire a scappare da quell'ascolto ansiogeno, così assorbì ogni strillo del fagotto, ogni ruggito delle percussioni, mentre il suo cuore galoppava con le note.
Finì così di colpo, che per qualche secondo, la ragazza non se ne rese nemmeno conto. Quando il silenzio divenne concreto, si riscosse.
- Non posso credere che tu non l'abbia mai ascoltata - esordì Nick, spegnendo lo stereo, un quieto aggeggio nero con un occhio rosso. Melissa alzò lo sguardo, turbata, ma non certo dall'osservazione:
- Non ascolto quello che non suono. Mi distrae. Mrs. Darley detestava Stravinskij- spiegò, a scatti. Come se arrivasse da una parte del mondo sconosciuta, udì la risata sarcastica di Nick:
- Immagino non la ritenesse musica adatta a una donna - osservò, con una punta di disprezzo. Mel annuì, comprese quel disprezzo, e curiosamente, lo condivise. Forse la sua vecchia insegnante non ci capiva un tubo.
- La maggior parte della produzione di Stravinskij non è scandalosa come questo balletto - notò. Nick la guardò, con quell'espressione che a lei ricordava un lampo, e che le faceva temere il tuono che le sarebbe scoppiato fra le costole.
- Tu cosa ne pensi? - le chiese. Lei non ebbe esitazioni:
- è sessuale - commentò. Evitò accuratamente di dire " sensuale ", perché non era ciò che intendeva. - Risveglia una certa parte primigenia nel cervello. Non attiva i sensi, colpisce direttamente nell'istinto, e l'istinto più primordiale è quello sessuale - spiegò. Fece una pausa, poi riprese, sempre in tono vago, non presente:
- Immagino non ci sia niente di più erotico di una vergine che danza fino alla morte, per propiziare la primavera -
Il tuono era arrivato. Si portò una mano al petto, rabbrividendo. Nicholas sedette di fianco a lei, davanti alla tastiera del piano, poi le portò le dita sui tasti:
- Vuoi suonarla? - le propose. Melissa annuì. Pur non conoscendolo, e pur essendo pieno di imprevedibilità, la ragazza entrò subito in confidenza con lo spartito. Per ora era uno strimpellare, ma presto sarebbe riuscita a eseguirlo in modo appropriato. Da sola, almeno.
Quella musica era tachicardica, e lei non poteva ignorare le mani del suo insegnante che correvano insieme alle sue sulla tastiera. Non poteva dimenticare la sua presenza, che già era un tormento anche solo quando erano insieme in quella stanza. Avevano già suonato a quattro mani, ma su territori che lei poteva gestire, senza che quelle stupide paranoie interferissero. Una sonata di Schubert non l'avrebbe mai spinta in quella tempesta. Ma la Sacre era diversa, bruciava. E lei con essa.
Melissa era certa che se lui la stava guardando, non si sarebbe accorto di nulla. Era abituata professionalmente al suo sguardo, non era questo che poteva sconvolgerla. Era la sua vicinanza il problema, non solo fisica, ma anche emotiva. Per la prima volta, sentì il suo respiro trascinato nell'affanno dall'azione meccanica del suonare, e ascoltò il proprio, irregolare allo stesso modo. Non provò il terrore di un attacco asmatico imminente, perchè non era così. Se mai Nicholas l'avesse tenuta tra le braccia, durante l'amore, sarebbe stato quello che avrebbe provato.
Il flash di quella fugace fantasia la lancinò con una fitta di piacere, facendola sbagliare. La nota dissonante funzionò come un grido in un orecchio, e lei si fermò, di colpo. Non avrebbe voluto altro che alzarsi, riprendere il controllo, ma le sue gambe erano incollate alla panchetta. Poi Nick fece l'unica cosa che non avrebbe dovuto fare, voltandosi verso di lei.
Quando si era spinta verso di lui, quando l'aveva tirato a sé? Domande inutili a cui Melissa non riuscì a trovare risposta, gli occhi serrati e la bocca premuta sulla sua, nella disperata attesa che lui la respingesse.
Invece, nel bacio s'inserì la calma della maggiore esperienza, il cauto affondare delle dita del pianista in un altro tipo di tessuto, non sonoro, ma reale, i capelli di rame di quella ragazza che lo atterriva tanto quanto lo attraeva. Giovane, acerba e titanica nella sua sensibilità, era stata insieme tentazione e sfida. Idolatrava segretamente il suo talento, e invidiava la sua glaciale dedizione. Aveva sperato che quella mania potesse passargli, ma era come se lei lo avvinghiasse, senza averne alcuna intenzione, ogni giorno più stretto. Proprio come adesso si aggrappava alla sua camicia, avvolgendo istintivamente le gambe intorno ai suoi fianchi.


 

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Capitolo 22
*** Vapour Trail ***


22. Vapour Trail

Se si potesse collegare un periodo a una sensazione, forse i Midwinter's Nightmare avrebbero scelto l'umidità per quella primavera di preparazione agli esami. Cadeva in gocce di pioggia, ristagnava nella saliva di parole e baci, scivolava nel sudore e nel sangue che bagnavano la vita adulta, bruciava in lacrime nervose, ma ancora non tristi.
Una settimana dopo la fine della scuola, gli esami archiviati e le speranze che ciondolavano rannnicchiate nelle costole, Rebecca sedeva, calma come un Buddha, nel loro parco giochi. Ripiegava in mille origami un volantino che teneva tra le mani cariche di anelli, ripetendo meccanicamente la scena della pazzia.
Le piaceva Lady Macbeth: riusciva a vedersi, come Ellen Terry, con le trecce pesanti come corde lungo il corpo da colonna e la corona a fare da capitello a quel pilastro di ambizione. Quella possibilità era tutto, in effetti. Non voleva che qualcosa la turbasse, ma il rumore della vita intorno al palcoscenico copriva il cicalare della sua vanità, e la pioggia d'inizio estate cominciava a scendere come una spruzzata di rugiada.
Melissa aveva quasi abbandonato i suoi completi goth di pizzi e lacci, convertita a pullover e pantaloni a coste da quella venerazione folle e crudele. Becca vide chiaramente lo stile di Nicholas nell'aspetto dell'amica, ancora più bambola di ceramica in quegli abiti comuni.
Si lasciò crollare su un' altalena, sfinita da ore di esercitazione, poi disse, dal nulla:
- Vado via -
Rebecca se lo aspettava, ma non migliorò la sua reazione. Sentì il viso contrarsi, suo malgrado, e tossì:
- Come faremo senza di te? Non conosciamo nessuno che suona la tastiera così bene - disse, ma non riuscì a mettere intensità nella frase. Di tutti coloro che pensava potessero scapparle di mano, Mel era l'ultima, l'ultimissima.
- Lo sai che non continuerete - ribatté lei, spaventosamente piatta.
Certo che lo sapeva. Addormentati nella ninnananna del venerdì e svegliati al nuovo giorno, tutti loro stavano lasciando i pigiamini infantili per letti in cui dormire in compagnia. A volte, le cose succedono e basta.
- E dove andrai? - chiese Rebecca, ora tormentata da un persistente groppo in gola. Melissa scrollò le spalle:
- Dove vuole lui. Può insegnarmi, può elevarmi, non m'interessa altro - dichiarò, ben più apertamente di quanto entrambe si aspettassero. Strinse le labbra, consapevole.
- Non pensavo succedesse così in fretta. A volte non so che cosa fare - aggiunse, gli occhi azzurri colmi di lacrime.
Rispose all'abbraccio subitaneo con il consueto trasporto. Così fragile, così irremovibile.
Le due ragazze si videro per la prima volta dopo anni, oltre il limite della conoscenza pregressa: Rebecca non era mai apparsa tanto fulgida nella sua sicurezza.
- Farai il provino alla Royal? - chiese Melissa, notando il volantino spiegazzato. Becca annuì, poi sospirò:
- Anche Shannon andrà via. Ha intenzione di accompagnare Robert in una comunità da qualche parte al nord - annunciò.
Era tipico della sua mente razionale cercare di guarire qualcosa che amava.
Mel tremò impercettibilmente:
- Non voglio che resti da sola - disse, già pervasa dal senso di colpa.
- C'è Sebastian - replicò l'altra, con una semplicità commovente.
Uscirono dal parco tenendosi per mano, come quando da bambine tornavano a casa un po' più tardi: Mellie aveva paura dei lampioni che iniziavano ad accendersi del loro fioco lucore, ma se Becky la guidava, raccontandole una nuova storia, nemmeno il buio imminente poteva spaventarla.
Non c'era niente di sbagliato, non fosse per quello che Rebecca, da settimane, taceva.

La stanza di Jaime era un regno d'ordine. Roy ne era ancora sconcertato, risvegliandosi nel letto che, sempre più spesso, condividevano. La pulizia dell'arredamento gli ricordava costantemente un'educazione inconscia, ricevuta da una madre adorante e adorata, qualcosa di cui lui non aveva affatto idea.
Jaime lo migliorava, senza fare niente, e rendersene conto era stupendo, miracoloso. Scorse vagamente il proprio riflesso nella finestra scintilante, e si chiese, per la milionesima volta, cosa vedesse in lui. Un'emanazione di umanità pallida e rabbiosa. Non si voltò a guardare quello che era, e come suonava strano! il suo ragazzo, perché ogni dettaglio gli si stampava nella mente, nitido come un rancore, ma senza nessuno degli svantaggi che questo comportava.
La " s " filante della sua schiena suonava bene come " soffice ", non cattivo come " strazio ". I suoi liquidi occhi color bistro traboccavano orgoglio, non arroganza. Le labbra erano dipinte per baciare e sussurrare, non per sputare insulti.
Leroy, fermamente convinto che credere in qualsiasi entità ultraterrena fosse un inutile spreco di tempo, si era convinto di avere a che fare con qualcosa di inumano. Ingiusto e bellissimo, trascinante e ben piantato come un'ancora. Forse quello che più lo turbava, era il fatto di essere totalmente e irrazionalmente felice, ma non si scompose nel comprendere che l'eternità è nel respiro dell'amato che dorme, in perfetta pace.
Decise che era il momento di aprirsi con le altre sue ancore terrene, le ancore di cristallo.
Così volatili, così forti.

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Capitolo 23
*** We hit a wall ***


23. We hit a wall



Jerome non era mai stato un granché con i bambini, ma Sybil era diversa. Un' adulta in miniatura, e non era una metafora. La consapevolezza con cui quegli occhi, identici a quelli di suo fratello ma privi della loro implacabilità, lo studiavano, era altra cosa rispetto alla curiosità di un marmocchio.
Non sapeva come si era svolto il colloquio, ma lei non sembrava turbata, anzi. Era intenta a leggere il retro di copertina della sua copia de " La collina dei conigli ", ma di tanto in tanto alzava lo sguardo e lo fissava, schiettamente. Jaime tentava di sorriderle ogni volta che lei lo faceva, ma avrebbe potuto far parte del muro, per quanta attenzione Sybil gli prestasse. Guardava palesemente dentro di lui, e Dio solo sapeva come faceva.
- L'hai mai letto?- chiese la ragazzina, all'improvviso, indicando il libro.
Jaime scosse la testa:
- No. Per qualche motivo, l'idea di conigli che parlano e si uccidono fra di loro mi spaventava - rispose.
- Credevo fosse una storia per ragazzi un po' più grandi di te - aggiunse, schiarendosi la voce.
L'arco sottile e incolore delle sopracciglia di Sybil si incurvò in un'espressione compassionevole:
- Allora sì che ti fa paura - osservò, senza scherno. Non era caustica come Leroy, ma non faceva egualmente sconti a nessuno.
- Temo che sia vero - ammise Jaime.
- Anche quelle pappamolle delle mie compagne di classe fanno stupidi versetti, ogni volta che la maestra lo legge - riprese Sybil, dopo una pausa. Contrasse il visino in un atteggiamento schizzinoso:
- IIIH, UHHH - imitò. Roteò gli occhi e aggiunse:
- Cosa pensano, che gli animali veri si comportino come peluche? -
- Credo proprio di no - convenne Jaime, conciliante, ma lei gli inflisse un nuovo sguardo, tremendamente adulto:
- La vita è difficile - dichiarò, con la voce di qualcuno con dieci volte la sua età.
Jerome rimase a guardarla, senza sapere bene cosa replicare.
Fu di nuovo la bambina a rompere il silenzio:
- Ci sono cose che non capisco sempre - esordì - Non so perché le persone fanno una cosa invece di un'altra, e perché a volte se ne vanno, come il papà, o perché restano. Io so solo che certe volte uno è contento, altre è triste, e Roy era sempre triste- Lo fissò, ancora - Prima di diventare tuo amico -
Si alzò dallo sgabellino su cui era seduta e gli si parò davanti, con solennità:
- Lui mi ha detto che tu sei più di un suo amico, e per me questo basta. Sei qui e ci sarai anche domani. Se vuoi restare, a me va bene - annunciò.
Si strinsero la mano, il ragazzo e la bambina, legati da un patto che nessuno dei due capiva, ma di cui conoscevano i termini.


L'orario stampigliato sul biglietto diceva a chiare lettere che avevano solo dieci minuti per prendere il treno. Lei era già al binario, lui chissà dove.
Shannon scosse via dal viso un ciuffo di capelli sfuggito alla treccia, masticando ansia e timore, non incerta, ma gravata dal peso della sua decisione. Tenne lontano dalla mente l'ultima conversazione con la madre per chissà quanti mesi, sicura che avrebbe capito, col tempo.
Se però Robert non fosse stato ai patti, tutto sarebbe andato a monte, e lei avrebbe fatto la figura della scema, con in più i sentimenti in fondo al cesso. Ebbe uno spasimo involontario, rendendosi conto che cominciava a pensare come Stonehall. Tentando di ricostruire il susseguirsi degli eventi, non ci riusciva: sapeva solamente che, a un certo punto, aiutare quello stupido ragazzo era diventato un fatto cruciale.
E lui aveva chiesto il suo aiuto, alla fine, disperato e strozzato come sempre. Lei gli aveva fatto quella promessa, sciogliendosi i capelli e le chiusure del vestito.
Non l'avrebbe fatto per nessun altro, e per lui meno che per tutti gli altri, ma sentì che poteva fargli quell'estremo dono, che quello era l'attimo giusto. Poteva essere pietà, sollievo e un atto d'amore.
Si erano fidati e trovati. Ma se lui fosse mancato alla parola data, allora sarebbe stato tutto vano.
Sette minuti. La ragazza sospirò, ricacciando indietro le punture di lacrime che non potevano sfuggirle. Almeno loro potevano stare ancora ai suoi comandi, se tutto il resto non lo era più.
Cinque. Invece di cedere alla disperazione, Shannon creò attorno a sé l'abituale muro di concretezza. Un errore di valutazione. Certo, ne avrebbe sofferto, per un po', ma non avrebbe permesso a nessuno di condizionarle l'esistenza. Tutti sono utili, ma nessuno è indispensabile.
Tre. Shannon Desmond voltò le spalle al convoglio, con un solo movimento deciso, e mosse i primi passi verso casa.
Un grasso gruppo di turisti le oscurava la visuale, mentre la voce elettronica incitava i passeggeri a imboccare la loro strada.
- SHANE! -
Il grido fu come un primo, prepotente respiro. La ragazza si immobilizzò, con solo una punta d'incredulità.
Robert corse a rotta di collo verso di lei, poi l'abbracciò, come chi abbranca lo scoglio dopo il naufragio.
- Sc-scu- scusami - farfugliò, le parole rotte dal fiatone. Si sentì afferrare saldamente per la mano e condurre con fermezza verso i portelloni, lì lì per chiudersi.
- Potevi farci perdere il treno, Stonehall - lo rimproverò lei, seccamente, quando furono entrambi a bordo.
Robert non poté sostenere il suo broncio, più bello di qualsiasi sorriso. La baciò, poi si sostituì a lei nel condurla lungo i corridoi in movimento.
- Abituati, perché sarà sempre così, d'ora in poi - l'avvertì.
Shannon Desmond, nonostante tutto, rise.

Quel vestito era nuovo, un regalo di compleanno che lei non aveva mai messo, fino a quel momento. Le sue pieghe rosse svolazzavano leggere nella brezza serale, incrociandosi con i lembi scuri della giacca di Nicholas. Era una magnifica serata, di quelle che, a condizioni normali, Melissa avrebbe passato a guardare fuori dalla finestra.
Ma le condizioni non erano più normali, ammise. E questo, se Nicholas non fosse stato Nicholas, l'avrebbe riempita di terrore. Pure, era incredibilmente calma e curiosa. Non immaginava cosa Roy dovesse dirle di tanto urgente. Di certo, lei non stava più nella pelle di parlare con lui.
Nick aveva imparato quasi da subito che se lei si voleva aprire, lo faceva da sola, quindi non cercò né di stimolarla a parlare, né di distrarla. Entrambi traevano giovamento semplicemente dalla presenza l'uno dell'altra. Forse per questo sembrava tutto così miracolosamente semplice. Anche troppo, in effetti.
La figura allampanata di Roy apparve in fondo alla strada, accompagnata da un'altra altrettanto familiare, Jaime. Mel non se ne stupì più: aveva smesso di chiedersi perché quell'antipatia avesse cambiato volto così radicalmente.
Quando i due amici furono uno di fronte al'altra, per la prima volta in anni, si trovarono in imbarazzo: loro che erano stati come fratello e sorella, e forse di più, non seppero cosa dirsi. Era il punto che avevano immaginato e segretamente paventato. Il momento in cui le loro sfere si fossero separate e avrebbero cominciato a fluttuare da sole.
Nessuno dei due si aspettava che quella sensazione sarebbe stata così angosciante: in un attimo, Leroy desiderò sbrigarsi, per non dover stare lì a lungo. Era come essere due perfetti sconosciuti, ed era orribile.
Melissa si chiese perché fosse tanto importante dirgli che se ne andava. Considerò di lasciarlo lì, seduta stante, ma poi decise che era meglio fare quello che era giusto, ma in fretta.
L'indecisione e quell'estraneo timore, li spinsero a parlare nello stesso momento, sputando fuori quel sasso di terrore:
- Vado via - - Io e Jaime stiamo insieme -
Il silenzio che cadde fu così denso, che i quattro sentirono distintamente la brezza attraversare le sbarre cave del cancello  cui stavano poggiati.
La ragazza era sbiancata. Leroy, di contro, era livido:
- Cosa vorrebbe dire? - mormorò, facendo un passo in avanti, ma lei fece un secco gesto d'impazienza:
- Non ci credo - sussurrò, guardandolo orripilata - Non mi hai detto una cosa così importante? -
Lui avvampò:
- Tu, piuttosto, prendi e vai via col primo che capita! Perché non me ne hai parlato? - esclamò, incoerente per la rabbia e la confusione.
- Non osare, non osare rinfacciarmi questo! - gridò Melissa, le labbra tremanti - Come hai potuto nascondermelo? Cos'è, non ti fidavi di me? -
- Come potevo fidarmi di te, tu non capisci altro al di fuori di  te stessa!- sbraitò Leroy.
Lei ammutolì completamente, gli occhi spenti come se lui l'avesse pugnalata al cuore. L'altro, terrorizzato dalla prospettiva di quell'abbandono inaspettato, sciolse i suoi più cupi sentimenti:
- Tu e la tua fissazione per quel fottuto piano, Dio, per mesi non ci hai rivolto parola! Potevamo essere morti, per quanto ne sapevi! Stavi con me solo finché non hai trovato questo qui, troppo debole per farti una vita tua! Devi cominciare ad alzare la testa, Cristo, io sono qui, mi hai mai visto per un solo, fottutissimo istante?!-
In troppi vedevano Melissa come una creatura fragile. L'oscurità che aveva ostentato sugli abiti, si celava annidata profondamente nel suo cuore:
- Non hai mai capito un cazzo, Leroy. Non hai mai capito che avrei vissuto chilometri lontano da te, se fosse stato l'unico modo per farti essere felice. Una vita mia? è stata la tua, per anni! Cosa pensi che abbia guardato, se non te? Per cosa pensi che avrei voluto essere la migliore, se non per te? COSA CREDI CHE M'IMPORTI, A PARTE TE?- gridò, infine.
- E non mi hai detto niente, niente, anche se avevi visto che era arrivato il momento in cui non avevamo più bisogno l'uno dell'altro - aggiunse, ma lui la interruppe, crudelmente:
- Lo stesso hai fatto tu! Saresti scappata via, la sola a non sapere niente! -
Melissa s'immobilizzò ancora, incredula:
- Becca....lo sapeva? - mormorò.
- Certo che lo sapeva, idiota! - la rimbeccò lui, ma lei parve non sentirlo: dimentica di tutti, girò sui tacchi e cominciò a correre.

Rebecca, a distanza di anni, non ricordava nulla di cosa fosse successo prima: la porta della sala prove si aprì con violenza, e Mel entrò, stravolta.
- Lui mi ha detto tutto - balbettò. Lei capì al volo, ed ebbe paura, una cosa rara nella sua vita:
- Te l'avrei detto...- cominciò, ma l'altra la interruppe:
- Quando? Quanto foste stati tutti sicuri che io fossi lontana? Di che diamine avevate paura? -
Becca esitò:
- Ecco...senti, tu sei sempre così presa da te stessa, e così legata a lui. Io credevo non avresti capito - spiegò, allarmata dall'abbassarsi e alzarsi frenetico del petto dell'amica.
- Capito? Capito?! Dio, mi credete tutti così stupida, così debole? - protestò Melissa, la voce più fioca a ogni parola.
- No, no! - si affrettò a rimediare Becca - Ti devi calmare, ti prego. Pensavo...solo che non l'avresti sopportato. Volevo proteggerti -
- Tene...ndo...me...lo nas...nas...costo? Nessu...no di voi...magar...i....ha...pe...'sato...avess...i...dirit..to...di...sa...'erlo?-
Tirava il respiro sempre più stentatamente. Contrasse le dita sul petto, ma quando l'altra si avvicinò per aiutarla, la respinse:
- No...m'hai...men...ti...'o-
- Mel...- tentò ancora Rebecca, ma Melissa si alzò, raccogliendo le forze:
- Lu...qui...fuo...ri. Che...ripe...ta....davan'...a te - esalò, uscendo.
- Dove hai l'inalatore, ti ammazzerai così! - la supplicò Becca, ma non poté fare altro che seguirla in strada.
Roy l'aveva raggiunta, ma non si era accorto della gravità della situazione. Nella lite, si erano spinti in mezzo alla carreggiata, lei quasi piegata, lui furente, di spalle e quasi lontano.
Un raggio e una fiamma rossissima, nella sera calda.
Come aveva fatto a non rompersi, nell'impatto?

 

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Capitolo 24
*** What else is there? ***


24. What else is there?


Aveva provato ogni giorno a entrare, ma non ce la faceva. Arrivava di fronte alle doppie porte scorrevoli, poi tornava indietro.
Non poteva rimangiarsi quello che aveva detto, e non era del tutto sicuro di esserne pentito. Era stato meschino, ma dannatamente sincero. E ingiusto, d'accordo, probabilmente aveva esagerato. L'incidente era imprevisto, però. Una stupida convergenza di fatti inimmaginabili. Leroy si era sentito privo di ogni potere d'azione o di decisione. Quella non era la solita paranoia, ma qualcosa di concreto. Pensò come la vita non fosse altro che un susseguirsi di accadimenti, e che la morte non fosse che la fine di tutto. Si sentì quasi d'invidiare Melissa, ormai oltre la banalità della vita.
Una banalità straordinaria, comunque. Anche Jaime era banale, nella sua bellezza e nella sua semplicità, ma gli sarebbe dispiaciuto dirgli addio.
Leroy si accorse in quel preciso istante che l'istinto di sopravvivenza era ben più forte del nichilismo. Forse non ne valeva la pena, ma doveva sforzarsi per continuare a esistere.
Richiuse la scatola di sonniferi, che aveva aperto e contemplato per due ore, e la gettò via. Ebbe voglia di ridere: sarebbe stato così melodrammatico!
Il cellulare lampeggiava da ore: il messaggio che lesse lo fece ridere veramente. Non credeva in Dio, ma qualcuno doveva volergli bene, nelle alte sfere.

Jerome sentì un gran peso scivolargli via dallo stomaco, quando lo vide apparire in fondo alla corsia. Si guardarono per un istante, poi si abbracciarono.
- Dov'eri finito, è sveglia da stamattina - lo rimproverò, incapace di smettere di sorridere. Roy fece spallucce:
- Non importa. Come sta? - chiese, con calma.
- Non parlerà prima di qualche giorno, ma non ha riportato danni seri. Qualche mese e sarà come nuova - fu la risposta.
I due si voltarono verso la stanza, davanti al vetro, prendendosi per mano. Mel era circondata dalla famiglia, silenziosa e traboccante di felicità. Muoveva gli occhi e le mani, cercando quelle della madre e della sorella, poi si voltò verso il vetro. Non c'era nulla di confuso nello suo sguardo, mentre fissava l'amico d'infanzia e il suo ragazzo. Infine, sorrise. La sopravvivenza è forte, anche più del risentimento. Non smise più di sorridere, mentre gli amici arrivavano, e continuò a sorridere anche nei giorni seguenti, mentre il mondo tornava a riacquistare il suo sciocco, idiota, meraviglioso senso.
Pianse solo una volta,  quando la misero di nuovo davanti a una tastiera. Ll'incidente non le aveva tolto nulla, e per questo pianse, incatenando una nota dietro l'altra.
Bisogna dormire per svegliarsi.

Non riusciva ad abituarsi ai capelli corti, ma Viola aveva dato al taglio ospedaliero un aspetto decisamente migliore. I boccoli sarebbero ricresciuti, ma a Melissa non dispiaceva del tutto la frangia asimmetrica e il caschetto sotto le orecchie. Nick diceva che con il berretto di lana sembrava un koala con il pelo rosso, il che la rendeva adorabile, parole sue.
Sperò che si spicciasse, cominciava a fare freddo. Si strinse nel cappotto, mentre il pubblico arrivava alla spicciolata nel piccolo teatro di fortuna.
Sebastian spuntò per l'ennesima volta da dietro le quinte, e la guardò con ansia:
- Ancora nessuno? Becca comincia ad essere nervosa - annunciò. Mel roteò gli occhi:
- Stanno arrivando, non ti preoccupare - assicurò, divertita.
E quasi per magia, cinque minuti dopo, fecero la loro comparsa proprio Viola e Javesh, Mandy, Robert visibilmente rimesso in salute, Shannon e Jerome, che esordì scuotendo la testa:
- Non so dove sia finito - spiegò - Mi ha detto solo che andava a prendere qualcuno -
Era inutile aspettare Roy lì fuori. Gli mandarono un messaggio ed entrarono a cercare dei posti.

I primi dieci minuti di viaggio furono straordinariamente silenziosi. Non si vedevano spesso, Axel Bjornsthaldt e il figlio, e questo tendeva a creare un po' d'imbarazzo. L'uomo si concentrò dunque sull'autoradio, che passava una serie di canzoni rock piuttosto cupe, ma delicate, in un certo qual modo.
- Bell'album - osservò. Leroy fece un ghigno che poteva essere una smorfia di timido orgoglio:
- L'abbiamo inciso noi, ma non abbiamo venduto un tubo. Davvero ti piace?- chiese, fissando attentamente la strada.
- Oh, sì. Peccato che non abbiate sfondato - rispose suo padre, comprensivo.
Roy si strinse nelle spalle:
- Era più una scusa per divertirsi insieme. Il genio musicale è Melissa, l'hanno presa in un qualche conservatorio in Germania, uno importante - raccontò.
Axel annuì:
- Ah, la ragazzina rossa con cui giocavi da piccolo. Sta bene ora? -
- Tutto a posto. Ha un fidanzato, molto più grande, ma è una brava persona - rispose Roy.
- Bene, bene. Avrei giurato sarebbe diventata la tua di ragazza, però - confessò il padre.
Leroy rise:
- Eravamo troppo simili - disse, ma non entrò in dettagli.
Passarono un altro paio di minuti coperti solo dalla musica, poi Axel si schiarì la voce:
- Dunque, come sei messo? Se non sbaglio, volevi dirmi qualcosa - iniziò, esitante. Gli faceva piacere vedere il figlio così aperto alle confidenze, ma se non ricordava male, Leroy non sprecava mai le parole.
Lo vide stringere le labbra, sicuramente decidendo come porre il discorso:
- Beh, ecco, sto con una persona - esordì. Suo padre si rilassò:
- Bene, no? Come si chiama? - domandò, sperando di non sembrave invasivo.
- Jaime - fu la risposta.
- Sta per Jemima? -
- Eh...no. Sta per Jerome -
La canzone che stava passando in quel momento aveva una parte soffusa, che esplodeva all'improvviso in un riff di chitarra estremamente aggressivo. Padre e figlio sobbalzarono, poi risero insieme.
- Cielo, Roy, pensavo stessi per dirmi che sei un terrorista. è solo questo? - dichiarò Axel.
- Non ti dispiace? Che sia un ragazzo, intendo? - chiese Roy, incredulo.
- Diamine, no. Neppure il tuo vecchio padre può dirti a chi voler bene - ribatté, piuttosto commosso.
- Grazie, papà - replicò Leroy, seriamente.
Continuarono ad ascoltare il cd, in un silenzio estremamente rilassato. Arrivarono in teatro giusto in tempo, e s'inserirono nelle prime file. Ci sarebbero stati giorni per l'imbarazzo, la conoscenza e tutto il resto. Ora era il momento dell'ambizione, del dramma scozzese.
Rebecca uscì sul palco, e per una volta ignorò la quarta parete: fissò gli amici, e i suoi occhi da Cleopatra si accesero, incontrando quelli di Mel, vivi, teneri, azzurri e pieni di orgoglio, poi quelli di Sebastian, così colmi di amore, e quelli di Jaime, scuri abissi di gioia, e quelli degli altri, così luminosi, così reali.
La ninnananna del Venerdì era stata cantata, la notte era trascorsa, ed era l'ora di contemplare l'alba.
Così banale, così bella.








FINE







 

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