Ina Bauer (Q.R. - Prima parte)

di menestrella 07
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Pazienza ***
Capitolo 2: *** Defezione ***
Capitolo 3: *** Debolezza ***
Capitolo 4: *** Sincerità ***
Capitolo 5: *** Rischio ***
Capitolo 6: *** Confronto ***
Capitolo 7: *** Ossigeno ***



Capitolo 1
*** I. Pazienza ***


Uno.

Pazienza

 

 

 

E così alla fine era arrivata anche la neve. Emma si affacciò alla vetrina per controllare la condizione della strada, realizzando che di lì a poche ore avrebbe dovuto tornare a casa a piedi.

 

 

 La bicicletta forse è meglio tornare a prenderla domani.

 

 

 Fece ritorno sconsolata nel retro bottega e, data un’occhiata al cellulare che giaceva muto attaccato alla presa di corrente, cominciò a caricare la lavastoviglie: quel pomeriggio si era davvero data alla pazza gioia, preparando quattro crostate ai mirtilli e cinque meringate. Già si immaginava i commenti della proprietaria: guarda che gli ingredienti costano, le persone non comprano semifreddi con questo tempo...

 

 

 Ma non ci poteva fare nulla, era più forte di lei: cucinare per tenere a bada l’ansia. Per questa ragione aveva scelto di fare la pasticcera: perchè trovava che non ci fosse nulla di meglio che annegare i propri malumori nella panna montata.

 

 

Il campanello tintinnò, segnalando l’entrata di un cliente.

«Vai tu, Emma?»

 

 

Più che una domanda era un ordine. La voce tonante della proprietaria risuonò immediatamente dalle viscere della dispensa. Controvoglia la ragazza si tolse il grembiule, impiastricciato di marmellata e, dipintasi un sorriso radioso sul volto che quel giorno doveva risultare più fasullo del solito, andò ad accogliere chi aveva sfidato la neve per far contenta la propria pancia.

 

 

Una rapida occhiata ed Emma si sentì gelare il sangue nelle vene: ad attenderla in negozio c’era nientepopodimeno che la madre del suo ex-fidanzato che, oltre ad essere un’intrigante ficcanaso, poteva vantare la medaglia d’oro ai campionati nazionali della chiacchiera.

 

 

«Buonasera, cara!» la accolse quella, con un ghigno soddisfatto.

«Signora» fece tetra Emma.

«E così lavori ancora qui...»

 

 

La ragazza la interruppe subito in modo poco cortese ma estremamente efficace: non aveva voglia, né tempo, a dire il vero, di offrire il fianco alle sue frecciate e poi dalla posizione in cui si trovava non sarebbe riuscita ad udire il telefono, nel caso si fosse finalmente deciso a squillare.

 

 

«Abbiamo un’ottima crostata al mirtillo, se vuole favorire»

«Oh, la crostata al mirtillo!» ripeté la donna, con un sorriso malevolo. «La preferita di Mirko!»

 

 

Ottimo. Ora era spacciata.

 

 

«Sai, mio figlio sta molto bene. Lavora in una prestigiosa ditta di assicurazioni»

«Sono contenta per lui» si sforzò di dire Emma, rimproverandosi però subito dopo per aver sprecato fin troppe parole; un debole «Mmmm...» sarebbe bastato.

«Guadagna 2000 euro al mese!» insistette la megera.

 

 

Questa volta la ragazza fece finta di non aver udito ed azionò la macchina del caffè, che non fu sfortunatamente in grado di coprire completamente la voce della signora.

«Ora sta con la Francesca ... te la ricordi la Francesca, vero?»

 

 

Certo, come no? Come si fa a dimenticare la donna-di-facili-costumi che ti soffia il fidanzato quando tu hai più bisogno di lui?

 

 

«Lavora ancora sulla strada?» domandò Emma, usando il tono più impertinente che possedeva.

 

 

La signora la guardò un istante completamente scioccata.

«Come vigilessa, intendo» concluse la ragazza, trattenendo un sorriso di trionfo.

«Certo, cara, la Francesca è una ragazza così seria e responsabile!»

 

 

Talmente seria da innamorarsi del ragazzo di una sua amica e di convincerlo a lasciarla senza alcun preavviso.

 

 

«Fantastico! Me li saluti entrambi, allora» concluse Emma, decidendo di togliersi rapidamente dai piedi la fastidiosa visitatrice.

«Saranno così felici di sapere che non te la sei presa!»

 

 

Emma concentrò lo sguardo sui bigné al cioccolato, mentre immagini di svariati tipi di morti dolorose attraversavano la sua fantasia.

«Perchè avrei dovuto? Sono fatti l’uno per l’altra».

Già, Dio li fa e poi li accoppia.

 

 

La signora rise piano.

«E tu, invece? Sei ancora sola? Immagino che mio figlio abbia lasciato un vuoto difficile da colmare»

 

 

«Mi scusi, signora, ma se suo figlio è stato così stupido da farsi scappare una ragazza d’oro come Emma, allora ce lo deve avere lui qualche vuoto... nel cervello!»

 

 

Tempismo perfetto. Emma rivolse uno sguardo riconoscente al ragazzino che era emerso dal retro bottega proprio al momento giusto: ancora qualche secondo e avrebbe centrato la faccia di quella befana con una delle sue splendide meringate appena preparate.

 

 

«Il tuo cellulare sta squillando» fece ancora Giovanni.

 

 

La ragazza schizzò via, senza neppure salutare. Salì rapidamente i pochi gradini che l’avrebbero riportata in cucina, guidata dal suono prepotente della suoneria che intonava la Cavalcata delle Walchirie.

 

 

«Pronto!» esclamò senza fiato, agguantando il cellulare, prima che questo trasferisse quella preziosissima chiamata alla segreteria telefonica.

«Oi, Emma, ma perchè c’hai l’affanno?»

Era Carlotta. Non ci posso credere. Aveva sfiorato l’infarto in quei pochi disperati istanti di trepidazione ed era solo la sua amica.

 

 

«Perchè cavolo mi chiami col numero privato?!» si arrabbiò.

 

 

«Scherzetto!»

 

 

Emma rimase in silenzio, ascoltando la risata fresca della ragazza e riconsiderando i motivi che l’avevano spinta a stringere con lei un’amicizia che durava da più di dieci anni.

«Ci sono novità?» chiese Carlotta, tornata seria.

 

 

«No»

«Vedrai che chiameranno»

«Mah...»

«Ti dico che chiameranno!»

Emma sorrise, ricordandosi immediatamente perché era così legata a quella ragazza dallo strano senso dell’umorismo.

«Grazie» mormorò.

 

 

Carlotta rise di nuovo, dall’altro capo del telefono.

«Casomai puoi sempre continuare a cucinare per noi!»

 

 

 Emma riagganciò un po’ rincuorata, senza conoscerne la ragione. Spense il forno ed avviò la lavastoviglie, facendo attenzione a selezionare il programma a risparmio energetico. Il rumore del motore riempì la cucina, mentre qualche soffio di vapore fuoriusciva dallo sportello.

 

 

La ragazza chiuse gli occhi e lentamente si piegò sulla gamba sinistra, tenendo la destra stesa in avanti. Arrivata rasente il pavimento si accoccolò su se stessa, le braccia tese di fronte a sé, e rimase lì ferma, contando fino a otto. Poi sollevatasi leggermente ripeté l’esercizio, invertendo la posizione delle gambe. Giovanni aprì la porta della stanza e, vedendola così rannicchiata, disse, scuotendo la testa: «Non so come fai a rimanere così accucciata!»

 

 

«E’ più comodo di quanto sembri» gli rispose Emma, senza aprire gli occhi.

«Sì, se sei un trampoliere!»

La ragazza rise, alzandosi.

«Erano loro al telefono?»

 

 

Giovanni era sempre così premuroso con lei; lo conosceva da quando era un bambino e sapeva che poteva fidarsi ciecamente di lui.

 

 

«No»

«Meglio così» si lasciò sfuggire il ragazzo.

 

 

«Scusa?!»

Emma lo fissò allibita per un attimo. Che cosa significava quell’ultimo commento? Non sapeva quanto lei ci tenesse a quel lavoro?

«E’ che se ti prendono sarai costretta a trasferirti...» iniziò Giovanni, mentre le sue guance si coloravano leggermente.

 

 

«Ci sono miliardi di motivi che potrebbero portarmi lontano da qui» disse Emma, sovra pensiero «molti dei quali non altrettanto positivi».

«Però potresti rimanere qui con ... noi!»

 

 

La ragazza rivolse lo sguardo su di lui e sorrise.

«Probabilmente sarà quello che accadrà»

 

 

Giovanni ricambiò il sorriso. Quando faceva così dimostrava decisamente di più dei suoi diciassette anni, forse per quell’aria sicura che gli illuminava sempre il volto o per il portamento prestante, forgiato negli anni dai duri allenamenti di hockey.

 

 

«Sfida all’ultimo sangue, stasera?» provò lui.

«No! Lo sai che non mi va di...»

 

 

Emma preferì non continuare.

«Eri fuori allenamento» disse Giovanni, ricordandole una spiacevole situazione che aveva dovuto affrontare poche settimane prima. La ferita era ancora fresca.

«Ero pietosa» lo corresse lei.

«Eri bellissima» mormorò lui. «La più bella di tutte»

 

 

«Tu sei troppo buono!»

«Be’, faremmo una bella coppia ... non credi?»

«Forse, se tu avessi dieci anni di più» ammise Emma, ripetendo un discorso già fatto in mille altre occasioni.

 

 

«Abbiamo solo cinque anni di differenza!» si arrabbiò il ragazzo, avvicinandosi di qualche passo.

 

 

«Sono troppi»

 

 

La voce stanca di Emma lo colpì più di quanto avrebbe potuto fare qualsiasi altro rifiuto.

I due ragazzi si fissarono per qualche istante e proprio quando Giovanni sembrava voler riprendere il discorso le sue intenzioni furono vanificate dal sopraggiungere di sua madre, la proprietaria della pasticceria.

 

 

«Allora? Hai saputo niente?»

Emma scosse la testa desolata.

«L’avranno presa di sicuro! La sua focaccia allo zenzero è superba!»

Era di nuovo Giovanni. Possibile che quel ragazzo riuscisse solo a farle dei complimenti?!

 

 

Emma guardò l’orologio: erano quasi le sei di sera. La telefonata sarebbe già dovuta arrivare. O forse non l’avevano scelta e non si prendevano neppure il disturbo di avvisarla. Un vero peccato, perchè ci teneva così tanto!

 

 

Quella di Antonio Callegaro era una rinomata scuola di cucina aperta a pochi privilegiati, ma lei aveva creduto veramente di avere una possibilità: aveva fatto mille progetti, andando persino in avanscoperta a Venezia per cercare una camera in affitto e rimanendo sconvolta dai prezzi proibitivi della città.

 

 Evidentemente aveva sopravvalutato le sue capacità culinarie.

 

 

Giovanni la abbracciò, a tradimento, e scappò dalla cucina.

«Attento a non romperti una gamba quando esci!» gli gridò dietro sua madre. «I gradini sono pieni di neve!»

«Tranquilla! Il ghiaccio è il mio elemento» lo sentirono rispondere.

 

 

E poi il telefono squillò.

 

 

Emma e la donna si scambiarono uno sguardo colmo di agitazione.

«Che fai? Non rispondi?» disse Monica, vedendo che la ragazza non si decideva a prendere il cellulare.

«Se non lo fai tu, lo faccio io!» le intimò.

 

 

Emma si schiarì la voce e, incrociate le dita, premette il pulsantino verde.

«Parlo con Emma Canziani?» fece subito un’atletica voce maschile.

«Sì, sono io»

 

 

«Buonasera, sono Salvatore Castellano, delegato della Federazione. Le comunico che avrà l’onore di rappresentare l’Italia ai prossimi Mondiali di Pattinaggio».

 

 

«...»

 

 

«Signorina ... Signorina Canziani, è ancora lì?»

 

 

 

* * *

 

 

 

Nota dell’autrice

 

Non sono una pattinatrice professionista, ma solo una grande appassionata di questo sport meraviglioso! Mi scuso sin da ora con gli esperti per gli errori in cui temo finirò con l’incappare! Si accettano di buon grado suggerimenti & consigli!

Grazie a tutti coloro che si prenderanno la briga di leggere questo mio primo tentativo di fanfiction e lasceranno un commento!

 

Menestrella 07

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Capitolo 2
*** Defezione ***


Premessa dell'autrice

Non sono una pattinatrice e in linea di massima non conosco gli aspetti tecnici di questo sport, che si tratti dell’atterraggio da un triplo axel o dei criteri di ammissione alle competizioni internazionali. Faccio del mio meglio, ma nel caso troviate degli errori considerate che questa storia nasce al solo scopo di divertire chiunque avrà la bontà di leggerla!
Grazie a Mile che ha recensito... praticamente subito!! E grazie ancora a chi leggerà questo secondo capitoletto!

M.


* * *




Due.
Defezione



Defezione. Quel Castellano aveva parlato di defezione. Di una doppia defezione per la precisione. Unico motivo per cui un quarto posto agli ultimi campionati italiani poteva essere convocato in nazionale. La situazione era tragica.


«Io non ci vado» proclamò risoluta Emma.


A pochi centimetri dalla sua mano si abbatté con violenza il pugno del suo allenatore, Tobias Liendermann, che fece tremare il tavolo al quale erano seduti.
«Ti ho forse dato il permesso di rifiutare?»


«Francamente, Tobby, non credo che tu possa avere tutto questo ascendente sulla mia vita»
«Oh, ma posso rendertela molto difficile se non accetti...»


Emma valutò rapidamente quanto potesse risultare estesa la rete di contatti del suo allenatore. Quando sollevò lo sguardo su di lui si accorse che stava ridendo.


Emma si guardò attorno, alla ricerca dell’ispirazione per iniziare una nuova conversazione, ma il pub in cui Tobias l’aveva portata aveva un aspetto massimamente desolante.


Dobbiamo seminare la concorrenza e tenere lontani gli occhi indiscreti, le aveva detto prima con fare cospiratorio, mentre raggiungevano in macchina il luogo dell’appuntamento.


Qui non ci troverà nessuno.


«Tu sai che ti voglio bene, Emma, vero?» riprese lui con fare poco rassicurante. «Ma se ti tiri indietro sarà mia cura spezzarti a una a una le ossa delle gambe...» di nuovo una risata diabolica. Completamente rasato, sulla quarantina, Tobias era uno di quei tipi che si compiacevano delle proprie pratiche di terrorismo, ma fortunatamente le mettevano in pratica di rado.


«Non capisci?» continuò quello, visto che la ragazza si limitava a sorseggiare in silenzio la sua coka-cola light. «E’ stato il destino a toglierci dai piedi Miss Il-mio-doppio-axel-riesce-sempre!»


 A Tobias piaceva appioppare soprannomi alle persone che più gli stavano antipatiche: in questo caso si riferiva ad Eleonora De Rossi, pattinatrice trentina che, nella loro mutua carriera, le aveva ripetutamente soffiato l’ultimo gradino del podio.


«Una vera manna dal cielo! Frattura della caviglia... frattura, dico! Non tornerà in condizione prima del prossimo passaggio di Hale-Bopp!» concluse, sghignazzando sonoramente.


«Non sta simpatica neanche a me, ma non mi sembra giusto...» provò Emma, ma Tobias la interruppe di nuovo.


«E non si è neanche infortunata durante un allenamento... è caduta dai tacchi!» aggiunse, facendo di nuovo risuonare la sua risata inquietante. «Che scema!» proclamò, battendo ancora il palmo sulla tavola.


Qualcuno dai tavoli vicini lo fissò con aria preoccupata.
E’ una brava persona, in fondo provò a suggerire Emma con un sorriso imbarazzato.  


«E l’altra?» riprese Tobias inesorabile, mentre le ultime sorsate di birra cantavano la ninna nanna ai pochi neuroni rimasti ancora svegli.
«Marcella?» giunse Emma in aiuto.


«Miss Fattore-C? Stiramento... Musica per le mie orecchie! Che dico, per le nostre orecchie!»
«Non mettermi in mezzo!» si difese Emma. «Questo affare è tra te e la tua smisurata fame di medaglie!»


«Non che tu me ne abbia mai portate tante»


Quello era un colpo basso. Non se lo sarebbe aspettato da lui.
Un silenzio scomodo cadde fra loro.


«Ero fuori allenamento» replicò piccata Emma, citando le parole che Giovanni le aveva rivolto poche ore prima.


«Scemenze!»


La ragazza serrò gli occhi.
«Non ci hai neanche provato! Sei scesa in pista con le gambe molli!»
Emma lo fissò infuriata.
«Era la prima gara dopo mesi di assenza! Te la sei dimenticata la mia ernia?»


«Quella era un’occasione d’oro!» la rimproverò Tobias. «Il tuo fisico era apposto. Tu non c’eri con la testa!»
La ragazza distolse lo sguardo, ma il suo allenatore non le risparmiò altri commenti oltraggiosi.


«Tu sei debole! Lasci che le tue emozioni distruggano gli sforzi di mesi! Non sai reggere la tensione e ti fai abbattere dalla prima difficoltà!»


Emma si alzò improvvisamente e fece per andarsene, ma Tobias la afferrò per il braccio.
«Che c’è? Non sai neppure trattenere le lacrime?»
«Io non sto piangendo!» esclamò con forza la ragazza, piantando due occhi lucidi in faccia al suo allenatore. «E non sono debole!».



* * *


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Capitolo 3
*** Debolezza ***


Premessa

Ribadisco di non essere un'esperta di questo sport e che questa storia nasce al solo scopo di divertire chi vorrà leggerla!

M.


Tre.

Debolezza




Erano le undici passate quando Emma, con un diavolo per capello, giunse infine al Palazzetto. Non dovette neppure cercare la chiave, solitamente nascosta sotto al grande tappeto antiscivolo collocato ai piedi dell’ingresso: le luci erano accese e sembrava esserci ancora qualcuno all’interno.


Meglio così; questa volta non avrebbero potuto accusarla di effrazione.


Tobias le aveva detto che era debole.


Mai, in tutti gli anni in cui le aveva fatto da allenatore, si era permesso di offenderla così pesantemente. E di cose cattive gliene aveva dette molte: che aveva la grazia di un elefante indiano ed il coraggio di un coniglietto nano; che la balaustra sembrava muoversi più velocemente di lei; che aveva il sedere basso...


Ma non le aveva mai detto che era debole. Come aveva potuto?!


A tutti gli atleti capitavano degli infortuni e, a ben guardare, lei non si era mai lamentata. Aveva affrontato svariati interventi e correlate terapie riabilitative senza batter ciglio; senza mai pensare di rinunciare. Aveva lottato sempre e, anche quando una vocina dentro di lei l’aveva spinta a considerare la possibilità di smettere, aveva deciso di non starla a sentire e di impegnarsi ancora di più.


Tutto questo lo aveva fatto per sé, per la propria carriera di pattinatrice, ma lo aveva fatto anche per Tobias: perché lui non dovesse mai pentirsi di aver scelto lei, in quel lontano primo dicembre di tanti anni prima in cui era venuto al Palazzetto di Feltre, alla ricerca di qualche talento emergente.


Emma raggiunse la pista, scaraventando sul pavimento il borsone con i pattini. Se ne pentì subito ed, estraendo con più cautela le lame, si fermò a considerare quasi con riverenza la bellezza di quell’oggetto che aveva colpito la sua fantasia sin da bambina.


Ricordava perfettamente la prima volta in cui i suoi genitori l’avevano accompagnata a vedere una esibizione di campioni in Germania: per un caso davvero fortunato erano finiti dritti in prima fila, pur avendo acquistato un biglietto dal costo nettamente inferiore.


Erano in vacanza a Monaco e sua madre aveva voluto approfittare dell’occasione per vedere dal vivo le grandi stelle dello sport che tanto l’appassionava e che spesso l’aveva tenuta incollata al televisore.


 Era stata una serata fantastica: la vicinanza con quella magnifica superficie lucida, che le era sembrata tanto vasta a causa della sua statura ancora ridotta, l’aveva subito entusiasmata. E poi c’era il freddo, che proveniva sempre dalla medesima sorgente, ed invitava al movimento: guardando fugacemente gli occhi degli altri bambini presenti come lei all’evento, Emma aveva potuto percepire come tutti loro stessero condividendo il medesimo pensiero: come dovesse essere correre e giocare su quella infinita distesa bianca.


Quando finalmente lo show era iniziato, Emma era rimasta incantata dall’abilità dei suoi protagonisti, tanto belli e leggiadri da sembrare creature del cielo più che della terra.


La decisione di imitarli era stata presa immediatamente, quasi subito dopo il primo triplo axel perfettamente atterrato.


La prima volta che aveva indossato i pattini era stato, però, un vero shock: aveva convinto i suoi genitori ad iscriverla al corso di pattinaggio di figura che si teneva nella sua cittadina e quelli avevano acconsentito subito, desiderosi che la figlia si impratichisse in una disciplina così completa.


Nessuno però sembrava essersi preso la briga di dirle quanto fosse difficile.


Eseguite dai campioni, tutte quelle complicate figure erano apparse semplicissime, quasi naturali; e com’era allora che lei su quelle lame non riusciva neppure a stare in piedi?!


Il primo passo sul ghiaccio le aveva subito provocato una rovinosa caduta, accompagnata da un’immediata inondazione di lacrime che aveva costretto suo padre a portarla in braccio fuori dalla pista.


 Emma aveva giurato a se stessa che non sarebbe mai più tornata al Palazzetto, e invece qualche giorno dopo ci aveva riprovato: poteva anche non essere brava come gli atleti professionisti, ma com’era che tanti bambini della sua età riuscivano a muoversi sul ghiaccio con la stessa facilità con cui avrebbero camminato a piedi nudi su un prato?


Era sicura che, se ci riuscivano loro, poteva riuscirci anche lei. E così erano iniziati gli allenamenti: prima una, due volte alla settimana; poi tre, quattro; fino ad arrivare al punto che era più il tempo passato sui pattini che quello in pantofole.


Un rumore alle sue spalle la riportò improvvisamente alla realtà.
«C’è qualcuno?» domandò subito, alzando la voce.
«Sono io!» rispose Giovanni, affacciandosi dalle tribune. «Sei arrivata, finalmente!».


Il ragazzo corse giù per le gradinate, saltando talora qualche fila di sedili, fino a ritrovarsi a pochi passi da lei.
«Mi aspettavi?» chiese Emma dubbiosa, iniziando ad allacciarsi i pattini.
«Sapevo che saresti venuta»


La ragazza lo fissò attentamente.
«Hai parlato con mia madre».
«Era preoccupata!» si difese subito Giovanni. «Le hai detto solo che avresti fatto tardi, senza farle sapere dove avevi intenzione di andare. Sono stato io a rassicurarla».


Emma entrò in pista, seguita qualche tempo dopo dal ragazzo che aveva a sua volta indossato i pattini.
«Che cosa facciamo?» si informò quello entusiasta. «Salti, trottole, oppure...»


«No» lo bloccò Emma, con determinazione. «Questa volta stai a guardare e mi dici se ti sembro debole



Giovanni la fissò per un istante con un’espressione strana; poi sembrò voler dire qualcosa, ma alla fine decise di lasciar perdere e si ritirò vicino alla barriera.
Emma, dal canto suo, aveva già iniziato il suo riscaldamento. Pochi minuti dopo si lanciò nell’esecuzione delle sue combinazioni preferite, mettendo in ogni salto che affrontava un po’ più di cattiveria rispetto a quello appena completato.


Un tentativo di triplo axel, partito male ma fortemente voluto, la fece cadere malamente sul ghiaccio, lasciandola per qualche istante incapace di muoversi. Giovanni accorse subito e quando la raggiunse la trovò ancora costretta a trattenere il respiro per il dolore.


«Dove ti sei fatta male?» chiese subito, preoccupato.
«L’osso... sacro...!» esclamò la ragazza, lasciando cogliere in ogni sillaba tutta la sua sofferenza.


«Ti posso fare un massaggio!» si offrì volenteroso Giovanni, aiutandola a rimettersi in piedi. «Magari ti passa».


Emma lo spinse lontano, facendogli intuire chiaramente che quella del massaggio era stata una sparata eccessiva.


«Lascia in pace mia sorella, Tontolo!»


Il ragazzo si guardò intorno nervoso, alla ricerca della fonte di quel commento, ma già consapevole dell’identità del nemico che avrebbe dovuto affrontare.


«Quante volte ti ho detto» iniziò tremante di rabbia contro il vuoto «di non chiamarmi in quel modo?»
«Come?» fece di rimando una vocina divertita, ancora lontana. «Com’è che non ti devo chiamare, Tontolo?»


«Ora, basta!» si infuriò il ragazzo. «Vieni fuori, Pulce!»


Una ragazzina dai capelli castani sbucò dal primo ordine di gradinate, introducendosi rapidamente in pista con le sole scarpe da ginnastica.


«Torna indietro!» la ammonì Giovanni spaventato, pur contro la sua volontà. «Ti farai male!»
Per tutta risposta la ragazzina fece un giro e mezzo di trottola, rimanendo perfettamente in equilibrio.
«Visto? Sul ghiaccio sono più brava di te, anche senza pattini!»


«Te la sei cercata...» sibilò Giovanni, gettandosi contro di lei.
La ragazza riuscì a muovere qualche passo, ma Giovanni la raggiunse immediatamente iniziando a farle il solletico e simultaneamente a difendersi dai calci e dai pugni che quella aveva immediatamente iniziato a sferrargli contro.


«Vivi, lascia in pace Giovanni! E’ più grosso di te!» la avvertì infine Emma, che aveva ripreso come se nulla fosse la sua serie di salti.
«Tranquilla, Emma» fece il ragazzo di rimando. «La sistemo e torno» avvertì, sollevando di peso la ragazzina indemoniata che, ciononostante, iniziò a stringergli le braccia intorno al collo.


«Mollalo, Vivi!» fece ancora pigramente Emma.
La sorella alla fine desistette, abbandonandosi a peso morto tra le braccia di Giovanni, che dovette così faticare un bel po’ per trascinarla fuori della pista.


«Tua sorella è pericolosa» proclamò alla fine il ragazzo, quando fu rientrato in pista. «Non avreste dovuto consentirle di dedicarsi all’hockey».
«Mi pare che sia la giocatrice migliore della squadra» gli rispose Emma, alzando un sopracciglio.
«Per forza! Picchia duro come un maschio!»


«Dov’è ora?» chiese ancora la ragazza, eseguendo una spirale con cambio di filo.
«L’ho legata con la mia sciarpa ad una delle docce».

    
«E l’hai aperta?»


«Certo!» esclamò quello, con fare diabolico.



* * *



Non fu semplice rientrare dopo l’una e spiegare ai genitori perché Viviana, che la mattina dopo aveva compito di biologia, fosse fuori dal suo letto e bagnata fradicia dalla testa ai piedi.


«É stato Giovanni» illustrò pacatamente la sorellina. «Ma me la sono cercata» precisò subito, notando lo sguardo assassino del padre.
«Che cosa è successo esattamente?» indagò ancora la madre.
«Nulla! Sono ragazzi...»


La voce di Emma era intervenuta per porre fine alla penosa discussione.
«Mamma, papà... sono quasi le due e Viviana domattina ha una verifica! Forse dovreste...»
«Non fare la sorella responsabile, ora!» ruggì la madre. «Avresti dovuto pensarci prima


«Io ci ho provato» sussurrò la ragazza. «Sono tutti tuoi!»
Salendo in fretta le scale verso la sua camera, Emma fece in tempo ad udire qualche altra battuta.


«... ed era proprio necessario che ti bagnasse anche i vestiti?! Ritieniti fortunata se scampi la polmonite!»
«Mamma!» esclamò Viviana scandalizzata. «Non poteva mica spogliarmi!!»


Eh già. Il ragionamento non fa una piega.
Emma si complimentò mentalmente con la sorella, pur immaginando che i genitori probabilmente non avrebbero condiviso la sua opinione.


Tutto quel sentir menzionare docce e acque le aveva messo sete, ma non aveva la minima intenzione di tornare in cucina. Mentre rifletteva sulla possibilità di raggiungere il rubinetto del bagno senza incontrare sulla sua strada qualche familiare inferocito, si ricordò di aver acquistato nel pomeriggio, poco prima di rientrare a casa dopo il lavoro, una bottiglietta da mezzo litro. Doveva essere da qualche parte nella sua borsa.


Emma svuotò lo zainetto sopra la coperta imbottita, individuando subito l’oggetto dei suoi desideri.


Chiusa. Ancora chiusa. Trattenne un verso di sconforto.  Si avvicinò alla bottiglia e la osservò in cagnesco. «Non ho tempo da perdere con te» sibilò. Il liquido all’interno della plastica trasparente rifletteva l’immagine distorta di un biondino intento ad eseguire un triplo salchow appeso all’anta sinistra del suo armadio.


Si avventò sul tappo con tutte le sue forze. Tirò, svitò, sfregò, agitò, morse... ma quello non si spostò di un millimetro.


Ma por*** miseria! Perché dev’essere sempre così! Gemette Emma che mai in tutta la sua vita aveva avuto la soddisfazione di aprire una bottiglia con le sue mani.


Perché devo essere così...


Aveva in mente milioni di aggettivi, ma il primo che le affiorò sulle labbra fu quello usato contro di lei qualche ora prima da Tobias.


No, io non sono debole. «Io non sono debole» disse ad alta voce rivolta al poster. E lo ripeté pure alla bottiglia, ma questo non le impedì di ripensare alla dolorosa conversazione con il suo allenatore.


Ti sbagli, Tobias Liendermann... Ti sbagli di grosso.


In preda all’agitazione accese il computer, tamburellando nervosa con le dita sulla scrivania mentre attendeva il caricamento di Windows.
Inseriti in fretta i dati utente, si avventò sulla cartella “video”, al ricerca di un file che aveva scaricato qualche tempo prima dalla rete, senza però trovare mai il coraggio di aprirlo.


Canziani_Nazionali**_LP


Riconobbe immediatamente il suo abito candido come la neve con gli intarsi in oro, che rilucevano con forza sulla superficie cristallina della pista. Riconobbe lo sguardo teso di Tobias, inquadrato di striscio dall’operatore. Riconobbe anche il suo di sguardo, che non osava sollevarsi dal ghiaccio.


Emma chiuse gli occhi mentre le prime note della Madama Butterfly si diffondevano nella sua camera. Qualche secondo e si portò istintivamente una mano al fianco, mentre il cuore le batteva all’impazzata. Prima combinazione. Prima caduta.


Non fa niente, pensò stringendo i pugni. Ho tutto il programma davanti.


Doppio axel. No, solo semplice.


Prova ancora, Emmi...


Seconda combinazione. Seconda caduta.


Dio, fa’ che finisca... fa’ solo che finisca presto...


Emma aprì gli occhi. Per qualche istante aveva dimenticato di trovarsi in camera sua. Per qualche istante era tornata sul ghiaccio del Palazzetto di Trento.


La ragazza gettò un’ ultima occhiata allo schermo, che mostrava una layback spin priva di carattere. Interruppe la riproduzione del video e per una volta si ritrovò a ringraziare lo scarso interesse degli italiani per il pattinaggio.


Per fortuna il commento era in tedesco... rifletté. Peccato però che esclamazioni quali «Ahhhh...» e «Ouch!» fossero internazionali.




* * *



Nota dell’autrice

Con “LP” si intende il Long program (programma lungo o libero) che ciascun pattinatore deve preparare come seconda e ultima prova di una competizione. Si distingue dallo Short program (programma corto), di durata inferiore, che si svolge per primo e prevede l’esecuzione di alcuni movimenti obbligatori. 

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Capitolo 4
*** Sincerità ***


Quattro.

Sincerità

 

 

 

La notte non le aveva portato consiglio. Si era rigirata tra le coperte per più di tre ore prima di arrendersi all’idea che non sarebbe riuscita ad addormentarsi. Sconfitta dal suo stesso caratteraccio si era infine alzata quando mancavano pochi istanti all’alba ed era scesa in giardino, per contemplare dal vivo la bellezza del sorgere del sole.

 

 

Quasi senza accorgersene si era incamminata verso la chiesa, senza incontrare sul suo percorso anima viva: forse fu proprio questo pensiero a guidarla istintivamente verso un luogo che non era abituata a frequentare, ma che in quella gelida mattina di metà gennaio sembrava inspiegabilmente chiamarla. Era giunta alle porte del cimitero del paese quando ormai la luce si era fatta più intensa intorno a lei ed i colori ancora grigi del cielo erano pronti ad annunciare una giornata piuttosto soleggiata.

 

 

Chiuso. Ovvio che fosse chiuso. Sia perché quella mattina gli astri, evidentemente d’accordo con quelli della notte, non sembravano esserle particolarmente favorevoli, sia perché in fin dei conti erano pur sempre le sei del mattino.

 

 

E adesso? Emma si guardò attorno e decise di accomodarsi su di una panchina rossa vicino all’entrata. Si sedette sullo schienale, appoggiando i piedi infreddoliti sul legno ancora umido di rugiada. Perché era venuta? Emma non lo sapeva. O forse lo sapeva, ma se ne vergognava. Chissà cosa sperava... Quello non era certo il luogo adatto per trovare delle risposte, ma per molte persone si rivelava spesso il posto migliore per porre delle domande. E lei ne aveva tante.

 

 

Chiuse gli occhi e immediatamente i suoi pensieri formularono nella mente l’immagine di un vestito nero, impreziosito di strasse e paiette, elegantissimo. Ed il ricordo della donna che lo aveva indossato si abbatté su di lei con la forza di un tornado: fu come essere risucchiata in una trottola centrata male... la stessa energia, la stessa sensazione di vertigine, la medesima certezza di cadere...

 

 

E pianse. Pianse fino a quando gli occhi non le bruciarono per il bagliore del sole, finalmente alto nel cielo.

 

 

 

***

 

 

 

Con fatica lasciò la panchina e si rimise in piedi. Guardò l’orologio. Le sette e mezza. Non mancava poi molto all’apertura del cimitero. Emma fissò la porta sbarrata per qualche istante ancora, incerta sul da farsi. Poi si allontanò a passi svelti, dirigendosi rapida verso l’unico luogo che se possibile l’avrebbe fatta sentire ancora peggio.

 

 

Arrivò quando le finestre erano ancora chiuse e le veneziane abbassate. Peccato. Da un certo punto di vista avrebbe desiderato che Tobias la vedesse in quello stato. Che potesse infine contemplare la sua reale debolezza in tutta la sua profondità ed in tutta la sua disperazione. Se avesse potuto vederla in quel momento il suo allenatore forse avrebbe avuto modo di accorgersi di un particolare che sino ad allora gli era sfuggito: che la sua debolezza era per lei una incredibile fonte di energia. Di forza. Perché Emma ne era sicura: se avesse indossato i pattini in quel preciso istante, sarebbe stata in grado di realizzare il triplo axel meglio riuscito della storia di questo sport.

 

 

Le otto. Ancora nessun movimento. A quanto pareva Tobias se la prendeva comoda la domenica mattina. Seduta sul cofano della macchina del suo allenatore, ancora luccicante dopo il recente acquisto, Emma non riusciva a staccare gli occhi rossi dalle finestre dell’interno 5B.

 

 

Andiamo... sussurrò a mezza voce.

 

 

L’antifurto della vettura parcheggiata accanto a quella di Tobias scattò all’improvviso, facendola trasalire. Emma si allontanò dalla macchina, fissando imbronciata le finestre che non accennavano ad aprirsi. Infilò le mani in tasca per ripararle dal freddo pungente: ancora una volta aveva dimenticato a casa i guanti. E rimase in attesa.

 

 

Qualche tempo dopo – forse dieci minuti, forse un’ora – la persiana della camera da letto di Tobias si alzò. Il volto assonnato del suo allenatore fece capolino da dietro il vetro e guardò dritto verso di lei. La scorse immediatamente. Non che fosse difficile, con la strada ancora praticamente deserta.

 

 

Ma la gente non va a comprare il giornale stamattina?! si ritrovò a pensare Emma, puntando i suoi occhi infuocati contro quelli un po’ perplessi di Tobias. L’uomo rimase immobile per qualche istante. Difficile cogliere appieno la sua espressione a quella distanza, ma Emma avrebbe potuto affermare con sufficiente certezza di non averlo visto muoversi per un bel pezzo.

 

 

Restò lì a guardarla. A lungo. Così a lungo che le fece quasi rimpiangere di essere venuta. Poi si allontanò dal balcone, lasciando la ragazza in preda ad un atroce dubbio: stava forse venendo a parlarle?

 

 

Istintivamente Emma indietreggiò di qualche metro. Attraversò di corsa la strada per porre un ostacolo tra lei e quell’incontro che non era più tanto sicura di desiderare.

 

 

Qualche minuto più tardi Tobias sbucò dal portone del condominio, il pigiama a righe che fuoriusciva impietoso dalla giacca a vento. Aveva una tazza in mano. Probabilmente era caffé. La adagiò senza premura al gradino più alto che si protendeva verso il marciapiede e, gettata una rapida occhiata verso di lei, tornò dentro.

 

 

Emma attese ancora un po’. Quando fu sicura che il suo allenatore non sarebbe uscito di nuovo, tornò ad avvicinarsi all’edificio. Contemplò con sentimenti misti la tazza, che effettivamente era colma di caffé fumante. Poi scorse la neve, che giaceva ancora fresca nel piccolo rettangolo d’erba che faceva da cornice ai parcheggi. E scelse il piede a cui solitamente si affidava più volentieri per le sue spirali.

 

 

Incurante del freddo, che le sue vecchie scarpe da ginnastica mal riuscivano ad isolare, tracciò attentamente una scritta, disegnando quelle due semplici lettere con la perizia di un Mandarino.

 

 

NO.

 

 

 

***

 

 

Qualche ora più tardi era alla Medaglia. Prima ancora di capire esattamente che cosa aveva intenzione di preparare si ritrovò coperta di farina fin sopra i capelli e con il grembiule sporco di lievito. Giovanni scese appena in tempo per vederla imbrattarsi le maniche della camicetta nuova con la pastella d’uovo.

 

 

«Ti sei svegliata presto!» commentò divertito, tenendosi a debita distanza dal bancone ricolmo di ingredienti.

«E di buon umore...» aggiunse, notando che la ragazza non accennava a rispondere.

«Che fai?»

Giovanni aveva deciso di insistere; la sua tenacia venne infine premiata quando Emma puntò lo sguardo su di lui e accennò un sorriso.

 

 

«Aspetto l’ispirazione»

«E non è che finché aspetti potresti cucinarmi, che so, una crostata?»

Emma gli si avvicinò per passargli le presine.

«É già in forno. Fra qualche minuto sarà pronta»

 

 

«Wow!» esclamò Giovanni entusiasta. «Sei proprio una donna da sposare!»

«Faccio solo il mio lavoro»

Emma era già sulla difensiva, ma il ragazzo decise comunque di tentare.

«Dunque non l’hai preparata appositamente per me?!»

Per tutta risposta la bella pasticcera gli indicò con il mestolo il menu appeso alla cappa del fornello, che effettivamente recava la scritta esplicativa: «Crostata di frutta per lunedì».

 

 

«Tanto mi piaci lo stesso...» sussurrò ancora Giovanni.

«Ora basta

 

 

Lo strillo di Emma rimbalzò contro le piastrelle della cucina. Il ragazzo la fissò quasi spaventato: si conoscevano da quando erano bambini e mai prima d’ora l’aveva sentita alzare la voce.

 

 

«Emma...» iniziò mortificato «... Io stavo scher...».

«Per l’amor del cielo, Giovanni!» lo interruppe lei, sempre più arrabbiata. «Magari fosse tutto uno scherzo! Lo sai come stanno le cose e sai anche che non sono una persona che cambi idea facilmente. Anzi non la cambio mai. E la mia risposta è no. Sarà sempre no, da adesso ai prossimi cinquant’anni!»

 

 

Si fermò solo perché era rimasta senza fiato. Osservò le mani, che avevano iniziato a tremarle, mentre gran parte della marmellata di fragole era colata dalla punta del mestolo al pavimento.

 

 

Giovanni la fissava avvilito, senza riuscire a spiccicare parola. Poi sembrò riscuotersi; chiuse gli occhi con forza e quando li riaprì la sua espressione era decisamente amareggiata. Uscì dalla porta prima ancora di averle dato il tempo di realizzare quanto era accaduto.

 

 

 

***

 

 

«Stai bene?»

La voce di Carlotta suonava appena preoccupata. L’amica le aveva fatto una sorpresa e l’aveva raggiunta in cucina dopo la Messa delle undici. Non che fosse di grande aiuto, in realtà; la sua presenza era più che altro d’intralcio, considerata la sua naturale propensione al disordine.

 

 

«Mai stata meglio» assicurò Emma, rimettendo a posto la crema pasticcera che Carlotta aveva tirato fuori dal frigo per assaggiarla.

«Sarà...» concesse l’amica, fin troppo meditabonda per non lasciar presagire una replica. «Ma ch’hai una faccia...»

 

 

«Ha litigato con Tontolo!» si intromise Vivi, facendo capolino dalla dispensa.

«E tu da quanto sei qui?»

Quella ragazzina ha il dono di rendersi invisibile, pensò Emma.

«Perché hai litigato con Giovanni?» chiese Carlotta interessata, ignorando la domanda dell’amica.

 

 

«Non abbiamo litigato» chiarì Emma.

«Oh sì, invece!»

Viviana si era accomodata vicino al bancone e stava ripulendo il vasetto di Nutella che Emma aveva impiegato per farcire i bigné.

 

 

«E tu come lo sai?» domandò ancora Carlotta.

«Ho incontrato Tontolo!»

«Vi vedete spesso voi due, vero Pulce

La voce di Emma emerse dal frigorifero poco prima della sua testa.

 

 

«Ti rendi conto che il tuo è un tentativo patetico – e peraltro inutile – di stornare la nostra attenzione dalla questione principale?» fece pedantemente Carlotta.

«E cioè?»

Le due ragazze si fissarono esasperate, costringendo Emma a trattenere la prima risata della giornata.

«Il tuo litigio con Giovanni!» esclamarono in coro.

 

 

Emma capì di non avere scampo. Avrebbe dovuto confessare, almeno in parte, che erano nel giusto. Per certi versi la infastidiva un po’ questa invasione nella sua privacy, ma d’altro canto quelle erano le sue migliori amiche ed avevano diritto di sapere che cosa le capitava.

 

 

«Che cosa ti ha detto, esattamente?» domandò alla sorella.

«Non lo sottovalutare, Emma» disse Viviana seriamente, lasciandole di stucco. «É un bravo ragazzo. Non ha aperto bocca, ma io lo conosco: non lo avevo mai visto così giù. Neppure quando siamo stati eliminati in semifinale».

 

 

Accidenti! Ora sapeva di aver esagerato. Una fastidiosa sensazione simile al rimorso le avvolse lo stomaco.

 

 

«Vado e torno»

 

 

Le ragazze la fissarono senza capire.

 

 

«É al palazzetto, vero?»

«Sì, ma...» iniziò Viviana. «Le torte, qui...»

 

 

«Vado e torno» ripeté Emma, togliendosi di dosso il grembiule impiastricciato.

 

 

 

***

 

 

Giovanni era effettivamente al Palazzetto. Circondato dai suoi compagni di squadra, stava illustrando loro gli schemi di gioco che aveva preparato insieme a Viviana durante la settimana. Già dalle gradinate Emma ebbe modo di scorgere il suo sguardo abbattuto e le spalle curve, che stridevano apertamente con il suo aspetto consueto.

 

 

Lo raggiunse a bordo pista in un baleno e prima che lui o qualcuno dei suoi compagni potesse comprendere cosa stava facendo, lo abbracciò stretto, facendolo arrossire violentemente. Rimase così qualche istante, senza che Giovanni riuscisse neppure a ricambiare l’abbraccio.

 

 

«Scusami» mormorò in modo che solo lui potesse udirla.

Il ragazzo annuì lentamente, ancora scombussolato.

Poi la seguì all’esterno, lontano da occhi indiscreti.

 

 

«Non posso rimangiarmi quello che ti ho detto stamattina» spiegò Emma, faticando leggermente ad affrontare lo sguardo dell’amico.

«Penso veramente che non ci siano possibilità per... per noi due» si sforzò di ribadire. «Ma non avrei dovuto gridare. Ti chiedo scusa».

 

 

Giovanni le prese la mano e gliela strinse forte.

«Cercherò di farmene una ragione»

«Grazie»

«Ma siamo amici, vero?» si informò il ragazzo.

«Sei il mio migliore amico!» assicurò Emma con un sorriso.

 

 

«E in quanto tuo migliore amico» riprese Giovanni «me lo diresti se fossi innamorata di qualcuno, giusto?»

Più che una domanda sembrava una minaccia.

«Non c’è nessuno, te l’assicuro...»

«A parte Straviskij...» protestò Giovanni.

Questa volta Emma rise apertamente.

«Naturale, a parte Straviskij!»

 

 

«Non ti offendi se ti dico che anch’io ti preferisco Jessica Alba» le confessò il ragazzo, passandole un braccio attorno alla vita.

«A me basta che questo braccio» puntualizzò Emma avviandosi verso la pasticceria «non si prenda troppe libertà!»

«Mi permetti di accompagnarti?»

Emma acconsentì volentieri.

 

 

***

 

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Capitolo 5
*** Rischio ***


Cinque.

Rischio

 

 

 

La giornata alla Medaglia non era stata delle più tranquille. I clienti si erano ammassati attorno al bancone sin dall’ora di colazione e la ressa non aveva fatto che aumentare fino all’ora dell’aperitivo, quando aveva raggiunto il culmine. Festa nazionale, lì al paese, perché quel giorno ricorreva l’anniversario del Patrono. E tutti ne approfittavano per riempirsi la pancia di dolci e di spritz, a seconda dell’ora.

 

 

Emma aveva soddisfatto l’appetito delle persone più disparate. Dal nuovo parroco al suo macellaio di fiducia, passando per la signora dell’edicola e la parrucchiera da cui aveva smesso di andare qualche anno prima. Il massimo era stato preparare un green tea alla sua professoressa di inglese delle scuole medie, che l’aveva ringraziata con un significativo «Thank you very much», a cui aveva risposto con un pronto «You’re welcome, prof.».

 

 

Il momento più spiacevole era stato sicuramente quello in cui aveva dovuto servire Mirko e la sua nuova fidanzata, che non aveva neppure avuto la decenza di tentare di nascondere il sorriso trionfante che le si era dipinto sul volto non appena l’aveva scorta china sul pavimento, intenta a ripulire una pozza di latte macchiato provocata da un cliente distratto.

 

 

«Allora...» aveva provato Mirko, un po’ in imbarazzo.

«Allora...»

«Pattini ancora?» si era informato, mentre Francesca faticava a scegliere che cosa volesse gustare tra una pastina di riso e una di ricotta.

«No»

«No?»

«No»

«É un peccato. In fondo eri brava»

 

 

Grazie della concessione, vile adultero!

 

 

«Non abbastanza» rispose solo.

«Magari allenandoti di più...»

Emma sgranò gli occhi. Ma come osava? A quanto le aveva sempre detto, Mirko l’aveva mollata proprio perché si allenava troppo.

 

 

Qualcuno qui è decisamente ipocrita...

 

 

«Ho deciso!» proclamò all’improvviso Francesca, salvando il suo neofidanzato da una spruzzata di panna montata sul giaccone nuovo, che Emma era abbastanza sicura di riuscire a far passare per un errore del tutto involontario.

 

 

«Voglio quella alla ricotta!» ordinò risoluta.

Emma sorrise di soddisfazione.

«Mi rincresce, ma non puoi averla»

«Perché no?»

«Perché ne è rimasta una soltanto e tutti qui alla Medaglia sanno che l’ultima pastina alla ricotta della giornata è da sempre riservata alla vecchia signora Luisa».

Già. La vecchia signora Luisa, la bidella storica della scuola del paese.

«Ma non si potrebbe, insomma, per una volta... fare una eccezione?» tentò ancora Francesca.

 

 

Emma cercò prontamente lo sguardo di Giovanni, che trattenendo a stento una risata, richiamò l’attenzione dei presenti dichiarando a gran voce: «Ehi, gente! La Francesca, qui, vorrebbe derubare la vecchia signora Luisa della sua pastina quotidiana!»

Un basso mormorio di disappunto avvolse l’usurpatrice, che non se la sentì più di reclamare privilegi che non poteva vantare.

 

 

Dopo le sei i clienti avevano iniziato a ritirarsi, lasciandola sola con il suo compito di ripulire a fondo il locale. Dopo un’oretta di detersivi per i pavimenti e di prodotti per il marmo di Verona del bancone, appese all’attaccapanni della cucina il grembiule. É ora di tornare a casa, si disse con un sospiro.

 

 

Passò davanti al Palazzetto e non poté fare a meno di sbirciare in direzione dei colossali finestroni che si aprivano sulla via principale. L’interno era illuminato, segno evidente che qualche pratica sportiva era ancora in corso. Si ricordò che al martedì gli allenamenti della squadra di hockey si svolgevano in notturna. Qualcuno salterà lo sformato della mamma stasera, pensò, immaginando il disappunto di Viviana. Del resto solamente il mese prima sarebbe stata costretta a rinunciarvi anche lei. Le tornò subito alla mente il pranzetto coi fiocchi cucinato dalla madre per l’Immacolata, che lei non aveva neppure potuto assaggiare.

 

 

Ma ora i tempi di rinunce e privazioni erano definitivamente terminati. Aveva detto di no. La sua era una decisione irrevocabile. Ed incredibilmente saggia. Poco importava che continuasse ad allenarsi quasi ogni sera. Ancora meno che, senza la pressione di una competizione imminente, non avesse mai pattinato così bene. Con profondo stupore si era infatti accorta di aver recuperato tutti i suoi salti, compresi quelli tentati nell’ultimo disastroso libero. E ne aveva aggiunti degli altri. “Consolidati” è il termine esatto, ammise rivolta a se stessa, li sapevi fare anche prima, ma non ti sentivi pronta a rischiare.

 

 

Già. Emma camminava veloce alla volta di casa, cercando di scacciare dalla mente le fastidiose immagini degli ultimi campionati a cui aveva partecipato. Non si era mai vergognata tanto in vita sua. Aveva sbagliato praticamente tutto quanto poteva sbagliare. No, non tutto: le sequenze di passi si erano salvate, ma la loro intensità era stata quanto meno discutibile. Non c’era stato sentimento nella sua Madama Butterfly; non c’era stato dolore. Eppure ne aveva tanto dentro in quel momento; ma non era riuscita a convertirlo in energia. Ora sapeva che se non c’era riuscita non era per debolezza, come sosteneva ingiustamente Tobias, ma per pudore: per trasformare il dolore in forza agonistica devi accettare di tirarlo fuori e mostrarlo; devi lasciare intuire al pubblico che quella particolare scintilla che brilla nel tuo sguardo proviene da sentimenti veri e che non fa solo parte della coreografia.

 

 

Emma non lo aveva accettato. Non aveva potuto. Odiava i compromessi da sempre e non sopportava di doversi mettere a nudo. Neanche la vittoria avrebbe potuto ripagarla di quanto avrebbe dovuto rivelare. Quella parte di lei era bene che rimanesse nascosta dentro di sè, dove la stessa Emma avrebbe fatto fatica a trovarla.

 

 

Immersa in questi metafisici pensieri, raggiunse in poco tempo il cancello del suo condominio. Fu solo una sensazione, ma la colpì dritta allo stomaco. Qualcosa non quadrava. Davvero. Non era solo paranoia. C’era qualcosa che la infastidiva, ma non sapeva cosa. Si guardò attorno e finalmente lo distinse, l’intruso. Una vettura rossa fiammante era parcheggiata accanto all’utilitaria dell’inquilino del primo piano. Non l’aveva mai vista prima e si poteva dire che frequentava quel parcheggio da parecchio tempo. A chi mai poteva appartenere? Chi dei condomini possedeva un amico tanto alla moda (e tanto dotato di mezzi)?

 

 

Qualcuno le aprì il portone prima ancora che si mettesse alla ricerca delle chiavi. Giovanni apparve dal balcone della sua cucina e le fece cenno di aspettarlo di sotto. La situazione è surreale... pensò Emma, che non riusciva a liberarsi di quella bizzarra sensazione.

 

 

«Ho provato ad impedirlo, Emma» le sussurrò Giovanni che l’aveva raggiunta ai piedi delle scale. «Ho provato a tenerlo fuori di casa tua! Ma i tuoi hanno aperto» spiegò, senza che la ragazza riuscisse comunque a venire a capo del problema.

«Ma tu non dovresti essere all’allenamento?» chiese solo, cercando di riprendere contatto con la realtà.

 

 

«Non ti hanno sentita arrivare...» continuò l’amico senza preoccuparsi di risponderle. «Forse fai in tempo ad andartene...»

«Ma questa è casa mia

«Fidati, se sali quelle scale te ne pentirai...»

 

 

Ok, era ufficiale: l’agente Smith aveva appena fatto irruzione nel suo appartamento...

 

 

«Se non ti spiace, scelgo la pillola rossa» citò, affrontando i primi gradini.

 

 

No, non era l’agente Smith. Ma nel suo salotto c’era effettivamente uno sconosciuto. Il tale le si avvicinò sussiegoso, non appena la vide varcare la soglia del suo appartamento.

«La signorina Canziani, immagino» le disse stringendole la mano. «Bellissima postura» si congratulò.

 

 

Non si preoccupò di conoscere l’identità del nuovo venuto. La sua attenzione fu subito catturata dagli altri ospiti che riempivano i suoi due sofa. C’era la sua famiglia, com’era naturale. Compresa Viviana, che aveva saltato gli allenamenti. Ma c’erano anche Tobias e la sua coreografa, Maristella Soldin.

 

 

Ommmiodddio... tutti insieme parevano gli Addams senza Mano.

 

 

Fu la madre la prima a prendere la parola, per spiegarle che il signore in jeans firmati e Lacoste nera era Castellano della Federazione.

«Sarebbe un piacere averla nella nostra squadra... un onore vederla gareggiare con i colori azzurri... un’occasione irripetibile... un dovere accettare...»

Parole vuote, prive ormai per lei di un vero significato, a cui tuttavia decise di rispondere per le rime.

 

 

«Primo: se mi riempie di complimenti è solo perché le atlete più alte di me in classifica hanno dato forfait. Secondo: all’azzurro ho sempre preferito il rosa. Terzo: di irripetibile vorrei ci fosse solo la figuraccia che ho fatto ai Nazionali»

 

 

Il salotto sprofondò in uno scomodo silenzio.

«Ottimo...» commentò incerta Viviana. «E cosa c’è stasera per cena?»

Giovanni, che si era accomodato al suo fianco, le tirò un pizzicotto.

Non una parola dai suoi allenatori. Maristella era impegnata a mettere in mostra il suo incredibile corpo di quarantenne, che tuttavia sembrava non suscitare l’ammirazione di Castellano. Tobias appariva alquanto infastidito. Eppure per un attimo, quando lei aveva sfidato il delegato, le era sembrato divertito, se non addirittura compiaciuto.

 

 

Un momento... si disse Emma, a cui il nome di Castellano non sembrava più tanto sconosciuto. Salvatore Castellano... Ma certo! Si diede della stupida. Come aveva fatto a dimenticarlo?! Lui e Tobias erano stati acerrimi rivali. Beh, qualche annetto prima. Se la sua memoria non faceva di nuovo cilecca Castellano aveva derubato Tobias di una medaglia piuttosto importante e lui non l’aveva mai perdonato.

 

 

Ora sarò costretta a trattarlo con maggior rispetto...

 «Signor Castellano» disse perciò con una nuova cortesia «sono lusingata della sua proposta; considerato soprattutto il grande campione da cui proviene...»aggiunse, gettando un’occhiata impudente a Tobias. «Ma temo di dover rifiutare. Anzi, ne sono sicura».

 

 

«Signorina, la prego di riconsiderare la sua posizione. Le stiamo offrendo di partecipare ai Mondiali!»

Castellano sembrava intenzionato ad insistere.

 

 

«Comprendo il privilegio, ma ho smesso di pattinare ormai...»

«L’ho vista sul ghiaccio non più di un mese fa...»

«Da allora non mi alleno più...»

Tobias emise uno strano verso, che cercò subito di camuffare con un colpo di tosse.

 

 

«Forse il suo allenatore potrebbe riuscire a convincerla a non buttare via questa occasione» continuò il delegato, invitando con lo sguardo Tobias a dire la propria.

«Lascia stare, Castellano, è testarda come un mulo!»

 

 

Questo era troppo. Le aveva detto che era debole e ora la offendeva pure davanti agli estranei. Basta...

«Per me la discussione finisce qui» annunciò, avviandosi verso la sua camera. «Mi spiace che lei abbia fatto tutta questa strada, signor Castellano, ma non ho intenzione di accettare»

 

 

Castellano guardò verso i suoi genitori, pregandoli di intervenire ma suo padre, che era rimasto in silenzio per tutta la durata della conversazione, si intromise categorico: «Emma è abbastanza grande per fare da sola le sue scelte».

 

 

 

***

 

 

 

Emma si rifugiò in camera sua quando ancora il salotto non si era svuotato dei suoi ospiti invadenti. Non ci poteva credere. Non ci voleva credere. La Federazione era arrivata fino a casa sua; più che Matrix, questo le riportava alla mente il Grande Fratello. Infastidita, si guardò attorno, per controllare che nessuno avesse installato vicino al comò un televisore che non si poteva spegnere.

 

 

Apparentemente era tutto tranquillo. Il pigiama e i calzini da notte giacevano ancora sparpagliati sopra le coperte che attendevano di essere riordinate. La felpa che indossava solitamente per casa riposava capovolta sulla sua scrivania, accanto alla cintura con i fiocchetti argentati che sua sorella doveva averle restituito dopo averla usata senza il suo permesso.

 

 

Ripose il pigiama nel cassetto più basso dell’armadio, chiudendone con attenzione le ante. La zazzera di un biondino dagli occhi color del cielo parve scuotersi insieme allo spostamento d’aria, inducendola ad ammirare ancora una volta la perfezione tecnica nella fase aerea del suo salchow.

 

 

Appoggiata con le spalle contro il legno, allungò una mano fino a sfiorare la coppa di metallo sistemata nell’angolo della mensola, da cui fuoriuscivano numerose medaglie di svariate forme e colori. Ricordava quasi tutte le gare per cui era stata premiata, soprattutto le prime, accompagnate da un entusiasmo sincero che poi con il tempo si era affievolito, fino a scomparire quasi del tutto. Ricordava la sorpresa provata nelle occasioni in cui era riuscita a piazzarsi fra le migliori.

 

 

Tobias la trovò così, mentre stringeva in pugno il bronzo ottenuto ai Nazionali dell’anno prima. Il suo miglior risultato.

 

 

«Questa è quella parte del mio mondo di cui tu non fai parte» lo rimproverò acre la ragazza, fulminandolo con lo sguardo. «Non mi piace che il mio ex allenatore» (sì, lo aveva detto appositamente) «scorrazzi indisturbato per camera mia!»

 

 

Inutile. Vedere la figura possente di Tobias entro lo spazio esiguo della sua stanza la metteva in imbarazzo. Non era solo per il disordine che vi regnava sovrano, per il quale tra l’altro sarebbe stata ampiamente presa in giro; era più per un fattore di privacy violata: non solo infatti Tobias era un uomo, ma era anche una specie di superiore, di capo con cui tratteneva rapporti abbastanza formali, nonostante si conoscessero da quasi una vita. Ed Emma desiderava che quei rapporti non subissero alterazioni.

 

 

«Preferirei che tu continuassi a rimanere fuori da questa parte del mio mondo» ribadì, alzando impercettibilmente il tono di voce al momento della pronuncia dell’avverbio di luogo.

 

 

«Carina la fotografia...» commentò Tobias, gettando uno sguardo divertito verso l’armadio. «E da quando lui fa parte del tuo mondo?!» la sbeffeggiò.

«Lui è di carta» replicò asciutta.

 

 

I due rimasero un istante a fissarsi ostinati, fino a quando gli occhi di Tobias scorsero ciò che la ragazza teneva fra le mani.

«Per quanto mi riguarda, la puoi tenere!» strillò Emma, scagliandogli contro la medaglia. «É l’unico trofeo che ti ho portato, no?!»

Tobias non raccolse la provocazione; si chinò a recuperare il disco di bronzo che era atterrato sul pavimento e lo risistemò sulla mensola, avvicinandosi lentamente ad Emma.

 

 

«Che cosa facevi?» chiese cauto, quasi a voler avviare una civile conversazione.

«Scrivevo in Google il tuo nome...» rispose svelta Emma. «Giusto per controllare il tuo palmares...».

Aveva mentito spudoratamente: lo schermo del suo pc era spento; ma Tobias sapeva esattamente dove voleva andare a parare.

«E allora?» la sfidò.

«E allora» si inalberò lei «neanche tu  hai mai fatto grandi cose!»

 

 

E così lo aveva detto. Emma abbassò lo sguardo, incapace di sostenere l’occhiata colma di indignazione che le rivolse il suo allenatore. Fino a qualche mese prima non si sarebbe mai permessa di esprimere simili giudizi; probabilmente non avrebbe neppure osato pensarli, fiduciosa com’era nella comprensione della persona con cui trascorreva gran parte della sua giornata. Quell’ultimo commento aspro era semplicemente un atto di ribellione di fronte all’atteggiamento ingiusto di Tobias, che non aveva saputo appoggiarla nel momento in cui aveva avuto davvero bisogno di lui e con la sua inflessibilità aveva addirittura acuito il  suo innato senso di insicurezza e la sua solitudine.

 

 

Naturalmente lui non aveva capito: il dubbio di essersi comportato in maniera crudele non lo aveva mai nemmeno sfiorato ed ora se ne stava lì a fissarla adirato, come se fosse stata lei a ferirlo. Come se fosse stata tutta colpa sua.

 

 

Emma si impose di sostenere il suo sguardo. Quegli occhi, dai quali aveva sempre cercato approvazione, ora avevano smesso di determinare la differenza tra ciò che era giusto e ciò che era sbagliato. Nell’ultimo, intenso periodo aveva finalmente compreso che Tobias andava consultato solo per le questioni tecniche e strettamente professionali e che a quelle private avrebbe dovuto pensare da sola. Lui non era suo amico, e mai lo sarebbe diventato. Era il suo allenatore, o così era stato per tanto tempo, e lei doveva imparare a tenere in considerazione la sua opinione solo per ciò che riguardava il ghiaccio, senza lasciarsi condizionare dal suo brutto carattere e dai suoi giudizi affrettati nella vita quotidiana. Essere stato un buon allenatore non lo rendeva una persona dolce o affabile, almeno quanto l’interessamento dimostrato da Mirko quel pomeriggio per la sua sorte non lo rendeva un gentleman.

 

 

Ciononostante non riusciva a liberarsi completamente dal senso di colpa che l’aveva assalita non appena aveva pronunciato quel commento, solo pochi istanti prima, che – se ne era accorta – l’aveva fatto trasalire.

 

 

Per un attimo pensò che se ne sarebbe andato sbattendo la porta e che non l’avrebbe mai più rivisto se non, forse, all’uscita dalla Messa domenicale. Invece Tobias la sorprese.

«Vèstiti, ti aspetto giù».

Calmo. Eppure non sereno. Emma aveva percepito una nota di impazienza nella sua voce e certo non riuscì a nascondere la sua sorpresa.

«Come, prego?!»

«Mettiti il cappotto!» ordinò Tobias, scandendo bene le parole.

«Per andare dove?!»

La sua confusione era evidente.

«Miseria, Emma, ti serve una richiesta su carta da bollo per aprire l’armadio e ficcarti su una roba di lana?!»

 

 

Ok. Ancora incerta, la ragazza indossò il piumino rosa che giaceva abbandonato sulla cassapanca.

«Certo» puntualizzò con aria superiore, «aiuterebbe molto sapere dove hai intenzione di portarmi».

Questa volta fu il turno di Tobias di guardarla sconcertato.

«Non hai ancora capito che esiste un solo posto in cui possiamo continuare questa discussione?!»

 

 

 

***

Nota dell'autrice

Rieccomi! Sono tornata! ^  ^
Chiedo scusa per l'enorme ritardo nell'aggiornamento ma è stato un periodaccio; in più ho avuto diversi problemi con il mio account, che al momento sembrano felicemente risolti! ;)
Chi di voi vorrà leggere questa storia dovrà avere parecchia pazienza, però: l'aggiornamento sarà abbastaza lento... chiedo perdono sin da ora!

Un grazie di cuore a Lady_me per la sua recensione! Se oltre a lei ci fosse anche qualche altro lettore... beh, si faccia sentire! =)

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Capitolo 6
*** Confronto ***


Sei

Confronto

 

 

 

La strada fino al palazzetto le sembrò interminabile. Camminare al fianco di un Tobias profondamente incollerito non era certo una bella esperienza: l’allenatore non fece altro che sbuffare sonoramente per tutto il tragitto, costringendola quasi a trattenere il respiro per evitare di irritarlo inavvertitamente.

 

 

La squadra di hockey al completo si voltò al loro ingresso.

«Hei!» si lamentò uno dei ragazzi. «Il campo è nostro, stasera!»

«Fuori dai piedi, mocciosi!» tuonò subito Tobias, senza lasciare spazio a repliche.

«Possiamo almeno guardare?» domandò timidamente Giovanni, che si era fatto più vicino e studiava in modo interrogativo Emma.

«Non credo sarebbe una buona idea» sussurrò la ragazza all’amico, invitandolo con uno sguardo preoccupato a lasciare la pista.

«Sei sicura che non vuoi che rimanga?»

La voce di Giovanni risuonò attraverso le gradinate attirando l’attenzione di Tobias.

«Che ci fai ancora qui?!» sbraitò. «Questa sera ci siamo solo io ed Emma.»

 

 

Ottimo. Pochi giri di pista e lei era già finita a terra tre volte: due per cause imputabili alla sua disattenzione ma una, senza ombra di dubbio, alla scorrettezza di Tobias, che l’aveva spinta quando lei gli voltava le spalle. Sembrava che tutti quegli anni lontani dal ghiaccio avessero alterato la sua percezione dello spazio, tanto che ora aveva bisogno dell’intera superficie ghiacciata per portare alla giusta temperatura i suoi muscoli vegliardi.

 

 

«Ahia!» si era lamentata Emma, quando una manata di Tobias le aveva fatto perdere l’equilibrio.

«Scusa!» aveva ironizzato lui. «Sei sempre in mezzo.»

 

 

Se non aveva capito male, l’idea di Tobias era piuttosto semplice. Una sfida a base di salti. Chi ne esegue di più e di più difficili vince. Naturalmente le aveva offerto la possibilità di rifiutare, ma in quel caso, non le avrebbe mai più permesso di dimenticarlo. E poi perdere la faccia davanti a lui, dopo tutte le offese che le aveva rivolto nell’ultimo periodo, era fuori discussione.

 

 

«Allora, signorina» iniziò Tobias, dopo aver finalmente completato il suo riscaldamento, «vediamo cosa sai fare».

«Non mi alleno da più di un mese, lo sai» si difese.

«Il custode dice che tu passi tutte le tue serate sul ghiaccio.»

«Con scarso impegno e blandi risultati.»

«Dice anche che fai 60-70 tripli per ogni ora.»

Al diavolo il custode! Come faceva a sapere tutte quelle cose?! Lei in pista non lo aveva mai visto.

 

 

«Dimmi, Tobias, qual è stato il tuo miglior piazzamento ai Nazionali?» lo attaccò di rimando. «Io almeno ho vinto un bronzo!»

«Quale onore!» ironizzò lui. «Sai, quello italiano non è esattamente come il campionato americano! E per la precisione» aggiunse poi, «io ho vinto un argento agli Europei!»

«E questo è successo prima o dopo l’invenzione delle lame?!»

 

 

No. Non poteva durare a lungo. Erano in pista da mezz’ora scarsa ed Emma aveva già rischiato di rompersi il femore cinque volte. Per non parlare delle ossa di Tobias, che scricchiolavano ad ogni trottola. Avevano già eseguito spericolati loop, flip e toeloop con rotazioni variabili, ma nessuno dei due accennava ad esporre bandiera bianca. E non mancavano gli sfottò.

 

 

«Non vale!» si arrabbiò infatti Emma. «Quello era il sesto toeloop di fila, per di più doppio! Devi cambiare salto!»

«Andiamo, buona samaritana del pattinaggio» le fece eco Tobias, «ho il doppio dei tuoi anni!»

«Ha ha... Ammetti la tua debolezza?!» lo sbeffeggiò lei, con tono trionfante.

 

 

«Se è per questo, non ho ancora visto le tue combinazioni» la rimproverò acre Tobias, assumendo la peggior aria da l’allenatore-sono-io di cui fosse in possesso.

«Perché non chiedi al custode se le so ancora fare?!»

 

 

«Zitta e salta!»

 

 

Già. Questo era sempre stato il problema di Tobias: poche parole e tanto lavoro. Per carità, si tratta di un sistema che può anche funzionare, in linea di massima. Ma non con lui. Per Tobias poche parole volevano dire anche scarsa comprensione. E questo non andava bene. In nessun caso.

 

 

«È solo questo che conta per te, vero Tobias?» chiese Emma furibonda. «Lavoro, lavoro, lavoro. Mai una discussione. Giusto per sapere come la pensano gli altri.»

«E chi sarebbero questi altri?»

 

 

La risposta della ragazza si fece attendere qualche secondo ma poi risuonò forte e chiara.

«Io sono gli altri.»

La sua determinazione giunse talmente imprevista che Tobias per poco non scivolò caricando il suo toeloop. Triplo, questa volta.

 

 

«È questo che vuoi?» la derise. «Parlare

Emma sostenne il suo sguardo canzonatorio.

«Se hai bisogno di riprendere fiato puoi anche dirlo!»

«Ho tutto il fiato che mi serve!» esclamò Emma piccata. «Ho talmente tanto fiato che... potrei far vincere Luna rossa!»

 

 

Tobias scoppiò in una risata fragorosa, che la fece sentire una vera imbecille. Di bene in meglio. Un’altra boutade come questa e anche lei avrebbe dovuto riconsiderare i vantaggi della comunicazione.

 

 

«Se proprio vuoi parlare, allora perché non mi dici che cosa è successo a Trento?»

 

 

Si udì uno schianto.

Con il suo talento naturale per recar danno al prossimo, Tobias aveva trovato l’unico argomento che Emma proprio non se la sentiva di affrontare, tirandolo in ballo per altro così a bruciapelo da farle mancare l’atterraggio del suo (fin lì) perfetto doppio axel al centro della pista.

 

 

«Avevo l’influenza» disse in un sussurro, mentre le sue guance si imporporavano.

«Balle!»

 

 

Come faceva ad essere sempre così odioso?! Se fossero esistiti i campionati della malvagità Tobias non avrebbe temuto rivali. Neppure ai Mondiali.

 

 

«Stavi benissimo» puntualizzò l’allenatore, interrompendo la sua serie di salti per fronteggiarla da vicino. “E comunque” aggiunse, notando l’intenzione di Emma di replicare, «hai gareggiato anche con la polmonite.»

«Vero. Per quello devo ringraziare te.»

 

 

«Non c’è di che» disse Tobias, imitando un sorriso cordiale.

 

 

Okay. Se era stato tanto sfacciato da tirare fuori la cosa adesso ne avrebbe pagato le conseguenze. A Tobias non erano mai piaciuti i discorsi che facevano leva sul lato emotivo-psicologico delle persone; per questo Emma decise che si era appena meritato una confessione in piena regola.

 

 

«Ero... furiosa» ammise, con una certa riluttanza. «Per colpa di quello stupidissimo campionato ho perso il funerale di mia nonna e tu sai bene quanto io le fossi legata.»

 

 

Ecco. Lo aveva detto. Erano passati mesi da quando aveva pronunciato l’ultima volta il nome della persona che aveva segnato così tanto la sua vita e di cui sentiva costantemente la mancanza.

 

 

«Quella nei tuoi occhi non era furia» replicò duro Tobias, che non era uomo da ammorbidirsi di fronte ai sentimenti. «Era paura.»

 

 

Ma come osa?! Nessuno gli aveva mai spiegato che, quando una persona, specialmente una ragazza, ti apre il suo cuore è bene offrirle tutto il conforto possibile?!

 

 

«Certo che era paura!» esplose, pur contro la sua volontà. «Ero sola, okay?! Per la prima volta in tutta la mia vita io ero sola! Ero in un dannatissimo palazzetto davanti a migliaia di persone ed ero completamente sola!»

 

 

Miseria, ora sì che le mancava il fiato. Il torace le si sollevava rapidamente, mentre il cuore minacciava di forarle la gola.

 

 

«Tu non eri sola» rispose calmo Tobias. «Avevi questi» disse, indicando i suoi pattini, «tutto ciò di cui avevi bisogno.»

 

 

Ma come faceva a non capire? Come diavolo poteva pensare che due pezzi di ferro potessero sostituire la persona che non si era mai persa una sua gara, sin da quando aveva iniziato, l’unica che avesse sempre creduto in lei.

 

 

«Tu non capisci!»

Non riusciva neppure a trovare le parole per spiegare al suo insensibile allenatore che cosa aveva provato in quel momento, quando facendo il suo giro di pista si era resa conto che la sua tifosa numero uno non c’era più e che, mentre lei inseguiva inutilmente un piazzamento, tutta la sua famiglia si era riunita per dirle addio.

 

 

«Sei tu che non capisci!» la rimproverò Tobias, riscuotendola dai ricordi. «Non sei più una bambina, perciò smettila di credere alle favole! Ogni bravo atleta sa che può e deve contare unicamente su se stesso.»

 

 

Quelle parole suonavano così retoriche.

 

 

«E sul suo allenatore.»

 

 

Queste, poi, erano incredibili. Letteralmente.

 

 

«Eravamo insieme, quel giorno.» le disse ancora, dopo una lunga pausa.

 

 

Ora le veniva da piangere. Ogni singola fibra del suo essere era attonita e sopraffatta dall’emozione di quella dichiarazione spontanea.

 

 

«In quei quattro minuti hai buttato via anche la mia, di carriera.»

 

 

Ah, eccolo qui, il vero Tobias! Dunque le sue non erano state parole di partecipazione, ma di rimprovero. Come sempre. Ora tornava a riconoscere il suo allenatore.

 

 

«Cavolo, Emma, potevi vincere!» si arrabbiò, vedendola rimanere in silenzio. «In vita tua non eri mai stata così vicina all’oro.»

 

 

Era vero. In quel maledettissimo week end di gara forse avrebbe anche potuto guadagnarsi il gradino più alto del podio. Ma il punto era che non le importava. Una delle ragioni che l’avevano spinta a pattinare era la passione della nonna per il mondo della danza, che per lei era sempre rimasta un sogno. Vedere la nipote muoversi con grazia sul ghiaccio, fondendo l’armonia dei propri gesti con quella della musica, l’aveva sempre colmata di gioia. Senza di lei, non aveva senso continuare.

 

 

«Eri in testa dopo il corto. Avevi la gara nelle tue mani» ricordò ancora Tobias.

«Ero in testa solo perché mi avevi promesso che, se avessi vinto il corto, mi avresti permesso di ritirarmi!» urlò Emma, ormai incapace di contenere le lacrime.

 

 

Così avrei potuto partecipare al funerale. Insieme a tutti i miei cari...

 

 

«Eri in testa perché eri forte.»

Che cosa?! Anche nella confusione di quella rabbiosa schermaglia, una parte della sua mente aveva registrato quelle parole. Forte?

 

 

«Io ero... cosa?» chiese, per essere pienamente sicura.

Tobias la guardò stralunato.

«Forte, Emma, forte» ripeté spazientito. «Con tutti i tuoi salti a posto e le nuove posizioni nelle trottole non esisteva nessuno in grado di batterti.»

 

 

Emma non riusciva a credere alle sue orecchie.

«Perché non me lo hai detto?»

«Perché, vista la tua naturale propensione a rovinare tutto, avresti subito combinato un gran casino. Che hai comunque combinato» concluse Tobias, con amarezza.

 

 

Quindi almeno in quell’occasione lei aveva avuto l’appoggio del suo allenatore... Era questo che Tobias stava cercando di dirle, in maniera così indiretta?

«Tu eri... con me?» si impose di chiedergli. «Giusto come conferma.»

«Io ero dove sono sempre stato. Ad un metro dalla balaustra. Ad un metro da te.»

 

 

... Porca vacca!

Ecco ciò che aspettava di sentirsi dire da talmente tanto tempo che non si ricordava più la prima volta in cui lo aveva desiderato. Tobias insieme a lei. Non contro di lei. Non era più sola. Non era mai stata sola. Certo, era lei che trascorreva metà del suo tempo con il sedere sul ghiaccio; era il suo corpo che si copriva continuamente di nuovi lividi... però ora sapeva che c’era qualcun altro che soffriva insieme a lei. Sperava insieme a lei.

 

 

«Questo non cambia le cose!» si sentì esclamare d’un tratto. La creatura che ultimamente si era fatta strada dentro di lei, mandando al diavolo la routine cui aveva conformato la propria esistenza negli ultimi dieci anni, non poteva essere messa a tacere in un battito di ciglia.

«Prego?»

Gli occhi di Tobias, già rossi per il freddo e lo sforzo inusuale, si erano ridotti a due fessure.

 

 

«Io non pattino più. Ho già preso la mia decisione.»

«Non puoi decidere da sola.»

Non c’era aggressività nella voce del suo allenatore; solo la calma sicurezza di chi enuncia un teorema geometrico. Del resto, i conti tornavano: se loro due formavano una squadra, allora lei non poteva escluderlo dalle sue decisioni. Chiaro, limpido, euclideo.

 

 

«Avanti, Tobias» disse Emma con onestà, «non sono mai stata un asso. Ora ho ventidue anni. Che senso ha continuare?»

«Io di anni ne ho quarantacinque» si arrabbiò lui, «e posso ancora fare questo.»

 

 

Un giro di pista per acquistare la velocità necessaria e Tobias eseguì un perfetto triplo lutz, sotto gli occhi stupefatti di Emma.

«Il mio lutz è ancora meglio del tuo» la canzonò.

 

 

No. No. No. Si era appena abituata al nuovo Tobias, più aperto ed incoraggiante, che subito rispuntava fuori di prepotenza quello vecchio, beffardo e crudele?!

Bisognava fare qualcosa. Immediatamente. Per impedire ad ogni costo la mutazione.

 

 

Adesso ti faccio vedere io.

 

 

Caricò il salto, decisa a dimostrare la propria indiscutibile abilità all’allenatore, ma poi se ne pentì. Frenò la rotazione mentre era ancora in volo e cadde malamente sul ghiaccio.

Tobias la fissò esterrefatto.

 

 

«Che cos’era quello?!»

«Niente» si affrettò ad assicurare Emma, ancora distesa.

«Ho contato 3 rotazioni e mezza, ne sono sicuro!»

«Hai le allucinazioni. Erano due e mezza.»

«Buon Dio, Emma! Tu hai un quad?!»

 

 

La ragazza si rimise in piedi da sola, dopo aver compreso che Tobias non era intenzionato ad aiutarla.

«No, non ho un quadruplo» rispose. «Ma ho un triplo axel.»

«Tu non hai un triplo axel!» esclamò di rimando Tobias, con un ghigno irriverente.

 

 

«Sta’ a vedere.»

Ed Emma eseguì un triplo axel. In combinazione.

 

 

«Hai aggiunto qualcos’altro al tuo repertorio?»

Difficile stabilire se Tobias fosse più arrabbiato, sorpreso, o sinceramente ammirato.

 

 

~ * ~

 

 

Erano le dieci passate quando Emma lasciò il palazzetto. Non c’era un solo muscolo in tutto il suo corpo che non le dolesse fastidiosamente, ma se possibile a farla stare peggio c’era il suo morale, che mai era stato così basso.

 

 

La sfida con Tobias aveva presentato risvolti interessanti e molte cose che erano state fatte e dette quella sera avrebbero cambiato i loro rapporti futuri; eppure, era come se qualcuno le avesse caricato sulla schiena un sacco pieno di mattoni e lei fosse costretta a trasportarlo per chilometri e chilometri... Lo conosceva bene, quel peso: il peso della responsabilità. Di cui avrebbe fatto volentieri a meno.

 

 

«Io adesso entro!» una voce angosciata interruppe il filo dei suoi mesti pensieri. «Non ne posso più di questa attesa!»

«Eh, tu sì che sai mantenere la calma nei momenti di crisi, Tontolo!»

 

 

Non ci poteva credere. Quelle erano le voci di Giovanni e Viviana. L’avevano aspettata tutta la sera fuori dallo stadio. E non erano neppure morti congelati.

 

 

Pochi passi ancora e se li ritrovò di fronte: sua sorella, con una grossa fascia di lana che le copriva le orecchie, cercava di rincuorare il ragazzotto che, tutto curvo contro il muro, sembrava davvero in ansia.

 

 

«Tranquilli, Tobias non è mai stato un serial killer avveduto» disse, per richiamare la loro attenzione.

 

 

«Ti giuro che, ancora dieci minuti, e avrei sfondato la porta!» le assicurò Giovanni, decisamente sollevato nel rivederla viva e vegeta.

«E così ti saresti sfondato una spalla» commentò Vivi tagliente. «A meno che non avessi provato con la testa... tipo ariete, sai?»

 

 

Emma rise, per la prima volta quella sera.

Non sei sola... quelle parole riecheggiarono nella sua mente.

 

 

«E allora?» le domandarono i due in coro. «Che è successo là dentro?!»

 

 

Emma raccontò brevemente della sfida organizzata da Tobias e di come questa si era svolta.

«Io ho fatto un triplo axel» spiegò, trattenendo a stento un guizzo d’orgoglio ben deciso ad animare il suo sguardo.

«Wow!» esclamarono i ragazzi.

«Ma lui ha fatto un triplo lutz. Da manuale.»

«Un triplo lutz?! Alla sua età?!» ripeté Giovanni incredulo.

«Impossibile da battere.»

«Ma guarda te» commentò Viviana stranita, «e io che ero convinta che Tobias fosse ormai da rottamare...».

 

 

«E quindi?»

Di nuovo i due ragazzi faticavano a celare la curiosità.

«Ha vinto lui» ammise infine Emma, dopo una pausa ad effetto.

 

 

«E questo... è tutto?»

Ancora Vivi, con la sua singolare perspicacia.

Emma incrociò il suo sguardo e la vide sorridere, mentre Giovanni brancolava ancora nel buio.

«Si può sapere cosa cavolo...» si intromise infatti, interrompendo quel momento d’intesa fra le due sorelle.

 

 

«Emma va in Giappone» spiegò Viviana entusiasta. «Dico bene?»

 

 

 

 

 

Nota

 

Eccoci alla fine di un nuovo capitolo: spero vi sia piaciuto! Se è così, lasciatemi un commentino! ^ ^

Chiedo scusa per la lentezza con cui aggiorno, ma trovo che scrivere una storia originale richeda più tempo di quanto pensassi.

Grazie infinite a Lady_me per le belle parole di incoraggiamento e grazie anche a chi legge senza recensire!

Il prossimo capitoletto dovrebbe essere l’ultimo per questa prima parte. A presto!

 

M.

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Capitolo 7
*** Ossigeno ***


Sette

Ossigeno

 

 

 

Lo dicono anche i proverbi: tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.

Nel caso di Emma, però, a stare bello spaparanzato tra il suo consenso al progetto Mondiali e la sua effettiva partecipazione c’era Tobias. In compagnia di Maristella.

 

 

Il periodo che la separava dall’inizio della competizione si profilò immediatamente come il più duro, sportivamente parlando, della sua giovane vita. A partire dal momento in cui il suo allenatore appese vicino allo stereo del palazzetto un calendario che teneva il conto dei giorni che la dividevano dallo short program, ribattezzato per l’occasione C-day, ovvero Chocolate day. Il significato di quella espressione le apparve chiaro quando Tobias le strappò dalle mani una barretta di Kit-Kat: fino ad allora della cioccolata non avrebbe potuto sentire neppure il profumo.

 

 

E pensare che, all’inizio, non ci aveva dato un gran peso, pensando che se la sarebbe cavata comunque grazie al suo lavoro di pasticcera. Peccato che dopo le prime due ore di allenamento aveva compreso che alla Medaglia non ci avrebbe messo più piede fino al termine della gara.

 

 

Non c’è molto altro da dire. Nei due mesi successivi Emma visse per pattinare... e pattinò per vivere, considerato che il minimo sgarro alla routine di allenamenti studiata con scientifica crudeltà da Tobias lo avrebbe costretto, a suo dire, a mettere fine all’esistenza della sua pattinatrice. Senza rancore.

 

 

Fortunatamente Emma ricevette l’appoggio di tutto il paese, semplicemente entusiasta di poter ammirare una concittadina in diretta tv. Anche se ad orari proibitivi per chi crede ancora nell’efficacia di un buon riposo notturno.

 

 

Tra coloro che si dimostrarono maggiormente disponibili vi furono i giocatori di hockey, che ridussero al minimo indispensabile il loro tempo sul ghiaccio, nonostante Emma li avesse implorati di pretendere per i loro allenamenti il sabato sera, in modo da concederle almeno una serata libera a settimana. Ma si sa... tempus fugit. O, come diceva Tobias quando si intrufolava in camera sua alle quattro del mattino, “chi dorme non piglia medaglie”.

 

 

L’unico conforto le veniva dalla sicurezza che presto tutta quella fatica sarebbe finita: avrebbe dovuto tenere duro fino al long program e poi avrebbe potuto riposarsi. Per sempre. Almeno così le piaceva pensare.

 

 

In realtà non aveva ancora le idee chiare su cosa avrebbe fatto dopo i Mondiali. Non tanto perché Tobias le aveva categoricamente proibito di pensare, reputandolo un inutile spreco di energia, ma perché sapeva già che quella di Tokio sarebbe stata la sua ultima brutta figura o, come diceva agli altri per non scatenare polemiche, la sua ultima gara. Che direzione avrebbe preso la sua vita subito dopo era difficile da prevedere: la telefonata di Callegaro non era mai arrivata, perciò doveva dimenticare il progetto di studiare cucina a Venezia.

 

 

Per quanto la amareggiasse, la pura verità era che al di là di focaccine e flying camel spins non c’era molto altro che sapesse fare. Ma nessuna delle due strade sembrava al momento percorribile.

 

 

Peggio di lei, se possibile, stava solo la sua coreografa Maristella. In apparenza, infatti, in quanto braccio destro di Tobias, si comportava come un aguzzino, raddoppiandole a tradimento le ore da trascorre col tutù; tuttavia, alla prova dei fatti, era la più stressata di tutti: il tabaccaio di via Martiri le aveva rivelato in gran segreto che il suo consumo di sigarette si era semplicemente quintuplicato nelle ultime settimane, tanto da trasformarla in una specie di ciminiera ambulante.

 

 

Il fatto era che Maristella era la sua coreografa da anni ma, visti i suoi mediocri risultati, non aveva mai dovuto impegnarsi troppo. L’idea di dover preparare in così poco tempo una coreografia da presentare ad una competizione internazionale l’aveva completamente traumatizzata, al punto da farle abbandonare la sua dieta a base di tisane al sedano in favore di una quotidiana e abbondante razione di pane e nutella, il cui potere consolatorio è noto ad ogni ragazza.

 

 

L’impegno di Maristella si era reso indispensabile dopo che Emma aveva rivelato a Tobias la sua ferma intenzione di gareggiare ai Mondiali con un nuovo programma lungo: con una eloquenza insospettata aveva perorato la sua causa per giorni, lamentando l’inconsistenza del suo LP precedente che, oltre a basarsi sulla musica più che abusata della Madama Butterfly, non teneva conto dei nuovi elementi di salto che intendeva proporre.

 

 

Naturalmente le obiezioni mosse da Maristella e Tobias, circa la possibilità di aggiornare il vecchio programma con i suoi recenti acquisti tecnici, erano più che plausibili, ma Emma fu irremovibile: sarebbero andati in Giappone con un nuovo programma lungo, oppure non ci sarebbero andati affatto. Questo era il suo speciale regalo per loro.

 

 

Certo la ragazza si rendeva conto del polverone da lei suscitato, ma fu solo quando vide Maristella guadagnare due taglie nella stessa settimana che decise di scendere a patti, dichiarandosi pronta ad ascoltare i loro consigli. Nei giorni che seguirono fu sottoposta ad una vera e propria bombardata telematica, arrivando ad ascoltare anche cento mp3 al dì, ma nulla le sembrava fare al caso suo. Maristella e Tobias avevano gusti musicali opposti ma su un requisito erano d’accordo: la musica del nuovo programma avrebbe dovuto essere orientale. Solo così Emma, pattinatrice peraltro sconosciuta, avrebbe potuto conquistare la simpatia del popolo ospitante.

 

 

Con l’aiuto di Carlotta, Vivi e Giovanni, isolò alcune melodie che le sembravano adattarsi meglio al suo stile. Ma c’era sempre qualcosa che stonava, qualcosa che irrimediabilmente mancava. Secondo Tobias si trattava del tempo. Messa perciò alle strette, Emma si impose di prendere una decisione e, attivando la modalità casuale nel suo I-pod, scelse per il nuovo programma una brano della colonna sonora del film Memorie di una geisha, che non aveva neppure visto al cinema.

 

 

La prospettiva la atterriva. Come posso pattinare su una musica di cui non conosco la storia? si chiedeva. La situazione non migliorò quando di fatto conobbe la storia, dopo averne noleggiato il dvd. Quella vicenda non la rappresentava. Pertanto andava scartata.

 

 

Quando comunicò la notizia ai suoi allenatori Maristella collassò in una risata isterica, mentre Tobias prese a calci il capitano della squadra di hockey, che si trovava in pista per studiare qualche nuova strategia per la partita imminente. Ne derivò uno scontro titanico, da cui uscirono entrambi pesti e malconci.

 

 

La soluzione le si presentò inaspettatamente, proprio quando aveva quasi perso ogni speranza. Emma si era rinchiusa nella sua stanza insieme a Carlotta per guardare i loro video di pattinaggio preferiti, che ripercorrevano la storia dei campionati mondiali degli ultimi anni. La sua amica aveva espresso la pretesa di ricevere, in cambio di tutto il supporto che le aveva sempre offerto, l’autografo dei suoi eroi, possibilmente corredato da una dedica personalizzata.

 

 

«Già ti vedo avvicinarti a Stravinskji» incominciò ridendo, dopo aver osservato a lungo il poster dell’atleta dalla zazzera bionda appeso all’armadio, «con quel suo cipiglio inarrivabile!».

Emma arrossì impercettibilmente, prima di unirsi all’amica in una risata liberatoria.

 

 

Avvicinarmi a Stravinskji... Naturalmente non lo avrebbe confessato neppure sotto tortura, però la possibilità di ammirare dal vivo lo zar del ghiaccio di incontrarlo magari, anche se solo di sfuggita aveva giocato un ruolo non così piccolo nella sua decisione finale di affrontare quell’avventura nipponica.

 

 

«E voglio anche una foto» diceva intanto Carlotta. «Senza di te, mi raccomando.»

«Morirei piuttosto che chiedergli un autografo, lo sai!»

«Cosa?! Non lo faresti neppure per la tua migliore amica?!» la rimproverò lanciandole un cuscino.

 

 

Successe tutto in un baleno. Emma scartò il cuscino volante che si infranse sul comodino facendo precipitare il carillon regalatole dalla nonna quando era bambina. Carlotta fece per raccoglierlo, porgendo miliardi di scuse, ma l’amica la fermò, tutta intenta ad ascoltare la musica soave che quel piccolo oggetto così caro diffondeva per la camera.

 

 

«Secondo te che cos’é?» domandò Emma, dopo qualche minuto di silenzio.

Carlotta ci pensò un po’ prima di esprimersi.

«Sembra un rondò» disse incerta. «Perché me lo chiedi?»

 

 

Per tutta risposta, Emma sorrise di gioia.

 

 

 

~ * ~

 

 

 

«Ecco» annunciò la mattina dopo, porgendo un cd masterizzato a Tobias. «Ho trovato la musica del lungo!»

Il suo entusiasmo non svanì neppure di fronte ai grugniti emessi dall’allenatore mentre le note del rondò si spandevano per tutto il palazzetto.

 

 

«Rondò?» chiese perplesso.

«Esatto.»

«In Giappone?!»

«...»

Ora l’idea non le sembrava più tanto geniale. Però non poteva tirarsi indietro.

 

 

«Beh... perché no?»

«Vuoi avere una sola minuscola possibilità in questi campionati?» le domandò esasperato Tobias.

«Io non ho una possibilità. Neppure minuscola» precisò Emma.

«E allora facciamoci ridere dietro, no?!» sbottò ancora l’allenatore.

 

 

«A me piace.»

L’intervento di Maristella era giunto al momento propizio, visto che la ragazza era rimasta a corto di argomenti.

«Davvero?» domandò Tobias brusco.

 

 

«Sto pensando al Carnevale, sontuosi balli in maschera, Giacomo Casanova...»

L’immaginazione di Maristella volò rapida sulle ali del tempo, mentre al suono di quella musica antica iniziava a muoversi in maniera sinuosa sul ghiaccio, tra i fischi di approvazione della squadra di hockey, riunita sugli spalti.

 

 

«Così più che altro pensa a Veronica Franco...» suggerì Carlotta, che aveva preso posto accanto a Giovanni.

«Chi era Veronica Franco?» chiese Liendermann.

«... Ehm ... Una bravissima poetessa» chiarì la ragazza, dopo un istante di esitazione.

«C’è dell’altro, vero?» le domandò piano Emma avvicinandosi.

 

 

Poiché l’amica annuì sagacemente, Emma preferì bloccare sul nascere quella follia di cui non conosceva ancora la portata.

 

 

«Cancella Veronica Franco!» intimò pertanto alla coreografa.

«Oh, andiamo, Emma! Ascolta questa musica. Possiamo tirarne fuori un pezzo così sexy...» protestò Maristella.

«Non voglio fare una coreografia sexy!» si ribellò ancora la pattinatrice.

«Cancella il sexy» la appoggiò Tobias, a sorpresa. «Non ne sarebbe capace...»

 

 

La ragazza gli sferrò un’occhiataccia, ma preferì non ribattere, contenta che per una volta lei e Tobias si trovassero d’accordo. Sebbene per motivazioni diverse.

Capita l’antifona, Maristella si immerse in un lavoro frenetico quanto ispirato ed in pochissimo tempo riuscì ad allestire una coreografia di grande complessità tecnica, che però stranamente si segnalava soprattutto per una caratteristica.

 

 

«È molto dolce» notò subito Tobias, non appena Maristella la eseguì in palestra. E se se n’era accorto lui, c’era da sperare che questo dettaglio non sarebbe passato inosservato.

«Mettici un po’ di malinconia nella parte in calare...» consigliò Carlotta, che aveva seguito attentamente lo sviluppo del nuovo programma. «Nei lenti possiamo ricordare la fine del sogno della Serenissima.»

«Alla faccia dell’intellettualismo! Se mettiamo in pista un programma simile, i russi ci incoroneranno con l’alloro!» aveva esclamato l’allenatore, mentre la ragazza si precipitava sul ghiaccio a complimentarsi con lui per il riferimento colto.

 

 

 

~ * ~

 

 

 

Consolidare la coreografia fu impegnativo. Impadronirsi dei nuovi passi ancora di più. Gli allenamenti divennero sempre più estenuanti, tanto che la stessa Maristella un giorno si consultò con Tobias sulla possibilità di concedere ad Emma una piccola pausa.

 

 

«Non c’è tempo» sentenziò l’allenatore e la ragazza non replicò. Il count-down per i Mondiali era già iniziato e lei non vedeva l’ora che arrivasse la data del fatidico programma corto, che l’avrebbe automaticamente portata a metà dell’opera.

 

 

Enorme fu quindi la sorpresa quando Tobias la convocò in pista per una seduta di allenamento extra, destinata ad illustrarle il programma per la sua esibizione. E lei che pensava di non doverla neppure preparare, un’esibizione.

 

 

«Credi davvero che io possa piazzarmi fra le prime sei al mondo?» gli chiese dubbiosa, non appena lo raggiunse al palazzetto.

«Sì, se le prime dodici cadono un paio di volte ciascuna» le rispose Tobias, dopo una rapida riflessione.

 

 

«Non parteciperò mai al Gala» replicò Emma. «Quindi, perché sprecare altra energia?»

Ma non ci fu verso di convincere Tobias. Sarebbe andata in Giappone con tre programmi, anche se con tutta probabilità ne avrebbe eseguiti solamente due.

 

 

La cosa più tragica fu che Tobias si era messo in testa di preparare una esibizione nuova di zecca; idea davvero assurda, considerate tutte le storie che aveva fatto quando Emma aveva preteso un nuovo libero.

 

 

Quando arrivò in pista, un venerdì mattina, notò subito la strana aria di complicità che si era instaurata fra Tobias e Maristella, che non le lasciava presagire nulla di buono.

«Davvero, ragazzi» tentò, «sapete come si dice, no? Non mi sembra il caso di mettere altra carne sul fuoco!».

 

 

Ma Tobias non volle sentire ragioni. I suoi occhi quella mattina avevano un’espressione tutta particolare, difficile da definire.

«Ci permetti almeno di fartela vedere?» le domandò scocciato. «Maristella c’ha lavorato tutta la notte!»

 

 

Beh, certo, messa in questi termini... Un po’ di rispetto lo doveva pur dimostrare.

 

 

Fu dunque con una grande curiosità che Emma si accomodò a bordo pista, i piedi già avvolti negli scarponcini che penzolavano dalla balaustra. Quando scorse Tobias disporsi in posizione al centro dello specchio di ghiaccio restò senza parole. Aveva davvero intenzione di eseguire l’esibizione?! Da quanto tempo non lo vedeva impegnarsi così tanto nella preparazione di una gara?

 

 

Pochi istanti ancora e la sua curiosità fu soddisfatta. Maristella azionò il lettore cd e nello stadio si diffusero le note di una canzone che non aveva mai sentito prima, ma le cui parole si rivolgevano dritte al suo cuore.

 

 

Don’t give up... You are loved...

 

 

I movimenti di Tobias sul ghiaccio erano fluidi e scandivano perfettamente il ritmo della musica; l’unica nota stonata, a volercela proprio trovare, era data dal fatto che il suo allenatore si limitava ad accennare i salti, abbozzando un flip dove Emma immaginava di poterne eseguire uno triplo, o rivolgendole un’occhiata significativa dove sapeva di poter piazzare una combo 3-2. Ma più di così, non poteva pretendere.

 

 

L’esibizione che Tobias e Maristella avevano allestito per lei era splendida. Per come le piaceva interpretarla, era il loro regalo. L’unico dubbio che le faceva nascere riguardava la sua reale capacità di eseguirla senza cedere a lacrime di commozione.

 

 

«Ti sembra buona?» le chiese alla fine il suo allenatore, ostentando indifferenza. «Maristella ed io abbiamo pensato ad una canzone che potesse adattarsi alle tue caratteristiche...»

«Ai suoi sentimenti, vorrai dire!» lo corresse la coreografa, alzando gli occhi al cielo.

 

 

Ma Emma interruppe subito il loro battibecco, lanciandosi in pista per abbracciarli.

 

 

 

~ * ~

 

 

 

Ed eccoci alla fine di questo capitoletto, che conclude la prima parte. Nella seconda, a breve in linea (o almeno spero, dipende dal tempo e dall’ispirazione ^ ^), vedremo Emma alle prese con la competizione che attende e teme con uguale trepidazione, ove incontrerà e si scontrerà con nuovi personaggi.

 

Sperando che continuerete a seguire le avventure della mia pattinatrice/pasticcera (e pasticciona!), ringrazio coloro che hanno letto e recensito!

Un grazie particolare a Lady_me, che a quanto pare è diventata una lettrice affezionata di questa storia! Grazie per il sostegno! ;) Tra parentesi: sono contenta che ti piaccia Tobias! Temevo di averlo reso un po’ troppo burbero!

 

Grazie ancora a tutti!

 

Menestrella 07

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