Ina Bauer (Q.R. - Prima parte) di menestrella 07 (/viewuser.php?uid=34512)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Pazienza ***
Capitolo 2: *** Defezione ***
Capitolo 3: *** Debolezza ***
Capitolo 4: *** Sincerità ***
Capitolo 5: *** Rischio ***
Capitolo 6: *** Confronto ***
Capitolo 7: *** Ossigeno ***
Capitolo 1 *** I. Pazienza ***
Uno.
Pazienza
E
così alla fine
era arrivata anche la neve. Emma si affacciò alla vetrina
per controllare la
condizione della strada, realizzando che di lì a poche ore
avrebbe dovuto
tornare a casa a piedi.
La
bicicletta forse è meglio tornare a prenderla domani.
Fece
ritorno
sconsolata nel retro bottega e, data un’occhiata al cellulare
che giaceva muto
attaccato alla presa di corrente, cominciò a caricare la
lavastoviglie: quel
pomeriggio si era davvero data alla pazza gioia, preparando quattro
crostate ai
mirtilli e cinque meringate. Già si immaginava i commenti
della proprietaria: guarda che gli ingredienti
costano, le
persone non comprano semifreddi con questo tempo...
Ma non ci poteva fare nulla,
era più forte di
lei: cucinare per tenere a bada l’ansia. Per questa ragione
aveva scelto di
fare la pasticcera: perchè trovava che non ci fosse nulla di
meglio che
annegare i propri malumori nella panna montata.
Il
campanello
tintinnò, segnalando l’entrata di un cliente.
«Vai
tu, Emma?»
Più
che una
domanda era un ordine. La voce tonante della proprietaria
risuonò
immediatamente dalle viscere della dispensa. Controvoglia la ragazza si
tolse
il grembiule, impiastricciato di marmellata e, dipintasi un sorriso
radioso sul
volto che quel giorno doveva risultare più fasullo del
solito, andò ad
accogliere chi aveva sfidato la neve per far contenta la propria
pancia.
Una
rapida
occhiata ed Emma si sentì gelare il sangue nelle vene: ad
attenderla in negozio
c’era nientepopodimeno che la madre del suo ex-fidanzato che,
oltre ad essere
un’intrigante ficcanaso, poteva vantare la medaglia
d’oro ai campionati
nazionali della chiacchiera.
«Buonasera,
cara!» la accolse quella, con un ghigno soddisfatto.
«Signora»
fece
tetra Emma.
«E
così lavori
ancora qui...»
La
ragazza la
interruppe subito in modo poco cortese ma estremamente efficace: non
aveva
voglia, né tempo, a dire il vero, di offrire il fianco alle
sue frecciate e poi
dalla posizione in cui si trovava non sarebbe riuscita ad udire il
telefono,
nel caso si fosse finalmente deciso a squillare.
«Abbiamo
un’ottima crostata al mirtillo, se vuole favorire»
«Oh,
la crostata
al mirtillo!» ripeté la donna, con un sorriso
malevolo. «La preferita di
Mirko!»
Ottimo.
Ora era spacciata.
«Sai,
mio figlio
sta molto bene. Lavora in una prestigiosa ditta di
assicurazioni»
«Sono
contenta
per lui» si sforzò di dire Emma, rimproverandosi
però subito dopo per aver
sprecato fin troppe parole; un debole «Mmmm...»
sarebbe bastato.
«Guadagna
2000
euro al mese!» insistette la megera.
Questa
volta la
ragazza fece finta di non aver udito ed azionò la macchina
del caffè, che non
fu sfortunatamente in grado di coprire completamente la voce della
signora.
«Ora
sta con la
Francesca ... te la ricordi la Francesca, vero?»
Certo,
come no? Come
si fa a dimenticare la
donna-di-facili-costumi che ti soffia il fidanzato quando tu hai
più bisogno di
lui?
«Lavora
ancora
sulla strada?» domandò Emma, usando il tono
più impertinente che possedeva.
La
signora la
guardò un istante completamente scioccata.
«Come
vigilessa,
intendo» concluse la ragazza, trattenendo un sorriso di
trionfo.
«Certo,
cara, la
Francesca è una ragazza così seria e
responsabile!»
Talmente
seria da innamorarsi del ragazzo di una sua
amica e di convincerlo a lasciarla senza alcun preavviso.
«Fantastico!
Me
li saluti entrambi, allora» concluse Emma, decidendo di
togliersi rapidamente
dai piedi la fastidiosa visitatrice.
«Saranno
così
felici di sapere che non te la sei presa!»
Emma
concentrò
lo sguardo sui bigné al cioccolato, mentre immagini di
svariati tipi di morti
dolorose attraversavano la sua fantasia.
«Perchè
avrei
dovuto? Sono fatti l’uno per l’altra».
Già,
Dio li fa e poi li accoppia.
La
signora rise
piano.
«E
tu, invece?
Sei ancora sola? Immagino che mio figlio abbia lasciato un vuoto
difficile da
colmare»
«Mi
scusi,
signora, ma se suo figlio è stato così stupido da
farsi scappare una ragazza
d’oro come Emma, allora ce lo deve avere lui qualche vuoto...
nel cervello!»
Tempismo
perfetto. Emma rivolse uno sguardo riconoscente al ragazzino che era
emerso dal
retro bottega proprio al momento giusto: ancora qualche secondo e
avrebbe
centrato la faccia di quella befana con una delle sue splendide
meringate
appena preparate.
«Il
tuo
cellulare sta squillando» fece ancora Giovanni.
La
ragazza
schizzò via, senza neppure salutare. Salì
rapidamente i pochi gradini che
l’avrebbero riportata in cucina, guidata dal suono prepotente
della suoneria
che intonava la Cavalcata delle Walchirie.
«Pronto!»
esclamò senza fiato, agguantando il cellulare, prima che
questo trasferisse
quella preziosissima chiamata alla segreteria telefonica.
«Oi,
Emma, ma
perchè c’hai l’affanno?»
Era
Carlotta. Non ci posso credere.
Aveva sfiorato
l’infarto in quei pochi disperati istanti di trepidazione ed
era solo la sua
amica.
«Perchè
cavolo
mi chiami col numero privato?!» si arrabbiò.
«Scherzetto!»
Emma
rimase in
silenzio, ascoltando la risata fresca della ragazza e riconsiderando i
motivi
che l’avevano spinta a stringere con lei
un’amicizia che durava da più di dieci
anni.
«Ci
sono
novità?» chiese Carlotta, tornata seria.
«No»
«Vedrai
che
chiameranno»
«Mah...»
«Ti
dico che
chiameranno!»
Emma
sorrise,
ricordandosi immediatamente perché era così
legata a quella ragazza dallo
strano senso dell’umorismo.
«Grazie»
mormorò.
Carlotta
rise di
nuovo, dall’altro capo del telefono.
«Casomai
puoi
sempre continuare a cucinare per noi!»
Emma riagganciò
un po’ rincuorata, senza
conoscerne la ragione. Spense il forno ed avviò la
lavastoviglie, facendo
attenzione a selezionare il programma a risparmio energetico. Il rumore
del
motore riempì la cucina, mentre qualche soffio di vapore
fuoriusciva dallo
sportello.
La
ragazza
chiuse gli occhi e lentamente si piegò sulla gamba sinistra,
tenendo la destra
stesa in avanti. Arrivata rasente il pavimento si accoccolò
su se stessa, le
braccia tese di fronte a sé, e rimase lì ferma,
contando fino a otto. Poi
sollevatasi leggermente ripeté l’esercizio,
invertendo la posizione delle
gambe. Giovanni aprì la porta della stanza e, vedendola
così rannicchiata,
disse, scuotendo la testa: «Non so come fai a rimanere
così accucciata!»
«E’
più comodo
di quanto sembri» gli rispose Emma, senza aprire gli occhi.
«Sì,
se sei un
trampoliere!»
La
ragazza rise,
alzandosi.
«Erano
loro al
telefono?»
Giovanni
era
sempre così premuroso con lei; lo conosceva da quando era un
bambino e sapeva
che poteva fidarsi ciecamente di lui.
«No»
«Meglio
così» si
lasciò sfuggire il ragazzo.
«Scusa?!»
Emma
lo fissò
allibita per un attimo. Che cosa significava quell’ultimo
commento? Non sapeva
quanto lei ci tenesse a quel lavoro?
«E’
che se ti
prendono sarai costretta a trasferirti...» iniziò
Giovanni, mentre le sue
guance si coloravano leggermente.
«Ci
sono
miliardi di motivi che potrebbero portarmi lontano da qui»
disse Emma, sovra
pensiero «molti dei quali non altrettanto positivi».
«Però
potresti
rimanere qui con ... noi!»
La
ragazza rivolse
lo sguardo su di lui e sorrise.
«Probabilmente
sarà quello che accadrà»
Giovanni
ricambiò il sorriso. Quando faceva così
dimostrava decisamente di più dei suoi
diciassette anni, forse per quell’aria sicura che gli
illuminava sempre il
volto o per il portamento prestante, forgiato negli anni dai duri
allenamenti
di hockey.
«Sfida
all’ultimo sangue, stasera?» provò lui.
«No!
Lo sai che
non mi va di...»
Emma
preferì non
continuare.
«Eri
fuori
allenamento» disse Giovanni, ricordandole una spiacevole
situazione che aveva
dovuto affrontare poche settimane prima. La ferita era ancora fresca.
«Ero
pietosa» lo
corresse lei.
«Eri
bellissima»
mormorò lui. «La più bella di
tutte»
«Tu
sei troppo
buono!»
«Be’,
faremmo
una bella coppia ... non credi?»
«Forse,
se tu
avessi dieci anni di più» ammise Emma, ripetendo
un discorso già fatto in mille
altre occasioni.
«Abbiamo
solo
cinque anni di differenza!» si arrabbiò il
ragazzo, avvicinandosi di qualche
passo.
«Sono
troppi»
La
voce stanca
di Emma lo colpì più di quanto avrebbe potuto
fare qualsiasi altro rifiuto.
I
due ragazzi si
fissarono per qualche istante e proprio quando Giovanni sembrava voler
riprendere il discorso le sue intenzioni furono vanificate dal
sopraggiungere
di sua madre, la proprietaria della pasticceria.
«Allora?
Hai
saputo niente?»
Emma
scosse la
testa desolata.
«L’avranno
presa
di sicuro! La sua focaccia allo zenzero è superba!»
Era
di nuovo
Giovanni. Possibile che quel ragazzo riuscisse solo a farle dei
complimenti?!
Emma
guardò
l’orologio: erano quasi le sei di sera. La telefonata sarebbe
già dovuta
arrivare. O forse non l’avevano scelta e non si prendevano
neppure il disturbo
di avvisarla. Un vero peccato, perchè ci teneva
così tanto!
Quella
di
Antonio Callegaro era una rinomata scuola di cucina aperta a pochi
privilegiati, ma lei aveva creduto veramente di avere una
possibilità: aveva
fatto mille progetti, andando persino in avanscoperta a Venezia per
cercare una
camera in affitto e rimanendo sconvolta dai prezzi proibitivi della
città.
Evidentemente aveva
sopravvalutato le sue
capacità culinarie.
Giovanni
la
abbracciò, a tradimento, e scappò dalla cucina.
«Attento
a non
romperti una gamba quando esci!» gli gridò dietro
sua madre. «I gradini sono
pieni di neve!»
«Tranquilla!
Il
ghiaccio è il mio elemento» lo sentirono
rispondere.
E
poi il
telefono squillò.
Emma
e la donna
si scambiarono uno sguardo colmo di agitazione.
«Che
fai? Non
rispondi?» disse Monica, vedendo che la ragazza non si
decideva a prendere il
cellulare.
«Se
non lo fai
tu, lo faccio io!» le intimò.
Emma
si schiarì
la voce e, incrociate le dita, premette il pulsantino verde.
«Parlo
con Emma
Canziani?» fece subito un’atletica voce maschile.
«Sì,
sono io»
«Buonasera,
sono
Salvatore Castellano, delegato della Federazione. Le comunico che
avrà l’onore
di rappresentare l’Italia ai prossimi Mondiali di
Pattinaggio».
«...»
«Signorina
...
Signorina Canziani, è ancora lì?»
*
* *
Nota
dell’autrice
Non sono una
pattinatrice professionista, ma solo una
grande appassionata di questo sport meraviglioso! Mi scuso sin da ora
con gli
esperti per gli errori in cui temo finirò con
l’incappare! Si accettano di buon
grado suggerimenti & consigli!
Grazie a
tutti coloro che si prenderanno la briga di
leggere questo mio primo tentativo di fanfiction e lasceranno un
commento!
Menestrella
07
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Capitolo 2 *** Defezione ***
Premessa dell'autrice
Non sono una
pattinatrice e in linea di massima non conosco gli aspetti tecnici di
questo sport, che si tratti dell’atterraggio da un triplo
axel o dei criteri di ammissione alle competizioni internazionali.
Faccio del mio meglio, ma nel caso troviate degli errori considerate
che questa storia nasce al solo scopo di divertire chiunque
avrà la bontà di leggerla!
Grazie a Mile che ha
recensito... praticamente subito!! E grazie ancora a chi
leggerà questo secondo capitoletto!
M.
* * *
Due.
Defezione
Defezione. Quel
Castellano aveva parlato di defezione. Di una doppia defezione
per la precisione. Unico motivo per cui un quarto posto agli ultimi
campionati italiani poteva essere convocato in nazionale. La situazione
era tragica.
«Io non ci
vado» proclamò risoluta Emma.
A pochi centimetri
dalla sua mano si abbatté con violenza il pugno del suo
allenatore, Tobias Liendermann, che fece tremare il tavolo al quale
erano seduti.
«Ti ho
forse dato il permesso di rifiutare?»
«Francamente,
Tobby, non credo che tu possa avere tutto questo ascendente sulla mia
vita»
«Oh, ma
posso rendertela molto difficile se non accetti...»
Emma
valutò rapidamente quanto potesse risultare estesa la rete
di contatti del suo allenatore. Quando sollevò lo sguardo su
di lui si accorse che stava ridendo.
Emma si
guardò attorno, alla ricerca dell’ispirazione per
iniziare una nuova conversazione, ma il pub in cui Tobias
l’aveva portata aveva un aspetto massimamente desolante.
Dobbiamo seminare la concorrenza
e tenere lontani gli occhi indiscreti, le aveva detto
prima con fare cospiratorio, mentre raggiungevano in macchina il luogo
dell’appuntamento.
Qui
non ci troverà nessuno.
«Tu sai che
ti voglio bene, Emma, vero?» riprese lui con fare poco
rassicurante. «Ma se ti tiri indietro sarà mia
cura spezzarti a una a una le ossa delle gambe...» di nuovo
una risata diabolica. Completamente rasato, sulla quarantina, Tobias
era uno di quei tipi che si compiacevano delle proprie pratiche di
terrorismo, ma fortunatamente le mettevano in pratica di rado.
«Non
capisci?» continuò quello, visto che la ragazza si
limitava a sorseggiare in silenzio la sua coka-cola light.
«E’ stato il destino a toglierci dai piedi Miss
Il-mio-doppio-axel-riesce-sempre!»
A Tobias
piaceva appioppare soprannomi alle persone che più gli
stavano antipatiche: in questo caso si riferiva ad Eleonora De Rossi,
pattinatrice trentina che, nella loro mutua carriera, le aveva
ripetutamente soffiato l’ultimo gradino del podio.
«Una vera
manna dal cielo! Frattura della caviglia... frattura, dico! Non
tornerà in condizione prima del prossimo passaggio di
Hale-Bopp!» concluse, sghignazzando sonoramente.
«Non sta
simpatica neanche a me, ma non mi sembra giusto...»
provò Emma, ma Tobias la interruppe di nuovo.
«E non si
è neanche infortunata durante un allenamento... è
caduta dai tacchi!» aggiunse, facendo di nuovo risuonare la
sua risata inquietante. «Che scema!»
proclamò, battendo ancora il palmo sulla tavola.
Qualcuno dai tavoli
vicini lo fissò con aria preoccupata.
E’ una brava persona,
in fondo provò a suggerire Emma con un sorriso
imbarazzato.
«E
l’altra?» riprese Tobias inesorabile, mentre le
ultime sorsate di birra cantavano la ninna nanna ai pochi neuroni
rimasti ancora svegli.
«Marcella?»
giunse Emma in aiuto.
«Miss
Fattore-C? Stiramento... Musica per le mie orecchie! Che dico, per le nostre
orecchie!»
«Non
mettermi in mezzo!» si difese Emma. «Questo affare
è tra te e la tua smisurata fame di medaglie!»
«Non che tu
me ne abbia mai portate tante»
Quello era un colpo
basso. Non se lo sarebbe aspettato da lui.
Un silenzio scomodo
cadde fra loro.
«Ero fuori
allenamento» replicò piccata Emma, citando le
parole che Giovanni le aveva rivolto poche ore prima.
«Scemenze!»
La ragazza
serrò gli occhi.
«Non ci hai
neanche provato! Sei scesa in pista con le gambe molli!»
Emma lo
fissò infuriata.
«Era la
prima gara dopo mesi di assenza! Te la sei dimenticata la mia
ernia?»
«Quella era
un’occasione d’oro!» la
rimproverò Tobias. «Il tuo fisico era apposto. Tu
non c’eri con la testa!»
La ragazza distolse
lo sguardo, ma il suo allenatore non le risparmiò altri
commenti oltraggiosi.
«Tu sei
debole! Lasci che le tue emozioni distruggano gli sforzi di mesi! Non
sai reggere la tensione e ti fai abbattere dalla prima
difficoltà!»
Emma si
alzò improvvisamente e fece per andarsene, ma Tobias la
afferrò per il braccio.
«Che
c’è? Non sai neppure trattenere le
lacrime?»
«Io non sto
piangendo!» esclamò con forza la ragazza,
piantando due occhi lucidi in faccia al suo allenatore. «E
non sono debole!».
* * *
|
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Capitolo 3 *** Debolezza ***
Premessa
Ribadisco
di non essere un'esperta di questo sport e che questa storia nasce al
solo scopo di divertire chi vorrà leggerla!
M.
Tre.
Debolezza
Erano le undici passate
quando Emma, con un diavolo per capello, giunse infine al Palazzetto.
Non dovette neppure cercare la chiave, solitamente nascosta sotto al
grande tappeto antiscivolo collocato ai piedi dell’ingresso:
le luci erano accese e sembrava esserci ancora qualcuno
all’interno.
Meglio
così; questa volta non avrebbero potuto accusarla di
effrazione.
Tobias
le aveva detto che era debole.
Mai,
in tutti gli anni in cui le aveva fatto da allenatore, si era permesso
di offenderla così pesantemente. E di cose cattive gliene
aveva dette molte: che aveva la grazia di un elefante indiano ed il
coraggio di un coniglietto nano; che la balaustra sembrava muoversi
più velocemente di lei; che aveva il sedere basso...
Ma
non le aveva mai detto che era debole.
Come aveva potuto?!
A
tutti gli atleti capitavano degli infortuni e, a ben guardare, lei non
si era mai lamentata. Aveva affrontato svariati interventi e correlate
terapie riabilitative senza batter ciglio; senza mai pensare di
rinunciare. Aveva lottato sempre e, anche quando una vocina dentro di
lei l’aveva spinta a considerare la possibilità di
smettere, aveva deciso di non starla a sentire e di impegnarsi ancora
di più.
Tutto
questo lo aveva fatto per sé, per la propria carriera di
pattinatrice, ma lo aveva fatto anche per Tobias: perché lui
non dovesse mai pentirsi di aver scelto lei, in quel lontano primo
dicembre di tanti anni prima in cui era venuto al Palazzetto di Feltre,
alla ricerca di qualche talento emergente.
Emma
raggiunse la pista, scaraventando sul pavimento il borsone con i
pattini. Se ne pentì subito ed, estraendo con più
cautela le lame, si fermò a considerare quasi con riverenza
la bellezza di quell’oggetto che aveva colpito la sua
fantasia sin da bambina.
Ricordava
perfettamente la prima volta in cui i suoi genitori l’avevano
accompagnata a vedere una esibizione di campioni in Germania: per un
caso davvero fortunato erano finiti dritti in prima fila, pur avendo
acquistato un biglietto dal costo nettamente inferiore.
Erano
in vacanza a Monaco e sua madre aveva voluto approfittare
dell’occasione per vedere dal vivo le grandi stelle dello
sport che tanto l’appassionava e che spesso l’aveva
tenuta incollata al televisore.
Era
stata una serata fantastica: la vicinanza con quella magnifica
superficie lucida, che le era sembrata tanto vasta a causa della sua
statura ancora ridotta, l’aveva subito entusiasmata. E poi
c’era il freddo, che proveniva sempre dalla medesima
sorgente, ed invitava al movimento: guardando fugacemente gli occhi
degli altri bambini presenti come lei all’evento, Emma aveva
potuto percepire come tutti loro stessero condividendo il medesimo
pensiero: come dovesse essere correre e giocare su quella infinita
distesa bianca.
Quando
finalmente lo show era iniziato, Emma era rimasta incantata
dall’abilità dei suoi protagonisti, tanto belli e
leggiadri da sembrare creature del cielo più che della
terra.
La
decisione di imitarli era stata presa immediatamente, quasi subito dopo
il primo triplo axel perfettamente atterrato.
La
prima volta che aveva indossato i pattini era stato, però,
un vero shock: aveva convinto i suoi genitori ad iscriverla al corso di
pattinaggio di figura che si teneva nella sua cittadina e quelli
avevano acconsentito subito, desiderosi che la figlia si impratichisse
in una disciplina così completa.
Nessuno
però sembrava essersi preso la briga di dirle quanto fosse difficile.
Eseguite
dai campioni, tutte quelle complicate figure erano apparse
semplicissime, quasi naturali; e com’era allora che lei su
quelle lame non riusciva neppure a stare in piedi?!
Il
primo passo sul ghiaccio le aveva subito provocato una rovinosa caduta,
accompagnata da un’immediata inondazione di lacrime che aveva
costretto suo padre a portarla in braccio fuori dalla pista.
Emma
aveva giurato a se stessa che non sarebbe mai più tornata al
Palazzetto, e invece qualche giorno dopo ci aveva riprovato: poteva
anche non essere brava come gli atleti professionisti, ma
com’era che tanti bambini della sua età riuscivano
a muoversi sul ghiaccio con la stessa facilità con cui
avrebbero camminato a piedi nudi su un prato?
Era
sicura che, se ci riuscivano loro, poteva riuscirci anche lei. E
così erano iniziati gli allenamenti: prima una, due volte
alla settimana; poi tre, quattro; fino ad arrivare al punto che era
più il tempo passato sui pattini che quello in pantofole.
Un
rumore alle sue spalle la riportò improvvisamente alla
realtà.
«C’è
qualcuno?» domandò subito, alzando la voce.
«Sono
io!» rispose Giovanni, affacciandosi dalle tribune.
«Sei arrivata, finalmente!».
Il
ragazzo corse giù per le gradinate, saltando talora qualche
fila di sedili, fino a ritrovarsi a pochi passi da lei.
«Mi
aspettavi?» chiese Emma dubbiosa, iniziando ad allacciarsi i
pattini.
«Sapevo
che saresti venuta»
La
ragazza lo fissò attentamente.
«Hai
parlato con mia madre».
«Era
preoccupata!» si difese subito Giovanni. «Le hai
detto solo che avresti fatto tardi, senza farle sapere dove avevi
intenzione di andare. Sono stato io a rassicurarla».
Emma
entrò in pista, seguita qualche tempo dopo dal ragazzo che
aveva a sua volta indossato i pattini.
«Che
cosa facciamo?» si informò quello entusiasta.
«Salti, trottole, oppure...»
«No»
lo bloccò Emma, con determinazione. «Questa volta
stai a guardare e mi dici se ti sembro debole!»
Giovanni
la fissò per un istante con un’espressione strana;
poi sembrò voler dire qualcosa, ma alla fine decise di
lasciar perdere e si ritirò vicino alla barriera.
Emma,
dal canto suo, aveva già iniziato il suo riscaldamento.
Pochi minuti dopo si lanciò nell’esecuzione delle
sue combinazioni preferite, mettendo in ogni salto che affrontava un
po’ più di cattiveria rispetto a quello appena
completato.
Un
tentativo di triplo axel, partito male ma fortemente voluto, la fece
cadere malamente sul ghiaccio, lasciandola per qualche istante incapace
di muoversi. Giovanni accorse subito e quando la raggiunse la
trovò ancora costretta a trattenere il respiro per il
dolore.
«Dove
ti sei fatta male?» chiese subito, preoccupato.
«L’osso...
sacro...!» esclamò la ragazza, lasciando cogliere
in ogni sillaba tutta la sua sofferenza.
«Ti
posso fare un massaggio!» si offrì volenteroso
Giovanni, aiutandola a rimettersi in piedi. «Magari ti
passa».
Emma
lo spinse lontano, facendogli intuire chiaramente che quella del
massaggio era stata una sparata eccessiva.
«Lascia
in pace mia sorella, Tontolo!»
Il
ragazzo si guardò intorno nervoso, alla ricerca della fonte
di quel commento, ma già consapevole
dell’identità del nemico che avrebbe dovuto
affrontare.
«Quante
volte ti ho detto» iniziò tremante di rabbia
contro il vuoto «di non chiamarmi in quel modo?»
«Come?»
fece di rimando una vocina divertita, ancora lontana.
«Com’è che non ti devo chiamare,
Tontolo?»
«Ora,
basta!» si infuriò il ragazzo. «Vieni
fuori, Pulce!»
Una
ragazzina dai capelli castani sbucò dal primo ordine di
gradinate, introducendosi rapidamente in pista con le sole scarpe da
ginnastica.
«Torna
indietro!» la ammonì Giovanni spaventato, pur
contro la sua volontà. «Ti farai male!»
Per
tutta risposta la ragazzina fece un giro e mezzo di trottola, rimanendo
perfettamente in equilibrio.
«Visto?
Sul ghiaccio sono più brava di te, anche senza
pattini!»
«Te
la sei cercata...» sibilò Giovanni, gettandosi
contro di lei.
La
ragazza riuscì a muovere qualche passo, ma Giovanni la
raggiunse immediatamente iniziando a farle il solletico e
simultaneamente a difendersi dai calci e dai pugni che quella aveva
immediatamente iniziato a sferrargli contro.
«Vivi,
lascia in pace Giovanni! E’ più grosso di
te!» la avvertì infine Emma, che aveva ripreso
come se nulla fosse la sua serie di salti.
«Tranquilla,
Emma» fece il ragazzo di rimando. «La sistemo e
torno» avvertì, sollevando di peso la ragazzina
indemoniata che, ciononostante, iniziò a stringergli le
braccia intorno al collo.
«Mollalo,
Vivi!» fece ancora pigramente Emma.
La
sorella alla fine desistette, abbandonandosi a peso morto tra le
braccia di Giovanni, che dovette così faticare un bel
po’ per trascinarla fuori della pista.
«Tua
sorella è pericolosa» proclamò alla
fine il ragazzo, quando fu rientrato in pista. «Non avreste
dovuto consentirle di dedicarsi all’hockey».
«Mi
pare che sia la giocatrice migliore della squadra» gli
rispose Emma, alzando un sopracciglio.
«Per
forza! Picchia duro come un maschio!»
«Dov’è
ora?» chiese ancora la ragazza, eseguendo una spirale con
cambio di filo.
«L’ho
legata con la mia sciarpa ad una delle docce».
«E
l’hai aperta?»
«Certo!»
esclamò quello, con fare diabolico.
* * *
Non fu semplice rientrare
dopo l’una e spiegare ai genitori perché Viviana,
che la mattina dopo aveva compito di biologia, fosse fuori dal suo
letto e bagnata fradicia dalla testa ai piedi.
«É
stato Giovanni» illustrò pacatamente la sorellina.
«Ma me la sono cercata» precisò subito,
notando lo sguardo assassino del padre.
«Che
cosa è successo esattamente?» indagò
ancora la madre.
«Nulla!
Sono ragazzi...»
La
voce di Emma era intervenuta per porre fine alla penosa discussione.
«Mamma,
papà... sono quasi le due e Viviana domattina ha una
verifica! Forse dovreste...»
«Non
fare la sorella responsabile, ora!»
ruggì la madre. «Avresti dovuto pensarci prima!»
«Io
ci ho provato» sussurrò la ragazza.
«Sono tutti tuoi!»
Salendo
in fretta le scale verso la sua camera, Emma fece in tempo ad udire
qualche altra battuta.
«...
ed era proprio necessario che ti bagnasse anche i vestiti?! Ritieniti
fortunata se scampi la polmonite!»
«Mamma!»
esclamò Viviana scandalizzata. «Non poteva mica spogliarmi!!»
Eh già. Il
ragionamento non fa una piega.
Emma
si complimentò mentalmente con la sorella, pur immaginando
che i genitori probabilmente non avrebbero condiviso la sua opinione.
Tutto
quel sentir menzionare docce e acque le aveva messo sete, ma non aveva
la minima intenzione di tornare in cucina. Mentre rifletteva sulla
possibilità di raggiungere il rubinetto del bagno senza
incontrare sulla sua strada qualche familiare inferocito, si
ricordò di aver acquistato nel pomeriggio, poco prima di
rientrare a casa dopo il lavoro, una bottiglietta da mezzo litro.
Doveva essere da qualche parte nella sua borsa.
Emma
svuotò lo zainetto sopra la coperta imbottita, individuando
subito l’oggetto dei suoi desideri.
Chiusa. Ancora chiusa.
Trattenne un verso di sconforto. Si avvicinò alla
bottiglia e la osservò in cagnesco. «Non ho tempo
da perdere con te» sibilò. Il liquido
all’interno della plastica trasparente rifletteva
l’immagine distorta di un biondino intento ad eseguire un
triplo salchow appeso all’anta sinistra del suo armadio.
Si
avventò sul tappo con tutte le sue forze. Tirò,
svitò, sfregò, agitò, morse... ma
quello non si spostò di un millimetro.
Ma por*** miseria!
Perché dev’essere sempre così!
Gemette Emma che mai in tutta la sua vita aveva avuto la soddisfazione
di aprire una bottiglia con le sue mani.
Perché devo essere
così...
Aveva
in mente milioni di aggettivi, ma il primo che le affiorò
sulle labbra fu quello usato contro di lei qualche ora prima da Tobias.
No, io non sono debole.
«Io non sono debole» disse ad alta voce rivolta al
poster. E lo ripeté pure alla bottiglia, ma questo non le
impedì di ripensare alla dolorosa conversazione con il suo
allenatore.
Ti sbagli, Tobias
Liendermann... Ti sbagli di grosso.
In
preda all’agitazione accese il computer, tamburellando
nervosa con le dita sulla scrivania mentre attendeva il caricamento di
Windows.
Inseriti
in fretta i dati utente, si avventò sulla cartella
“video”, al ricerca di un file che aveva scaricato
qualche tempo prima dalla rete, senza però trovare mai il
coraggio di aprirlo.
Canziani_Nazionali**_LP
Riconobbe
immediatamente il suo abito candido come la neve con gli intarsi in
oro, che rilucevano con forza sulla superficie cristallina della pista.
Riconobbe lo sguardo teso di Tobias, inquadrato di striscio
dall’operatore. Riconobbe anche il suo di sguardo, che
non osava sollevarsi dal ghiaccio.
Emma
chiuse gli occhi mentre le prime note della Madama Butterfly si
diffondevano nella sua camera. Qualche secondo e si portò
istintivamente una mano al fianco, mentre il cuore le batteva
all’impazzata. Prima combinazione. Prima caduta.
Non fa niente,
pensò stringendo i pugni. Ho tutto il programma davanti.
Doppio
axel. No, solo semplice.
Prova ancora, Emmi...
Seconda
combinazione. Seconda caduta.
Dio, fa’ che
finisca... fa’ solo che finisca presto...
Emma
aprì gli occhi. Per qualche istante aveva dimenticato di
trovarsi in camera sua. Per qualche istante era tornata sul ghiaccio
del Palazzetto di Trento.
La
ragazza gettò un’ ultima occhiata allo schermo,
che mostrava una layback spin priva di carattere. Interruppe la
riproduzione del video e per una volta si ritrovò a
ringraziare lo scarso interesse degli italiani per il pattinaggio.
Per fortuna il commento era in
tedesco... rifletté. Peccato però
che esclamazioni quali «Ahhhh...» e
«Ouch!» fossero internazionali.
* * *
Nota dell’autrice
Con
“LP” si intende il Long program (programma lungo o
libero) che ciascun pattinatore deve preparare come seconda e ultima
prova di una competizione. Si distingue dallo Short program (programma
corto), di durata inferiore, che si svolge per primo e prevede
l’esecuzione di alcuni movimenti obbligatori.
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Capitolo 4 *** Sincerità ***
Quattro.
Sincerità
La
notte non le
aveva portato consiglio. Si era rigirata tra le coperte per
più di tre ore
prima di arrendersi all’idea che non sarebbe riuscita ad
addormentarsi.
Sconfitta dal suo stesso caratteraccio si era infine alzata quando
mancavano
pochi istanti all’alba ed era scesa in giardino, per
contemplare dal vivo la
bellezza del sorgere del sole.
Quasi
senza
accorgersene si era incamminata verso la chiesa, senza incontrare sul
suo
percorso anima viva: forse fu proprio questo pensiero a guidarla
istintivamente
verso un luogo che non era abituata a frequentare, ma che in quella
gelida
mattina di metà gennaio sembrava inspiegabilmente chiamarla.
Era giunta alle
porte del cimitero del paese quando ormai la luce si era fatta
più intensa intorno
a lei ed i colori ancora grigi del cielo erano pronti ad annunciare una
giornata piuttosto soleggiata.
Chiuso.
Ovvio che fosse chiuso. Sia perché
quella mattina gli astri, evidentemente d’accordo con quelli
della notte, non
sembravano esserle particolarmente favorevoli, sia perché in
fin dei conti
erano pur sempre le sei del mattino.
E
adesso? Emma
si guardò attorno e decise di
accomodarsi su di una panchina rossa vicino all’entrata. Si
sedette sullo
schienale, appoggiando i piedi infreddoliti sul legno ancora umido di
rugiada. Perché
era venuta? Emma non lo sapeva. O forse lo sapeva, ma se ne vergognava.
Chissà
cosa sperava... Quello non era certo il luogo adatto per trovare delle
risposte, ma per molte persone si rivelava spesso il posto migliore per
porre
delle domande. E lei ne aveva tante.
Chiuse
gli occhi
e immediatamente i suoi pensieri formularono nella mente
l’immagine di un vestito
nero, impreziosito di strasse e paiette, elegantissimo. Ed il ricordo
della
donna che lo aveva indossato si abbatté su di lei con la
forza di un tornado: fu
come essere risucchiata in una trottola centrata male... la stessa
energia, la
stessa sensazione di vertigine, la medesima certezza di cadere...
E
pianse. Pianse
fino a quando gli occhi non le bruciarono per il bagliore del sole,
finalmente
alto nel cielo.
***
Con
fatica
lasciò la panchina e si rimise in piedi. Guardò
l’orologio. Le sette e mezza.
Non mancava poi molto
all’apertura del cimitero. Emma fissò la porta
sbarrata per qualche istante ancora,
incerta sul da farsi. Poi si allontanò a passi svelti,
dirigendosi rapida verso
l’unico luogo che se possibile l’avrebbe fatta
sentire ancora peggio.
Arrivò
quando le
finestre erano ancora chiuse e le veneziane abbassate. Peccato.
Da un certo punto di vista avrebbe desiderato che Tobias
la vedesse in quello stato. Che potesse infine contemplare la sua reale
debolezza in tutta la sua profondità ed in tutta la sua
disperazione. Se avesse
potuto vederla in quel momento il suo allenatore forse avrebbe avuto
modo di
accorgersi di un particolare che sino ad allora gli era sfuggito: che
la sua
debolezza era per lei una incredibile fonte di energia. Di forza. Perché Emma ne era
sicura: se avesse indossato i pattini in
quel preciso istante, sarebbe stata in grado di realizzare il triplo
axel
meglio riuscito della storia di questo sport.
Le
otto. Ancora nessun movimento. A
quanto pareva
Tobias se la prendeva comoda la domenica mattina. Seduta sul cofano
della
macchina del suo allenatore, ancora luccicante dopo il recente
acquisto, Emma
non riusciva a staccare gli occhi rossi dalle finestre
dell’interno 5B.
Andiamo...
sussurrò a mezza voce.
L’antifurto
della vettura parcheggiata accanto a quella di Tobias scattò
all’improvviso,
facendola trasalire. Emma si allontanò dalla macchina,
fissando imbronciata le
finestre che non accennavano ad aprirsi. Infilò le mani in
tasca per ripararle
dal freddo pungente: ancora una volta aveva dimenticato a casa i
guanti. E
rimase in attesa.
Qualche
tempo
dopo – forse dieci minuti, forse un’ora –
la persiana della camera da letto di
Tobias si alzò. Il volto assonnato del suo allenatore fece
capolino da dietro
il vetro e guardò dritto verso di lei. La scorse
immediatamente. Non che fosse
difficile, con la strada ancora praticamente deserta.
Ma
la gente non va a comprare il giornale
stamattina?!
si ritrovò a pensare Emma, puntando i suoi occhi
infuocati contro quelli un po’ perplessi di Tobias.
L’uomo rimase immobile per
qualche istante. Difficile cogliere appieno la sua espressione a quella
distanza, ma Emma avrebbe potuto affermare con sufficiente certezza di
non
averlo visto muoversi per un bel pezzo.
Restò
lì a
guardarla. A lungo. Così a lungo che le fece quasi
rimpiangere di essere
venuta. Poi si allontanò dal balcone, lasciando la ragazza
in preda ad un
atroce dubbio: stava forse venendo a parlarle?
Istintivamente
Emma indietreggiò di qualche metro. Attraversò di
corsa la strada per porre un
ostacolo tra lei e quell’incontro che non era più
tanto sicura di desiderare.
Qualche
minuto
più tardi Tobias sbucò dal portone del
condominio, il pigiama a righe che
fuoriusciva impietoso dalla giacca a vento. Aveva una tazza in mano.
Probabilmente era caffé. La adagiò senza premura
al gradino più alto che si
protendeva verso il marciapiede e, gettata una rapida occhiata verso di
lei,
tornò dentro.
Emma
attese
ancora un po’. Quando fu sicura che il suo allenatore non
sarebbe uscito di
nuovo, tornò ad avvicinarsi all’edificio.
Contemplò con sentimenti misti la
tazza, che effettivamente era colma di caffé fumante. Poi
scorse la neve, che
giaceva ancora fresca nel piccolo rettangolo d’erba che
faceva da cornice ai
parcheggi. E scelse il piede a cui solitamente si affidava
più volentieri per
le sue spirali.
Incurante
del
freddo, che le sue vecchie scarpe da ginnastica mal riuscivano ad
isolare,
tracciò attentamente una scritta, disegnando quelle due
semplici lettere con la
perizia di un Mandarino.
NO.
***
Qualche
ora più
tardi era alla Medaglia. Prima
ancora
di capire esattamente che cosa aveva intenzione di preparare si
ritrovò coperta
di farina fin sopra i capelli e con il grembiule sporco di lievito.
Giovanni
scese appena in tempo per vederla imbrattarsi le maniche della
camicetta nuova
con la pastella d’uovo.
«Ti
sei
svegliata presto!» commentò divertito, tenendosi a
debita distanza dal bancone
ricolmo di ingredienti.
«E
di buon
umore...» aggiunse, notando che la ragazza non accennava a
rispondere.
«Che
fai?»
Giovanni
aveva
deciso di insistere; la sua tenacia venne infine premiata quando Emma
puntò lo
sguardo su di lui e accennò un sorriso.
«Aspetto
l’ispirazione»
«E
non è che
finché aspetti potresti cucinarmi, che so, una
crostata?»
Emma
gli si
avvicinò per passargli le presine.
«É
già in forno.
Fra qualche minuto sarà pronta»
«Wow!»
esclamò
Giovanni entusiasta. «Sei proprio una donna da
sposare!»
«Faccio
solo il
mio lavoro»
Emma
era già
sulla difensiva, ma il ragazzo decise comunque di tentare.
«Dunque
non
l’hai preparata appositamente per me?!»
Per
tutta
risposta la bella pasticcera gli indicò con il mestolo il
menu appeso alla
cappa del fornello, che effettivamente recava la scritta esplicativa:
«Crostata di frutta per
lunedì».
«Tanto
mi piaci
lo stesso...» sussurrò ancora Giovanni.
«Ora basta!»
Lo
strillo di
Emma rimbalzò contro le piastrelle della cucina. Il ragazzo
la fissò quasi
spaventato: si conoscevano da quando erano bambini e mai prima
d’ora l’aveva
sentita alzare la voce.
«Emma...»
iniziò
mortificato «... Io stavo scher...».
«Per
l’amor del
cielo, Giovanni!» lo interruppe lei, sempre più
arrabbiata. «Magari fosse
tutto uno scherzo! Lo sai
come stanno le cose e sai anche che non sono una persona che cambi idea
facilmente. Anzi non la cambio mai. E la mia risposta è no. Sarà sempre no, da adesso
ai prossimi cinquant’anni!»
Si
fermò solo
perché era rimasta senza fiato. Osservò le mani,
che avevano iniziato a
tremarle, mentre gran parte della marmellata di fragole era colata
dalla punta
del mestolo al pavimento.
Giovanni
la
fissava avvilito, senza riuscire a spiccicare parola. Poi
sembrò riscuotersi;
chiuse gli occhi con forza e quando li riaprì la sua
espressione era
decisamente amareggiata. Uscì dalla porta prima ancora di
averle dato il tempo
di realizzare quanto era accaduto.
***
«Stai
bene?»
La
voce di
Carlotta suonava appena preoccupata. L’amica le aveva fatto
una sorpresa e
l’aveva raggiunta in cucina dopo la Messa delle undici. Non
che fosse di grande
aiuto, in realtà; la sua presenza era più che
altro d’intralcio, considerata la
sua naturale propensione al disordine.
«Mai
stata
meglio» assicurò Emma, rimettendo a posto la crema
pasticcera che Carlotta
aveva tirato fuori dal frigo per assaggiarla.
«Sarà...»
concesse l’amica, fin troppo meditabonda per non lasciar
presagire una replica.
«Ma ch’hai una faccia...»
«Ha
litigato con
Tontolo!» si intromise Vivi, facendo capolino dalla dispensa.
«E
tu da quanto
sei qui?»
Quella
ragazzina ha il dono di rendersi invisibile,
pensò Emma.
«Perché
hai
litigato con Giovanni?» chiese Carlotta interessata,
ignorando la domanda
dell’amica.
«Non
abbiamo
litigato» chiarì Emma.
«Oh
sì, invece!»
Viviana
si era
accomodata vicino al bancone e stava ripulendo il vasetto di Nutella
che Emma
aveva impiegato per farcire i bigné.
«E
tu come lo
sai?» domandò ancora Carlotta.
«Ho
incontrato
Tontolo!»
«Vi
vedete
spesso voi due, vero Pulce?»
La
voce di Emma
emerse dal frigorifero poco prima della sua testa.
«Ti
rendi conto
che il tuo è un tentativo patetico – e peraltro
inutile – di stornare la nostra
attenzione dalla questione principale?» fece pedantemente
Carlotta.
«E
cioè?»
Le
due ragazze
si fissarono esasperate, costringendo Emma a trattenere la prima risata
della
giornata.
«Il
tuo litigio
con Giovanni!» esclamarono in coro.
Emma
capì di non
avere scampo. Avrebbe dovuto confessare, almeno in parte, che erano nel
giusto.
Per certi versi la infastidiva un po’ questa invasione nella
sua privacy, ma
d’altro canto quelle erano le sue migliori amiche ed avevano
diritto di sapere
che cosa le capitava.
«Che
cosa ti ha
detto, esattamente?» domandò alla sorella.
«Non
lo
sottovalutare, Emma» disse Viviana seriamente, lasciandole di
stucco. «É un
bravo ragazzo. Non ha aperto bocca, ma io lo conosco: non lo avevo mai
visto
così giù. Neppure quando siamo stati eliminati in
semifinale».
Accidenti!
Ora sapeva di aver esagerato. Una
fastidiosa sensazione simile al rimorso le avvolse lo stomaco.
«Vado
e torno»
Le
ragazze la
fissarono senza capire.
«É
al
palazzetto, vero?»
«Sì,
ma...»
iniziò Viviana. «Le torte, qui...»
«Vado
e torno»
ripeté Emma, togliendosi di dosso il grembiule
impiastricciato.
***
Giovanni
era
effettivamente al Palazzetto. Circondato dai suoi compagni di squadra,
stava
illustrando loro gli schemi di gioco che aveva preparato insieme a
Viviana
durante la settimana. Già dalle gradinate Emma ebbe modo di
scorgere il suo
sguardo abbattuto e le spalle curve, che stridevano apertamente con il
suo
aspetto consueto.
Lo
raggiunse a
bordo pista in un baleno e prima che lui o qualcuno dei suoi compagni
potesse
comprendere cosa stava facendo, lo abbracciò stretto,
facendolo arrossire
violentemente. Rimase così qualche istante, senza che
Giovanni riuscisse
neppure a ricambiare l’abbraccio.
«Scusami»
mormorò in modo che solo lui potesse udirla.
Il
ragazzo annuì
lentamente, ancora scombussolato.
Poi
la seguì
all’esterno, lontano da occhi indiscreti.
«Non
posso
rimangiarmi quello che ti ho detto stamattina»
spiegò Emma, faticando
leggermente ad affrontare lo sguardo dell’amico.
«Penso
veramente
che non ci siano possibilità per... per noi due»
si sforzò di ribadire. «Ma non
avrei dovuto gridare. Ti chiedo scusa».
Giovanni
le
prese la mano e gliela strinse forte.
«Cercherò
di
farmene una ragione»
«Grazie»
«Ma
siamo amici,
vero?» si informò il ragazzo.
«Sei
il mio migliore amico!»
assicurò Emma con un
sorriso.
«E
in quanto tuo
migliore amico» riprese Giovanni «me lo diresti se
fossi innamorata di
qualcuno, giusto?»
Più
che una
domanda sembrava una minaccia.
«Non
c’è nessuno,
te l’assicuro...»
«A
parte Straviskij...»
protestò Giovanni.
Questa
volta
Emma rise apertamente.
«Naturale,
a
parte Straviskij!»
«Non
ti offendi
se ti dico che anch’io ti preferisco Jessica Alba»
le confessò il ragazzo,
passandole un braccio attorno alla vita.
«A
me basta che questo braccio»
puntualizzò Emma
avviandosi verso la pasticceria «non si prenda troppe
libertà!»
«Mi
permetti di
accompagnarti?»
Emma
acconsentì
volentieri.
***
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Capitolo 5 *** Rischio ***
Cinque.
Rischio
La
giornata alla
Medaglia non era stata delle
più
tranquille. I clienti si erano ammassati attorno al bancone sin
dall’ora di
colazione e la ressa non aveva fatto che aumentare fino
all’ora dell’aperitivo,
quando aveva raggiunto il culmine. Festa nazionale, lì al
paese, perché quel
giorno ricorreva l’anniversario del Patrono. E tutti ne
approfittavano per
riempirsi la pancia di dolci e di spritz,
a seconda dell’ora.
Emma
aveva
soddisfatto l’appetito delle persone più
disparate. Dal nuovo parroco al suo
macellaio di fiducia, passando per la signora dell’edicola e
la parrucchiera da
cui aveva smesso di andare qualche anno prima. Il massimo era stato
preparare
un green tea alla sua professoressa
di inglese delle scuole medie, che l’aveva ringraziata con un
significativo
«Thank you very much», a cui aveva risposto con un
pronto «You’re welcome,
prof.».
Il
momento più
spiacevole era stato sicuramente quello in cui aveva dovuto servire
Mirko e la
sua nuova fidanzata, che non aveva neppure avuto la decenza di tentare
di
nascondere il sorriso trionfante che le si era dipinto sul volto non
appena
l’aveva scorta china sul pavimento, intenta a ripulire una
pozza di latte
macchiato provocata da un cliente distratto.
«Allora...»
aveva provato Mirko, un po’ in imbarazzo.
«Allora...»
«Pattini
ancora?» si era informato, mentre Francesca faticava a
scegliere che cosa
volesse gustare tra una pastina di riso e una di ricotta.
«No»
«No?»
«No»
«É
un peccato.
In fondo eri brava»
Grazie
della concessione, vile adultero!
«Non
abbastanza»
rispose solo.
«Magari
allenandoti di più...»
Emma
sgranò gli
occhi. Ma come osava? A quanto le
aveva sempre detto, Mirko l’aveva mollata proprio
perché si allenava troppo.
Qualcuno
qui è decisamente ipocrita...
«Ho
deciso!»
proclamò all’improvviso Francesca, salvando il suo
neofidanzato da una
spruzzata di panna montata sul giaccone nuovo, che Emma era abbastanza
sicura
di riuscire a far passare per un errore del tutto involontario.
«Voglio
quella
alla ricotta!» ordinò risoluta.
Emma
sorrise di
soddisfazione.
«Mi
rincresce,
ma non puoi averla»
«Perché
no?»
«Perché
ne è
rimasta una soltanto e tutti qui alla Medaglia
sanno che l’ultima pastina alla ricotta della giornata
è da sempre riservata
alla vecchia signora Luisa».
Già.
La vecchia
signora Luisa, la bidella storica della scuola del paese.
«Ma
non si
potrebbe, insomma, per una volta... fare una eccezione?»
tentò ancora
Francesca.
Emma
cercò
prontamente lo sguardo di Giovanni, che trattenendo a stento una
risata,
richiamò l’attenzione dei presenti dichiarando a
gran voce: «Ehi, gente! La
Francesca, qui, vorrebbe derubare la vecchia signora Luisa della sua
pastina
quotidiana!»
Un
basso
mormorio di disappunto avvolse l’usurpatrice, che non se la
sentì più di
reclamare privilegi che non poteva vantare.
Dopo
le sei i
clienti avevano iniziato a ritirarsi, lasciandola sola con il suo
compito di
ripulire a fondo il locale. Dopo un’oretta di detersivi per i
pavimenti e di
prodotti per il marmo di Verona del bancone, appese
all’attaccapanni della
cucina il grembiule. É ora di
tornare a
casa, si disse con un sospiro.
Passò
davanti al
Palazzetto e non poté fare a meno di sbirciare in direzione
dei colossali
finestroni che si aprivano sulla via principale. L’interno
era illuminato,
segno evidente che qualche pratica sportiva era ancora in corso. Si
ricordò che
al martedì gli allenamenti della squadra di hockey si
svolgevano in notturna. Qualcuno
salterà lo sformato della mamma
stasera, pensò, immaginando il disappunto di
Viviana. Del resto solamente
il mese prima sarebbe stata costretta a rinunciarvi anche lei. Le
tornò subito
alla mente il pranzetto coi fiocchi cucinato dalla madre per
l’Immacolata, che
lei non aveva neppure potuto assaggiare.
Ma
ora i tempi
di rinunce e privazioni erano definitivamente terminati. Aveva detto di
no. La
sua era una decisione irrevocabile. Ed incredibilmente saggia. Poco
importava
che continuasse ad allenarsi quasi ogni sera. Ancora meno che, senza la
pressione di una competizione imminente, non avesse mai pattinato
così bene.
Con profondo stupore si era infatti accorta di aver recuperato tutti i
suoi
salti, compresi quelli tentati nell’ultimo disastroso libero.
E ne aveva
aggiunti degli altri. “Consolidati”
è il
termine esatto, ammise rivolta a se stessa, li
sapevi fare anche prima, ma non ti sentivi pronta a rischiare.
Già.
Emma
camminava veloce alla volta di casa, cercando di scacciare dalla mente
le
fastidiose immagini degli ultimi campionati a cui aveva partecipato.
Non si era
mai vergognata tanto in vita sua. Aveva sbagliato praticamente tutto
quanto
poteva sbagliare. No, non tutto: le sequenze di passi si erano salvate,
ma la
loro intensità era stata quanto meno discutibile. Non
c’era stato sentimento
nella sua Madama Butterfly; non
c’era
stato dolore. Eppure ne aveva tanto dentro in quel momento; ma non era
riuscita
a convertirlo in energia. Ora sapeva che se non c’era
riuscita non era per
debolezza, come sosteneva ingiustamente Tobias, ma per pudore: per
trasformare
il dolore in forza agonistica devi accettare di tirarlo fuori e
mostrarlo; devi
lasciare intuire al pubblico che quella particolare scintilla che
brilla nel
tuo sguardo proviene da sentimenti veri e che non fa solo parte della
coreografia.
Emma
non lo
aveva accettato. Non aveva potuto. Odiava i compromessi da sempre e non
sopportava di doversi mettere a nudo. Neanche la vittoria avrebbe
potuto
ripagarla di quanto avrebbe dovuto rivelare. Quella parte di lei era
bene che
rimanesse nascosta dentro di sè, dove la stessa Emma avrebbe
fatto fatica a
trovarla.
Immersa
in
questi metafisici pensieri, raggiunse in poco tempo il cancello del suo
condominio. Fu solo una sensazione, ma la colpì dritta allo
stomaco. Qualcosa
non quadrava. Davvero. Non era solo
paranoia. C’era qualcosa che la infastidiva, ma non sapeva
cosa. Si guardò
attorno e finalmente lo distinse, l’intruso. Una vettura
rossa fiammante era
parcheggiata accanto all’utilitaria dell’inquilino
del primo piano. Non l’aveva
mai vista prima e si poteva dire che frequentava quel parcheggio da
parecchio
tempo. A chi mai poteva appartenere? Chi dei condomini possedeva un
amico tanto
alla moda (e tanto dotato di mezzi)?
Qualcuno
le aprì
il portone prima ancora che si mettesse alla ricerca delle chiavi.
Giovanni
apparve dal balcone della sua cucina e le fece cenno di aspettarlo di
sotto. La situazione è surreale...
pensò Emma,
che non riusciva a liberarsi di quella bizzarra sensazione.
«Ho
provato ad
impedirlo, Emma» le sussurrò Giovanni che
l’aveva raggiunta ai piedi delle
scale. «Ho provato a tenerlo fuori di casa tua! Ma i tuoi
hanno aperto» spiegò,
senza che la ragazza riuscisse comunque a venire a capo del problema.
«Ma
tu non
dovresti essere all’allenamento?» chiese solo,
cercando di riprendere contatto
con la realtà.
«Non
ti hanno
sentita arrivare...» continuò l’amico
senza preoccuparsi di risponderle. «Forse
fai in tempo ad andartene...»
«Ma
questa è
casa mia!»
«Fidati,
se sali
quelle scale te ne pentirai...»
Ok,
era ufficiale: l’agente Smith aveva appena fatto
irruzione nel suo appartamento...
«Se
non ti
spiace, scelgo la pillola rossa» citò, affrontando
i primi gradini.
No,
non era
l’agente Smith. Ma nel suo salotto c’era
effettivamente uno sconosciuto. Il
tale le si avvicinò sussiegoso, non appena la vide varcare
la soglia del suo
appartamento.
«La
signorina
Canziani, immagino» le disse stringendole la mano.
«Bellissima postura» si
congratulò.
Non
si preoccupò
di conoscere l’identità del nuovo venuto. La sua
attenzione fu subito catturata
dagli altri ospiti che riempivano i suoi due sofa. C’era la
sua famiglia,
com’era naturale. Compresa Viviana, che aveva saltato gli
allenamenti. Ma
c’erano anche Tobias e la sua coreografa, Maristella Soldin.
Ommmiodddio...
tutti insieme parevano gli
Addams senza Mano.
Fu
la madre la
prima a prendere la parola, per spiegarle che il signore in jeans
firmati e
Lacoste nera era Castellano della Federazione.
«Sarebbe
un
piacere averla nella nostra squadra... un onore vederla gareggiare con
i colori
azzurri... un’occasione irripetibile... un dovere
accettare...»
Parole
vuote,
prive ormai per lei di un vero significato, a cui tuttavia decise di
rispondere
per le rime.
«Primo:
se mi
riempie di complimenti è solo perché le atlete
più alte di me in classifica
hanno dato forfait. Secondo:
all’azzurro ho sempre preferito il rosa. Terzo: di
irripetibile vorrei ci fosse
solo la figuraccia che ho fatto ai Nazionali»
Il
salotto
sprofondò in uno scomodo silenzio.
«Ottimo...»
commentò incerta Viviana. «E cosa
c’è stasera per cena?»
Giovanni,
che si
era accomodato al suo fianco, le tirò un pizzicotto.
Non
una parola
dai suoi allenatori. Maristella era impegnata a mettere in mostra il
suo
incredibile corpo di quarantenne, che tuttavia sembrava non suscitare
l’ammirazione di Castellano. Tobias appariva alquanto
infastidito. Eppure per
un attimo, quando lei aveva sfidato il delegato, le era sembrato
divertito, se
non addirittura compiaciuto.
Un
momento...
si disse Emma, a cui il nome di
Castellano non sembrava più tanto sconosciuto. Salvatore Castellano... Ma certo! Si
diede della stupida. Come
aveva fatto a dimenticarlo?! Lui e Tobias erano stati acerrimi rivali.
Beh,
qualche annetto prima. Se la sua memoria non faceva di nuovo cilecca
Castellano
aveva derubato Tobias di una medaglia piuttosto importante e lui non
l’aveva
mai perdonato.
Ora
sarò costretta a trattarlo con maggior
rispetto...
«Signor
Castellano» disse perciò con una nuova
cortesia «sono lusingata della sua proposta; considerato
soprattutto il grande
campione da cui proviene...»aggiunse, gettando
un’occhiata impudente a Tobias.
«Ma temo di dover rifiutare. Anzi, ne sono sicura».
«Signorina,
la
prego di riconsiderare la sua posizione. Le stiamo offrendo di
partecipare ai
Mondiali!»
Castellano
sembrava intenzionato ad insistere.
«Comprendo
il
privilegio, ma ho smesso di pattinare ormai...»
«L’ho
vista sul
ghiaccio non più di un mese fa...»
«Da
allora non
mi alleno più...»
Tobias
emise uno
strano verso, che cercò subito di camuffare con un colpo di
tosse.
«Forse
il suo
allenatore potrebbe riuscire a convincerla a non buttare via questa
occasione»
continuò il delegato, invitando con lo sguardo Tobias a dire
la propria.
«Lascia
stare,
Castellano, è testarda come un mulo!»
Questo
era
troppo. Le aveva detto che era debole e ora la offendeva pure davanti
agli
estranei. Basta...
«Per
me la
discussione finisce qui» annunciò, avviandosi
verso la sua camera. «Mi spiace
che lei abbia fatto tutta questa strada, signor Castellano, ma non ho
intenzione di accettare»
Castellano
guardò verso i suoi genitori, pregandoli di intervenire ma
suo padre, che era
rimasto in silenzio per tutta la durata della conversazione, si
intromise
categorico: «Emma è abbastanza grande per fare da
sola le sue scelte».
***
Emma
si rifugiò
in camera sua quando ancora il salotto non si era svuotato dei suoi
ospiti invadenti.
Non ci poteva credere. Non ci voleva
credere. La Federazione era arrivata fino a casa sua; più
che Matrix, questo le riportava
alla mente
il Grande Fratello. Infastidita, si
guardò attorno, per controllare che nessuno avesse
installato vicino al comò un
televisore che non si poteva spegnere.
Apparentemente
era tutto tranquillo. Il pigiama e i calzini da notte giacevano ancora
sparpagliati sopra le coperte che attendevano di essere riordinate. La
felpa
che indossava solitamente per casa riposava capovolta sulla sua
scrivania,
accanto alla cintura con i fiocchetti argentati che sua sorella doveva
averle
restituito dopo averla usata senza il suo permesso.
Ripose
il
pigiama nel cassetto più basso dell’armadio,
chiudendone con attenzione le
ante. La zazzera di un biondino dagli occhi color del cielo parve
scuotersi
insieme allo spostamento d’aria, inducendola ad ammirare
ancora una volta la
perfezione tecnica nella fase aerea del suo salchow.
Appoggiata
con
le spalle contro il legno, allungò una mano fino a sfiorare
la coppa di metallo
sistemata nell’angolo della mensola, da cui fuoriuscivano
numerose medaglie di
svariate forme e colori. Ricordava quasi tutte le gare per cui era
stata
premiata, soprattutto le prime, accompagnate da un entusiasmo
sincero che poi con il tempo si era affievolito, fino a
scomparire quasi del tutto. Ricordava la sorpresa
provata nelle occasioni in cui era riuscita a piazzarsi fra le migliori.
Tobias
la trovò
così, mentre stringeva in pugno il bronzo ottenuto ai
Nazionali dell’anno
prima. Il suo miglior risultato.
«Questa
è quella
parte del mio mondo di cui tu non fai parte» lo
rimproverò acre la ragazza,
fulminandolo con lo sguardo. «Non mi piace che il mio ex allenatore» (sì,
lo aveva detto appositamente) «scorrazzi
indisturbato per camera mia!»
Inutile.
Vedere
la figura possente di Tobias entro lo spazio esiguo della sua stanza la
metteva
in imbarazzo. Non era solo per il disordine che vi regnava sovrano, per
il
quale tra l’altro sarebbe stata ampiamente presa in giro; era
più per un
fattore di privacy violata: non solo infatti Tobias era un uomo, ma era anche una specie di
superiore, di capo con cui
tratteneva rapporti abbastanza formali, nonostante si conoscessero da
quasi una
vita. Ed Emma desiderava che quei rapporti non subissero alterazioni.
«Preferirei
che
tu continuassi a rimanere fuori da questa parte del mio
mondo» ribadì, alzando
impercettibilmente il tono di voce al momento della pronuncia
dell’avverbio di
luogo.
«Carina
la
fotografia...» commentò Tobias, gettando uno
sguardo divertito verso l’armadio.
«E da quando lui fa parte
del tuo
mondo?!» la sbeffeggiò.
«Lui
è di carta»
replicò asciutta.
I
due rimasero
un istante a fissarsi ostinati, fino a quando gli occhi di Tobias
scorsero ciò
che la ragazza teneva fra le mani.
«Per
quanto mi
riguarda, la puoi tenere!» strillò Emma,
scagliandogli contro la medaglia. «É
l’unico trofeo che ti ho portato, no?!»
Tobias
non
raccolse la provocazione; si chinò a recuperare il disco di
bronzo che era
atterrato sul pavimento e lo risistemò sulla mensola,
avvicinandosi lentamente ad
Emma.
«Che
cosa
facevi?» chiese cauto, quasi a voler avviare una civile
conversazione.
«Scrivevo
in
Google il tuo nome...» rispose svelta Emma. «Giusto
per controllare il tuo
palmares...».
Aveva
mentito
spudoratamente: lo schermo del suo pc era spento; ma Tobias sapeva
esattamente
dove voleva andare a parare.
«E
allora?» la
sfidò.
«E allora» si
inalberò lei «neanche tu
hai mai fatto grandi cose!»
E
così lo aveva
detto. Emma abbassò lo sguardo, incapace di sostenere
l’occhiata colma di
indignazione che le rivolse il suo allenatore. Fino a qualche mese
prima non si
sarebbe mai permessa di esprimere simili giudizi; probabilmente non
avrebbe neppure
osato pensarli, fiduciosa
com’era
nella comprensione della persona con cui trascorreva gran parte della
sua
giornata. Quell’ultimo commento aspro era semplicemente un
atto di ribellione
di fronte all’atteggiamento ingiusto di Tobias, che non aveva
saputo appoggiarla
nel momento in cui aveva avuto davvero bisogno di lui e con la sua
inflessibilità aveva addirittura acuito il
suo innato senso di insicurezza e la sua solitudine.
Naturalmente
lui
non aveva capito: il dubbio di essersi comportato in maniera crudele
non lo
aveva mai nemmeno sfiorato ed ora se ne stava lì a fissarla
adirato, come se
fosse stata lei a ferirlo. Come se fosse stata tutta colpa sua.
Emma
si impose
di sostenere il suo sguardo. Quegli occhi, dai quali aveva sempre
cercato
approvazione, ora avevano smesso di determinare la differenza tra
ciò che era
giusto e ciò che era sbagliato. Nell’ultimo,
intenso periodo aveva finalmente
compreso che Tobias andava consultato solo per le questioni tecniche e
strettamente
professionali e che a quelle private avrebbe dovuto pensare da sola.
Lui non
era suo amico, e mai lo sarebbe diventato. Era il suo allenatore, o
così era
stato per tanto tempo, e lei doveva imparare a tenere in considerazione
la sua
opinione solo per ciò che riguardava il ghiaccio, senza
lasciarsi condizionare
dal suo brutto carattere e dai suoi giudizi affrettati nella vita
quotidiana.
Essere stato un buon allenatore non lo rendeva una persona dolce o
affabile,
almeno quanto l’interessamento dimostrato da Mirko quel
pomeriggio per la sua
sorte non lo rendeva un gentleman.
Ciononostante
non riusciva a liberarsi completamente dal senso di colpa che
l’aveva assalita
non appena aveva pronunciato quel commento, solo pochi istanti prima,
che – se
ne era accorta – l’aveva fatto trasalire.
Per
un attimo
pensò che se ne sarebbe andato sbattendo la porta e che non
l’avrebbe mai più
rivisto se non, forse, all’uscita dalla Messa domenicale.
Invece Tobias la
sorprese.
«Vèstiti,
ti
aspetto giù».
Calmo.
Eppure
non sereno. Emma aveva percepito una nota di impazienza nella sua voce
e certo
non riuscì a nascondere la sua sorpresa.
«Come,
prego?!»
«Mettiti
il
cappotto!» ordinò Tobias, scandendo bene le parole.
«Per
andare
dove?!»
La
sua
confusione era evidente.
«Miseria,
Emma,
ti serve una richiesta su carta da bollo per aprire l’armadio
e ficcarti su una
roba di lana?!»
Ok.
Ancora incerta, la ragazza indossò il
piumino rosa che giaceva abbandonato sulla cassapanca.
«Certo»
puntualizzò con aria superiore, «aiuterebbe molto
sapere dove hai intenzione di
portarmi».
Questa
volta fu
il turno di Tobias di guardarla sconcertato.
«Non
hai ancora
capito che esiste un solo posto in cui possiamo continuare questa
discussione?!»
***
Nota
dell'autrice
Rieccomi! Sono tornata! ^ ^
Chiedo scusa per l'enorme ritardo nell'aggiornamento ma è
stato un periodaccio; in più ho avuto diversi problemi con
il mio account, che al momento sembrano felicemente risolti! ;)
Chi di voi vorrà leggere questa storia dovrà
avere parecchia pazienza, però: l'aggiornamento
sarà abbastaza lento... chiedo perdono sin da ora!
Un grazie di cuore a Lady_me
per la sua recensione! Se oltre a lei ci fosse anche qualche altro
lettore... beh, si faccia sentire! =)
|
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Capitolo 6 *** Confronto ***
Sei
Confronto
La
strada fino
al palazzetto le sembrò interminabile. Camminare al fianco
di un Tobias
profondamente incollerito non era certo una bella esperienza:
l’allenatore non
fece altro che sbuffare sonoramente per tutto il tragitto,
costringendola quasi
a trattenere il respiro per evitare di irritarlo inavvertitamente.
La
squadra di
hockey al completo si voltò al loro ingresso.
«Hei!»
si
lamentò uno dei ragazzi. «Il campo è
nostro, stasera!»
«Fuori
dai
piedi, mocciosi!» tuonò subito Tobias, senza
lasciare spazio a repliche.
«Possiamo
almeno
guardare?» domandò timidamente Giovanni, che si
era fatto più vicino e studiava
in modo interrogativo Emma.
«Non
credo
sarebbe una buona idea» sussurrò la ragazza
all’amico, invitandolo con uno
sguardo preoccupato a lasciare la pista.
«Sei
sicura che
non vuoi che rimanga?»
La
voce di
Giovanni risuonò attraverso le gradinate attirando
l’attenzione di Tobias.
«Che
ci fai
ancora qui?!» sbraitò. «Questa sera ci
siamo solo io ed Emma.»
Ottimo.
Pochi giri di pista e lei era già
finita a terra tre volte: due per cause imputabili alla sua
disattenzione ma
una, senza ombra di dubbio, alla scorrettezza di Tobias, che
l’aveva spinta
quando lei gli voltava le spalle. Sembrava che tutti quegli anni
lontani dal
ghiaccio avessero alterato la sua percezione dello spazio, tanto che
ora aveva
bisogno dell’intera superficie ghiacciata per portare alla
giusta temperatura i
suoi muscoli vegliardi.
«Ahia!»
si era
lamentata Emma, quando una manata di Tobias le aveva fatto perdere
l’equilibrio.
«Scusa!»
aveva
ironizzato lui. «Sei sempre in mezzo.»
Se
non aveva
capito male, l’idea di Tobias era piuttosto semplice. Una
sfida a base di
salti. Chi ne esegue di più e di più difficili
vince. Naturalmente le aveva
offerto la possibilità di rifiutare, ma in quel caso, non le
avrebbe mai più
permesso di dimenticarlo. E poi perdere la faccia davanti a lui, dopo
tutte le
offese che le aveva rivolto nell’ultimo periodo, era fuori
discussione.
«Allora,
signorina» iniziò Tobias, dopo aver finalmente
completato il suo riscaldamento,
«vediamo cosa sai fare».
«Non
mi alleno da più di un mese, lo sai» si difese.
«Il
custode dice
che tu passi tutte le tue serate sul ghiaccio.»
«Con
scarso
impegno e blandi risultati.»
«Dice
anche che
fai 60-70 tripli per ogni ora.»
Al
diavolo il
custode! Come faceva a sapere tutte quelle cose?! Lei in pista non lo
aveva mai
visto.
«Dimmi,
Tobias, qual è stato il tuo miglior piazzamento
ai Nazionali?» lo attaccò di rimando.
«Io almeno ho vinto un bronzo!»
«Quale
onore!» ironizzò lui. «Sai, quello
italiano non è
esattamente come il campionato americano! E per la
precisione» aggiunse poi, «io
ho vinto un argento agli Europei!»
«E
questo è successo prima o dopo l’invenzione delle
lame?!»
No. Non poteva
durare a lungo. Erano
in pista da mezz’ora scarsa ed Emma aveva già
rischiato di rompersi il femore
cinque volte. Per non parlare delle ossa di Tobias, che scricchiolavano
ad ogni
trottola. Avevano già eseguito spericolati loop, flip e
toeloop con rotazioni
variabili, ma nessuno dei due accennava ad esporre bandiera bianca. E
non
mancavano gli sfottò.
«Non
vale!» si arrabbiò infatti Emma. «Quello
era il
sesto toeloop di fila, per di più doppio! Devi cambiare
salto!»
«Andiamo,
buona samaritana del pattinaggio» le fece eco Tobias,
«ho il doppio dei tuoi anni!»
«Ha
ha... Ammetti la tua debolezza?!» lo sbeffeggiò
lei,
con tono trionfante.
«Se
è per questo, non ho ancora visto le tue
combinazioni»
la rimproverò acre Tobias, assumendo la peggior aria da l’allenatore-sono-io di cui
fosse in possesso.
«Perché
non chiedi al custode se le so ancora fare?!»
«Zitta
e salta!»
Già.
Questo era sempre stato il problema di Tobias: poche
parole e tanto lavoro. Per carità,
si tratta di un sistema che può anche funzionare, in linea
di massima. Ma non
con lui. Per Tobias poche parole volevano dire anche scarsa
comprensione. E
questo non andava bene. In nessun caso.
«È
solo questo che conta per te, vero Tobias?» chiese
Emma furibonda. «Lavoro, lavoro, lavoro. Mai una discussione.
Giusto per sapere
come la pensano gli altri.»
«E
chi sarebbero questi altri?»
La risposta
della ragazza si fece attendere qualche
secondo ma poi risuonò forte e chiara.
«Io sono gli
altri.»
La sua
determinazione giunse talmente imprevista che
Tobias per poco non scivolò caricando il suo toeloop.
Triplo, questa volta.
«È
questo che vuoi?» la derise. «Parlare?»
Emma
sostenne il suo sguardo canzonatorio.
«Se
hai bisogno di riprendere fiato puoi anche dirlo!»
«Ho
tutto il fiato che mi serve!» esclamò Emma
piccata. «Ho
talmente tanto fiato che... potrei far vincere Luna rossa!»
Tobias
scoppiò in una risata fragorosa, che la fece
sentire una vera imbecille. Di bene in meglio. Un’altra boutade come questa e anche lei avrebbe
dovuto riconsiderare i
vantaggi della comunicazione.
«Se
proprio vuoi parlare, allora perché non mi dici che
cosa è successo a Trento?»
Si
udì uno schianto.
Con il suo
talento naturale per recar danno al prossimo, Tobias
aveva trovato l’unico argomento che Emma proprio non se la
sentiva di affrontare,
tirandolo in ballo per altro così a bruciapelo da farle
mancare l’atterraggio
del suo (fin lì) perfetto doppio axel al centro della pista.
«Avevo
l’influenza» disse in un sussurro, mentre le sue
guance si imporporavano.
«Balle!»
Come faceva
ad essere sempre così odioso?! Se fossero
esistiti i campionati della malvagità Tobias non avrebbe
temuto rivali. Neppure
ai Mondiali.
«Stavi
benissimo» puntualizzò l’allenatore,
interrompendo
la sua serie di salti per fronteggiarla da vicino. “E
comunque” aggiunse,
notando l’intenzione di Emma di replicare, «hai
gareggiato anche con la
polmonite.»
«Vero.
Per quello devo ringraziare te.»
«Non
c’è di che» disse Tobias, imitando un
sorriso
cordiale.
Okay. Se era
stato tanto sfacciato da tirare fuori la cosa
adesso ne avrebbe pagato le conseguenze. A Tobias non erano mai
piaciuti i
discorsi che facevano leva sul lato emotivo-psicologico delle persone;
per
questo Emma decise che si era appena meritato una confessione in piena
regola.
«Ero...
furiosa» ammise, con una certa riluttanza. «Per
colpa di quello stupidissimo campionato ho perso il funerale di mia
nonna e tu
sai bene quanto io le fossi legata.»
Ecco. Lo
aveva detto. Erano passati mesi da quando aveva
pronunciato l’ultima volta il nome della persona che aveva
segnato così tanto
la sua vita e di cui sentiva costantemente la mancanza.
«Quella
nei tuoi occhi non era furia» replicò duro
Tobias, che non era uomo da ammorbidirsi di fronte ai sentimenti.
«Era paura.»
Ma come osa?! Nessuno gli
aveva mai spiegato
che, quando una persona, specialmente una ragazza, ti apre il suo cuore
è bene
offrirle tutto il conforto possibile?!
«Certo
che era paura!» esplose, pur contro la sua
volontà. «Ero sola, okay?! Per la prima volta in
tutta la mia vita io ero sola!
Ero in un dannatissimo palazzetto davanti a migliaia di persone ed ero
completamente sola!»
Miseria, ora
sì che le mancava il fiato. Il torace le si
sollevava rapidamente, mentre il cuore minacciava di forarle la gola.
«Tu
non eri sola» rispose calmo Tobias. «Avevi
questi»
disse, indicando i suoi pattini, «tutto ciò di cui
avevi bisogno.»
Ma come
faceva a non capire? Come diavolo poteva pensare
che due pezzi di ferro potessero sostituire la persona che non si era
mai persa
una sua gara, sin da quando aveva iniziato, l’unica che
avesse sempre creduto
in lei.
«Tu
non capisci!»
Non riusciva
neppure a trovare le parole per spiegare al
suo insensibile allenatore che cosa aveva provato in quel momento,
quando
facendo il suo giro di pista si era resa conto che la sua tifosa numero
uno non
c’era più e che, mentre lei inseguiva inutilmente
un piazzamento, tutta la sua
famiglia si era riunita per dirle addio.
«Sei
tu che non capisci!» la rimproverò Tobias,
riscuotendola dai ricordi. «Non sei più una
bambina, perciò smettila di credere
alle favole! Ogni bravo atleta sa che può e deve contare
unicamente su se
stesso.»
Quelle
parole suonavano così retoriche.
«E
sul suo allenatore.»
Queste, poi,
erano incredibili. Letteralmente.
«Eravamo
insieme, quel giorno.» le disse ancora, dopo una
lunga pausa.
Ora le
veniva da piangere. Ogni singola fibra del suo
essere era attonita e sopraffatta dall’emozione di quella
dichiarazione
spontanea.
«In
quei quattro minuti hai buttato via anche la mia, di
carriera.»
Ah, eccolo
qui, il vero Tobias! Dunque le sue non erano
state parole di partecipazione, ma di rimprovero. Come sempre. Ora
tornava a
riconoscere il suo allenatore.
«Cavolo,
Emma, potevi vincere!» si arrabbiò, vedendola
rimanere in silenzio. «In vita tua non eri mai stata
così vicina all’oro.»
Era vero. In
quel maledettissimo week end di gara forse
avrebbe anche potuto guadagnarsi il gradino più alto del
podio. Ma il punto era
che non le importava. Una delle ragioni che l’avevano spinta
a pattinare era la
passione della nonna per il mondo della danza, che per lei era sempre
rimasta
un sogno. Vedere la nipote muoversi con grazia sul ghiaccio, fondendo
l’armonia
dei propri gesti con quella della musica, l’aveva sempre
colmata di gioia.
Senza di lei, non aveva senso continuare.
«Eri
in testa dopo il corto. Avevi la gara nelle tue mani»
ricordò ancora Tobias.
«Ero
in testa solo perché mi avevi promesso che, se
avessi vinto il corto, mi avresti permesso di ritirarmi!»
urlò Emma, ormai
incapace di contenere le lacrime.
Così
avrei potuto
partecipare al funerale. Insieme a tutti i miei cari...
«Eri
in testa perché eri forte.»
Che cosa?! Anche nella
confusione di quella
rabbiosa schermaglia, una parte della sua mente aveva registrato quelle
parole.
Forte?
«Io
ero... cosa?» chiese, per essere pienamente sicura.
Tobias la
guardò stralunato.
«Forte,
Emma, forte» ripeté spazientito. «Con
tutti i
tuoi salti a posto e le nuove posizioni nelle trottole non esisteva
nessuno in
grado di batterti.»
Emma non
riusciva a credere alle sue orecchie.
«Perché
non me lo hai detto?»
«Perché,
vista la tua naturale propensione a rovinare
tutto, avresti subito combinato un gran casino. Che hai comunque
combinato»
concluse Tobias, con amarezza.
Quindi
almeno in quell’occasione lei aveva avuto
l’appoggio del suo allenatore... Era questo che Tobias stava
cercando di dirle,
in maniera così indiretta?
«Tu
eri... con me?» si impose di chiedergli. «Giusto
come
conferma.»
«Io
ero dove sono sempre stato. Ad un metro dalla
balaustra. Ad un metro da te.»
... Porca
vacca!
Ecco
ciò che aspettava di sentirsi dire da talmente tanto
tempo che non si ricordava più la prima volta in cui lo
aveva desiderato.
Tobias insieme a lei. Non contro di lei. Non era più sola.
Non era mai stata
sola. Certo, era lei che
trascorreva
metà del suo tempo con il sedere sul ghiaccio; era il suo corpo che si copriva continuamente di
nuovi lividi... però ora
sapeva che c’era qualcun altro che soffriva insieme a lei. Sperava insieme a lei.
«Questo
non cambia le cose!» si sentì esclamare
d’un
tratto. La creatura che ultimamente si era fatta strada dentro di lei,
mandando
al diavolo la routine cui aveva conformato la propria esistenza negli
ultimi
dieci anni, non poteva essere messa a tacere in un battito di ciglia.
«Prego?»
Gli occhi di
Tobias, già rossi per il freddo e lo sforzo
inusuale, si erano ridotti a due fessure.
«Io
non pattino più. Ho già preso la mia
decisione.»
«Non
puoi decidere da sola.»
Non
c’era aggressività nella voce del suo allenatore;
solo la calma sicurezza di chi enuncia un teorema geometrico. Del
resto, i
conti tornavano: se loro due formavano una squadra, allora lei non
poteva
escluderlo dalle sue decisioni. Chiaro,
limpido, euclideo.
«Avanti,
Tobias» disse Emma con onestà, «non sono
mai stata
un asso. Ora ho ventidue anni. Che senso ha continuare?»
«Io
di anni ne ho quarantacinque» si arrabbiò lui,
«e
posso ancora fare questo.»
Un giro di
pista per acquistare la velocità necessaria e
Tobias eseguì un perfetto triplo lutz, sotto gli occhi
stupefatti di Emma.
«Il
mio lutz è ancora meglio del tuo» la
canzonò.
No. No. No. Si era
appena abituata al nuovo
Tobias, più aperto ed incoraggiante, che subito rispuntava
fuori di prepotenza
quello vecchio, beffardo e crudele?!
Bisognava
fare qualcosa. Immediatamente. Per impedire ad
ogni costo la mutazione.
Adesso ti
faccio
vedere io.
Caricò
il salto, decisa a dimostrare la propria
indiscutibile abilità all’allenatore, ma poi se ne
pentì. Frenò la rotazione
mentre era ancora in volo e cadde malamente sul ghiaccio.
Tobias la
fissò esterrefatto.
«Che
cos’era quello?!»
«Niente»
si affrettò ad assicurare Emma, ancora distesa.
«Ho
contato 3 rotazioni e mezza, ne sono sicuro!»
«Hai
le allucinazioni. Erano due e mezza.»
«Buon
Dio, Emma! Tu hai un quad?!»
La ragazza
si rimise in piedi da sola, dopo aver compreso
che Tobias non era intenzionato ad aiutarla.
«No,
non ho un quadruplo» rispose. «Ma ho un triplo
axel.»
«Tu
non hai un triplo axel!» esclamò di rimando
Tobias,
con un ghigno irriverente.
«Sta’
a vedere.»
Ed Emma
eseguì un triplo axel. In
combinazione.
«Hai
aggiunto qualcos’altro al tuo repertorio?»
Difficile
stabilire se Tobias fosse più arrabbiato,
sorpreso, o sinceramente ammirato.
~ * ~
Erano le
dieci passate quando Emma lasciò il palazzetto.
Non c’era un solo muscolo in tutto il suo corpo che non le
dolesse
fastidiosamente, ma se possibile a farla stare peggio c’era
il suo morale, che
mai era stato così basso.
La sfida con
Tobias aveva presentato risvolti
interessanti e molte cose che erano state fatte e dette quella sera
avrebbero
cambiato i loro rapporti futuri; eppure, era come se qualcuno le avesse
caricato sulla schiena un sacco pieno di mattoni e lei fosse costretta
a
trasportarlo per chilometri e chilometri... Lo conosceva bene, quel
peso: il
peso della responsabilità.
Di cui
avrebbe fatto volentieri a meno.
«Io
adesso entro!» una voce angosciata interruppe il filo
dei suoi mesti pensieri. «Non ne posso più di
questa attesa!»
«Eh,
tu sì che sai mantenere la calma nei momenti di
crisi, Tontolo!»
Non ci
poteva credere. Quelle erano le voci di Giovanni e
Viviana. L’avevano aspettata tutta la sera fuori dallo
stadio. E non erano
neppure morti congelati.
Pochi passi
ancora e se li ritrovò di fronte: sua
sorella, con una grossa fascia di lana che le copriva le orecchie,
cercava di
rincuorare il ragazzotto che, tutto curvo contro il muro, sembrava
davvero in
ansia.
«Tranquilli,
Tobias non è mai stato un serial killer
avveduto» disse, per richiamare la loro attenzione.
«Ti
giuro che, ancora dieci minuti, e avrei sfondato la
porta!» le assicurò Giovanni, decisamente
sollevato nel rivederla viva e
vegeta.
«E
così ti saresti sfondato una spalla»
commentò Vivi
tagliente. «A meno che non avessi provato con la testa...
tipo ariete, sai?»
Emma rise,
per la prima volta quella sera.
Non sei
sola... quelle
parole riecheggiarono
nella sua mente.
«E
allora?» le domandarono i due in coro. «Che
è successo
là dentro?!»
Emma
raccontò brevemente della sfida organizzata da
Tobias e di come questa si era svolta.
«Io
ho fatto un triplo axel» spiegò, trattenendo a
stento
un guizzo d’orgoglio ben deciso ad animare il suo sguardo.
«Wow!»
esclamarono i ragazzi.
«Ma
lui ha fatto un triplo lutz. Da manuale.»
«Un
triplo lutz?! Alla sua età?!» ripeté
Giovanni
incredulo.
«Impossibile
da battere.»
«Ma
guarda te» commentò Viviana stranita, «e
io che ero
convinta che Tobias fosse ormai da rottamare...».
«E
quindi?»
Di nuovo i
due ragazzi faticavano a celare la curiosità.
«Ha
vinto lui» ammise infine Emma, dopo una pausa ad
effetto.
«E
questo... è tutto?»
Ancora Vivi,
con la sua singolare perspicacia.
Emma
incrociò il suo sguardo e la vide sorridere, mentre
Giovanni brancolava ancora nel buio.
«Si
può sapere cosa cavolo...» si intromise infatti,
interrompendo quel momento d’intesa fra le due sorelle.
«Emma
va in Giappone» spiegò Viviana entusiasta.
«Dico
bene?»
Nota
Eccoci alla
fine di un nuovo capitolo: spero vi sia
piaciuto! Se è così, lasciatemi un commentino! ^ ^
Chiedo scusa
per la lentezza con cui aggiorno, ma trovo
che scrivere una storia originale richeda più tempo di
quanto pensassi.
Grazie
infinite a Lady_me
per le belle parole di incoraggiamento
e grazie anche a chi legge senza recensire!
Il prossimo
capitoletto dovrebbe essere l’ultimo per questa
prima parte. A presto!
M.
|
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Capitolo 7 *** Ossigeno ***
Sette
Ossigeno
Lo
dicono anche
i proverbi: tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.
Nel
caso di
Emma, però, a stare bello spaparanzato tra il suo consenso
al progetto Mondiali
e la sua effettiva partecipazione c’era Tobias. In compagnia
di Maristella.
Il
periodo che
la separava dall’inizio della competizione si
profilò immediatamente come il
più duro, sportivamente parlando, della sua giovane vita. A
partire dal momento
in cui il suo allenatore appese vicino allo stereo del palazzetto un
calendario
che teneva il conto dei giorni che la dividevano dallo short program,
ribattezzato per l’occasione C-day,
ovvero Chocolate day. Il significato di quella espressione le apparve
chiaro
quando Tobias le strappò dalle mani una barretta di Kit-Kat:
fino ad allora
della cioccolata non avrebbe potuto sentire neppure il profumo.
E
pensare che,
all’inizio, non ci aveva dato un gran peso, pensando che se
la sarebbe cavata
comunque grazie al suo lavoro di pasticcera. Peccato che dopo le prime
due ore
di allenamento aveva compreso che alla Medaglia
non ci avrebbe messo più piede fino al termine della gara.
Non
c’è molto altro
da dire. Nei due mesi successivi Emma visse per pattinare... e
pattinò per
vivere, considerato che il minimo sgarro alla routine
di allenamenti studiata con scientifica crudeltà da Tobias
lo avrebbe costretto, a suo dire, a
mettere fine all’esistenza della sua pattinatrice. Senza rancore.
Fortunatamente
Emma ricevette l’appoggio di tutto il paese, semplicemente
entusiasta di poter
ammirare una concittadina in diretta tv. Anche se ad orari proibitivi
per chi
crede ancora nell’efficacia di un buon riposo notturno.
Tra
coloro che
si dimostrarono maggiormente disponibili vi furono i giocatori di
hockey, che
ridussero al minimo indispensabile il loro tempo sul ghiaccio,
nonostante Emma
li avesse implorati di pretendere per i loro allenamenti il sabato
sera, in
modo da concederle almeno una serata libera a settimana. Ma si sa... tempus fugit. O, come diceva Tobias
quando si intrufolava in camera sua alle quattro del mattino,
“chi dorme non
piglia medaglie”.
L’unico
conforto
le veniva dalla sicurezza che presto tutta quella fatica sarebbe
finita:
avrebbe dovuto tenere duro fino al long program e poi avrebbe potuto
riposarsi.
Per sempre. Almeno così
le piaceva
pensare.
In
realtà non
aveva ancora le idee chiare su cosa avrebbe fatto dopo i Mondiali. Non
tanto
perché Tobias le aveva categoricamente proibito di pensare, reputandolo un inutile spreco di
energia, ma perché sapeva
già che quella di Tokio sarebbe stata la sua ultima brutta
figura o, come
diceva agli altri per non scatenare polemiche, la sua ultima gara. Che
direzione avrebbe preso la sua vita subito dopo era difficile da
prevedere: la
telefonata di Callegaro non era mai arrivata, perciò doveva
dimenticare il
progetto di studiare cucina a Venezia.
Per
quanto la
amareggiasse, la pura verità era che al di là di
focaccine e flying camel spins
non c’era molto altro che sapesse fare. Ma nessuna delle due
strade sembrava al
momento percorribile.
Peggio
di lei,
se possibile, stava solo la sua coreografa Maristella. In apparenza,
infatti,
in quanto braccio destro di Tobias, si comportava come un aguzzino,
raddoppiandole a tradimento le ore da trascorre col tutù;
tuttavia, alla prova
dei fatti, era la più stressata di tutti: il tabaccaio di
via Martiri le aveva
rivelato in gran segreto che il suo consumo di sigarette si era
semplicemente
quintuplicato nelle ultime settimane, tanto da trasformarla in una
specie di
ciminiera ambulante.
Il
fatto era che
Maristella era la sua coreografa da anni ma, visti i suoi mediocri
risultati,
non aveva mai dovuto impegnarsi troppo. L’idea di dover
preparare in così poco
tempo una coreografia da presentare ad una competizione internazionale
l’aveva
completamente traumatizzata, al punto da farle abbandonare la sua dieta
a base
di tisane al sedano in favore di una quotidiana e abbondante razione di
pane e
nutella, il cui potere consolatorio è noto ad ogni ragazza.
L’impegno
di
Maristella si era reso indispensabile dopo che Emma aveva rivelato a
Tobias la
sua ferma intenzione di gareggiare ai Mondiali con un nuovo programma
lungo:
con una eloquenza insospettata aveva perorato la sua causa per giorni,
lamentando l’inconsistenza del suo LP precedente che, oltre a
basarsi sulla
musica più che abusata della Madama
Butterfly, non teneva conto dei nuovi elementi di salto che
intendeva
proporre.
Naturalmente
le
obiezioni mosse da Maristella e Tobias, circa la possibilità
di aggiornare il
vecchio programma con i suoi recenti acquisti tecnici, erano
più che
plausibili, ma Emma fu irremovibile: sarebbero andati in Giappone con
un nuovo
programma lungo, oppure non ci sarebbero andati affatto. Questo era il
suo
speciale regalo per loro.
Certo
la ragazza
si rendeva conto del polverone da lei suscitato, ma fu solo quando vide
Maristella guadagnare due taglie nella stessa settimana che decise di
scendere
a patti, dichiarandosi pronta ad ascoltare i loro consigli. Nei giorni
che
seguirono fu sottoposta ad una vera e propria bombardata telematica,
arrivando
ad ascoltare anche cento mp3 al dì, ma nulla le sembrava
fare al caso suo.
Maristella e Tobias avevano gusti musicali opposti ma su un requisito
erano
d’accordo: la musica del nuovo programma avrebbe dovuto
essere orientale. Solo
così Emma, pattinatrice peraltro sconosciuta, avrebbe potuto
conquistare la
simpatia del popolo ospitante.
Con
l’aiuto di
Carlotta, Vivi e Giovanni, isolò alcune melodie che le
sembravano adattarsi
meglio al suo stile. Ma c’era sempre qualcosa che stonava,
qualcosa che
irrimediabilmente mancava. Secondo Tobias si trattava del tempo. Messa
perciò
alle strette, Emma si impose di prendere una decisione e, attivando la
modalità
casuale nel suo I-pod, scelse per il nuovo programma una brano della
colonna sonora
del film Memorie di una geisha, che
non aveva neppure visto al cinema.
La
prospettiva
la atterriva. Come posso pattinare su una
musica di cui non conosco la storia? si chiedeva. La
situazione non
migliorò quando di fatto conobbe
la
storia, dopo averne noleggiato il dvd. Quella vicenda non la
rappresentava.
Pertanto andava scartata.
Quando
comunicò
la notizia ai suoi allenatori Maristella collassò in una
risata isterica,
mentre Tobias prese a calci il capitano della squadra di hockey, che si
trovava
in pista per studiare qualche nuova strategia per la partita imminente.
Ne
derivò uno scontro titanico, da cui uscirono entrambi pesti
e malconci.
La
soluzione le
si presentò inaspettatamente, proprio quando aveva quasi
perso ogni speranza. Emma
si era rinchiusa nella sua stanza insieme a Carlotta per guardare i
loro video
di pattinaggio preferiti, che ripercorrevano la storia dei campionati
mondiali
degli ultimi anni. La sua amica aveva espresso la pretesa di ricevere,
in
cambio di tutto il supporto che le aveva sempre offerto,
l’autografo dei suoi
eroi, possibilmente corredato da una dedica personalizzata.
«Già
ti vedo
avvicinarti a Stravinskji» incominciò ridendo,
dopo aver osservato a lungo il
poster dell’atleta dalla zazzera bionda appeso
all’armadio, «con quel suo
cipiglio inarrivabile!».
Emma
arrossì
impercettibilmente, prima di unirsi all’amica in una risata
liberatoria.
Avvicinarmi
a Stravinskji...
Naturalmente
non lo avrebbe confessato neppure sotto tortura, però la
possibilità di
ammirare dal vivo lo zar del ghiaccio –
di incontrarlo magari, anche se solo di sfuggita – aveva
giocato un ruolo non così piccolo
nella sua decisione finale di affrontare quell’avventura
nipponica.
«E
voglio anche
una foto» diceva intanto Carlotta. «Senza di te, mi
raccomando.»
«Morirei
piuttosto che chiedergli un autografo, lo sai!»
«Cosa?!
Non lo
faresti neppure per la tua migliore amica?!» la
rimproverò lanciandole un
cuscino.
Successe
tutto
in un baleno. Emma scartò il cuscino volante che si infranse
sul comodino
facendo precipitare il carillon regalatole dalla nonna quando era
bambina.
Carlotta fece per raccoglierlo, porgendo miliardi di scuse, ma
l’amica la
fermò, tutta intenta ad ascoltare la musica soave che quel
piccolo oggetto così
caro diffondeva per la camera.
«Secondo
te che
cos’é?» domandò Emma, dopo
qualche minuto di silenzio.
Carlotta
ci
pensò un po’ prima di esprimersi.
«Sembra
un
rondò» disse incerta. «Perché
me lo chiedi?»
Per
tutta
risposta, Emma sorrise di gioia.
~ * ~
«Ecco»
annunciò
la mattina dopo, porgendo un cd masterizzato a Tobias. «Ho
trovato la musica
del lungo!»
Il
suo
entusiasmo non svanì neppure di fronte ai grugniti emessi
dall’allenatore
mentre le note del rondò si spandevano per tutto il
palazzetto.
«Rondò?»
chiese
perplesso.
«Esatto.»
«In
Giappone?!»
«...»
Ora
l’idea non
le sembrava più tanto geniale. Però non poteva
tirarsi indietro.
«Beh...
perché
no?»
«Vuoi
avere una
sola minuscola possibilità in questi campionati?»
le domandò esasperato Tobias.
«Io
non ho una
possibilità. Neppure minuscola» precisò
Emma.
«E
allora
facciamoci ridere dietro, no?!» sbottò ancora
l’allenatore.
«A
me piace.»
L’intervento
di
Maristella era giunto al momento propizio, visto che la ragazza era
rimasta a
corto di argomenti.
«Davvero?»
domandò
Tobias brusco.
«Sto
pensando al
Carnevale, sontuosi balli in maschera, Giacomo Casanova...»
L’immaginazione
di Maristella volò rapida sulle ali del tempo, mentre al
suono di quella musica
antica iniziava a muoversi in maniera sinuosa sul ghiaccio, tra i
fischi di
approvazione della squadra di hockey, riunita sugli spalti.
«Così
più che altro pensa a Veronica Franco...»
suggerì
Carlotta, che aveva preso posto accanto a Giovanni.
«Chi
era Veronica Franco?» chiese Liendermann.
«...
Ehm ... Una bravissima poetessa» chiarì la
ragazza,
dopo un istante di esitazione.
«C’è
dell’altro, vero?» le domandò piano Emma
avvicinandosi.
Poiché
l’amica
annuì sagacemente, Emma preferì bloccare sul
nascere quella follia di cui non
conosceva ancora la portata.
«Cancella
Veronica Franco!» intimò pertanto alla
coreografa.
«Oh,
andiamo, Emma! Ascolta questa musica. Possiamo
tirarne fuori un pezzo così sexy...»
protestò Maristella.
«Non
voglio fare una coreografia sexy!» si ribellò
ancora
la pattinatrice.
«Cancella
il sexy» la appoggiò Tobias, a sorpresa.
«Non
ne sarebbe capace...»
La
ragazza gli
sferrò un’occhiataccia, ma preferì non
ribattere, contenta che per una volta
lei e Tobias si trovassero d’accordo. Sebbene per motivazioni
diverse.
Capita
l’antifona, Maristella si immerse in un lavoro frenetico
quanto ispirato ed in
pochissimo tempo riuscì ad allestire una coreografia di
grande complessità
tecnica, che però stranamente si segnalava soprattutto per
una caratteristica.
«È
molto dolce»
notò subito Tobias, non appena Maristella la
eseguì in palestra. E se se n’era
accorto lui, c’era da sperare che questo dettaglio non
sarebbe passato
inosservato.
«Mettici
un po’
di malinconia nella parte in calare...» consigliò
Carlotta, che aveva seguito
attentamente lo sviluppo del nuovo programma. «Nei lenti
possiamo ricordare la
fine del sogno della Serenissima.»
«Alla
faccia
dell’intellettualismo! Se mettiamo in pista un programma
simile, i russi ci
incoroneranno con l’alloro!» aveva esclamato
l’allenatore, mentre la ragazza si
precipitava sul ghiaccio a complimentarsi con lui per il riferimento
colto.
~ * ~
Consolidare
la
coreografia fu impegnativo. Impadronirsi dei nuovi passi ancora di
più. Gli
allenamenti divennero sempre più estenuanti, tanto che la
stessa Maristella un
giorno si consultò con Tobias sulla possibilità
di concedere ad Emma una
piccola pausa.
«Non
c’è tempo»
sentenziò l’allenatore e la ragazza non
replicò. Il count-down
per i Mondiali era già iniziato e lei non vedeva
l’ora
che arrivasse la data del fatidico programma corto, che
l’avrebbe
automaticamente portata a metà dell’opera.
Enorme
fu quindi
la sorpresa quando Tobias la convocò in pista per una seduta
di allenamento
extra, destinata ad illustrarle il programma per la sua esibizione. E lei che pensava di non doverla neppure
preparare, un’esibizione.
«Credi
davvero
che io possa piazzarmi fra le prime sei al mondo?» gli chiese
dubbiosa, non
appena lo raggiunse al palazzetto.
«Sì,
se le prime
dodici cadono un paio di volte ciascuna» le rispose Tobias,
dopo una rapida
riflessione.
«Non
parteciperò
mai al Gala» replicò Emma. «Quindi,
perché sprecare altra energia?»
Ma
non ci fu
verso di convincere Tobias. Sarebbe andata in Giappone con tre
programmi, anche
se con tutta probabilità ne avrebbe eseguiti solamente due.
La
cosa più
tragica fu che Tobias si era messo in testa di preparare una esibizione
nuova di zecca; idea davvero
assurda,
considerate tutte le storie che aveva fatto quando Emma aveva preteso
un nuovo
libero.
Quando
arrivò in
pista, un venerdì mattina, notò subito la strana
aria di complicità che si era
instaurata fra Tobias e Maristella, che non le lasciava presagire nulla
di
buono.
«Davvero,
ragazzi» tentò, «sapete come si dice,
no? Non mi sembra il caso di mettere
altra carne sul fuoco!».
Ma
Tobias non
volle sentire ragioni. I suoi occhi quella mattina avevano
un’espressione tutta
particolare, difficile da definire.
«Ci
permetti
almeno di fartela vedere?» le domandò scocciato.
«Maristella c’ha lavorato
tutta la notte!»
Beh,
certo, messa in questi termini...
Un po’ di
rispetto lo doveva pur dimostrare.
Fu
dunque con
una grande curiosità che Emma si accomodò a bordo
pista, i piedi già avvolti
negli scarponcini che penzolavano dalla balaustra. Quando scorse Tobias
disporsi in posizione al centro dello specchio di ghiaccio
restò senza parole.
Aveva davvero intenzione di eseguire l’esibizione?! Da quanto
tempo non lo
vedeva impegnarsi così tanto nella preparazione di una gara?
Pochi
istanti
ancora e la sua curiosità fu soddisfatta. Maristella
azionò il lettore cd e
nello stadio si diffusero le note di una canzone che non aveva mai
sentito
prima, ma le cui parole si rivolgevano dritte al suo cuore.
Don’t give up...
You are loved...
I
movimenti di
Tobias sul ghiaccio erano fluidi e scandivano perfettamente il ritmo
della
musica; l’unica nota stonata, a volercela proprio trovare,
era data dal fatto
che il suo allenatore si limitava ad accennare i salti, abbozzando un
flip dove
Emma immaginava di poterne eseguire uno triplo, o rivolgendole
un’occhiata
significativa dove sapeva di poter piazzare una combo 3-2. Ma
più di così, non
poteva pretendere.
L’esibizione
che
Tobias e Maristella avevano allestito per lei era splendida. Per come
le
piaceva interpretarla, era il loro regalo. L’unico dubbio che
le faceva nascere
riguardava la sua reale capacità di eseguirla senza cedere a
lacrime di
commozione.
«Ti
sembra
buona?» le chiese alla fine il suo allenatore, ostentando
indifferenza. «Maristella
ed io abbiamo pensato ad una canzone che potesse adattarsi alle tue
caratteristiche...»
«Ai
suoi sentimenti, vorrai
dire!» lo corresse la
coreografa, alzando gli occhi al cielo.
Ma
Emma
interruppe subito il loro battibecco, lanciandosi in pista per
abbracciarli.
~ * ~
Ed
eccoci alla
fine di questo capitoletto, che conclude la prima parte. Nella seconda,
a breve
in linea (o almeno spero, dipende dal tempo e
dall’ispirazione ^ ^), vedremo
Emma alle prese con la competizione che attende e teme con uguale
trepidazione,
ove incontrerà e si scontrerà con nuovi
personaggi.
Sperando
che continuerete
a seguire le avventure della mia pattinatrice/pasticcera (e
pasticciona!),
ringrazio coloro che hanno letto e recensito!
Un
grazie
particolare a Lady_me, che a quanto
pare è diventata una lettrice affezionata di questa storia!
Grazie per il
sostegno! ;) Tra parentesi: sono contenta che ti piaccia Tobias! Temevo
di
averlo reso un po’ troppo burbero!
Grazie
ancora a tutti!
Menestrella
07
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