Tasti neri e tasti bianchi (della nostra vita)

di SmartieMiz
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Blu come il mare, gelido come il ghiaccio ***
Capitolo 2: *** Termine dell'apnea, addio al passato ***
Capitolo 3: *** Libero ***
Capitolo 4: *** Confidenze custodite dalle tenebre ***



Capitolo 1
*** Blu come il mare, gelido come il ghiaccio ***


Titolo: Tasti neri e tasti bianchi (della nostra vita)
Rating: giallo
Genere: angst/drammatico/romantico
Pairing: MakoHaru

 

Note: Salve a tutti! In principio questa cosina qui doveva essere una OS, ma sarebbe stata una OS troppo lunga. Ho quindi cambiato idea e deciso di approfondire determinati fatti, quindi dovrei dividere questo racconto in 3 capitoli circa. Non dovrei superare questa lunghezza; in tal caso, non saranno più di 5/6 capitoli.
Si ispira lievemente al film "La leggenda del pianista sull'oceano". Questo racconto può essere letto anche senza aver visto il film, dato che sono stati ripresi soltanto alcuni fattori e la storia è ugualmente comprensibile.
Il titolo "Tasti neri e tasti bianchi" si ispira al prompt con l'omonimo nome trovato su LiveJournal.
Spero vi possa piacere! :)


 

Questi personaggi non mi appartengono; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

 

 

~  Tasti neri e tasti bianchi (della nostra vita)



 






Atto I
Blu come il mare, gelido come il ghiaccio

 

1932




Makoto Tachibana non viaggiava di certo in prima classe e, anche se non poteva accedere alle zone più lussuose della nave, riusciva ugualmente a sentire le note travolgenti dell’ignoto pianista che suonava lì tutte le sere.
Makoto non capiva un granché di musica, ma quella melodia lo avvolgeva e quasi lo ipnotizzava. Era sempre presente nella sua testa ed era come una ninna nanna la notte e un canto al mattino.
Non aveva mai visto il pianista: si limitava ad ascoltare la sua musica in un cantuccio nascosto e semibuio per evitare di essere cacciato in malo modo dal personale della nave.
Soltanto l’anziana signora Doyle, donna affabile di origini irlandesi che lavorava su quella nave come cuoca, sapeva del piccolo angolo segreto del giovane e, ogni volta che gli passava accanto, gli sorrideva con fare materno. Ogni tanto intavolavano anche una conversazione e la signora offriva persino un assaggio dei suoi manicaretti al giovane ragazzo che, anziché gustare, portava ai suoi fratellini nella loro cabina.
«Sono tre giorni che stai su questa nave, giovane. Dove sei diretto?», le chiese quella sera la signora.
«America, signora. Mi trasferirò lì con i miei fratelli più piccoli. Abbiamo fatto davvero di tutto per poter comprare i biglietti».
La signora annuì. «Ormai tutti cercano fortuna in America», disse la signora con un sorriso: «Sei coraggioso, ragazzo. Non è facile intraprendere un viaggio del genere e lasciarsi tutto alle spalle».
«Lo faccio per la mia famiglia», rispose il ragazzo.
«Capisco. Non temere, Makoto. Ognuno troverà il suo posto nel mondo», fece la signora ammiccando leggermente, per poi tornare in cucina.
Makoto sospirò, pensieroso, con quella splendida musica di sottofondo.


~ 
 

Alla fine della sua esibizione, venne sommerso di applausi.
«È un ragazzo talentuoso».
«Già, lo è davvero!».
«Potrebbe ambire al successo, e invece si ostina a restare su questa nave! Ma perché? Per quale motivo?».
«Non ne ho idea. Sciocchi capricci adolescenziali, non so».
Odiava la gente che parlava senza sapere.
Nessuno avrebbe mai potuto comprenderlo. Nessuno.
Lui non suonava semplicemente ma si esprimeva, il che era totalmente diverso.
Le persone amavano la sua musica e ne godevano ogni singola nota, ma non capivano che i suoi pochi ritmi allegri e adattabili al ballo erano puramente ironici e sarcastici e dettati da un odio covato nei confronti del mondo e maturato col passare degli anni.
Gli facevano dei complimenti, ma lui alzava il capo senza dire una parola, sorprendendo tutti.
Persino un musicista lo notò quella sera. «Ragazzino, hai la musica nelle vene. Potresti diventare un grande, ti terrei sotto la mia ala protettrice. Sarebbe un onore collaborare con te!».
Ma il ragazzo rifiutava ogni proposta con un secco cenno del capo.
Quella sera gli era stato chiesto il bis di un pezzo particolarmente festoso ma il pianista, stufato, decise di suonare per conto proprio un componimento freddo e cupo.
Da una parte vi erano i complimenti, dall’altra le lamentele. Quella sera ricevette più proteste del solito.
«Ragazzino, se non accontenti il pubblico ci toccherà cacciarti e cercare un altro pianista», gli ribadì un membro del personale della nave.
Di consueto, era quella frase a scatenare sentimenti diversi e contrastanti nel ragazzo che in quelle occasioni lo spingevano a suonare soltanto per gli altri e non per se stesso.
Non avrebbe potuto sopportare l’idea di essere cacciato perché avrebbe significato scendere da quella nave e affrontare quel mondo di cui aveva tanto timore.

 

~

 
La musica si era interrotta. Doveva essere l’una.
Intorno a quell’ora, il salone incominciava a sfollarsi. In mezz’ora, la grande sala era vuota.
Makoto non si mischiava in mezzo alla folla: a giudicare dagli abiti avrebbero potuto notare che di certo non era quello il posto in cui poteva stare uno del suo rango. Aveva imparato ad attendere che il salone si svuotasse completamente e così fece anche la terza sera.
Tuttavia, il salone non era davvero vuoto quella volta. Non appena uscì dal suo nascondiglio segreto, si scontrò con qualcuno.
«Scusami, non volevo…», mormorò Makoto in preda all’imbarazzo.
Di fronte a lui vi era un ragazzo dai capelli scuri e gli occhi blu come l’oceano, intensi e profondi.
Lo sconosciuto si limitò a scuotere il capo. Era vestito elegantemente: indossava un completo nero e una camicia bianca. Aveva una fisionomia delicata e sottile.
Makoto non seppe nemmeno spiegarsi il perché, ma si ritrovò a pensare che quel ragazzo avesse l’aria di un musicista e non di un riccone come tutti gli altri. «Tu sei il pianista della nave, vero?», osò chiedere per accertare la sua ipotesi.
L’altro annuì, quasi impercettibilmente. Makoto si ritrovò a sorridergli e porgergli amichevolmente la mano. «Io sono Makoto Tachibana, piacere di conoscerti! Adoro la tua musica».
Il pianista sembrava piuttosto esitante nei suoi confronti, difatti si dileguò proprio poco dopo, senza nemmeno dire una parola e senza nemmeno accettare quella stretta gentile.
Makoto sembrava scosso. Tornò nella cabina di terza classe che condivideva con i suoi fratelli che già dormivano beatamente, cercando di dare poco peso all’accaduto.

 

~

 
La mattina, Makoto si svegliò con non poca fatica alle sei e mezzo. Camminava per la nave con Ren e Ran, i suoi fratellini, e li incitava a fare silenzio.
«Questa nave è così bella, non smetterò mai di dirlo!», esclamò il piccolo Ren con due occhioni pieni di meraviglia.
«Già! Si sta meglio qua che nelle cabine», disse invece la piccola Ran.
«Shh! Stiamo in posti dove non dovremmo stare, fate silenzio», diceva loro Makoto con premurosità fraterna.
Makoto fece il suo ingresso nelle cucine. A quell’ora vi era soltanto la signora Doyle che incominciava a preparare la ricca colazione per le famiglie agiate della prima classe.
«Signora Doyle!», i due bambini le si avvicinarono con un gran sorriso.
«Buongiorno, cari!», rispose lei, ricambiando il sorriso.
«Cosa c’è oggi per colazione?», chiese Ran.
«Spero non di nuovo il pane nero!», esclamò Ren.
«Ma insomma! La signora Doyle è già così gentile con noi, dovreste soltanto ringraziarla», parlò Makoto, serio.
La signora scosse il capo, ridacchiando. «Sono bambini», fece, poi disse loro: «Accomodatevi pure».
I bambini presero posto ad un bancone. Soltanto in quel momento, Makoto notò che il posto accanto al suo era occupato dal pianista della nave. Nei tre giorni precedenti non l’aveva visto lì nelle cucine. I ricordi di quella notte gli ritornarono in testa.
«Ciao! Io sono Ren, lei è la mia sorellina Ran e lui è il mio fratellone Makoto! Tu chi sei?», chiese il bambino al ragazzo.
Il pianista lo guardò, impassibile. Makoto si portò una mano in fronte. «Ren, non disturbare gli altri passeggeri!».
La signora Doyle si rivolse ai suoi ospiti. «Tè al latte e brioche per oggi. Va bene?».
«Grazie, signora Doyle!», dissero i due bambini in coro, visibilmente gioiosi.
Makoto si rivolse all’anziana cuoca. «Signora Doyle, mi dispiace molto, sono mortificato, mi dia pure del pane nero e lasci questo cibo alle fam…».
«Nah! C’è cibo in abbondanza per tutti», la interruppe la signora cercando di rassicurarlo con un sorriso affabile, poi si rivolse al pianista e disse: «Ecco, Haruka».
Il ragazzo fece un cenno di ringraziamento.
«Haruka!», esclamò Ran, esaltata: «È un ragazzo con un nome femminile proprio come te, fratellone!».
Makoto serrò i denti, visibilmente imbarazzato. Il pianista si voltò e lo fissò per qualche secondo.
Makoto percepì tutto il gelo dello sguardo di Haruka su di sé e sentì improvvisamente come se fosse stato imprigionato da una voragine.
Haruka distolse lo sguardo, consumando la sua colazione. Makoto pensò a lungo a quegli occhi blu come il mare e gelidi come il ghiaccio.


 

~

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Capitolo 2
*** Termine dell'apnea, addio al passato ***


Titolo: Tasti neri e tasti bianchi (della nostra vita)
Rating: giallo
Genere: angst/drammatico/romantico
Pairing: MakoHaru

 

Note: Salve a tutti! Ecco il secondo capitolo! Lo posto oggi perché fino al 29 agosto non potrò postare nient'altro perché non ne avrò l'occasione çç Tuttavia, continuerò a scrivere sperando di poter postare il terzo cap al più presto!
Avviso: la storia è stata "stravolta", se così posso dire, nel senso che temo davvero di superare i 6 capitoli dato che mi sono venute un bel po' di idee... e quindi potrebbe diventare una sorta di minilong xD Mi scuso per questo!
Ringrazio tutti coloro che leggono :)
Spero che il capitolo vi piaccia e se voleste lasciare un parere ne sarei davvero curiosa e felice <3
Ringrazio Rossyj per il suo continuo appoggio e per tutto ♥

 


 

Questi personaggi non mi appartengono; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

 

 

~  Tasti neri e tasti bianchi (della nostra vita)



 






Atto II
Termine dell'apnea, addio al passato
 



Le giornate sulla nave trascorrevano in tutta tranquillità per Ran e Ren, e Makoto era felice di questo: i suoi fratellini avevano conosciuto altri bambini della loro età e giocavano con loro, spensierati. Un giorno erano ladri e poliziotti, un giorno maghi, un giorno cantanti. Quel giorno erano pirati.
Makoto girovagava per la nave, crucciato. Da quando ci era salito non riusciva a star fermo un solo minuto. Doveva farsi forza per i suoi fratelli e lo stava facendo egregiamente, ma quando era solo le paure tornavano a bussare alla sua porta.
Stava esplorando una zona della terza classe assolutamente deserta. Vi era una sorta di corridoio e alla fine di esso vi era una stanzetta dalla quale proveniva una melodia quasi malinconica.
Il pianista.
Makoto non sapeva se vi fossero altri pianisti su quella nave. Attratto da quelle note, attraversò l’intero corridoio ed entrò nella stanza senza fare il minimo rumore. Il pianista era lì e continuava a suonare con assoluta eleganza e maestria, senza nemmeno voltarsi indietro.
Silenziosamente, Makoto si fermò sulla soglia. Non riuscì a capire se il pianista avesse notato la sua presenza, tuttavia questi lo ignorò completamente, continuando a suonare in tutta tranquillità.
Eseguì quel susseguirsi di note tristi per molto tempo, ma a Makoto parve durasse molto meno.
Completamente rapito dalla musica, aveva totalmente dimenticato le sue preoccupazioni.
Impiegò qualche minuto per accorgersi che il giovane pianista lo stava scrutando con diffidenza.
Makoto si sentì in dovere di dirgli qualcosa. Ma cosa?
«Spero di non averti creato fastidio con la mia presenza», disse, quasi in preda all’imbarazzo.
Il pianista continuò a fissarlo, impassibile.
«D’accordo, ti ho infastidito, lo so, e ti chiedo scusa», parlò ancora Makoto, poi con un sorriso gentile e scherzoso aggiunse: «ma tu dovresti decisamente smetterla di suonare in questo modo così divino».
A quelle parole, Haruka lo fissò, intensamente, senza proferire parola. Makoto non sapeva che cosa pensare di quel silenzio da parte dell’altro. Forse Haruka non poteva parlare?
Il pianista interruppe il contatto visivo con lo sconosciuto e la sua concentrazione si spostò ancora una volta verso i tasti del pianoforte. Incominciò a provare delle note qualsiasi e a combinarle a caso, dando vita ad una melodia molto lenta e dal sapore quasi dolce, con un retrogusto amaro.
«Da quanto tempo suoni?», provò ancora a chiedergli Makoto.
Con leggerezza e grazia, Haruka continuava a suonare, incurante della domanda dell’altro.
«Da un bel po’, immagino. Sei molto bravo», continuò l’altro.
 

~

 
Il passeggero seccante ed impiccione di turno, pensò Haruka, infastidito. Ben presto la dolce e amara melodia improvvisata assunse un tono più forte e quasi violento che doveva riprodurre l’irritazione che il ragazzo provava in quel momento.
«Forse è meglio che vada via», disse Makoto con un altro piccolo sorriso. Doveva aver compreso qualcosa, almeno vagamente: «Buona giornata, e scusami ancora per essermi infiltrato».
Haruka distolse lo sguardo dal pianoforte – senza interrompere il suo componimento – e ricambiò il saluto con un piccolo cenno del capo.
Quando fu totalmente solo, respirò profondamente. Perché quel tipo doveva sempre ronzargli intorno?
Sempre, che esagerazione.  La sera prima si erano scontrati accidentalmente e quella mattina si erano incontrati casualmente.
Perlopiù, quell’individuo che avrebbe potuto rischiare una paralisi facciale a forza di sorridere aveva scoperto il suo cantuccio in terza classe, dove poteva suonare in assoluta solitudine tutto ciò che voleva con un pianoforte antico.
Magari non tornerà più a farmi domande, si sarà scocciato. D’altronde è quello che fanno tutti, pensò ancora Haruka, per poi chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare dalla musica.
 

~

 
Non appena Makoto ebbe lasciato la stanza segreta del pianista, si ritrovò ad andare a zonzo per la nave per ammazzare il tempo. Dovevano essere le nove del mattino: i passeggeri della prima classe parlottavano tra loro del più e del meno. Avevano volti coloriti, sorrisi radiosi e sguardi pieni di vita.
Forse quello era un viaggio di svago per i passeggeri più abbienti, o al massimo erano in visita per qualche lontano parente o ricco ereditiere americano.
Makoto, invece, aveva lasciato la sua Inghilterra a malincuore, dettato da esigenze più forti. Vi abitava da molto tempo, dato che aveva vissuto soltanto cinque anni della sua vita in Giappone, suo paese natale.
L’America era vista da tutti come una terra di prosperità e ricchezze. Makoto non cercava di certo il successo o le agiatezze, ma semplicemente un posto dove poter vivere in modo dignitoso e dove poter dare un futuro ai propri fratelli.
Ognuno troverà il suo posto nel mondo.
Quella frase gli era stata detta dalla signora Doyle. Aveva ragione? Makoto avrebbe mai trovato il suo posto in quel mondo così spaventoso?
«La piratessa Tachibana è in arresto!», Ren acchiappò al volo la sorellina che si dimenava tra le sue braccia.
«Non l’avrai mai franca, capitan Tachibana!», rispose lei con sguardo fiero, lasciandosi sfuggire una risatina.
«Ridatemi i miei soldati!», continuò Ren rivolgendosi ad altri bambini.
«Un vostro soldato in cambio di un nostro pirata!», rispose un bambino.
«Ma guarda! C’è anche il fratello maggiore della piratessa e del capitano!», disse ad un tratto Ran, notando la presenza di Makoto, poi lo prese per un braccio: «Lui ci aiuterà nella nostra impresa! Riuscirà a far riappacificare i due fratelli Tachibana?».
«Bambini, potete giocare ma non dovete urlar…».
«Lo scopriremo solo vivendo!», urlò sonoramente un bambino.
«Ben detto!», urlò in risposta Ren.
Le urla dei bambini catturarono l’attenzione dei passeggeri. «Ma insomma, la vorreste smettere di urlare?», strepitò una donna.
«Oh questi marmocchi! La gioventù!», mormorò invece un’anziana signora con un piccolo sorriso.
«E tu, ragazzo, non sei capace di mantenere un po’ di silenzio? Fatti valere!», un uomo con due lunghi mustacchi si rivolse a Makoto con fare severo.
«Mi scusi signore, sono mortificato…», rispose il ragazzo, facendosi rosso per l’imbarazzo.
«Riporta questi marmocchi dalle luride cabine dalle quali provenite, e in fretta», gli sibilò l’uomo, brusco.
«Non le permetto di parlare dei bambini in questo modo», rispose Makoto, serio.
«Non sto mica parlando solo dei bambini. Anche lei proviene da quelle luride cabine o mi sbaglio?».
Makoto si fece ancor più rosso, questa volta di rabbia. «Questi poveri straccioni…», lo provocò l’uomo con un sorriso sprezzante.
Il suo obiettivo sembrava esattamente quello di far esplodere Makoto ma lui, al contrario, con assoluta pacatezza disse: «Avrà anche del denaro che la rende ricco, ma è pur sempre povero di intelligenza».
A giudicare dallo sguardo, l’uomo si sentì altamente oltraggiato. «Come osi, miserabile…».
«Fratellone, scusaci… non vogliamo che litighi con l’antipatico riccone di turno!», disse la piccola Ran a Makoto.
All’affermazione della bambina, l’uomo rimase completamente a bocca asciutta. Makoto andò via portandosi con sé i fratellini e i loro amici, non senza prima essersi beccato un’altra occhiata bieca dall’uomo sconosciuto.
«Si è proprio arrabbiato, vero?», mormorò il piccolo Ren una volta imboccato il corridoio che conduceva agli alloggi di terza classe.
«Assolutamente sì», rispose Makoto.
«E anche tu lo sei, vero fratellone?», fece Ran, chinando il capo: «Scusa…».
«Già. Ci scusi, signore», disse uno dei bambini componenti della piccola combriccola.
Makoto scosse il capo con un sorriso. «Vi chiedo soltanto di giocare in silenzio. Non mi va di affrontare di nuovo quelle persone», disse, tranquillo.
I bambini annuirono, ma le parole di Makoto erano come volate al vento. Nell’aria si sprigionò un motivo curioso e accattivante, senz’altro eseguito al pianoforte.
«Riuscite a sentirla?», mormorò Ran.
«La musica!», rispose un bambino.
«Qui sulla nave c’è un pianoforte? Forte!», esultò Ren.
I bambini incominciarono a correre per il corridoio alla ricerca del magico strumento musicale.
«Bambini! No!», fece Makoto, cercando di inseguirli e di fermarli con scarsi risultati: «Non entrate in quella stanza! Vi ho detto di non farlo! Ma insomma, ascoltatemi!».
Ma i bambini erano già entrati nel cantuccio del pianista che, in pochissimo tempo, si ritrovò sommerso da quei piccoli esserini. Il ragazzo smise di suonare.
«Ma è Haruka!», esclamò Ran: «È il ragazzo che ha un nome femminile proprio come il mio fratellone!».
Haruka guardò i bambini, piuttosto stordito.
Un ragazzo alto e robusto comparve ancora una volta sulla soglia della porta, questa volta completamente affannato. «Scusami, sono assolutamente mortificato! Ho provato a fermarli ma hanno continuato a correre…», sparò a raffica Makoto, ansimante.
«Ci suoni qualcosa, signor Haruka? Per piaceeeere!», lo supplicò Ran.
«E adesso basta, davvero! Non infastidite anche il pianis…».
«Infatti! Suonaci qualcosa!», esclamarono i bambini, interrompendo Makoto e tutte le sue buone intenzioni.
Haruka annuì lievemente, per poi voltarsi e fissare Makoto: lo sguardo del pianista non era gelido e diffidente come le altre volte, piuttosto sembrava calmo se non addirittura sereno.
Haruka sfiorò i tasti del pianoforte per poi riprendere a suonare. I bambini, stregati, ascoltavano silenziosamente la musica del pianista come se fossero stati colpiti da una sorta d’incantesimo.
Makoto si ritrovò a sorridere. Era da molto tempo che non sorrideva in quel modo così sincero, con il cuore colmo di gioia e la mente libera dai cattivi pensieri e dai brutti ricordi.
Quando Haruka smise di suonare, i bambini applaudirono animatamente. 
«Ancora, ancora!», diceva Ren, esaltato.
«Adesso però è il momento di lasciar stare il pianista», esordì Makoto, sempre col suo modo di fare così gentile e affabile.
A quelle parole, i bambini sembrarono intristirsi. «Suonerai ancora per noi, signor Haruka? Ti prego!», gli disse la piccola Ran congiungendo le mani e guardandolo con due occhi pieni di speranza.
Soltanto dopo una manciata di secondi, il pianista annuì leggermente, facendo esplodere la bambina di gioia.
«Evviva! Allora noi andiamo a giocare. A presto, signor Haruka!», disse la bambina, per poi lasciare la stanza assieme a Ren e ai suoi amici.
Makoto scosse il capo, a metà tra il divertito e l’imbarazzato. «Anch’io da piccolo ero così. Forse un po’ meno sfacciato e molto più timido».
Non si direbbe, pensò Haruka, tenendo quel pensiero per sé, invano: il suo sguardo sembrò dire ogni cosa.
Makoto lo notò e se ne uscì con una piccola risata. «Lo so che non lo pensi ma credimi, è così».
Haruka si limitò a tacere, forse in attesa che Makoto dicesse qualcos’altro. «Comunque ho apprezzato tantissimo che abbia suonato per i bambini, davvero. Ti ringrazio in loro nome. Credo sia la prima volta che i miei fratellini e gli altri bambini abbiano visto un pianoforte dal vivo…».
Haruka si voltò verso il ragazzo. Non lo guardò con pietà o compassione, bensì con assoluto rispetto, o almeno era quella la sensazione che era giunta a Makoto.
Questi scosse il capo, quasi confuso. Che cosa ne poteva sapere lui dei pensieri dell’altro? Gli sguardi di Haruka non sembravano più distaccati e inespressivi come poco prima, ma al contrario sembravano piuttosto eloquenti. Possibile che a distanza di pochissimo tempo Makoto aveva già imparato a decifrare le espressioni del misterioso pianista?
Impossibile, si disse Makoto, sarà meglio che vada a farmi un giro.
Nell’esatto momento in cui quell’idea gli era balenata in testa, Haruka riprese a suonare quella melodia dolce e amara che aveva improvvisato quella mattina.
Ancora una volta Makoto non riuscì ad ignorarlo. Come avrebbe potuto ignorare tutta quell’eleganza e quella maestosità?
«Io… beh, devo andare. Ti tolgo il disturbo», si congedò il ragazzo con un piccolo sorriso.
 

~

 
Quel pomeriggio aveva tutte le carte in tavola per essere noioso. D’altronde, tutti i pomeriggi erano diventati noiosi per Haruka da almeno due anni…
 
«Lo sai cosa potremmo fare, Nanase?».
«No».
«Infiltrarci nelle cucine! Ho una gran fame!».
«Non ho nessunissima intenzione di farmi beccare e farmi cacciare da questa nave».
«Che noia che sei, però! E se suonassi qualcosa?».
«Suono soltanto per me stesso e quando ne ho voglia».
«Non è vero, dato che suoni tutte le sere per i ricconi di prima classe».
«Non c’entra. Quello lo faccio perché devo».
«E possibile che sei obbligato a suonare per loro e proprio non vuoi suonare qualcosa per me?».
 
Haruka era steso sul proprio letto. Ricordare faceva male perché fin quando l’uomo ricorda, non dimentica. E lui doveva assolutamente dimenticare il passato, e non rimuginarci sopra.
Chiuse gli occhi, sospirando profondamente. Quella mattina aveva ricominciato a respirare per qualche minuto: quella massa di bambini era stata come una piccola finestrella aperta sul mondo esterno.
Anche quel Makoto Tachibana era stato come una piccola boccata d’aria. Non era di certo uno di quei ragazzi frivoli che spendevano i loro soldi in gioco d’azzardo, donne, vino e cappelli nuovi, e questo era già un punto a suo favore.
Era umile e gentile, a volte anche impacciato e poco riservato, e Haruka si era quasi sentito in colpa per averlo bellamente ignorato e per avergli fatto intendere che gli risultava fastidiosa la sua presenza. Non che non lo fosse: Haruka suonava per sé e allo stesso tempo si esprimeva e non gli piaceva l’idea di condividere i suoi pensieri con altre persone, ma Makoto aveva qualcosa di differente dagli altri ed era riuscito a capirlo con un solo sguardo, anche se non sapeva esattamente cosa.
Haruka decise di alzarsi dal letto e di uscire dalla propria cabina. Non lo faceva da due anni: aveva imparato ad attendere la sera per poter uscire e ad utilizzare la mattinata come momento della giornata per poter suonare per conto proprio, tagliando completamente i ponti col genere umano.
 

~

 
Ran e Ren si erano addormentati, esausti dopo una mattinata di corse e giochi per la nave. Makoto era in una piccola saletta di terza classe piuttosto gremita di gente, sconsolato e afflitto da ricordi poco felici.
Provò a combattere la malinconia con la sua arma migliore: tra le mani aveva un diario di piccole dimensioni e una penna. Provò a rileggere le ultime battute della sua nuova opera, ancora incompleta.
 
 
Paul: Dimmi, allora, cosa si celava nei suoi occhi?
James: Tutto… vi era il mondo. Eliza era il centro di tutto.
 
 
«Patetico», mormorò Makoto tra sé e sé, barrando l’ultima frase.
«Lei è uno scrittore, signore?», gli domandò con interesse una ragazza seduta accanto a lui.
«Scrivo opere teatrali, ma non sono né uno scrittore né un drammaturgo», rispose lui, semplicemente.
«È buffo il fatto che uno dei suoi personaggi si chiami come me e che Paul sia il nome del mio fidanzato», disse la ragazza con un piccolo sorriso.
Makoto arrossì terribilmente. «Lei… lei stava leggendo?».
«Mi perdoni, ma non sono riuscita a trattenermi. Mi piace leggere, da quando ho imparato a farlo non riesco a smettere», rispose lei.
«Si figuri», fece Makoto, poi domandò: «Dunque? Il suo nome è Eliza?».
«Esattamente», disse lei: «Non ci sarà un lieto fine per Eliza e Paul, vero?».
Makoto sospirò. «Vuole davvero saperlo?».
La ragazza annuì, sempre più incuriosita. «In realtà credo che il lieto fine non ci sarà per nessuno».
 

~

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Capitolo 3
*** Libero ***


Titolo: Tasti neri e tasti bianchi (della nostra vita)
Rating: giallo
Genere: angst/drammatico/romantico
Pairing: MakoHaru

 

Note: Salve a tutti! Ecco il terzo capitolo! Mi scuso per il ritardo, ma sono ancora qui! XD Spero che vi possa piacere!
Premetto che ci saranno altre note a fine capitolo, questa volta! XD
Ringrazio tutti coloro che leggono e recensiscono! <3

 


 

Questi personaggi non mi appartengono; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

 

 

~  Tasti neri e tasti bianchi (della nostra vita)



 






Atto III
Libero
 

 


Haruka passeggiava per la nave con le mani nelle tasche dei pantaloni. Nella saletta di terza classe vi erano molte persone, le une strette alle altre. Vi erano alcuni bambini in lacrime che non osavano allontanarsi dai propri genitori, forse spaventati per il viaggio, e altri che cercavano di ammazzare il tempo inventandosi mille giochi.
Nonostante tutto, vi erano anche bambini che, spensierati, sorridevano.
Non si poteva dire lo stesso degli adulti e degli anziani: una ragazza sola e giovanissima in stato interessante, un uomo che non poteva avere più di quarant’anni già colpito dai segni della vecchiaia, un anziano signore con gli occhi impietriti e una giovane coppia circondata da quattro pargoli.
A quella visione, Haruka si sentì raggelare. Non era di certo una persona felice o allegra, ma riusciva a percepire il gelo che aveva impadronito la gente in quel posto.
Poi diede un’occhiata alla gente seduta su delle postazioni in legno molto semplici: un uomo di mezz’età che aveva la fortuna di saper leggere aveva un giornale tra le mani che condivideva con altre tre persone; una bambina dormiva beatamente, appoggiata alla spalla di una donna dallo sguardo dolce e malinconico.
Poi vi era un ragazzo con i capelli scompigliati color oliva e un paio d’occhi verdi che, con un piccolo sbuffo, chiuse il diario che aveva tra le mani.
Haruka riconobbe in lui Makoto Tachibana.
Lo fissò silenziosamente per qualche minuto. Dopo un po’ Makoto intercettò il suo sguardo e sorrise lievemente, agitando la mano in segno di saluto.
Haruka si voltò subito da un’altra parte, fingendo di non aver visto niente.
Ciò che lo catturò fu il pianoforte vecchio – e forse anche poco funzionante – che era posizionato in un angolo della saletta. Era libero.
Il pianista gli si avvicinò quasi con cautela per poi premere ciascun tasto. Soltanto una decina di tasti funzionavano.
Quattordici tasti, ma posso ugualmente fare della buona musica, pensò Haruka, sedendosi alla postazione e sgranchendosi le dita.
Qualcuno lo additò e mormorò: «È il pianista…».
«Il pianista della nave? Haruka Nanase? Il ragazzino?».
«Sì, è lui».
Haruka iniziò a tessere la propria musica, musica che aveva deciso di condividere con quelle persone.
Non era un ritmo ballabile, non era un componimento allegro.
Era una melodia delicata e rassicurante quanto una ninna nanna.
I bambini spaventati smisero di piangere. Tutti guardavano il pianista, ammaliati.
«Haruka…», sussurrò Makoto, sorridendo appena.
Haruka era riuscito a catturare l’attenzione di tutti su di sé.
Bastarono cinque minuti per rischiarare quelle persone illuminando i loro volti e accendendoli di una nuova speranza.
Quando ebbe smesso, si alzò e si dileguò.
Gli unici rumori udibili erano i respiri delle persone. Fu un ragazzo intraprendente seduto di fronte a Makoto a rompere il ghiaccio.
«Che aria da spaccone».
«Come, prego?», rispose immediatamente Makoto, quasi come se quel commento fosse riferito a lui e non al pianista.
«Quel ragazzetto ha l’aria di uno che se la tira», continuò il ragazzo: «È sempre sulle sue…».
«Io credo sia una persona molto umile», lo controbatté Makoto.
«È scontroso ed è anche arrogante».
«Gli hai mai parlato?».
«No».
«E come fai a saperlo?».
«È palese, no? E rifiuta anche le proposte facoltose che gli vengono fatte. C’è gente che farebbe di tutto per poter sfondare a livello internazionale e guadagnare un mucchio di soldi. Lui si ostina a suonare il pianoforte in questa nave».
«Sono scelte».
«No, non sono scelte. Significa essere sciocchi e incredibilmente presuntuosi».
Makoto chiuse un attimo gli occhi. «Le voci girano, dunque. È un ragazzo riservato e viene considerato presuntuoso perché non coglie le opportunità che gli vengono offerte ed è scontroso ai vostri occhi soltanto perché è piuttosto taciturno…».
«Lo conosci, per caso? Ne parli con molto trasporto», fece quello, con un sorriso irrisorio.
Makoto sgranò leggermente gli occhi. «Io…».
Makoto non conosceva Haruka, eppure si era sentito in diritto di difenderlo da quelle accuse.
Che ne sapeva lui di Haruka Nanase?
«… no, non lo conosco. Ma ti assicuro che ti sbagli», disse, infine.
«Beh, sarai empatico, che ti devo dire. È un dono che hanno poche persone, sai?».
Il ragazzo sorrise sornione. Makoto si limitò a fare un piccolo sorriso, controllando la rabbia nel migliore dei modi.
 

~

 
«Ren! Ren!».
Il piccolo Ren emise uno sbadiglio. «Cosa c’è, Ran?».
«Voglio una nuova avventura!», disse la piccola, entusiasta.
Ren si stropicciò gli occhi. «Eh?».
«Voglio esplorare la nave!».
«Ma Makoto ha detto di non allontanarci…».
«Ma io ho voglia di intrufolarmi nelle zone dei ricconi! C’è molto da scoprire, ne sono sicura!».
A giudicare dall’espressione, Ren non sembrava molto convinto. «Lasciami dormire un altro po’», biascicò, girandosi dall’altra parte.
«E se ci fosse un tesoro nascosto?», cercò di persuaderlo Ran: «I pirati vogliono i tesori… e tu che sei il capitano delle guardie dovresti acciuffare i pirati che vogliono rubare, no? Verrai con me, Ren?».
«Sì, ma…».
Ran saltò dal letto. «Vedremo chi vincerà, capitan Tachibana!», disse la bambina, fuggendo dalla cabina.
«Aspetta, Ran! Aspetta!», rispose il fratellino, per poi inseguirla.
 

~

 
Makoto s’incamminò verso l’alloggio di terza classe che condivideva con i suoi fratelli.
«Ran, Ren, sono qui!».
Il ragazzo si arrestò sulla soglia della porta: i suoi fratellini avevano lasciato la cabina.
Solitamente Ran e Ren lasciavano l’alloggio la mattina insieme a Makoto, per poi incontrarsi con gli altri bambini e giocare insieme.
Il pomeriggio avevano sempre dormito, ma non si poteva dire la stessa cosa di quella giornata.
«Staranno in giro con gli altri bambini… sembrano un gruppo molto affiatato», si disse Makoto, cercando di non allarmarsi.
Nonostante tutto, si mise alla loro ricerca.
 

~

 
«Il tramonto, Ren! Guarda!», fece Ran indicando il cielo rosso.
«Sta annegando il sole», esclamò Ren con un sorriso: «È così bello…».
«Già!», confermò la bambina, per poi sporgersi dalla poppa della nave.
«Scendi subito, Ran. Makoto ha detto che non dobbiamo sporgerci!», le ricordò Ren.
«Ma io voglio vedere meglio!».
«Non sto scherzando! Scendi subito!».
La sorellina sbuffò, leggermente. «Lo so, lo so, hai ragione», constatò, scendendo frettolosamente e inciampando nella propria gonna, per poi scivolare all’indietro e mantenersi al parapetto con una sola mano.
Ran emise un grido.
«Ran!», urlò Ren, con gli occhi sbarrati.
«È tutto a posto, devo soltanto arrampicarmi…», provò a calmarlo Ran, invano. La piccola provò a scalare la ringhiera con cautela, ma finì soltanto per andare più giù.
«Dammi la mano!», fece il fratello, sporgendosi leggermente e provando ad allungare il braccio che, sfortunatamente, non riusciva a raggiungere quello della sorella.
«Non ci riesco!», disse Ran, incominciando a sudare freddo.
«Aiuto!», urlò Ren, disperato: «Qualcuno venga ad aiutarci!».
Ran sentiva che in pochi minuti la propria mano avrebbe ceduto. Provò a cambiare mano con la quale aggrapparsi, ma finì soltanto per perdere l’equilibrio per una frazione di secondo e urlare, spaventata.
Le urla di Ran e le richieste di aiuto di Ren erano come messaggi affidati al vento. Sulla nave non vi era nessuno: evidentemente le classi agiate erano tutte riunite nelle grandi sale per cenare.
«Io… io non ce la faccio…», mormorò Ran, in preda alle lacrime.
«Resisti!», la incitò Ren, piangente: «Verrà qualcuno…».
Ren voleva andare a cercare aiuto, ma il solo pensiero di lasciare la sorella da sola in quelle condizioni critiche lo atterriva.
Quando Ren vide un ragazzo accorrere, provò ad aprire bocca, ma non riuscì a dire niente, immobilizzato dalla paura.
Il ragazzo si sporse dalla poppa della nave e porse la propria mano alla bambina.
Ran accettò la stretta. «Aggrappati al mio braccio con tutte le tue forze», le disse il ragazzo.
La bambina fece come le era stato detto. Il ragazzo riuscì ad issarla, cadendo all’indietro.
Si ritrovarono entrambi a terra, salvi.
Ran respirò, pesantemente. «Grazie», mormorò flebilmente al ragazzo.
«Non ce l’avrei mai fatta senza di te», aggiunse Ren, con un piccolo sospiro di sollievo.
Makoto arrivò in quel momento: doveva aver corso a giudicare dal suo fiato corto. «Cos’è successo? State bene?», disse, ansimante.
«Ran stava cadendo dalla nave, ma il signor Haruka l’ha salvata», rispose Ren.
Makoto incominciò a tremare, facendosi cupo in volto.
«Va tutto bene, fratellone», provò a rassicurarlo Ran, quasi invertendo i ruoli: «Sto bene… grazie al signor Haruka sto bene».
Makoto era come paralizzato. Avrebbe tanto voluto dire qualcosa, ma le parole gli si bloccarono in gola. Non riusciva né a pronunciare parole di conforto per tranquillizzare i suoi fratelli né ad esprimere la propria gratitudine al salvatore di sua sorella.
Una mano poggiata con delicatezza sulla sua spalla lo ridestò. Makoto si voltò: era il pianista.
Haruka lo guardò intensamente.
Non aver paura. È tutto passato.
Era quello il messaggio che era giunto a Makoto con un solo sguardo.
Poco dopo, il pianista si dileguò, lasciando soli Makoto e i suoi fratelli.
«Si può sapere cosa avevate in testa?», sbottò finalmente Makoto, ancora visibilmente scosso per l’accaduto.
«Ren non ha colpe. Sono io che mi sono affacciata al parapetto…», confessò Ran, chinando leggermente il capo e arrossendo per la vergogna.
«Lo sai che cosa sarebbe potuto accadere? Sei fuori di testa?», incalzò Makoto. Una lacrima gli aveva appena rigato una guancia.
«Mi dispiace tanto… non voglio vederti piangere…», singhiozzò Ran.
Makoto si sentì un mostro: Ran aveva sbagliato, ma c’era davvero bisogno di alzare la voce e rimproverarla a tal punto da farla piangere?
Non seppe darsi una risposta. Si sentì un pessimo fratello, una pessima figura di riferimento.
Una pessima persona.
Makoto si avvicinò alla sorellina e la prese in braccio, stringendola fortemente a sé. Ran si aggrappò alle sue spalle robuste, nascondendo il volto nel suo collo.
Makoto fece un cenno a Ren che, timidamente, si strinse alle sue gambe.
«Sarei dovuto essere più attento…», mormorò Makoto a se stesso.
«Non dire così… sono stata io incosciente. Mamma e papà sono fieri di te. Di me no».
Makoto si sorprese di quelle parole pronunciate da una bambina di soli otto anni. Fece scendere Ran dalle sue spalle e fece allontanare Ren, per poi posizionarsi di fronte a loro e chinandosi, raggiungendo le loro altezze.
«Ran, non dire mai più una cosa del genere. Mamma e papà sono sempre fieri di voi e vi vogliono un bene immenso che non può essere espresso con le parole. Capita di fare errori, ma l’importante è imparare qualcosa altrimenti che errori sono? Questo non li ha di certo disonorati, è soltanto un segno del fatto che tu debba prestare più attenzione ed evitare certe cose. Lo stesso vale per te, Ren. Mamma e papà vi amano e vi proteggono», spiegò Makoto, dolcemente.
«Ci amano e ci proteggono», lo corresse Ran.
Makoto diede un buffetto amichevole a Ran sulla guancia e lasciò una carezza sui capelli di Ren. «Ci amano e ci proteggono, sì. Esattamente», sorrise il ragazzo.
Ren si lasciò contagiare dal sorriso del fratello. Ran si sentì rincuorata.
«Sai qual è l’unica cosa positiva di ciò che è accaduto?», disse ad un certo punto la bambina.
«Sei riuscita a trovare anche qualcosa di positivo?», la rimbeccò Ren.
«Ma certo! Allora, fratellone, vuoi saperlo?».
«Sì?», rispose Makoto, incerto, aggrottando le sopracciglia.
«Ho sentito la voce del signor Haruka!», rispose la bambina, quasi trionfante.
«Cosa?», Makoto si fece ancor più dubbioso.
«Il signor Haruka mi ha parlato! Non ho dato molto peso alla sua voce, ma comunque mi ha detto di aggrapparmi al suo braccio con tutte le forze che avevo. E così mi ha salvata. Ho sempre pensato fosse una brava persona!».
Makoto sembrava ancora più perplesso di prima. «Ti ha parlato? Sul serio?».
«Sì», confermò Ren: «L’ha fatto».
Makoto non sapeva cosa dire. Non poteva negare a se stesso che era curioso di udire la voce del silenzioso pianista; tuttavia, la sua musica valeva più di mille parole, dunque non avvertiva un bisogno impellente di sentirlo parlare.
«Ah capisco», si limitò a dire, poi fece: «Bene, adesso sarà meglio andare in camera. Più tardi vi porto qualcosa da mangiare, d’accordo?»
 

~

 
La signora Doyle era stata così gentile da dare del pane a Makoto e un dolce per i bambini. Aveva avvolto con cura il pane in un panno pulito e chiuso il dolce in un piattino coperto.
Makoto aveva tra le mani la cena e cercò di raggiungere rapidamente la propria cabina, sperando di passare inosservato.
Inizialmente non incontrò nessuno, per poi entrare in un piccolo corridoio di terza classe e imbattersi nel pianista della nave.
Non indossava la semplice camicia bianca e i pantaloni del giorno, bensì il completo nero che gli aveva visto addosso quando l’aveva incontrato.
Aveva incrociato per la prima volta il suo sguardo soltanto la sera prima, eppure gli sembrava come se fosse già trascorso molto tempo.
Makoto si arrestò di fronte a lui, un po’ imbarazzato per la situazione in cui si trovava.
«Buonasera! Sto portando qualcosa da mangiare ai miei fratelli», svelò, facendosi rosso in volto: «Tu… tu stai andando a suonare in prima classe, vero?».
Haruka annuì. «Ascolto la tua musica da tre sere. Hai presente dove ci siamo scontrati accidentalmente? Mi nascondo proprio in quell’angolino. L’acustica è buona e tu sei sempre meraviglioso. Sei come un animo… libero, sì. Sei come un animo libero rinchiuso in una sorta di prigione. È questo ciò che mi trasmetti».
Makoto sentì le guance andare a fuoco: aveva parlato troppo, decisamente.
Per una frazione di secondo, gli occhi di Haruka parvero illuminarsi.
«Libero?».
Makoto sgranò gli occhi. Quasi non credette alle sue orecchie quando Haruka aveva sussurrato quella parola.
«Sì, libero», fece Makoto: «La penso così…».
Haruka annuì leggermente, per poi congedarsi con un piccolo cenno.
«Aspetta, Haruka!», lo fermò Makoto.
Haruka si voltò verso di lui. «Io… volevo ringraziarti per aver salvato mia sorella. Scusami se non ti ho ringraziato prima, ero fuori di me… ho avuto paura, sì. Ti sono eterno debitore, Haruka».
Il pianista scosse il capo. «Di nulla, era mio dovere. E chiamami Haru».
La voce intensa e decisa di Haruka sorprese Makoto che si ritrovò a farfugliare un “Come, scusa?” al quale il pianista rispose tacendo.
Makoto sospirò. «Bene… vuoi essere chiamato Haru. Non ti piace Haruka?».
L’altro scosse il capo.
«Perfetto, buono a sapersi. Ti chiamerò Haru, allora».

 

~



 

Angolo Autrice  ~

Bene, ringrazio tutti coloro che sono arrivati fin qui!
Volevo soltanto soffermarmi sulle prime parole pronunciate da Haru. Okay, sinceramente penso che Haru abbia parlato fin troppo presto, ma non importa: è come se qualcosa di Makoto l'avesse "scosso" da sempre, questo loro capirsi con un solo sguardo e una sola occhiata, questa connessione tra le loro menti e tra i loro cuori (cosa che ovviamente ho preso spunto dall'anime e a cui tengo moltissimo perchè è una delle basi principali su cui è costruito il loro rapporto). E ovviamente, Libero (Free) non poteva non essere la prima parola pronunciata da Haru in presenza di Makoto! <3
E niente, forse era anche superfluo spendere queste paroline, ma ci tenevo a dirlo! c:
A presto! :D

 

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Capitolo 4
*** Confidenze custodite dalle tenebre ***


Titolo: Tasti neri e tasti bianchi (della nostra vita)
Rating: giallo
Genere: angst/drammatico/romantico
Pairing: MakoHaru

 

Note: sono mesi che non aggiorno e no, questa storia non è morta. Penso sempre a questa ff e so anche cosa scrivere, il problema è il tempo che manca sempre! Mi scuso immensamente per il ritardo, mi dispiace aggiornare così tardi.
Spero vi possa piacere il capitolo!
Piccolo appunto: Haruka. Spero non sia troppo OOC in questo capitolo, non vorrei aver fatto un guaio! A voi il giudizio ;) 
Ringrazio tutti coloro che leggono, seguono e recensiscono! Buona lettura <3

 


 

Questi personaggi non mi appartengono; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

 

 

~  Tasti neri e tasti bianchi (della nostra vita)



 






Atto IV
Confidenze custodite dalle tenebre

 


Sei come un animo… libero, sì. Sei come un animo libero rinchiuso in una sorta di prigione. È questo ciò che mi trasmetti.
 
Le parole di Makoto frullavano ancora nella testa di Haruka.
Libero.
Quella breve conversazione ne rievocò un’altra del passato.
 
«Libero? Vuoi essere libero, Nanase?».
«Sì».
«Cosa vuol dire?».
«Non lo so. Voglio poter essere libero».
«Beh, di certo non sarai libero rinchiuso in una nave per sempre!».
«Ancor meno se rinchiuso nel mondo».
Lo aveva guardato, stralunato. «Cosa intendi dire? La Terra è enorme, ti sentirai libero… libero di poter fare ogni cosa! Se solo scendessi da questa nave… potresti vedere un mucchio di cose! Non ne hai idea!».
«Ovvero sarei prigioniero. Prigioniero in un mondo così vasto di cui non posso vedere la fine. È una prigione immensa, la Terra. Questa nave è una piccola prigione dove posso trovare la mia libertà…»
 

~

 
«Ci sarà una sorpresa per voi stasera».
«Che cosa?».
«Ho appena detto che si tratta di una sorpresa!».
«E dai, fratellone! Voglio saperlo!».
«Non posso dirtelo, Ran! Che sorpresa sarebbe altrimenti?».
«Voglio saperlo anch’io!».
«Daiii! Diccelo!».
Ran e Ren si precipitarono su Makoto, solleticandogli i fianchi. Il ragazzo arrossì vistosamente, incominciando a ridere. «Fidatevi di me… e smettetela! Piuttosto mangiate prima».
I due bambini risero per poi mangiare con grande appetito la cena offerta dalla signora Doyle.
Makoto prese soltanto un pezzetto di pane per sé. «Fratellone, ce n’è altro!», gli disse Ran.
«Vuoi un po’ di dolce?», gli chiese invece Ren.
Il ragazzo scosse il capo con un piccolo sorriso. «Sto bene così, davvero. Grazie».
Circa dieci minuti dopo, Makoto si sistemò i capelli come meglio poté e si rivolse ai bambini. «Pronti?».
«Sì!», risposero, entusiasti.
«Sono curiosissima, fratellone!», esclamò Ran.
Makoto si limitò a sorridere. «Però mi dovete promettere una cosa».
«Che cosa?».
«Non dovete parlare e fare rumore».
«Non lo faremo! Promesso», lo rassicurò Ren.
Il ragazzo uscì dalla stanza con i suoi fratellini. Attraversò l’intero corridoio in completo silenzio, per poi raggiungere le zone riservate ai passeggeri di prima classe.
Come sempre, l’angolo di Makoto era vuoto.
«Venite qui», esortò i suoi fratelli.
Ran e Ren fecero come detto. «E adesso?», sussurrò la bambina, sempre più impaziente.
«Ancora un paio di minuti», fece Makoto: «Non parlate. Dovete ascoltare».
I due bambini tacquero, in attesa di udire qualcosa.
Non passò molto tempo quando finalmente si susseguirono le note di un pianoforte.
«Il signor Haruka!», mormorò Ren con un grande sorriso: «È lui, è inconfondibile».
«È lui il pianista della nave, non può esserne un altro!», lo rimbeccò Ran.
Makoto si limitava a tacere, lasciandosi avvolgere dalla musica.
La musica di Haru aveva una certa influenza su di lui. Ne era diventato dipendente in così poco tempo.
Haru si esprimeva tramite le note di un pianoforte. Non una semplice espressione dei propri sentimenti, delle proprie emozioni. La sua musica erano parole taciute, emozioni e sentimenti soppressi. La visione di un mondo. La sua vita, forse. Magari anche il suo passato.
Aveva un che di misterioso quella musica, e Haruka stesso.
 

~
 

Donne in abito lungo e uomini vestiti elegantemente danzavano, parlottavano e ridacchiavano.
Haruka aveva appena finito un componimento malinconico e molto personale per suonare un pezzo allegro richiesto della platea. Sembrava piuttosto scocciato. A giudicare dall’aria, non vedeva l’ora di andarsene di lì.
«Dunque, com’è che si chiama?».
Una ragazza con un lungo abito rosso stava conversando con un giovane uomo con un paio di lunghi baffi. Si erano messi in disparte e non erano molto lontani dal pianista che poté udire gran parte della conversazione.
«Haruka Nanase, signorina».
«Molto bravo, davvero. Ha la musica che scorre nelle vene. È anche un ragazzo affascinante».
L’uomo rise, sommessamente. «Con tutto il rispetto che nutro per lei, signorina, ma non le suggerirei di avvicinarsi a lui».
«Qual è il problema?».
«È una persona molto introversa e anche insolente, oserei dire. Un misantropo».
«Non parla con nessuno?».
«Nessuno è alla sua altezza», fece l’uomo, sarcastico: «È un gradasso. Ho sentito dire che non ha nemmeno nobili origini. Ha tutti i suoi privilegi solo perché sa combinare qualche nota, tutto qui».
«Non credo si possa parlare soltanto di combinazione di qualche nota. Il fatto che abbia talento è un dato di fatto».
«Talento che non sa sfruttare. Precisiamo», sottolineò l’uomo: «È un peccato essere dotati di un dono così grande e non saperlo rendere. Sono anch’io un artista, un pittore precisamente, e mi do da fare, signorina. Capisco queste cose, e le occasioni vanno colte al volo. Quando può ricapitare una tale opportunità? Non farlo significa essere maledettamente stupidi o terribilmente altezzosi. A lei la scelta».
«In effetti non ha senso restare a suonare su una nave se può farlo per il mondo. Riscuoterebbe un gran successo… diventerebbe ricchissimo! Potrebbe suonare con i più grandi pianisti di tutto il mondo, viaggiare ovunque… vivere una vita completamente diversa, ma grandiosa».
«Esattamente. Ma noi non possiamo farci proprio niente. Possiamo soltanto assistere alla morte lenta e dolorosa di questo talento destinato a marcire…».
La musica s’interruppe bruscamente. Haruka Nanase si era alzato di scatto dalla sua postazione.
Le persone lo guardarono, sconcertate. Il pianista fissò la coppia di signori che lo avevano deriso per tutto il tempo con assoluta freddezza, per poi lasciare la sala senza dire una parola.
 

~

 
«Non suona più?», bisbigliò Ran, tirando la manica della camicia del fratello per attirare la sua attenzione.
«Non so… dev’essere successo qualcosa», rispose Makoto, confuso.
Haruka uscì dalla sala. Gli sguardi di Makoto e Haruka s’incrociarono. Quest’ultimo gli si avvicinò, silenziosamente.
«Haru», sussurrò il ragazzo.
Provò a dire qualcosa, ma fu interrotto da una Ran molto preoccupata. «È successo qualcosa?».
«Niente, piccola», rispose il pianista con un sorriso impercettibile.
Makoto sospirò. «Bambini… è ora di andare a dormire. Vi accompagno in cabina».
«Ma io voglio parlare con il signore Haruka!», replicò Ran.
Makoto la guardò, serio in volto come non mai. «Ran, penso che Haru non abbia molta voglia di parlare e poi è tardi».
La bambina sbuffò. «Possiamo salutarla, signor Haruka?», parlò per la prima volta Ren.
Haruka rise, una risata sincera e cristallina. Makoto si ritrovò a pensare che non vi fosse un suono più angelico di quella risata. Nessuna melodia poteva essere paragonata a quel suono così dolce così leggero.
«Certo, non c’è bisogno di chiedermelo», rispose Haruka: «E chiamatemi Haru».
La piccola Ran sorrise. «Allora ciao, Haru!».
«Buonanotte, Haru», esclamò Ren: «A domani!».
Makoto si voltò verso Haru, lanciandogli uno sguardo d’intesa. Il pianista si limitò ad annuire.
 

~

 
Haruka aspettò nel cantuccio segreto di Makoto per un paio di minuti.
«Sono qui», Makoto ricomparve, e in un bisbiglio disse: «Spero stiano dormendo».
Haru non disse niente. Si limitò a fissare Makoto e a muovere leggermente il capo.
«Il signor Nanase?».
«Sì, proprio lui, il pianista della nave».
Sulla soglia della grande sala, due uomini stavano confabulando tra loro.
«Se dovesse continuare con quest’atteggiamento sarò costretto a cacciarlo».
«Signore, non vorrei contraddirla ma è da ben diciannove anni che assume una condotta a dir poco disdicevole».
«Ma adesso sta oltrepassando i limiti. Dove si sarà cacciato… se lo trovo, oh… se mi sentirà!».
«Haru… ti stanno cercando», mormorò Makoto.
«Lo so».
«Dovresti tornare, o ti manderanno via…» .
«Io non ci torno. Non stasera».
Inaspettatamente, Haruka afferrò la mano di Makoto con decisione senza dare spiegazioni, per poi muoversi nell’ombra e condurlo chissà dove.
Makoto si limitò a seguirlo, curioso e agitato allo stesso tempo.
Haruka lo portò nella stiva della nave. Vi era una porticina che apriva ad un minuscolo stanzino.
«Qui non ci troveranno. È un magazzino dimenticato», asserì Haruka, mentre chiudeva la stanza a chiave.
Makoto annuì, guardandosi intorno. Era buio, riusciva soltanto a distinguere le sagome degli scatoloni. Dovevano esserci quintali di polvere in quei pochissimi metri quadrati a giudicare dalla tosse del ragazzo.
«Incomincio a sentirmi un po’ strano…», mormorò Makoto, sbottonando il primo bottone della camicia: «È un posto troppo buio ed angusto…».
«Solo dieci minuti», fece Haru, guardandolo negli occhi. Anche se non lo espresse ad alta voce, sembrava lo stesse supplicando. Makoto non poté dire di no a quei due tasselli d’oceano che non riusciva a vedere, ma sapeva che lo stavano fissavano con aria implorante.
«E va bene… solo dieci minuti».
Haruka si lasciò andare contro la parete, distendendo le lunghe gambe sul pavimento. Makoto si sedette sopra ad uno scatolone, provocandone l’involontaria rottura.
«Ti converrebbe sederti accanto a me», gli disse Haru, serio, anche se le sue labbra erano incurvate in un leggero sorriso.
Makoto si sistemò accanto a lui, appoggiando la schiena contro la parete.
«Sono un disastro».
Haru scosse il capo. «No. Sei soltanto goffo».
«Grazie eh! Molto spiritoso», rispose l’altro.
Haru non disse niente ma Makoto sapeva che, almeno per una frazione di secondo, il suo cuore era diventato leggero, quasi spensierato. Riusciva ad avvertirlo, quasi come se il cuore di Haru appartenesse a lui.
Calò un silenzio imbarazzante che si protrasse per qualche minuto. Makoto non sapeva che cosa dire, non voleva risultare indiscreto. Voleva che fosse l’altro a parlare se avesse voluto.
Gli sembrò essere passata un’eternità quando udì il suo nome sussurrato dall’altro.
«Makoto».
«Haru?».
«Cosa pensi di me?».
Makoto lo guardò, sgranando gli occhi. «Io? Io cosa penso di te?».
«Sì».
«Beh… sicuramente non sei divertente! Darmi dell’imbranato… non è carino, sai?».
«Cerco di essere oggettivo. Non è colpa mia se sei così maldestro».
«Peggiori soltanto le cose così», commentò Makoto, fingendosi risentito.
«Tralascia la mia brutale schiettezza, allora».
«Beh, Haru… io… io non ti conosco bene», iniziò Makoto: «Anzi, in realtà non ti conosco affatto. Quando ti ho conosciuto?».
«Ieri sera».
«Ecco. E mi parli ufficialmente da qualche ora. Strambo, vero? Eppure mi sembra di conoscerti da sempre. È assurdo. Non è una cosa che capita tutti i giorni».
Haru non parlò, limitandosi ad ascoltare. «Sei silenzioso, Haru. Molto calmo e riservato, devo dire, ma non sei affatto timido. Sei passionale, lo percepisco dalla tua musica. Ci metti te stesso e ogni singola parte di te. Nei tuoi occhi è celato un mondo… mille emozioni, mille parole… sei libero, Haru. Lo sei di natura, ma vuoi esserlo per davvero perché non ti senti tale».
Makoto si meravigliò delle sue stesse parole. Arrossì vistosamente. «Devi perdonarmi… a volte mi dimentico che non sto scrivendo un’opera teatrale, bensì parlo con qualcuno… non so cosa mi è preso!».
«No. Non ti devi scusare per niente», fece Haru: «Piuttosto… lo pensi davvero?».
«Sì… è ciò che penso».
«Sei la seconda persona che la pensa diversamente da tutti gli altri», confessò Haruka.
Makoto non disse niente. Lasciò che l’altro continuasse a confidarsi. «Tutti pensano che io sia uno spaccone e che mi dia delle arie. La prima persona diceva invece che ero molto chiuso e testardo, ma forte. Tu pensi che io sia riservato, passionale e libero… il problema è che io non so davvero chi sono».
Haruka parlava con assoluta pacatezza, ma sembrava parecchio frustrato.
«Haru… non farti dare delle definizioni e delle etichette e non dare mai peso a ciò che gli altri pensano di te, sono sempre pareri dettati dall’ignoranza oppure pareri molto soggettivi. Sei tu l’artefice del tuo destino. Un giorno le parole degli altri andranno al vento… l’importante è ciò che pensi tu di te stesso».
Haruka aveva il capo chino e lo sguardo fisso a terra, ma assorbì ogni parola di Makoto.
«Sta a te prendere decisioni proprio perché è la tua vita, e deve appartenere a te, non a qualcun altro. Solo questo posso dirti».
Haruka annuì, lievemente. «Sì. Grazie, Makoto».
«Figurati! Non devi ringraziarmi», gli rispose l’altro con un sincero sorriso.
«Se vuoi possiamo andare via».
«Sì, va bene, anche se è così buio… non riesco a vedere niente».
Haruka si alzò e si avvicinò alla porta, camminando lentamente. «L’ho chiusa a chiave».
«Sì, e dove sono le chiavi?».
«Non sono in tasca».
Makoto dovette impallidire, anche se Haruka non poté vederlo. «Cosa?! Scherzi?! Siamo rimasti chiusi qui dentro!».
«Niente panico».
«Come fai ad essere sempre così tranquillo?!».
«Ricordo di averle appoggiate su uno scatolone, ma sarebbe preferibile prenderle domani quando potremo usufruire della luce del sole. Non vorrei perderle per davvero».
«I miei fratelli dormiranno da soli stanotte… non è sicuro!».
«Hai chiuso la loro cabina?».
«Sì, ho le chiavi con me, ma…».
«… e allora non accadrà niente. Tranquillo. Domattina passiamo a prenderli e andiamo insieme dalla signora Doyle».
Makoto sospirò, afflitto. «Non ci voleva proprio…».
«Non avrai mica paura del buio?».
«Smettila!».
«È una domanda».
«Non riesco a vedere niente, nemmeno te».
«Adesso sentirai dei passi. Non spaventarti, sono io».
Makoto voleva morire di vergogna e di paura. «Staresti cercando di sdrammatizzare la situazione?!».
Haruka si sedette a terra, sistemandosi accanto a Makoto. «Buonanotte, Makoto. Fai sogni tranquilli. Non c’è motivo di aver paura».
«Mi prendi in giro?!».
«No. Siamo chiusi dentro, non può entrare nessuno».
Makoto sbuffò. «D’accordo. Buonanotte anche a lei che è così coraggioso, signor Haruka».
Sentì Haru tremare al suo fianco, nel tentativo di trattenere una risata.
Passarono ben cinque minuti, ma Makoto non aveva chiuso occhio.
«Haru?».
«Mm?».
«Dormi?».
«No».
«Ci vorrebbe proprio un po’ di musica. Mi rilasserebbe».
«Non ho un pianoforte al momento».
«Lo so. Che peccato».
Cadde nuovamente un silenzio che sembrò durare una vita.
«Makoto?».
Questa volta fu Haruka a spezzarlo.
«Sì?».
«Non riesci proprio a dormire?».
«No…».
«Puoi appoggiarti su di me se stai scomodo».
«Ti ringrazio, Haru…».
Makoto posò il capo sulla spalla di quel misterioso pianista che, come un’onda, aveva travolto la sua esistenza in così poco tempo.

 

~



 

Angolo Autrice  ~

Come sempre ringrazio tutti coloro che sono arrivati fin qui! c:
Ancora una volta possiamo vedere come Makoto riesca a capire Haru con una sola occhiata, un solo sguardo, una sola parola. Come già ho detto altre volte, è questa la cosa che più amo e che più mi affascina del loro rapporto. Spero soltanto di riuscire a rendere giustizia a quella che è la complessità e la bellezza di questo loro "linguaggio", questo loro modo di esprimersi e capirsi, non vorrei combinare guai!
Come ho già scritto nelle note a inizio capitolo, Haru a volte mi sembra un pochino OOC, anche se non riesco a vederlo in un altro modo. Anche il fatto che si sia confidato con Makoto... alla fine non svela chissà che cosa, resta sempre sul vago, ma da una parte mi sembrava giusto che ne parlasse con Makoto anche se lo conosce da pochissimo. Che cosa ne pensate?
Spero vi sia piaciuto il capitolo e spero di non farti aspettare ancora così tanto, a presto! :D

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