Chiamate

di mairileni
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chiamate ***
Capitolo 2: *** Chi amate ***
Capitolo 3: *** Chi ama te ***
Capitolo 4: *** Arsi ***
Capitolo 5: *** Alzarsi ***
Capitolo 6: *** Scalzarsi ***
Capitolo 7: *** Sì ***
Capitolo 8: *** Dirsi ***
Capitolo 9: *** Tradirsi ***
Capitolo 10: *** Scoperte ***
Capitolo 11: *** Coperte ***
Capitolo 12: *** Per te ***



Capitolo 1
*** Chiamate ***


Ciao, EFP! (*v*)/ 
 
Dunque, storia numerooo... dieci? Mi sembra sia la decima, sì. Prima storia a due cifre, insomma — sssì! 
 
Punto uno: non so bene da dove sia nata, da cosa anche, fatto sta che scriverla è... non saprei, un trip? Io ADORO scrivere questa storia. 
Tenete conto del fatto che si tratta di puro psicodramma, e che in molte parti — se non in tutte — sarà poco realistica, o noiosa, o melodrammatica, o magari tutte queste cose insieme. È probabile, perché l'ho scritta, e tuttora la sto scrivendo, solo nei momenti in cui le mie emozioni, di qualunque natura esse siano, raggiungono il parossismo (sì, no, ma lo so che non è normale, eh, tranquille). Quindi, mi scuso già da subito se leggerla sarà una tragedia.
Però scriverla è talmente inebriante che... sono molto affezionata a Chiamate, sì.
 
Punto due: la storia si sviluppa attraverso il continuo — possiamo dire anche estenuante? Sì, possiamo dirlo — alternarsi di accadimenti nel presente, flashback, lettere, chiamate e così via. Ergo, se vi perdete non è solo normale, è proprio logico, anche se l'intento non è quello. Se aveste dubbi sull'ordine cronologico dei fatti, comunque, chiedete pure che io sono sempre qui ^_^
 
Punto tre: quasi ogni data è modificata ai fini della storia, quindi perdonatemi se il piccolo Cody non ha quell'età, o i problemi con la droga di Brian sono finiti molto prima del periodo in cui la storia è ambientata, eccetera.
 
Mille e mille grazie a: Alessia, la mia migliore amica, che ha letto capitoli su capitoli e bozze su bozze per farmi contenta, mi ha consigliata in tante cose e mi sopporta sempre. Nainai, a cui ho fatto un numero di domande ver-go-gno-so, ma lei mi ha sempre risposto perché ha la pazienza di Giobbe.

DISCLAIMER: non mi appartengono i Muse, non mi appartengono i Placebo, tutto ciò che scrivo è frutto della mia mente e nessuno mi paga per farlo.
 
Ho detto tutto! 
 
Vi lascio e spero davvero davvero davvero che vi piaccia, ci ho messo il cuore! Se poi avete tempo e voglia, magari, fatemi sapere il vostro parere! 
 
Buona lettura! 
 
 
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PRIMA PARTE






*







CHIAMATE
 
 
 
«Pronto? Ehm... Anna? Sì, sono io, Brian. Ritardo di qualche minuto, è un problema per te? D'accordo... D'accordo. Grazie e scusa. Ciao... d'accordo. Ciao.»
 
 
 
 
 
 
1
 
 
 
Lo studio di Anna Beckett era stato ricavato dalla stanza che inizialmente doveva diventare la cameretta di Edward Price, suo figlio. Le pareti sarebbero state ridipinte di azzurro pastello, il lettino sarebbe stato nell'angolo; sotto alla finestra, chi fosse entrato avrebbe trovato una piccola scrivania in betulla sommersa di matite, quaderni, fogli in disordine, magari anche qualche disegno in cui i fiori sarebbero stati più alti delle case. Ma con Alan Price le cose non erano andate secondo i piani, e all'età di quarantun anni e quattro mesi circa Anna si era ritrovata a esercitare la propria professione di psicologa in quella stessa stanza, mille e cento sterline al mese sul suo conto e un divorzio alle spalle. Alcuni avrebbero detto che la mancanza di figli l'aveva indurita, ma in tal caso lei avrebbe girato la testa. Era specializzata, nel girare la testa. 
    La sua casa era tanto ordinata da far venire l'angoscia — un po' come la casa di Brian, ecco, ma forse anche di più. 
    Brian si presentò all'orario stabilito poco prima al telefono, e lei gli versò del caffè nero in una tazza grande. Brian apprezzava.
    Sorseggiarono il caffè parlando del più e del meno. Anna disse che si era comprata una casetta nel Somerset e che aveva intenzione di recarvisi la successiva estate, o magari anche prima, se ne avesse avuto modo. Brian le parlò del lavoro con le registrazioni e stette bene attento, come al solito, a tenersi lontano dall'argomento Matrimonio e Figli.
    Dopo dieci minuti trascorsi a parlare di aria fritta, Brian si ritrovò semisdraiato sulla chaise longue dello studio a raccontarle un altro pezzo della sua vita.
    Anna si limitava ad annuire, fare domande e segnare qualcosa sul suo taccuino. Brian la vedeva con la coda dell'occhio e dentro di sé si chiedeva che cosa avesse tanto da prender nota di tutto ciò che diceva. È una strizzacervelli, concluse infine, prendere nota è il suo lavoro, è questo che fa.
 
    «Brian», chiamò ad un tratto lei.
    «Mh?»
    «In mezz'ora che siamo qui non mi hai ancora nominato il tuo uomo. Normalmente lo nomini, ma è già la seconda volta che, se non te lo ricordo io, tu nemmeno lo menzioni.»
    «Non c'è molto da dire.»
    «Davvero?»
    «Non stiamo più insieme, Anna.»
    «Questo lo so.»
 
Lei si picchiettò il tappo della penna sulle labbra accuratamente disegnate dalla matita.
 
    «Nulla da dire. Sul serio», insistette Brian.
    «E anche quando ne parlavi», proseguì lei ignorandolo bellamente, «ne parlavi poco. Non mi hai mai detto che tipo è.»
    «Non esiste definizione adatta.»
    Lei sorrise. «Ed è una cosa buona?»
    «No.»
    «Immaginavo», rispose Anna, e scrisse qualcos'altro sul blocco.
 
Restarono per qualche attimo in silenzio, mentre Anna rileggeva gli appunti presi.
 
    «Che cosa ti piace di lui?», gli chiese dunque con calma.
 
Lo colse alla sprovvista, e il verbo al presente non passò inosservato. L'aveva notato benissimo. Il lasso di tempo tra quella domanda e una sua eventuale risposta era già diventato di lunghezza ridicola, così non provò nemmeno a mentire.
 
    «Non lo so. So che ci stavo bene», ammise, ed era vero.
    «Se non lo sai è perché non ci pensi, Brian, ti costringi a non pensarci. E sinceramente non ne ho ancora capito appieno il motivo.»
    «Il motivo si chiama Cody, Anna.»
    «Tuo figlio non è mai stato un freno, per te, Brian. Cody ha sempre vissuto più che bene finché tu e Stefan avete avuto una relazione, e anzi, non era forse lui a dire che era ora che “papà si trovasse un fidanzato”?» Non ottenne risposta, e questo la spinse a continuare. «È un bambino intelligente, Brian, non è lui, il problema.»
    «... penso tu abbia ragione.»
 
Passò qualche altro secondo di silenzio, parlò Anna.
 
    «Brian, se non vuoi dirmi com'è finita tra voi, vuoi almeno raccontarmi com'è che vi siete conosciuti?»
 
Brian esitò, ma poi annuì. Sì, voleva. 
 
    «È stato il 24 del settembre scorso», cominciò, «non so perché non te l'ho mai raccontato. Forse perché mi vergogno ancora di come mi sono comportato quel giorno — una tredicenne innamorata, ecco cosa sembravo. Però non ero ancora innamorato, di Matthew. Ammesso che lo sia mai stato. E va bene, sì, da un certo momento in poi lo sono stato. Ma quello è stato dopo. Quel 24 settembre ero da solo. Era appena iniziata la pausa dal tour, così sono andato al Century, sai, la tavola calda. Non ce l’hai presente?»
 
Anna scosse la testa.
 
    «È un posto molto piccolo, appartato, ma è sempre stato... il mio posto, fin dall’università, anche perché conosco bene il proprietario e buona parte delle persone che ci lavorano. Be', dicevo, sono lì e Stephanie, una delle cameriere, si avvicina e mi chiede se voglio...
 
 
 
 
 
 
2
 
 
 
... ordinare?», chiese Stephanie Craig a Brian, dall'alto del suo metro e cinquantatré. 
 
Brian le elencò ciò che intendeva mangiare, lei prese nota. Quando lui stava ancora dicendole quale carne voleva, lei già stava scribacchiando sul bloc notes il contorno — non che fosse un'indovina, solo Brian prendeva sempre le stesse cose.
 
«... E da bere acqua, grazie», concluse Brian.
 
Lei ricambiò il sorriso stanco di lui con trentadue denti di sincera cordialità e sparì in cucina.
    Era un 24 settembre freddo. Uno di quei giorni che a guardarli da una finestra sarebbero sembrati primaverili, ma il sole stava lì giusto per far presenza, era il vento a comandare. Dentro al Century si stava al caldo.
    La porta a vetri fu spinta da una figura incappucciata come un boia, e Brian sollevò istintivamente lo sguardo verso il suono del campanello che la porta aveva colpito. Il nuovo cliente si liberò del cappuccio con una mano.
    Era... oh, Gesù, era Matthew Bellamy, non c’era dubbio.
    E lui che ci fa qui?
    A Brian venne una gran voglia di nascondersi dietro a un giornale, ma purtroppo non aveva nessun giornale. 
    Incassò la testa nelle spalle e finse di fare qualcosa con il cellulare.
    Gesù, fa' che non mi veda, fa' che non mi veda, fa' che non mi veda...
   
    «Brian!»
 
Grazie del tuo tempo, Gesù.
A Brian bastò uno sguardo per identificare e catalogare i vestiti che Matt indossava. Tre neri diversi addosso — non sono nemmeno in gradazione! — e il marrone scamosciato delle scarpe. Bene. A Brian vennero in mente tre opzioni sul da farsi: salutare cordialmente e tornare al proprio pranzo, fingere di non essere “questo Brian di cui lei sta parlando”, o rompere il bicchiere e tagliarsi la gola con un coccio.
    Scelse la quarta opzione.
 
    «Cosa vuoi, Bellamy?»
 
Matt sembrò non percepire il tono seccato con cui gli era stata rivolta la domanda, perché tutto ciò che fece fu tirare un gran sorriso e sedersi di fronte a Brian. Il sorriso di Brian fu più gelido e terrorizzato.
 
    «Che cosa stai facendo, Bellamy?»
    «Come stai, Brian?»
    «Prima stavo meglio. Ripeto: cosa stai facendo, Bellamy?»
 
Questi rise — no, dico, come se ci fosse qualcosa da ridere! — e rilassò la schiena contro la seggiola.
 
    «Mi fai morire!»
    «Magari. Bellamy, ti dispiacerebbe alzarti da qui e andartene? Dal locale, intendo. Anche dal paese, se ti è possibile.»
    «Oh, e dai, Brian, facciamo pace!»
 
 
 
 
 
 
3
 
 
 
    «Scusami se ti interrompo, Brian, ma posso sapere perché provavi questo grande odio, per lui?»
 
 Brian sbuffò un sorrisetto irritato.
 
    «Era nato tutto da un litigio di due anni fa, a una festa organizzata da... ah, non me lo ricordo. La festa era in questa villa gigantesca vicino a Rye, veramente un bel posto. Insomma, a un certo punto me lo ritrovo davanti, e cominciamo a scambiarci frasi di circostanza. E poi non lo so. Collegandosi non so come al discorso precedente, inizia a dirmi che la musica dei Placebo fa schifo, che le canzoni sembrano suonate da un gruppo di ragazzini ubriachi, che abbiamo poco successo, e che quel poco successo che abbiamo lo dobbiamo solo alla mia... stravaganza.»
    
Brian avrebbe gradito un commento solidale, ma Anna si limitò ad annuire e a scrivere qualcosa sul taccuino.
    
    «Chiaramente mi sono infuriato. Non ci eravamo nemmeno mai parlati e quella era la prima cosa che riusciva a dire? Sai quanti anni ha meno di me, quel...? Otto. E si permetteva di insegnarmi il mio mestiere.»
    «Ma non sarà stato ubriaco?»
    «Poteva anche essere ubriaco, ma questo non gli avrebbe dato comunque il diritto di parlare così.»
    «E a quella festa non è successo nient'altro?»
    «...»
    «Brian?»
    «... no. Nient'altro.»
 
Anna notò l'esitazione ma non indagò, sapeva che sarebbe stato inutile.
 
    «Mh. E... non si è mai scusato per l'accaduto?»
    «Ci ha provato, a una festa successiva.»
    «E tu, a quel punto, che hai fatto?»
    «Ho aspettato che completasse il suo discorso e poi me ne sono andato.»
    «... d'accordo. Va' pure avanti con quello che stavi dicendo, Brian.»
    «... mh, dicevo, a quel punto, io gli dico...»
 
 
 
 
 
 
4
 
 
 
    «... pace fatta, ma ora, per cortesia, mi permetterai di concludere il mio pranzo in santa pace?»
 
Non si sentì rispondere, davanti a sé solo la vista di un Matt che sfogliava allegramente il menù del bar.
 
    «Bellamy.»
    «Tu cos'hai preso?»
 
Dio, se era irritante. 
    Brian fece per versarsi un altro po' d'acqua in attesa della sua ordinazione e trovò la bottiglia vuota. La appoggiò nuovamente sul tavolo, sospirò. 
 
    «Bellamy.»
    «Tu che conosci il posto, com'è questo... orechièteh ala — ma che cazzo di lingua è? — mat-matricciàna
    «È italiano, Bellamy, italiano. Ora vattene.»
    «Ma è un tipo di pasta?»
    «Bellamy vattene, adesso.»
 
Matt posò finalmente il menù, un sorrisino irritante incollato sulla faccia.
 
    «Un posto più appartato sarebbe stato più carino, non trovi?» azzardò.
 
Brian sospirò ancora, si chiuse la base del naso tra pollice e indice, serrò gli occhi per un momento. Pazienza, pazienza, pazienza, abbi pazienza con gli sciocchi, Brian.
 
    «Bellamy, mi hai rotto il cazzo», notificò, con un'eleganza che non si addiceva a una frase del genere. «Cosa fai, cerchi di pigliarmi per il culo?»
    «No!»
    «Non sembra. Perché sei qui?»
 
Matt sembrò non capire la domanda. Brian la ripeté in modo identico e Matt sembrò capire un po' di più.
 
    «Voglio uscire con te.»
    «Oh, Gesù santissimo», sfiatò Brian con una teatrale espressione di raccapriccio. «E, di grazia, cosa ti fa pensare che io abbia voglia di uscire con... ma anche solo di parlare con te?»
 
Matt sorrise ancora a quel modo, Brian si annotò da qualche parte del cervello che se l'avesse fatto un'altra volta l'avrebbe picchiato sul serio, e al diavolo la classe firmata Molko. Aveva quell'aria sfacciata che hanno le persone che sanno di aver vinto e ci tengono a ostentare la cosa. Aveva la faccia di chi sa.
    Tu non sai proprio niente, Bellamy.
 
    «Bene, direi che ho sentito abbastanza, per oggi», sfiatò Brian asciutto, dopo l'ennesimo, lunghissimo, sospiro. 
    «Ehi, Brian, te ne vai di già? Ma sono appena arrivato!»
    «Appunto. Addio.» 
 
Si infilò la giacca con un gesto fluido ed elegante, lasciò due banconote e qualche moneta nel piattino della cassa abbandonata per pagare comunque l'ordinazione e infine fece dietrofront per infilare la porta d'ingresso del pub.
 
«Oh, Brian, dai!», si sentì gridare dietro con aria delusa.
 
Imboccò la strada che lo avrebbe portato al Tesco più vicino della zona, almeno per prendersi qualche robaccia in scatola e riempire il buco senza fondo che si era impossessato del suo stomaco. Si alzò un po' di vento e rabbrividì. Ripensò a quel Bellamy, si chiese se davvero quell'omuncolo da strapazzo pensava di avere qualche chance con uno come lui. Si rimproverò da solo per la sua stessa arroganza e a tale rimprovero si giustificò dicendosi che abbordare così una persona non aveva scusanti. Poi pensò che era stupido simulare un processo nella sua testa, tanto più se in esso interpretava sia l'accusa che la difesa, e cancellò il tutto dalla mente. Si incassò nelle spalle e velocizzò il passo.
 
    «Brian! Brian, aspetta!» 
 
No, no. Non è possibile.
    Era sicuro di non aver sbagliato, nel riconoscere quella voce. Si calcò il cappello in testa e si mise quasi a correre, gli occhi che saettavano da una parte all'altra della strada alla ricerca di una qualsiasi fonte di salvezza. Qualsiasi cosa sarebbe andata bene: un taxi, un autobus, un risciò, un cavallo, un triciclo. O una stazione di polizia, magari. 
    Niente, il deserto di Gobi.
    Cercò di accelerare ancora di più, ma sapeva che prima o poi sarebbe stato raggiunto da quel nano malefico (nano malefico che aveva pure la sfacciataggine di superarlo in altezza di almeno tre o quattro centimetri, oltretutto! Ecco, questa sì che era un'aggravante che avrebbe messo in crisi l'accusa!).
    Una mano si posò sulla sua spalla e prima ancora di potersene accorgere si voltò di scatto e tagliò l'aria con un manrovescio alla cieca che terminò con un sonoro “ciaff” sul viso di Matt.
Il gelo di quell’attimo immobilizzò la faccia del povero Bellamy in un'espressione sorpresa e indignata assieme, quella di Brian in un'espressione fredda che lasciava trasparire un velo di preoccupazione. Forse. No. Magari un pochino.
 
    «B-Brian! Ma sei impazzito?! Mi hai fatto malissimo!», strillò Matt.
    «... s-smettila di seguirmi, Bellamy. È l'ultimo avvertimento.»
 
Brian si era accorto della sua stessa esitazione nel rispondergli, si diede fastidio da solo; quello schiaffo aveva, per una manciata di secondi, reso Matt quasi meno irritante — forse per il sincero sbalordimento che gli si era dipinto sul volto, o forse perché, tutto sommato, non aveva (ancora) fatto nulla che gli facesse meritare di essere picchiato. Be', sì, lo aveva fatto sembrare meno detestabile, ecco.
    Forse, se lo prendessi a ceffoni tutto il tempo...
    Matthew si massaggiò la guancia e gli porse  qualcosa di piccolo e luccicante che teneva tra due dita: una chiave.
 
    «Ti è caduta dalla giacca.» notificò piatto.
 
    Brian annuì meccanicamente e prese la chiave dalla mano stando molto attento a non sfiorargli la pelle. 
    Mantenere le distanze, grazie.
    Matt sorrise compiaciuto, Brian valutò seriamente l'idea di dargli un altro schiaffo, idea che accantonò per non tirare troppo in lungo le cose; girò sui tacchi e fece un passo, si sentì tirare dalla giacca e fu costretto a voltarsi ancora.
 
    «Cosa vuoi?!» sbottò, «Cosa vuoi, ancora?»
    Matt sorrideva: «Non mi ringrazi?»
    «Grazie di avermi seguito come un maniaco, Bellamy, te ne sono sinceramente grato! Posso andare adesso?» 
    Matt rise, e la sua mano non aveva ancora lasciato la giacca. 
    «A cosa serve quella chiave?», chiese curioso.
    «Non sono affari tuoi.» 
    «Ti ho forse riportato la chiave che ti serve per entrare in casa, Brian?»
    «Affatto. E ora ciao.»
 
Gli vennero quasi le lacrime agli occhi dall'esasperazione, quando si fu accorto, dalla mancata leggiadria dei suoi passi, che lo stava ancora seguendo. Si voltò e se lo trovò ancora, odiosamente, eternamente davanti.
    «Bellamy, cosa devo fare per mandarti via?! Ti prego, dimmelo e facciamola finita!»
    «Un'uscita con te.»
    «Tu sei completamente pazzo, Bellamy! Da legare!»
    «Ascolta, mi dispiace per quello che è successo alla festa, ok? Non le pensavo, quelle cos... be', il realtà un po' sì. Ma...»
    «Ah, pure
    «... voglio davvero conoscerti!»
    «Io no!»
    «Ma perché no?»
    «Se è un tentativo di farti perdonare, Bellamy», e qui Brian mimò le virgolette con le dita, «sappi che non funziona. L'unico modo per farti perdonare, al momento, sarebbe che tu te ne andassi!»
    «Non ti sto chiedendo di venire a letto con me, Brian...»
    «E ci mancherebbe!»
    «... voglio solo conoscerti.»
    «Perché?» chiese stridulo Brian.
    «Perché mi interessi.»
    «A me tu no, invece.»
    «Ehi, un po' di delicatezza!» 
 
Matt si finse tremendamente indignato per uno o due secondi, ma non era mai stato un buon attore, e Brian gli rivolse solo un realmente annoiato sguardo di sufficienza.
 
    «Abbiamo finito?»
    «No! Voglio che andiamo fuori insieme, o non ti darò pace, Brian.»
    «Siamo fuori, siamo insieme: hai avuto la tua uscita. Adesso vattene. E poi da quando hai questo interesse per il tuo stesso sesso?»
    «È... da quella festa.»
    «Oh, Gesù.»
    «E andiamo, cosa ti costa un'uscita con me?»
    «Mah, sai, per ora mi è costata un pranzo!»
 
Lo sguardo di Bellamy si illuminò e le labbra gli si schiusero in un sorriso.
 
    «Ti porto a pranzo!»
    
Brian pronunciò qualcosa a fior di labbra che Matt non capì, nonostante supponesse che forse era proprio meglio non capirlo.
 
    «Ascoltami bene, Bellamy. Io non so se tu mi vuoi prendere per il culo o cosa, ma si dà il caso...»
    «Non ti sto prendendo per il culo, Brian.»
    «... ma si dà il caso! Che io non abbia tempo, voglia, energia per sostenerti.»
    «Brian, un pranzo. Ti prego. Un pranzo. Non c'entra nulla quello che è successo a quella dannata festa, il mio interesse è sincero, perché non vuoi credermi?»
    
Brian sospirò. Doveva? No. Poteva? Sì. Voleva? ... ni. Considerò l'ipotesi che se a dirgli quelle cose, alla festa, ci fosse stato un altro, avrebbe reagito diversamente.
    Avresti fatto lo stesso, se a offenderti fosse stato Michael Corner?, si chiese. No, si rispose. Assolutamente no.
 
    «Brian?»
    «...»
    «Conosco un posto, è qui vicino. Non sarà la tua tavola calda, ma è accogliente, e si mangia bene. Parliamo solo per un po', e poi ti accompagno a casa, e poi me ne vado.»
    «So dov'è casa mia.»
    Matt lo ignorò. «Ti va? Hai fame?»
    Un sospiro, di Brian. «Dov'è questo posto?»
    Matt sorrise. «A cinque minuti da qui.»
 
Era un locale che avrebbe avuto bisogno di una bella ristrutturazione, di quelle estreme che fanno vedere nei programmi spazzatura. L'interno era ben arredato, ma un po' vecchiotto. Era un posto tranquillo, e a Brian la cosa piacque — o almeno, non gli dispiacque troppo. Matt parlò con la proprietaria, mentre dietro di lui Brian le preparava la scheda mentale — bella la camicia, belle le scarpe, brutta la gonna, di sicuro lesbica, sui trentacinque, credo, ma ne dimostra meno. Le mani sono in disordine.
    Si sedettero e Matt non permise che calasse il gelo tra loro: cominciò a parlare a raffica di ciò che pensava avrebbe mangiato.
  
    «... e della carne, o magari il porridge, ti piace il porridge, Brian?, qui è fantastico, oppure anche le patate al cartoccio, altrimenti...»
    «Bellamy.»
    «... che stanno bene con una salsa che fanno qui, che...»
    «Bellamy.»
    Matthew bloccò la propria logorrea come un bambino appena sgridato dalla madre.
    «Sì?»
    «Taci.»
    «Sì.»
 
Si fecero portare dei menù, Matthew ordinò del vino e glielo offrì, Brian rifiutò con la mano e ordinò dell'acqua.
 
    «Cosa prendi, Brian?»
    «... tu?»
    «Numero ottantatré.»
    Brian cercò la portata tenendo il segno con un dito. «Questo? È buono?»
    «Sì. Sì, molto. Puoi ordinarlo senza le carote a parte, visto che non ti piacciono.»
    «Sì, farò così.»
 
Matthew era infantilmente contento che prendessero lo stesso piatto, ma non lo disse ad alta voce per sottrarsi al sarcasmo di Brian.
  
    «Scusa un secondo: com'è che sai che non mi piacciono le carote, Bellamy?»
    «Eh? Oh, ehm... supponevo.»
    «Bellamy.»
    «...»
    «...»
    «Potrei aver cercato informazioni su di te.»
    
Matt si sarebbe aspettato che Brian si scandalizzasse, o che gli desse un altro ceffone, o che se ne andasse dalla porta con l'aria da diva e il vento nei capelli. Però ciò che sentì lo sorprese. 
    Una risata. 
    Rideva? Brian rideva? Oh, sì, non c’era dubbio, rideva, e rideva con talmente tanto trasporto che dopo pochi secondi Matt si unì a lui, senza sapere bene perché. Sembravano due pazzi, erano due pazzi, e quando Brian smise di sganasciarsi aveva la voce più acuta e affaticata.
 
    «Povero me, con chi sono finito», disse, ma lo disse con sincero divertimento.
    Matt ridacchiò ancora. «Lo trovi inquietante?»
    «No, non lo trovo inquietante...»
    «Oh, lo trovi carin...»
     «... lo trovo folle, Bellamy. Tu sei folle!»
 
Matt ci restò un po’ male, ma non lo diede a vedere, e Brian non se ne accorse.
 
    «Dimmi Bellamy», continuò Brian, senza riuscire a contenere le proprie risatine, «cos'è, ti sei preso una... specie di cotta per me?»
    Vide Matt farsi assorto, come a pensarci seriamente, finché non si sentì rispondere: «Sì. Penso di sì, Brian.»
 
E Brian rise ancora, e Matt con lui. Mentre ridevano sembravano due esauriti, quando smisero di ridere e si guardarono sembrarono due amici di vecchia data. Non lasciarono cadere il discorso. Matt si sentiva ridicolo e scoperto, ma in un modo quasi piacevole, e Brian avrebbe ammesso solo dopo (e solo con se stesso) di essersi sentito vagamente lusingato, per quell'affermazione.
 
    «Ti imbarazza?», chiese Matt.
    «No, Bellamy, mi dispera.»
    Matt tentò la battuta maliziosa... «Se passassi cinque minuti a letto con me non saresti più tanto disperato»
    ... e Brian stroncò la battuta maliziosa. «L’ho già fatto, e a cinque minuti non ci arrivi, Bellamy.»
    
Matthew aprì la bocca, deformata da un piccolo sorriso, ma la richiuse.
    Maledetto Molko.
 
    «A proposito di questo, Bellamy. Io non so se l'hai capito, ma ciò che c'è stato a quella festa non ci sarà più. Mai più.»
    «Parli del sesso?»
    «No, dei salatini, Bellamy! Certo che parlo del sesso!»
    Matthew in un primo momento non rispose, e si limitò a sorridere. Poco dopo disse: «L'hai detto a qualcuno?»
    «No, Bellamy. Mi vanto più volentieri di altre cose.»
 
    Un cameriere in camicia quadrettata servì loro ciò che avevano ordinato.
 
 
 
 
 
 
5
 
 
 
    «Ti ho detto che non ce n'è bisogno.»
    «Sì che ce n'è bisogno! Ti devo accompagnare per forza, Brian. Potrebbe succederti qualcosa sulla via del ritorno!»
    «Qualcosa di peggio che avere te che mi stai col fiato sul collo, Bellamy? Vattene, hai avuto il tuo pranzo.»
    «Ma Brian!»
    «Un cazzo. Vattene.»
 
 
6
 
 
 
    «Ecco, quella è casa mia. Sono libero, adesso?»
    «Scherzi? Qualcuno potrebbe investirti sulle strisce pedonali!»
    «Che cazzo di uccello del malaugurio, Bellamy!» 
    
Attraversarono, mentre Matt rideva alla battuta dell'altro, spensierato.
 
    «Ecco. Ora posso andare?»
    «Ci vediamo anche domani?»
 
Brian permise che quella domanda gli rimbalzasse per un secondo contro le pareti della scatola cranica. Un secondo, non di più.
 
    «Direi che ci vediamo per forza, se ogni volta mi segui e poi mi costringi alla tua compagnia» fece, sbrigativo.
    «Attento a quello che dici, Brian. Sono molto determinato.»
    «Questo lo vedo.» 
Aprì il portone con una chiave che teneva nella tasca della giacca, gli occhi di Matt, dietro di lui, che gli foravano la schiena. 
    «Allora, beh, ci vediamo, Brian!» 
    «No, per niente. Ciao, Bellamy.» rispose, prima di andarsene dietro la grande porta a vetri.
    Sentiva gli occhi di Matt, che lo guardavano da fuori, ancora sulla schiena, sullo stesso punto dove li aveva sentiti poco prima. 
    Li continuò a sentire anche quando ormai era entrato in casa, e Matt era già lontano da lì.
 
 
 
 
 
 
7
 
 
    «... e basta, quella è stata la nostra prima... uscita?»
    «Be’, è stato carino, Brian, non trovi?»
    «No.»
    Anna Beckett sospirò. «Brian, io dico che devi scioglierti un po'.»
 
Era quel genere di informazione che Brian piegava con cura in quattro e poi buttava nella Scatola delle Cose di Cui Sbattersi il Cazzo. 
 
    «Io invece dico che venire a raccontarti i fatti miei mi fa solo perdere un sacco di tempo. Se hai qualcosa di utile da dirmi bene, altrimenti posso anche andarmene», replicò calmo.
    «È questo che pensi, Brian?»
    «È questo che penso, Anna.»
    «Però gli hai scritto una lettera, vero?»
    Brian si prese qualche secondo, prima di rispondere con un vigliacco: «L'ho fatto perché tu mi hai detto di farlo.»
    «Non faresti mai una cosa perché “me l’ha detto la mia psicologa”, Brian. L’hai fatto perché volevi farlo, e io sono molto contenta di questo, significa che stai facendo progresso.»
    «... sarà. E comunque non ho intenzione di inviargliela.»
    «Non devi. Però ti serve come sfogo, e rileggere ciò che hai scritto ti aiuterà a mettere ordine nei tuoi pensieri. Sono contenta che tu l'abbia fatto, Brian.»
    
Brian non rispose. Intrecciò le dita all'altezza dell'ombelico, si sentì patetico e infantile. Sì, gliel'aveva scritta, una lettera, e doveva ammettere che forse non era un'idea inutile, come invece aveva pensato all'inizio. Quella lettera sarebbe rimasta a lui, così come le altre che sarebbero seguite — perché ne avrebbe scritte altre, era inutile sostenere il contrario. Trovava il tutto discretamente patetico, se stesso, le lettere, se stesso che scriveva le lettere, e...
 
    «Brian, la nostra ora è finita», annunciò Anna, guardando l'orologio affisso al muro.
 
Brian annuì e si alzò senza proferire parola — quando si tirò a sedere vide tutto a macchie grigie per un attimo, e si coprì gli occhi con le dita. Era piacevole, ed era buio. Si concesse di restare così per qualche secondo.
 
    «Brian? Ti senti bene?»
 
    Lui si scoprì gli occhi e sbatté le palpebre per rimettere il mondo a fuoco. Anna lo guardava apprensiva.
 
    «Come?»
    «Ti senti bene, Brian?»
    Brian si alzò, e la sua espressione distesa era in parte fuori luogo, in parte terrorizzante. «Sì. Sì, sto bene, grazie.»
 
 
 
 
 
 
8
 
 
 
Ciao Matt.
 
    Non so bene da dove dovrei partire, anche se non è un problema, dato che questa lettera non la riceverai mai.
    Pensavo a come è finita tra noi. Pensavo che non doveva finire così, affatto. Mi aspettavo un finale più spettacolare o drammatico, lo sai? Non doveva finire così, decisamente.
    I Placebo vanno male, e, diciamocelo, bene non sono mai andati. Prima le canzoni dettate dall'inesperienza, poi le droghe, poi mio figlio, poi tu. Poi altre canzoni, quelle tirate fuori dai cassetti. Ho perso quella passione bruciante per questo lavoro. In altri tempi non l'avrei nemmeno chiamato “lavoro”, a dire il vero, in altri tempi l'avrei chiamato “questa cosa che facciamo”. È un lavoro, invece, e anche abbastanza precario. Non mi interessa essere ricco, mi piace discretamente farlo e lo faccio, tutto qua. Non me ne frega niente se questo album farà schifo. Avevo fondato i Placebo in sostituzione alla famiglia che non ho mai avuto, ma ora sono abbastanza grande da andarmene di casa. Voglio bene a Stefan, anche se è un sentimento diverso da quello che lega te e Dominic — non migliore, non peggiore, diverso. Meno “andiamo là fuori e spacchiamo il mondo”, credo. A volte penso che ho con Stef il rapporto crudo che avrei con un compagno di cella, e sorrido. 
    Forse mi servirebbe solo un bello schiaffo per poter iniziare a ragionare. Mio figlio, ecco, lui è stato uno schiaffo. Un bellissimo schiaffo. Dovrebbero sentire tutti cosa si prova a ricevere uno schiaffo così bello.
    Ha cambiato scuola, lo sai? Pochi giorni fa sono andato a prenderlo e quando l'ho sollevato tra le braccia per salutarlo mi ha detto: «Papà, ci ho pensato, e ho deciso. Voglio cambiare scuola.» Ci credi? Mio figlio, a cinque anni, “ci ha pensato” e “ha deciso”. Io non ci ho mai pensato, a noi, Matt — non nel vero senso del termine, almeno. Non ho mai neanche deciso nulla. Mi lasciavo trascinare, cadere, e poi aspettavo che qualcosa mi tirasse su di nuovo. Non ci ho mai pensato, a noi. Non vorrei pensarci nemmeno ora, se possibile. Ho passato metà della mia vita a lottare contro la droga, due terzi di essa a lottare contro la depressione, ma la verità è che non ho mai lottato davvero. C’era sempre qualcun altro a muovermi le braccia da dietro la schiena. Penso che se stilassero la classifica mondiale degli uomini di merda sarei sopra Giuda Iscariota e sotto mio padre.
    Vado da una psicologa. Non per te, non montarti la testa. Ci vado da molto prima di aver conosciuto te. Questa cosa delle lettere è un'idea sua. Dovrei dire tutto, a questa donna, ma a essere sinceri sono molte le cose che non le dico. Oggi mi ha chiesto se, dopo che mi avevi insultato, a quella festa fosse successo qualcosa. Io le ho detto di no. Ma non penso che mi abbia creduto.
    Quella della festa è una cosa che sappiamo solo io e te. O almeno, io non l'ho raccontata ad anima viva, e suppongo che anche tu non abbia motivo di raccontarla a nessuno. Forse se non l'avessi fatto non saremmo qui, ora, non sarei qui a scriverti lettere come un dodicenne impazzito e a rimuginare su ciò che è stato. E sai che ti dico? Che sono contento di averlo fatto. È stata la cosa più giusta che io abbia fatto in tutta la mia vita, assieme all'aver deciso di prendere quella metro tanti anni fa anziché un bus, perché è lì che ho rincontrato un mio vecchio compagno di scuola che adesso è il bassista della mia band. Non sono pentito di aver fatto ciò che ho fatto quel giorno alla festa, perché quell'episodio ha dato inizio a una catena di altri episodi che mi hanno fatto stare bene. Riduttivo, “bene”? Forse. Però si adatta perfettamente a ciò che voglio dire. 
    Mi hai detto che avevo successo solo perché il mio modo di essere me lo faceva ottenere facilmente. Me l'hai praticamente offerta sul piatto d’argento. E diciamocelo, io forse non aspettavo altro. 
    E così l'ho fatto.
    Ti ho seguito in bagno, ti ho spinto contro il muro, il resto lo sai. Penso che in quel momento la mia idea era di dimostrarti che io non solo potevo ottenere successo: io potevo ottenere tutto quello che volevo. 
    Ed effettivamente è stato così, volevo e ho ottenuto. Volevi anche tu, allora. In quel bagno ho raggiunto il mio apice, e da lì in poi è stata tutta una discesa. È stato come cadere, cadere bene, tutto il tempo, con te. Fino a ora. Adesso ho smesso di cadere. Ora non mi muovo: sto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 2
*** Chi amate ***


Ciao a tutte! 
 
È mezzanotte in questo preciso momento e ho appena rovesciato il posacenere sul letto. Cosa c'entra? Niente. 
Capitolo due! Un po' cortino, mi è uscito così...
Vi ringrazio tanto per le recensioni (LBE, Nick_, e Linnea <3), e ringrazio anche le silenziose, le visite sono state tantissime! EDIT DI UN'ORA PIÙ TARDI: Sono così stupida che ho confuso un recensore di un'altra storia ancora (ma quante storie ho in corso? Boh, è che mi faccio prendere e ne pubblico cento alla volta) con un recensore di questa, e si tratta di Nick_. Nick_, scusami, non lo faccio apposta, è che sono davvero stupida. Sei la dolcezza e recensisci sempre. E io sono proprio stupida, mi confondo come gli anziani. Perdonami. Grazie grazie grazie del sostegno, cara, se ancora mi commenti le storie anche dopo episodi come questi, evidentemente in Paradiso finirai in camera doppia con Giobbe, che per la sua pazienza penso sia stato sistemato proprio lì. Scusamiscusamiscusami! Il capitolo è per te!
 
Ora corro ( era un'iperbole: io odio correre, al massimo cammino a passo sostenuto) a sistemare un'altra storiella che ho in corso e vi lascio con la speranza che vi piaccia anche questo capitolo ^_^
 
Buona lettura e grazie ancora,
 
 
pwo_
 
 
 
 
 
 
 
 
 
CHI AMATE
 
 
 
«Pronto? Sì, ciao Helena. Sì, perfetto. Allora passo a prendere te e Cody alleee... dieci? Ti va bene alle dieci? Ottimo. A domani.»
 
 
 
 
 
 
1
 
 
 
Nonostante suo figlio avesse appena deciso di cambiare scuola, Brian si sentiva stranamente tranquillo. Non che esistesse qualche motivo ragionevole per non esserlo, certo — e comunque, pure a quel grado di calma, Brian era certamente più agitato di Cody stesso. La discussione avuta con lui riguardo alla scuola da scegliere non era stata particolarmente lunga o elaborata («Questa?», «No», «Quest'altra?», «Sì»). Brian si era trovato d'accordo, Helena anche, la scuola era abbastanza vicina a dove abitava lei con Cody, («Ti mancheranno i tuoi vecchi compagni di scuola?», «No»), e tutto si era risolto per il meglio.
    Nel corridoio risuonavano, a intervalli regolari e in sincrono, i passi di Brian e quelli di Helena. A intervalli più brevi e irregolari, invece, risuonavano i passettini di Cody, che trotterellava in mezzo a loro. Helena si assicurava di avere tutto in borsa.
 
    «La carta d'identità?»
    «Ce l'ho io, Helena.»
    «E i soldi? Ah, eccoli... e il telefono?»
    «Helena, stai calma, abbiamo tutto.»
 
Lei lanciò un'ultima occhiata dentro alla borsa e infine risolse che sarebbe stato opportuno tranquillizzarsi.
 
    «E poi», continuò Brian, «e poi il preside della scuola, alla giornata aperta, mi è sembrato uno divertente, sai?»
 
 
 
 
 
 
2
 
 
 
Brian era sicuro di non essersi mai annoiato tanto. 
    Il preside parlava ininterrottamente da almeno venti minuti, spostando alternativamente lo sguardo tra i suoi occhi e quelli di Helena, quando Brian era convinto che non ci fosse nulla da dire di quella scuola — nulla — che non potesse essere spiegato in meno di un minuto e mezzo. Una volta che sai dove sono la tua classe e i bagni, la scuola è praticamente tua, no? Be', il preside Doyle non era dello stesso avviso.
    Brian calcolò l'intervallo di tempo che scandiva il ritmato muoversi delle pupille del preside. Cinque... sei... sette! Il calcolo era stato preciso. Evidentemente quell'uomo era un automa. Il preside portò lo sguardo su Helena, mentre Brian, non visto, estrasse il telefono dalla tasca. Le undici e cinquantadue. Dio, ma era normale?! Avevano portato lì Cody alle undici, a quell'ora Brian sarebbe già dovuto essere a casa a prepararsi il pranzo! A dormire! Ad ascoltare la radio, o comunque a svolgere qualsiasi attività non fosse ascoltare l'infinita enumerazione dei premi ottenuti dalla squadra di badminton della Perton School — dal 1946 in avanti, importante precisare.
    Il signor Doyle era radioso. Felice, raccontava altre interessantissime avventure degli Aquilotti del Volano, sissignore!, la squadra di badminton più forte di tutta Londra, sissignore!, e nessuno mai batterà gli Aquilotti nel Volano, nossignore!, perché come gli Aquilotti — sissignore! — non c'è proprio nessuno.
 
    «... e il pubblico non pensava certo che fosse ancora possibile vincere, giunti a quel punto! Eppure, i nostri Aquilotti...»
 
Che due coglioni.
    Brian decise che poteva essere abbastanza. Scambiò con Helena un'occhiata d'intesa (e appunto s'intesero alla perfezione), dopodiché si alzò in piedi.
 
    «È stato un piacere parlare con lei, signor Doyle. Purtroppo, però, io e mia moglie» (evitò l'“ex”) «abbiamo un impegno lavorativo a cui non possiamo assolutamente mancare.»
    Gli tese una mano, e l'uomo gliela strinse con aria benevola. «Non si preoccupi, lo capisco benissimo. Cody starà meravigliosamente, con noi, ne sono certo. A quest'ora si sarà già fatto un sacco di amici.»
 
Helena (che mai aveva amato Brian quanto nel momento in cui questi aveva posto fine a quella tortura) disse frettolosamente qualcosa riguardo a quanto si trovava d'accordo. 
    Mentre lei raccattava cappotto, borsa e quant'altro, Brian contemplò la copia de La tentazione di Sant'Antonio di Salvador Dalì affissa al muro dietro le spalle del signor Doyle. Fintanto che erano stati seduti davanti alla maledetta scrivania del preside aveva invidiato quel Sant'Antonio più di ogni altro uomo al mondo. Sant'Antonio!, in procinto di essere calpestato da quel cavallo gigantesco! Sì, quanto aveva desiderato Brian essere come lui, mentre ascoltava il signor Doyle, di essere travolto da un cavallo, due, cento! Sarebbe stata morte felice, giusta — «Prendimi, cavallo! Prendi me!» —, e Brian non avrebbe più dovuto ascoltare le cronache della stagione di badminton degli Aquilotti, “nossignore!”, come avrebbe detto il signor Doyle. E allora lì, in punto di morte, avrebbe gridato a quell'uomo qualcosa come: «Il suo “nossignore” se lo ficchi su per il culo!» — boato della platea — dopodiché sarebbe crollato, esanime, acclamato da un pubblico profondamente commosso — «Bravo! Bravo! Bis!»
    ... ecco, se fosse andata così la liberazione dal signor Doyle sarebbe stata molto più spettacolare e raffinata, ma, ora come ora, anche alzarsi e fingere gran fretta andava più che bene.
    Grazie a Dio era finita. Brian rivolse un cenno del capo in direzione del preside mentre teneva aperta la porta per lasciar uscire Helena per prima e infine se ne andarono — Brian e Helena, non Helena e il preside.
    Fecero tre passi di numero nel silenzio più totale e poi scoppiarono a ridere. Convulsamente, come due bambinetti dell'asilo alla parola “cacca”. A Brian rotolavano addirittura alcune lacrime sulle guance, Helena dovette usare una mano per appoggiarsi al muro e l'altra per tenersi la pancia. Rimasero lì per qualche minuto, a cercare di fermarsi e a ridere ancora più forte quando i loro sguardi si incontravano.
 
    «E quando», cercò di dire lei, quasi strozzandosi, «e quando ha iniziato a parlare del badmin...» Non completò la frase e si piegò nuovamente in due, Brian con lei.
    Le loro voci stridule rimbombarono nel corridoio della nuova scuola di Cody, e facevano tanto chiasso che a un certo punto due commesse comunicarono loro che i signori dovevano lasciare l'edificio o ridere più piano, molto spiacenti.
 
 
 
 
 
 
3
 
 
 
La crisi di risa era passata. Brian e Helena fecero colazione — ore: dodici e dieci — nel bar di fronte alla scuola, ridacchiarono parlando del più e del meno. Lei sarebbe andata a recuperare Cody all'uscita.
 
    «Come va con la tua psicologa, Brian?», chiese poi.
    «Mh», si sentì rispondere, «non è eclatante, ma ogni tanto dà una mano.»
 
Lei annuì, gli posò le mani sulle sue in un gesto amichevole. Sorrise, trasparente. 
 
    «Sai che c'è, Brian?»
    «Cosa?»
    «Sono fiera di noi. Di come la stiamo gestendo con nostro figlio, di come l'abbiamo gestita con il divorzio, di come so che continueremo a gestire tutto.»
    Brian sorrise a sua volta. Le avrebbe risposto volentieri che lui non solo apprezzava il loro rapporto, lo adorava proprio. Che lo faceva sentire leggero, libero, senza fargli rinunciare a suo figlio. Che adorava la loro amiciza uomo-donna che assomigliava sempre di più a un'amicizia uomo-uomo, che adorava i loro discorsi volgari («Chi ti scopi, ultimamente, Brian?», «Pincopallino», «Oh, lo conosco, è un gran pezzo di figo!»). Ma si limitò a un sommesso: «Anch'io».
    «E poi», fece lei, accompagnando la frase con un colpetto sulle mani di Brian, «non ti ringrazierò mai abbastanza per una cosa.»
    «Per cosa?»

Lei abbassò la testa, come malinconica.

    «Helena?»
    «Per esserti preso quei vasi cinesi, Brian.»
 
Brian si strozzò con l'acqua, perché era scoppiato ridere, ancora, per la seconda volta in quella mattinata.
 
    «Tu non hai idea!, Brian», continuò lei, con artificiosa solennità nella voce, «tu non hai idea del calvario che è stato per me il nostro divorzio, e tutto perché avevo il terrore che tu, nella divisione della roba, mi rifilassi quei vasi cinesi.»
 
Brian rideva di cuore, senza riuscire a fermarsi.
 
    «Quindi... grazie, Brian. Io non so a cosa stessimo pensando quando li abbiamo comprati, ma al solo pensiero di averceli di nuovo in casa io... grazie, Brian. Davvero.»
 
 
 
 
 
 
4
 
 
 
Anna Beckett si era messa in tiro.
    Non era da lei — o almeno, non così tanto —, quindi Brian pensò malignamente che doveva avere qualche appuntamento galante subito dopo la loro seduta. E nonostante tra i due il quarantenne con problemi di cuore sdraiato sulla chaise longue fosse lui, a Brian ispirò compassione.
 
    «Allora Brian, come stai? Che cosa hai fatto stamattina?»
    «Sto», rispose Brian. «Stamattina io e Helena abbiamo accompagnato Cody nella sua nuova scuola. È stato divertente, lui mi è sembrato tranquillo. Il preside, poi, era tutto un programma.»
    «Ha deciso Cody di cambiare scuola? Da solo?»
 
Brian si sentì un po' offeso. Chi doveva averlo deciso, Michael Boublé? Non era certo uno di quei padri despoti che decidevano per la vita dei figli, insomma! Comunque si limitò a rispondere di sì.
 
    «Allora Brian», riprese lei, «eravamo rimasti a...» (sollevò una pagina del blocco, diede una rapida scorsa agli appunti e infine la lasciò ricadere) «... alla tua prima uscita con Matthew. Che è successo dopo?»
 
Brian finse di raccogliere i pensieri per ricordare, ma si ricordava benissimo, e se ora aveva aggrottato le sopracciglia con aria assorta era solo per non sembrare (troppo) patetico.
 
    «Mmmh... ci siamo rivisti...» (due giorni dopo) «... un paio di giorni dopo, credo. Io e gli altri eravamo in studio, in quel periodo stavamo registrando le canzoni per il nuovo album. Si è presentato nell'anticamera davanti alla sala che saranno state le...» (undici e venticinque) «... undici, o mezzogiorno, non lo ricordo con precisione. Io chiaramente a quel punto ho fatto fermare tutto e gli sono andato incontro, mentre lui, bel bello, se ne stava lì a flirtare con una mia...
 
 
 
 
 
 
5
 
 
 
... chitarra, Brian. Sul serio, è fantastica. L'hai scelta tu?»
 
Matt accarezzava la Flying V che si era appoggiato sul grembo, comodamente seduto sul divanetto crema davanti alla sala. Passò il dito lungo il profilo del corpo della chitarra, dito che fermò al vertice della parte concava. Brian vide in quel gesto un esplicito richiamo sessuale.
 
    «Bellamy, chi ti ha fatto entrare?!», ruggì.
    Matthew cercò qualcuno intorno a sé, dopodiché con un dito indicò uno dei ragazzi che lavoravano lì e disse: «Lui», sereno.
   
Il colpevole, un ragazzino scheletrico, lungo lungo, poco più che ventenne, stava seguendo la scena con aria terrorizzata già da un po'. Brian lo tranquillizzò dicendogli di non preoccuparsi e, dopo aver pazientemente contato fino a cinque, chiese a lui e al resto del team di lasciarli soli. Dalla stanza insonorizzata emersero Steve e Stefan.
 
    «Oh, gli altri Placebo. Ciao!», salutò Matt.
    «Ciao!», rispose entusiasta quello che Matt identificava come Il Placebo Biondo
 
Stefan (Il Placebo Alto) si limitò a un freddo cenno della testa. 
    Non ci fu bisogno che Brian chiedesse loro di andarsene che già si erano eclissati, e, quando la porta si chiuse, Matt allargò un sorriso che sarebbe potuto essere più grande solo se lo si fosse tirato dagli angoli della bocca per fissarlo con un nodino dietro la testa.
 
    «Bellamy, posa quella chitarra.»
 
Stranamente, Matt ubbidì. Adagiò con cura lo strumento accanto a sé e portò le mani sulle ginocchia.
 
    «Ascoltami», riprese Brian, «dimmi solo cosa devo fare per liberarmi di te. Dimmelo, lo farò. Se necessario, affiggerò sulle pareti di ogni edificio che frequento la tua faccia con la scritta: “Io devo restare fuori”, Bellamy, basta che sparisci.»
    Matt ridacchiò. «Come stai, Brian?»
    «Di merda, grazie. Ora vai?»
    «Cosa c'è che non va?», si interessò Matt.
    «Che ti riguardi, solo tu. Per il resto fatti i cazzi tuoi.»
    «Ne parliamo a pranzo?» Guardò l'ora sul suo telefono. «Sono le undici e mezza, tra poco si mangia. Posso aspettarti fuori e...»
    «Bellamy, ascolta. Sul serio, esci di qui, o sarò costretto a chiamare la sicurezza. Non farmelo fare.»
 
Matt lo fissò per qualche secondo come se non avesse capito, poi si portò le labbra dentro alla bocca e annuì, e — oddio, si sta alzando! Ha capito!
 
    «Volevo solo venirti a trovare», obiettò, ma si diresse comunque verso l'uscita.
    «Non mi fai pena, Bellamy.»
 
 
 
 
 
 
6
 
 
 
    «E ti ha aspettato fuori, dopo aver fatto... irruzione nel tuo studio?», chiese Anna.
    «No. Però poco dopo ho scoperto che era riuscito a ottenere il mio numero di cellulare. E indovina un po' chi gliel'aveva dato? No, indovina!»
    Anna soffocò una risatina. «Steve.»
    «Steve! Ti rendi conto?! Io l'ho sempre detto che è stupido. Buono come il pane, eh, per l'amor di Dio, ma stupido. Molto più tardi, Matt mi ha raccontato che quel giorno, quando è uscito dallo studio e lo ha incontrato sul pianerottolo, gli è bastato chiedergli in prestito il telefono con la scusa di dover controllare un indirizzo con il GPS e questo cretino cosa ha fatto? Glielo ha prestato, logico! E da lì è stato un attimo, controllare la sua rubrica!» Fece una breve pausa per riprendere fiato. «Ma il bello non è quello. Il bello è che quando Matt se n'era andato già da un po' e io ho recuperato la chitarra per rimetterla a posto, l'ho girata un pochino e ho visto che...
 
 
 
 
 
 
7
    
 
 
... c'era un foglietto giallo attaccato dietro al manico. Brian lo staccò lentamente. Era un post-it, di quelli che lui stesso aveva usato tante volte, a scuola.
    Il messaggio era stato scritto con una grafia orribile, ma abbastanza chiara.
 
Tanto lo so che mi cacci. 
Però almeno chiamami!
7528979013
                                 Matt.
 
 
 
 
 
 
8
 
 
 
Lo sapevi che il cervello non smette mai di pensare, neanche per un istante, quando si è in vita? Ho letto ieri un articolo a riguardo. Ho pensato che stare con te aiuta a non pensare. Anzi, costringe a non pensare. È come ubriacarsi, e perdonami se non sono romantico. È come ubriacarsi e poi ricordarsi tutto. 
    Sto mettendo in ordine la casa, ma in realtà non c’è molta confusione, da quando te ne sei andato. Di sicuro adesso la sedia di camera mia si vede, perché non è più coperta dalla montagna che formavano i tuoi vestiti — me la ricordavo più scura, quella sedia. Altre cose sono cambiate. Ad esempio, l’altro giorno in bagno sono inciampato e ho sfondato il tavolino. Che cazzo ridi? Era il tavolino a essere fragile, non certo io a essere pesante. Quindi, ecco, se torni, il bicchiere con le cose per lavarsi i denti l’ho messo sulla mensola, hai presente, quella a sinistra. 
    So che sto parlando di tutto meno di ciò di cui dovrei parlare, cioè del perché è andata a finire così. Suppongo anche che in questo momento magari tu te la stia spassando con Kate, o stia dormendo, o qualcos’altro, suppongo che per te la vita stia andando avanti alla grande.
    Una volta stavo con un tizio che si chiamava Mark. In un certo senso tu me lo ricordi. O meglio, lui mi ricorda te. Sì, ti assomigliava, nel senso che era un po’ un coglione — in senso buono, lo sai che ho un debole per i coglioni. Ahah. Oh, Cristo, sto diventando come te. Be’, dicevo, ti assomigliava, mi portava in giro, mi viziava, rideva quando da ridere non c’era proprio nulla, e diceva che le mie canzoni facevano schifo, ma intanto ne aveva più di dieci sul telefono, proprio come te. Ebbene sì, ti ho guardato il telefono, con l’unica differenza che tu non ne hai più di dieci, tu ne hai più di venti. Ah, come rido. Comunque, Mark era davvero come te, però l’ho lasciato, perché mi trattava come una donna. Tu non l’hai mai fatto — magari un pochino, ma nella giusta misura, insomma, matita e fondotinta, chi prendo in giro? Quando cercavo di esser serio, mi prendeva in giro, o diceva solo “ah-ah, capisco”, ridendo. Lo odiavo talmente tanto, Matt, non te lo immagini nemmeno. E allora una sera gli ho detto che per me finiva lì, e non ho rimpianti. Lui mi aveva risposto che senza di me non poteva vivere, però io l’ho lasciato, e non mi pare sia morto.
    Ecco, ora mi si è consumata quasi del tutto la punta della matita. Se tu avessi avuto la decenza di trovarti qui con me, allora avremmo avuto un breve dialogo che sarebbe andato più o meno così:
    IO: Matt!
    TU: Oh.
    IO: Mi faresti la punta a questa matita, per cortesia?
    TU: Ti pesa il culo ad andare a prendere il temperamatite da solo?
    IO: Sì.
    TU: (Sbuffo) E va bene.
Però non può andare così, perché tu non ci sei, e quindi sai cosa? Avevo una gran voglia di scriverti mille altre righe, ma dato che la matita si sta consumando e dato che sì, mi pesa il culo ad andare a temperarla, questa lettera te la becchi più corta.
    Così impari.








 
 
 
     
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** Chi ama te ***


Ciao ragazze! 

 

Dunque, so di essere in ritardo, perdonatemi. Scusatemi tantissimo, davvero, se non ho ancora riposto ad alcune di voi, spero di riuscire a trovare un attimo stasera. Per questa storia mi aspettavo poche recensioni e visite, più che altro per la specificità del pairing, e invece siete un esercito! Grazie!

 

Spero che la storia continui a piacervi, che abbiate voglia di commentarla e che non sia troppo melensa — io con i Mollamy proprio non mi tengo! 

 

Mille baci, a presto!

 

 

pwo_  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CHI AMA TE

 

 

 

    «Pronto? No, Stef, scusa... no. Sto entrando da Anna. Sì, sì, lo so... no. Sì. Puoi... puoi risolvere tu? Grazie. Scusami. Sì... sì lo so. È un periodo così... va bene. Grazie, sei un angelo. Ti richiamo quando esco. Ciao... ciao.»

 

 

 

 

 

 

1

 

 

 

    «Brian, ti aspettavo», disse Anna aprendo la porta.

    «Perdonami, Anna, ho ricevuto una chiamata, dovevo fare una cosa con Stef e...»

    Lei scorciò con un piccolo movimenti della mano e gli sorrise. «Entra.»

 

La seguì fino allo studio e lungo il corridoio notò — oh, a Brian non sfuggivano queste cose! — un grande mazzo di fiori sistemato in un vaso sulla mensola che copriva il calorifero. Ha! Aveva ragione, allora, la Beckett aveva un nuovo, galantissimo, amico — eccezion fatta per quei girasoli, si sposavano orrendamente con il bianco delle calle. Ridacchiò tra sé e sé. 

    Hai capito te, la Beckett? Ha!

    Una volta che si fu trovato a fissare il monotono soffitto dello studio il buon umore l'aveva già perso da un bel pezzo.   

    Anna cercava una pagina specifica del proprio taccuino, azione che, in sé, non avrebbe avuto nulla di irritante. A Brian irritava. 

 

    «Non sarebbe più comodo che prendessi appunti con un computer?», azzardò.

    «Prassi vuole...», rispose Anna.

 

Brian rinunciò. Mai stato uno insistente, lui.

 

 

 

 

 

 

2

 

 

 

    «... e avevamo detto», fece Anna, «che se n'era andato dal tuo studio lasciandoti il suo numero e prendendosi il tuo, ti ricordi, vero?»

    «È stato ieri l'altro, me lo ricordo sì.»

    «Mh. Una cosa però non me l'hai detta. Tu hai preso il suo numero?»

    «Sì.»

 

Lei annuì come chi riceve ulteriore conferma di qualcosa che già sa.

 

    «E poi, l'hai più rivisto quel giorno?»

    «No, l'ho rivisto il mattino dopo. Si è fatto trovare fuori dall'uscita secondaria dello studio di registrazione, l'unica che sono solito usare. Gli altri se n'erano già andati, Steve a farsi una e Stef a farsi uno. “Bella roba”, dirai tu.»   

 

Lei si ruppe in una risata.

 

    «Capita spesso che quei due ingrati vadano a divertirsi senza di te?», chiese a mo' di battuta.

    «Sì, voglio dire, Steve è giovanissim...»

    «Quanti anni ha?», interruppe lei.

    «E io che ne so? Per quanto mi riguarda mi serve solo sapere che se la cava con la batteria, che è un bravo ragazzo e che è biondo e tatuato, elementi molto utili per riconoscerlo tra altre persone.» 

    Anna ridacchiò ancora. «Ho capito. E allora lui si è presentato all'uscita e...»

    «Era appoggiato al muro sulla destra. Me lo ricorderò sempre.»

    «Perché te lo ricorderai sempre?»

    «Perché era stata una sorpresa. Piacevole. Mh...» Sospirò. «No. Piacevolissima. E allora gli ho detto... 

 

 

 

 

 

3

 

 

 

   ... che cazzo ci fai qui, Bellamy?»

 

Matt si era rimesso dritto appena aveva sentito la porta aprirsi, ma questo non aveva impedito al cervello di Brian di notare una cosa. Mentre aspettava, rilassato, fuori dall'edificio, con il viso concentrato sullo schermo del cellulare e la schiena e un piede contro al muro, Matt era più bello. Tanto tanto tanto di più. Rispetto a quando? Ma rispetto al giorno prima, chiaro. Rispetto al solito. Ma probabilmente era solo un'impressione. 

 

    «Brian!», esclamò Matt, illuminandosi. «Sorpresa», aggiunse più timidamente.

    

Brian lo fissò cercando di fargli capire quanto fosse formalmente inadeguato — e si dice “formalmente” perché ufficiosamente Brian l'aveva trovata una sorpresa a dir poco meravigliosa. Forse.

 

    «Ehm... sorpresa piacevole?», chiese Matt ridacchiando. 

    «Spiacevole», rispose Brian. «No. Spiacevolissima. Cosa vuoi?»

    «Hai già mangiato?»

    «No.»

    «Mangiamo assieme?»

    

Brian sospirò. Voleva? Sì, questa volta sì. Dopo una mattinata passata a rapportarsi con rimbecilliti che premevano su bottoni per modificare la sua voce registrata, aveva bisogno di staccare. Matt andava bene, volendo, e stabilito che Brian voleva, il problema non si poneva. Ecco.

 

    «No.»

    «Brian, vorrei tantissimo uscire con te.»

    «Mio figlio seienne formula frasi più complesse, Bellamy.»

    

Quest'ultimo rise allegramente, e notare che era vestito addirittura bene fece mancare a Brian il fiato per qualche secondo. Sì. Voleva pranzare con Matt. Tanto.

 

    «No. Non voglio pranzare con te. Affatto.»

     

Il sorriso di Matt gli si gelò addosso come sudore. Guardò per terra.

 

    «D'accordo», sfiatò infine. «Ho capito.» 

 

Panico nel cervello di Brian. 

    Voleva pranzare con Matt, aveva ricevuto un invito a pranzo da Matt, aveva cacciato Matt. Ma non era colpa sua! Ecco. Si chiese perché l'aveva fatto — oh, era il suo carattere, accidenti, se quello non lo capiva erano fatti suoi! 

    Può sempre insistere, Brian.

    Non insisterà.

    Lo sai benissimo che non è uno che si arrende facilmente. Insisterà e allora gli concederai un pranzo.

    No, questa volta è diverso.

 

    «Allora...», continuò Matt. Era forse arrossito? Perché a Brian sembrava fosse arrossito. «Ehm...», ridacchiò imbarazzato, «... scusa davvero Brian.»

    «... come?»

    «Scusa, sul serio. Penso di aver frainteso... be', tutto. Mi... mi dispiace, pensavo che il tuo fosse un gioco di ruolo, sai, a essere così acido. Ehm...»

 

Ci fu un attimo in cui entrambi stettero zitti, un attimo in cui Brian provò un gran freddo.

 

    «Be', dai, allora...» Matt sorrideva ancora, ma sempre più gelidamente. «Ci vediamo agli MTV Awards?»

    «NME», lo corresse distrattamente Brian.

    «Oh, ah, certo, NME.» Annuì. «Mh... ok, scusa... scusa ancora. Ciao, Brian.»

 

Girò sui tacchi e prese ad allontanarsi.

 

    «Bellamy.»

 

Vide Matt voltarsi con aria interrogativa, come non credendo alle proprie orecchie. Non ci voleva credere nemmeno Brian, a voler dire la verità. Per qualche ragione su cui non volle indagare, nel suo cervello sentì la voce del sergente Hartman di Full Metal Jacket gridare: Chi cazzo ha parlato?! Chi è quel lurido stronzo comunista checca pompinara che ha firmato la sua condanna a morte?! Ah, non è nessuno, eh! Sarà stata la fatina buona del cazzo!

    In un altro momento magari si sarebbe perfino messo a ridere, ma dato che ora il lurido stronzo comunista checca pompinara che aveva firmato la sua condanna a morte era lui, be', non c'era molto da divertirsi. Era stato lui. L'aveva chiamato indietro lui. Sì. D'accordo. Brian aveva richiamato indietro Matt. Prendeva atto.

 

    «Brian?» Matt fece dietrofront e gli si avvicinò nuovamente, piano. «Mi... mi hai chiamato?»

 

Puoi ancora ritirare tutto, Brian, lo sai?

    Aha, infatti.

 

    «... sì.»

 

Le labbra di Matt non si tirarono in un sorriso, rimanendo immobili. Strano. Brian si era aspettato che sorridesse.

 

    «E perché?»

 

Puoi sempre dirgli che era solo per pregarlo di non scocciarti mai più, Brian.

    Sì, posso farlo.

 

    «Io...» Premette la lingua contro l'interno di una guancia. «... io ho un po' di fame.»

 

Matt ora cominciava a sorridere, meglio tardi che mai, pensò Brian.

 

    «Hai un po' di fame», ripeté Matt.

    «Sì.»

    «E sei da solo.»

    «Aha.»

    «E non sai con chi mangiare.»

    «Già.»

    «...»

    «...»

    «Brian?»

    «Sì?»

    «Ci verresti a pranzo con me?»

    «Sì.» 

 

 

 

 

 

 

4

 

 

 

Mangiarono con appetito. Matt era una radio: “buono questo panino”, “sai che ore sono, Brian?”, “oh, sì, proprio buono”, “non ci credo, il grande Brian Molko che beve dal collo della bottiglia!”. Una delle due bottigliette d’acqua era rimasta intonsa, e in quel momento Brian realizzò che, di conseguenza, entrambi avevano bevuto dalla stessa bottiglia. E i bicchieri erano puliti. Ebbe sete di nuovo, bevve, un rivoletto d’acqua sfuggì alle sue labbra e scivolò sul mento. 

 

    «Oh, Brian, hai dell’acqua sul mento.»

    Matt si sporse per asciugargliela con un dito.

    «Oh, Bellamy, ho delle mani sui polsi.» Si scostò stizzito. «Faccio da solo, grazie.»

 

Matt rise, tanto per cambiare, e tornò a ingurgitare il suo panino, gettando all’altro, di tanto in tanto, un’occhiata complice — ogni volta puntualmente ignorata. 

 

    «Brian?»

    «Eh.»

    «Ci vieni a letto con me?»

    «Bellamy, non verrei a letto con te nemmeno se fossi minacciato dall’Al Qaida.»

 

Matt rise di gusto, e Brian alzò gli occhi al cielo con aria spazientita — un’aria spazientita che si curò di drammatizzare al massimo.

 

    «Oh, Brian, dai un po' di colore alla parete bianca della tua vita!»

    «E tu dai un po' di fiato a questo povero quarantenne costretto a starti a sentire, Bellamy.»

 

Matt ogni tanto tornava all'attacco con altre frasi come queste, ma era assolutamente gestibile. Sembrava si divertisse a testare la capacità di rispondere prontamente dell'altro, ma Brian, sotto questo punto di vista, non cadeva mai in fallo, e così il gioco continuava inesorabile. Quando ebbero finito, Matt controllò di non aver ricevuto alcun messaggio. 

 

    «A proposito di telefoni, Bellamy», esclamò Brian, che a quel gesto si era ricordato dell'episodio del giorno precedente, «ringrazia Dio, o gli alieni, o gli Zetas, o il Cattivo Gusto, o chiunque sia il tuo dio, se non ti ho denunciato per aver rubato il mio numero di telefono!»

    «Gli Zetas? Conosci la mia canzone?»

    «Non ci si dimentica facilmente della causa di un attacco di vomito, Bellamy. E non cambiare discorso.»

    Matt tratteneva a stento un grosso sorriso vittorioso. «Il Placebo Biondo è piuttosto stupido», gongolò.

    «Sì, anche più di abbastanza», rispose lapidario Brian, «ma Bellamy, io ti avviso da subito, non osare...»

 

Aveva senso dire: “Non osare chiamarmi”, dopo che erano andati a pranzo insieme due volte (certo, con modalità d'invito opinabili, ma non prendiamoci in giro)? Specialmente, dopo che Brian lo aveva praticamente pregato di portarlo fuori? Non tanto.

 

    «“Non osare”...?», incalzò Matt.

    «... fare qualcosa del genere mai più.»

    «L'hai preso il mio numero?»

    «No.»

    «Vuoi che te lo detti ora?»

    «No. Io ho finito.»

 

Indicò il tavolo. La sua parte era linda, e tutte le briciole superstiti erano rimaste nel piatto, mentre su quella di Matt sembrava che avessero banchettato venti stormi d'uccelli. Brian insistette per dividere il conto a metà, Matt volle offrire personalmente il pranzo.

 

    «Non sono la tua donna, Bellamy.»

    «Ti offrirò il pranzo, Brian.»

    «No.»

    «Sì.»

 

La cassiera aspettava scocciata, martoriando il chewing-gum che teneva in bocca e assistendo alla scena con annoiata astrazione. Comunque Matt la ebbe vinta, e oltretutto Brian si sentì costretto a dirgli “grazie”. Galateo tiranno.

    

    «Di niente. Mi fa piacere. Vuoi quell’acqua che è rimasta sul tavolo, Brian?»

  

Brian la recuperò. Non sapeva dove metterla, e anche se le tasche della sua giacca erano grosse non ci sarebbe mai potuta entrare. Non ho voglia di tenere in mano questa bottiglietta per tutto il giorno. Guardò Matt.

 

    «La tieni tu», lo informò quindi, porgendogliela.

    «Sì», obbedì Matthew distrattamente.

 

Per spingere la porta a vetri, Matt dovette appoggiarsi contro di essa con tutto il suo peso. C’era un muretto, oltre la piazza antistante il pub, che separava quella piazza da un giardinetto ben curato che Brian non ricordava di aver mai visto. Si sedettero lì. Brian notò che Bellamy aveva saggiamente — tripudio! — ritenuto opportuno sedersi a distanza di cortesia da lui. Sbadigliò e si passò due dita della mano destra su una palpebra.

    

    «Ti annoio così tanto, Brian?»

    «Anche di più, Bellamy.»

 

Matt ridacchiò, e quando vide Brian armeggiare con le tasche alla ricerca di un accendino gli allungò una scatoletta di fiammiferi. Brian gliela tolse dalle mani, la punta della sua sigaretta si incendiò.

 

    «Perché hai dei fiammiferi, Bellamy?»

    «Mi eccita bruciare i miei amanti.»

    «Oh, Bellamy, sei così trasgressivo e sensuale», recitò Brian monocorde.

    «Scherzo. Fumo anch’io, ogni tanto.»

    «Ah.» Brian si concesse di immaginarselo mentre fumava, poi scacciò il pensiero. «Mi dai l’acqua?»

 

Matthew gliela passò, e il suo ginocchio destro sfiorò il sinistro di Brian. Prima era più lontano, notò Brian, si è avvicinato?

 

Bevve. Matt lo fissava.

 

    «Mi fissi?»

    «Si nota?»

    

Brian gli restituì la bottiglietta e si asciugò le labbra umide con il dorso della mano. Alla sua destra, due lavavetri dai tratti orientali tesero un agguato a un ignaro guidatore e si misero ad armeggiare con i loro detersivi per vetri. L'uomo alla guida avanzò con l'auto, stizzito, e, quando i due ragazzi rinunciarono al lavoro e passarono alla macchina più indietro, Brian gli lesse sulle labbra qualche imprecazione. Sorrise.

 

    «Sei bello, oggi, Brian.»

    «Oh, Dio. Taci, Bellamy.»

    «Per una volta, Brian, chiudi quella fottutissima bocca.»  

    Le sopracciglia di Brian si arcuarono. «Come, prego?»

    «Ho detto: chiudi quella fottutissima bocca.» Ripeté Matt. Era molto serio. 

 

Brian stava socchiudendo le labbra per raccogliere il fiato necessario a dare il peggio di sé, ma improvvisamente Matt lo fissava troppo da vicino perché potesse riuscire a concentrarsi. No, anzi, gli occhi attenti di Matt non lo studiavano da vicino, lo studiavano da sempre più vicino. Lo controllavano.

    Oh, Dio. Era bello. Matthew Bellamy era bello. No, non era bello. Era interessante — questo glielo concedo — ma bello proprio no — magari un pochino, solo ora

    Matt era sempre più vicino. Brian aveva troppe primavere sulle spalle per potersi permettere quei pensieri adolescenziali come: “Ma che ha intenzione di fare?”, quelli che popolavano i libercoli rosa per le donne in menopausa. Non c'era bisogno di Sherlock Holmes e della sua lente di ingrandimento per capire che cosa sarebbe successo di lì a poco.

    E allora Brian schiuse la bocca e aspettò quella collisione che sembrava destinata a non arrivare mai. 

    Quando ormai poteva già sentire il respiro di Matt infrangersi sulla sua pelle, non gli permise di continuare. Gli tenne la mano attaccata al petto per impedirgli di concludere quello che stava cercando di fare, cercò di raccogliere le idee, si voltò leggermente da una parte. 

    Perché no?, si chiese. Perché Kate, perché suo figlio, perché mio figlio, perché i pettegolezzi, perché il casino, perché le energie.

    Matt aspettava paziente, non si muoveva di lì.

    E perché sì?, si chiese dunque Brian. Guardò Matt e scoprì che lui lo stava già fissando con dolcezza, e forse anche con un velo di ansia.

    ... perché sì.

    E sul muretto di una piazza tranquilla, si baciarono come i ragazzi di quei libercoli rosa per le donne in menopausa.

 

 

 

 

 

 

5

 

 

 

    «... ecco tutto.»

    «Era il primo bacio, giusto?»

 

, avrebbe voluto dirle Brian, in quanto a baci era il primo, però gli avevo già fatto una sega in un bagno, sa, signora analista? Evitò.

 

    «Sì, era il nostro primo bacio.»

    «Quali sensazioni hai provato in quel momento?»

    «Secondo te?»

    «Devi dirmelo tu, Brian. Io non c'ero.»

 

Lui portò una mano a massaggiarsi il collo e si chiese dove avrebbe trovato le forze di alzarsi da quella chaise longue una volta terminata la seduta. Che domanda idiota. Che sensazioni avrebbe dovuto provare? Ribrezzo? Noia? No, davvero, che domanda idiota.

 

    «Brian?»

    «... belle sensazioni. Posso andare avanti?»

    «Certo che puoi.»

    «Be', dopo il bacio non è successo granché. Ci siamo baciati ancora per un po', ma poi non ne abbiamo più parlato. Io dovevo per forza tornare a casa, quindi ci siamo salutati poco dopo.»

    «Questa separazione l'hai vista come una scocciatura o non ci hai fatto troppo caso?»

    «La prima. Dicevo, quella sera, tornato a casa, non riuscivo a prendere troppo sonno, perché avevo preso gli antidepressivi a cena anziché a pranzo — sai, uno evita volentieri di tirar fuori dal cappello una scatola di Prozac, quando è con gente. Allora ho guardato un po' di televisione e alla fine mi sono messo a letto. A un certo punto squilla il telefono e ricevo un messaggio che dice...

 

 

 

 

 

 

6    

 

 

 

... ore 01.02

Mi ecciti dal primo momento che ti ho visto...

Un’ammiratrice segreta.

 

 

Ore 01.02

Bellamy, sei un cretino.

 

 

Ore 01.02

Ma così non vale, mi hai scoperto subito! D:

 

 

Si sentì stirare le labbra in un impercettibile sorriso — come cazzo fa ad avere sempre voglia di scherzare? —, e gli sembrò che l'ultima boccata dalla sigaretta fosse più densa del solito. 

Forse era vero che... come aveva detto, lui? Ah, già, “un po’ di colore non avrebbe fatto male alla parete bianca della sua vita”. Però Brian ancora non era convinto che quel Bellamy potesse essere la vernice giusta — be', fisicamente, ad un barattolo potrebbe anche somigliare. Si ritrovò a ridacchiare alla sua stessa battuta e per qualche minuto la testa si fece più leggera. Si tirò un po’ più su appoggiandosi su un gomito, spense la luce con un gesto distratto quando la sveglia segnava quasi l’una e dieci, promettendosi che avrebbe riflettuto sulla situazione il giorno successivo (ammesso che ci fosse materiale su cui riflettere, ecco, di questo non era sicuro). Chiuse gli occhi nello stesso istante in cui il maledetto cellulare aveva deciso di squillare ancora.

 

 

Ore 01.09

Aspetta, questo vuol dire che avevi già il mio numero!!!

 

 

Ore 01.09

Fottiti, Bellamy.

 

 

Ore 01.10

Sogni d’oro, Brian!

 

 

Ore 01.10

Sei disgustoso.

 

 

Ore 01.11

Sono stato bene, oggi.

 

 

 

 

Ore 02.09

Anch’io.

 

 

 

 

 

 

7

 

     

 

Quando ero solo un ragazzino (avevo cambiato la voce da quanto?, un anno, forse?), ho iniziato a essere me. A essere Brian. Anzi, no. Questo non è del tutto vero. Ho iniziato a essere più simile al vero me di quanto non lo fossi prima, questo sì, ma non ero del tutto me stesso. Ero diventato una commistione arrangiata alla bell'e meglio tra il Brian che avrei voluto essere e una versione parodistica di quel Brian. E più il nuovo me veniva osteggiato, più i miei genitori lo odiavano, più io lo addobbavo di estremizzazioni. A sedici anni mi sono comprato il mio primo rossetto, rosso. A sedici anni mi sono comprato la mia prima matita (quella nera che si mette attorno agli occhi) e il mio primo mascara (quella specie di pasta che va sulle ciglia, Matt, se ti concentri vedrai che ti viene in mente). A sedici anni mi sono comprato anche il mio primo vestito, e non vorrei peccare di arroganza se ti dico che quel vestito mi stava d'incanto. Ma tanto non lo capiresti, perché quando Dio distribuiva porta a porta il gusto nel vestire tu stavi leggendo 1984 per la diciottesima volta, e non l'hai sentito bussare. E così, eccomi lì, Brian Molko, l'impeccabile e raffinatissimo cantante di una band d'avanguardia, chiuso nella sua stanza a immaginarsi un mondo alternativo. 

    Ero la puttana di me stesso. Mi facevo perfino le foto da solo — te le ricordi le Polaroid? Ora ne trovi meno, in giro —, perché non mi bastava essere una puttana, io volevo essere una puttana esibizionista, anche se il mio pubblico era formato da un vecchio letto e un comodino di legno scuro. In un certo senso, era anche una sfida, anche se non so bene contro chi. Più davo problemi, più ero contento — mia madre si preoccupava che tornassi a casa a mezzanotte? Benissimo, sarei tornato alle due! Mio padre voleva che i miei voti salissero? Bene, e che i libri finissero sotto la gamba della scrivania perché non ballasse più! Avevo talmente tanta voglia, tanta foga di essere qualcuno, tanta foga di essere che alla fine mi ero trasformato nella grezza imitazione di qualcun altro.

    E mi lascio spesso assalire dalla sensazione non serva a nulla. Tutto. Non serve a nulla. 

    Ancora ai tempi del liceo avevo chiesto alla mia professoressa di matematica quando mai, nella vita, ci sarebbero servite le equazioni. 

    «Serviranno quando faremo le disequazioni», rispose lei. 

    «E le disequazioni quando mai ci serviranno?», chiesi ancora io.

    «Serviranno quando faremo le rette sul piano», rispose lei.

    «E le rette sul piano quando mai ci serviranno?»

    «Serviranno quando faremo le parabole.»

Serviranno quando, serviranno quando, serviranno quando. È come se tutto servisse solo a fare qualcosa che verrà dopo, che servirà a fare qualcosa che verrà ancora dopo e così via. Capisci? È senza fine. So che ha senso solo per me, può darsi, è probabile. Però pensaci: dove vogliamo arrivare? 

    Dio, sembro Jimmy Profeta. È un personaggio che ho inventato in questo momento, quindi evitati di andarlo a cercare su internet. 

    Posso quasi vederti, che leggi queste righe sconnesse, tiri le labbra in un sorriso ed estrai il cellulare dalla tasca, tanto per essere sicuro che io l’abbia inventato davvero.

    Uno cerca di farti un discorso serio e tu... sei proprio un cretino, Matt.

     

 

 

 


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Capitolo 4
*** Arsi ***


Ciao a tutte! ^_^


Scusate per il ritardo, non trovavo mai un attimo! Vi ringrazio davvero tanto per tutte le recensioni, e per aver messo tra le preferite, seguite o ricordate questa storia, sono davvero molto contenta. Mi fa piacere che abbiate gradito i giochi di parole per i titoli. 

Grazie anche per i commenti all'ultimo capitolo, e perdonatemi se non vi ho ancora risposto, sto studiando come una matta... spero di farcela per stasera! 

 

Sperando che continuerete a seguire, vi lascio al capitolo.


Buona lettura,



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SECONDA PARTE

 

 

 

 

 

 

*

 

 

 

 

 

 

ARSI

 

 

 

    «Pronto? Cosa? Mh, no, signora, non è il droghiere, ha sbagliato numero. Si figuri. Buongiorno.»

 

 

 

 

 

 

1

 

 

 

Ogni tanto — non sempre, davvero, solo ogni tanto e solo per pochi istanti —, Brian si sentiva un po' in colpa per il modo in cui trattava Anna. Erano minut... no, secondi. Secondi è meglio. Si diceva, erano secondi in cui Brian sentiva prima una forte morsa al petto — altresì nota come “senso di colpa” —, poi un gran caldo, poi una sensazione di urgenza (Brian la identificò come “urgenza di scusarsi”, ma non era del tutto sicuro), poi...

 

    «E quali sensazioni provavi in quel momento?»

 

Ecco, poi Anna diceva qualcosa di questo genere e, come per magia, passava tutto. Le “sensazioni”. Ah, come odiava, Brian, quella parola, e come invece Anna sembrava amarla! Forse la causa del ribrezzo per la parola “sensazioni” — Dio, che odio! — stava tutta nella sovrabbondanza della componente sibilante della pronuncia. Sensazioni. Poteva essere il titolo di un libro erotico — ultimamente vanno di moda —, Sensazioni

 

    «Brian?», lo riscosse dai suoi pensieri Anna.

    «Nessuna sensazione, Anna.»

    «Ma se mi hai appena detto che dopo quel bacio non vi siete visti per due mesi!»

    «E quindi?»

    Anna sospirò e portò un unghia laccata a grattarsi distrattamente un labbro. «Be', vi baciate, poi non lo vedi per due mesi e... non provi nulla?» Prese il silenzio di Brian come un invito a continuare. «Brian... ascolta. Non andiamo da nessuna parte così, e...»

 

Le tenaglie del senso di colpa gli diedero un forte abbraccio allo stomaco. Ora passa ora passa ora passa, si ripeté mentalmente. 

 

    «... vedi... mh. Se vieni qui, Brian, è per dirmi ciò che non diresti mai a nessun altro, o per ammettere con me ciò che non ammetteresti mai con te stesso. Ora fingi di non ascoltare, il che è molto da te, ma so che in realtà mi stai ascoltando eccome. Allora io ti chiedo: che senso ha, Brian?»

    «... che senso ha cosa?»

    «Che senso ha che tu faccia l'orgoglioso con me? Non sono una persona fondamentale, nella tua vita, Brian, e allora, perché cerchi di darla a bere anche a me? Ogni volta che ti ho posto una domanda un po' più intima delle altre, o che ho capito come andavano le cose ancora prima che tu me lo dicessi, mi hai sempre risposto con sufficienza. È perché non vuoi esporti, va bene. Va bene con Matt, va bene con Stef, ma non va bene con me, perché così facendo ti freghi da solo. Perché lo fai, Brian?»

 

Anna Beckett sapeva cogliere nel segno, Brian doveva riconoscerglielo. 

 

    «... non lo so. Mi viene naturale.»

 

Anna pensò di segnarselo, ma si era accorta che a Brian dava fastidio. Per una volta evitò di usare il bloc notes: quel punto se lo sarebbe ricordato comunque.

 

    «È sempre stato così?»

    «Sì. So che con te non dovrei farlo.»

    «Se lo fai non posso aiutarti Brian. Questo è l'unico motivo per cui te l'ho fatto notare. Ora dimmi, Brian.»

    «D'accordo. Ci provo.»

 

“D'accordo” stava per “scusa” — si capisce benissimo anche senza esplicitarlo, di sicuro lei ha capito.

    

    «Ti ascolto.»

    «Odio. Rabbia. Di tristezza sorprendentemente poca, in realtà.» Le sensazioni.

    «Perché l'hai subito odiato? Normalmente è più normale cominciare con l'intristirsi.»

    

Brian ridusse gli occhi a due fessure per un istante. Non era un ricordo troppo piacevole.

 

    «Perché gli avevo scritto “Anch'io”. Gli avevo mandato io, l'ultimo messaggio. E poi lui... sparito. La sera successiva non mi aveva ancora scritto, e io ho subito pensato che avesse fatto qualche scommessa con qualcuno, sai tipo: “Vediamo se riesco a far fesso Brian Molko”. Sentivo di esserci cascato, e l'ho odiato a morte, per questo.»

    «È così che è finito tutto?»

    

Brian si tirò un po' più su sulla chaise longue, e la sua faccia si fece più stupita.

 

    «Cosa? Finito? No, quando è successo questo la nostra storia non era nemmeno... cominciata!»

 

Il viso di Anna si fece assorto, e Brian prese a gesticolare, per spiegarsi meglio.

 

    «Intendo dire, sì, ci eravamo già baciati, ma la nostra storia, quella... seria, diciamo così... è iniziata dopo, a dicembre!»

    «E allora, questa pausa di due mesi dopo il primo bacio?», chiese confusa lei.

    «Be', la settimana successiva ancora non si era fatto sentire.» Scosse la testa. Doveva dirlo. Era la sua analista. «Lì. Lì è subentrata la tristezza. Pensavo davvero che fosse stato tutto un gioco, mentre per me... insomma, io lo volevo davvero. Però poi, una sera a casa di Stef, ho trovato delle...»

 

 

 

 

 

 

2

 

 

 

    «... riviste di gossip, Stef? Sei checca fino a questo punto?», fece lapidario Brian, un giornaletto dalla copertina variopinta in mano.

    «Oh, taci, Molko.»

 

Brian non rispose e si accucciò più comodamente sul divano, portandosi la rivista sulle ginocchia. Lui e Stef erano stati una coppia fino all'anno prima, e normalmente quando due persone stanno così bene assieme ma poi, per vari motivi, si lasciano, non dovrebbero continuare a vedersi con tanta disinvoltura. In realtà capitava spesso, per non dire sempre, che Brian si piazzasse a casa di Stef. Ci andava quando aveva qualcosa da festeggiare (per bere in compagnia), quando non stava bene (per essere viziato da qualcuno), o anche quando non aveva voglia di rifare il letto. A casa di Stef le lenzuola erano sempre tanto profumate! In questi casi, la sua invasione in casa Osdal si divideva in tre fasi. 

    Prima fase: irruzione.

    Seconda fase: tentativo di spedire Stef a dormire sul divano («Lasciami il tuo letto, Stef, riposerai bene anche in sala», «Nemmeno se mi spari»).

    Terza fase: rinuncia parziale alla seconda fase (“parziale” in quanto entrambi finivano con il dormire nel letto del padrone di casa — nel senso più casto dell'espressione, chiaro). 

    Ad ogni modo, Brian stava ancora lavorando sulla seconda fase.

 

    «No.»

    «E andiamo, Stef, cosa ti costa lasciarmi un po' di privacy?»

    «Avrai tutta la privacy che vuoi, se dormirai sul divano.»

    «Il tuo letto è più comodo.»

    «Per questo non lo lascerei a te nemmeno sotto tortura.»

    «Sei un ingrato.»

    «Oh, già!», esclamò lui, sarcastico, «Con tutta la fatica che hai fatto per aiutarmi a caricare la lavastoviglie! Che ingrato che sono!»

   

Chiaramente, finita la cena, Brian si era comodamente sistemato in salotto, mentre l'amico si preoccupava di armeggiare con piatti, posate e sgrassatori.

 

    «Taci, Osdal, non riesco a leggere la rivista.»

    «Ah, e chi è la checca, ora?»

    «Sempre tu.»

 

Stef scosse la testa e si allungò verso il tavolino per raggiungere il telecomando. Ogni tanto guardava Brian. Si stava comportando in modo meno naturale del solito. Non osò fare domande.

    Brian, nel frattempo, sfogliava svogliatamente le pagine intrise di pettegolezzi del giornale, facendo un gran chiasso con la carta. E proprio quando Stef stava per chiedergli, se, cortesemente, potesse porre fine a quel concertino, il rumore cessò. 

    Lo guardò. Aveva inchiodato gli occhi su un articolo.

 

    «Brian?»

    «Sssh», lo zittì frettolosamente lui.

 

Non era stata tanto la foto, ad attirare la sua attenzione. Di quelle ce n'erano tante, in giro. Era stato il titolo. Cominciò a leggere, velocissimo. 

 

    «Brian?»

    «...»

    «Brian?»

    «Dio di un Cristo, Stef, puoi tenere la bocca chiusa per un cazzo di secondo?! Pensi di farcela?!», sbottò questi.

 

Stef sospirò e si mise comodo, sdraiandosi su quanto spazio libero restava del divano. In condizioni di normalità avrebbe chiesto a Brian di fargli appoggiare i piedi sulle sue cosce, ma ora non gli sembrava proprio il caso.

    Brian, ormai, aveva già letto l'articolo due volte, così tornò al titolo. Quel titolo.

 


Kate Hudson e Matt Bellamy: la coppia più invidiata del momento ora aspetta un bambino!


 

Lo rilesse ancora. Guardò le foto. In una Kate. In una Matt. In una Kate con Matt. Ecco qui Matt in concerto ed ecco lì Kate con la pancia. 

    Lesse le frasi poste in evidenza. 

 


Matt Bellamy: «Non ammetterò più alcuna distrazione; il mio tempo sarà a piena disposizione di mio figlio.»

 


«Ho messo la testa a posto, ho detto addio alle pazzie e alle avventure. Tranne la musica. Quella resta.»

 


E nonostante i pensieri, nonostante il tuffo al cuore, nonostante tutto, a Brian venne da dire solo una parola. 

 

    «Ah.»

    «Mh? Hai detto qualcosa?», chiese Stef. A Brian sembrava che gli parlasse da un punto lontanissimo.

    Scosse la testa per più tempo del necessario. «No. Non ho detto nulla.»

 

Mi chiedevo dove fossi finito.

    Guardò la foto in cui un entusiasta Matt posava una mano sulla pancia della sua compagna.

    Ed eccoti qui. Be'... congratulazioni.

 

 

 

 

 

 

3

 

 

 

    «L'hai scoperto così? Lui non te ne aveva mai parlato?»

    «No. Sapevo di Kate, non sapevo certo di... Bing.» Pausa. «Certo è che anche se non ci fossero state foto e il titolo fosse stato: “Il nome di mio figlio sarà Bing”, avrei fatto due più due. Chi altri potrebbe chiamare un bambino “Bing”?»

    «Eri più triste o arrabbiato, in quel momento?»

 

Lui ci pensò su. Mh, non c'era dubbio. 

 

    «Quando, dopo il bacio, era sparito, arrabbiato. Quando erano passate ormai due settimane senza che si fosse più fatto sentire, triste. Quando ho aperto quella rivista...»

    «Quando hai aperto quella rivista...?»

    «Non saprei nemmeno come spiegarlo. Ma era una sensazione che vorrei non dover provare mai più.»

 

Si guardò le mani. Stavano...

 

 

 

 

 

 

4

 

 

 

    ... tremando! Stai bene, Brian?»

 

Chi parlava? Stef? ... oh, già, Stef. No aspetta, perché Stef? ... oh, già, era a casa di Stef.

 

    «Mh?»

 

Sentiva una mano sulla spalla, ma cosa...? Oh. Sempre Stef, giusto.

 

    «Brian, si può sapere che hai? Cos'hai visto di tanto sconvolgente?, tremi come una foglia!»

    «Tremo quando sono nervoso.»

    «Questo lo so.»

 

Stef si sporse più in avanti per cercare la causa di tanto sconvolgimento, e Brian, dal canto suo, non fu abbastanza rapido a chiudere la rivista.

 

    «Cos'è? È per questo?», chiese tranquillamente Stef, togliendogli il giornale dalle mani. «È per qualcosa che dice qui?»

    Brian formulò un: «No» poco convinto.

 

Stef staccò gli occhi dall'articolo e gli rivolse uno sguardo interrogativo.

 

    «Cosa c'è di strano? Che Bellamy avrà un figlio? E grazie a Dio, che finalmente avrà 'sto figlio! Sono mesi che rompe i coglioni che vuole avere un figlio!»

    «Ah sì?»

    «Non si parla d'altro!», fece stridulo Stef, ridacchiando. 

 

Poi tornò serio. Cercò... qualcosa, nell'espressione di Brian, ma vi scorse solo tristezza, e pensò di essersi sbagliato. La tristezza non gli sembrava un “qualcosa” plausibile. Perché Brian avrebbe dovuto essere triste?

 

    «Brian, tutto ok?»

    «Certo che sì. È che...»

    «È che...?»

    «... dovevo saperlo.»

    «Saperlo? Ma di che parli?»

    

Brian, che prima aveva spostato lo sguardo sul parquet, tornò a guardare Stef, sforzando un sorriso. Sperò di dargliela a bere.

 

    «Del bambino. Sai che odio non sapere le cose per primo, no? Del bambino, Stef. Dovevo sapere del bambino.»

 

 

 

 

 

 

5

 

 

 

    «Mi ero giurato che se si fosse ripresentato alla mia porta, io... l'avrei ricoperto di insulti, e poi cacciato. L'avrei distrutto, Anna.»

 

Un sopracciglio di lei, perfettamente disegnato, si arcuò. 

 

    «E invece?»

    Brian sospirò. «E invece la sera del mio...»

 

 

 

 

 

 

6

 

 

 

    ... compleanno! Non puoi non uscire nemmeno di casa! Si può sapere che cos'hai?!»

 

Brian teneva il cordless tra l'orecchio sinistro e la spalla. Stava scrivendo musica, e oltretutto quella chiamata lo aveva seccato oltremodo.

 

    «Quando mai nella mia vita ho festeggiato il compleanno, Osdal?»

    «Ogni anno, forse?!»

    «Cazzate!»

    «Brian, non è una festa, si tratta solo di venire a cena con me e Steve, punto!»

    «Ah be'. Mi diverto al solo pensiero.»

 

La cornetta non trasmise nessun suono per una buona manciata di secondi. Poi Stef.

 

    «... sei proprio uno stronzo, Brian.»

 

Il segnale del ricevitore, a vuoto. Restò ad ascoltarlo per un po'.

    Sì, era il suo compleanno, e no, non aveva voglia di festeggiare un bel niente. E poi già aveva freddo in casa, figuriamoci fuori. Era un crimine, forse? Non gli risultava. Ecco tutto. 

    A Stef sarebbe passata.

    Si trascinò in cucina, anche se non aveva certo fame, giusto per riempirsi un po' lo stomaco.

    E poi suonò il campanello. Pensò di aver sentito male, lo ignorò. Il campanello suonò di nuovo, e allora lui raggiunse la porta a passo di carica.

 

    «Stef, ti ho già detto che...»

 

Aprì la porta.

 

    «Ehm... ciao, Brian.»

 

Non era Stef. 

    Matt. Era Matt. 

    Non se lo aspettava, e questo era un colpo basso. Bassissimo. Matt portava con sé il fresco dell'esterno, cosa che in altri frangenti avrebbe fatto venire a Brian tanta voglia di abbracciarlo forte. 

 

    «Io... io so che oggi è il tuo compleanno. In realtà non mi aspettavo di trovarti in casa, e volevo solo lasciarti qui il mio regalo perché lo trovassi una volta rientrato, però il portinaio mi ha detto che c'eri e...» Estrasse un pacchettino dalla giacca, ma Brian non lo guardò nemmeno.

    «Vattene.»

    

Matt abbassò la testa, Brian invece continuò a guardarlo fisso. Voleva ucciderlo. Di botte.

 

    «Brian, senti, lo so che non mi sono più fatto sentire, ma...»

    «Vattene.»

    «Ma...»

    «Sparisci dalla mia vista.»

    Matt lasciò ricadere lungo il fianco la mano con cui gli stava porgendo il regalo. «Brian, ti prego, io...»

    «“Tu” cosa? “Tu”... cosa, Bellamy? Cosa?»

    «Mi dispiace di non averti più chiamato.» Teneva lo sguardo fisso sui propri piedi, mentre parlava. «Non mi aspetto che mi perdoni subito. Ma volevo davvero rivederti, Brian.»

    «Ah, sì? Che buffo! Pensavo che non avessi più tempo per “pazzie” e “avventure”», ribatté questi, con pesante sarcasmo. «Sono contento per te e per la tua donna. Ora lasciami in pace.»

    

Matt non rispose, e nemmeno lo guardò. E nemmeno si smosse di lì. 

 

    «Bellamy? Vat-te-ne.»

    

Ti prego, non andartene, pregò nel profondo, anche se la parte predominante di sé desiderava davvero, con tutto il cuore, che se ne andasse.

 

    «Brian, senti...»

    «“Senti” un cazzo, Bellamy! Sparisci!»

    «E invece mi stai a sentire!», sbottò lui.

 

Brian fu preso in contropiede, e non rispose.

    Sì. Ti sto a sentire, Matt. Dimmi.

    

    «Io ho avuto un periodo di merda, e...»

    «Oh, poverino.»

    «... e nemmeno io sapevo del bambino. Non ne sono nemmeno così entusiasta, a dire la verità. Anzi. Avrai letto i giornali, immagino, e... quello che ho detto ai giornali, le mie frasi, dico, erano puramente circostanziali.» 

    «Immagino.»

    Matt riceveva ogni affondo di Brian abbassando la testa. «Ho fatto un casino, e penso di non volere questo bambino. Affatto. Ma Kate era così contenta, e ha prenotato per entrambi due mesi di vacanza in California, e...»

    «Risparmiami il discorso del penitente, Bellamy. Ho già abbastanza problemi di mio.»

    «Che succede?», chiese Matt. Si era fatto ancora più assorto, e ora lo guardava negli occhi.

    «Fatti miei. Abbiamo finito?»

    «Brian, esci con me, per cena. Non ti parlerò dei miei problemi, te lo giuro, ma non posso permettermi di buttare tutto nel cesso.»

    «Ti serve solo qualcosa che ti tenga legato alla vita reale. Prenditi le tue responsabilità, Bellamy.»

    «Non è così!», gridò Matt. «Quando ho iniziato a volerti vedere, ancora non sapevo del bambino!»

 

Brian si appoggiò contro lo stipite e si permise di riflettere. Tornare in casa e lasciarsi tutto alle spalle, in quel momento, aveva poco senso: sapeva che Matt sarebbe comunque rimasto fuori. Ma soprattutto era passato troppo tempo da quando avevano iniziato a parlare, e sbattergli la porta in faccia ora non avrebbe sortito lo stesso effetto drammatico che avrebbe sortito in un altro momento. La drammaticità era sempre importante. 

    E allora cosa gli restava da fare? Ascoltarlo, chiaro. E cercare di uscirne in qualche modo.

 

    «Perché, Bellamy?»

    «“Perché” cosa?»

    «Perché tutto questo? Ami Kate? No, e non dirmi di sì perché ti si legge in faccia, che la sopporti appena. Però non la lasci. Ami me, allora? Ma per cortesia. Però non mi lasci. In pace, intendo. Vuoi un bambino? Dio, no che non lo vuoi! E insemini la Hudson. Ma che cosa ti dice il cervello?!»

 

Matt sembrò riflettere seriamente su quanto si era appena sentito dire. Ed effettivamente il discorso di Brian non faceva una piega.

 

    «... non lo so», rispose infine. «Però so che se non lascio Kate è perché tutto sommato è una bella persona, e non si merita che io la lasci. Mi sembrerebbe di essere un ingrato, per tutta la pazienza che ha avuto con me finora. E il bambino è stato un incidente, ma questo non potevamo certo dirlo ai giornali, perché non è esattamente... chic, una cosa del genere.»

    «Parli di chic, parli di musica... parli di tutto ciò in cui non hai competenze, Bellamy.»

    Matt sorrise amaramente. «E per quanto riguarda te, ti prego solo di sapere che... quello che ti dico, intendo, è... è vero. Non mi interessano le avventure — ci sono le groupies, per quello —, e non mi imbarco in scommesse assurde o giochi da idioti. Sono una persona pigra. Non ti avrei mai portato il regalo di compleanno, direttamente a casa tua, in una gelida giornata di dicembre, con due ore di sonno alle spalle, solo perché sei un'“avventura”.»

    Brian scosse la testa. «Che vuoi fare?»

    «Chiarire con te. E festeggiarti. A cena, adesso.»

 

Brian odiò notare il modo in cui quel... quel... Bellamy, era riuscito ad addolcirlo. Ma se amava essere sincero con se stesso, allora tanto valeva che lo ammettesse. Gli cambiava l'umore. E in pochi ci riuscivano.

 

    «Se uscissimo ora e incontrassimo in giro Stef ci farei una figura barbina.»

 

Stava per accettare? 

    Stai per accettare?

    Ovvio che no.

    Ah, ecco.

 

    «Al massimo, avremmo probabilità di incontrarli solo in un posto molto raffinato, non trovi?», replicò Matt.

    «E quindi?»

    «Ti fidi se ti dico che non li incontreremo?»

    «No.»

    «Immmaginavo», disse, e spostò il peso sulla gamba opposta. Iniziavano a formicolargli i piedi.

    «Bellamy.»

    

Matt alzò lo sguardo.

 

    «Sì?»

    «Vedi quell'ascensore alla tua sinistra, in fondo al corridoio?» 

 

Brian si sporse di poco fuori dalla porta e indicò in quella direzione. 

 

    «Aha.»

    «Pensi di farcela a raggiungerlo?»

    «... sì», rispose Matt.

    «Bene», disse allora Brian. «Vai, per cortesia.»

    Matt aprì la bocca, la richiuse. «... e il regalo? Posso lasciarti almeno questo?»

    

Brian piegò la testa da un lato e ridacchiò, anche se non c'era proprio nulla da ridere.

 

    «Lo vedi che non capisci mai un cazzo, Bellamy?»

    «Eh?» Matt lo fissò con un'aria poco intelligente.

    «Vai!»

    «Ma il regalo...»

    «Dopo, Bellamy!», sbottò Brian. «Dopo! Vai al cazzo di ascensore, premi il pulsante e... aspettami mentre prendo la giacca!»

 

Matt non riuscì a non mostrare trentadue denti di sorriso, gli occhi sgranati. 

 

    «Sul serio? Stai uscendo con me?», chiese.

    «Non farmici pensare troppo», scorciò Brian. «Aspettami lì.»

 

 

 

 

 

 

7

 

 

 

    «Mi dispiace se non è molto elegante, so che ti meriteresti qualcosa di raffinatissimo. Però non possiamo essere scoperti.»

 

Una delle vetrine era raggiata per tutta la superficie, segno che qualche simpaticone doveva essersi divertito a lanciarvi dei sassi contro. Da fuori pareva un disastro, certo, ma il ristorante in sé era comunque un bel posticino. E magari non era proprio un locale da ricchi, ma, ecco, da benestanti. Brian rifletté su quanto si sarebbero potuti dire a cena. E si rese conto che non avevano argomenti in comune. 

    Sarà, ma a te che te ne frega?

    Nulla, nulla davvero.

    Ecco.

    Sì.

 

    «Non me n'ero accorto, lo sai? Dico della vetrina.»

 

Matt, dietro alle sue spalle, gli sorrise senza essere visto.

 

 

 

 

 

 

8

 

 

 

    «Ti vedo benissimo.»

    «Sssh, mi deconcentri. Ummmmm... uuummmmm...»

    «Bellamy, ti vedo!»

    «... ummmmm...»

    «Bellamy, ti vedo proprio chiaramente, che stai usando il pollice!»

    «... aaammmmm...»

    «Povero me, con chi sono finito.»

    «Sei solo geloso perché tu non lo sai fare.»

    «Neanche tu lo sai fare, Bellamy, non hai nessun potere psichico, il cucchiaio lo stai piegando con il pollice, ti vedo!»

    «... uuummmmm...»

    «E smettila di fare questi versi mistici»

    «... mmmmmhhh...»

    «Va bene, abbiamo capito, sei un mago! Uuuh, Matthew Bellamy è un mago, che portento! Ora smettila, ci stanno guardando tutti!»

    «... aaammmmm...»

    «... come non detto.»

 

 

 

 

 

 

9

 

 

 

A fine serata, sparecchiando un tavolo, un cameriere trovò un cucchiaio da minestra con il gambo piegato ad angolo di novanta gradi.

    Probabilmente qualche bambino aveva voluto far credere ai genitori di possedere facoltà psichiche paranormali, quando sanno tutti che il cucchiaio basta impugnarlo e piegarlo piano piano con il pollice. 

    Il cameriere ridacchiò tra sé e sé, raddrizzò la posata con le mani e continuò con il suo lavoro.

 

 

 

 

 

 

10

 

 

 

Ciao Matt.

 

    Sì, sto andando avanti con questa cosa delle lettere. E sì, è ridicolo. E no, non le leggerai mai.

    La mia analista mi ha detto che in un rapporto di coppia la cosa più importante è la trasparenza. Mi chiedo perché me l'abbia detto, dato che si dà il caso che ora come ora io non faccia parte di nessuna coppia. Comunque si può fare. Questa cosa della trasparenza, dico. Del resto, penso di essere sempre stato abbastanza trasparente, con te, e quando non lo ero volutamente, per te lo ero comunque, non so se mi spiego.

    L'hai sempre saputo, non è così? Brutto stronzo, ma l'ho sempre saputo anch'io, sai? Lo sapevamo entrambi: che io mi innamorassi di te era solo questione di tempo. 

    Touché, come diresti tu. No, aspetta, tu diresti qualcosa come “tiùcce”, o “tòuce”, dato che hai una pronuncia in francese a dir poco tremenda. 

    Per il mio compleanno mi hai portato in quel ristorante con la vetrina rotta, te lo ricordi? Aspettare le ordinazioni non era mai stato così rilassante. Di solito mi snerva, sai? E invece no, quella volta proprio per niente. Anzi, quando il cameriere è arrivato l'ho odiato un pochino, sai, ci ha interrotto mentre stavi per parlarmi un po' più di te. 

    Lo stomaco mi si era aperto all'improvviso, come se qualcuno ci avesse fatto esplodere dentro qualcosa. Quando te ne eri andato, dopo il nostro primo bacio, si potrebbe dire che avevo smesso di punto in bianco di mangiare, lo sai? E quando sei tornato... non lo so, è stata come una scossa. 

    Ma guarda te cosa mi sono ridotto a dire.

    Usciti dal ristorante con la vetrina rotta, abbiamo pure preso il gelato, e mangiandolo abbiamo fatto la strada lungo al fiume, ti ricordi? Ti ricordi?, ad un certo punto è andata via la luce. Un blackout in tutto il quartiere. E allora il cielo era diventato più bianco che nero, e l'acqua sporca del Tamigi era una tavola d'argento, per il riflesso delle finestre lontane, nei quartieri rimasti illuminati. E in quella meraviglia — perché quando mai vedi le stelle, a Londra? Ci sono stelle, a Londra? —, in quella meraviglia, tutto ciò che hai fatto tu è stato dirmi che ti era colato sul marciapiede un po' di gelato — stracciatella —, e che aveva formato una piccola macchia che secondo te aveva la forma della Nuova Zelanda. Sì, mi hai detto proprio così, «ehi, Brian, guarda se questa macchia non sembra la Nuova Zelanda!». E tutto ciò che sono stato capace di dirti io, in quel momento, è stato solo: «Sì. Sì, è vero, sembra la Nuova Zelanda.»

    Tu ti sei accucciato per guardarla da più vicino, e vederti così concentrato, così assorto per quella piccolezza, per quell'accadimento... completamente insignificante, mi ha fatto salire un'ansia di perderti che a parole non è possibile esprimere, e non so nemmeno perché.

    E io stavo pur sempre mangiando un gelato, ma ti giuro, Matt, io te lo giuro: mentre ti guardavo, sentivo la gola completamente arsa.









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Capitolo 5
*** Alzarsi ***


Buonasera! 

 

Lo so, lo so, il ritardoooo! Ç____Ç

Aaah, perdonatemi, ma ho studiato davvero tantissimo per colmare alcune lacune, e non ho avuto proprio modo di dedicarmi al sito...

 

Ma sono tornata a bomba (sembra una minaccia)!

Questo capitolo è un po' breve, ma il successivo (che è già pronto e che magari pubblicherò tra un paio di giorni) è molto lungo — per compensare, sapete. In questo capitolo ci sarà anche Helena, che è un personaggio a cui sono molto... affezionata? È la parola giusta? Ah, lasciamo stare, questa storia mi fa uno strano effetto. 

 

Spero che questa storia vi piaccia quanto piace a me scriverla e vi ringrazio per i vostri complimenti.

 

Buona lettura! 

 

 

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ALZARSI

 

 

 

    «Pronto? Sì, io vi chiamo sempre per quella questione del contratto. Brian Molko. Sì, con la K. Si ricorda, ho chiamato ieri. Eh. Eh. No... no, ascolti, signorina Hannah... ah, Harper, mi scusi. Signorina Harper, il punto non è il come pagarvi, il punto è il perché! Io non ho mai firmato nessun contratto con voi... ma signorina, ma cosa sta dicendo, mi prende per scemo?! Ma... no, guardi, io non ce l'ho con lei, so che lei fa solo il suo lavoro, ma è proprio l'organizzazione che non va bene, capisce? Tanto più che per quanto sto a casa la luce potrei anche non averla, ma questa è un'altra questione. Mi fa parlare con un responsabile, per cortesia? D'accordo, grazie molte, Harper. Ah, mi mette in attesa? E, mi dica, questa volta l'attesa è di due giorni o di due anni? Perché ormai quando mi mettete in attesa io organizzo dei programmi alternativi per ammazzare il tempo, sa? 

    «... vede, che ride anche lei, signorina Harper.»

 

 

 

 

 

 

1

 

 

 

«Sai, Anna? Secondo me l'unico motivo per cui te ne stai ancora qui ad ascoltarmi è che ormai sei curiosa di vedere come va a finire la storia.»

    

Anna si raddrizzò sulla sedia e sollevò le sopracciglia. Doveva esserle andata male con il tipo dei fiori (quei fiori che Brian le aveva visto in casa). Lei era molto irritabile, e in più si era fatta bionda. Le donne quando hanno qualche grana si tingono i capelli. E comunque bionda era brutta. Non glielo disse.

 

    «Perché non la smetti di dire scemenze e non vai avanti, Brian?»

    «Uuuh, ma allora non si può mai scherzare, qui», lamentò lui. «Va bene. Mmmh, dopo quella serata eravamo... 

 

 

 

 

 

2

 

 

 

    ... arrivati a casa di Brian con una strada alternativa. Ora, per arrivare a casa di Brian non c'era nessuna strada alternativa, ma Matt si piccava di conoscerne una; e tanto insistette perché prendessero quella, che alla fine l'ebbe vinta (“alla fine” mica tanto, Brian non aveva avuto nessuna forza di combattere neanche all'inizio).

    Uscirono dal ristorante alle dieci e mezza, arrivarono a casa di Brian a mezzanotte.

   

    «Sai quanto ci avremmo messo con la mia str... no, non con la mia strada, con l'unica strada che c'è! Venti minuti! Venti!»

    Matt ridacchiò. «Mi sa che mi sono confuso.»

    «Eh, sa anche a me! Metà strada sterrata, con il fango, pure! Ma guarda te in che condizione ho le scarpe, ma ti sembra?! Mancava solo che mi chiedessi di passare sotto al filo spinato, strisciando!»

    «Bello il filo spinato! L'avevo messo sul muro del cortile di una casa che ho in campagna, dove allev... oh, lo sapevi che allevo conigli?»

    «Un topo che alleva conigli, questa sì che è bella», farfugliò Brian.

    «Come hai detto?»

    «Niente. Siamo arrivati», notificò Brian, appoggiandosi con una spalla al portone. 

 

C'era in sottofondo lo sciacquio del fiume. Faceva molto film francese. Matt aveva incrociato le braccia sul petto, e ora sembrava provare, improvvisamente, grandissimo interesse per le punte delle proprie scarpe — “è stata una bella serata”, “non ha fatto schifo, Bellamy”.

 

    «Quando ci rivediamo, Brian?»

    «Quando capita, Bellamy.»

    «Domani capita?»

    «Ci sono cose che sono destinate a capitare spesso, purtroppo.»

 

    Matt sorrideva, Brian anche.

 

    «Senti Brian... io volevo dirti che...»

 

    No, Brian, sta per dirti qualcosa di importante. Fermalo.

 

    «... Ecco... ti sembrerà sciocco, ma...» Matt ridacchiava imbarazzato.

 

    Brian, fermalo.

 

    «... Volevo dirti che ho davvero intenzione di...»

    «Scusa, Bellamy, ora sono un po’ stanco, e... grazie del regalo.» Picchiettò due dita sulla scatoletta che teneva in tasca. «È molto bello, e capisco quanto sia prezioso per te. Pensa che il mio primo plettro è nella cassaforte di casa mia.»

    «Be', il mio è in mani ancora migliori», disse Matt. «Lo userai, per suonare?»

    «Non posso. Finirei per perderlo.»

    «Preferisci goderti fino in fondo una cosa e poi perderla oppure chiuderla in una cassaforte in modo che duri per sempre, ma senza poterla mai vedere?»

    «... Quindi non è un problema, per te, se uso il tuo primo plettro per suonare durante i concerti?»

    «Assolutamente no. Anzi.» 

 

Brian annuì a vuoto. Gli sembrava così... fuori dal mondo.

 

    «Be', allora... ci vediamo domani.»

    «Domani?» Matt si illuminò di colpo.

    «Ho detto domani?»

    «Hai detto domani. Quindi non stavi scherzando, prima!»

    «A quanto pare no», rispose Brian. «... Alle otto?»

    «Alle otto.»

 

 

 

 

 

 

3

 

 

 

    «Brian, stai andando avanti a scrivere le lettere, vero?»

    «No.»

    «Ti dispiace se non ti credo?»

 

 

 

 

 

 

4

 

 

 

Una gran cosa che aveva Helena era che non faceva storie. Sul serio, non faceva nessuna storia. Quel giorno il consiglio dei genitori della nuova scuola di Cody sarebbe toccato a Brian, ma a lui era bastato dire che non aveva proprio nessuna voglia di andarci e lei gli aveva risposto che lo avrebbe sostituito senza problemi. 

E attenzione, non era servilismo. Era non fare storie. Fa una bella differenza. 

    In ogni caso, si sarebbero visti per un caffè prima che lei andasse a scuola. Brian la aspettava facendo scorrere gli occhi su un giornale sportivo che in realtà non stava affatto leggendo, concentrato su altro. Stava ripensando a quel periodo, indietro nel passato, in cui Helena era stata la signora Molko. E notava ora, per la prima volta da quando avevano divorziato, che il rapporto che avevano avuto da sposati era esattamente identico a quello che avevano ora. Identico. Le uniche differenze tra i due disegni erano le fedi mancanti e qualche ruga più profonda.

    E si ritrovò a essere, chissà perché, malinconico. Perché non era stato facile come sembrava esserlo ora, stare con lei? 

    Quando entrò nel bar era elegantissima, con la gonna nera della divisa da lavoro tesa attorno alle gambe e il foulard fantasia che contrastava con i capelli corvini.

    Brian la trovò bellissima. Anche se era una bellezza diversa da quella di... 

    Era una bellezza particolare, ecco.

    Alzò un braccio per farsi vedere, lei lo vide e gli si sedette accanto. Brian guardò l'orologio. Era in ritardo di cinque minuti, come d'accordo. 

    Avevano questo accordo, di cui pure non avevano mai parlato a voce. Lei sarebbe stata cinque minuti in ritardo, sempre. Erano solo cinque, elegantissimi minuti di ritardo, ma c'erano. Era una stranezza, ma era la loro stranezza.

    Ordinarono due caffè e parlarono di Cody per i primi venti minuti o giù di lì. Poi arrivò quel momento — Brian lo stava aspettando con orrore da quando lei era entrata — in cui Helena gli chiese come se la stava passando per quella storia da cui era uscito. Brian si pensava abbastanza preparato per sperare di cambiare argomento in qualche minuto, ma non andò così.

 

    «Bene. Mi sembra che il mio umore sia migliorato. Continuo a vedere Anna, che...»    

    «A me non sembra che il tuo umore sia migliorato, Brian.»

 

A Helena non sfuggiva nulla, e lei non era certo una che si teneva le proprie idee per sé.

 

    «Sto migliorando», affermò Brian, facendola suonare come una protesta.

    «No», rispose allegramente Helena, «affatto. Non sono mica scema, Brian. E quelle parole abbinate a quella faccia potrebbero imbrogliare solo uno scemo.»

    Brian si rilassò contro lo schienale. «Cos'ha la mia faccia che non va?»

    Helena strinse gli occhi e glieli puntò addosso, squadrandolo con grande attenzione. «Hai più rughe...» 

    «Se è per quest...»

    «... e sei più magro, smunto. E hai gli occhi tristi, Brian. Odio vederti così.»

    «Ci sto lavorando, Helena.»

    «Questo non lo metto in dubbio.»

 

Brian aveva ordinato un secondo caffè, e una cameriera con la divisa gialla e blu glielo posò di fronte al naso. Gli diede modo di pensare bene al da farsi. E Brian pensò che se Helena aveva voluto, fin da subito, restare aggiornata sulla sua storia con Matt, allora una ragione doveva pur esserci. Di gelosia non si trattava: sarebbe stato ridicolo, sia nei confronti di Brian che nei confronti di Matt, specie perché ora lei aveva un compagno con cui sembrava trovarsi molto bene. Doveva essere preoccupazione, allora, ed effettivamente Helena non era una che si preoccupava per le bazzecole, però era una che si preoccupava in anticipo. Lei si preoccupava sulla fiducia. E spesso aveva ragione a farlo. Aveva avuto ragione anche questa volta.

 

    «Brian, lo sai che io non voglio sapere nulla di voi, se tu preferisci non parlarne, ma questa... cosa... devi risolverla, in qualche modo.»

    «Mi passerà, Helena. E... dopo si vedrà.»

    «Certo che passerà. Questo è ovvio. Ma io vorrei che tu, piuttosto che pensare al dopo, pensassi ad adesso. A rimetterti in sesto. Non vederlo come un periodo da passare, perché altrimenti ne faresti il periodo del “Tutto è Permesso, Tanto Passerà”. E non so che roba stai prendendo...»

    

Brian deglutì.

 

    «... ma smetti di prenderla. O Cody non lo vedi più finché non sei pulito.»

    «Cerca di capire, Helena.»

    «Una storia finita non è un buon motivo per riprendere confidenza con qualcosa che in passato ti ha quasi ucciso, Brian. Quindi, ripeto, smetti di farti di qualunque cosa ti stia facendo e concentrati sul tentativo di riprendere in mano la tua vita. O a Cody dovrò dire che sei in tour, e preferirei non farlo.»

    «È un ricatto?»

    «Sì.» Guardò l'orologio, elegante e bellissima. «Devo scappare. In dieci minuti l'aula del consiglio dei genitori sarà gremita di stupidi vecchi.» Aveva ripreso un tono di voce allegro.

    «Ti ricordo che hai la stessa età di almeno metà di quegli stupidi vecchi», fece notare Brian con studiata puntigliosità.

    Lei sbuffò teatralmente. «Però non sono stupida. Fa una bella differenza. Vado.»

 

Gli lanciò un bacio amichevole mentre usciva dalla porta a vetri del bar. Alla fine glielo aveva detto anche lei, che doveva riprendere il controllo della propria vita, e Brian pensò che se glielo aveva detto lei, allora doveva per forza crederle.  

    Non faceva mai storie, Helena. 

 

 

 

 

 

 

5

    

 

 

Oggi sono passato davanti al ristorante dove mi hai portato la sera del mio compleanno. Hanno riparato quella finestra rotta.

    Mi piaceva di più prima.     

 

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Capitolo 6
*** Scalzarsi ***


Ciao a tutte (*v*)/

 

Sì, nuovo capitolo. No, non ho vie di mezzo con le tempistiche. 

Dunque, siamo giunti alla fine della seconda parte di questa storia (ce ne sono quattro, ahivoi). Sono mooolto contenta del seguito che sta avendo e della quantità di visite che continua a ricevere, quindi grazie grazie *vi manda molti fiori bianchi e rosa*.

 

Io vi ringrazio di essere qui e come sempre spero, per quei cinque minuti che impiegherete per leggere, di riuscire a trascinarvi un po' nel mio mondo ovattato fatto di scrittura e viaggi mentali. 

 

Oh, dimenticavo: nel caso qualcuna di voi se lo sia chiesto, i vari titoli hanno sì un collegamento — che probabilmente vedo solo io, I know — con i capitoli che accompagnano. ----- ATTENZIONE: DA QUESTO PUNTO IN POI L'AUTRICE SI PERDERÀ IN ELUCUBRAZIONI E APPROFONDIMENTI DI DUBBIA UTILITÀ. PERTANTO, SE NUTRITE SCARSO INTERESSE PER LA NATURA DEI PROCESSI MENTALI DI QUEST'ULTIMA, POTETE DIRETTAMENTE PASSARE ALLO SCRITTO ----- Ad esempio, ad esempio, finora abbiamo avuto: 

Chiamate: introduce la natura della storia stessa, in cui ogni capitolo si apre con una chiamata.

Chi Amate: si riferisce ai due protagonisti, legandoli indissolubilmente (ognuno è quello che ama l'altro, ed è quindi menzionato solo in funzione a quest'ultimo). 

Chi Ama Te: o anche Colui Che Ama Te, frase in cui il complemento oggetto è rappresentato dal protagonista assoluto di questa storia, ovvero Brian Molko (il soggetto è Matt, sì).

Arsi: si riferisce alla sensazione che i protagonisti sentono alla gola per il desiderio reciproco che provano

Alzarsi: si riferisce al fatto che Brian si “alza” dalla propria situazione di stallo (nel capitolo è proprio lui a proporre di rivedersi, finalmente) 

Scalzarsi: me lo dite voi, perché ora vi lascio alla lettura ^_^


(Scusatemi per la tanta logorrea, ma che so, magari vi interessava) 

 

Un grazie speciale alle fedelissime LBeyes e _nick e a comeundone, che su Twitter mi fa tanti complimenti dolci dolci <3. Grazie anche alla Nai, a TwistedDreamer, a Fedenow,a Linnea e a Orienqueen.

 

Ditemi cosa ne pensate, se avete un attimo! 

 

Baci,

 

 

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SCALZARSI

 

 

 

    «Pronto? Ah, dimmi Stef. Domani non posso. Dopodomani? Dopodomani va bene. A casa tua. No, non so a che ora passo. Però arrivo. 

    «... no che non so a che ora passo. Quando mai ti dico per che ora passo. Mai! Ecco, appunto. Ci vediamo dopodomani. Ok. Ciao.» 

 

 

 

 

 

 

1

 

 

 

    «Il vostro fidanzamento era quindi ormai ufficiale, Brian, non è così? Insomma, dopo il tuo compleanno avete fissato il vostro primo appuntamento... consensuale.»

    «Non c'era proprio nulla di ufficiale, Anna.» Brian si stropicciò un occhio con le dita. «Proprio nulla. Di ufficiale c'era il suo fidanzamento con Kate... Kate... ah, oddio, come diavolo...?»

    «Hudson?», imbeccò Anna.

    «Hudson, già già. Giusto. Kate Hudson. Il loro fidanzamento era ufficiale. La dolce attesa di lei era ufficiale. L'antipatia reciproca delle nostre band, anche quella era ufficiale. E forse era proprio questa... sottospecie di clandestinità ad alimentare la nostra storia.»

    

Anna si stava pulendo gli occhiali. Brian non capiva fino a che punto fosse arrabbiata per quel tizio dei fiori — doveva averci messo davvero il cuore, poverina — e fino a che punto, invece, fosse semplicemente stufa di stare a sentire le noiose storie dei suoi clienti. Teoricamente non avrebbe nemmeno avuto bisogno di lavorare. A quanto ne sapeva Brian, era una ricca di famiglia. 

 

    «E non è proprio per tale clandestinità che poi vi siete lasciati?»

    «Non proprio, anzi, direi che... ma questo è successo dopo. La sera del mio compleanno era, in qualche modo, iniziata la nostra vera storia. Ci siamo rivisti il giorno dopo.»

 

Fece una pausa per rimettere al loro posto il prima e il dopo. Gli riusciva sempre più difficile. Specie sotto l'effetto di quella robaccia.

 

    «E...?», incalzò Anna.

    «Il nostro appuntamento era fissato alle otto. Ero talmente nervoso che alle sette ero già pronto per uscire. Doveva passare a prendermi a casa mia.»

    «E non si è presentato?», chiese allora lei con un certo astio. 

 

Brian si voltò verso di lei. Bingo! Il tizio dei fiori doveva averle detto che sarebbe passato e poi doveva averle dato buca senza più nemmeno telefonarle. Altrimenti perché tanto odio nel pronunciare quella frase? 

    Povera Anna.

 

    «No, no», si affrettò a rispondere Brian. «Cioè, sì, sì che si è presentato!»

    Anna abbassò il tono di voce. «... Ah.»

    «Stavo usando quel tono basso solo perché sto cercando di mettere in ordine il tutto.»

    «Sì, sì, ho capito. Scusa.»

 

Povera Anna.

 

    «E...» No, sul serio, povera Anna, forse vuole parlarne.

    «E...?»

    «Ehm, sì, e allora, la sera dopo il mio compleanno, ero lì, in ansia, e... alle sette e otto minuti suona il campanello. Io apro la porta e...     

 

 

 

2

 

 

 

    ... buonasera, Brian», trillò allegramente Matt, il sorriso a trentadue denti – storti – parzialmente nascosto dalla sciarpa.

 

Brian rimase un attimo lì impietrito, una mano che teneva aperta la porta del suo appartamento, l’altra a giacere inerme lungo il fianco, la bocca socchiusa in una elegante “O”; questo è completamente scemo.

 

    «Bellamy, ti do dieci secondi per sparire dalla mia vista e ripresentarti ad un orario accettabile: dieci, nove, tre, due…»

 

Matt rise di gusto, come aveva l’irritante abitudine di fare quando Brian si arrabbiava con lui. «E andiamo, di quanto sarò in anticipo?»

    

    «Sei in anticipo di…» Guardò l’orologio, guardò Matt, sbatté le palpebre due volte. «… cinquantadue minuti, Bellamy.»

    «Però sei pronto», notò asciutto Matt, e lo prese in contropiede.

    «Non sono affatto pronto.»

    «Ah no?» Sembrava l’avesse chiesto con scetticismo, percorse il suo corpo già perfettamente vestito con lo sguardo per due o tre volte.

    «No», si sentì rispondere.

    «Cos’è che dovresti ancora fare?»

    «…»

    «…»

    «Pettinarmi.»

 

Matt stava ancora sulla soglia.

 

    «Pettinarti», registrò. «Posso entrare?»

 

Brian lo guardò, si chiese se avesse ascoltato anche solo una singola parola di ciò che aveva detto, si rispose che probabilmente no, non lo aveva fatto. Disarmante. Era disarmante.

 

    «… sì», capitolò.

 

Si spostò, Matt lo oltrepassò. Brian si guardò attorno, gli occhi che saettavano veloci tra gli oggetti nella sua visuale, registrò ogni cosa fuori posto in un inventario che si sarebbe tenuto in testa per tutta la sera; gli sarebbe servito. Lo fece sedere sul divano con un cenno, “arrivo subito”, sparì in bagno. Si ritrovò davanti allo specchio a pettinarsi i capelli, nonostante se li fosse pettinati già quattro volte, quella sera. Cercò di perdere tempo, si convinse di aver bisogno di un bottone aperto in più, lo aprì e poi lo richiuse, e poi lo aprì di nuovo. Lisciò le pieghe che la sua camicia non aveva, si impose di calmare il respiro e si disubbidì.

    Si sporse sul lavandino per guardarsi il viso da distanza minore, e registrarvi i segni dell’età; gli sarebbe servito anche quello, in un secondo momento.

    Pensò che avrebbe voluto prendersi lo sterno e tirarselo fuori dal petto, pur di liberarsi della pressione che sentiva in quel punto.

 

    «Brian! Ci sei?»

 

Sentì che Matt si era alzato dal divano per cercarlo, lo sentiva, che si stava avvicinando, e gli diede fastidio, perché che cazzo mi metti fretta a fare, se ti sei presentato alla porta di casa mia con cinquantadue minuti d'anticipo? Gli venne automatica una maggiore pressione dei palmi sui bordi del lavandino, che sfruttò solo per darsi la spinta necessaria a rimettersi dritto.

    Non è giusto.

 

    «Brian!»

 

Di nuovo quella cosa al petto.

    Si sforzò di pensare alle cose da mettere in ordine che c'erano nell’ingresso di casa, e quando vide la figura di Matt comparire nel riflesso dello specchio e appoggiarsi allegramente contro lo stipite, braccia incrociate al petto e sorriso sereno, decise che avrebbe elencato quelle cose in ordine di grandezza.

 

    «Brian, è tutto ok? Ho fatto un giro nel tuo salotto, e ho notato che…»

 

Polvere, chiavi…

 

    «… perché ne ho uno uguale, ma dell’edizione precedente, l’avevo comprato in una libreria vicina al centro qualche anno fa, e…»

 

… posacenere, libro, penna…

 

«… quindi anche a te piace Flaubert!»

 

… no, la penna è più piccola… polvere, chiavi, penna…

 

    «Brian?»

 

… posacenere, libro, cappello…

 

    «Brian?!» Lo strattonò per una spalla, a Brian sembrò di risvegliarsi da un sogno.

    «Sì», rispose Brian, senza sapere bene a che cosa. Gli occhi di Matt rimbalzarono sullo specchio e si tuffarono nei suoi.

 

    «… Brian.»

    «Ci sono. Andiamo?»

 

Matt gli scoccò un’espressione perplessa che Brian ebbe l’accortezza di schivare, sorpassandolo per uscire dal bagno; lui lo seguì in sala e poi nell’ingresso, lo guardava mentre si faceva abbracciare il collo dalla sciarpa di lana, l’aria assente e i movimenti meccanici. Brian, da parte sua, aveva notato alcune monete impilate fuori dal portaoggetti (eh no, sarebbero dovute andare dentro al portaoggetti!) e le aveva aggiunte alla lista che si era scritto in testa – le avrebbe inserite dopo la polvere e prima delle chiavi. Fino a quel momento aveva funzionato, no? La tensione che prima sentiva sul petto aveva liberato lo sterno ed era andata ad impregnare lo spazio che lo separava da Matt.

    Certo, magari ora Matt si sentiva in imbarazzo e il silenzio pulsava un po’ nelle orecchie, ma almeno Brian aveva ripreso a respirare.

    Perché, poi, questo imbarazzo? Cosa c'è oggi di tanto diverso da ieri?

 

    «Brian, sei sicuro di stare bene?» Si stava preoccupando.

    «Sì. Ho solo dormito poco.» Era vero.

    «Se non te la senti non c’è problema, possiamo rimandare.»

 

Riuscì ad ottenere che Brian si voltasse verso di lui con aria interrogativa. «No. Voglio che usciamo.»

 

Questa piatta e sincera ammissione fece sorridere Matt, non se l'aspettava. La colse, l’assaporò per qualche istante e se la mise in tasca. «Vuoi che usciamo», ripeté.

 

    «Sì», confermò Brian. Si era come… addolcito – no, non addolcito, domato era la parola giusta –, e Matt lo trovò bellissimo. Glielo disse.

    

    «Sei bellissimo.»

    «No.»

    «Come vuoi.»

 

Brian prese il cappello nero dal mobile su cui lo aveva posato, si annotò mentalmente che avrebbe dovuto toglierlo dalla sua lista delle cose da mettere in ordine; se lo calcò in testa, indossò la giacca. Pronto. Sentiva Matt che lo fissava – smettila di fissarmi così forte.

 

    «Andiamo con la mia macchina, ti va?», chiese Matt.

 

Brian gli disse che gli andava, finse di cercare le chiavi per qualche secondo, finse di essere sorpreso quando le ritrovò in tasca – Matt sorrise con un piccolo sbuffo, per la cosa –, non sapeva nemmeno che senso avesse, cercare di guadagnare tanto tempo. Si impose di calmarsi e questa volta si ubbidì.

 

    «Dove mi porti?» chiese, mentre uscivano di casa.

 

Matt non rispose, Brian non insistette.

 

 

 

3

 

 

 

Era un ristorante che Brian etichettò fin dal primo momento come “pacchiano” – del resto, l’ha pur sempre scelto Bellamy; si sviluppava in un locale di forma regolare, l’intonaco bianco costellato di quadri che Brian etichettò come “croste”. I tavoli erano tutti coperti da agghiaccianti tovaglie… gialle? Ocra? Brian non riuscì a definirne il colore. Pensò che Matt era partito male, pensò che Matt si sarebbe dovuto riscattare in qualche altro modo, pensò che ciascuno di quei tavoli era troppo vicino ai tavoli degli altri clienti.

    Matt sorrise cordialmente al proprietario, salutò, si voltò verso Brian.

 

    «Andiamo al tavolo?», chiese, notando la titubanza dell’altro. 

 

Si sentì rispondere di sì e fece strada all’interno della sala. Brian lo seguiva, disegnava con gli occhi l’attaccatura dei capelli sulla sua nuca; ad ogni tavolo a cui passavano accanto, pregava con tutto il cuore che Matt decidesse di non sedersi, o che decidesse di sedersi subito, che dicesse “mettiamoci lì” o “no, questo non mi piace”. Che dicesse qualcosa, diamine! Brian aveva la paura irrazionale delle sorprese, o meglio, del farsi cogliere impreparato, e lo metteva in agitazione rimettersi alle decisioni imprevedibili di un altro – sì, anche solo per un insulso tavolo.

    Doveva dirmi prima dove saremmo andati e a che tavolo ci saremmo seduti.

    Non sapeva perché, ma gli ricordò la sensazione che provava da bambino quando alle feste c’era il gioco delle sedie – la massima tensione che lo attanagliava nello spazio tra una sedia e l’altra. Era la stessa tensione, solo con i tavoli.

    Il gioco dei tavoli.

    Li avevano superati tutti, Matt proseguiva inesorabile, salirono una scala che Brian non aveva notato e sbucarono in una piccola terrazza coperta, grande finestra su un lato, tutti tavoli vuoti tranne uno, apparecchiato. Brian guardò il tavolo, guardò Matt, guardò ancora il tavolo e Matt rispose alla domanda che non gli era stata posta facendo un cenno con la mano che stava a significare: “Sì, puoi sederti”.

 

    «Dà sulla città» mormorò Brian, incollando il naso al vetro.

 

Matt stava qualche passo più indietro, lo guardava guardare fuori.

 

    «Sì.»

    «L’avevi prenotato?»

    «Sì. Ti piace?»

    «Sì.»

 

Si scollò dalla finestra e Matt fotografò con gli occhi il modo in cui il suo fiato aveva appannato il vetro, lo guardò mentre si sedeva con aria stralunata.

    La tovaglia è sempre di un colore indefinibile, pensò Brian, ma qui sta bene. Beh. Nemmeno troppo, forse.

    Matt prese posto davanti a lui, gli porse uno dei due menù, “cosa prendi?”, “non saprei, tu?”, poi solo il rumore delle pagine e quello delle macchine, spezzato dal vetro spesso della finestra.

    Dal nulla, si misero a chiacchierare del più e del meno – una conversazione leggera, che scorreva veloce e senza intoppi, senza che Brian sentisse il bisogno di aprirsi la cassa toracica come un armadio per non soffocare i polmoni. Matt gli aveva detto che quando i Placebo si erano formati da poco e i Muse non si chiamavano nemmeno così, gli era capitato di sentire una loro canzone, ma non si ricordava quale fosse.

 

    «Il motivetto lo sapresti ripetere?», fece Brian.

    «No, non ne ho idea! Sono abbastanza sicuro fosse la canzone di un video, o qualcosa del genere.» Fissava un punto indefinito della tovaglia, concentrato. «... ma non me lo ricordo. Avrà fatto schifo, come ogni cosa vostra», scherzò, pungente.

    «Forse avresti fatto bene a prendere ispirazione, Bellamy, almeno adesso potresti essere famoso per la tua musica, e non perché la tua donna è un'attricetta di commedie romantiche.»

    «…»

    «…»

 

Brian si chiese se scusarsi sarebbe servito a qualcosa o avrebbe solo alimentato l’imbarazzo, ma da un lato sperava che Matt desse una risposta intelligente a quella provocazione che gli era uscita un po’ volutamente, un po’ per sbaglio. 

 

    «Mucca.»

 

Ecco, “mucca”, ad esempio.

 

    «Prego?»

    «Nel video. Ad un certo punto c’era una mucca.» Matt lo guardava negli occhi, serio.

 

Una ritirata in grande stile, Bellamy, concesse mentalmente Brian.

 

    «Bruise Pristine.»

    «Oh. Sì, può essere.»

 

Il cameriere li salvò da un imbarazzo che altrimenti si sarebbe potuto protrarre anche all'infinito, e “cosa desiderate ordinare?”, “per me la specialità del giorno” e “per me lo stesso”.

    Parlarono prima che arrivasse il vino, dopo che fu arrivato il vino, prima che arrivasse la cena e dopo che fu arrivata la cena.

 

    «Perché questo stile così androgino, Brian?», chiese Matt, ad un certo punto della serata.

    Brian sorrise. «È stata la cosa più ribelle e insieme la più semplice da ottenere, a suo tempo.» Fece una pausa. «Ero minuto, poco mascolino, portavo i capelli da donna... è bastato aggiungere il mascara secco di mia madre e il profumo da poco che riuscivo a comprare di nascosto.»

    «Di nascosto?»

    «Quando hai iniziato a suonare il piano, Bellamy?», fece di botto.

    «C-cosa?»

 

Brian aveva sollevato il suo calice e aveva nascosto la bocca dietro di esso, il vetro appoggiato alla punta del naso, le dita intorno al gambo. Gli occhi erano seri. Ripeté la domanda.

 

    «Oh. Me l’ha... me l’ha insegnato mio padre, sì... è stato il primo strumento che ho imparato a suonare.»

    Brian annuì. «Com'è tuo padre?»

    Un sorriso amaro. «Tu lo sai?»

    «Oh. Scusa.» 

    «Non c'è problema.» 

 

Restarono qualche attimo in silenzio, Matt sorrideva, Brian no. 

 

    «Beh, parte tutto da lì, no?», riprese Matt.

    «Da lì dove?»

    «Un po’ di grane e qualche nota di musica classica.»

 

Brian gli disse che si trovava d’accordo, Matt gli chiese quali fossero i suoi compositori preferiti, Brian rispose di amare Tchaikovsky. Parlarono per talmente tanto tempo che a interromperli fu lo stesso cameriere che li aveva serviti, per avvisarli che a mezzanotte il ristorante avrebbe chiuso. Parcheggiarono lontano da casa di Brian e poi camminarono, parlarono ancora, e Matt lo guardava fumare con calma.

 

    «... no, dico sul serio, lo sai a chi somigli, con quel cappottone nero, il cappello e tutto?», disse Matt, ridacchiando.

    «A chi somiglio, sentiamo?!», fece esasperato Brian.

    «Hai presente Frollo?»

    Brian si ruppe in una risata. «Fottiti, Bellamy.»

    «Ehi, Claude, guarda che sono cattolico, eh, non scaldarti!»

   

Brian gli mollò uno schiaffetto piuttosto effeminato sul braccio.

 

    «Ehi, Brian.»

    «Che c'è?»

    «Kyrieeee eleeeiiisooon.[1]»

    «Dio, come sei infantile, Bellamy.» Ma ormai rideva.

 

Ci furono altri scambi su questo genere; “ehi, giudice Frollo, ma ce l'hai ancora quella sbandata per Esmeralda?”, e “fottiti”, e “se vuoi che iooo, io ti proteggaaa...”, “Bellamy, ti prego!”, “... di me soltanto d'ora in poi dovrai fidartiii...”[2]. Poi tornarono entrambi seri, solo vaghi sorrisetti dipinti sulle labbra.    

 

    «Alloraaa...», fece Matt.

    «Allora?», incalzò Brian, cercando di mantenere un'intonazione annoiata. 

 

Erano al portone. Esattamente come ventiquattr'ore prima. Matt moriva dalla voglia di salire, ma lui non l'avrebbe affatto aiutato. Questa voleva proprio godersela.

 

    «Beee'...»

    «Be'?»

    «Ecco... magari ti accompagno fino alla porta del tuo appartamento, se vuoi.»

    Brian sollevò un sopracciglio. «Ah sì?» Oh, non aveva intenzione di aiutarlo in nessun modo. 

    «Aha. Sai... magari puoi cadere sulle scale...»

    «Prendo l'ascensore.»

    «Be'... puoi... cadere anche in ascensore, volendo.»

    «Stai forse cercando di salire da me, Bellamy?», chiese Brian, che la risposta la conosceva già benissimo.

    «No, no, affatto, era per dire.»

    «Ah, era per dire.»

    «Era per dire.»

   

Brian lasciò passare qualche secondo.

 

    «Buonanotte, Bellamy.»

    «Buonanotte, Brian.»

 

Negli occhi di Matt c'era una traccia di delusione, ma del resto era preparato.

    Chissà com'era dentro la casa di Brian.

    Chissà com'era dentro Brian.

    Gli rivolse un ultimo sorriso e fece dietrofront per andarsene. 

 

    «Bellamy!»

 

    Si voltò di scatto.

 

    «Brian?»

    

    Brian era ancora sotto al portone, ma ora che Matt poteva vederlo da poco più lontano ne notò l'elegante figura intera. Ciao Brian, pensò, irrazionalmente. 

 

    «Bellamy, io volevo dirti che... sono stato bene.»

    «Anch'io, molto», fece Matt, mostrando un gran sorriso.

    «No, voglio dire...» Dio, che fatica. «... sono stato davvero molto bene. Come non stavo da tantissimo tempo.» 

    «Sul serio?», chiese Matt.

    «Sul serio», rispose Brian. «Per quanto possa contare», aggiunse più sbrigativo, come per togliere solennità al momento.

    «Questa sera mi addormenterò contento, Brian. Per quanto possa contare.»

    «Ah, i nani dormono?»

    «Non lo so, tu dormi, Brian?»

    

Brian non riuscì a contenere una risatina. Non capiva fino a che punto gliela stesse dando vinta, e fino a che punto, invece, Matt stesse vincendo da solo.

 

    «Brian, ci esci di nuovo con me?»

    «... venerdì?»

    «Domani.»

    «Ma siamo usciti anche stasera! E ieri!»

    «Ma venerdì è tra cinque giorni. Non so tu, ma io cinque giorni non aspetto.»

    «...»

    «...»

    «... probabilmente neanch'io. A domani, Bellamy.»

 

Matt salutò sorridendo e tirando su una mano. Indietreggiò di un poco e poi si girò. 

 

    «Matt?»

   

Pensò che evidentemente a Brian venivano in mente le cose che doveva dire solo quando i suoi interlocutori erano sul punto di andarsene. Poi realizzò di non aver mai sentito il proprio nome pronunciato dalla voce di Brian, prima d'ora, e gli sembrò... bello. 

    Non glielo avrebbe fatto notare. Provocarlo, in quel momento, sarebbe stato fuori luogo.

    Si voltò.

    Brian fissava qualche punto indefinito del marciapiede. 

    Polvere, monete, chiavi...

 

    «Sì?»

 

    ... penna, posacenere, libro...

 

    «Brian? Mi hai chiamato?»

    «... Vuoi salire?»

    Matt sfoggiò un sorrisetto divertito, irriverente e forse anche un po' imbarazzato. «Perché ora hai cambiato idea?»

    «... ho... ho una gran paura di cadere in ascensore.»

 

 

 

 

 

 

4

 

 

 

Sono proiettato alla nostra prima notte insieme. Non parlo del prima o del durante, parlo del dopo. Parlo di te che dormivi alla mia destra. 

    Quando una persona dorme al mio fianco, controllo sempre che respiri. Sì, sì, lo so che è stupido. Ho sempre paura di vedere il respiro bloccarsi. Lo sai che tu respiri talmente piano che mi è saltato il cuore in gola più di una volta, prima di capire che non stavi male? Le spalle le muovi pianissimo, e quasi impercettibilmente. 

    Su... giù... su... giù, che mi sembra di stare in barca.

    Capita che mi svegli, durante la notte, e ogni volta la prima cosa che faccio è voltarmi a destra — il tuo lato — per controllare che tu ci sia. Non ci sei, ma se ci fossi saresti girato di spalle, perché a quanto pare ci stai bene, in quella posizione. E non ci sei, ma se ci fossi mi farei piccolo piccolo, come facevo quando c'eri, e mi avvicinerei il più possibile a te e alla tua bolla di calore umano. Sei una specie di stufa, lo sai?

    Sono fuori. È la prima volta che abbandono la scrivania della mia stanza e ti scrivo da fuori. Sono in quel bar di Camden, sai quello oltre il ponticello, vicino alla parte rialzata? Quello. Sono qui da solo dieci minuti, ma probabilmente saprò già di birra. La gente beve. Io invece me la bevo e basta. In questo momento sono un po' arrabbiato con te, Matt, lo sai? Del resto è colpa tua se ora sto così. Ma del resto è soprattutto colpa mia se tra noi è finita. Ancora non mi va di parlarne su questi stupidi fogli.

    Prendo della roba. Non ti gasare, non è solo per te. È per tutto quanto assieme. Anche se in realtà, diciamocelo, è soprattutto per te. Non è roba particolarmente forte, ma è abbastanza perché la gente se ne accorga. Non ti sto facendo il processo, sto soltanto dicendoti che effetto mi fai, anche se capisco che sarebbe più romantico se te lo dicessi in un altro modo. 

    Non ti sto facendo il processo. Non ti sto facendo nessun processo. In effetti questa cosa delle lettere altro non è che un modo più elegante di parlare da solo.










NOTE: 1 e 2 — Matt sta cantando, rispettivamente, la parte corale de Le campane a Notre Dame, e l'intro di Via di qua, entrambe tratte dalla colonna sonora de Il gobbo di Notre Dame (Disney). Nella prima è presentato il personaggio di Frollo, nella seconda è Frollo stesso a cantare.

 

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Capitolo 7
*** Sì ***


Buonasera ^_^ 

 

Dunque, in realtà oggi non c'è molto che vi debba dire, se non che è dalla lettera che chiude questo capitolo che tutto ha avuto inizio. Un bel po' di tempo fa, ho scritto quel pezzo a caso, dal nulla, e mi sono detta: «Dio» — mi sono detta proprio così —, «Dio, e chi smette più di scrivere, se questi due sono così adorabili?», e lì ho deciso che avrei scritto una long, che poi è questa qui. Ergo, il paragrafo 5 di questo capitolo altro non è che il mio primo paragrafo Mollamy di sempre, che, non sentendomi proprio di buttare (l'autrice è una sentimentale), ho reinserito, pari pari, come lettera.    

 

Io vi ringrazio di cuore per il seguito che Chiamate sta avendo e vi lascio alla lettura,  

 

 

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TERZA PARTE

 

 

 

 

 

 

 

*

 

 

 

 

 

 

 

 

 

    «Pronto? Sì, era caduta la linea. Helena... Hel... non ricominciare! Se permetti so quando sono o non sono abbastanza pulito per vedere mio figlio. E oggi lo sono. No! No, affatto! Ma... sì, ho capito ma... n... oh, Cristo, Helena, conti di farmi parlare, prima o poi?! Voglio vedere Cody e sono nelle condizioni di farlo! ... Sì, invece! Ah, tu vieni a dire a me che sai cosa è meglio per lui? Ma fammi il pia... Helena? ... Helena, ci sei? ... Helena?»

 

 

 

 

 

 

1

 

 

 

    «Brian?»

 

Brian si sentì toccare una spalla, e sebbene fino a un attimo prima fosse profondamente addormentato, rilevò immediatamente i tre errori presenti in quella situazione. Errore numero uno: qualcuno lo stava svegliando. Errore numero due: qualcuno lo stava svegliando dal sacro sonno post-amplesso. Errore numero tre: qualcuno lo stava svegliando dal sacro sonno post-amplesso toccandogli una spalla. Prese un profondo respiro e si voltò. C'era Matthew. Eccolo lì. L'irritazione di Brian s'illanguidì di una tacca.

 

    «Che cosa vuoi?», farfugliò.

    «Stai dormendo?», chiese Matt. Brian non gli vedeva bene la faccia. Gli diede fastidio.

    «A quanto pare no. Che cosa vuoi, Matt?»

    

Matt sorrise, ma tanto Brian aveva chiuso ancora gli occhi e non poteva vederlo — e comunque l'aveva chiamato di nuovo “Matt”. La verità era che non lo sapeva nemmeno Matt, che cosa volesse. Complimentarsi per le doti da amatore dell'altro gli sembrava piuttosto misero, e anche parlare della fame nel mondo non si addiceva molto a quel momento. Voleva svegliarlo per interagirci, basta. Tutto lì. Non aveva nemmeno pensato a cosa raccontargli quando Brian si fosse trovato faccia a faccia con lui sul serio, a cercare di tenere gli occhi aperti per starlo a sentire.

 

    «Matt, si può sapere che c'è?»

 

L'illuminazione giocava a suo favore. Lui al buio, Brian sotto i riflettori della luce che veniva da fuori — e non poteva essere altrimenti. Notò che aveva le labbra più gonfie, forse per i baci di nemmeno un'ora prima, forse per il sonno. Forse era un'impressione. In ogni caso era bello. Un po' troppo. Matt gli sorrise — anche se non avrebbe saputo dire perché —, si sporse su di lui e gli posò un bacio leggero su una tempia.

 

    «Mmmh, Dio, Bellamy, tutte 'ste smancerie!», lamentò Brian, divincolandosi.

    «Eh, ma qui non si può mai essere romantici!», fu la risposta di Matt.

    «Sei pesante come il piombo», sentenziò infine Brian, voltandosi sul fianco opposto. «E ora fammi dormire.»

 

Matt sorrise. Stregato. Sì, ecco come si sentiva: stregato. Gli vennero in mente tutti i motivi per cui aveva svegliato Brian. Guardarlo, toccarlo, dirgli delle cose, ascoltarlo, litigarci, chiudere il mondo fuori, dimenticare i problemi e le responsabilità, stare per sempre su un divano a parlare e a fare l'amore. 

    Sì, erano quelli, i motivi. E sì, gli sembravano ragionevoli. 

    Perché sì. 

    Perché era così che giravano le cose.

    Perché lo diceva lui. 

    Perché con Brian voleva stare per sempre su un divano a parlare e a fare l'amore.

    Lo guardò. Doveva essersi riaddormentato.  

 

    «Mamma mia, Bellamy, mi metti l'ansia, lì impalato a fissarmi come un condor!» 

 

No. Non si era ancora riaddormentato.

    

    «Come fai a sapere che sono ancora qui a guardarti?»

    «Perché mi sale l'angoscia. E ora, te ne prego, dormi.»

 

Matt stirò le labbra in un sorriso divertito e si mise giù. 

    E poi passarono solo pochi secondi prima che Brian si voltasse nuovamente verso di lui e gli si rannicchiasse vicino.

 

 

 

 

 

 

2

 

 

 

Il mattino successivo, il primo a svegliarsi era stato Brian, quando ancora la luce che filtrava dalle tende era quella pigra dell'alba. Aveva passato qualche secondo con gli occhi chiusi, intento a cercare di ricordarsi come si facesse a respirare — quando di notte dormiva poco, la mattina successiva era solito trovare molte difficoltà nello svolgere alcune attività di base. Poi aveva ripreso un po' di lucidità, gli erano venuti in mente il ristorante della sera prima e la città vista dal vetro di quella saletta, dopodiché gli si era riempito il cervello di tutta una serie di immagini di Matt — Matt in anticipo, Matt elegante, Matt appoggiato contro lo stipite della porta a braccia conserte, Matt sotto casa sua, Matt sotto di lui, Matt sopra di lui, Matt che lo svegliava nel cuore della notte per baciargli una tempia — veloci, una dietro l'altra. Si era voltato verso destra e aveva trovato le lenzuola attorcigliate attorno a qualcuno che in quel trionfo di stoffa bianca sembrava avesse i capelli più neri del solito. Allora si era messo comodo, su un fianco, e aveva preso a guardarlo — come non avrebbe mai fatto se lui fosse stato sveglio e nello stesso modo in cui si era lamentato di essere guardato giusto poche ore prima. E ora lo guardava ancora, come se sentisse che era quello, che andava fatto. Ad un certo momento si alzò, si trascinò fino alla cucina e lì si sedette. C'era tantissimo silenzio, perché in quella via la gente sembrava passare soltanto in certi momenti della giornata — alla faccia di Wilde e dei suoi vaneggiamenti sulla caoticità di Londra. Si prese un polso tra le dita e lo accarezzò pigramente, senza realmente accorgersene, mentre cercava di fare il punto della situazione. Non riuscì a fare nessun punto della situazione. Ogni volta che ci provava, gli veniva in mente soltanto Matt, sdraiato nel suo letto, con le labbra leggermente dischiuse e i capelli tanto, tanto neri, e allora si distraeva e doveva ricominciare daccapo. E lo colse il sospetto che, se non riusciva a fare il punto della situazione, probabilmente non c'era nessun punto della situazione da fare. Aveva ancora le dita attorno al polso, c'era ancora silenzio. Capì di non aver nulla su cui riflettere: si sentì perso. Si picchiettò le cosce con le mani. Nulla, non gli veniva un mente niente, se non che c'era ancora silenzio. Ci riprovò, ma non andò oltre alla constatazione mentale della presenza di oggetti comuni all'interno di quella cucina — c'è un frullatore. Mh. Dicevo, di Matt?

    Niente. Non gli veniva in mente proprio niente.  







     

 

 

 

Da Stefan sarebbe andato a piedi. Per sbollire la rabbia e perché in effetti la macchina non ce l'aveva. Poi, con i mezzi di trasporto non andava troppo d'accordo. Non per una fissazione da diva o chissà che, per carità, Brian era consapevole di poter essere una diva anche su un mulo; era perché i mezzi erano pieni di persone che gli stavano addosso. Persone vive, quelle che parlano, sudano e tutto quanto, e non poteva venirgli in mente qualcosa di più orribile.

    Arrivato all'incrocio tra Euston Road e Worburn Place avrebbe avuto voglia di svoltare il Eversholt Street e seguire la strada dritto dritto fino a casa di Helena, per dimostrarle che al telefono si era sbagliata, che lui stava bene, e che Cody poteva vederlo come e quando gli pareva. Che Cody era figlio di lei quanto lo era di lui, e che sarebbe stato opportuno che lei si scusasse, e che lui era un ottimo padre. E allora tutto si sarebbe rimesso a posto, lui sarebbe uscito con il bambino e lei li avrebbe salutati con la mano quando se ne fossero andati di casa, da quella casa che Brian avrebbe raggiunto semplicemente svoltando a sinistra.

    Ovviamente tirò dritto. 

    Era una sensazione che odiava, essere in torto. Non era certo stupido, sapeva benissimo che avrebbe dovuto scusarsi lui, con Helena. E lasciare il pace suo figlio finché non ne fosse uscito. Ma la verità era che avrebbe dovuto uscirne e basta, senza stare a pensare al come e al perché. Doveva uscirne e basta. 

    Il problema, poi, era farlo. 

 

 

 

 

 

 

4

 

 

 

Stefan non parlava, quando Brian stava così. Era sempre stato del parere che, quando Brian stava così, fosse sempre meglio lasciarlo nel suo brodo, pensando piuttosto a offrire una spalla nel caso in cui servisse. Ora serviva, e lui la stava offrendo. Non c'era nient'altro che potesse fare. E poi, anche volendo, se avesse cominciato a consolare Brian con le classiche frasi di circostanza, come minimo questi gli avrebbe vomitato addosso gli ultimi dieci pasti. 

    Ora Brian si era rannicchiato sul suo divano, steso su un fianco, occupandolo per metà. Indossava dei pantaloni morbidi e una maglia di Stef che su di lui era lunga come un abito da sera. Sembrava una ragazzina, con le immagini della televisione riflesse negli occhi. Faceva zapping tenendo il braccio mollemente teso verso la televisione. Non c'era verso che si fermasse su un canale soltanto, così il silenzio che regnava nel salotto di casa Osdal era accompagnato da frammenti di suono consecutivi e della durata di meno di un secondo l'uno — sì, fastidioso. 

    Stef, in un primo momento, si era limitato a non commentare, seduto sulla poltrona accanto a lui. Però poi si era detto che non si poteva andare avanti così. Lo raggiunse accucciandoglisi di fronte. Gli occhi di Brian rimasero vitrei, inchiodati nel vuoto.

   

    «Mi copri la visuale, Stef.»

 

Lui gli tolse il telecomando dalle dita senza che gli venisse opposta alcuna resistenza.

 

    «Vieni in cucina, Brian? Sto preparando qualcosa da mangiare», propose. «Ti siedi lì mentre io apparecchio.»

    «Non ho ancora voglia di pranzare.»

    «Cenare.»

    «Mh?» Brian lo mise a fuoco per la prima volta da quando aveva messo piede in quell'appartamento.

    «Volevi dire “cenare”. Non “pranzare”», spiegò Stef. «Sono le sette.»

    «Ah.»

 

A Brian sembrava una risposta più che sufficiente. A dirla tutta, sperava che Stef si limitasse a desistere e che semplicemente lo lasciasse là sul divano a crogiolarsi nel suo dolore. E poi, alzarsi da lì avrebbe richiesto l'uso di troppi muscoli, e lui non era sicuro che le gambe gli avrebbero retto fino alla cucina, dato che sembrava che pesassero una tonnellata l'una. Voleva dormire, questo lo voleva, ma non aveva fatto altro per tutto il pomeriggio, e ora non riusciva a riprendere sonno. 

    Stef, comunque, era ancora lì davanti a fissarlo, e Brian pensò disordinatamente che per uno alto come lui lo starsene lì accovacciato doveva costituire uno sforzo enorme. Brian invece era sempre stato basso. Io posso accovacciarmi con facilità, si disse con immotivata fierezza. Si disse anche che Stef, evidentemente, non aveva affatto intenzione di demordere: mi farà alzare, lo so, concluse con orrore. Si aggrappò con le dita alla stoffa del divano, come discreta affermazione di contrarietà all'idea di muoversi, e tornò a guardare davanti a sé senza nessuna espressione particolare. E Stef, che durante tutto quel travagliato processo mentale di Brian non aveva visto altro se non un amico cocciutamente silenzioso, proprio in quel momento, interruppe la propria attesa e disse la cosa più inaspettata, strana e giusta che potesse dire.

 

    «Brian, smettila di fare il depresso del cazzo. Mi hai rotto i coglioni.»

 

E dopo qualche attimo di sincero sgomento, Brian fece la cosa più inaspettata, strana e giusta che potesse fare: gli sorrise. Poco, sì, con amarezza, ma gli sorrise. Aveva afferrato il concetto. Si tirò su e si sentì come se gli fosse passato sopra un treno — anche se non aveva mai avuto il piacere di sapere che cosa si provasse realmente.

    Il tavolo della cucina era gelido, ed era molto più comodo il divano. Però Brian si fece violenza per appoggiarvi comunque gli avambracci, mentre sfilava una sigaretta dal pacchetto che aveva trovato lì. Intanto Stef armeggiava tra i fornelli. Stava preparando il pollo arrosto, un piatto che aveva la spettacolare caratteristica di non fare nessun effetto a Brian — sul serio, più era buono, più non gli faceva proprio nessun effetto. Brian apprezzò segretamente. Se in un momento come quello Stefan avesse deciso di cucinargli il suo piatto preferito, lui l'avrebbe trovato insopportabilmente moinoso. Si sorprese a ripensare a quando si era svegliato il mattino successivo alla sua prima notte con Matt. Dio, non riusciva nemmeno a pensare, quel giorno, e ora gli sembrava qualcosa di così fuori dal mondo. Com'era stato possibile ritrovarsi a non avere nulla su cui riflettere?

    Massacrò il filtro della sigaretta sul fondo del posacenere, continuando a picchiettarcelo contro anche quando ormai questa era decisamente spenta. 

 

    «Sai che giorno è, Brian?», si sentì chiedere.

 

Dovette far mente locale. Alla televisione, poco prima, gli pareva di aver visto... mh, no, non ne aveva idea. 

    Spara, Brian.

 

    «... giovedì?»

 

Stef gettò un'occhiata al calendario appeso sul lato del frigo. 

 

    «No. È lunedì, Brian», lo corresse.

    «... lunedì?»

 

“Hai presente i lunedì, Bri?”

 

    «Sì, lunedì 16. Perché?»

 

“Ecco, come i lunedì.”

 

    «... nulla.»                  

 

 

 

 

 

 

5

 

 

 

Ricordo di una volta in cui abbiamo mangiato a casa mia e poi ci siamo seduti al tavolo del balcone, fuori.

    Fumavi, per la prima volta da quando ci siamo conosciuti. Non te lo avevo mai visto fare, ma ci sembravi abituato, come quegli hobby a cui uno non ha il tempo di dedicarsi spesso. Come la bicicletta. La bicicletta, una volta che ci sai andare, ci sai andare.

    Tu fumavi così. Avevi i gesti del fumatore incallito, però non fumavi mai. Guardavi i tetti delle altre case dal piccolo balconcino di casa mia, leggero, rilassato contro lo schienale della tua sedia.

 

    «Era un po' che non mi mettevo qui fuori», dissi io, «dovrò riconsiderarlo, questo balconcino.»

 

Eri la calma in persona, come tuo solito.

 

    «Mi piace, sì» confermasti, poi facesti una pausa. «Sai... mia nonna aveva un balconcino come questo, quando ero piccolo.»

    «Interessante.»

 

Ridesti, scuotendo la testa.

 

    «No, sul serio, era davvero simile. Quando i miei stavano ancora insieme, il lunedì, dopo scuola, si andava dalla nonna. Era una gran donna.» Avevi un'aria persa, serena, mentre lo dicevi. «Mi piaceva così tanto, andare da lei. Leggeva i libri, me li raccontava, e a me piaceva ascoltare; tutto l'interesse che ho per la scienza, la letteratura, la matematica, la filosofia... è merito suo. In quel periodo i miei avevano già iniziato a litigare, e a casa la situazione non era delle migliori, ma il lunedì era un gran giorno. Certo, si tornava a scuola dopo il weekend, e io detestavo la scuola, quindi l'inizio non era proprio fantastico, ma... il lunedì era grandioso, sul finire. Già.» Facesti una pausa, pressasti la sigaretta nel posacenere. «I miei lo odiavano, perché la casa della nonna era lontana e mi ci dovevano accompagnare. Anche il resto del mondo lo valutava male, il lunedì, perché, be'... è pur sempre il lunedì. Per me invece era il giorno più bello di tutti.»

 

Ti guardavo mentre ti perdevi nei ricordi; aspettavo, impaziente, che riprendessi a parlare. A quel punto ti girasti finalmente verso di me, ma poi tornasti subito ad osservare la strada, giù. 

 

    «Sei come i lunedì.»

    «... cosa?»

    «Hai presente i lunedì, Bri?»

 

“Bri.”

    Non ti seppi rispondere, rimasi con la bocca un po' aperta. Pendevo dalle tue labbra, chissà se te n'eri accorto. 

    Mi guardasti, sorridesti — avevi un sorriso sincero, buono, nessuna malizia — tornasti ad osservare la collezione di comignoli che riuscivi a scorgere da dov'eri.

 

    «Ecco, come i lunedì», ripetesti annuendo, come per darti ragione da solo. «All'inizio è una gran fatica, ma poi... cazzo, se ne vale la pena.»

 

Mi sorridesti di nuovo, non ti aspettavi una risposta. 

    L'avevi detto, tutto lì. 

    Continuai a fissarti come paralizzato, mi sentivo come se... non so. Non so come mi sentivo. Ma era forte.

    Era la cosa più bella che mi fosse capitato di sentirmi dire in tutta la mia vita, e tu me l'avevi detta così, come solo tu dicevi le cose. Tu dicevi le cose perché volevi dirle, niente più, niente meno.

    Penso che fu allora che mi resi conto di essermi innamorato di te, è inutile raccontarsela.

    Mi venne l'ansia di dirti qualcosa, di ammanettarti a me per non farti scappare, attanagliato improvvisamente dall’assurdo, irrazionale terrore di perderti. 

    Non so per quanti secondi, o minuti, non riuscii ad articolare una risposta. Comunque alla fine ce la feci, anche se con fatica.

 

    «Raccontami ancora. Raccontami di te», dissi, e restammo lì fino a sera.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** Dirsi ***


Bentrovate ♥ 

 

Dunque, l'autrice non conosce bene il motivo che la porta a inzuppare ogni sua storia di cotanto angst, come si dice qui, ma effettivamente lo fa, perciò oggi parla in terza persona un po' perché pare vada molto di moda, un po' per TIRARSENE FUORI *fischietta*. 

 

Whatever. È un capitolo in cui, finalmente, qualcosa si spiega e qualche nodo si scioglie — vai così. 

 

Mando un grazie grande così (le lettrici si immaginino pwo_ con le braccia aperte) a tutti i recensori e a chi ha messo questa storia tra preferite, ricordate o seguite e vi auguro una buona estate.

 

Buona lettura! 

 

 

pwo_

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DIRSI

 

 

 

    «Pronto? Anna? Sì, lo so che non è questo, il tuo orario, mi dispiace. Ho bisogno che ci vediamo. Oggi.»

 

 

 

 

 

 

1

 

 

 

Brian fissava il soffitto. Era una cosa che faceva spesso, ultimamente — cambiava solo il soffitto, che a volte era il suo, spesso era quello dello studio di Anna Beckett e praticamente sempre era quello del soggiorno di Stef. In questo momento quello sopra di lui c'era il soffitto numero due. Bello, il soffitto di Anna.  

    Anna, dal canto suo, era preoccupata. Lo si vedeva dalle sopracciglia — davvero, dalle sopracciglia —, che normalmente teneva lievemente sollevate per valorizzare quegli archi perfetti da pin-up che si ritrovava. Ora sopra agli occhi aveva un cipiglio che da lontano la faceva sembrare semplicemente concentrata, ma non lo era. Era preoccupata. Brian però non se ne accorse. Il soffitto aveva una piccola crepa.

 

    «Brian... tu hai smesso di prendere il Prozac. Mi sbaglio?»

    «...»

    «Brian.»

    «Non mi serve a nulla.»

    «Lo sai che non è vero, Brian», rispose l'analista. «Lo sai che è una medicina che ti fa molto bene.»

    «...»

    Lei si rilassò contro la sedia, accavallò le gambe. «Brian, devi capire che tanta gente soffre di depressione, è una cosa molto comune. Ma c'è anche tanta gente che ha vissuto l'ottanta percento della propria vita aiutandosi con dei medicinali. Perché tu non vuoi?»

    «Tanto è lo stesso.»

    «No che non lo è. Ti basterebbe soltanto riprendere con il tuo normale dosaggio, e lo sai, Brian, lo sai che cambierebbe tutto.»

    «...»

    «Brian, se continuerai a prendere quella roba, io non potrò più aiutarti, perché il mio lavoro è un altro.»

 

Questo non doveva dirlo. Per un attimo a Brian parve che la crepa che aveva visto si fosse allargata fino al punto di inghiottirlo. Se Anna se ne andava, gli restava solamente Stef. E Stef era uno, e quando in una guerra hai un esercito di una persona sola, l'esito della battaglia è già scritto. Questo proprio Anna non glielo poteva fare.

 

    «Per favore, Anna.»

    «Non dipende da me, Brian. Io posso aiutarti, e credimi, voglio farlo. Ma solo se entrambi giochiamo pulito. E io ho la coscienza a posto, ma tu?»

    «...»

    «...»

    «Intesi.»

    «Bravo, Brian. Mi fido di t...»

    «Te lo giuro», insistette lui voltandosi di scatto. Non avrebbe saputo dire a chi si riferisse, se a lei o a se stesso. «Chiamo il centro oggi stesso... o magari domani.»

    «Oggi, Brian. Li conosco i tuoi “domani”. Non costringermi a chiamarlo per te.»

 

Anna cercò di leggergli qualcosa negli occhi, ma lo trovò insopportabilmente vuoti. Sembravano finti, inchiodati al soffitto. Sospirò.

 

    «Eravamo rimasti al giorno dopo il mio compleanno», notificò Brian dopo qualche secondo.

 

Vuole parlarne, registrò Anna nella propria mente e sul taccuino. Per la prima volta da quando avevano iniziato terapia, era stato lui a proporre di parlare di Matt. Anna si disse che era un ottimo segno. Finalmente stavano affrontando la cosa, anzi, Brian stava affrontando la cosa, di propria sponte, ed era questo il motivo per cui l'aveva voluta vedere oggi, e non nel giorno prestabilito.  

 

    «Sì», rispose banalmente. «L'altra volta mi hai raccontato di quando Matt ti ha svegliato nel cuore della notte, e di come il mattino dopo non riuscissi a pensare a nulla.»

    «... be', sì. Però lo sai che ad ogni nostra prima volta seguiva un periodo di distacco. Primo bacio, vacanza in con Kate. Prima notte insieme...»

    «Prima notte insieme?» fu l'imbeccata.

    «Due giorni dopo, di sera, Matt è partito per gli Stati Uniti. Un contratto da firmare con una casa discografica di lì, se non mi ricordo male. È stato via solo due giorni, ma tra una cosa e l'altra ci siamo rivisti dopo un'intera settimana. Eravamo d'accordo che dovesse passare da me prima di tornare a casa sua, e anche se non ce l'eravamo detto era implicito che sarebbe restato finché avesse voluto. Erano le quattro, o giù di lì. E appena gli ho aperto la porta non ho nemmeno fatto in tempo a dirgli “ciao” che...    

 

 

 

 

 

2

 

 

 

... gli si scaraventò contro, senza nessun contegno. Sapeva di freddo, sapeva di fuori, e l'aveva avvolto in quel gelo per pochi secondi — pochi, perché quando Brian si sentì sbattere contro al muro accanto alla porta d'ingresso erano già febbricitanti entrambi. Il padrone di casa, in un rigurgito di buonsenso, pensò di allungare un braccio per chiudere la porta di ingresso, che rimbalzò irrisoriamente contro il montante e ritornò precisamente dov'era, mentre Matt lo baciava come se non esistesse nient'altro, e...

 

    «Matt! Matt la... la porta», biascicò lui con urgenza.

    

Matt non gli si staccò di dosso. Semplicemente se lo tirò contro e lo sbatté contro la porta, che finalmente si chiuse, schiacciata dal peso di due persone che forse erano diventate una sola.

 

    «Non sai quanto mi sei mancato», gli sussurò, interrompendo il bacio solo per prendere fiato, «non lo sai, nemmeno te... nemmeno te lo immagini, Brian.»

 

La risposta che si guadagnò fu un sorriso che aveva in sé tutto ciò che di famelico, osceno e forse anche dolce ci sia in questo mondo, e lo fece impazzire. 

 

    «M-Matt, il letto...»

    «No, qui...»

    «Matt...»

    «Qui. Qui, qui...»

 

E Brian non poté ribattere, perché una mano gli si insinuò nei pantaloni e prese a stringere, e ad accarezzare, e a fargli venire l'istinto di inarcare la schiena come un gatto, non fosse stato per quella dannatissima porta che lo bloccava ancora, dietro alle spalle. Dopo non fu più un problema nemmeno la porta, quando Matt lo prese in braccio e prese a spingere dentro di lui, fronte contro fronte, occhi negli occhi senza vedersi davvero.

    E alla fine il sudore, qualche risata sconnessa e le gambe che cedevano. Un bacio sulla tempia di Brian, questa volta gradito — lo lasciò fare.

    ... Poi uno squillo. E poi un altro, poi un altro ancora.

    Matt aveva il volto arrossato, aveva ancora il fiatone, però a quanto pareva gli era rimasta anche la forza di mettersi a cercare il telefono impazzito tra le mille tasche della giacca che aveva gettato a terra in quel momento in cui esisteva solo Brian e la voglia di schiacciarselo addosso e attraverso, andando contro ad ogni legge fisica.

    Lo trovò, ancora con le mani tremanti, mentre Brian si lasciava scivolare seduto con la schiena contro la porta, cauto. Cauto perché fino a un attimo prima si era sentito il centro dell'universo, mentre ora l'attenzione si era spostata a qualcos'altro. Cauto perché ora aspettava solo di sapere che cosa ci fosse di tanto più importante di quel momento assieme, e cauto perché aspettava solo di ricevere l'offesa effettiva, per poi attaccare. E avrebbe attaccato forte, se solo...

 

    «Pronto? Kate!»

 

... Kate. Restò in ascolto, con le sopracciglia leggermente corrugate e gli occhi fissi sulla nuca dell'uomo che un secondo prima era dentro di lui e ora, con la fronte ancora umida e il viso arrossato, faceva il maritino modello. 

 

    «Cosa... come sarebbe a dire? Dove?» 

 

Matt incastrò il telefono tra orecchio e spalla, si voltò verso Brian e fece finta di scriversi qualcosa su una mano. Scrivere. Voleva qualcosa su cui scrivere. Brian continuò a fissarlo, immobile; che se la trovasse da sé, qualcosa su cui scrivere. 

    Matt scosse la testa e prese a volteggiare nell'ingresso, facendo ruotare gli occhi di qua e di là. Il motivo per cui poi Brian si alzò, raggiunse la cassettiera e ne estrasse una penna non era altro che una profonda irritazione che, per non esplodere, da qualche parte doveva pur essere incanalata in una qualche azione — e quei tre passi, comunque, non risolsero granché. La penna gli fu tolta dalle dita con un gesto fulmineo accompagnato da un paio di occhi carichi di un'urgenza più grave, e certamente meno piacevole di quella di pochi istanti prima.

    Ora Matt si scriveva, velocissimo, un indirizzo sul dorso della mano sinistra, e ad ogni sillaba diceva quel “sì” irritante di chi dall'altra parte del filo ci tiene a farti sapere che ha ascoltato, e che fino a lì ha capito. 

 

    «Sì, ho capito. Sì. Sì... sì, d'accordo. Sto arrivando, sono lì in venti minuti al massimo.»

 

Matt chiuse la chiamata, prese a raccogliere gli abiti sparpagliati a terra. Il tutto senza degnarlo di uno sguardo, ancora appoggiato alla cassettiera in attesa che il proprio sguardo assassino causasse qualche reazione. Non la causò. L'eventualità peggiore che si potesse presentare.

 

    «Kate», spiegò frettolosamente Matt, come se in quel nome ci fosse la risposta a tutte le domande che si stavano ammassando nella testa di Brian. «Sta male, ha dei... dolori addominali e temiamo che possa succedere qualcosa al bambino, io... Brian?»

  

Non ricevette risposta. Brian si era trasformato in una specie di manichino spoglio e impassibile, e nel suo sguardo vitreo c'era qualcosa che, nonostante il suo corpo fosse coperto solo da un paio di boxer e da una camicia completamente aperta, era capace di bruciare tutto. Ma Matt era preoccupato per Kate, e ora non poteva accorgersene.

 

    «Brian?» Scosse la testa. «Ascolta, mi dispiace, ma devo andare, lei ha paura che... ti... ti chiamo io.»

 

Gli posò un bacio sulla guancia prima di infilare la porta senza più voltarsi, e quel bacio fu il bacio più ripugnante che Brian avesse mai ricevuto in vita sua.

 

 

 

 

 

 

3

 

 

 

    «... e se n'è andato.»

    «E allora tu che cosa hai fatto?»

    

Brian sbuffò quella che forse aveva l'intenzione di essere una risata sarcastica, ma gli uscì male.

 

    «Non so quanto sono rimasto lì impalato prima di riuscire a pensare a qualcosa. Avevamo appena finito di... Dio, santo, e lui riceve una chiamata e se ne va. Te ne rendi conto, Anna?»

    «...»

    «Ero fuori di me, ma ho deciso che avrei fatto con calma, come è nel mio stile. Mi aveva trattato come una specie di puttana. Ma se era una puttana, quella che voleva, allora doveva mettere in conto che le puttane non sono di una persona sola, e che se qualcuno deve fare la puttana io sono la peggiore di tutte. Mi sono spogliato completamente e ho messo tutti i miei vestiti a lavare. Non avevo fretta. Mi sono fatto una doccia, mi sono messo in tiro, mi sono truccato e poi sono uscito anch'io. Sono andato a Soho e mi sono infilato nel primo locale che ho trovato. Era pieno di...

 

 

 

 

 

 

4

 

 

 

... pervertiti. E lui ne aveva già adocchiato uno — uno dei tanti che se lo stavano mangiando con gli occhi da quando era entrato, il più accettabile per età e aspetto fisico. Che Matt se ne andasse da Kate, lui non era la ruota di scorta di nessuno. Raggiunse il bancone del bar e si sedette sull'unico sgabello libero rimasto, guadagnandosi una lunga occhiata famelica da parte di due ragazzi ridicolmente palestrati che parlottavano fittamente alla sua sinistra. Rivolse loro uno sguardo civettuolo prima, le spalle dopo. Il suo obiettivo era un altro, seduto laggiù con una compagnia di amici — o magari anche amanti, non che fosse rilevante. E l'obiettivo in questione aveva posato gli occhi su di lui per caso, e da lì non era più riuscito a schiodarli. 

    Brian smise di guardarlo dopo qualche secondo, sollevando un dito al passaggio del barman per manifestare l'esigenza di un nuovo drink. Non aveva intenzione di sbronzarsi, ma magari un po' di coraggio in più e un qualche inibizione in meno sarebbero tornate utili.

 

    «Posso offrirti da bere?», si sentì sussurrare in un orecchio. 

 

Si voltò con un'aria confusa da principessa delle fiabe che non avrebbe ingannato nemmeno il peggiore degli sciocchi, lentamente, come tanti anni prima gli aveva consigliato di fare il professor Heaton alla Goldsmith. Che il professor Heaton, poi, si riferisse soltanto all'ambito teatrale era una noiosa postilla che Brian aveva messo immediatamente da parte. 

 

    «Oh. Purtroppo ho appena ordinato un drink... sarà per un'altra volta», rispose sornione, e si voltò nuovamente verso il bancone con aria falsamente distratta.

 

Se il pervertito se ne fosse andato gli avrebbe solamente risparmiato una gran perdita di tempo. Ma se fosse rimasto, allora forse c'erano buone probabilità che sarebbe riuscito a sopportare Brian (perché si può recitare, ma non a lungo e non con tanto alcool in circolo) almeno fino al letto. Poi non è che Brian se lo dovesse sposare, e dopo di lui gli si apriva davanti un larghissimo orizzonte fatto di altri uomini disposti a fare di tutto per averlo una notte. E chissà cosa sta facendo ora Matt, si ritrovò a pensare, così inaspettatamente da non riuscire a ricacciare nello stomaco il pensiero alla stessa velocità del normale.

    

    «Be', allora ti va di parlare, mentre aspetti il tuo drink, ehm...?»

    «Brian.»

    «Michael.» Gli fu porta una mano tozza, inelegante. «Incantato.»

    

Poteva farcela, Brian? Be', intanto questo Michael era moro, e a lui i mori erano sempre piaciuti. E poi... no, basta, nient'altro da aggiungere. Aveva gli occhi marroni (o almeno così sembravano, dalle luci) e la barba perfettamente rasata era visibile solo come un'ombra sulla linea spigolosa del mento. Era incollata al suo viso un'aria da cretino a cui Brian difficilmente sarebbe passato sopra, ma se era per una nottata, be', che nottata fosse, avrebbe tollerato. La musica era ridicolmente alta, e Brian faceva fatica a concentrarsi su quello che doveva dire — del suo drink non c'era alcuna traccia, e fu immediatamente certo che se lo dovevano essere dimenticato tra le decine di ordinazioni. E la sensazione di vuoto gli arrivò come un pugno. Gli mancò Matt — così, dal nulla — come dopo tanto tempo in viaggio manca la propria casa. Gli mancava qualcuno che fosse abbastanza intelligente per capire il suo umorismo — e qui Michael era già squalificato dalla corsa al montepremi, Brian ne era certo — ma che, cosa ancor più rara, avesse anche le palle di rispondergli per le rime. Gli mancava il sesso che non fosse pura carne, ma anche qualcosa di più profondo, gli mancava anche se di quel sesso ne aveva avuto un po' giusto poche ore prima, e anche se l'amore da poco che sarebbe servito a passare la serata non aveva ancora nemmeno cominciato a giadagnarselo, con quel cafone che attendeva con aria idiota che dicesse qualcosa.

 

    «C'è qualcosa che non va?», si sentì chiedere, all'improvviso. Michael. «Brian... hai detto che ti chiami così, ho capito bene?»

    

Annuì, mentre cercava di prevedere l'evoluzione della loro dialogo. Niente sorprese, prego.

 

    «Cosa c'è che non va?», insistette Michael.

    «C'è che ho ordinato un drink», rispose Brian con lentezza studiata, ruotando il busto per guardare il suo interlocutore negli occhi. «Ma non mi sta arrivando nulla.»

    

L'altro si sporse sul bancone con le braccia conserte e cercò di attirare l'attenzione di un barman e risolvere il problema, e, ora che lo guardava meglio, Brian lo trovò, se non meraviglioso... non male. Probabilmente a contaminare l'obiettività di quel verdetto aveva pensato quel poco di alcool che aveva bevuto — non che con una vendetta da consumare contasse molto. Per carità di Dio, una serata gli bastava, ma da lontano gli era sembrato ripugnante, non... passabile. Ma se la posta in gioco era lo sguardo assassino di Matthew quando avesse scoperto che se Brian era una ruota di scorta, allora la era anche lui non aveva prezzo. Era disposto a fare dei sacrifici, come bisbigliare contro l'orecchio di quel Michael una proposta indecente, sentirsi dare la risposta prevista, accettare un passaggio fino a casa propria in auto e poi chissà. 

 

 

 

 

 

 

5   

  

 

 

Sto crollando, Matt. 

    Non sono mai arrivato così in basso, in tutta la mia vita. Mai. E ti scrivo questa lettera ora perché ho il terrore di passare anche un solo minuto senza avere qualcosa da fare. Credimi, ne ho il terrore. Perché la depressione è come vedere te stesso violentato dalla tristezza, e non poter fare nulla se non guardare e stare ancora peggio. Tu non sai cosa si prova, e spero che non lo sappia mai. È un dolore fisico, Matt. Sordo, costante, anche se sembra impossibile — normalmente la gente non ci crede. È come se una morsa ti si stringesse attorno al petto e alle spalle, e non facesse arrivare il sangue alle gambe. E ti manca l'aria. Non è un dolore acuto, come quando ti ferisci con un vetro. È molto più attutito, ma c'è. E c'è sempre. Sempre, in ogni singolo, fottutissimo istante. È questo che ti fa diventare pazzo, Matt. Esci di testa, perché c'è sempre, cazzo, e ovunque tu vada, qualunque cosa tu faccia, quello c'è, e tu lo sai, che non se ne andrà finché non farai qualcosa, ma alla sola idea di fare qualcosa il dolore diventa lancinante, e insopportabile. La verità è che in questo momento sto piangendo come un imbecille, perché te lo giuro, Matt, è esasperante, non puoi capire, e so che anche quei medici del cazzo non potranno aiutarmi perché ormai sono divent 

   Mi sento come se    

   Ho la sensazione che tanto non    

    È una cosa che ti mangiadivora da dentro come un cancro, e prima che tu possa accorgertene sei ridotto a    

    Dio, devo smetterla di piang    

    

    Ci sono. Mi sono fatto un giro — ho fatto una passeggiata al parco, sono passato in farmacia a prendere quella roba per l'acidità di stomaco — e mi sono calmato. Ora ci sono. Sai che c'è? Mi rode il culo, Matt. Mi rode proprio il culo. Ho chiamato un centro specializzato in gente che si fotte da sola. Dio, che ambiente. I medici mi piacciono, loro sì. Mi hanno detto che devo smettere, anche se questo lo sapevo già, e che dovrò gradualmente ridurre le dosi di questa merda di cui mi faccio, compensando con altra merda che mi daranno loro. Se già ora soffro di acidità di stomaco, figuriamoci quando ci si mettono pure quelle dannate pillole, perché secondo me sarà peggio. Pensano che soffra di un disturbo bipolare dell'umore — olè! —, depressioneuforiadepressioneuforiadepressioneuforia.

    Ho preso anche ad andare in comunità, dei giorni. È una promessa che ho fatto alla mia analista, perché altrimenti non potrà più aiutarmi. Non sono nella posizione di non essere aiutato. In comunità ci sono persone messe davvero da schifo, però quando vado lì, in quei cinque minuti in cui si aspetta il volontario per cominciare l'incontro, parlo un po' con loro. Si deve pur farlo, in fondo sono brava gente, quei disgraziati.

    Prima ti ho detto che stavo crollando, mi sono sbagliato. Sono già crollato.

    Però una volta stavo con un uomo che mi ha insegnato che dovrei imparare a guardare il lato positivo di ogni cosa. 

    Bene, il lato positivo è che se ho toccato il fondo, più giù non posso andare. 

    A meno che non ingoi qualche sasso.

    Però non lo faccio. 

    Perché ho l'acidità di stomaco.











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Capitolo 9
*** Tradirsi ***


Buondì, qui pwo_! ^^


Come state? So di aver trascurato questa storia per un po', e mi dispiace, ma sto cercando di scrivere più velocemente possibile per seguire tutte le storie che ho in corso, quindi spero che il prossimo capitolo arrivi in tempi ragionevoli (comundone non mi uccidere troppo :D). Non so se sono pienamente soddisfatta di questo “Tradirsi”... mh *fissa la pagina meditabonda*. Mah, mi è uscito così, sarà che l'ho riletto talmente tante volte che mi è venuto a noia! 


Un bacio a tutte e grazie del vostro sostegno <3! Se vi va di dirmi che ne pensate anche di questo capitolo, a me fa sempre piacere ascoltarvi. Non vi ho ancora risposto, ma se la batteria regge lo faccio tra poco :3


Infiniti cuori e buona lettura,



pwo_














TRADIRSI




    «Pronto? No, signora, non è il droghiere, ha già chiamato l'altro giorno, ricorda? Sì, glielo assicuro, ha già chiamato. Non si preoccupi. No, non c'è problema. Buongiorno.»







1




Ciò che forse maggiormente in Michael aveva colpito Brian era che la sera in cui si erano conosciuti, tornati dal bar, questi non aveva nemmeno tentato di salire a casa sua. Brian era brillo, e lui non ne aveva approfittato, nonostante, inizialmente, avesse assecondato i suoi discorsi volgari le sue proposte indecenti. No, si era comportato da vero gentiluomo, anche se non si poteva certo dire che fosse di buona famiglia (Brian per questo genere di cose aveva una specie di radar naturale). Matt, invece, era uno che se possibile arrivava subito al punto. E sì, Brian era perfettamente consapevole del fatto che ad ogni azione di Michael corrispondesse sempre un confronto con Matt nella propria testa, confronto in cui Brian stesso tendeva a prendere le parti del partito peggiore, ma era qualcosa che non poteva evitare. Oltretutto, si trattava anche di un confronto piuttosto inutile, perché normalmente un confronto serve a stabilire, in caso di indecisione tra due parti, quale tra essere è la migliore. In caso di indecisione. 

    E così, Michael se ne era tornato a casa propria e lo aveva chiamato il giorno successivo per invitarlo a cena. Lo accompagnò in auto fino a un ristorante sorprendentemente elegante (sorprendentemente, perché Brian avrebbe definito Michael con qualsiasi aggettivo, ma di certo non con “elegante”). Di sicuro, obiettivamente parlando, Brian ora si trovava in un posto molto più raffinato rispetto a tutti quelli dove l'aveva portato Matt. Ma Matt era giustificato, perché Matt aveva cattivo gusto, e comunque ora, mentre prendeva posto assieme a Michael in un tavolo appartato, non aveva nessuna voglia di pensare a Matt; e che a giustificarsi provvedesse da sé, Matt, ora Brian aveva altro da fare. Un particolare, Brian non aveva previsto, mentre progettava la propria vendetta insensata nel tentativo di ferire l'altro quel tanto da scatenare un reazione, possibilmente negativa e possibilmente violenta: c'era pur sempre il rischio di sentirsi attratto dallo strumento. In questo caso Michael. E se prima c'era stato il rischio, ora c'era la probabilità. Brian se ne tenne a distanza e ordinò la prima cosa che gli venne in mente; non aveva nessuna fame. Stava a sentire i discorsi di Michael con un interesse solo parzialmente simulato, la schiena rilassata contro la sedia e le braccia conserte in quella che un esperto del linguaggio gestuale avrebbe definito un'“inconscia posizione di difesa”. Michael aveva avuto una vita movimentata abbastanza da risultare interessante e abbastanza poco da risultare plausibile. Da ragazzino era stato un militare, dopodiché un giorno lo aveva colto l'idea di prendere a viaggiare alla ricerca di lavori temporanei in diverse parti del mondo. Era stato un gelataio in Italia, il fotografo di un villaggio turistico in Spagna, un commesso in America e un meccanico in Australia. Brian gli aveva chiesto almeno quattro cose per mestiere, civettuolo, finto tonto — «E come si fa il gelato?», «E per le fotografie in movimento è meglio la Canon o la Nikon?», «Uh, il meccanico! Mi ricordi che cos'è uno spinterogeno?». Si era ritrovato quasi deluso nello scoprire che il suo interlocutore era in grado di rispondere con tranquillità a ogni sua domanda, anche la più difficile. Quel Michael era un tipo sincero, tranquillo, uno che amava godersi la vita, fare nuove esperienze e stare a contatto con le persone. Praticamente un incubo. Brian si sorprese, durante la serata, a ribattere mentalmente a ogni frase che si sentiva rivolgere con una sarcastica battuta contro di lui e a favore di Matt, quasi si sentisse in dovere di difenderlo da quella minaccia di rivalità amorosa, minaccia che probabilmente vedeva solo lui. Nel frattempo, Michael aveva appena finito di spiegare la funzione di uno spinterogeno, in una relazione che restò tristemente inascoltata. Del resto, in fatto di motori, Brian sapeva talmente poco che se gli avesse descritto lo spinterogeno come un tipo di cappello fiorato da portare sulle ventitré, probabilmente ci avrebbe creduto senza starsi a chiedere il perché o il per come. Brian voleva andare al sodo. E basta. Voleva andare al sodo e magari sentirsi pure dire che a letto era bravo. Oh, e avrebbe preteso che Michael spegnesse il telefono, prima di cominciare anche solo a sbottonarsi i polsini delle camicie. Sì, avrebbe fatto così. Ma chiederlo stonava orribilmente. Le cose andavano fatte, non chieste. Allungò un braccio sul tavolo, cercando di non farsi notare. Sì, poteva arrivarci, concluse, mentre con l'altra mano già sollevava un lembo della tovaglia. Lo stesso braccio che aveva portato sulla superficie del tavolo ora finì nella stessa identica posizione, ma questa volta sotto. Odiava doversi abbassare a tanto, però, se quello non capiva, ora perlomeno avrebbe capito. Accarezzò il cavallo dei pantaloni di Michael, strinse. Gli lesse negli occhi sgomento misto a famelica eccitazione. Se avessi saputo che per portarmelo a letto bastano un po' di carezze sotto al tavolo, pensò Brian, l'avrei fatto molto prima, capirai che grande sforzo. Non fermò la mano, anzi, ne intensificò i movimenti.

    «Brian, che...» 

Michael aveva già assunto un'espressione piuttosto sciocca.

    «Che?», si sentì incalzare.

    «Brian... c-che cosa hai intenzione di fare?»

    «Indovina.»

    «Scopare?»

    «Tu che dici?»

Brian lo stuzzicò ancora per un po', ma dosò l'agilità esperta delle proprie dita. Dopo tutta quella fatica, ci mancava solo che il fesso che si era trovato per concedersi quella piccola vendetta gli venisse nelle mutande a un palmo dal naso lì, in quel momento. Così, si fermò per tempo e controllò per l'ennesima volta che gli unici quattro clienti oltre a loro due non li stessero guardando. 

    Affatto. Molto bene.

Si alzò e si diresse per primo verso l'uscita. Quando vide Michael seguirlo immediatamente, si voltò verso di lui con aria scandalizzata.

    «Spero che tu abbia lasciato su quel tavolo almeno i soldi che dobbiamo al ristorante per le ordinazioni», disse.

    «Oh... giusto», rispose meccanicamente lui, e si precipitò nuovamente all'interno. 







2




    «Brian, ti piaceva, Michael?»

    «... Bah, era solo un uomo non-orribile. Potrebbe sembrare triste, e forse lo è, ma tutte le storie più lunghe che ho avuto sono state con uomini che semplicemente trovavo non-orribili. Ho sempre evitato le relazioni in cui temevo sarei stato... mh... succube. Succube di un sentimento, se capisci che intendo....», si voltò verso di lei. «Lo capisci, che intendo? »

Anna annuì e prese nota, mentre Brian pensava disordinatamente che, se avessero fatto una statua di Anna Beckett al museo delle cere, la prima cosa che avrebbero scolpito sarebbe stata il suo dannatissimo taccuino, prima dei capelli e della faccia e di tutto il resto. 

    «E dopo che è successo?»

    «Casa sua, sesso, doccia», rispose annoiato Brian. «Poi me ne sono andato.»

    «Non avete dormito assieme?»

    «Secondo te posso dormire con uno che trovo solo “non-orribile”?», ribatté Brian con aria scandalizzata. 

Era ovvio che non potesse, a qualcuno pare che potesse?, perché era ovvio che non potesse.

    «Ma se hai detto che le storie più lunghe che hai av...»

    «Le storie più lunghe che ho avuto sono state con uomini non-orribili che ho sempre avuto cura di tenere a distanza di comodo dal mio spazio vitale. E Michael poteva benissimo diventare una storia lunga, perché era... è, spero per lui, abbastanza sciocco da essere tenuto a bada da una battuta sarcastica. Mi dà noia il contatto con la gente. Escluso il sesso, per quello non ho ancora sviluppato un vero e proprio fastidio. Ma a meno che io sia ubriaco, o morto, nessuno dorme nel mio stesso letto.»

    «E Matt, allora?»

Brian chiuse gli occhi in un'espressione di indignatissimo fastidio, espressione che, per inciso, gli uscì piuttosto bene. 

    «Matt non è non-orribile», spiegò con lentezza. 

    «E allora cos'è?», incalzò Anna.

    «È a parte. E ora andiamo avanti, Anna.»

    «Stai evitando la domanda, Brian.»

    «Sì. E ora andiamo avanti, Anna.»

Lei sospirò, lui la ignorò volutamente e si volse a guardare fuori dalla finestra, testardo. Sui rami dell'albero che si poteva scorgere subito oltre il vetro stava già comparendo qualche fiorellino, rosa. Oh, la primavera. Che orrore. Brian decise che avrebbe parlato tenendo la testa girata da quella parte. Era molto più facile parlare al muro.

    «Mi sono alzato, quando Michael stava già dormendo. Non sono mai stato un grande amante dei saluti, e, sinceramente, l'unica cosa che volevo, in quel momento, era andarmene via. Ho cercato i miei...







3




... vestiti sotto al letto e sulla sedia accanto ad esso, li trovò. Doveva fare piano. Michael non doveva svegliarsi, per nessun motivo. Non che Brian temesse di ferirlo: a Brian fregava poco del fatto che quella scopata occasionale potesse ritrovarsi confusa, quando il mattino dopo avrebbe infelicemente scoperto dello spazio vuoto accanto a sé. No, il punto era che Brian non sarebbe stato in grado di parlare con nessuno, e di nulla. Sentiva un grosso peso opprimerlo all'altezza dello sterno, una sensazione che avrebbe definito ingombrante e, di certo, non particolarmente piacevole. Parlare sarebbe stato una tortura, figuriamoci cercare di giustificare un'azione che Brian si giustificava già a prescindere. Fortunatamente per lui, in ogni caso, Michael non si svegliò fino al mattino successivo.







4




    «La sera dopo ho visto Matt. Lo aspettavo a casa mia, come d'accordo. Mi ero preparato tutto alla perfezione: mi avrebbe sicuramente chiesto come avessi passato il giorno precedente, anche se solo per fare conversazione, e allora io gli avrei distrattamente accennato di Michael e della nostra uscita, come se non mi fossi sentito in dovere di giustificarmi nemmeno per un secondo — e dire che invece, guardando alla cosa con occhio etico, avrei dovuto giustificarmi e con lui e con Michael, ma in quel momento contava solo...» Si prese una breve pausa, durante la quale tornò a osservare il volto assorto della propria analista. «... Contavo solo io. Questa è la verità. Contavo solo io, l'asso pigliatutto: volevo Matt, volevo Michael, volevo un posto riservato al centro dell'attenzione e volevo anche un posto riservato per Kate, possibilmente molto lontano da Matt, possibilmente per sempre. Per questo, quando lui mi si è seduto davanti, nella mia cucina, per i primi due minuti non l'ho ascoltato nemmeno lontanamente, perché mi stavo già preparando la frase. Fremevo in attesa del momento giusto per pronunciarla. E quando finalmente Matt mi ha chiesto, tanto per parlare, come avessi passato la giornata precedente, ho raccolto tutto il coraggio che avevo in corpo e gli ho detto...







5




    ... Sono stato in casa a guardare “Sex and the City” sorseggiando una tisana al kiwi. Come sta Kate?»

Si odiò, tantissimo. Non doveva dire questo. Non doveva affatto! Doveva dirgli che aveva incontrato un tizio mediocre in un bar squallido e che ci aveva scopato come un animale, ecco cosa doveva dire. E invece no, se n'era uscito così. Matt rispose con un sorriso (senza sospettare per un singolo istante che Brian non fosse affatto tipo da “Sex and the City”) e con una frase che conteneva talmente frequentemente le parole “Kate” e “meravigliosamente” che Brian smise subito di ascoltare. 

    «In cuor mio sapevo che non poteva essere nulla di grave», disse Matt. «Però averne la conferma da parte del medico è stato certamente più rassicurante.»

    «Se sapevi che non poteva essere nulla di grave avresti potuto investire cinque minuti della tua vita salutandomi a modo», lo sferzò l'altro.  

Questo non era in programma, o almeno, non in quello di Brian, che però cominciò a vedere una possibilità di ripresa dal fallimento di pochi secondi prima. E stavolta Matt si sarebbe scusato, e l'avrebbe fatto strisciando. 

    Bellamy aggrottò la fronte. Aveva registrato l'ostilità che intrideva quell'ultima frase. Bene, si disse Brian. Sì, l'ostilità era stata decisamente registrata, perché Matt aveva improvvisamente smesso di tamburellare pollice e indice sul tavolo e nella cucina era crollato il silenzio. E se Brian lo conosceva discretamente, ora avrebbe mosso con cautela, per analizzare quell'ostilità e per scoprirne la causa, possibilmente senza l'ausilio delle troppo esplicite domande dirette.

    «Beh,», rispose, «al telefono Kate sembrava davvero disperata.»

Appunto.

    «Oh. Spero si sia rimessa», disse Brian, senza sprecarsi in espressioni facciali. 

    «Si è rimessa.»

    «Buon per lei.»

    «Già.»

    «E per te.»

    «... Già.»

    «E per il bambino.»

Per Brian non c'era bisogno di sollevare gli occhi dal proprio caffè per capire che Matt gli aveva inchiodato addosso uno sguardo assassino. Con che diritto, poi.

    «C'è qualcosa che non va, Brian?», si sentì chiedere. 

    «Nulla. Sono solo stanco.» 

Si odiò nuovamente. C'era una parte di sé che lo bloccava ogni volta che tentava di dire la verità, e tentò invano di identificarla come qualcosa di diverso da “forte attaccamento affettivo”. Decise di sottrarsi allo sguardo dell'altro ostentando una gran fretta di lavare le tazzine. Continuò a tenerle sotto al getto anche quando ormai erano più lucide dei piatti puliti nello sportello sopra la sua testa. 

    «Forse è meglio che vada», considerò Matt, e si alzò.

    «Sì, forse è meglio.»

Non lo accompagnò alla porta, e Matt salutò con un “ti chiamo io” poco convinto, sbattendo la porta. Brian restò con le sue tazzine. Le stava ancora sciacquando. Era quello che voleva, no? No, perché Matt non aveva ancora capito che poteva essere una seconda scelta per Brian tanto quanto Brian lo era per lui. Gli venne l'infantile fantasia di corrergli dietro solo per gridargli: “Sono stato con un altro uomo, stronzo!”, ma si vergognò subito di averci pensato. Ora, tutto quello che doveva fare Brian era soltanto far passare quella serata e poi prepararsi spiritualmente per uscire con l'“altro uomo”. E sì, si sarebbe preparato, e magari lo avrebbe fatto stando sdraiato sul divano e sorseggiando una tisana al kiwi con gli occhi incollati a un episodio di “Sex and the City” di cui non avrebbe capito nulla; perché lui non era affatto tipo da “Sex and the City”.







6




    «... Hai davvero guardato un episodio di “Sex and the City”, Brian?»

    Brian la guardò come se, tra i due, quella che aveva bisogno di aiuto fosse stata lei. «Anna, Dio di un Dio. Ma secondo te!»

    «...»

    «NO!», sbottò, stridulo.

    «Ah, ok. Be', chiedevo.»







7




Se Stefan aveva capito qualcosa di Brian era che se stava a casa d'altri, cioè a casa sua, cioè come in quel preciso istante, c'era sempre il rischio che prendesse alla lettera la frase di cortesia: «Fa' come se fossi a casa tua». Il suo ospite si stava lentamente e faticosamente riprendendo, e, per carità, questo non poteva che farlo sentire più tranquillo. Ma pareva anche che Brian, con ogni piccolo passo avanti nella propria guarigione, riacquistasse non tanto serenità e allegria, quanto una strana voglia di fare (e questo era un bene per entrambi), una nuova forza combattiva (e questo era un bene per Brian) e una rinnovata parlantina petulante (e questa era una tragedia per Stef). Quello che cantante dei Placebo, invece, non aveva mai perso era una bizzarra predisposizione per l'offesa gratuita, cosa a cui chi lavorava per lui aveva fatto il callo, ma che ogni tanto poteva risultare, e Brian stesso questo non se lo spiegava, addirittura poco divertente.

    «... tutto questo per dire che il tuo maglione sembra la pettorina di un cane guida, Osdal, e forse proprio a un cane dovresti regalarla, o almeno, dovresti se non vuoi seguire la strada della castità per il resto della tua vita, come quel Carl Portway, non so se te lo ricordi, te lo ricordi?, era finito nella tua squadra di basket per non so quale miracolo di Dio, ecco, non so se sai che s'è fatto prete, e allora ho pensato “Ah, siamo a posto”, perché quello era un porco, ci aveva anche provato con me, ai tempi, mi ha sbattuto contro il muro del bagno e gliel'ho preso in bocca, non so se te l'ho mai detto, e oh, a proposito di bagni, ho pulito il tuo, perché stamattina non avevo nulla da fare, e ho rotto una mensola e il vaso che tenevi sopra, spero non fosse prezioso, ma se accetti un consiglio dovresti solo ringraziarmi se è finito in mille pezzi, ah, e quelli li ho levati alla bell'e meglio perché va bene tutto, ma non sono mica la tua cameriera, quindi se ti apri un piede con un coccio appuntito non mettere in mezzo me, così impari a riempire la tua casa di roba vecchia e di pessimo gusto.»

Sfiancante. Sì, ma alla fin fine Stefan si era scelto quello, come migliore amico da accudire, quindi aveva poco di cui lamentarsi — e preferiva mille volte vederlo così che con gli occhi di vetro di appena una settimana prima. Era un'umore inquietante e artificiale, figlio di qualche pillola e qualche ritrovo in comunità, ma era un passo avanti, e, quando Brian faceva un passo avanti, Stefan si prendeva la briga di seguirlo e di sbarrargli la strada nel caso in cui avesse voltato i tacchi per riprendere a camminare dalla parte sbagliata. Lo osservò volteggiare per la cucina alla ricerca di un ingrediente di cui, evidentemente, non aveva nessuna voglia di svelargli il nome — “Lo trovo io, non sono mica scemo”. Ora si era messo in testa di preparare una torta, e poco importava se era ormai ora di cena e a Stefan serviva il tavolo per apparecchiare . 

    «Stef? Mi stai ascoltando?»

    «Sì, Brian, ti sto ascoltando.»

    «E allora, pensi di darmelo il telefono, sì o no?»

    «Eh?»

Si era perso una parte di discorso, mentre cercava di indovinare che cosa l'altro cercasse con tanta foga per completare l'impasto di quella torta. Brian alzò gli occhi al cielo, cosa che per qualche strana ragione gli avrebbe fatto ottenere, da Stef, qualsiasi cosa.

    «Ti ho chiesto se puoi prestarmi il telefono per chiamare Cody, il mio non ha più soldi», spiegò.

Stef glielo porse e attese a braccia conserte che l'amico componesse il numero. Normalmente se ne sarebbe andato per concedergli un po' di privacy, ma questa volta gli sembrò opportuno restarsene inchiodato sulla propria sedia, almeno finché non si fosse assicurato che quella chiamata era del tutto innocua. 

    «Stef?»

Helena, dall'altra parte del filo. 

    «No, Helena, sono Brian.»

    «Ah, Brian. Aspetta»

Lei si allontanò dalla figurina riccia di Cody, intento a costruire la pista in miniatura delle Hot Wheels compratagli da papà, e si sedette sul letto della propria stanza. Lui attese con le labbra tra i denti, gli occhi inchiodati all'impasto giallognolo della torta con cui avrebbe monopolizzato il forno per la successiva mezz'ora.  

    «Eccomi. Come stai?»

    «Bene, grazie. Mi sto riprendendo molto bene. Vorrei parlare con Cody, c'è?»

    «... Brian, mi sto fidando», si raccomandò lei a voce bassissima, per paura essere sentita dal bambino.

    «Non te ne farò pentire.»

    «... Mh.»

Attese ancora qualche secondo sotto lo sguardo inquisitorio di Stef, dopodiché gli arrivò all'orecchio la vocina di Cody, in sottofondo una sigla che riconobbe subito come “Dragonball GT”.

    «Papà!»

    «Piccolino, ciao. Come stiamo?»

    «Bene! La pista delle Hot Wheels è bellissima, quella che mi hai regalato!»

Brian udì in lontananza la voce dell'ex moglie pronunciare con dolcezza: “Come si dice, a papà?”

    «Grazie!», esclamò Cody, cogliendo il suggerimento.

    «Prego! Che hai fatto oggi? Senti, una cosa tra noi: la stai tenendo d'occhio, la mamma?»

    «Sì», rispose il piccolo allo stesso modo, immediatamente conquistato dal tono circospetto del padre. «Ieri sulle pesche stava mettendo il sale al posto dello zucchero, ma io l'ho fermata!» Qui ridacchiò, ma poi si costrinse a tornare serio quando vide la mamma fingere profonda indignazione, accanto a lui.

    «Tu stai bene, papi?»

    «Sì, sto bene, in questo periodo ho un po' di questioni da sbrigare, ma domenica io e te andiamo al parco, no? ... Cody?»

    «Sembravi più felice prima.»

    «... C-Cosa?»

    «No, aspetta, non lo so», si corresse subito il bimbo. «Però mi sembrava che prima eri più felice. Qualche mese fa, dico. È colpa mia?»

    «Cody, ma che dici, non è mai colpa tua di niente!»

Brian aveva perso qualche anno, lo sguardo di Stefan si era fatto più sospettoso, Helena si era drizzata sul divano, le sopracciglia aggrottate. Cody invece attendeva solo una risposta, perché del resto era solo un bambino di prima elementare, e non si rendeva conto del fatto che a volte le cose è meglio se non si dicono.

    «Promesso, che non è colpa mia?», chiese ancora.

    «Sì, certo; promesso, piccolo.»

Il bimbo fece un gran sorrisone, e Brian lo capì dal modo in cui pronunciò la frase successiva — cosa che, almeno un pochino, lo consolò. 

    «Allora mi fido.»







8




Ciao, Matt.

    Sto bene, più o meno. In comunità e dall'analista sto andando solo qualche volta e basta, ma questo è perché, stando a quanto dicono i medici, sono migliorato incredibilmente. Vai così, Brian. Effettivamente penso che abbiano ragione, anche se parzialmente. Sono visibilmente più sereno, ma potrei stare meglio. Potrei migliorare in modo definitivo, e senza pericolo di ricadute. 

    Stare con te mi ha fatto sentire così. Senza pericolo di ricadute. So che ogni volta vado a finire lì, ma vaffanculo, queste sono le mie lettere, e tu nemmeno devi leggerle, quindi fatti i cazzi tuoi e scriviti le tue, se proprio vuoi qualcosa di meno romantico. Ormai mi arrabbio con te prima ancora che tu faccia o abbia modo di fare qualcosa, perché checché ne pensino i tuoi fan, Matt, tu sei una persona facile, da conoscere. Non hai un cervello semplice, e questo l'ho capito quando mi sono accorto dell'intesa che c'era tra noi (e poi, se il tuo cervello fosse stato semplice, saresti banalmente entrato a far parte della lunghissima lista dei miei uomini non-orribili); ma tutte quelle piccole abitudini che hai, come accendere tutte le luci che trovi quando passi in corridoio, o stuzzicarmi non appena mi addolcisco con te, sono così semplici da memorizzare! Tutto questo per dire che so che mi punzecchieresti, se leggessi queste lettere in cui sono schifosamente melenso. 

    Ah, e a proposito! Mi è venuta in mente quella volta in cui te ne sei andato di casa, e io non la smettevo più di lavare le tazzine in cui avevamo bevuto il caffè. La volta in cui ti ho detto che avevo passato la serata precedente a sorseggiar tisane guardando “Sex and the City”, quella, ti ricordi? Te ne sei andato non appena ho tirato in mezzo alla discussione Kate e il bambino, e forse quella è stata la nostra prima litigata vera da quando ci siamo conosciuti — io l'ho vista come tale, anche se nessuno dei due ha alzato la voce. Semplicemente tu te ne sei andato, e hai detto che mi avresti chiamato, cosa che normalmente dico io quando scarico la gente. Però non mi stavi scaricando, te ne stavi solo andando. Ecco, quella sera ho pianto. Te lo scrivo solo perché tanto queste righe non le leggerai mai. Mi ricordo che mi sono chiuso in stanza e ho pianto, con il cuore, tenendomi una mano attaccata alla faccia. Mi ero reso conto che stavo per buttare via tutto soltanto per orgoglio, e odiavo il fatto che tra tutti quelli di cui potevo innamorarmi, proprio con te sono andato a impelagarmi, proprio con te, atteso a casa da una moglie al terzo mese di gravidanza. Sono andato avanti così per dieci minuti buoni. Quando ho smesso di piangere mi sentivo talmente esausto che mi è venuto un mal di testa lancinante, e non sono più stato in grado di fare nulla finché non mi sono alzato, il mattino successivo. E quella che voglio dirti ora è una cosa che avrei dovuto dirti sei mesi fa, e che in faccia probabilmente non ti direi mai, ma è una cosa vera, e forse te la devo, perché da te sono dipesi il periodo più bello e il periodo più brutto di tutta la mia vita: sono stato con un altro uomo, stronzo! 

    ... Era solo una soddisfazione che mi dovevo togliere, abbi pazienza, magari un giorno ti spiegherò. 





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Capitolo 10
*** Scoperte ***


Ciao a tutte e bentrovate!


Oggi sono arrabbiata come non mai; ho scoperto che una ragazza ha plagiato la mia ultima OS (non so se qualcuna di voi ha letto “Cose Che So di Te” nella sezione Death Note). Il plagio è evidente — stessa sezione, stessi personaggi, stessa idea di base e alcune frasi proprio identiche. Ho segnalato il fattaccio all'amministrazione, ma non ho ancora avuto risposta. Sono proprio a terra, insomma, quindi non è stata una gran bella giornata. Però ho rigettato tutto il mio malumore su qualcosa di un po' positivo, ovvero il completamento di questo capitolo e di quello di un'altra storia.

Non so perché vi racconto tutte queste cose, ma non so, sono davvero arrabbiata, ecco. Ma spero davvero che questo aggiornamento vi piaccia. 

Ed è con questo spirito che vi presento il terzultimo capitolo di questa storia!

 

Buona lettura!

 

 

pwo_

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

QUARTA PARTE

 

 

 

 

 

 

*

 

 

 

 

 

 

SCOPERTE

 

 

 

«Pronto? Stef? No, non ho ancora pagato, però sono già in coda... cosa? I cereali? Ma ci sono, i cerea... e cosa me ne frega, se non ti piacciono, vorrà dire che domani, a colazione, prenderai solo il latte! Ah, è scaduto? Ma Stef, quante scene, sono sicuro che sarà ancora buonissim... ah. Mh, no, non dovrebbe sembrare formaggio. Sì... sì, buttalo. Oh, e dai, tocca quasi a me! Senti, io... ap... uh... la linea è disturbfzzzz... non ti sent... fzzzz... etchhh...

«E va bene, e va bene, ho capito, faccio una corsa! Ti odio. Sì... sì. Ciao.»

 

 

 

 

 

 

1

 

 

 

«Ti dispiace se cambiamo... postazione?»

Lo studio di Anna cominciava a stargli un po' stretto. Brian vi aveva passato buona parte degli ultimi anni — degli ultimi mesi, in particolare —, ma gli ultimi anni non erano stati troppo piacevoli. La chaise-longue rossa era diventata il cliché che gli si ripresentava per mano ad ogni periodo buio, e tornare a sdraiarsi su di essa significava anche tornare a fissare il soffitto e contare le gocce di vetro — quarantatré — appese al lampadario finto-antico in ottone come unica alternativa al parlare di se stesso. Anna aggrottò le sopracciglia e guardò Brian, Brian sorrise in modo parzialmente genuino e guardò la ricrescita castana separarle il biondo dalla fronte. Ci stiamo lasciando andare un po' troppo, Beckett.

«Perché lo chiedi?»

«Ci sono tre cose che ancora mi tengono legato a Matt», rispose. «Questo studio è il luogo dove ho vissuto... quasi tutta la mia storia con lui, per la seconda volta. Ora che siamo arrivati praticamente alla fine del mio racconto, vorrei iniziare ad abituarmi all'idea di non venire più qui.»

Lei annuì. 

«Pensi di smettere di vederci, ti senti abbastanza pronto?»

«In realtà vorrei che oggi fosse l'ultima volta. In assoluto», si sentì rispondere, una risposta sicura corredata da una scrollatina di spalle.

Le fece piacere, e se quella mattina si era svegliata, come sempre, ultimamente, di pessimo umore, ora si sentì un po' risollevata — stupidamente, infantilmente. Il viso di Brian restava sempre triste, era difficile che cambiasse, però ora sembrava quasi di una tristezza temporanea, risolvibile. La tristezza data da nient'altro che una giornata storta, o una brutta notizia. 

«E poi», continuò Brian, «per tutti questi mesi avevo evitato di ritornare nei posti dove ero stato con lui.» Ridacchiò. «Praticamente non potevo andare da nessuna parte, ma ora ho ripreso a frequentare i posti che mi piacciono. E... e questa è la seconda cosa che temevo mi tenesse ancora legato a lui, ma che sono riuscito a liquidare, e... oh, a proposito, grazie di avermelo consigliato.»

«Te l'avevo consigliato più di due mesi fa, Brian», rise lei. «E la terza cosa?»

«Come?»

«La terza cosa», ripeté l'analista. «Hai detto che tre erano le cose che ancora ti tenevano legato a Matthew. Lo studio, il non andare nei posti dove andavate assieme e... la terza cosa?» 

Brian non smise di sorridere, ma il suo sguardo si fece vacuo.   

«Mi sono sbagliato. Volevo dire due cose, non tre.»

«Brian, se c'è qualcosa che...» 

La liquidò con una scrollata di spalle; voleva soltanto raccontare il resto della sua storia, dirle come era andata a finire per il semplice gusto di completare una cosa iniziata.

«Vorrei solo parlarti dell'ultimo atto di questa tragedia che sembra non avere fine.»

«Siamo arrivati al dunque, allora.»

«Oh, sì, Anna. Proprio sì. Siamo arrivati alla mia fatidica uscita con Michael. Mi aveva portato in uno dei soliti ristoranti d'alta classe — anonimo, noioso —, avevamo pure mangiato abbastanza bene. Non c'era niente che non andasse, in quel Michael, sul serio, nulla fuori posto. Mah. Comunque ero deciso, l'avrei mollato appena usciti da lì. L'avrei mollato e subito dopo avrei chiamato Matt, magari confessandogli tutto, o magari no, ma comunque dicendogli che doveva venire da me subito, all'istante. Alla fine, l'unica cosa che sono stato capace di fare è stato salutare Michael con un bacio asettico. “Ti chiamo io”, gli ho fatto. Chiaramente non l'ho mai più sentito. Ed ecco che esce di scena anche Michael, con i suoi muscoloni e il suo passato variopinto. Quella sera non chiamai Matt. Mi limitai a bermi un bel caffè all'americana davanti a un film; e la cosa divertente, o grottesca che sia, è che ora che mi ero liberato del terzo incomodo mi sentivo bene, tranquillo, libero, pronto a ricominciare. Mi illudevo e basta. Perché il giorno dopo, mentre tornavo da una riunione con la mia manager e la band...

 

 

 

 

 

 

2

 

 

 

... Matt si fece trovare direttamente in casa sua. Sapeva benissimo dove Brian teneva le chiavi, e fu per questo che Brian stesso non si spaventò. Gli fece piacere. Da morire. Matt era seduto sul divano, di spalle, stava immobile davanti alla televisione a cui aveva tolto l'audio. Non si voltò, quando Brian gli rivolse parola.

«Matt, che bella sorpresa!»

«...»

«Matt?»

Gli si avvicinò, stava per toccargli una spalla perché si girasse e lo avvolgesse in uno dei suoi abbracci stritolanti, caldi, dannatamente familiari. Bloccò le dita a mezz'aria, perché Matt finalmente gli stava dicendo qualcosa.

«Ero venuto a prenderti per andare a cena fuori, ieri. Non c'eri. Mi sono presentato alla portinaia come un tuo amico, mi ha detto che eri uscito con il tuo fidanzato.»

... Brian dischiuse le labbra, si rimise dritto. Improvvisamente la giornata si era ribaltata. Un po' tutto si era ribaltato, in realtà. O almeno si stava ribaltando. Inizialmente non rispose, ma Matt non aveva fretta di aggiungere nient'altro, quindi fu costretto a farlo. Gli pesò come mai nulla gli era pesato.

«Com'è, tu puoi e io no?»

In realtà aveva ragione, più o meno. Però si sentì ugualmente il peggiore dei vigliacchi.

Matt ignorò quella risposta. Pensò che forse, in qualche modo, il tutto si poteva ancora recuperare.

«Andiamo a cena fuori, Brian?», gli chiese, irrazionalmente.

Stava sul divano a fissare le immagini che correvano silenziose sullo schermo della tv, Brian se era allontanato, si era appoggiato al ripiano della cucina, un bicchiere dell’acqua che non voleva sospeso a mezz'aria, nella sua mano. Da dov’era poteva vedere Matt di spalle. Si parlavano a quella distanza.

«Non si risolve sempre tutto andando a cena fuori, Matt.»

Un sospiro. «Andiamo a cena fuori, Brian?»

Posò il bicchiere accanto a sé, fissò l'aria. «No, Matt. Non voglio andare a cena fuori.»

«... Sì che lo vuoi.»

«...»

«...»

«È questo che voglio, Matt?»

«... Sì.»

Brian annuì piano, non visto.

«E allora andiamo a cena fuori, Matt.» 

Vide Matt alzarsi dal divano e sparire nell'altra stanza, lo vide ricomparire sulla soglia della cucina due minuti più tardi. O due ore, o due giorni.

«Sei pronto?» Matt era già vestito, le chiavi dell'auto in mano. 

Brian si disse che “vestito” non era il termine adatto — si era solo messo le scarpe, le gambe ancora coperte dalla tuta che usava per stare in casa. Non si sentì in dovere di dire nulla.

«Mh?» concesse, dopo un po’.

«Sei pronto?»

«No.»

«E allora preparati.»

«... ia.»

Matt non aveva sentito: abbassò la testa all'altezza della sua, teneva le mani puntellate sul pianale, ai lati di Brian —era tanto vicino. Da morire.

«Che cosa hai detto?», chiese. 

«...»

«Brian.»

«Ho detto “vattene via”.»

«...»

«...»

«Vuoi che me ne vada.»

No.

«Sì.»

«Sul serio?»

No.

«Sì.»

«... Molto bene.»

Fu l'ultima cosa in assoluto che Matt gli disse: “Molto bene”, una frase che in qualsiasi altro frangente sarebbe stata rincuorante. Non quella volta. A Brian sembrò che le costole avessero preso a stringergli i polmoni come in una morsa, si accorse dopo qualche secondo di essere rimasto in apnea per una quantità di tempo indefinita. Sentì Matt armeggiare nella loro... nella sua stanza, chiudere la cerniera della borsa e imprecare dopo che si fu accorto che aveva lasciato fuori qualcosa. Desiderò corrergli dietro e abbracciarlo per l'ultima volta, o baciarlo, qualcosa, solo per non dover fare i conti con il rimpianto di essersi salutati a quel modo. 

Non fece nulla. Avrebbe sperato che Matt gli dicesse di no, sinceramente. Che gli dicesse di no e che restasse, che si impuntasse come un bambinetto finché Brian non avesse ceduto alle sue estenuanti preghiere, o che sparpagliasse i propri vestiti in giro per la casa e che poi lo guardasse con quell'aria di sfida che stava a dire: “Con questo casino, come potrei mai farla, la valigia?”. Una volta l'aveva fatto. E invece oggi no. Brian aveva detto a Matt di andarsene e Matt se ne andava. Nessuna obiezione. Che ti dicevo? La stavi prendendo troppo sul serio, Matt.

Passò del tempo, forse poco o forse tantissimo. Matt aveva finito di raccattare le proprie cose, stava in piedi sull'ingresso della cucina con il borsone su una spalla. Forse si aspettava che Brian gli dicesse qualcosa. Brian non disse nulla.

Lo sentì uscire da casa sua con quel maledetto borsone sulla spalla, senza nemmeno dire “ciao”, solo il rumore della porta che sbatteva e poi il rumore del silenzio più pesante che ci fosse mai stato. Brian restò lì a braccia incrociate, fissando con insistenza la piastrella su cui, fino a un attimo prima, c'era stato l'amore della sua vita che senza parlare gli chiedeva di ripensarci.

 

 

 

 

 

 

3

 

 

 

Salutò Anna con una stretta di mano. Si sarebbero rivisti, con la speranza che il prossimo incontro accadesse in circostanze migliori. Lei si stava lasciando andare, per qualche motivo che Brian riteneva fosse, in qualche modo, collegato ai fiori che lei aveva lasciato appassire nel suo salotto. Glielo avrebbe chiesto, un giorno o l'altro, magari davanti a una tazza di caffè nero. Ora era da solo, doveva andare avanti con le proprie gambe. 

Ad ogni modo, almeno all'inizio, si sarebbe aiutato con quelle di qualcun altro. Aveva già in mente chi.   

 

 

 

 

 

 

4

 

 

 

Sarebbe stato a casa di Stef per almeno una settimana. Proprio almeno almeno. L'altro paio di gambe che gli sarebbe servito era il suo. L'aveva deciso in due secondi e comunicato a Osdal in due minuti (perché glielo aveva comunicato, non certo chiesto), e appena chiusa la chiamata aveva suonato il suo campanello. Non aveva nessuna intenzione di perdere tempo, aveva preparato una valigia e aveva chiamato Stefan quando era già davanti alla sua porta.

«Non andrò più da Anna. Ho chiuso, con tutta questa storia» fu il saluto di Brian.

L'amico annuì. «E allora cancella anche il numero di Matt.»

«Fammi entrare.»

«Solo se poi cancelli quel numero.»

«... Adesso lo faccio.»  

 

 

 

 

 

5

 

 

 

Dopo qualche mese passato assieme a te mi resi conto del fatto che probabilmente non ero soltanto innamorato di te. Ero perso, del tutto. Mi spaventai. Me lo ricordo bene. Avevamo appena finito di fare l'amore, sul pavimento, vicino alla porta di camera mia — non eravamo riusciti ad arrivare fino al letto, ma ricordo che ci avevamo provato. Ti dissi che avevo freddo, ma te lo dissi così, per dire, non pretendevo nulla. Mi avvolgesti con le braccia, mi cullasti per qualche secondo, mi sfregasti la schiena. Io ti avevo detto che avevo freddo, e ora tu mi scaldavi, come fosse ovvio che lo facessi. 

«Cosa fai?», ti chiesi.

Mi soffiasti un po' d'aria calda sul collo, dietro all'orecchio. Pensai che messi lì, nudi sul pavimento di casa mia, visti dall'alto dovevamo sembrare due vermi.

«Meglio?»

Avevi ignorato la mia domanda, bellamente. Non mi lasciai scoraggiare, ignorare le mie domande era una cosa che facevi spesso, da quando avevi capito che era l'unica via d'uscita per il cinquanta percento delle mie provocazioni. Avevi immediatamente imparato quali tra le mie richieste erano da considerarsi genuine e quali semplici capricci. Sei intelligente, tu, non c'è niente da fare. E così, io ti dissi che avevo freddo e ora tu mi scaldavi, e mi chiedevi se andasse meglio.

«Sì», risposi.

Non mi sarei mosso di lì per tutto l'oro del mondo, te lo giuro. Se mi concentro mi sembra ancora di sentire la schiena scaldarmisi nel punto in cui era a contatto con il tuo petto.

«Matt.»

Mi sentivo in dovere di dirtelo, ma non volevo, non volevo, non volevo affatto.

«Mh?»

Il tuo naso era ancora dietro al mio orecchio, e non sai quanto mi sia costato scostare il tuo viso da lì con una mano.

«No, devi ascoltarmi.»

«Ehi, Brian, che c'è?»

«...»

«... Brian.» 

«La stai prendendo troppo seriamente.»

«Cosa?»

«Questa cosa tra noi.»

Mi fa quasi ridere, pensare di averti detto qualcosa del genere. Ero follemente innamorato, Matt, da morire, non penso che tu possa immaginartelo. Rimanesti in silenzio, mentre io in quella posizione non ti vedevo la faccia, e continuai. 

«Non devi farlo per forza.»

«Che cosa?»

«Scaldarmi.»

«Ti dà fastidio?»

«No, mi piace.»

«E allora che problema c'è?»

«C'è che la stai prendendo troppo sul serio.»

«Brian, perché devono venirti queste fissazioni nei momenti in cui stiamo... bene

Ti ignorai.

«Tu hai una vita, una vita vera. Hai una donna, un figlio, una band, un mondo fatto di televisioni e concerti e musica e...»

«Ce le hai anche tu, tutte queste cose.»

«Ma io non cerco di scapparne. È per scappare da qualcosa, che sei venuto da me.»

«Veramente, tra i due, quello che mi ha sbattuto contro il muro del bagno a quella festa sei stato...»

«Non sono in vena, Matt.»

«...»

«E sei stato tu a tornare. L'hai voluta tu, questa storia.»

«Brian, ma di che cosa stai parlando, certo che l'ho voluta!»

«Sì, ma...»

«...»

«...»

«... “Ma”?»

Non mi uscivano le parole, come a un dodicenne davanti alla cotta estiva. È strano, faccio fatica a descriverlo. Pensavo che la stessi prendendo troppo sul serio, e la cosa in sé non mi spaventava. Mi spaventava il fatto che potessi smettere di prenderla sul serio, ecco la verità. Perché se l'avessi buttata sul ridere fin dall'inizio, probabilmente io dopo non mi sarei nemmeno dovuto chinare per raccogliere i pezzi, come ho fatto negli ultimi sette mesi. Ma tu mi hai dato tutto te stesso, e se avessi smesso da un giorno all'altro, preso dal senso di responsabilità che sarebbe stato giusto avessi, io sapevo che per me sarebbe stata la fine. Avevo provato a trattarti male, avevo provato a tradirti, ma tu con me ti comportavi sempre come fossi stato l'unico al mondo. Allora mi sono chiesto che senso avesse, tutta quella fatica. Se non fosse più giusto, in fin dei conti, godermela finché potevo. Se per assurdo avessi questa possibilità per una seconda volta, adesso, penserei soltanto a godermi tutto il mio tempo con te. Ma sto imparando a gestire quest'idea, e in realtà ora come ora sento la tua mancanza soltanto quando si parla di te. 

Ad ogni modo non riuscii ad andare avanti con il mio dannatissimo discorso. 

«Brian, ci sei? Ti senti bene?»

«Aha.»

«Vuoi che ce ne andiamo sotto alle coperte, che fa più caldo?»

«... Sì, magari.»

Così. Perso.

Sai, Matt, Stef continua ad insistere sul fatto che dovrei decisamente cancellare il tuo numero, visto che tanto non mi servirà ad altro se non ad alimentare la mia tentazione di riprendere i contatti con te — ma dimmi tu come sono messo. Oggi, comunque, me l'ha ribadito per l'ennesima volta. Io gli ho detto: “Adesso lo faccio”. E tu lo sai, no? Quando dico: “Adesso lo faccio” è perché non ho intenzione di fare proprio nulla. E infatti sei ancora nel mio telefono. Sotto la M di “merda”, o di “male”.  

Oggi ho detto alla mia analista che tre sono le cose che ancora mi tengono indissolubilmente legato a te. La prima, lo studio della mia analista stessa. La seconda, i posti dove andavamo assieme — come quel barettino tutto verde a Soho, non so se te lo ricordi. La terza non gliel'ho detta. A te però posso dirlo, che la terza cosa sono queste maledette lettere. Ho iniziato per gioco, come a dire: “Ma sì, facciamo questa prova” e poi non ho più smesso (dissi la stessa cosa anche prima di mettermi in bocca la prima sigaretta, e guarda come sono ridotto ora). Dovrei smettere di scrivertele e basta, riprendere la mia vita in mano.

Andare avanti e lasciarti indietro. 

Adesso lo faccio.


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Capitolo 11
*** Coperte ***


Jesus, il penultimo capitolo! Ç_Ç


Sto male, lo giuro, questa storia è partita scritta di pancia e ancora adesso va avanti restando scritta di pancia. 

È l'ultimo capitolo degno di essere chiamato tale, dato che l'ultimo vero e proprio è già finito e corto come non mai. Ma non faccio il doppio aggiornamento perché io sono una che i cerotti se li leva usando tanta acqua calda e sapone. Aspetto di sapere che cosa ne pensate di questo “Coperte” e poi ecco, pubblicherò l'ultimo... si dovrà pur fare. Piango.


Ma bando alle ciance. Buona lettura a tutte, spero tanto che vi piaccia e vi mando un milione di baci!



pwo_









COPERTE




«Pronto? No, signora, non è il droghiere, ha già chiamato qualche tempo fa. Cosa? Ma no che non la prendo in giro, le assicuro che non... senta, senta facciamo così. Lei è di Londra? Ottimo. Ora le do il numero di quello da cui sono sempre andato io, d'accordo? Ha da segnare? Ecco, segni: due sei sette... quattro otto... sta segnando? Quattro nove...»







1




Stefan aveva cominciato a fare palestra. Di certo non si aspettava che Brian restasse zitto davanti agli abiti da allenamento di lui — battutine —, ma che la cosa restasse, invariabilmente, l'argomento di ogni conversazione non era nei programmi. Brian diede un colpetto alla Marlboro e la cenere cadde nel suo bicchiere di acqua frizzante. Sedeva sulla seggiola, a gambe accavallate, fissando con aria scettica la schiena dell'altro.

«Cosa fai, Stef?», chiese.

«Cucino.»

Soffocò una risata, tornò subito all'attacco.

«Se fai saltare la pasta nella padella per un po', magari ti vengono i muscoli», lo sferzò, sarcastico.

Finalmente ottenne che Stef si girasse verso di lui con l'espressione rassegnata di chi, ormai, a qualcosa ha fatto l'abitudine.

«Brian, per quanto ancora?»

«Per quanto ancora cosa?»

«Per quanto ancora mi prenderai per il culo con questa storia degli allenamenti?», sfiatò Stef.

Non che fosse arrabbiato; non era neanche lontanamente irritato. Forse però avrebbe preferito che i loro botta-e-risposta convergessero verso un'unica direzione — Stef parlava di calcio e Brian parlava degli allenamenti, Stef parlava di moda e Brian parlava degli allenamenti, Stef parlava di quanto si fosse rotto di sentir parlare degli allenamenti e Brian parlava degli allenamenti. Sembravano i vecchi sulle panchine dei porti, quelli che parlano tra loro usando ognuno la propria lingua, e, consequenzialmente, parlando ognuno di cose diverse dagli altri.  

«Almeno fino a quando ti ostinerai a voler fare degli allenamenti», gli fu risposto, ad ogni modo.

«Perché la cosa ti disturba tanto?»

Brian schiacciò il filtro della sigaretta contro il fondo del bicchiere stando attendo a non bagnarsi, e senza perdere il sorriso. 

«Non mi disturba, mi fa solo ridere.»

«Questo è abbastanza chiaro, ma perché ti fa ridere?»

Brian si era stufato di parlare; fissava la luce filtrare dalle tende con il sorriso sulle labbra. Risolse il tutto con una scrollata di spalle che fece desistere Stef da qualsiasi altro tentativo di conversazione. 

Brian era a casa sua da più di tre settimane.







2




«Stai usando il mio computer, Brian?»

«Sì.»

«Si può sapere perché non hai portato qui il tuo?»

«Pesava.»

«Mh.»

Brian scorse velocemente le foto della galleria, così, tanto per fare qualcosa. Vi trovò una cartella datata 2 ottobre. Dal 2 ottobre erano passati cinque giorni, si trattava di foto recenti. Aprì la cartella, gli piaceva non farsi i fatti suoi. Erano foto di un tizio che non poteva provenire da altro luogo che non fosse l'Irlanda, un ultra-trentenne di bell'aspetto inguainato in una tutina da ciclista. 

«Oh», mormorò con un mezzo sorriso Brian, «ecco perché ti è presa questa mania sportiva, Stef».







3




Aspettava Anna nello stesso caffè in cui soltanto poche settimane prima aveva aspettato Helena, gli occhi incollati allo schermo al plasma affisso al muro senza prestarci veramente attenzione. Per arrivare lì, Brian aveva dovuto prima fare i conti con la furia distruttiva di una manifestazione gay lungo The Mall, manifestazione che oltretutto lo aveva portato a scoperte piuttosto interessanti. Anzi, molto interessanti. Ma ora doveva aspettare Anna, e, comunque, per sfruttare tali scoperte avrebbe avuto tempo. 

Lei arrivò puntuale, lui alzò un braccio per farsi vedere non appena sentì la porta del locale colpire il campanello appeso al soffitto. Tra una cosa e l'altra, lui e Anna non si erano visti per quasi un mese.

La trovò stranamente in ordine, proprio come era stata prima che cominciassero a parlare seriamente di Matt nello studio ordinato di lei.

«È molto che aspetti?»

«Assolutamente no», mentì con un sorriso cordiale Brian, che si era seduto su quel divanetto con quasi mezz'ora di anticipo rispetto all'orario prestabilito.

Si fecero portare due caffè da una ragazzina tutta occhi e cappellino della divisa, un berretto blu che faceva piuttosto hostess. Per un po' parlarono tranquillamente del più e del meno, di come stavano girando le cose; Brian notò che Anna faceva fatica a prendere in mano la conversazione, forse per quella deformazione professionale che la portava a porre solamente molte domande. 

Le chiese ciò che intendeva chiederle da mesi quando ormai era arrivato anche il secondo caffè. 

«Cosa vuol dire: “C'è qualcosa che non va?”, Brian?», pronunciò cautamente lei.

«Non so, mi sembra che ultimamente tu sia un po' giù. Non vorrei impicciarmi troppo ma... ho visto i fiori in casa tua, c'entrano quelli, in qualche modo?»

Forse era stato invadente, ma ormai era entrato in argomento e non aveva intenzione di rinunciare. Pura curiosità. Lei gli rifilò un sorriso amaro e che diresse subito dopo verso una delle vetrate del bar. 

«È per un uomo, vero?», rincarò Brian, implacabile.

«Sì», capitolò lei.

«Ti ha portata a letto e poi non si è fatto più vedere?»

«Che cosa?!»

Ora sul viso di lei si era dipinta un'espressione di sincera sorpresa, sorrisino malcelato e sopracciglia sollevate. Sembrava che Brian le avesse detto qualcosa di assurdo, di difficile perfino da comprendere. Lui attese pazientemente la risposta che gli spettava (magari poi nemmeno gli spettava, ma ormai), e, contro ogni logica e aspettativa, Anna scoppiò a ridere. Forte, anche. Brian la osservò stranito per pochi secondi, poi si arrese a seguirla a ruota, anche se solo per l'imbarazzo di non sapere che cosa fare altrimenti.

«Brian! Ma no!», fece stridula lei, soffocando in partenza un'altra risata.

«E allora cosa?»

«... Si tratta di mio padre.»

«...»

«...»

«... Tuo... padre

«Sì», confermò lei. Prese ad armeggiare con il porta-fazzoletti, e Brian sospettò che lo facesse solamente per evitare il suo sguardo. «Da ragazza, quando decisi di venire a studiare qui a Londra, mio padre si oppose con tutte le forze. Lui lo vedeva come un segno di ingratitudine nei suoi confronti, perché mio padre è sempre stato molto legato a Edimburgo, e avrebbe avuto piacere che continuassi a studiare lì. Da quel momento in poi abbiamo tagliato ogni ponte, e... non ci eravamo più sentiti, per tutti questi anni. Poi, un giorno, mi sono arrivati a casa quei fiori assieme a una busta in cui era stato scritto di tutta fretta un invito a cena.»

«Era lui?»

La donna annuì. «Non avrei confuso il modo in cui arrotola l'occhiello delle “F” minuscole nemmeno se alla fine del biglietto non si fosse firmato: “Papà”.»

Alzò la testa su Brian, ma lui le rivolse solamente un sorriso intenerito, così tornò a fissare il porta-fazzoletti.

«Quella sera non si è presentato. Ero a pezzi, Brian, te lo giuro. Mi è crollato il mondo addosso; se solo avessi avuto il suo numero l'avrei chiamato fino a far sciogliere il cellulare.»

«Perché non era venuto?»

«Era stato male. Si era agitato troppo, la pressione alta gli aveva giocato un brutto tiro.»

Lasciarono entrambi che qualche attimo scorresse nel silenzio più assoluto, sorridevano rivolti agli oggetti inanimati sul tavolo.

«E ora lui dov'è?», chiese infine Brian.

Anna sollevò gli angoli delle labbra, gli occhi un po' lucidi.

«Mi sono affittata uno studio vicino al negozio di ferramenta di Trafalgar. Lo studio che conosci tu è ufficialmente diventato la camera da letto del mio papà.»













4




Brian si era offerto di fare la spesa, cosa che mai si era sognato di fare, solo perché avrebbe deciso che l'odierna sarebbe stata giornata di indagini e di umiliazioni. Nella propria testa la definì proprio così, una “Giornata di Indagini e di Umiliazioni”. Aveva scoperto, origliando al telefono quando Stef pensava che stesse dormendo, che tale Jonathan, il tipo in tutina da ciclista, lavorava al Tesco in Oxford Street, proprio dove ora Brian si stava dirigendo con piglio autoritario. Occhiali da sole inforcati, fece il suo ingresso trionfale nel supermercato gelido di aria condizionata e agguantò il primo cestello disponibile. 

Jonathan stava sistemando il latte di soia sul secondo scaffale dall'alto del corridoio tre. Molko si limitò a osservarlo, mentre una vecchietta di passaggio fissava a sua volta lui con aria scandalizzata, un maniaco in occhiali da sole dentro a un rispettabile supermercato londinese (perché Brian, con quegli occhiali, al chiuso, altro non poteva sembrare che un maniaco). Dopo qualche secondo, la signora si ritenne abbastanza soddisfatta e rinunciò allo spettacolo, spingendo il carrello in direzione del corridoio quattro per approfittare di qualche offerta sulle patate dolci. 

Jonathan si accorse di Brian soltanto mentre scendeva con cautela dalla scaletta in ferro. Da quello strano e inquietante uomo in occhiali da sole gli fu rivolto un sorriso enorme e falsissimo. 

«Buonasera», salutò Jonathan.

«Buonasera», rispose cordialmente Brian.

«Ha... ha bisogno di qualcosa?»

«No, e lei?»

«Ehm... non direi... è sicuro di non aver bisogno di nulla? Voleva il latte di soia? Se non ci arriva possa passarglielo io.»

L'insinuazione sulla sua statura non gli passò inosservata, ma incassò e incanalò l'irritazione in un innaturale allargamento ulteriore del suo sorriso.

«Nessun latte di soia, grazie.»

Jonathan annuì con aria scettica e gli riservò un'ultima occhiata confusa prima di imbracciare altri prodotti dal muletto blu del supermercato. Brian non si mosse, lui sospirò. Adagiò nuovamente le confezioni sulla superficie metallica e parlò stancamente.

«Signore, posso aiutarla in qualche modo?»

«Sei il fidanzato di Stefan?»

«... Come, prego?»

La domanda gli fu ripetuta.

«Senta, mi scusi, ma... lei chi è? Perché mi fa queste domande?»

«Sono quello che è venuto qui oggi per dirti che d'ora in poi Stefan, il MIO ragazzo» (urlò il: “Mio”), «non lo vedrai mai più nemmeno in fotografia. E ora con permesso.»

Jonathan dischiuse le labbra in una piccola “O” e strabuzzò gli occhi. Vide allontanarsi quello strano personaggio, che poi altri non era che Brian nelle vesti di un inquietante iettatore, con passo allegro e sicuro.







5




Era tornato a casa a mani vuote, ovviamente. Non aveva certo intenzione di farla davvero, la spesa, ma questo Stef non l'aveva capito — si era voluto illudere che Brian stesse finalmente iniziando a sentirsi in dovere di aiutare, ma, ovvio, si trattava di pura illusione. Ora lo fissava con sguardo truce mentre con una mano teneva aperta l'anta del frigo vuoto a scopo dimostrativo.

«Non noti nulla, Brian?», gli chiese, dopo almeno un minuto di pesantissimo silenzio.

«Il frigo è vuoto», si sentì rispondere.

«E lo sai perché è vuoto?»

«Perché abbiamo mangiato tutto quello che c'era dentro. Dovresti imparare a gestire meglio la roba da mangiare, Stef, non te l'hanno mai detto?»

Osdal sospirò. 

«Oggi dovevi fare la spesa», tagliò corto, sbrigativo. «Mi spieghi perché non l'hai fatto, o che cosa c'era di tanto più urgente da fare se non la spesa stessa?»

«Io al supermercato ci sono andato», puntualizzò Molko.

«E per quale ragione, se il frigo è ancora, sempre, eternamente vuoto?!»

«Ho lasciato il tuo ragazzo per te.»

A Stef servirono due o tre secondi per realizzare che Brian, aria soddisfatta e braccia conserte, non stava affatto scherzando.

«...»

«...»

«Tu... tu hai fatto COSA?!», gli urlò contro.

«Non serve che mi ringrazi.»

Mano tesa verso di lui, espressione modesta. 

«Ma che CAZZO TI SALTA IN MENTE, BRIAN?! Che cazzo vuol dire: “Ho lasciato il tuo ragazzo per te”? Ma sei impazzito?!»

«Assolutamente no», negò con calma Brian, e gli piazzò davanti al naso l'iPhone.

Una foto di Jonathan su una panchina di The Mall durante la manifestazione contro l'omofobia di due giorni prima, scattata da Brian sulla strada per arrivare al caffè in cui lui e Anna si erano poi incontrati. 

Jonathan baciava un tizio dai capelli rosso carota.

«...»

«... Dicevi, Stef?»

Quest'ultimo aveva preso il telefono e pizzicava lo schermo per ingrandire e rimpicciolire l'immagine, immagine che restava, invariabilmente, il ritratto di una romantica coppietta di gay che si baciavano in bocca in una giornata di sole.

«...»

«...»

«... Che cosa gli hai detto?»

«Che il tuo ragazzo sono io e che non ti rivedrà mai più.»

«...»

«...»

«... Non dovevi impicciarti», mormorò Stef, ma stranamente non risultava credibile.

«Volevo risparmiarti la figura da cornuto.»

«...»

«...»

«...»

«Stef, guarda che non è che più la guardi e più non si baciano. E comunque ce ne sono tantissime altre, sapessi quante ne ho fatte!», trillò Brian, un entusiasmo orrendamente fuori luogo.

«Come l'hai scoperto?»

«L'ho pedinato, ovviamente.»

Stefan annuì senza sapere bene a cosa fosse meglio pensare.

«Brian?»

«Sì?»

«Quanti altri, tra i miei ex ragazzi, hai pedinato?»

«Quasi tutti!», esclamò lui con un sorrisone da orecchio a orecchio. «Beh, no, non proprio tutti tutti. Direi tutti tranne Ronnie, lui era un po' grosso e mi faceva paura.»

Stefan annuì ancora in un novantacinque percento di confusione frammista a indignazione frammista al debole cinque percento di intenerimento per quanto era stato fatto per lui. Pigiò l'unico tasto del cellulare di Brian e chiuse la galleria. Le foto le aveva viste tutte, e si trattava inequivocabilmente della manifestazione di due giorni prima; la data compariva anche sulle foto stesse.

«Sto ancora aspettando il “Grazieee”», canticchiò Brian.

«...»

«Senti, Stef, mi... mi dispiace, sul serio. Ma non ti meriti uno così.»

«SÌ, MA TU DEVI FARTI I CAZZI TUOI, BRIAN!»

«...»

«...»

«... Ma se mi fossi fatto i cazzi miei non l'avresti mai scoperto, ho solo avuto tempismo. E se mi fossi fatto i cazzi miei ora avresti le corna.»

«Le ho comunque, le corna!»

«Stef, guarda che se le lucidi non ti stanno neanche mal...»

«BRIAN!»

«Sì, scusa, questa era di troppo.»

Stefan si prese qualche attimo per analizzare il ragionamento dell'altro (quello del tempismo, non certo quello delle corna), che effettivamente non faceva una piega; inspirò forte con il naso.

«Probabilmente hai ragione», capitolò infine.

Brian riservò al tavolo lo stesso sorriso modesto di poco prima e attese che Stef pronunciasse la sua prevedibile considerazione pratica. Arrivò più in fretta di quanto avesse stimato; Stef, del resto, odiava mostrare emozioni negative tanto quanto Brian.

«Abbiamo il frigo vuoto ed è ora di cena», fu il suo responso.

«Mh. Giapponese o Thailandese? Scegli tu, Osdal»

«...»

«...»

«... Giapponese, tutta la vita.»







6




Avrebbe ricambiato tutto l'aiuto che gli era stato dato. Brian se lo promise, mentre sistemava addosso a Stef due coperte perché non soffrisse troppo dell'aria condizionata che lui stesso gli aveva imposto di alzare al massimo. L'aveva fatto ubriacare alla grandissima; andato. Si accese una sigaretta e guardò fuori dalla finestra della sala, una mano mollemente appoggiata alla schiena dell'amico da sopra la lana. Il giorno successivo avrebbe gestito tutto; sia Stef che la sbronza di Stef che la delusione amorosa di Stef. Estrasse apposta il telefono dalla tasca per puntarsi la sveglia al mattino presto. Poi si voltò verso destra, e scorse sulla scrivania una penna e dei fogli bianchi che sembrava fossero stati messi lì soltanto per lui.







7




Giuro che questa è l'ultima, Matt. Lo giuro. Non posso più parlare con te attraverso delle lettere che tanto non leggerai mai — non è più così che va, adesso ho trovato il mio equilibrio.

Quindi, anche se fa male, ora basta, Matt.

Chiudiamola qui.




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Capitolo 12
*** Per te ***


PER TE

 

 

 

Ore 3.24

Chiamata persa (1): Matt

 

 

 

 

 

 

1

 

 

Fa irruzione nell'appartamento di Anna dopo aver bussato con forza, e senza sosta, contro la porta con il numero 514. Se in casa non troverà nessuno morirà, se lo sente. Brian si accascia con la fronte contro la superficie lignea e chiude gli occhi.

«Ti prego, ti prego, ti prego...», mormora a fior di labbra.

Poi Anna gli apre, Anna con la vestaglia da casa perché è (sarebbe) il suo giorno libero, Anna con la ricrescita castana sul biondo, Anna che non gli è mai sembrata un angelo tanto come in questo preciso istante, in cui incrocia le braccia al petto e sputa il suo nome come se fosse una bestemmia. L'ha svegliata, ma ora c'è qualcosa di più importante da fare, che dormire, anche se si rende conto del fatto che, alle otto e ventiquattro del mattino, del suo problema interessa solo a lui.

«Cosa c'è, Brian?»

Non risponde, ma le piazza davanti al naso lo schermo dell'iPhone. In alto a destra il telefono mostra che ha il 70% di batteria, ma solo perché Brian ha usato il 30% per fissare lo schermo senza sapere cosa fare da quando ha visto quella dannatissima chiamata persa invadergli la vita camminando con i tacchi a spillo sulla sua testa — questa è l'impressione che ha avuto di quella chiamata persa. Anna si rabbuia, perché sa che con quell'ingombrante notifica telefonica, quel “Matt” che ora le sembra gigantesco, al centro dello schermo, ora c'è la possibilità che il lavoro che ha fatto con Brian per quei sette mesi li mandi entrambi al diavolo. 

«Dimmi che cosa devo fare», la prega lui con urgenza, tra i denti, e non le toglie il telefono dalla faccia finché non è lei ad abbassargli il braccio con una mano.

Deve riflettere velocemente, Anna stessa ha paura che Brian le si sgretoli davanti, perché lei ha sempre guardato con sospetto alle relazioni affettive tra analista e paziente, ma alla fin fine è conscia del fatto che ormai, a lui, ci tiene. 

«Non posso dirti che cosa devi fare, Brian, non sono io a decidere», riesce a dire, in un rigurgito di professionalità.

«Anna, ti prego. Devi. Dimmi che cosa devo fare.»

Una mano smaltata sulle sopracciglia e due occhi struccati gonfi di sonno. Non può dirglielo, non può decidere lei, non ora che Brian le darebbe ascolto anche se gli dicesse di buttarsi in un pozzo.

«A che ora ti ha chiam...»

«Alle tre del mattino, alle tre e ventiquattro minuti. Cosa faccio? Anna», prega tra i denti. «Cosa faccio?»

«...»

«... Io lo voglio richiamare. Io lo richiamo e vaffanculo tutto... cosa faccio, allora, lo richiamo?»

«Devi fare quello che pensi sia più giusto per te, no...»

«IO NON SO COSA È PIÙ GIUSTO PER ME, ANNA, CAZZO!»

Poi Brian fa dietrofront e corre fino al ballatoio con le scale, mentre lei lo guarda andare via esattamente come è arrivato, all'improvviso e insensatamente, con il fiato corto e gli occhi sbarrati. Resta ancora un po' con una mano sul petto e una sullo stipite della porta, poi rientra in casa con la testa piena di pensieri. Non riesce a riprendere sonno. 

Brian ha sceso tutte le rampe di scale che lo separano da terra, e forse ora si sente più sicuro, perché se sei al pianterreno non può venirti la tentazione di buttarti di sotto, o meglio, può, ma non hai modo di farlo. Corre in strada, e potrebbe prendere un taxi, se solo non fosse sicuro che ora come ora è più veloce lui di qualunque mezzo di trasporto. Quando arriva al portone di casa è talmente stravolto che gli viene la tentazione di accasciarsi al suolo per qualche giorno, in attesa che la respirazione torni normale. Si accontenta di ficcare la chiave nella serratura e di salire a due a due i gradini che lo porteranno in casa, esattamente dove si trovava venti minuti fa a fissare lo schermo. È andato e tornato da Anna in un tempo che farebbe invidia al migliore dei velocisti, ma lei non l'ha aiutato — o forse era solo lui che aveva troppa fretta di farla parlare, e semplicemente lei non è abituata a lavorare con il timer settato sui trenta secondi. Si lascia cadere sul divano, respira a pieni polmoni l'odore di stoffa. Si calma, anche se a farlo impiega del tempo, forse dieci minuti. Poi il telefono squilla ancora, e quasi ha paura di guardare lo schermo. Lo guarda lo stesso, ed ecco lì Matt — ciao Matt —, seduto di profilo sullo stesso punto del divano in cui Brian si trova adesso, una foto che gli ha scattato dopo tre mesi che stavano insieme, se “stare insieme” è ancora o è mai stata l'espressione corretta. Resta con il pollice a mezz'aria, non ha tempo per decidere in fretta, non sa che cosa dovrebbe fare. Ecco come si dev'essere sentita Anna poco fa, si dice, e un altro preziosissimo squillo è già passato per non tornare — a mai più rivederci. Posa il telefono sul comodino mentre squilla ancora. Non risponderà.

Il trillo intermittente finisce, tutto piomba di nuovo nel silenzio. Brian solleva il telefono.

 

Ore 9.12

Chiamata persa (2): Matt

 

Bruttino. Non tra le sensazioni migliori. Prende un grosso respiro. Chissà che cosa sta facendo ora Matt, chissà in che posizione è mentre lo chiama, chissà se è in casa o fuori, chissà se ha la maglia nera con la scritta bianca o la maglia bianca con la scritta blu. Sobbalza, quando il suono del tintinnio di un vetro esce dalla piccola cassa dell'iPhone. Non sa se ha voglia di guardare... ma che cazzo dice, certo che ha voglia di guardare.

 

Ore 9.13

Nuovo messaggio

Brian.

 

Questa era una tua mania, si dice Brian. Chiamare, non ricevere risposta e allora inviare un messaggio il cui testo è soltanto il nome della persona chiamata. Come se dopo aver provato con il telefono tentassi di chiamare a voce — “Brian” —, cretino che sei. Si ritrova a ridacchiare istericamente, mentre piange anche un pochino, per non farsi mancare nulla, quanto gli manca, quanto gli manca, quanto gli manca, come ho potuto pensare che fosse possibile rinunciarci? E non può buttare tutto all'aria, ha lavorato sette dannatissimi mesi per uscire da questa situazione. Lo vuole richiamare, più di ogni altra cosa al mondo, e...

Spegne il telefono, anche se è terrorizzato come lo è stato solo quando tanti anni fa gli avevano detto che quella volta, la vita, la rischiava per davvero. Prende un respiro. Sa cosa deve fare adesso, e anche se le lacrime cercano di uscire, decide che potrà benissimo gestirle.

 

 

 

 

 

 

2

 

 

 

L'altro giorno ho messo il punto alla fine di una frase scritta in penna blu. La frase era “chiudiamola qui”. Ho fissato quella macchiolina di inchiostro con le lacrime in tasca per una quantità di tempo che ora non sarei nemmeno in grado di definire. È diventata un sacco di cose, mentre la fissavo, ad esempio un triangolo. Però no, era solamente un punto. L'ultimo, per amor di precisione. Mi sono alzato, ho piegato il foglio in quattro e sono stato attento a far combaciare i bordi ogni volta che piegavo una metà sull'altra, così, perché mi andava di perdere ancora un po' di tempo. Poi ho fatto sparire tutto dentro alla solita busta, anche se non sono sicuro che te la ricordi, quella busta bianca rossa, impalata tra la plastica del portacarte e la pila di documenti che firmo ma non leggo. È sempre stata vuota, ritta sul posto, disponibile per ogni evenienza. Ora è piena di parole che magari potrei anche cercare di dirti a voce, se solo non mi si impigliassero sempre in quel punto della gola. Si sono sempre impigliate, ogni singola volta, ma ora, grazie a questo metodo, ho trovato il modo di aggirare l'ostacolo. Questa è una cosa che ho giurato a me stesso di fare circa sei mesi fa. Ho avuto un attimo di défaillance, ma ora l'ho risolto, e sono seduto davanti al caminetto con la busta dentro alla mano e tutte quelle parole dentro alla busta; mi basterà tendere un braccio per buttare via tutto, bruciarlo, e poi ricominciare da capo. Ora sto bene, sono rinato, sono pronto a tutto, ma questa cosa del bruciare le lettere mi mette in difficoltà quasi ridicolmente, e non ho mai avuto così tanta paura di ritornare al punto di partenza, con le lacrime in faccia e una mano sugli occhi. È un crescendo. Un crescendo. Un crescendo di cose brutte e belle, soprattutto brutte, soprattutto man mano che si va avanti. Il fuoco sfrigola.

 

 

 

 

 


3

 

 

 

Matt sbatte il telefono sul tavolo, con lo schermo verso il basso. Brian ha spento il telefono, non gli risponde. Prende due respiri furiosi e nasconde il viso in una mano. Non può biasimarlo, e l'aveva saputo fin dall'inizio. Tra i due, quello con una relazione ufficiale e un figlio fuori dai programmi è lui. Richiama, trova il telefono ancora spento. In un'ora e dieci di tempo l'ha chiamato quarantadue volte, roba da essere denunciati. Ogni volta gli risponde soltanto la signorina meccanica dell'Orange per avvisarlo che l'utente chiamato deve avere il telefono spento. Molto spiacente.

 

 

 

 

 

 

4

 

 

 

L'ha fatto. Brian l'ha fatto. Ora, l'unico problema è non pentirsene. Cammina lungo il Tamigi con le mani nelle tasche, respira. È stata la decisione migliore che abbia mai preso in tutta la vita. Dopo quella lunga passeggiata, il telefono ben chiuso nella tasca interna della giacca, ha le idee più chiare. Potrebbe perfino decidere di buttar giù qualche canzone nuova.

 

 

 

 

 

 

5

 

 

 

Matt ci ha rinunciato. È rimasto per qualche ora con la testa tra le mani e i gomiti sul tavolo a pensare a cosa fosse meglio fare. Non può accettarlo. Vorrebbe correre, graffiarsi la faccia fino a farla sanguinare, morire mille e mille volte, con dolore, e gridare finché non verrà giù il fottutissimo mondo intero, con tutte le chiese e le macchine e gli alberi e le persone e il mare immane con tutti i suoi pesci di merda. È inutile, è inutile, è inutile. 

Conclude che non sarà in grado di far venire giù proprio nulla. Deve uscire, ha bisogno d'aria — di Brian, chi cazzo se ne fotte dell'aria. Scende le scale, stringe i denti, tira un pugno alla cassetta della posta e la spacca. E poi.

C'è una busta, bianca e rossa, che cade a terra con un piccolo rumore. Tip.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

6

 

 

 

«Matt! Oddio, Matt! Sì. Sì, sì, sì, ti sento. Matt... no... no, no, sta' zitto... Matt, non me ne frega un cazzo delle scuse, corri qui, Matt, corri da me, o impazzisco. Sì. Sì, sì, sì... ti aspetto, Matt. Corri subito da me. Corri subito da me e non mettere giù. Non mettere mai giù finché non arrivi... ti aspetto qui, Matt. Ti aspetto qui.»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

... È finita. Dio santo, è finita questa storia, e quanto ho amato scriverla, e quanto mi ha aiutata farlo nei momenti bui ç_ç.

Spero davvero che vi abbia fatto emozionare almeno un po', e vi ringrazio per averla seguita fino a questo punto.

 

Scriverò presto altre cose, su questa coppia, ma non so ancora di quanti capitoli stiamo parlando, e quando pubblicherò spero di ritrovarvi anche lì. 

 

Nello scorso capitolo ho ricevuto 0 recensioni, che tristezza, non mi era mai successo! Ci sono rimasta malissimo ç_ç 

Questo però è il finale, e logicamente, se avete il tempo di farlo, mi farebbe piacere che mi diceste che cosa ne pensate — almeno per capire se avreste preferito una conclusione diversa.

 

Grazie di essere state con me! 

 

Infiniti cuori,

 

 

pwo_

 

 

 

 

 

 

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