Il segreto di Naruto Uzumaki

di Psyche07
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 [ovvero: Di come un Dobe e un Teme si incontrarono] ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 [ovvero: Degli Uchiha e del loro Orgoglio] ***
Capitolo 4: *** Primo legame ***
Capitolo 5: *** Inaspettati aiuti ***
Capitolo 6: *** Cap 5 (parte I): Prima del suono della campana ***
Capitolo 7: *** Cap 5 (parte II): Dopo il suono della campana ***
Capitolo 8: *** Essere gentili ripaga ***
Capitolo 9: *** Voglia di chiarimenti ***
Capitolo 10: *** Nuovi inizi ***
Capitolo 11: *** Uscire con Sasuke Uchiha? Mai, forse, fatto ***
Capitolo 12: *** Avviso Revisione Capitoli ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Salve cari,
finalmente posso riprendere a dedicare un po’ di tempo a questa storia e a ‘deliziare’ voi con le mie idee bislacche. Siete contenti?
Ora, siccome è passato davvero molto tempo, ho deciso di rivedere i capitoli postati e, già che c’ero, di modificarli leggermente per correggere quei dettagli della storia che non mi convincevano.
Quindi ai nuovi lettori che iniziano questa storia (e spero che sarete in molti) devo chiedere di non proseguire oltre questo prologo, perché gli altri capitoli non sono ancora stati rivisti.
Ai miei adorati lettori (chissà se starete ancora aspettando un aggiornamento di questa storia) dico di non preoccuparsi: le linee generali della storia non saranno mutate.
Avevo solo bisogno di delineare meglio qualche personaggio, tra cui e soprattutto il nostro amato Sasuke; ci saranno aggiustamenti e, in certi casi, verranno aggiunte parti nuove o eliminate alcune di quelle vecchie.
Non siete, pertanto, obbligati a rileggere la storia: abbiate solo un altro po’ di pazienza nell’attendere il nuovo capitolo (che ho già iniziato a scrivere, comunque).
Bando alle ciance XD In questo prologo i pensieri di Sasuke la fanno da padroni: volevo dare uno scorcio della sua quotidianità e del suo carattere senza, però, addentrarmi in una descrizione dettagliata.
Spero di avercela fatta, ma fatemi sapere la vostra opinione con tante belle recensioni (dai, fate i buoni che ne ho tanto bisogno XD)
Ora vi lascio alla lettura del prologo.
Il prossimo capitolo verrà postato tra oggi e domani ;)
Bacetti da Psyche
 
 
 
 
PROLOGO

 
 
 
I am just a man
Not superhuman
(I’m not superhuman)
Someone save me from the hate.
[Skillet – Hero]
 
 

Sono seduto sulla vecchia cassapanca sotto alla finestra, le spalle appoggiate alla rientranza della parete, gli occhi fissi verso est: sta sorgendo il sole di un nuovo giorno.

Mi chiedo quando ho smesso di meravigliarmi di fronte ad uno spettacolo così meraviglioso, eppure ricordo che da bambino rimanere sveglio per osservare l’alba era una delle attività che preferivo.

Forse è iniziato al compimento dei miei otto anni, il lento declino che mi ha portato ad essere come sono.

Ma ha importanza, infondo, stabilire il quando?

Ciò che importa è quel che sono diventato.

Vorrei cambiare? No, perché farlo vorrebbe dire espormi di nuovo e ho imparato la lezione, grazie tante.

Osservo il rapido avanzare del sole, i suoi raggi che illuminano i tetti delle case, il graduale diradarsi delle ombre e mi dico che è ora: devo prepararmi per il primo giorno di scuola del mio quarto anno.

Così abbandono l’angolo che mi ha accolto in questa notte insonne e mi dirigo verso il bagno per  fare una rilassante doccia calda; mi spoglio ed entro dentro la cabina, impostando la temperatura al massimo.

Il pensiero di dover  tornare in classe non mi abbandona neanche quando l’acqua inizia a scorrermi sul corpo, il che mi irrita particolarmente, dopo la notte di veglia passata a rimuginarci su.

Perché? Perché diamine non riesco a smettere di pensarci?

E’ vero, non ho mai voluto frequentare una scuola pubblica, tuttavia, da quando Itachi ha convinto i nostri genitori che avevo bisogno di interagire con ragazzi della mia età e ha proposto la mia iscrizione all’Accademia, non ho mai mancato un giorno di quel dannato supplizio e l’ho fatto senza pormi troppi problemi.

Quindi non capisco: cosa c’è che non va in me?

Forse è solo il pensiero di dover riprendere la solita routine, con ragazzine starnazzanti, professori un po’ tocchi e compagni irritanti o, magari, il mio corpo e la mia mente non si sono ancora ripresi del tutto dal trimestre appena trascorso.

E come dar loro torto?

Tra il lavoro per il consiglio studentesco, le sessioni di studio spappola cervello per ottenere i risultati che mio padre si aspettava e la miriade di persone opportuniste che mi rompevano le palle su base regolare, non avevo avuto un solo attimo di respiro.

L’unico sfogo che mi ero concesso era il sesso, non importava dove o con chi: l’unica cosa che mi interessava era liberarmi della tensione che sembrava addensarmisi sulle spalle come un macigno.

‘Del resto, ho smesso di credere che possano esistere legami duraturi’ penso, mentre, uscito dalla cabina, mi avvolgo nell’accappatoio.

Già, non sono affatto interessato a trovarmi una ragazza o degli amici, malgrado mio fratello continui ad insistere su questo punto, prospettandomi visoni della mia vita passata in un solitario eremitaggio.

Per quanto mi riguarda, resto sulla mia posizione: il sesso senza legami è la cosa migliore che esista al mondo e un’ottima valvola di sfogo.

E a me non serve altro.

Apro il cassetto della biancheria e poi l’armadio, quindi appoggio gli abiti sul letto e inizio a vestirmi con calma; mi sto annodando la cravatta, quando sento la porta della stanza aprirsi e

“Buon giorno, fratellino.” il saluto allegro di mio fratello.

“Buon giorno a te, aniki.”, replico con fare disinteressato.

“Pensavo che sarei stato costretto a buttarti giù dal letto, invece sei già pronto – mi sorride, andandosi a sedere sul letto sfatto – Ti sei svegliato presto?”

“Mm..” mugugno, senza disturbarmi a fornire maggiori spiegazioni.

“Qualcosa ti preoccupa?”, chiede, perspicace come sempre.

“Nulla, davvero.”

“Non sei mai stato molto bravo a mentirmi – ghigna – E pensare che, un tempo, mi raccontavi tutto.”, afferma, il tono di voce esageratamente lagnoso.

Sta cercando di scherzarci su, ma capisco che le sue parole nascondono della vera amarezza; vorrei ridergli in faccia e rispondergli ‘Anche tu, ma adesso è diverso.’, ma mi mordo la lingua e rimango in silenzio, soffocando il risentimento e rinchiudendolo nella parte più remota di me.

“Va bene, ho capito – sospira – ti aspetto di sotto per fare colazione insieme: mamma e papà sono già andati a lavoro.”
Annuisco, rimanendo ostinatamente girato verso lo specchio, anche se è da più di cinque minuti che ho finito di annodare e sistemare la cravatta.

Sbuffo al mio riflesso e lo guardo con fare minaccioso, prima di voltarmi e dirigermi nuovamente in bagno per dare una sistemata ai capelli.

Li pettino con fare meticoloso, se per cercare di dimenticare il breve scambio di parole con mio fratello o per appiattire i ciuffi irti dietro la nuca non saprei proprio dirlo; forse entrambi questi motivi ebbero pari importanza nei minuti che seguirono, chiuso in bagno con la spazzola in mano e i gel per capelli sparsi sul ripiano del lavandino.

Quando scesi in cucina, una decina di tentativi dopo, Itachi mi accolse così:

“Alla buon ora!”

Sembra che abbia dimenticato quanto successo in camera mia e, nonostante avverta ancora una certa tensione tra noi, fingo di non accorgermene e replico con la sua stessa finta indifferenza:

“Non è colpa mia, ma di questa stupida massa incolta che ho sulla testa.”

“Hai provato di nuovo a lisciarli, vero?”, mi chiede, un mezzo ghigno a stirargli le labbra.

“Mm.”, mugugno.

Vado verso la macchinetta e mi verso una tazza di caffè, poi mi dirigo al tavolo e mi accomodo di fronte a lui; per un attimo i nostri sguardi si incrociarono e ‘Siamo davvero bravi a fingere, non è vero aniki?’ non posso trattenermi dal pensare, mentre la bocca mi si storce in un ghigno ironico.

Abbasso lo sguardo e prendo un sorso di caffè, nascondendo quel sorriso amaro dietro al bordo della tazza.

“E com’ è andata?”

“Itachi per caso hai problemi di vista di cui io non sono a conoscenza?”, domando, assottigliando lo sguardo e poggiando molto lentamente la tazza sul tavolo.

‘Davvero, aniki: tu fingi di non vedere.’ rifletto, la mente dirottata su un altro binario, mentre il nostro discorso ‘scherzoso’ continua tranquillamente.

“No, perché?”

‘Va bene, continuiamo a fingere. In fondo, fare come se il nostro rapporto non si stia lentamente sfaldando,  fa star meglio anche me.’

Chiudo gli occhi per un breve attimo, metto  da parte i cattivi pensieri e mi concentro sul momento presente, perché questa  è l’unica cosa che mi resta e una parte di me, quella più debole,  vuole rimanerci aggrappata fino alla fine.

“Perché anche un cieco si accorgerebbe che non ci sono riuscito, come sempre del resto.”, dico stizzito, mostrandogli il retro della nuca.

Emette un lungo fischio sorpreso, poi trattenendosi dal ridacchiare:

“E’ incredibile: sono ancora più ritti del solito. Considerato il tuo umore, poi, è proprio il caso di dire che oggi hai un diavolo per capello, fratellino.”

“Molto divertente, aniki, davvero. Mi chiedo sempre più spesso se il tuo desiderio di provocarmi sia superiore a quello di rimanere in vita.”, dico, fulminandolo con lo sguardo.

“Beh per dissipare ogni tuo dubbio, ti dirò che ho intenzione di vivere ancora per molto, moltissimo tempo ed ecco perché ti provoco solo al momento giusto.”

“Questo lo sarebbe?”, chiedo, già percependo che presto avrò da pentirmene.

“Ovviamente.”, replica convinto.

“E perché mai?”

“Semplicemente perché, se vuoi arrivare a scuola puntuale, ti servo in vita: chi guiderebbe la macchina, altrimenti, visto che non hai ancora la patente?”, domanda retoricamente, ghignando  in modo insopportabile.

“Potrei sempre assumere un’autista…”

“E’ vero, ma lui si farebbe pagare. Non pensi alle tue finanze?”

“Come diamine ci riesci?”, chiedo esasperato.

Per un attimo la mia mente mi ripropone la stessa domanda, ma posta in un altro contesto… in quella conversazione che tante volte ho immaginato di affrontare con mio fratello; mi affretto ad eliminare quel pensiero molesto.

“A fare che?”

“Ad avere sempre l’ultima parola!”, sbotto più irritato che mai, con lui e con me stesso.

Mi guarda dritto negli occhi ed ha l’ardire di scoppiarmi a ridere in faccia, poi, parecchie risate dopo, si decide a rispondermi:

“E’ tutta questione di pratica, fratellino.”

“Mi stai prendendo in giro?”, domando freddamente, assottigliando lo sguardo.

“Certo che no, Sasuke, ma ora basta parlare o non riusciremo ad arrivare a scuola puntuali.”

“Va bene, diciamo che per questa volta farò finta di crederci.”, dico, alzandomi per riporre la tazza dentro al lavello.

Mentre lui si allontana in direzione dell’ingresso, sento la sua risata diminuire man mano di intensità; stringo il manico della tazza con forza, fino a sbiancarmi le nocche.

Mi prendo un paio di minuti, poi lo seguo e insieme ci avviamo al garage.

**

Arriviamo a scuola addirittura con qualche minuto d’anticipo ed abbiamo solo dovuto ignorare qualche piccolo semaforo rosso.

“Hai molte ore di lezione oggi?”, chiedo, giusto per fare conversazione, mentre entrambi sediamo sul cofano dell’auto in attesa del suono della campanella.
 
“Non più del solito, perché?”

“Mi chiedevo solo quando saresti rincasato e se avremmo pranzato insieme.”

“Purtroppo, credo di non riuscire a finire prima della quattro del pomeriggio: non posso permettermi di saltare altre ore di Asuma-sensei.”

“Capisco, non importa. Mi preparerò qualcosa di veloce a base di pomodori da gustare davanti alla tv.”, scrollo leggermente le spalle, indifferente e penso:

‘Nulla di che, davvero. In fondo me l’aspettavo: ultimamente le ore che passi in casa sono ridotte all’osso, aniki.’

“Perché, invece, non esci con i tuoi amici?”

“Ci penserò.”, rispondo semplicemente: non voglio intavolare un’altra discussione.

“Oppure potresti portare fuori una delle tue ammiratrici: sono sicuro che se glielo chiedessi, non rifiuterebbe neanche con così poco preavviso.”

Mi acciglio: perché Itachi non può semplicemente far cadere l’argomento?

“Non ho intenzione di rovinarmi il pasto solo per soddisfare il tuo desiderio di vedermi socializzare.”, dico seccamente.

“Sasuke ne abbiamo già parlato…”

“Lo so, Itachi, e tu sei perfettamente a conoscenza delle mie idee.”, lo interrompo.

“Certamente, ma vorrei che non ti limitassi solo a scopare con gli altri e che ci parlassi anche o uscissi come fanno tutti i ragazzi della tua età.”

“Perché perdere tempo in preliminari, se l’unica cosa che vogliamo entrambi è solo passare ai fatti?”

“Semplicemente perché questo è solo quello che vuoi tu.”

“Oh aniki, non sai quanto ti sbagli.”

“Sasu…”, dice prima di interrompersi e guardare fissamente un punto al di là della mia spalla.

Curioso di scoprire chi o cosa è stato capace di fermare la filippica di Itachi, mi volto e, seguendo il suo sguardo, vedo un centauro smontare elegantemente dalla sua moto.

“E’ magnifica.”, gli sento sussurrare e, in contemporanea,  i miei occhi si alzano al cielo: se per zittirlo basta un trabiccolo a due ruote, farò pressione ai nostri genitori perché gliene regalino uno al più presto.

Nel frattempo il giovane si è tolto il casco, rivelando una miriade di ciuffi dorati che sembrarono risplendere sotto i caldi raggi del sole.

Si guarda intorno, un po’ spaesato.

‘Forse è un nuovo studente.’ rifletto, neanche particolarmente interessato e già pronto a riportare la mia attenzione su Itachi.

Ma, prima che potessi distogliere i miei occhi, mi ritrovai immerso in uno sguardo che aveva  il colore del cielo estivo…

 
 
E lo sentii dentro, il cambiamento, un brivido leggero che viaggia sotto la pelle.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 [ovvero: Di come un Dobe e un Teme si incontrarono] ***


Salve cari,
mi scuso per il ritardo, ma questi giorni sono stati pieni di imprevisti.
Il capitolo che segue è incentrato sui pensieri di Naruto, anche se in due brevi parti (indicate da questo segno ******************** ) il nostro Sasuke tornerà a far sentire la sua voce: non potevo mica lasciarlo in disparte no? :P
Ringrazio tutte le numerose persone che hanno letto il prologo: se vorrete lasciarmi anche qualche commentino, mi farete tanto felice.
Attenzione a non proseguire oltre questo primo capitolo: posterò l’altro tra domani e dopodomani, quindi abbiate pazienza.
Per adesso vi auguro una buona lettura.
Bacetti da Psyche

 
 
 
CAPITOLO 1 [Ovvero: Di come un Dobe e un Teme si incontrarono]



 
 
I need a hero to save me now
I need a hero (save me now)
I need a hero to save my life
A hero’ll save me (just in time)
[Skillet - Hero]

 
 
Correvo veloce attraverso il vicolo buio, perché, al di là di esso, sapevo che sarei stato al sicuro; sentivo i battiti del cuore rimbombare nelle orecchie e le gambe stanche, sul punto di cedere.

Ma non potevo.

‘Non ancora - mi ripetevo, cercando di farmi forza – Ci sei quasi.’

Eppure la luce alla fine della stradina sembrava sempre più distante, mentre i passi del mio inseguitore si facevano vicini, sempre più vicini.

Con la coda dell’occhio cercavo di scorgerne la posizione, di rassicurarmi che Lui non fosse ancora riuscito a raggiungermi, ma non vedevo altro che rifiuti e buio.  

Gridai a qualcuno, chiunque, di salvarmi.

Gridai la mia disperazione, ma nessuna mano si sporse per soccorrermi; avvertì Lui, invece, avvertì la sua mano afferrarmi da dietro ed arrestare la mia fuga.

“Ti ho preso.”
 

Spalanco gli occhi, un grido muto in gola e i pugni stretti sulle lenzuola leggere; sento delle mani sulle spalle, mani che mi tengono bloccato al letto ed inizio a divincolarmi con forza, cercando di sfuggire alla loro presa.

“Calma, moccioso.”

Sono terrorizzato, ma, nel baratro che sembra volermi inghiottire, riconosco chiaramente la voce di Jraya.

Vorrei chiamare il suo nome, lasciar uscir fuori tutta la paura, ma questa mi blocca la voce e l’unica cosa che riesco a fare è irrigidirmi ed iniziare a tremare.

Sento le mani di cui ho avuto paura al risveglio carezzarmi con dolcezza e qualche lacrima inizia a rotolarmi lungo le guance.

‘Ho paura.’ è l’unica cosa che riesco a pensare.

Da quando ho lasciato gli Stati Uniti, circa un anno fa, la pura ha preso a camminarmi affianco ed è divenuta una fedele compagna di vita, silenziosa e onnipresente.

Per me, un ragazzo che è sempre stato impulsivo e stupidamente coraggioso, avere la paura come amica è fonte di un’infinita frustrazione, eppure, per quanto provi a sbarazzarmi di lei, non riesco a non rimanerle al fianco.

‘Perché? Perché hai scelto me?’ vorrei chiedere a lei e a Lui, ma la mia è una domanda che è destinata a rimanere senza risposta.

“Naruto, mi senti? Era solo un incubo, capito? Sei al sicuro.”

La voce di Jraya mi giunge ovattata, come se il mio corpo si trovasse immerso in una sostanza densa e questa trattenesse i suoni, distorcendoli.

Sapere che il mio padrino mi è accanto ed è molto preoccupato per me, anche se ad un livello del tutto inconscio, mi spinge a cercare di rilassarmi.

Inizio a prendere lunghi e profondi respiri, mentre costringo le mani a lasciare la presa sulle lenzuola ed i muscoli a rilassarsi. 

“Sono nella mia nuova camera, a Tokyo – mi dico – Sono al sicuro.”

Mi aggrappo a questo pensiero con tutte le mie forze e, alla fine, riesco ad acquietare il tremore.

“Sto bene.” Sussurrò con voce rauca, quando, finalmente, il mio sguardo riesce ad incontrare quello agitato di Jraya.

Forzo le mie labbra in un sorriso sbilenco e vengo ricompensato da un lungo sguardo penetrante ed una carezza tra i capelli.

“Mi hai fatto preoccupare, moccioso.” replica, continuando a passare la mano tra le ciocche bionde.

“Scusa.” pigolo e non ho la forza di aggiungere altro.

“Non c’è niente di cui scusarsi.” mi dice con tono calmo.

Annuisco, mentre mi sollevo lentamente per appoggiarmi contro i cuscini; mi guardo un po’ intorno, giusto per rassicurami di essere davvero a casa, nella mia stanza e noto subito che qualcosa non è come dovrebbe essere.

“Che è successo?” chiedo, indicando la porta divelta che giace sul pavimento.

“Ti ho sentito gridare aiuto, ma la porta era chiusa.” mi spiega.

“Così l’hai sfondata?” domando, mentre l’ammirazione, l’affetto e un pizzico di divertimento si fanno largo dentro di me.

“Già.”

Si gratta leggermente la nuca, sintomo che è a disagio.

“Grazie, vecchio.” dico, usando uno dei tanti soprannomi che so infastidirlo, anche se mi rendo conto che il mio tentativo di sollevarlo dal suo imbarazzo è quanto mai blando.

“Vecchio? Io sono ancora un giovane fringuello!”

La sua reazione prevedibile e sempre molto esagerata, fa nascere sulle mie labbra un piccolo sorriso.

“Mm – mugugna – Sembra  che tu stia un po’ meglio, ma sei proprio sicuro di voler riprendere ad andare a scuola?”

“E’ da quando ho lasciato l’America che mi fai da insegnante – inizio a spiegare – Mi manca poter interagire con ragazzi della mia età…”

Aspetto un suo segno di assenso, quindi proseguo:

“E poi sono stufo di vedere la tua faccia spaventosa ad ogni ora del giorno.”

Lui annuisce ancora, troppo preso dalla serietà con cui ho tenuto il discorso per rendersi conto del reale significato delle mie parole.

“Ehi!” si impunta, quando la sua mente recepisce il senso della frase e io non riesco a trattenermi dallo scoppiare a ridere.

“Moccioso impertinente! Questo viso ha fatto innamorare decine di fanciulle, tsk! – sbuffa, oltraggiato – Visto che sembri esserti ripreso del tutto, muovi le chiappe e alzati da questo letto: quella stregaccia della tua nuova preside non ama i ritardatari.”

“E’ strano sentirti parlare così di una donna.” dico, già impegnato a scostare le coperte e scendere dal letto.

“Siamo cresciuti insieme.”

“Non credevo che per te una cosa simile potesse rappresentare un problema.”

Noto un leggero rossore diffonderglisi sulle guance e sorrido divertito.

“Quando l’incontrerai, capirai tutto.” replica e batte in ritirata in direzione della cucina.

Ridacchio a quella sua fuga estemporanea, poi mi dirigo verso il bagno; una volta chiusa la porta dietro di me, vi appoggio le spalle, chiudo gli occhi e sussurrò:

“Grazie, Jraya.”

Dai miei occhi inizia a sgorgare qualche lacrima, ma mi affretto ad asciugarle e a relegare la tristezza in un angolo remoto di me.

“Primo giorno di scuola, arrivo!” mi auto-incito per darmi la carica e, rapido, corro ad infilarmi sotto la doccia.

 
**

 
Esco fuori dal condominio, ancora abbastanza scocciato con l’ero-sennin che mi ha vietato di mangiare il mio amato ramen per colazione.

Lo sanno tutti che questo è il pasto più importante della giornata e che il ramen è un piatto nutriente, eppure lui ha continuato ad insistere che avevo bisogno di variare la mia dieta e mangiare cibi bilanciati.

“Era quello il mio pasto bilanciato.” borbotto, mentre monto in sella alla mia Harley ed inserisco la chiave nell’accensione.

Il rombo del motore riesce a quietare il mio malcontento e a rilassare la lieve tensione che continuava ad agitarmisi dentro.

Imbocco la strada che dovrebbe portarmi alla scuola, ma devo aver compreso male le parole di Jraya perché finisco col perdermi e sono costretto a fermarmi per chiedere indicazioni.

Alla fine, anche se con un po’ di difficoltà, riesco a raggiungere l’Accademia in perfetto orario, così mi prendo qualche attimo per ammirare l’istituto che mi appresto a frequentare.

L’edificio principale è stato costruito in uno stile occidentalizzante che dovrebbe richiamare, ad occhio e croce, il tardo ottocento; la struttura è circondata da un cortile e diversi giardini pieni di verde tra i cui alberi, in lontananza, fanno capolino i profili di alcuni edifici.

In generale la prima impressione che il complesso dà allo spettatore è di eleganza ed imponenza o, almeno, questo è quello che ha trasmesso al sottoscritto.

Faccio scorrere lo sguardo nella zona parcheggio, un po’ confuso su quale viale imboccare per raggiungere l’ingresso e, nella mia concentrata valutazione, scorgo due figure poggiate sul cofano di un auto.

‘Devono essere due studenti che attendono il suono della campanella.’ mi dico e pondero sull’eventualità di andare da loro e chiedergli quale, tra i molti sentieri, porti all’entrata.

Cincischio un po’, indeciso, incontrando lo sguardo di uno dei due ragazzi e distogliendo il mio appena pochi secondi dopo, imbarazzato.

‘Avranno notato che li fissavo?’

Scrollo le spalle, stufo di star lì a rimuginare e quanto mai deciso ad incamminarmi per la strada che mi fosse sembrata la più probabile.

Fortunatamente l’idea di imboccare il viale più ampio si rivelò essere quella giusta e, una volta all’interno dell’edificio, orientarmi e trovare l’ufficio della preside era stato relativamente semplice.

Busso alla pesante porta in legno di noce che la campanella della prima ora ha preso a trillare con forza.

‘Appena in tempo.’ tiro un impercettibile sospiro di sollievo.

Ad aprirmi è una donna minuta, dai capelli castani tagliati corti.

‘Che strano – penso – Non mi sembra proprio il tipo di donna con cui l’ero-sennin riuscirebbe a tenere le mani apposto, amica d’infanzia o meno.’

E’ solo quando entro nell’ufficio, però, che capisco di essermi sbagliato: dietro una pensate scrivania siede una donna bionda, all’apparenza sui trent’anni, la cui presenza sembra dominare l’intera stanza.

Intuisco che sia lei l’amica d’infanzia dell’ero-sennin e, improvvisamente, mi sono anche chiare le motivazioni del suo strano comportamento.

Sorrido e “Buon giorno.” dico educatamente.

“Tu devi essere il moccioso di Jiraya.” mi accoglie con un tono parecchio affettato che, neanche a dirlo, ha l’incredibile potere di farmi saltare i nervi.

Una vena inizia a pulsarmi sulla tempia destra e ‘Ma che modi!’ penso, mentre un sorriso stridente e falso mi storce la bocca.

“E tu, invece, devi essere la vecchia strega di cui Jraya mi ha tanto parlato.” replico allo stesso modo, preda di un attimo d’impulsività.

I miei occhi sono fissi sulla preside, perciò, più che vederli, sento il frusciare di fogli che cadono rovinosamente a terra.

‘Che la donna di prima sia svenuta per il forte shock?’ mi chiedo distrattamente, iniziando a dubitare della linea di azione che avevo deciso di tenere.

Quando la vecchiaccia si alza con lentezza dal suo posto, non posso fare a meno di deglutire ma non retrocedo.

Lei aggira la scrivania e mi si avvicina, fino a trovarsi ad un palmo dal mio naso; io, osservando i suoi occhi assottigliarsi pericolosamente, rivolgo una preghiera silenziosa ai Kami perché risparmino la mia giovane vita.

Rimango completamente spiazzato, quando lei, anziché strangolarmi,  scoppia a ridere a crepapelle.

Mi assesta due pacche poderose sulla schiena che mi fanno quasi precipitare in avanti, proprio nel mezzo dei suoi grossi seni, poi afferma:

“Era da molto tempo che qualcuno non osava rivolgermisi in questi termini – sorride in modo furbo – Sei un tipetto impudente: mi piaci.”

Afferma, tornando ad occupare il suo posto dietro la scrivania e invitando me a sedermi su una delle comode poltroncine lì davanti.

“Io sono Tsunade Senju, la preside della Konoha Accademy: vedi di rigare dritto o assaggerai i miei pugni.”

Mi affretto ad annuire e lei, compiaciuta, recupera da uno dei cassetti una cartellina arancione da cui estrae un plico di fogli.

“Naruto Uzumaki – legge – Nato negli Stati Uniti il dieci ottobre del millenovecentonovantanove… Penso che tu sappia già tutto sulla storia di copertura che i tuoi genitori hanno ideato per te.”

“Sì, obaa-chan.” mi lascio sfuggire.

Alzo gli occhi dal plico di fogli e noto immediatamente che, all’udire il soprannome, le sue labbra si sono assottigliate, tuttavia una luce divertita continua a brillare nei suoi occhi.

‘A quanto pare l’essere chiamata nonnina non le dispiace sul serio.’ penso e tiro un impercettibile sospiro di sollievo, poi le sorrido apertamente.

Lei si schiarisce la voce e riprende il discorso dal punto in cui si era interrotta:

“Io ed alcuni altri membri scelti del corpo docente siamo al corrente della tua storia e delle circostanze che ti hanno portato a frequentare questa Accademia: per qualsiasi problema, preoccupazione o difficoltà rivolgiti pure a me o a alle persone che ti indicherò. E adesso seguimi – conclude, alzandosi – Ti accompagno alla tua classe.”

Mi affretto a starle dietro per i lunghi corridoi della scuola, guardandomi intorno con crescente curiosità: ‘Chissà dietro a quale di queste porte si celerà la mia classe.’

Poco dopo ci fermiamo davanti ad una dal colore verde, di quelle scorrevoli e obaa-chan non si fa alcuno remora nello spalancarla con una certa forza: uno stridio di sedie e saluti rispettosi seguono il suo ingresso.

Ed ecco il primo dei miei nuovi insegnati.’ penso, osservando l’uomo con cui Tsunade sta intrattenendo una fitta conversazione.

Il suo volto è coperto da una mascherina per prevenire le influenze, i capelli, di uno strano colore argenteo, sono sparati per aria ed una cicatrice rossastra gli attraversa in verticale l’occhio destro: nel complesso ha un aspetto abbastanza bizzarro.

Ben presto vengo chiamato a farmi avanti e a presentarmi alla classe; prevedibilmente, finisco con l’imbarazzarmi e gesticolare in modo caotico.

La preside assiste a tutta la scena con un sorrisetto ironico ‘Vecchiccia malefica’ poi saluta studenti ed insegnante ed esce dall’aula di gran carriera.

Seguo l’invito del sensei e vado a sedermi nel posto che mi era stato assegnato, in terza fila, accanto ad un ragazzo dagli insoliti capelli rossi e gli occhi del colore dell’acqua marina.

‘Che sia straniero anche lui?’, mi chiedo e provo a parlargli, giusto per fare un minimo di conoscenza.

“Ciao, il mio nome è Naruto.”

“..”

“Sono lieto di conoscerti… ”, riprovo, cercando di scoprire il suo nome.

“Gaara.”, mi risponde con un mezzo sibilo.

“E’ un piacere conoscerti Gaara.”, ripeto a bassa voce, sorridendogli.

“..”

“Sei sempre così loquace?”, sbotto, tra l’ironico e l’infastidito.

“Solo quando qualcuno mi sta particolarmente simpatico.”, dice e, per la prima volta, si volta a guardarmi.

“Bene, allora posso ritenermi fortunato.”, replico, tutto sommato divertito da quella ironia un po’ burbera.

Mi sembra che le sue labbra si pieghino in un piccolo sorriso, ma non posso esserne certo perché il professore ci richiama, intimandoci il silenzio e io finisco col distrarmi.

Chiedo scusa per entrambi, arrossendo in modo imbarazzante, quindi mi impongo di mantenere un religioso silenzio per le rimanenti ore e di far attenzione al discorso introduttivo dell’insegnante.

 
**********************

 
Kakashi – sensei continua a blaterare le solite raccomandazioni di inizio anno, mentre noi studenti, chi più chi meno, cerchiamo di mostrarci attenti ed interessati alla sue parole; il sottoscritto, da perfetto Uchiha, mantiene un’espressione attenta, nonostante la mente sia persa dietro al pensiero di un certo ragazzo.

Poco prima, nel parcheggio, sono rimasto completamente affascinato da quello sguardo, tanto da decidere in quell’esatto momento che ‘occhi di cielo’ doveva essere mio.

Probabilmente le mie intenzioni erano parse scritte a chiare lettere sul mio viso, perché Itachi era entrato in piena modalità ‘fratello scassaballe’, iniziando a subissarmi di domande tanto che, al suono della campanella, ero letteralmente fuggito all’interno dell’edificio scolastico.

‘Ma ora, il primo passo da compiere è quello di trovare l’oggetto del mio desiderio.’ rifletto.

E ho appena formulato questo pensiero, quando la mia piaga personale, alias la preside Tsunade Senju, irrompe in aula annunciando a tutti noi l’arrivo di un nuovo studente.

I miei occhi si fissano immediatamente sul biondino appena dietro di lei ed un sorrisino sghembo mi arriccia le labbra:

‘La fortuna è dalla mia’ mi dico, osservando con aria divertita il suo gesticolare impacciato, mentre cerca di presentarsi in modo decente ai suoi nuovi compagni di classe.

Continuo a seguirlo con lo sguardo anche quando si affretta a prendere posto vicino a Sabaku e durante tutto lo scambio di battute che avviene tra loro.

‘Quanto si deve essere logorroici per riuscire a intrattenere una conversazione con un tipo così?’ mi chiedo e mi scappa un mezzo sorriso.

Dal suo modo di fare, non nutro molti dubbi sul fatto che si tratti di un dobe e già pregusto il momento in cui riuscirò a farlo capitolare così intensamente, da impiegare le ore successive a decidere qual è il modo migliore per avvicinarlo.

L’ideale sarebbe unirmi a lui per il pranzo, ma di mettere piede in mensa non se ne parla: ci sarebbero troppe scocciatrici.

Senza alcuna idea fattibile, al suono della campanella di fine lezioni, sono costretto ad abbandonare ‘occhi di cielo’ per fare ritorno a casa.

‘Ci saranno altre occasioni.’ assicuro a me stesso e, con un ultimo sguardo nella sua direzione, esco dall’aula.
 

**********************
 

Al trillo della campana della pausa pranzo, tiro un sospiro di sollievo e stiracchio le braccia per liberarmi un po’ dall’indolenzimento.

Il mio stomaco emette un brontolio affranto, facendomi capire di essere affamato; inizio a massaggiarlo nel tentativo di quietarlo, in attesa di scoprire come raggiungere la mensa che Jraya ha detto trovarsi nell’edificio.

“Yo, Uzumaki.”

Alzo lo sguardo per capire chi mi abbia chiamato e vedo un ragazzo farsi largo tra gli altri studenti, mentre si affretta a raggiungere il mio banco.

“Ciao.” ricambio allegramente, una volta che mi è davanti.

“Io sono Kiba Inuzuka – dice, puntandosi un dito contro il petto – Ma puoi chiamarmi semplicemente Kiba o Ki-chan.”

“Allora tu puoi chiamarmi Naruto.” dico nello stesso tono giocoso.

“Va bene, Na-chan – mi fa l’occhiolino – Ho pensato che ti servisse un po’ di aiuto per orientarti: se vuoi, intanto, puoi venire in mensa con me e i miei amici.” e fa un cenno con il capo verso due ragazzi in attesa sulla soglia della porta.

“Certo, grazie.”, accetto con riconoscenza e il mio stomaco coglie l’attimo per brontolare in accordo alla mia decisione.

Sorrido, imbarazzato, mentre Kiba scoppia in una risata tutta soffi:

“Sono arrivato appena in tempo.” scherza e, afferratomi per un braccio, inizia bellamente a trascinarmi verso il capannello di ragazzi.

Tutti insieme, dopo le dovute presentazioni, ci incamminiamo verso l’edificio della mensa; questa si presenta ai miei occhi come uno stabile a sé stante, collegato alla scuola tramite un viale coperto da una lunga tettoia.

All’interno tavoli e panche di legno ne occupano la maggior parte dell’ambienta, ma, sulla destra, si erge un lungo bancone e, subito dietro di esso, le cucine; tante finestre permettevano alla luce naturale di illuminare ogni angolo della stanza, donandole un aspetto allegro.

Noto anche una porta, esattamente di fronte a quella da cui eravamo entrati noi, ma non capisco quale sia esattamente il suo utilizzo o dove conduca.

Scrollo le spalle, in fondo poco interessato e seguo gli altri verso un tavolo un po’ appartato, ci sediamo e a noi si uniscono un altro paio di persone; Kiba mi fa notare che sono tutte nella mia stessa classe, poi si alza per andare a preparare i nostri vassoi e mi lascia a fare ‘nuove conoscenze’.

Sorrido, cercando di prendere parte attiva alla conversazione in corso.

Procede tutto bene, finché una ragazza di nome Sakura non pronuncia questa frase:

“Allora, Naruto, parlaci un po’ di te!”

Conosco la copertura ideata dai miei genitori a memoria, eppure non posso fare a meno di sentirmi in tensione.

‘Non devo commettere errori.’ mi dico ed inizio a raccontare “Beh… in realtà non c’è poi molto da dire – sorrido – entrambi i miei genitori sono Giapponesi, ma i miei nonni paterni sono originari degli Stati Uniti. Dopo la mia nascita, quando io avevo circa due anni, mamma e papà decisero di trasferirsi per avere migliori possibilità di impiego e si appoggiarono da alcuni nostri parenti che ancora risiedono lì.”

“Quindi tu sei nato in Giappone?”

“Sì, ma ho vissuto per quasi tutta la mia vita negli State – ridacchio – Fortuna che i miei hanno insistito per farmi imparare la vostra lingua, altrimenti ora non saprei che fare.”

“Come mai avete deciso di tornare a Tokyo?” domanda una giovane dai capelli biondi di cui non ricordo il nome.

“Sono tornato solo io, in realtà – spiego – Sentivo che era arrivato il momento di compiere qualche cambiamento nella mia vita e i miei hanno provato a darmi una mano, cercando di venirmi incontro e capire le mie ragioni. Abbiamo deciso che, se proprio sentivo la necessità di allontanarmi per un po’, la mia destinazione sarebbe stata questa: è il loro paese natio e volevano che lo conoscessi, ma è anche il luogo in cui si è stabilito il mio padrino. Attualmente sono affidato alla sua tutela.”

“Wao, i miei non sarebbero stati tanto comprensivi.”

Sorrido un po’ tristemente: non mi è mai piaciuto mentire.

Per fortuna, la conversazione varia su altri argomenti e io posso tornare a rilassarmi e a godermi il pranzo; stavo per dare un altro morso al panino dolce che Kiba mi aveva regalato, quando qualcuno attira la mia attenzione.

“Quello non è Gaara? Perché se ne sta seduto tutto solo a quel tavolo?” chiedo al mio nuovo amico.

“Oh – dice questi, seguendo la direzione del mio sguardo – abbiamo provato a coinvolgerlo un paio di volte, ma…”

“Ha rifiutato?”

“Già, sempre.” scrolla le spalle e riprende a dedicarsi al suo pasto.

“Scusate un attimo.” dico, scosto un po’ la panca e la scavalco.

“Na-chan, ma dove vai?”

“Torno subito, Kiba: voglio solo chiedere a Gaara se vuole sedersi insieme a noi.” replico.

“Che?! Ma mi hai ascoltato?”

“Certo e ho deciso che era il caso di riprovarci.” gli sorrido e mi allontano in direzione dell’altro ragazzo.

Una volta raggiunto il suo tavolo, mi siedo di fronte a lui e lo saluto in tono allegro:

“Ciao, Gaara.”

Lui alza lentamente gli occhi dal suo vassoio, mi fissa con sguardo truce e

“Che fai tu qui?” mi chiede.

“Stavo pranzando con alcuni amici.” replico, fingendo di non capire il reale senso della domanda.

Sembra sorpreso dalla mia risposta, forse si sta chiedendo se io non abbia davvero compreso il significato delle sue parole.

Ghigno, divertito.

“Sarò più preciso – dice, il tono che nasconde una lieve nota di minaccia – Perché diamine sei seduto di fronte a me, se i tuoi amici sono a quell’altro tavolo a guardarti con apprensione?” e lo indica con un lieve cenno del capo.

Mi volto e saluto gli altri, invitandoli a riprendere tranquillamente il loro pranzo.

“Perché volevo chiederti di unirti a noi.” rispondo, studiando il suo viso alla ricerca di qualche emozione: se è rimasto anche solo sorpreso dalle mie parole, lo sta nascondendo bene.

“Non mi piace stare in compagnia, soprattutto quando mangio.”

“Allora rimarrò io con te, tanto avevo già praticamente spazzolato l’intero vassoio.”

Per un attimo la sua maschera di indifferenza cade e scorgo chiaramente un’espressione sconvolta, un misto tra sorpresa ed incredulità, farsi largo sul suo volto.

Scoppio a ridere, per quanto abbia davvero cercato di trattenermi ‘Sembra quasi che voglia chiedermi: ma ci fai o ci sei?’

“Tsk, me ne vado.” Sbuffa, risentito e sta già alzandosi in piedi.

“Rimani - dico, mentre la mia mano corre ad afferrare il suo braccio e a trattenerlo – Scusa se ho riso, ma l’espressione che avevi messo su era molto buffa.”

Incredibilmente, lui annuisce alla mia spiegazione e accetta di risedersi.

‘Beh, è andata bene – mi dico – Questa volta ci ho proprio visto giusto: a questo ragazzo non piace affatto stare da solo. Mi ricorda tanto me stesso, prima del mio incontro con Iruka.’

Sospiro internamente e intavolo una discussione leggera, anche se finisce ben presto col diventare più un monologo.

Sono nel pieno di una descrizione abbastanza dettagliata dell’ultimo libro scritto da Jraya, quando sento qualcuno toccarmi la spalla; mi volto e mi trovo davanti un ragazzo biondo che mi sorride in modo esagerato.

“Ciao, sei nuovo?” mi chiede, mentre, di sua iniziativa, prende posto sulla panca. 

“Ehm..” non so bene come comportarmi e, in un attimo di panico, mi volto a cercare l’aiuto di Gaara, ma lui è troppo intento a lanciare sguardi fulminanti a quel tipo per accorgersi della mia muta richiesta.

“Oh, sono stato davvero maleducato – aggiunge questi, dato la mia momentanea incapacità di proferire una frase di senso compiuto – Io sono Deidara, studio all’Università Konoha.”

“Università?”

‘Che ci fa qui uno studente universitario?’ mi chiedo, completamente in confusione.

“Forse non lo sai – mi spiega, sorridendo – ma la preside Senju è anche il rettore della nostra università: il tuo plesso ed il mio si trovano entrambi all’interno di questa struttura, ma hanno solo il locale mensa in comune.”

“Capisco.” e adesso mi spiego anche a cosa deve servire la porta che ho visto: deve trattarsi il loro ingresso.

“Uzumaki, io vado.” il tono usato da Gaara è perentorio.

Lo vedo alzarsi in uno scatto agile e mi affretto a fare altrettanto, incollandomi al suo fianco e
“Vengo con te.” dico con convinzione.

“Vai già via? Ma ci siamo appena conosciuti, Uzumaki: rimani ancora un po’.”

“Mi dispiace, ma devo proprio andare.” affermo, cercando di sganciarmi da quello strano ragazzo: non so perché, ma i sorrisi che mi ha rivolto mi sono sembrati stranamente affettati.

Sta per insistere ancora, ne sono certo, ma la voce di Kiba stronca sul nascere qualsiasi cosa avesse intenzione di dirmi: anche i miei nuovi compagni stanno rientrando in classe.

Così, nonostante lo sguardo truce lanciatomi da Gaara, gli afferro il braccio e mi affretto a raggiungere gli altri, salutando distrattamente quel Deidara.

‘Che tipo.’ penso e non riesco ad impedirmi di rabbrividire leggermente.
 

**********************
 

Dopo un breve tragitto a piedi, arrivo davanti al cancello della nostra villa e mi affretto ad entrare in casa per preparami qualcosa: ho fame e poi, per una volta, voglio rientrare a scuola il prima possibile.

Tagliuzzo un gran numero di pomodori, divorandone la maggior parte prima ancora di condirli e farne una deliziosa insalata; finito di lavare le stoviglie e il piatto nel lavello, getto l’ennesimo sguardo all’orologio e mi costringo ad attendere un altro paio di minuti.

Di fatto, però, esco comunque di casa con una buona mezz’ora d’anticipo.

‘Del resto ho bisogno di un po’ di tempo per stanare la mia preda’ mi dico, divertito dai miei stessi pensieri.

Ma il mio piano perfetto non aveva tenuto conto della variabile Senju.

‘Che quelle enormi tette che si ritrova le facciano dolere la schiena per tutti i restanti giorni della sua miserabile vita!’ penso, mentre ne ascolto l’ennesima richiesta direttamente dalle labbra del custode.

Incenerisco l’incolpevole uomo, lo ringrazio fra i denti e lo congedo, assicurandogli che mi recherò dalla preside seduta stante e mi avvio verso l’ufficio della vecchia.

‘Cosa vorrà mai questa volta per pretendere di vedermi con una tale urgenza?’ mi chiedo e, automaticamente, aumento il passo: tanto prima mi fossi liberato della sua ingombrante presenza, tanto presto avrei potuto riprendere la ricerca del mio biondino.

Busso alla pesante porta in noce e attendo che mi si dia il permesso di entrare.

“Avanti!”

“Buon sera, mi ha fatto chiamare?”, faccio uscire in un mezzo ringhio, cercando comunque di mantenere le apparenze e mostrare un minimo di educazione.

“Sì, moccioso Uchiha –  mi scappa una smorfia di disappunto, ma rimango ad ascoltare in silenzio -  Vorrei che tu facessi fare un giro della scuola al tuo compagno, che gli spiegassi come funzionano le attività dei club e tutto il resto che c’è da sapere.”

‘Oh fantastico, davvero! Un altro sciocco primino con cui sprecare il mio prezioso temp…’

Inizio ad imprecare silenziosamente, mentre volgo lo sguardo nella direzione indicatami dalla donna, ma ogni pensiero si interrompe, quando i miei occhi ne incrociano un paio dallo strabiliante colore azzurro.

A quanto pare, preda dell’irritazione, avevo completamente mancato di notare che l’oggetto dei miei desideri mi era a pochi metri di distanza; la scoperta fa si che l’irritazione scompaia di colpo e un ghigno compiaciuto mi stiri le la labbra.

‘La fortuna è ancora dalla mia.’ penso, prima di avvicinarmi maggiormente e porgergli la mano “Piacere, Sasuke Uchiha.” mi presento con fare sicuro.

“Piacere mio, Uchiha-kun. Io sono Naruto Uzumaki.”
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 [ovvero: Degli Uchiha e del loro Orgoglio] ***


Salve ragazzi,
so di essere in enorme ritardo, ma ho avuto qualche piccolo problema.
Non vi trattengo oltre, però, rimandandovi alle note a fine capitolo.
Solo qualche necessario avviso: questo capitolo è scritto in alternanza tra il POV di Sasuke e quello di Naruto (al solito troverete questi segni ad indicarvi il cambio di POV **********************); durante la lettura del capitolo troverete un link che vi rimanderà ad un video+traduzione: vi consiglio di prendervi un attimo per guardarlo, prima di proseguire con la storia.
E’ tutto :P
Buona lettura.


 
CAPITOLO 2 [Ovvero: Degli Uchiha e del loro Orgoglio]
 


 
The secret side of me, I never let you see
I keep it caged but I can't control it
So stay away from me, the beast is ugly
I feel the rage and I just can't hold it
[Skillet – Monster]
 
 


‘Non posso ancora credere di aver avuto un tale colpo di fortuna.’ penso, mentre osservo la persona al mio fianco ridere a crepapelle.

Uzumaki è incredibilmente solare, un ragazzo di spirito e a cui non dispiace un po’ di sana autoironia: non ho cambiato la mia prima impressione su di lui, ciò non di meno devo ammettere di trovarlo interessante.

Sorrido, guardando l’espressione buffa che gli si è dipinta in volto.

“E’ vero.” gli dico, riprendendo il filo dell’aneddoto che sto raccontandogli al momento.

‘E’ incredibile come ogni emozione riesca a leggersi perfettamente sui tratti di questo viso.’ rifletto nel frattempo, stupito che possano esistere persone di tale disarmante sincerità.

“Non ci credo: te lo stai inventando, Uchiha-kun.” ribatte, ma i suoi occhi sembrano attendere solo un’ulteriore conferma per illuminarsi di divertimento.

“Sasuke.”

“Eh?” domanda, confuso dall’apparente non sequitor della risposta.

“Puoi chiamarmi semplicemente Sasuke – spiego, un piccolo ghigno ad arricciarmi le labbra – E no, sono serio: il composto è esploso nell’esatto momento in cui il professore ne ha preso in mano la fiala.”

Scoppia a ridere, riuscendo a stento a mantenere la posizione eretta; ha una risata argentina, chiara e pulita, una di quelle che spingono le persone a sorridere a loro volta e, ascoltandola, persino io non riesco ad impedire alle labbra di curvarsi verso l’alto.

“Non avrei mai immaginato che Kiba potesse essere un tale disastro in chimica.” soffia fuori, senza fiato e asciugando una lacrima che ha fatto capolino al margine dell’occhio destro.

“E’ un vero e proprio pericolo – rincaro – tanto che il sensei Yamato ha deciso di non fargli più maneggiare alcun elemento, se prima non avrà imparato quali effetti ha utilizzato in un composto.”

“Povero Ki-chan – sussurra, continuando a sghignazzare – E tu, Sasuke? Tu sei bravo in chimica?” mi domanda poi, rinvolgendomi uno sguardo birichino.

“Abbastanza, ma sfortunatamente non sono riuscito ad inventare nessuna miscela esplosiva, Uzumaki.” ribatto, il tono velato di ironia.

“Naruto – mi corregge, una volta riuscito a smettere di ridacchiare – Se io posso chiamarti Sasuke, allora anche tu dovresti utilizzare il mio nome di battessimo.” e mi sorride.

“Naruto – pronuncio subito con tono vellutato –  con quest’ultima aula, ti ho mostrato la locazione e l’uso di tutte quelle in cui si svolgono le lezioni del mattino, perciò adesso pensavo di farti visitare qualcuno dei club della scuola. Ti piacerebbe?” chiedo, iniziando ad avviarmi verso l’uscita del laboratorio di chimica.

“Certo – afferma con entusiasmo, ma rabbuiandosi poco dopo - però non penso di iscrivermi ad alcun corso facoltativo. Considerato questo, sarebbe ingiusto chiederti di sottrarre altro tempo alle tue attività: credo tu ne abbia sprecato fin troppo facendomi da guida.” conclude, il tono chiaramente dispiaciuto.

“All’Accademia Konoha è obbligatoria la frequenza di almeno un club, perciò conoscerne qualcuno ti tornerà utile. – gli spiego – E non avevo alcuna faccenda urgente da sbrigare.” strascico, scrollando le spalle.

‘Per non parlare del fatto che questa si sta rivelando essere esattamente l’occasione che aspettavo.’ ghigno internamente.

“Beh, allora non mi farò problemi a rubartene ancora un po’.” torna a sorridere, portando le braccia ad incrociarsi dietro la nuca.

Così continuiamo a camminare, chiacchierando del più e del meno, finché non raggiungiamo le due rampe di scale che portano al primo e al terzo piano; a quel punto mi fermo e mi volto verso di lui, appoggiandomi alla ringhiera:

“Hai qualche interesse in particolare? – e al suo sguardo interrogativo, chiarisco – E’ vero che la frequenza a un corso  è obbligatoria, ma allo studente è permesso scegliere quel che più preferisce: vorrei farti visitare solo quelli di tuo interesse e guadagnare tempo per ultimare il giro della scuola.”

“C’è ancora altro da vedere?” chiede, un po’ stupito.

“Ci sarebbero le strutture all’esterno, così sapresti già come raggiungerle in autonomia.”

“Capisco, in effetti sarebbe utile – considera, sembrando immerso in chissà quale pensiero - L’Accademia ha un club di musica?” domanda alla fine.

“Sì, certo – rispondo, mentre una piccola smorfia si fa largo sul mio viso – E’ anche uno dei migliori, peccato solo che la sensei che lo dirige sia una pervertita.”

“Per- pervertita?” balbetta  e i suoi occhi si sgranano per la sorpresa.

Annuisco e “Oggi sta tenendo lezione – dico – Se ti sta bene, potremmo visitare il club e tu avresti modo di conoscerla.”

“Via il dente, via il dolore.”

Prendendo questa sua replica come un tacito consenso, mi stacco dalla ringhiera e mi dirigo verso destra

“Allora saliamo: l’aula M si trova al terzo piano.” incamminandomi su per le scale.

“Aula M..” mormora, prendendo a seguirmi.

“Ben presto imparerai ad orientarti e ricorderai da solo i piani in cui si trovano i vari corsi.”

“Oh, non stavo cercando di memorizzarlo – nega, scuotendo appena la testa –  Stavo solo riflettendo che le lezioni del club di Musica si svolgono nell’aula M… M come M di musica… ecco… ehm… che coincidenza!”

Lo guardo ingarbugliarsi nella spiegazione, arrossire e scoppiare a ridere con fare imbarazzato.

‘Che dobe adorabile – penso, divertito e allo stesso tempo attratto da questo suo modo di fare un po’ impacciato – Chissà se lo è anche a letto…’

“Sas’ke?”

Mi riscuoto “…”

“Perché l’Accademia obbliga gli studenti ad entrare in un club? In altre scuole è facoltativo.” mi chiede, a mio parere, con parecchi minuti di ritardo.

“Non è un caso che questo sia considerato uno dei migliori licei dell’intero Giappone – replico – L’Accademia Konoha punta ad una preparazione dello studente a ‘tutto tondo’: le lezioni del mattino curano gli aspetti più generali dell’apprendimento, mentre quelle pomeridiane garantiscono un concreto approfondimento nei campi di interesse dello studente.”

“Sembra parecchio impegnativo – nota – conciliare i vari impegni e le diverse materie di studio.”

“Lo è, tuttavia avere la possibilità di sviluppare i propri punti di forza e di farlo  frequentando le discipline di proprio gradimento è un’opportunità, non lo credi anche tu?”

“Probabilmente hai ragione.”

“Inoltre è un modo efficace per indirizzare l’irrequietezza giovanile verso attività produttive, volte allo sviluppo della personalità dell’alunno e ad una sua parallela e significativa formazione.”

“Irrequietezza giovanile.. – ripete, per poi scoppiare a ridere – Sas’ke, parli come un sessantenne: devo credere che ‘l’irrequietezza giovanile’ non ti tocchi?”

“Ho il mio personale trucco per darle fondo.” quasi fuseggio, ghignando maliziosamente.

“Oh certo, anche tu frequenterai un club – annuisce, non cogliendo affatto l’allusione – A proposito, che club frequenti?”

“Kyudo.”

“Eh? Non credo di conoscerlo.” sbuffa, socchiudendo gli occhi e grattandosi una guancia.

“Letteralmente ‘la via dell’arco’ – spiego – è un’arte marziale giapponese, praticata già e principalmente in età feudale. Il kyujutsu comprendeva svariate tecniche, ma durante l’epoca Meiji si è avviata l'elaborazione di una forma unitaria, ad oggi quella standard da competizione.”

“Capisco – mi sorride – Credo chi ti si addica: mi hai da subito dato l’idea di essere una persona molto precisa e controllata.”
Vorrei avere l’opportunità di replicare, ma abbiamo raggiunto l’aula di musica.

“Siamo arrivati.” dico, indicando con un cenno del capo la porta di fronte a noi.

 
********************
 

Osservo il pugno di Sasuke impattare contro la superficie in compensato e non riesco ad impedire che una piccola bolla d’ansia inizi a formarmisi nel petto: tra tutti i corsi questo è l’unico che potrebbe interessarmi davvero, perciò voglio cercare di fare una buona impressione.

‘Peccato solo che in queste occasioni finisca con l’ottenere esattamente  il contrario di quel che mi prefiggo.’ penso, rammaricato.

Pochi secondi dopo, una voce femminile ci invita ad entrare; il mio compagno fa ruotare la porta sui cardini e avanza con aria sicura, così lo seguo e mi fermo appena qualche passo dietro di lui.

“Oh Uchiha, quale onore.” cinguetta una donna dai fiammeggianti capelli rossicci, mancando completamente di notare il sottoscritto.

“Sensei Mizukage.” replica Sasuke, facendo un lieve cenno di saluto col capo.

“A cosa debbo questa tua visita? – chiede lei, avvicinandosi – Hai finalmente deciso di accettare il mio invito a cena?”

“Tks, non sono mica pazzo.”

Spalanco la bocca nell’udirne la replica e i miei occhi corrono in direzione della donna.

‘Che cosa ti passa per la testa? Rivolgersi così ad un insegnan…’

Ma il mio stesso pensiero sembra incepparsi, quando, con una buona dose di stupore, vedo la suddetta insegnante afferrargli le guance e tirarle verso l’alto.

Cerco di dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma dalle labbra mi scappa solo un ansito strozzato; ammutolito, l’unica cosa che mi resta da fare è seguire il loro scambio di battute.

“Qualche volta potresti anche sorridere – si lamenta, un piccolo broncio sulle labbra – soprattutto quando una bella donna come me ti chiede di uscire.”

“Pershè doshei? Nn sharebbe ashfatto nl mhio shile.” sbiascica, impossibilitato a parlare correttamente.

“Hai proprio ragione: il tuo lato scorbutico è anche quello che ti rende così affascinante.”  annuisce, con tanto di bavetta all’angolo della bocca, smettendo di tirargli le guance e prendendo ad accarezzarle con gentilezza.

“Sensei, per favore, si contenga!”

Osservo l’anima pia che si è decisa ad intervenire e, quando la donna sembra dargli retta, tiro un grande sospiro di sollievo.

“Non essere geloso, Chojuro: lo sai che rimani sempre il mio preferito.” dice lei con tono seducente, prendendo subito a riversare ogni attenzione sull’imbarazzato ragazzo.  

‘Ok, ho a che fare con la versione femminile dell’ero-sennin – penso, mentre già il mio corpo inizia ad indietreggiare – Meglio approfittare della sua distrazione e fuggire.’

Ma, quasi avesse udito i miei stessi pensieri, sento la mano di Sasuke stringersi sul mio braccio e trattenermi; gli rivolgo uno sguardo di muta supplica, invitandolo a seguire il mio esempio e correre lontano da lì,  ma ottengo solo di essere trascinato in avanti e finisco col divenire il centro dell’attenzione generale.

“Ehm… e-ecco - mi impappino – In realtà Sasuke ha accompagnato me.” farfuglio, non sapendo bene neanch’io cosa dire.

“Oh, ma che bel ragazzo. – esclama la professoressa, avvicinandosi rapidamente - Come ti chiami, dolcezza?” mi chiede ad un passo dal viso.

“N-Naruto Uzumaki.” balbetto un po’, agitato.

“Ma che ragazzo adorabile! – sussurra, afferrandomi e stringendomi in una morsa soffocante – Uchiha, visto che hai portato qui Naruto-kun ti perdono per la tua scortesia di poco prima.” aggiunge, rivolta a Sasuke.

“Non potevo fare altrimenti: Uzumaki scalpitava dal desiderio di venire a dare un’occhiata.”

Sgrano gli occhi all’inverosimile, immaginando già quale potrebbe essere la reazione della professoressa:

‘Soffocato da un paio di seni, bel modo di passare a miglior vita. - penso, mentre con lo sguardo cerco quello del moretto – Ti stai divertendo, vero? E pensare che saremmo potuti fuggire insieme, invece mi hai aizzato contro la tua stessa aguzzina: che bastardo!’

Quello si limita a ghignare come un idiota, mentre la sensei, preda dell’eccitazione, stringe la sua morsa multi tentacolare e mi fa appoggiare la testa sul suo decolté.

“Oh, Na-chan è il benvenuto –  mi palpa, tutta felice – Tuttavia, se vuole davvero entrare in questo club, dovrà prima superare una piccola prova.”

“Prova?” chiediamo entrambi contemporaneamente, io cercando di sollevarmi da quella posizione imbarazzante.

“Sì, un’esibizione – chiarisce con entusiasmo -  Devi dimostrare di essere all’altezza di questo corso e, visto che sei già qui, non vedo perché rimandare.”

“Certo, nessun problema -  assicuro – Ma… ecco … potrebbe?” ed indico il mio viso ancora saldamente posizionato contro il suo seno.

“Certamente. – risponde e, quando la sua presa si allenta in modo definitivo, non perdo tempo a mettere una certa distanza tra noi - Dunque, sali su quel palchetto e utilizza pure qualche strumento, se sei capace di suonarne uno.” continua, indicando una pedana di forma sferoidale sulla destra.

“Quanto alla melodia?” chiedo, cercando di ricompormi un minimo, ma la voce risulta comunque un po’ strozzata.

“Stupiscimi.” dice solo e prende posto su una delle sedie pieghevoli davanti alla pedana.

Annuisco, iniziando a guardarmi intorno alla ricerca di una chitarra elettrica.

La stanza è abbastanza grande, con le pareti bianche e il pavimento in lucido parchè nero; un pianoforte a coda occupa la parte sinistra dell’aula, mentre file di chitarre, bassi e violini sono appoggiate ad appositi sostegni lungo la parete in fondo.

Accanto alla porta è posizionata una grande libreria in legno, contenente libri e spartiti vari: nel complesso ne risulta un ambiente un po’ piccolo, ma pratico e tranquillo.

Sto per dirigermi verso gli strumenti, quando i miei occhi ne incrociano un paio del colore dell’acqua marina e, per un attimo, non posso fare a meno che rimanere sorpreso: non sapevo che io e Gaara condividessimo questa passione.

Gli rivolgo un piccolo cenno del capo, ma lui mi ignora bellamente, imitando i suoi compagni e prendendo posto sulle piccole sedie di legno.

‘E’ ancora arrabbiato - penso, sospirando sonoramente e incamminandomi verso la parete di fondo – Tutta colpa della mia ostinazione: avrei dovuto accettare il suo rifiuto e basta.’

Ma, a mia discolpa, posso onestamente affermare che abbia reagito in modo un tantinello esagerato: in fondo gli avevo solo chiesto di seguire me e gli altri in giardino per attendere insieme l’inizio delle lezioni.

‘Solo sette o otto volte, eh? Non sono mica molte.’

Volevo provare ad avvicinarlo, perché, durante il poco tempo passato insieme, ho capito quanto fosse corretta la prima impressione che ho avuto di lui.

Del resto, quelli come noi, persone che sono state prese a calci dalla vita tante, troppe volte, riescono sempre a riconoscere chi ha subito lo stesso trattamento.

E Gaara non è solo simile a me, ma è come me: un sopravvissuto.

Non credo affatto che sia un ragazzo asociale, altrimenti non avrebbe accettato che rimanessi a chiacchierare con lui durante il pranzo: si sarebbe alzato e avrebbe cambiato tavolo, anziché tentare di convincere me a farlo.

‘Tuttavia rifiuta il contatto con gli altri, quasi lo temesse. – penso – Vorrei aiutarlo, ma noi siamo bestie difficili da trattare: non accettiamo chi si intromette nelle nostre vite, semplicemente perché nessuno, se non i nostri stessi simili, può capirci davvero.’ 

Serro le dita intorno alla chitarra che ho scelto, frustrato dal circolo vizioso dei miei stessi pensieri: sarebbe sufficiente che mi conoscesse un minimo per capire che siamo uguali, ma lui si rifiuta di farlo.

‘Che posso fare?’ guardo lo strumento che ho tra le mani e un’idea si fa largo pian piano dentro di me.

Non sono certo che funzioni, ciò non di meno non perdo un solo secondo: salgo sul palco, mi affretto a controllare che lo strumento sia accordato, quindi me ne assicuro la cinghia al collo.

Cerco gli occhi acqua marina di Gaara e, trovatili, faccio si di legarli ai miei, mentre le prime note della canzone che ho scelto iniziano a riempire l’aria.

‘Spero solo che il messaggio arrivi.’ e inizio a cantare la strofa di apertura.

[ https://www.youtube.com/watch?v=-A8B4HAtnvk ]

 
**********************
 

Stiamo camminando lentamente per il corridoi deserti del terzo piano, entrambi chiusi nel silenzio dei nostri pensieri.

Da quando abbiamo salutato la Mizukage e i suoi nuovi compagni di corso, ci siamo rivolti si e no quattro parole in croce: evidentemente nessuno dei due desidera avviare una conversazione vera e propria.

‘E’ tutta colpa di quel dannato test.’ mi dico, annuendo mentalmente.

In piedi su quella ridicola pedana tarmata, Naruto era sembrato sbocciare come un bellissimo fiore, uno di quelli che è possibile ammirare solo nelle zone più impervie di questo mondo.

Si è trattato di uno spettacolo raro e, per questo, tanto più prezioso.

Il ragazzo un po’ sciocco e impacciato che avevo iniziato a conoscere, si era trasformato in un giovane dalla presenza fortemente dominante; la sua voce, a tratti roca e profonda, aveva incantato gli astanti, facendo loro percepire con chiarezza la molteplicità di emozioni di cui era impregnata.

‘Le sue emozioni.’ penso, gettandogli un’occhiata fugace.

Quando l’ultima nota era risuonata nell’aria, molti ragazzi gli  si erano avvicinati per complimentarsi e porgli tutta una serie di domande su melodia e testo; inutile descrivere la sorpresa generale, una volta appurato che entrambe erano frutto della ‘sua vena creativa’, così come lui stesso aveva chiarito.

In quel momento, come un fulmine a ciel sereno, avevo capito di essermi fatto ingannare: quella del ragazzo un po’ stupido era solo la superficie, l’involucro dietro al quale nascondeva la sua vera essenza.

Certo, non dubito che, per la maggior parte del tempo, il dobe che è in lui tenga banco e baracca, ma adesso sono assolutamente convinto che questa non sia la sua unica nota di rilievo.

‘Se essere uno sciocco come ne esistono pochi può essere considerata tale, certo.’ ghigno, internamente divertito.

Quello che non è affatto divertente, però, è il potente interesse che ho iniziato a nutrire per Uzumaki; posso affermare senza alcuna ombra di dubbio che in larga misura è dovuto alla travolgente attrazione che provo per lui, ma c’è anche altro che non riesco a spiegarmi.

Forse è solo curiosità.

In effetti non posso fare a meno di chiedermi quanto di quell’aria da fesso sia reale e quanto, invece, sia stata costruita ad arte: è evidente che stia indossando una maschera o, meglio, lo è per chi è abituato a portane una.

‘Comunque non è affar mio – penso, irritato con me stesso per quest’inutile rimuginare – E’ arrivato il momento di fare la mia mossa.’

Ed è per mettere in moto il piano che ho escogitato che sto salendo le scale per il quarto piano, per questo e per l’intenso scambio di sguardi intercorso tra Naruto e Sabaku per tutta la durata della canzone.

Non credo che i più ci abbiano fatto caso, ma al sottoscritto non è sfuggito e ‘Non ho nessuna intenzione di farmi soffiare la preda da sotto al naso, per di più da uno sciatto emo con le occhiaie.’

Inoltre, agendo come ho intenzione di fare, prenderò due piccioni con una fava: darò sfogo al desiderio che mi si agitata dentro e farò definitivamente cadere Uzumaki ai miei piedi.

Ghigno diabolicamente.

“Dove stiamo andando?”

Il suono della voce di Naruto mi coglie di sorpresa: dopo tanto tempo trascorso nel più stretto mutismo, avevo quasi dimenticato che l’altro potesse ancora far uso del dono della parola.

“Ho pensato fosse il caso di farti visitare qualche altro club: anche se hai già scelto quello di musica, non è detto che non possano piacertene degli altri. Ti sto portando nell’aula in cui tiene le sue lezioni quello d’arte.” dico con voce incolore, propinandogli la blanda spiegazione a cui avevo pensato.

“Arte?” chiede, interrogativo e un po’ scettico.

“Sì, è in un’ala dell’edificio molto tranquilla e da cui può godersi una vista spettacolare dei giardini – spiego – trovo sia il posto ideale per riprendersi dal manicomio a cui siamo sfuggiti.”

Sorride, arrossendo leggermente.

“E’ stato divertente – dice, osservandomi – parecchio traumatico all’inizio, ma molto entusiasmante alla fine.”

“Ho visto come ti pavoneggiavi, una volta concluso il tuo ‘test’.” lo punzecchio, nel palese tentativo di stuzzicarlo.

Lui gonfia le guance, mettendo su un’espressione che lo rende più buffo che minaccioso, poi replica:

“Non è vero che mi pavoneggiavo: rispondevo solo alle domande che mi facevano…”

Fingo di ascoltarlo, mentre continua a borbottare negazioni ed improperi; chiunque, al suo posto, si sarebbe vantato fino alla nausea, invece questo ragazzo non fa altro che trasudare modestia e semplicità.

‘E pensare che su quel palchetto scassato risplendeva più di molti cantanti attuali.’ mi dico, osservandolo dall’alto in basso con aria contemplativa.

“Cosa c’è?” mi domanda, accortosi del mio sguardo.

“Niente – replico, scuotendo leggermente il capo – Stavo solo pensando che avevano ragione a complimentarsi tanto: sei bravo.”

Arrossisce, portando le braccia dietro la nuca e sorridendo in modo gioioso.

“Grazie – soffia fuori con tono allegro -  non so perché, ma ho come la sensazione che ricevere complimenti da te sia un evento raro.”

Non sbaglia, ma non mi disturbo a dargliene conferma.

Mi fermo, invece, difronte ad una porta scorrevole, la apro lentamente e lo invito a precedermi all’interno; Naruto mi lancia un lungo sguardo saputo, uno di quelli che sembrano voler dire ‘Ci ho preso in pieno, eh?’ poi muovere qualche passo incerto all’interno dell’aula.

Si guarda intorno con fare curioso, ammirando le numerose opere d’arte appese alle pareti e disposte sui cavalletti, ma dopo poco i suoi occhi vengono calamitati dalle grandi finestre.

“Wao, avevi ragione: è mozzafiato!” afferma alla vista del meraviglioso paesaggio, attaccandosi al vetro a mo’ di ventosa.

“Ne dubitavi?” chiedo con fare retorico, in modo del tutto indifferente, mentre mi chiudo la porta alle spalle e mi avvicino a lui di soppiatto.

Giunto a meno di un passo dal suo corpo, stringo le braccia intorno al suo torace e lo attiro contro il mio.

“Sas’ke?” pronuncia, la confusione evidente nel tono di voce.

Ma io sono già perso nelle trame del profumo che la sua pelle sembra emanare, incapace di rispondere e comunque con nessuna voglia di farlo.

Mi chino a sfregare il naso sull’incavo del collo sottile, aspirando la deliziosa fragranza di vento e sole, poi ne bacio con cura la pelle delicata;  sento la pressione arteriosa aumentare sotto le labbra e i battiti del suo cuore farsi veloci, sconnessi.

“Ma che ti prende?” chiede con voce strozzata, le sue mani che salgono ad artigliare le mie.

Lascio una scia di baci e lappate lungo il tragitto verso il suo orecchio e

“Rilassati.”  gli sussurro rocamente, prendendo a mordicchiarne il lobo.

“E come vuoi che faccia con te che tenti di staccarmi l’orecchio a morsi?” ringhia, strappandomi un piccolo sorriso divertito.

Quasi a volerne assecondare le parole, serro un po’ di più la presa dei denti sulla cartilagine morbida, strappandogli un gemito di dolore.

“Ahi – si lamenta – ma sei completamente impazzito?”

Non rispondo, continuando ad intervallare baci leggeri a piccoli morsi.

“Sas’ke lasciami: non è divertent-aahh.”

I suoi sospiri rochi iniziano a minare il mio autocontrollo, tanto che, inconsciamente, prendo a muovere i fianchi contro di lui; la nuova frizione mi strappa un sibilo di piacere, ma su Naruto sembra avere un effetto completamente opposto.

Lo sento irrigidirsi come un pezzo di legno e, poco dopo, iniziare a tremare da capo a piedi; non mi era mai capitata una cosa simile: di solito, arrivati a questo punto, il partner di turno sta già pregandomi di prenderlo sul posto.

Non sapendo esattamente cosa fare per tranquillizzarlo, decido di seguire il mio istinto.

Interrompo il dondolio dei fianchi e lo volto verso di me, cercando di non sciogliere completamente l’abbraccio in cui l’avevo stretto.

“Naruto.” sussurro, cercando i suoi occhi e tenendoli avvinti ai miei.

Lentamente, avvicino le labbra a quelle gonfie di lui

‘Deve aver cercato di trattenere i gemiti mordendosele a sangue.’ penso, mentre inizio a lasciarvi piccoli baci gentili.

Continuo così per un po’, almeno finché non sento i suoi muscoli iniziare a rilassarsi, poi, approfittando del gemito di piacere che si lascia sfuggire, insinuo la lingua dentro la sua bocca.

La muovo con calma, invitando la gemella a fare altrettanto, mentre esploro il sapore dell’altro, rimanendone irrimediabilmente assuefatto.

Quando Naruto inizia a ricambiare il bacio, seppur con lieve incertezza, sorrido  sulle sue labbra e provo ad approfondirlo ulteriormente.

Poi il dolore.

“Ma che cazzo ti salta in mente?” chiedo, staccandomi da lui, la lingua che pulsa e il sapore ferroso del sangue in bocca.

“Questo dovrei dirlo io – mi ringhia contro – che cazzo credevi di fare?”

“La risposta mi sembra ovvia.” dico, irritato oltre ogni immaginazione, mentre una mano corre a scompigliare i capelli in un gesto nervoso.

Cade un silenzio pesante, un attimo infinito fatto di scambi di sguardi rabbiosi ed imbarazzo, poi Naruto prende a camminare verso la porta.

‘Non ci credo: vuole davvero andarsene. – mi dico, irato – Quindi è così che ci si sente, quando qualcuno ti respinge… No, questo pensiero è intollerabile.’

Lo osservo con astio fermarsi al mio fianco, il volto che guarda dritto davanti a sé.

“Se ti avvicini di nuovo, giuro che ti castro.” ringhia minacciosamente, il tono basso e roco.

Non attende una risposta, solo riprende a camminare e, intenzionalmente, fa urtare con forza la sua spalla contro la mia.

“Non ne ho alcuna intenzione: non mi hai eccitato tanto da tentarmi a riprovarci.” replico con la chiara intenzione di umiliarlo.

Si ferma; lo immagino tremare di rabbia, le mani strette a pugni, le nocche bianche per la forte pressione e un sorriso amaro mi storce le labbra.

Attendo una sua reazione, ma alle orecchie mi giunge solo il suono del suo respiro spezzato e poi quello della porta che scorre sui cardini.

“Ho interrotto qualcosa?” una voce estranea si fa largo nell’ambiante e, purtroppo, so fin troppo bene chi ne è il proprietario.

‘Di male, in peggio.’ penso, voltandomi giusto in tempo per vedere Uzumaki scansare malamente il ragazzo sulla soglia ed imboccare il corridoio.

Un fischio prolungato e poi “Devi averla combinata grossa, Uchiha.”

“Taci, Onjo.” gli ingiungo, prendendo a massaggiarmi le tempie in un vano tentativo di allontanare la tensione.

“Davvero, Uchiha: anch’io miravo al nuovo studente, ma, come al solito, mi hai preceduto…”

Lo ignoro, provando ad immaginare che le sue chiacchiere siano solo il ronzio di una mosca fastidiosa e petulante.

“.. visto che l’hai provato, perché non mi racconti come è stato? Anzi meglio: dammi qualche consiglio così fotterlo sarà un gioco da ragazzi.”

Sento tutta la rabbia che ho dentro esplodere come un petardo e, senza capire neanch’io come diamine sia successo, mi ritrovo a stringere Onjo per la gola.

“Tu non lo toccherai – gli sibilo contro – altrimenti giuro che il tuo culo da checca avrà da pentirsene.”

“Questo non sarebbe un deterrente per me, lo sai.” soffia fuori, leccandosi le labbra con lascivia.

“Tsk – emetto disgustato – Ti ho avvisato: vedi di non fare stronzate.” e mollo la presa, dirigendomi a passo svelto verso la porta.

‘Che vadano tutti al  diavolo!’ penso, decidendo all’istante di mollare ogni cosa e tornare a casa il più velocemente possibile.

 
 
 
Ed eccoci alla conclusione del secondo capitolo. ;O
Intanto mi scuso per il ritardo, ma giostrarsi tra i vari impegni è sempre molto difficile; mi rassicuravo dicendomi che questo capitolo si sarebbe scritto da solo, tanto era semplice… sì, certo.
Ho perso il conto delle volte in cui ho cambiato i dialoghi o riscritto una scena.
E’ un capitolo essenziale, perché contiene tre incipit fondamentali: quello della futura amicizia tra Naruto e Gaara, quello del controverso rapporto tra lui e Sasuke e quello dell’incontro tra Sasuke e Sai (Onjo nel capitolo. Onjo è un cognome di mia invenzione.)
Ora, non so se si è capito perché ho deciso di intitolare il capitolo ‘Degli Uchiha e del loro Orgoglio.’
L’ho fatto per questa bella frase che scappa dalle labbra di Sasuke:
“Non ne ho alcuna intenzione: non mi hai eccitato tanto da tentarmi a riprovarci.”
Ovviamente è falso: ha portato Naruto in un’aula che sapeva sarebbe stata vuota solo poterci provare con lui ed è Sasuke stesso a ribadire più volte che prova un forte desiderio per il nostro biondino.
Quindi perché questa uscita infelice? Perché Naruto l’ha appena respinto ed è il suo modo per salvare la faccia.
E’ orgoglio, appunto.
Sotto questa prospettiva ho scelto anche la strofa della canzone che apre il capitolo: il mostro di cui si parla ho pensato potesse essere l’orgoglio di Sasuke. (cosa, invece, rappresenta per Naruto lo scoprirete nel prossimo capitolo.)
Ho cercato di seguire quelli che avrebbero potuto essere i pensieri dei personaggi, incentrando il capitolo su quegli eventi a cui loro avrebbero dato maggior peso. Gli altri, quindi, sono appena accennati.
Alcuni, comunque, potrebbero essere ripresi nei capitoli successivi.
E beh… spero vi piaccia :D
Ringrazio quanti hanno letto: siete sempre di più e mi piacerebbe poter sapere cosa pensate della storia.
Siete timidi? Vorrei rassicurarvi che non mangio carne umana :P  perciò scacciate via i timori e lasciatemi una vostra recensione, anche negativa: altrimenti come faccio a capire cosa andrebbe migliorato nella storia?
Infine un ringraziamento speciale a chi ha inserito la storia tra le preferite e le seguite: grazie di cuore :*
Psyche passa e chiude.
Bacetti a tutti voi

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Capitolo 4
*** Primo legame ***


NA: Ciao a tutti! Rubo solo un attimo del vostro tempo per dirvi che il POV di questo capitolo è nuovamente quello di Naruto e che le parti scritte così sono in lingua inglese.



Era una notte di luna piena, una serata caotica come tante altre nel distretto newyorkese di Manhattan, ed io percorrevo rapidamente le strade affollate facendo ritorno in collegio. Tra una bevuta e una ristata in compagnia dei clienti fissi del Jakie’s avevo finito per fare tardi e, se mai Sarutobi mi avesse beccato, questa volta rischiavo seriamente di non mettere più piede fuori da scuola per i prossimi due lustri. Guardai per l’ennesima volta l’orologio che avevo al polso e affrettai ulteriormente il passo, mentre con la coda dell’occhio osservavo gli alti edifici e notavo, non senza una certa sorpresa, l’assenza di altri pedoni sul largo marciapiede. C’era qualcosa di strano nel silenzio immobile che mi circondava. Solitamente la via che stavo percorrendo era una delle più trafficate, la musica giungeva potente dai locali aperti tutta la notte e le risate degli adolescenti, usciti a divertirsi con gli amici, sovrastavano il fracasso circostante, quasi a voler raggiungere l’immensità del cielo. Scrollando le spalle e con esse il lieve senso di terrore che stava cercando di invadermi l’animo, imboccai il “vicolo”, una scorciatoia che tutti gli studenti del Brotherhood non si facevano remore a praticare in circostanze del tutto particolari, ossia ogni qual volta si trovassero a rischio “ramanzina preside” per il mostruoso ritardo. Sarutobi ci aveva più volte raccomandato di non praticare quella determinata strada, non la considerava sicura e certamente aveva le sue buone ragioni, ma ogni pericolo sembrava scomparire difronte ad una sua sfuriata e così tutti, me compreso, ignoravano le sue raccomandazioni. Ero giunto più o meno a metà del “vicolo”, quando una strana sensazione, come di qualcuno che, nascosto nell’ombra, stesse seguendomi, mi fece scorrere un brivido freddo lungo la schiena. Nella calma senza vita della stradina buia i miei passi affrettati sembravano riecheggiare senza sosta… o forse non erano solo i miei a produrre quel ticchettio ostinato che risuonava alle mie orecchie come il rumore di pesanti oggetti che cadevano al suolo. Ormai del tutto preda della paura iniziai a correre, mentre con la coda dell’occhio cercavo di scorgere la sagoma dell’uomo alle mie spalle, ma l’unica cosa che riuscivo a vedere erano i bidoni dell’immondizia stracolmi di rifiuti. Le gambe iniziavano a dolere per lo sforzo a cui le stavo sottoponendo, ma l’istinto di sopravvivenza superava la fatica impedendomi di fermarmi. Una mano pallida, con un anello sull’anulare scarno, strinse improvvisamente il mio polso costringendomi ad arrestare la mia fuga disperata. Gridai…

Sollevai le palpebre di scatto, le mani strette alle lenzuola sfatte del letto e la bocca ancora spalancata ad emettere un urlo muto.
“Un sogno… è stato solo uno stramaledettissimo sogno.”, cercai di rassicurarmi, mentre una mano si sollevava a passare, in un gesto nervoso e del tutto inconsapevole, tra le ciocche sudate e arruffate che mi ritrovavo al posto dei capelli.
Osservai, ancora enormemente scosso, le pareti di un arancione sgargiante della mia nuova stanza, i vestiti abbandonati alla rinfusa sul pavimento, la scrivania ingombra di oggetti non ben identificati e pian piano la consapevolezza di essere in Giappone, al sicuro e nel mio letto, fece brezza nella mia mente confusa, permettendomi di calmare il tremore alle mani e la paura che ancora provavo. Stancamente mi sollevai dalle coltri umide di sudore e provai a mettermi in piedi: avevo bisogno di una lunga doccia calda per scacciare anche l’ultimo residuo di terrore e rilassare del tutto i muscoli che si contraevano in piccoli spasmi nervosi. Malgrado fossero già trascorse due settimane dal mio arrivo a Tokyo e la mia vita avesse ripreso una parvenza di normalità, una parte di me non riusciva a non pensare che la nuova realtà che stavo vivendo fosse costruita su fondamenta così fragili che un semplice soffio di vento sarebbe riuscito a farle crollare. Durante il giorno la scuola, i corsi pomeridiani e i pomeriggi passati a far la conoscenza dei miei nuovi amici impedivano alla mia mente di torturarsi col pensiero di ciò che avevo lasciato partendo da New York, ma nel corso della notte, quando ogni difesa psicologica cedeva all’incoscienza del sonno, gli incubi tornavano a tormentarmi, testimonianza indelebile di un mondo che, per quanto si voglia, non si può cancellare. Perso completamente nei miei pensieri non avvertii la presenza in casa di Jiraya, finché il mio padrino non spalancò la porta della mia stanza all’urlo battagliero di:
“Mocciosoooo devo forse buttarti a calci giù da quel giaciglio informe che osi chiamare letto?!”
Poi, notando il su detto letto vuoto, emise un più incerto:
“Ehi moccioso – e quando, dopo una frazione di secondo, non seguii una mia risposta - ma dove cazz… aspetta e se fosse fuggito? Ah, gli adolescenti! E adesso cosa mai vado a raccontare a Kushina? Mi spellerà vivo e io non posso andare in giro a rimorchiare senza pelle: le ragazze non mi filerebbero neanche di striscio!”
Per quanto i vaneggiamenti strampalati del vecchio fossero grandemente divertenti, il mio umore non era proprio dei migliori quel giorno e la mia vena maligna ne risentiva alquanto, perciò con un piccolo sospiro uscii dal bagno e, rivelando la mia presenza, chiesi ironicamente:
“Perché vuoi farmi credere che col tuo aspetto ti vengono dietro?”
“Marmocchio!”, esclamò, voltandosi repentinamente nella mia direzione con ancora le mani che stringevano i bianchi capelli come se avessero voluto strapparli.
“Credo che anche il diventare calvo non ti aiuterebbe nei tuoi piani di conquista dell’altro sesso.”, dissi con un piccolo sorriso sul volto, accennando alla particolare posa in cui si trovava.
“Molto divertente, davvero. E io che mi preoccupo per un impiastro del genere…”
“Non è certo colpa mia, ero-sennin, se il tuo cervello da maniaco incallito non ti ha suggerito di guardare in bagno prima di farti assalire inutilmente dal panico.”
“Certo, certo. In ogni caso come mai sei già in piedi?”, mi chiese accomodandosi sulle coltri sfatte.
“E’ così strano che per una volta io voglia arrivare puntuale?”, ritorsi volgendogli le spalle e immergendo il capo nel caos assoluto che era il mio armadio.
“Lo è visto che anche sotto la minaccia di Tsunade di farti pulire ad uno ad uno i bagni dell’intera scuola non sei riuscito ad alzarti al suono della sveglia. Ti è geneticamente impossibile svegliarti un minuto prima delle sette e mezzo, ormai è comprovato, perciò ci deve essere una qualche spiegazione se oggi sei addirittura in anticipo sul trillo assolutamente ridicolo di quel cellulare fosforescente che hai insistito tanto per acquistare.”
“Ti fai troppi flash mentali, ero-sennin. Non c’è davvero alcuna motivazione particolare.”
“Hai fatto di nuovo quel sogno, non è vero?”
“Come odio la sua naturale perspicacia in certe circostanze!”, pensai scocciato, poi, girandomi finalmente a guardarlo, dissi:
“Sì, ma sto bene. Semplicemente non mi andava di riprendere sonno, così, una volta tanto, ne ho approfittato per fare in tutta calma una bella doccia rilassante.”
“Capisco. – disse, alzandosi lentamente e raggiungendomi di fronte allo specchio – Ricordati sempre, però, che puoi parlare con me di qualsiasi cosa ti preoccupi, capito Naruto?”, aggiunse, incrociando il mio sguardo, mentre aggiustava il nodo a dir poco sbilenco che avevo fatto alla cravatta.
“Lo so, grazie Jiraya.”, sussurrai leggermente imbarazzato, ma ricambiando con determinazione l’occhiata penetrante che mi lanciò.
“Molto bene e adesso muoviti, moccioso, altrimenti finirai per fare tardi comunque.”
“Ok, ci vediamo a cena e comportati bene mentre non ci sono, intesi vecchio pervertito?”, chiesi già con lo zaino in spalla e pronto ad uscire dall’appartamento.
“Non lo faccio sempre forse?”, ritorse con un sorriso malandrino sul volto che sembrava affermare esattamente l’opposto di quanto aveva appena detto.
Risi divertito e, mentre mi precipitavo fuori dal condominio in cui abitavamo, non potei fare a meno di pensare che in fondo ero proprio fortunato ad avere l’ero-sennin come padrino.



La prima ora di lezioni volò via velocemente e il mio umore, già migliorato grazie alla stramberia del vecchio pervertito, sembrò trarne un profondo giovamento, ma quando una giornata inizia male non ci si può certo aspettare che finisca bene, no?
Ero riuscito a mantenere l’attenzione salda per ben tre ore per cui mi sentivo molto soddisfatto di me stesso e, inoltre, nelle ultime due avrei finalmente conosciuto la mia nuova professoressa di inglese, assente durante la prima settimana di scuola per problemi personali. Non vedevo proprio l’ora di poter nuovamente parlare nella mia lingua madre, perciò la mia delusione fu piuttosto cocente quando l’insegnate, presentatasi come Kurenai-sensei, iniziò a fare un riepilogo del programma di grammatica svolto l’anno precedente. Completamente tediato dall’argomento già dopo i primi dieci minuti di lezione, iniziai ad osservare i miei compagni di classe, un modo come un altro, almeno in quel momento, per sfuggire alla noia che mi aveva colto. Davanti a me Kiba stava scribacchiando qualcosa sul quaderno, ma avevo qualche difficoltà a credere che fossero gli appunti che la professoressa ci stava così solertemente invitando a copiare. Un giovane allegro l’Inuzuka, sembrava avere l’argento vivo addosso e il suo entusiasmo era un qualcosa di contagioso… come un raffreddore: stessa capacità di rapida diffusione. Al suo fianco non poteva sedere una persona più diversa da lui neanche se i professori si fossero impegnati per trovarne una: Shikamaru, completamente stravaccato sul banco, rimirava con sguardo perso le nuvole in cielo. Ora chi mai potrebbe pensare che un tale esempio di pigrizia sia in realtà un genio dal QI extra sviluppato? Nessuno, ovviamente. Nel banco anteriore al suo sedeva tutta impettita una biondissima Ino che, facendola in barba a tutte le teorie sulla scomodità del primo banco per fare qualsiasi cosa non fosse ascoltare il professore di turno, lanciava con una certa frequenza palline di carta dritte tra i capelli di una Sakura intenta a prendere appunti. Alla sinistra della Yamanaka faceva bella mostra di sé Choji Akimichi, un ragazzo timido e dal cuore grande più del suo stomaco, caratteristica che, per chi conosceva le sue abitudini alimentari, aveva ancora dell’inspiegabile; alla sua destra, invece, una tranquilla Hinata seguiva la lezione di inglese, distraendosi di tanto in tanto per lanciare sguardi preoccupati al posto che, dietro il suo, era occupato da Sakura. La ragazza, infatti, intenta com’era a copiare quanto scritto alla lavagna, non si era accorta dello scherzetto perpetrato ai suoi danni dalla sua eterna rivale in amore e, quando fosse successo, un po’ tutti avrebbero preferito esserle il più lontano possibile per non divenire vittime innocenti della sua furia cieca. Accanto ad Hinata si ergeva in tutto il suo incappucciamento l’oscura figura di Shino, un giovane con una profonda passione per ogni specie di insetto e una memoria di ferro per ogni genere di azione imbarazzante compiuta da altri. Una persona da non offendere in alcun modo, l’Aburame, se non si voleva essere sfottuti a vita per un episodio accaduto anche dodici anni prima. Dietro di lui una quanto mai perplessa Ten Ten, una ragazza con uno spiccato senso dell’umorismo, fissava sconsolata Rock Lee, un tipo dinamico con la fissa per le arti marziali, e il povero mal capitato che si stava sorbendo le sue elucubrazioni sul potere della giovinezza. Al mio fianco Gaara non faceva nulla per nascondere il suo completo disinteresse per la lezione di grammatica inglese e fissava intensamente la lavagna, quasi avesse voluto farla scomparire. Probabilmente dovette avvertire il mio sguardo fisso su di lui perché si voltò a ricambiarlo con aria perplessa e quando gli sorrisi divertito sbuffò tornando a fissare la nera superficie di ardesia. Dietro di me Sai, un maniaco della peggior risma, ridacchiava per ragioni che ero felice di ignorare, mentre accanto a lui Neji, cugino di Hinata, gli lanciava occhiate omicide che non sortivano affatto l’effetto sperato, ossia quello di zittirlo incenerendolo sul posto una volta per tutte. E per finire, tra lo Hyuuga e un ragazzo di cui non ricordavo il nome, c’era lui, Sasuke Uchiha, in tutta la sua incomprensibile e taciturna persona. La rivalità nata tra noi fin dal primo attimo trascorso in compagnia l’uno dell’altro si era acuita in quei giorni, diventando motivo di esasperazione per ogni essere vivente all’interno del Konoha. C’era qualcosa di quel giovane tanto serio che non riuscivo ad afferrare e forse era proprio questa la motivazione che mi spingeva a provocarlo in ogni occasione e a rispondere alle sue continue punzecchiature.
“Puf.. per un motivo o per un altro mi ritrovo troppo spesso a pensare a lui…”, mi ripresi mentalmente e, con un sospiro fin troppo udibile, distolsi lo sguardo dall’Uchica e lo rivolsi alla finestra proprio mentre Kurenai-sensei si voltava verso la classe, perciò forse non avrebbe dovuto stupirmi troppo il sentirle chiedermi:
“Uzumaki trovi così noiosa la mia lezione?”
“Mi scusi professoressa, non volevo mancarle di rispetto – dissi cercando di placare la palese irritazione della donna – è solo che queste nozioni nel collegio in cui ho studiato si insegnavano ai ragazzi delle medie e, per quanto possa essere utile richiamare alla mente qualche regola grammaticale, non sono riuscito a mantenere l’attenzione sulla lezione. Inoltre, se posso permettermi, ho sempre pensato che sia una perdita di tempo inculcare in delle menti, il più delle volte distratte, delle forme che non solo non si useranno mai nella forma parlata, ma che certamente non verranno neanche ricordate un anno dopo essere state apprese. Queste ore potrebbero più proficuamente essere utilizzate esercitandosi nel dialogo che richiede un’autentica partecipazione da parte degli studenti e… ecco… mmm…”
“Stai forse criticando il mio metodo di insegnamento, Uzumaki?”, mi domandò con in volto un sorriso a dir poco raccapricciante.
“Non mi permetterei mai, sensei, stavo… stavo solo cercando di trovare delle giustificazioni alla mia disattenzione.”, risposi cercando di salvare il salvabile: perché dovevo sempre parlare a sproposito?
“In che scuola hai studiato, Uzumaki?”, mi domandò dopo un lungo attimo di silenzio.
Stupito per non essere già stato spedito nell’ufficio della preside con una bella nota disciplinare, dissi con la confusione dipinta a chiare lettere sul volto:
“Al Brotherhood, professoressa.”
“Oh, quindi anche tu sei un allievo di Sarutobi-sama. Avrei dovuto immaginarlo: il tuo inglese è praticamente perfetto, non c’è la minima traccia dell’accento tipicamente newyorkese anche se, a quanto risulta dalla tua scheda personale, hai vissuto lì praticamente per tutta la tua vita e, come se ciò non bastasse, hai ripetuto esattamente le sue stesse argomentazioni per perorare la tua tesi.”, rise divertita, probabilmente ricordando un evento specifico del suo passato.
“Lei conosce il preside?”, chiesi stupidamente visto che era fin troppo evidente quale fosse la risposta.
“Sì, è un vecchio amico di famiglia e per un breve periodo è stato il mio insegnante di lingua inglese. E’ il mio modello e la principale ragione per cui ho scelto di seguire la carriera dell’insegnamento, ma adesso basta parlare tra noi. Le espressioni smarrite dei tuoi compagni mi suggeriscono che sarebbe il caso di riprendere a discorre in una lingua a loro comprensibile – poi rivolgendosi alla classe – allora ragazzi ho appena intrattenuto un’interessante discussione col vostro compagno e concordo con lui sull’importanza di qualche buon esercizio di dialogo. Per quanto effettivamente il solo studio della grammatica non sia sufficiente per apprendere correttamente una lingua, sono costretta a seguire il programma e a portarlo a termine come ogni anno. Sono certa, comunque, che Uzumaki sarà ben felice di dare una mano a chi fosse interessato ed anzi ne parlerò immediatamente con la preside per istituire un corso pomeridiano a cui possano prendere parte anche gli alunni delle altre classi.”
“Dovrei insegnare a dei miei coetanei?”, chiesi sbalordito.
“Qualche problema, Uzumaki?”
“Oh sì, un’infinità!”, avrei voluto rispondere, ma la sottile nota di minaccia celata nel tono usato dalla sensei Kurenai mi indusse ad esclamare un po’ troppo precipitosamente: “Assolutamente no!”
“Molto bene, allora durante la pausa pranzo verrai con me da Tsunade-sama a discutere di questo magnifico progetto.” e detto ciò riprese la sua spiegazione da dove l’aveva interrotta.
Sospirai completamente sconfitto, imprecando contro la mia lingua lunga che riusciva sempre a cacciarmi nei guai e ripensando con un vago senso di rimpianto alla prospettiva di una semplice nota di demerito sul registro.
“Cosa mai può esserci di peggio che insegnare a dei ragazzi della mia stessa età e che di certo non mi vedranno mai come una figura a cui si deve un minimo di rispetto?”, pensai esasperato.
“Ehi Naruto, ti hanno mai detto che quando parli nella tua lingua madre sei anche più eccitante del solito? Stai pur certo che il tuo corso avrà sicuramente uno studente fisso.”, giunse inaspettata la voce di Sai a rispondere alla mia domanda retorica.
“Contento della risposta, Naruto? - chiese la voce della mia ragione con una buona dose di sarcasmo – Così imparerai ad utilizzarmi di più prima di esporre le tue inopportune opinioni!”
La sola replica che potei permettermi contro quel ragionamento che non faceva una grinza fu un gemito strozzato con il quale lasciai ricadere la testa sul banco nella speranza di auto provocarmi una commozione cerebrale.
Appunto dicevo che se una giornata inizia male… non potrà che finire peggio.




Dopo un’infinità di tempo speso a parlare con la preside e due ore sfiancanti passate al corso di musica ero definitivamente esaurito. Quando uscii dal Konoha il resto degli studenti se ne era già andato da un pezzo ed il mio mostruoso ritardo aveva con ogni probabilità fatto preoccupare seriamente l’ero-sennin, ma, almeno questa volta, non era dipeso dalla mia volontà e perciò non avrebbe potuto farmi la predica. Stavo attraversando rapidamente i giardini diretto al parcheggio, quando dei rumori inconfondibili mi giunsero all’orecchio: qualcuno si stava pestando, non c’erano dubbi. Mettendo da parte la stanchezza, mi avvicinai al punto da cui proveniva il suono di voci concitate, determinato ad interrompere il litigio qualunque fosse stata la motivazione per il quale era scoppiato. Arrivato ad una distanza irrisoria dal gruppetto di miei coetanei, mi resi immediatamente conto che la mia iniziale impressione era errata: non si trattava affatto di una rissa, a meno che non si volesse definire tale l’accanimento di cinque ragazzi sul corpo inerme di un altro già a terra. Dovevo aiutare quel disgraziato, possibilmente prima che quei dementi lo mandassero in ospedale, e stavo già architettando la strategia migliore per coglierli alla sprovvista, quando uno di loro, scostandosi un po’, mi rivelò involontariamente l’identità della loro vittima. In un attimo ogni ben studiato piano strategico andò a farsi benedire e, uscendo allo scoperto, chiesi ad alta voce:
“Ehi ragazzi che state combinando?”
Quelli immediatamente si allontanarono dal ragazzo steso a terra che, con un notevole sforzo, aprì gli occhi.
“Uzumaki…”, sussurrò Gaara non appena la mia figura entrò nel suo campo visivo.
“Tranquillo, adesso ci penso io.”, dissi per rassicurarlo.
“E tu chi saresti?”, mi domandò quello che, presumevo, fosse il capo del gruppo.
Prima di rispondergli esaminai attentamente sia lui che la sua combriccola e poi sorridendo in modo spavaldo dissi:
“Io sono Naruto Uzumaki, ma, non preoccuparti, non chiederò quali sono i vostri nomi. Del resto le merde come voi non ne hanno uno, no?”, li provocai apertamente e non dovetti attendere neanche mezzo secondo prima che uno di loro gridasse:
“Brutto stronzo ma chi ti credi di essere? Addosso ragazzi!”
“Scappa Naruto!”, gracchiò raucamente Gaara, ma la mia mente registrò solo in modo vago le sue parole, completamente concentrata nello schivare e restituire i colpi con gli interessi.
Bastò qualche pugno ben assestato e i cinque dementi crollarono a terra come sacchi di patate: era proprio vero che non c’erano più i teppisti di un tempo.
Li lasciai ad agonizzare al suolo e mi precipitai a soccorrere il mio compagno.
“Sabaku come stai?”, chiesi inginocchiandomi davanti a lui.
“Una favola, Uzumaki, davvero… mai stato meglio.”, rispose fulminandomi con un’occhiataccia.
“Domanda scema, eh? Su appoggiati a me: ti do un passaggio fino a casa.”, dissi, afferrandolo per la vita e tirandolo su.
“Non ho bisogno del tuo aiuto Uzumaki!”, esclamò scostandomi e precipitando nuovamente a terra.
“Oh, certo lo vedo bene.”
“…”
“Ah sei esasperante! Voglio solo darti uno strappo: non puoi di certo camminare conciato così.”, cercai di convincerlo, ma quello ostinatamente replicò:
“Non posso neanche ripresentarmi a casa ridotto così.. di nuovo. Vattene Uzumaki, non sono faccende che ti riguardano queste: me la cavo da solo.”
“Se quello che ti preoccupa è la reazione dei tuoi genitori, puoi stare da me finchè non ti riprendi.”
“Cosa?”, mi chiese stupito.
“Vivo da solo, perciò non sarebbe un problema ospitarti per qualche giorno e sappi che puoi dire ciò che vuoi ma non cambierò idea.”, insistetti con una certa serietà.
“…”
“Anche chiuderti in un silenzio ostinato non ti servirà a nulla.”
Sorrisi nel vedere un’espressione rassegnata dipingerglisi sul volto e con rinnovato entusiasmo lo aiutai ad alzarsi per poi dirigerci insieme verso il parcheggio.
Il viaggio in moto fu particolarmente tranquillo. Le vie, data l’ora, non erano molto affollate e, visto che non avevo alcuna intenzione di perdere per strada il mio quanto mai mal ridotto passeggero, non corsi come un folle, permettendo, così, ad entrambi di godere della leggera brezza settembrina. Arrivati d’avanti al condominio in cui abitavo, lo aiutai a scendere dalla moto e, esaminando con attenzione il suo stato malconcio, gli domandai:
“Riesci a camminare?”
“Sì.”, rispose sicuro, scrollandosi repentinamente la mia stretta di dosso.
Lo afferrai giusto un attimo prima del suo impatto col suolo e, riprendendo a sostenerlo, dissi:
“Per sicurezza sarà meglio che non molli la presa, quantomeno non prima di farti sedere da qualche parte. Su manca poco: il mio appartamento è al quarto piano, ma per tua fortuna questo palazzo ha l’ascensore. Non ci metteremo molto ad arrivare.”
Cinque minuti più tardi, dopo aver combattuto una battaglia vincente contro la serratura della porta, potei adagiare Gaara sul mio divano.
“Fai pure come fossi a casa tua. Io vado un attimo a cambiarmi e a recuperare la casetta del pronto soccorso, ok?”
Lasciando il mio taciturno ospite in salotto, andai in bagno a prendere l’occorrente per medicarlo e, subito dopo in camera mia a riporre la divisa scolastica. Stavo per uscirne, quando il pensiero che magari anche l’altro ragazzo avrebbe gradito mettersi comodo mi sfiorò la mente, così presi una maglia e dei jeans puliti e tornai nell’altra stanza. Trovai il mio ospite che sonnecchiava quietamente, sul viso un’espressione rilassata che metteva in risalto i lineamenti delicati del volto.
“Gaara.”, sussurrai, carezzandogli un braccio.
Immediatamente lui aprì gli occhi e con aria smarrita mi chiese:
“Che succede?”
“Nulla e mi dispiace svegliarti, ma bisogna medicare le ferite che hai riportato se non vogliamo che domani la tua faccia somigli ad un pallone da basket.” e detto questo imbevetti un batuffolo di cotone con del disinfettante e mi apprestai a mettermi all’opera.
Non riuscii neanche a sfiorargli il viso, che una sua mano corse subito ad afferrarmi il polso bloccandone i movimenti.
“Che fai?”, mi chiese sorpreso.
“Ma che prima stavi dormendo con gli occhi aperti? Ti medico.”, risposi divertito.
“Posso fare da solo.”
“Ma è una fissa la tua…”
“No, ci sono semplicemente abituato: sono sempre io a curarmi in questi casi.”
“Beh, oggi per cambiare sarò io a rimetterti in sesto e cerca di rilassarti – dissi vedendolo irrigidirsi - non ti narcotizzerò con l’alcol etilico.”
“…”
Il silenzio che seguì le mie parole mi fece comprendere che non aveva gradito il mio tentativo di sdrammatizzare, così con un sospiro procedetti a disinfettargli il primo graffio.
“Cosa volevano quei tizi da te?”, chiesi ad un certo punto..
“Avevo un conto in sospeso con uno di loro e lui si è portato dietro i compari.”
“Capisco.. sembravano più grandi.”, osservai casualmente, continuando a medicarlo.
“Mm, in effetti erano studenti universitari.”
“E come diamine hanno fatto ad entrare nella scuola?”, domandai seriamente.
“La signorina Tsunade non è solo la preside del liceo Konoha, ma anche il rettore dell’omonima università. L’edificio è accanto al nostro e sia i giardini che la mensa sono in comune.”
“Ora comprendo il perché di due ingressi…”
“…”
Calò nuovamente il silenzio, ma questa volta non lo interruppi: preferivo concentrarmi su ciò che stavo facendo ed evitare di trasformare Gaara in una mummia avvolgendolo in più bende di quante ne occorressero.
“Finito!”, esclamai diverso tempo dopo.
Mi alzai e andai in cucina a recuperare del ghiaccio, poi tornai indietro e lo porsi al mio compagno dicendo:
“Tienilo per un po’: diminuirà il gonfiore.”
“…”
“Ti andrebbe di mangiare qualcosa?”, gli domandai allegramente.
“…”
“Lo prenderò per un sì, anche perché sto letteralmente morendo di fame. Che ti piacerebbe mangiare?”
“Quello che prepari di solito per te andrà benissimo.”, disse abbassando il capo, non tanto rapidamente da impedirmi di vedere un lieve rossore diffonderglisi sulle guance.
Sorrisi e, fingendo di non averlo notato, continuai:
“Oook! Se hai necessità di avvisare i tuoi che ti fermerai da me per un po’, puoi utilizzare il telefono lì accanto a te: se dovessero fare storie dì loro che ti ho chiesto di tenermi compagnia perché i miei genitori sono in viaggio o una scusa simile. Oh, quasi dimenticavo – dissi afferrando la maglia ed i jeans – ho preso dei miei vestiti nel caso in cui volessi cambiarti. Il bagno è in camera mia, prima porta sulla destra.”
Ricevuto un suo segno di assenso, andai in cucina a scaldare l’acqua per il ramen: cosa poteva esserci di meglio di una bella ciotola di questo prelibato piatto per far ristabilire Gaara?
“Nullaaa!”, sembrò rispondere il mio stomaco che si mise felicemente a gorgogliare.
Stavo per versare i tagliolini nell’acqua, quando alle mie orecchie giunse una voce fin troppo famigliare.
“Bamboccio giuro che questa è la volta buona che ti prendo a calci nel sedere! Dove diamine sei stato?”
Con un sospiro spensi il gas e mi affrettai a tornare in salotto.
“Ero-sennin ma ti sembra questo il modo di entrare in casa d’altri?”
“Non cercare di…”, si interruppe di colpo, accorgendosi, finalmente, della presenza di un’altra persona nella stanza.
“Sono stato trattenuto a scuola da Tsunade Obaa-chan e poi ho incontrato il mio amico Gaara che aveva bisogno di ospitalità per qualche giorno e l’ho portato da me. Non sono passato subito ad avvertirti del mio ritorno perché mi sembrava scortese lasciarlo da solo.”
“Io.. ecco.. mmm.. entro sempre così in casa tua, ma se avessi saputo che eri in compagnia…”
“Certo, certo come no. – poi rivolgendo la mia attenzione al mio compagno, rimasto silenziosamente ad osservarci, dissi – Gaara, questo strambo vecchio è Jiraya, il mio padrino.”
“Piacere di conoscerla, signore.”, replicò avvicinandosi e porgendogli la mano.
“Il piacere è tutto mio, ragazzo .”
“Bene e adesso che le presentazioni sono fatte passiamo a cose di più impellente importanza: ti fermi a cena, ero-sennin?”
“Non vorrei disturbare…”, disse con un sorriso abbastanza ambiguo dipinto sul volto.
“O Kami! Ma quali flash si sta facendo la mente di quello stupido vecchio pervertito?”, pensai imbarazzato.
Volendogli dare il beneficio del dubbio, replicai:
“Non ti sei mai fatto di questi problemi.”
“E’ vero, ma non avevi mai avuto ospiti.”, insistette facendomi l’occhiolino.
“Giuro che se Gaara l’ha visto, questa è la volta buona che lo uccido!”, gridò la mia testa, mentre la mia bocca pronunciava con malcelata minaccia:
“Jiraya..”
“Uh, e va bene… va bene rimango.”, starnazzò portandosi una mano alla gola e allontanando leggermente il colletto della camicia.
“Bravo fai bene a sudare freddo. Vedrai che questa me la pagherai cara…”, riflettei maligno, pregustando già la mia vendetta mentre dicevo:
“Perfetto, allora torno di là a preparare il ramen.”
“Da te si mangia sempre e solo ramen, ragazzo. Rimani a fare compagnia al tuo ospite che alla cena ci penso io.”
“Ne sei certo, ero-sennin? Non è che ci finisce al cinese qui dietro l’angolo come l’ultima volta, vero?”
“Abbi un po’ di fiducia, moccioso: non hai idea delle ragazze che ho conquistato grazie alla mia cucina.”
“Mm.. ho i miei ragionevoli dubbi.”
“La vedremo, bamboccio!” e detto questo, scomparì in cucina.
Nel breve tempo che occorse a Jiraya per riscaldare degli involtini precotti e preparare un contorno, cercai di fare un po’ di conversazione con Gaara, ma ben presto si può dire che divenne un monologo visto che le sue risposte consistevano in lunghi silenzi. La cena, però, procedette sorprendentemente bene, beh almeno se si trascurava il mio quasi strangolamento con il riso, quando l’ero-sennin aveva fatto una non troppo velata allusione alla sua soddisfacente vita sessuale. Quando ad un orario indecente decise, finalmente, di ritornarsene nel suo appartamento, tirai un muto sospiro di sollievo e ringraziai i Kami per avermi concesso la grazia di non fargli dire nulla di imbarazzante sui miei rapporti con il rosso. Era già sulla porta ed io mi ero ormai del tutto rilassato, quando si voltò e, facendomi l’occhiolino, disse:
“Mi raccomando, ragazzi, divertivi pure, ma senza strafare: domani avete scuola, perciò non potete fare tardi. Oh e non dimenticate di prendere le dovute precauzioni, neh?”
“Jiraya!”, urlai con tutto il fiato che avevo in gola, arrossendo fino alla punta delle orecchie, mentre il maledettissimo vecchio se la filava ridacchiando contento.
Senza incrociare lo sguardo di Gaara e completamente in preda al panico per l’assurda situazione in cui mi aveva cacciato quel folle del mio padrino, me ne uscii dicendo:
“Sarebbe ora che iniziassimo a studiare, sai nel caso domani dovessero interrogarci.”
“D’accordo.”, si limitò ad assentire.
In silenzio prendemmo i libri che ci servivano, ci accomodammo in cucina e iniziammo a svolgere qualche esercizio. Dopo un po’ la stanchezza della giornata tornò a farsi sentire, così chiudendo con un colpo secco il tomo di storia che stavo leggendo esclamai ad alta voce.
“Non ce la faccio più!”
“…”
“Tu non sei esausto?”, chiesi con interesse al mio compagno di studi.
“Abbastanza.”
“Mm.. ti andrebbe allora di chiudere e chiacchierare?”
“Di cosa?”
“Mah non lo so… del più e del meno, credo.”, dissi pensieroso.
“Sarebbe?”, mi domandò mettendo da parte ciò che stava facendo.
“Cosa ci piace, quali sono i nostri hobbies, cose di questo tipo insomma.”, risposi prontamente.
“Non mi piace nulla e non amo fare niente in particolare.”
Sospirando, mi passai nervosamente una mano tra i capelli e dissi:
“Non ci credo: ci sarà pur qualcosa che susciti il tuo interesse.”
“No, niente di niente.”
“Mm.. forse intraprendere una conversazione non è stata una buona idea.”, dissi tristemente.
“Perché? Non ti piacciono le mie risposte, forse?”
“No, non credo proprio che siano vere, ma non mi va di discutere come qualche giorno fa per cui finiamola qui, per favore.”
“Fammi indovinare: credi ancora di riuscire a capirmi? Te l’ho già detto, Uzumaki, tu non sai niente di me e quello che hai visto oggi dovrebbe esserne una prova.”, disse seccamente.
“Ti sbagli e credo che non ci sia altro modo per fartelo comprendere che parlarti un po’ del mio passato.”
“Non devi, anche perché io poi non sarei comunque disposto a rivelarti il mio.”
“Non è uno scambio ciò che voglio, ma solo farti capire perché sono così convinto di poterti comprendere, Gaara.”
“…”
“Vedi i miei genitori lavorano per conto del governo statunitense. – risi divertito notando l’espressione che aveva assunto il suo viso. Per evitare malintesi chiarii - Non fare quella faccia! Sono solo dei semplici segretari, ma ciò non toglie che i loro compiti fossero alquanto gravosi e che spesso non potessero passare molto tempo con me. All’età di sei anni decisero che lasciarmi alle cure amorevoli dei nostri vicini un giorno sì e l’altro pure non fosse esattamente il modo migliore per garantire una vita stabile al loro bambino, così mi iscrissero ad un collegio, il Brotherhood. Il preside della scuola era un loro amico di vecchia data e mi affidarono con fiducia alla sua tutela, promettendomi che ci saremmo sentiti ogni giorno e visti ogni qual volta ce ne fosse stata l’occasione. Non ero affatto contento della mia nuova dimora, né di dover passar mesi senza poter vedere, seppur di sfuggita, i miei genitori, ma ogni mia lacrima fu versata invano: mi lasciarono lì già il primo giorno di visita alla nuova scuola. Ero convinto, nonostante tutto, che, se avessero compreso quando poco a mio agio fossi in quel posto, sarebbero subito tornati a prendermi, così mi isolai e rifiutai di stringere amicizia con gli altri ragazzi del collegio. Il mio atteggiamento scontroso mi attirò ben presto le antipatie di tutti ed oggi non posso che comprendere le motivazioni che spinsero i miei compagni a considerarmi solo quando avevano qualche scherzetto da rifilarmi. Avevo ottenuto il risultato che mi ero prefisso di raggiungere: ero talmente infelice che i miei sarebbero certamente venuti e mi avrebbero riportato a casa con loro. Passò un anno ed io ero ancora al Brotherhood. I miei telefonarono spesso, ma il più delle volte mi rifiutai di parlargli: ero talmente arrabbiato con loro e con il mondo in generale che potevo quasi sentire la mia ira ruggire.- sorrisi dicendo- Forse fu questa sensazione che mi portò ad immaginare che dentro di me abitasse un demone terribile, una volpe col pelo rosso e nove lunghissime code, ed era a causa sua che i miei genitori mi avevano abbandonato lì. Nessuno vorrebbe avere un figlio al cui interno risiede un mostro così terribile, no? Quando gli altri bambini mi provocavano ero assolutamente convinto che svegliassero la volpe e che questa, arrabbiata per l’interruzione del suo sonno, mi spingesse a reagire con violenza a degli stupidi dispetti senza senso. In poche parole le attribuivo la responsabilità di ogni cosa sgradevole che mi capitasse o che facessi, ma allo stesso tempo non potevo fare a meno di considerarla quasi una sorta di amica. Kurama, così chiamai il demone, era l’unica presenza fissa della mia vita al collegio e, sia che soffrissi, mi adirassi o altro, sapevo di non essere mai solo perché lui era con me. Avevo una fervida immaginazione, vero?”
“Avevi solo sette anni e dovevi sentirti molto solo.”
“Già, è così. – sospirai, per poi riprendere con un piccolo sorriso a curvarmi le labbra - In ogni caso Kurama non odiava proprio tutti, sai? Circa un anno e mezzo dopo il mio arrivo al collegio un nuovo maestro, Iruka, venne ad insegnare al Brotherhood. Inizialmente mi comportai con lui come facevo con tutti gli altri, ma, per quanto potessi esasperarlo con i miei scherzi scemi e le mie sparate da scavezzacollo, mi trattava sempre con gentilezza. Iniziai ad affezionarmi a lui e col tempo, sotto la sua guida, riuscii a placare un po’ la volpe e a stringere un legame solido che mi permise di sopravvivere per altri trecentosessantacinque giorni. Le cose subirono una svolta radicale col trasferimento di un nuovo ragazzo, Yaiko, che divenne il mio compagno di stanza e, più importante, il mio primo vero amico. La volpe smise di ruggire e con non pochi sforzi riuscii a farmi accettare dai miei compagni che alla fine perdonarono il mio iniziale colpo di testa… oh chiaramente si scusarono per avermi ostracizzato durante la mia permanenza al collegio. Quindi, come puoi ben comprendere, so cosa vuol dire il termine solitudine, ho provato il suo significato sulla mia pelle e perciò non riesco a credere che tu voglia realmente non avere alcun amico. Rivedo molto in te del me stesso di tanti anni fa e non posso fare a meno di domandarmi: perché scappi dal mondo, Gaara?”
“Non sto fuggendo, semplicemente io non sono te Naruto.”
“Non ho mai pensato che fossimo uguali, ciò non cambia il fatto che riesca a comprendere ciò che per altri non è evidente.”
“Cosa sai tu di me, Uzumaki?”
“So che adesso stai cercando di prendere le distanze, per esempio.”
“E va bene Uzumaki, visto che sembri tenerci così tanto, ti dirò cosa mi ha reso ciò che sono.”
“Di che stai parlando, Gaara?”, chiesi con una certa cautela.
“Dell’odio Naruto. I tuoi genitori ti hanno sempre amato, mentre mio padre non nasconde nemmeno il profondo rancore che prova nei miei confronti, come i miei fratelli del resto.”
“Perché dovrebbero covare del risentimento nei tuoi confronti?”
“Perché io ho ucciso mia madre.”
“Che?!”
“Venendo al mondo la mia vita ha spezzato la sua gettando tutta la mia famiglia nello sconforto. Quando mi guardano loro non vedono Gaara, ma l’assassino di una delle persone che amavano di più al mondo.”
“E tu cosa credi?”
“Che vuoi dire?”
“Sei d’accordo con loro?”
“Come potrei non esserlo? E’ la pura e semplice verità. Quindi capisci Naruto? Io non conosco l’amore, perciò come potrei darlo agli altri in una sua qualsiasi forma? L’unico amore che conosco è quello per me stesso, l’auto conservazione che prova ogni specie su questo mondo e che le permette di sopravvivere.”
“Tu non hai ucciso tua madre, non al momento della tua nascita almeno, ma certamente lo stai facendo adesso.”
“…”
“Un parto non è mai semplice: possono esserci complicazioni ed imprevisti che nessuno era in grado di prevedere. Tua madre questo lo sapeva perfettamente, ma ha deciso di portare avanti ugualmente la sua gravidanza perché per lei la cosa più importante era quella di darti alla luce. Col tuo comportamento stai sprecando il dono che tua madre ti ha fatto al prezzo della sua stessa vita: secondo te sarebbe felice di sapere che, non solo ti imputi la colpa della sua morte, ma hai deciso di auto infliggerti come punizione la privazione di ogni forma di affetto o gioia?”
“Io…”
“La risposta è no, Gaara, non lo sarebbe, perciò cosa hai intenzione di fare adesso? Vuoi continuare a comportarti come hai sempre fatto o realizzare le speranze che tua madre nutriva per te?”
“Tu sei… davvero strano.”
“Non sei il primo che me lo fa notare.”, dissi abbracciandolo.
“Non ne dubito.”, sussurrò, nascondendo il viso nell’incavo del mio collo ed iniziando a piangere silenziosamente.
Dopo un breve lasso di tempo parlò di nuovo con un flebile tono di voce che risultava, tuttavia, incredibilmente udibile, come se stesse parlando direttamente dentro al mio orecchio e forse, considerata la stretta in cui eravamo avvinghiati, era proprio così.
“Nessuno mi aveva mai rivolto parole simili.”
“Beh per smuovere uno zuccone come te non c’era altro modo.”, replicai accarezzandogli i setosi capelli rossi.
“No, il fatto è che tu sei diverso.”
“Lo devo prendere come un complimento?”, domandai in qualche modo divertito da questa sua uscita.
“Non ho ancora deciso.”
Rivolsi uno sguardo esasperato verso l’alto e continuai a stringerlo in silenzio.
“Chiunque altro al sentire la mia storia strappalacrime si sarebbe impietosito e avrebbe cercato di consolarmi.”, disse dopo qualche minuto.
“Ad occhio e croce non credo che tu sia il tipo da accettare la pietà altrui.”
“Infatti non lo sono, anzi non credo proprio che esista. Un tempo, quando andavamo da amici e io ero ancora molto piccolo, ogni donna presente nella stanza mi si avvicinava e, mentre accarezzavano gentilmente la mia chioma ribelle, mi dicevano:
<>
E quando non davo loro alcuna risposta reagivano sempre allo stesso modo: una carezza in più ai miei capelli, qualche dolcetto, un bacio sulla fronte e poi, quando si trovavano a parlare con mio padre, non si facevano alcun problema a concordare con lui definendomi anormale. Cosa avrei dovuto fare? Quale genere di inetto domanderebbe ad un bambino se gli manca la madre? E’ chiaro che la risposta sarebbe sempre affermativa, poi per me che non l’avevo neanche mai conosciuta era anche peggio perché non avevo mai avuto nemmeno un assaggio di quello che viene chiamato affetto materno. Loro si aspettavano che con le lacrime agli occhi sussurrassi un singhiozzato sì, ma già da piccolo non amavo mostrare i sentimenti che mi portavo dentro. Erano miei: cosa mai centravano loro col mio dolore? Cosa ne avevano a spartire? Nulla visto che il loro interesse era puramente formale, per non dire sconveniente e assolutamente fuori luogo. Ammiravano mio padre per come stesse reagendo alla perdita e si stesse prendendo cura di noi figli, ma loro non erano presenti quando ci sgridava per delle inezie o perdeva le staffe per una frase di troppo detta al momento sbagliato. In poche parole non sapevano nulla di me o della mia famiglia, ma si arrogavano il diritto di giudicare mascherando il tutto con un falso sentimento di pietà.”
“Gaara…”
“Quando andavamo a visitare la tomba di nostra madre, mentre i miei fratelli non riuscivano a frenare le lacrime, io rimanevo impassibile. Non riuscivo a comprenderli: per me mia madre era una figura astratta degna di ogni rispetto, ma priva di forma o ricordo. Come io non capivo loro, Kankuro e Temari non erano in grado di spiegarsi il mio comportamento e, grandemente influenzati dalle osservazioni di mio padre, iniziarono ad imputarmi la colpa della perdita subita dalla loro famiglia. Da una parte il falso cordoglio, dall’altra il risentimento… queste le uniche realtà in cui sono cresciuto, perciò non avevo mai pensato che il mio chiudermi al mondo o il riconoscimento delle colpe imputatemi costituissero la strada sbagliata da percorrere e poi arrivi tu a sconvolgere ogni mia convinzione. Guarda come sono ridotto: non avevo mai pianto in vita mia e sono bastate le parole di un biondino qualsiasi a farmi crollare.”
Lo strinsi più forte, cercando in qualche modo di trasmettergli il mio sostegno, e cercai di stemperare un po’ la tensione che si era venuta a creare chiedendogli:
“Stai meglio adesso? Il demone tasso che dimora in te ha smesso di ringhiare?”
“Demone tasso?”, domandò con un accenno di divertimento nella voce.
“Già, ti si addice più di una volpe.”, replicai, felice che il tentativo fosse riuscito.
“E hai già trovato un nome per lui?”
“Direi che questo è compito tuo.”
Stette per un attimo a pensarci su e poi affermò convinto:
“Shukaku.”
“Beh, direi che gli si addice. Adesso che hai tirato fuori ciò che ti tormentava Shukaku si è tranquillizzato?”
“Sei tu che sei riuscito a tranquillizzarlo. Nessuno mi aveva mai parlato con tanta sincerità e reale preoccupazione, una sensazione… piacevole da provare.”
“Sono contento che la pensi così, perché prenderò le parole che hai appena detto come la tua solenne promessa di provare molte altre belle sensazioni.”
“In poche parole…”
“Già, mi sto auto investendo del titolo di tuo primo amico. Sei contento?”
“Bah non saprei, credo che dovrò farci l’abitudine.”
Risi apertamente e, per la prima volta, Gaara si unì a me: era il primo passo della nascita di un’amicizia che speravo sarebbe durata per sempre.



NA: Carissimi un assonnato saluto dalla vostra Psyche! Vi ho fatto aspettare un bel po’ e di questo vi chiedo umilmente perdono, ma finalmente sono riuscita a pubblicare il terzo capitolo della storia.
Ringrazio come sempre quanti hanno letto o inserito la storia tra le preferite, seguite e ricordate. Un ringraziamento speciale va a chi ha lasciato una recensione: come dico sempre sono le vostre opinioni e osservazioni che mi spingono a continuare questa storia anche se piena di impegni.
Dunque, veniamo a noi, che ne pensate del capitolo? Vi è piacito oppure no? Siete contenti della neonata amicizia tra Naruto e Gaara? Aspetto con ansia le vostre opinioni positive o negative che siano. Un bacio,
Psyche
PS: Per prima cosa ho avuto qualche piccolo problema a caricare il capitolo quindi forse mancheranno gli spazi tra un paragrafo e l'altro. Vi chiedo scusa per il disagio. Secondariamente vedrò di pubblicare al più presto il quarto capitolo che presenterà il POV di Sasuke. Vi anticipo che verrà descritto l’episodio del giardino che incuriosiva tanto qualcuno di voi. A presto (si spera!).

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Capitolo 5
*** Inaspettati aiuti ***


NA: Salve carissimi! Come al solito vi rubo solo un minuto per ricordarvi che il POV di questo capitolo è quello di Sasuke e per dirvi che come al solito il pc mi ha dato dei problemi non iserendo tutti gli spazi. Mi sono resa conto, inoltre, che scrive tutti i dialoghi in corsivo (anche quando io li digito normalmente). Per evitare ogni genere di confusione vi dico subito che la parte inserita tra questi simboli ** è un flashback. Chiedo scusa per i numerosi inconvenienti.

D: I personaggi presenti in questa storia non sono di mia proprietà, ma appartengono al sensei Kishimoto. Questa fan fiction non è scritta a scopi di lucro, ma per puro diletto personale.



Il sole iniziava dolcemente a declinare dietro gli alti edifici della città, mentre nugoli di persone si riversavano per le strade illuminate e caotiche di Tokyo. Mi persi per un attimo ad osservare il colore caldo del tramonto, le sfumature rosate e d’oro che i suoi raggi concedevano alle nuvole, le prime ombre della sera allungarsi ed avvolgere lentamente i più piccoli anfratti della metropoli. La notte sembrava scivolare sinuosa, mentre ricopriva con la sua trapunta di stelle ogni cosa che si trovasse sul suo cammino. Era il momento della giornata che più preferivo, quello in cui la luce accecante dell’astro più grande si spegneva e lasciava il posto al delicato chiarore lunare. Una sensazione strana davvero, quella che, fin dall’infanzia, provavo nel vedere calare le tenebre sul mondo: non era mai stata paura, piuttosto un sentimento di gioia confortante, come qualcuno che dopo lungo tempo ritrova una vecchia amica. Contrariamente a quanto credono i più, non è affatto il giorno a rischiarare il mondo in cui viviamo, al contrario io ritengo che solo al buio noi riusciamo a vedere realmente. E’ nel manto oscuro della notte che cadono le maschere, le persone cessano di recitare il ruolo che si sono imposte e, sicure della protezione delle tenebre, si mostrano per ciò che sono, rivelando la loro vera natura. Forse per questo anch’io ho sempre amato tanto la notte, forse per tale ragione la attendevo con ansia e aspettativa, unico momento di libertà per chi vive in una prigione di inganni. Seduto sulla cassapanca posta sotto la finestra, me ne stavo, perciò, ad osservare i passanti, li scrutavo cercando di immaginare a quale tipologia di persone appartenessero o fantasticavo sulla vita ordinaria che sapevano attenderli l’indomani, al nuovo sorgere del sole. Un gruppo di ragazze della mia età attraversò la strada chiacchierando allegramente, le gonne già fin troppo corte sollevate dalla leggera brezza estiva. Probabilmente si stavano dirigendo in uno dei numerosi pub della zona, magari qualche giovane le stava già aspettando o avevano tutta l’intenzione di cercarne uno non appena fossero arrivate sul posto: una notte di follie per poi tornare ad essere delle normali studentesse. In un certo qual modo le invidiavo, vivevano la loro età senza preoccuparsi di nient’altro se non di quelle piccole inezie che sembravano risiedere in pianta stabile nella mente degli adolescenti. Niente aspettative da soddisfare, nessuna costrizione a cui attenersi, solo problemi quotidiani che potevano facilmente essere dimenticati in una notte passata a divertirsi con gli amici. Mi sarebbe piaciuto uscire, provare ad annebbiare solo per un po’ i mille pensieri che sembravano vorticarmi in testa, magari andare per locali insieme a persone di cui, la mattina dopo, non avrei ricordato neanche il nome, ma anche questo mi era negato. Quella sera, infatti, si sarebbe svolto un’importante ricevimento a cui erano stati invitati i più grandi magnati e imprenditori del paese, tra i quali figurava anche mio padre. Era immensamente irritante rinunciare al mio divertimento per presenziare ad un galà a cui mi sarei certamente annoiato a morte, ma in fin dei conti c’ero abituato. Non era la prima, né sarebbe stata l’ultima volta, lo sapevo, eppure il malumore che sentivo sembrava acuirsi ad ogni minuto che passava: quella sera, per la prima volta, avrei voluto seriamente disertare gli ordini di mio padre. La verità era che la festa a cui avrei dovuto partecipare era solo in minima parte causa del mio cattivo umore, ma esserne consapevole, anziché diminuire la mia rabbia, la faceva aumentare in modo esponenziale. Mi alzai lentamente dalla cassapanca e mi avvicinai alla scrivania su cui giaceva in bella vista un semplice foglio di carta, lo presi e iniziai a rigirarlo tra le mani come avevo continuato a fare dal momento esatto in cui l’avevo ricevuto. Si trattava di un’autorizzazione, identica in tutto e per tutto a tante altre che, durante gli anni scolastici, gli insegnanti ci avevano consegnato, chiedendoci poi di mostrarla a casa e, se interessati, riportarla firmata. Nello specifico quella che stavo rileggendo, per un numero non ben precisato di volte, mi avrebbe permesso di seguire il corso di inglese, istituito da Kurenai, approvato dalla preside e le cui lezioni sarebbero state tenute dal nuovo studente, Naruto Uzumaki. Era un’opportunità, me ne rendevo perfettamente conto. Del resto quando mi sarebbe mai ricapitato di avere per insegnante un vero madre lingua? La scuola non poteva di certo permettersene uno e mio padre non avrebbe visto l’utilità di assumerne uno privato, ne ero certo. Conoscevo le sue idee come se fossero state mie e per lui erano già sufficienti le lezioni che seguivo durante l’orario scolastico, per non parlare del fatto che non avrebbe permesso che qualcosa interferisse con i miei allenamenti pomeridiani. Indubbiamente, perciò, quella che mi si presentava era un’occasione che non avrei dovuto perdere, eppure qualcosa continuava ad impedirmi di apporre la mia firma e portare l’autorizzazione a Kurenai. Il termine fissato per la consegna sarebbe scaduto l’indomani, ma io ero ancora indeciso sul da farsi, un evento più unico che raro per me, abituato a prendere con una certa rapidità tutte le decisioni che mi erano consentite. Ecco la causa del mio malumore dilagante, sostanzialmente riassumibile e riconducibile ad una singola parola: Dobe. Era tutta colpa di quel cretino e della sua lingua lunga, se adesso mi ritrovavo a scervellarmi sulla possibilità di migliorare oppure no le mie conoscenze linguistiche. Avrei voluto cogliere l’opportunità insperata che i Kami mi avevano concesso, ma il fatto che a tenere il corso fosse proprio l’affascinante biondino, che tanto mia aveva colpito al suo arrivo al Konoha, sembrava costituire un freno per me. In qualche modo, anche se non avrei dovuto esserlo, mi sentivo deluso: tutte le mie aspettative su quel ragazzo si erano rivelate essere un buco nell’acqua. Vedendolo il primo giorno di scuola, subito dopo i pensieri turbinosi che mi avevano impedito di prendere sonno per tutta la notte, avevo creduto che fosse lui quella novità in cui tanto avevo sperato. Una nuova persona da conquistare, da ammaliare, con cui giocare e divertirmi finchè non mi fosse venuta a noia, un nuovo obiettivo da raggiungere e, per una volta, una preda che era stata capace di suscitare la mia curiosità. Oh certo fisicamente era un bellissimo ragazzo, ma ne avevo avuti tanti e lui sarebbe stato solo uno di loro, se non fosse stato per quegli occhi che mi avevano stregato dal primo momento in cui avevano incrociato i miei. Mi intrigava ed erano anni che qualcuno non riusciva a colpirmi, ma quanto visto quasi due settimane prima aveva in qualche modo spento il mio interesse…

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Stavamo camminando nei giardini con la compagnia di quello scocciatore di Sai che, da quando si era unito a noi, non aveva fatto altro che monopolizzare l’attenzione di Uzumaki con la sua parlantina irrefrenabile. Li seguivo lentamente, a qualche passo di distanza, non perché volessi concedere loro chissà mai quale privacy, ma infastidito oltre ogni dire dalle continue frecciatine che quel pervertito osava lanciarmi. Mi distrassi appena qualche minuto, distogliendo lo sguardo dalla coppia che mi camminava d’innanzi e dirottandolo verso alcuni ragazzi del consiglio che mi avevano salutato. Quando lo riportai nuovamente davanti a me, mi accorsi che di quei due non c’era più traccia. Adirato oltre ogni limite per essere stato palesemente scaricato (e nessuno può permettersi di scaricare un Uchiha), mi misi subito a cercarli e, dopo una manciata di minuti, li ritrovai all’ombra di una vecchia quercia secolare. Mi fu sufficiente fare qualche passo verso di loro per rendermi conto di aver interrotto un momento di intimità: Sai era praticamente seduto sul bacino di Uzumaki, mentre questi, ad occhi chiusi, sembrava attendere con una certa impazienza che l’altro si decidesse ad unire le loro labbra, già praticamente vicinissime. Sentì la rabbia montarmi dentro al pensiero che quel dobe avesse ceduto con tale facilità alle quattro moine che quella pallida copia della mia persona gli aveva propinato, ma in fin dei conti quello sciocco era libero di sbaciucchiarsi chi più gli aggradava. Questa, però, non era una buona scusa per avermi mollato in mezzo al cortile come un perfetto imbecille: io stavo sprecando il mio preziosissimo tempo per fare da guida a quell’impiastro e lui non aveva avuto neanche la decenza di congedarsi!
Con la sensazione di stare per esplodere, mi schiarì la voce e pronunciai con tono affettato:
“Che diamine state facendo? Non lo sapete che è proibito amoreggiare all’interno delle proprietà scolastiche?”
Appena udite queste parole, Uzumaki sembrò risvegliarsi dallo stato di beatitudine in cui si trovava e, aperti gli occhi, iniziò a far scorrere lo sguardo da me a Sai, sconvolto.
“Cosa c’è Dobe? Non ti spettavi di essere beccato?”, pensai ironicamente e sulle mie labbra si formò un piccolo ghigno.
Lo vidi, poi, arrossire fino alla punta delle orecchie, mentre l’altro, con stampata in faccia l’espressione più indifferente del mondo, si sollevava dal suo grembo dicendo:
“Tempismo impeccabile Uchiha, non c’è che dire.”, e mi sorrise in modo falso.
“Chi la fa, l’aspetti.”, sembrò gridare una voce nella mia mente con una certa soddisfazione e il ghigno che mi storceva le labbra si allargò ulteriormente.
“Beh, io ora devo proprio scappare: ho il corso d’arte. E’ stato un piacere Naruto, Uchiha.”, continuò e, con un derisorio gesto del capo, si congedò.
Quando quella specie di ermafrodito si fu allontanato, concentrai completamente la mia attenzione sul ragazzo biondo che, ancora seduto a terra, mi fissava imbarazzato.
“Muoviti Uzumaki: non ho proprio voglia di continuare a sprecare il mio tempo a farti da guida, visto che delle strutture di cui questa scuola è fornita non potrebbe fregartene di meno. In ogni caso la prossima volta che decidi di imboscarti con qualcuno, nella remota circostanza che dovessi essere in mia compagnia, sei pregato di avvisarmi. Ho altro da fare che stare ad aspettare i tuoi comodi e non ho la minima intenzione di assistere ad una scena penosa come quella che mi si è presentata davanti venendo a cercarti, capito Dobe?”, chiesi con gli occhi ridotti a due fessure.
“Teme.. io..”, provò a dire, mentre barcollando si rialzava dall’erba umida.
Lo interruppi immediatamente e con freddezza gli ingiunsi:
“Rientriamo adesso.”
Lo attesi con indosso la mia più efficace maschera di indifferenza che, in quelle poche ore, troppo spesso avevo messo da parte con lui e mi avviai verso la scuola solo quando lo riebbi affianco.
Non parlò per tutto il tragitto, ma arrivati nei pressi dell’ingresso dell’edificio principale mi rivolse la parola dicendo:
“Senti Teme, per caso Sai ti piace?”
Non avrebbe potuto pronunciare frase peggiore neanche se ci avesse studiato sopra per anni ed anni, ma in fin dei conti dimenticavo con snervante facilità di aver a che fare con un idiota.
Il mio orgoglio scalpitò furiosamente.
“Non posso credere che questo sciocco preferisca davvero quel Sai a me, un Uchiha!”, pensai vicino a raggiungere il limite della mia sopportazione, già messa duramente alla prova per quel giorno.
Con tono indifferente, mentre dentro fremevo, risposi con noncuranza:
“Come un enorme scodella di ramen.”
Alla mia uscita il biondino mi guardò stupito, ma, dopo un attimo di intensa meditazione, raggiunse la più accesa gradazione di rosso che avessi mai visto e, in un bisbiglio, pronunciò:
“Oh, capisco.”
Ormai davanti al portone di ingresso, irritato persino dalla sua presenza, mi congedai dicendo:
“Ci si vede in classe, Dobe.” e mi allontanai rapidamente.
****

Da quel giorno iniziammo ad accapigliarci su ogni cosa: io non riuscivo a smettere di punzecchiarlo e lui sembrava provare un piacere insano nel contestare ogni parola che usciva dalla mia bocca. Come avrei mai potuto frequentare il suo corso? La tentazione di provocarlo sarebbe stata troppo forte, ma davanti non avrei più avuto un semplice studente: sarebbe stato il mio insegnante, una persona a cui avrei dovuto portare un minimo di rispetto.
“Sasuke ma non sei ancora pronto?”
La voce di Itachi mi riscosse dai miei pensieri e, con un certo fastidio per essere stato strappato alle mie elucubrazioni, non risposi, limitandomi a sollevare appena un po’ il sopracciglio destro.
Mio fratello mi fissò per un attimo, poi con un sonoro sospiro si sedette sul mio letto e disse:
“Fratellino noi due dobbiamo parlare.”
“Ma davvero…”, iniziai a dire, ma quello mi interruppe subito scattando:
“Sì, assolutamente.”
“Finiremo per fare tardi alla festa e sai che nostro padre non sopporta i ritardatari.”, cercai di svincolare e mi alzai dalla sedia dirigendomi verso il mio armadio.
“Se l’opinione di nostro padre ti preoccupava tanto, avresti dovuto già essere lavato e vestito da un pezzo.”
“E’ proprio in questi momenti che rimpiango di non essere figlio unico! – pensai, per poi ribattere - Chi ti dice che io non debba semplicemente indossare lo smoking?” e recuperai il su detto capo appendendolo ordinatamente ad un’anta del mobile.
“Il tuo odore. Non so se l’hai notato, ma sei rimasto a vegetare in questa stanza in ogni momento libero e per tutta la settimana.”, se ne uscì con un sorrisetto ironico, cosa che minò alquanto la mia pazienza già limitata.
“Stai forse insinuando che puzzo?”, chiesi con gli occhi ridotti a due fessure.
“Non insinuo, lo affermo.”
“Ti odio, lo sai vero?”, domandai in modo retorico, recuperando camicia e cravatta da uno dei cassetti in basso.
“Ne sono felice ed ora sputa il rospo: cosa c’è che non va?”
“Ah, assolutamente nulla. Ora scusami, ma, come ti sei gentilmente disturbato a farmi notare, ho bisogno di lavarmi.” e detto questo mi rinchiusi rapidamente nel bagno.



Impiegai davvero un tempo esagerato a farmi una semplice doccia, ma avrei fatto di tutto pur di non subire il terzo grado di mio fratello anche rimanere rintanato in quella stanza per giorni, se fosse stato necessario. Uscì tranquillamente in accappatoio, convintissimo che avesse gettato la spugna e si fosse ritirato in camera sua a progettare un nuovo assalto.
“Vedo che malgrado tutto il tempo in cui sei rimasto chiuso in bagno i tuoi capelli hanno nuovamente fatto di testa loro.”, giunse una voce indesiderata dalle coltri rifatte del mio letto.
“Perché non te ne sei andato? Non hai di meglio da fare?”, chiesi esasperato.
“Sai che punzecchiarti è il mio passatempo preferito, fratellino.”
“Va beh, ma adesso devo vestirmi, perciò mi faresti il favore di uscire?”
“Sei diventato pudico? Devo forse ricordati chi ti cambiava i pannolini e con chi facevi il bagnetto?”
A quell’uscita mi fermai nell’atto di sciogliere l’accappatoio e gli lanciai un’occhiata perforante che stava a significare: guai a te se richiami episodi imbarazzanti.
“E pensare che eri così piccolo, così tenero, non facevi altro che starmi appiccicato e venirmi appresso! Come quella volta che…”, continuò imperterrito, malgrado lo stessi letteralmente uccidendo con gli occhi.
“Cosa vuoi Itachi?”, scattai, interrompendolo.
“Solo sapere il motivo per cui da due settimane a questa parte hai la testa fra le nuvole. Ho i miei sospetti…”
“Naturalmente.”, dissi con tono ironico.
“… ma ne vorrei avere la certezza.”, proseguì come se non avessi parlato.
“La verità è che sei un fratello impiccione.”
“Mi preoccupo solo per te, Otouto, lo sai.”
“Certo, Aniki, sono convinto che sia solo questo che ti spinge a ficcare il naso nelle mie faccende.”
“A quanto pare il bel biondino non si è rivelato essere una preda tanto facile, eh?”, disse con un ghigno a piegargli le labbra.
“…”, non risposi a quell’ulteriore provocazione e iniziai a vestirmi.
“Quando mi hai detto che era nella tua classe avevo pensato che ti ci sarebbe voluto meno di qualche giorno per farlo capitolare.”, mi punzecchiò, non arrendendosi al mio silenzio, mentre giochicchiava distrattamente con l’anello che portava all’anulare destro.
“Sarebbe stato così se il mio interesse per lui non fosse stato completamente estinto dalla scoperta che ho a che fare con un cretino.”, replicai, mentre finivo di abbottonarmi la camicia.
“In fin dei conti è la verità – pensai – solo un dobe potrebbe preferire quel Sai al sottoscritto.”
“Ma se così fosse, non dovrebbe essere più facile farlo cadere nella tua rete?”, mi chiese divertito.
“Lo sarebbe di certo, ma, come ho detto, non ho più alcuna voglia di provare a catturarlo.”
“Mm…”, mugugnò, mettendo su una finta espressione pensosa.
“Se la tua curiosità da vecchia pettegola è soddisfatta, potresti cortesemente andare fuori da camera mia?”, domandai ormai stufo della sua presenza.
“Quindi non vuoi più portartelo a letto?”
“Mm mm.” , mugugnai.
Non era esattamente la verità: ero ancora innegabilmente attratto da Uzumaki e l’idea di farmelo non mi era sgradita, ma il pensiero che qualcun altro avesse già toccato quel corpo prima di me faceva in parte scemare il mio desiderio. Inoltre non mi sarei mai piegato a rincorrere la preda: doveva essere lei a cadere nella mia trappola.
“Perciò se qualcuno decidesse di provarci…”, ricatturò la mia attenzione Itachi.
“Chi sarebbe questo qualcuno?”, chiesi sospettoso.
“Ha importanza? In fondo stiamo parlando ipoteticamente.”
“Ipoteticamente.”, ripetei, assecondandolo.
“Sì, certo. Stiamo solo facendo qualche congettura, insomma.”
“E questo perché…”, dissi aspettando un suo chiarimento.
“Sono solo curioso di sapere come reagiresti: la tua possessività è leggenda, fratellino e, considerando ciò, puoi forse biasimarmi per averti posto questa domanda?”
“No, in fin dei conti è sempre lecito chiedere.”, risposi seriamente.
Potevo capire la curiosità di mio fratello, in fin dei conti era risaputo che ero mortalmente geloso dei miei giocattoli, ma non riuscivo a scacciare la sensazione che dietro le sue domande si nascondesse altro.
“Sembra quasi in cerca di rassicurazioni – riflettei – Possibile che voglia provarci con Uzumaki?”
La voce di mio fratello mi strappò a questi pensieri e, affilando gli occhi, prestai particolare attenzione alle parole che stava pronunciando: avevo bisogno di risposte e le avrei certamente ottenute.
“Allora se in questi giorni qualcuno, diciamo un ragazzo, ci provasse col bel biondino col chiaro intento di riuscire dove tu hai deciso di non tentare… saresti del tutto indifferente, giusto?”, chiese, guardandomi dritto negli occhi.
“Chiaramente ed anzi, non appena mi giungesse la notizia che ci sia riuscito, andrei di corsa da lui.”, replicai con tranquillità.
“Per complimentarti?”, domandò divertito.
“No, per castrarlo così ci penserà due volte prima di sconfinare nei territori altrui.”
“Sbaglio o non eri interessato?”, mi chiese, scoppiando poi in un’allegra risata.
“Che diamine hai da ridere? Ti diverte così tanto che qualcuno rischi i suoi gioielli di famiglia? Magari gradiresti essere tu il primo…”
“Calma, Otouto. Ti stavo solo provocando: non c’è modo più efficace per spingerti a parlare onestamente, lo sai.”, disse con stampato in faccia un ghigno gigantesco.
“Maledizione ci sono cascato come un pivello.”, imprecai mentalmente, infastidito.
“Appurato che il bel biondino ti interessa parecchio, non posso fare a meno di cercare di comprendere perché mai stai negando la tua attrazione per quel ragazzo.”
“…”
“Mm… il tuo atteggiamento mi porta a pensare che Uzumaki abbia in qualche modo ferito il tuo orgoglio, quindi ti sei autoimposto di non desiderarlo più. Molto probabilmente avrai seguito uno dei tuoi arzigogolati ragionamenti, giungendo alla conclusione di non essere disposto ad inseguire la tua preda più del dovuto, mi sbaglio?”
“Era in queste circostanza che odiavo le capacità deduttive e l’intelligenza di mio fratello!”
Mantenendo una faccia da poker, replicai:
“Sì, il tuo intuito ha completamente fatto cilecca e muoviamoci a scendere al piano di sotto: la serata sta per iniziare e noi dobbiamo ancora raggiungere l’hotel dove si terrà l’evento.”, dissi per chiudere lì la conversazione e mi avviai verso la porta.
“Dunque vuoi farmi credere che hai passato la settimana con davanti l’autorizzazione per partecipare al suo corso perché non provi più alcun interesse, giusto?”
“Non so di cosa tu stia parlando.”
“Guarda che le voci corrono e, anche se siamo in due plessi diversi, Tsunade ha esteso anche a noi la possibilità di frequentare le lezioni di inglese che verranno tenute da Uzumaki.”
“Non ne sapevo niente e tu non ne hai fatto parola.”
“Non ho osato: in questi giorni sembravi circondato da un’aura nera e terrificante e non credevo fosse opportuno toccare l’argomento.”
“Almeno fino ad oggi.” , pensai stizzito, ma prima che potessi esprimere ad alta voce questo pensiero una voce autoritaria si fece sentire dicendo:
“Itachi, Sasuke come mai non siete già di sotto?”
“Stavamo andando, padre.”, rispose mio fratello con aria imperturbabile, il sorriso immediatamente scomparso dal suo volto.
“Bene, vedete di comportarvi da perfetti Uchiha: questa è una serata importante per il futuro delle nostre compagnie.”
“Sì, padre.”, rispondemmo in coro con il medesimo tono serio e monocorde.
Non ci fu più tempo per i discorsi. Una volta scesi in tutta fretta al piano inferiore non ci restò altro da fare che uscire di casa, sul vialetto e poi verso la macchina, salire a bordo e attendere il nostro arrivo all’hotel in cui si sarebbe tenuto il ricevimento.



Introdotto nella sala dell’evento, mi separai dai miei genitori e iniziai a vagare per un po’ tra gli invitati: non potevo permettermi, purtroppo, di defilarmi senza almeno aver salutato gli ospiti più eminenti con annesse consorti. Finite le incombenze il più rapidamente mi fu possibile, cosa alquanto complessa quando la progenie femminile dei soci di tuo padre ti si incolla addosso come l’olezzo fastidioso dello smog, mi diressi spedito verso il piano bar. Tutto mi sarei aspettato, tranne di trovarvi, intento a bere champagne, il mio insopportabile compagno di banco.
“Hyuga è un immenso piacere averti qui.”, esordì ironicamente, accomodandomi al suo fianco.
“Il piacere è tutto mio, Uchiha.”, ribatté quello con lo stesso tono.
“Non credi sia un po’ presto per cercare rifugio al piano bar?”, chiesi, mentre un ghigno divertito mi arricciava le labbra.
“Potrei porti la stessa domanda, non pensi?”, replicò senza scomporsi.
Ecco perché quel ragazzo non mi piaceva, più degli altri si intende: eravamo troppo simili.
“Non ce ne sarebbe bisogno: non è difficile intuire perché io mi trovi qui.”, dissi mantenendo la mia espressione imperturbabile e ordinando al barista un cocktail qualunque.
“Sei annoiato?”, mi domandò mentre un sorrisetto molto simile al mio faceva capolino sul suo volto.
“Potrai anche non crederci, ma non amo affatto questo tipo di serate.”, risposi, sorseggiando tranquillamente l’intruglio che il tipo dietro al bacone mi aveva servito.
“Non mi dire…”, sussurrò, mente il ghigno sul suo viso si allargava.
“Vuoi forse farmi credere che tu muori dalla voglia di prendervi parte?”, gli ritorsi, perfettamente consapevole di quale sarebbe stata la risposta.
Attimi di silenzio studiato e poi:
“No, detto fra noi preferirei non parteciparvi.”
Sorrisi ironicamente e voltandomi verso la sala dissi:
“Guardali. Mio padre, tuo zio, ogni altro uomo presente in questa stanza e la maggior parte delle loro rispettive consorti stanno inscenando una commedia a favore di un pubblico di attori loro simili.”
“Non credi di essere troppo cinico, Uchiha?”, mi domandò, ricercando ed incrociando il mio sguardo.
“No, non lo credo affatto e te lo dimostrerò grazie all’aiuto di un piccolo esempio. Immagina di andare in una gioielleria dove il proprietario ha esposto ogni suo articolo in modo tale da attirare l’attenzione del compratore. Ti colpiscono immediatamente due ciondoli, posti entrambi su piccoli cuscini di raso blu nella vetrina centrale del negozio, e chiedi al commesso se può mostrarteli. L’uomo, ovviamente, accetta subito e con accortezza ti pone davanti i due oggetti, invitandoti poi a scegliere quello che più preferisci…”
“Non capisco dove vuoi arrivare, Uchiha.”, disse interrompendomi.
“Dimmi, Hyuga, qual è la differenza tra un pezzo di vetro qualunque e un diamante?”, chiesi continuando ad osservare la sala.
“Il loro indice di rifrazione.”, mi rispose subito.
“Esatto, ma, nella situazione descritta in precedenza, sapresti distinguere con assoluta certezza quale dei due ciondoli e realmente prezioso?”
“Probabilmente no.”, ammise scuotendo le spalle noncurante.
“Per l’appunto. – sorrisi - Adesso prova a pensare a questa sala come ad una grande gioielleria e alle persone che vi sono all’interno come a dei ninnoli preziosi: sapresti dire quale di questi lo è realmente e quale, invece, è solo un falso?”
“Non credo, no.”, disse, gli occhi scintillanti di comprensione.
“Si ricoprono con stoffe pregiate e gioielli costosi, modulando una raffinatezza di modi che non è loro propria, ma al di sotto di questa superficie splendente cosa si nasconde? Il più delle volte, probabilmente, solo un pezzo di vetro. In ogni caso, Hyuga, quando qualcuno impersona una parte non si può non chiamarlo attore e noi ci troviamo davanti ai migliori che il mondo nipponico possa vantare.”, conclusi, tornando ad affermare la mia prima asserzione.
“Mi hai convinto, Uchiha. Sai che potresti avere un futuro assicurato come politico?”
“Forse, ma non è quello che si aspettano da me. Piuttosto non mi hai ancora detto cosa ti ha spinto a rifugiarti in quest’angolo a bere champagne.”
“Magari la mia intenzione era proprio quella di glissare sull’argomento, non credi?”
“Oh lo so, ma hai risvegliato la mia curiosità e adesso non posso fare a meno di volerla soddisfare.”
“Mi stavo annoiando, esattamente come te.”, disse, ma non gli credetti: era evidente che c’era di più.
“Certo, però, adesso che sono iniziate le danze, forse hai voglia di unirti agli altri ospiti.”, insinuai.
Fin troppo spesso, infatti, il suo sguardo si concentrava sulla pista da ballo.
“Affatto.”
“Strano, credevo che la nostra discussione avesse perso d’importanza per te, visto che continuavi a lanciare occhiate significative alla sala alle mie spalle.”
“Non è quella ad aver attirato la mia attenzione.”, ribatté seriamente.
“Allora non può essere altro che una ragazza… o un ragazzo.”, replicai divertito per averlo portato esattamente dove volevo.
“Niente di simile, stavo solo osservando mia cugina: mi sembra in difficoltà.”
Mi girai accigliato: Hinata Yuuga era intenta a ballare, se così poteva definirsi quello che stava facendo, con un ragazzetto smilzo e dal viso brufoloso. Il tipo si atteggiava in un modo che, se non fosse stato tanto affettato e grandemente raccapricciante, avrei potuto definire ridicolo, mentre la povera ragazza sembrava davvero a disagio. Si sforzava di seguire le chiacchiere del suo partner, ma l’incapacità di questi nella danza li portava a scontrarsi spesso con altre coppie o a pestarsi i piedi l’un l’altro, interrompendo l’importante discorso che il giovane stava facendo.
“Lo credo bene: chi mai potrebbe volere quello spaventapasseri come cavaliere?”, chiesi retoricamente dopo diversi attimi di silenzio, continuando a guardare la coppia.
“E’ il figlio di un famoso banchiere.”, disse in tono monocorde Hyuga, come se questo spiegasse tutto.
“Potrebbe anche essere il figlio del re di Norvegia, ma rimane uno spaventapasseri e per di più innegabilmente sgraziato.”, replicai, osservando divertito l’ennesima figuraccia che i due avevano fatto.
“La mia povera cugina avrà un gran mal di piedi questa sera.”
“Potresti risparmiaglielo invitandola tu a ballare, non credi Hyuga?”, chiesi ritornando a poggiare il mio sguardo su di lui.
Il mio compagno di banco fece un’espressine strana, la sua maschera di indifferenza caduta per un attimo, ma si ricompose con una certa celerità e rispose:
“Non posso: mio zio le ha esplicitamente ordinato di ammaliarlo e farselo amico.”
“Capisco, conquista il figlio ed entrerai sicuramente nelle grazie del padre.”, sussurrai per niente stupito da quell’ordine.
In fin dei conti era per il medesimo motivo che io e Neji fingevamo di tollerarci in occasioni simili, cosa che sembrava recare grande soddisfazione ai nostri rispettivi parenti.
“Se intervenissi, pur sapendo quali erano i suoi piani, sicuramente darebbe ulteriori problemi a mio padre e non posso permettermi un rischio simile.”, continuò a dire, cercando di spiegare ulteriormente una situazione fin troppo chiara.
Conoscevo suo padre, Hizashi Hyuga, un uomo dall’indole pacifica e dall’astuta intelligenza che non amava particolarmente l’ipocrisia e gli intrighi del mondo a cui la sua famiglia l’aveva destinato. Aveva, perciò, deciso di rinunciare alla sua eredità e aveva lasciato la sua parte di azienda al fratello, chiedendo di poter lavorare alle sue dipendenze. Alla nascita del nipote Hiashi, notate le straordinarie capacità del ragazzo, aveva deciso di reinserirlo nella gestione dell’attività di famiglia e lo trattava come se fosse stato realmente suo figlio, ma non poteva certo dirsi che questo fosse qualcosa di positivo. La fama del suo carattere severo e intransigente lo precedeva ovunque andasse e non si comportava diversamente né con le sue figlie, né con Hyuga. A quanto avevo potuto comprendere dalle parole del mio compagno, sembrava che Hiashi facesse leva sulle possibili conseguenze negative che un comportamento errato di Neji avrebbe avuto sul padre di questi per riuscire a sottomettere il ragazzo al suo volere.
Innegabilmente una situazione a cui non potevo dire di essere estraneo o di non conoscere personalmente.
Ero in vena di essere buono quella sera e mi sentivo stranamente empatico, perciò alzandomi dallo sgabello gli dissi:
“Molto bene, visto che hai reso questa mia serata un po’ più interessante, vedrò di farti un piccolo dono, Hyuga.”, e senza aspettare una sua replica mi diressi senza esitazioni verso una ragazza dai capelli rossi che ci stava osservando da un po’.
“Buona sera Karin.”, la salutai, baciandole la mano guantata.
“Ciao Sasuke. Ce ne hai messo di tempo prima di raggiungermi.”
Non sopportavo quella ragazza: ci avevo scopato un paio di volte e si era fatta chissà quali idee su una possibile relazioni tra noi due.
“Ho bisogno di un piccolo favore.”, dissi subito saltando ogni preambolo e facendo finta di non aver udito il suo velato rimprovero.
“E io cosa avrei in cambio se decidessi di aiutarti?”
“Beh prova ad utilizzare la tua immaginazione.”, le sussurrai nell’orecchio, per poi baciarla lievemente e discretamente sul collo.
“Che devo fare?”, mi chiese subito, gli occhi lucidi per il desiderio.
“Quando mi vedrai ritornare al piano bar con Hinata Hyuga vieni a reclamare un ipotetico ballo che, in teoria, ti starei promettendo in questo momento.”
“Tutto qui?”, domandò, mentre un sorriso ferino le si dipingeva sul volto.
“Sì.”, mi limitai a rispondere.
“E poi starai con me tutta la sera?”, continuò imperterrita.
“Chissà, fai bene ciò che ti ho chiesto e potrei anche pensarci su.”, replicai, cercando di non sbottare e mandarla al diavolo.
In fin dei conti avevo bisogno della sua complicità per portare a termine il piano che avevo in mente.
“Sarò perfetta, vedrai!”, affermò con convinzione.
Senza replicare, le diedi le spalle e mi diressi verso la pista da ballo.
Raggiunto il mio obiettivo, fu con un estrema soddisfazione che picchiettai sulla spalla dello spaventapasseri per attirane l’attenzione. Il tipo sembrò parecchio infastidito dalla mia interruzione, ma Hinata mi rivolse uno sguardo speranzoso che fece nascere un piccolo ghigno sulle mie labbra.
“Permetti? L’hai manipolata abbastanza.”, dissi scansandolo e conducendo la Hyuga in una vera danza.
“Grazie.”, mi sussurrò questa dopo un po’, senza guardarmi negli occhi e arrossendo leggermente.
“Di niente.”, le risposi ed ero sincero.
Se c’era una ragazza che non mi dava sui nervi, quella proprio lei. Ok, il suo carattere spropositatamente timido e le sue frasi balbettate spesso avevano il potere di farmi perdere la pazienza, ma non era affatto una persona sgradevole. Delicata nei modi e molto sensibile, era forse l’unica a cui non interessavo e una delle poche che non mi ero portato a letto, né avevo mai pensato di farlo. Non mi stava appiccicata, non era invadente e le sue maniere non erano simulate: era abbastanza per superare i miei standard di sopportazione, almeno per un valzer.
Dopo qualche giro di pista la portai in direzione del piano bar con la scusa di rinfrescarci.
“Oh Hyuga, ma che piacevole sorpresa.”, dissi con un ghignetto sul volto, fingendo di averlo appena incontrato.
“Uchiha.”, disse quello con un tono leggermente interrogativo.
“Hinata stava per l’appunto dicendomi che non riusciva a trovarti. Anche tu venuto a dissetarti dopo qualche ballo?”, domandai noncurante.
“Già, io..”, iniziò a rispondere, avendo intuito il mio piano e decidendo di assecondarlo.
“Sasuke-kun!”, lo interruppe, però, una voce acuta e fastidiosa.
“Buona sera Karin.”, le sorrisi falsamente.
“Devi assolutamente ballare con me adesso. Me l’hai promesso, ricordi?”, disse sorridendomi in un modo che mi disgustò.
“E’ vero, ma non posso: come puoi vedere ero già in compagnia di Hinata…”
“Oh, non preoccuparti Sasuke-kun: torna pure a ballare, se lo desideri. Io ho bisogno di riposarmi un attimo e poi c’è Neji a tenermi compagnia.”, disse subito la ragazza al mio fianco, esattamente come avevo previsto che facesse.
“Non ti dispiace, vero Hyuga?”, chiesi con un ghigno enorme stampato in volto per la perfetta riuscita del mio progetto.
“No, Uchiha, vai pure tranquillo.”, mi rispose quello, un vero sorriso ad addolcirgli i tratti del volto.
“Non sono proprio in me in questi giorni: ho appena aiutato Hyuga! - pensai quasi divertito, poi rivolgendomi alla rossa dissi - Va bene allora. Vogliamo danzare, Karin?”
“Yei!”, strillò, perforandomi un timpano.
Ballammo per un po’, ma il poco tempo che passai con lei, impossibilitato a sfuggirle e costretto ad ascoltare le sue chiacchiere senza senso, mi fece pentire di aver aiutato quel buono a nulla di Neji. Stanco ed irritato oltre ogni misura, la trascinai nel bagno delle signore e la sbattei dentro uno dei cubicoli.
“Siamo impazienti a quanto pare.”, disse sorridendo.
Non risposi e mi limitai a ricercare subito il mio piacere: non fu affatto soddisfacente, almeno non per me.
Come se il rapporto disastroso che avevo appena consumato non fosse stato sufficiente ad aumentare la mia latente frustrazione, Karin, una volta rimessici in ordine, iniziò a pregarmi con la sua vocetta stridula di continuare altrove il nostro incontro, procurandomi l’inizio di quella che aveva tutta l’impressione di essere una micidiale emicrania. Non avevo alcuna intenzione di intrattenermi oltre con lei e glielo dissi pure, ma quella, facendo la gnorri, si limitò a replicare:
“Per me va bene: è bello stare un po’ insieme senza dover necessariamente fare sesso.”
Mi si attaccò al braccio e non mi mollò più neanche per un singolo, fottuto secondo.
Quando ormai avevo perso ogni speranza di uscire vivo da quella serata, dopo aver maledetto me stesso e il dannatissimo Hyuga più volte, notai mio fratello venirmi incontro.
“Ciao Karin, mi dispiace privarti della compagnia del mio adorabile Otouto, ma ho bisogno di lui.”
“Oh non importa Itachi, potremmo stare insieme quando avrete finito.”, disse, ma dal suo tono si capiva che era parecchio risentita.
Mi allontanai velocemente prima che potesse cambiare idea e rivolsi un sopracciglio alzato in muta domanda a mio fratello.
“Mi sembravi in difficoltà e ho pensato di darti un aiutino.”, mi rispose, facendo un sorriso tutto denti che non preannunciava niente di buono.
La mia sensazione si rivelò esatta nell’esatto momento in cui il mio Aniki iniziò a parlare di Uzumaki e delle motivazioni per le quali, secondo lui, avrei dovuto frequentarne il corso.
Qualsiasi tentativo di cambiare argomento fu prontamente ignorato, pertanto non mi restò altro da fare che rifugiarmi nei miei pensieri e cercare di ignorare in ogni modo la voce profonda di Itachi che non la smetteva un attimo di blaterare.
Alla fine della serata avevo già progettato cento modi diversi per ridurre per sempre al silenzio il mio rompiscatole fratello, mi ero letteralmente affogato negli alcolici nella speranza di perdere i sensi ed avevo sventato con parole sprezzati gli svariati tentativi di alcune ragazze di partecipare al monologo di Itachi.
Quando finalmente rincasammo, mi ritirai subito in camera mia e, esausto, mi buttai sul letto senza nemmeno spogliarmi.
Prima di addormentarmi pensai distrattamente:
“Firmerò quella maledetta autorizzazione, tutto pur di non subire più gli attacchi del fratellone. Succeda quel che ha da succedere: nulla potrà essere peggiore della tortura a cui mi ha sottoposto il mio Aniki!”
Continuai per un po’ a rimuginare sulla veridicità del mio ragionamento, prima di cedere definitivamente alle malie di un sonno agitato.




NA: Rieccomi, dopo un bel po’, a pubblicare un nuovo capitolo di questa storia. Sono in un periodo un po’ frenetico ( alla fine di gennaio ho un esame), perciò non so proprio se sono riuscita o meno a scrivere un capitolo decente. In questo preciso momento considererei perfetta anche una pagina col solo titolo scritto, perciò aspetto di sapere cosa ne pensiate voi e spero che vi possa piacere ciò che la mia mente in subbuglio ha partorito.
Nella prima parte del capitolo, come avete letto, Sasuke si fa sommergere dai suo pensieri, perciò, se vi sembra che a tratti le sue parole siano un po’ campate per aria, sappiate che era esattamente l’impressione che volevo darvi. Ho riflettuto e credo che, quando ci si lascia trasportare dai propri pensieri, di rado si segue un filo logico, ma si procede più per associazioni. Comunque sono curiosa di sapere cosa ne pensiate voi, se siete d’accordo con me oppure no.
Finalmente si è scoperto cosa era successo nel giardino, ma voglio ricordarvi che questo è il punto di vista di Sasuke. Ricordate, però, come Naruto aveva definito Sai? Lo aveva chiamato pervertito, perciò qualcosa non quadra, non credete?
Bene vi lascio con questo interrogativo, ma prima di concludere questo lunghissimo discorso voglio ringraziare quanti hanno inserito la storia tra le:

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1 - Al the wolf
2 - allen_picchio_
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RICORDATE
1 - babel

Tutti coloro che hanno recensito la storia:
NAMikuMiku Ale 01
angel_94_
Mekbul
Ryanforever
Titania91
Itachi66uchiha
FreeGirl103
lululove2

E tutti coloro che la leggono o anche chi le dà solamente un’occhiatina.
Un bacio,
Psyche
PS: Dimenticavo di ringraziare in modo particolare quanti mi segnalano sviste ed errori e di augurare a tutti voi di trascorrere una serena epifania.
PPS: Un piccolo avviso per quanti stanno leggendo la storia. Non avevo ancora deciso tutte le coppie quando ho pubblicato il racconto, perciò avevo inserito solo la SasuNaru. Ora, però, mi sono convinta che non posso non inserire la Neji/Hinata, ma è un incest e mi sembra di ricordare che bisognava segnalarlo. Spero che a nessuno di voi infastidisca eccessivamente, in ogni caso vi posso assicurare che non ci sarà nessuna descrizione di rapporti sessuali tra i due. Va bene, mi sembra sia tutto perciò un buon pomeriggio a tutti voi! Ciao Ciao!

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Capitolo 6
*** Cap 5 (parte I): Prima del suono della campana ***


NA: Salve carissimi,
so di essere in un tremendo ritardo e mi scuso profondamente per l’attesa a cui vi ho sottoposti. Questo capitolo avrebbe dovuto descrivere la prima lezione dell’affascinante professor Uzumaki, ma mi sono lasciata un po’ prendere la mano e ho scritto più del dovuto. Ho deciso, perciò, di dividere il capitolo in due parti e vi assicuro che nella seconda ( che mi sto affrettando a rivedere) ho davvero scritto sulla prima esperienza di Naruto come insegnante. Vi chiedo di portare ancora un po’ di pazienza: ho finito gli esami e adesso dovrei avere molto più tempo libero, quindi cercherò di aggiornare in tempi molto più brevi. Vi ricordo che il capitolo è scritto dal POV di Naruto, che le parti in corsivo sono rispettivamente un sogno e i pensieri del protagoniste e che vi aspetto alla fine del capitolo per ulteriori ed eventuali chiarimenti. Buona lettura…
 
 
 
La panchina di legno sulla quale ero seduto aveva la vernice scrostata e la sua superficie irregolare era coperta di scritte variopinte d’ogni genere. I raggi del sole filtravano attraverso le fitte fronde degli alberi e ne illuminavano una piccola porzione, proprio alla mia sinistra, su cui era stata incisa permanentemente una breve dichiarazione d’amore.
 
Conoscevo quel sedile, ne ricordavo a memoria le frasi scarabocchiate sul compensato, avrei potuto indicare senza commettere errori i punti in cui l’usura del tempo aveva lasciato il suo segno e quelli che, invece, erano stati danneggiati dai vandali. 
 
Mi trovavo nel mio rifugio segreto: una piccola oasi nascosta che si affacciava sulle chete sponde del lago.
 
Da quel particolare punto del parco ero in grado di vedere l’acqua rilucere di piccole pagliuzze dorate e, alle volte, dei brevi guizzi argentei dei pesci che ne sfioravano la superficie.
 
Osservavo le fronde verdi degli alberi scosse dalla leggera brezza estiva, il gruppo di signore intente a fare yoga alla loro ombra e gli anziani dare da mangiare a dei grassi piccioni.
 
Ogni giorno c’era qualcosa di nuovo da ammirare, qualche nuova persona che correva per tenersi in forma, portava a spasso il cane, passeggiava da sola o in compagnia.
 
Era come avere una finestra spalancata sul mondo, ma con il vantaggio di essere nascosto da esso.
 
Il fatto di riuscire a vedere qualsiasi cosa o persona mi circondasse, con la consapevolezza che queste non potessero fare altrettanto, mi faceva sentire protetto e al sicuro.
 
Ecco perché, anche se Central Park era ricco di piccoli anfratti meravigliosi, questo era in assoluto il mio preferito.
 
Se adesso mi ritrovavo nuovamente nel luogo in cui così tante volte mi ero fermato a dare un senso ad i ma ed ai perché che mi affollavano la mente, c’era un’unica spiegazione: stavo sognando.
 
Ricordavo perfettamente di aver dato la buona notte a Gaara e di essermi ritirato nella mia stanza, perciò, a meno che non avessi inconsapevolmente viaggiato indietro nel tempo, dovevo per forza trovarmi immerso in un sogno.
 
Era una sensazione parecchio strana, in realtà.
 
Percepivo il mio corpo in maniera soffusa, quasi non mi appartenesse e, come a confermare questa teoria, quello si mosse senza che potessi impedirlo.
 
Iniziai a percorrere un sentiero stretto, dall’aria in qualche modo famigliare anche se non riuscivo a ricordare in che occasione avessi camminato in quella stessa strada sterrata ed irregolare.
 
Alla fine, dopo quelle che mi parvero ore, sbucai in un parco giochi, uno di quelli con le giostrine fisse, costruiti appositamente per permettere ai genitori, o a chi per loro, di portarvi i bambini.
 
Mi colpii il fatto che ci fosse silenzio: nessuno schiamazzo, niente risate allegre, grida gioiose o raccomandazioni urlate dagli adulti.
 
In effetti lo spiazzo era deserto, il che, considerato il clima piacevole e la bella giornata, era davvero insolito.
 
Mossi qualche altro passo e, con la coda dell’occhio, vidi due figure solitarie sedute su di una bassa panchina: erano protese l’una verso l’altra, probabilmente immerse in una fitta conversazione.
 
Il mio corpo iniziò a muoversi in quella direzione e più diminuivano i metri che mi dividevano dai due sconosciuti, più i loro caratteri somatici si delineavano, rendendomi palese che si trattasse di una donna e di un bambino.
 
Mancava davvero poco a che li raggiungessi, quando, per puro caso, incrociai lo sguardo del ragazzino: due occhi identici ai miei mi osservarono senza vedermi realmente.
 
Accanto a quello che aveva tutta l’aria di essere il mio alter ego, mia madre si adoperava per ripulire con un candido fazzoletto un brutto taglio sul ginocchio del me stesso più piccolo.
 
“Ti fa ancora male, Naruto?” le sentì chiedere.
 
“No, bruciacchia solo un pochino.”
 
“Ti avevo detto di stare attento mentre giocavi con gli altri bambini.”
 
“Lo so, mamma, mi dispiace di averti spaventata.”
 
“Non importa, quello che conta è che ti sei procurato solo una piccola sbucciatura: guarirà presto e non ti pizzicherà più, vedrai.”
 
Il ragazzino annuì con un’espressione seria sul viso, per poi spostare il proprio sguardo tutto intorno a sé.
 
“Mamma?”, chiamò qualche attimo dopo.
 
“Mm?”, gli rispose quella, continuando a tamponare piano il taglio.
 
“Perché non possiamo venire più spesso al parco?”
 
“Naruto sai bene che io e papà siamo molto impegnati col nostro lavoro.”, rispose, incrociando per un attimo gli occhi del figlio.
 
“Ma non può farlo qualcun altro?”
 
“Purtroppo no: io e tuo padre siamo i migliori in questo campo, perciò è difficile sostituirci.”
 
“Però a me piace tanto passare del tempo con te e papà, ancor di più se possiamo giocare insieme come stiamo facendo adesso.”, ribatté il bambino, mettendo su un bel broncio che fece sorridere la madre.
 
“Mi dispiace tesoro, ma in questo momento non possiamo proprio passare più tempo con te. Sai che, se dipendesse esclusivamente dalla mia volontà o da quella di tuo padre, non vorremmo mai separarci da te né per brevi, né per lunghi periodi di tempo.”, disse tristemente quest’ultima e, a mo’ di consolazione, iniziò ad accarezzargli gentilmente le ribelli ciocche bionde.
 
Il Naruto bambino non rispose, lo sguardo rivolto all’orizzonte e la piccola fronte aggrottata, tutto preso ad assorbire le parole della madre.
 
Questa, preoccupata dal prolungato silenzio del figlio, chiese con una certa apprensione:
 
“Non ti piace forse la signora Chiyo?”
 
“No, è una vecchietta simpatica ed è molto gentile con me.”, rispose il mio alter ego e, per dare maggior forza alla veridicità di quanto stava dicendo, incrociò lo sguardo della donna, sostenendolo per un prolungato lasso di tempo.
 
Fu quest’ultima a distoglierlo quando, rassicurata dalla reazione del figlio, tornò a tamponargli la ferita al ginocchio.
 
Senza sollevare gli occhi dalla gamba del ragazzino, continuò fiduciosa:
 
“Allora abbi solo un altro po’ di pazienza: se tutto va per il verso giusto, mamma e papà avranno molto più tempo da trascorrere insieme al loro Naruto.”
 
“Davvero?”, chiese il piccolo, illuminandosi in un’espressione di pura, speranzosa gioia.
 
“Certo! E’ una solenne promessa di una Uzumaki e noi Uzumaki…”
 
“Manteniamo sempre le nostre promesse!”, la interruppe il ragazzino tutto contento.
 
“E’ esatto, bravissimo!”, lo elogiò la madre, rivolgendogli un caloroso sorriso.
 
Improvvisamente, però, la sua espressione sembrò rabbuiarsi e, attirando nuovamente l’attenzione del figlio, disse con serietà:
 
“Naruto per tutto il periodo in cui mamma e papà non ci saranno sai che devi comportarti bene, vero?”
 
“Sì, mamma.”, rispose questi con convinzione.
 
“E ricordi anche cosa ti ho esplicitamente detto che devi o non devi fare?”
 
“Certo! Io non devo mai: parlare con gli estranei o prendere cose dagli sconosciuti, devo sempre ubbidire alla signora Chiyo e, quando usciamo, non devo allontanarmi da lei e… e poi…”, balbettò, cercando di ricordare un’altra delle raccomandazioni fattegli dalla madre.
 
Lei rimase in silenziosa attesa, ma dalla postura rigida del suo corpo e dalle prolungate occhiate preoccupate che rivolgeva al figlio, si capiva fin troppo bene che non era affatto tranquilla.
 
“Ah, sì! – esclamò contento il bambino a cui era completamente sfuggito il turbamento della madre -  Se tentasse di parlarmi o di trattenermi qualcuno con un anello, devo subito correre a casa o gridare aiuto o andare da un poliziotto.”, disse soddisfatto di sé e della risposta che aveva dato.
 
“Bravissimo, ometto, e non dimenticare mai: quest’ultima è la più importante tra tutte le regole della sicurezza, perciò tienila sempre a mente, va bene?”
 
“Sì, mamma.”
 
“Perfetto, adesso la mamma deve andare…”
 
“Cosa? E dove?”, chiese tristemente il bambino.
“A lavoro, piccolo, ma tornerò a prenderti prima che faccia buio.”, rispose quella, passandogli una mano tra i capelli in una breve carezza.
 
“Oh, ok. Allora ti aspetto qui: tu torna presto, però.”
 
“Puoi contarci.”, lo rassicurò e, dopo aver posato un tenero bacio sulla fronte del figlio, si avviò verso una delle numerose uscite del parco.
 
 
Non appena sua madre fu scomparsa dal suo campo visivo, il bambino iniziò a piangere silenziosamente.
 
Ricordavo di aver versato lacrime amare ogni qual volta i miei genitori mi lasciavano per motivi di lavoro, ma ugualmente la vista della sofferenza del mio alter ego mi sconvolse al punto da spingermi a dire:
 
“Ti prego non fare così.”
 
Subito dopo aver pronunciato queste parole, mi diedi mentalmente dell’imbecille: era un sogno, perciò il bambino non poteva né vedermi, né tanto meno sentirmi.
 
Mentre ero ancora intento ad auto-insultarmi, sentì una fievole voce dire:
 
“Chi sei tu?”
 
Sorpreso, notai che il me stesso più piccolo mi stava fissando con attenzione.
 
“Un amico.”, risposi, facendogli un piccolo sorriso.
 
“Non è vero. Io non ti conosco, perciò tu sei un estraneo e la mamma mi ha detto di non parlare con gli estranei.”, replicò, rivolgendomi uno sguardo seccato.
 
Probabilmente credeva che gli stessi mentendo o che lo stessi prendendo in giro, ma come potevo spiegargli chi fossi in realtà?
 
“La tua mamma ha ragione – dissi, mentre, con studiata calma, prendevo posto al suo fianco – ma se mi presento non sarò più uno sconosciuto, giusto?”
 
“Beh, certo.”, disse, dopo averci pensato su per qualche secondo.
 
“E a quel punto potrai parlarmi, no?”, gli chiesi ancora.
 
“Sì, credo proprio di sì.”, mi rispose, annuendo con enfasi.
 
“Molto bene, allora il mio nome è Naruto e il tuo qual è?”
 
“Anch’io mi chiamo così! Namikaze, Naruto Namikaze.”, gridò quasi, saltando letteralmente in ginocchio sulla panchina.
 
“Ahia! - si lamentò subito dopo – avevo dimenticato di avere questa stupida ferita.”
 
“Ferita?”, domandai, fingendo di non sapere nulla al riguardo.
 
“Sì, mi sono fatto male giocando con gli altri bambini.”, chiarì, tornando seduto composto.
 
“Dovresti stare più attento.”
 
“Me l’ha detto anche mamma, ma non è stata proprio tutta colpa mia: sono inciampato, ecco.”
 
“Certo, in questo caso tu non centri poi molto.”, lo assecondai.
 
“Infatti, ma la mia mamma si è preoccupata lo stesso.”
 
“Immagino e dov’è lei adesso?”, chiesi, incrociando il suo sguardo.
 
“E’ dovuta andare a lavoro.”, mi rispose mogio.
 
“Capisco ed è per questo motivo che prima stavi piangendo?”
 
“Non stavo affatto piangendo: mi era entrata qualcosa nell’occhio!”, si affrettò a dire, incrociando le braccia sul petto in un’espressione che avrebbe dovuto essere seria.
 
“E’ successo anche a me, perciò so quanto può essere fastidioso.”
 
Queste parole sembrarono rassicurarlo e si rilassò nuovamente al mio fianco.
 
“Si è fatto tardi – dissi, gettando un’occhiata alle prime ombre della sera – vuoi che ti riaccompagni a casa?”
 
“No, la mamma ha detto di aspettare qui.”
 
“Allora la aspetterò con te: non voglio che tu rimanga…”
 
“Da solo?”, mi sentì chiedere.
 
Con uno scatto repentino diressi il mio sguardo nella direzione da cui mi sembrava fosse giunta la voce, proprio alla mia destra.
 
C’era un uomo all’in piedi, il volto coperto da un cappuccio nero e il corpo nascosto da un mantello dello stesso colore: la prima impressione che ne ebbi non fu affatto delle migliori.
 
“Chi sei? Cosa vuoi?”, domandai alzandomi dalla panchina e frapponendomi istintivamente tra lui e il ragazzino.
 
Anziché rispondermi, quello indicò con un dito pallido e scarno il bambino alle mie spalle.
 
Su l’anulare della stessa mano scheletrica spiccava in modo vivido un anello con una gemma rosso sangue: doveva trattarsi dell’uomo da cui mia madre mi aveva raccomandato di scappare.
 
“Non te lo lascerò prendere!”, urlai, iniziando leggermente a tremare, se di rabbia o paura non ero in grado di dirlo.
 
“Tu devi venire con me.”, replicò con tono piatto.
 
“Non ci penso nemmeno.”
 
“Naruto?”, mi chiamò il piccolo con la voce incrinata dal pianto.
 
“Sta calmo: non gli permetterò di farti del male.”, tentai di rassicurarlo e, con passi lenti e studiati, mi feci più vicino a lui.
 
“Non sono io a voler farti del male.”, disse l’altro, avvicinandosi.
 
“Non muoverti: so perfettamente che stai mentendo.”
 
“No, sei consapevole che le mie parole sono veritiere, ma non vuoi ancora ammettere a te stesso che hai solo me.”
 
“Sta zitto!”, gli gridai contro, in preda ad emozioni contrastanti.
 
 
“Solo io ti accetto per come sei veramente, solo io ti guardo senza provare timore, anzi ti bracco e continuo ad inseguirti perché ti voglio… desidero tutto di te, persino la tua rabbia.”
 
“Basta, adesso. Vattene: non voglio più ascoltarti.”
 
“Perché ti ostini? Non vedi che tutte le persone che ami ti hanno abbandonato? Dove sono adesso tua madre e tuo padre? I tuoi presunti amici o il tuo padrino?”
 
“Taci: tu non sai niente di me o di loro!”
 
“Ti sbagli, Naruto. Io conosco ogni tua sofferenza, ti ho visto terrorizzato appena arrivato in collegio e ho sentito, come se fosse mia, l’ira che provavi verso tutto e tutti. Ora dimmi: dov’erano le persone che ami in quei momenti?”
 
“Ti prego smettila…”, lo supplicai, le mani portate a tappare le orecchie per cercare di non ascoltare quanto stava dicendo.
 
“La verità è solo una: ti hanno abbandonato. Io, invece, sono qui e voglio che tu mi segua.”, continuò quello e la sua voce sembrò esplodermi direttamente in testa.
 
“Non volevi il bambino?”
 
Perché adesso cercavo di deviare l’attenzione dell’uomo sul ragazzino? Che razza di codardo avrebbe mai fatto una cosa del genere?
 
Mentre ero ancora intento a pormi questi interrogativi, lo sconosciuto mi sorprese dicendo:
 
“Tu sei l’unico bambino che vedo.”
 
Confuso, distolsi la mia attenzione dall’uomo e la concentrai su quelle parti del mio corpo accessibili al mio sguardo: sembrava proprio che mani e braccia si fossero rimpicciolite.
 
Cosa diamine stava succedendo?
 
Ma non ebbi il tempo di ricercare un qualche tipo di risposta perché l’altro, con una serie di passi ovattati e silenziosi, mi si era avvicinato senza che me ne avvedessi.
 
“Vieni, Naruto – mi disse, la mano tesa in un invito – vieni con me e non soffrirai più.”
 
“Non ti credo – gridai, rifiutando di stringere quello scheletrico arto proteso – adesso vattene! Vattene e basta!”, continuai a voce ancora più alta.
 
Questi si allontanò realmente, eppure non mi sentivo ancora tranquillo.
 
“Ricorda, mi hai costretto tu a fare questo.”, disse con un tono di voce fintamente rammaricato.
 
Un lungo brivido gelido mi percosse la schiena all’udire quelle parole, ma non potevo proprio permettergli di prendermi, perciò cercai di farmi forza e di prestare la dovuta attenzione a quanto mi stava accadendo intorno.
 
L’uomo era come scomparso nel nulla, inghiottito dalle tenebre della notte che si facevano sempre più nere. Ben presto non riuscii più a distinguere le forme o anche solo i contorni del paesaggio e fu proprio in quel momento, nell’all’attimo in cui mi sentii più vulnerabile, che avvertii delle mani stringermi la gola.
 
Provai ad allentarne la presa, ma quelle continuarono a soffocarmi senza che io potessi impedirglielo.
 
“E’ finita.”, fu l’ultimo pensiero razionale che formulai prima di abbandonarmi al mortale torpore che aveva invaso il mio corpo.
 
 
 
Spalancai gli occhi terrorizzato, il viso rigato da lacrime silenziose e le membra scosse da un forte tremore. Le mani corsero intorno alla gola, massaggiandola, mentre con brevi respiri spezzati cercavo di calmare il battito impazzito del mio cuore.  
 
“Un incubo, è stato solo un incubo.”, mi ripetevo come una di quelle nenie usate per tranquillizzare i bambini e, con un gesto stizzito, asciugai rapidamente le stille salate che mi sgorgavano dagli occhi.
 
Malgrado, in qualche modo, fossi stato consapevole di essere immerso in un sogno, le sensazioni che avevo provato erano state così vivide, da avermi sconvolto molto più del solito.
 
Le parole pronunciate da quell’uomo continuavano a ritornarmi alla mante e, per quanto sapessi che erano false, non potevo fare a meno di sentirmene comunque toccato.
 
C’era qualcosa, però, che mi inquietava ancor più di quella figura ammantata di tenebra ed erano le raccomandazioni che mia madre mi aveva rivolto prima di andarsene.
 
Se la prima parte del segno fosse stata in realtà un ricordo, allora le sue parole acquistavano un significato particolare: quell’uomo mi dava la caccia già dall’età di sei anni, perciò i miei, per proteggermi, avevano deciso di affidarmi alle cure di Sarutobi.
 
Nel caso in cui, invece, si fosse trattato di una mia trasposizione della situazione presente nel passato, allora la mia iscrizione al Brotherhood era dovuta solo agli improrogabili impegni lavorativi dei miei.
 
In ogni caso avrei dovuto chiedere loro delle conferme, o quanto meno rivolgermi a Jraya per delle risposte esaustive.
 
Mi portai stancamente una mano ai capelli: tremava ancora.
 
Tutti quei ragionamenti, anziché calmarmi, stavano avendo l’effetto  di inquietarmi maggiormente.
 
Avevo bisogno di alzarmi da quel letto e fare qualcosa, una qualsiasi, per tenere occupati corpo e mente, così scostai le coperte e lentamente mi misi in piedi.
 
Con qualche difficoltà mi diressi verso la porta e, raggiuntala, uscii dalla stanza con passo malfermo.
 
Per pura forza dell’abitudine, gettai uno sguardo alla camera in cui, quando lo ospitavo, dormiva Gaara e, con una certa sorpresa, notai che era vuota.
 
Il letto aveva le lenzuola sfatte, ma, nella stanza buia, non sembrava esserci alcuna traccia del mio amico.
 
“Gaara.”, chiamai piano, ma non ricevetti risposta.
 
“Tutti ti abbandonano.”, sembrò ghignare lo sconosciuto nei meandri della mia mente confusa.
 
Cercando di non cedere al panico che aveva tutta l’intenzione di attanagliarmi di nuovo, controllai rapidamente le altre stanze, ma del mio amico neanche l’ombra.
 
“Sei da solo, l’unico che ti rimane sono io.”, lo sentì affermare con sicurezza.
 
Ormai completamente soggiogato dalla paura, feci la strada a ritroso ed entrai nella camera di Gaara, gridando a gran voce il suo nome.
 
“Naruto, come mai sei sveglio a quest’ora?”
 
Chiese  una familiare voce dalla mia destra. Mi voltai in quella direzione e, quando incrociai i penetranti occhi color acqua marina del mio amico, il senso di sollievo sembrò avvolgermi come una calda coperta.
 
Senza riuscire a frenarmi, malgrado ci stessi provando con tutte le mie energie, iniziai a piangere sommessamente.
 
Imbarazzato per essere crollato in modo così esplicito davanti all’altro ragazzo, incominciai a passare il dorso delle mani sulle guance nel tentativo di asciugare le lacrime che vi scorrevano, ma quelle dispettose stille salate continuavano a traboccare dai miei occhi rendendo vano ogni mio sforzo.
 
“Mi dispiace per questo spettacolo pietoso, ma sto bene: non devi preoccuparti.”, mi affrettai a dire.
 
Non avevo ancora riacquistato il controllo sulle mie emozioni, tuttavia lo sguardo palesemente scioccato di Gaara mi aveva spinto a pronunciare frettolosamente un qualche tipo di rassicurazione.
 
“Non dai affatto l’impressione di stare bene.”, replicò e, alzatosi dal davanzale su cui era appollaiato, mi si avvicinò lentamente.
 
Non appena a separarci rimasero solo una manciata di centimetri, portò una mano pallida tra le mie ciocche scomposte e con tenerezza mi chiese:
 
“Che succede, mia piccola Kitsune?”
 
Probabilmente fu la sensazione di calore che mi diede la vicinanza del suo corpo, o magari le pigre carezze tra i miei capelli, o ancora l’uso del nomignolo con cui aveva preso a chiamarmi negli ultimi giorni, fatto sta che la tensione sembrò abbandonarmi e sussurrai piano:
 
“Niente, davvero. Ho solo avuto un incubo piuttosto vivido ed ero ancora abbastanza sconvolto quando, entrando in camera tua, ho visto il letto vuoto. Semplicemente credo di essere stato sopraffatto dalla sensazione di paura che ancora provavo e mi sono lasciato prendere dal panico: non volevo farti preoccupare.”
 
“E’ passato, adesso, non c’è alcuna ragione per continuare ad essere così turbato.”
 
“Hai ragione, scusami se ti ho disturbato: torno di là e ti lascio riposare, ok?”, domandai retoricamente.
 
“Non stavo dormendo, non ci riesco mai più di qualche ora per notte.”, mi rispose, trattenendomi con una breve stretta sul braccio.
 
“E’ per questo che non eri a letto?”
 
“Già, stavo guardando le stelle, anche se l’illuminazione artificiale ne nasconde alla vista la maggior parte.”
 
“E’ vero, ma non credi che, proprio per questa ragione, quelle che riusciamo ad ammirare siano ancora più belle?”, gli chiesi sorridendo.
 
“Vedi sempre il lato positivo in ogni situazione tu, non è vero?”, disse, ma le sue labbra si curvarono leggermente all’insù.
 
“Non sempre, però ci provo.”
 
“Ti va di rimanere a guardarle con me?”
 
La sua proposta mi soprese parecchio, ma non mi andava ancora di rimanere da solo, perciò mi affrettai a rispondere:
 
“Mi piacerebbe molto.”
 
“Bene, allora accomodati pure.”
 
“Dove?”, domandai, guardandomi intorno.
 
“Sul davanzale, no?”, replicò come se fosse stato scontato.
 
“E tu dove siederai?”, mi vidi costretto a chiedere.
 
“Ovviamente anch’io sul davanzale della finestra.”
 
“Ma non è grande abbastanza per entrambi…”
 
“Certo che sì, invece.”, disse interrompendomi.
 
Mi prese per mano e mi condusse fino al vano della finestra, poi, con un ghigno sfacciato sulle labbra, si accucciò sul legno freddo, una gamba lasciata a penzolare all’esterno e l’altra ripiegata verso il torace. Mi fece segno di avvicinarmi ulteriormente e, anche se ancora un po’ scettico, mossi ulteriormente qualche passo in avanti. All’improvviso mi sentì afferrare per il polso e trascinare completamente sul davanzale, la schiena contro il torace caldo di Gaara e le sue braccia a stringermi il busto.
 
“Devo anche tirarti su le gambe o fai da solo?”, domandò con tono divertito, sussurrando direttamente dentro al mio orecchio destro.
 
Imbarazzato oltre ogni dire, mi affrettai a sollevare gli arti inferiori sulla liscia superficie legnosa e li ripiegai un po’ verso il petto, prima di sistemarmi più comodamente contro quello del ragazzo alle mie spalle.
 
Questi, non appena smisi di muovermi in cerca della giusta posizione, tirò su l’altra gamba e, senza mollare la presa sul mio torace, circondò con le sue le mie cosce.
 
“Visto che ci siamo entrati?”, chiese con un pizzico di divertimento nella voce.
 
Senza neanche disturbarmi a rispondere a quella domanda retorica, cercai di convogliare tutta la mia attenzione nell’impedirmi di arrossire: mi sentivo mortalmente a disagio.
 
“Sei teso: qualcosa non va?”
 
Cosa mai avrei dovuto rispondergli?
 
“Oh nulla, anzi il tuo fiato caldo sfiora il mio orecchio e manda deliziosi brividi lungo tutta la mia spina dorsale: è una sensazione piacevole.”
 
No, non era affatto la risposta giusta: eravamo amici e ogni gesto che Gaara stava compiendo era volto solo a tranquillizzarmi.
 
Non mi ero forse comportato allo stesso modo quando, dando finalmente sfogo ai suoi sentimenti, era scoppiato in lacrime al ricordo di sua madre?
 
“Perché diamine, allora, sto agitandomi così?”, gridai internamente.
 
“Una moneta per i tuoi pensieri.”, bisbigliò, probabilmente stanco del mio lungo silenzio.
 
Non potevo dirgli di sentirmi irrimediabilmente a disagio in quella stretta un po’ troppo intima: Gaara aveva appena iniziato ad aprirsi e l’ultima cosa che volevo era ritornare ai mutismi dei nostri primi incontri.
 
Inoltre lui non stava facendo proprio nulla di male, piuttosto ero io che stavo reagendo ad una innocente dimostrazione di affetto nel modo sbagliato.
 
Mi spremetti le meningi per trovare una scusa sensata per il mio nervosismo, ma non potevo protrarre ulteriormente il mio mutismo e così dissi la prima cosa che mi venne in mente:
 
“Sono agitato per domani: non credo di essere portato per insegnare.”
 
“Comportati con naturalezza e tutto andrà per il meglio.”
 
“Tu credi? Secondo me il fatto di prendere lezioni da un loro coetaneo non li predisporrà per niente ad impegnarsi seriamente durante il corso.”, dissi, dando voce ad un pensiero su cui, in quelle settimane, avevo riflettuto parecchio.
 
“Credi di non essere abbastanza autorevole?”, mi chiese, allora, con un tono che reputai essere curioso.
 
“Ti ho mai dato l’impressione di esserlo?”, replicai, gettando il capo all’indietro per incrociarne lo sguardo.
 
“Assolutamente sì.”, fu l’inaspettata risposta.
 
“Ma quando mai?!”
 
“Per esempio quando hai spinto me a frequentare le tue stesse classi pomeridiane.”
 
“Quella non era autorevolezza, ma solo un mix di persuasione e di sano stress psicologico.”, dissi parecchio divertito dall’espressione che Gaara stava sfoggiando in quel momento.
 
“Altro che stress psicologico: non smettevi un attimo di parlare di quanto sarebbe stato divertente frequentare gli stessi corsi.”, borbottò, lanciando una breve occhiata esasperata verso l’alto.
 
“Ho detto solo la verità, lo sai bene.”
 
“Avrei preferito fare come gli anni precedenti.”, si lamentò.
 
“Cioè non partecipare ad alcuna attività che si sarebbe svolta nel pomeriggio.”
 
“E cosa c’è di male in questo?”
 
“Il fatto che ti cacceresti nei guai, ma soprattutto che non riusciresti a stringere nuove amicizie.”
 
“Ho già te.”, sussurrò, nascondendo il volto nell’incavo tra il mio collo e la mia spalla.
 
“E’ vero, ma non dovresti accontentarti.”, dissi seriamente.
 
“Infatti non lo sto facendo.”, replicò con lo stesso tono.
 
Quelle parole, la palese certezza con cui le aveva pronunciate, mi colpirono profondamente e non potei fare a meno di arrossire. Imbarazzato, mi affrettai a dire:
 
“Capito: è una causa persa. Cambiamo argomento, vuoi?”
 
“Va bene.”, accettò quieto.
 
“Posso farti una domanda?”, chiesi, la mente persa dietro ad un pensiero improvviso.
 
“…”
 
“Quando compi gli anni?”, continuai, interpretando il suo silenzio come un assenso.
 
“Il diciannove gennaio.”, rispose, tornando ad incrociare il mio sguardo.
 
“Quindi tu sei già maggiorenne.”
 
“Sì.”
 
“Non hai mai pensato di andartene di casa?”, domandai, mentre il ricordo della difficile situazione in cui era costretto a vivere si affacciava brevemente alla mia memoria.
 
“E’ da molto prima che compissi diciott’anni che ci rifletto.”
 
“Perché non l’hai ancora fatto?”
 
“Non ho un lavoro e se mai compissi il passo di andarmene non potrei di certo contare né sull’aiuto di mio padre, né su quello del resto della mia famiglia.”, disse cupamente.
 
“Potresti stare da me finché non trovi un impiego.”
 
“Non sarebbe giusto, Naruto: è già tanto solo il fatto che mi ospiti.”
 
“Io credo, invece, che sia il minimo aiutare un amico in difficoltà.”, replicai con convinzione.
 
“Lo stai facendo più di quanto credi.”
 
“In ogni caso rimani pure qui per tutto il tempo che vuoi.”
 
“Mi basterà restare solo fino a quando la rabbia di mio padre non sarà scemata: come ti ho detto, non voglio approfittare della tua ospitalità.”
 
“Non ne approfitti se sono io ad offrirtela.”, dichiarai quietamente.
 
Ci fu un lungo attimo di assorto silenzio. La spossatezza della giornata prima e del sonno agitato dopo iniziò ad impossessarsi pian piano delle mie membra: non riuscivo quasi più a tenere gli occhi aperti e le palpebre si facevano di minuto in minuto più pesanti.
 
“Tu quando compi gli anni?”, mi giunse come ovattata la profonda voce di Gaara.
 
“Ottobre, il dieci ottobre.”
 
“Il tuo compleanno si avvicina.”
 
“Direi che è più vicino il tuo: ti farò un bel regalo vedrai…”, sbiascicai, ormai prossimo all’incoscienza.
 
Mi sembrò che mi sussurrasse parole di risposta all’orecchio, qualcosa come:
 
“Me l’hai già fatto, Naruto: non avresti potuto darmi nulla di più prezioso di te… della tua amicizia.”
 
Ma probabilmente l’avevo solo immaginato.
 
 
 
Il giorno dopo fu piuttosto imbarazzante risvegliarsi nel caldo abbraccio di Gaara, soprattutto perché a buttare entrambi giù dal nostro giaciglio improvvisato ci aveva pensato l’ero-sennin. Neanche a dirlo, il vecchio pervertito non aveva fatto altro che lanciarsi in insinuazioni e velate frecciatine che avevano fatto morire me di vergogna e, con mio enorme scorno, lasciato impassibile il mio compagno di sventura. Non potevo proprio affermare che la giornata fosse iniziata nel migliore dei modi, ma le lezioni furono ancor più tormentate: il pensiero che tra poche ore avrei dovuto insegnare a dei miei coetanei mi rendeva molto nervoso. Nelle settimane precedenti avevo riflettuto attentamente su quale fosse il modo migliore per rapportarmi alla classe ed ero giunto alla conclusione che cercare di impormi non sarebbe stata la giusta strategia. Avevo una sorta di programma in testa, un progetto a cui cercare di attenermi il più possibile e che speravo avrebbe reso piacevole questa nuova esperienza.
 
Le lancette dell’orologio sembrarono girare più rapidamente di quanto non avessero mai fatto e, in men che non si dica, mi ritrovai a varcare la soglia di quella che era l’aula a me assegnata.
 
Cercando di mantenere la calma e di non mostrare la mia crescente agitazione all’esterno, mi sedetti sulla cattedra e attesi l’arrivo di quelli che, da questo giorno fino alla fine del corso, sarebbero stati i miei studenti.
 
 
 
NA: Rieccomi! Per prima cosa voglio scusarmi ancora per la lunga attesa tra una pubblicazione e l’altra.
L’esame di cui vi parlavo è andato molto bene e, come vi avevo accennato, era alla fine di gennaio, ma ho deciso di studiare anche un’altra materia e questa è la ragione per cui non ho avuto la possibilità di aggiornare prima di oggi.
Ma adesso basta parlare di me e passiamo a qualcosa che sono certa vi interesserà molto di più.
Questo capitolo è stato scritto di getto, spero, perciò, di non aver fatto disastri e che possa appassionarvi anche se non vi aspettavate di leggerlo.
Tutto è partito dal sogno che, detto tra noi, sarebbe dovuto essere un ricordo dell’infanzia di Naruto e che, invece, si è trasformato nell’incubo che avete letto.
Poi le carinerie tra Gaara e Naruto mi sono leggermente sfuggite di mano. Ho iniziato a pensare che qualcuno nelle recensioni aveva paventato l’idea di un Sabaku rivale di Sasuke e, mentre scrivevo, non potevo fare a meno di ritornarci con la mente, perciò mi sono detta: “Perché no?”
L’idea mi intriga parecchio, anche se nei miei piani originali le cose tra questi due non dovevano andare così. In ogni caso aspettatevi che succeda qualcosa tra loro: non so cosa di preciso, ma so che alla fine ci sarà.
Sono curiosa di conoscere le vostre opinioni, perciò recensite in molti (sempre se vi va o se avete un po’ di tempo da dedicarmi). Concludo questo poema omerico chiedendovi un favore: non riesco ad accoppiare alcuni personaggi, perciò mi chiedevo se vi andrebbe di suggerirmi le vostre coppie preferite.
Se avete, perciò, una coppia che amate, una di cui vorreste leggere, coppie strane che vi incuriosiscono riferitemele e vedrò se posso utilizzarle. Mi aiutereste davvero tanto, soprattutto nel caso in cui sia in difficoltà per trovare il partener ideale a un determinato personaggio.
Un grazie speciale a chi ha inserito la storia tra le:
PREFERITE
  1. a_rtist
  2. giava
  3. KamirNeko
  4. MegaOmega
  5. willow90
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  25. sakura_revolution
  26. Silvia88
  27. snower
  28. Tangila
  29. Yukikura
  30. Yukki_chan
  31. _Edward_
 
 
E un grazie davvero speciale dal mio cuoricino palpitante a chi ha recensito:
  1. Iryland
  2. Jo95
  3. mekbul
  4. ryanforever
 
 
Ringrazio anche chi ha semplicemente letto o anche dato solo un’occhiata a questa storia.
Ci si rilegge presto (promesso)!
Un bacio,
Psyche

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Capitolo 7
*** Cap 5 (parte II): Dopo il suono della campana ***


NA: Salve a tutti! Questo capitolo è il seguito de “Cap 5 (parte I): prima del suono della campana”, il POV, perciò, continua ad essere quello di Naruto. Prima che iniziate la lettura tenete presente che: le parti scritte così sono in inglese; quelle scritte così  le troverete quando i personaggi leggono qualcosa in lingua inglese; le parti in corsivo sono i pensieri del nostro protagonista. Mi sembra di non aver dimenticato nulla e perciò, con la speranza che il server del pc non mi giochi un tiro mancino rendendovi impossibile distinguere le diverse parti, vi lascio alla lettura. Ci rileggiamo a fine capitolo…
 
D: I personaggi presenti in questa storia non sono di mia proprietà, ma appartengono al sensei Kishimoto. Questa fanfiction non è scritta a scopi di lucro, ma per puro diletto personale.
 
 
 
 
 
Il suono prolungato della campanella, quel trillo acuto e stridulo che perfora le orecchie di milioni di studenti nel mondo, sarebbe dovuto essere un suono atteso, quasi agognato, dato il suo significato implicito.
 
Se mi fossi trovato in un’altra situazione, se non avessi dovuto assumere un ruolo che non sentivo appartenermi, a quest’ora sarei stato contento di udire quel rumore assordante e, come tutti gli altri miei compagni, sarei schizzato fuori dall’aula per tornare finalmente a casa.
 
La sorte, invece, aveva voluto che sul mio cammino incontrassi due donne impossibili, un’insegnante ed una preside che non si rendevano conto dell’emerita cazzata di assegnare ad un diciassettenne la direzione di un corso che comprendeva anche l’iscrizione di giovani universitari.
 
Avevo esposto ogni mia più piccola preoccupazione, cercando di far comprendere a Kurenai e alla vecchia Tsunade per quale ragione fosse assolutamente impensabile che io ricoprissi il ruolo di professore, ma quelle, quando e se mi prestavano attenzione, avevano scacciato  via i miei dubbi come si farebbe con delle mosche fastidiose.
 
In fin dei conti non sarebbero state loro a ritrovarsi in una posizione spinosa, quindi era stato fin troppo facile mettere in luce tutti gli aspetti positivi della faccenda e mandare alla malora le mie proteste: speravo solo che sarebbe filato tutto liscio come non avevano fatto altro che ripetermi da una settimana a questa parte.
 
Malgrado la mia mente richiamasse alla memoria le rassicurazioni di quelle due arpie, non riuscivo proprio a ritrovare la mia solita sicurezza, anzi ero talmente nervoso da sembrare che l’agitazione avesse deciso di divorarmi lentamente dall’interno.
 
Lunghi brividi mi correvano lungo la spina dorsale, ma il freddo centrava ben poco con la loro comparsa visto che, a parte il fatto che il clima fosse ancora abbastanza piacevole, una leggera patina di sudore stava iniziando ad impregnarmi i vestiti.
 
“Calmati! – mi dissi severamente – non è proprio da te comportarti da codardo.”
 
Era vero: non potevo lasciarmi sopraffare da paure ed insicurezze. Presi un lungo e lento respiro, poi un altro ed ancora uno nel tentativo di rilassarmi e, nell’esatto momento in cui credetti di esserci riuscito, sentii un’inconfondibile scalpiccio farsi sempre più vicino.
 
“Ci siamo – pensai – E’ il tuo momento: metti in atto il progetto su cui hai lavorato in questi giorni e tutto andrà per il meglio.”
 
Annuii ai miei stessi pensieri, ma sentii comunque i muscoli del mio corpo irrigidirsi nuovamente in un doloroso spasmo involontario.
 
Quando udii il suono della porta che scorreva sulle bacchette, presi il coraggio a due mani e mi voltai in quella direzione per accogliere i nuovi arrivati.
 
La sorpresa mi ammutolì e, mentre i miei occhi spalancati rimanevano fissi in quelli dorati del ragazzo di fronte a me, neanche una sola sillaba accennò ad uscirmi dalle labbra.
 
“Buona sera, sensei.”, disse Kiba con un tono intriso di ironia, accompagnando le parole con un inchino esagerato.
 
“Ragazzi – rantolai con voce strozzata – ma che diamine ci fate qui?”
 
“Non è forse qui che si tiene la prima lezione del corso d’inglese?”, replicò Shikamaru con un ghigno indulgente stampato sul volto.
 
“Sì, ma…”
 
“Ci siamo iscritti tutti – mi interruppe e con un lieve cenno della mano indicò il gruppetto alle sue spalle – non lo sapevi?”
 
“No, la vecchia zitella e Kurenai non mi hanno permesso neanche di dare una piccola sbirciata alle autorizzazioni. - risposi, mentre con lo sguardo li osservavo prendere posto – e adesso capisco anche il perché: se avessi saputo di dover insegnare anche ad i miei compagni di classe, col cavolo che sarebbero riuscite ad infinocchiarmi con le loro belle parole: avrei categoricamente rifiutato e chiesto un’altra punizione.”, pensai poi, parecchio stizzito nei confronti delle due donne in questione.
 
“In ogni caso sono molto felice di vedervi.”, mi affrettai ad aggiungere, notando le espressioni deluse che avevano preso il posto di quelle allegre sui loro visi.
 
Non stavo esattamente mentendo: una parte di me era davvero felice che si fidassero a tal punto, da accettarmi come loro professore; l’altra, quella che aveva il timore di fallire, era terrorizzata dalla loro presenza.
 
Stavo per abbandonarmi ad un leggero sospiro, quando una voce fin troppo conosciuta si fece udire al di sopra del lieve brusio creatosi in aula:
 
“Uzumaki, anche se non ti sono stati comunicati i nomi dei partecipanti, non dovresti poi essere così sorpreso di vederli tutti qui: chiunque abbia un po’ di sale in zucca avrebbe approfittato di una simile occasione. Poter ricevere lezioni da un madrelingua è una grande opportunità, inoltre loro avevano il vantaggio di conoscere personalmente l’abilità del proprio insegnante, dunque perché non avrebbero dovuto iscriversi immediatamente? Hai sorpreso persino Kurenai-sensei con il tuo intervento, perciò è ovvio che noi tutti abbiamo deciso di frequentare questo corso nella speranza di migliorare.”, concluse e, senza più rivolgermi un solo sguardo, andò a sedersi in ultima fila.
 
Seguii con lo sguardo l’incedere di Uchiha, completamente basito per avergli sentito pronunciare più di mezza parola, ma ancor di più per il senso del lungo monologo a cui avevo assistito: mi stava rassicurando.
 
“E’ assurdo – pensai – non può essere che il Teme stesse cercando di incoraggiarmi.”
 
Era impossibile, ne ero perfettamente consapevole, ma, malgrado tutto, sentii l’ansia allentare la sua morsa sul mio corpo per poi sparire del tutto.
 
Osservai con rinnovata serenità l’ingresso degli ultimi partecipanti, notai i loro sguardi sorpresi nel ritrovarsi davanti ad un ragazzo così giovane, eppure, anziché sentirmene intimorito, provai solo un sincero divertimento per le buffe espressioni che, quando avevo ricambiato i loro saluti, avevano distorto i loro visi.
 
Mi presi solo un fuggevole attimo per gettare un’occhiata soddisfatta alla classe ormai gremita e silenziosa, poi senza tentennamenti iniziai a parlare dicendo:
 
“Buon pomeriggio, il mio nome è Naruto Uzumaki e da oggi sarò il vostro insegnante per tutta la durata di questo corso. Alcuni di voi erano già a conoscenza della mia giovane età, ma i volti perplessi di altri mi suggeriscono che il mio aspetto gli abbia lasciati un po’ sorpresi, perciò credo sia opportuno spiegare il motivo per il quale sono stato scelto proprio io per tenere queste lezioni pomeridiane. Sostanzialmente la ragione per cui mi trovo qui è che sono un madre lingua: questa circostanza, unita ad un mio inopportuno intervento in classe, hanno fatto si che fossi il vostro professore. Tuttavia non desidero affatto essere trattato come tale, ma preferirei che mi consideraste alla stregua di un tutor. Del resto questo corso è stato ideato per colmare le vostre lacune nella lingua inglese, per aiutarvi nello studio della stessa e per rendervi capaci di sostenere una normale conversazione. Seguendo questo principio, non assegnerò alcun voto: non sta a me giudicare le vostre conoscenze, ma ai vostri docenti. Questo, però, non implica che durante il mio corso io tolleri scansafatiche e perdigiorno o più semplicemente disturbatori di qualunque tipo.  Se siete qui è perché nutrite il desiderio di imparare al meglio questa lingua, pertanto mi aspetto che vi impegniate al massimo delle vostre capacità. Non accetterò niente di meno da voi, perciò chi non intendesse dare il meglio di sé o fosse venuto qui con l’illusione di girarsi i pollici può anche andarsene.”
 
Attesi un attimo, guardando tutti negli occhi e, quando nessuno si fece avanti, proseguii in tono più allegro:
 
“Molto bene: sono felice che tutti voi abbiate preso queste lezioni seriamente. Per quanto mi riguarda vi prometto che cercherò di rendere ogni argomento il più interessante possibile e di aiutarvi ogni volta che ne avrete bisogno. Chiarito anche questo punto, direi di passare ad un’attività più piacevole: che ne pensate di conoscerci un po’ meglio?”
 
Dei mormorii entusiasti riempirono l’aria e, entusiasmato da una reazione tanto positiva, continuai sorridendo:
 
“Beh da quello che mi sembra di capire l’idea non vi dispiace, ma prima di iniziare devo avvertirvi che in quest’aula potrete parlare esclusivamente in lingua inglese: a me solo sarà concesso di utilizzare il giapponese nel caso in cui ci fossero problemi nella comprensione delle lezioni.”
 
Una serie di lamentele sussurrate sostituì l’allegro chiacchiericcio che, solo pochi secondi prima, aveva riempito l’aula. Senza lasciarmi scoraggiare dal repentino cambiamento dell’umore generale, proseguii tranquillamente:
 
“Oh suvvia, non sarà affatto terribile come immaginate.”, dissi, mentre, staccandomi dalla cattedra, a cui ero rimasto appoggiato durante il discorso, l’aggiravo alla ricerca della mia cartella.
 
Frugai per qualche attimo al suo interno per poi emergerne reggendo tra le mani un piccolo sacchettino di juta, preso in prestito, in previsione di questa speciale occasione, da uno dei giochi da tavolo dell’ero-sennin.
 
“Qui dentro – dissi sollevandolo e agitandolo un po’ – troverete dei bigliettini su cui ho segnato una domanda. Non appena ciascuno di voi ne avrà pescato uno, chi se la sente di cominciare si alzerà in piedi e, dopo aver fatto una breve presentazione, risponderà a quanto chiesto nel foglietto. Subito dopo potrà scegliere una persona a cui rivolgere lo stesso quesito e tornare a sedersi. Questa ripeterà il procedimento e così ogni altro dopo di lei finché non vi sarete presentati tutti.”, conclusi con un enorme sorriso stampato sul volto.
 
Avevo impiegato giorni a decidere come procedere con i miei “studenti” e con cosa intrattenerli durante la nostra prima lezione, ma adesso, sentendo le loro esclamazioni entusiaste, mi rendevo conto che ne era valsa la pena.
 
“Chi vuole iniziare?”, chiesi allegramente, ma la reazione che ricevetti non fu affatto quella che mi ero aspettato.
 
Un silenzio nervoso riempì l’aula che, solo fino a pochi attimi fa, risuonava degli allegri sussurri eccitati dei ragazzi che la componevano.
 
“A quanto pare la paura di commettere un qualche tipo di sbaglio e fare una figura barbina davanti ai compagni li ha un po’ inibiti – pensai – Magari hanno bisogno di un piccolo incoraggiamento.”
 
“Su non abbiate timore di commettere errori: qui siamo tutti sulla stessa barca, inoltre non mangio mica, sapete?”, dissi ironicamente e fui ricompensato da qualche piccolo sorriso, ma nessuno accennava ancora a farsi avanti.
 
Quando udii un lieve sussurrò indistinto, la speranza di un possibile intervento mi spinse a voltarmi nella direzione da cui mi sembrava provenisse il mormorio.
 
I miei occhi incrociarono quelli inespressivi di Sai e, anche se si trattava di quel maniaco, avrei ascoltato qualunque cosa questi avesse da dire: tutto pur di far decollare la conversazione.
 
Dopo qualche minuto di quell’intelligibile mormorio, abbassai lo sguardo sulle labbra del ragazzo per capire cosa accidenti si ostinasse a ripetere senza decidersi ad esprimersi ad alta voce e, non appena ebbi compreso cosa stava farfugliando, mi affrettai a distogliere gli occhi dalla sua bocca.
 
“Maledetto hentai!”, imprecai nella mia mente.
 
Prima che potessi farmi prendere dalla rabbia e gridargli di smetterla di sbiascicare “peccato!” se non voleva che gli facessi una bella plastica facciale a suon di pugni, uno stridere di sedia attirò la mia attenzione: il Teme era in piedi in procinto di iniziare a parlare.
 
Sono Sasuke Uchiha, ho diciotto anni e frequento il quinto anno qui al Konoha.”, disse con voce piatta.
 
Bene, Sasuke, che domanda ti è toccata in sorte?”, chiesi una volta capito che non avrebbe aggiunto altro, dimenticando per il momento i miei propositi omicidi nei confronti dell’altro moretto.
 
Hai un sogno nel cassetto? – lesse col solito tono monocorde, poi sollevando gli occhi rispose – Non voglio parlare dei miei sogni... ma ho un'ambizione! Portare ai vertici il nome della mia famiglia… e superare chi so io.
 
Se, durante la risposta, la sua voce era rimasta fredda e distaccata, il suo sguardo era sembrato accedersi di una luce che non gli avevo mai visto prima, a parte, forse, durante qualcuno dei nostri litigi: chiunque fosse la persona di cui stava parlando, doveva provare una forte competizione nei suoi confronti.
 
Il Teme era sempre talmente indifferente a tutto quanto gli accedeva intorno, che avevo fatto del provocare un qualche tipo di sua reazione la mia segreta e personale missione. Ecco perché, ogni singolo giorno da quello seguente al mio arrivo, mi ero impegnato a punzecchiarlo e rispondere a tono alle sue provocazioni, scatenando battibecchi infiniti che avevano lentamente esasperato chiunque avesse la malaugurata sorte di assistervi.
 
In realtà non riuscivo a spiegare neanche a me stesso il motivo per cui provassi un simile interesse per quel ragazzo: non è che fosse esattamente una delle persone alle quali avrei potuto avvicinarmi, anzi direi che era esattamente l’opposto.
 
Sempre così altezzoso, il viso perpetuamente deturpato da un’espressione cupa o da quel ghigno insopportabile e sprezzante che rivolgeva un po’ a chiunque, il suo modo di fare, le idee, persino il modo in cui parlava avevano la capacità di infastidirmi oltre ogni limite concepibile.
 
“Eppure… - continuavo a pensare interrottamente - … eppure sono certo di aver intravisto qualcosa di più in lui.”
 
Forse aveva ragione l’Uchiha quando si ostinava a darmi del dobe: in fondo chi altri, se non uno sciocco, si sarebbe fissato così su un tipo del genere?
 
Non ero in grado di trovare risposte razionali, ma, nei brevi e rari attimi come quello che stavo vivendo, sentivo che, per quanto inspiegabile, la mia ostinazione aveva un senso.
 
Ricacciai nei meandri della mia mente questi pensieri e, continuando ad osservarlo, chiesi in modo automatico:
 
A chi vuoi passare la domanda?
 
“Shikamaru.”, rispose e tornò a sedersi.
 
I miei occhi indugiarono ancora un poco in quelli del moro, poi li distolsi e li rivolsi al ragazzo col la buffa pettinatura ad ananas che, nel frattempo, stava bisbigliando con aria scocciata:
 
“Che seccatura!”
 
Gli sorrisi, cercando di consolarlo un po’: sapevo che non amava molto questo genere di attività o meglio nessun tipo di attività, a meno che, certo,  non si considerassero tali i sonnellini.
 
Non avrei mai pensato di stringere un legame di amicizia così forte con una persona con cui non avevo praticamente nulla in comune: le nostre diversità, tuttavia, anziché costituire un impedimento, si erano rivalete essere una delle ragioni principali di quella perfetta sintonia che avevamo praticamente subito scoperto di condividere.
 
Comprendevo, in un modo quasi inconscio, che Shikamaru riusciva ad intuire la presenza dei segreti celati dietro la mia esuberanza e il mio modo di fare impertinente.
 
Inizialmente, spaventato dalla possibilità che riuscisse a scoprire in cosa questi consistessero esattamente, avevo cercato di evitare la sua compagnia, di sfuggire alle sue lunghe occhiate penetranti o ai suoi silenzi carichi di domande inespresse.
 
Scappavo dalla sua intelligenza, ma lui sembrava possedere la capacità di ritrovarmi negli angoli bui dove avevo cercato un riparo sicuro. Mi trovava, eppure non una volta in quelle occasioni aveva dato voce ai dubbi che sapevo gli stavano vorticando in testa: era una situazione che non riuscivo a capire.
 
Progressivamente la sua presenza divenne una costante, un qualcosa che mi aspettavo fosse lì ad attendermi quando ne sentivo la necessità.
 
E Shikamaru era lì, sempre. Mi sedeva accanto silenzioso, come in attesa di un qualche mio sfogo che, però, sapevamo entrambi non ci sarebbe stato, eppure questo nostro rapporto fatto di cose non dette era a poco a poco diventato importante, per me addirittura indispensabile.
 
Percepivo con ogni mio poro il calore che la sua vicinanza era capace di darmi e, egoisticamente, non volevo più separamene, malgrado sapessi che la nostra neonata amicizia necessitasse di una mia maggiore apertura nei suoi confronti.
 
Non mi era possibile riporre la mia fiducia in altri che non fossero me stesso o l’ero-sennin, per quanto queste persone potessero esserne meritevoli: se ad essere coinvolto fossi stato solo io, non ci avrei pensato due volte e avrei ricercato il conforto di un amico così speciale, ma in gioco c’era troppo e non potevo permettermi di essere avventato.
 
Scrollandomi di dosso la tristezza, gli rivolsi un altro sorriso per incoraggiarlo e, dopo aver incrociato il mio sguardo, iniziò a parlare dicendo:
 
Il mio nome è Shikamaru Nara, ho diciassette anni e sono al quinto anno. Non ho sogni particolari, né interessi a parte, forse, giocare a scacchi. Su questo foglio c’è scritto cosa io mi aspetti da questo corso di inglese, ma in realtà non ho deciso di parteciparvi con una particolare motivazione, perciò non è che abbia chissà quali aspettative.  –  fece una breve pausa, poi continuò - Direi, piuttosto, che nutro la speranza di riuscire ad imparare di più annoiandomi e faticando il meno possibile.”, concluse e tornò a sedersi al suo posto.
 
Facendo una fatica incredibile per non scoppiare a ridere davanti ad un simile esempio di pigrizia, chiesi con voce strozzata:
 
Grazie, Shikamaru, a chi vuoi passare la domanda?
 
“Choji.”, mi rispose, mentre contemplava con sguardo assorto le nuvole visibili dalle finestre.
 
Scossi leggermente la testa, divertito, ad ogni modo,  da quel suo comportamento e, con un piccolo sorriso a piegarmi gli angoli della bocca, rivolsi la mia attenzione al ragazzo chiamato in causa.
 
Sembrava parecchio agitato tanto che, quando si alzò in piedi, per poco non fece ribaltare il suo banco.
 
Sono Choji, ho diciotto anni e vado al quinto anno.”, farfugliò rapidamente in una posa tutta rigida e impettita che non gli apparteneva.
 
Arrossì furiosamente e sembrò bloccarsi, perciò decisi di intervenire per dargli un piccolo aiuto:
 
Bene, Choji, come mai vuoi prendere parte a questo corso?
 
Il suo sguardo leggermente perso, mi rese chiaro che non avesse compreso la domanda, così la riformulai utilizzando termini più elementari. Funzionò e, con un evidente sollievo stampato sul volto, si affrettò a rispondermi:
 
Oh, partecipo perché credo di averne parecchio bisogno.
 
Perfetto, Choji, che altro quesito ti è capitato?”, chiesi rivolgendogli un largo sorriso nella speranza che si tranquillizzasse ulteriormente.
 
 
Qual è il tuo colore preferito? –  lesse, per poi sospirare per la facilità di ciò che gli era toccato in sorte e rispondere con prontezza - è il rosso e passo la domanda a Sakura.
 
La ragazza, sentitasi chiamare in causa, si affrettò ad alzarsi e, dopo aver lisciato in un gesto nervoso le pieghe della gonna che indossava, disse quietamente:
 
Il mio nome è Sakura Haruno, ho diciotto anni e frequento il quinto. Il mio colore preferito, come può facilmente intuirsi dai miei capelli, è il rosa. Sul foglio che ho pescato mi si chiede cosa mi piaccia fare nel tempo libero, ma ho così tanti hobbies che è un po’ difficile trovare una risposta, perciò ne dirò solo uno: amo leggere libri di medicina. Non c’è molto altro da dire su di me, quindi mi limito a porre lo stesso quesito a Ino.
 
La osservai tornare al suo posto un po’ deluso che non avesse aggiunto qualcos’altro alla sua presentazione: era una ragazza graziosa, almeno quando non perdeva le staffe o non faceva l’oca, e mi sarebbe piaciuto molto scoprire qualcosa in più su di lei.
 
Con un sospiro impercettibile rivolsi la mia attenzione alla Yamanaka che, già messasi in piedi, stava per iniziare a parlare:
 
Sono Ino, ho diciassette anni e frequento il quinto. Ho molti sogni, ma credo che il più grande sia ottenere una volta per tutte l’attenzione del ragazzo che mi piace o, se ciò non fosse possibile, riuscire quanto meno a battere la mia rivale di sempre.
 
“Puoi pure rinunciare ad entrambi.”, le sibilò contro Sakura.
 
“Invece puoi star certa che ce la farò, fronte spaziosa.”, ribatté l’altra con determinazione.
 
“Non ti permettere di chiamarmi con quello stupido nomignolo: non siamo più alle elementari, strega!”
 
“Certo che per queste due ogni occasione è buona per litigare!”, pensai un po’ esasperato, forse per aver assistito già troppe volte a scene simili.
 
 
Armandomi di pazienza, mi intromisi nel loro battibecco:
 
“Ora basta ragazze.”, dissi quietamente.
 
“Ma…!”, cominciarono entrambe.
 
“Niente ma: questo non è il momento adatto per chiarire i malintesi che ci sono tra voi.”
 
Entrambe abbassarono il capo e con tono realmente dispiaciuto dissero arrossendo leggermente:
 
“Scusaci, hai ragione Naruto.”
 
Divertito da quel raro esempio di telepatia e perfettamente conscio che potesse divenire il pretesto per un nuovo litigio, mi affrettai a replicare:
 
“Non è successo nulla di grave, ragazze, davvero. – poi, rivolgendomi solo ad una di loro, chiesi – Vorresti continuare, Ino?”
 
Certo! – affermò quella, nuovamente allegra dopo aver udito la mia rassicurazione – Dunque nel mio tempo libero amo far lunghe passeggiate in centro e guardare le vetrine dei negozi per ammirane le novità. Nel foglietto che ho estratto mi si domanda che sport mi piaccia praticare, ma non ho nessuna preferenza particolare in questo campo. In ogni caso passo la domanda a Neji-kun.
 
Molto bene, Ino, puoi riaccomodarti.” e accompagnai queste parole con un lieve cenno della mano.
 
Subito dopo portai la mia attenzione su uno dei miei compagni di classe più schivi e taciturni, realmente curioso di scoprire qualcosa in più su di lui.
 
Il mio nome è Neji Hiyuga, ho diciotto anni e frequento il quinto. Fin da bambino mi sono dedicato allo studio delle arti marziali, ma la tecnica che preferisco è quella detta del pugno gentile, una particolare arte di combattimento che la mia famiglia tramanda di generazione in generazione.
 
Non ne ho mai sentito parlare, ma mi piacerebbe molto poter assistere ad un incontro amichevole in cui si utilizza questo stile di lotta.
 
Se lo desideri, potrei chiedere al sensei di farti partecipare ad un allenamento.”, replicò con un mezzo sorriso ad addolcirgli i tratti del volto.
 
Sarebbe fantastico, Neji, davvero.”, dissi con convinzione, davvero felice per l’opportunità offertami.
 
Perfetto, ti farò sapere il giorno in cui venire in palestra. Per tornare al discorso precedente – disse gettando un breve sguardo al foglietto che aveva in mano – mi si chiede che tipo di lavoro vorrei svolgere in futuro, ma al momento non posso dare una risposta certa. Probabilmente assumerò il controllo dell’azienda di famiglia oppure svolgerò un qualche tipo di impiego all’interno di essa.
 
Capisco, beh a chi vuoi passare la domanda?
 
“Shino.”, mi rispose semplicemente e tornò ad accomodarsi.
 
Un piccolo brivido freddo mi attraversò la colonna vertebrale e, quasi fosse stato calamitato in quella direzione, il mio sguardo si diresse con un guizzo verso l’angolo più buio della classe: il ragazzo chiamato in causa era già in piedi, pronto per la sua presentazione.
 
Sono Shino Aburame, ho diciotto anni e, come molti altri, sono al quinto anno. Vorrei che la mia carriera futura avesse a che fare con gli insetti, perciò credo che studierò quasi sicuramente entomologia. Nel foglio che ho pescato mi si chiede cosa io non tolleri assolutamente e, considerando quanto ho detto pochi secondi fa, non è neanche tanto difficile da indovinare: se c’è una cosa che mi dà sui nervi, sono le persone che schiacciano innocenti insetti senza alcuna motivazione valida. Non c’è molto altro da sapere su di me a parte che, di recente, ho fatto delle sorprendenti scoperte sulla vita dei coleotteri, ma non credo sia il caso di parlarne in questa sede. Passo la domanda ad Hinata.
 
Lo osservai tornare a sedersi e, quando al suo posto si fu alzata la timida ragazza dai capelli scuri, l’atmosfera tesa che era regnata in aula durante la presentazione di Aburame sembrò scemare nel nulla.
 
I-il mio nome è Hinata Hiyuga – balbettò, diventando paonazza -  ho d-diciassette anni e frequento il q-quinto anno.
 
Detto ciò, l’imbarazzo sembrò sopraffarla e non fu più in grado di pronunciare anche solo un’altra sillaba. Per toglierla da una simile situazione di disagio, mi affrettai ad intervenire chiedendole:
 
Hiyuga… c’è qualche tipo di parentela tra te e Neji?
 
In realtà sapevo perfettamente che esisteva tra loro un vincolo famigliare: Kiba si era premurato di dirmelo in uno dei suoi lunghi discorsi sulla nostra comune compagna.
 
Sì, siamo c-cugini.”, rispose quella infatti.
 
Oh in effetti, ora che ci faccio caso, la somiglianza tra voi è davvero evidente.”, dissi ancora, cercando di strapparle qualche parola in più, ma quello che ottenni fu solo il silenzio.
 
In quel preciso istante capii che non sarebbe riuscita a condurre la conversazione in modo autonomo, così, nella speranza di aiutarla, continuai a porle domande:
 
Beh, Hinata, cosa non tolleri assolutamente?
 
Il pregiudizio: chi giudica s-senza conoscere realmente q-qualcosa o qualcuno non è altro c-che un insicuro dal bisogno represso di criticare gli altri per non vedere i propri difetti.
 
Alla fine della sua risposta aveva perfino smesso di balbettare, anche se era diventata rossa come un pomodoro. In ogni caso era già un gran bel passo avanti, perciò le sorrisi dolcemente e le chiesi:
 
Che quesito ti è toccato in sorte?
 
Hai un obiettivo? – lesse abbassando lo sguardo sul foglio che reggeva tra le mani tremanti, poi risollevandolo leggermente continuò – Sì, vorrei poter migliorare nell’arte marziale praticata dalla mia famiglia e… beh… n-non c’è altro. Pongo la stessa domanda a Kiba.
 
Rivolsi lo sguardo verso di lui, nel posto vicino a Shino, e notai che era completamente perso nella contemplazione della Hiyuga: certo che la discrezione non era proprio il suo forte.
 
Mi schiarii la voce e alzandola di qualche tono lo richiamai:
 
Kiba? Sei ancora tra noi?
 
“Eh?”
 
“Tocca a te, scemo!”, sibilò l’Aburame con tono stizzito e, per rendere più chiaro il concetto, diede di gomito all’altro ragazzo che, preso alla sprovvista, perse il suo punto d’appoggio rischiando un impatto doloroso col banco.
 
“E che ca…!”, iniziò ad urlare contro l’amico, rosso per l’imbarazzo e parecchio scocciato per la figuraccia appena fatta.
 
“Kiba.”, lo fermai prima che potesse dar voce a quella che ero certo fosse un’imprecazione abbastanza colorita.
 
“Oh, certo. Scusa Naru! – disse, fulminando Shino e concentrando poi la sua attenzione su di me - Sono Kiba, ho diciassette anni e frequento il quinto anno. In inglese sono un vero e proprio asino, perciò mi sono iscritto nella speranza di riuscire a combinare qualcosa di buono. Mi piacciono gli sport, un po’ meno passare il mio tempo al chiuso a studiare. Il mio obiettivo è di diventare, un giorno, un buon veterinario e prendermi cura degli animali.”, proseguì con un piccolo sorriso sul volto.
 
Sorrisi dell’usuale schiettezza del mio amico e, rivolgendogli un piccolo ghigno, replicai:
 
Ok, Kiba, che domanda hai?
 
Quella in cui si chiedeva di dire tre cose di sé. Dunque vediamo… amo in modo particolare i cani, ne ho uno che si chiama Akamaru che mi è stato affidato quando aveva appena un mese. Passo la domanda a Lee.”, concluse tornando a sedersi.
 
Mr. Sopracciglia, come avevo iniziato a chiamarlo dopo aver notato i due cespugli che gli sovrastavano gli occhi, si alzò in piedi con uno scatto e quasi urlò:
 
Il mio nome è Rock Lee, ho diciassette anni e vado al quinto. Mi alleno ogni giorno spinto dal verdeggiante ardore della giovinezza, tutto per poter migliorare e riuscire, un giorno, a battere il mio eterno rivale, Neji. Di me non c’è molto altro da dire, a parte che sono un patito delle arti marziali, che il mio colore preferito è il verde e che il mio modello di riferimento è il grande ed impareggiabile maestro Gai.
 
Bene Lee che quesito ti è toccato in sorte?
 
Se potessi, quale personaggio famoso ti piacerebbe essere? – lesse ad alta voce, poi con un sorriso a trentadue denti rispose – Il maestro Gai, ovviamente.
 
“Certo, che stupido, come ho potuto non pensarci?”, mi auto domandai ironicamente.
 
Prima che potessi anche solo pensare di aprire bocca, qualcuno intervenne al mio posto:
 
“Gai non è affatto famoso, Lee.”
 
“Che dici Ten Ten? E’ un vero è proprio idolo delle folle.”, replicò il ragazzo infervorato.
 
“Sì, sì, solo per te.”, disse lei con tono leggermente spazientito.
 
“Allora tu chi vorresti essere?”, ritorse l’altro e tornò a sedersi.
 
 
Ten Ten si alzò in piedi e, continuando a guardare Mr. Sopracciglia, rispose:
 
Nessuno, io voglio lasciare una mia impronta nel mondo e non rifarmi ad altri. Comunque sono Ten Ten, ho diciotto anni e anch’io frequento il quinto anno.”, si presentò, portando il suo sguardo ad incrociare il mio.
 
E’ un bel pensiero Ten Ten. – dissi sinceramente colpito - Che domanda ti è capitata?”, aggiunsi, rivolgendole un piccolo sorriso.
 
Mi si chiede a cosa non potrei assolutamente rinunciare, ma per adesso credo di non avere una risposta, perciò mi limito a chiedere la stessa cosa a Sai.
 
All’udire quel nome l’unica cosa che riuscii a pensare fu: “O Kami ti prego fa che non dica qualcosa di imbarazzante.”
 
Portai i miei occhi nei suoi, ma questi non rivelavano nulla di differente dal solito: erano illeggibili.
 
Non potendo fare altrimenti, mi irrigidì e attesi con un certo nervosismo che iniziasse la sua presentazione:
 
Il mio nome è Sai, ho diciassette anni e sono al quinto. Ho deciso di frequentare questo corso perché ero completamente affascinato dal nuovo insegnante e sono sicuro che, col suo aiuto, migliorerò parecchio.”, disse facendomi l’occhiolino.
 
Mm… lieto di ispirarti tanta fiducia, continua.”, lo incitai, mentre dentro avrei voluto strozzarlo per aver provocato, col suo sciocco intervento, non solo il mio imbarazzo, ma anche l’ilarità della classe.
 
Per adesso non ho obiettivi o sogni particolari, voglio solo finire il liceo nel più breve tempo possibile. Se dovessi scegliere qualcosa a cui non potrei rinunciare, sarebbe il mio album da disegno. Mi chiedi che tipo di persona io pensi di essere o voglia diventare, ma non sono in grado di rispondere, perciò cedo la parola al ragazzo biondo in ultima fila.”, concluse e si riaccomodò.
 
“Poteva andarmi peggio! – pensai con un certo senso di sollievo, i muscoli che tornavano a rilassarsi – Inoltre le sue risposte mi hanno incuriosito: se si fosse trattato di un’altra persona avrei provato ad indagare un po’, ma considerando con chi ho a che fare potrebbe prenderlo come un incoraggiamento e questa è l’ultima cosa che voglio.”
 
Con un impercettibile sospiro distolsi la mia attenzione dal giovane moro e la indirizzai verso il tipo bizzarro che, mi sembrava di ricordare, mi aveva fermato in mensa il mio primo giorno al Konoha.
 
Allora mi chiamo Deidara – disse, rivolgendomi un aperto sorriso che mi ritrovai a ricambiare – sono un tipo allegro,  ho ventun anni e sono al secondo qui alla Konoha University. Il mio numero di telefono è 539…
 
“Ma cosa …?”, ebbi appena il tempo di chiedermi con perplessità, prima che il ragazzo rosso seduto al suo fianco lo riprendesse con tono d’avvertimento:
 
“Deidara!”
 
“Cosa? – domandò questi con un’espressione scioccata dipinta sul volto – avrà bisogno dei nostri recapiti telefonici se, in caso di necessità, dovesse contattarci.”
 
“Nella remota circostanza in cui dovessero esserci variazioni nell’orario delle lezioni, la scuola affiggerà delle circolari.”, replicò il suo compagno quietamente.
 
“E se si trattasse di un’emergenza e Tsunade-sama non ne fosse stata ancora informata?”, ritorse l’altro, continuando a perorare la sua tesi.
 
“Allora salteremo l’ora, come succede sempre. Non capisco proprio questa tua improvvisa manifestazione di diligenza, quando di solito sei sempre il primo a sperare che simili occasioni di svago siano più frequenti e…”
 
“Non so di cosa tu stia blaterando, Sasori.”, lo zittì duramente il giovane biondo, lanciandogli, poi, uno sguardo di fuoco.
 
 
Se un’occhiata potesse uccidere… – mi ritrovai a pensare, per poi riscuotermi ed intervenire nel battibecco tra i due - Senpai non discutete più, per favore. Per ogni evenienza mi darete un recapito a cui contattarvi, ma per adesso Deidara vorresti continuare con la tua presentazione?”
 
“Certo! Dunque cosa stavo dicendo, prima di essere così brutalmente interrotto senza alcuna motivazione?”
 
“Tsk.”, fu l’unica risposta che, con grande gioia della mia pazienza provata, ottenne alla sua domanda retorica.
 
Mm…  Studio arte e un giorno  mi piacerebbe che le mie opere potessero essere ammirate nei musei più prestigiosi. Vorrei viaggiare e far conoscere il mio lavoro anche all’estero, perciò imparare una lingua internazionale come l’inglese riveste un’importanza essenziale per me.
 
E’ un bel sogno, senpai. Che domanda hai?
 
Come ti descriveresti in tre aggettivi? – lesse sorridendo – Direi: creativo, incisivo, esplosivo.
 
“Non faccio fatica a crederlo! – esclamai mentalmente e, cercando di trattenermi dal ridacchiare per questa muta considerazione, mi affrettai a chiedere – a chi la vuoi passare?
 
A Sasori.
 
Sono Sasori, ho ventun anni e frequento il secondo anno insieme all’impiastro che ha parlato prima. Anch’io ho scelto di intraprendere studi in campo artistico, ma più che vedere le miei opere sparse in giro per il mondo, preferirei che le mie creazioni durassero e fossero ricordate in eterno.”, disse dopo essersi svogliatamente messo all’in piedi.
 
“Tks, ne abbiamo già parlato, amico mio, l’arte è come un’esplosione: un attimo di assoluta ed estatica meraviglia.”
 
 
“Sai che non condivido per niente il tuo pensiero, perciò è inutile ripetermelo in continuazione: non mi convincerai a cambiare idea. – affermò con un cipiglio minaccioso e in seguito, riportata la sua attenzione su di me, proseguì - Dunque come mi descriverei in tre aggettivi… vendicativo, riflessivo, carente in quanto a pazienza nelle relazioni interpersonali. Mi si chiede quale sia il mio piatto preferito… credo la zuppa di miso, comunque pongo la stessa domanda al rosso in seconda fila.
 
Finalmente qualcuno ha avuto il fegato di interpellarlo! – quasi gridai in esultanza – E’ puramente inutile che tu mi rivolga quello sguardo indispettito, Gaara, tanto non posso e non voglio fare proprio nulla per toglierti da questa situazione.”, pensai e gli sorrisi, scuotendo impercettibilmente le spalle.
 
Mi chiamo Gaara no Sabaku, ho diciotto anni e frequento il quinto anno. Mi ritrovo a partecipare a queste lezioni a causa dell’insistenza esasperante del docente…
 
Persuasione, Sabaku, non insistenza e in ogni caso non potrà che esserti utile.”, dissi interrompendolo, mentre cercavo con tutte le mie forze di non scoppiare a ridere: gli sguardi allucinati dei nostri compagni erano davvero comici.
 
“… non ho interessi particolari, se non la musica, e il mio piatto preferito è il ventriglio.”, continuò come se non avessi parlato.
 
Che domanda ti è toccata?”, chiesi curioso.
 
Quali sono i valori in cui credi? –  lesse, per poi, con un piccolo sorriso ad incurvargli le labbra, rispondere quietamente – Di recente ho rivalutato molto l’importanza dell’amicizia, perciò posso affermare di credere con fermezza in questo particolare sentimento, nonché in quelli di lealtà e onestà che lo caratterizzano.
 
A quelle parole una dolorosa fitta di senso di colpa sembrò travolgermi, ma la scacciai rapidamente così come era arrivata: non potevo essere del tutto sincero con nessuno, lo sapevo bene ed era inutile stare male per qualcosa che non avevo proprio modo di fare.
 
A chi la passi?”, domandai, cercando di nascondere ciò che realmente sentivo dietro un ghigno.
 
“Alla ragazza seduta dietro di me.”
 
Osservai la diretta interessata arrossire pesantemente, alzarsi in piedi con fare esitante e, prendendo un profondo respiro, dire tutto d’un fiato:
 
Il mio nome è Matsuri ho quindici anni e vado al secondo anno. Ho così tanti sogni e aspirazioni che non basterebbe una giornata per elencarle tutte, perciò le terrò per me. I valori in cui credo sono: l’amore, la pace e il rispetto. La domanda che mi è capitata è: a quale animale ti paragoneresti? Non lo so proprio, perciò passo la domanda a Maki.
 
Chiaramente era una giovane molto timida a differenza, invece, della sua compagna che, alzatasi con fare scattante, iniziò a parlare in tono allegro:
 
Sono Maki, ho quindici anni e frequento anch’io il secondo anno. Il mio sogno è quello di viaggiare per il mondo, perciò mi paragonerei certamente ad un gabbiano. La domanda che mi è toccata in sorte è: vorresti cambiare qualcosa di te? Sì, ce ne sono parecchie in realtà, ma vorrei porre lo stesso quesito a Uchiha-kun.
 
Spostai lo sguardo sul Teme, curioso, nonostante stessi cercando in tutti i modi di non darlo a vedere, di ascoltare la risposta che avrebbe dato.
 
No, non cambierei assolutamente nulla di me.”, disse con dipinta in viso un’espressione indifferente.
 
Sapevo che Uchiha era un tipo borioso, narcisista e pieno di sé, eppure la sua affermazione non sembrava contenere nessuno di questi aspetti del suo carattere.
 
Incrociai per un breve attimo i suoi profondi occhi scuri e, prima che il suo sguardo fuggisse lontano dal mio, notai un breve guizzo che non vi avevo mai visto prima: se non lo avessi creduto impossibile, avrei detto che si trattasse di rimpianto.
 
Cosa mai avrebbe potuto desiderare un ragazzo che aveva tutto? Quale desiderio irrealizzato provocare una scintilla di così disperato bisogno?
 
Non avrei avuto nessuna risposta alle mie domande, almeno non a breve e non in questo contesto.
 
Lasciai nuovamente da parte il mio desiderio di far luce sul mistero rappresentato da Sasuke Uchiha e, riacquistando il sorriso, dissi giocosamente:
 
Molto bene, ragazzi. Ora io so qualcosa in più su di voi, perciò mi sembra equo che voi sappiate qualcosa in più su di me: qualcuno vuole farmi delle domande?
 
Una serie di mani si levarono verso l’alto e, scorgendo tra tutte quella della timida ragazzina che aveva parlato solo pochi attimi prima, mi affrettai a concederle la parola.
 
“Sensei…”, iniziò, ma la interruppi subito.
 
Naruto, chiamami semplicemente Naruto.”, le dissi, spronandola poi a continuare.
 
Va bene, Naruto-kun, quanti anni hai?”
 
Ne ho diciassette, ma manca davvero poco a che ne compia diciotto.”, le risposi tranquillamente e, con soddisfazione, la ascoltai pormi un'altra domanda.
 
Qual è il giorno del tuo compleanno?”
 
E’ il dieci ottobre.
 
Naruto che scuola hai frequentato?”, si intromise Maki, l’altra quindicenne.
 
Era un collegio, più che una scuola: il Brotherhood, un edificio molto antico alle periferie di Manhattan.”
 
Vivevi a Manhattan?!”, quasi gridò.
 
Già e dalla tua reazione deduco si tratti della meta di uno dei tuoi futuri viaggi, mi sbaglio?
 
Oh no, in realtà ci hai preso in pieno. E’ bella come dicono?
 
Sì, ci sono dei posti che ti conquistano, ma quasi mai i turisti si soffermano a visitarli. Non devi fermarti alla maestosità dei grandi grattaceli o alla bellezza della Statua della libertà, ma devi proseguire oltre, verso le periferie: scoprirai piccoli angoli di mondo davvero interessanti e luoghi ricchi di una molteplicità di suoni, colori, odori di cui non conoscevi neanche l’esistenza.”
 
“Sembra davvero magnifico, Naruto: mi sento ancor più determinata ad inseguire il mio sogno!”, affermò, mentre un sorriso bellissimo le si dipingeva sul viso.
 
Prima di stabilirci stabilmente in Giappone, io e l’ero-sennin avevamo passato mesi a girovagare senza meta da un luogo all’altro, un’esperienza incredibile e appagante che aveva avuto il potere di farmi accantonare per un attimo le mille preoccupazioni che mi affliggevano.
 
Potevo, perciò, capire fin troppo bene l’entusiasmo della ragazza che mi stava di fronte ed ero felice di aver in qualche modo alimentato la sua determinazione nel perseguire i suoi desideri.
 
Ohi Naruto, ma in quella scuola che frequentavi studiavate come muli dalla mattina alla sera o facevate anche altro?”, prese parte alla conversazione Kiba.
 
Passavamo molto del nostro tempo sui libri, soprattutto perché Sarutobi, il nostro preside, controllava personalmente che avessimo fatto tutti i compiti. In ogni caso avevamo anche delle ore libere e, soprattutto noi ragazzi più grandi, potevamo passarle fuori dal collegio. Ovviamente avevamo, però, un coprifuoco da rispettare, quanto meno se non volevamo incorrere nelle ramanzine del vecchio.
 
E nelle tue ore libere facevi qualche sport?”, continuò.
 
Oh sì, ero solito andare in un campetto nel quartiere vicino e fare qualche tiro a canestro non appena ne avevo l’occasione.
 
Tu giochi a basket?! E in che ruolo? Sei bravo?”, mi chiese eccitato, ponendomi una domanda dietro l’altra senza neanche riprendere fiato.
 
 
Calma, calma – cercai di placarlo – me la cavo abbastanza bene e, solitamente, mi piace variare posizione…”
 
Mi interruppi per un attimo, indeciso sull’aver sentito realmente o aver solo immaginato il lieve sussurro che mi era giunto alle orecchie.
 
A fugare ogni mio dubbio, giunse la voce piatta di Sai che, lanciandomi uno sguardo malizioso, espresse ad alta voce il pensiero che, pochi attimi prima, aveva solo bisbigliato:
 
Davvero interessante, Naruto.
 
“Hentai – pensai – questa è la volta buona che ti strangolo sul serio!”
 
E l’avrei davvero fatto, se la voce di Kiba non mi avesse ricordato che mi trovavo davanti ad un mucchio di possibili testimoni e non era a il caso di rischiare la galera per un pervertito simile.
 
Sono d’accordo – stava dicendo il mio amico, ovviamente inconsapevole del doppio senso celato dietro le parole dell’altro – non è affatto un’abilità comune.
 
E’ vero.”, si affrettò ad annuire quel maniaco di Sai.
 
Non sapevo ti piacesse tanto la pallacanestro!”, esclamò con un certo stupore l’altro ragazzo.
 
In effetti è una passione abbastanza recente.
 
Immagino – mi intromisi, ponendo fine a quella pantomima – In ogni caso ti sbagli, Kiba: non è affatto raro che un giocatore possa adeguarsi a più ruoli, più che altro sono le dinamiche del gioco a non permetterlo, visto che in una squadra è necessario avere posizioni e compiti definiti. Per quanto mi riguarda ho ricoperto sia quello di Guardia Tiratrice, che quello di Ala Piccola e, alle volte, anche quello di Playmeker.
 
Oh oh oh, amico, uno di questi giorni devi assolutamente fare una partita con noi.
 
Mi piacerebbe molto.”, replicai contento.
 
Naruto cos’altro ti piace fare nel tuo tempo libero?”, mi chiese Ino, catturando, così, la mia attenzione.
 
Amo in modo particolare la musica.”, risposi con un sorriso sincero sul volto, ma ancora internamente scocciato da quanto accaduto poco prima.
 
Ma è fantastico!
 
E suoni qualche strumento?”, si intromise Sakura, provocando la stizza della sua amica.
 
Qualcuno.”, dissi velocemente e in modo evasivo, concentrando nuovamente i loro sguardi su di me.
 
Qualcuno? Intendi dire che sei capace di suonarne più di uno?”, mi chiese Ino sorpresa.
 
Sì, ma la chitarra è quello che preferisco.”, mi limitai a rispondere, glissando sulla reale entità della domanda.
 
Devi assolutamente farci sen…”, stava dicendo Sakura, ma l’allegra voce di Ten Ten la interruppe, sovrastando la sua:
 
Ti piace praticare qualche altro sport, a parte il basket?
 
“Ehi ma che modi.”, si lamentò l’altra ragazza, ma venne palesemente ignorata dalla compagna.
 
Me la cavo abbastanza con alcuni generi di arti marziali.”, risposi, allora, scuotendo leggermente le spalle.
 
 
Sai che anche Sasuke-kun, Neji-Kun, Hinata, Ten Ten e Rock Lee fanno questo genere di sport? La nostra scuola fornisce anche un corso.”, intervenne nuovamente la rosa, con un  piccolo sorriso di rivalsa rivolto verso l’altra ragazza.
 
Sì, Sasuke me lo aveva accennato durante il tour della scuola, ma non sapevo che tanti dei miei compagni lo frequentassero.”, replicai, un po’ preoccupato da come le altre due si stessero osservando in cagnesco.
 
Beh oggi come oggi è importante difendersi per una delicata fanciulla e, quanto ai ragazzi, sfogano un po’ della loro energia.”, affermò Ten Ten, annuendo col capo e abbandonando, almeno per il momento, la silenziosa battaglia di occhiatacce che stava combattendo contro Sakura.
 
Delicata? Ma se l’altro giorno mi hai steso con un solo pugno.”, si intromise Kiba.
 
E’ stata tutta colpa tua, Inuzuka, non avresti dovuto farmi arrabbiare: te lo meritavi!
 
Sono curiso Ten Ten: che aveva combinato?”, chiesi, portando tutta la mia attenzione su di lei.
 
L’ho beccato a spiare le ragazze da un buco fatto in una delle pareti.
 
Ti ho già spiegato che non stavo facendo nulla del genere! – esclamò il diretto interessato e, arrossendo leggermente, si affrettò a spiegarmi -  In realtà, Naru, ero intento recuperando la palla con cui stavamo facendo una piccola partita a calcetto nell’attesa che qualcuno si spicciasse a cambiarsi…
 
“Tsk!”
 
Ti dicevo –  e fulminò l’altra per l’interruzione -  che il pallone è finito tra i cespugli dietro la palestra e, mentre lo cercavo, ho visto questa fessura. Non capivo perché diamine ci fosse un buco sulla parete e così ho sbirciato all’interno per cercare di comprendere in che stanza fosse. Quando ho notato le ragazze all’interno stavo per scostarmi, ma è arrivata lei a stordirmi con un pugno micidiale.
 
Non è affatto vero, Naruto: ho aspettato un po’ prima di stenderlo perché volevo capire cosa stesse combinando, ma quando, nel tentativo di riuscirci, mi sono avvicinata un po’, ho sentito che stava praticamente ululando qualcosa su quanto fossero formose le ragazze dai capelli scuri e mi sono vista costretta ad intervenire.”, replicò Ten Ten, un cipiglio scuro sul viso e la mano destra leggermente sollevata stretta in un pugno.
 
Vai così Ten Ten: lascia scorrere impetuosa la forza della giovinezza dentro di te.”, gridò Lee più euforico del solito.
 
Cosa poi lo rendesse così contento in tutta quella faccenda restava un mistero.
 
No frenala, invece, altrimenti non sarà più sicuro girare all’interno della scuola.”, cercò di buttarla sul ridere Kiba.
 
Mi stai nuovamente provocando, Inuzuka?”, chiese lei, guardandolo storto.
 
No, certo che no.”, balbettò quello, sbiancando repentinamente.
 
A quella vista non riuscì più a trattenermi e, l’ilarità che avevo soppresso durante tutta lezione, si riversò all’esterno in una risata argentina.
 
Mi ci volle un po’ per riuscire a calmarmi, ma, non appena fui sicuro di non rischiare il soffocamento per le troppe risa, mi avvicinai alla giovane bruna e le chiesi allegro:
 
Sei una tipa tosta, neh Ten Ten?
 
Puoi dirlo forte Naruto!”, esclamò, l’espressione rasserenata e divertita, mentre si affrettava a battere il cinque che le porgevo.
 
Amico, questo è un tradimento bello e buono.”, si lamentò Kiba, mettendo su un broncio infantile.
 
 
 
A quel richiamo ad un qualche tipo di solidarietà maschile, il mio cuore si strinse un po’ e, volendo in qualche modo farmi perdonare il mio piccolo tradimento, mi rivolsi all’unica persona capace di risollevare il morale del mio amico:
 
E tu Hinata? Sei una tipa tosta?
 
I-io.. beh.. e-ecco…”, balbettò quella, ma come previsto tanto fu sufficiente a catturare completamente l’attenzione di Kiba.
 
Da quando era andato a casa della giovane Hiyuga per portare avanti una ricerca assegnata ad entrambi, non aveva smesso un attimo di elencare tutte le qualità della ragazza e della sua adorabile sorellina che, a suo dire, l’avevano enormemente colpito.
 
Il realtà, secondo la mia modesta opinione, Kiba aveva un vero e proprio debole per le brune dagli occhi chiari e, più che dai pregi caratteriali della ragazza, era colpito dagli attributi fisici.
 
Scossi piano la testa e mi riconcentrai sulla conversazione in corso:
 
E’ bravissima, solo che ha poca fiducia in se stessa.”, stava dicendo Ten Ten.
 
M-me la cavo, credo.”, sussurrò, invece, la diretta interessata concedendomi un raro sorriso timido.
 
Sono sicuro che anche tu sotto sotto sei una ragazza forte, Hinata, solo che ancora questo tuo lato non è emerso.”, replicai sinceramente e, vedendola arrossire, decisi di cambiare argomento.
 
Bene,  qualcuno ha altre domande?”, chiesi allegramente al resto della classe.
 
Quando a sollevarsi fu la mano di Sai, il mio entusiasmo si smorzò di colpo, tuttavia, non potendolo semplicemente ignorare come avrei voluto, mi costrinsi a dargli la parola.
 
 
L’unica remota e quanto mai speranza che potesse chiedermi una cosa come un’altra, scemò non appena diede fiato alla bocca: come può un individuo dire sempre la cosa sbagliata?
 
Hai qualche bella ragazza ad attenderti a Manhattan?”, mi aveva domandato con un sorriso malizioso a stirargli le labbra.
 
Prima che potessi mandarlo a fanculo, ormai seriamente esasperato da quelle sue frasi fuori luogo, le grida oltraggiate di Sakura e Ino si fecero udire in una cacofonia spacca timpani:
 
Ma che domande fai?!”, scattò la rosa.
 
Già, è il nostro professore!”, rincarò l’altra ragazza, una volta tanto d’accordo con l’amica.
 
E’ anche un nostro compagno di classe e poi ci ha chiesto lui stesso di non trattarlo come un insegnante. Inoltre non mi sembra proprio il caso di farmi la predica, soprattutto quando ho posto l’unica domanda che tutte pensavate, ma nessuna aveva il coraggio di fare.”, replicò il giovane con calma, rivolgendo loro uno dei suoi sorrisi fasulli.
 
Grazie a quel piccolo siparietto riuscii a riconquistare la calma e ad evitare di fare qualcosa di inappropriato per una persona nella mia posizione, perciò, ringraziando brevemente i Kami per tutti quegli interventi provvidenziali, mi schiarì la voce ed intervenni con tranquillità:
 
“No, non c’è nessuna ragazza.”
 
Calò il silenzio e, per un’infinitesima quantità di secondi, ogni sguardo si posò su di me, sorpreso.
 
Impossibile!”, scattò Ten Ten, ripresasi dall’attimo di staticità generale
 
Già, non ci credo!”, affermò Ino quasi in contemporanea.
 
I problemi che lo smog può causare alla vista…”, bisbigliò nel frattempo Maki a Matsuri che annuì con foga.
 
Ragazze, così mi mettete in imbarazzo...”, cercai di placarle, ma malgrado tutto sentì il mio viso ardere.
 
“Che carino sta arrossendo!”, esclamò Deidara.
 
“Deidara!”, lo riprese subito Sasori.
 
“Ma che ho detto? Non trovi forse anche tu che sia troppo tenero con quelle due guancette rosse?”
 
“Hm Hm.”, tossicchiò l’altro, ma dall’espressione del suo viso, pareva che il compagno l’avesse convinto.
 
“Dio fammi sprofondare qui e ora – pensai, ma, ricordandomi di quale sarebbe dovuto essere il mio ruolo, mi schiarii la voce e, nella speranza di riportare l’ordine, dissi - Non vi agitate, per favore. Il mio collegio era esclusivamente maschile, perciò…”
 
Rettifico la mia domanda, allora: hai un bel ragazzo che ti attende?”, mi interruppe subito quel manico di Sai.
 
La situazione mi stava sfuggendo di mano e, preso dal panico, cercai gli occhi di Gaara per lanciargli un muto SOS formato gigante, ma, quando li ebbi incrociati, vidi chiaramente una scintilla di divertimento illuminarli intensamente.
 
Spostai lo sguardo sulle sue labbra e, trovandole deformate da un ghigno pronunciato, ogni mia pia illusione di ricevere aiuto andò a farsi benedire.
 
“Maledetto tasso scorbutico: ti sembra questo il momento di macchinare la tua vendetta nei miei confronti?! Oh ma appena arriviamo a casa mi sentirai, puoi starne certo!”
 
Non trovando l’appoggio del mio coinquilino momentaneo, ripiegai per un attimo in ritirata alla disperata ricerca di qualcun altro: le espressioni dei miei amici, però, erano identiche a tutte le altre presenti in aula.
 
 
“Ma che si aspettano, una sorta di coming-aut? E’ tutta colpa di quel hentai, ma giuro che non appena lo avrò tra le mani io…”
 
Ah Sasori guarda: sta arrossendo ancora di più!”, giunse la voce di Deidara a gettarmi definitivamente nello sconforto.
 
Sbirciai nella sua direzione e la scena che mi trovai d’avanti aveva dell’assurdo: il senpai era in piedi con le mani giunte e il piede sollevato in una di quelle pose da cartone animato, gli mancavano solo gli occhi a forma di cuore e sarebbe stato perfetto; Sasori, accanto a lui, lo richiamava sommessamente, con solo un quarto della convinzione mostrata in precedenza, e mi lanciava strane occhiate.
 
“Tsunade, ma che cazzo di studenti frequentano la tua scuola? Mi sembra di avere davanti tanti giovani ero-sennin.”
 
Esasperato da quella situazione ridicola in cui, tra l’altro, mi ero cacciato con le mie stesse mani, mi decisi a rispondere, dandomi mentalmente dell’imbecille per non averlo fatto subito evitando, così, tutte quelle considerazioni sulla mia sessualità.
 
No, nessun ragazzo. - dissi seriamente, poi, approfittando del silenzio sorpreso che aveva accolto le mie parole, continuai conciso – Oh, ma guardate un po’ che ore sono: il nostro tempo è quasi scaduto. Prima di andarcene, qualcuno vuole porre qualche domanda ad un compagno di corso? Magari una persona che non conoscevate prima di oggi.”, proposi nella speranza di distogliere la loro attenzione dal sottoscritto.
 
Sì, io ne avrai una.”, intervenne subito Deidara.
 
Molto bene senpai – pronunciai con un tono esageratamente allegro – e a chi vorresti farla?
 
A te, ovviamente.”, mi rispose.
 
Non ebbi neanche il tempo di replicare in qualche modo che mi sentì chiedere:
 
Sei libero questa sera?
 
Ma prima che potessi declinare educatamente l’invito, Sai si alzò in piedi e domandò:
 
Ti andrebbe di prendere un gelato insieme?
 
Ehi, mettiti in fila: c’ero prima io!”, dichiarò Deidara, alzandosi anch’esso e sbattendo le mani sul banco.
 
Ragazze vogliamo essere da meno?”, si fece avanti Ten Ten.
 
No!”, gridarono in coro Maki e Matsuri.
 
Naruto-kun che ne diresti di venire a bere qualcosa con noi?”, mi chiese, allora, la più grande.
 
“Che seccatura.”, borbottò Shikamaru, scocciato per essere stato svegliato durante uno dei suoi amati pisolini.
 
“Ma sono tutti impazziti?! Solo perché l’ho invitato a giocare a basket con noi adesso tutti si sentono autorizzati a chiedergli di uscire e vedersi? Con noi Naruto ha stretto amicizia.”, disse Kiba rivolto al compagno di banco.
 
“Ah Kiba sei sempre il solito.”, sbuffò quest’ultimo.
 
“Che diamine vorrebbe dire Shino?!”
 
“Che loro gli stanno chiedendo degli appuntamenti: non gli importa di essere suoi amici.”, affermò duramente l’altro.
 
“Ma… ma…”
 
“Che incredibile seccatura!”
 
“gnam, gnam, gnam”
 
“Choji non si mangia in classe.”, gridò Ino all’amico, intento a divorare un enorme pacchetto di patatine sbucato da chissà dove.
 
“Non posso farci niente – gnam - tutta questa situazione – gnam - mi innervosisce e quando sono agitato – gnam - io devo mangiare qualcosa!”, rispose l’altro, intervallando ogni tre parole con la rumorosa masticazione del suo pasto.
 
Mi guardai in giro e per poco non mi misi le mani nei capelli in una sorta di imitazione della posa che l’ero-sennin aveva assunto solo qualche settimana prima: la situazione mi era definitivamente, inesorabilmente e chiaramente sfuggita di mano.
 
“Adesso basta con questo guazzabuglio! – gridai con un tono di voce talmente severo, da sorprendere persino me stesso - Faremo un’uscita con tutti i membri del corso quando sarete migliorati almeno un poco rispetto a oggi.”, continuai quando, calato un silenzio tombale, gli sguardi sconvolti di tutta l’aula si appuntarono su di me.
 
Un “Eh?” corale seguii alla mia dichiarazione, ma, ignorando palesemente la reazione dei miei movimentati studenti, proseguii imperterrito:
 
“Kiba la tua pronuncia è davvero pessima e hai qualche lacuna lessicale, ma in linea di massima non sei affatto scarso come credi; Shikamaru pronuncia quasi perfetta, ma tendi ad utilizzare il primo termine che ti viene in mente; Sakura hai qualche difficoltà nell’uso dei tempi verbali e la stessa cosa vale per Ino, Sai, Ten Ten, Shino e Rock Lee; Choji e Hinata siete troppo insicuri: la vostra esposizione ne risente; Neji e Gaara va bene, ma dovremmo cercare di rendere i vostri discorsi più fluenti; Deidara e Sasori complimenti, una volta corretta qualche piccola imperfezione nella pronuncia sarete perfetti; Matsuri e Maki anche se siete più giovani non ve la cavate affatto male; e, per concludere, Sasuke molto bene davvero, per te vale lo stesso discorso fatto ai senpai.”, elencai con sicurezza.
 
“Naruto ma che vuol dire?”, si azzardò a domandarmi Kiba.
 
 
“Ho pensato che chiedere espressamente a ciascuno di voi di fare un breve discorso per farmi capire qual era il vostro livello di preparazione vi avrebbe messo in difficoltà, o peggio avrebbe gettato nel panico alcuni di voi e ciò avrebbe potuto influire negativamente sulla valutazione.”
 
“Ma avevi detto che non ci avresti assegnato nessun voto.”, replicò il mio amico, preoccupato.
 
“E non lo farò, ma comprendete tutti perfettamente che non avrei potuto aiutarvi se non fossi stato a conoscenza dei vostri punti di forza e delle vostre lacune. Vi ho lasciati liberi di discorrere tra voi, proprio per cercare di creare un clima sereno e rilassato in cui ciascuno avrebbe potuto mostrarsi per ciò che vale realmente. Anche il permettervi di pormi delle domande era funzionale allo scopo: volevo che vi sentiste a vostro agio a discorrere con me, ma certo non mi sarei mai aspettato che qualcuno di voi lo sarebbe stato così tanto – rimarcai, lanciando una breve occhiataccia a Sai e Deidara – Beh ormai le nostre ore di oggi sono giunte al termine, perciò continueremo giovedì. Vorrei che ciascuno di voi parlasse del proprio hobbies, magari, se fosse possibile, facendone anche una breve dimostrazione pratica. Chi non si sentisse di discorrere difronte alla classe, scriverà delle domande da porre ai propri compagni nel corso della loro esposizione, è tutto chiaro?”
 
Ottenuti dei cenni affermati in risposta, conclusi con un piccolo sorriso:
 
“Molto bene, allora potete andare.”
 
Stavo per recuperare la mia cartella e riporvi dentro il sacco di juta rimasto abbandonato sulla cattedra, quando Sai mi si avvicinò e mi chiese:
 
“Naruto e per quel gelato?”
 
“C’ero prima io!”, affermò Deidara, facendosi largo verso di noi.
 
“Ma sicuramente Naruto preferirà uscire con delle ragazze, giusto?”, si intromise Ten Ten, mentre Maki e Matsuri annuivano con forza.
 
 
Messo alle strette da quella congrega così ostinata, me ne uscii con la prima scusa che mi venne in mente:
 
“Mi dispiace, ma non posso: avevo già un impegno con Gaara.”, dissi, fingendo un’espressione contrita.
 
“Gaara?!”, gridarono praticamente in coro, assordandomi in modo definitivo.
 
“Già, gli ho promesso che se fosse venuto al corso gli avrei preparato il ventriglio, vero Gaara?”
 
“…”
 
“Gaara…”, ripetei in tono affilato.
 
Quello, completamente indifferente alla mia velata minaccia, si limitò ad annuire con aria distratta, ma tanto poteva bastare per confermare la mia versione dei fatti.
 
“Scusate ragazzi, se non avessi un altro impegno magari ci penserei, ma in questo caso…”
 
“Se è importante per te, puoi sempre prepararmi il ventriglio in un’altra occasione.”, se ne uscì il mio amico che, nel frattempo, si era avvicinato.
 
“Già, ha ragione!”, affermò Deidara, un luccichio pericoloso negli occhi chiari.
 
“No, noi Uzumaki manteniamo sempre le nostre promesse e io avevo garantito a Gaara che questa sera gli avrei cucinato il suo piatto preferito: sono stato davvero insopportabile in questi ultimi giorni e voglio farmi perdonare in qualche modo.”, dissi con convinzione, mandando un messaggio sottointeso al ragazzo al mio fianco.
 
Questi sembrò coglierlo e accettare silenziosamente le mie scuse, perciò non mi sorpresero molto le parole che pronunciò in seguito:
 
“Va bene, allora, torniamo a casa.”
 
Annuii frettolosamente e salutando tutti gli altri mi allontanai in sua compagnia.
 
Percorremmo i corridoi in assoluto silenzio, ciascuno immerso nei propri pensieri, ma, non appena ci lasciammo alle spalle l’edificio scolastico, mi rivolsi a lui dicendo:
 
“Bell’amico che sei: se fosse stato per te avrebbero anche potuto trascinarmi via a forza e portarmi in un posto isolato a fare chissà che.”
 
“Sai che non gliel’avrei mai permesso, ma volevo darti una piccola lezione di vita.”, replicò, mentre un ghigno gli storceva le labbra.
 
“Altro che lezione di vita: hai cercato di farmela pagare per averti assillato durante queste settimane, ammettilo!”
 
“Beh, sì è vero.”, confermò candidamente.
 
“E me lo dici con quella faccia?”
 
“Perché? Non è la stessa di sempre?”, domandò con tono divertito.
 
“Appunto, quanto meno potresti cercare di fingerti un po’ dispiaciuto.”, risposi, lanciandogli un’occhiataccia.
 
“Non posso: mi sono divertito troppo a vederti in difficoltà, piccola Kitsune.”
 
“Sei un tasso scorbutico e incostante: sono quasi tentato dall’idea di lasciarti a stomaco vuoto.”, macchinai con voce lugubre e spenta.
 
“Oh, allora forse i tuoi ammiratori sarebbero felici di sapere che ti sei liberato per…”
 
“Non ci provare Gaara o giuro che non ti asciugherò più i capelli quando fai lo shampoo.”, lo interruppi, l’indice della mano destra ad appena pochi centimetri dal suo naso in chiaro segno di ammonimento.
 
“Ma quando mai l’hai fatto?!”
 
“Che ne sai? Magari avevo intenzione di provarci in un futuro molto prossimo.”, ribattei, non del tutto convinto dalle mie stesse parole.  
 
“Vorresti farmi credere che tu stavi seriamente pensando di…”
 
“Lasciamo perdere i capelli! E’ stato un esempio sciocco e non inerente, lo ammetto.”, sbuffai risentito, non riuscendo ad impedire alle mie labbra di formare un piccolo broncio.
 
“Su, non essere arrabbiata mia piccola Kitsune.”, mi sussurrò all’orecchio Gaara abbracciandomi stretto.
 
“Va bene – emisi in un sospiro -  ma, se mi abbandonerai di nuovo in caso di pericolo, ti denuncerò al WWF: sono un cucciolo in via d’estinzione, io, e non puoi lasciare che simili cacciatori di frodo cerchino di catturarmi.”, continuai con un’espressione fintamente seriosa.
 
“Ok, parola di boyscout.”
 
“Davvero lo eri?”, domandai con sospetto.
 
“Beh…no.”, rispose con un sorriso furbo dipinto sul volto.
 
“Mi chiedo perché diamine sprechi il mio tempo a parlarti.”, borbottai esasperato.  
 
“Perché mi vuoi bene?”, chiese con fare angelico.
 
“Già, dovrei smetterla…”
 
“Non te lo permetterei, non più.”, mi interruppe.
 
Lo guardai di sottecchi, ancora imprigionato tra le sue braccia, e sospirai per l’espressione assorta e seria che aveva assunto il suo viso.
 
Sospirai e mi rilassai nella sua stretta: mi sentivo improvvisamente esausto e la voglia di scherzare mi era passata rapidamente. Con ogni probabilità la tensione provata durante tutta la giornata aveva abbandonato il mio corpo, lasciandolo molle e privo di forze.
 
Era stata una faticaccia tenere a bada i ragazzi, ma, a parte qualche imprevisto, la prima lezione non era andata poi così male.
 
“A che pensi?”, mi chiese Gaara, mentre, continuando ad abbracciarmi, mi lanciava lunghe occhiate indagatrici.
 
“Ripensavo ad oggi – risposi con calma – me la sono cavata, vero?”
 
“Mm mm, sei stata eccezionale, piccola Kitsune, persino in mezzo a tutto quel parapiglia hai saputo mantenere fermezza e controllo.”
 
“Grazie, anche se non è del tutto vero.”, dissi, ma non potei fare a meno di sorridere leggermente.
 
Mi sentivo stranamente pago e soddisfatto, addirittura felice al pensiero di essere riuscito a superare questa piccola prova.
 
Mi lasciai sommergere da quel mare di positività e sperai che, nei giorni a seguire, questa continuasse ad accompagnarmi, rendendo un po’ meno insormontabili gli ostacoli posti sul mio cammino.
 
 
 
 
 
NA: Salve carissimi,
rieccomi qui con un nuovo capitolo di questa storia che, lo so bene, giunge con parecchi giorni di ritardo.
 
Non ho giustificazioni, ma lasciatemi dire che scriverlo è stato un vero e proprio parto!
 
Ho perso il conto di tutte le volte che l’ho riletto, delle parti che ho modificato e di quelle che ho aggiunto: credo che l’unico neurone rimastomi sia morto nello sforzo.
 
Spero davvero che vi piaccia, anche se, per quanto mi riguarda, non è per niente uguale a come l’avevo immaginato all’inizio.
 
Se avete qualche minuto di tempo, vi chiedo di lasciare un piccolo commento: fareste davvero la mia felicità.
 
Probabilmente ci saranno errori o incongruenze e mi scuso in anticipo per tutti gli orrori che sarete costretti ad incontrare.
 
Prima di salutarvi ringrazio chi ha inserito la storia tra le:
 
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  32. Yukikura
  33. yukiyama
  34. Yukki_chan
  35. _Edward_
 
 
Un ringraziamento speciale a chi ha recensito:
 
  1. EuphieKai
  2. Jo95
  3. Mekbul
 
 
Un grazie anche a chi si è semplicemente fermato a dare un’occhiata o ha letto questo nuovo capitolo.
 
I prossimi due capitoli saranno di transizione, perciò non avranno molte pagine e, considerando ciò, spero di riuscire ad aggiornare un po’ prima.
 
Un bacio,
Psyche.

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Capitolo 8
*** Essere gentili ripaga ***


NA: Salve carissimi! Vi rubo solo un attimo per ricordarvi che questo capitolo presenta nuovamente il POV di Sasuke e che le parti scritte così rappresentano i pensieri del protagonista. Per il resto delle note ci si rilegge a fine capitolo.
Buona lettura.
 
 
 
Brr, brr, brr, brr…
 
La rumorosa vibrazione del cellulare mi svegliò dal breve ed agitato sonno a cui mi ero abbandonato appena poche ore prima. Aprii un solo occhio e, infastidito da quel suono molesto che non accennava a smettere, allungai un braccio disattivando l’allarme, per poi coprirmi fin sopra la testa e tornare a dormire: oggi non sarei andato a scuola.
 
Mi rilassai nuovamente sotto le coltri calde, pago di quell’attimo di assoluta tranquillità e già pronto a farmi sommergere nuovamente dall’incoscienza, quando il cigolio della porta che veniva aperta ruppe il silenzio in cui ero avvolto.
 
“Otouto?”, mi chiamò piano Itachi, muovendo qualche passo incerto all’interno della stanza.
 
Finsi di stare ancora dormendo e aspettai pazientemente che uscisse, ma l’abbassarsi del materasso mi rese chiaro che mio fratello aveva tutt’altre intenzioni.
 
“So che sei sveglio, Sasuke, lo sento dal tuo respiro.”, disse, tirando giù le coperte.
 
Un brivido di freddo mi attraversò il corpo e mi affrettai a recuperare le lenzuola stropicciate, avvolgendomele poi intorno alla vita.
 
“Cosa vuoi Itachi?”, chiesi scorbutico, la voce ancora impastata dal sonno.
 
“E’ ora di alzarsi, altrimenti finirai col fare tardi a lezione.”
 
“Non corro nessun rischio, perché non ho alcuna intenzione di muovermi da questo letto.”, replicai, portando una mano a scostarmi i capelli dal viso.
 
“Stai male?”, mi domandò, la voce leggermente incrinata da una lieve nota di preoccupazione.
 
“Non ho riposato molto bene ieri sera.”
 
“In effetti quando sei rientrato dai corsi pomeridiani sembravi parecchio agitato: è successo qualcosa?”
 
“No, nulla di importante.”, risposi semplicemente, evitando di dare ulteriori spiegazioni.
 
“La lezione è stata interessante?”
 
“Direi che non convenzionale sarebbe un aggettivo più adatto a descriverla, ma non posso dire che sia stata noiosa.”, replicai, emettendo uno sbuffo infastidito.
 
“E il nuovo insegnante? Come se l’è cavata?”, domandò, un piccolo sorriso ad addolcirgli i tratti del viso.
 
“E’ stato bravo, ma questo non mi sorprende: non mi aspettavo niente di meno da una persona con le sue conoscenze linguistiche.”
 
“Cosa c’è che non va, allora?”, chiese, incrociando il mio sguardo.
 
“Niente, aniki, te l’ho già detto.”, risposi in tono duro, scocciato da tutta quell’insistenza.
 
Non volevo ripensare a quanto successo appena poche ore prima, non volevo provare nuovamente la sensazione del calore stordente dell’ira, né, tanto meno, volevo che mio fratello desse una spiegazione perfettamente logica per quel mio stato d’animo: non ero ancora pronto per accettare niente di razionale.
 
La voce del mio onii-san mi distrasse dalle elucubrazioni in cui mi ero perso e tornai a focalizzare la mia attenzione sul momento presente:
 
“Sasuke hai parlato a nostro padre di queste lezioni supplementari?”
 
“Non capisco perché tu mi abbia posto una domanda simile proprio in questo momento, soprattutto considerato il fatto che sai benissimo quale sia la risposta.”
 
“Volevo solo averne una conferma – disse con calma, per poi aggiungere con più trasporto – Se ad impensierirti è la reazione che potrebbe avere quando glielo comunicherai, potrei sempre cercare di convincerlo io a permetterti di cont…”
 
“Grazie Itachi – lo interruppi, la rabbia che scorreva impetuosa in ogni terminazione nervosa -  davvero, non saprei come fare a ricordare chi di noi due preferisca nostro padre, se tu non  me lo facessi presente in questi momenti.”, conclusi con sprezzo ed ironia.
 
Abbandonai le coltri disfatte del letto e mi diressi in bagno, intenzionato a non continuare oltre quell’assurda conversazione.
 
“Sasuke – mi bloccò prima che potessi varcare la soglia dell’altra stanza - sono tuo fratello maggiore, perciò per te rappresenterò sempre un muro da dover valicare. Probabilmente finirai per odiarmi, se già non provi questo sentimento, ma voglio che ricordi una cosa: ti voglio bene, otouto e te ne vorrò sempre.”
 
Strinsi i denti per impedirmi di rispondergli e, compiendo gli ultimi passi che mi mancavano, mi richiusi la porta alle spalle.
 
 
 
Appoggiai le mani sul ripiano del lavandino a mo’ di sostegno, gli occhi fissi sul riflesso che lo specchio mi restituiva.
 
“Chi sei?”, chiesi al giovane dalla pelle pallida e i capelli scuri che mi stava davanti.
 
Lui rimase muto a ricambiare il mio sguardo, le labbra strette in una linea sottile e amara, l’espressione tesa di chi non è capace di trovare una risposta.
 
Ed era esattamente così che mi sentivo.
 
Chi ero?
 
Potevo affermare per certo di essere un Uchiha, eppure il cognome che portavo non bastava a definirmi: rappresentava il retaggio della mia famiglia, pertanto solo una piccola parte di me.
 
Il resto era confuso, nascosto dalle maschere che mi ero abituato ad indossare e che, ormai, era difficile anche per me distinguere dall’originale.
 
Qualcosa, però, stava cambiando, proprio come avevo desiderato accadesse all’inizio dell’anno scolastico.
 
Percepivo una flebile scossa nella parte più remota del mio intero essere e, ogni giorno, questa cresceva di intensità, propagando le sue vibrazioni in tutto il resto del corpo.
 
Era come un terremoto: mi sconquassava senza alcuna pietà.
 
Ancor più destabilizzante della sensazione in sé e per sé era la consapevolezza di non conoscerne le cause, i fattori fisici o ambientali che mi avevano scatenato dentro una reazione simile.
 
Nel profondo della mia mente confusa si affacciava un’idea, una probabilità del tutto illogica che non ero disposto a prendere in considerazione.
 
Ma se avessi escluso anche quella, cos’altro mi sarebbe rimasto?
 
Non lo sapevo, ma ero certo che ci fosse qualcosa che non stavo prendendo in considerazione.
 
La frustrazione si faceva sempre più vivida ad ogni minuto di ogni dannata ora in cui non riuscivo a trovare una risposta ai miei dubbi.
 
Come se ciò non fosse bastato a rendermi più irascibile del solito, il desiderio che sentivo nei confronti di Uzumaki alimentava il tutto, similmente a quanto avviene dall’incontro tra fiamme e vento.
 
Il colore dei suoi occhi, il suo profumo, il suono della sua risata, perfino l’espressione imbronciata che assumeva durante i nostri litigi… tutto di lui era come una droga potente iniettata all’interno delle mie vene: mi causava sensazioni sconosciute, destabilizzanti e assuefacenti.
 
Per quanto io provassi a liberarmene con ogni grammo della mia forza, per quanto io potessi richiamare alla mente il fatto che avesse ferito il mio orgoglio preferendo un altro a me, quella proprio non riusciva a liberarsi del pensiero di lui.
 
Mi faceva incazzare, mi faceva incazzare oltre ogni dire questa mia debolezza appena emersa e già così forte da non potervi porre rimedio.
 
La mia rabbia non era rivolta ad Itachi, lui ne era stato solo il catalizzatore: era con me stesso che ce l’avevo, con me stesso e con la debolezza che stavo dimostrando.
 
Sospirai, distrutto dall’ennesimo esame interiore che, tra l’altro, non aveva prodotto alcun risultato soddisfacente.
 
Mi staccai dal lavabo a cui ero rimasto appoggiato fino a quel momento e mi infilai nella doccia così com’ero, lasciando che l’acqua fredda schiarisse i miei pensieri confusi.
 
Quando scesi d’abbasso mio fratello se ne era già andato, ma, dopo le parole che ci eravamo scambiati, non ne rimasi sorpreso.
 
Uscii di casa e mi affrettai verso la fermata dell’autobus che, fortunatamente, riuscii a prendere  senza troppe difficoltà, se si escludeva la confusione caotica all’interno del mezzo.
 
Arrivai a scuola perfettamente in orario e, come sempre, ad attendermi all’ingresso trovai uno stuolo di ragazze urlanti.
 
Non ero dell’umore giusto per tollerare le scemenze di quelle oche, così, senza farmi notare, girai attorno all’edificio e vi entrai dall’ingresso della palestra.
 
Varcata la soglia della V B, mi investirono le chiacchiere allegre dei miei compagni di classe.
 
“Cosa diamine avranno da essere così allegri?”, pensai scocciato, prendendo posto al mio solito banco.
 
La risposta mi giunse appena pochi attimi dopo da uno sprazzo della conversazione che Uzumaki stava intrattenendo con quel tipo strano dai capelli rossi: Kakashi, il professore di letteratura giapponese, sarebbe stato assente per un paio di giorni.
 
Per quanto fossi anch’io euforico per quell’inaspettato colpo di fortuna, mantenni un’espressione calma e composta, mentre, senza farmi notare, osservavo di sottecchi quel dobe parlare.
 
Venni distratto da quella malsana contemplazione dall’ingresso in aula del docente, così, cercando di concentrarmi, mi costrinsi a prestare attenzione alla lezione che stava per iniziare.
 
 
 
Stavamo seguendo il maestro Gai, supplente di Hatake per quel giorno, per i lunghi corridoi che portavano alla palestra.
 
Dopo aver passato le ore precedenti costringendomi all’immobilità assoluta e all’ascolto passivo delle lezioni, l’idea di praticare un po’ di moto non mi era affatto sgradita.
 
Fare un po’ di esercizio fisico, inoltre, avrebbe potuto aiutarmi a sfogare la frustrazione accumulata in quei giorni e a liberarmene una volta per tutte.
 
Fu per questo motivo che chiesi di poter prendere parte alla partita amichevole che l’Inuzuka si stava dando tanto da fare per organizzare, per questo e perché avrei potuto scontrarmi nuovamente con Uzumaki.
 
Arrivati al campo, Inuzuka e Nara furono scelti come capitani, perciò l’uno con entusiasmo e l’altro con una flemma invidiabile iniziarono a formare le squadre, chiamando noi compagni a turno.
 
Alla fine i due schieramenti vedevano contrapposti: Aburame, Sai, Akimichi, Shikamaru e il sotto scritto per la formazione blu, mentre Hiyuga, Kiba, Lee e Uzumaki formarono quella rossa.
 
Gai ci diede dieci minuti di tempo per stabilire un qualche tipo di strategia, i due gruppi si divisero ulteriormente e si riunirono in due capannelli mormoranti.
 
“Come decidiamo di procedere?”, chiese Nara, lasciando scorrere il suo sguardo su ciascuno di noi.
 
“Tu che avevi in mente?”, replicai seriamente.
 
Quel ragazzo era un vero e proprio genio in quanto a strategia: averlo in squadra e non sfruttare le sue abilità sarebbe stato da sciocchi.
 
Non mi ero mai ritenuto tale e non avrei di certo iniziato a comportarmi da idiota in quel momento, anche perché volevo assolutamente vincerla questa partita.
 
“Pensavo di stabilire con chiarezza i ruoli di ciascuno secondo le proprie abilità.”, mi rispose e la mia attenzione si focalizzò nuovamente su di lui.
 
“Concordo e proprio per questo ragionamento, a mio avviso, tu dovresti essere il playmaker.”
 
“Sarà una seccatura, ma se siete tutti d’accordo…”
 
Il resto della squadra annuì, perciò disse con uno sbuffo:
 
“Va bene, sarò io a chiamare gli schemi. Sappiate, però, che avrò bisogno della vostra collaborazione.”
 
“Conta su di noi.”, si fece avanti Akimichi e noi altri ci unimmo a lui nelle dovute rassicurazioni.
 
“Adesso stabiliamo gli altri ruoli, ok? – avuto il nostro breve consenso continuò – Credo che Choji dovrebbe essere l’ala grande, mentre Sai quella piccola. In quanto a te, Uchiha, dovresti ricoprire la posizione di guardia tiratrice, visto che, se non ricordo male, hai un buon tiro. Per finire Shino tu saresti perfetto come centro, data la tua altezza e il tuo salto,  ma se la mia idea non vi aggrada possiamo sempre decidere diversamente.”
 
“Per me va bene.”, dissi con sicurezza.
 
Quando anche tutti gli altri si furono dichiarati d’accordo, proseguì spiegando la strategia di gioco che aveva in mente:
 
“Per adesso non sappiamo con quale formazione giocheranno i nostri avversari, perciò non possiamo far altro che limitarci ad una difesa a zona, considerare le abilità di ciascuno e, mentre pensiamo ad una controffensiva efficace, segnare dalla linea esterna più tiri possibili…”
 
Il fischio del professore interruppe la nostra consulta e ci dirigemmo verso il campo, prendendo ciascuno la posizione assegnataci da Nara: sembrava che la squadra fosse bilanciata e, considerato ciò, le nostre probabilità di vittoria non erano affatto irrisorie.
 
Guardai attentamente la disposizione dell’altro gruppo e, con mia enorme soddisfazione, notai che Uzumaki ricopriva il mio stesso ruolo; al centro Neji attendeva che l’arbitro desse inizio alla partita, mentre Inuzuka e Lee si posizionavano difronte ad Akimichi e Sai; per finire, nella posizione di pivot, Gaara no Sabaku se ne stava muto ed impassibile come suo solito.
 
Dagli spalti giungevano fastidiose le urla di incoraggiamento delle ragazze e di quanti avevano deciso di non prendere parte alla partita, ma, nonostante ciò, il suono acuto del fischietto giunse comunque chiaro alle nostre orecchie.
 
La palla, lanciata in aria con forza eccesiva da Gai, venne recuperata da Shino che, immediatamente, la passò indietro al nostro playmaker, mentre io e Sai correvamo in avanti.
 
Quel ragazzo non mi piaceva, ma in questa occasione eravamo compagni di squadra e, considerati i ruoli che ricoprivamo, non avremmo potuto fare a meno di collaborare: speravo solo che le nostre possibili incomprensioni non avvantaggiassero gli avversari.
 
Lo guardavo palleggiare, attendendo febbrilmente che si decidesse ad eseguire un passaggio nella mia direzione, quando un lampo dai capelli rossi gli sottrasse il pallone di mano, partendo velocemente in direzione della nostra metà campo.
 
La squadra di Sabaku si affrettò in avanti per dargli supporto e, prima che chiunque di noi potesse far nulla per impedirglielo, questi tirò in sospensione direttamente  a canestro.
 
“E’ fuori.”, esultai internamente, notando la traiettoria della palla e rilassandomi appena.
 
Neanche un minuto dopo aver formulato questo pensiero, Uzumaki, spiccando un balzo incredibile, afferrò il pallone ed eseguì un perfetto alley-oop.
 
Rimasi completamente strabiliato, immobile come una statua di sale: avevo visto eseguire quei movimenti solo in televisione durante una partita professionistica del NBA.
 
“Uchiha svegliati: marcatura ad uomo su Naruto, adesso!”, gridò Nara, riportandomi al presente dalla trans in cui ero caduto.
 
Imprecai sottovoce e corsi alle calcagna del dobe che, per niente intimorito dalla mia minacciosa presenza, ebbe l’ardire di sorridere e dire con tono spavaldo:
 
“Siamo già in vantaggio, teme.”
 
“Non per molto, dobe.”, replicai quasi ringhiando.
 
“Lo sai, vero, che ti ci vorrà più di qualche parola per riuscire a battermi…”
 
“Puoi star tranquillo che ti darò del filo da torcere.”, lo interruppi con risolutezza.
 
“Bene, perché è proprio ciò che voglio.”, disse e, cogliendomi alla sprovvista con uno scatto veloce, si liberò momentaneamente della mia marcatura.
 
Riuscii a riagguantarlo e, dopo aver intercettato un passaggio a lui rivolto, mi lanciai in un contropiede serrato alla fine del quale riuscii a segnare un tiro da tre.
 
Il loro centro, il maledetto Hiyuga, riprese palla, dando nuovamente il via all’azione avversaria.
 
 
La partita procedette con azioni di difesa ed attacco da entrambe le parti e, alla fine del primo quarto, i punteggi delle due formazioni non differivano che di qualche punto.
 
Ci riunimmo nuovamente in capannello per decidere come agire durante il secondo quarto e Shikamaru prese subito la parola:
 
“Dunque facciamo il punto della situazione: conosciamo lo stile di gioco di Kiba e Lee, ma fino a questo momento, non avendo mai preso parte ad una partita, eravamo completamente all’oscuro delle abilità di Neji e Sabaku. Inoltre mi sembra evidente che Naruto non stesse affatto dando fiato alla bocca, quando ci ha raccontato della sua passione per questo sport: si vede che giocare lo entusiasma e lo fa in modo strabiliante.”
 
“Già, utilizza uno stile particolare.”, aggiunsi, quasi sovrappensiero.
 
“Che intendi?”, chiese Shino con curiosità.
 
“Non esegue movimenti canonici, giusto?”, intervenne nuovamente Nara.
 
“Esatto.”
 
“Come se ciò non bastasse, ha un ottimo controllo di palla… Uchiha te la sentiresti di stargli ancora più addosso da ora in poi?”
 
“Ovvio che sì.”, risposi con foga.
 
“Bene, prova a stoppare i suoi tiri: ha un’ottima elevazione, ma tu sei più alto e con un po’ di sforzo dovresti riuscirci. In quanto a voi altri – disse, rivolgendo la sua attenzione al resto della squadra – mantenete le posizioni e prestate attenzione al loro pivot.”
 
“Ricevuto.”, affermò Akimichi per il resto del gruppo e, dopo un breve incoraggiamento, fummo pronti a riprendere il gioco.
 
 
A metà del secondo quarto la fatica iniziava a farsi sentire, ma tutti cercavamo di tenere duro e continuare a dare il meglio in quella lotta all’ultimo rimbalzo.
 
Ero a pochi centimetri da Naruto, alle volte le nostre braccia, le gambe o i bacini si sfioravano e, quando accadeva, una scossa di eccitazione mi correva lungo la spina dorsale.
 
Il desiderio di toccare quel corpo mi spingeva a farmi sempre più vicino al mio avversario, quanto meno fino al limite consentitomi dal regolamento.
 
La mia mente stava abbandonandomi ed ero veramente stanco, eppure mi sentivo in qualche modo anche incredibilmente leggero, come se un enorme peso avesse smesso di gravarmi addosso.
 
Immerso nell’avvolgente sensazione di benessere che mi aveva invaso, notai solo quando mi fu accanto che Sai si era avvicinato e stava marcando il biondo.
 
“Che diamine combina? Lui dovrebbe occuparsi di Kiba.”, pensai infastidito e gli lanciai uno sguardo truce per renderglielo palese.
 
Quello mi ignorò bellamente, ma ai nostri avversari non sfuggì il vuoto che aveva lasciato e, con una rapida serie di passaggi, Inuzuka e Gaara portarono a termine un perfetto Pick & Pop.
 
 
Quando venne fischiato il break, gli chiesi senza alcun preambolo:
 
“Perché non hai seguito gli schemi stabiliti?”
 
“Mi sembravi in difficoltà e ho pensato che raddoppiare la marcatura su Uzumaki potesse essere utile.”
 
Prima che potessi rispondergli a tono, mettendo subito in chiaro che non credevo affatto alle sue parole, Nara intervenne dicendo:
 
“Sospettavo che Sabaku si aspettasse una simile eventualità, in fin dei conti è perfettamente logico cercare di fermare il giocatore più forte, ma di conseguenza un compagno di questi sarà smarcato e potrà portare avanti l’azione.”
 
“Che facciamo Shika?”, chiese Akimichi.
 
“Atteniamoci a quanto detto in precedenza: non devono più riuscire a segnare.”
 
 
Il terzo quarto vide la nostra squadra in difficoltà con uno svantaggio di ben venti punti sull’altra.
 
Causa di quel repentino cedimento altri non era che quella sottospecie di ermafrodito: stava continuando a stare addosso al biodo non attenendosi agli schemi.
 
Se, quantomeno, avesse cercato sul serio di ostacolarne il gioco, avrei anche potuto sopportarlo, ma si limitava a mantenere una distanza irrisoria e a strusciarsi quando poteva.
 
Anche Uzumaki sembra non sopportare la marcatura del giocatore, tuttavia, malgrado lui fosse in evidente difficoltà, i suoi compagni stavano proseguendo le loro azioni autonomamente, segnando una marea di punti.
 
Distratto dalla rabbia verso l’altro, fui colto alla sprovvista dal dobe che, con un gioco di gambe e una finta, riuscì a liberarsi dal mio pressing, correndo come una scheggia in direzione del canestro.
 
Lo seguii a ruota, provando a recuperare il pallone, ma Naruto fu abile a non permettermelo e concluse la sua azione con una spettacolare schiacciata.
 
Dimentico per qualche secondo della partita, ne ammirai il corpo snello che si reggeva al canestro con grazia, i muscoli messi in evidenza dalla maglietta bagnata di sudore e non potei fare a meno di pensare che fosse davvero bello.
 
Il mio inguine si risvegliò come a darmi ragione, ma quello non era esattamente il momento migliore per eccitarsi o per attentare alla virtù del biondo.
 
“Presto.”, pensai, stringendo una involontaria promessa con me stesso.
 
Quando interruppi la mia osservazione meditabonda, notai che Uzumaki si stava ancora reggendo al canestro, commettendo un’infrazione abbastanza grave e che non mi sarei aspettato da un giocatore come lui.
 
Allargando il mio campo visivo dal dobe a quello che lo circondava, notai, però, che Sai era fermo esattamente sotto l’altro ragazzo.
 
“Spostati idiota! – gli urlai contro agitato – finirai per farti m…”
 
Non ebbi neanche il tempo di concludere la frase, che Uzumaki perse la presa e ricadde al suolo travolgendolo inevitabilmente.
 
Eliminai i pochi metri che ci separavano in un battito di ciglia, preoccupato dal fatto che uno dei due potesse essersi fatto male sul serio.
 
Quando fui abbastanza vicino, notai subito che, a differenza di quanto credevo, Sai era perfettamente in forma e, anzi, cercava di trattenere Uzumaki sopra di sé.
 
La mia rabbia esplose.
 
Afferrai il biondo e lo strappai letteralmente dalle mani a tentacolo dell’altro moretto, poi, continuando a tenere il dobe stretto a me, ringhiai alla merda rimasta in terra:
 
“Ringrazia che non ti uccida qui e ora, stronzo.”
 
“Sasuke…”, mi giunse flebilmente la voce del biondino al mio fianco.
 
“Stai bene?”, gli chiesi con tono gentile, visto che sembrava parecchio scosso e abbastanza preoccupato.
 
“Sì, ho solo una piccola sbucciatura al ginocchio, ma…”
 
“Cosa?!”, lo interruppi, gli occhi che sprizzavano lampi e fulmini.
 
“Scusa, davvero, non volevo fargli male.”, aggiunse in tutta fretta.
 
“Ma di cosa diamine sta parlando? Non mi dire che si sta preoccupando per quella sottospecie di…”
 
“Lui è apposto, qui l’unico che rischia un’infezione sei tu: andiamo in infermeria, adesso!”, ordinai e, senza attendere una sua risposta, lo trascinai attraverso il capannello che gli altri giocatori ci avevano formato intorno.
 
Mi giungevano come ovattate le voci degli altri che chiedevano spiegazioni, che cercavano di capire cosa fosse successo, ma non avevo né il tempo né la voglia di spiegar loro che un maniaco aveva rischiato di restarci e far ferire un compagno per approfittarsi di quest’ultimo.
 
Il cammino fino all’infermeria della scuola fu scandito solo dal rumore dei nostri passi e, una volta giuntivi, parlai esclusivamente per obbligare Uzumaki a sedersi su uno sgabello.
 
Quando ebbe eseguito la mia gentile richiesta, ne presi un altro e lo posizionai davanti a lui, sollevandogli poi la gamba su cui spiccava un taglio rosso e sporco.
 
“T-teme, ma che fai?”, mi chiese con tono sorpreso.
 
“Non è evidente, dobe? Cerco di capire di che entità sia il danno: questa ferita non ha un bell’aspetto.”, replicai, continuando ad accarezzare con delicatezza la pelle intorno al taglio.
 
“E’ solo un graffietto: guarirà in un paio di giorni.”
 
“Mm, in ogni caso sarà meglio medicarlo.”, dissi con risolutezza.
 
Riappoggiai con attenzione la sua gamba in terra e mi affrettai a recuperare la cassetta del pronto soccorso: fortunatamente al suo interno c’era tutto ciò di cui avevo bisogno.
 
Un silenzio rilassato calò tra di noi, mentre disinfettavo con attenzione la ferita aperta e ripulivo la pelle intorno dal sangue essiccato.
 
“Questa situazione è un po’ strana.”, ridacchiò.
 
“Perché?”
 
“Beh, come la definiresti? Devi ammettere che non è usuale che Sasuke Uchiha si prenda cura di Naruto Uzumaki: solitamente preferiamo accapigliarci, hai presente?”, chiese in modo retorico, scuotendo le spalle.
 
“Sto solo rimediando al guaio combinato dal mio compagno: lo ha fatto di proposito.”, risposi, evitando il suo sguardo.
 
“Lo so. Quando mi è venuta a mancare la presa sul canestro, ho provato a non finirgli addosso, ma non ci sono riuscito. Mi dispiace, Sas’ke.”
 
“Ma per quale diamine di ragione si sta scusando di nuovo? Gli ho appena detto che la colpa è tutta di quello stronzo…”, considerai scocciato.
 
“Non te la cavi affatto male a basket, sai teme?”, disse, spezzando il corso dei miei pensieri.
 
“Mm, detto da uno che gioca come Michael Air è un gran bel complimento.”
 
“Ah, ah, ah – rise di gusto e mi trovai anch’io a fare un piccolo sorriso – non sono affatto ai livelli di Michael Jordan.”
 
“Forse, ma hai talento: non avevo mai visto un gioco come il tuo.”
 
“Ti assicuro che non è nulla di particolare. In America molti ragazzi giocano per le strade, in campi improvvisati o anche in mezzo alle strade dei quartieri più poveri e lì ogni movimento è espressione dell’abilità del giocatore. Difficilmente ci si limita ai fondamentali classici o si bada alla tecnica, ma credo che ne avrai sicuramente sentito parlare: è il nuovo mondo dello street basket.”
 
“E’ vero, ma non l’avevo mai visto praticare coi miei occhi.”, ammisi senza scompormi e recuperai un cerotto dalla cassettina.
 
“Oh, davvero? Comunque posso garantirti che hai davanti solo un giocatore mediocre.”
 
“Se quella che ho visto lui la chiama mediocrità, non oso pensare a che razza di mostri giochino negli stati uniti.”
 
Per un breve attimo incrociai i suoi occhi alla ricerca di tracce di menzogna o finta modestia, ma l’unica cosa che trovai fu un’inspiegabile scintilla di tristezza.
 
“Perché? – iniziai a chiedermi ininterrottamente – Perché mai questo dolore?”
 
Stavo cercando di darmi una risposta sensata, estraniato dal contesto in cui mi trovavo, quando la voce di Uzumaki mi giunse alle orecchie:
 
“Hai finito Sas’ke?”
 
“Mm?”, mugugnai distratto, mentre con delicatezza continuavo a passare il dorso della mano sul suo polpaccio.
 
“La medicazione...”, rispose con una sorta di singulto strozzato.
 
“Ah, sì ho fatto.”, dissi, interrompendo le carezze del mio arto destro.
 
“Grazie.”, replicò, le guance colorate da un lieve rossore.
 
Senza rendere palese l’imbarazzo che anch’io stavo provando a causa del mio gesto involontario, replicai tranquillamente:
 
“Di niente, piuttosto riesci a tornare al campo da solo? Ho bisogno di recuperare una cosa in classe.”
 
“Certo, vai pure e non preoccuparti.”
 
“Bene ci vediamo tra un po’.”, lo salutai e uscii di corsa dall’infermeria.
 
 
 
 
Mi allontanai rapidamente e senza voltarmi indietro, agitato oltre ogni dire per quello che era appena successo: a cosa accidenti stavo pensando?
 
“Tu non stavi pensando affatto!”, dichiarò risoluta una voce identica alla mia all’interno della mia testa.
 
Probabilmente aveva ragione lei, altrimenti mai mi sarei soffermato ad accarezzare quel corpo, quantomeno non in quel modo delicato e senza alcun secondo fine.
 
Era tutta colpa di quel dobe, della sua pelle che ora sapevo essere morbida, della sua risata argentina e del marasma di sensazioni che mi faceva provare, mandandomi in pappa il cervello.
 
Ecco perché avevo dovuto inventare una scusa qualunque e correre via, lontano da lui: avevo bisogno di rimettere in moto i neuroni e riprendere il controllo di me stesso, tutto qui.
 
La mia non era affatto, e sottolineo affatto, una fuga.
 
Entrai in classe e i vetri delle finestre mi restituirono il riflesso del mio volto: sembrava contrariato anche più del solito.
 
Con uno sbuffo mi sedetti al mio posto e, cercando di mantenere una parvenza di razionalità, ritornai col pensiero a quanto successo in infermeria.
 
Se in un primo momento i miei ricordi si focalizzarono sul mio innaturale comportamento, subito dopo, quasi senza rendermene conto, iniziai ad esaminare quello di Naruto.
 
Fu con estrema precisione che mi tornarono alla mente le sue guance rosse di imbarazzo e il rantolo strozzato che aveva emesso cercando di chiedermi se avessi finito di medicarlo: magari era più interessato a me di quanto credessi o forse era solo la situazione a renderlo agitato.
 
“Ma che importanza vuoi che abbia? Avresti dovuto saltargli addosso mentre era completamente inerme tra le tue mani, baka!”, giunse di nuovo a farsi sentire la voce della mia coscienza o chi per lei.
 
Non potei fare a meno di annuire, dandole pienamente ragione e auto insultandomi per non aver approfittato subito della ghiotta occasione che mi era stata concessa.
 
Le mie elucubrazioni vennero interrotte da una voce familiare e quanto mai sgradita:
 
“Oh sei qui.”
 
“Che vuoi Hiyuga?”, gli chiesi irritato, voltandomi nella sua direzione.
 
“Sono venuto a cercarti: mancavi da un po’, così ho chiesto a Naruto dove fossi finito.”
 
“Dovevo solo sbollire un po’ di rabbia - Già, quella e qualcos’altro.”, aggiunsi silenziosamente.
 
“Lo immaginavo, ma adesso puoi star tranquillo e tornare senza la preoccupazione di spaccare il naso a qualcuno.”
 
“Oh davvero?”
 
“Già, ho notato che Uzumaki ti piace…”
 
“Sì, non è certo un segreto che i bei ragazzi mi abbiano sempre attirato.”, lo interruppi, l’espressione vacua e impassibile.
 
“… così ho deciso di ricambiare il favore che mi hai fatto.”, continuò senza badare alle mie parole.
 
“Spiegati.”
 
“Con una scusa ho convinto Sai a seguirmi nel magazzino degli attrezzi e poi ce l’ho chiuso dentro, così ora puoi passare il resto delle due ore di Kakashi a far compagnia al tuo biondino sugli spalti o, nel caso voglia riprendere la partita, a scontrarti con lui senza più scocciatori.”
 
“Che inaspettata gentilezza, Hiyuga.”, dissi, mentre un enorme ghigno mi si dipingeva sul volto.
 
“Sto solo saldando un debito: non voglio avere faccende in sospeso con nessuno, men che meno con te.”
 
“Quindi non c’è bisogno che ti ringrazi…”, insinuai con tono divertito.
 
“Sì, puoi anche risparmiartelo – replicò allo stesso modo -  Vogliamo andare, adesso?”, aggiunse poi, aprendo la porta dell’aula e facendomi segno di precederlo.
 
“Mm.”, mugugnai in risposta e con poche falcate veloci varcai la spoglia soglia della classe.
 
Percorremmo i corridoi deserti in un silenzio forzato, visto che nessuno dei due aveva la voglia o la confidenza di intraprendere un qualche tipo di conversazione.
 
Mi rifugiai, perciò, nei miei pensieri e, tra i molti, uno particolarmente divertente mi sfiorò la mente:
 
“Forse, se essere gentile porta a questo scambio di favori, dovrei comportarmi più spesso da bravo ragazzo…  -  soppesai l’idea per un attimo, poi con un vero e proprio sorriso sul volto conclusi –  Magari dovrei, ma dove starebbe, a quel punto, il divertimento?”
 
Annuì per dare conferma e valore alle mie stesse considerazioni e, con rinnovato celato entusiasmo, mi affrettai a raggiungere il campo da basket: in fin dei conti c’era un dobe ad attendermi e un vero gentiluomo non fa mai attendere la sua dama.
 
 
 
 
NA: Salve carissimi,
come promesso questa volta sono riuscita ad aggiornare abbastanza in fretta. Spero che il primo dei due capitoli di transizione vi sia piaciuto e di riuscire a postarvi presto l’altro. Vi anticipo che, insieme al capitolo sette, ci sarà anche una sorpresa: non so se vi sarà gradita, ma spero tanto che sarà così.
 
In ogni caso, passando alle cose importanti, è necessario che faccia alcune precisazioni e prima tra tutte, per una questione di chiarezza, spiegare i ruoli del basket di cui ho parlato.
 
Playmaker:  è colui che chiama gli schemi della squadra. Solitamente è il giocatore dotato di maggiore rapidità e di migliore controllo di palla con entrambe le mani. Le caratteristiche fondamentali di questo ruolo rimangono comunque la grande visione di gioco e la capacità di servire i compagni con passaggi smarcanti. Negli Stati Uniti viene chiamato point guard.
 
Guardia tiratrice:  è il giocatore dotato del miglior tiro della squadra. Spesso i compagni fanno blocchi al suo difensore per permettergli di tirare più libero.
 
Ala grande o Ala forte:  è uno dei giocatori più alti della squadra ma non il più forte fisicamente. Generalmente si tratta di un giocatore di alta statura, ma con una discreta velocità di piedi.
 
Centro o Pivot:  è il giocatore più alto e più pesante della squadra (in Europa i migliori raggiungono i 210 cm e i 120 kg, nella NBA i centri dominanti in media superano i 215 cm e i 130 kg). Questo giocatore gioca nel cuore dell'area e i suoi movimenti palla in mano sono "spalle a canestro". Sfruttando la sua mole deve prendere la maggior parte dei rimbalzi, cercare di stoppare gli avversari e portare blocchi per liberare i propri compagni.
 
Ala piccola:  questo ruolo è ricoperto solitamente da un giocatore molto dotato fisicamente e in grado di marcare sia avversari più piccoli e veloci che più alti e pesanti. Per quanto riguarda l'attacco talvolta viene definito come "giocatore a due dimensioni" perché può essere in grado sia di giocare lontano da canestro sfruttando il suo tiro dalla distanza, sia di prendere posizione vicino al ferro se marcato da avversari più piccoli.
 
Le tre azioni che ho descritto, invece, consistono in questo:
 
Schiacciata: la schiacciata è senza dubbio la conclusione più spettacolare della pallacanestro. Non a caso, gli atleti che si sono distinti nelle schiacciate sono rimasti i più celebri (uno su tutti Michael "Air" Jordan). Dopo la schiacciata il giocatore non può rimanere appeso al ferro, salvo per non cadere addosso ad un altro giocatore, altrimenti il "colpevole" viene sanzionato con un fallo tecnico. In favore dello spettacolo, questa infrazione viene spesso tollerata dagli arbitri, che fischiano solo quando il giocatore esagera nel rimanere "appeso", o comunque si issa sul ferro facendo leva sui bicipiti.
 
Alley-oop:  il cosiddetto alley-oop è una giocata estremamente spettacolare che necessita di una buona coordinazione, doti atletiche e affiatamento tra due compagni. Un giocatore effettua un passaggio alto, normalmente non teso, verso il ferro (senza tirare), mentre un compagno salta, afferra la palla al volo e la schiaccia o appoggia a canestro.
 
Pick & Pop:  è la variante del Pick & Roll nella quale il bloccante si allarga lontano da canestro per poter effettuare un tiro da fuori.
 
Non sono un’esperta di questo sport, ma mi piace parecchio, adoro seguirlo e arricchire le mie conoscenze in questo campo: chi tra voi se ne intendesse più di me non esiti a farmi precisazioni o a correggere mie convinzioni errate.
 
Detto questo, ci tengo a precisare che i pensieri di Sasuke sono volontariamente confusionari e uniti da un filo logico che solo lui, a volte, è in grado di seguire o quanto meno percepire.
 
Non posso essere più chiara nell’espressione dei suoi sentimenti o si certi dettagli di ciò che pensa o dice perché, essendo la storia narrata dal POV dei personaggi, devo attenermi a quanto loro sanno, comprendono o cercano di capire.
 
Nel caso presente Sasuke continua ad essere molto confuso su ciò che sente, quelle che lui chiama sensazioni e che lo portano ad agire in modo diverso da come si comporterebbe di solito.
 
Per la stessa ragione ci sono cambi repentini nella azioni che vorrebbe compiere: un minuto di chiara di non voler più pensare al biondo e quello dopo ricomincia ad andargli dietro o ancora in certi minuti fugge dalla sua compagnia in altri la ricerca.
 
Per intenderci: Sasuke crede di sapere ciò che vuole, ma in realtà non lo sa affatto.
 
Bene, spero che, malgrado tutto, questo capitolo possa piacervi.
 
Se avete un attimo del vostro tempo da dedicarmi, lasciate una recensione alla storia: farete la mia felicità!
 
Ringrazio sentitamente quanti hanno inserito la storia tra le:
 
 
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35 - Yukki_chan
36 - _Edward_
 
 
Inoltre un ringraziamento speciale va a quanti hanno recensito:
  1. mekbul
  2. Jo95
  3. Ryanforever
 
 
Ringrazio quanti hanno semplicemente letto o anche solo dato un’occhiata a questo nuovo capitolo.
Un bacio,
Psyche
 
 

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Capitolo 9
*** Voglia di chiarimenti ***


NA: Salve a tutti! Vi rubo solo un attimo per ricordarvi che questo è il II capitolo di transizione, che il POV è quello di Naruto, che le parti scritte così rappresentano i pensieri del personaggio e quelle che troverete così sono in inglese.  Spero davvero che vi piaccia…
Buona lettura.
 
 
 
 
La fioca luce della lampada da scrivania che avevo acquistato al mio arrivo a Tokyo, illuminava appena le nere linee di inchiostro sul foglio di carta di un bianco purissimo.
 
I quattro spazi ancora intonsi sembravano quasi attendere che io li riempissi, ma il bisogno di mettere per iscritto le mie emozioni tormentate era sparito improvvisamente, così come si era presentato.
 
 
Mi ero svegliato nel cuore della notte in preda ad un terrore paralizzante, il respiro affannato e le guance bagnate dal pianto come spesso era accaduto in quest’ultimo mese.
 
Sapevo che erano solo mie proiezioni oniriche, eppure era difficile ricordarlo a me stesso quando quelle sembravano così maledettamente reali: non potevo far altro che abbandonarmi ad esse, rivivendo le stesse orribili scene fino al momento del risveglio.
 
Oggi non era bastato.
 
Avevo spalancato i miei occhi arrossati, quegli stessi occhi con cui ogni volta ristabilivo il mio contatto con la realtà, eppure questa volta non era stato sufficiente.
 
Non era semplicemente un’inquietudine strisciante quella che stava soffocandomi, togliendomi respiro e  senno, ma una sensazione… sì, una sensazione di una tale mefistofelica intensità da interrompere ogni mia funzione vitale.
 
Avvertii chiaramente il cuore rallentare il suo battito, i polmoni bruciare in cerca d’aria, ogni muscolo contrarsi in spasmi involontari.
 
Nuove lacrime si formarono agli angoli dei miei occhi, se come conseguenza della mancanza d’aria o della consapevolezza di essere arrivato alla fine non saprei dirlo.
 
Abbassai le palpebre, deciso ad accogliere quell’ultima esperienza senza porle alcuno ostacolo: in fin dei conti ciò avrebbe solo prodotto un aumento del dolore ed io ero stanco di soffrire.
 
Quello che volevo era abbandonarmi alla pace dei sensi, lasciare che le tenebre ricoprissero tutto e che nascondessero ogni cosa su cui si fossero posate.
 
Ma ero davvero pronto a consegnarmi nelle mani della morte?
 
La mia anima lottò strenuamente per rimanere ancorata al mio corpo, non ancora disposta a lasciare la sua sede temporanea e tanto mi fu sufficiente come risposta.
 
Cercai di emergere dal mare oscuro che stava tentando di inghiottirmi, ma il suo fondale era troppo profondo ed io così esausto da non riuscire a sollevarmi da esso.
 
Stavo abbandonandomi ai voleri del fato, quando il timbro caldo e allegro della voce di mia madre risuonò chiaro nella mia mente…
 
“…quando avevi solo pochi mesi piangevi e piangevi, preoccupando a morte me e tuo padre perché proprio non riuscivamo a capire il motivo per il quale tu lo facessi.
 
Il pediatra continuava ad assicurarci che non ci fosse nulla che non andasse, eppure i momenti in cui potevamo godere del tuo sorriso sdentato erano davvero rari.
 
Accadde dopo l’ennesima notte passata insonne a cullarti, Minato riposava in camera da letto prima di tornare a lavoro ed io ero scesa in cucina con te per evitare di disturbarlo.
 
Quel giorno, come facevo spesso, accesi la radio per ascoltare le previsioni sul traffico cittadino, un’abitudine che avevo preso da quando non accompagnavo più tuo padre in ufficio.
 
Il mio stato di sonnolenza perenne deve avermi fatto selezionare la stazione sbagliata, perché, anziché dalla voce del solo speaker, la stanza venne riempita dall’assordante musica di una delle tante rock band emergenti.
 
Mi affrettai subito verso il rumoroso marchingegno intenzionata a spegnerlo: non volevo certo che tu ti agitassi più di quanto già non stessi facendo!
 
Stavo per girare la manopola, quando mi accorsi che tu avevi smesso di piangere.
 
Ero così sorpresa, piccolo mio, che quasi non riuscivo a crederci, ma da quel giorno io e tu padre ricorremmo spesso a questo stratagemma per calmarti e funzionò ogni volta.
 
A pensarci bene credo proprio che sia il caso di dire che il tuo amore per la musica ti abbia accompagnato fin dai tuoi primi mesi di vita, perciò, se durante le assenze mie e di Minato dovessi sentirti solo o triste, rifugiati in quel mondo fatto di note, pause e chiavi.
 
Sono certa che lì troverai il conforto di cui hai bisogno e ricorda sempre che io e tuo padre ti vogliamo un modo di bene, capito Naruto?
 
Qualsiasi cosa accada non dubitarne mai, figlio mio, non dubitare mai del nostro amore per te…”
 
Ricordavo perfettamente l’occasione nella quale mia madre aveva pronunciato quel lungo discorso: lei e mio padre stavano per lasciarmi al collegio e io piangevo perché non volevo che se ne andassero senza portarmi con loro.
 
Solo adesso riuscivo a rendermi conto del dolore che gli avevo provocato in quell’occasione, ma soprattutto potevo quasi avvertire il profondo affetto che con quelle parole stavano cercando di infondermi.
 
Fu quella consapevolezza, il credere senza più riserve che i miei genitori mi amassero a permettermi di ribellarmi alle tenebre che stavano cercando di inghiottirmi e a vincerle una volta per tutte.
 
 
 
 
Dopo quell’esperienza, però, non ero più riuscito a prendere sonno e, cedendo ad una tentazione che nutrivo da molto tempo, lasciai che ogni emozione scorresse irruenta attraverso le note di un pentagramma.
 
Quando fui costretto ad abbandonare la mia casa ed i pochi legami che con fatica ero riuscito a stringere, presi la decisone che non avrei più composto musica: volevo conservare intatte la rabbia, l’amarezza e la delusione che sentivo e sapevo che, se mi fossi concesso di dar voce ai miei sentimenti tormentati, non avrei mai potuto riuscirci.
 
Il mio comportamento aveva un che di autolesionistico, adesso riuscivo a comprenderlo, ma, in quei pochi attimi nei quali avevo sentito ogni certezza sgretolarsi, credo di non essere stato molto presente a me stesso.
 
Nell’esatto momento in cui la penna aveva iniziato a scorrere veloce sul foglio, realizzai di poter rivelare il segreto alla base di ogni mia paura nascosta senza alcun pericolo né per me né per gli altri e mi sentii per la prima volta, da un mese a questa parte, nuovamente libero.
 
Avevo scritto per ore e per questa sera probabilmente era abbastanza.
 
Sospirai e con un movimento pigro stiracchiai i muscoli intorpiditi, poi, come avevo già fatto una decina di volte, stropicciai gli occhi nel tentativo di lenirne il bruciore.
 
“Che fai ancora sveglio a quest’ora?”
 
Sobbalzai e con un movimento repentino del corpo mi voltai in direzione della porta.
 
“Gaara mi hai spavento!”, dissi, forse un po’ troppo duramente.
 
“Mi dispiace, ma è stata una sorpresa trovarti ancora in piedi.”
 
“Non scusarti, dovrei essere io a farlo visto il modo in cui ti ho risposto.”
 
“La mia kitsune è po’ nervosa, questo è piuttosto evidente: cosa è successo mentre non c’ero?”, chiese con una nota di preoccupazione.
“Ho avuto uno dei miei incubi, solo che questa volta è stato seguito da un vero è proprio attacco di panico… o almeno credo che si trattasse di questo.”
 
Si avvicinò lentamente e, una volta che fu abbastanza vicino, iniziò ad accarezzarmi i capelli in quello che, presupponevo, volesse essere un gesto di conforto.
 
“Avrei dovuto essere con te una volta tanto che sei tu ad aver bisogno del mio aiuto.”
 
“Non c’è nulla per cui sentirsi in colpa – replicai seriamente – Non era possibile prevedere che accadesse una cosa del genere.”
 
“Né il modo in cui ho reagito.”, pensai mestamente, ma tenni quel particolare per me.
 
Gaara sembrava già parecchio in ansia e non volevo impensierirlo ulteriormente, né dargli un motivo per dubitare della mia sanità mentale: in fin dei conti abbandonarsi passivamente alla morte, anche se solo per brevi attimi, non è un comportamento che avrebbe tenuto chiunque.
 
“Come è andata la tua serata?”, domandai nel tentativo di cambiare argomento.
 
“E’ stata piacevole, ma lo sarebbe stata molto di più se tu fossi venuto con me.”, rispose, mentre un piccolo ghigno gli si dipingeva sul volto.
 
“Forse sarebbe stato meglio, visto che alla fine non sono comunque riuscito a dormire parecchio.”
 
“Hai pensato alla possibilità di prendere dei sonniferi?”, chiese con serietà.
 
“Non ho intenzione di imbottirmi di pillole: faccio già abbastanza fatica ad alzarmi la mattina senza bisogno di alcun aiuto esterno. Molto probabilmente il trasferimento e tutti i cambiamenti che ne sono conseguiti saranno la causa di questa inquietudine notturna, perciò non c’è ragione di allarmarsi tanto. Inoltre potrei rifilarti lo stesso consiglio.”
 
“Eh?”, emise, mentre un’espressione sorpresa gli si dipingeva sul viso per la piega imprevista che aveva preso il discorso.
 
“Ricorderò male, ma non eri tu quello che soffriva di insonnia?”, replicai con finta indifferenza, cercando di trattenermi dal sorridere apertamente.
 
“Touché.”, si limitò a replicare con aria scocciata.
 
Scoppiai a ridere e fui sinceramente grato al mio amico per avermi permesso di godere di quell’attimo di allegria.
 
“Sono felice di vederti un po’ più rilassata, piccola volpe.”
 
“E’ tutto merito tuo.”, replicai sinceramente.
 
“Cosa stavi facendo?, domandò per spezzare l’attimo di imbarazzo che si era venuto a creare.
Sentii le sue braccia stringersi gentilmente intorno al mio collo, mentre il suo mento trovò un comodo appoggio nella mia massa di ciuffi arruffati.
 
Si era sottratto al mio sguardo e questo poteva significare solo una cosa: il mio commento precedente doveva averlo messo un po’ a disagio e adesso stava cercando di nascondermi il suo rossore.
Ultimamente lo faceva spesso, ma finsi di non essermene reso conto e risposi con tranquillità alla sua domanda:
 
“Stavo componendo una nuova canzone.”
 
“Davvero? Mi avevi accennato che ti piacesse scrivere dei tuoi pezzi, ma fino ad oggi non ti avevo mai colto nell’atto di farlo.”
 
“In effetti era da un po’ che non mi mettevo in gioco, ma questa sera ho sentito la necessità di trasformare in musica le sensazioni che provavo.”, replicai con onestà.
 
“Posso dare un’occhiata?”
 
“Certo, ma non è ancora finita.”, dissi a mo’ di scusa, però mi affrettai a cercare, nel disordine che regnava sulla scrivania, i fogli che avevo già riempito.
 
Quando finalmente riuscii a trovarli, glieli passai con un certo nervosismo: in fin dei conti quei semplici pezzi di carta erano impregnati di inchiostro, ma anche di una fragilità che difficilmente mostravo agli altri.
 
Rilasciò lentamente la stretta intorno al mio collo e, dopo essersi appoggiato contro la superficie di faggio, iniziò a leggere con evidente interesse.
 
“Che ne pensi?”, gli chiesi non appena i suoi occhi tornarono ad incrociare i miei.
 
“Il testo è davvero incredibile, ma per la musica non posso dare alcun giudizio senza prima averla ascoltata.”
 
“Beh per questo dovrai aspettare domani, a meno che, certo, tu non voglia passare la notte in cella con l’accusa di disturbo della quiete pubblica.”, replicai divertito.
 
“Preferire di no. - disse con lo stesso tono scherzo, poi, riassumendo un’espressione seria, aggiunse – Hai un grande talento, mia piccola kitsune.”
 
“Detto da te è un gran bel complimento.”, borbottai, mentre sentivo già le guance scottare per l’imbarazzo.
 
“Perché mai?”, domandò con una reale nota di incomprensione impressa nella voce.
 
“Non sei esattamente il tipo di persona che si spreca in complimenti di alcun tipo e poi ho letto i tuoi pezzi.”
 
“Lo so questo: è una delle ragioni per cui hai insistito tanto affinché mi iscrivessi al club di musica.”
 
“E te ne sei mai chiesto la motivazione?”
 
“Sai perfettamente che l’ho fatto visto che più volte ti ho porto la stessa domanda.”
 
“Ma non hai ascoltato con attenzione le mie risposte: sei bravo Gaara, molto bravo se vogliamo dire le cose come stanno. Ecco perché un tuo elogio è importante…”
 
“Esageri.”, sussurrò interrompendomi.
 
“Affatto.”
 
“Non capisco proprio il motivo per il quale i miei lavori ti piacciano tanto.”, disse, scuotendo leggermente il capo con aria perplessa.
 
“E’ semplice: mi emozionano.  -  replicai con serietà – Alle volte ho quasi l’impressione di riuscire a leggerti dentro… che gli altri possano farlo anche se poni loro dinnanzi la tua maschera di imperturbabilità. In quelle canzoni c’è una parte di te, Gaara e questo le rende uniche.”
 
“Non so cosa dire.”, mormorò, mentre la mano correva ad arruffare le ciocche rosse in un gesto nervoso.
 
“E questo ti preoccupa? Prima non ti facevi alcun problema a restare in silenzio tanto che, in certi momenti, le mie più che delle conversazioni con un amico erano dei monologhi solitari.”, scherzai cercando di alleggerire la tensione.
 
“Ah, ah, molto spiritoso, Uzumaki, davvero!”, sbiascicò e mise su quello che aveva tutta l’aria di essere un piccolo broncio.
 
“Su, su, non vorrai farmi credere che ci sei rimasto male.”, tubai e, dopo essermi alzato, lo strinsi alla vita con affetto.
 
“Sai non volevo ferire i tuoi sentimenti e che alle volte dimentico che sotto tutta quella dura freddezza c’è un cuore tenero.”, continuai con finta serietà.
 
Lo sguardo oltraggiato che mi rivolse provocò l’eruzione della mia ilarità ed iniziai a ridere senza alcun ritegno.
 
“Sei molto coraggioso o incredibilmente stupido per avere l’ardire di sfottermi apertamente. Potrei anche arrabbiarmi, sai?”, chiese con una ben evidente nota di minaccia nel suo tono di voce.
 
In un gesto diametralmente opposto alle sue parole, però,  ricambiò il mio abbraccio con intensità, per poi abbandonare il capo nell’incavo tra la mia spalla e il collo.
 
“Gaara?”, pronunciai cautamente.
 
“Mm?”, mugugnò in risposta.
 
“C’è forse qualcosa che ti preoccupa?”, chiesi, cogliendo la ghiotta opportunità di porgli una domanda che avrei voluto fargli da più di ventiquattro ore.
 
“No, in questo momento nulla può impensierirmi.”, rispose, strofinando leggermente il naso contro la pelle sensibile e mandandomi una serie di brividi lungo la schiena.
 
“Sono onorato di essere il tuo anti-stress personale – affermai divertito, considerato anche il modo in cui mi stava stringendo – ma il tuo comportamento è stato alquanto strano di recente e mi chiedevo cosa ne fosse la causa o se ce ne fosse una.”
 
“I miei fratelli.”, sussurrò, dopo aver emesso un lungo sospiro.
 
“Avete litigato di nuovo?”
 
“No, in realtà da qualche tempo hanno un atteggiamento un po’ diverso nei mie confronti.”, rispose cupamente.
 
“E questo non dovrebbe essere positivo?”, mi azzardai a domandare, considerando che non ne sembrava affatto contento.
 
“Non ho intenzione di accettarlo.”
 
“Ma Gaara…”
 
“Quando avevo più bisogno di loro, si sono disinteressati completamente di me – mi interruppe con impazienza – e adesso io sono in grado di badare a me stesso: non mi serve che qualcuno finga di preoccuparsi per me.”
 
“Non puoi sapere se la loro preoccupazione è o meno sincera.”
 
Sciolse subito l’abbraccio come se, rimanere stretto a me un minuto di più, avrebbe potuto farlo riempire di pustole.
 
Incrociò il mio sguardo e vidi chiaramente che le mie parole l’avevano turbato, eppure la rabbia sembrò prendere il sopravvento su tutto il resto e lui mi sibilò contro:
 
“Me ne sbatto delle loro intenzioni.”
 
“Dunque è perché sei loro del tutto indifferente che in queste due sere hai deciso di uscire a far baldoria, giusto?”, chiesi con durezza.
 
“Vuoi forse farmi la predica, Naruto?”, replicò, incrociando le braccia al petto.
 
“No, sto solo cercando di far recepire a quella tua zucca dura che questa situazione non solo non ti è affatto indifferente, ma ti spaventa anche parecchio.”
 
“…”
 
“Tu non vuoi dar loro una possibilità perché hai il terrore che i vostri rapporti non subiranno alcun cambiamento, ma fuggire dai propri sentimenti non è mai la scelta migliore. Già una volta ti consigliai di non farlo, ricordi? Fu a seguito di questa mia frase che avemmo il nostro primo litigio, eppure, quando l’occasione è giunta, ti sei fidato di me e guarda a cosa ha portato quella tua scelta: sei diventato uno dei miei amici più cari.”
 
“Naruto…”, bisbigliò, abbandonando la posa rigida che aveva assunto ed addolcendo i tratti del viso.
 
Compii rapidamente i pochi passi che ci separavano e tornai ad offrirgli il conforto del mio abbraccio, sperando che in tal modo, potesse ritrovare una qualche parvenza di serenità.
 
“Erano solo dei bambini, Gaara, perciò per tuo padre è stato fin troppo facile inculcare loro preconcetti e ogni genere di cattiveria sul tuo conto. Allora non erano in grado di capire, ma forse adesso si sono resi conto dei loro sbagli e stanno cercando di riavvicinarsi. Non respingerli, amico mio, non privarti di quell’amore che hai tanto cercato nella tua infanzia… loro hanno mosso il primo passo ora sta a te compiere quello successivo e alla fine vi incontrerete a metà strada.”
 
“Vorrei poter credere a ciò che mi hai detto, ma è difficile per me andare incontro a delle persone che mi hanno sempre respinto.”
 
“Sai cosa mi è successo oggi, subito dopo averti salutato? – aspettai che scuotesse leggermente la testa e, tenendolo ancora intrappolato nella mia stretta, proseguii – Ho ricevuto una telefonata di Iruka.”
 
“Il professore di cui mi hai parlato?”
 
“Proprio lui. Era preoccupatissimo che io non mi stessi prendendo adeguata cura di me e quando, per rassicurarlo, gli ho detto che c’era Jraya a tenermi d’occhio, ha minacciato di raggiungermi subito qui a Tokyo.”
 
“Sembra un tipo abbastanza apprensivo.”
 
“Lo è parecchio, ma la cosa che più mi ha reso felice è stato sentire in sottofondo Sarutobi suggerirgli le domande da pormi: il vecchiaccio era preoccupato per me, anche se non aveva alcuna intenzione di farmelo scoprire. Mi chiedevano se avessi mangiato cibi sani o in generale qualcosa di diverso dal ramen, se stessi studiando con impegno, come mi trovassi e molto altro. Ad un certo punto è arrivato chiaro alle orecchie l’urlo di Konohamaru che pretendeva di parlarmi, ormai stufo di aspettare che i due uomini più grandi concludessero il loro terzo grado. Per finire ho udito chiaramente la voce di Yahiko rimproverare il mio fratellino, dicendogli qualcosa come che tutti volevano parlarmi e che avrebbe dovuto aspettare pazientemente il suo turno. Stavano origliando la mia conversazione con Iruka, ma sapere che erano in pensiero per me mi ha fatto sentire davvero amato.”
 
“Ho capito vuoi che io possa provare esattamente lo stesso.”
 
“Sì Gaara, voglio che tu sia schifosamente felice da oggi in avanti, perché te lo meriti davvero.”
 
“Grazie, Naruto.”
 
“Di nulla, ma adesso andiamo a dormire. E’ stata una giornata piena e, anche se fino a poche ore fa era stata anche molto piacevole, sono davvero esausto.”
 
“Già, dimenticavo che anche tu non hai dormito un granché. Vuoi che rimanga con te?”
 
“Non ce ne sarà bisogno, ma, se sei tu quello ad aver bisogno di un altro po’ di conforto, non farti problemi a infilarti nel mio letto.”
 
“Che sfacciata intraprendenza.”, sussurrò, mentre un ghigno enorme gli si dipingeva sul volto.
 
“Sai che non lo dicevo in quel senso.”, scattai, assumendo la stessa tonalità di rosso di un pomodoro maturo.
 
“Certo che sì, ma vederti in imbarazzo mi diverte enormemente.”, replicò con calma e serietà.
 
“Gaara!”, esclamai, fingendomi solo in parte scocciato per la nuova informazione.
 
Misi su un’espressione imbronciata che sortì l’unico effetto di farlo sorridere maggiormente. Mi accarezzò brevemente i capelli, poi con aria allegra disse:
 
“Scusa, piccola volpe, ma hai un’espressione così adorabile quando sei imbarazzata, che proprio non riesco a trattenermi.”
 
“Ma la pianti?!”, chiesi, cercando di trattenere un sorriso.
 
“E va bene, ma lo faccio solo perché domani ci aspetta una dura giornata e abbiamo bisogno di riposare.”
 
“Ci?”, domandai con curiosità.
 
“Certo, tanto sono assolutamente convinto che chiederai il mio aiuto per tenere a bada quegli arrapati dei tuoi studenti.”, se ne uscì con una tale convinzione, che non riuscii più a trattenermi e scoppiai a ridere come un matto.
 
Ci volle un bel po’ di tempo prima che riuscissi a calmare l’attacco di ridarella che mi aveva colto, ma, quando ripresi finalmente fiato e a smisi di sghignazzare come un babbeo, mi sentivo talmente spossato da crollare quasi subito tra le braccia di Morfeo.
 
 
 
 
“Buon pomeriggio – dissi affannosamente, per poi aggiungere in modo concitato – Mi scuso per il ritardo.”
 
I miei studenti mi accolsero con entusiasmo e, con mio grande sollievo, non fecero alcun cenno all’aria trasandata con cui, ne ero certo, avevo finito per presentarmi in aula.
 
“Forse l’aver avuto a che fare con Kakashi in questi ultimi anni, deve averli abituati ad avere docenti un po’ strambi e poco puntuali.”, mi ritrovai a pensare con una buona dose di auto ironia.
 
Scrollai mentalmente il capo, mettendo da parte quei ragionamenti inconcludenti e mi concentrai nel riacquistare un minimo di compostezza.
 
La stanchezza, che mi aveva accompagnato per tutta la mattina, mi aveva spinto a cercare un posto tranquillo dove consumare il mio bento ed attendere l’inizio dei corsi, luogo che si era rivelato essere all’ombra di un grande albero.
 
Neanche a dirlo avevo finito per addormentarmi come un sasso e, se Gaara non avesse deciso di setacciare i giardini del liceo alla mia ricerca, a quest’ora starei ancora a sonnecchiare della grossa.
 
In sostanza avrei finito per non presentarmi alle lezione che io stesso avrei dovuto tenere, dando un bell’esempio ai ragazzi per i quali avrei dovuto rappresentare una figura di riferimento.
 
Probabilmente avevo i capelli che somigliavano più al nido di qualche uccello e i pantaloni erano sicuramente sporchi d’erba, eppure, con una calma che ero ben lontano dal provare, mi ero limitato a lisciare le pieghe della camicia e a passare rapidamente una mano tra la mia zazzera bionda.
 
“Sempre meglio che niente.”, constatò la mia voce interiore e non potei fare a meno che concordare con lei.
 
Con un sorriso un po’ strafottente e convinto di aver fatto tutto ciò che potevo per rendermi presentabile, mi appoggiai alla cattedra e parlai con voce allegra:
 
“Iniziamo, finalmente, la seconda lezione del corso di inglese. Vedo con piacere che tutti i partecipanti della volta scorsa sono presenti e presumo che tutti voi ricordiate qual era il programma di oggi. In realtà devo ammettere di essere proprio curioso di scoprire cosa avete deciso di mostrare a me e alla classe. A questo proposito: chi vuole iniziare per primo?”
 
“Comincio io!”, quasi gridò Deidara, affrettandosi ad alzarsi in piedi e a raggiungermi.
 
“Quale entusiasmo, senpai.”, replicai indeciso se essere contento o preoccupato per le implicazioni che esso avrebbe potuto avere.
 
“Sono entusiasta perché potrò dare una dimostrazione a te e ai miei compagni di come si lavora l’argilla. – disse con reale compiacimento, aggiungendo poi con un piccolo ghigno -  Ovviamente sarebbe graditissimo il tuo aiuto.”
 
“Il mio aiuto? – ripetei senza davvero aspettarmi una risposta – Sono un vero disastro in campo artistico e sicuramente finirei per rovinare il tuo lavoro, combinando uno dei miei soliti pasticci. Se proprio hai bisogno di un assistente, sono sicuro che a qualcuno dei ragazzi piacerebbe molto aiutarti.”, proseguii con cautela, non avendo ben chiari i motivi di quella sua proposta.
 
“Mm è un vero peccato – mugugnò con un chiaro dispiacere impresso nel tono di voce – Avrei proprio voluto poter replicare con te la scena di quel famoso film, Gost mi sembra si chiamasse. Pensa che avevo già definito ogni dettaglio, compresa la musica di sottofondo.”, continuò e lo vidi chiaramente riporre un hi-pod all’interno della tasca dei jeans.
 
“Mi dispiace – dissi, anche se in realtà non potevo essere più felice per avere miracolosamente evitato l’ennesima situazione imbarazzante – ma assisterò alle vostre rappresentazioni dal fondo della classe: ho intenzione di lasciarvi il massimo della libertà espositiva e d’azione.”, conclusi e, con passo spedito, andai a posizionarmi contro uno dei muri in fondo.
 
Ero troppo stanco per poter reggere ad un’altra lezione del tenore di quella precedente, perciò rimanere in disparte per le due ore successive per me non sarebbe stato affatto un problema.
 
Ed in effetti parecchi minuti dopo non mi ero affatto pentito della mia scelta, anzi ero segretamente soddisfatto di poter osservare tranquillamente i miei studenti, mentre questi partecipavano con entusiasmo al progetto del giorno.
 
Tutti, anche i più timidi, si stavano divertendo parecchio a porre le domande più disparate ai loro compagni e sembravano realmente interessati alle esposizioni a cui stavano assistendo.
 
Onestamente anch’io ero rimasto parecchio impressionato dalla bravura di Deidara, nonché da quella di Sasori e Ino che gli erano seguiti, ma ad un certo punto avevo finito per distrarmi e la causa era sempre la stessa: Sasuke Uchiha.
 
Il mio interesse per lui si era da subito rivelato essere fin troppo pronunciato, eppure mai nell’arco di quasi un mese aveva raggiunto simili picchi di intensità.
 
A mia discolpa potevo solo dire che quanto successo durante la partita di basket mia aveva talmente colpito, da portarmi a riflettere più del dovuto sul comportamento tenuto dall’altro ragazzo.
 
Era davvero preoccupato che la mia sciocca sbucciatura al ginocchio potesse essere qualcosa di più serio e forse proprio per questo avevo lasciato che mi trascinasse in infermeria senza protestare.
 
Come se ciò non fosse già un motivo sufficiente per lasciarmi a bocca aperta, mi aveva medicato con delicatezza e mi aveva parlato in modo gentile: quei pochi minuti erano sicuramente stati i più piacevoli che avessimo mai passato l’uno in compagnia dell’altro.
 
Ma ciò che conta non sono tanto le mie impressioni su quel momento, quanto il fatto che esso ci sia stato.
 
Magari era questo lato del suo carattere quel qualcosa che non riuscivo a delineare in lui e per il quale ho continuato ad osservarlo in cerca di un segno delle sue reali emozioni.
 
Se realmente Sasuke era una persona migliore dell’immagine che ostinatamente proponeva di sé, allora avevamo più cose in comune di quante me ne sarei mai aspettato.
 
Entrambi, infatti, davamo a chi ci circondava un’idea del nostro essere che non ci rispecchiava realmente o che, quanto meno, teneva celate alcune emozioni di cui volevamo essere gli unici interpreti.
 
Non potevo fare a meno di chiedermi cosa lo spingesse ad assumere quell’atteggiamento insopportabile, da cosa stesse tentando di proteggersi o quali fossero i segreti che tormentavano il suo animo.
 
Forse non sarei mai riuscito a scoprirli, ma ero convinto di essere a conoscenza dell’unico in grado di spiegare l’atteggiamento scontroso che aveva avuto nei miei confronti fino a quel momento: il suo amore per Sai.
 
Il teme aveva frainteso quanto successo nei giardini e, imputando a me la colpa di tutto, aveva deciso di eleggermi a suo nuovo bersaglio di frecciatine, provocazioni e malignità varie.
 
Un’ulteriore prova di quanto fossero veritieri questi miei ragionamenti era data dal fatto che Sasuke smussava parecchio i lati più spigolosi del suo carattere quando il suo amoroso non mi stava intorno.
 
Era successo anche durante il quarto tempo della partita: non l’avevo mai visto così rilassato, né avrei mai potuto pensare che un ragazzo tanto innamorato traesse un simile beneficio dalla misteriosa scomparsa del tipo che gli interessava.
 
Ma in fin dei conti cosa potevo saperne io dello stress a cui quel pervertito lo sottoponeva quotidianamente? In realtà non è che fosse poi così difficile da immaginare, non se aveva con altri lo stesso atteggiamento che riservava al sottoscritto.
 
L’Uchiha sembrava il classico fidanzato geloso e possessivo, perciò per lui non doveva essere affatto facile digerire il comportamento dell’altro ragazzo.
 
In ogni caso io non costituivo un pericolo alla sua relazione e avevo tutta l’intenzione di dirglielo, chiarendo una volta per tutte una situazione ambigua che si protraeva da fin troppo tempo.
 
“Mi basterà trattenerlo alla fine delle lezioni – pensai con soddisfazione – Certo potrebbe fare delle storie, anzi quasi sicuramente pretenderà di sapere il perché, ma in questo caso ho già una scusa pronta.”, continuai a riflettere, concentrando la mia attenzione sui fogli che il teme nascondeva sotto al banco.
 
Dall’inizio della lezione non aveva fatto altro che sfogliargli di continuo, non prestando la minima attenzione al lavoro che si stava svolgendo in aula.
 
“Sono un insegnante ed è un mio diritto riprenderlo – ragionai e per la prima volta apprezzai la posizione di potere in cui mi avevano posto Kurenai e Tsunade – Preparati Sasuke Uchiha, perché presto vedrai di che cosa è capace Naruto Uzumaki.”
 
Ghignai di soddisfazione e tornai a prestare la mia attenzione al resto dei miei studenti in trepidante attesa che quell’ultima ora di lezione si concludesse in fretta.
 
 
 
 
 
 
 
 
NA: Ciao carissimi,
oggi sarò molto breve, perciò una volta tanto non sarete costretti a leggere uno dei poemi che io oso chiamare “note d’autore”. Spero seriamente che il capitolo vi piaccia e che vorrete farmi contenta con una vostra recensione, anche negativa: sono sempre molto curiosa di sapere cosa pensate della mia storia.
 
A questo proposito colgo l’occasione per chiarire a tutti alcune mie decisioni in merito a questi capitoli che hanno lasciato perplessi o delusi alcuni di voi.
 
Ho deciso di non indagare da un POV diverso quanto avete letto rispettivamente nei capitoli 5 (parte II) e 6 perché avevo la sensazione di ripetere di continuo le stesse cose e di non proseguire col racconto.
 
Ecco perché in questi due capitoli di transizione mi sono soffermata brevemente su quanto successo in precedenza: volevo mettere in evidenza nuove percezioni e sentimenti dei personaggi.
 
Nel caso del capitolo 6 si trattava della confusione di Sasuke e nel suo rifiuto di ammettere un sentimento che una parte di sé ha già intuito; in questo, invece, ho voluto soffermarmi ancora sul rapporto tra Naruto e Gaara ed ecco perché il capitolo è principalmente incentrato su di loro.
 
Dai piccoli gesti che Gaara compie, può già intuirsi come in lui stia nascendo un sentimento diverso da quello di amicizia nei confronti dell’altro ragazzo.
 
Ancora Naruto sottolinea anche che il suo amico ultimamente è spesso imbarazzato durante i loro momenti insieme: lo ha notato, eppure ancora non sa spiegarsene il perché.
 
Sono tanti piccoli dettagli che, al momento giusto, porteranno a determinate conclusioni.
 
Abbiate pazienza perché i momenti in cui potrete vedere Naruto e Sasuke finalmente insieme si stanno avvicinando sempre di più, come avrete sicuramente intuito.
 
Del resto il nostro biondino ha intenzione di avere un chiarimento dall’Uchiha e, non c’è bisogno che sia a dirvelo, uscirà fuori il malinteso in cui entrambi sono caduti.
 
Ma ora basta con queste chiacchiere: sono convinta che siete ansiosi di sapere in cosa consista la sorpresa che vi avevo promesso.
 
Avete notato il fatto che il professor Uzumaki nota con un certo compiacimento la distrazione di uno dei suoi alunni? Vi siete chiesti cosa contenessero i fogli che Sasuke sta leggendo con tanto interesse?
 
Se lo state ancora facendo, smettetela pure perché ve lo sto per rivelare.
 
Si tratta di una favola, scritta dallo stesso Uchiha per essere presentata durante la lezione.
 
Peccato che il nostro Sasuke si è già pentito di aver pensato di fare una cosa simile e deciderà di tenersela per sé.
 
Sperando di farvi un dono gradito, però, io l’ho scritta e la pubblicherò domani in modo tale che voi possiate leggerla. ( non lo faccio subito per dare a tutti la possibilità di leggere queste note e non rovinarvi la sorpresa)
 
Siete contenti? Spero proprio di sì e mi scuso per aver finito col parlare troppo, come sempre del resto.
 
Ringrazio sentitamente quanti hanno inserito tra le preferite, ricordate e seguite questa storia e chi ha semplicemente letto o anche solo dato un’occhiata.
 
Un enorme ringraziamento a quanti hanno recensito: non finirò mai di ripetervi che sono le vostre recensioni a darmi la carica per continuare questa storia.
 
Un bacio,
Psyche

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Capitolo 10
*** Nuovi inizi ***


Salve carissimi!
Per prima cosa vorrei scusarmi per il mostruoso ritardo * si genuflette ripetutamente * : vi ho fatto aspettare davvero troppo per leggere questo capitolo e non sono neanche sicura che ne sarà valsa la pena.
Non voglio rubarvi altro tempo, ma ci tengo proprio a dire che questa ottava follia è dedicata a tre persone speciali, mekbul, Jo95 e Ryanforever : grazie davvero per tutto il sostegno che mi dimostrate attraverso le vostre recensioni.
Ricordate che questo capitolo è stato scritto dal POV di Sasuke e
buona lettura a tutti…
 
 
 
 
Il sole aveva cercato riparo dietro gli alti grattaceli di Tokyo, ma il rosso acceso dei suoi raggi continuava a colorare il cielo, tingendo di rosa e oro ogni più piccola superficie su cui riusciva ancora a  posarsi.
 
Da sotto la tettoia della fermata dell’autobus, in attesa che il mezzo facesse la sua apparizione in fondo alla strada, mi godetti quello straordinario spettacolo quotidiano che era il tramonto e, con un lieve sorriso ad incresparmi le labbra, ripensai alla giornata appena trascorsa.
 
 
 
Una volta fatto ritorno al campo da basket, avevo seguito l’esempio del dobe e avevo ripreso a giocare con più energia e determinazione dell’ora appena trascorsa.
 
Senza l’irritante presenza di Sai, ero riuscito a dare del filo da torcere ad Uzumaki, ma, nonostante i miei sforzi e quelli del resto della squadra, a spuntarla erano stati i rossi per ottantasette a sessantotto.
 
Forti della scarsa differenza di punti che ci aveva visti perdenti, non impiegammo poi molto a decidere che dovesse esserci concessa la rivincita e, complice l’adrenalina che ci scorreva ancora nelle vene, fummo tutti concordi nello stabilire che si dovesse tenere quel pomeriggio stesso, alla fine delle lezioni.
 
Al primo scontro, però, ne era seguito un altro e poi un altro ancora e avremmo anche potuto continuare fino al giorno dopo, se i nostri muscoli non avessero iniziato a bruciare in segno di muta protesta.
 
L’unico che sembrava non risentire della stanchezza era l’usuratonkachi che, per assurdo, non aveva fatto altro che saltare come un fottuto grillo per ogni dannato quarto di ogni stramaledetta partita.
 
“Non sono mica Michael air un cazzo!”, pensai con una piccola punta di irritazione, mentre un lieve sorriso mi increspava le labbra.
 
Era stato estremamente appagante fronteggiare un avversario del suo calibro e, per quanto il sapore della sconfitta fosse davvero troppo amaro per abbandonare con facilità le mie papille gustative, sarei stato disposto a provarlo ancora in cambio delle sensazioni che la nostra sfida mi aveva lasciato.
 
 
Venni riscosso dai miei pensieri dall’arrivo del seicento ventuno, l’autobus che aspettavo.
 
Staccandomi dal freddo pilastro in acciaio che mi aveva sostenuto fino a quel momento, mi affrettai a salire sul mezzo e, trovando un sedile vuoto accanto ad uno dei finestrini di destra, mi accomodai con un lungo sospiro stanco.
 
 
 
 
 
Varcai i cancelli di Villa Uchiha che era quasi ora di cena, unico desiderio quello di poterla saltare per poi concedermi un lungo bagno rilassante e andare di filato a letto.
 
Estrassi il mio mazzo di chiavi dallo zaino e, il più silenziosamente possibile, sgattaiolai dentro, dirigendomi subito verso le scale che portavano al piano superiore: se nessuno mi avesse visto rientrare, prima di dover scendere in sala da pranzo, forse avrei potuto concedermi almeno una veloce doccia rifrescante.
 
“Buona sera, signorino.”
 
Trattenendomi dall’imprecare sonoramente, incrociai per un breve attimo lo sguardo del maggiordomo e sbiascicai un frettoloso saluto in risposta:
 
“Buona sera a te, Charles.” un piede già posato sul primo scalino della rampa.
 
“Il signore desidera parlarle: la sta aspettando nel suo studio.”, pronunciò l’uomo con tono solenne, bloccandomi definitivamente dal proseguire la mia corsa verso il piano superiore.
 
Senza replicare in alcun modo, mi costrinsi a fare dietrofront e a percorrere il lungo corridoio che conduceva allo studio di mio padre.
 
Una volta giunto davanti alla porta in pregiato legno di noce, bussai e subito la voce di oto-san risuonò forte e decisa:
 
“Entra pure, Sasuke.”
 
“Mi avete fatto chiamare, padre?”, chiesi in modo retorico, introducendomi nella stanza e chiudendo la pesante porta alle mie spalle.
 
“Sì, vieni a sederti: dobbiamo parlare.”
 
Mi feci avanti con una rapida successione di ampie falcate e, una volta che ebbi preso posto in una delle scomode poltroncine di velluto blu, mio padre riprese con tono imperioso:
 
“Quando avevi intenzione di comunicarmi la tua adesione ad un corso che io non ho mai approvato?”
 
“Lo avrei fatto a breve, padre...”
 
“Non mi importa quando avevi intenzione di farlo: avresti dovuto sottoporre a mio giudizio la possibilità di frequentare altre lezioni. Sai perfettamente che i tuoi pomeriggi sono già stracolmi di impegni e non puoi permetterti di trascurare i tuoi doveri per partecipare ad un inutile corso linguistico.”, quasi gridò, perdendo per un momento la sua maschera di compostezza.
 
“Oto-san non avrei mai firmato l’autorizzazione, se non fossi stato assolutamente certo che queste lezioni costituissero un’opportunità che non andava sprecata. L’insegnante a cui è stata affidata la direzione del corso è un madrelingua inglese: poter interagire con lui migliorerà molto le mie capacità discorsive e, di conseguenza, potrei gestire con più facilità le relazioni intercontinentali che la nostra azienda ha stretto di recente.”, replicai, cercando di mettere in luce gli aspetti positivi della mia iniziativa.
 
“Non sei ancora pronto per occuparti attivamente degli affari di famiglia – affermò con risoluzione -  piuttosto dovresti dedicare il poco tempo che riesci a ritagliare tra gli allenamenti e lo studio per assistere Itachi: osserva tuo fratello e cerca di apprendere da lui quanto più puoi…”
 
 
Alla menzione di mio fratello scollegai la mente, smisi di ascoltarlo e, mentre la sua voce si riduceva ad un distante ronzio, lasciai i pensieri liberi di vagare.
 
Non è che mi fossi fatto particolari illusioni sul perché oto-san avesse voluto parlarmi, anzi non avevo avuto il minimo dubbio che volesse farlo in merito alle lezioni supplementari di inglese.
 
Come da programma, non era servito a nulla prospettare i vantaggi di cui sicuramente avrebbe beneficiato la nostra azienda, né fornire spiegazioni perfettamente razionali che giustificassero una mia scelta autonoma: quello che rilevava era comunque il fatto che avessi agito senza il suo benestare.
 
Per quanto non sopportassi questo suo continuo impicciarsi in qualsiasi aspetto della mia vita, mi sarei sottoposto senza fiatare a qualsiasi tipo di punizione, avrei accetto qualsiasi parola rabbiosa avesse abbandonato le sue labbra… tutto, ma non il consueto discorso sulle straordinarie capacità di mio fratello e sulla necessità che io provassi quanto meno ad assomigliargli.
 
Ogni parte di quella sua ridondante filippica era come stampata a fuco nella mia mente, del resto non aveva fatto altro che propinarmela in ogni occasione l’avesse ritenuto necessario fin dalla tenera età di sei anni, perciò non riuscii proprio, non questa volta, a biasimare me stesso per il boicottaggio della mia mente.
 
Quando, circa un quarto d’ora dopo, capii che aveva finito di sciorinare elogi e complimenti, riconcentrai la mia attenzione su di lui:
 
“…Per questa volta ti permetterò di frequentare questo inutile corso, ma, se il tuo rendimento dovesse calare in un ambito qualsiasi delle tue materie di studio, non mi farò alcuno scrupolo a fartelo abbandonare, siamo intesi Sasuke?”
 
“Sì, oto-san, ho capito.” mi limitai a rispondere.
 
“Bene, puoi andare.”, disse e con un gesto vago della mano sottolineò ulteriormente il suo congedo.
 
Uscii dallo studio con passi calmi e misurati, senza voltarmi indietro, ma, se non fosse stato per il mio orgoglio, non sarei riuscito a trattenermi dall’urlargli contro tutta la mia rabbia e la mia frustrazione.
 
Perché non poteva semplicemente accettare le mie scelte? Perché non poteva accettare me, con tanto di pregi e difetti?
 
Salii le scale che portavano al secondo piano quasi di corsa e, quando finalmente riuscii a raggiungere la mia camera, mi barricai al suo interno quasi come se, in tal modo, avessi potuto lasciare fuori ogni parola o ogni pensiero spiacevole.
 
Iniziai a spogliarmi lentamente, lasciando una scia di vestiti che dal letto portava fino alla cabina della doccia, nella quale entrai, infine, abbandonandomi al caldo tepore dell’acqua.
 
Una volta riemerso dalla nebbia di vapore che la mia lunga permanenza sotto il getto di gocce bollenti aveva creato, trovai Itachi ad attendermi disteso placidamente sul mio letto.
 
“Hai parlato col vecchio?”, esordì immediatamente.
 
“Sì, aniki.”, risposi in modo telegrafico.
 
Non ero sicuro che questo fosse il momento adatto per intavolare un discorso con mio fratello: gli elogi che mio padre gli aveva rivolto erano ancora ben presenti nella mia mente, così come la gelosia a cui puntualmente davano adito.
 
Mi riscossi, accorgendomi che Itachi stava proseguendo:
“Considerata la tua loquacità, presumo che non debba essere andata molto bene.”
 
“Al contrario – replicai con finto tono giulivo – direi che è stata una conversazione molto piacevole.”
 
Tacque, abbassando lievemente lo sguardo.
 
Sapevo che mio fratello era l’unico a non avere colpe in questa spiacevole situazione, ma i sentimenti non sono razionali e controllarli non è sempre semplice.
 
E tuttavia rivolgermi a lui con ironia o con parole di disprezzo non avrebbe prodotto altro risultato che quello di allontanarci più di quanto già non fosse successo e io non ero pronto a perdere il mio aniki.
 
Itachi sembrava davvero preoccupato per me ed era venuto a parlarmi nonostante il litigio avuto in mattinata: il minimo che potevo fare era sforzarmi di essere tollerabile e tollerante.
 
Dopo un attimo di silenzio, che parve durare molto più allungo, onii-chan riprese:
 
“Quanto meno ti ha permesso di continuare a frequentare le lezioni?”
 
“Mmh, a patto che eccella in ogni altra attività che svolgo e, in modo particolare, nel mio apprendistato con te, ovviamente.”, sbuffai, infilando con un po’ troppa energia i jeans che avevo recuperato dall’armadio.
 
“Ah, non cambierà mai… – sospirò e non aggiunse altro per svariati minuti, fino a che – Otouto vorrei parlare della discussione di stamani.”, disse con serietà.
 
A quanto pare era giunto il tempo dei chiarimenti e, per quanto continuare a far finta di niente sarebbe stato molto più comodo, dovevo delle scuse a mio fratello.
 
“Non è necessario, Itachi, ho capito subito di aver sbagliato a riversare il mio risentimento su di te, perciò, per quanto io odi il fatto di dovermi scusare, mi rendo conto che ti devo le mie scuse: mi dispiace, aniki.”
 
“Oh, il mio piccolo otouto – trillò, scattando in piedi e iniziando ad avvicinarmisi a gradi passi – vieni qui e fatti abbracciare.”
 
“Non ci penso nemmeno!”, esclamai, il viso stravolto in una maschera di divertito sgomento.
 
Riuscii a sfuggire alle sue grinfie per parecchi minuti, scappando di qua e di là per tutta la stanza, ma alla fine fui catturato dalla morsa stritolatrice che mio fratello chiamava abbraccio.
 
“Onii-chan non credi che sia sufficiente?”, chiesi retoricamente, cercando di liberarmi da quella sua presa mortale.
 
“Oh no, fratellino, era da troppo tempo che non mi permettevi di abbracciarti.”
 
Sorrisi per questa improvvisa dimostrazione fisica di affetto e, interrompendo i tentativi di respingerlo, mi abbandonai a quella stretta di cui, proprio in quel momento, non potevo che sentire un irrefrenabile bisogno.
 
 
 
 
 
Durante il viaggio verso l’età adulta tutti noi perdiamo qualcosa, ma, presi come siamo dalla fretta di crescere, non ce ne curiamo e proseguiamo spediti verso la nostra meta.
 
E’ solo quando ci sembra di averla raggiunta che rimpiangiamo ciò che ci siamo lasciati alle spalle.
 
Mi sembra quasi di riuscire a vedere un me in miniatura sbraitare e frignare perché a suo fratello maggiore erano permesse cose che a lui, per quanto fosse già un bambino grande, erano vietate; adesso, invece, farei di tutto per poter rivivere, anche solo per un breve momento, gli anni della mia infanzia.
 
Riesco quasi a rivedere me e mio fratello giocare in giardino, risento il profumo dei fiori e il suono delle nostre risate; mi sembra di riavvertire sui capelli la carezza ruvida della mano di mio padre o i baci delicati che mia madre mi schioccava nei momenti più impensati.
 
Non posso tornare indietro, non posso riappropriarmi del tempo che mio fratello mi dedicava, delle rare dimostrazioni di affetto di mio padre, delle aperte manifestazioni d’amore di mia madre ed è in simili momenti che questa consapevolezza torna ad annichilirmi come nell’attimo della sua scoperta.
 
Nella solitudine della mia stanza, dove nessuno aveva provato a seguirmi una volta consumato uno dei pasti più orribili della mia esistenza, le mie contrastanti emozioni erano esplose, macchiando di nere lettere spezzate la bianca superficie di alcuni fogli di carta.
 
Un sentimento di disperata rabbia aveva guidato la mia mano nel vergare quell’intreccio di frasi e pensieri, ma, anziché sentirmi sollevato per aver finalmente dato voce a ciò che provavo, le parole che avevo scritto sembravano pesare sul mio animo come macigni.
 
Aprii il cassetto della scrivania e con un gesto secco vi scaraventai le pagine che avevo difronte: non volevo più vedere quegli inutili pezzi di carta, né tanto meno le verità che essi portavano impresse in modo indelebile sulla loro superficie.
 
Risolutamente spensi la luce e mi diressi verso il letto, ne scostai le coperte leggere e, una volta sdraiatomi, mi imposi di iniziare a dormire.
 
 
 
 
 
Il mattino seguente avrei voluto rimanere a poltrire tra le calde coltri del mio letto fino all’ora di pranzo, ma non potei esimermi né  dall’alzarmi, né dal prepararmi e presenziare alle lezioni: con l’ultimatum datomi da mio padre, l’ultima cosa che volevo era che venisse magicamente a sapere di una mia assenza ingiustificata.
 
Inutile dire che, considerato lo stato d’animo in cui mi trovavo, non riuscii a prestare neanche quel minimo di attenzione grazie alla quale avrei potuto comprendere almeno una delle numerose parole che lasciavano la bocca degli insegnanti.
 
 
Al perforante trillo dell’ultima campanella, lasciai l’aula in tutta fretta: avevo bisogno di un po’ di tranquillità per poter affrontare il caos che quel giorno, sicuramente, avrebbe caratterizzato la lezione del dobe.
 
Quando, infine, mi ritrovai davanti alla classe assegnata al corso di lingua inglese, ebbi l’irresistibile tentazione di ritornare sui miei passi ed allontanarmi il più velocemente possibile dall’edificio scolastico: se le urla di quegli squilibrati dei miei compagni erano perfettamente udibili dall’esterno, non osavo immaginare il casino che regnava all’interno.
 
Aprì la porta e costrinsi le mie gambe a muoversi in direzione del banco che ero solito occupare, assolutamente irremovibile nella decisione di partecipare a quelle due ore di delirio e a dimostrare a me stesso e ad oto-san che esse erano innegabilmente utili.
 
L’arrivo di Uzumaki ridusse anche i più chiassosi al silenzio e, nel tempo che impiegò per ricordarci quale sarebbe stata l’attività del giorno, i miei occhi rimasero fissi su di lui, attenti anche al più piccolo movimento di quelle labbra carnose.
 
Ad un certo punto, però, e per una qualche ragione che non avevo afferrato, il dobe lasciò il suo posto a quell’egocentrico di Deidara e si spostò in fondo all’aula, privandomi, in tal modo, della libertà di osservarlo senza che altri se ne avvedessero.
 
Una volta perso il catalizzatore della mia sfuggente attenzione, non potei fare a meno di ripensare alla sera precedente e, in modo particolare, al momento in cui i miei sentimenti erano esplosi, riversandosi come un fiume in piena fra le righe della favola che avevo scritto.
 
Leggere nero su bianco quanto non avevo il coraggio di ammettere nemmeno a me stesso, mi aveva sconvolto al punto, da spingermi a nascondere l’oggetto del mio turbamento nell’illusione che, così facendo, quello avrebbe cessato di esistere.
 
Questa mattina, però, temendo che qualcuno dei domestici o mio fratello potessero scovare i fogli incriminati, avevo seguito l’impulso di portarli con me, perciò li avevo infilati frettolosamente nello zaino ripromettendomi di sbarazzarmene il prima possibile.
 
Al desiderio di stracciare questi inutili pezzi di carta, forse complice la noia, si era adesso sostituito quello di rileggerli, soprattutto per poter dimostrare a me stesso che, a mente fredda, essi non sarebbero riusciti a provocare in me alcun tipo emozione.
 
Così, ben attento a non farmi beccare, estrassi i fogli dalla cartella e, dopo averli celati tra il mio corpo e il banco, iniziai a leggerli con reale interesse.
 
 
Mi immersi così profondamente nelle vicende a cui avevo dato vita, che non mi accorsi dello scorrere del tempo, né mi preoccupai eccessivamente di poter essere colto in flagrante a fare tutt’altro che seguire la lezione.
 
Fu l’insopportabile stridio di sedie trascinate sul pavimento a riscuotermi dallo stato di trans in cui ero caduto e, con un certo sgomento e altrettanta meraviglia, mi resi conto che tutti stavano riordinando le loro cose.
 
Non potevo quasi crederci che fossero trascorse due ore senza che io ne avessi il minimo sentore e, mentre mi affrettavo a riporre il materiale scolastico nello zaino, mi riprendevo mentalmente per la mia imprudenza: e se quegli sciocchi dei miei compagni si fossero accorti della mia distrazione o, anche peggio, se l’avesse notata Uzumaki?
 
“In quel caso che cazzo di scusa avrei mai potuto inventare? - mi chiesi, ma poi il pragmatismo ebbe la meglio sul sentimento di autocritica – Oh beh non è accaduto, quindi perché preoccuparsi?”, conclusi con un ragionamento che non faceva una grinza.
 
Riacquistate calma e compostezza, mi diressi a passo spedito verso la porta, il gusto della libertà già sulla punta della lingua, quando la voce argentina del mio insegnate mi bloccò dall’assaporarla dicendo:
 
“Sasuke potresti trattenerti per qualche minuto?”
 
Mi irrigidii, mentre nella mente si affacciava l’idea di una ragione più che plausibile per una simile richiesta.
 
“Possibile che…”, pensai agitato, ma non ebbi nemmeno il tempo di dar corpo ai miei dubbi che l’altro, forse accortosi della mia esitazione, aggiunse:
 
“Ti assicuro che non impiegheremo molto tempo.” e un piccolo sorriso fece capolino ad increspargli le labbra.
 
“Va bene.”, risposi con tono neutro, prendendo posto sul primo banco della fila centrale.
 
“Ho notato che durante la lezione eri distratto: c’è forse qualcosa che ti preoccupa?”, chiese, appoggiandosi con un movimento fluido alla superficie della cattedra.
 
“Merda!”, imprecai internamente, pensando con una punta di amara ironia ad i pensieri che solo pochi attimi prima mi erano passati per la testa.
 
“No, mi scuso per non aver prestato attenzione.”, risposi sbrigativamente, assumendo un’espressione più imperturbabile del solito.
 
Quello che non mi sarei mai aspettato è che Uzumaki, anziché sfottermi o rifilarmi una punizione esemplare, dicesse con un tono di voce calmo e quasi contrito:
 
“Il mio non voleva essere un rimprovero… in realtà avrei voluto comunque trattenerti alla fine dell’ora per poterti ringraziare… sai per quello che hai fatto ieri: non eri tenuto né ad accompagnarmi in infermeria, né a medicarmi, ma sei stato davvero gentile a fare entrambe le cose.”, sbiascicò frettolosamente, mentre un rossore davvero carino gli tingeva le guance.
 
Si passò una mano tra le ciocche bionde e, dopo avermi rivolto il più bel sorriso che avessi mai visto, scosse la testa, dicendo:
 
“Sai, teme, non  sei poi così male come credevo: quando vuoi riesci anche ad abbandonare quel tuo atteggiamento da stronzo arrogante e ad essere piacevole.”
 
“Stai forse cercando di dirmi che ti piaccio, Uzumaki?”, chiesi, un ghigno gigantesco che mi si apriva sulle labbra.
 
Vederlo assumere il colorito di un pomodoro maturo, lo rese, ai miei occhi, ancor più attraente: per i brevi attimi in cui l’imbarazzo colorò le sue gote, misi da parte la ragione per la quale ci trovavamo in quell’aula e mi godetti quella piccola vittoria inaspettata.
 
“Ma che ti salta in mente? Stavo solo cercando di dire che forse, e sottolineo il forse, abbiamo iniziato col piede sbagliato.”, replicò con decisione.
 
“Chissà, magari hai ragione tu.”, gli diedi corda, curioso di sapere a cosa avrebbe portato questa insolita conversazione.
 
“Bene e adesso, in nome della nostra neonata amicizia, ti andrebbe di dire al tuo caro Naruto cosa ti affligge?”
 
“Eh?!”, domandai, strabuzzando gli occhi per la sorpresa.
 
“Cosa diamine…”
 
“Non è da te distrarti durante una lezione, Uchiha, perché, ammettiamolo, sei proprio un secchione patentato, perciò se un tipo come te ha passato due intere ore a farsi gli affari propri, deve per forza esserci qualcosa che lo preoccupa.”, se ne uscì, gesticolando abbondantemente.
 
“Noi non siamo amici.”, sottolineai con voce tagliente l’unica parte del suo lungo discorso che per me aveva una qualche rilevanza.
 
“Vuoi dire che prima non lo eravamo, ma adesso abbiamo chiarito ogni cosa, no?”, mi chiese con tono leggermente interrogativo e, non appena i suoi occhi incrociarono i miei, il diniego che stavo per pronunciare mi morì sulle labbra.
 
“Non credi che sia un po’ troppo presto per parlare di amicizia? In fin dei conti fino a ieri non riuscivamo a stare nella stessa stanza per più di dieci minuti di seguito senza venire alle mani.”
 
“E’ vero, ma ho come la sensazione che da ora in avanti sarà diverso. Non fraintendermi – mi interruppe immediatamente, prima che dessi voce alle mie perplessità – non sto dicendo che non litigheremo o che per la maggior parte del tempo che trascorreremo insieme non avrò voglia di prenderti a calci nel sedere…”
 
“Tsk.”
 
“… ma ieri ho avuto la conferma che c’è molto più in te dell’immagine da snob con la puzza sotto al naso che mostri agli altri, perciò vorrei provare a conoscere il vero Sasuke... ovviamente se anche tu sei d’accordo… cioè…”
 
Smisi di ascoltare la lunga serie di frasi confuse e spezzettate che seguirono a quest’ultima dichiarazione, intento com’ero a cercare di contenere lo stupore e l’inattesa felicità che quello parole avevano risvegliato.
 
“Possibile che la richiesta che avevo rivolto alle stelle all’inizio dell’anno scolastico fosse stata ascoltata?”
 
Sorrisi sinceramente come non accadeva ormai da molto tempo e, con un pizzico di ironia, interruppi l’altro ragazzo dicendo:
 
“Va bene, non è necessario che sottoponi il tuo unico neurone ad un simile stress: non servano altre parole, perché ho deciso di concederti il grande privilegio della mia amicizia.”
 
“Smettila di fare l’arrogante, teme, non lo sopporto!”
 
“Guarda che sono serio – dissi, acquisendo un tono tanto tetro da attirare la sua attenzione – io non credo in nessun tipo di legame affettivo, compreso quello che dovrebbe esistere tra due amici.”
 
“Cosa…?”, sussurrò, il viso contratto in un’espressione di muta incomprensione.
 
“Uzumaki tu sei in qualche modo diverso da chiunque io abbia incontrato finora, perciò ho deciso di tentare con te e solamente con te questa nuova… esperienza: diciamo che si tratta di una sorta di esperimento e vediamo come va, sei d’accordo?”, domandai, gettando all’altro una sfida che non perse tempo a raccogliere.
 
“Va bene, teme, ti dimostrerò che l’amicizia esiste.”, affermò con sicurezza, porgendomi la mano.
 
Esitai solo un attimo prima di stringerla, mentre un ghigno soddisfatto mi si dipingeva sul volto: se qualcuno mi avesse detto che alla fine di queste due ore il mio rapporto col dobe avrebbe subito un simile cambiamento, gli sarei scoppiato a ridere in faccia senza ritegno.
 
Con un vero e proprio sorriso ad increspargli le labbra, Uzumaki ricambiò ancora per qualche attimo la mai stretta e, dopo averla lasciata, si diresse a passo spedito verso la porta.
 
Era già quasi in procinto di varcarne la soglia, quando, girandosi di appena tre quarti, disse con fare impacciato:
 
“Teme visto che adesso siamo amici e tutto il resto… beh, volevo solo chiarire una piccola incomprensione del passato.”
 
“Di che si tratta?”, chiesi realmente incuriosito.
 
“Ecco… posso giurarti che non ho allungato le mani sul tuo ragazzo!”, quasi urlò, girandosi completamente verso di me e fissandomi dritto negli occhi.
 
“Ragazzo?”, domandai, una nota di confusione nella voce.
 
“Sì… Sai.”
 
“Quella sottospecie di… - pensai nauseato – Ma quale ragazzo?!”, esclamai con reale orrore e sincero sgomento.
 
“Ma ti si è fuso il cervello sotto a quella pettinatura a culo d’anatra? Sai, te l’ho appena detto.”, replicò quel dobe con tono infastidito, non cogliendo minimamente la natura retorica della mia domanda.
 
“Non sto insieme a quella specie di copia carbone di me stesso.”, chiarii con un enfasi forse un po’ troppo eccessiva.
 
“Ma… ma hai detto che ti piaceva come una ciotola di ramen.”, balbettò quasi tra sé e sé.
 
“Appunto, io odio quella brodaglia disgustosa.”
 
“Teme non offendere il ramen: è il piatto più strepitoso che esista.”, urlò con impeto, il dito indice posto, in segno di monito, sotto il mio naso.
 
Il senso delle parole che aveva appena pronunciato giunse come un pugno in pieno stomaco e portò lo stesso doloroso e oltraggiato stupore.
 
“Oh Kami, non avrai creduto che io…”, chiesi conferma, anche se non ce ne era affatto bisogno: ormai il malinteso nel quale eravamo caduti entrambi era fin troppo chiaro.
 
“Certo che l’ho creduto! Puoi forse biasimarmi dopo la reazione che hai avuto quando ci hai visti insieme nei giardini?”
 
“Oh scusa tanto se il fatto ti essere stato piantato in asso in mezzo al cortile della scuola mi ha fatto leggermente incazzare. In fin dei conti cosa altro avevo da fare io, a parte sprecare il mio preziosissimo tempo nell’attesa che tu finissi di limonare col tuo lui?”, domandai retoricamente, la rabbia che montava di nuovo imperiosa al solo ricordo di quei momenti.
 
“Limonare? Ma di cosa diamine stai parlando?!”
 
“Oh su, Uzumaki, non c’è alcuna ragione di fingere: non ho nulla contro gli omosessuali, se è questo che ti preoccupa. Dimentichi forse che ho visto tutta la scena? Sai era praticamente seduto sul tuo bacino, il viso ad un centimetro scarso dalle tue labbra, mentre tu avevi gli occhi chiusi e un’aria alquanto impaziente.”
 
“Teme ti assicuro che hai frainteso…”
 
“E allora spiegami: come stanno realmente le cose?”, domandai in modo brusco, interrompendolo.
 
“Beh… io – disse, prima di abbassare lo sguardo e arrossire fino alla punta delle orecchie – la verità… la verità è che mi ha fregato, ecco.”
 
“Spiegati meglio.”, ingiunsi con fare autoritario.
 
“E che diamine, teme, non puoi semplicemente accontentarti della spiegazione che ti ho dato?”
 
“Oh no, dobe, non te la caverai con così poco – pensai, per poi dire a suo beneficio - Il punto è che non me l’hai data affatto.”
 
“Se lo dirai in giro, giuro che ti spellerò vivo, chiaro?”, domandò con serietà, la voce sporcata da una punta di imbarazzo.
 
Annuii semplicemente.
 
Dopo aver preso un lungo respiro, si decise a borbottare:
 
“Mi ha ‘avvertito’ che un grillo aveva deciso di farsi un bel giretto tra i miei capelli e, imponendomi di stare completamente immobile, si è avvicinato per poterlo scacciare. Istintivamente ho chiuso gli occhi, sai per non avere alcun tipo di riflesso involontario nel caso in cui l’insetto avesse deciso di abbandonare la mia testa. Bene, adesso sai tutto.”
 
“Cioè tu vuoi farmi credere di essere stato seriamente convinto di avere un grillo tra i capelli?”, domandai in tono ironico, un sopracciglio sollevato in segno di muto e quanto mai divertito stupore.
 
“Certo che sì, in fin dei conti eravamo all’aperto e non sarebbe poi stata una cosa così improbabile.”, replicò imbronciandosi e portando le braccia ad incrociarsi sopra al busto.
 
Purtroppo, per quanto provassi, non riuscii a trattenermi oltre e scoppiai a ridere di gusto, grandemente soddisfatto, nonostante l’ilarità, che quel pervertito di Sai non avesse messo le mani addosso al mio sexy biondino.
 
“Teme non c’è nulla da ridere! Ho rischiato grosso e solo il tuo arrivo ha impedito a quel maniaco di portare il suo piano a buon fine. A pensarci bene forse dovrei ringraziarti anche per aver salvato la mia virtù…”
 
A quell’uscita non potei fare a meno di sbellicarmi ancora di più, provocando l’inevitabile stizza dell’altro, ma come potevo trattenermi data l’ironia della situazione?
 
“Non sono affatto il cavaliere che si erge a tutela del tuo onore e della tua ‘virtù’, anzi… - non potei fare a meno di pensare, ma ad alta voce mi limitai a dire - Senti che ne diresti di venire a cena con me?”
 
“Perché mai dovrei farlo?”, chiese, le labbra imbronciate in un modo davvero troppo invitante.
 
“Uhm, diciamo che per farmi perdonare questa piccola dimostrazione di ‘insensibilità’ vorrei offrirti del ramen. È sufficiente come motivazione?”
 
“Ramen hai detto?”
 
“Già, tutte le ciotole che vuoi.”, aggiunsi per rendere più appetibile la mia offerta.
 
“E siamo sicuri che offrirai tu?”, chiese ancora con fare sospettoso.
 
“Parola di boyscout.”, risposi, la mano destra posata sul cuore.
 
“Sei stato davvero un boyscout?”
 
 
“Certo che no.”, replicai divertito: ma quanto poteva essere ingenuo?
 
“Oh al diavolo, quando mai mi ricapiterà un’occasione simile?! Forza teme diamoci una mossa che il mio già non vede l’ora!”, esclamò con allegria, il malumore di poco prima completamente dimenticato.
 
Incantato dal bellissimo sorriso che stava rivolgendomi, eliminai la poca distanza che ci separava e lo afferrai nell’incavo del gomito, trascinandomelo appresso per tutti i corridoi della scuola.
 
La fretta di fare ritorno a casa era sparita, ma, in compenso, era stata ampiamente sostituita da quella di portare il dobe nel ristorante più vicino e trascorrere un po’ di tempo in sua compagnia al di fuori del contesto scolastico: non vedevo letteralmente l’ora di scoprire cosa mi avrebbe portato questa serata.
 
Chi mai avrebbe immaginato che una giornata iniziata tanto male, si sarebbe poi conclusa così bene?
 
 
 
 
 
 
 
 
 
NA: Salve di nuovo miei cari,
è da circa quindici giorni che non do miei notizie ed, in modo particolare, è da ben più di quindici giorni che non aggiorno.
Vi assicuro che mi è dispiaciuto parecchio non poter postare prima questo capitolo, ma ho scoperto con un certo sgomento che gli esami si sarebbero tenuti molto prima di quanto io mi fossi aspettata, perciò ho dovuto dedicarmi ad una sessione sfiancante di ‘studio matto e disperatissimo’.
Ho dato il primo esame venerdì scorso ( e per fortuna è andata bene) e subito dopo mi sono messa subito al lavoro per ultimare questo ottavo capitolo.
Non vi nascondo che me lo ero immaginato un po’ diverso, ma i continui rimaneggiamenti che ha subito hanno prodotto questo risultato e, per quanto io non ne sia molto soddisfatta, spero che voi lo sarete.
Nel caso in cui, come credo, anche voi rimarrete un po’ delusi, cercate di vedere il lato positivo: per Sasuke e Naruto si è dato un nuovo inizio ed i ragazzi ne hanno subito approfittato per godersi una bella cena l’uno in compagnia dell’altro.
Detto questo riuscite ad immaginare di cosa parlerà il prossimo capitolo? Personalmente non vedo l’ora di scriverlo perché dal nono in poi si fa sul serio!
 
Ringrazio quanti hanno inserito la storia tra le preferite, seguite o ricordate ed in modo particolare chi ha recensito sia il precedente capitolo che la one-shot Sasuke’s tale: un grazie davvero dal profondo del mio muscolo cardiaco.
Spero ci risentiremo presto anche se, avendo un esame già il prossimo mese (se non prima), sarà un po’ difficile. In ogni caso mi impegnerò per pubblicare almeno il capitolo nove, ma sono costretta a chiedervi nuovamente di avere pazienza.
Un bacio,
Psyche
 
PS: Cosa è accaduto tra Sasuke e suo padre durante la cena si scoprirà prossimamente anche se per voi non dovrebbe essere difficile da immaginare.

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Capitolo 11
*** Uscire con Sasuke Uchiha? Mai, forse, fatto ***


Salve carissimi,
prima di lasciarvi alla lettura vi ricordo che questo capitolo segue il POV di Naruto. Inoltre vi avviso che la parte scritta così racconta un sogno fatto dal protagonista, mentre quella preceduta da questi segni *** è un flashback.
Buona lettura.
 
 
L’intensa tonalità rosso porpora del cielo iniziava a sporcarsi di lunghe strisce bluastre, quando, spinti da una fiumana di folla, abbandonammo l’interno dell’autobus di linea.
 
“C’è ancora un po’ di strada da fare.”, disse il ragazzo al mio fianco, afferrandomi saldamente un polso e prendendo a camminare con sicurezza.
 
Il quartiere in cui ci trovavamo mi era completamente estraneo, ma, essendomi trasferito in città da poche settimane, non era poi così strano che io non lo conoscessi.
 
“Devo ricordarmi di chiedere all’ero-sennin di farmi fare un tour della città.”, pensai distrattamente, impegnato com’ero a guardarmi intorno.
 
Con crescente curiosità notai i molti locali sulla strada prepararsi all’apertura, il proprietario del negozio di dolci infondo alla strada, invece, calava la saracinesca sulla sua attività, incamminandosi verso casa fischiettando sereno.
 
Molti passanti si affrettavano diretti chissà dove, magari a sbrigare le commissioni dell’ultimo minuto, urtandosi gli uni con gli altri senza nemmeno fermarsi per porgere le proprie scuse.
 
Nel complesso sembrava una zona brulicante di vita, ma, per quanto tutto quel fermento riuscisse a suscitare la mia allegria, non potevo che sentirmi rassicurato dalla stretta ferrea dell’altro sul mio polso: d’altronde perdermi non era esattamente una delle mie priorità.
 
Ero ancora immerso in una muta osservazione, quando, dopo quelli che pensai fossero appena una decina di minuti, il mio compagno disse:
 
“Eccoci arrivati.”
 
La sua voce mi riscosse e mi spinse, con una certa impazienza, a spostare rapidamente lo sguardo tutto intorno a noi alla ricerca del ristorante che ci avrebbe ospitato.
 
Ad attirare i miei occhi fu l’insegna di legno di un piccolo chiosco.
 
“Ichiraku.”, lessi e il nome mi piacque istintivamente, tuttavia non sembrava affatto uno dei locali in cui credevo l’altro solesse consumare i suoi pasti.
 
“E’ qui che mangeremo?”, chiesi conferma, una piccola mal celata nota di speranza nella voce.
 
“Sì, ti piace?” e a questa replica non potei fare a meno di sorridere.
 
“Mm mm – annuii con enfasi – entriamo?”, domandai, trattenendomi a stento dal saltellare sul posto.
 
 Lui non rispose, ma mi guidò, tenendomi ancora saldamente per il polso, verso l’entrata del locale.
 
Ad accoglierci al nostro ingresso risuonarono la voce calda di un uomo e quella più delicata di una giovane donna che, data la somiglianza, doveva essere sua figlia.
 
I due si dimostrarono da subito molto cordiali e, a parer mio, anche parecchio divertenti, in particolar quando interagivano fra loro.
 
Mantennero viva la conversazione per tutto il tempo che impiegarono a preparare la mia maxi ciotola e quella piccola che avevano costretto il teme ad ordinare, del resto: “Giovanotto tu affermi di non amare il ramen solo perché non hai ancora assaggiato quello di Teuchi!”
 
L’espressione fatta dal teme in quel momento era davvero impagabile, tanto che avevo dovuto mordermi la lingua per evitare di scoppiargli a ridere in faccia.
 
Quando le nostre ordinazioni furono adagiate ancora calde e fumanti dinnanzi ai nostri nasi, padre e figlia si dileguarono nel retro, adducendo come scusa quella non molto credibile di dover fare l’inventario.
 
Probabilmente avevano voluto concederci un attimo di intimità per poter discorrere liberamente, ma il loro gesto cortese rischiava di risolversi in un niente di fatto: il mio celato imbarazzo, infatti, non mi predisponeva affatto ad intraprendere una conversazione e, se avessimo aspettato che a farlo fosse il teme, saremmo potuti rimanere in quel chiosco di ramen per i prossimi anni.
 
“Non che non mi piacerebbe – pensai – ma qualche impegno da onorare ce l’ho anch’io.”
 
Con questo pensiero ben stampato in mente, mi schiarii leggermente la voce con un colpetto di tosse e iniziai un po’ impacciato:
 
“Questo ramen è davvero buonissimo!”
 
“Mm, in effetti il sapore è migliore rispetto a quello che ha di solito questa brodaglia.”, replicò, guardando con fare meditativo il contenuto della ciotola.
 
Ignorando il fatto che avesse definito il mio adorato ramen una brodaglia, continuai:
 
“Sai non avrei mai pensato che mi avresti portato a cena in un chiosco.”
 
“Davvero?”, replicò, incrociando il mio sguardo.
 
“Mhm – annuii – mi vedevo già seduto al tavolo di uno di quei ristoranti super eleganti, preda del panico nel tentativo di non scegliere la posata sbagliata.”
 
Ghignò e disse col suo abituale tono intriso di ironia:
 
“Sapevo che, se ti avessi portato a cena in un posto simile, un dobe come te sarebbe stato solo capace di mettermi in imbarazzo…”
 
“Teme ma come ti…”
 
“… ho pensato che questo piccolo chiosco si adattasse meglio a te. Non ci sono mai molti avventori, perciò è il luogo ideale in cui trovare un po’ di pace, il cibo è ottimo e il proprietario è un uomo in grado di mettere tutti subito a proprio agio. In qualche modo sapevo che avresti preferito un ambiente così… – indicò con un gesto ciò che ci circondava -… in qualche modo accogliente, che la freddezza elegante di un ristorante di lusso.”, concluse, non dando peso alla mia interruzione.
 
Qualsiasi protesta stessi per dire all’inizio, mi morì sulle labbra e arrossì vivacemente.
 
Incapace di dire alcunché, tentai di prendere tempo portando alle labbra un’altra porzione abbandonate di tagliolini.
 
“Mhn che buono!”, non potei trattenermi dal pensare per la milionesima volta, le papille gustative in festa.
 
Per un singolo attimo dimenticai dove mi trovavo, con chi e in quale situazione e mi sentii fluttuare ad almeno qualche metro da terra, finché una voce velata di divertimento non mi riscosse da quell’attimo di estasi:
 
“Non riesco proprio a capire come possa piacerti tanto una simile… – lo fulminai con gli occhi – pietanza.” si corresse in extremis.
 
“Sono io che non riesco a spiegarmi il perché a te non piaccia: il brodo è caldo e saporito, la carne squisita e i tagliolini il loro perfetto accompagnamento. Cosa di preciso ti disgusta tanto?”, chiesi realmente curioso.
 
“Tutto quello che hai detto: preferisco il gusto acidulo e fresco di un piatto a base di pomodori, che quello saporito e speziato del ramen.”
 
“Quindi una pietanza per essere di tuo gusto deve contenere i pomodori?”, domandai un po’ perplesso.
 
“Sì, preferibilmente.”, rispose con serietà.
 
“Ma ci sono dei cibi che è davvero impossibile pensare di accompagnare coi pomodori.”
 
“Ad esempio?”
 
“Beh, ad esempio i dolci.”, risposi con un mezzo sorriso.
 
“Non mi piacciono.”, replicò semplicemente.
 
“Come possono non piacerti?! - chiesi con reale stupore, per poi pensare – Andiamo a chi non piacciono gelati, pasticcini e torte? Ma scherziamo?!”
 
“Prediligo i gusti amari e forti, tutto qui.”
 
“Certo che in quanto a cibo abbiamo gusti diametralmente opposti, neh?”, domandai retoricamente, ridendo.
 
“Forse è per questo che ti ho scelto.”, disse con una serietà tale, che mi spinse ad incrociare il suo sguardo.
 
“Scelto per cosa?”
 
“Per sperimentare quel meraviglioso sentimento che gli altri definiscono ‘amicizia’.”, rispose con una lieve nota di ironia nella voce.
 
“Cioè ti avrebbe attratto la diversità dei nostri gusti alimentari?”, chiesi divertito.
 
“No – affermò, riacquisendo il tono fermo di poco prima – mi ha attratto la nostra diversità in molti altri aspetti sia della nostra vita, che del nostro carattere.”
 
“Davvero? – domandai senza attendermi realmente una risposta – Perché io ho sempre pensato che, nel profondo, noi siamo simili.”, dissi, dando voce ad una verità che avevo compreso solo poche ore prima.
 
“Forse. – replicò, scuotendo leggermente le spalle – Credo che abbiamo bisogno di un po’ di tempo per conoscere ciò che ci distingue da ciò che ci rende uguali.”
 
“Concordo, quello che per ora dobbiamo fare è solo conoscerci meglio: se la nostra neonata amicizia avrà un seguito, dipenderà in larga misura dalla comprensione dell’altro che avremo acquisito.”
 
“Qualcosa l’uno dell’altro la sappiamo già.”, disse, un sorriso sghembo ad incurvargli le labbra.
 
“Sarei curioso di sentire cosa di preciso hai scoperto di me in così poco tempo.”, replicai allegramente, d’altronde le cose tra noi sembravano star procedendo per il meglio.
 
“So che il tuo piatto preferito è una brodaglia disgustosa, che ami la semplicità, che ti rende felice essere circondato da altre persone per via del tuo carattere solare e aperto, che sei un chiacchierone e, fin troppo spesso, dai fiato alla bocca senza soppesare le conseguenze, sei impulsivo, testardo e, in definitiva, un dobe con i fiocchi.”
 
Risi di gusto a quella descrizione per molti aspetti vicina alla realtà e non potei che essere felice, quando anche l’altro stiracchiò le labbra in un piccolo sorriso.
 
“Beh – dissi, non appena fui in grado di frenare la mia ilarità – io so per certo di aver a che fare con un teme taciturno, irritabile e pomodoeiromane, che ama il silenzio e la tranquillità, che è capace di stendere con frasi al vetriolo chiunque provi a invadere i suoi spazi. Arrogante fino all’inverosimile è, però, capace di mostrare gentilezza … quando ne ha voglia.”
 
“Il ragazzo che descrivi ha tutta la mia simpatia: si capisce subito che possiede qualità che i comuni mortali non possono neanche sognarsi di avere.”
 
Scoppiai in una fragorosa risata.
 
“Quale modestia, vostra altezza.”, pensai ironicamente.
 
“Vedo con piacere che vi state divertendo.”
 
La voce del proprietario del chiosco invase il piccolo ambiente, rendendoci palese il ritorno dell’uomo dalla sua missione nel retrobottega.
 
“Sì, molto e il suo ramen è davvero squisito.”, replicai con un sorriso.
 
“Sono felice che sia di tuo gusto, ragazzo – disse con aria gioiosa – ma sono curioso di sapere qual è l’opinione del tuo amico.”
 
Osservammo tutti e due attentamente il teme in attesa di una risposta, gli occhi ridotti a due fessure minacciose.
 
“E’ passabile…” giunse il verdetto, emesso con la solita aria impassibile.
 
“Sei senza speranza.”, borbottai imbronciato.
 
“Tsk, dobe.”
 
“Su, su non fate quelle facce – si intromise il gestore che, anche dopo le parole del teme, non aveva perso il sorriso – Vorrà dire che la prossima volta che verrete, cercherò di preparare un ramen ancora più buono che riesca a soddisfare entrambi.”
 
“Che sant’uomo. - pensai con ammirazione – Dovrò costringere il teme a tornare qui ogni volta che ci sarà possibile, anche perché non vedo l’ora di assaggiare di nuovo il ramen di Teuchi.”
 
Sorrisi e, decidendo di tenerlo per me, ripresi a prender parte alla conversazione.
 
 
 
Il resto della serata procedette tranquillamente e in allegria, tanto che né io né il mio nuovo amico notammo lo scorrere veloce del tempo.
 
Quando abbandonammo il piccolo chiosco, era davvero molto tardi e, in maniera del tutto inaspettata, un pensiero giunse a bloccare i miei passi che seguivano quelli dell’altro.
 
“Tutta questa situazione è incredibilmente simile a… - mi dissi, per poi darmi dello sciocco – No, non lo è. Siamo lontani mille miglia dagli Stati Uniti.”
 
Malgrado cercassi di rassicurarmi ripetendomi più e più volte questa frase nella mente, il mio corpo si rifiutava di obbedirmi e mi impediva di riprendere a camminare.
 
In preda ad un panico crescente sollevai lo sguardo per lanciare un muto S.O.S a Sasuke, ma, quando l’ebbi fatto, mi resi conto con raccapriccio di essere completamente solo.
 
Le luci dei locali avevano smesso di brillare, non c’erano passanti sui marciapiedi, né auto a sfrecciare veloci sull’asfalto: tutt’intorno a me era rimasta solo una fitta tenebra.
 
“Ciao, Naruto.”
 
“Questa voce… o Kami-sama, ti prego non di nuovo.”, pensai, ormai completamente nel panico.
 
“Non sei felice di vedermi?”, chiese la voce con un tono di finta tristezza.
 
“Non ti vedo affatto – replicai, guardandomi freneticamente intorno senza distinguere nulla -, ma anche se potessi non ne sarei felice.”
 
“Perché dici questo? – domandò e dal buio vidi emergere la tetra figura che abitava i miei incubi.
 
“Smettila di prendermi in giro! – urlai esasperato – Sai benissimo il perché.”
 
“Io non ti ho mai mentito, Naruto, se la verità ti causa dolore non posso esserne considerato responsabile. Tu sai che ho ragione, ma ti rifiuti di ammetterlo.”, disse con voce calma e pacata.
 
“No, tu continui a mentirmi, a tormentarmi così che io decida di seguirti.”, replicai, guardandolo con disprezzo.
 
“Non ho bisogno di certi mezzucci – pronunciò lentamente e in un attimo mi fu ad un palmo dal naso – Se solo volessi, potrei costringerti a fare tutto ciò che voglio.”
 
“Stammi lontano.”, sbiasciai, divorato dalla paura, provando inutilmente a scostarmi.
 
“Così mi ferisci, Naruto e mi obblighi a procurarti lo stesso dolore.”, sussurrò, mentre una sua mano andava a stringersi sulla mia gola.
 
Senza che potessi fermarle, calde lacrime iniziarono a solcarmi le guance, mostrando all’altro quanto in realtà io fossi debole e quanto realmente lo temessi.
 
“Non piangere – disse e con l’atra mano andò ad asciugare le stille salate versate – l’ultima cosa che vorrei è arrecarti dispiacere, ma tu mi costringi.”
 
“C-come?”, riuscii a stento a chiedere tra i singhiozzi.
 
“Rifiutando di seguirmi: se tu ti arrendessi al mio volere, io non sarei mai così duro con te.”
 
“D-dove è il r-ragazzo che e-era con m-me?”
 
“Lui non può aiutarti. – rispose, stringendo la presa sulla mia trachea – Lui ti ha abbandonato, proprio come hanno fatto tutti gli altri.”
 
“Non ti credo.”, replicai, ripensando alla stretta rassicurante dell’altro sul mio polso, al calore e alla sicurezza che mi aveva trasmesso.
 
“Fai male a non farlo – strascicò con cattiveria, stringendo ulteriormente la presa – ma, quando lui ti abbandonerà, io sarò sempre qui ad attenderti.”
 
“Non lo farà. Lui… lui non potrebbe mai farlo, lo sento.”, dissi con convinzione.
 
“Attento, mio piccolo Naruto, perché non sempre le nostre percezioni corrispondono a verità – replicò e, finalmente, allentò la presa sul mio collo – Ricorda: ti aspetto…”, sussurrò al mio orecchio e io non potei trattenermi dal rabbrividire.
 
“Mai, non verrò mai da te…”
 
 
 
 
 
 
Aprii piano gli occhi, sbattendo più volte le palpebre nel tentativo di allontanare il sonno e con esso i residui del pianto.
 
“Ho fatto di nuovo quel sogno.”, pensai e un lieve sospiro abbandonò le mie labbra.
 
Da un paio di notti un nuovo incubo imprigionava il mio sonno tra le sue spire, eppure il ricordo da cui prendeva le forme era uno dei più piacevoli che custodissi.
 
“La consapevolezza che lui è là fuori, da qualche parte ad aspettarmi, è distruttiva: niente è più capace di sfuggirle, non il passato… e neppure il presente.”, riflettei, mentre una sensazione di profondo sconforto si impadroniva di me.
 
Sarei rimasto a crogiolarmi nell’autocommiserazione per molto tempo ancora, se il trillo del cellulare non avesse richiamato la mia attenzione.
 
Con un movimento pigro e svogliato, allungai il braccio per afferrare il rumoroso apparecchio.
 
 
  • Buongiorno dobe! Siccome sono assolutamente certo che il tuo piccolo cervello l’avrà già rimosso, ti ricordo che oggi dobbiamo vederci per quell’uno contro uno. Non farmi aspettare
 
 
Rilessi il messaggio un paio di volte, poi, come un fulmine a ciel sereno, giunse la comprensione e mi precipitai giù dal letto a tutta velocità.
 
“Merda, mi sono completamente dimenticato di aver dato appuntamento al teme!”, affermai ad alta voce, portando una mano ad impattare violentemente contro la fronte.
 
“E adesso?”, chiesi a me stesso.
 
Ero veramente esausto, del resto durante la notte non riuscivo a riposare come avrei dovuto, ma non volevo dare buca all’altro, soprattutto perché ero stato io nei giorni passati ad insistere per questa partitella amichevole.
 
Con una buona dose di determinazione, pigiai sul tasto ‘rispondi’ e scrissi rapidamente:
 
 
  • Ci sarò, teme e, mentre mi aspetti, inizia ad abituarti all’idea della tua sicura sconfitta.
PS: buon giorno anche a te, capelli a culo d’anatra.
 
 
 
Una volta inviato il testo, poggiai il cellulare sulla scrivania e mi affrettai in direzione del bagno.
 
“Coraggio, Naruto – mi dissi a mo’ di incoraggiamento – è inutile lasciarsi sommergere dallo sconforto. Adesso sei al sicuro e devi mettere da parte i brutti pensieri una volta per tutte.”
 
Certo era più facile a dirsi che a farsi, ma restare chiuso in casa a compiangermi non avrebbe cambiato la situazione in cui mi trovavo, perciò tanto valeva passare il mio tempo fuori a divertirmi.
 
Annuii al me stesso riflesso nel piccolo specchio, mi spogliai ed entrai nella doccia.
 
“Certo che è un po’ strano – riflettei, mentre un sorriso mi arricciava le labbra – alzarsi alle sette di una normale domenica mattina per andare a giocare a basket con Sasuke.”
 
E pensare che è nato tutto dal mio intento di voler chiarire con l’Uchiha i miei rapporti col suo ‘ragazzo’.
 
Risi divertito al ricordo dell’espressione oltraggiata del teme, quando…
 
 
 
 
***
 
“… posso giurarti che non ho allungato le mani sul tuo ragazzo!”, quasi urlai, preda dell’imbarazzo.
 
“Ragazzo?”, domandò con un’evidente nota di confusione nella voce.
 
“Sì… Sai.”, risposi, lo sguardo basso.
 
“Quella sottospecie di… Ma quale ragazzo?!”, esclamò, alzando anche lui il tono di voce.
 
“Ma ti si è fuso il cervello sotto a quella pettinatura a culo d’anatra? Sai, te l’ho appena detto.”, replicai, iniziando a perdere la pazienza.
 
 “Non sto insieme a quella specie di copia carbone di me stesso.”, quasi ringhiò.
 
“Ma… ma hai detto che ti piaceva come una ciotola di ramen.”, balbettai con un filo di voce.
 
“Appunto, io odio quella brodaglia disgustosa.”
 
“Teme non offendere il ramen: è il piatto più strepitoso che esista.”, dissi con impeto, il dito indice in posizione ammonitrice direttamente sotto al suo naso.
 
L’altro rimase in silenzio per qualche secondo, poi, sbarrando gli occhi, pronunciò stentatamente e con tono oltraggiato:
 
“Oh Kami, non avrai creduto che io…”
 
“Certo che l’ho creduto! Puoi forse biasimarmi dopo la reazione che hai avuto quando ci hai visti insieme nei giardini? - domandai in modo retorico, mentre dentro la mia testa stavo chiedendomi in maniera insistente – Ma che diamine sta succedendo?”
 
“Oh scusa tanto se il fatto ti essere stato piantato in asso in mezzo al cortile della scuola mi ha fatto leggermente incazzare. In fin dei conti cosa altro avevo da fare io, a parte sprecare il mio preziosissimo tempo nell’attesa che tu finissi di limonare col tuo lui?”
 
“Limonare? Ma di cosa stai parlando?!”, replicai più confuso di prima.
 
“Oh su, Uzumaki, non c’è alcuna ragione di fingere: non ho nulla contro gli omosessuali, se è questo che ti preoccupa. Dimentichi forse che ho visto tutta la scena? Sai era praticamente seduto sul tuo bacino, il viso ad un centimetro scarso dalle tue labbra, mentre tu avevi gli occhi chiusi e un’aria alquanto impaziente.”
 
“Oh Kami-sama non avrà creduto che io… - pensai completamente sotto shock, ma mi affrettai ad affermare in tono risoluto - Teme ti assicuro che hai frainteso!”
 
“E allora spiegami: come stanno realmente le cose?”, chiese in modo brusco, le braccia sui fianchi e l’espressione scura.
 
“Sembra quasi un fidanzato geloso che chiede spiegazioni al suo ragazzo… - ridacchiai internamente – Giuro che se la situazione non avesse un che di drammatico, gli scoppierei a ridere in faccia: la sua espressione è davvero impagabile.”
 
Mi riscossi dai miei stessi pensieri con una breve scrollata di spalle, del resto non era proprio il momento di perdersi dietro ad astruse considerazioni: avevo un teme irascibile ancora in attesa di una risposta con cui trattare.
 
Il fatto era che, per dare una risposta alla sua domanda, avrei dovuto raccontargli un episodio imbarazzante che avrei tanto preferito tenere per me.
 
Sospirai e, facendomi coraggio, dissi:
 
“Beh… io – abbassai lo sguardo e arrossii fino alla punta delle orecchie – la verità… la verità è che mi ha fregato, ecco.”
 
“Spiegati meglio.”, ingiunse e avrei anche potuto rifiutare di rispondere, cosa che tra parentesi tentai anche di fare con un debole:
 
“E che diamine, teme, non puoi semplicemente accontentarti della spiegazione che ti ho dato?”
 
“Il punto è che non me l’hai data affatto.”
 
“Se lo dirai in giro, giuro che ti spellerò vivo, chiaro? – ingiunsi e al suo segno di assenso, continuai - Mi ha ‘avvertito’ che un grillo aveva deciso di farsi un bel giretto tra i miei capelli e, imponendomi di stare completamente immobile, si è avvicinato per poterlo scacciare. Istintivamente ho chiuso gli occhi, sai per non avere alcun tipo di riflesso involontario nel caso in cui l’insetto avesse deciso di abbandonare la mia testa. Bene, adesso sai tutto.”
 
“Cioè tu vuoi farmi credere di essere stato seriamente convinto di avere un grillo tra i capelli?”, domandò in tono ironico, un sopracciglio sollevato in segno di muto e quanto mai divertito stupore.
 
“Certo che sì, in fin dei conti eravamo all’aperto e non sarebbe poi stata una cosa così improbabile.”, replicai imbronciandomi e portando le braccia ad incrociarsi sopra al busto.
 
“Va bene, ammetto di essere stato un po’ ingenuo, ma non c’è certo bisogno di scoppiarmi a ridere in faccia. – pensai oltraggiato, per poi quasi urlargli contro - Teme non c’è nulla da ridere! Ho rischiato grosso e solo il tuo arrivo ha impedito a quel maniaco di portare il suo piano a buon fine. A pensarci bene forse dovrei ringraziarti anche per aver salvato la mia virtù…”
 
“Ma perché sta ridendo anche più forte di prima? Oh aspetta forse è perché mi sono dipinto quasi come una donzella in difficoltà? Uffa è stata la sua risata a mandarmi in corto il cervello, ecco.”, mi dissi mentalmente, mettendo su un broncio ancora più lungo del precedente.
 
“Senti che ne diresti di venire a cena con me?”, se ne uscì ad un certo punto.
 
“Perché mai dovrei farlo?”, chiesi, ancora scocciato per il suo dichiarato sfottò.
 
“Uhm, diciamo che per farmi perdonare questa piccola dimostrazione di ‘insensibilità’ vorrei offrirti del ramen. È sufficiente come motivazione?”
 
“Ramen hai detto? – chiesi ad alta voce, mentre interiormente pensavo – Accidenti sa toccare i tasti giusti.”
 
“Già, tutte le ciotole che vuoi.”
 
“E siamo sicuri che offrirai tu?”, chiesi con finto sospetto, già completamente vinto al pensiero di un’abbuffata gratuita di ramen.
 
“Parola di boyscout.”, rispose, la mano destra posata sul cuore.
 
“Sei stato davvero un boyscout?”, non potei trattenermi dal chiedere, curioso di sapere qualcosa in più su di lui.
 
“Certo che no.”, replicò divertito.
 
Gli rivolsi uno sguardo truce per quella piccola presa in giro, per poi esclamare:
 
“Oh al diavolo, quando mai mi ricapiterà un’occasione simile?! Forza teme diamoci una mossa che il mio stomaco già non vede l’ora!”
 
***
 
 
 
 
E fu così che finimmo per cenare in un chiosco davvero molto accogliente, il cui proprietario preparava un ramen tanto buono da leccarsi i baffi.
 
Se solo penso che chiedergli di essere amici è stato un impulso del momento che, tra l’altro, ha lasciato basito perfino il sottoscritto… beh non posso certo lamentarmi di come stiano andando le cose tra noi.
 
Non è che avessimo smesso improvvisamente di litigare, ma cercavamo di sforzarci di andare d’accordo e, quanto meno, di comprendere le ragioni dell’altro.
 
Sorrisi ancora al pensiero dei giorni da poco trascorsi e, chiudendo l’acqua, uscii dalla doccia gocciolando copiosamente sul pavimento.
 
Dopo essermi asciugato con un largo asciugamano di spugna, tornai in camera ed iniziai a cercare in quel caos che era il mio armadio un paio di shorts puliti.
 
Una volta recuperato il su detto capo, afferrai la prima maglietta che mi capitò sotto mano ed iniziai a vestirmi con calma.
 
Circa una decina di minuti più tardi ero praticamente pronto, ma prima di uscire di casa, pensai bene di portarmi dietro anche un piccolo zaino con dentro una bevanda energetica e un asciugamano.
 
“Non si sa mai.”, pensai.
 
Presi il piccolo borsone e, con un’ultima occhiata gettata alle spalle, chiusi la porta del mio appartamento, avviandomi al campetto dove il teme mi stava aspettando.
 
 
 
 
 
“Ce ne hai messo di tempo, dobe.”, risuonò infastidita alle mie orecchie una voce fin troppo familiare.
 
“Mi dispiace, teme, ma a causa del traffico l’autobus ha tardato un po’ ad arrivare a destinazione.”, dissi, girandomi nella direzione da cui era provenuta la voce.
 
Ero arrivato al campetto con una ventina di minuti di ritardo e, una volta messo piede al suo interno, non avevo trovato nessuno ad attendermi.
 
“Stavo iniziando a pensare che te ne fossi andato.”, quasi sussurrai, dando voce al timore che mi aveva colto alla vista dello spiazzo deserto.
 
“Ci ho pensato seriamente, ma non volevo che il tuo prevedibile cervellino credesse che a spingermi non fosse stata l’attesa, quanto la paura di una sconfitta.”, replicò, un piccolo ghigno a piegargli le labbra.
 
Probabilmente era il suo modo di scusarmi per il ritardo o, almeno, fu così che io interpretai le sue parole, perciò gli sorrisi allegramente.
 
“Neh, pronto per essere sconfitto?”, chiesi con tono provocatorio e divertito al contempo.
 
“Se fossi in te, io non ne sarei così sicuro.”, replicò allo stesso modo.
 
“Vedremo.”, sibilai e con un movimento repentino gli sottrassi la palla che reggeva sotto il braccio.
 
Iniziammo subito a giocare al massimo delle nostre possibilità, con azioni e blocchi serrati che lasciavano all’altro poca libertà di movimento.
 
Dalla mia avevo l’esperienza fatta sulle strade che mi dava davvero un grande vantaggio, visto che Sasuke spesso non era in grado di prevedere le mie mosse ed era costretto a ripiegare in direzione del suo canestro.
 
Era anche vero, però, che il mio compagno era un buon giocatore e che, perciò, in un paio di occasioni riuscii seriamente a mettermi in difficoltà.
 
Accade tutto velocemente.
 
Giocavamo da quasi un’ora e la stanchezza iniziava a rallentare i movimenti di entrambi, rendendo l’andare a canestro un’operazione davvero complessa.
 
Dall’inizio di quest’ultimo quarto, avevo iniziato a sentire le membra pesanti, ma non vi avevo dato peso ben consapevole del fatto che, dopo una partita conclusa e la seconda quasi al suo termine, in effetti non c’era nulla di anomalo.
 
Riuscii a sottrarre la palla al teme dopo una strenua marcatura e, cogliendo al volo l’occasione per chiudere in bellezza anche quel tempo, mi precipitai in direzione del canestro.
 
Sasuke non mi mollava, restando alle mie calcagna e cercando di rubarmi palla o ostacolarmi nell’avanzata ad ogni palleggio.
 
Purtroppo per lui la sua difesa fallì, così, una volta giunto alla mia meta, spiccai un salto per eseguire una eclatante schiacciata.
 
Provai una forte sensazione di euforia: ero in alto a godermi il distacco dalla gravità terrestre, la mia elevazione era perfetta ed il teme, leggermente in ritardo nel salto, non sarebbe riuscito a stopparmi il tiro.
 
Mi preparai ad infilare la palla a canestro, ma la vista mi si appannò e mi sentii mancare.
 
“Accidenti! Credo di stare per perdere i sensi.”, fu l’ultimo pensiero razionale che riuscì a formulare.
 
Poi il buio.
 
 
 
 
 
“Uzumaki.”
 
“Di chi è questa voce? Cosa vorrà mai da me?”, mi chiesi a metà tra la realtà e l’incoscienza.
“Uzumaki.”
 
“Mi sembra di conoscerla, ma proprio non riesco a ricordare a chi appartenga.”
 
“Svegliati, Naruto!”
 
Fu la preoccupazione intrisa nel pronunciare il mio nome a spingermi ad accontentare la richiesta fattami e, con una certa fatica, a sollevare le palpebre.
 
La luce improvvisa mi accecò, spingendomi a richiuderle, ma la persona che era al mio fianco sembrò comunque tranquillizzarsi.
 
“Dobe, per fortuna stai bene.”, disse, infatti, il sollievo perfettamente percepibile nel tono di voce.
 
“Questo insulto… dove l’ho già sentito?”, mi domandai distrattamente, mentre mille palline colorate continuavano a lampeggiarmi davanti agli occhi.
 
Quasi come a voler darmi una risposta, nella mia mente si fece lentamente largo, tra la nebbia dell’intorpidimento, il volto di un giovane dai corti capelli scuri e gli occhi del colore dell’ossidiana più nera.
 
“Sas’ke.”, pronunciai flebilmente, mentre la confusione lasciava spazio alla consapevolezza.
 
“Sì, sono qui.”, replicò l’altro, stringendomi con delicatezza una mano.
 
“Che è successo?”, chiesi, la voce ancora impastata.
 
“Stavi tirando a canestro, quando, d’improvviso, hai perso i sensi.”, rispose pacato.
 
“Oh, giusto – pensai, ricordando finalmente quanto accaduto e riaprendo piano gli occhi – Forse ho esagerato un po’: mi dispiace di averti fatto preoccupare.”, dissi, rivolgendogli un piccolo sorriso storto.
 
“Che vuoi dire?”, domandò, assottigliando gli occhi.
 
“Ho iniziato ad avvertire un bel po’ di stanchezza verso la fine, ma ho pensato che fosse dovuta al movimento. Avrei dovuto essere più accorto, soprattutto considerato il fatto che ieri notte non ho quasi chiuso occhio.”, risposi un po’ sovrappensiero, mentre notavo per la prima volta la posizione in cui ci trovavamo.
 
A sostenermi la testa c’era qualcosa di morbido, probabilmente doveva trattarsi della felpa di Sasuke, considerato il fatto che lui non la stava più indossando; avevo le gambe sollevate e il teme, che le reggeva, era proteso verso di me con lo sguardo più minaccioso che gli avessi mai visto.
 
“Sei un vero dobe, Uzumaki – urlò arrabbiato – perché non mi hai detto subito che qualcosa non andava? Anzi perché questa mattina non mi hai scritto che non ti sentivi in grado di sostenere una partita?”
 
“Non l’ho fatto perché non era affatto così. Certo ero stanco, ma non tanto da non riuscire a giocare un uno contro uno con te per un paio d’ore.”, risposi, cercando di calmarlo.
 
“E’ evidente quanto tu ne fossi in grado: cazzo mi hai spaventato!”
 
“Scusa.”, dissi, abbassando lo sguardo.
 
“Per non parlare del fatto che avresti anche potuto ferirti seriamente – sospirò pesantemente, poi aggiunse – a proposito: stai bene?”
 
“Sì, niente di rotto per fortuna.”, replicai in tutta onestà.
 
Ero un po’ ammaccato, sicuramente a causa dell’impatto col suolo, ma non sentivo altro dolore e quello che provavo non era poi così insopportabile.
 
Inoltre non volevo far preoccupare ulteriormente il teme, perciò era meglio tenere queste considerazioni per me e dar voce solo agli aspetti positivi.
 
“Riesci ad alzarti?”, domandò, riportando le mie gambe distese sull’asfalto.
 
“Mm, ci provo.” ma al primo tentativo rischiai nuovamente di cadere e sarei finito col sedere per terra, se Sasuke non mi avesse prontamente afferrato.
 
“No, a quanto pare sei ancora troppo debole. Molto bene, riesci a stare in posizione eretta per due minuti?”
 
Annuii e lo osservai abbassarsi lentamente dandomi la schiena.
 
“Forza, non ho tutto il giorno.”, ingiunse con tono scocciato.
 
“Eh?”, domandai, senza riuscire a capire quali fossero le sue intenzioni.
 
“Sali, dobe, ti accompagno a casa.”, chiarì con impazienza.
 
Avrei tanto voluto rifiutare quell’offerta gentile e quanto mai imbarazzante, ma, il tremolio delle mie gambe sul punto di cedere ancora, mi convinse ad addossarmi all’altro.
 
Il teme mi sollevò apparentemente senza sforzo e, per facilitargli il trasporto, io strinsi subito le braccia intorno al suo collo e le gambe alla sua vita.
 
“Pronto?”, chiese, stringendo la presa su di me.
 
“Sì, ma come faremo a trasportare gli zaini?”, osservai, lanciando un breve sguardo ai nostri borsoni abbandonati su una panchina.
 
“Chiederemo al custode del campo di occuparsene e domani torneremo a riprenderli.”, rispose, mentre già aveva iniziato ad avviarsi alla guardiola dell’uomo.
 
Una volta spiegato l’accaduto e aver rassicurato il guardiano sulle mie condizioni, ci incamminammo in direzione del complesso di appartamenti in cui vivevo.
 
Malgrado le occhiate stranite che i passanti ci rivolgevano, stare aggrappato a Sasuke a ridosso della sua schiena, non era affatto spiacevole.
 
Mi godetti il silenzio e lo strano calore di quel momento, ma, prima di cedere definitivamente alla forza che stava obbligando le mie palpebre ad abbassarsi, gli sussurrai all’orecchio:
 
“Grazie, Sas’ke.”
 
Sorrisi quando l’altro rafforzò ulteriormente la sua presa e, finalmente, cedetti a Morfeo e alle sue lusinghe.
 
 
 
 
NA: Salve carissimi,
mi dispiace avervi fatto aspettare tanto, ma la mia settimana di riposo post studio si è rivelata essere più stancante che altro.
Non ho avuto un attimo di tempo per dedicarmi al capitolo e, quando cercavo di ritagliarmi un po’ di tempo, immancabilmente arrivava qualcuno a rompere le scatole.
Ho accumulato talmente tanto stress, che, mentre scrivevo, il capitolo ha finito con l’assumere un aspetto totalmente diverso da quello progetto che avrebbe solo dovuto presentare un tranquillo momento tra i due protagonisti.
Spero davvero che vi piaccia e che vogliate lasciarmi una recensione, anche se breve: ne ho bisogno come l’aria, soprattutto adesso.
Manca l’ultimo esame e poi potrò prendermi un po’ di riposo e scrivere con più regolarità. * festeggia e si dispera al contempo per l’esame imminente *
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Inoltre ringrazio anche chi semplicemente legge o da un occhiata alla storia: siete in molti il che è una piacevole sorpresa per me.
 
Poi un ringraziamento SPECIALE va a chi ha recensito: mekbul, ryanforever e Jo95.
 
Un bacio grande a tutti voi e speriamo di risentirci presto.
Psyche07
 

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Capitolo 12
*** Avviso Revisione Capitoli ***


Salve piccioncini :D anche se con estremo ritardo, vi comunico che il secondo capitolo è stato rivisto. Al solito non proseguite oltre. Quanto al terzo non faccio pronostici, visto che ogni volta finisco col non rispettarli. Cercherò di postarlo al più presto. Intanto buona lettura :* aspetto di conoscere le vostre opinioni, positive o negative che siano.

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