Beauty Is The Beast

di Defective Queen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** cap 1: Roxanne Miller ***
Capitolo 2: *** cap 2: Incastrata ***
Capitolo 3: *** cap 3: L'invito ***
Capitolo 4: *** cap 4: Nella tana del nemico ***
Capitolo 5: *** cap 5: Perfezione imperfetta ***
Capitolo 6: *** cap 6: La spaccacuori ***
Capitolo 7: *** cap 7: Fidati di me ***
Capitolo 8: *** cap 8: Prima legge di Murphy ***
Capitolo 9: *** cap 9: Il suo sorriso, la mia rabbia ***
Capitolo 10: *** cap 10: A chi importa ***
Capitolo 11: *** cap 11: Le sue colpe ***
Capitolo 12: *** cap 12: Legame ***
Capitolo 13: *** cap 13: Per Amore ***
Capitolo 14: *** cap 14: La Fine ***
Capitolo 15: *** cap 15: Futuro ***
Capitolo 16: *** cap 16: Correre, correre ***
Capitolo 17: *** cap 17: Cronache di un sabato tipo ***
Capitolo 18: *** cap 18: Sotto tiro ***
Capitolo 19: *** cap 19: Incompleta senza te ***
Capitolo 20: *** cap 20: Il mondo e Noi ***
Capitolo 21: *** cap 21: Frullato di ricordi ***
Capitolo 22: *** cap 22: Cambiamenti di stato ***



Capitolo 1
*** cap 1: Roxanne Miller ***


Con mia grande sorpresa, ho scoperto che esiste un’attrice di nome Kate Hudson, bella e bionda come la mia protagonista. Non è stato assolutamente fatto apposta, semplicemente è un nome che m’è venuto di getto per la mia protagonista e quando ho scoperto che esisteva effettivamente qualcuno che aveva il suo stesso nome e corrispondeva così tanto alla descrizione, non mi sono sentita di cambiarglielo. Perciò la mia NON è la Kate Hudson attrice, visto che fino ad ieri non conoscevo la sua esistenza.
Voglio, inoltre, specificare che Kate, Roxanne, le Gallinelle, Jason e tutti gli altri personaggi e fatti che appariranno qui appartengono solo a me e alla mia immaginazione. Niente plagio, dunque.
 
Posso affermare che andando avanti, la storia si fa enormemente più interessante, dato che Kate assume un aspetto a mio parere più “umano” di quello iniziale (e anche il mio modo di scrivere si è evoluto assieme a lei), ma in ogni caso o la si ama o la si odia. Io personalmente la amo spassionatamente, e si vede XD.
Consiglio a tutti di andare avanti e nel caso dare una reale possibilità alla storia, proprio perchè gli ultimi capitoli sono quelli dove risulta più evidente lo sviluppo psicologico dei personaggi e l'evoluzione della trama.
A voi la scelta  ;)


Beauty is the Beast


26 marzo
 
Prima di tutto: non voglio iniziare con "Caro Diario". Mi sembra troppo stupido.
Secondo, ma non meno importante, il mio nome è Katherine Johanne Hudson – conosciuta da tutti semplicemente come Kate Hudson – e ho 18 anni.
A dire il vero, non so perché ho deciso di iniziare questo diario, infatti mi sento una sciocca ragazzina in questo momento.
Eppure, ho pensato che scrivere un po’ su di me su qualche pezzetto di carta rilegato a mo’ di agenda – per descrivere in maniera magnanima questo stupido coso che mi ha regalato mia zia per il compleanno due mesi fa – mi avrebbe aiutato a capire qualche cosa in più su me stessa e anche a riflettere su cose di cui non parlo mai a nessun altro.
Non che non abbia qualcuno con cui parlare se volessi, più che altro è che non mi servono dei confidenti, amici come li chiama qualcuno. Non ne ho mai avuto bisogno e non vedo perché dovrei volerne adesso.
Le persone che mi circondano sono poco essenziali, pezzi di ricambio da manovrare secondo i miei bisogni. Sto dicendo la pura verità, è inutile nascondersi quando si parla con sé stessi, tanto vale ammettere tutto.
Sono popolare e so che chiunque farebbe salti mortali pur di realizzare i miei desideri e le mie richieste. Persino tra le ragazze possiedo autorità e ricevo rispetto, poiché vengo vista come una sorta di trampolino per i ragazzi più ammirati della scuola che, senza dubbio, non vedono altro che me.
“Occhi blu profondi e preziosi come zaffiri”, “capelli luminosi che sembrano fatti di oro puro”, “un fisico logilineo e flessuoso”, “un sorriso più sfavillante di mille stelle”, questi sono tutti aggettivi che un mio ammiratore mi attribuì in una lettera piuttosto appassionata. Ricordo di essermi fatta quattro risate, per poi gettare il foglietto nelle profondità di un cassetto della mia scrivania, assieme ad altre cartacce.
Non l’ho mai ringraziato per quei complimenti, credo, e se pure l’avessi fatto non era sul serio. Li ritengo dovuti. Sono bella e mi pare una cosa ovvia che gli altri lo riconoscano.
E’ normale, no?
Detto ciò, immagino di aver già specificato che non mi faccio scrupoli nell’usare mezzi di ogni tipo per ottenere ciò che voglio. Ho sempre trovato stupide quelle persone che si sforzano tanto per raggiungere qualcosa e poi ricevono in cambio solo un pugno di polvere.
Io non rischio, non fatico, eppure raggiungo sempre i miei obiettivi. Non lo trovo un atteggiamento ingiusto, semplicemente sensato.
Che male c’è a scendere a compromessi, talvolta?
Detto ciò, immaginate la mia sorpresa nel vedere qualcun altro che, spuntato dal nulla, in pochi giorni si è ritrovato ad essere famoso in tutta la scuola quanto la sottoscritta.
Le quattro Gallinelle con cui pranzo ogni giorno non fanno che parlare di lei: Roxanne Miller, la nuova ragazza che si è trasferita la settimana scorsa dalla Florida.
Frequenta il mio stesso anno, a quanto ho capito, ma non l’avevo mai vista in giro prima di stamane. Sinceramente, viste tutte le chiacchiere che l’avevano preceduta, mi aspettavo qualcosa di più di una ragazzina normale e insignificante come lei. I suoi capelli, di una sfumatura appena più chiara del mogano, potrebbero essere persino particolari se solo lei non li avesse legati in una treccia disordinata dalla quale fuoriescono numerosi ciuffi. I suoi occhi blu potrebbero essere anche interessanti se solo lei non indossasse occhiali da lettura anche oltre l’orario delle lezioni e il suo fisico minuto potrebbe essere risaltato da qualche abito più audace, invece che una semplice T-shirt rosa e dei jeans apparentemente logori.
Insomma, non capisco come abbia fatto questa ragazzina a diventare la nuova mascotte della nostra High School.
Ho sentito persino dire da un tizio, Jason, con cui mi intrattengo di solito non appena si presenta un’ora libera – non credo sia necessario spiegare i nostri modi di intrattenimento – che anche se all’apparenza Roxanne Miller non appare un granché, è in realtà una ragazza educata, intelligente, gentile e  soprattutto molto simpatica.
Ho evitato di inserirmi nel discorso per precisare che la sua espressione mi era apparsa parecchio ottusa, quando l’avevo vista in corridoio, e Jason e gli altri hanno continuato a chiacchierare su di lei.
Sinceramente non capisco come abbia fatto a diventare così popolare. La simpatia o l’intelligenza non sono dei requisiti sufficienti, o almeno potrebbero esserlo solo per il gruppo degli sfigati. E poi da quando Jason ha iniziato ad apprezzare certe qualità in una donna? Onde evitare fraintendimenti, specifico di non essere gelosa. Come ho già detto, nella mia vita non c’è posto né per amici veri, né fidanzati. Quelli con cui ho a che fare sono solo “rimedi per la noia e la solitudine”, e Jason, tanto per essere sinceri, non è nemmeno l’unico rimedio che uso al momento.
Ritornando a Roxanne Miller, credo che la terrò d’occhio. Non mi convince il fatto che sia riuscita ad ammaliare tutti i suoi fans solo con il suo buon carattere. Penso che un giorno di questi l’avvicinerò. Prima o poi.
Prima o poi, forse, tornerò anche ad aggiornare questo diario. Il mio diario. Suona terribilmente strano dirlo!
Spero di riprendermi da questo capriccio momentaneo, perciò farei meglio a sventolare la manina verso il diario e dire: “A mai più!”.
Ok, anche salutare un diario non è una delle cose più sane di mente che abbia mai fatto.
Non so come concludere, ad essere sinceri, ma la pagina sta per terminare e non mi va di sprecarne un’altra per i miei stupidi vaneggiamenti.
Addio, allora. Goodbye. Sayonara.
Forse…
 

Kate

 
30 marzo
 
Ci sono ricascata, sono tornata a scrivere! E’ che ho qualche aggiornamento a riguardo la situazione di cui ho parlato quattro giorni fa…e mi andava di annotare gli sviluppi.
Non è perché io abbia preso il gusto di scrivere, semplicemente mi piace…un po’.
Va bene, sì, lo ammetto, è la stessa cosa.
Diciamo che mi diverte abbastanza…e penso continuerò con questa mia abitudine in modo saltuario. Non sono mai assidua in niente, figuriamoci a scrivere un diario!
Tornando al caso di Roxanne Miller, come dicevo prima, ci sono delle novità.
Tutti sembrano ossessionati da lei, dico sul serio! Non c’è posto dove non senta nominarla, apprezzarla e lodarla.
E’ successo qualcosa di assolutamente straordinario, inoltre, perché il gruppo delle Gallinelle – sempre quelle tizie con cui pranzo, o meglio, sono loro a pranzare con me – composto da Ashley, Rita, Sally e Nancy, non fa altro che parlare di lei. Ok, magari può sembrare qualcosa di secondario, ma io che conosco bene la situazione, ne vedo l’importanza. Le Gallinelle sono conosciute da tutti nella scuola – ovviamente non sotto questo pseudonimo, ci tengo a specificare che i diritti d’autore vanno tutti a me, anche se riconosco la mancanza di originalità – come il gruppo più snob ed elite, ma soprattutto sono famose per la loro abitudine di spettegolare su tutto e tutti. Anche sugli stessi elementi del gruppo. Qualcuno crede che vi appartenga anche io, ma oltre a condividere lo stesso tavolo del pranzo con loro e qualche chiacchiera superficiale sui ragazzi e capi d’abbigliamento, non c’è nient’altro che ci leghi.
Unpuro, semplice e conveniente rapporto d’interesse tra persone popolari che, usando la loro influenza combinata, badano a tenersi alla larga da coloro che non sono degni della loro attenzione. A dire il vero, nessuno che abbia mai conosciuto è stato mai degno della mia attenzione, al massimo della mia considerazione, niente di più.
Comunque, a parte questa piccola premessa, le Gallinelle, rinomate – come ho già detto – per le loro malelingue, parlano di Roxanne Miller in maniera impeccabile, anche in sua assenza. Ciò mi ha lasciata a dir poco scioccata e, tanto per farla breve, pochissime cose scioccano Kate Hudson. Ne ho viste fin troppe per potermene stupire ogni volta!
Quindi, trattenendo a stento il mio sgomento, ieri mi sono rivolta a Rita, la più sveglia delle Gallinelle, o almeno quella che si perde di meno in risatine e valanghe di “cioè” quando parla.
«Cosa c’è di così interessante in lei?», ho chiesto schiettamente, interrompendo gli sproloqui di Sally. Posso permettermi di interrompere gli altri, perché quando intervengo – e lo faccio raramente – ho assoluta priorità.
Rita mi ha guardato un po’ confusa, aggrottando le sopracciglia castane.
«Di chi parli?», mi ha domandato.
«Di Roxanne Miller! Non faccio altro che sentire Roxanne di qua, Roxanne di là e non capisco il perché!»
Ashley ha arricciato le sue labbra cariche di lip-gloss in un sorrisino e mi ha risposto: «Devi prima parlarci per capirlo.»
Bella parola, a questo c’ero arrivata anche io.
Dunque, il mio piano di parlarle personalmente e capire cosa nascondesse dietro la sua facciata di donna perfetta, sarebbe iniziato il giorno seguente, oggi stesso per la precisione.
Magari sto un po’ esagerando, magari sono diventata anche io come tutti gli altri ossessionati da lei, ma non m’importa. Ho bisogno di capire.
Con mia grande sorpresa, ho scoperto che Roxanne ha deciso di frequentare il mio stesso corso di francese, perciò ci saremmo viste ogni giovedì e venerdì a lezione. Non era questo il modo migliore per avvicinarla?
Stamattina entrando in classe, mi sono guardata attorno e l’ho vista, seduta in uno dei primi banchi a destra. Ero arrivata cinque minuti in anticipo, ma sembrava che lei mi avesse preceduto. Il posto accanto a lei era libero. Di solito, siedo negli ultimi posti in fondo all’aula, ma stavolta per lei avrei fatto un'eccezione. Non potevo lasciarmela sfuggire.
Roxanne, però, era talmente indaffarata nel cercare qualcosa nella sua borsa, da non essersi nemmeno accorta della mia presenza.
Mi sono avvicinata a lei, allora, e le ho rivolto uno di quei sorrisi che evidenziano la mia dentatura perfetta, naturalmente. Con l’esperienza ho imparato che questo è il miglior metodo per ammansire anche le tigri più feroci. Sapevo che non avrebbe potuto resistermi.
Accorgendosi di me, Roxanne Miller ha alzato di scatto il suo sguardo con un’espressione di pura sorpresa.
Io ho ampliato il sorriso che tutte le ragazze nella scuola mi invidiano.
«Ciao», ho detto.
Roxanne si è ritratta un po’, quasi intimorita dalla mia presenza – so bene di fare questo effetto – ma ha stiracchiato un mezzo sorrisetto imbarazzato, porgendomi la mano: «Salve, sono Roxanne Miller» (naturalmente, cara, lo sapevo già!) «…tu sei?»
Il mio sorriso è decaduto. Davvero non sapeva chi fossi? Dai suoi occhi riuscivo a leggere che sembrava sinceramente ignara del mio nome. Impossibile! L’intera scuola mi conosce! Sono passati secoli dall’ultima volta in cui ho dovuto presentarmi a qualcuno! La mia reputazione mi precede dovunque: tutti i nuovi arrivati imparano chi sono al massimo al secondo giorno della loro permanenza e capiscono subito come comportarsi con me. La Miller, invece, era in città da quasi due settimane e non aveva la minima idea di chi fossi, mentre io ormai ero ossessionata dal suo nome?
Questa scoperta mi ha a dir poco atterrito: non riuscivo assolutamente a crederci. Ero in blackout.
Non so in quale stato, alla fine, sono riuscita a presentarmi, stringendo la sua mano calda nella mia destra e borbottando un vago: «Kate Hudson».
Nemmeno quando le ho fatto presente il mio nome, lei mi è sembrata ricollegarlo a qualcosa.
Per lei ero una totale sconosciuta, una persona di cui aveva ignorato l’esistenza fino a quel momento.
Forse, per un solo istante, ho capito come si sono sempre sentite le altre persone nei miei confronti, ma era una sensazione troppo strana e mi ha messo a disagio.
Era un qualcosa di simile alla vergogna.
In principio avevo deciso di sedermi accanto a lei, tuttavia ho cambiato subito idea. Non mi piace ammetterlo, ma almeno qui posso permettermi di farlo: volevo fuggire da quegli occhi grandi, profondi e puliti, perché facevano risaltare fin troppo la sporcizia nei miei.
Probabilmente è questo che intendeva dire Ashley con le parole: “Devi prima parlarci per capirlo”.
 

Kate

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Capitolo 2
*** cap 2: Incastrata ***


2 aprile
 
Rileggendo la pagina di diario precedente sono scoppiata a ridere per la mia stupidità. Ho fatto una tragedia semplicemente perché Roxanne Miller non conosceva il mio nome, che sciocca!
Sono stata tentata di strappare il foglio, ma in fondo un momento di debolezza capita a tutti. Deprimersi per delle simili cazzate non è mai stata mia abitudine, ma fortunatamente so come riprendermi abbastanza in fretta.
Forse dovrei dare un po’ di questo merito anche a Jason, perché è bravissimo a risollevarmi il morale. Ma ora non mi va di parlare di questo: in fondo certe cose è meglio farle che scriverle.
Come promesso, non mi dilungherò di più. Posso solo dire che sono di certo più pimpante, perché ieri ho rivisto la Miller e lei mi ha salutato cortesemente, proprio come fanno tutti gli altri che riconoscono la mia posizione. Io le ho risposto con un semplice cenno del capo e l’ho superata senza sprecarmi in chiacchiere.
A pranzo, accerchiata dalle Gallinelle, ho avuto l’impressione di dominare nuovamente l’intera mensa. Ero consapevole degli sguardi che si alzavano su di me e, persino le mie “compagne” si sono concentrate sulla camicia di seta nera che indossavo, rivolgendomi ogni sorta di complimenti possibili. Stavo indossando un pregevole capo di alta moda che mi è costato una vera fortuna – fortunatamente papà mi ha prestato la sua carta di credito per fare spese -, eppure sapevo che non appena fossi andata via, le Gallinelle avrebbero cercato in tutti i modi di denigrare il mio look, poiché troppo lontano dalle loro possibilità. Dubito, inoltre, sia una faccenda riguardante puramente i soldi, il punto è che la mia stessa camicia non avrebbe fatto lo stesso effetto che aveva su di me, se fosse stata indossata da una di loro. L’abito non fa mai il monaco, cari miei.
Comunque, ritornando al discorso precedente, non mi importava nulla delle critiche che sarebbero seguite, perché sapevo che erano dettate esclusivamente dall’invidia nei miei confronti, e piuttosto mi godevo i complimenti che mi attribuivano in quel momento, come mi godo le carezze e i «Sei bellissima» di Jason quando siamo a letto.
A volte credo di vivere solo per sentirmi dire quelle parole.
Nick (sì, forse non l’ho mai nominato prima, ma è semplicemente un universitario che mi fa una corte serrata),  è un tantino più sofisticato in certi momenti, o quanto meno, è un po’ più originale nelle frasi che mi dedica. Ecco il bigliettino che mi ha fatto arrivare a casa con un mazzo di rose rosse:
 
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“I'll be your dream
I'll be your wish
I'll be your fantasy.
I'll be your hope
I'll be your love
Be everything that you need.
I love you more with every breath
Truly madly deeply do..
I will be strong I will be faithful
'Cos I'm counting on a new beginning.
A reason for living.
A deeper meaning.”

 
Poichè non trovavo le parole, le ho prese in prestito da una canzone, anche se ciò non sminuisce ciò che provo per te, Kate.
Accetta questo omaggio, mia dolce principessa.

 
Per sempre tuo, Nick.”
_______________________________________________________________________________________
 
Ho letto il tutto con un sorriso, un sorriso amaro.
Una parte di me ha ammonito Nick, dicendogli che è pericoloso regalare il proprio cuore a qualcuno che non si fa scrupoli a manovrarlo a suo piacimento, poi, però, mi sono accorta di essere io stessa quella persona.
Ho sentito un crack all’altezza del petto.
 
 
5 aprile
 
Sabato sono stata ad una festa a casa – per essere più specifici nella mastodontica villa - di Amanda Banks. E’ stato a dir poco uno sballo, ma il giorno seguente, la domenica, mi sono alzata con un mal di testa orribile da post-sbronza.
In più, nonostante mi sforzi di ricordare, ho dei vuoti di memoria abbastanza consistenti su come sia finita la serata. Non ricordo nemmeno chi mi ha riaccompagnata a casa! Fortunatamente mio padre non sa che sono rincasata oltre le 7 di mattina e so come corrompere facilmente mia madre per costringerla al silenzio. D’altronde, cose di questo genere mi capitano spesso.
A parte questo, oggi, ritornando ha scuola, ho scoperto di aver dato fin troppo per scontato il fatto che Roxanne Miller, dopo giovedì, avrebbe assunto una posizione marginale nella mia vita.
Oltre a frequentare con me il corso di francese, oggi ho appreso che la signorina Miller segue i miei stessi corsi di spagnolo, il lunedì, mercoledì e venerdì e di biologia, il martedì e il giovedì.
Insomma, avrei dovuto rassegnarmi al fatto di averla sempre intorno.
Quello che non mi sarei aspettata, però, era quello che sarebbe successo durante la lezione di spagnolo, stamane.
Il professor Gutierez, il mio insegnante di lingua straniera, nato da padre spagnolo e madre americana, eppure totalmente privo di qualsiasi fascino latino, stamattina è entrato in classe con un gran sorrisone e ci ha messi al corrente che gli studenti dello scambio culturale sarebbero arrivati tra appena un mese, a maggio. Ho sentito mormorii diffondersi tra i vari banchi e anche io ho pensato che probabilmente tra gli studenti provenienti dall’estero, avrei potuto trovare qualche tipo di mio gradimento.
Comunque, dietro l’avviso del prof, c’era chiaramente qualcosa di più, perciò, quando quest’ultimo ha visto che i mormorii concitati si erano calmati, ha ripreso a parlare: «Bene, allora, capirete chiaramente che noi, in qualità della scuola più in vista del Midwest, vogliamo accogliere gli studenti stranieri nel modo migliore. Avevamo, perciò, in mente di costituire un comitato di accoglienza che prepari tutto il necessario: visite turistiche nei  luoghi più suggestivi situati qui intorno, progetti per le varie materie, insomma tutti avvenimenti nei quali i nostri ospiti possano divertirsi e familiarizzare con noi. Di certo, chiedere ad uno studente del primo anno di fare un simile lavoro sarebbe impossibile, perciò mi rivolgo a voi del quinto anno, specialmente alla signorina Miller in quanto allieva migliore del mio corso…»
Poi ha indirizzato un sorriso smagliante verso la famosa Roxanne Miller.
Io tremavo di rabbia. Non è possibile! Sono sempre stata io l’allieva migliore del corso e questa tipa qui, un giorno spunta, chissà da dove, e mi frega il posto così, senza nemmeno faticare?
Forse non ho specificato che, sebbene sia una ragazza popolare, anche il mio rendimento scolastico è piuttosto buono. Nel mio caso, la bellezza non è sinonimo di stupidità. Chiunque mi abbia mai sottovalutato ha pagato caro l’affronto.
Fino ad ora, però, non c’è mai stato nessuno con cui competere. Mai.
Se qualcuno mi avesse detto che mi sarei trovata a competere per la popolarità con una ragazzetta insulsa come questa, gli sarei scoppiata a ridere in faccia.
Ditemi solo cosa diamine ci trovate in lei!
Incapace di trattenermi oltre, mi sono alzata, contenendo la mia furia e nascondendola dietro un candido sorriso.
«Professore, non ritiene che per la signorina Miller, in quanto nuova arrivata, questo sia un compito troppo difficile?», ho chiesto, mantenendo un tono accorato. Come se mi interessasse davvero la faccenda.
Gutierezne è rimasto interdetto. Sembrava davvero combattuto, incapace di decidere se rispettare la sua decisione precedente o piegarsi alla mia ragione. Più i secondi passavano, però, più vedevo che il volto dell’uomo sembrava rischiararsi. Stava cadendo inesorabilmente nella mia trappola, lo sapevo, e ne vedevo anche gli effetti.
Ma a quel punto, proprio prima che io potessi continuare con il mio monologo persuasivo, Roxanne Miller si è alzata in piedi, sul suo viso un’espressione preoccupata, ed è intervenuta: «Professore, la signorina Hudson ha ragione» (ma certo, cara, come potevo non avercela?) «Potrei avere delle difficoltà nel portare a termine il progetto, ma le garantisco che farò del mio meglio per non deluderla.»
Il mio sorriso si è incrinato. Gutierez si è illuminato: «Ne sono certo, signorina Miller. Probabilmente ho trovato la giusta soluzione: basterà assegnare lei e la signorina Hudson per svolgere questo compito. Perciò se avrà mai dei problemi potrà chiedere alla sua compagna, non crede che sia un’idea perfetta anche lei, signorina Hudson?»
Io ho annuito mestamente con un sorriso di circostanza, maledicendo incessantemente quell’ometto mezzo americano e mezzo iberico.
Ero fottuta. Mi ero cacciata da sola in quella situazione e per di più avrei dovuto sopportare la compagnia di Roxanne Miller! Ero convinta che nient’altro di peggiore potesse accadermi per oggi, invece mi sbagliavo.
Alla fine della lezione di spagnolo, mentre stavo uscendo dall’aula di lingue, tallonata da Jeff McLee, capitano della squadra di basket, Roxanne Miller mi ha raggiunta in fretta e furia.
Io ho alzato un sopracciglio al suo indirizzo, ma poi l’ho sostituito prontamente con un’espressione più amichevole. Non sia mai che mi comporti da maleducata, anche se ne sentivo l’impellente bisogno, vista la mia interlocutrice. Ho alzato una mano a mo’ di stop, fermando la parlantina di Jeff e ho lasciato che parlasse Roxanne.
«Uhm…ti volevo ringraziare», ha detto con un sorriso timido e ho notato che oggi non aveva gli occhiali, probabilmente portava le lenti, ma i capelli erano sempre raccolti in una ridicola treccia disordinata.
Io sono rimasta stupita: e di cosa voleva ringraziarmi? Del fatto che stavo cercando di screditarla davanti al professore?
«Per prima», ha aggiunto lei, in risposta alla mia occhiata dubbiosa, «Hai cercato di aiutarmi, offrendoti come mia patner per il comitato.»
A quelle parole, ho pensato sul serio che lei avesse frainteso un bel po’ di cose. Io mi sarei offerta? Direi che sono stata praticamente costretta!
«Te ne sono davvero grata! Non avrei saputo come fare senza di te! Spero che da ora in poi potremo lavorare bene insieme noi due!», ha esclamato, stranamente entusiasta, porgendomi la mano.
Io l’ho afferrata automaticamente, rendendomi appena conto di ciò che facevo. Poi se n’è andata, lasciandomi a rimuginare, mentre Jeff riattaccava con i suoi: “Se tu uscissi con me potremmo…”
Ridicolo. Assolutamente ridicolo.
E’ imbarazzante notare quante volte mi sia fatta fregare in una sola giornata, contando il fatto che dovrei essere io quella che frega costantemente gli altri.
Dovrei smettere di scrivere, adesso, ho perso più di un’ora a scarabocchiare su questo dannato coso ed è imbarazzante quanto ne sia diventata dipendente. Per di più, ho già consumato quasi tre pagine e non sopporterei di usarne altre. In tal caso, vorrebbe davvero dire che mi piace avere un diario, proprio come quelle stupide ragazzine che ci scrivono sopra le loro pene d’amore!
Sdolcinatezze simili non fanno proprio per me.
 
 
7 aprile
 
 
Salve. Ma insomma chi sto salutando? Adesso immagino di avere anche un pubblico? No, grazie, basto solo io a leggere queste minchiate.
Mi sento a dir poco distrutta. Non avrei mai immaginato che far parte del comitato di accoglienza fosse così stremante! A dire il vero, prima d’ora, ho partecipato solo al comitato per l’organizzazione del ballo di fine anno e il mio compito era raggruppare l’orchestra, cosa facilissima da fare, visto che erano coloro che volevano esibirsi a venire da me, piuttosto che io andassi da loro. Oppure, semplicemente, delegavo i miei compiti a qualcun altro che non vedeva l’ora di essere ordinato. Lo so bene che il periodo della schiavitù è finito, ma alcune persone hanno una tale, assurda predisposizione a farsi comandare, tanto da essere persino contenti di sbrigare delle faccende per qualcun altro. Come laboriose api operaie attorno all’ape regina. E ovviamente io sono la loro regina.
Essendo finita nel comitato non per mia volontà, non avevo intenzione di far nulla, ma per far questo dovevo trovare qualcun altro che aiutasse me e la Miller nel nostro compito.
Quando le ho proposto di radunare altre persone lei mi è sembrata alquanto interdetta: per quanto possa essere diventata popolare tra gli altri, non è assolutamente avvezza a gestire le cose in grande, né pensa di sfruttare i poteri a sua disposizione per delegare i suoi incarichi. Preferisce fare tutto da sola, manualmente e in modo orribilmente lento.
Tutte cose che mi fanno saltare i nervi.
«Senti, abbiamo poco più di un mese e tantissimo lavoro da fare, visto che possiamo farlo solo durante i momenti liberi dalle lezioni. Se fossimo in più persone potremmo gestire meglio la situazione», ho detto per convincerla.
Lei mi ha guardato rassegnata: «Immagino tu abbia ragione…»
Sono certa che con un po’ di lavoro potrei riuscire a piegare alla mia volontà anche lei. E’ assurdamente obbediente e così educata da essere un soggetto perfetto per le mie manipolazioni. Adesso che ci penso, anche a volerla insultare, ho scritto dei complimenti. Ecco perché tutte le persone parlano così bene di lei. Non puoi darle altri aggettivi.
Quello che non mi immaginavo, però, era che, nonostante mi avesse dato ragione, continuasse a fare di testa tua. Abbiamo radunato appena 4 persone, perché ha raccolto come membri solo il suo gruppo di amichette secchione, e quindi, come conseguenza di ciò, mi sono ritrovata a lavorare per davvero. Nessuno a cui rifilare i miei compiti, perché tutti gli altri erano fin troppo occupati con i propri. Ecco come ho finito per rimanere a scuola fino alle 8 di sera.
Un orario che non si ripeterà mai più, lo giuro sul mio odio per Roxanne Miller.
Adesso vado a letto, sono veramente distrutta. Così distrutta che non ho nemmeno più la forza di pensare che andare a dormire alle 11 sia scandalosamente inappropriato.
Potrebbe farmi anche male alla pelle.
Dio, dovrei smetterla di pensare a queste cose o mi verranno gli incubi!
 
 
8 aprile
 
 
Come previsto, la scorsa notte ho fatto un incubo, ma per mia (s)fortuna non riguardava la pelle del mio viso…anzi, molto peggio! Riguardava Roxanne Miller!
Come sono prevedibile ultimamente, vero?
Nel sogno, Roxanne appariva alquanto inquietante: aveva gli occhi rossi e iniettati di sangue, un frustino simile a quello di Catwoman e supervisionava una cava di raccolta del carbone, punendo senza pietà gli schiavi che trasgredivano le regole di disciplina. Io ero uno di questi (tralasciamo i miseri vestiti che il mio subconscio mi aveva fatto indossare) e per sbaglio, mentre andavo a lasciare in un secchio tutto il carbone che avevo raccolto, inciampavo, lasciando cadere a terra ciò che avevo tra le mani, con conseguenti fruste da parte di Roxanne/Catwoman.
Mi sono risvegliata in preda agli spasmi, completamente terrorizzata, anche se rileggere ciò che ho scritto qui, proprio in questo momento, è un tantino comico.
In ogni caso, per tutta la mattinata ho dovuto sforzarmi incredibilmente di non pensare agli occhi malefici della Roxanne del sogno, così differenti da quelli ingenui e acquosi di quelli della vita reale. Eppure le due immagini così diverse a volte si sovrapponevano, dandomi i brividi.
Comunque, per evitare che la vera Roxanne si intestardisse come aveva fatto ieri, mi sono messa di impegno e ho radunato tutte le persone che volevo, senza chiedere a lei il permesso. Quando ha visto una caterva di persone correre su è giù per la palestra (è dove stiamo allestendo il tutto), correndo di qua e di là con fogli, tempere, sedie e giornali, ne è rimasta stupefatta e dopo un po’ è venuta da me per dirmi: «Avevi ragione. E’ davvero molto meglio con più persone!».
Io le ho sorriso soddisfatta, sentendo un calore insolito al pensiero di vederla soccombere in mio favore, tornando a comandare gli altri nel fare qualcosa al posto mio. Roxanne, in quanto capo del comitato, avrebbe potuto fare lo stesso, ma se n’è tornata al suo lavoro, aiutando anche tutti coloro che sembravano in difficoltà.
C’è stato qualcuno che si è rivolto anche a me, ma io, prontamente, ho indirizzato tutti quanti verso la Miller, per la mia vendetta personale. Speravo di vederla dare i numeri, eppure lei non si è arrabbiata nemmeno una volta, mostrando a tutti la sua più completa disponibilità e mantenendo la incredibile pazienza anche verso coloro che la disturbavano ogni secondo. Dannazione! Per quanto mi sforzi non c’è una volta che abbandoni la sua indole di ragazza perfettina, buona e altruista fino al midollo! E’ estremamente irritante!
Quando poi ho finito di fare ordini non mi è rimasto molto da fare.
Guardavo gli altri, indaffarati, immersi nelle loro faccende, ma sostanzialmente occupati. Qualcuno sorrideva anche, passandosi una mano sulla fronte per raccogliere qualche goccia di sudore. C’era stanchezza, ma anche determinazione. Io, invece, me ne stavo lì, impalata a guardare gli altri e mi sono sentita per un momento così fuori posto che non ho resistito ad avvicinarmi alla Miller e ad unirmi a lei nel suo lavoro appena iniziato, visto che continuavano ancora a disturbarla senza sosta. Stava incollando su un foglio dove erano stati sparsi dei brillantini una serie di foto di alunni della nostra High School che avevano ricevuto dei premi di vario genere. Le ho sfilato il cartoncino dalle mani, continuando quello che lei stava facendo, dandole la possibilità di dedicarsi completamente al suo lavoro di consulenza.
Mi ha ringraziato con un sorriso enorme e io per ricompensa mi sono ritrovata con tutte le mani appiccicose di colla vinilica e brillantini fin dentro le mutande.
Ho fatto proprio un bell’affare, vero? Ovviamente, sono ironica, per intenderci.
Comunque, prima di andarcene (questa volta erano solo le 5 e mezza di pomeriggio, grazie al cielo), sono tornata a dare ordini, istruendo quelli che dovevano pulire. Anche rimettere a posto è un’attività che richiede coordinazione e per lo meno avevo qualcosa da fare. Jeff McLee ha interrotto prima gli allenamenti per venirmi a trovare e io per ringraziarlo del pensiero, l’ho mandato a gettare tutta l’immondizia che avevamo accumulato nei giorni passati.
Non scorderò mai con quale dedizione gettava i rifiuti per farmi contenta!
Poi mi si è avvicinata Patty Mason, una delle amichette inseparabili della Miller (non si conoscono da nemmeno un mese e sono così affiatate! Bah! Almeno le Gallinelle si sono formate da ben più tempo!) e mi ha chiesto: «Sai dov’è andata Anne?»
Non conoscendo nessuna Anne, le ho chiesto chi fosse.
Patty ha riso di gusto, civettuola: «Ma Roxanne, naturalmente! Secondo lei il nome “Roxanne” è troppo pomposo e preferisce farsi chiamare Anne perché è più semplice e immediato.»
«Ah», ho risposto schifata, «capisco. Comunque è andata un secondo ad aiutare quelli della scenografia con la Meyers.»
Mi ha ringraziato con fin troppa enfasi e poi è corsa via verso la sua carissima amica.
Io ho grugnito disgustata. Adesso anche l’unica cosa di lei che trovavo un tantino più particolare, il suo nome per intenderci, veniva rimpiazzato da un banalissimo Anne.
Usare “Roxie” come diminutivo è accettabile (anche se mi pare più un appellativo per cani), ma Anne proprio non lo posso accettare. Mia nonna si chiamava Anne (era il suo nome per davvero, non il soprannome) ma se avesse avuto a disposizione una figata di nome come Roxanne, credete che si sarebbe fatta chiamare semplicemente Anne?!
Assolutamente incredibile! Più conosco questa ragazza e meno la capisco, sul serio!
Jeff ha insistito per riaccompagnarmi a casa, ma quando si è sporto in avanti per darmi un bacio io mi sono ritratta disgustata…odorava ancora di immondizia!
 

Kate

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Capitolo 3
*** cap 3: L'invito ***


10 aprile
 
 
I giorni trascorsi dall’ultima volta che ho scritto sono stati un miscuglio ridicolo di momenti di relax, subito seguiti da un’intensissima attività.
Ho imparato a collaborare con la Miller, a patto di continuare a rivolgermi a lei come Roxanne, (perché diamine, questo è il suo nome e non lo renderò ridicolo apostrofandola come Anne!) e lei ha imparato a seguire i miei consigli, visto che, come ha già avuto modo di rendersi conto, sono sempre oculati e considerati.
Potrei anche assumere che tramite questa sorta di collaborazione io stia imparando il significato della parola “fiducia”. Tutto sommato, mettendo il mio rancore da parte, non è che sia difficile avere fiducia in Roxanne. E’ una persona talmente innocua che non potrebbe mai far male ad una mosca. Potrei affidarle totalmente la mia vita e star sicura che lei non ci farebbe nulla di male, ma come faccia lei a mettersi nelle mie mani con così tanta naturalezza non lo capirò mai…
Eppure, malgrado tutto ciò che sarei capace di fare, non ho deluso le sue aspettative.
Parlo del nostro comitato di accoglienza, naturalmente. Abbiamo stabilito di lavorarci su quattro volte a settimana, assieme a tutti gli altri che ho reclutando usando le mie armi più efficaci - il fascino e la popolarità, naturalmente – e Roxanne mi ha chiesto se potevo occuparmi dell’organizzazione della festa di benvenuto per i nostri tanto attesi alunni stranieri. Io ho accettato, pentendomene un secondo dopo, ma devo dire che l’organizzazione del bouffet sta andando piuttosto bene, anche meglio delle mie previsioni. E mi ci sto impegnando. Ovviamente delego i lavori e le prenotazioni agli altri, perché non sono brava ad aspettare e mi spazientisco in fretta. Quello in cui sono brava, però, è organizzare quei dettagli fondamentali senza i quali non ci potrebbe essere tutto il resto: come scegliere il menu, le decorazioni, il catering da contattare, la musica con cui intrattenere gli ospiti.
Ho rivisto Jeff ieri sera e mi ha portata a cena. Devo dire che quando è vestito a modo e profumato, senza olezzo di pattume, è una persona piuttosto interessante. Sto con Jason quando ho un oretta libera a scuola e non sono impegnata con le attività di comitato, mentre Nick mi tartassa di sms chiedendomi come mai non mi faccio più sentire spesso come prima.
Sono in grado di gestire più persone contemporaneamente, certo, ma ultimamente non ho la pazienza necessaria per sopportarne più di due.
Anche se avevo lodato in precedenza le qualità da gentleman di Nick, ben presto mi sono resa conto che questo suo essere talmente perso negli ideali romantici lo rendeva una persona troppo poco concreta, diversamente da me, che mi aggrappo alla realtà più che ad ogni altra cosa.
Un’altra voce, dentro di me, però, insiste con il fatto che ho voluto distaccarmene apposta per non ferire i suoi sentimenti che sembravano troppo seri. Io ho riso a tale pensiero (non avrei mai creduto di riuscire ad analizzare così profondamente una situazione), ma al tempo stesso non sono riuscita a scacciarlo completamente.
Chissà che io non stia diventando un po’ più sensibile…non è qualcosa di negativo per lo meno, giusto?
 
 
13 aprile
 
 
Ho passato un fine settimana grandioso ed indimenticabile! Venerdì sera sono partita con Jason verso Chicago, attraversando quasi interamente tutto l’Illinois per arrivarci. Siamo giunti a destinazione il sabato mattina molto presto e dopo una veloce colazione in un bar frequentato quasi esclusivamente da ultra sessantenni, abbiamo iniziato il nostro giro turistico, vagando un po’ guidati dalla cartina, un po’ senza meta. Sembravamo due pazzi ubriachi, anche se completamente sobri.
Ci siamo divertiti a chiedere indicazioni per posti assurdi dove non saremmo mai andati, tipo il “Museo per bambini in volo” (ma che diamine è?!) ad O'Hare , mettendo piuttosto in difficoltà la ragazza a cui avevamo chiesto informazioni. Parlando con lei, io ho aggiunto pure che dovevamo arrivarci immediatamente, perché era una questione di vita e di morte, guardandola con un’espressione terribilmente seria, che sottolineava appunto la gravità della situazione.
Jason, d’altra parte, aveva qualche difficoltà a trattenere le risate e molto spesso nascondeva la faccia dietro le mani, fingendo di sbadigliare o di tossire.
La ragazza, dopo il mio ultimatum, è sembrata un tantino impaurita e si è affrettata a scarabocchiare su un fazzoletto – fornito da me, assieme alla penna - una mappa, poiché non ricordava esattamente i nomi delle strade, ma ne conosceva bene la localizzazione.
Quando l’abbiamo salutata, ringraziandola di cuore - forse un po’ più del necessario -, lei è sembrata quanto meno sollevata di essere scampata da una coppia di psicopatici come noi.
Jason ha fotografato ogni grattacielo, negozio e museo che abbiamo incontrato sul nostro cammino. E ha fotografato anche me, soprattutto me: mentre parlavo, mentre ridevo, mentre mangiavo, persino quando mi ero incantata a guardare fuori dal vetro del ristorante nel quale eravamo seduti. Quando mi ha fatto vedere gli scatti, sebbene fosse restio per l’imbarazzo, io l’ho rimproverato: «Ma insomma, mi porti fino a Chicago per fotografare nient’altro che me?! Avresti potuto farlo in qualsiasi momento a casa...»
«A casa non è lo stesso. Qui, adesso, in quelle foto, sei solo mia, anche se solo fino a domenica sera. Quando torneremo, invece, non sarà più la stessa cosa», ha risposto.
Io ho continuato a sorseggiare quietamente il mio caffè. Lui mi ha fatto un'altra foto e io l’ho lasciato fare, come sempre.
Avrei voluto precisare che non ero sua e non lo sarei mai stata, neppure per due giorni. Odio quando gli uomini ci si mettono con le loro manie di possesso! Come può vantare diritti su di me? Solo perché andiamo a letto assieme, occasionalmente, questo non vuol dire nulla. Almeno per me, non c’è stata alcuna differenza tra quella notte e tutte le altre volte in cui siamo stati insieme prima.
Non ho aggiunto niente, però. Sapevo che l’avrei ferito e non mi andava di fargli venire un cattivo umore, nel caso decidesse di abbandonarmi in Illinois per tornarsene a casa da solo con la sua macchina. Aveva deciso di pagare tutto lui, inoltre, e non potevo allontanare il mio benefattore. D’altra parte, una piccola omissione non avrebbe causato alcun male.
Lunedì sarebbe tornato tutto come prima e lui lo sapeva, perciò non c’era bisogno di altre spiegazioni.
Siamo tornati da poco più di 30 minuti e sfruttando i miei ricordi freschi, ho voluto mettere immediatamente su carta gli avvenimenti più importanti.
Adesso, però, devo andare perché domani, anzi dovrei dire oggi, visto che è già passata la mezzanotte, ho scuola.
Qui sotto attaccherò le foto di me e Jason di fronte al cancello del museo dei “Bambini in volo”. Ebbene sì, ci siamo andati…ma solo per scoprire che era chiuso!
Dopo aver letto il cartello che recitava “CLOSED” a caratteri cubitali, Jason ha riso talmente forte da farsi venire un singhiozzo che gli è durato per ben 2 ore e si è fermato solo quando ci siamo infilati in un pub a tracannare un coctail di vodka e rum come se fosse dell’acqua fresca.
Ora che ci penso, ho notato di avere la brutta abitudine di sbronzarmi ogni week-end! E i miei credono che io sia completamente astemia, pensa un po’…
‘Notte.

Kate.

 
13 aprile
 
 
E’ inusuale per me scrivere una pagina di diario ad una distanza così breve dall’altra, ma ho un po’ di aggiornamenti che non voglio dimenticare e quindi l’unico rimedio per tenerli a mente è scriverli qui.
Ora che ci penso…è qualcosa di strano. Ultimamente, sempre più spesso, anche quando succede una minima cosa, mi salta in mente il pensiero: “Questo posso scriverlo sul diario”.
Non posso impedirmi di farlo, è come una reazione inconscia. Come se non potessi più fare a meno di scrivere: esattamente ciò che più temevo.
Odio le ossessioni, le dipendenze, insomma tutto quello che ti lega a qualcosa o a qualcuno talmente tanto da farti venire i sensi di colpa, in caso di una mancanza da parte tua.
Sento una spinta intensamente forte che mi spinge a scrivere e, quando non lo faccio, sono terribilmente nervosa.
Non volevo fosse così, mi ero ripromessa che sarebbe stata una cosa saltuaria e adesso tutti i miei piani sono caduti. Va bene, mi piace scrivere il mio diario (e suppongo questa sia la mia prima ammissione ufficiale), ma non voglio che questa passione diventi un’esigenza asfissiante.
Cercherò di non scrivere molto spesso, quindi, ma oggi devo proprio farlo o continuerò ad essere soffocata da quest’ansia terribile.
A pranzo, circondata dalle Gallinelle, Jason e un paio di altri tizi, ho visto arrivare Roxanne Miller di gran carriera verso il nostro tavolo. Io ero ancora intenta a masticare la mia insalatina dietetica e quasi mi sono soffocata vedendo che si stava avvicinando proprio a me.
Incapace ancora di parlare e sforzandomi di mandar giù il boccone, le ho lanciato un’occhiata inquisitoria a cui lei ha risposto semplicemente con un sorriso gentile. Tutte le persone presenti a tavola si sono improvvisamente azzittite, come se fosse in corso una scena da non perdersi assolutamente.
Il pensiero che lei avesse su di sé più sguardi di quelli che erano indirizzati a me, mi ha infiammato di rabbia, eppure ho cercato di trattenermi, limitandomi a fare a pezzi con le dita la tovaglietta che ricopriva il tavolino.
«Allora…posso esserti di aiuto?», ho chiesto quando sono finalmente riuscita a mandar giù il boccone.
Roxanne si è riscossa, come se se fosse stata assente per qualche secondo, e ho notato che anche oggi non portava gli occhiali. E’ già un notevole cambiamento nel suo look.
«Volevo solo dirti che il professor Gutierez mi ha fermata in corridoio e mi ha detto che è necessario preparare un discorso per il giorno in cui arriveranno gli stranieri.»
Io le ho rivolto un’occhiata pratica e di sufficienza: «Ma mancano più di due settimane, abbiamo tutto il tempo, non era necessario che venissi a dirmelo apposta a pranzo.»
La tavolata è stata scossa da mormorii vari: tirando ad indovinare, posso presumere che mi stessero biasimando per l’acidità con cui stavo ripagando le buoni intenzioni di Roxanne.
Mi sono resa conto di essere stata un po’ dura, in fondo sono stata sempre attenta a dimostrarmi gentile con gli altri (perché è il metodo migliore con cui ottenere i favori), ma ho sentito salire dentro di me una sensazione stranissima: un miscuglio di rabbia, invidia, ammirazione e al tempo stesso fastidio.
E’ tutto ciò che provo nei confronti di Roxanne: quello che la sua presenza mi trasmette.
Roxanne, quasi a voler vanificare ogni mia speranza di vederla assumere un atteggiamento astioso, non ha fatto per nulla caso al tono con cui mi sono rivolta a lei e ha risposto con assoluta calma: «Il professore vuole che sia pronta entro mercoledì: ecco perché sono stata costretta a dirtelo proprio ora.»
«Oh.»
Qualunque altra persona avrebbe fatto la figura della stupida in una situazione simile: la nuova arrivata, chiaramente non gradita dalla ragazza più popolare della scuola, non avrebbe mai speranze di uscire indenne da un dialogo come quello che era in corso tra me e Roxanne. Eppure lei l’ha fatto.
Mi rende profondamente imbarazzata ammettere che ne è uscita non solo illesa, ma anche vincitrice.
Quello era il mio tavolo, ero circondata dai miei compagni, eppure lei sembrava aver in pugno la situazione. Senza usare un tono scontroso, senza un minimo segno di irritazione.
L’ho odiata come non mai, in quel momento. E la odio ancora adesso, mentre scrivo queste parole.
La odio ancora di più, però, perché senza nemmeno aspettare che io le dicessi di sì, mi ha invitata a casa sua per riunire le nostre menti e scrivere quello stupido discorso di benvenuto.
Poi se n’è andata: è tornata dalle sue amichette secchione, tra cui quella Patty Mason che dopo avermi parlato per una volta, sembra essersi arrogata il diritto di seccarmi a non finire: lodando i miei vestiti, capelli, orecchini, scarpe, ripetendo insomma tutto ciò che so già da me.
Se non sapessi che i suoi commenti sono derivati dal disperato desiderio di essere come me, potrei persino considerarla una vera intenditrice di moda e accessori.
In ogni caso, eccomi qua, invitata nella tana della mia peggior nemica per domani.
Non so assolutamente niente della sua famiglia, né della catapecchia in cui vive.
Avrei optato per farla venire a casa mia, se non fosse che così dovrei dare fin troppe spiegazioni a mia madre. Le uniche che abbiano mai osato presentarsi alla porta di casa mia per vedermi (oltre qualche ragazzo vecchio stile, disperato nel chiedere la mia mano a mio padre) sono proprio le Gallinelle. Non avendo amici o confidenti di sorta, loro sono state sempre le uniche ad avere il coraggio (o forse dovrei dire incoscienza) di avvicinarsi così tanto a me, visto che siamo state compagne di classe fin dalle elementari.
Le loro sono state sempre delle brevi visite di cortesia che capitavano più frequentemente nei primi anni e si sono affievolite strada facendo, vista la scarsa considerazione con cui ripagavo il loro interessamento. Mi chiedo come mai non mi abbiano già mandata a quel paese, ma suppongo che per mantenere il proprio status di popolari, quelle piccole streghette farebbero di tutto, persino sopportare la compagnia di chi odiano.
Anche io faccio sempre questo, ma la situazione è ben diversa. Non si tratta di voglia di popolarità nel mio caso, quanto di un modo per evitare di essere sola.
In ogni caso, dover parlare a miei di Roxanne Miller, trasferitasi in città da poco meno di un mese e mia acerrima rivale per un non ben preciso motivo, non è assolutamente qualcosa che smanio di fare.
Mi avventurerò a casa sua, perciò. Se non dovessi più tornare, lascio tutti i miei vestiti e i miei averi alla mia gatta Susie.
E’ tutto.

 

Kate

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Capitolo 4
*** cap 4: Nella tana del nemico ***


14 aprile

 

14 aprile

 

 

Nessun prologo, niente chiacchiere. Parto subito con quello che è successo oggi, cercando di riportare il più possibile i dialoghi per quello che sono stati.

La scuola è filata via come al solito, Jason è arrabbiato con me per una ragione incomprensibile, Gutierez ha ripetuto di aver fiducia dell’operato mio e di Roxanne Miller e più tardi è iniziata la mia avventura.

Roxanne mi aveva invitata per le quattro del pomeriggio a casa sua, ma erano appena le tre e io ero già intenta a scegliere quello che dovevo indossare per l’occasione.

Non ho mai partecipato ad una sessione di studio in comune, perciò non sapevo se optare per uno stile sobrio, oppure casual, oppure un miscuglio tra sobrio e casual. C’è da precisare, inoltre, che non possiedo molti indumenti casual nel mio guardaroba: lo trovo troppo da adolescente provinciale arrabbiato con sé stesso e con il mondo. Io invece adoro me stessa e mi tratto bene, indossando solo cose che scelgo con estrema cura e dedizione.

Così, dopo un bel po’ di meditazione, ho scelto di indossare una semplice camicetta bianca con le maniche a tre quarti, una gonnellina beige e degli stivaletti di camoscio ai piedi, accompagnati da una borsa in coordinato.

Ero riuscita a cavar fuori dal mio doppio armadio niente di troppo pretenzioso, eppure, secondo i miei canoni, alquanto sfizioso.

Ho preso un taxi che mi ha portato fino a casa sua, sulla 512 Dallas e ho cercato l’abitazione descrittami da Roxanne. Non volevo portarmi dietro nessun fogliettino con le indicazioni, perciò mi sarei affidata solo alla mia memoria. Mi aveva parlato di una villetta dai muri bianchi (perfetto…ce n’erano a migliaia!), un giardino inglese nel quale erano stati piantati alcuni pini e un cancello rosso, alquanto vistoso e inconfondibile (o almeno così mi aveva detto la Miller).

Dopo aver vagabondato per qualche minuto in cerca di cancelli rossi e pini (visto che erano gli unici elementi meno comuni tra le altre case), ho trovato quella giusta. Lo sfavillante cancello in ferro, arzigogolato e scarlatto, risaltava subito all’occhio, a differenza degli altri cancelli neri o grigi, fin troppo comuni e boriosi.

Ero già in ritardo di un quarto d’ora, ma ovviamente essendo l’ospite d’onore tanto attesa, dovevo farmi attendere per un altro pochino.

Così ho perso altro tempo alla ricerca di cancelli rossi (che ovviamente non esistevano), prima di suonare finalmente al citofono giusto.

Mi ha risposto una voce squillante, ma non sapevo se fosse Roxanne o meno.

Rivelata la mia identità, con un piccolo scatto, il cancello è stato sbloccato e sono entrata in giardino.

Non ho potuto fare a meno di comparare tutto ciò con i sistemi di sicurezza installati a casa mia, equipaggiati di video camere e cancelli automatici a fibre ottiche. Tutto sommato, però, sistemi di sicurezza a parte, la casa sembrava piuttosto accogliente, considerando che la famiglia Miller si è trasferita qui da così poco tempo.

Ho raggiunto la porta d’ingresso nello stesso momento in cui si è aperta dall’interno, rivelando una sorridente Roxanne.

«Eccoti finalmente!», ha esclamato lei, trascinandomi praticamente dentro.

Il salotto, composto da un set di divani in pelle marrone e mobili in noce, era illuminato da una luce soffusa proveniente da due abat-jour e profumava di agrumi.

«Ho avuto un po’ di problemi a trovare l’indirizzo», ho confessato, «Comunque complimenti per la casa.»

«Oh grazie, ma questo è solo il soggiorno. A dire il vero è l’unica stanza che abbiamo sistemato completamente, per ora. La cucina e le camere da letto, soprattutto, sono ancora un completo casino. Comunque ti ho vista aggirarti qua attorno, sai? Pensavo avessi visto il cancello rosso, invece sei arrivata fino in fondo al Prensay-drive, poi sei tornata indietro e finalmente l’hai trovato!», ha commentato in un insolito tono entusiastico.

«E perché non mi hai chiamato se mi avevi vista arrivare? Mi avresti evitato un po’ di vagabondaggi», ho mentito, facendole credere di essermi persa davvero.

«Beh…ho immaginato che non avresti gradito il mio aiuto», ha commentato Roxanne. Io ho pensato che per una volta ci aveva proprio visto giusto: non avrei mai apprezzato qualunque tipo di aiuto proveniente da lei. Prima di poter anche solo cercare di formulare una risposta non offensiva, ma che al tempo stesso non negasse totalmente la sua considerazione precedente, lei è intervenuta nuovamente.

«Comunque, vieni con me, ti porto in sala da pranzo, non è ancora totalmente arredata, ma ci sono sedie e un tavolo e suppongo sia tutto ciò che ci serve.»

Ho annuito e l’ho seguita.

Sulla sua schiena scivolavano dei lunghi capelli mogano chiaro, ondulati verso le punte, che le sfioravano quasi la vita. Non l’avevo mai vista con i capelli sciolti prima di allora e ho pensato che fosse un vero peccato che li tenesse sempre costretti in una infantile trecciolina, a scuola.

Questo pomeriggio, invece, impediva ai ciuffi della frangia di scivolarle sugli occhi utilizzando una frontiera colorata e indossava una felpa blu, almeno di due taglie in più grandi con dei fuson neri sopra le ciabatte di peluche azzurre.

«Perdona l’abbigliamento fin troppo casalingo», si è scusata, aprendo la porta della sala da pranzo e invitandomi all’interno.

«Oh, non preoccuparti. E’ naturale che a casa propria ci si metta comodi», ho detto, evitando di specificare che io, d’altra parte, nei miei diciotto anni di vita, nemmeno tra le mura domestiche, avevo mai indossato tali straccetti.

Ho preso posto su una delle sedie attorno al tavolo, tenendo la mia borsetta in grembo. Roxanne stava pulendo il piano da lavoro con un panno umido.

«Li dovresti sciogliere i capelli. Stai meglio così.», le ho detto , incapace di trattenermi.

So che dovrei evitare di dare consigli alla mia cosiddetta rivale, se davvero prendo seriamente questa faccenda, è che, semplicemente, trovo uno spreco nascondere dei tratti così graziosi della sua persona, rendendoli comuni e banali come quelli di qualunque altro.

Roxanne mi ha sorriso, sedendosi di fronte a me, e ha detto: «Lo so, ma tenerli sciolti è un gran fastidio.»

Io ho alzato le sopracciglia irritata. Aveva appena detto qualcosa che si discostava totalmente dai miei canoni di giudizio.

«Non dovresti essere così pigra nel prenderti cura del tuo aspetto fisico. Se non ci pensi tu, chi altro credi lo farà?», l’ho rimproverata con un tono piccato.

Roxanne ha ridacchiato: «Siamo ferrei sull’argomento, uh?»

«Molto, molto ferrei.», ho risposto io.

In quel momento abbiamo sentito la porta d’ingresso aprirsi e una voce femminile gridare: «Sono tornata!»

Ho pensato che si trattasse della madre di Roxanne. Fino a quel momento non c’era stata traccia dei suoi genitori e probabilmente erano appena rincasati dopo aver fatto delle commissioni. Mi sono chiesta che tipo di famiglia Roxanne potesse avere.

Di primo acchito, avrei detto che si trattasse di una figlia unica, ma in seguito esaminando la situazione, ero giunta alla conclusione che la sua volontà di occuparsi autonomamente delle varie situazioni veniva da un ruolo di primogenita. Pensavo, quindi, che si trattasse della figlia primogenita di una famiglia non troppo numerosa. Mi domandai come dovessero essere i suoi genitori. Non avevo dubbi nel dipingere suo padre: sicuramente un uomo all’antica, il cui unico scopo è preservare la sua dolce figlioletta dalle manacce dei ragazzi che vogliono far colpo su di lei. Sua madre, invece, doveva essere indubbiamente una donna dolce e paziente, una di quelle persone con cui confidarsi, sapendo che i propri segreti resteranno in eterno al sicuro. Sperai, inoltre, che i fratelli più piccoli, o per lo meno quelli nati dopo Roxanne, non fossero rumorosi. Non sopporto avere dei piccoli scalpitanti e saltellanti in giro, nelle situazioni in cui devo utilizzare per bene il cervello. Anzi, a dire il vero, non sopporto mai i bambini scalpitanti.

La persona appena entrata ci ha raggiunte nella modesta sala da pranzo, quasi interamente spoglia, ad eccezione dei mobili fondamentali.

Una donna molto giovane, troppo giovane per essere la madre di Roxanne, ha fatto capolino da dietro la porta, rivolgendoci un sorriso sornione. Il suo comportamento, inoltre, era fin troppo giocoso per essere quello di una donna sposata con figli.

Con una mezza smorfia, Roxanne ha indicato la donna, apostrofandola come sua sorella.

«Piacere sono Madison!», ha cinguettato la ragazza.

E’ snella e socievole, ma sia i suoi capelli che gli occhi sono neri. Assomiglia ben poco a Roxanne.

Mi sono presentata, mantenendo un’espressione garbata e Madison (l’ho notato dal suo sguardo luccicante) era talmente entusiasta di me che non è riuscita a trattenersi dal farmi un sacco di complimenti.

So benissimo come fare in questo caso: sorridere e fingersi imbarazzati. Questo era il copione, sebbene considerassi quelle parole di lode, assieme a quelle già ricevute in precedenza, non più che una semplice constatazione della verità. Ho notato Roxanne guardarmi un tantino strano, ma non le ho chiesto perché.

In ogni caso, sono giunta alla conclusione che non potevo di certo affidarmi alle mie considerazioni precedenti, visto che avevo clamorosamente sbagliato, considerando Roxanne la figlia primogenita, o addirittura una figlia unica.

Madison è andata subito via, asserendo di dover terminare qualche altra faccenda, lasciando di nuovo sole me e Roxanne.

Con fatica, perché non ci trovavamo mai d’accordo, siamo riuscite a scrivere una perfetta introduzione. Roxanne, apparentemente esausta, mi ha proposto un’aranciata e io ho accettato.

Di solito non bevo bibite gassate, ma non volevo dimostrarmi troppo timida accettando solo dell’acqua, né mio malgrado potevo chiedere alcolici.

Mentre lei era via a prendere dei bicchieri, mi sono domandata che fine avessero fatto i suoi genitori. Erano quasi due ore e mezza che ero lì e nessuno (a parte la brevissima sosta della sorella) era più arrivato. Magari avrei potuto chiederlo direttamente a Roxanne.

Morivo dalla voglia di sapere qualcosa in più su di lei, sul segreto che certamente una faccia pulita come la sua nascondeva da qualche parte.

L’avrei smascherata per dimostrare a me e agli altri che, in fondo, la più pericolosa tra le due era lei. La mia corruzione era visibile, per certi aspetti, la sua invece veniva totalmente sviata da quel faccino angelico e innocente. Non l’avrebbe passata liscia.

Nello stesso momento in cui pensavo questo, ritrovando il motivo principale dal quale era scaturito il mio odio più profondo, avevo capito come fare per raggiungere il mio obiettivo.

Dovevo passare più tempo con lei, imparare le sue abitudini, conoscere i suoi gusti, le sue passioni, fino ad arrivare alla sua vera essenza. Non avrebbe potuto nascondersi: fingere alla lunga stanca e finiamo per rivelarci per ciò che siamo veramente con le persone con cui trascorriamo più tempo.

Per far questo, quindi, sarei dovuta diventare sua amica, stando attenta che lei non scoprisse veramente ciò che ero io, invece. Dovevo impedire a lei di fingere, accettando io stessa di dover recitare la parte dell’amicona per un periodo imprecisato.

Tutto sommato, però, ho pensato di potercela fare.

Ho sempre ottenuto tutto ciò che volevo e non sarà l’ostacolo del tempo a fermarmi. Fingerò anche per ogni secondo della mia vita se è necessario, ma devo sapere che un tale concentrato di altruismo e buoni sentimenti non è vero. Non prendo nemmeno in considerazione l’ipotesi che io possa sbagliarmi.

Sorseggiando quella fresca aranciata, sentendo le bollicine solleticarmi la gola, ho deciso questo: la mia guerra a Roxanne Miller è appena iniziata e poco mi importa del fatto che i mezzi da usare in battaglia possano essere sleali. Combatterò comunque con tutto ciò che possiedo.

In quanto nuova "amica", perciò, potevo permettermi qualche domanda, giusto?

«I tuoi dove sono?», ho buttato lì, cercando di sembrare casuale.

Roxanne mi ha guardata interdetta per una manciata di secondi e poi ha detto semplicemente: «Non ci sono.»

«Nel senso che non ci sono per ora, ma torneranno dopo?»

«No, nel senso che non vivono qui.», ha confessato lei, tranquillamente, come se la cosa non la riguardasse.

«Vivi sola con Madison?», ho chiesto a corto di fiato. Dov’era finito il padre super-gelosone e la madre comprensiva?

«Sì», ha confermato Roxanne, «Vivo solo con lei. I miei non stanno più insieme e io e mia sorella abbiamo deciso di essere abbastanza grandi per vivere autonomamente e così siamo andate via di casa e ci siamo trasferite qui.»

Ero completamente sbalordita: «Ma Madison quanti anni ha?», ho chiesto, tentando di nascondere lo shock.

«Quasi 23, a maggio. Io ne ho compiuti 18 a febbraio.»

«Oh, beh…direi che è una bella responsabilità vivere autonomamente già da quest’età. I tuoi sono divorziati? Per questo siete andate via?»

«Sì, hanno divorziato. Cioè…non proprio. Mio padre se n’è andato via prima che potesse firmare le carte per la pratica giuridica, quindi credo che secondo la legge siano ancora regolarmente sposati.», ha commentato lei, come se stesse davvero riflettendo sull’accaduto.

«E dove è andato, scusa?», le ho chiesto. Non mi importava che mi considerasse una ficcanaso, purché soddisfacesse la mia curiosità. Sapevo senza ombra di dubbio che l’avrebbe fatto.

Roxanne ha fatto spallucce: «Nessuno lo sa, altrimenti non lo daremmo per disperso di certo. So solo che aveva sempre detto di volersi costruire una nuova vita in Australia.»

«Come mai? Era insoddisfatto della sua vita qui?», ho domandato, questa volta in modo più impudente.

Roxanne ha risposto, sempre in tono calmo, sempre gentilmente: «No, affatto. Mio padre è sempre stata una persona molto entusiasta della vita. Era uno spasso averlo accanto. Soprattutto quando io e Madison eravamo piccole, facevamo tantissimi giochi e gli volevamo un bene infinito. Poi però, crescendo, ho notato che più che un padre, si comportava ancora come un bambino: era immaturo ed egoista. L’unica cosa che gli riusciva bene era giocare. Non mi meraviglio del fatto che mia madre l’abbia lasciato. Da allora lui è sparito: ha mollato il lavoro e arrivederci e grazie.»

Mi trattenevo a forza dal gesto spontaneo di spalancare la bocca come un pesce lesso.

«Mi dispiace», ho detto, non sapendo precisamente se fossi sincera oppure no, ma l’importante era che lei lo credesse. «E tua madre? Adesso dov’è?».

Lei ha esitato giusto per un secondo, poi ha ripreso a parlare: «Ha…un nuovo compagno e vive con lui. Suppongo lo conoscesse da un bel po' di tempo...anche prima che mollasse mio padre. Mia madre sembra felice con lui, ma non possono sposarsi proprio perché mio padre non ha firmato le carte del divorzio ed a tutti gli effetti è ancora una donna sposata ad un altro uomo. Se non dovesse tornare entro 5 anni, lo dichiareranno morto e mamma sarà finalmente considerata una vedova in grado di sposarsi nuovamente.»

Parlava in modo calmo, come un discorso che avesse ripetuto più volte.

«Capisco…», ho mormorato, vedendo l’ immagine della famiglia perfetta di Roxanne, proveniente dalla mia immaginazione, sgretolarsi come neve al sole.

«Posso chiederti ancora una cosa?», non le ho lasciato nemmeno il tempo di rispondere che ho ripreso: «Come mai l’Australia?»

Roxanne mi ha rivolto un sorriso mesto, dicendo: «Era fissato con i canguri e voleva vederne assolutamente uno vero. Quelli dello zoo gli parevano finti.»

«Secondo te, quindi, è andato là?»

«Sì. In qualche strana maniera sento che sta bene e, se è riuscito a realizzare il suo sogno, sono certa che adesso sia molto felice. Anche se separati, abbiamo trovato tutti il nostro equilibrio e va bene così. L’importante è riuscire ad essere sereni.»

Dal tono con cui parlava di lui, sembra essere molto affezionata a quel suo padre eterno Peter Pan.

«Come mai tu e Madison non siete restate a vivere con tua madre? Non vi piace il suo nuovo compagno?»

Roxanne si è bloccata nuovamente, come se fosse un argomento spinoso, ma ha ripreso rapidamente il controllo. E’ tornata nuovamente a parlare come una voce registrata: «No, lui è un tipo a posto. Voglio dire…è una persona per bene, in grado di prendersi adeguatamente cura di mia madre e questo è tutto ciò che avremmo potuto chiedergli. E’ solo che io e Madison non volevamo essere…d’intralcio. Lui soprattutto, con noi attorno, sembrava essere un po’ a disagio. Ha quasi dieci anni in meno a mia madre e la differenza di età è meno ridotta tra noi e lui, che tra lui e lei. Venivano a crearsi molte situazioni imbarazzanti quando io…cioè noi, eravamo attorno, quindi tre settimane fa ci siamo trasferite qui, dove Madison ha trovato un lavoro in grado di mantenerci entrambe, senza dover pesare sulle tasche di mia madre, ovviamente mobili a parte.»

«Mhm», ho mugugnato io, incapace di rispondere.

Sono passati alcuni secondi di silenzio, poi Roxanne è tornata energetica, come se morisse dalla voglia di cambiare discorso.

«Non pensi che la mia sia una famiglia alquanto pazza?», mi ha domandato lei, ironica, sebbene con un sorriso.

Io sono stata tentata per un momento dal dirle di sì, ma mi sono trattenuta ed ho optato per una risposta più vaga: «Beh…sono cose che capitano…»

Al che, Roxanne è scoppiata a ridere, ma sembrava che stesse ridendo in modo forzato. «Sì, infatti, sono cose che capitano nelle soap-opera da quattro soldi.»

Nella sua voce c'era un evidente tono di rimpianto, difficile da ignorare.
Resami conto che insistere sull'argomento non mi avrebbe portata da nessun'altra parte, ho deciso di parlare d’altro, riportando la sua concentrazione sul compito assegnatoci da Gutierez.

Per un momento mi era davvero dispiaciuto per lei, sinceramente, ma ho scacciato rapidamente questo pensiero.

Considerando ciò che ho intenzione di fare, non posso permettere alla pietà di offuscare l’odio che provo per lei.

Abbiamo terminato il discorso di benvenuto entro le nove di sera, senza incontrare particolari intralci nel resto della scrittura. A lavoro concluso, Roxanne si è stiracchiata come un gatto, alzando le braccia all’insù e sbadigliando ampiamente, mentre io ho cercato di restare un po’ più composta, anche se mi sentivo stanca e intorpidita quanto lei.

«Ti ringrazio per la compagnia», mi ha poi detto, accompagnandomi verso la porta.

«Non c’è bisogno di ringraziarmi. E’ stato un pomeriggio piacevole», ho risposto in modo affabile, considerando la missione “Diventare Amica di Roxanne Miller”, appena iniziata.

Mi piacerebbe pensare di essermi annoiata a morte in sua presenza, ma non è per niente così. Mi incuriosisce, tutto qui, e la mia curiosità mi impedisce di annoiarmi, suppongo.

Mentre ero in taxi e tornavo verso casa, Jeff mi ha chiamato per invitarmi ad andare a cena con lui, ma io ho rifiutato asserendo di non stare bene, anche se la verità è che non vedevo l’ora di tornare a casa e scrivere il diario come sto facendo ora.

Lo sapevo, è diventata un’ossessione!

Adesso smetto però, sennò potrei credere che questa mia mania sia diventata ancora più grave di quello che creda…

 

Kate.

 

16 aprile

 

 

Eccomi qua ad appena una due settimane dall’arrivo degli stranieri. Vorrei proprio capire come mai mi importi così tanto di una sciocchezza simile, eppure non posso far niente per negarlo: è la verità. Le prenotazioni al catering e tutto il resto concernente il cibo è stato già portato a termine, ho contattato anche la band che suonerà dal vivo quella sera (fortunatamente il batterista era un mio ex ancora cotto di me, perciò convincerli a collaborare non è stato difficile, utilizzando lui come mia pedina), l’unico problema sono le decorazioni, visto che il nostro disegnatore per eccellenza, Simon Lebrosky , ci ha abbandonati.

Il motivo?

Beh…sono io.

Ad essere sinceri, non gradivo affatto quel suo lavoro fatto di murales tutti intricati, perché nemmeno la scritta “Benvenuti” era più distinguibile tra gli scarabocchi, perciò, quando gliel’ho fatto educatamente notare, lui è andato su tutte le furie, asserendo che quella era la sua arte e lui non avrebbe più disegnato per degli incompetenti come me.

Al che, io che non sono mai stata chiamata incompetente da nessuno prima di allora, ho preso una di quelle bombolette che Simon usa per disegnare, e di nascosto, senza che nessuno potesse vedermi, l’ho fatta scivolare a terra, facendo in modo che lui vi inciampasse sopra. Quello che non mi sarei mai aspettata però, era che Lebrosky, nel tentativo di bloccare la caduta, si rompesse in un solo colpo il polso destro.

Una vocina nella mia testa ha persino gridato: STRIKE!

In ogni caso, per colpa di questo inconveniente, adesso i cartelloni sono tutti da rifare e, contando il fatto che dovremo riempire buona parte dell’enorme palestra scolastica, non è affatto un compito facile avendo semplicemente due settimane di tempo.

Non ho mai visto Roxanne così preoccupata: correva avanti e dietro, cercando di aiutare Simon, mentre veniva tartassata di domande da tutti gli altri che, disperati, le domandavano come avrebbero fatto adesso. Malgrado ciò, lei non ha perso la pazienza nemmeno una volta, cercando di fare tutte e due le cose temporaneamente, con gentilezza e la sua solita pacatezza.

Simon ululava come un animale e io ho pensato disgustata che stesse esagerando fin troppo per una piccola slogatura, quando il docente di educazione fisica, responsabile dell’infermeria, esaminando il polso gonfio e violaceo, ha affermato che si trattava invece di una frattura.

Sentendo quelle parole, un po’ di rimorso m’è venuto, ma non era niente in comparazione alla soddisfazione che avevo provato nel vedere quel piccolo impudente gridare di dolore.

Qualcuno si è girato verso di me guardandomi strano e io mi sono accorta di star sorridendo un po’ troppo, ma bene o male nessuno si è azzardato a dire niente. Anzi, ad esser sinceri, penso che abbiano interpretato la caduta di Simon come una punizione divina nei confronti di chi si è permesso di farmi uno sgarro.

L’ennesima conferma che Kate è intoccabile.

A pranzo, due delle quattro Gallinelle erano assenti e così, le amichette di Roxanne Miller, vista la “confidenza” intercorrente tra me e la loro migliore amica (impegnata ad accompagnare Simon in ospedale), si sono permesse di accomodarsi al mio tavolo, ostentando una faccia tosta non indifferente. Nancy e Rita, si sono strette tra loro, dietro di me, quasi temendo di essere contaminate dalla banalità delle altre due. Io, invece, ho cercato di mantenere la buona educazione che vanto spesso di possedere. Usando semplicemente il mio buon senso, ben più sviluppato di quello dei polli, sapevo benissimo che non esisteva minimamente il pericolo di restare contagiati dalla loro impopolarità, bensì il rischio più grave era che gli altri plebei, vale a dire gli sfigati dell’intera scuola, dopo questo mio gesto di magnanimità nei confronti delle amiche della Miller, iniziassero a credere che fosse possibile avvicinarsi a me così facilmente.

Per evitare la catastrofe c’erano solo due possibilità: elevare le compagne di Roxanne al rango di popolari, oppure spedirle indietro direttamente da dove erano venute. Senza alcun dubbio, optavo per la seconda ipotesi, eppure, Roxanne, con o senza il mio intervento, era stata popolare sin dal primo giorno e lo era tutt’ora, malgrado il polverone della “nuova arrivata” si fosse quasi del tutto acquietato. Dunque, con o senza di me, Patty Mason e l’altra ragazzina scialba di cui non avevo mai saputo il nome, avevano i loro contatti tra le persone popolari, utilizzando Roxanne come primo ponte verso i tizi importanti della scuola. Ciò spiegava anche il modo con il quale erano arrivate fino a me.

Riflettendoci su, ho sentito montarmi dentro un’ondata di stizza, non tanto per me, quanto per Roxanne che sembrava realmente affezionata a quelle due piccole opportuniste in cerca di attenzione.

Io sono sempre stata abituata a non avere veri amici: tutto ciò che conosco sono amicizie di convenienza e ragazzi con cui spassarmela la sera.

Certo, è vero, le Gallinelle mi stanno attorno dalle elementari, cercando di reggere il mio passo, ma sono sempre rimaste inequivocabilmente indietro.

Un amico, invece, per quello che ho potuto capire, è qualcuno che ti cammina accanto, qualcuno che ha il tuo stesso ritmo, qualcuno che non ti molla mai.

E in qualche modo mi dispiace, anche se non ho idea di cosa sia realmente un rapporto di amicizia, perché potrei metterci la mano sul fuoco che Roxanne sia seria a proposito delle sue amiche.

Non ho mica ammesso di credere al suo aspetto da santarellina, proclamandola come una persona “vera”. Sul fatto che lei stia nascondendo qualcosa, non ho assolutamente nessun dubbio e intendo smascherarla una volta per tutte, eppure in quanto bugiarda so riconoscere chi mente sui sentimenti, cosa che invece per quanto riguarda le sue amichette, Roxanne non fa.

Chissà…magari scoprire la verità sull’opportunismo delle sue amiche, le farà mettere i piedi per terra e rivelerà finalmente la sua vera natura.

Tutti dobbiamo pagare un prezzo, sempre. E questo deve capirlo anche Roxanne Miller.

 

P.S. Nick è tornato all’attacco, dicendo che gli manco da impazzire e non ce la fa senza di me. E’ stato così romantico e disperato che non ho potuto fare a meno di accettare un suo invito a cena.

Jason, che era arrabbiato con me fino a qualche giorno fa, si è arreso dopo qualche mia moina, tornando nuovamente ai miei piedi.

Mi vedo con Jeff, quando non ha gli allenamenti di basket, e Mike, il mio ex della band che abbiamo contattato per la festa di benvenuto, mi ha chiesto se voglio andare con lui al ballo che si terrà la stessa sera in cui arriveranno gli stranieri. Io ho obbiettato che sarebbe stato impegnato a suonare, ma lui ha detto che non dovevo assolutamente preoccuparmi perché poteva farsi sostituire. Ora, però, il problema è che se dovessi accettare la sua proposta, Jason e Jeff andrebbero su tutte le furie (dannazione alle loro manie di possesso!) e Nick, se venisse a saperlo, come minimo si suiciderebbe sul colpo. L’unica soluzione è non andare con nessuno dei quattro, anche se sarebbe un’umiliazione per me, la regina della scuola, presentarsi da sola al ballo…

Forse dovrei aspettare che arrivino gli stranieri: in tal caso né Jason, né Jeff, né Mike potrebbero fare niente, perché quelli se ne andranno prima che possano anche alzare un solo dito e la situazione sarebbe risolta.

Però…c’è sempre un però…cosa farò se gli stranieri sono tutti dei gran bruttoni e tra loro non me ne piace nemmeno uno?

 

Oh! Povera me!

 

 

***

 

 

*Nuovo capitolo!*

 

Ringrazio Pigna e Laprinc per le recensioni, anche se vorrei specificare a Laprinc che io, l’autrice della storia, non sono Kate e tutta la storia è puramente un prodotto della mia immaginazione. Utilizzo la prima persona come narrazione semplicemente perchè lo trovo un modo più semplice di trasmettere ciò che la protagonista prova e anche perchè ho appunto scelto di raccontare la storia tramite lo stratagemma del diario. Quando scrivo di Kate, da una parte rido come una matta, perché a volte i suoi ragionamenti rasentano il ridicolo, dall’altra, mi chiedo se esistano davvero delle persone così esagerate…beh, alla fine devo dire che sì, ci sono realmente persone così…anche se questa è una realtà diametralmente opposta dalla mia. Diciamo che io sono un po’ più una Roxanne, piuttosto che una Kate, anche se in me convivono entrambe loro due e al tempo stesso sono due cose diverse. Distinguiamo, quindi, quello che è una fiction dalla vita vera ;)

 

In ogni caso, spero che continuerete a seguirmi e a commentare, perché sentire le vostre opinioni mi ha fatta molto felice!

 

Al prossimo aggiornamento!

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Capitolo 5
*** cap 5: Perfezione imperfetta ***


17 aprile

17 aprile

 

 

Stasera sera sono stata a cena con Nick. Lui, come al solito impeccabile e galante, mi ha portato in un ristorante italiano, famoso per le pietanze assolutamente squisite.

Per tutta la sera mi ha lusingato con carinerie di ogni genere, aprendomi la portella della macchina, oppure sistemandomi la sedia nel ristorante.

Per un momento mi sono sentita davvero importante: una regina, molto più di una principessa, come mi apostrofa sempre nei bigliettini mandati insieme ai bouquet di fiori.

Ciò che non mi aspettavo, però, è che arrivassimo così in fretta al dopo-cena, per essere precisi appena usciti dal ristorante e per giunta in macchina…

Diciamo che la frenesia non aiuta molto il romanticismo.

Mentre guardavo il tettuccio della macchina che si muoveva all’unisono con i nostri sospiri, m’è piombata improvvisamente addosso una malinconia indescrivibile.

Ho girato la testa, disgustata quasi, per non vederlo più in faccia, sebbene sia esteticamente un bel ragazzo.

Ma non era lui il problema, a dire il vero, il problema sono solo io.

Di solito in momenti del genere non penso mai, cogliendo totalmente l’attimo e perdendomi in questo, come l’antico proverbio latino insegna a fare, ma stavolta non ce l’ho fatta.

Una voce nella mia testa, superando i gemiti di Nick, ha gridato in un modo impossibile da ignorare.

“E’ davvero questo quello che vuoi, Kate?”

E mi sono arrabbiata. Ho incrociato le gambe sulla schiena di Nick e l’ho attirato di più a me per un bacio. Mi sono cibata delle sue labbra, le ho morse, divorate, affondandoci i denti. Volevo affogare quegli stupidi pensieri, ma poi ho capito che l’unica cosa che stavo tentando davvero di affogare era la mia coscienza.

Sono bella, non mi faccio scrupoli e sono capace di ottenere tutto dalla vita, tranne la capacità di essere a posto con me stessa.

 

Non mi perdonerò mai di aver scritto questo, credo, ma non voglio nemmeno cancellarlo del tutto perché è la pura verità. Pensandoci bene, questo è l’unico posto dove non sono costretta a mentire. Il mio diario è diventato un qualcosa di sacro. Penso che ne morirei se qualcuno lo trovasse; nemmeno io oso rileggere le pagine una seconda volta, dopo aver cancellato qualche errore di punteggiatura.

L’uso di ogni pagina dura solo pochi minuti, giusto il tempo di scrivere, poi che ci sia o meno ha poca importanza, ma il ruolo che assume in quel minuscolo lasso di tempo, per me è vitale.

 

Kate.

 

21 aprile

 

 

Ho avuto un po’ di impegni in questi ultimi giorni, ma cercherò di riassumerli tutti qui brevemente.

Lunedì, appena tornata a scuola, ho evitato Mike ( il batterista), facendo in modo che né Jeff, né Jason sapessero che mi aveva invitata al ballo, anche se io non gli avevo dato una risposta definitiva.

Manca poco più di una settimana al tanto atteso evento e sembra che sia già scoppiata una guerra nell’invitare le ragazze più gettonate. Logicamente, la prima di tutte sono io.

Mi è capitato di tutto: meglio fare un bel respiro ed elencare tutto non stop.

Sono stata sommersa di fiori, biglietti e regali da sconosciuti (anche se alcuni facevano davvero pena…cosa vi fa pensare che io sia una ragazza alla quale piacciano gli orsetti di peluche? Bah!), occhiate invidiose e a volte anche maligne (prontamente ricambiate da me) da parte della componente femminile, reclami da parte dei professori che vogliono sapere costantemente a che punto sono i preparativi per l’accoglienza degli studenti e telefonate isteriche da parte di qualcuna delle Gallinelle che mi hanno chiamato in panico perché le aiutassi a trovare il vestito perfetto per il ballo (alle loro telefonate, aggiungerei anche quelle di Patty Mason, quella fan girl che pare ossessionata da me).

Ma una cosa “buona” -  in tutto questo marasma di cose che ho riportato nello stesso modo caotico in cui mi sono successe – c’è: abbiamo trovato un disegnatore con cui rimpiazzare il povero (?) infortunato Simon Lebrosky. E volete sapere chi è? Ma niente meno che Roxanne Miller!

Ormai non è più un mistero come sia diventata così popolare, è praticamente impossibile e dico impossibile (e mi costa tanto pure ammetterlo) non parlare di lei.

E’ gentile, educata, intelligente, sa disegnare, ha ottimi voti a scuola ed è adorata dalle masse. Tutti credono che sarà solo grazie a lei se riusciremo ad organizzarci in tempo per l’inizio di maggio e mettere in piedi una festa decente, malgrado tutti i preparativi lasciati a metà o in eterna sospensione.

Non si legge ironia nelle mie parole? Anche se è impossibile trasmettere il suono sarcastico della mia voce tramite il foglio, immagino si sia capito. E se non s’era capito, lo scrivo esplicitamente.

Dopo la mia visita a casa sua non abbiamo parlato poi molto. Roxanne è stata sempre molto impegnata, anche se talvolta la scopro a fissarmi un tantino preoccupata, mentre mi intrattengo con altre persone.

Suppongo tema che sveli il segreto sulla sua famiglia, facendo decadere tutta la sua reputazione di perfezione assoluta.

Chiunque la veda per la prima volta, affermerebbe che in lei l’unica cosa imperfetta è proprio quell’assurda trecciolina con cui raccoglie i suoi capelli mogano.

Ma gli altri non conoscono la verità che io ho intenzione di rendere nota, e ciò non ha niente a che fare con padri scomparsi in Australia, madri che vivono con un compagno più giovane o sorelle lavoratrici, ma con la dimostrazione che in tutto quello che fa, soprattutto nelle sue attività perbenistiche, Roxanne non è altro che una sporca bugiarda.

Dunque può stare tranquilla, se ha paura che io voglia svelare qualcosa di quello che mi ha raccontato a casa sua. Le informazioni di guerra rivelate dal nemico in territorio ostile possono essere anche inaffidabili. Chi mi dice che quella fosse la verità?

Non l’ho sempre considerata una persona falsa e ipocrita?

Non esiste la perfezione. Qui parla una che si è sentita rivolgere quell’attributo più volte.

Posso essere perfetta nell’aspetto esteriore, con i miei capelli biondi e il sorriso seducente di chi ha il mondo in pugno, ma se sono qui a progettare i miei piani contro Roxanne, questo vuol dire che una faccia d’angelo non garantisce necessariamente un buon carattere.

Proprio come la disponibilità di Roxanne non coincide con le sue reali aspirazioni.

Nella mia lunga esperienza con i pettegolezzi (acquistata dopo essere stata la protagonista di troppe vicende, immediatamente insabbiate da bestioni di mia conoscenza, pronti a malmenare chiunque sparlasse su di me) ho imparato a divulgarne solo di veri, mostrando al pubblico tutte le prove accumulate, lasciando che lo scandalo si scateni una volta sola e per bene, in maniera che non venga scordato tanto presto.

Farò così anche con Roxanne, sebbene al momento le prove accumulate in sua accusa siano a quota zero.

Una cosa però è certa: non accenderò solo un fuocherello, ma appiccherò un incendio che lascerà dietro di sé solo terra bruciata.

E’ come se fosse una sorta di vendetta, anche se non so precisamente contro di chi. Non è tanto per Roxanne, quanto per quello che rappresenta. Probabilmente è una vendetta contro me stessa.

Se davvero scoprissi che esiste per davvero qualcuno come Roxanne (no, non qualcuno come lei…uno che non faccia finta), se ci fosse davvero, credo ne sarei distrutta.

Non è che non abbia mai saputo cosa sono i rimorsi o i sensi di colpa; a volte anche io mi sono pentita di qualche azione disonesta, ma ho sempre avuto la consolazione che il mondo è spietato. Se tu non attacchi per primo, hai la sicurezza che prima o poi verrai attaccato a tua volta.

E’ per questo che io ho deciso di essere la predatrice. Ho spezzato facilmente i cuori delle mie prede con la stessa destrezza con cui una leonessa azzanna una gazzella. Ho lasciato dietro di me uomini o ragazzi che mi imploravano di non abbandonarli, proprio come gli orsi, ghiotti di carne fresca, ignorano i cadaveri morti ormai da giorni.

C’è una ragione per cui ferisco, ed è che non voglio essere ferita.

Avere sotto gli occhi, ma reale ed in carne ed ossa, qualcuno con un cuore grande così, proprio come quello di Heidi, non è affatto consolante.

“Nessuno fa niente per niente”: credo me l’abbia detto mia madre, cercando di insegnarmi il giusto uso della fiducia. Peccato che io non abbia mai concesso la mia a nessuno, tradendo spesse volte, invece, quella degli altri.

In ogni caso, questo non è il momento di ricordare gli insegnamenti di quasi quindici anni fa. Non mi sono mai lasciata influenzare dagli altri, perché ho deciso che se mai avessi dovuto incolpare qualcuno di qualcosa, sarei stata solo io. D’altra parte, però, è sempre impossibile incolpare me stessa, visto che si tratterebbe di un’inutile perdita di tempo.

I miei sbagli, in quanto opera mia, hanno stile.

E’ come una sorta di marchio di fabbrica, come un tatuaggio o una cicatrice impressi per sempre sulla pelle.
Per sempre.

 

 

23 aprile

 

 

Ieri mi sono trattenuta dopo le lezioni pomeridiane con Roxanne Miller, in palestra, e mi sono fermata ad osservare il suo lavoro. Ero seduta su dei materassini ripiegati, a nemmeno mezzo metro di distanza, mentre lei se ne stava in piedi di fronte ad un pannello bianco. Stava tratteggiando delle scritte con il carboncino.

A causa della scarsità del tempo a disposizione, non riusciremmo mai a rifare tutti i cartelloni già iniziati da Simon Lebrosky in tempo. Dovremmo perciò “integrarli” a quelli di Roxanne, sperando che non si colga troppo la differenza.

«Mi raccomando, però, niente murales», ho puntualizzato, mentre lei premeva con forza il carboncino per calcare di più delle linee nere.

Ho sentito Roxanne sorridere, senza girarsi verso di me: «Anche volendo non ne sarei capace» ha risposto, restando sempre concentrata sul suo lavoro «il mio stile è molto più classico».

«E cioè?», le ho chiesto.

«Di solito disegno paesaggi o ritratti, anche se preferisco i ritratti. Ma è difficile trovare dei buoni soggetti, a volte.»

«Perché? Con che criterio scegli le persone da disegnare?», ho indagato, un po’ incuriosita da tutto quel mistero. Che fosse una disegnatrice così appassionata non l’avevo mai saputo.

«Beh…perché se il soggetto non mi ispira, non riesco a disegnare. Quando ottengo un buon risultato alla fine non penso mai che sia merito mio, ma piuttosto di quelli che hanno posato per me. Se in loro c’è quel nonsoché di speciale, allora il successo è assicurato. Non so con quale criterio io scelga chi ritrarre: è semplicemente una questione di occhio.»

«Quindi è giusto una questione di bellezza», ho ribadito, piuttosto annoiata. Perché usare tutti quei giri di parole quando la verità era semplice ed immediata?

Roxanne si è voltata di scatto. I suoi occhi blu erano accesi, ma indossava in volto una maschera di cortesia. Mi ha guardato per qualche secondo senza dire nulla, poi ha sorriso in modo mesto, scuotendo lievemente il capo.

«Direi di no, Kate

E ha ripreso in mano il carboncino, tornando a disegnare.

Ho fissato a lungo la sua schiena, i ciuffi che spuntavano dalla treccia disordinata, le sue spalle minute, la felpa da maschiaccio, le gambe snelle fasciate da jeans.

Dentro di me vibrava qualcosa: una parte di me si sentiva strana, perché era la prima volta che lei aveva pronunciato il mio nome, mentre l’altra era offesa, perché mi aveva trattato come una bambinetta che non è in grado di capire, e mi aveva liquidata in quel modo.

Eppure, la sensazione più forte che stavo provando era quella di averla in pugno. Mi stavo avvicinando alla comprensione. Stava finalmente cedendo alla sua vera natura. Non sarebbe riuscita a continuare a lungo con quella farsa della ragazza buona e gentile.

Dopo qualche altro minuto trascorso in silenzio, mi sono messa in piedi, ho girato i tacchi e ho iniziato a cercare l’uscita della palestra. Quell’atmosfera era opprimente e io mi sentivo vacillare un po’.

Eppure non potevo permettermi di certo di perdere la calma, specialmente in una situazione così delicata. Meglio fuggire via per ritornare in un momento migliore, visto che anche Roxanne sembrava totalmente assorbita dal suo compito.

Tuttavia, nel mio cammino verso l’uscita della palestra, sono incappata in un album gettato nel bel mezzo del pavimento.

Mi sono chinata a raccoglierlo, leggendo quasi per caso sulla copertina il nome ‘Roxanne Miller’.

«E’ tuo questo?»

«Oh sì,», ha detto Roxanne, indirizzando un ciuffo di capelli sfuggente, dietro l’orecchio sinistro.

Io ho preso l’album in mano e l’ho portato accanto a lei. Sentivo che c’erano vari fogli accumulati all’interno.

«Grazie», ha detto lei, «Oh! Eri ancora qui?»

Io ho stretto le labbra in una linea sottile per un secondo.

«Ahahaha.», ho riso in modo isterico. Calma. Sorridi, sbatti gli occhi e non restare rigida. «Certo sì, ero qui. Per tutto il tempo. Volevo vedere come procedeva il lavoro.»

«Ah bene!», mi ha risposto lei, «puoi restare a guardare se vuoi, non mi dà fastidio.»

Allora lei si è voltata nuovamente e io ho potuto lasciare che le mie sopracciglia si incurvassero verso il basso in un’occhiata di puro odio.

“Zitta. Sta’ calma. Non ti agitare, non ci pensare”, ho ripetuto queste parole nella mia testa come se fossero un mantra karmico, nella speranza di non lasciar trapelare la mia indignazione. Era infantile essere arrabbiata con Roxanne, solo perché si era dimenticata di me. Eravamo in silenzio da diversi minuti e lei pensava che io fossi andata via. E’ una cosa assolutamente comprensibile, allora…perché mi dava così fastidio?

Sono sempre stata circondata da persone tremendamente consapevoli della mia presenza. Persone che al mio cospetto erano talmente nervose da rasentare quasi l’isterismo.

La Miller, invece, plebea venuta da chissà dove, si permetteva addirittura di ignorarmi, quando io non facevo che trastullarmi con pensieri su di lei.

Non è un qualcosa a cui sono abituata ed io, in genere, odio le novità, a meno che non si tratti di bei ragazzi.

A proposito di bei ragazzi, comunque, meglio cambiare argomento. Ho conosciuto un tipo piuttosto interessante. E’ un fascinoso commesso in una libreria in centro, di nome Nathan Harcroff. Ha dei begli occhi verdi dal taglio quasi orientale e la battuta sempre pronta. Probabilmente domenica lo vedrò di nuovo alla festa dei Lansom o magari visiterò la libreria semplicemente perché è divertente e io voglio trovare una scappatoia alla monotonia di queste giornate.

Stare con gli altri ragazzi a scuola è diventato uno stress, perché sono tutti gelosi l’uno dell’altro e io non voglio che facciano scenate in un luogo pubblico.

Sempre più spesso mi sono ritrovata a preferire la compagnia delle Gallinelle a quella di Jason o Jeff. Mike, il batterista, mi cerca, ogni volta che arriva per le prove con la sua band, ma ormai sono diventata abbastanza brava nel dileguarmi a tempo debito.

Oggi ho usato persino Roxanne Miller per scappare da lui e, considerando la frase di ieri che non le avevo ancora perdonato, questo spiega quanto ero disperata.

«Vai a disegnare, vero? Vengo con te: mi piace stare a guardare.», ho dichiarato tempestiva, raccogliendo la borsa e allontanandomi dal campo visivo del batterista, trascinando con me Roxanne.

Lei è sembrata lusingata dal mio interessamento e ha annuito.

C’è qualcosa di lei che ancora non riesco a comprendere, ma penso dipenda dal fatto che non l’ho ancora smascherata una volta per tutte.

In palestra, io mi sono stravaccata nuovamente sui materassini e lei è andata a posizionarsi di fronte ai cartelloni da terminare, come il giorno precedente. Il suo stile era chiaramente diverso da quello grezzo e bigotto di Simon: il tratto era raffinato ed elegante. Ho visto Roxanne prendere in mano la tempera gialla e rossa, per ricreare il colore infuocato del tramonto. I disegni di Simon avevano come sfondo un arancio acceso, perciò Roxanne aveva pensato di fare in modo che i vari cartelloni fossero accumunati almeno dai colori, in modo da sembrare creati da una stessa mano.

«Ottima idea», ho detto allora. Mi riesce difficile non esprimere il mio giudizio, per buono o brutto che sia.

Lei si è voltata verso di me, mischiando allo stesso tempo i colori in un barattolo e aggiungendovi un po’ d’acqua.

«Grazie. Mi è sembrato l’unico modo in cui poter continuare il lavoro di Simon, senza trovarmi costretta a disegnare murales.»

A una piccola distanza dai miei piedi, sempre gettato a terra, c’era il suo album da disegno che avevo raccolto il giorno prima. «Posso?», ho chiesto, indicando la copertina lercia.

«Certo, fa pure». E poi un sorriso gentile.

Ho preso l’album in mano, appoggiandolo sul materassino dov’ero seduta. Non volevo metterlo in grembo per non sporcarmi i pantaloni di lino.

«Non pensavo fossi così disposta a farmelo vedere…sai com’è, di solito tutti gli artisti sono un po’ restii nel mostrare il loro lavoro a qualcuno», ho commentato, con voce scherzosa. In realtà, ero davvero sorpresa: pensavo fosse una persona più riservata e gelosa della sua privacy.

Roxanne si è stretta nelle spalle, immergendo il pennello più volte nella tempera mischiata per controllarne la densità.

«Dicono spesso che nei disegni c’è l’anima di chi li realizza. Chi ha paura di mostrarli, ha paura di mostrare la propria anima, ma io non ho alcun problema a far vedere la mia. Disegno per una mia soddisfazione, certo, ma mi piace sapere cosa ne pensano gli altri. Mi aiuta a capire anche qualcosa in più su me stessa.», ha detto.

Ho alzato lo sguardo nella sua direzione, ma lei stava guardando da un’altra parte. Così ho preso in mano il primo disegno custodito nell’album.

Era un paesaggio: un mare acquerellato, sul quale si librava un gabbiano dal becco giallo e l’estremità delle ali nere. Tutto era in prospettiva rispetto agli scogli sui quali stava appollaiato un pescatore, appena accennato. Il cielo era grigio e tetro, come se fosse in arrivo una tempesta.

In seguito, sono passata al secondo disegno. Non era colorato, ma era semplicemente lo schizzo di una donna di colore dal labbro sporgente e dagli occhi sorridenti. Il terzo e il quarto foglio, rappresentavano degli aquiloni, aeroplanini di carta, o disegni di altri foglietti ripiegati come degli origami. Erano tracciati con tante linee imprecise che sembravano quasi fare emergere quegli oggetti dal foglio. A quanto pare il suo repertorio non si limitava solo a paesaggi e ritratti, come mi aveva detto. Dopo il foglio con gli schizzi degli origami, c’era un altro ritratto, questa volta a colori, curato e dallo stile impeccabile. Mi ha fatto restare a bocca aperta. L’ho guardato a lungo, cercando nelle ciglia della giovane ritratta, o negli zigomi alti, o nei suoi occhi neri e luminosi, qualche imperfezione. Non ce n’era nessuna.

Ho esaminato il ritratto ancora per un po’ e poi…

«E’ Madison? E’ tua sorella?»

Roxanne ha sorriso e annuito, sfregandosi distrattamente la guancia con una mano sporca di colore.

«Oh no! Ho tutta la tempera in faccia adesso!», si è lamentata e io non sono riuscita a trattenermi dal ridere.

Il viso di Roxanne si è aperto in un gran sorrisone, identico a quello dello Stregatto di Alice nel Paese delle Meraviglie. Sembrava che non le importasse di essersi sporcata, ma avesse finto di scandalizzarsi solo per farmi divertire. Non è corsa in bagno come avrei fatto io, quindi suppongo fosse proprio quello il suo scopo.

Non la capisco, a volte.

Dopodiché, Roxanne ha continuato a stendere il colore sul pannello e io ho visto qualche altro disegno contenuto nell’album. Gli ho trovati tutti molto belli e accurati, ma non le ho detto niente. Lei, in ogni caso, non sembrava aspettarsi alcun complimento.

L’ultimo disegno, sommerso da ogni sorta di schizzo, in fondo all’album, era quello di un uomo: portava gli  occhiali, aveva un sorriso gioviale, la mascella pronunciata e i denti dritti. Era meno particolareggiato di quello di Madison, ma altrettanto ben fatto.

«E lui, chi è?», ho domandato, sempre stando attenta che lei non si scordasse di me, come aveva fatto il giorno precedente.

Roxanne non si è voltata, come se sapesse già a cosa mi riferissi, senza bisogno di assicurarsene con i propri occhi.

«Il compagno di mia madre», è stata la sua risposta lapidaria.

La sua voce aveva un che di tetro.
A parte qualche commento breve e fugace sul tempo che andava peggiorando, Roxanne non ha aperto più bocca.
Reazione strana, davvero, mi converrà approfondire l’argomento un giorno o l’altro.

Più tardi, ho salvato la mia messa in piega dalla grandinata che è scoppiata all’uscita di scuola, grazie al passaggio di Jason. Avrei potuto chiamare mio padre per farmi venire a prendere, o un taxi come faccio di solito, oppure andare con una delle Gallinelle, ma ho accettato la sua proposta.

Sembrerà una cosa stupida, ma non ho ancora preso la patente, visto che non ho nessuna intenzione di mettermi a guidare una macchina, al momento. Ne sono terrorizzata e non so nemmeno il perché, è assurdo! Temo sia una fobia come quella dei ragni o degli spazi chiusi, anche se non ho alcun problema ad andare in auto con qualcuno, l’importante è che non sia io a guidare. Non ci ho mai provato nemmeno per gioco.

Lungo la strada, ho visto correre Roxanne Miller che tornava evidentemente a casa a piedi. La grandine, per quanto non fosse molto forte, le ha distrutto l’ombrello. Mi è quasi, e ripeto quasi, dispiaciuto per lei, ma non mi sono fermata ad aiutarla, perché sapevo che Jason sarebbe stato felice di accompagnarla (la ammira molto per le sue buone qualità, a quanto ne so) e io, invece, volevo che si concentrasse solo su di me.

Mi chiedo se sia arrivata a casa sana e salva…ma non sono cose che mi riguardano, comunque.

 

Kate

 

 

***

Nuovo capitolo…ho voluto postarlo oggi, perché domani di sicuro sarò impegnata e non volevo lasciare il week-end senza aggiornamenti!

Ringrazio molto Pigna e Laprinc per aver detto che la storia sembra reale (a parte quel piccolo fraintendimento ;) ). Se da una parte questo mi stupisce (perché ho sempre l’impressione di esagerare nello scrivere di Kate, a volte), dall’altra mi rende enormemente entusiasta di scrivere e continuare la storia. Spero sempre che continuiate a seguirmi ^__^!

 

Saluti!

 

Angela

 

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Capitolo 6
*** cap 6: La spaccacuori ***


26 aprile

26 aprile

 

 

Come previsto, ho incontrato Nathan, il commesso, alla festa dei Lansom, sabato sera. Ho finto di avvicinarmi a lui per caso, ma lui mi ha notata non appena sono entrata nel suo campo visivo, e così abbiamo iniziato a parlare. Ricordava ancora la prima volta che ci siamo incontrati, come d’altronde la ricordo anche io, visto che è passata a mala pena una settimana. Mi ha detto che l’avevo colpito dal primo sguardo.

“Classico modo di abbordare una ragazza”, ho pensato, ma lui era carino e simpatico quanto bastava e io l’ho lasciato fare. Non siamo finiti a letto assieme, ma abbiamo parlato, parlato, parlato e…parlato. Anche se, devo precisarlo, essendo un tipo alquanto logorroico, è stato proprio lui ad affrontare la maggior parte dei discorsi.

Terminata la festa poi, mi ha riaccompagnato, lasciandomi sulla soglia di casa con le labbra rosse e gonfie del suo bacio. Non mi dispiace che le cose vadano di questo passo.

E’ tutto molto più godibile, no?

Quando lunedì sono tornata a scuola, tutti erano in fermento. Mancano esattamente 5 giorni all’evento clou per cui ci stiamo preparando da un mese e quasi non ci sembra vero che accada così presto.

Ovviamente, avvicinandosi la serata e il Gran Ballo (questo è il nome che qualche fanatico di Cenerentola gli ha dato), Mike, Jason e Jeff si sono fatti sempre più pressanti. Io, d'altro canto, non riesco a fare altro che rimandare la mia risposta, ma mi piacerebbe trovare una scappatoia a questa situazione.

I preparativi per l’accoglienza degli stranieri, vanno avanti in maniera piuttosto liscia. Roxanne Miller ha tutto uno staff a disposizione (che ho reclutato io, naturalmente, visto che sosteneva di potersela cavare da sola) nell’aiutarla a finire i cartelloni in tempo. Lei si è occupata delle scritte, mentre gli altri della colorazione di queste, sotto le sue direttive.

Io, invece, mi sono data da fare con la creazione dei biglietti di invito da spedire a professori e ospiti d’onore della serata. Ovviamente, non sono stata io a realizzarli, sia chiaro. Semplicemente mi sono rivolta a Larry Picks, uno di quei secchioni con gli occhiali spessi a fondo di bottiglia, specializzato in computer grafica. Quando mi sono avvicinata a lui, poco ci mancava che svenisse sul posto. Era da un bel po’ che non causavo un tale “shock”; vedere qualcuno che casca ai miei piedi in quel modo, comunque, fa sempre piacere.

Ho fatto in modo che i bigliettini fossero stampati tutti con dei puntini da riempire in seguito con il nome del destinatario, visto che molto probabilmente alla lista degli invitati se ne aggiungeranno altri, di cui ancora non conosciamo il nome. Questo mi sembrava un compromesso ragionevole.

Dopo l’orario scolastico poi, io, Roxanne, Patty Mason e la sua amichetta innominata, ci siamo trattenute per riempire ad uno ad uno tutti gli inviti. Per evitare di dover lavorare anche io, ci mettevo secoli solo per scrivere una lettera, in modo da far sembrare che mi stavo dando da fare, anche senza far nulla.

Dopo poco più di un quarto d’ora, però, le altre due si sono congedate, asserendo di aver una commissione da fare.

Quando sono scomparse dalla mia vista, non ho potuto fare a meno di commentare: «Devo ammettere che sono proprio delle ragazze furbe, le tue amichette. Prima si offrono di aiutarci, apparendo come delle bambine brave e volenterose, poi si dileguano per andarsene via chissà dove.»

Non mi sono fatta nessun scrupolo a parlare male delle sue amiche, di fronte a Roxanne. Da una parte intendevo anche provocarla: se lei mi avesse dato ragione avrei anche dimostrato la sua falsità.

Ma Roxanne, come prevedibile, non ha fatto niente di quello che mi aspettavo. Non mi ha né rimproverata, né mi ha dato ragione. Se n’è rimasta con lo sguardo basso e un’espressione mesta.

«Non giudicarle male», ha detto flebilmente, «avevano da fare.»

Come prevedibile, non l’ho ascoltata e ho continuato a maledirle nella mia mente per tutto il tempo. Adesso, per colpa loro, mi toccava lavorare sul serio, altrimenti avremmo perso tutto il pomeriggio per compilare i biglietti.

Siamo state in silenzio per un po’, assorte nella nostra attività, poi Roxanne si è animata tutto ad un tratto e mi ha chiesto: «Con chi andrai al Gran Ballo?»

Io l’ho guardata perplessa. Non si era mai permessa di farmi una domanda così diretta e personale, prima di allora.

«Non lo so», ho risposto, tagliando corto.

«Beh…sai, in giro ci sono un bel po’ di voci su di te. Più che altro tutti stanno scommettendo su chi sceglierai come accompagnatore per la serata.», ha aggiunto Roxanne. Sembrava divertita, ma al tempo stesso restia a continuare.

«Ah sì?», ho commentato, per nulla sorpresa, «E chi sono i favoriti nelle quotazioni?»

Roxanne ha fatto un risolino, spontaneo e per nulla derisorio, e ha detto: «Jason Roberts, di sicuro. Tutti sostengono che facciate una bella coppia.»

«Mhm», ho mugugnato, come se ci stessi pensando sul serio.

Se non stessimo bene insieme, non avrei mai il coraggio di farmi vedere con lui. Le persone con cui esco sono come un accessorio per me: esattamente come una borsa, se non si intona alle scarpe, la lascio a marcire nel mio armadio.

«E tu che ne pensi?»

«Io?», ha chiesto Roxanne, sorpresa, posando la penna con la quale stava compilando gli inviti, per indicarsi.

«Sì. Secondo te facciamo una bella coppia?»

Roxanne mi ha guardato perplessa ancora per qualche secondo e poi ha risposto: «Sì, ovviamente, siete entrambi due bellissimi ragazzi, ma non andate all’unisono.»

Come la maggior parte delle volte, Roxanne Miller era riuscita a confondermi con le sue strane considerazioni.

«Non andiamo all’unisono? In che senso?»

«Nel senso che, andiamo, ho notato che lui è totalmente perso di te, ma per te non è lo stesso. E’ palese. E’ questo l’unisono che manca. Siete una coppia favolosa, fisicamente parlando, ma manca quella complicità che c’è tra chi si ama a vicenda.»

Io l’ho guardata stupefatta.

«Ovviamente non è colpa tua, se Jason è innamorato di te e tu no; semplicemente non hai ancora trovato il ragazzo giusto. Ma è anche vero che certe cose come l’amore crescono col tempo e quindi un giorno, magari, riuscirai a ricambiare pienamente i suoi sentimenti e imparerai ad amarlo col tempo, e…»

Mi sentivo girare la testa per tutte le affermazioni che lei aveva fatto sulla mia vita e al tempo stesso avevo voglia di ridere, perché lei credeva possibile che con il tempo io sarei riuscita ad amare davvero qualcuno.

 Tuttavia, ho cercato abilmente di evitare l’argomento, spostando la conversazione su di lei.

«ROXanne, sei mai stata innamorata? Visto che sembri parlare dell’amore con tanta esperienza.», ho detto, guardandola fisso negli occhi. Il tono duro nella mia voce era facilmente riconoscibile.

I suoi occhi blu si sono spalancati per un secondo, la sua mascella si è contratta.

Era anche la prima volta che la chiamavo per nome direttamente, evitando di usare il diminutivo decrepito che le sue amichette le avevano affibbiato (“Anne”) ed evidenziando, invece, la parte del suo nome che mi piaceva.

Prima di oggi, avevo sempre evitato di chiamarla in modo così diretto. Era diventato quasi un riflesso. Ma oggi il contesto in cui ci trovavamo era ben diverso: la distanza tra noi si era drasticamente ridotta.

Io sono Kate, lei è Roxanne. Non esiste un altro modo per nominarci.

«Io…sì, sono stata innamorata», ha confessato in un soffio. Sembrava all’improvviso molto abbattuta. «E so anche che non è un argomento che è possibile prendere con leggerezza, a dire il vero…perciò scusami se mi sono impicciata, senza conoscere i dettagli personali tra te e Jason.»

Era una risposta ragionevole e ha fatto diventare ragionevole anche me.

Ho annuito lievemente: «Diciamo solo che è meglio non parlare di ciò che non si conosce.»

Piccola pausa, silenzio imbarazzato.

«Tu, invece, con chi andrai al ballo?», le ho chiesto poi.

«Con nessuno», ha risposto Roxanne, continuando a scrivere sui biglietti di invito, «oggi due o tre ragazzi mi hanno invitata, ma io ho rifiutato perché non li conoscevo.»

Io ho aggrottato le sopracciglia, confusa: «Ma il ballo non è un’occasione di conoscenza? Li avresti conosciuti durante la serata, che problema c’è in questo?»

«Nessun problema, infatti. Ma mi conosco e so bene che avrei accettato il loro invito solo perché non sono capace di negare il mio aiuto a qualcuno. Sarebbe stato quasi un atto di pietà, capisci? E non credo che loro avrebbero voluto questo da me…»

C’era ancora qualcosa che non riuscivo ad afferrare: «E non avresti potuto fare lo stesso che hai consigliato a me? Innamorarti di uno di loro col tempo…», ho suggerito, tanto per mantenere aperto l’argomento e vedere se riuscivo a scoprire qualcosa di più.

Roxanne ha riso con amarezza, agitando le mani, come per negare tutto. «Okay, okay. Ammetto di aver parlato di cose che non conosco. E’ impossibile amare a comando, questo lo so bene, però. Sarebbe tutto molto più pratico se ciò fosse possibile: un sacco di cuori spezzati, adesso, sarebbero ancora interi.»

Ho percepito chiaramente il rimpianto nella sua voce, come se fosse qualcosa di tangibile, di solido.

«Ma i cuori spezzati, per quanto siano miserabili, per lo meno sono una realtà vissuta e vera. Non è solo l’amore l’unica cosa in grado di spezzarci il cuore», ho detto, senza pensarci due volte.

Mentre parlavo, le mie parole non sembravano avere alcun senso. A cosa mi riferivo? Di chi stavo parlando?

Io sono sempre stata una spacca cuori, non un cuore spezzato. Perché stavo compatendo le mie vittime?

«No, ma è l’unica cosa in grado di risanarlo», ha risposto Roxanne, sorridendo timorosa.

Poi in un lampo, c’è stata la mia realizzazione.

Quello era il sorriso di un cuore spezzato e rattoppato alla bell’e meglio.

Ma era pur sempre un sorriso.

Un sorriso vero.

 

 

28 aprile

 

 

Mancano ufficialmente tre giorni, e poi tutto sarà finito. Che sollievo! Non vedo l’ora che quei dannati stranieri arrivino, abbiano la loro stramaledetta festa e se ne vadano il più presto possibile. Inoltre, spero che Gutierez la smetta di pressare me e la Miller il più presto possibile.

Si è preso persino il nostro numero di cellulare - per contattarci se dovessero esserci problemi, ha detto lui, ma sono certa che le sue intenzioni fossero altre.

Quando l’ho fatto presente a Roxanne, lei si è messa a ridere di gusto.

Io, d’altra parte, ero mortalmente seria.

«Allora, tu pensi che ci stesse provando? Un professore con le sue alunne?», mi ha chiesto alla fine della lezione di spagnolo.

«Non lo penso semplicemente, ne sono sicura.», ho precisato.

Lei ha scosso la testa, incredula.

«No, no, è troppo strano…non voglio nemmeno pensarci…»

Ho intravisto una piccola incertezza, una debolezza in lei.

Era il momento giusto per colpire.

«Cosa è strano?», ho indagato, cercando di sembrare casuale, «E’ piuttosto comune che un uomo dimostri un interesse verso una ragazza più giovane.»

Al che, non so se sia stata solo colpa o meno di una goffaggine momentanea, tutti i libri che Roxanne teneva stretti al petto, sono rovinati a terra, creando un gran caos in tutto il corridoio.

Non ho idea di quanti «Scusa» e «Mi dispiace» abbia ripetuto appena dopo quell’avvenimento, ma so solo che erano fin troppi per i miei gusti.

Dopo aver raccolto tutti i volumi che erano caduti – io chiaramente non l’ho aiutata; mi divertivo semplicemente nel vederla inginocchiata a terra, sotto gli sguardi di tutti, imbarazzata come non mai – è corsa via, asserendo di avere una lezione di letteratura con un professore piuttosto inflessibile sulla puntualità.

Ho fissato per un po’, con sguardo vacuo, il posto che aveva occupato fino a qualche minuto prima.

E poi, come comparso dal nulla, Jason ha chiamato il mio nome e io sono riemersa da quel momento di trance. Sul suo viso allungato si rifletteva un’espressione di ferrea determinazione.

Prima ancora che aprisse bocca, sapevo già di cosa voleva parlarmi. Come lo sapeva persino tutto il pubblico che si era radunato attorno a noi. Stavo quasi per indietreggiare, prima di ricordarmi che una come Kate Hudson non indietreggia mai, ma affronta tutto a testa alta. Spingendo il mento all’insù, quindi, ho guardato dritto negli occhi Jason. Lui era pronto, io ero pronta. Gli altri attendevano trepidanti.

«Kate, vuoi venire al ballo con me?», mi ha chiesto allora.

Ecco la fatidica domanda.

Leggevo nei suoi occhi chiari, nell’atteggiamento spavaldo che quelli del suo rango si concedono sempre, nella compostezza con cui aveva formulato la frase, che non si aspettava un no. Eppure, c’era una piccola debolezza in lui. Una debolezza che conoscevo bene e di cui mi approfittavo spesso. Lui era innamorato di me, o quanto meno era abbastanza cotto di me, da essere alla mia completa mercé.

Naturalmente, però, lui non l’avrebbe mai ammesso davanti a tutta quella platea.

Avevo la mia carta vincente in mano.

«Non sei certo il primo che me lo chiede. Perché dovrei venirci proprio con te?», ho domandato allora, fingendo di essere ignara della motivazione.

Sapevo che con quelle parole l’avrei messo in difficoltà.

E di fatti ci sono riuscita: Jason ha tentennato. Potevo chiaramente osservare, come se vedessi i suoi pensieri attraverso uno schermo, che era combattuto tra l’ipotesi di scongiurarmi di accompagnarlo al ballo, dichiarandomi spassionatamente il suo amore, e quella di fingersi superiore, come se la situazione non gli importasse per davvero.

Il suo orgoglio e la consapevolezza che tutti ci stavano guardando, lo ha fatto propendere verso la seconda opzione.

«Intendi dire che ci andrai con qualcun altro? Come vuoi. Non ho intenzione di pregare nessuno.»

Malgrado quelle parole, lui non accennava a spostarsi di un millimetro.

«Bene: non sono mica un santo, d’altronde. Mi risolleva sapere di non essere l’oggetto delle tue preghiere», ho risposto, stando ben attenta ad assumere un tono acido e antipatico.

Di solito non sono mai così stronza con Jason. Lui è un tipo schietto, sincero, assieme ci divertiamo e suppongo anche che sia una delle pochissime persone a cui ho fatto vedere almeno un pezzettino della vera me stessa. Ho giocato con i suoi sentimenti, e lo faccio ancora, ma i ricordi che possiedo assieme a lui sono tutti memorie che custodisco dentro di me con un sorriso.

A volte, quando mi stringe tra le sue braccia, smetto anche di pensare. Peccato duri tutto così poco.

Oppure queste sono solo mie illusioni: magari ho smesso di essere obiettiva come lo ero prima. Forse sto cercando solo un modo per giustificarmi, quando in realtà, modi per discolparmi non ce ne sono.

D’altronde, di cosa dovrei discolparmi? Non gli ho mica chiesto io di innamorarsi di me!

Il masochismo degli uomini va oltre la mia immaginazione. Se vedono davanti a loro un muro incrollabile, ci andranno a sbattere comunque, perché dentro di loro c’è sempre l’assurda convinzione che saranno i primi ad abbatterlo.

Allo stesso modo, Jason ha cercato di superare il muro che separa me stessa dagli altri. Sapeva perfettamente di non potercela fare, ma ha tentato comunque, rafforzato dalla sua testardaggine.

Sapeva di fallire, certo, quello che ignorava, però, era che l’urto sarebbe stato così forte.

Proprio per questo, la sua espressione totalmente scioccata non mi ha affatto stupita.

«Se non hai altro da dirmi, allora, io andrei. Ho lezione.», ho dichiarato secca, lasciando lui e gli spettatori tutt’attorno a noi, a corto di parole.

Quando al termine delle lezioni, oggi pomeriggio, sono andata in palestra, per controllare a che punto erano i preparativi per l’accoglienza degli stranieri, tutti i presenti, vedendomi entrare, si sono azzittiti. Era come se li avessi colti sul fatto, come se non avessero fatto altro che parlare di me per tutto il tempo.

Non mi è mai dispiaciuto essere osservata, ammirata, adulata, ma chiaramente odio essere fissata in quella maniera.

Ho resistito all’impulso irrefrenabile di gridare: “SE AVETE QUALCOSA DA DIRE, DITEMELO ALMENO IN FACCIA!”, solo per preservare il mio contegno ed evitare una disastrosa figura di merda.

Ho guardato per tutto il tempo con sfida Roxanne Miller, sperando che si azzardasse a chiedermi qualcosa, per poter riversare la mia rabbia tutta su di lei, ma le mie sono state speranze vane.

Incapace di trattenermi, allora, le ho chiesto direttamente cosa ne pensasse: «Dai, non dirmi che sei ignara del pettegolezzo che sta dilagando per l’intera scuola…»

Roxanne ha alzato i suoi tondi occhi blu su di me, il volto trasfigurato in un vero e proprio punto interrogativo.

«Me e Jason», ho suggerito, irritata di doverle spiegare una cosa così elementare.

E’ impressionante notare quanto sia costantemente “fuori dal mondo”, questa ragazza!

Dal movimento repentino dei suoi occhi, ho capito che aveva afferrato il punto.

Mi ha scrutato per qualche secondo e poi ha detto semplicemente in tono pacato: «Ho apprezzato la tua onestà.»

L’ho guardata confusa, totalmente smarrita da quelle parole. Se c’è una cosa che so di per certo nella mia vita è questa: non è mai possibile prevedere le parole di Roxanne Miller.

Per di più, il suo modo sibillino di esprimersi, non mi aiuta di certo ad avvicinarmi alla comprensione.

A dire il vero, devo ancora capire se le sue parole siano solo un mucchio di baggianate o la pura e semplice verità.

Ho aspettato, invano, che aggiungesse qualcos’altro. Alla fine, incapace di restarmene zitta, ho fatto sentire la mia presenza. Non volevo che si scordasse nuovamente che ero lì.

«Non mi farai la paternale corredata dall’immancabile: “Oh! Povero Jason!”?», ho domandato, assumendo un tono melodrammatico.

Con mia grande sorpresa, Roxanne è scoppiata a ridere.

Probabilmente, sentirmi dire delle parole così inusuali alla mia persona, aveva scatenato la sua ilarità. Quella risata ha trasmesso una certa allegria anche a me.

«No, nessuna paternale. Piuttosto, te l’avrei fatta se avessi accettato il suo invito.», ha risposto pacatamente.

Il mio sopracciglio elevato ad altezze stratosferiche, deve averle fatto sicuramente capire la mia muta opinione.

«Non fare quella faccia. Sarebbe stato più meschino da parte tua, se avessi accettato l’invito, pur non provando niente per lui.»

Ecco, ci risiamo. Mi aveva fraintesa. Il motivo dietro la mia scelta non aveva niente a che fare con la mia onestà. D’altronde, non mi sarei fatta scrupoli ad andare con Jason al ballo, se ciò non avesse scatenato le ire di decine di altri ragazzi. Non è nemmeno la prima volta che mi approfitto di lui, a dire il vero.

Chiaramente, però, non potevo rivelare ciò alla pura e dolce Roxanne, anche se la sua innocenza è semplicemente una finzione. Se lei ha intenzione di continuare a comportarsi come una brava bambina, lo farò anche io. Che male c’è ad accreditare le sue idealistiche convinzioni?

«E’ esattamente il motivo per cui ho rifiutato, infatti», ho confermato, annuendo, simulando una reazione accorata.

Roxanne, allora, mi ha guardata dritta in faccia, ma diversamente da prima. Io le ho restituito lo sguardo, confusa.

Quando stava per aprir bocca, infine, Patty Mason le è spuntata alle spalle e l’ha abbracciata di slancio.

«Anne!», ha squittito e io ho voltato le spalle a quel ridicolo teatrino, disgustata.

«Kate, aspetta!», mi ha chiamato.

Io mi sono girata di scatto, sobbalzando quasi. Sentirle pronunciare il mio nome mi fa un certo effetto.

Patty Mason le stava ancorata addosso, ma Roxanne non sembrava farci caso. Evidentemente, era abituata ad essere scambiata per un albero di eucalipto da “koala” come Patty.

«Bisogna andare a comprare della carta velina e degli altri materiali per i festoni…vorresti venirci con me?»

Ho sbattuto le palpebre, confusa. L’idea di fare shopping, anche se per materiali scolastici, con Roxanne Miller, non mi aveva mai nemmeno sfiorata.

Stavo per lavarmene le mani, in fondo non sono mai stata un tipo che ama assumersi un certo tipo di impegni. Poi, però, riflettendoci, ho visto l’occasione presentarsi davanti ai miei occhi: passare del tempo con Roxanne significava scoprire qualcosa in più su di lei, permettermi di avvicinarmi alla verità. E poi non avevo intenzione di diventare sua “amica”?

La mia missione è appena incominciata.

«Certo, va benissimo», ho detto, cercando di sembrare abbastanza entusiasta.

«Ok, allora domani alle 18 per te va bene?»

«Naturalmente», ho acconsentito.

Un dolce sorriso, un breve cenno con la mano, e poi via, ignorando Patty Mason dimenarsi come un orangotango, piuttosto che un koala, per rispondere al mio saluto.

Ti ho in pugno, Roxanne Miller. A domani.

 

 

***

 

 

Ancora un altro capitolo. Mi dispiace di non aver potuto aggiornare prima, ma i compiti sono tanti e il tempo libero sempre poco. Voglio solo precisare che, adesso che il materiale già scritto è terminato, sarò un po’ più lenta nel pubblicare i nuovi capitoli, anche se tenterò di aggiornare ogni settimana.
Ringrazio, inoltre, Pigna e Luine per i commenti!
Luine, le tue previsioni sulla storia sono interessanti, ma mi pare ovvio che non posso rivelare nulla...per il momento ;). Spero con i prossimi capitoli di riuscire a rispondere ai tuoi dubbi...ma per ora, preferisco mantenere l'alone di mistero! :P Ti posso solo dire che in questo capitolo c'erano altri indizi su Roxanne...
Okay, basta adesso, altrimenti finisco per spifferare tutto! Chi vivrà vedrà U_U

 

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Capitolo 7
*** cap 7: Fidati di me ***


29 aprile

 

29 aprile

 

 

Se c’è una cosa che finalmente ho imparato è questa: non fare mai previsioni azzardate, la realtà riuscirà sempre a stupirti con qualcosa di totalmente opposto. O per lo meno, questo è quello che è capitato a me, oggi.

Ma andiamo con ordine, racconterò tutto dall’inizio.

La giornata scolastica è stata davvero infernale. Dopo il mio rifiuto pubblico a Jason, proprio a conferma della mia teoria masochistica sugli uomini, tutti quelli che se n’erano restati a guardarmi da lontano, desiderosi di invitarmi al Gran Ballo, ma troppo codardi per farlo, sono usciti allo scoperto.

“Se ha rifiutato Jason, potrebbe prendere in considerazione me”, forse questi sono stati i pensieri di tutti i coraggiosi che hanno avuto l’ardire di avvicinarmi.

All’inizio non è stato difficile evitare i più timidi: visto che avevano a malapena la voce necessaria per pronunciare il mio nome, ho fatto finta di non sentirli affatto.

I più audaci, invece, hanno osato superare il muro delle Gallinelle attorno a me, ma si sono dovuti tirare indietro, una volta incontrato il mio sguardo omicida.

Jeff e Mike, gli unici che avrebbero potuto avvicinarmi, d’altra parte, sono stati frenati dalla folla che mi accerchiava. Al termine delle lezioni, mi toccava quasi correre, onde evitare che nei corridoi si accalcassero troppe persone.

Affrontare il tragitto sino all’aula di spagnolo, all’ultima ora, è stata una delle cose peggiori che mi siano mai capitate. Le Gallinelle erano impegnate con il loro corso di arte e quindi il muro umano che mi porto sempre attorno era venuto meno.

Inseriti nella folla c’erano Tom, Larry, Phil, Chris, persone con cui esco di solito, o che incontro alle feste. Persone con cui mi intrattengo, gente con cui scherzo. Eppure, nonostante ciò, loro erano persino più accaniti degli altri ragazzi, nella loro opera di inseguimento alla sottoscritta.

Quando mi sono ritrovata circondata, allora, ho cercato di sgusciare verso destra, rifugiandomi temporaneamente dentro il bagno delle ragazze per aspettare che andassero via. Spingendo un po’ di persone, evitando le manacce di quelli che cercavano di trattenermi, urlando a due secchioni di levarsi di torno, ho raggiunto il mio obbiettivo.

Ho chiuso freneticamente la porta dei servizi igienici, prima che potessero raggiungermi e mi ci sono appoggiata contro, esausta.

Speravo vivamente che se ne andassero, ma questo non è ciò che è accaduto, in realtà.

Ho sentito dapprima dei mormorii e poi un grande urlo è risuonato nei corridoi: «KATE TI PREGO, ESCI DI Lì! VIENI AL BALLO CON NOI!»

No, dico, ma stiamo scherzando? Come potrei mai andare al ballo con più di quaranta persone contemporaneamente?

Ed è stato così, allora, che ho capito quale fosse il loro vero scopo: farmi a pezzi, in modo che ciascuno di loro avesse una parte di me e potesse dire di essere andato al ballo con Kate Hudson.

Orribile!

Quando hanno iniziato a sbattere i pugni contro la porta a cui ero appoggiata di schiena, ho iniziato a sudare freddo.

«Ma cosa sta succedendo?»

La vocina di Roxanne Miller, appena emersa da una delle cabine della toilette, mi ha fatto sussultare. Lei era lì, in una delle sue felpe extra large, con un’espressione perplessa in viso, tranquilla come non mai. Io, d’altra parte, ero sull’orlo di una crisi di nervi, avevo tutta la camicetta stropicciata dalle mani di quei fanatici che cercavano di toccarmi come se fossi una reliquia, il trucco totalmente disfatto e una voglia matta di uccidere qualcuno.

Kate Hudson, colei che ha sempre proseguito a testa alta in tutta la sua vita, costretta a nascondersi nel bagno delle ragazze, per sfuggire ai suoi inseguitori!

A dire il vero, la situazione poteva apparire palesemente comica, ma per me che c'ero dentro fino al collo, non lo era affatto.

Ho guardato Roxanne con un’espressione annoiata. C’era d’aspettarsi che, di tutti i momenti in cui avrebbe potuto fare la sua comparsa, lei avrebbe scelto il peggiore.

Tutto sommato, però, preferivo di gran lunga la sua presenza, a quella dei miei fan scalpitanti lì fuori.

Non ho risposto alla sua domanda, ma i cori da stadio che inneggiavano: «KATE! KATE! KATE!», devono averle fornito abbastanza indizi a riguardo della questione.

L’ho vista tendere l’orecchio per cogliere quegli urli disumani, notevolmente attutiti dalle pareti della stanza, per poi mormorare un flebile: «Oh.»

“Beata lei”, ho pensato malinconicamente, “E’ così facile per lei liquidare l’argomento!”

«Cosa hai intenzione di fare?», mi ha chiesto dopo pochi secondi di silenzio, strofinandosi le mani sotto il getto d’acqua del lavandino.

«Non ti pare ovvio?!», le ho risposto un po’ alterata, «Me ne resterò qui. Sempre meglio che andare là fuori!»

Roxanne si è girata a guardarmi. Mi ha scrutato con espressione pensosa per un po’, mentre io le restituivo lo sguardo incuriosita, e poi si è illuminata.

«Ho trovato! Lascia fare a me!», ha detto entusiasta, prima di dirigersi verso di me, ovvero verso la porta.

«Fammi uscire», è stato il suo ordine.

«No! Vuoi vedermi morta?! Entreranno persino nel bagno delle donne, se solo gliene diamo l’occasione!»

«Andiamo, non succederà. Fammi uscire.», mi ha risposto, seccamente.

«Ma sei pazza?! Guarda che io non ci tengo a farmi fare a pezzetti! E quelli potrebbero fare a pezzi anche te! Sono talmente inferociti che non ci distinguerebbero nemmeno e ti assalirebbero seduta stante!»

Lasciandomi letteralmente basita, Roxanne è scoppiata a ridere.

«A pezzetti?! Non sono mica dei cannibali!», ha mormorato tra le risate.

Io mi sono battuta la fronte con una mano, in un gesto di rassegnazione.

«Capisci almeno di cosa sto parlando? Questa è una situazione seria, estremamente seria! E non ricominciare a ridere!»

Le mie proteste sono state inutili, tuttavia.

«Ok, ho capito.», ha replicato in un modo per niente convincente, camuffando un'altra risata con un colpo di tosse, «Troverò il modo di liberarti di loro, ma tu devi farmi prima uscire.»

«NO! NO! NO! Ho capito cosa hai intenzione di fare! Adesso te ne tornerai in classe, così da non essere in ritardo per la lezione, mentre io dovrò restarmene sola qui ad affrontare quella mandria di bufali impazziti! E’ tutta colpa loro, dannazione!»

Ridacchiando, Roxanne ha risposto: «La regina non può essere tale, senza i suoi sudditi.»

Sul momento, confusa, irritata e arrabbiata com’ero, non riuscivo proprio a capire cosa intendesse dire. Era solo uno dei suoi soliti sproloqui senza senso; ci ero abituata ormai.

«Fammi uscire. Ti prometto che non scapperò a lezione, senza prima aiutarti.»

Certo. E io avrei dovuto crederle? Mi credeva così stupida? Sapevo benissimo che oltre la facciata da buona samaritana, era una doppiogiochista. Avrebbe potuto prendere in giro chiunque, ma non la sottoscritta. Io conosco la sua vera natura: lei è una bugiarda, una calcolatrice, una manipolatrice quanto me, non ci sono dubbi. Ne ho avuto l’ennesima conferma, guardando quei suoi grandi occhioni blu che ispirano tenerezza a tutti.

Io, però, non ci ho visto tenerezza lì dentro, ma solo un abisso infinito, oscuro, pericoloso, ignoto.

Un brivido mi ha attraversato la schiena.

«Tu non vai da nessuna…», ho fatto per dire, ma lei mi ha interrotta prima che potessi continuare.

«Fidati di me», queste sono state le sue semplici parole, prima di afferrarmi delicatamente il polso, sciogliendo la mia presa sulla maniglia della porta.

Senza riuscire a parlare, mi sono fatta da parte, mentre lei usciva fuori. Una volta che Roxanne si è trovata all’esterno del bagno, tutti i mormorii dei ragazzi sono cessati. C’era un silenzio colmo di aspettativa.

Ho sentito la voce di Roxanne, provenire ovattata al di fuori dell’uscio.

«C’è qualche problema, ragazzi?», ha domandato, simulando una perfetta innocenza.

Era bravissima a fingere, ne ero certa, nonostante non potessi guardare direttamente la scena.  L’ho sempre saputo.

Uno dei tizi tra la folla le ha chiesto, titubante: «Ehm…C’è Kate Hudson lì dentro, vero? Puoi dirle di uscire? Ci basta che scelga solo uno di noi, ma deve scegliere! Non può lasciarci così! Deve darci una risposta, non trovi che sia giusto?»

Qualcun altro tra i presenti si è aggregato al ragazzo, ripetendo più volte «E’ giusto».

Se solo avessi saputo chi fossero, la mia vendetta nei loro confronti non avrebbe tardato ad arrivare!

Roxanne ha continuato con la sua recitazione e si è finta sorpresa: «Kate Hudson?», ha domandato, «Ah sì! A dire il vero l’ho vista!»

Il sangue mi si è gelato nelle vene.

“Non è possibile, non è possibile, non è possibile”, continuavo a ripetere nella mia testa.

Quella piccola arpia mi aveva tradito! Aveva gettato via la sua maschera!

Niente più menzogne, adesso si giocava sul serio. E io ero nei casini, peggio di prima.

Ho giurato a me stessa che me l’avrebbe pagata. L’avrei fatta urlare di dolore, l’avrei derubata di tutto ciò a cui teneva, avrebbe imparato cosa significa affrontare Kate Hudson.

Poteva anche essersi aggiudicata il primo punto, ma non avrebbe vinto la partita.

Quella che vince sono solo e sempre io.

Adesso, però, vendette, odio e rivincite, dovevano aspettare. Tra pochissimi secondi i bestioni avrebbero superato la porta e mi avrebbero presa. Mi sentivo come un topolino in trappola, e, proprio come un topolino in trappola, attendevo trepidante il momento della resa dei conti.

Alle parole di Roxanne, la mandria si è infiammata.

«E’ lì, allora? KATE! KATE! KATE!». I cori da stadio sono ricominciati.

«Beh, a dire il vero, Kate era in bagno fino a qualche momento fa…ma poi è scappata via dalla finestra, prima ancora che potessi chiederle dove andava.», ha concluso Roxanne.

Che cosa?!

Faceva tutto parte della sua bugia?

«Quindi è andata via? No! Non è possibile!», si è lamentato uno di quelli che prendeva la parola più spesso.

«Beh, io l’ho vista arrampicarsi in tutta fretta verso la finestra con i miei occhi, te lo posso assicurare, non sapevo nemmeno che fosse così agile, a dire il vero!», ha insistito Roxanne.

«Ma certo che Kate è agile! Lei è veloce e aggraziata come una gazzella!», ha confermato un altro, raccogliendo gli assensi di un bel po’ di persone.

Nonostante il momento non fosse dei più spensierati, non sono riuscita a trattenermi dal ridere sottovoce. Che idioti!

«Perciò, scusate se mi intrometto nei vostri affari, ma ritengo che voi perdiate solo tempo inutilmente stando qui. Se volete parlare con lei fareste meglio ad inseguirla il più presto possibile», ha fatto presente, in modo squisitamente cortese, Roxanne.

«Sì è vero», ha risposto, quello con la voce più squillante di tutti, «hai ragione. Andiamo ragazzi! Se ha appena scavalcato la finestra non può essere lontana! Non può mollarci così, senza darci una risposta. Venite con me!»

E così, con uno scalpitare di zoccoli, o meglio di scarpe da ginnastica, i bufali hanno continuato la loro corsa verso altre praterie.

Dopo qualche altro secondo, la testa di Roxanne ha fatto capolino da dietro la porta per annunciarmi con tono soddisfatto: «Se ne sono andati via tutti! Dal primo all’ultimo!»

Affacciandomi dall’uscio, ho verificato con i miei stessi occhi ciò che lei aveva appena affermato. Il corridoio era tornato nuovamente deserto.

Mi sono richiusa in bagno.

«Beh…adesso puoi anche uscire fuori!», ho sentito dire a Roxanne.

«Te lo scordi!», ho risposto, irritata.

«E perché?»

«Devo rifarmi il trucco.»

Sarei pronta a giurare di averla sentita ridere.

 

Dopo quella disavventura, ero un po’ più stravolta di quanto avessi immaginato e, poiché ho impiegato l’intera ora a rassettarmi, ho saltato l’ultima ora di spagnolo.

Avendo un altro po’ di tempo a mia disposizione, prima che le lezioni terminassero, perciò, mi sono affrettata a prendere un taxi e a tornare a casa, pregando di non incontrare nessuno durante il mio tragitto.

Dopo quasi un’ora dal mio ritorno a casa, ho sentito Marissa, la mia domestica, prendere una telefonata.

«Sì, chi parla?»

«Ah, certo, gliela passo subito.»

«Signorina Kate?»

Una telefonata per me? Oddio, no! E se fosse stato qualcuno della mandria di bufali? E Marissa aveva persino detto che ero in casa! Razza di incompetente! Le avrei fatto vedere io poi!

Scoccandole un’occhiataccia, ho afferrato bruscamente il cordless dalle sue mani e ho sibilato un «Pronto» minaccioso nella cornetta, sperando così di allontanare i possibili disturbatori.

«Kate?», data la voce femminile, mi sono immediatamente rassicurata. Ma chi poteva essere?

«Sì, sono io. Con chi parlo?», ho risposto, cercando questa volta di pormi in maniera più cortese.

«Sono Roxanne…scusa se ti disturbo…»

Roxanne?

«…ma ci eravamo messe d’accordo per andare a comprare i materiali per le decorazioni per il ballo, questo pomeriggio. Ricordi?»

«Ah…sì.»

Me-ne-ero-totalmente-e-completamente-dimenticata.

«Dunque, per te a che ora va bene?», mi ha domandato.

«A che ora? Non saprei…»

«Hai qualcosa da fare in questo momento? Sei occupata?»

«Beh, no, non direi.»

«Allora va bene per te se ci incontriamo adesso?»

«Adesso?!», ho chiesto, un tantino perplessa.

«Sì!»

Ho sentito squillare il citofono, e Marissa è andata a rispondere. «Signorina, c’è una certa signorina Roxanne al cancello!»

Nella cornetta del cordless è risuonata una risatina: «Non ci mettere troppo a prepararti, io ti aspetto fuori.»

Alla fine io non ci ho messo poco tempo a prepararmi e Roxanne non mi ha aspettata fuori, visto che Marissa ha insistito perché si trattenesse in salotto e bevesse una tazza di tea inglese appena preparato.

Uscite di casa, ho analizzato i nostri due modi di vestire e di comportarci: io indossavo un vestito chiaro, dalla fantasia retrò, con sandali dal tacco alto e una giacca in pelle beige, Roxanne, invece, era infagottata da una delle sue solite felpe e sotto i blue jeans, portava delle logore scarpe da ginnastica.

Probabilmente era strano vederci camminare a fianco a fianco: non sembravamo affatto due persone che avrebbero scelto consensualmente l’uno la compagnia dell’altro.

Il mio unico compito, per quel pomeriggio, era comprare la materia prima per creare i festoni e contemporaneamente tener duro per tutto il tempo necessario a questa operazione, sopportando la compagnia di Roxanne Miller. Della realizzazione dei festoni se ne sarebbe occupato sicuramente qualcun altro. Non mi riguardava. Probabilmente Roxanne avrebbe finito di nuovo per accollarsi tutte le responsabilità. Lei è la sua mania del “faccio tutto io”!

Ad esser sincera, dopo il gesto di stamattina, gli insulti che la mia mente le ha rivolto sono diminuiti. Per oggi l’ho considerata un po’ come la mia salvatrice…solo per oggi. Ho cercato di comportarmi bene, di sorridere, di fingere di divertirmi, di capire le sue perle di saggezza, insomma, in poche parole, ho finto di essere sua amica. Lei, per qualche assurda ragione, sembra essersi convinta che io lo sia già. Che faccia parte anche questo del suo oscuro piano ai miei danni? Staremo a vedere. Posso accettarla al mio fianco, ma non abbasserò mai la guardia. Questo è poco ma sicuro.

«Dove vai?», le ho chiesto, bruscamente, vedendola dirigersi verso la fermata del bus.

Roxanne si è voltata, con un’espressione interrogativa. «Non prendiamo l’autobus?», mi ha domandato.

Io l’ho adocchiata come se fosse un alieno dalla pelle squamosa e verde: «E credi che potrei salire su un autobus con queste scarpe?», le ho fatto presente, mostrandole il tacco vertiginoso, «Prenderemo un taxi. Non preoccuparti per la spesa: ci penso io.»

Prima che potesse anche aprir bocca, l’auto gialla è arrivata e io mi sono accomodata sui sedili posteriori in pelle chiara. Roxanne mi ha raggiunta, prendendo posto timidamente accanto a me. Guardava l’abitacolo con timore e al tempo stesso curiosità.

«Dove posso portarvi, signorine?»

«Al centro commerciale.»

Dopo nemmeno un quarto d’ora di viaggio, abbiamo raggiunto la nostra meta. Qualcuno si è girato a guardarmi, non appena ho messo piede fuori dall’auto. Mi distinguevo di certo tra la folla, mentre Roxanne pareva quasi mimetizzarsi tra la gente. L’ho persa di vista più di un paio di volte.

«Di cosa abbiamo bisogno di preciso, allora?», le ho domandato, quando siamo riuscite un po’ ad emergere dal marasma di persone concentrate soprattutto davanti all’entrata principale del complesso commerciale.

«Carta velina, colla, pennarelli, cartoncini, nastro adesivo, bi adesivo, formine…», ha iniziato ad elencare tutto da una lista alquanto cospicua.

«Ok. Per prima cosa andiamo in quella libreria: è molto fornita di materiale di cartoleria.», le ho detto guidandola verso la Burnes&Noble.

Era esattamente lo stesso negozio in cui lavorava anche Nathan. A quel pensiero, ho iniziato a sentir crescere dentro di me l’improvvisa voglia di vederlo.

Mi mancava, per qualche strana ed assurda ragione.

Mi sono guardata intorno, cercando di scorgerlo, indaffarato tra i suoi libri, con quel grembiule verde, un colore che gli dona, eppure lui non c’era da nessuna parte.

Ero delusa, sinceramente.

Roxanne vagabondava tra gli scaffali, lanciando esclamazioni di sorpresa e contentezza nel leggere qualche titolo a lei familiare.

«Non siamo venuti qui per la carta velina e tutto quell'altro ambaradam?», le ho ricordato.

«Oh già!», ha esclamato lei, tornando nuovamente coi piedi per terra.

Poi, all’improvviso, qualcuno ci ha colto alle spalle, facendoci sobbalzare per lo stupore.

«Posso esservi utile?», ha domandato un sorridente commesso con gli occhi verdi dal taglio orientale.

«Nathan?!» è stata la mia esclamazione stupita.

«Al suo cospetto, mia signora», ha risposto lui, simulando un gentile inchino.

«Lei chi è? Una tua amica?», mi ha poi chiesto, indicando Roxanne che guardava la scena con muta curiosità.

Stringendo i denti, mi sono trovata costretta a rispondere in modo affermativo: «Sì, lei è Roxanne. Roxanne, lui è Nathan.»

Si sono stretti la mano, sorridendosi in maniera educata.

«Allora, come mai siete qui, di cosa avete bisogno?»

«Cerchiamo questi materiali», ha risposto Roxanne, porgendogli il foglietto scribacchiato. Se quella era la sua scrittura, c’era da ammettere che si trattava di una calligrafia piuttosto disordinata.

«Bene, venite con me, la colla e i cartoncini sono lì, il resto è nel magazzino.»

Io e Roxanne l’abbiamo seguito, fino a che lei non si è immobilizzata di fronte ad uno scaffale che recava l’etichetta “Saggi”.

«Uhm…potrei dare un’occhiata a questi? Voi, al massimo, nel frattempo, potete cercare quei materiali che sono sulla lista, ok?», ci ha domandato Roxanne, restando inchiodata sul posto. Anche i suoi occhi apparivano assenti.

Che fosse una bibliofila, proprio non lo sapevo!

«Va bene. Allora Kate, tu vieni con me?», ha chiesto Nathan.

Ero curiosa di vedere cosa avesse attirato così tanto l’attenzione di Roxanne, ma preferivo stare con Nathan e così sono andata con lui.

Nathan ha attraversato mezza libreria, sino a recarsi di fronte alla porta di quella che sembrava essere un’uscita di sicurezza.

Io l’ho guardato stranita: «E questo è il magazzino?»

Nathan mi ha lanciato uno sguardo furbo. Mi ha presa per mano e mi ha portato al di là della porta.

Mi ha guidata contro il muro e ha iniziato a baciarmi. La mia esclamazione di sorpresa è restata soffocata tra le nostre labbra. Dopo un primo minuto di incertezza, allacciando le braccia attorno al suo collo profumato, ho risposto al bacio con la stessa intensità. Mentre io torturavo con le mie mani i suoi serici capelli, lui si faceva strada verso la mia coscia, aggirando il leggero tessuto del vestito.

Attirandomi più verso di sé, schiacciata contro il suo petto, lui si spingeva contro di me, in un ritmo frenetico di bramosia consumata in fretta.

Non so quando tempo sia passato, alla fine, quando siamo tornati nella libreria, il mio rossetto completamente mangiato dai suoi baci, il colletto della sua camicia torturato dalle mie mani. Rassettandoci a vicenda, alla fine, siamo andati in cerca dei materiali di cui avevamo bisogno e poi siamo tornati da Roxanne.

«La tua amica è ancora là», ha dichiarato Nathan.

Lei era nello stesso identico posto in cui l’avevamo lasciata. Aveva tra le mani un libro, ma non lo stava sfogliando, semplicemente continuava a fissarne il retro della copertina con sguardo avido.

Ci siamo avvicinati a Roxanne, mentre lei, d’altra parte, pareva totalmente immobile.

«Scusaci se ti abbiamo fatto aspettare, ma abbiamo avuto un po’ di problemi nel trovare il nastro adesivo», ha detto Nathan, dimostrandosi come al suo solito molto gentile. Io non le avrei di certo chiesto scusa. 

Roxanne è come emersa da una trance e ci ha guardato con gli occhi allucinati e la bocca aperta, richiudendo immediatamente il libro e stringendolo con una presa ferrea.

«Ah…ah sì! Grazie dell’aiuto», ha immediatamente ringraziato il commesso, riacquistando il controllo di sé, così come un po’ di colore.

Ho cercato disperatamente di vedere cosa ci fosse dietro alla copertina di quel libro, ma i movimenti convulsi delle mani di Roxanne, mi hanno impedito di focalizzare al meglio la figura ritratta. In ogni caso, posso di certo dire che si trattava di una foto, una foto raffigurante un uomo con gli occhiali.

Dopo aver impacchettato tutti i nostri acquisti, Nathan ci ha salutate sorridendo, facendomi un occhiolino, non appena Roxanne ha distolto lo sguardo.

Prima che uscissimo dalla libreria, però, mi sono voltata appena in tempo per vedere Nathan mandarmi un bacio volante.

Che sciocco.

Sono scoppiata a ridere, ma Roxanne non ha fatto domande a riguardo della mia ilarità.

«Chiamo un taxi», ho asserito, distruggendo le speranze di Roxanne di prendere la metropolitana.

Ho digitato freneticamente le cifre sulla tastiera del mio cellulare.

«Siamo spiacenti. Il servizio taxi nell’area South-Lane è sospeso dalle ore 17 fino alle ore 21, per motivi di sciopero contrattuale dei tassisti. Ci scusiamo per il disturbo arrecatole, sperando che continui ad essere un affezionato cliente della nostra compagnia.», questa è stata la risposta della voce registrata dall’altro capo del telefono.

Io ho riattaccato, in preda alla rabbia più pura, stringendo in maniera frenetica il cellulare tra le mani: «Questo è poco ma sicuro: non continuerò ad essere una loro affezionata cliente!»

«Perché?», ha chiesto Roxanne, ignara dei motivi dietro al mio comportamento, «Che è successo?»

«Sciopero dei tassisti! Come possono scioperare in un orario di punta? Razza di incompetenti!» , mi sono lamentata, gettando letteralmente il telefono cellulare nella mia borsa.

«Avranno avuto i loro motivi. I lavoratori non indicono mai uno sciopero senza alcun motivo! Detraggono persino dei soldi dalla loro paga per far valere i loro diritti!», ha dichiarato Roxanne accorata, apparentemente convinta che quegli idioti dei tassisti avessero ragione.

Io ho tagliato corto, non mi andava di sentire le sue paternali sindacaliste: «In ogni caso, adesso, per colpa loro ci troviamo bloccate qui fino alle 21, o almeno fino a quando non riaprono il servizio taxi.»

«Beh, allora, se è solo questo il problema, prendiamo la metro!», ha suggerito nuovamente Roxanne.

«Ti ho detto di no! E poi mi ci vedi entrare così nella metropolitana? E’ un luogo pieno di ubriachi, extracomunitari…»

Roxanne, senza ascoltare realmente le mie parole, ci ha pensato un po’ e poi ha esclamato: «Ho un’idea!», nello stesso modo in cui aveva fatto questa mattina.

In quel momento mi aveva tirata fuori dai guai, ma questa volta non potevo essere sicura che il risultato fosse lo stesso.

L’ho vista togliersi di dosso la sua felpona, rimanendo semplicemente in una T-shirt, per poi porgermela.

«E cosa dovrei farci con questa?», ho domandato, senza azzardarmi a prenderla.

«Te la metti addosso, no? Così attirerai meno l’attenzione e potrai entrare in metropolitana!»

Io ho scosso la testa, ridendo, incredula: «Te lo puoi scordare!»

«Bene, allora», ha detto lei, infilandosi nuovamente la felpa e dirigendosi verso le scalinate che portavano ai sotterranei.

«Ehi! Aspetta! Dove credi di andare?!»

«Non ho intenzione di stare qui fino alle 9! Andiamo, vieni con me!», ha gridato, senza avvicinarsi, attirando l’attenzione di un sacco di persone che guardavano da lei a me con un’espressione curiosa. Alla fine, irritata e digrignando i denti, l’ho raggiunta.

«Vuoi la mia felpa?»

«E secondo te una felpa potrebbe stare bene sopra al mio vestito e a queste scarpe?! Attirerei ancora di più l’attenzione per il modo strano in cui sono vestita!»

Roxanne ha scosso la testa. «Ci sono talmente tante persone che riuscirai a mala pena a vederti dal busto in giù. Fidati di me.»

Riecco quella famosa frase. Ma io non mi fidavo di lei e mai lo farò!

In qualche modo, però, è riuscita a convincermi, di nuovo.

Prendendomi per mano, mi ha trascinata con sé.

La sua mano era piccola, afferrava a malapena la mia.

Era tutto totalmente diverso dalla presa salda e larga di Nathan, ma trasmetteva allo stesso modo un profondo calore.

Alla fine, ho finito per indossare la sua felpa, mentre Roxanne ha messo la mia giacca di pelle chiara, sopra la sua T-shirt.

Ero ciò di più ridicolo che avessi mai visto nella mia vita. Ho riso persino di me stessa e Roxanne si è accodata a me. Non era un riso di scherno, solo di semplice divertimento.

Alla fine, ho notato che accovacciandomi un po’, nessuno faceva caso a me. Erano tutti troppo impegnati nei loro affari per dare importanza ad una tizia in felpa e sandali alti.

Ciò da una parte mi è stato utile, ma dall’altra mi ha delusa.

Io adoro essere al centro dell’attenzione.

Non ho mai gradito passare inosservata, eppure, in una situazione simile, conciata in quel modo, essere ignorata era la migliore delle opzioni in gioco.

La folla ci circondava, facendo sì che nessuno si accorgesse del mio abbigliamento sotto la felpa. Prima di uscire, onde evitare di essere trascinate dalla folla e perderci, Roxanne mi ha afferrato di nuovo per mano. La cosa iniziava a darmi sui nervi, ma non le ho detto niente, perché non volevo perderla d’occhio, in quanto aveva ancora addosso la mia giacca firmata.

«COSA?! Era la tua prima volta in metro?!», mi ha domandato, una volta tornate in superficie. Io le avevo restituito la felpa e lei la mia giacca.

«Gradirei che tu non gridassi così tanto», ho puntualizzato.

«Oh scusami…è solo che…è incredibile!», si è giustificata. La mia espressione non si è addolcita. Solo perché non ero mai stata in metropolitana, questo non significava che poteva prendermi in giro.

«Però è stato divertente, no?», mi ha chiesto lei, nonostante io continuassi a starmene zitta.

«Certo, a parte quel maniaco che ha cercato di palpeggiarci.», ho fatto presente, annoiata.

«Non credo che palpeggerà più una ragazza, dopo la memorabile gomitata che gli hai dato…», mi ha ricordato Roxanne, sorridendo.

Io ho arricciato i lati delle mie labbra in un sorriso saputo. Non credevo che avrebbe apprezzato il mio gesto e invece…

«Però, secondo me, sei stata troppo violenta.»

Ed ecco che la sua indole moralista era tornata a farsi sentire!

 

«Nick? Potresti venire a prendermi?», mi è bastato fare una telefonata, per avere il mio tassista personale subito a disposizione. Roxanne mi ha guardato entrare nella sua macchina con un’espressione neutrale, tenendo in mano tutte le buste con i materiali che avevamo acquistato, più una bustina contenente quel libro che era rimasta a fissare per tutto il tempo.

«Sicura di non voler un passaggio?», le ho chiesto, cercando di mostrarmi il più possibile educata.

Fortunatamente, Roxanne mi ha evitato il disturbo, declinando l’offerta.

Spiegare a Nick il motivo del mio silenzio per tutti questi giorni, non è stato facile.

«Mi chiami solo quando hai bisogno di me o sei nei guai.», continuava a lamentarsi.

Avrei voluto rispondergli: «E’ proprio questo il punto», ma ho azzittito tutte le sue proteste con un bacio.

Mi è sembrato senz’altro più contento.

 

 

***

 

 

Non ci credo XD scrivere questo capitolo è stato un’epopea anche perché ci sono tante cose che si svolgono tutte in un giorno ed è stato effettivamente scritto in un giorno, onde evitare di perdere altri giorni per l’aggiornamento.

Spero che vi piaccia

Ormai, io vado dove mi portano i capricci di Kate e la trama continuerà a svilupparsi così. Ci sono alcuni punti cardine che svilupperò nei prossimi capitoli, ma per il resto mi affiderò all’improvvisazione…speriamo bene!

Giusto una precisazione: la Barnes&Nobles, il negozio dove lavora Nathan, è un’importante catena di librerie americana. Non so se all’interno si vendono dei materiali di cartoleria, ma visto che nell’italiana Feltrinelli ci sono, io ho pensato che fosse così anche lì…ma è solo una mia supposizione!

Un saluto a tutti!

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Capitolo 8
*** cap 8: Prima legge di Murphy ***


2 maggio

 

2 maggio

 

 

E’ possibile che dei preparativi che sono andati avanti da più di un mese vadano in fumo in un solo giorno? Io dico di sì, e la dimostrazione di questo è proprio ciò che è successo ieri.

Il giorno dell’arrivo degli stranieri era finalmente arrivato e tutta la scuola era in fermento.

La palestra era decorata con festoni, cartelloni, palloncini, il catering ci avrebbe portato i bouffet nel pomeriggio e i ragazzi della band erano pronti per il live serale.

Sono arrivata tardi a tutte le lezioni, per evitare le orde di inseguitori dell’altro giorno, ma tutto sommato questa volta mi è andata bene.

La cosa peggiore, però, è che il ballo sarebbe stato quella sera e io non avevo ancora uno straccio di accompagnatore. Scegliere qualcuno della mia scuola era fuori discussione, perciò non mi restava che chiedere a qualcun altro, esterno all’ambiente scolastico, di venirci con me, sempre che fosse possibile. C’erano Nick e Nathan, tra quelli con cui mi vedo più spesso ultimamente, ma propendevo più per la seconda ipotesi.

Nathan mi piace, o almeno, mi piace tanto quanto Jason, quando non fa il possessivo.

L’avrei chiesto a lui, senza dubbio.

A pranzo, le Gallinelle erano super eccitate in previsione della serata. Roxanne Miller, anche lei componente della mia tavolata, invece, sembrava guardare gli altri parlare dell’evento con un’aria di distacco ben evidente.

Ho intercettato il suo sguardo.

«Allora, Roxanne, hai deciso con chi andrai al ballo?», ho domandato, riportandola alla realtà.

Lei mi ha guardata, mantenendo la precedente freddezza.

Sì è stretta nelle spalle, apparentemente noncurante: «No.»

«No, nel senso che non hai ancora deciso, oppure no, nel senso che non ci andrai?», ho chiesto.

«Se potessi evitare di andarci lo farei», ha ammesso lei, quasi abbattuta, «ma non credo che Gutierez permetterebbe che qualcuno del comitato, non fosse presente, specialmente una di noi due.»

«Oh Anne!», si è lamentata Nancy. Anche lei, oltre a Patty Mason e l’altra amica senza nome della Miller, la chiama in quel modo. Io sono praticamente l’unica che si preoccupa di lasciarle il nome intero.

«Ancora con questa storia? Ieri hai rifiutato anche Robert Rivers, si può sapere perché mai?! Sembra che tu voglia apposta far parte della tappezzeria!», ha commentato una delle Gallinelle con disgusto, calcando la parola tappezzeria.

«Non lo conoscevo neppure», ha risposto semplicemente Roxanne.

Ah sì, mi aveva già rifilato quella scusa qualche tempo fa.

Però…per essere una ragazzina semplice e dall’aspetto spesso trascurato, ha un bel po’ di pretendenti! Ha già rifiutato un paio di persone!

Ho cercato di scrutarla più a fondo, quasi per tentare di leggerle la mente. Malgrado la conosca da così poco tempo, posso dire che è sempre stata una persona attiva e partecipe in tutte le conversazioni. La sua improvvisa riservatezza, mi faceva intuire che ci fosse dell’altro, oltre le sue motivazioni apparenti.

Roxanne, però, teneva lo sguardo basso, evitando specialmente di guardare me.

«Ah…adesho che mi ricoddo bene», è intervenuta Sally, masticando al tempo stesso, in un gesto molto rude, un boccone di carne, «Non ti ha invitata al ballo anche Jason Roberts? Hai rifiutato anche lui stamattina, giusto? Eppure lo conoscevi!»

I miei occhi sono dardeggiati verso Roxanne. Lei fissava insistentemente il suo purè come se fosse la cosa più interessante del mondo.

Avevo sentito bene?! Aveva rifiutato Jason? Jason aveva osato chiedere a qualcun’altra di accompagnarlo a Gran Ballo, dopo essere stato rifiutato da me?!

E io non ne sapevo assolutamente niente! Nessuno mi aveva detto niente!

Ho stretto la forchetta fra le mani fino a farmi male. Il mio orgoglio era ferito e la mia vanità offesa. Non ho dato segno della tempesta emotiva che si stava consumando dentro di me, tuttavia. Ho continuato a restare seduta con dignità, mangiando lentamente, assaporando il pranzo.

Il silenzio è caduto su tutta la tavolata. Sally doveva essersi accorta di aver affrontato un brutto argomento. O forse no, probabilmente la sua stupidità la rendeva inconsapevole di ciò. E’ proprio per questo, probabilmente, che ha continuato con i suoi sproloqui: «Povero Jason! Prima è stato rifiutato da Kate e poi da Anne! Possiamo proprio dire che questo ballo non gli ha portato molta fortuna…»

Ashley, d’altro canto, è stata ancora più temeraria di lei, perché ha osato aggiungere: «Eppure è così carino! Ed è molto popolare tra le ragazze! Non diresti mai che avrebbe delle difficoltà nel trovare una patner per il ballo! Io mi offrirei volontaria di andarci con lui!»

Ho rialzato lo sguardo su di lei, con un’aperta espressione di sfida. I miei occhi ridotti a fessure sembravano voler dire: “Giù le mani! Lui è mio territorio!”

Suppongo di essere parecchio possessiva in questo campo, mentre non sopporto che altri lo siano con me. Ma sono fatta così, d’altronde. Non accetto gli scarti altrui. Gli scarti devono sempre essere solo e soltanto miei.

Rita, interpretando bene la mia aria minacciosa, le ha subito ricordato: «Ehi vacci piano…Non hai detto già di sì a Blade?»

«Oh già, quasi me ne dimenticavo!», ha esclamato Ashley, ridendo nervosamente e abbassando il capo in un gesto umile, riconoscendo la sua precedente sfrontatezza nei miei confronti.

E’ così bello poter sistemare le cose così facilmente, senza nemmeno dover aprir bocca! Soprattutto per qualcuno come me che parla solo quand’è necessario, a differenza delle Gallinelle.

Spostando lo sguardo su Roxanne, ho visto che anche lei mi stava guardando, ma ha distolto lo sguardo non appena mi sono voltata. L’ho richiamata allora, in modo che smettesse di mangiare esclusivamente con gli occhi il purè nel suo piatto.

«Anche io ho qualche difficoltà a trovare un accompagnatore adatto per il Gran Ballo, quindi ho deciso di non andarci con nessuno. Voglio avere completa libertà e non essere legata per tutta la serata ad un solo patner», le ho detto, decidendo la cosa sul momento, «Perciò, che ne dici se ci andiamo insieme?»

Roxanne mi ha rivolto un’occhiata confusa, come del resto tutte le Gallinelle e gli altri al tavolo.

«Vuoi che io venga al ballo con te?», ha domandato lei.

«Non la metterei in questi termini…altrimenti potresti rifiutare anche me», ho replicato con un sorrisino.

Roxanne ha riso, sinceramente divertita, ritrovando il suo solito umore allegro.

«Va bene!», è stata la sua risposta.

Sì, lo so, lo so, la mia richiesta potrebbe essere suonata strana, ma intendevo veramente ciò che ho detto!

Facendo così, mi sarei evitata un sacco di noie, nello scegliere un ragazzo preciso e anzi, sarei potuta passare da un partner all’altro, senza scatenare gelosie.

In più, la mia scelta di Roxanne non era stata casuale. Più il tempo passa, più inizio a rendermi conto di quanto sia conosciuta e rispettata in tutta la scuola. Il suo livello di popolarità si aggira quasi ai livelli del mio e,  per quanto ciò mi dia fastidio, al tempo stesso non posso cambiare la situazione.

Per ottenere ulteriori fan, quindi, ho pensato che presentarmi al ballo con lei, avrebbe attirato su noi due molte più attenzioni di quante ne avremmo attirate singolarmente. Saremmo state le star della sera, le protagoniste assolute del Ballo, anche senza accompagnatori. I riflettori si sarebbero accesi solo per noi e, malgrado avrei anche fatto a meno della presenza della Miller, in qualche modo lei mi serviva per ingrandire il mio pubblico. Da sola non sarei stata che poco più di una bella ragazza sola al ballo, con lei, invece, avrei dominato su tutti i partecipanti al ballo.

Ovviamente, mi sarei tenuta le mie vere intenzioni per me e avrei fatto in modo che Roxanne credesse che tutto facesse parte del nostro essere “amiche”.

So che molti si sono domandati il motivo di quella mia scelta, ma nessuno ha osato chiedermi niente.

Prima che la scuola terminasse, tuttavia, ho afferrato Roxanne per un braccio e le ho dato un appuntamento cruciale: «Cinque e mezza, a casa mia.»

Roxanne non è riuscita a trattenersi dal rispondere con un’occhiata interrogativa.

«Cosa indosserai per il Ballo?»

Altro sguardo confuso.

«Non mi dire che non ci hai ancora pensato…», ho sospirato, esasperata.

Roxanne si è grattata la testa in atteggiamento colpevole, evidentemente sapeva che una risposta affermativa mi avrebbe irritata.

«Veramente…»

«Vabbè, non importa», ho tagliato corto io, «Però farai meglio ad essere puntuale questo pomeriggio.», le ho detto, non aspettando nemmeno la sua replica. Sapevo che sarebbe venuta, nonostante tutto.

Il pomeriggio prima del suo arrivo è passato in fretta: sono stata dal parrucchiere e poi dall’estetista, finendo tutto il trattamento all’incirca per le sei.

Quando sono tornata a casa, Roxanne era in soggiorno, infatti Marissa l’aveva fatta accomodare in attesa che io tornassi.

Liberandomi della giacca e gettandola sul divano, con un’occhiata indirizzata alla mia domestica, perché la rimettesse a posto, ho finto una falsa espressione costernata per aver fatto attendere Roxanne. Lei mi ha sorriso e ha risposto: «Non c’è problema.»

Non portava gli occhiali e i suoi lunghi capelli erano raccolti in una vaporosa coda alta. Mancavano poco più di due ore al ballo e lei era conciata ancora come durante l’orario scolastico. Dovevo riuscire a conferirle un aspetto considerevolmente decente: una missione impossibile.

«Bene allora», ho detto, facendo scoccare le nocche delle mani. Roxanne si è fatta ancora più piccola sul divano di pelle bianca.

«Hai portato un vestito?», le ho chiesto.

Lo aveva portato. Era l’abito che aveva indossato alla laurea di sua cugina, l’hanno precedente, mi ha detto. Non l’aveva usato altre volte, difatti le condizioni erano ottime, solo che era troppo…semplice. Un vestitino chiaro, a fiorellini, con delle spalline sottilissime.

«Tutto qui?», ho domandato, incapace di trattenermi.

Roxanne ha riso nervosamente: «Non mi capita spesso di partecipare ad eventi del genere, perciò non ho altro da poter indossare.»

Io ho sospirato: evitare di fare una brutta figura, presentandomi al ballo con lei, sarebbe stato più difficile del previsto.

«Vieni con me», le ho detto, abbattuta.

Abbiamo iniziato a salire le scale, quando a metà del percorso, abbiamo incontrato mia madre.

Lei è rimasta sorpresa dalla presenza di Roxanne, conoscendo le mie abitudini a riguardo delle amicizie, ma ne è rimasta piacevolmente colpita. D’altronde chi potrebbe mai provare astio per qualcuno dolce e gentile come Roxanne Miller?!

Solo la sottoscritta.

Non è stato difficile come pensavo, quindi, fare entrare Roxanne a casa mia. E’ una persona affabile, socievole quanto basta, in grado di accaparrarsi le simpatie altrui. Io devo sforzarmi incredibilmente per farlo, ma a lei sembra venire naturale.

O forse fa tutto parte delle sue notevoli abilità di attrice?

Giunti in camera mia, ho portato Roxanne verso il mio doppio armadio, che occupa esattamente due pareti una di seguito all’altra.

«Woah!», ha esclamato Roxanne, impressionata. «E’ una reggia!»

D’altronde, non avevo già detto di essere io stessa una regina?

Sorridendo per il suo commento, l’ho guidata all’interno dell’armadio guardaroba: praticamente un’altra stanza all’interno della mia stanza.

«Il vestito può anche andar bene», le ho detto, «ma secondo me, al di sopra, per impreziosirlo dovresti metterci almeno una stola…e magari anche un bel pendente non ci starebbe male», ho valutato, guidandola verso una delle mensole laterali.

Le ho messo in mano una stola di seta bianco-panna. Lei ha passato le mani sopra al tessuto, ammirandolo: «E’ morbidissimo».

Io le ho sorriso con compiacimento, mostrandole uno specchio ad altezza umana, di fronte al mio letto a baldacchino, dove poter vedere che effetto faceva la stola sul vestito.

Lei si è guardata attorno, osservando la mia stanza in lungo ed in largo. Sembrava essere abituata ad essere ospite in case altrui, anche se evidentemente non era avvezza ad un tale lusso.

«E’ tutto così…»

«Bianco?», le ho suggerito con una risatina.

Lei ha annuito, spalancando ancora di più gli occhi. So bene che la mia stanza può fare un certo effetto ai visitatori: le numerosi fonti luminose e la tappezzeria candida come la neve non fanno altro che aumentare l’impressione che ci si trovi su di una nuvola, più che sulla Terra.

«Prova come ti stanno», le ho ricordato, riferendomi al vestito e alla stola, interrompendo la sua contemplazione, «Io prendo il mio vestito dall’armadio».

Rituffandomi nell’armadio-guardaroba, sono andata alla ricerca del capo che avrei indossato per quella sera. Ci ho messo talmente tanto tempo a rovistare tra gli altri vestiti, che nel frattempo Roxanne si era sistemata sia il vestito che la stola.

Come avevo previsto, la stola conferiva a quel vestitino un tocco di eleganza e complessità in più che rendevano l’abbinamento molto più particolare di prima. Il tessuto sottile scendeva dolcemente sul corpo magro di Roxanne, lasciandole i polpacci scoperti. Ai piedi, indossava delle ballerine bianche che le stavano molto bene.

Magari non sarebbe stato così difficile renderla accettabile entro le otto.

«Così mi piace», ho dichiarato, «tu che ne pensi?»

«E’ perfetto», ha annuito Roxanne, con veemenza.

«Bene, adesso vediamo di sistemare un po’ quei capelli», ho stabilito e lei mi ha seguito in modo ubbidiente in bagno. Armandomi di pettine, lacca, spuma, pinzette, mollette, forcine e le ho ordinato di sciogliersi i capelli.

Toccandoli con mano, ho notato quanto fossero soffici i suoi capelli che si attorcigliavano tra le mie dita in piccole onde color mogano.

Utilizzando tantissime forcine e avvolgendo più volte i capelli su se stessi, alla fine sono riuscita a creare un’acconciatura alta che le lasciava sfuggire solo qualche ciuffo davanti agli occhi.

Poiché ero stata io a compiere il lavoro, potevo complimentarla, anche se in realtà non facevo altro che complimentare me stessa: «Ti donano così».

Roxanne mi ha sorriso brillantemente attraverso lo specchio e mi ha ringraziata.

Dopodiché, sono ritornata in camera mia e ho recuperato il mio vestito di raso rosso, precedentemente estratto dall’armadio. L’ho indossato, rapidamente, tirandomi le spalline in su.

Quando mi sono voltata, ho visto Roxanne che mi guardava dalla soglia della mia camera con sguardo interessato. Visto che era lì, poteva anche aiutarmi!

«Roxanne? Ti dispiacerebbe…?», le ho chiesto, indicandole la cerniera aperta che si apriva sulla mia spalla nuda. Mi sono alzata su i capelli con le mani, in modo che non restassero intrappolati nella zip.
«Ah...sì!»

Con un gesto fluido, lei l’ha tirata su, stringendo i vestito e facendolo aderire prepotentemente alle forme del mio corpo.

Dolcemente, poi ha liberato i capelli dalle mie mani, facendoli ricadere delicatamente sulle mie spalle.

«Fan…fantastico!», ha commentato lei con entusiasmo, applaudendo, guardando il risultato nello specchio. Io mi sono limitata a ringraziare con un cenno del capo.

E lì, davanti ai miei occhi, l’insormontabile diversità tra di noi: non c’era comparazione.

Roxanne poteva anche essere graziosa, nel suo vestito vivace, quasi da bambina, ma io, con il mio vestito rosso, di raso stropicciato, ero semplicemente una bomba sexy.

La serata prometteva bene…non sarebbe stato difficile fare colpo anche tra gli stranieri.

Voltandomi verso di lei, con un’espressione di orgoglio e soddisfazione, ho visto Roxanne arrossire leggermente: «Kate…posso chiederti perché…perché l’hai fatto?»

«Fatto cosa?», ho domandato, sinceramente ignara di cosa volesse dire.

«Tutto questo! Mi abbini il vestito, scegli la pettinatura per i miei capelli, gli accessori…il trucco!»

«Er…no, quello dovrai fartelo da sola, non sono brava nel make up per gli altri», ho specificato.

Roxanne ha agitato le mani, come per scacciare le mie parole: «Non volevo dire questo…quello che voglio dire è…perché ti stai disturbando così tanto per me? Non ti sto solo facendo perdere tempo?»

Io l’ho guardata confusa per un attimo, ma poi ho sorriso amabilmente nella sua direzione: «Ma è perché siamo amiche, no?»

Roxanne s’è incupita per un secondo.

«Non te l’avevo mai sentito dire prima», ha replicato.

L’ho fissata per qualche secondo, incerta su cosa rispondere, prima di focalizzare alle sue spalle l’orologio a muro che segnava le 19 e 30 passate. Il ballo sarebbe iniziato all’incirca tra mezz’ora e noi non eravamo ancora pronte!

Lanciando un urlo isterico, sono riuscita a distogliere Roxanne dall’argomento di conversazione precedente e l’ho fatta pure ridere.

Un’ora dopo, eravamo fuori al cancello della mia villa, pronte per raggiungere la scuola.

«Chiamo un taxi», ho dichiarato.

«No!», ha protestato Roxanne.

«Non mi dire che vuoi andare ancora in metro?», le ho chiesto, incredula.

Lei ha soffocato le risate, invano. Non sapevo di avere la capacità di divertirla così facilmente.

«No, a dire il vero ho chiesto già a Madison se poteva accompagnarci lei con il suo jeep…per te va bene?»

«Gip?», ho domandato, ma prima che potessi anche solo finire di parlare, ecco che un’automobile nera aveva superato l’angolo e si stava dirigendo verso di noi.

Alla sua guida, sua sorella Madison, ci sorrideva dall’alto.

Il mio sorriso si è incrinato. Le ruote su cui la macchina era poggiata erano a quasi mezzo metro dal suolo: come potevo arrampicarmi fin lassù, senza sporcarmi la giacca di camoscio e senza rompere il tacco vertiginoso delle mie decoltee?

Non avevo mai sentito dire che le jeep fossero le automobili ideali per le ventenni di questi giorni!

Roxanne è salita a bordo, senza nessunissimo problema, leggiadra nel suo vestito e sulle sue scarpine. Vedendomi in difficoltà, però, mi ha teso la mano per aiutarmi.

Facendo forza sulle mie braccia e aggrappandomi alle sue, alla fine sono riuscita a raggiungere i sedili posteriori e ad accomodarmici per bene. Era la seconda volta che una soluzione suggerita da Roxanne si era rivelata la più complicata e senz’altro la più rischiosa per me, ma io c’ero cascata ancora una volta.

Scendere dalla jeep, d’altro canto, è stata un’azione ancora più difficile della precedente. Alla fine, Madison, apparentemente irritata dai miei gridolini: «No! Non posso scendere! Finirò col rompermi il collo!», si è offerta di prendermi in braccio e farmi scendere a terra con calma.

Roxanne, accanto a me, ha ridacchiato apertamente, finché, incapace di trattenermi non l’ho fulminata con la stessa occhiata che avevo rivolto ad Ashley quella stessa mattina.

A proposito di quello che aveva detto Ashley…

«E così Jason ti aveva invitata al ballo?», ho commentato, fingendo quasi non mi importasse. Camminando lungo il cortile illuminato della scuola, stavamo raggiungendo la palestra coperta, luogo dove si sarebbe tenuto il ballo. Tra non molto avremmo fatto il nostro ingresso trionfale, lasciando tutti a bocca aperta.

Ho sentito Roxanne irrigidirsi al mio fianco: «A…ah». L’ho preso come un sì.

«Perché hai rifiutato? Questa volta non potevi dire che era uno sconosciuto per te. So che vi siete conosciuti pochi giorni dopo che ti sei trasferita, anche prima che ci conoscessimo noi due», ho aggiunto.

Roxanne si è stretta nelle spalle. I tacchi delle sue ballerine producevano un lieve ticchettio sulla ghiaia.

«Non mi sembrava giusto.», ha detto.

Io ho riso, senza sapere perché. Sentivo una nota di amarezza nella mia voce, tuttavia.

«E’ perché mai?», le ho domandato.

«Perché lui è ancora innamorato di te. Sai com’è: “chiodo schiaccia chiodo”.»

«E tu saresti il chiodo?», ho indagato, esaminando la sua teoria.

«Avrei potuto esserlo, ma ho scelto di non farlo. Non mi sembrava corretto», mi ha risposto lei.

«Al diavolo il corretto e lo scorretto!», ho replicato irritata, «Se vuoi qualcosa, devi andare a prendertela!»

Lei mi ha guardato per qualche secondo, il fantasma di un sorriso sulle labbra: «Non posso farlo.»

L’ho fissata senza parole, mentre la consapevolezza che in realtà non stessimo parlando sul serio di Jason, mi ha travolta. Era così. Non stavamo parlando di Jason, o per lo meno Roxanne non stava parlando di lui. Perché quelle parole allora? Cosa non poteva fare?

Avrei dovuto essere arrabbiata con lei, ma in fondo non avevo motivo di esserlo.

Jason era mio, lei lo sapeva e per questo non aveva accettato il suo invito al Ballo.

Ma erano solo questi i suoi motivi? L’aveva davvero rifiutato solo perché la riteneva una cosa “scorretta” nei miei confronti?

La palestra era illuminata, ma dall’interno non proveniva alcun suono. Attorno a noi, non c’era anima viva.

La zona sembrava quasi deserta e io me n’ero accorta solo in quel momento, essendo stata troppo occupata a badare alle parole di Roxanne.

«Co…cos’è successo?», ha chiesto Roxanne, indirizzando quella domanda alla palestra decorata, ma vuota.

I cartelloni che Roxanne e gli altri partecipanti al comitato, persino me stessa, avevano realizzato, erano fissi lungo le pareti, sfavillanti nei loro colori. Il bouffet era stato sistemato correttamente, secondo le mie direttive, lungo un tavolo allungato e il piccolo palchetto dove la band si sarebbe esibita era pronto, con fili e prolunghe da collegare solo agli strumenti musicali. Ma allora dov’erano finiti tutti?

In meno di un minuto, Roxanne stava parlando con Patty Mason, che aveva contattato tramite cellulare.

«Pat…cos’è successo? Il ballo è stato spostato da qualche parte? Perché non c’è nessuno in palestra?», l’ho sentita dire con voce un po’ ansiosa.

Un mormorio le ha risposto al di là della cornetta. Non riuscivo a capire assolutamente ciò che la Mason le stesse dicendo, ma ho visto la faccia di Roxanne diventare improvvisamente cupa.

«Ah…capisco. Sì, ho capito.», è stata la sua unica risposta, prima di bofonchiare un saluto e riattaccare.

«Allora?», ho domandato con stizza, «dove sono finiti tutti?»

Roxanne mi ha guardato e ha mormorato in modo depresso: «Hai presente l’aereo con cui gli stranieri sarebbero arrivati?»

«Beh?»

«E’ precipitato», è stata la sua risposta secca.

«Oh…»

Potevo anche dire addio ai miei bei ragazzi stranieri, adesso che erano chissà dove in fondo al mare…No, forse avrei dovuto fingere un po’ più di dispiacere.

«Quanto mi dispiace!», ho esclamato in una perfetta interpretazione melodrammatica.

Roxanne mi ha lanciato un’occhiata perplessa.

«E così…il ballo è stato annullato. Agli altri non andava di festeggiare in una simile condizione.», mi ha spiegato, prendendo posto accanto a me su uno dei gradini di pietra che conducevano all'interno della palestra. Ormai non mi importava più di sporcarmi il vestito, dato che era stato tutto annullato.

Con gli occhi all’insù abbiamo guardato a lungo il cielo per quella che mi è sembrata un’eternità. Poi ho sentito Roxanne, al mio fianco, mormorare delle parole incomprensibili. «Che stai facendo?», ho chiesto, alzando un sopracciglio.

«Pregando», è stata la sua risposta lapidaria.

Io ho alzato anche l’altro sopracciglio, ma non ho detto nulla.

Quando i suoi mormorii sono cessati, ho ripreso a fare domande: «Per chi pregavi?»

«Per quelle persone sull’aereo che è precipitato.»

«Ma non le conoscevi nemmeno!», ho protestato.

«Questo non significa che io non possa pregare per loro», mi ha risposto.

«Come vuoi», ho replicato poco convinta.

C’è stato un breve intervallo colmo di silenzio.

«E’…una cosa un po’ grottesca, no? Prima doveva esserci una festa, tante persone che si divertono…e invece adesso c’è un lutto di decine e decine di persone…», ho commentato. Non lo trovavo un pensiero divertente, ma nemmeno riuscivo a credere che fosse successo per davvero. Era…assurdo, assolutamente grottesco.

«Grottesca? Sì, direi di sì. Mi ricorda una legge che ho letto un po’ di tempo fa: “Se qualcosa può andar male, lo farà.»

«E in base a questa legge noi dovevamo aspettarci che le cose andassero male?», ho domandato, non del tutto convinta.

Roxanne, ha sorriso in modo lieve, «Beh, dicono che colui che ha inventato questa legge, un certo Murphy, fosse un ottimista!»

Non sono riuscita ad impedirmi da ridere: «Oh! Questo è poco ma sicuro! Com’è sicuro che una serata che doveva essere super fantastica è diventata una super noiosa…»

«Vedi il lato positivo…secondo Murphy ci poteva andare sempre peggio…», ha commentato Roxanne.

«Peggio di così?», ho detto, ormai senza speranza. Era il mio primo sabato sera senza alcolici dopo due anni di seguito. L’ho detto anche a Roxanne. Lei ha scosso la testa, apparentemente esasperata. Poi, all’improvviso, è scattata in piedi, come in preda ad una scossa elettrica.

L’ho vista precipitarsi in palestra, per poi tornare a grande velocità, nel suo vestito frusciante, con una bella bottiglia di champagne presente tra le ordinazioni del catering.

I miei occhi si sono accesi di eccitazione, mentre i cori da stadio nella mia mentre inneggiavano: «Alcol! Alcol! Alcol!»

Quando l’ho vista portare assieme alla bottiglia ghiacciata due calici di vetro, l’ho guardata in modo sospettoso.

«Tu bevi?»

Arrossendo un po’, Roxanne ha ammesso: «A volte, con Madison…ma lei mi impedisce di bere troppo, perché…quando sono sbronza mi comporto in modo strano.»

«Ad esempio?», le ho chiesto, iniziando a stappare lo champagne.

«Diciamo che…mi colgono delle crisi di mancanza d’affetto e inizio a cercare coccole anche dal frigorifero…», ha ammesso lei, imbarazzata, ma divertita.

Io sono scoppiata a ridere: «Come cerchi coccole dal frigo? Ti aggrappi a lui e inizi a baciarlo, dicendo: “Oh come sono fresche le tue labbra!”?»

Roxanne ha ridacchiato: «Qualcosa del genere.»

«Bene, allora», ho detto io, stappando con un sonoro rumore il tappo e versando il liquido schiumoso nei due calici, «Visto che non ci sono frigoriferi nelle vicinanze, voglio vedere su cosa riverserai il tuo affetto!».

Roxanne ha spinto il suo bicchiere verso il mio e con un sorriso l’ha urtato, dicendo: «Cin cin!»

Eravamo un po’ brille prima ancora di iniziare a bere per davvero. Cosicché, una volta che abbiamo iniziato a bere sul serio, dopo altre tre bottiglie di vino francese, la situazione è peggiorata ancora di più.

Ho subito scoperto che Roxanne, in assenza di frigoriferi, ama aggrapparsi alle persone che si trovano accanto a lei, e in quel caso, in mancanza di altri esseri umani nei paraggi, la sua vittima ero proprio io. Non è stata in grado di fare nient’altro, però, oltre che avvinghiarsi al mio grembo e stendere la testa sulle mie gambe. Io che stavo morendo di caldo, con Roxanne addosso a me, mi sono liberata della giacca di camoscio, affrontando l’aria pungente della notte solo con il mio vestito smanicato e alquanto scollato. Vestito totalmente inutilizzato per quella sera.

Sentendo Roxanne un po’ rabbrividire, l’ho coperta con la mia giacca. In altre occasioni non l’avrei fatto, ma, trovandosi sulle mie gambe, se tremava lei, finivo per il tremare anche io e tutto ciò era enormemente fastidioso.

Pensavo che si fosse addormentata, e invece, lei mi ha chiesto: «Ti piaaace guardare le stelle?»

Io ho fatto una smorfia, il mio sguardo fisso sempre nel cielo: «No, non mi piace guardare le stelle», ho risposto con una voce che di più una voce pareva una cantilena, «Ma mi piace guardare la luna»

«La luuuna?», ha chiesto Roxanne, apparentemente incredula.

«Sì, la luna. Le stelle sono infinite, non le puoi contare. Se qualcuna di esse viene a mancare, non ti accorgerai della sua assenza, perché sono tantissime. La luna è unica, invece. Quando guardi su nel celo è la prima cosa che guardi; lei è la regina della notte. E’ mutevole, non è mai la stessa. Per noi terrestri, le stelle sono semplicemente dei piccoli puntini di luce, praticamente niente in confronto alla brillantezza della luna.»

Non sapevo se i miei ragionamenti avessero realmente un senso, in quanto la confusione nella mia testa era assordante, ma continuavo a parlare e Roxanne, accoccolandosi meglio tra le mie gambe, annuiva sempre. Ovviamente, essendo tra le due quella con la maggior resistenza all’alcol, ero la più cosciente.

«Chissà perché Jason ha deciso di invitare al ballo proprio te». Ho rivelato a voce alta quello che doveva essere solo un pensiero.

«Si fanno tante cose strane per amooore», ha risposto Roxanne.

«Mhm, mhm. Sembri un’esperta in questo campo», le ho fatto notare.

Lei ha soffocato le sue risa nel mio vestito: «No, non espertaaa, solo delusaaa.»

«Delusa?», ho domandato, un po’ curiosa di sapere se stesse nascondendo qualcosa oltre quelle parole. Una parte di me, meno brilla, mi spronava a domandarle di più, l’altra parte, un po’ più folle, mi spingeva a ridere come un’idiota.

«Perché c’è qualcosa che non sono riuscita a prendere per meee.», ha replicato lei, sbadigliando.

«Cosa? Perché?»

Roxanne ha scosso la testa, forte: «Perché non-non pooosso, non pooosso.»

Ed è stato così che si è addormentata.

Mezz’ora dopo, sono riuscita a non far tremare la mia mano nel comporre il numero del taxi e dopo 5 minuti, io e una Roxanne incosciente eravamo su una vettura gialla, dirette verso casa.

La testa di Roxanne, posata docilmente sulla mia spalla, veniva scossa dalle frequenti buche che l’auto incontrava lungo il cammino.

Le sue lunghe ciglia brune richiuse tremavano appena; l’acconciatura in cui avevo raccolto i suoi capelli, iniziava piano piano a decadere.

Allo stesso modo, io mi sentivo percorsa da brividi di freddo lungo tutta la schiena. Non desideravo altro che un letto dove addormentarmi, prima di finire in bagno a vomitare.

Ho fatto in modo che il taxi si fermasse per prima tappa a casa di Roxanne. Ho citofonato al cancello di ferro rosso, ma Madison non è venuta a rispondere. Ho risuonato più e più volte, senza risultati. All’improvviso, però, ho ricordato le parole della sorella di Roxanne, che per quella sera sarebbe tornata molto tardi e aveva raccomandato a sua sorella di portare con sé le chiavi di casa. Roxanne, però, non l’aveva fatto, asserendo che sarebbe tornata molto dopo di lei, perciò non c’era problema. Tuttavia, Roxanne doveva aver fatto male i conti, perché la festa non c’era più stata e quindi, a parte il tempo passato a sbronzarci, io e lei non avevamo fatto nient’altro. Madison, dunque, doveva ancora rientrare e Roxanne si trovava chiusa fuori di casa.

Sospirando pesantemente e cercando di mantenere l’equilibrio ambulatorio sui tacchi a spillo, ho raggiunto nuovamente la macchina, con all’interno Roxanne, dando all’autista, questa volta, l’indirizzo di casa mia.

Faticando, schiaffeggiando Roxanne e spingendola a forza lungo le scale, alla fine, sono riuscita a portarla in camera mia. L’avrei anche sistemata nella camera degli ospiti se solo lei non si fosse così ostinatamente avvinghiata a me anche nel sonno.

Una volta entrata nel mio piccolo regno, non ho pensato ad altro che ha gettarmi sul letto, convivendo con l’abbraccio di Roxanne, per poi addormentarmi a causa della stanchezza e l’alcol in circolo, in meno di un minuto.

Non avendo mai sperimentato un risveglio a due, la mattina è stata un po’…strana.

La prima sensazione che ho provato riaprendo gli occhi è stato un enorme calore. C’erano delle braccia che mi stringevano. Era piacevole starci dentro, ispirava tenerezza. Non sapevo dove mi trovavo, ma sembrava tutto così confortevole che mi sono goduta quel tepore per qualche minuto di più.

Poi, non appena ho fatto per aprire gli occhi, la luce eterea presente nella mia stanza mi ha accecata, mentre il mal di testa ha iniziato a martellarmi le tempie. Sono realmente rimbalzata sul letto per lo spavento, oltretutto, quando mi sono resa conto che Roxanne era ancora addosso a me, con le braccia strette dietro alla mia schiena e la faccia premuta contro il mio addome.

Me la sono scrollata di dosso il più violentemente che ho potuto, facendo in modo che si svegliasse.

«Che…chi è? Dove sono? Cosa è successo?», ha immediatamente chiesto. Io le ho indicato di fermarsi, alzando una mano a mo’ di stop. Il mio mal di testa stava peggiorando di secondo in secondo.

«Le spiegazioni vengono dopo una bella colazione», le ho detto, sospingendola fuori dal letto.

Ed è così, dunque che mi sono ritrovata a svegliarmi con una donna aggrappata a me nel mio letto, con un mal di testa capace di triturare qualsiasi tipo di roccia, con un senso di nausea onnipresente e, nonostante lo champagne del giorno precedente, una sete a dir poco tremenda.

Io e Roxanne indossavamo ancora i nostri vestiti della sera precedente, stropicciati dal sonno, e camminavamo a piedi nudi.

Fortunatamente, una volta scese in cucina, Marissa mi ha confermato che i miei erano appena usciti.

La domestica mi ha guardato con severità per qualche secondo, ma ricevendo una mia occhiata feroce, ha subito asserito di dover andare a rifare il letto.

«Allora? Non mangi?», ho chiesto a Roxanne, indicandole le fette biscottate, il cappuccino, e la marmellata disposti sul tavolo.

Lei ha scosso la testa, facendo danzare i suoi capelli sciolti attorno a sé. «Mi dispiace tanto per ieri sera! Sono stata una scocciatura, non è vero?!»

«No», ho risposto, pregandola perché non strillasse. Tutto attorno a me girava vorticosamente. A dire il vero, ritenevo che fosse una scocciatura più in quel momento.

«Però mi dispiace! Non avrei dovuto bere sapendo che non reggo l’alcol!», ha continuato a lamentarsi.

«Non preoccuparti, ti ho detto», ho ringhiato e lei si è acquietata immediatamente.

Un’altra fitta di dolore.

Ho nascosto il viso tra le mani, soffocando un gemito.

«Ma stai bene?», mi ha chiesto, Roxanne.

Io non ho risposto.

«Fa vedere», mi ha detto, sporgendosi sul tavolo e toccandomi la fronte con la sua mano fresca. Se devo esser sincera, era fin troppo fresca: mi metteva i brividi.

«Ma tu scotti!», ha strillato allora.

Ti prego, ti prego, fai che stia zitta, scongiuravo nella mia mente, ma i miei desideri non sono stati esauditi.

E’ così, infatti, che sono finita nel mio letto, tremando terribilmente, con Roxanne che mi preparava impacchi gelati da mettere sulla fronte.

«Non ce ne bisogno», mi sono ostinata a dire. Possibile che avessi preso la febbre? Erano anni ed anni che non mi ammalavo più per un semplice raffreddore…a maggio poi!

Roxanne, per quanto riuscissi a vedere attraverso la mia visione offuscata, ha scosso la testa, dicendo: «Non essere sciocca.»

Volevo dirle che non poteva permettersi di darmi della sciocca, ma avevo le labbra incollate e la gola secca e così ci ho rinunciato.

Dopo di che, ricordo di aver perso conoscenza un paio di volte, ma di aver ritrovato Roxanne sempre seduta accanto a me che mi chiedeva: «Come stai?».

Ha smesso di assillarmi quando le ho risposto: «Peggio della merda scaduta».

Ho preso delle pillole e piano piano ho iniziato a sentirmi meglio. Marissa e Roxanne si alternavano nel cambiarmi gli impacchi sulla fronte.

Quando mia madre è tornata, si è precipitata da me, per accertarsi delle mie condizioni di salute. Vedendo Roxanne, intenta a prodigarmi le sue cure, è scoppiata quasi a piangere per la contentezza – è una persona che si commuove facilmente - ed ha esclamato: «Oh Kate! Hai un’amica davvero speciale!»

Io ho grugnito qualcosa in diniego, ma nessuno fortunatamente mi ha sentito.

E’ così è passato tutto il pomeriggio. Roxanne è stata quasi tutto il tempo con me, a parte quando è andata a cambiarsi per indossare i suoi soliti abiti: quelli con cui si era presentata a casa mia il giorno prima.

«Beh, io adesso dovrei andare, Kate», mi ha detto, un po’ timorosa che la sgridassi perché doveva tornare a casa.

Il mio mal di testa si era placato e riuscivo a parlare tranquillamente, anche se sentivo ancora freddo.

«Non era nemmeno necessario che tu ti trattenessi fino ad ora», l’ho ammonita.

Lei mi ha sorriso: «Nessun problema». Naturalmente insisteva ancora con la sua farsa della brava ragazza.

Mi ha aiutata a mettermi a sedere, sistemandomi nel modo migliore possibile i cuscini come schienale.

Ha fatto per andarsene.
«Aspetta!», l’ho chiamata.

Lei si è voltata: «Sì?»

«Apri il primo cassetto del mobile in noce», le ho detto. Lei lo ha fatto. «Prendi quello che c’è dentro.», lei ha ubbidito, prendendo in mano il diario su cui sto scrivendo ora.

«Che cos’è?», mi ha chiesto, senza nemmeno osare sfiorarlo più del necessario.

«Oh, solo un’agenda telefonica», le ho risposto.

Lei me l’ha consegnato, ignara di essere presente in ogni singola pagina di quell’agenda.

Mi ha sorriso: «Non sforzarti troppo e riposa.»

E così se n’è andata.

 

 

 


***


E ce l’ho fatta a finire anche questo capitolo!

Giù, hai visto che alla fine l'ho infilata la legge di Murphy?! Te l’avevo promesso, d’altronde :P E Roxanne poi è una secchiona!

Mi dispiace per aver fatto accidentalmente precipitare quei "poveracci" sull'aereo, ma non volevo una cosa scontata. Non mi andava di scrivere di una festa da sballo, andata bene e finita lì...volevo qualcosa di inaspettato. Ed ecco come ho deciso di far precipitare l'aereo XD. E' una cosa un po' tragi-comica, no? Oppure sono io che semplicemente sono molto sadica...ehehehe! A parte i miei stupidi sproloqui, non ho nient’altro da aggiungere, tranne che mi farebbe piacere sentire le impressioni su questi nuovi capitoli…
Appuntamento con un nuovo aggiornamento alla prossima settimana!

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Capitolo 9
*** cap 9: Il suo sorriso, la mia rabbia ***


3 maggio

 

3 maggio

 

Avere un letto paradisiaco non serve a niente quando ti sembra di soffrire le pene dell’inferno per la febbre. Ed io ne so qualcosa.

Dopo un paio d’ore di sollievo che le pillole mi avevano concesso, la mia temperatura corporea è inesorabilmente aumentata di nuovo.

Ho trascorso le ore notturne, rabbrividendo e voltandomi di continuo, incapace di trovare pace.

Morale della favola? Non ho chiuso occhio per tutta la notte.

Al che, stamattina, dopo aver dormito poco più di un paio d’ore, precisamente dalle 7 e 30 alle 10 meno 10, mi sono risvegliata. Tutti i muscoli mi dolevano e la testa non smetteva di pulsare dolorosamente, ma tutto sommato stavo un po’ meglio.

Mia madre e Marissa mi hanno preparato altri impacchi per la fronte e una specie di pappina (la mia colazione) che dovevo per forza mandar giù, se volevo prendere le altre pillole.

«Fa schifo», ho detto, occhieggiando male Marissa.

La mia domestica si è stretta nelle spalle: «Non l’ho preparato io. E’ una ricetta della signora.»

Mia madre ha esibito un labbro tremolante: «Non ti piace, tesoro? E’ una medicina speciale della tua mammina…». Ecco che tornava ad essere sdolcinata.

«Ho preso il raffreddore, ma non desidero avere anche un’indigestione», ho risposto, freddamente, interrompendola.

Mia madre si è azzittita. Ho notato Marissa lanciarle uno sguardo rapido con la coda dell’occhio, come per dirle: “Gliel’avevo detto”.

Ingoiato a malavoglia l’ultimo cucchiaino di quella poltiglia, mi sono lasciata cadere sopra i morbidi cuscini sistemati contro lo schienale del letto e ho preso le mie pastiglie.

Dopo di ciò, gli occhi mi si sono chiusi quasi immediatamente e, incapace di protestare, mi sono lasciata andare al morbido abbraccio di Morfeo.

Ho ripreso conoscenza nel pomeriggio, all’incirca all’ora in cui torno da scuola ogni giorno.

Fermandomi un po’ a riflettere, mi sono resa conto che, assieme alle lezioni, oggi, mi sono anche persa tutti i laconici commenti post festa-andata-in-fumo-e-sabato-sera-rovinato.

Sarebbe stato divertente beffarmi di chi si lamentava, fingendo di compatire i loro problemi! Ovviamente, avrei preferito tale passatempo allo starmene inerte sul letto.

Tuttavia, se penso che una mandria di esseri maschili con gli ormoni impazziti mi aveva persino inseguita per mezza scuola, pur di invitarmi a quel maledetto ballo, non posso fare a meno di dire che si è creato un tale polverone per niente.

Beh, sempre se possiamo chiamare “niente” un aereo precipitato durante la sua rotta transoceanica.

Se torno a pensare poi a come è andata a finire la mia serata, con tanto di Roxanne Miller avvinghiata al mio grembo e il conseguente raffreddore che mi sono beccata, posso dire che i commenti laconici più accorati dovrebbero essere i miei.

Sbuffando di continuo, ho cercato di attirare l’attenzione dei miei famigliari, chiamando mia madre, Marissa, o in alternativa anche mio padre, nonostante sapessi che era ancora in ufficio.

La mia voce, però, normalmente squillante e ferma, risultava più flebile del canto di un uccellino, e così tutti hanno continuato ad ignorare che fossi sveglia per un altro bel po’ di tempo.

Persino la mia gatta, Susie, si è guardata da tenersi ben alla larga da me. Chissà cosa stava facendo, o dove stava scorrazzando, mentre io fissavo insistentemente il soffitto bianchissimo della mia camera e mi annoiavo da morire.

Odio restare da sola e non essere al centro dell’attenzione: destabilizza il mio equilibrio mentale!

Alla fine, incapace di resistere oltre a quello strazio, mi sono rimessa in piedi a fatica, trascinandomi verso il bagno.

Ho alzato gli occhi verso lo specchio e quando ho incontrato il mio smorto riflesso per poco non m’è preso un colpo!

Avevo due evidentissime occhiaie nere che mi circondavano gli occhi, donandomi un aspetto da panda, e i capelli più arruffati delle piume di un pulcino spennacchiato.

Cercando di non cadere in panico, ho fatto tutto il possibile per ridurre quell’orrore almeno un po’, applicando quantità industriali di correttore e spazzolando per bene i capelli.

Alla fine del lavoro, avevo un aspetto quanto meno presentabile, o, per meglio dire, fin troppo presentabile per qualcuno che ha la febbre e, al posto di sprecare le sue energie per truccarsi, dovrebbe stare a letto.

Sono totalmente consapevole dell’assurdità della cosa, ma la mia avversione per la trascuratezza ha vinto la ragione.

Un po’ debilitata dall’agitazione appena sedata, ho recuperato la mia vestaglia porpora, indossandola e stringendola strettamente alla vita.

Dopodiché, ho dato un ultimo sguardo allo specchio, storcendo il naso infastidita: odio dover indossare il pigiama per un tempo maggiore di quello necessario a dormire!

Ho chiamato ancora una volta mia madre e Marissa, ma non ottenendo alcun tipo di replica, ho deciso che sarei stata io a scendere giù per assicurarmi della situazione.

Devo aver perso più di dieci minuti a scendere le scale, comunque, perché una volta giunta al piano terra la testa mi girava da matti e i miei arti erano diventati fin troppo deboli per rispondere ad ulteriori comandi.

Ogni scalino che riuscivo a superare, inoltre, era accompagnato da un amabile commento sulla Miller, prima causa di ogni mio malessere fisico e mentale.

«Marissa! Harriet!», ho chiamato, usando di proposito il nome di battesimo di mia madre, al posto del comunissimo “mamma”. Sapevo che mi avrebbe sentita di più in questo modo.

Nonostante ciò, non ho ricevuto nessunissima risposta.

Borbottando a bassa voce, mi sono diretta con una lentezza esasperante in cucina, appoggiandomi a mobili e pensili che incontravo lungo la strada. Mano a mano che mi avvicinavo, ho sentito provenire dal salotto adiacente dei risolini. La presenza di mia madre era inconfondibile. Insieme a lei, però, c’era qualcun altro, la causa della sua ilarità, appunto.

Curiosa dell’identità del visitatore e al tempo stesso irritata dal comportamento menefreghistico di mia madre che, al posto di accudire la sua unica figlia, costretta a letto dalla febbre, se ne stava a chiacchierare amabilmente con un ospite ignoto, mi sono avvicinata di più alla soglia della porta. Ero restia ad entrare, visto il mio abbigliamento casalingo, ma ero comunque curiosa.

Sporgendomi un po’ in avanti, ho fatto per allungare il collo verso la porta, ma prima che potessi farlo, una voce ha fugato tutti i miei dubbi.

«Madame, signorina Roxanne, ecco a voi il vostro te», ha detto Marissa, appoggiando un piccolo vassoio sul tavolino di vetro collocato tra i divani.

Incurante del mio mal di testa e dell’instabilità delle mie gambe, quindi, ho fatto irruzione nella stanza, fronteggiando a viso aperto le altre tre donne.

«E tu cosa…AHIO!», mi sono lamentata, sentendo una fitta di dolore lacerarmi il cranio.

Il movimento troppo brusco aveva danneggiato il mio equilibrio precario, portandomi ad cadere sul tappeto, priva di forze.

«Kate!», hanno chiamato in coro, accorrendo verso di me.

Mi hanno stesa sul divano, dove chiudendo gli occhi e aggrappandomi ai braccioli, ho cercato di riacquistare un po’ di forze per scacciare quell’orrenda emicrania.

«Tesoro! Perché sei scesa dal letto?!», ha strillato Harriet.

Quando è in versione isterica, la chiamo sempre Harriet. Con tutte quelle ‘r’ è di certo un nome da psicotica.

«Avevo sete», ho biascicato, reggendomi la testa.

«Stanto cielo! Guarda come ti sei ridotta! Non potevi chiamarci?! Te l’avremmo portata noi un po’ d’acqua!», ha esclamato mia madre, andando a recuperare un plaid con cui coprirmi. Quando mi sono accorta che era la coperta della lettiera di Susie, gliel’ho lanciata contro.

«Come se non l’avessi fatto! Vi ho chiamate per chissà quanto, mentre tu te ne stavi qui a ciarlare come se niente fosse!», le ho gridato contro, con quel po’ di voce che mi restava. Harriet si è ammutolita e mi ha guardato con due occhi grandi e rotondi, un po’ umidi.

Poi ho puntato un dito contro Marissa, aggiungendo: «E tu? Tu al posto di assicurarti della mia salute te ne stavi a preparare del tè! E io nel frattempo ho perso talmente tanto tempo a scendere le scale, che adesso mi è passata persino la sete!»

La domestica si è fatta piccola piccola, incurvando le spalle. Nessuno ha osato parlare per qualche secondo, e poi, Roxanne, che era stata zitta per tutto il tempo, è intervenuta: «Andiamo, Kate. Non credi che sia un po’ infantile reagire così? Sono certa che tua madre e Marissa abbiano fatto del loro meglio per prendersi cura di te.»

Io l’ho guardata, senza parole. Questa insulsa ragazzina, che il giorno precedente si era sbronzata sul mio grembo, aveva davvero osato definirmi una capricciosa infantile?
E poi, come si permetteva di venire a casa mia, senza il mio permesso, e mettersi a sputare sentenze in questo modo?!

Mia madre e Marissa, d'altra parte, l’hanno fissata come se fosse un’incarnazione divina.

«Non prendertela troppo. Capita a tutti avere un momento di rabbia…poi tu non stai nemmeno bene, quindi è più che comprensibile», ha concluso Roxanne sorridendo dolcemente. Aveva indosso abiti molto casual, di certo la sua mise scolastica: maglietta, jeans e un paio di scarpe sportive non proprio pulite. Il suo zainetto era accanto a sé, poggiato sul divano dove era seduta a parlare con mia madre, fino al momento prima che arrivassi. I suoi lunghi capelli mogano erano raccolti in una coda alta, sul suo viso nemmeno un’ombra di trucco.

Mia madre e Marissa hanno annuito, concordando con le sue parole.

«Mi dispiace tesoro, lo so che non stai bene. Hai assolutamente ragione. Non preoccuparti, la prossima volta starò più attenta», mi ha detto Harriet, sedendosi accanto a me e prendendomi per mano.

Io ho sbuffato rassegnata, domandandomi se esistesse la possibilità che mia madre potesse arrabbiarsi anche solo per una volta.

Roxanne, naturalmente, mi aveva fraintesa nuovamente, attribuendo la mia rabbia alla febbre. Se fosse andata realmente così, allora io sarei una malata cronica, perché quello è il mio solito modo di rispondere, anche quando sono in perfetta salute.

Quando il mal di testa è diminuito un po’ di intensità, mi sono seduta decentemente sul divano, rannicchiandomi contro i cuscini per stare più calda.

«Vuoi che ti aiuti a tornare a letto, amore?», mi ha chiesto mia madre.

«No. Sto bene qui», ho dichiarato perentoria, «Marissa va’ a prendermi una coperta, già che ci sei.»

La domestica si è fiondata al piano superiore.

Roxanne è tornata ad accomodarsi, sedendosi sul divano di fronte a quello dov’ero io. Mia madre ha preferito la poltrona di lato.

Io ho fissato Roxanne a lungo, con un cipiglio sospettoso.

Quasi leggendomi nella mente, mia madre ha fornito una risposta ai miei dubbi. «Roxanne era venuta a vedere come stavi, amore.», ha commentando, apparendo piuttosto contenta.
La ragazza in questione ha sorriso amabilmente. Io ho cercato di restituirle il gesto, con cordialità.
Nessuno dei miei cosiddetti "amici", era mai venuto a trovarmi per rassicurarsi della mia salute. Persino le Gallinelle si sono sempre tenute alla larga, alla parola "febbre". Era perfettamente comprensibile il motivo per cui Roxanne, con le sue maniere gentili e il faccino da brava ragazza, stesse così simpatica a mia madre.

Adesso, inoltre, avevo finalmente scoperto il suo scopo: cercare le grazie di mia madre per poter poi insinuarsi nella mia vita.
Dannata bugiarda!

«Sono contenta di trovarti meglio», ha poi detto lei, senza perdere il sorriso.

Stringendo i denti, sono riuscita a mantenerlo anche io: «Beh, se per bene intendi avere un mal di testa spacca-cranio e brividi d’appertutto, allora è così.»

La mia intonazione acida stonava talmente tanto con l’espressione amichevole, che persino mia madre se n’è accorta e mi ha fatto notare il suo disappunto schiarendosi la voce in maniera inequivocabile.

Roxanne ha esitato un solo un attimo, per poi continuare a parlare allegramente. Io ho cercato di mantenermi il più possibile al margine della conversazione, stringendomi nella coperta che Marissa mi aveva portato.

«Oh! Mi dispiace cara, il tuo tè si è raffreddato prima che potessi berlo!», le ha fatto notare mia madre.

Roxanne ha scosso la testa, ostinatamente: «Ma no, non si preoccupi, non fa niente!»

«Assolutamente no, cara! Marissa lo riscalderà in un momento, vero?», ha suggerito mia madre, gettando un’occhiata verso la donna.

Pur con uno sbuffo appena percettibile, Marissa ha ubbidito in un istante. Roxanne sembrava un tantino mortificata, mentre mia madre appariva contenta di avere una domestica così attiva e zelante.

«Allora, cara, dicevamo…», ha ripreso a parlare mia madre in modo entusiasta. Il fatto che continuasse ad usare l’appellativo “cara”, oltre a sottolineare la sua propensione per Roxanne, dimostrava anche che, disgraziatamente, aveva già scordato il suo nome. «Davvero vivi da sola?»

Roxanne ha riso, portandosi una mano di fronte alla bocca, timidamente.
E’ un trucchetto per apparire dolci ed innocenti che anche io stessa ho usato mille volte, perciò non mi sono stupita che le riuscisse così bene.

«A dire il vero non sono sola», ha risposto Roxanne, «Vivo con mia sorella Madison.»

«Sul serio?!», si è illuminata mia madre, «che cosa meravigliosa! Così giovane e già così responsabile!»

Roxanne ha scosso la testa: «Mannò, non è un gran problema.»

«Ma sì, invece. Devi sapere che Kate, per quanto sia indipendente, non è in grado di prendersi cura di sé…per poco non sveniva dopo una rampa di scale!», ha sospirato Harriet e io ho avvertito le mie guance già accaldate per la febbre avvampare in un istante.

«Non sono svenuta!», le ho soffiato contro, per poi tossire con violenza. Dannato raffreddore!

«E va bene, non sei svenuta, ma non saresti in grado di vivere da sola, senza Marissa che ti cucina i tuoi piatti preferiti e ti rifà il letto», ha continuato a dire.

«Certo che sarei in grado di vivere», ho aggiunto puntigliosamente, «è solo che adesso non c’è bisogno che faccia queste cose perché c’è Marissa a farle. Lei non mi dà nemmeno il tempo di scendere dal letto che subito lo rassetta in due secondi!»

Roxanne ha riso.

«Anche per me è la stessa cosa. Mia sorella è una maniaca dell’ordine, perciò non tollera che io faccia nessuna faccenda casalinga, visto che sono molto disordinata», ha bisbigliato, quasi fosse un segreto irrivelabile.

Io l’ho guardata, sinceramente sorpresa. Avevo sentito bene?

Miss “perfezione” aveva appena dichiarato di essere disordinata?!

Mia madre ha riso di gusto: «Tu e Kate dovete essere molto simili, allora.»

A quelle parole, il mio primo impulso è stato gridare: «Assolutamente no!», ma mi sono bloccata giusto in tempo.

Mia madre aveva ragione: io e Roxanne abbiamo qualche punto in comune, ma questo non c’entra niente col disordine. Lei è astuta, falsa e manipolatrice quanto me, anzi no, anche peggio, perché cerca di nascondere il suo lato oscuro dietro sorrisi che di vero non hanno proprio niente.

Dopo un po’, Marissa è tornata con il tè bollente e un po’ di biscottini glassati in superficie.

Ho afferrato la tazza fumante, godendo del suo tepore contro i miei palmi e bevendo il liquido a piccoli sorsi.

«Per favore, può portarmi dello zucchero?», ha domandato allora cordialmente Roxanne.

Marissa l’ha guardata un po’ stranita: «Ma ho già zuccherato il tè.»

Roxanne ha sorriso, con finta timidezza: «E’ che…se non aggiungo io stessa le quantità di zucchero, mi sembra amaro.»

Mia madre è intervenuta prontamente: «Su Marissa! Ti ha chiesto dello zucchero, no? Vai a prenderlo», le ha ordinato, poi si è rivolta verso Roxanne, «Se hai bisogno di qualcosa, cara, non esitare a chiedere. Ma prova questi biscottini! Sono deliziosi, te lo assicuro!»

«Non è vero», ho detto io, «Perché hai comprato questi biscotti, oltretutto? Sai che odio la glassa.»

L’espressione serena di mia madre è decaduta in un attimo.

«E invece io l’adoro!», ha esclamato Roxanne, con un entusiasmo esagerato. Essendosi accorta di essere stata un po’ troppo esuberante, però, è subito tornata a farsi piccola piccola sul divano.

Harriet, d’altro canto, sembrava aver gradito la sua vitalità, cosa che io ho notato con una smorfia celata dietro la tazza di tè ormai vuota.

«Allora non esitare ad assaggiarli, cara, scommetto che ti piaceranno!»

Marissa è tornata con lo zucchero, appoggiando l’intera zuccheriera assieme ad un cucchiaino, accanto alla tazzina di Roxanne.

«La ringrazio!», ha esclamato lei, prima di infilare ripetutamente il cucchiaino nella zuccheriera. Dopo aver aggiunto al liquido cinque o sei abbondanti pizzichi di zucchero, si è dichiarata soddisfatta e ha iniziato a bere il suo tè.

Io e mia madre l’abbiamo fissata, incredule.

«Ehm…ti piace molto il dolce, vero?», ha domandato Harriet, tentando di sorridere, con il solo risultato di rivolgere a Roxanne una smorfia un po’ schifata.

L’umore di Roxanne, però, supportato anche da quantità iper-glucidiche, non è affatto decaduto.

«Sì! Caramelle, torte, dolcetti…mi piace tutto purché sia dolce!», ha dichiarato, ingoiando con soddisfazione i biscottini ricoperti di glassa.

Adesso che ci facevo caso, ricordavo anche che a scuola, durante la mensa, non l’avevo mai vista ordinare un pranzo decente: sempre e solo torte, gelati o dessert in generale.

Se ciò era tutto quello che mangiava, come faceva a restare così magra?!

Quasi intimorite dalla sua voracità, io, mia madre e Marissa, l’abbiamo guardata divorare con un sorrisino tutto il piattino contenenti i biscotti glassati.

«Eh…eheh! Hai proprio…un buon appetito, cara», ha commentato mia madre, ridendo forzatamente e cercando di risollevare la tensione.

Roxanne ha annuito, rivolgendole un sorriso smagliante.

Un brivido mi ha attraversato la schiena. Ero schifata da tutte quelle sdolcinatezze.

Tutto lo zucchero che la Miller aveva versato nel suo tè, sembrava oramai vagare nell’aria, corrodendo la mia sanità mentale.

Aggiungiamo poi il fatto che lei sembrava sprizzare energia da tutti i pori, mentre io ero accovacciata tremante nella mia coperta, ed ecco che si spiega il motivo per cui non riuscivo a tollerare nemmeno la sua presenza, oggi in particolare.

Fingere di essere sua amica è più complicato di quanto pensassi.

«Puoi andare a prendermi un’altra coperta?», ho domandato a Marissa, bruscamente.

«Ma signorina, non farebbe meglio a tornare a letto?», ha chiesto lei.

Io ho scosso la testa, in maniera risoluta. Non avrei mai e poi mai lasciato Roxanne sola con mia madre, fornendole la perfetta occasione per agire alle mie spalle. Era fuori questione.

«Allora portale il piumone», ha suggerito Harriet.

«Ma, signora, non ce la farò mai a trascinarlo da sola per tutte le scale», ha protestato Marissa.

Mia madre ha sbuffato, sonoramente, alzandosi in piedi e lisciandosi la gonna con le mani. «E va bene, vengo ad aiutarti»

In breve, entrambe erano dirette al piano superiore.

Ho guardato Roxanne finire precipitosamente il suo tè, per poi guardarmi con occhi scintillanti e dire: «Ecco il momento giusto!».

Io l’ho fissata con le sopracciglia aggrottate, seriamente preoccupata che fosse lei l’unica malata tra le due.

«Momento giusto per cosa?», ho chiesto sospettosamente.

«Andiamo, vieni con me!», ha esclamato, prendendomi per mano e conducendomi in fretta e furia verso la porta d’ingresso.

Ma insomma, cos’è questo vizio di prendermi per mano adesso?!

«MA CO-»

«Shhh!», mi ha interrotto lei, afferrandomi il braccio e trascinandomi  all’esterno quasi di peso. Non avrei mai creduto che una ragazzina come lei potesse possedere tanta forza muscolare!

Stringendomi freneticamente il plaid addosso, ho pestato un piede a terra, facendomi anche un po’ male.

«Si può sapere cos’hai in mente di fare?! Guarda che io non sto bene!», ho protestato, cercando invano di scrollarmela di dosso. Eravamo già lungo il viale ghiaioso che si inerpica lungo il mio giardino. Le mie pantofole erano ormai ricoperte di polvere.

«Andiamo! Basta fare la melodrammatica! Ti prometto che starai meglio non appena vedrai la sorpresa che ti ho preparato.»

«Sorpresa?!», ho chiesto alquanto scioccata, totalmente ignara delle sue intenzioni.

La sua unica risposta è stata un sorriso furbo, per poi lasciare andare il mio braccio e correre nella direzione degli arbusti alle estremità del giardino.

«EHI! Dove credi di andare?!», le ho urlato contro, seppur debolmente, «Devi riaccompagnarmi dentro! Ho freddo!»

«Così va meglio?», ha sussurrato al mio orecchio una voce morbida, mentre un paio di braccia mi circondava dolcemente.

Mi sono girata di scatto, allarmata, reggendo in modo spasmodico la coperta che avevo addosso contro il mio petto, per impedire che cadesse.

E così, mentre il mio cuore rimbalzava prepotentemente contro la mia cassa toracica, ho incontrato gli occhi di Jason, a pochi centimetri di distanza dal mio naso. Il suo respiro profumato e caldo si infrangeva contro le mie guance.

«Sì, va meglio», ho risposto quietamente, constatando come il freddo fosse ormai scomparso adesso che ero lì tra le sue braccia.

«Bene», è stata la sua unica risposta. I suoi occhi, però, sembravano voler dire moltissime altre cose.

Ho restituito il suo sguardo a viso aperto.

«Mi sei mancata», mi ha detto, rafforzando la stretta.

Io ho sbattuto le palpebre, lentamente. Per una volta, ho deciso di essere sincera: «Anche tu mi sei mancato.»

«Devo ritenermi fortunato, allora?», ha scherzato lui.

«Sei un privilegiato.», gli ho concesso, facendo sì che il suo sorriso si ampliasse ulteriormente.

«Sono un privilegiato perché ti ho visto un pigiama?!», mi ha chiesto, ostentando una bella faccia di schiaffi. Io l’ho colpito debolmente al braccio, sfiorandolo a malapena. Lui ha riso.

«Comunque…come va la tua febbre?», mi ha chiesto poi, cambiando discorso.

Le sue grandi mani vagavano lungo la mia schiena, strofinandola vigorosamente, nel tentativo di infondermi calore.

Io non mi sono mossa nemmeno di un millimetro. «Potrei stare meglio», ho risposto, «Un momento. Chi ti ha detto che ho preso la febbre?»

«Roxanne, ovvio!», ha replicato lui, tranquillamente.

Io ho azzardato un ghigno: «Certo, d’altronde mi risulta che siate molto in confidenza ultimamente. L’hai anche invitata al Ballo, no?»

Lui è apparso sorpreso dalle mie parole: «Allora lo sapevi…»

«Beh, ho solo saputo che lei ti ha rifiutato», ho detto, ostentando freddezza, «Ma a me non sembra che tu te la sia tanto presa con lei, dopo di ciò. E, invece, hai ignorato me per giorni per lo stesso motivo.»

«E’ diverso», ha risposto lui, scrollando le spalle ed evitando i miei occhi.

«In cosa è diverso?»

«Lo sai cosa mi ha detto Roxanne, quando l’ho invitata al ballo?», mi ha domandato.

«Non so…magari: “Mi dispiace, Jason, ma per una ragione apparentemente incomprensibile, che solo io comprendo, non posso venire al ballo con te?!”», ho suggerito, cercando di imitare la voce della Miller.

Lui ha sorriso. Quasi.

«No», ha risposto, «Eravamo in corridoio e io l’avevo incrociata prima di andare a lezione. Tu stavi parlando con Jeff McLee, un po’ distante da noi, o meglio, era lui che stava parlando con te, mentre tu lo ascoltavi a malapena.», ha precisato,«E quando l’ho invitata al ballo, Roxanne, ha intercettato uno degli sguardi che ti ho rivolto. Si era accorta del mio piano. Ha guardato prima te e poi me, per diverse volte, poi mi ha sorriso e mi ha risposto: “Ascolta, è inutile aspettare che Kate si accorga che tu mi stai invitando al ballo. Ti stai forzando di fare una cosa che non hai nessunissima voglia di fare e per giunta, lei sembra esserne totalmente ignara. Il tuo piano per farla ingelosire non ha funzionato.”»

L’ho guardato un po’ confusa e l’ho lasciato continuare.

«“Sarebbe anche inutile che adesso io rispondessi ad una domanda che in realtà vorresti fare a lei”, mi ha detto,“Sono stanca di essere sempre e solo un ripiego”.»

L’ho fissato insistentemente, come se volessi leggergli la mente, per captare l’espressione che Roxanne aveva assunto dicendo quelle parole. I suoi occhi blu si erano rabbuiati, oppure erano rassegnati? C’era risentimento nella sua voce o solo una grande malinconia?

Sono stanca di essere sempre e solo un ripiego.

Cosa voleva dire?

«Ti ha scaricato in una maniera grandiosa», gli ho fatto notare con un fiacco sorrisino, mettendo un po’ da parte la mia curiosità, «ha scaricato anche la colpa su di te.»

«Ma era colpa mia. Sono io a non essere stato sincero», ha insistito Jason.

«Sincero? In che senso?»

«Mi avevi chiesto perché tra tutti quelli con cui avresti potuto andare al ballo dovevi scegliere proprio me, giusto?», mi ha ricordato.

Io ho annuito di mala voglia, omettendo di precisare che quella era stata solo una scusa per evitare di dargli una risposta definitiva.

«Devi scegliere me…perché…io posso amarti più di qualsiasi altro uomo sulla terra», ha concluso, allora.

Il primo impulso è stato scoppiargli a ridere in faccia, ma anche ridere era diventata un’azione troppo faticosa da compiere.

Ho preferito il silenzio ed uno sguardo apparentemente vacuo.

Cosa avrei dovuto esprimere? Sorpresa? Piacere? Curiosità?

In passato ho avuto spesse volte a che fare con queste situazioni, a dire il vero, ma devo ammettere che nessuno dei miei pretendenti ha mai avuto il coraggio di dirmi letteralmente in faccia che mi amava. Al massimo un: “Sei bellissima” o uno scontato “Ti amo” scritto su carta o per messaggi.

Ma eccolo qui, adesso, Jason che puntava verso di me l’azzurro intenso dei suoi occhi, cercando di scavare quasi un buco dentro di me.

Nonostante tutto, non c’era la solita spavalderia nel suo atteggiamento. Era semplicemente un ragazzo che mi aveva parlato con il cuore in mano e attendeva una mia risposta.

Questo pensiero è bastato per scacciare ogni mia intenzione ilare.

Non c’era presunzione nelle sue parole, ma solo umiltà e conforto. Era confortevole l’idea di qualcuno che mi amasse più di chiunque altro. Era confortevole come quelle braccia che mi circondavano e mi proteggevano dal freddo.

Quello che non era confortante, invece, era l’aspettativa nascosta dietro quella frase.

Essere amati comportava dare amore, cosa che io non sono mai stata capace di fare, tranne che indirizzare tutta l’attenzione possibile solo su me stessa.

Se fossi stata un’altra persona, se fossi stata qualcuno la cui massima aspirazione è trovare un bravo ragazzo e mettere su famiglia, avrei risposto a Jason che lui era la mia scelta.

In un’altra vita, magari, l’avrei fatto…ma non in questa.

All’improvviso, quegli arti bollenti, da cui trarre calore, sono diventate delle sbarre, sbarre che si insinuavano tutt’attorno a me e mi negavano la libertà. Ecco il loro vero significato.

Mi mancava il respiro. Avevo un urgente bisogno d’aria.

«Jason», ho mormorato con voce soffocata, tentando di divincolarmi, «Lasc…».

Senza permettermi di liberarmi, lui ha preso le mie labbra tra le sue con ansia e impellenza.

Era come se volesse farmi capire, senza dirlo ad alta voce, che nessuno avrebbe potuto baciarmi in quel modo, che nessuno avrebbe potuto metterci la stessa passione.

Io ero consapevole di questo, ma ciò non cambiava affatto le cose tra di noi.

La mancanza di aria, però, non faceva che rendere il nostro bacio più eccitante, in un gioco di bisogno, di negazione e ancora bisogno interminabile.

Una volta che le nostre bocche si sono separate, lui mi ha stretta a sé e io, ormai troppo debole per protestare, non ho opposto resistenza.

«Adesso ti prenderai anche tu il raffreddore», gli ho fatto notare, puntigliosamente.

«Non mi importa. Voglio solo che tu resti con me.», ha detto, prima di trovare rifugio nel mio collo, come un bambino che si nasconde tra le gonne della sua mamma.

«Non lasciarmi», sono state le sue uniche parole, mentre il mio sguardo, impassibile, vagava al di là delle sue spalle.

Le sue mani posate sui miei fianchi tremavano un po’, ma poteva anche essere solo una mia immaginazione, visto che stavo tremando anche io per la febbre.

Ormai non avvertivo più la differenza tra i due tremori.

Tuttavia, c’era un’altra importantissima differenza: lì, sul prato verdeggiante, i nostri due corpi erano abbracciati strettamente, mentre i nostri cuori erano lontani più che mai.

Avrei voluto farglielo presente, ma sapevo che non mi avrebbe ascoltato.

Jason è uno di quelli che ha la testa più dura del normale, perciò è difficile che se la rompa facilmente.

Ferirlo normalmente, con le mie solite armi era impossibile e, anche se una parte di me non voleva lasciarlo andare, avvertivo la necessità di non fargli del male. Dovevo fermare questo circolo vizioso, ma non ci riuscivo.

Lui può anche essere uno dei tanti, ma per me non è uguale ai tanti. E’ Jason, punto.

Ha continuato ad aggrapparsi a me, disperatamente, ripetendo la supplica a cui io non ho mai risposto. Quanto tempo abbiamo passato così, proprio non so dirlo, ma sembrava quasi che tutto attorno a noi fosse immobile da secoli.

Improvvisamente, poi, vicino al cancello d’entrata, mezza nascosta tra gli arbusti, ecco spuntare una voluminosa chioma mogano.

Gli occhi ridenti di Roxanne hanno incontrato i miei. Sembrava felice, o quanto meno soddisfatta.

Io l’ho guardata in modo interrogativo. Lei ha mimato con le labbra un bacio, stringendo gli occhi in un’espressione buffa.

Ho afferrato subito l’indizio: evidentemente doveva averci visti poco fa e, di conseguenza, aveva frainteso la situazione. Anche l’arrivo di Jason, a quanto pare, doveva essere stato tutto un suo piano.

Illusa. Nel suo mondo perfetto, magari, esistono ancora la favolette a lieto fine, ma nel mio no, mai.

Anche se vengo proclamata vincitrice la maggior parte delle volte, questo non vuol dire che io non debba sacrificare qualcosa di importante per la mia vittoria.  Tu, Roxanne Miller, quale pezzo dovrai pagare?

E così, guardandola sparire con il suo zainetto colorato in spalla, non prima di avermi rivolto un occhiolino, ignorando i confusi mormorii di Jason che mi baciava il collo, ho desiderato solo una cosa: strapparle quel dannato sorriso dalle labbra.

Ad ogni costo.

 

 

 

 

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Capitolo 10
*** cap 10: A chi importa ***


Salve a tutti

Salve a tutti! Mi scuso davvero tantissimo per il ritardo che ci ho messo nell’aggiornare, non è dovuto ad un mio disinteressamento nei confronti della storia, anzi, solo che queste due ultime settimane sono state infernali! In compenso, prometto di aggiornare più tempestivamente il prossimo capitolo e spero che quest’ultimo sia valso l'attesa!

Inoltre, ringrazio balakov  per il graditissimo commento. Sono stata molto felice di leggere la tua recensione! Devo ammettere che anche secondo me, sto migliorando nello scrivere(sarebbe grave se fosse il contrario XD), però voglio continuare a farlo ancora di più! Speriamo di riuscirci! ^__^ Continua a seguirmi!

 

 

 

 

8 maggio

 

 

Dopo quattro giorni trascorsi a vegetare nel letto, ieri finalmente sono stata in grado di uscire e di andare a scuola. Non che morissi dalla voglia di andare a lezione, precisiamo, piuttosto non sopportavo più la staticità asfissiante delle mura di casa.

Si può dire che non sono affatto un tipo pantofolaio: se rimango per troppo tempo rinchiusa in un posto mi sento letteralmente impazzire.

Non c’è da meravigliarsi, perciò, se ammetto di essermi svegliata sorridendo a 360 gradi.
Già dal giorno precedente la mia febbre si era acquietata, per poi scomparire del tutto dopo una buona nottata di riposo.

Nemmeno il pensiero delle rughe d’espressione è riuscito a fermare il mio sorriso.

Sorriso che, nonostante tutto, non è vacillato neanche quando ho varcato la soglia del cancello scolastico.

Ho sentito bisbigliare qualche concitato: «Hey, Kate Hudson è tornata!», per poi vedere arrivare verso di me una folla di persone.

Le Gallinelle, che precedevano tutti gli altri, mi hanno raggiunta in pochissimi secondi.

Sono affogata nelle braccia delle persone che mi stringevano, mi baciavano sulla guancia o più semplicemente mi chiedevano delle mie condizioni di salute.

Dopo un po’ tutte quelle smancerie mi hanno stufata, ma ho sopportato di buon grado le svariate domande che mi venivano poste, elargendo sorrisi a destra e a manca.

«Cosa ti è successo?», mi ha chiesto Jeff, circondandomi le spalle con un braccio.

Io mi sono guardata intorno, sperando di non veder incombere su di me un gelosissimo Jason. Fortunatamente non c’era.

Ho storto il naso, allora, rilassandomi tra le sue braccia, sebbene restia a ricordare i patetici momenti della mia convalescenza. «Raffreddore», ho commentato con uno sbuffo.

«…Ah.», è stata la sua risposta secca. Dal tono di voce sembrava quasi che stesse ricollegando qualcosa.

«Cosa?», ho domandato, voltandomi verso di lui.

«Allora…era vero…», ha risposto, continuando ad evitare il mio sguardo.

L’idea che avessi preso il raffreddore era così devastante? Dalla sua espressione pareva proprio di sì.

«Ma certo che è vero! Te l’ho appena detto che ho avuto la febbre!», ho precisato, cercando di riscuoterlo dalla trance in cui era caduto. I suoi occhi apparivano stranamente vacui.

Il braccio con cui mi stringeva a sé si è ritratto bruscamente, lasciandomi un po’ scossa.

«Che…?»

«Immagino che la sua persistenza ti abbia convinto ad accettare.», ha detto Jeff a capo chino. «Se solo avessi saputo che sarebbe bastato così poco per riuscire ad averti non mi sarei fatto fregare in questo modo.»

Ed è così che se n’è andato, lasciandomi letteralmente senza parole.

Cosa diamine voleva dire?

Avrei voluto seguirlo, ma il mio professore di letteratura, Riley, mi ha trattenuta, dimostrandosi entusiasta di avermi nuovamente a lezione.

«La ringrazio moltissimo, professore», ho detto con un sorriso affabile e un tono di voce dolce e accomodante. In realtà, però, avrei voluto gridargli contro di smettere di fissare il mio decoltee così spudoratamente. Dagli angoli della sua bocca fuoriusciva persino un rivolo di bava!

Sono talmente brava a fingere che so anche come arrossire al momento giusto. La risata deliziata di Riley è stata la prova che nemmeno la febbre era riuscita a privarmi delle mie mirabili capacità di attrice.

Ho preso un respiro profondo, sentendomi in pace con me stessa.

Avere tutti attorno a me, ansiosi e pieni di premure, mi aveva esaltata. Ero nel mio elemento.

La giornata era iniziata decisamente bene.

Tuttavia, vedendo arrivare Roxanne Miller, accompagnata da Patty Mason ed Eve Morris, ho subito capito che niente sarebbe andato secondo i miei piani.

Non appena gli altri hanno adocchiato la Miller, è stato come se il centro dell’attenzione si fosse spostato in un istante da lei a me.

Sono restata a fissare la scena inebetita.

Roxanne ha sorriso ai presenti e ne ha salutati alcuni con i convenzionali bacetti sulle guance. Patty e Eve non si sono mosse nemmeno un millimetro da lei, sul viso un’evidente espressione di orgoglio per la momentanea posizione di importanza che avevano assunto.

Quando Roxanne alla fine si è voltata verso di me, il suo sorriso si è ampliato.

Invano, ho sperato che qualche Dio pietoso della mia condizione la fulminasse all’istante, ma niente di ciò è successo. Lei si è avvicinata a me, con uno slancio non indifferente, e mi ha preso le mani, saltellando contenta.

«Kate! Stai bene, allora! Che bello rivederti!», ha squittito.

Tsk. Non mi avrebbe ingannata con la sua farsa da buona amica. Potevo chiaramente vedere che in mia assenza non si era minimamente annoiata, anzi, aveva ampliato il suo giro d’azione.

Mi sono ripromessa di tenere d’occhio la situazione. Non posso permettere che mi freghi il posto!

La ragazza più popolare della scuola sono e resterò soltanto io, hai capito piccola insolente?

Malgrado ciò, ho tollerato l’entusiasmo di Roxanne, accompagnando i suoi commenti vivaci con risatine false e ipocrite, a cui lei ha risposto altrettanto stupidamente.

Le mie dita, però, erano ben lontane da ricambiare la sua stretta. Anzi, cercavano di liberarsene ad ogni costo.

Ho pregato a lungo per essere rilasciata, cosa che, per mia fortuna, è accaduta poco dopo.

Roxanne se n’è andata altrettanto rapidamente, salutando tutti con la mano, asserendo di dover parlare con un professore prima dell’inizio delle lezioni.

Patty e Eve l’hanno seguita immediatamente, come due cagnolini fedeli, seppur a malincuore.

Finalmente il palcoscenico era di nuovo tutto mio.

Ho evitato di soffermarmi troppo a pensare alla scena che si era appena verificata e ho cercato di concentrarmi di più sulle cose positive.

Non avere alcuna lezione assieme a Roxanne Miller, per quella giornata, era un'altra cosa che mi metteva altrettanto di buon umore.

«Dov’è Jason?», ho chiesto dopo essermi guardata intorno per diverso tempo durante la pausa pranzo.

Avevo pensato a lui per tutta la mattinata, ma non era mai capitata l’occasione per chiedere dove fosse. Ero seduta su una panchina nel cortile scolastico e avevo atteso il momento propizio, aspettando che l’assillante Henry mi lasciasse in pace e sparisse dalla circolazione, per chiederlo ad Ashley che nel frattempo, appoggiata contro il muretto, stava aspirando una profonda boccata dalla sua sigaretta.

«E’ malato…non lo sapevi?», mi ha chiesto, ostentando sorpresa nella sua voce strascicata.

Io ho storto la bocca.

«No, non lo sapevo. Ho passato tre giorni completamente estraniata dal mondo, dopotutto.»

Lei ha fatto un verso accorato, indicando che le dispiaceva. O per lo meno questo era ciò che voleva farmi credere. Ho assecondato abilmente la sua farsa.

«Però, è proprio strano, no?», è intervenuta Sally, sfilando con un gesto fluido la sigaretta dalle mani di Ashley. «Prima ti ammali tu e dopo un giorno finisce a letto anche lui…», ha mormorato con un sorrisino, senza togliersi la sigaretta dalle labbra.

Io ho alzato un sopracciglio pericolosamente, fingendo di non cogliere l’informazione intrinseca nascosta dietro le sue parole: «Cosa vuoi dire?»

«Beh…è molto facile attaccarsi il raffreddore tra fidanzati…», ha risposto Ashley, in un tono furbesco.

Questo mi aveva davvero stupita.

«E chi sarebbero i fidanzati, scusa?!», ho domandato a bruciapelo. Non mi importava d’essere stata un po’ più aggressiva di quanto non lo fossi di solito a scuola.

Fingere per troppo tempo di essere paziente e cortese fa sì che io diventi ancora più facilmente irritabile quando se ne verifica l’occasione.

«Daiii Kate! Non è più necessario nascondersi adesso, no? Sappiamo tutto!», si è intromessa Nancy, prendendo posto accanto a me e pregando Sally di lasciarle fare un tiro.

«Voi saprete anche tutto, ma io non so assolutamente niente», ho precisato, irritata, «E attenta a quella sigaretta, mi stai facendo venire tutto il fumo addosso.»

Non ci tengo a morire per fumo passivo o quanto meno ad avere i denti gialli e le rughe a poco meno di trent’anni.  Tutte le cremine anti-invecchiamento che uso dall’età di tredici anni non servirebbero a niente, sennò.

Nancy mi ha ubbidito all’istante, allontanandosi da me e raggiungendo le altre due ragazze, poco distanti.

«Allora?», ho insistito.

All’improvviso sembravano tutte molto più restie a parlare.

«Cioè…Noi pensavamo che…cioè, ci hanno detto che…», hanno detto quasi in coro.

«Chi vi ha detto cosa?», è stata la mia domanda imperiosa.

Ashley ha incurvato le spalle, senza osare guardarmi. Le altre due hanno fatto lo stesso, lanciandosi un’occhiata obliqua.

Probabilmente dovevo averle spaventate.

Mi sono sforzata di sorridere per tranquillizzarle.

«Andiamo…non credete che abbia il diritto di saperlo? Siete mie amiche! Se non posso fidarmi di voi e di quello che mi riferite, di chi altro dovrei farlo?», ho mentito appassionatamente, rendendo più soffici le mie movenze e la mia espressione.

Le tre galline sono cadute immediatamente nella mia trappola, facendo quasi a gara per chi dovesse parlare per prima: «Roxanne…», ha bisbigliato Sally, la vincitrice del piccolo duello, guardandosi furtivamente intorno.

«Roxanne ci ha detto che Jason è venuto a trovarti quando non stavi bene e che…dopo una scena molto romantica», ha commentato estasiata, «…lui si è dichiarato!»

Le altre due hanno sospirato, con gli occhi a cuoricino, immaginando probabilmente una di quelle scenette patetiche e melodrammatiche tipiche dei romanzi rosa.

E’ stata Roxanne Miller?! Era stata proprio lei ad immischiarsi per prima cosa nei miei affari privati, combinando un incontro tra Jason e me, per poi riferire agli altri dei pettegolezzi falsi su noi due?!

Era finalmente uscita allo scoperto, allora! Stavo finalmente per mascherarla!

Sono scattata in piedi, ormai incapace di dimostrarmi serena e tranquilla in apparenza, quando dentro di me ardevo di rabbia.

Ignorando i richiami delle Gallinelle, sono sfrecciata attraverso i corridoi alla ricerca di Roxanne.

Ho sentito qualcuno mormorare dei commenti al mio passaggio. Probabilmente agli occhi altrui doveva apparire strano che una come me, solitamente circondata da un gruppo di venti persone, si aggirasse da sola per i corridoi in modo furente e scomposto, borbottando maledizioni d’ogni tipo.

L’opinione altrui, però, era l’ultima delle mie preoccupazioni in quel momento.

Dopo aver cercato in lungo e in largo, ho trovato Roxanne Miller dove mi sarei aspettata di trovarla: all’uscita della mensa, con un’espressione soddisfatta ed in mano un cornetto al cioccolato. Anche oggi, evidentemente, aveva in mente di mangiare solo dolci.

Lei mi ha salutato con un sorriso cordiale. Io l’ho ignorata, troppo agitata per perdermi nei convenevoli.

«Dobbiamo parlare», ho annunciato, con un tono duro, stringendo le labbra in una linea sottile.

Lei mi ha risposto con un’espressione confusa e stupefatta. I suoi occhi blu, dietro le lenti degli occhiali da lettura, erano grandi e acquosi.

Non sembrava capire la ragione di quelle mie parole, ma non ha fatto altre domande.

«Va bene», è stato tutto ciò che ha detto.

Il tragitto fino al retro del cortile scolastico è stato silenzioso e carico di tensione, per lo meno da parte mia. Roxanne non sembrava particolarmente preoccupata, mentre io calpestavo in modo veemente il suolo, cercando di trattenere l’irritazione.

Arrivate dove ritenevo fosse più opportuno parlare, mi sono bloccata di scatto e Roxanne accanto a me si è fermata nello stesso momento. Che bimba ubbidiente!

«Cercherò di arrivare subito al sodo», ho proferito, serissima, «Chi ti ha dato il permesso di spargere voci false su me e Jason?»

Ho tentato disperatamente di non alzare la voce, ma il tono polemico era inconfondibile.

Roxanne ha corrugato la fronte in un gesto che io non farei mai, sempre per preservare la levigatezza della mia pelle il più allungo possibile.

«Di che parli?», ha chiesto.

Oh, adesso faceva pure la finta tonta?

«Dei pettegolezzi che hai alimentato con delle informazioni assolutamente non vere.»

«Pettegolezzi?», ha ripetuto, ostentando sempre un visino innocente e pulito. Cosa che le riusciva in modo alquanto naturale.

«Andiamo!», ho esclamato, iniziando a perdere la pazienza, «Non dirmi che non sei stata tu a dire alle Gall- ehm, volevo dire ad Ashley, Sally e le altre, di quando Jason è venuto a trovarmi a casa!»

Una scintilla di comprensione è brillata nel suo sguardo. «Ah…ma io…»

«Lo ammetti allora!», ho detto, sinceramente stupita che ammettesse le sue colpe così presto.

Lei ha cercato di sorridere, alimentando la mia stizza.

«Beh…ma non ci vedo niente di male in questo…e poi non sono bugie, no?», ha suggerito, con pacatezza, mantenendo il sorriso incerto, «Non c’è niente di male a condividere la felicità che tu e Jason adesso avete…»

«Quale felicità?», sono sbottata violentemente.

Lei si è ritratta impercettibilmente, facendo un passo all’indietro e azzittendosi, guardandomi con occhi spalancati.

«Quale felicità?!», ho ripetuto, «Solo perché ci hai visti baciarci, ti sei sentita responsabile di divulgare a tutti la buona notizia?»

«Ma…voi state insieme, no? Non capisco perché…», ha detto lei tentando di giustificarsi. Io non l’ho lasciata continuare.

«Esatto. Tu non capisci. Non capisci niente di quello che c’è tra di noi! Credi che sia così semplice? Credevi che quel bacio significasse che stiamo insieme? Impara a crescere, Roxanne. Io non so quali libri o film sdolcinati tu abbia visto per credere che un bacio significhi un matrimonio assicurato, ma quella non è la mia vita! La mia vita è un casino talmente grande che nessuno riuscirebbe mai a riassumere, va bene?»

Lei continuava a fissarmi, stupita e senza parole.

Il mio respiro era affannato, come affannati e confusi erano anche i miei pensieri.

No, non andava bene: quello che avevo detto non era ciò che avevo in mente di dire. Stavo sviando il discorso verso altri ambiti che non avevano niente a che fare con la conversazione. Non c’era bisogno di mettere in ballo la mia vita. E soprattutto stavo perdendo seriamente la pazienza.

«Ma io volevo solo aiuta-», ha iniziato lei, prima di essere nuovamente interrotta.

«Non ricominciare col tuo istinto da crocerossina! Se vuoi aiutare qualcuno, ti consiglio di non aiutare me, va bene? E poi cosa te ne importa di quello che succede tra me e Jason?! Non rifilarmi la scusa del “siamo amiche”! Dicono tutti così…e poi alla fine non c’è nessuno a cui interessi per davvero!», ho concluso. Le mani mi tremavano di rabbia. Le ho strette in due pugni, conficcandomi le unghie nella pelle.

Stavo parlando di me, giusto? Era a me che non importava niente di nessuno.

Conosco fin troppo bene questo mondo e so anche come funziona. Chi mette i propri sentimenti in ballo finisce solo per pentirsene. Io, invece, saggiamente, ho scelto di prevenire l’inevitabile caduta che ci sarebbe stata.

Fingere di amare è semplice, ma amare davvero non lo so proprio fare. Ed è così che ho vissuto per più di 18 anni, fino ad ora.

Lei continuava a fissarmi scioccata. All’improvviso, però, il suo sguardo è mutato radicalmente.

E’ diventato in qualche modo…deciso. Le sue sopracciglia si sono incurvate all’ingiù e la sua bocca si è dischiusa per proferire queste parole: «Qualunque cosa tu possa pensare…a me importa.»

E così se n’è andata.

Non ricordo di aver passato un momento, dopo quella chiacchierata, senza rivedere gli occhi della Miller e risentire la sua voce nella mia mente.

A me importa. A me importa. A me importa. A me importa. A me importa.

Come una cantilena continuavano a ripetersi nella mia mente.

Io rispondevo che, d’altra parte, a me non importava un bel niente del suo interessamento. Non lo avevo richiesto. Non lo volevo.

Chi le aveva detto di immischiarsi nelle mie faccende? Era stata tutta colpa sua. Non sarei ritornata indietro sulle mie parole.

La sera sono uscita con Nick e nonostante lui continuasse a blaterare cose incoerenti sul nostro non-rapporto, io continuavo solo a pensare a quelle tre parole.

«Non ti fai mai sentire! Non ti importa niente di come sto senza di te!», si lamentava lui in tono melodrammatico.

Io ho rivolto gli occhi al cielo, esasperata. Possibile che tutti quanti in una sola giornata dovessero usare costantemente il verbo “importare”? Era opera di qualche congiura ai miei danni?

Fino a quando non sono entrata nel mio amato letto sono stata sensibilissima all’uso di quella parola, rimbalzando ogni volta che Nick la pronunciava e sentendo al tempo stesso nella mia mente l’eco della voce di Roxanne.

Anche il giorno seguente, cioè oggi, le cose non sono andate poi molto meglio.

Anzi, per precisare, tutto è andato per il verso giusto, fino all’ora della pausa pranzo quando, anche se contro il nostro volere, io e Roxanne ci siamo trovate sedute allo stesso tavolo.

Avevo cercato in tutti i modi di impedire alle Gallinelle di invitare Roxanne a pranzare con noi, ma loro, troppo prese dal loro entusiasmo, avevano ignorato anche le deboli proteste di Roxanne, trascinandola letteralmente a sedere.

Quando lei ha preso posto di fronte a me, improvvisamente la mia insalatina è diventata così interessante da richiedere tutta la mia attenzione.

La Miller, troppo presa dalle loro stupide e frivole chiacchiere, non si è rivolta a me nemmeno una volta. Suppongo che non l’avrebbe fatto comunque, dopo la faccenda di ieri, come del resto non l’avrei fatto io.

Una volta esauritasi l’esuberanza delle Gallinelle, però, il silenzio è piombato su tutta la tavolata.

Ho visto Rita al mio fianco muoversi a disagio sulla sedia.

«Ehm…Kate?», mi ha domandato quasi timorosa.

Io ho alzato gli occhi su di lei, incuriosita da quel tono. «E’ successo qualcosa?»

«Assolutamente no.», è stata la mia risposta lapidaria e perfettamente cortese.

Ho continuando a mangiare fissando ostinatamente il mio piatto. Pensandoci, però, mi sono resa conto che era davvero inutile insistere ad abbassare la testa in sua presenza.

Io non avevo niente da nascondere, no? Era sua la colpa.

Ero io l’unica ad aver ragione…perché evitavo il suo sguardo allora? Ne avevo paura?

No, non era quello il punto.

Così, guidata da una nuova risoluzione, ho alzato lentamente il mio sguardo, pronta ad incontrare il suo che, tuttavia, era fissato altrove.

“Bene”, ho pensato, “è lei che sta cercando di evitarmi. E’ giusto. E’ lei che dovrebbe vergognarsi, non io.”

«Ragazze, io vado a fumare», ha detto Ashley alzandosi in piedi.

«Vengo anche io! Anch’io!», si sono accodate subito Nancy e Sally, pronte a scroccare qualche altro tiro dalla sempre fornita Ashley.

Io ho storto il naso, alzandomi di malavoglia.

Rita è intervenuta. «Kate, Anne, visto che a voi non piace il fumo, che ne dite di restare qui? Noi torniamo subito!», ha riso nervosamente, correndo letteralmente dietro alle altre che si erano già allontanate in fretta.

«Ma che diavolo…?», mi sono chiesta, pensando ad alta voce.

«Credo che se ne siano accorte», ha commentato Roxanne, attirando la mia attenzione. Io l’ho guardata inorridita. Cos’era quel tono così casuale? Non stava affogando nella sua vergogna e nel senso di colpa?

Notando il mio sguardo interrogativo e stupito lei ha alzato gli occhi, in parte coperti da una frangia di capelli mogano, e ha risposto: «Devono essersi accorte che qualcosa non va tra me e te e hanno preferito andarsene.»

Adesso ero ancora più scioccata. Le Gallinelle, quattro esseri dal quoziente intellettivo molto sotto la norma, erano riuscite a cogliere l’ostilità tra me e la Miller, solo perché non c’eravamo rivolte la parola durante il pranzo? Non è che io parli molto, in ogni caso, quotidianamente quando sono con loro.

«Era palese, d’altronde», ha continuato lei, tranquillamente, «sembra che un’aura nera ti graviti intorno da stamattina.»

«Ah sì?», ho domandato, inarcando un sopracciglio.

«Sì. E posso anche immaginarne il motivo», ha risposto Roxanne.

L’ho vista togliersi gli occhiali per pulire le lenti contro la manica della sua maglietta. Non l’avevo mai vista così seria. Era arrivata finalmente la resa dei conti?

«Senti…per quello che è successo ieri, hai ragione, non mi sarei dovuta immischiare…», ha iniziato.

«Esatto, non dovevi farlo», ho precisato, stringendo i pugni sotto al tavolo.

«E’ solo che…volevo che tu e Jason foste felici», ha detto.

Io l’ho guardata ancora più stupefatta. Aveva intenzione di ricominciare con i suoi patetici ideali?

Sarei voluta intervenire, ma lei mi ha preceduta: «…e volevo ricambiare la tua gentilezza.»

«Gentilezza?», ho chiesto, dando voce ai miei pensieri.

E quando, di grazia, sono stata gentile con lei?

«Dal primo giorno in cui sono arrivata qui ho fatto amicizia con molte persone», ha spiegato, «Tutti erano così gentili che mi sono persino chiesta se non fossi atterrata su un altro pianeta», ha commentando sorridendo delicatamente.

«E non era così in Florida?», ho domandato, incapace di star zitta.

«No», ha risposto lei, abbandonando il sorriso, «Era molto diverso. Quando sono arrivata qui non mi aspettavo assolutamente l’accoglienza che ho di fatto ricevuto. Tutti volevano essere miei amici e questo mi rendeva felice…ma…»

«Ma?»

«Ma vedevo che per gli altri avermi come amica non faceva differenza. Ero solo un’altra persona da aggiungere nella rubrica del cellulare. Servivo solo per aumentare il numero, capisci?»

In qualche modo capivo cosa intendeva, ma non ho risposto.

«E invece, quando ho conosciuto te…Non so come spiegarlo. Sei sempre circondata da tante persone, ma a me è parso di vedere che non parli con tutti alla stessa maniera. Sai dividere qualcosa che è importante da quello che non lo è. Scegli attentamente le persone con cui hai a che fare. Scegli coloro che apprezzi di più e quindi, vedere che avevi scelto me come amica, mi ha fatto sentire…accettata. Ero quasi lusingata.»

Ascoltavo affascinata quelle parole. Di tutti i granchi che Roxanne aveva preso nella sua vita, questo doveva essere il più grosso.

E così io avrei scelto consensualmente di essere sua amica, perché l’apprezzavo come persona e sapevo come distinguere le cose importanti da quelle che non lo erano?

Avevo un urgente bisogno di ridere per l’assurdità della situazione.

Non avrei mai immaginato che lei mi vedesse in quest’ottica. Non avrei mai osato credere che lei vedesse il mio modo di accerchiarmi di persone popolari, come il desiderio di circondarmi di persone che stimo.

«Anche quando siamo andate alla festa e tu ti sei preoccupata di aiutarmi con il vestito e i capelli…mi ha reso enormemente felice sapere che l’avessi fatto perché mi consideravi davvero tua amica», ha detto imbarazzata, «e per questo motivo volevo ricambiare il favore.

«Ho visto che tra te e Jason c’era qualcosa, un qualcosa di incompleto ma non necessariamente incolmabile, e così ho cercato di creare l’occasione ideale per far sì che tutto diventasse perfetto. Vi ho visti felici, mentre vi stringevate, e mi sono sentita entusiasta anche io. Magari potrai pensare che sia stupido, ma assistere a scene del genere mi fa ricordare che il mondo talvolta può essere ancora un posto bello. Mi dà fiducia nel futuro.»

Un dolce sorriso spuntava dai bordi delle sue labbra. I suoi occhi blu apparivano sornioni e sereni.

La fissavo intontita, pensando sinceramente che le sue doti di attrice andassero ben oltre le mie. Se non sapessi com’è fatta davvero, ci sarei persino cascata. Ma non avevo il modo di mascherarla.

Mi aveva appena presentato la più verosimile giustificazione possibile. Come potevo iniziare ad accusarla? Magari poi avrebbe iniziato a spargere voci sulla mia maleducazione e gli altri non avrebbero potuto far altro che crederle. Per una persona comune era impossibile resistere alla sua dialettica. Aveva persino costretto me a mostrare bandiera bianca.

«Mi dispiace. Mi dispiace davvero tanto, Kate», ha concluso costernata.

Di cosa ti dispiace? Di avermi fottuto, piccola bugiarda?

«Va bene», ho risposto solamente, cercando perlomeno di mantenermi impassibile, visto che mi riusciva difficile fingere che tutto andasse bene.

Sono trascorsi alcuni secondi di silenzio assoluto.

«Posso chiederti una cosa?», ha detto lei, interrompendo quella pausa statica.

Alzare il mio sguardo su di lei è stata la mia unica risposta.

«Perché con gli altri sorridi sempre e con me lo fai molto di meno?», ha domandato a bruciapelo.

Io mi sono ritratta, rimpicciolendomi inconsciamente sulla sedia. E cos’era questo? Un interrogatorio?

Non dovrei essere io quella che fa le domande per spingerla a dimostrarsi per ciò che è veramente?

«O magari è solo una mia impressione», si è affrettata ad aggiungere, vedendo che io tardavo a replicare.

“Forza. Un piccolo sorriso che ti costerà mai!”, mi sono detta. A fatica ho incurvato gli angoli delle mie labbra.

«Sì, esatto».

Lei ne è sembrata relativamente rincuorata.

«Puoi star sicura che non mi immischierò più nei tuoi affari», ha giurato, portandosi una mano sul cuore, «Perciò restiamo ancora amiche, okay?».

Al suo sorriso incerto ho risposto con un altro sorriso.

E in quel momento mi sono sentita più falsa che mai, perché quella non era la mia vera espressione.

“Vuoi sapere perché non sorrido? Perché ormai sono stufa di farlo sempre. Perché con te abbasso la guardia e mi dimostro per ciò che sono veramente. Ecco la tua risposta, Roxanne.”

Ma questo lei non l’avrebbe saputo mai.

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Capitolo 11
*** cap 11: Le sue colpe ***


10 maggio

Eccomi tornata! Questo capitolo mi piace particolarmente per i contenuti, ma non mi convince tanto lo stile di scrittura. In ogni caso ho deciso di pubblicarlo lo stesso adesso, perché nei prossimi giorni non avrò più molto tempo a disposizione e non mi andava di tardare l’aggiornamento così tanto come l’altra volta, avendo già il capitolo pronto. Spero piaccia lo stesso, comunque! Ringrazio tantissimo balakov e pigna per le carinissime recensioni, e vi do appuntamento alla prossima! ;)

 

10 maggio

 

 

Quando cerchi di riparare qualcosa, si nota sempre la differenza tra prima e dopo il danneggiamento.

Devo ammettere di averne avuto proprio oggi la dimostrazione.

Tutto può rompersi: dagli oggetti di uso quotidiano, a ciò che crediamo indistruttibile.

Anche le persone possono essere danneggiate. All’esterno nel fisico, come all’interno nel proprio essere.

E così, sotto strati di pelle, si nascondono ferite ambigue, che a volte continuano a sanguinare per tutta una vita.

Non-stop.

Ma talvolta, a scheggiarsi o a frantumarsi definitivamente, sono proprio i rapporti tra le persone.

Questo, infatti, era proprio ciò che pensavo fosse successo tra me e Roxanne Miller, ieri mattina.

Non che prima avessimo un gran rapporto, comunque.

Dopo la nostra discussione, qualcosa sembrava essersi incrinato tra di noi. Era inevitabile, d’altronde.

Pur essendo a conoscenza dei suoi tentativi di rivolgermi la parola o di salutarmi per i corridoi, la nostra pseudo amicizia sembrava ormai giunta al capolinea.

Senza più gli impegni del comitato di accoglienza non era rimasto più niente a legarci. Pensavo che saremmo tornate ad essere delle semplici conoscenti, due persone che non hanno più niente a che fare l’una con l’altra…e invece mi sbagliavo immancabilmente.

Meglio proseguire per gradi, però, anche se è difficile tenere a bada i sentimenti contrastanti che mi pervadono in questo momento.

Il cuore accelera al solo pensiero delle sue mani. E fa male. Come una cicatrice interna, invisibile ma dolorosa al tempo stesso.

Come conseguenza delle azioni della Miller, tutta la scuola sembra oramai essersi convinta del fatto che io e Jason stiamo insieme, soprattutto il diretto interessato.

Tornato a scuola anche lui, dopo i convenzionali tre giorni di febbre, si è diretto subito verso di me e mi ha scoccato un bacio sulle labbra di slancio.

Io sono rimasta stupefatta, visto che prima d’allora lui non si era mai lasciato andare ad effusioni pubbliche. Ho sentito qualche risolino e qualche commento bisbigliato a bassa voce, nessuno dei quali sono riuscita a decifrare, ma Jason ha continuato a comportarsi come se niente fosse.

«Che stai facendo?!», gli ho chiesto, distaccandomi in un lampo dalla sua presa.

Lui ha scosso la testa, ha riso e mi ha bisbigliato all’orecchio: «Ti ci dovrai abituare. Non voglio più nascondermi.»

Ho fatto per replicare con un tono acido, quando mi sono accorta che ci stavano guardando tutti. Letteralmente tutti. Ho tentato di sorridere in modo affabile a chi conoscevo.

Non era proprio il momento di deludere le aspettative del mio pubblico, no?

«Andrai alla festa di Matt Lane?», mi ha chiesto lui qualche ora dopo, riaccompagnandomi a casa in macchina.

«Certo», ho risposto di buon grado. Dopo il fallimento del precedente sabato sera non vedevo l’ora di scatenarmi da qualche altra parte per rimediare.

«Va bene, allora!», ha sorriso lui, afferrandomi la mano destra e trattenendo il volante con l’altra, «Ti passo a prendere alle 10!»

Io l’ho guardato sinceramente perplessa. Cos’era quell’atteggiamento? Riteneva scontato che volessi andarci con lui?

Ho sempre odiato quel suo comportamento da uomo spavaldo e strafottente che non si addice per niente alla sua reale personalità.

Ma in fondo non mi comporto anch’io diversamente da come vorrei?

Sono sgusciata via dalla sua presa e l’ho ammonito: «Pensa a guidare.»

Lui ha riso per tutto il tragitto. Sembrava fin troppo allegro.

Quella sera stessa, precisamente alle 22.02 ero nella sua coupé decappottabile, mentre a ritmo di una canzone piuttosto ritmata sfrecciavamo per le vie della città.

Indossavo un vestito verde smeraldo, stretto in vita da un nastro collegato ad una pietra ovoidale applicata al tessuto appena sotto il seno. Anche se mi sentivo accaldata, avevo preferito tenere la giacca sulle spalle, onde evitare di ricadere ammalata.

Jason ha dimostrato di gradire molto il mio look.

«Stai bene anche tu», ho ricambiato dicendo la verità.

I suoi capelli a spazzola frusciavano nel vento proveniente dal finestrino e il suo sorriso non sembrava aver mai fine.

Appena arrivati dai Lane e dopo aver salutato il festeggiato e i presenti, ricordo di aver iniziato a bere molto presto. Ho subito sgraffignato una birra dal tavolo del bouffet e sono andata alla ricerca di un cavatappi. Non è stato facile trovarne uno, ma fortunatamente Jason è riuscito a rimediare all’inconveniente, utilizzando abilmente per lo scopo le chiavi della macchina.

L’ho ringraziato con un bacio sulla guancia che, anche se non me lo sarei mai aspettata, l’ha fatto arrossire. Ho ridacchiato sinceramente divertita, mandando giù a grandi sorsi la bevanda ghiacciata.

«Non saranno troppo alti i tuoi tacchi?», ha commentato dopo un po’, servendosi di qualche antipasto.

Mi sono voltata verso di lui e finalmente ho capito cosa intendeva. I nostri sguardi erano perfettamente allineati, anzi, io sembravo persino più alta di lui di due o tre centimetri.

Non sono riuscita a sopprimere un ghigno: «E se fossi tu semplicemente troppo basso?»

Lui di rimando mi ha fissata oltraggiato, ma non gli ho dato nemmeno il tempo di replicare perché l’ho subito trascinato verso l’ampio salotto che Matt Lane, o chi per lui, aveva adattato come pista da ballo.

La musica era buona, c’era alcol a volontà e mentre Jason mi stringeva i fianchi, sussurrando qualche commento ironico sui presenti al mio orecchio, ho avuto l’impressione di essere proprio nel posto giusto. Mi sentivo soddisfatta, completamente a mio agio.

Le luci colorate e intermittenti, facevano sì che tutto apparisse ai miei occhi come un filmato a rallentatore. C’erano fotogrammi in cui Jason appariva sorridente, altri in cui si guardava intorno, altri in cui gridava perché lo ascoltassi, cercando di superare il volume della musica. Poi, però, voltando lo sguardo, la luce lampeggiante ha catturato un altro fotogramma che non mi sarei mai aspettata di vedere.

Nathan, a qualche metro di distanza, mi stava guardando con un’espressione rapita.

Quando si è accorto di essere stato visto, ha alzato una mano nella mia direzione.

Jason, appoggiato con il mento sulla mia spalla, non si è accorto di niente. Quasi inconsciamente mi sono staccata di lui.

«Cosa c’è?», ha gridato, vedendo che tentavo di liberarmi da lui.

«Devo andare alla toilette!», ho urlato di rimando. Lui ha annuito e mi ha lasciato andare, dicendo: «Va bene! Ti aspetto al tavolo delle bibite!»

Non ho nemmeno risposto e sono sfrecciata fuori dal salotto-discoteca, ancora intontita dalla musica. Nathan, capendo le mie intenzioni, mi ha seguita. Ho fatto qualche altro passo, assicurandomi di essere fuori dal campo visivo di Jason, e mi sono voltata verso di lui con un sorriso.

«Ciao!», ho esclamato, salutandolo con un bacio sulla guancia, o per meglio dire all’angolo delle labbra, visto che nonostante i miei tacchi, quell’era l’altezza massima dove riuscivo ad arrivare. E’ veramente altissimo.

«Ciao», ha replicato lui con un’espressione sorniona, «Ho forse disturbato il ballo con il tuo ragazzo?»

Alla parola “ragazzo” sono sbiancata. Non bastava che a scuola tutti ci considerassero una coppia, adesso ci si metteva pure lui?!

«Non è il mio ragazzo», ho precisato in modo puntiglioso, «tu comunque che ci fai qui?»

«Sono l’amico dell’amico di un invitato», ha risposto con nonchalance.

«Quindi…un imbucato?», ho suggerito.

«Shhh! Non vorrai farmi scoprire!», ha bisbigliato lui, fingendo di guardarsi intorno spaventato.

Divertita da quella scenetta sono scoppiata a ridere, seguita a ruota da lui.

Poi però un silenzio imbarazzante è ricaduto su di noi.

«Devi tornare dal tuo non-ragazzo?», mi ha chiesto nervosamente.

Io ho mugugnato una risposta non proprio precisa. «Mmm». Ero così entusiasta di averlo rivisto che non avevo intenzione di lasciarlo andare così facilmente. Ma Jason?

Mi torcevo le mani per la frustrazione, indecisa su cosa fare. Lui con un gesto delicato, mi ha afferrato le dita portandosele alla bocca.

Mi ha baciato i polpastrelli ed un brivido mi ha percorso la schiena.

I suoi occhi smeraldini incorniciati dalle lunghe ciglia nere, erano irrequieti e bellissimi: «Ti va di venire a casa mia?»

Ricordo di aver risposto a quella domanda semplicemente raccattando le mie cose, trascinandomelo dietro in fretta.

«Kate?», mi ha chiamato la ragazza di Matt Lane, vedendomi correre verso la porta d’ingresso, «Vai già via?». Guardando poi Nathan accanto a me, ha stretto gli occhi in due fessure: «E lui chi è?»

Oh, merda! E adesso?

«Sì…mi dispiace Mary, ma devo andare! E’ successa un emergenza a casa. Lui è mio cugino che è venuto ad avvisarmi del problema, perché il mio cellulare non era raggiungibile.», ho spiegato, cercando di essere il più naturale possibile.

Mary ha assunto una faccia costernata: «Sì, sì, va bene, capisco…Spero solo non sia successo niente di grave!»

«Lo spero anche io! Saluta tanto Matt da parte mia e portagli le mie scuse!», ho continuato a mentire in modo appassionato. A quanto pare le mie uniche defaiances in campo recitativo sorgono solo quando sono con Roxanne Miller.

Una volta usciti dal cancello della villa dei Lane, sia io che Nathan abbiamo abbandonato le facce fintamente preoccupate e siamo scoppiati a ridere.

«Però! Che roba! Sei stata talmente brava che l’avresti data a bere anche a me!», ha commentato lui, conducendomi verso la sua macchina.

Io ho storto il naso. Di solito non dimostro mai così apertamente la mia attitudine di bugiarda. Questa volta, però, era necessario.

Lui, in ogni caso, dopo quel breve commento non ne ha più parlato. Abbiamo percorso in macchina un breve tratto, fino a raggiungere un quartiere che a prima vista mi è sembrato alquanto familiare. Il suo bacio, però, è arrivato prima che potessi guardarmi meglio intorno.

Mi ha condotto fino allo stipite di casa sua senza smettere di baciarmi e ha spalancato la porta con un calcio, richiudendola subito dopo alle sue spalle. Ho cercato di vedere come fosse l’appartamento, ma mi è sembrato solamente molto semplice e modesto.

«Vivi da solo?», ho chiesto con una voce rauca di piacere.

Lui mi ha risposto con un verso incoerente che ho preso per un sì.

Superata la cucina, senza lasciarmi prendere fiato, mi ha trascinata in una camera laterale, che sembrava essere proprio la sua stanza, ed ha chiuso a chiave anche quella porta.

«Perché l’hai chiusa? Non siamo già soli?», ho domandato, discostandomi un po’ da lui, accaldata e confusa.

Lui mi ha spinto contro il letto che ha risposto uno stridio di molle quando ci sono caduta sopra.

E’ subito sceso su di me, aprendomi di scatto le gambe.

«Ehi!», gli ho gridato contro, visto che mi aveva fatto male con quel movimento brusco. Lui, desideroso di ogni lembo della mia pelle, non mi ha dato nessuna risposta.

Ha morso violentemente la pelle alla base del mio collo e si è intrufolato con le mani sotto il vestito.

Non mi piaceva affatto come stavano andando le cose. Non perché non volessi arrivare , chiariamoci. E’ solo che mi sembrava tutto troppo affrettato, confuso e aggressivo. Era così diverso dalle altre volte che non lo riconoscevo quasi.

Dov’era finita tutta la sua dolcezza e delicatezza?

«Aspetta!», ho gridato, spingendo contro il suo petto per allontanarlo, ma lui mi ha zittita baciandomi e nella sua bocca ho percepito il caratteristico sapore del sangue.

Cercando di liberarmi immediatamente di lui, ho visto una goccia di sangue colare dal mio collo, pulsante e rosso. Mi aveva ferita con i morsi!

«Dannazione!», gli ho gridato contro. Non potevo permettere che nessuno mi rovinasse la pelle, rischiando di portarmi addosso delle cicatrici. Ho scalciato, cercando di allontanarlo, ma la sua presa era troppo salda e le mie proteste non sono servite a niente.

Lui ha abbassato le spalline del mio vestito, continuando a mordermi, scendendo giù fino al seno, ma senza darmi piacere. Ho continuato a protestare, senza scalfirlo minimamente. I suoi denti erano affondati nella mia carne, come un cane rabbioso che azzanna la sua preda.

Ho gridato, forte e l’ho sentito sorridere.

«Ti piace, piccola?», mi ha chiesto.

«NO!», ho urlato infuriata, dimenandomi. Il suo corpo premuto contro il mio, però, era un peso irremovibile.

Poi, all’improvviso Nathan si è distaccato e io mi sono subito alzata in piedi, coprendomi come potevo, pronta ad andarmene, non appena ne avessi avuto l’occasione. Ma lui continuava ancora a guardarmi in modo famelico e quello sguardo non prometteva niente di buono.

«Dove vuoi andare, Kate?», mi ha chiesto lui, senza staccarmi gli occhi di dosso, aprendo al tempo stesso un cassetto vicino al letto. Infilandoci la mano, ha tastato a lungo, alla ceca, quasi in cerca di qualcosa. Dopo un po’ ne ha emerso un coltello a serramanico.

Ho sgranato gli occhi, incredula. Cosa voleva fare?

Sono arretrata fino ad incontrare il muro alle mie spalle. Questa volta avevo davvero paura.

«Che c’è, sei spaventata adesso? Hai paura che rovini la tua bellissima faccia da puttana?», mi ha detto lui, mostrandomi la lucente lama dell’arma.

«Non permetto ad un pazzo psicopatico come te di chiamarmi puttana», ho sibilato con odio, cercando disperatamente qualcosa con cui difendermi. Magari avrei fatto meglio ad evitare di dargli del pazzo in una situazione del genere, ma il mio orgoglio ferito non aveva tardato a farsi sentire.

Lui ha sorriso in modo mellifluo. «Io sarò pure un pazzo, ma una persona come te, la persona che ha rovinato la mia famiglia, si può solo chiamare puttana».

Eh? Che cosa stava dicendo? «La tua famiglia?»

«Ti ricorda niente un certo Howard Harcroff?»

Howard Harcroff…Howard Harcroff

«Ah!», ho esclamato, senza nemmeno rendermene conto. Nathan ha scoperto i suoi denti in un ghigno.

«Vedo che ti ricordi, allora. Come dimenticare tutti i regali di cui ti ha colmata? Come dimenticare tutto quello che ha fatto per te?»

Incapace di resistere a quel tono beffardo, sono intervenuta con astio: «E tu cosa ne sai?!»

Nathan mi ha lanciato un’occhiata muta, scrutandomi dall’alto della sua altezza.

«Era mio padre», ha detto.

Credo di aver sentito un tonfo, in quel momento.

«Sì, esatto, non fare quella faccia. Quando l’hai conosciuto? Un anno e mezzo fa, giusto?»

Io non ho risposto niente e lui ha continuato a parlare.

«Da quando ha incontrato te, mio padre non è stato più lo stesso. Ha accumulato debiti per te, ha abbandonato persino mia madre per te ed è finito in galera per te…te ne ricordi?»

Sì, mio malgrado, lo ricordavo.

Howard era un tipo di circa cinquant’anni, un conoscente di mio padre, che si era preso una cotta per me l’anno precedente. Ero riuscita a gestirlo come un burattino per un bel po’, ma col tempo lui aveva iniziato ad esigere qualcosa di più da me.

Spaventata dalle sue minacce, l’avevo denunciato alla polizia, facendo sì che ricevesse un’ordinanza restrittiva nei miei confronti. Ma Howard non era riuscito a resistere e aveva cercato ugualmente di avvicinarsi a me.

Fortunatamente il ragazzo con cui ero in quel momento mi ha difesa e l’uomo è stato denunciato nuovamente per aggressione, finendo per un brevissimo tempo in carcere. Dopo due denunce di seguito, Howard, che un tempo era un giudice, ha perso il lavoro a causa della sua fedina penale sporca. Da allora sono stata ben grata di non ricevere più sue notizie.

«Bene, dalla tua faccia capisco che te ne ricordi bene», ha commentato Nathan, «Non credi sia giusto ricevere una punizione per le tue cattive azioni?», mi ha domandato, avanzando verso di me con il coltello in bella mostra.

«All’inizio non sapevo fossi tu. Come sono potuto cascarci? Ma eri così bella e così simpatica che non volevo crederci. E invece ecco, davanti a me la persona che ha rovinato la vita della mia famiglia!», ha continuato a blaterare.

Io l’ho fissato, in panico, domandandomi cosa potessi mai fare per impedire che mi squartasse viva.

Vedevo le goccioline di sudore accumulate sulle sue tempie, percepivo il suo respiro affannato e i suoi occhi verdi, cupi come non mai.

Tuttavia, gli mancava qualcosa di basilare: la decisione. Stava esitando troppo. Non avrebbe avuto il coraggio di farlo.

Era fin troppo simile a quello stupido di suo padre.

Ho deciso di avanzare io per prima, allora. Lui di rimando si è fermato, sorpreso di non vedermi più tremare come una foglia nel mio angolino.

Mi sono avvicinata a lui, cautamente, e passo dopo passo lo vedevo diventare più ansioso.

La mia calma lo preoccupava. In realtà, dietro il mio sguardo deciso, non riuscivo a non temere per la mia incolumità.

E se avessi fatto male i conti? Se stessi andando volutamente incontro a un pericolo certo?

Ma infondo un codardo che si finge coraggioso ed un coraggioso non sono la stessa cosa?

Quello che conta oggi giorno è l’apparenza.

Ho raggiunto Nathan, che sembrava totalmente paralizzato, ho lasciato che la mia mano scivolasse lungo il suo braccio tremante e lui di scatto ha mollato il coltello che è finito a terra con un piccolo tonfo.

«Bravo», ho sorriso lievemente.

Come previsto: tale padre, tale figlio.

Sia Nathan che Howard non sono altro che delle pecore che si fingono leoni, proprio come me, ma a differenza mia loro non sanno mentire.

E’ questo tutto ciò che serve per avere successo.

«Puoi attribuirmi tutte le colpe che vuoi», gli ho detto, «ma hai mai pensato che possa essere stato Howard l’unico responsabile?»

«N-NO! E’ stata colpa tua! Sei stata tu a ridurlo in quella maniera, dannata str-rega!», ha balbettato a fatica, incespicando tra le parole.

Piano piano, senza che lui se ne accorgesse, stavo allontanando il coltello con il mio piede.

«Io non ho fatto niente», ho risposto, senza tradire emozioni.

«Non hai fatto niente?!», mi ha gridato conto, ostentando una faccia ironica, «chissà quali sortilegi avrai usato per farlo innamorare di te!»

Non sono riuscita a non sorridere per l’assurdità della cosa: «Se c’è una cosa che è sicura è questa: tuo padre non mi amava. Lui mi desiderava, è diverso.»

Nathan mi ha restituito uno sguardo confuso. Io mi sono avvicinata più a lui. Il mio naso toccava quasi il suo mento.

Ho alzato una mano per sfiorare il suo viso, sentendolo più accaldato che mai sotto il mio tocco. Lui è diventato subito molto teso.

Ho abbassato il tono della mia voce, rendendolo soffice, suadente, irresistibile.

«E mi desideri anche tu, non è vero?»

Senza dargli il tempo di reagire, ho premuto le mie labbra sulle sue.

Nathan non si è mosso nemmeno di un millimetro, la bocca dischiusa e l’espressione stupefatta.

Continuando a baciarlo in modo soffice, ho raggiunto con le mie mani il cavallo dei suoi pantaloni, portandolo ad irrigidirsi terribilmente quando ho slacciato i jeans.

L’ho accarezzato, suscitando i suoi gemiti e inginocchiandomi di fronte a lui, sono scesa sempre più con la mia bocca, portandolo ad inarcarsi in estasi verso di me.

Era completamente alla mia mercé.

L’ho trascinato sino al massimo dell’eccitazione, finché, senza pietà e senza esitazione, l’ho morso con tutta la forza possibile.

Lui ha gridato fortissimo, accasciandosi a terra.

«Puttana! Puttana!», continuava ad imprecare, cercando di rialzarsi, ma troppo debole per farlo, mentre io disserravo la porta e correvo via da quella casa.

La paura iniziava a farsi sentire tutta in un colpo. Stavo tremando come non mai. Tutto appariva confuso alla mia vista annebbiata.

Barcollavo con urgenza sui miei tacchi a spillo che generavano un rumore sordo lungo tutta la rampa di scale.

Una volta in strada mi sono guardata attorno, cercando disperatamente un luogo dove scappare. E se Nathan fosse riuscito a raggiungermi?

Nella fretta di fuggir via, avevo dimenticato di sopra sia la borsa contenente il cellulare, sia la giacca. L’unica cosa positiva era che, onde evitare di ricevere chiamate da Jason, avevo spento il telefonino. Cosa potevo fare, però, sperduta ad un’ora imprecisata della notte, in un posto sconosciuto, senza un soldo, indossando un vestito ormai sbrindellato?

Poi all’improvviso ecco tornarmi in mente perché avevo trovato quel quartiere familiare: non c’ero già stata prima? Camminando a fatica lungo la strada delimitata da villette a schiera modeste e ordinate, ne ho immediatamente individuata una che spiccava tra le altre per il caratteristico cancello rosso.

Senza pensarci due volte, mi sono lanciata verso il campanello. L’ho suonato ininterrottamente per tre o quattro volte.

Dopo qualche secondo mi ha risposto una voce impastata: «Ma chi è?»

«Kate!», ho tentato di rispondere, trovandomi improvvisamente rauca. Schiarendomi la gola ho ripetuto: «Kate Hudson!»

Il cancello si è aperto con uno scatto e io mi ci sono fiondata dentro.

Roxanne Miller è apparsa sulla soglia di casa con un’espressione stupita ed indosso un pigiama a fiorellini di almeno due misure più grande.

«Kate?», ha domandato. Io l’ho fissata, rendendomi conto a fatica di essere realmente felice di vederla.

Ha scrutato con diffidenza il mio abbigliamento aggrinzito, il collo rosso e sanguinante, la mia faccia sconvolta ed ha aperto di più la porta, facendo sì che io potessi entrare in casa.

«Cosa ti è successo?», ha chiesto subito dopo aver serrato nuovamente l’uscio.

Io ho chiuso gli occhi, tirando un sospiro di sollievo. Ero al sicuro. Era andata bene. Non dovevo preoccuparmi.

«Posso fare una telefonata?», ho domandato, ignorandola. Avevo bisogno di un taxi per tornare a casa.

Lei si è imbronciata, impuntandosi. «No. Non puoi farlo finché non mi spieghi che t’è successo.»

Riflettendoci, ho pensato che se proprio dovevo tornare a casa in quelle condizioni, potevo per lo meno darmi una risistemata.

«Posso usare il bagno, almeno?»

Lei ha ceduto con uno sbuffo: «Va bene».

Mi ha indicato la porta dei servizi igienici ed io ho cercato immediatamente il mio sguardo nello specchio…

Che disastro! Sembravo una sciattona!

Mi sono tirata la faccia, rivolgendo al mio riflesso delle smorfie strane, quasi volessi rimettere a posto il trucco disfatto con il solo pensiero, quando Roxanne è entrata improvvisamente in bagno.

Vedendomi fare quelle facce buffe ha ridacchiato ed io ho soffocato un grugnito di irritazione.

In mano aveva una boccetta verde, dell’ovatta ed un cerotto.

«E’ per disinfettare il tuo collo», ha risposto alla mia occhiata interrogativa.

Io ho annuito, brevemente, sedendomi sul bordo della vasca da bagno e lasciando fare a lei il lavoro.

«Come ti sei fatta questo taglio?», ha domandato.

«E’ stata la mia gatta», ho risposto immediatamente, reclinando il collo all’indietro per renderle più facile il compito.

«Anche io avevo…cioè ho un gatto, in Florida, ma il mio non è capace di dar morsi in questa maniera», ha replicato lei, lanciandomi un’occhiata obliqua.

Colpita ed affondata.

«Beh, la mia Susie ne è capace», ho insistito.

Lei mi ha risposto con una smorfia poco convinta ed ha iniziato a tamponare la mia ferita con un batuffolo di ovatta imbevuta di disinfettante.

Bruciava e così ho stretto gli occhi, senza lamentarmi.

Li ho riaperti, quando ho iniziato a sentire un po’ di frescura, mentre Roxanne ripuliva le tracce di sangue colato.

Ho guardato la sua espressione concentrata, i lunghissimi capelli ondulati che ricadevano distrattamente sulle spalle. La frangetta diventata un po’ troppo lunga che le oscurava in parte gli occhi.

«Sono stata molestata», ho buttato lì, come se niente fosse.

Lei ha sgranato gli occhi, incredula.

Io d’altra parte ero ancora più scioccata. Perché diavolo gliel’avevo detto?!

A questo non ho trovato ancora una risposta.

«Scherzo», ho mentito, sghignazzando, vedendola ansimare quasi in preda ad un infarto.

«Non dovresti scherzare su cose del genere», mi ha ammonito con un sospiro, visibilmente rincuorata, asciugando le tracce di disinfettante ancora umide sulla pelle. Poi ha applicato il cerotto, coprendo interamente la ferita.

Io ho sfiorato la parte lesionata, quasi inconsciamente.

«Non toccare», è arrivato repentino il suo rimprovero.

Avrei voluto, avrei dovuto ringraziarla, ma non l’ho fatto.

E’ ritornata in cucina e io quasi automaticamente l’ho seguita. Vedendo fogli sparsi per tutto il tavolo le ho chiesto: «Cosa stavi facendo?»

«Stavo finendo la mia relazione di chimica», ha risposto. Ho soffocato a stento una risata.

Aveva intenzione di passare il sabato notte a scrivere una relazione di chimica?!

Notando il mio sorriso malcelato, lei mi ha chiesto incuriosita: «Cosa c’è?»

«Niente», ho detto, cercando di essere convincente.

Un improvviso silenzio è caduto su di noi. Io mi sono seduta, mentre lei è tornata prendere in mano i suoi fogli, iniziando a rimetterli a posto in una cartellina.

Il fatto che fosse così silenziosa mi metteva a disagio.

«Guarda che scherzavo sul serio», ho insistito, intuendo che se la fosse presa per la mia battuta precedente.

«Di cosa parli?», ha chiesto, come se niente fosse.

«Lascia perdere», ho detto agitando una mano, «Allora posso usare il telefono adesso?»

«Fa’ pure», mi ha concesso, indicandomi un cordless posizionato accanto ai fornelli.

Ho composto un numero famigliare e ho dato l’indirizzo che Roxanne mi aveva prontamente annotato su un foglietto. Il taxi sarebbe arrivato entro pochi minuti.

«Tieni», ha detto lei, porgendomi un giacchino grigio, spuntato apparentemente dal nulla.

«Sarebbe meglio se ti coprissi un po’», ha suggerito.

Ho abbassato lo sguardo verso la mia audace scollatura arrossata e ho dovuto darle ragione.

Fortunatamente il tessuto della giacca nascondeva anche il cerotto. Almeno non avrei dovuto sorbirmi le occhiate interrogative dell’autista.

Un momento. Ma non ero a corto di soldi? Come avrei potuto pagarlo?

«Ehm…», ho mormorato trovando la situazione parecchio imbarazzante, «Io…la mia borsa…vedi l’ho persa e…dentro c’erano anche i miei soldi.»

«E’ stata sempre colpa della tua gatta?», ha risposto lei con un accento ironico.

Ma voleva prendermi in giro? «No, li ho persi e basta.», ho tagliato corto.

Mi ha dato 10 dollari.

«Bastano?»

Per questa volta il tassista non avrebbe avuto la sua mancia. «Sì. Te li restituirò appena posso»,

«Mhm», ha mugugnato lei in un cenno di assenso.

Mi ha accompagnato alla porta, torcendosi le mani.

Ancora silenzio. Chissà perché adesso non riuscivo proprio a tollerarlo.

«Sai…», ho iniziato e i suoi occhi sono sfrecciati subito verso di me.
Le ho restituito l’occhiata per un momento.

Il suo sguardo innocente ed ignaro, la sua bocca lievemente imbronciata, quel patetico pigiama a fiorellini…tutto di lei mi ricordava una bambina.

Non sarebbe successo niente se avessi rivelato i miei pensieri ad una bambina, no? Probabilmente non li avrebbe nemmeno capiti.

«Sai…i suoi occhi erano bellissimi. Ma mi facevano paura. Lui sapeva troppo di me…del mio passato. Ho avuto davvero paura», ho confessato, quasi timorosa.

Ogni fibra del mio essere gridava contro di me. Che cosa stavo facendo?! Perché proprio lei? E se avesse riferito quella conversazione a qualcun altro?

La bambina mi ha fissata con le sue iridi zaffiro.

«Anche i suoi occhi erano bellissimi», ha detto dopo un minuto di pausa, voltandomi le spalle, «Ma mi facevano paura, perché avevano un completo controllo su di me.»

Contro ogni mia aspettativa, la bambina aveva capito.

Totalmente scioccata, ho cercato di chiederle qualcosa. Cosa voleva dire? Chi era la persona a cui si riferiva? La curiosità mi stava lacerando…dovevo sapere.

Ad interrompermi, però, è giunto il suono di un claxon, al di là della porta.

Era il mio taxi.

Maledicendo mentalmente il pessimo tempismo dell’autista, ho afferrato la maniglia della porta, non prima di girarmi e bisbigliare un soffocato: «Grazie».

Lei è sembrata stupita dai miei ringraziamenti, ma non ha risposto nulla, limitandosi a guardarmi andare via.

Avrei potuto sorridere e reagire in modo più naturale, ma non l’ho fatto.

Non ci ero riuscita.

Era come se in quella stanza avessi avvertito una tensione inesprimibile a parole, come se tutta la malinconia esistente al mondo fosse concentrata nell’aria.

Sembrava quasi di assistere alla trasfigurazione di un dolore cruento, sordo, asfissiante.

 

Il mio o il suo?

 

 

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Capitolo 12
*** cap 12: Legame ***


Mi scuso per l’enorme ritardo ç__ç, non è che non ho avuto tempo per aggiornare, è solo che non sono riuscita a sfruttare bene il tempo che mi era concesso

Mi scuso per l’enorme ritardo ç__ç, non è che non ho avuto tempo per aggiornare, è solo che non sono riuscita a sfruttare bene il tempo che mi era concesso. Meglio tardi che mai, però!

Questo capitolo doveva essere un mini capitolo, ma devo essermi scordata che quando inizio a scrivere tutto ciò che pianifico all’inizio non è mai uguale alla fine e così mi sono lasciata andare ai miei sproloqui, o meglio agli sproloqui di Kate. Mi scuso con Giù, perché questo non è il capitolo che tanto aspettavi, ma sarà il prossimo. Prossimo capitolo con cui arriveremo al sodo di un bel po’ di cose…ma non spoilero niente XD.

Vi auguro, anche se con un po’ di ritardo, di trascorrere delle buone feste e ringrazio tutti quelli che hanno aggiunto questa storia tra i preferiti, perché dall’ultima volta sono aumentati e ciò mi ha reso molto contenta ^__^! Ovviamente un altro caloroso grazie va anche a Pigna e Balakov per le recensioni che mi hanno lasciato.
Enjoy!

 

***

 

 

 

Chiuse gli occhi, tirando un lungo sospiro. Sembrava che non avesse fatto altro che trattenere il fiato per tutto il tempo. Le sue mani esitarono, tremando appena, timorose di continuare a scoprire i segreti rinchiusi lì dentro.

 

“Devo andare avanti”, si disse. E così continuò a leggere.

 

11 maggio

 

Ho passato davvero una notte orribile.

Rigirandomi costantemente nel letto, ho continuato per tutto il tempo a sentire i suoi insulti, le sue urla e a vedere il luccichio del coltello sotto la fioca luce del comodino.

I suoi morsi ancora graffiavano la mia anima, passando attraverso le coperte sotto cui ero rannicchiata.

«Puttana, puttana!»

Ho premuto le mie mani contro le orecchie, tanto forte da tapparle. Eppure quel lamento non andava via.

Con orrore ho notato che la voce che mi stava tormentando aveva cambiato improvvisamente timbro: non era più quella di Nathan, ma di suo padre, Howard.

Sentivo le sue suppliche, le sue promesse di amore e poi…la mia risata soddisfatta.

Cupa, cupa più di ogni altra cosa.

Ero stata contenta quando i poliziotti lo avevano allontanato da me. Avevo riso, guardandolo dimenarsi tra le mani degli sbirri.

«Crepa, brutto bastardo», gli avevo augurato, ridendo ancora, i miei occhi fissi nei suoi. Le immagini scorrevano vivide attraverso i miei occhi serrati.

In quel momento avevo goduto della sua disfatta, adesso, però, provavo solo disgusto.

Ho soffocato un gemito di dolore contro il cuscino e poi anche quel ricordo è andato via.

«Devi scegliere me…perché…io posso amarti più di qualsiasi altro uomo sulla terra», si è intromesso Jason, guardandomi con due occhi chiari, pungenti e sinceri.

Io ho continuato a ridere, incurante di quelle parole e del loro significato, in maniera scomposta e crudele.

Poi silenzio. Jason non c’era più, e nemmeno Nathan e Howard.

Sembrava tutto finito, quando all’improvviso Roxanne Miller si è accostata al mio orecchio, del tutto tangibile e reale, bisbigliando: «Anche i suoi occhi erano bellissimi».

Ho spalancato di scatto gli occhi, trovandomi faccia a faccia con il soffitto immacolato della mia camera da letto.

Affannata e tremante mi sono guardata intorno, nella ricerca spasmodica dei proprietari di quelle voci. Ma non c’era nessuno. Era stato tutto solo un sogno.

Nascondendo il volto tra i palmi, mi sono lasciata andare ad un sospiro di sollievo. Non era successo niente. Non c’era motivo per cui preoccuparsi.

Sì, certo, facile a dirsi, ma difficile a farsi.

Tastando alla ceca sul comodino in cerca della sveglia, a fatica ho letto l’orario sul quadrante: le 06.03 a.m.

Diamine, possibile che di domenica, e per giunta dopo una nottata burrascosa come la precedente, io debba svegliarmi così dannatamente presto?!

Mi sono gettata nuovamente nel letto, aspettando che il sogno ripiombasse su di me.

Attesa totalmente inutile.

Una parte di me desiderava dormire, ma l’altra aveva paura di farlo a causa di quel sogno inquietante.

Esasperata da quella lotta interna, ho deciso di alzarmi dopo venti minuti.

Discostando le pesanti tende che offuscavano le finestre, ho dato un’occhiata oltre il vetro.

Le strade non erano totalmente deserte, ma nemmeno affollate. C’era persino qualcuno che stava ancora rincasando dopo un sabato sera di fuoco.

Anche io avrei potuto fare la stessa cosa…ma ho finito inevitabilmente per sconvolgere tutti i piani.

Ora che ci penso…chissà cos’è successo alla festa, dopo che sono andata via. Chissà se Jason si è preoccupato per me, sentendo da Mary che ero andata via per un imprevisto famigliare.

E chissà se lui mi ha cercata…cosa che non potrò mai sapere visto che il mio cellulare è ormai perso per sempre tra le mura dell’appartamento di Nathan. E, naturalmente, io non ho alcuna intenzione di andare a recuperarlo.

«Fanculo, fanculo, fanculo. »

Imprecando maledizioni a bassa voce sono scesa in cucina come una furia. Mi sono guardata intorno, in cerca della colazione, ma la tavola era completamente vuota, segno che Marissa non era ancora arrivata.

«Non c’è mai quando serve! Mai!», ho gridato allora alla cucina silenziosa che mi ha risposto con un’indifferenza totale.

Puntando i piedi e camminando con passo pesante, sono tornata di sopra, curandomi di far più rumore possibile. Non trovavo giusto che gli altri avessero la possibilità di dormire, quando a me era stata negata.

Ho afferrato il cordless e ho digitato uno dei pochi numeri che ricordavo a memoria, avendo perso col mio cellulare anche tutti i contatti telefonici dei miei conoscenti.

Ho atteso in linea a lungo, sbuffando spazientita da tutti quelli squilli che si succedevano, finché dall’altro capo non mi ha risposto a stento una voce alquanto profonda e baritonale.

«Ashley?», ho chiesto titubante, prima ancora che rispondesse, sperando di non aver sbagliato numero.

«S-sono io», ha grugnito a stento in risposta, «…Chi parla?».

Nonostante il tono grave e indubbiamente assonnato, si trattava proprio di una delle Gallinelle, razza nata dall’incrocio tra l’uomo e il pollo, dalle scarsissime capacità cognitive e dalle corde vocali solitamente acute.

«Sono Kate, Kate Hudson. Senti, Ash, tesoro», ho usato un tono affettuoso per addolcirla, «hai il numero di cellulare di Roxanne Miller?»

«…Sì», mi ha risposto, cercando di schiarirsi la voce.

«…»

«…»

Vedendo che la sua risposta tardava ad arrivare, ho deciso di arrivare subito al sodo: «Potresti darmelo? Purtroppo ieri sera ho perso il mio cellulare e tutti i numeri in rubrica.», mi sono lagnata con fare melodrammatico.

«…D…darti…cosa?», ha chiesto incerta Ashley.

«Il numero!», ho esclamato, iniziando a spazientirmi.

«…Di…chi?»

Stavo perdendo davvero la pazienza. Non bastava non aver chiuso occhio per tutta la notte? Adesso dovevo pure aver a che fare con una Gallinella mezza addormentata, ancora più sciocca del normale?

«Ashley…Potresti-darmi-il-numero-di-Roxanne-Miller, per favore?!», ho ringhiato quasi, scandendo per bene ogni parola.

«Uhm…sì…un attimo.»

Dopo un piccolo click, ho sentito dall’altra parte della cornetta un gran trambusto, come se un’intera pila di scatoloni fosse stata rovesciata.

Cinque minuti dopo, Ashley era di nuovo in linea.

«E’ questo», e mi ha dettato con una lentezza esasperante il numero. Gliel’ho fatto ripetere altre due volte per essere sicura di averlo scritto bene. Mano a mano che la usava, la sua voce sembrava essere ritornata alla normalità. Buon per lei.

Chiudendo la conversazione con Ashley e permettendole di tornare a dormire, ho digitato le cifre che componevano il numero della Miller. Era piuttosto semplice da ricordare, in quanto ripeteva più volte il numero 27.

Ho atteso, sbuffando, che rispondesse. Poi è successa una cosa strana: la comunicazione si è aperta, ma dalla cornetta si udivano solo dei versi non definiti.

«Pronto? Pronto?», ho domandato.

Nessuno mi ha risposto.

Ho chiuso la chiamata e ho digitato nuovamente il numero. Dopo una decina di squilli, la ragazza in questione si è decisa a rispondermi.

«Mhm…pronto?», è emersa una voce strascicata dalla cornetta.

Insomma, possibile che alle 6 e mezza di mattina tutti fossero così assonnati?! Perché dovevo essere l’unica che non riusciva a dormire?

«Ehi, sono Kate!», ho risposto, in modo squillante.

Ero convinta che a furia di gridarle nell’orecchio, l’avrei fatta svegliare per bene.

«…Kate?», ha ripetuto, apparentemente incapace di afferrare il concetto, o meglio, la persona.

Mi sono chiesta seriamente se Roxanne fosse affetta dalla stessa deficienza mattutina delle Gallinelle.

«Sì, Kate Hudson», ho specificato, mantenendo un tono di voce piuttosto alto.

«Oh…», ha mormorato lei, «Hai…hai bisogno di qualcosa?»

Ho sbuffato, irritata dalla sua perenne farsa di ragazza premurosa. Possibile che continuasse a fingersi eternamente disponibile anche da addormentata?

«No, non proprio. Ho pensato una cosa, visto che ti devo 10 dollari per il taxi di ieri, cioè di stanotte…che ne dici se ti offro qualcosa al “La Mûre?», ho proposto.

«”La Mûre

La sua incertezza dimostrava che non conoscesse il posto.

«E’ un bar al centro della città. Sulla cinquantatreesima strada.»

«Oh…sì, allora so come arrivarci.», mi ha risposto.

«Sicura?»

«Certo.»

«Bene, perfetto. Ci vediamo lì tra mezz’ora. Ah, e mi raccomando, non presentarti con una felpa. Abbigliamento sportivo rigorosamente vietato», mi sono raccomandata.

«Cos…E perché mai?», dal suo tono si capiva chiaramente che era esattamente quello che aveva intenzione di indossare.

«Lo vedrai.», ho replicato, conservando una traccia di mistero nella voce, senza riuscire a non sorridere.

Mi sono gettata totalmente nel mio mega armadio per un’infinità di tempo, giusto per emergerne con un paio di pantaloni bianchi e una maglia di seta beige, dalle decorazioni orientali e le maniche a campana.

Una volta vestita, ho rivolto lo sguardo verso il mio riflesso nello specchio ed ho visto il cerotto che copriva la ferita dovuta ai morsi di Nathan.

Ho cercato di toccare la zona lesionata, ma qualcosa mi ha impedito di farlo. Non era più solo un morso. Non era più solo un cerotto. Non era più solo un dolore fisico.

Rovistando in un cassetto, un foulard dalle stesse tonalità della mia maglia mi è capitato in mano. L’ho annodato attorno alla gola, celando la ferita alla base del collo.

Mi sono illusa che se fosse stato invisibile, l’avrei potuto ignorare.

Con una borsa griffata in mano e un paio di lenti scure a coprire i miei occhi, ho lasciato la casa che stava ancora per svegliarsi.

Ho azionato i meccanismi automatici per aprire il cancello e ho aspettato che si spalancasse totalmente prima di mettere piede fuori dal perimetro del giardino. Quando i cancelli si sono spalancati, ho notato un pacchetto accuratamente posizionato sull’asfalto antecedente alla mia villa.

Mi sono inginocchiata, senza toccar terra, e ho preso in mano quello strano involto marrone. Sopra vi era scritto: “Per Miss Kate Hudson”, a stampatello.

La scoperta mi ha lasciata leggermente sorpresa: non capivo perché mai quel pacco non fosse insieme al resto della posta, ma lasciato in mezzo alla strada. Incapace di trattenermi, l’ho aperto con furia e curiosità, facendo a pezzetti tutta la carta marrone in cui il contenuto era avvolto.

Dall’interno è apparsa una pochette smeraldo, contenente un cellulare e qualche altro documento.

Senza nemmeno volerlo, la mia pochette mi è scivolata via dalle mani, cadendo sulla ghiaia e impolverandosi inevitabilmente.

Avevo capito quello che significava: era un segno del passaggio di Nathan.

Mi sono guardata intorno nervosamente, ma tutto il quartiere residenziale, continuava a riposare tranquillo. Lui se n’era andato, non c’era alcun dubbio.

Quel pensiero non è servito a calmarmi, però.

Le mie mani tremavano, e i miei capelli si agitavano freneticamente nella brezza mattutina.

Risollevandomi, ho ripreso in mano la pochette smeraldo, infilandola assieme al cellulare nella borsa, senza pensarci due volte.

Ho deglutito con decisione, ricacciando in gola ogni esitazione.

Nonostante il passo malfermo, e le pupille inquiete e dilatate nascoste dalla grossa montatura degli occhiali, mi sono diretta verso il bar dove avevo appuntamento con Roxanne, gettando quello che restava della carta marrone in un bidone della spazzatura.

Fredda, automatica, implacabile. Dovevo agire in questa maniera, dimostrarmi coraggiosa e sfacciata, sebbene non riuscissi a fermare le mie membra tremanti.

Il messaggio di Nathan è arrivato a destinazione, forte e chiaro.

E tutto ciò non poteva che significare solo una cosa: non è finita qui. Scappare da lui non era servito a niente. Avrebbe sempre saputo come ritrovarmi.

Cosa avrebbe fatto allora, adesso? Mi avrebbe puntato contro un coltello da cucina, al posto del vecchio coltellino a serramanico?

Ho riso, senza volerlo. Era la stessa risata crudele del mio sogno, sebbene questa volta non si trattasse solo del frutto della mia immaginazione.

Magari dovrei munirmi anche io di qualche arma. Oppure portare sempre con me una fiala di cianuro nella borsetta. Sì, questa è senz’altro una soluzione più pratica.

Mhm, vediamo un po’ “avvelenamento”…Fa’ tanto donna ottocentesca, no?

Ho continuato a ridere per le strade deserte, distraendomi con i miei ironici pensieri. Peccato che questi non siano serviti completamente allo scopo. La paura si era avvinghiata alle mie braccia, alle mie gambe, al mio petto, rendendomi instabile e vulnerabile.

Non riesco mai a fingere con poco più di tre ore di sonno, i nervi a fior di pelle e la sensazione di essere costantemente osservata, mai così viva come in quell’istante.

Mi sono voltata ancora una volta e ancora una volta il nulla più assoluto ha incontrato i miei occhi.

Stavo iniziando a diventare paranoica.

Il ticchettio delle scarpe sull’asfalto si è fatto più frenetico, ho inforcato meglio gli occhiali e ho fatto scivolare la borsetta nell’incavo del gomito, mantenendola alta e ben in vista. In realtà non mi interessava che gli altri vedessero meglio la L e la V impresse sul tessuto, piuttosto l’ho fatto per dare un contegno maggiore a me stessa.

Non che agli uomini d’affari, che sono praticamente gli unici esseri viventi ad affrontare le strade del centro a quest’ora, importi la marca della mia borsa, comunque.

Arrivata al “La Mûre, mi sono guardata intorno, cercando di vedere se Roxanne mi avesse preceduta. Tuttavia, ero stata la prima ad arrivare.

Sbuffando, ho preso posto in uno dei tavolini situati all’esterno sotto un delizioso porticato in vimini.

Tutto, dai raccogli tovagliolini ai divanetti in pelle rossa del cafè, ispirava lusso e raffinatezza.

Ero consapevole che anche ordinare un semplice espressino mi sarebbe costato all’incirca il triplo della somma che la Miller mi aveva prestato per il taxi. Lo sapevo benissimo, e proprio per questo volevo farglielo presente. Volevo che le fosse chiaro che quando una come me ripaga un debito lo fa sempre alla grande.

Una delle cameriere del bar, che spesso mi vede seduta tra questi tavoli, mi si è avvicinata, pronta a prendere le ordinazioni.

«Ordinerò quando mi raggiungerà la persona che sto aspettando», ho risposto, invitandola cortesemente ad andarsene. Proprio in quel momento mi sono resa conto di quanto mi fosse difficile sorridere. Sembrava quasi che tutti i muscoli del mio viso fossero paralizzati dalla tensione. Stavo anche digrignando i denti, senza volerlo. Come un cane rabbioso, ferito e al tempo stesso intimorito dalla sua stessa furia.

“Devo star calma”, mi sono detta, “Prendi un bel respiro e non ci pensare. Se Nathan dovesse anche solo avvicinarsi di nuovo a me, gli farò pentire di essere nato”.

La spietatezza di quelle parole, per quanto contrastasse con i miei propositi di restare calma, era un’assuefazione rassicurante.

Avrei pensato a cosa fare a momento debito, non c’era bisogno di torturarsi anzitempo.

Ho guardato nuovamente il quadrante del mio orologio, incorniciato da brillanti e oro bianco, leggermente irritata.

“Ma dove diavolo è andata a finire, la signorina ‘hai-bisogno-del-mio-aiuto?’. Anche lei non c’è mai quando serve!”

Proprio a smentire le mie parole, allora, ho intravisto una fluttuante chioma mogano ondulata, emergere da tutta la folla.

Senza nemmeno farci caso, mi sono immediatamente raddrizzata sulla sedia, sistemandomi gli occhiali e le punte dei capelli.

Roxanne si è fatta strada tra un folto gruppo di uomini vestiti elegantemente, che portavano in mano una ventiquattrore ciascuno.

Quando i miei occhi hanno incontrato il suo viso, però, quelli sono scomparsi. Non esisteva nient’altro che lei. Sembrava quasi che emergesse da un paesaggio pianeggiante. L’unica cosa vera e reale in un mondo immaginario e confuso. Mi ha lasciata letteralmente senza parole.

Proprio per questo, quando lei si è seduta al mio stesso tavolino, gli occhi cerchiati da occhiaie malcelate e un sorriso sornione, mezzo addormentato sulle labbra, non sono riuscita a bofonchiare nemmeno un «Ciao».

Per fortuna, gli occhiali da sole coprivano efficacemente la mia espressione stupefatta.

«Buon giorno», ha detto lei con un tono rauco, ma piacevole da ascoltare. Quasi inconsciamente mi sono resa conto di aver già sentito quel tono di voce: poco più una settimana prima, quando al mio risveglio avevo scoperto una dormiente Roxanne Miller comodamente avvinghiata a me nel mio letto.

Proprio come quella mattina post-sbronza, la sua chioma bruna era sciolta sulla sua schiena, tenuta all’indietro solo da una sobrissima frontiera bianca.

Sforzandomi di richiudere la bocca, ho cercato di articolare qualche frase di senso compiuto. E’ stato facile perché anche la precedente paralisi facciale sembrava essersene andata. Il mio nervosismo era come sparito magicamente, rimpiazzato dalla sorpresa.

«Ah…Buon giorno», ho replicato, stupefatta di non sentirmi vacillare e di non sentire più i miei denti sbattere come prima.

«Credo di aver capito perché non volevi che indossassi una felpa», ha mormorato lei, guardandosi intorno con occhi spalancati.

La raffinatezza del locale doveva averla colpita sicuramente. Sapevo per certo che non aveva mai fatto colazione in un posto del genere.

«E io invece sono stupita di vedere che hai seguito il mio consiglio», ho commentato, adocchiando lo scaldacuore bianco che le fasciava il busto.

Sembrava andarle un po’ largo, però.

«E’ di Madison», ha specificato lei, facendo una piccola smorfia, in risposta alla mia occhiata perplessa, «E lei porta due taglie in più a me di reggiseno», ha terminato con tono costernato.

Io sono scoppiata a ridere. Una risata cristallina e non più cupa. Una risata senza costrizioni. Una risata così semplice e pulita che non avrei mai pensato potesse uscire dalle mie labbra.

«Sei uguale a Madison. Ogni volta che mi lamento di questo fatto lei se la ride perché non è un problema che la riguarda», ha commentato lei, imbronciandosi. Riuscivo ancora a percepire il tono scherzoso nella sua voce, però.

L’ho beccata a fissarmi il seno con un’occhiata di invidia.

«Mi spiace. Non sono in vendita», ho affermato con un sorrisetto compiaciuto, incrociando le braccia sul petto.

«E se fossero state in vendita mi sarebbero costate un occhio della testa», ha riso lei, trascinando inevitabilmente anche me.

«Vedo che afferri il concetto.»

«Woah. In quella foto c’è Julia Roberts…ed è pure autografata!», ha esclamato guardando alcune foto sulla parete che ritraevano personaggi famosi, regolari frequentatori del bar.

Quando la cameriera si è avvicinata a chiedere le nostre ordinazioni, devo ammettere che mi stavo quasi divertendo.

«Un Thè-lumiere», ho detto, senza nemmeno guardare la brochure del menu.

Roxanne, invece, sembrava essere alquanto in panico. I suoi occhi sfrecciavano da una parte all’altra del menu, e le sue mani giravano vorticosamente le pagine, senza giungere ad una soluzione.

La cameriera, che indossava un paio di occhiali da vista dalla montatura piuttosto antiquata, ha sollecitato più volte Roxanne perché si decidesse una volta per tutte.

«Mhm, mhm», mi sono schiarita la voce, decisamente irritata, «Hai bisogno di aiuto?».

Roxanne è emersa a fatica dalla brochure e si è rivolta con una voce piccola piccola alla cameriera: «P-prendo la stessa cosa che ha ordinato la mia amica.»

«E anche due fette di Gatille», ho aggiunto prima che la signorina se ne andasse.

Quando la cameriera è andata a recuperare le nostre ordinazioni, ho sentito Roxanne tirare un profondo sospiro di sollievo.

«Sarebbe un menu, questo?», ha bisbigliato, indicando la copertina lucida dell’opuscolo.

Io l’ho guardata in modo perplesso: «Sì, perché?»

«Io la definirei piuttosto una lista di nomi iperbolici senza senso», ha bisbigliato lei, il più silenziosamente possibile, ma è sussultata lo stesso, quando la cameriera è apparsa alle sue spalle, reggendo su di un vassoio due bicchieri e due piattini.

Io ho cercato di contenere le mie risate, fino ad arrivare quasi a soffocarmi.

La cameriera è andata via nuovamente e Roxanne è tornata a respirare. L’ho vista avvicinarsi cautamente alla sua bevanda, quasi ne temesse il contenuto.

Per incoraggiarla, ho alzato il mio bicchiere, proponendo un brindisi. Lei ha toccato il mio calice con il suo, facendo tintinnare i due vetri. Senza più esitazioni, ne ha bevuto rapidamente il contenuto.

«Allora?»

L’ho vista storcere il naso prima di rispondermi: «Ma è un semplice tè alla pesca!»

La cameriera che era ancora nei paraggi le ha rifilato un’occhiata maligna e Roxanne si è resa conto di aver parlato fin troppo ad alta voce.

«Non esattamente», ho spiegato io tra le risate, «E’ un tè verde biologico alla pesca, aromatizzato con della cannella e del ginseng. E sai, ha anche proprietà terapeutiche e calmanti.»

Lei ne ha mandato giù un altro sorso, prima di rispondere: «E’ perché hai bisogno di calmarti, allora, che ti sei alzata così presto stamattina, svegliando sfortunatamente anche me?»

Il suo tono di voce non era di biasimo; piuttosto direi ironico. Sapevo benissimo che non intendeva in alcun modo attaccarmi, ma quell’affermazione mi ha comunque spinta ad alzare la guardia.

«Non ho alcuna ragione per essere agitata. Sono calmissima», ho affermato ostentando indifferenza. Malgrado le mie parole, il mio corpo stava di nuovo accumulando tensione.

Lei ha alzato un sopracciglio, ma ha preferito tacere.

Sono trascorsi alcuni secondi di silenzio.

«A proposito di ieri sera…», ha iniziato Roxanne.

Io mi sono irrigidita visibilmente.

«…Come va’ il morso della tua gatta?», ha terminato, concentrandosi sulla torta ed evitando il mio sguardo.

Senza nemmeno volerlo ho toccato il punto lesionato da sopra al foulard. «Benissimo», ho risposto, «Susie è una vera peste, perciò ormai sono abituata a questo tipo di cose.»

«Mhm», ha mugugnato, fingendosi sempre impegnata con il gateau.

La sua voracità per i dolci sembrava stranamente assente. Rigirava la torta con la forchetta, mangiandone solo dei piccoli bocconi.

Avendola già terminata, mi sentivo un po’ a disagio a vederla così. «Non ti piace?», ho domandato.

Lei ha scosso la testa, in segno di diniego: «No affatto, è deliziosa!»

«E’ solo una torta ai mirtilli», ho spiegato. Lei si è guardata intorno a disagio, presumibilmente per accertarsi che la puntigliosa cameriera non fosse presente.

Io sono tornata a ridere: «Il nome intero è Gateau-au-myrtille, in breve Gatille. Ha un certo fascino, no?»

Lei ha increspato le labbra all’insù: «Per i patiti del francese immagino di sì».

«Anche il nome stesso del locale presumo voglia essere un patetico gioco di parole. La Mûre, che in francese vuol dire “la mora”, si pronuncia quasi come “L’amour”, che vuol dire “L’amore”.»

A quel punto siamo scoppiate a ridere entrambe, attirando l’attenzione dell’occhialuta cameriera di cui Roxanne sembrava ormai terrorizzata.

Dieci minuti dopo eravamo fuori dal bar. Le strade sembravano essersi più affollate. Erano ormai le otto, d’altronde.

«Grazie per la colazione», ha detto Roxanne, giocherellando con la sua borsetta a tracolla. Senza volerlo mi sono resa conto che portare con sé uno zainetto rientrava più nel suo stile.

«Ti dovevo un favore», ho replicato io, scrollando le spalle. «Oh, a proposito! Ecco a te», ho detto prendendo dalla mia borsa la giacca grigia che mi aveva prestato la sera precedente.

Lei se l’è messa sotto braccio e mi ha lanciato un’occhiata obliqua: «Non era un favore che doveva essere ripagato per forza.»

«Ma tu mi hai-»

«No», ha insistito, «Io voglio dire che…Se hai bisogno di qualsiasi cosa io ci sono. Questo non è un favore che si ripaga. Fa parte dell’essere amiche, no?»

L’ho fissata titubante, costringendomi a non ridere e a gridarle in faccia di lasciar perdere la farsa della signorina generosa ed altruista. Io non ho bisogno della sua elemosina, né dei suoi favori. Non ho bisogno di niente che lei possa darmi.

«Magari potrò sembrarti sfacciata nel dirti questo…ma il tuo atteggiamento noncurante, mi preoccupa.», ha concluso, guardandomi dritta in faccia, con quelle pupille blu, talmente scure da apparire nere da lontano.

«Atteggiamento noncurante?»

«Sì. Voglio dire…è evidente che tu tenga molto ai tuoi vestiti, ai tuoi accessori, al tuo make-up…ma non tieni a te stessa. Non tieni a te stessa abbastanza da impedire le condizioni in cui sei arrivata a casa mia ieri sera», ha detto lei, mantenendo la stessa risoluzione.

Ho stretto i pugni e i denti, imponendomi di star calma.

«Non capisco di cosa tu stia parlando», ho risposto, fingendo un sorriso.

«Ammetto che sia una cosa difficile da spiegare…io…non so cosa sia successo ieri sera, né ho il diritto di chiedertelo», ha precisato, «ma ti prego solo di stare più attenta. Di prenderti cura di te. Ecco, volevo dirti solo questo.»

«Apprezzo l’interessamento», ho risposto, piuttosto freddamente. Una parte di me continuava ancora a riflettere sulle sue parole, mentre l’altra mi diceva di ignorarle senza pensarci troppo.

Lei ha esitato un attimo: «Ah…e puoi star tranquilla: non dirò nulla a nessuno. Perché mai dovrei dire a qualcuno che la tua gatta ti ha morso sul collo?».

Il riferimento ironico era palese. Avevo capito perfettamente che non credeva alla mia stupida scusa, ma andava bene così. L’importante era che quell’informazione non fosse resa di dominio pubblico.

Perciò ho annuito, decisamente più sollevata.

Ci eravamo capite. Non avrei mai pensato di riuscire a trasmetterle un messaggio non verbale così rapidamente.

Abbiamo camminato per qualche metro fuori dal locale, finché lei non ha puntato un telecomando tascabile contro una macchina scura, disattivando le sicure. Si trattava dell’enorme jeep di sua sorella Madison di cui avevo un bruttissimo ricordo.

«Tu guidi questo coso?!», ho gridato quasi, voltandomi bruscamente nella sua direzione.

«Beh sì. Capita raramente perché Madison lo usa sempre per andare a lavoro, ma questa mattina lei stava ancora dormendo e io ho potuto prenderlo», ha ammesso Roxanne.

Io l’ho fissata, priva di parole. Possibile che io non possa nemmeno a mettermi al volante di un automobile senza iniziare a delirare, mentre lei riesce a guidare con così tanta nonchalance una macchina di queste dimensioni?! Questo sì che è un mondo crudele.

«Vuoi un passaggio?», mi ha offerto dopo essersi agilmente arrampicata al posto del guidatore.

Io ho fatto lo stesso, raggiungendo il posto del passeggero con meno difficoltà rispetto alla volta precedente, contenta di non dover fare la strada a piedi. Avevo ancora quell’assurda convinzione di essere seguita.

«Si vede senz’altro una bella vista da qui», ho commentato per niente entusiasta, dalla mia postazione.

«Eh già», ha sorriso Roxanne, sistemando la sua cintura di sicurezza.

«Sai, questa è la seconda volta che guido ufficialmente da quando ho preso la patente. E la prima che ho qualcuno con me», ha dichiarato, mettendo le mani sul volante.

Io le ho rivolto uno sguardo scioccato: «C-cosa?!», ho balbettato.

Sarei voluta scendere seduta stante, ma la macchina era già in corsa.

«Non preoccuparti. Ho superato l’esame di guida con il massimo dei voti», ha asserito soddisfatta, «Anche se è vero che oggi giorno persino gli idioti riescono a prendere la patente senza difficoltà.»

Io ho stretto le nocche delle mie mani in due pugni, contenendo la mia irritazione. Il fatto che io per prima non riuscissi a guidare, faceva di me un’idiota più idiota degli altri idioti? Gioco di parole a parte, è proprio questo che le parole di Roxanne sembravano suggerire.

Per vendicarmi, ho fatto in modo di criticare qualsiasi cosa a proposito del suo stile di guida: la mia incapacità di guidare è sempre stata un tasto dolente.

Ad essere sincera, devo ammettere che non fosse affatto male al volante, tralasciando il suo rispetto esasperato del limite di velocità urbano.

«Solo perché sui cartelli c’è scritto che non bisogna superare i 30 chilometri orari, tu mantieni sul serio questa velocità?»

«E perché non dovrei?», mi ha chiesto, in modo innocente.

«Non vedi la fila che c’è dietro di noi? Persone imbufalite che hanno degli affari urgenti da sbrigare e che stai trattenendo per questa tua mania di rispettare le leggi», ho fatto presente, incrociando le braccia.

Lei non ha risposto nulla, ma ho visto il tachimetro passare dai 30 precisi ai 32 all’ora. Un bel miglioramento, no?

«Ciò dimostra che guidare non è così semplice come tu creda», ho continuato in modo puntiglioso, «Non lo sai quanti incidenti ci sono ogni settimana?»

«La principale causa di quegli incidenti sono guidatori ubriachi o drogati. Qualsiasi persona, a patto che sia sobria, riuscirebbe a guidare senza provocare danni», ha risposto lei prontamente.

Sì, esatto, tutti eccetto me. Da sobria o da ubriaca non c’è differenza. Anche solo toccare un volante mi terrorizza.

Ma, ovviamente, questo non lo avrei confessato mai.

Sentendo che una mia risposta tardava ad arrivare, Roxanne mi ha chiesto: «Tutto bene? Adesso sto andando troppo veloce?», il tachimetro segnava i 35 all’ora, «Devo rallentare?»

«Oh no, per favore, non farlo!», ho esclamato, «Più lenta di così è solo una tartaruga!»

Suppongo che vedere un'evidente jeep nero vagare per le strade a meno di 20 chilometri all’ora sia di certo uno spasso.

Lei ha riso e poi ha aggiunto: «E’ stata una bella mattinata. Mi sono divertita.»

«Non parlare come se fosse ora di pranzo. La mattina è appena iniziata. Sono a malapena le otto!», ho precisato.

«E di chi credi sia la colpa?», mi ha chiesto lei, alzando un sopracciglio in modo eloquente.

Io avrei voluto dirle che ad avermi svegliata era stata proprio la sua voce, proveniente dai miei ricordi distorti, ma ho preferito tacere.

Lei ha riso ancora, apparentemente senza un motivo.

E, mentre guardavo il suo profilo, ho realizzato che i momenti che abbiamo passato insieme negli ultimi tempi si sono moltiplicati. Allo stesso modo sono aumentati tutti i segreti di cui conosciamo l’esistenza, ma non osiamo rivelare. Verità mezze svelate. Debolezze che ci siamo lasciate distrattamente sfuggire. Segreti che restano tra di noi, segreti che ci legano in modo inconscio ma indissolubile.

E mi sono accorta anche di un’altra cosa: sbagliavo a pensare che finito l’impegno con il Comitato d’Accoglienza saremmo tornate ad essere delle semplici conoscenti. Sbagliavo a credere che la mia vita non avrebbe più risentito della presenza di Roxanne Miller. Mi sbagliavo di grosso.

Solo la consapevolezza di questa cosa mi ha colpita ancora più violentemente di quanto potessi mai immaginare.

Era inutile che continuassi a considerarla una sconosciuta, che continuassi a mantenere le distanze, quando ormai quell’estranea mi era diventata più familiare di qualsiasi altra cosa.

Era inutile pensare che nulla ci legasse più, quando io per prima, quella stessa mattina, avevo fatto in modo che si verificasse un’occasione per rivederla ancora. Si era creato un circolo vizioso e io ci ero finita dentro, senza poterlo evitare.

«Senti…voglio chiederti un favore», è intervenuta nuovamente Roxanne.

Io ho voltato gli occhi verso di lei, in un muto invito a continuare.

«Voglio preparare una festa per il compleanno di mia sorella Madison…», ha iniziato.

«E allora?», ho domandato, chiedendomi davvero dove volesse arrivare.

«E allora mi chiedevo se potessi aiutarmi…ad organizzare la sua festa di compleanno, intendo.»

Miss “Se-hai-bisogno-del-mio-aiuto-non-esitare-a-chiedere!”, stava davvero domandando un favore proprio a me?!

«Beh sì», ha detto Roxanne, quasi rispondendo ad una risposta che avevo solo pensato, «Sai…per la festa di benvenuto che dovevamo organizzare a scuola ho visto che te la cavi piuttosto bene con il catering, inviti, bouffet e tutti quei tipi di cose. Io non saprei nemmeno da dove cominciare…», ha confessato con un sorrisino.

Mi sono massaggiata il mento, atteggiandomi in un’espressione pensosa.

«E quando sarebbe questo compleanno?», ho domandato.

«Questo sabato. A dire il vero…Madison compie gli anni giovedì, ma ovviamente la festa verrebbe spostata durante il week-end.»

«Sabato?!», ho quasi strillato, «Hai in mente di allestire una festa questo week-end e mi avverti così tardi?»

Roxanne sembrava leggermente perplessa. Si è voltata persino verso di me, ma io le ho subito ordinato di tener gli occhi fissi sulla strada.

«Non pensavo che…cioè, ti ho avvisato quasi sei giorni prima…non è sufficiente?»

«No», ho affermato risoluta, «Ma tu non hai alcuna esperienza nell’organizzazione di un party, quindi non potevi saperlo, suppongo. E vediamo un po’, dove vorresti allestire questa festa?»

Roxanne ha tentato un sorriso per rabbonirmi, ma non ne sembrava molto sicura.

«A…casa mia?»

«Assolutamente no!», ho esclamato, «Se davvero vuoi che io organizzi una festa come si deve, devi fornirmi di uno spazio maggiore di cento metri quadrati!»

«Ma sarebbe solo per poche persone…voglio dire, qualche suo amico, qualche suo collega…»

«No, no, no e no. La qui presente Kate Hudson non si mobilita mai per un party “famigliare”. Sarà una cosa in grande, oppure non se ne fa niente», ho stabilito, esponendo le mie condizioni.

«Ma a casa mia non c’è abbastanza spazio e dobbiamo ancora mettere apposto l’arredamento…»

«Lascia perdere», ho detto, agitando una mano in aria come per scacciare delle mosche, «Metterò a disposizione casa mia. Che ne dici?»

Le labbra di Roxanne si sono aperte in un ampio sorriso: «Dico che è fantastico!»

«Bene. E’ da un bel po’ che non organizzo un party da me. Scommetto che sarà l’evento più glamour degli ultimi tre mesi!». L’eccitazione nelle mie parole era palese.

«Ehi, ehi, ehi!», mi ha interrotto lei, «Non dimenticare che è per festeggiare il compleanno di Madison!»

«Certo che non me lo dimentico. Ma sarò io ad invitare le persone e io a scegliere tutto il resto. Prima che inizi ad organizzarmi, hai qualche preferenza in particolare?», ho domandato con un tono professionale.

Roxanne sembrava presa un po’ in contropiede: «Uhm…non so, mi piacerebbe molto renderla una festa a sorpresa…»

«E’ fuori questione», ho risposto all’istante, troncando le sue fantasticherie, «Hai presente il caos che una festa a sorpresa è capace di creare?  Il festeggiato non è mai vestito in modo adatto, bisogna inventare scuse per tenerlo fuori dai preparativi e molto spesso per lui il disagio è maggiore della sorpresa. Non accetto le cose fatte a metà o in maniera confusionaria. Voglio che tutto sia perfetto. Quindi spetta a te decidere se accettare e lasciare fare a me, o accontentarti di un anonimo party noioso e riservato a soli “sfigati”.»

Le mie tetre previsioni devono averla convinta a scegliere la prima opzione, perché quasi immediatamente ha risposto: «No, no, lascio fare a te.»

«Parlerò con Madison e sistemeremo la lista degli invitati. Per il catering non c’è problema e nemmeno per la musica…Se non facesse così caldo avrei potuto far portare una di quelle sculture di ghiaccio che feci sistemare in giardino per il mio compleanno l’anno scorso-», ho iniziato a fantasticare.

«Perché ho l’impressione che mi pentirò di aver chiesto il tuo aiuto?», ha riso Roxanne, interrompendo i miei fervidi sproloqui.

«Oh no, credimi! Tra una settimana non riuscirai nemmeno a trovare le parole per ringraziarmi!», ho risposto a tono, senza riuscire ad impedire agli angoli della mia bocca di piegarsi all’insù.

Ed ecco: un’altra opportunità. Un altro motivo per frequentarla ancora. Un altro motivo per trovarmi sempre più legata a lei.

Quando ho accettato la sua proposta, non ci ho nemmeno pensato. Avevo dimenticato che un tempo avrei fatto di tutto per evitare quella persona che in quel momento mi stava accanto. Prima non avrei mai accettato così a cuore aperto quella proposta senza crearci sopra delle congetture.

Ero caduta anche io nella trappola di Roxanne Miller? Ero diventata anche io una vittima di quegli occhi e di quel sorriso onnipresente? Mi sarei accodata anche io al coro delle Gallinelle che stravedono per lei?

No, su questo non c’è il minimo dubbio. Sono io ad essere adorata e amata dalle masse. Non mi sarei mai ridotta ad essere una dei suoi tanti fan.

E’ solo che le sono riconoscente. Le sono riconoscente più di quanto potessi mai immaginare dell’aiuto offertomi la scorsa notte.

Non è di lei che mi importa, ma dell’effetto che ha su di me. Come un calmante. Come un magico unguento che guarisce le ferite. E’ straordinario il potere che sembra esercitare sul mio umore.

Non solo stanotte, ma anche stamattina. E’ riuscita completamente a cancellare qualsiasi mia preoccupazione con la sua sola presenza.

Pensò che userò questa sua proprietà. C’è qualcosa di male nel cercare la propria tranquillità? D’altronde sfruttare le persone a mio piacimento è stata sempre la mia specialità.

Roxanne mi ha riaccompagnata a casa quasi tre ore dopo, non prima di aver fatto uno stop sotto mia richiesta al centro commerciale. Avevo il terrore di varcare nuovamente le porte del cancello della mia villa, perché non mi sembrava più un posto sicuro. Rivedevo Nathan da tutte le parti e la Miller sembrava essere l’unico rimedio possibile al mio nervosismo. Tuttavia, lo shopping al centro commerciale è stato noioso e totalmente infruttuoso, perché ho sprecato tutto il mio tempo a sgridare continuamente Roxanne, la quale era unicamente interessata in negozi insignificanti e inappropriati.

Quando mi sono ricordata del mio cellulare ancora spento dopo un’intera nottata, ho gridato quasi per lo shock. La mia segreteria era inceppata da ogni sorta di messaggio. I più numerosi erano quelli di Jason.

Ho lasciato andare finalmente Roxanne in una di quelle botteghe da quattro soldi e ho digitato il suo numero, nervosamente, incappando in qualche tasto.

Lui non ha risposto “Pronto”, invece mi ha gridato contro: «Dove diavolo sei stata? !»

«Jason? Non te l’ha detto Mary? Ho avuto un problema in famiglia e un mio cugi-», ho iniziato a dire, ma lui mi ha interrotto bruscamente.

«Non sprecar tempo ad inventare cazzate. So che hai solo due cugini e ieri sera gli ho contattati entrambi. Nessuno di loro sapeva dove fossi, né ti aveva vista nell’ultimo anno. Ero preoccupatissimo per te. Non rispondevi al cellulare, e la tua domestica mi ha assicurato che non eri rientrata e a casa non era successo nessun problema. Non sai cosa ho passato, sperando per tutta la notte che ti facessi viva, ma restando irrimediabilmente deluso. Perciò non inventare scuse e dimmi dove cazzo sei stata e chi era quell’uomo con cui te ne sei andata ieri sera!», ha esclamato tutto d’un fiato, senza fermarsi per un momento. Era piuttosto agitato e furioso come gli capita di solito quand’è in preda alla gelosia.

Sebbene fossi a corto di scuse, però, non mi sono lasciata intimorire dalla sua furia.

«In effetti non era proprio mio cugino», ho concesso, «Ma ci conosciamo da così tanto tempo che ormai ci consideriamo cugini. E il problema non era successo a casa mia, ma a casa sua, a dire il vero…Il cellulare invece era scarico e per questo non ho potuto chiamarti prima per spiegare bene tutta la situazione. Purtroppo avevamo poco tempo e non sono riuscita a chiarire bene tutta la situazione con Mary…»

«E cosa sarebbe successo esattamente a casa di questo tuo “cugino”? Perché ha dovuto chiamare proprio te? In cosa dovevi aiutarlo?», ha domandato lui a raffica.

Essere sotto pressione non aiuta di certo un bugiardo a mentire: «Ehm, sua madre, cioè sua nonna, la madre di sua madre, ha avuto un malore. La nonna mi ha sempre voluto un gran bene e il suo ultimo desiderio era vedermi un’altra volta prima di morire…», ho asserito, sebbene il mio tono di voce fosse incerto e la mia bugia sembrasse chiaramente una caricatura di qualche film strappalacrime.

«Basta così», ha detto Jason, improvvisamente più calmo, «Non credo ad una sola parola di ciò che hai detto, ma non indagherò oltre. Voglio solo renderti chiaro che adesso tu sei solo mia e non sono disposto a condividerti con nessun altro. Okay?»

«No, che non è okay! Io non sono proprietà di nessuno, e men che meno la tua! Credi che io sia solo un oggetto?», ho urlato di rimando.

«No, hai ragione, non sei solo un oggetto. Sei solo una puttana.»

Click.

«Tutto bene?», mi ha chiesto Roxanne, avvicinandosi a me, facendo sì che io tornassi in me.

Io ho finto un sorriso, sebbene il mio cuore urtasse così tanto violentemente contro il petto, da lasciarmi tramortita.

Le parole di Jason e quelle di Nathan erano diventate una cosa sola. Si sommavano e si ripetevano all’infinito alla mia testa. Erano diventate difficilissime da ignorare.

«Immagino di dovermi fornire sul serio di qualche arma da portare nella borsetta», ho detto simulando un tono giocoso, «Tu cosa mi consigli?»

Roxanne ha finto di pensarci su: «Che ne dici delle spade laser di Guerre Stellari?»

Ecco cosa intendevo nel definire Roxanne cura per i miei mali. Anche se uno di questi mali è proprio lei stessa, ultimamente è l’unica in grado di trovare il modo per farmi ridere. Usarla per questo scopo non è nemmeno un crimine troppo grave, no? Ho bisogno solo di dimenticare e di lasciarmi indietro il mio passato.

Anche se dimenticare non significa necessariamente mettere a posto le cose.

No, purtroppo no.

 

 

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Capitolo 13
*** cap 13: Per Amore ***


Salve ^__^! Spero di aver accontentato i miei recensori, tornando il prima possibile con un aggiornamento fresco fresco.

Si tratta di un capitolo di lunghezza molto cospicua, ma soprattutto pieno di avvenimenti e rivelazioni.

Non spoilero niente, ma da qui in poi posso affermare senza dubbio che ci stiamo addentrando nella parte più interessante della storia.

Per proseguire come ho pianificato, mi serviva chiarire un po’ di cose sul passato di Roxanne e mi auguro di essere riuscita a farlo, senza ricadere troppo nello scontato o nello sdolcinato.
Inizialmente ero un po' scettica se mantenere il passato di Roxanne come l'avevo immaginato all'inizio (che è la versione che vedete qui di seguito), oppure scrivere una cosa totalmente platonica, però, alla fine ho scelto di restare fedele a quello che avevo pensato. Sono consapevole che magari alcune cose siano state un po' affrettate, oppure Roxanne non sembra "soffrire" abbastanza...ma è tutto pianificato per introdurre il prossimo capitolo!
Come al solito sono aperta a qualsiasi tipo di critiche o considerazioni, anzi mi piacerebbe sentire qualche impressione sulla "svolta" che il racconto ha preso adesso ;).
In ogni caso, la smetto di perdermi in chiacchiere! Ringrazio infinitamente nikoletta89 ( eh sì…come prevedevi Nathan si è rifatto vivo e direi anche alla grande!) e balakov ( come vedi ho aggiornato il più presto possibile, così da darvi il tanto atteso seguito XD) per i complimenti e le affettuosissime recensioni, e vi do appuntamento al prossimo capitolo!

 

(*) Piccola precisazione presa da Wikipedia: Ivy League, o più semplicemente Ivy, è un titolo che accomuna le otto più prestigiose ed elitarie università private degli Stati Uniti d'America. Esse sono: Brown University, Columbia University, Cornell University , Darthmouth College, Yale, University of Pennsylvania, Princeton e Harvard.

***

 

19 maggio

 

Poiché non voglio omettere nessun particolare, cercherò di raccontare tutti i fatti con calma, senza farmi trascinare troppo dalla fretta di scrivere.

Spero solo di non tralasciare niente di importante.

Questa settimana è stata incredibilmente piena, così tanto piena da non darmi nemmeno la possibilità di guardarmi alle spalle. Per qualche giorno Nathan ha smesso di tormentare i miei pensieri, rimpiazzato dalla necessità di organizzare nel migliore dei modi la festa di sabato. L’illusione che tutto fosse finito, però, è durata ben poco.

Sono stati giorni intensi in cui ho passato praticamente tutto il tempo gomito a gomito con Roxanne Miller, soddisfatta di poter utilizzare il suo effetto calmante su di me in modo prolungato. Mi ha fatto decisamente bene: non sono mai stata così tanto tranquilla come lo sono stata nell’ultimo periodo.

Ho visto l’affronto sui visi delle Gallinelle nel veder Roxanne camminare fianco a fianco a me, mentre loro erano costrette a seguirci restando di qualche passo indietro, private della possibilità di circondarmi come succedeva fino a pochissimo tempo fa.

Altre facce che non sono rimaste di certo inosservate, sono state quelle di Patty Mason e dell’Innominata, le affezionatissime amichette della Miller, le quali, perdendo Roxanne hanno perso anche l’unica occasione per diventare popolari.

«Non ti dispiace dover lasciare Patty e…l’altra?», le ho domandato io.

Roxanne mi ha lanciato un’occhiata incuriosita: «Lasciare? Ma io non ho lasciato nessuno! Sono e resterò comunque loro amica!»

Io mi sono girata verso di loro, che erano sedute ad un tavolo molto distante dal nostro, e le ho viste letteralmente fumare di invidia. Mi sono astenuta dal fare ulteriori commenti.

Roxanne sembrava piuttosto di buon umore, come al solito d’altronde, e stava felicemente divorando delle ciambelle, spezzettandole con le mani.

Io ho riso per la sua ingordigia di dolci e ho visto le Gallinelle trattenere il sospiro all’unisono, come scioccate. Evidentemente non erano abituate a vedermi così serena all’ora di pranzo.

Con Jason non è stata facile. Non si è più avvicinato a me e io sono stata grata di aver la mia corazza di amici e conoscenti tutt’attorno, in modo da poterlo ignorare tranquillamente.

Lui se n’è restato al limite del mio campo visivo, depresso e solo come mai prima di allora.

«Cos’è successo a Jason? Perché non mangia con noi?», ha domandato Sally.

Io ho alzato pigramente lo sguardo dalla mia insalata, ma in qualche modo Roxanne mi ha preceduta, mettendo a tacere le chiacchiere delle Gallinelle: «Mi ha detto che non stava ancora bene e non voleva attaccare a nessun’altro il suo raffreddore».

Era una scusa patetica, ma ho apprezzato il suo intervento. Dopo tutto quello che era successo a causa dei falsi pettegolezzi che aveva messo in giro, adesso Roxanne sembrava stare molto più attenta a non divulgare nessuna voce che mi riguardava.

Non mi sono stupita, d’altronde. Per una come lei, abituata ad accattivarsi il bene delle persone, è facile conquistare la fiducia altrui.

Le Gallinelle, avendo a disposizione un unico cervello diviso in quattro, se la sono bevuta totalmente.

«Ah certo!», è intervenuta Nancy, «d’altronde l’altra volta qualcuno ha attaccato a lui per primo la febbre.»

Tutte e quattro si sono unite in un’unica, stupida risata, ma hanno cambiato rapidamente discorso, quando io le ho fulminate con un’occhiata velenosa.

Roxanne si è assolutamente immedesimata nel suo compito di giullare, allietando me e la mia “corte” con le sue assurde storie su Marie Antoinette, che contrariamente a quanto si possa pensare non è l’ultima regina di Francia, bensì una scrofa di gigantesche dimensioni, considerata la sovrana tra tutti gli animali nel ranch di suo zio in Colorado.

Avevo sempre pensato che fosse una tipa strana e i suoi racconti non facevano altro che confermare questa mia convinzione.

Ho scoperto anche che Roxanne, nonostante la sua giovanissima età, ha già visitato un bel po’ di nazioni assieme alla sua famiglia, un tempo ancora unita, e a suo padre, appassionato viaggiatore. Ha sperimentato persino la vita in posti pressoché deserti, come ai confini del Deserto di Sonora, in Arizona, ma ha confessato di amare principalmente la Florida tra tutti gli altri paesi in cui ha messo piede.

Questa contraddizione ha stuzzicato la mia curiosità. «Se ami così tanto la Florida, perché hai deciso di andartene? Immagino non sia stato facile abbandonare un posto così bello», ho commentato.

Io ero stata a Miami un paio di anni prima e ricordavo ancora le sue atmosfere latineggianti, che ricordavano quelle sud-americane e le grandiose attrattive che la città riservava. Il mare cristallino non era che un’altra chicca in una città piena di meraviglie.

Roxanne ha increspato le labbra in un sorriso che però appariva forzato: «Ogni tanto si ha bisogno di cambiare aria. E poi in estate la calura è insopportabile!», ha asserito, sviando poi il discorso sul clima e sulla temperatura del luogo.

Mhm, azione sospetta. Molto sospetta.

Per quanto passassimo quasi tutto il tempo insieme, però, Roxanne è rimasta sempre un po’ più al di là della mia capacità di comprensione. Permettendomi di avvicinarmi quasi alla verità, senza mai riuscire ad afferrare pienamente ciò che c’era dietro le sue parole.

O almeno, per me tutto è rimasto tutto un gran mistero fino a ieri. Ma andiamo con calma.

Trovare un accordo con Madison sugli invitati non è stato facile: lei voleva invitare poche persone, secondo i piani originali di Roxanne, mentre io volevo una festa in grande.

C’è stata una lotta ferrea da cui io ovviamente sono uscita vincitrice, se non dopo molte insistenze. Ho scoperto anche che la testardaggine di Roxanne, è poca cosa in confronto a quella della sorella. Ma poiché è impossibile non arrendersi al mio sorriso, le mie energiche argomentazioni hanno battuto le sue, permettendomi di organizzare un mega evento per il sabato sera. Ho colto l’occasione per estendere l’invito a tutti i miei conoscenti e Madison, ormai sfiancata, non ha potuto che accettare.

Il party, dunque è stata l’unica cosa che ha occupato la mia mente per più di 149 ore, diventando un ottimo diversivo ai miei problemi.

Per avere la casa completamente libera per l’occasione, ho spedito i miei a Green Bay, organizzando loro una piccola gita nella pittoresca cittadina, e ho contattato due giardinieri, esperti nelle “sculture di arbusti”, ovvero cespugli accuratamente potati in modo da rappresentare una particolare figura. In questo modo avrei sorpreso di certo i miei invitati, in mancanza delle sculture di ghiaccio.

Ho affidato poi il compito di scrivere gli inviti alle Gallinelle, riacquistando un po’ la loro fiducia, apparentemente tradita dalle mie attenzioni rivolte più a Roxanne che a loro.

Venerdì, poi, ho trascinato con me tutte le mie fedeli seguaci per uno shopping sfrenato, da cui siamo tornate con le mani assurdamente piene.

Le Gallinelle, hanno cercato ossessivamente la mia approvazione, ma resesi conto di non poter ottenerla, hanno finito per acquistare dei vestitini cortissimi e aderentissimi, dello stesso modello, ma ciascuno di un colore diverso. Mi sono astenuta dal dire che sembravano dei Power Rangers in vestiti succinti.

Loro, invece, erano entusiaste perché questo stratagemma le avrebbe fatte apparire, a loro detta, delle “sorelline”.

Roxanne, sebbene fosse venuta di mala voglia con noi, si è letteralmente innamorata di un vestito dalla gonna ampia e svolazzante, modello Grease, stretto in vita da un cinturone. E sebbene cercassi di darle dei consigli su come abbinare un capo del genere, al contrario delle Gallinelle, in disperata ricerca di un mio parere, lei non mi ha ascoltato nemmeno.

Madison, invece, ha scelto un completo separato. All’inizio aveva preso in considerazione l’idea di indossare un bustino di pizzo nero, decorato con nastrini di raso rosa e una gonna in tulle, sempre nera.

Le stava tutto piuttosto bene, ma quando l’ho vista venir fuori dal camerino di prova, le ho detto solamente: «Sei conciata come una ballerina di danza classica in versione punk.»

Lei ha sorriso.

«Immagino non sia più consono indossare questo tipo di cose, adesso che ho compiuto 23 anni», ha risposto con un pizzico di malinconia, scegliendo al posto del pizzo e del tulle, un elegante pantalone, abbinato ad un top nero totalmente cosparso di lustrini, con una giacca chiara al di sopra.

Io, d’altra parte, mi sono diretta in un negozio ben diverso da quello dove le altre avevano fatto acquisti. Persino le Gallinelle sono rimaste scioccate dai prezzi degli articoli all’interno, eppure hanno finto di trovarli piuttosto accessibili.

Ho provato diversi vestiti, e malgrado le facce delle mie accompagnatrici si animassero sempre di più, nessuno sembrava essere adatto. Finche non l’ho visto.

«Non capisco», mi ha chiesto Rita, mentre uscivamo dal negozio, «Quale hai preso alla fine?»

Io non ho provato nemmeno a nascondere il sorriso furbesco che era apparso sulle mie labbra e ho semplicemente detto: «Lo vedrete…»

Lungo la strada, Madison mi ha dato una gomitata scherzosa sul fianco e mi ha detto: «Mai pensato di fare la modella?»

«Non sei la prima a chiedermi una cosa del genere», ho confessato, «Solo che non è mai rientrato nei miei programmi.»

«E quali sarebbero i tuoi programmi?», si è intromessa Roxanne. Le Gallinelle stavano ora discutendo su chi dovesse prendere quale colore di vestito.

«Diplomarmi e andare a Princeton questo autunno», ho risposto con orgoglio.

«Woah. Princeton? Bell’ambizione!», ha esclamato Madison, «Tu, Anne, sei ancora convinta di voler andare all’Università di Miami?»

Io sembravo essere l’unica a chiamarla con il suo nome per intero. Persino sua sorella usava quel diminutivo antiquato.

Ho visto Roxanne irrigidirsi, senza confermare né smentire: «Cosa c’è che non va in quell’università?»

«Niente, affatto. Ma potresti benissimo entrare anche in un Ivy *. Con i tuoi voti sono certa che ce la faresti», ha continuato Madison.

«Se posso permettermi, anche per me sei sprecata in un’università del genere», ho detto, dando il mio parere, «Dunque intendi ritornare in Florida?»

Ecco il dilemma universale. Perché lei e sua sorella avevano deciso di trasferirsi qui, se in autunno Roxanne sarebbe tornata a Miami per gli studi? Quando un bel po’ di tempo fa le avevo chiesto la stessa cosa, lei aveva balbettato qualche scusa a proposito del disagio di vivere con sua madre e il suo nuovo compagno. Ma era davvero quello il vero motivo?

«Non so…», ha risposto Roxanne, improvvisamente vaga.

Madison è tornata all’attacco: «Secondo me ti sei fatta condizionare da tutte le chiacchiere che mamma e Liam ti hanno messo in testa sulla loro scuola.»

Vedendo il mio sguardo incuriosito, la neo ventitreenne si è affrettata a spiegare: «Nostra madre e il suo compagno, Liam, sono docenti a quell’università.»

Madison a quanto pare sembrava molto a suo agio nel parlare del giovane fidanzato della sua progenitrice, al contrario di quanto mi aveva detto Roxanne. O forse ero io a ricordare male?

Per di più ricordavo che Madison mi aveva chiesto espressamente di inserire il nome di sua madre e del suo compagno tra quelli degli invitati per sabato, ma per qualche strana ragione voleva che rimanessero una sorpresa per Roxanne fino al momento opportuno.

Io ho annuito lievemente: «E cosa insegnano?»

«Nostra madre si occupa di Letteratura, mentre Liam segue il dipartimento di Arte e Storia dell’Arte.»

Ho lanciato uno sguardo distratto a Roxanne e l’ho vista torcersi le mani, fin troppo interessata al marciapiede per alzare lo sguardo.

«Cos’hai intenzione di fare, allora, Roxanne?», ho domandato, usando un tono di voce piuttosto alto per distrarla dai suoi pensieri. Sembrava il momento adatto per scoprire qualche cosa in più. Non avevo ancora mollato il mio piano di smascherare le sue reali intenzioni di fronte a tutti.

«Ma c’è ancora tempo, no?», ha risposto lei, presa in contropiede, quasi a voler evitare la mia domanda. La sua voce tentennava un po’, spronando ancora di più la mia crescente curiosità.

«Manca poco più di un mese al diploma», le ha fatto presente sua sorella, «E comunque ho spedito io per te le domande di ammissione sia a Yale che a Princeton e persino ad Harvard e alla Brown. E se dovesse arrivarti una lettera di conferma, andrai sicuramente in una di queste.»

Il tono di sua sorella, solitamente giocoso e molto meno serio di quello di Roxanne, era diventato quasi autoritario. Non mi sarei mai aspettata questo cambio di tendenza.

Roxanne, tuttavia, l’ha ignorata bellamente, fingendosi interessata alla diatriba in corso tra le Gallinelle.

Ho sentito Madison, al mio fianco, sospirare contrariata: «Dovrei già sapere che insistere è inutile. Alla fine, farà sempre come le pare.»

Seppur conoscessi Roxanne molto meno tempo, ero assolutamente certa della stessa cosa.

Ed ecco come siamo giunti fino a sabato.

Ieri pomeriggio guardavo tutti i lavori in corso e le persone che correvano di qua e di là con un sorriso soddisfatto sulle labbra.

Perfezione. Per quanto questa parola sia effimera mi trovo sempre ad inseguirla. Costantemente.

Magari la festa sarebbe risultata perfetta sotto ogni punto di vista, eppure la mia vita, tralasciando le apparenze, sembrava ben lontana dall’esserlo.

Affidando le mie direttive al personale che avevo ingaggiato, mi sono dedicata ai miei capelli e al make-up. Poiché il vestito in sé per sé era piuttosto particolare, avevo deciso per un’acconciatura non appariscente e poco articolata, lasciando la maggior parte dei capelli sciolti, dopo averne arricciato le punte, ma sollevando quelli ai lati delle tempie grazie a dei particolarissimi fermagli luccicanti.

Per il make-up avevo scelto dei toni pastello molto chiari, avevo allungato l’arcata superiore dell’occhio con un filo di kajal e preferito un lucidalabbra rosa al solito rossetto. Poi avevo infilato il mio vestito e passato il resto del tempo a guardarmi allo specchio, stupendo persino me stessa del risultato.

Ho distolto lo sguardo dal mio riflesso solo quando la mia domestica è salita in camera per avvisarmi che le sorelle Miller erano arrivate, all’incirca tre quarti d’ora prima che la festa vera e propria avesse inizio.

Alla piedi delle scale, ecco Madison e Roxanne, già abbigliate e truccate, guardare all’insù con un’espressione di meraviglia.

«Wow», ha sospirato Madison, «è fantastico!»

Io ho fatto un risolino, nascondendomi dietro una mano con finto imbarazzo.

«Che bella che sei!», ha esclamato Roxanne, con un sorriso enorme.

Il mio petto si è riempito di orgoglio e le mie guance si sono colorate con immenso piacere. Sono assolutamente certa di vivere solo per essere ammirata dagli altri. E’ l’unica cosa che sembra dare un senso a tutto il resto.

Arrivata di fronte a loro, mi sono avvicinata a Madison per salutarla e mentre la mia guancia sfiorava la sua le ho augurato: «Buon compleanno!»

Madison ha riso, ringraziandomi, e Roxanne mi ha salutato con altrettanto entusiasmo, mormorando sonori smuack.

Dalla cucina è arrivata Marissa, la mia domestica, barcollante sotto il peso di un pacco molto grosso.

«Ahhhhhhh!», ha gridato Roxanne, guardando la scena, «La mia tor--Oddio!Lascia che ti aiuti!»

Ed è corsa verso Marissa, dandole una mano nel suo compito.

Ho lanciato a Madison un’occhiata interrogativa a cui lei ha risposto: «Beh, Anne ha cercato di tenermi alla larga dalla cucina per tutto il giorno…ma penso si tratti proprio di una torta di compleanno per me.»

Io ho sospirato affranta. Nonostante le avessi impedito di organizzare una festa a sorpresa, Roxanne aveva trovato comunque un’altra via per fare di testa sua, optando per una torta a sorpresa. Come se tutti i dessert e pasticcini del catering non fossero bastati.

Poi Madison mi ha afferrato il braccio e si è avvicinata al mio orecchio: «Non hai detto ad Anne che nostra madre e Liam arriveranno questa sera, giusto?»

«Ovviamente», ho confermato, arricciando le labbra in un sorrisino. Sulla mia parola si può sempre contare.

«Bene allora», ha replicato lei, «Che ne dici di andare a vedere meglio quelle sculture di arbusti?»

Io ho accettato di buon grado la sua proposta, lasciando che mi prendesse a braccetto.

Magari il suo atteggiamento poteva apparire un po’ troppo confidenziale e prima avrei sul serio pensato che lo fosse, se solo questi giorni non avessi passato così tanto tempo in compagnia di entrambe le sorelle Miller. Per quanto il loro aspetto fisico possa essere differente: occhi e capelli neri la maggiore, iridi blu e chioma mogano la minore, le due sembravano condividere uno stesso senso dell’ironia. E sebbene Madison a prima vista mi fosse sembrata molto immatura, c’era in lei un’arguzia nascosta, come c’era qualcosa di celato nel comportamento eccessivamente altruistico di Roxanne.

Per quanto avessi voluto etichettarle, era semplicemente impossibile farlo.

Mezz’ora dopo, gli invitati avevano finalmente iniziato a radunarsi all’ingresso. I cancelli della mia villa si sono aperti e baci e abbracci mi sono piombati addosso da ogni dove.

Ho visto Roxanne arrivare di gran carriera con un sorriso. La sua ampia gonna bianca anni sessanta frusciava di qua e di là. Accanto a lei c’erano quattro Power Rangers traballanti sulle loro calzature dal tacco alto.

«Kate!», hanno esclamato le Gallinelle con le loro vocine acute. Indossavano vistosi ornamenti nei loro liscissimi capelli, abbinati al colore del miniabiti.

«Stupenda!», hanno ripetuto all’unisono, avventandosi su di me per salutarmi.

Era chiaro che ammirassero il mio abito lungo di satin dorato, privo di maniche, che lasciava la mia schiena scoperta, intrecciandosi sul davanti tutt’attorno al collo. Ho anche sentito qualcuna di loro bisbigliare alle mie spalle: «E’ ovvio, un così bel vestito starebbe bene a chiunque», ma ho finto di non sentirle. Sapevo benissimo che non avrebbero mai retto ad un confronto con me.

In compenso io ho esibito una faccia da schiaffi, complimentando falsamente il loro abbigliamento.

I loro cavalieri, i soliti giocatori di rugby, grandi quanto un armadio, le seguivano a poca distanza. Come le Gallinelle sembravano essere dei cloni vestiti allo stesso modo, i loro accompagnatori erano dei bell’imbusti con la faccia uguale.

Essendo la padrona di casa, io ho fatto del mio meglio per sorridere e rispondere ai loro saluti in modo cortese.

«Ma dov’è Madison?!», mi ha chiesto Roxanne, ferma sempre al mio fianco, guardandosi attorno. Indossava una fascia bianca, che tratteneva le sue lunghe onde mogano dietro le spalle.

Io ho alzato lo sguardo, cercando la festeggiata, ma al suo posto mi sono trovata davanti Jason. Roxanne, che non l’aveva affatto notato, si è diretta verso un gruppo di persone, probabilmente per chiedere loro informazioni su sua sorella.

Gli occhi chiari di lui sembravano inquieti, quasi volessero esprimere troppe parole non dette.

Io gli ho restituito lo sguardo con un’espressione aperta e per nulla inquieta. E’ restato a fissarmi per qualche altro secondo da lontano e poi mi si è avvicinato.

«Ti devo parlare», mi ha detto.

«Io invece non voglio starti a sentire», ho risposto impassibile.

Ne è sembrato turbato, ma non ha desistito. Ha afferrato la mia mano, continuando a mantener salda la presa, malgrado io tentassi di liberarmene.

«Tra dieci minuti», ha insistito, «dietro al cespuglio di rose.»

Io ho ritratto bruscamente la mano e lui mi ha lasciata andare. Dopo qualche altro secondo, mi ha voltato le spalle e si è allontanato.

«L’ho trovata!», è intervenuta Roxanne, cogliendomi di sorpresa, seguita dalla sorella e da un’altra persona. Ho cercato di ricompormi all’istante, abbandonando i pensieri su Jason.

«E lui è?», ho domandato, guardando il ragazzo accanto alle sorelle Miller. Aveva dei capelli rossi, una carnagione molto chiara e assomigliava vagamente al principe Harry di Inghilterra, anche se il suo viso era molto più maturo.

«Lui è Simon», ha detto rapidamente Madison, spingendolo quasi verso di me. Simon mi ha sorriso, facendomi l’occhiolino.

«E tu come ti chiami, bella?», ha chiesto.

«Piacere, sono Kate», ho risposto, porgendogli in modo diffidente la stessa mano che fino a poco prima Jason aveva stretto tra le sue.

Nello stesso istante, il deejay che avevo personalmente ingaggiato, ha attaccato con la musica, dando inizio alle danze.

«Su dai! Balliamo!», ha esclamato Simon e, senza nemmeno chiedere il mio parere, mi ha trascinato con sé al centro del giardino, o meglio al centro della pista.

Io mi sono guardata attorno un po’ a disagio, intercettando uno sguardo perplesso da parte di Roxanne.

«Povera Kate», l’ho vista mimare con le labbra, «Simon non la lascerà più andare per tutta la sera.»

Io ho strabuzzato gli occhi, vedendo Madison sospirare: «Lo spero per me.»

«Allora, cosa fai nella vita?», mi ha chiesto Simon, mostrandomi un sorriso tentatore, palesemente da Dongiovanni. Ha afferrato la mia mano destra, circondandomi il bacino con l’altra.

«Studio», ho risposto con un tono annoiato, cercando di pensare ad un modo per sbarazzarmi di lui.

«Oh, così giovane? Non l’avrei mai detto!», ha cinguettato lui, mentre io avevo già trovato il piano perfetto per togliermelo di torno.

Ai miei piedi portavo delle Christian Louboutin ed ero consapevole di sole due cose: il loro costo stellare e il loro tacco a spillo. Per il mio scopo, però, solo il tacco era necessario.

Simon, durante i suoi sproloqui, ha poi confessato di essere un amico di Madison, anzi per essere precisi un collega molto affiatato di Madison. Non ho capito esattamente cosa volesse dire, ma ciò spiegava perché lei cercasse di stare alla larga da un tipo così appiccicoso.

Ho lasciato che mi conducesse a tempo di musica per qualche altro passo di danza e poi, prima di compiere un volteggio, ho affondato con decisione il mio tacco sulla sua scarpa, spingendolo a gridare di dolore.

«Oh! Scusami!», ho esclamato con finta preoccupazione.

Lui, seppure a corto di fiato, mi ha rassicurato: «N-non preoccuparti, non è niente.»

Ah, non è stato niente allora?!

Gli ho pestato il piede altre cinque volte, prima che la canzone finisse, imputando i miei movimenti maldestri alla mia goffaggine.

Quando la musica si è acquietata per un secondo, vedendolo piuttosto affaticato, gli ho proposto con un sorriso: «Che ne dici di andare a prendere un drink?»

Lui si è letteralmente precipitato verso il tavolo del bouffet, zoppicando lievemente, e io ho sorriso soddisfatta all’indirizzo di Madison e Roxanne, ferme a bordo pista, che sfoggiavano un’espressione incredula.

Onde evitare che Simon tornasse all’attacco mi sono rapidamente allontanata da lì.

Passando accanto al retro del giardino, mi sono tornate in mente le parole di Jason: Tra dieci minuti, dietro il cespuglio di rose.

Era lo stesso posto dove qualche settimana prima mi aveva detto che mi amava…

Magari sarei potuta andare da lui per sentire ciò che aveva da dirmi. Non sarebbe nemmeno stato giusto lasciare le cose in questa maniera. Dovevamo concludere tutto una volta per tutte, no?

I miei piedi si sono mossi in modo autonomo verso il posto stabilito e io non ho protestato.

Il cielo si era ormai completamente fatto scuro e i lampioni che si accendevano sul giardino erano entrati in azione all’unisono. La parte di giardino verso la quale mi stavo dirigendo, però, non era affatto illuminata, cosicché mi era persino impossibile guardare dove mettevo i piedi.

Onde evitare di rovinare a terra e sporcarmi il vestito di erba e terriccio, ho fatto in modo di procedere con la massima attenzione.

Passo dopo passo, con lentezza.

Poi, all’improvviso, qualcosa ha attirato la mia attenzione e, in men che non si dica, sono stata sbattuta violentemente contro il muretto che delimita il perimetro del mio giardino.

Ho cercato di gridare dal dolore, ma due mani che mi hanno afferrato per la gola mi hanno impedito anche di respirare.

La luce della luna ha illuminato per metà un volto dalla barba incolta, sul quale risplendevano due sfavillanti occhi verdi.

«N-Nathan», ho chiamato, seppure la mia voce fosse soffocata e rauca.

Ho visto la sua bocca contorcersi in una sorta di sorriso perverso. Ha allentato un attimo la presa sul mio collo, giusto per permettermi di inalare un po’ d’aria, e ha detto: «Ti sono mancato, cara

Sebbene avesse usato un appellativo affettuoso, il tono di disprezzo era evidente. Mi ha fatto gelare il sangue nelle vene.

L’ho fissato, totalmente colta di sorpresa, disarmata nel corpo e nell’animo, come davanti alla vista di un fantasma. Mi ero ripromessa di distruggerlo se solo si fosse riavvicinato a me, eppure adesso ero lì, totalmente alla sua mercé.

Invano, ho cercato di allentare la sua presa, ma il mio è stato un gesto completamente inutile. Le sue dita sembravano letteralmente incollate alla mia gola.

«Sì, dalla tua faccia sembra di sì. Ti vedo alquanto sorpresa», ha risposto lui con un ghigno sadico. Aveva la stessa crudeltà della risata proveniente dai miei sogni. E se avevo paura di quella crudeltà, allora significava che avevo paura anche di me stessa?

Ho cercato di scacciare via la sorpresa, per prepararmi ad affrontarlo come meglio potevo. Ero già riuscita a liberarmene prima e potevo farlo ancora. Qualcosa, però, mi diceva che stavolta non sarebbe stato facile. Con tutti gli altri invitati troppo lontani e assordati dalla musica per sentire i miei richiami, non c’era nemmeno nessuno che sarebbe venuto in mio aiuto.

In più mi era impossibile gridare, quand’anche cercare di assimilare un po’ di aria era diventato così difficile.

«L-lasciami», ho sospirato, accelerando il mio battito cardiaco per recuperare ossigeno.

Lui sentiva il pulsare frenetico contro la pelle del mio collo e ne sembrava alquanto soddisfatto.

«No. Non ti lascerò andare finché non implorerai perdono per quello che mi hai fatto…Certo che questa casa è proprio enorme. Solo il giardino è grande quanto un campo di calcio», ha continuato ammirato, «Mi sbagliavo l’altra volta: non sei una puttana qualsiasi, sei una puttana di lusso. Chiedimi scusa, allora.»

Disdegnata da quelle parole e infiammata dalla paura, sono riuscita solo a bisbigliare un secco: «No», intriso più che mai di odio.

Lui ha riso del mio tentativo di opposizione e ha rafforzato la stretta. Io ho boccheggiato, strabuzzando gli occhi. La mia vista ha iniziato ad annebbiarsi e le gambe a cedere. Dovevo resistere.

«Chiedimi scusa!», ha ripetuto lui, alzando la voce. Io ho scosso ferocemente la testa in senso di diniego, affondando le mie unghie nella pelle delle sue mani, tentando di liberarmi di lui. I miei vani tentativi, però, non hanno fatto altro che far aumentare la sua rabbia.

«Chedimi scusa, ho detto!», ha urlato.

Nemmeno un sorriso di scherno adesso mascherava la furia che si leggeva a chiare lettere sul suo viso.

«N-no!», ho ripetuto, sforzandomi più che mai per far emergere la mia voce. Stavo soffocando sul serio. Lui ha stretto ancora di più e l’aria mi è venuta a mancare totalmente.

Le mie palpebre si sono abbassate, chiudendosi inesorabilmente. Mi sono sentita venir meno all’istante, finché una voce non è intervenuta: «Che diavolo sta succedendo?!»

Pochi istanti dopo, ero libera e potevo nuovamente respirare.

Nathan non mi era più addosso.

Ho tossito a lungo, tenendomi il collo con le mani, assaporando ogni singola boccata d’aria che mi era concessa.

Solo quando sono riuscita a riprendermi, è emerso in me l’interesse di vedere cos’era accaduto.

Ho alzato lo sguardo e ho visto Jason colpire Nathan con un fortissimo pugno in pieno viso, portandolo a scaraventarsi contro il muro. Ho sentito quasi un crack quando la mandibola del mio aggressore è andata a sbattere contro il cemento.

Jason, non contento del colpo appena sferrato, gli è tornato addosso, afferrando uno stordito Nathan per la camicia. Nathan ha tossito del sangue dalla sua bocca e io, ancora mentalmente confusa, ho fissato affascinata i rivoli rossi colare dalle sue labbra contorte in una smorfia di dolore.

«Cosa cazzo le stavi facendo?!», gli ha ruggito contro Jason, spingendolo ancora una volta contro il muretto. Nathan è sembrato riprendersi un attimo e l’ha spinto via da sé con tutta la forza possibile, facendo cadere Jason all’indietro nell’erba. Gli è poi saltato addosso, brandendo un pugno in bella vista.

Guardavo la scena trepidante, incapace di staccare gli occhi, come se fossero solo dei fotogrammi di un film di azione.

Jason è stato in grado di evitare il colpo di Nathan che, visibilmente provato dal dolore alla mandibola sembrava sputare incessantemente fiumi di sangue, e ha invertito le posizioni, spingendo il suo avversario ormai esausto contro il terreno.

«Adesso te ne andrai immediatamente di qui», gli ha sussurrato Jason all’orecchio, «O chiamo la polizia.»

Nathan si è rialzato, seppure con molti sforzi, e ha fronteggiato ancora una volta Jason, che si era rimesso in piedi a sua volta. Si è avvicinato a lui e l’ha guardato dritto negli occhi. Io ho trattenuto il fiato, prevedendo un’altra mossa da parte sua, ma quest’ultimo ha lanciato solo una breve occhiata a me da oltre le spalle del suo avversario e poi si è diretto verso l’uscita senza dire una parola, asciugandosi il sangue colato dalla bocca con la manica della camicia.

Jason, perfettamente calmo, si è voltato verso di me e mi ha chiesto: «Stai bene?»

Stavo bene? Questo proprio non saprei dirlo, in ogni caso gli ho risposto di sì, cercando di mantenere la mia voce più ferma possibile.

«Chi era quello?», mi ha domandato poi, con urgenza. Io non avevo idea di cosa rispondere.

Jason mi ha fissata meditabondo per qualche secondo e poi ha aggiunto: «Era lui, giusto? Quello con cui te ne sei andata dalla festa la scorsa settimana. Il tuo “cugino”. Non è così?»

Mi aveva salvata. Gli dovevo almeno la verità, no?

«Sì», ho risposto ancora. Sembrava che non riuscissi ad articolare frasi di senso compiuto, a parte dei monosillabi.

Lui ha annuito tra sé e sé: «Bene, adesso capisco quali tipi di uomini preferisci a me.»

Io volevo dirgli che si sbagliava, che era stato tutto un errore, ma non ce l’ho fatta.

Basta cazzate.

«Sì», ho ripetuto, odiandomi profondamente.

Lui è restato fermo per un secondo, poi mi si è avvicinato.

Io ne sono rimasta sinceramente sorpresa.

Come poteva perdonarmi così in fretta? Non provava alcun rancore nei miei confronti? Perché si ostinava ad annullare la distanza interminabile che ci separava?

«Non mi sei nemmeno grata per averti salvata?», ha domandato, con un sorriso amaro sulle labbra.

«Sinceramente non capisco perché tu l’abbia fatto», ho replicato, «Al telefono mi era sembrato che tu mi odiassi.»

«Mi dispiace», ha detto lui, facendo un altro passo. Ormai meno di trenta centimetri ci separavano. «Abbiamo sbagliato entrambi.»

Io ho annuito senza nemmeno pensarci, mentre il mio naso sfiorava il suo. Allo stesso modo le nostre labbra si sono incontrate.

L’ho tirato verso di me, afferrandogli bruscamente i capelli.

Le sue mani erravano senza sosta sulla mia schiena nuda.

Ho fatto irruzione nella sua bocca, senza curarmi di essere delicata nei movimenti, semplicemente mossa dall’urgenza e dal desiderio di sentire ancora più da vicino il profumo della sua pelle. Il suo sapore mi stordiva, come se fosse un cibo prelibato che non mi sarei mai stancata di assaggiare.

Quando ci siamo separati, affannati e con il fiato corto, ho avuto di nuovo l’impressione di essere stata privata del respiro.

Poi, ricordandomi delle mie intenzioni, ho fatto un passo all’indietro, staccando le sue mani dai miei fianchi.

I suoi occhi chiari hanno avuto un tremito.

Lui mi amava. Adesso lo sapevo per certo, come sapevo con altrettanta sicurezza che non sarei mai riuscita a ricambiare quei sentimenti. Se non avessi messo io stessa una fine a tutto questo, lui avrebbe di certo continuato a inseguirmi.

Dovevo lasciarlo libero, liberarlo da ciò che il suo amore per me significava.

L’amore ferisce sempre. Una spacca cuori lo sa bene.

«Io non sono tua», ho detto con tono glaciale, «Non posso essere tua. Questo è quello che sono.»

Il suo sorriso amaro è ritornato. «Immagino che avrei dovuto aspettarmelo», è stato tutto ciò che ha detto, prima di andarsene.

«Grazie», ho risposto. Chissà se mi avrà sentito.

Ritornata alla centro della festa ho mostrato a tutti un sorriso smagliante. Non ho più rivisto Jason dopo la nostra chiacchierata. Ho cercato Roxanne, sperando che con le sue chiacchiere inconcludenti riuscisse a sollevare il peso che portavo sullo stomaco, ma lei non sembrava essere da nessuna parte. Lo stesso valeva per Madison.

Sono entrata nel salone, malgrado tutti gli invitati stessero ballando in giardino, e ho visto una scena che mi è rimasta decisamente impressa.

Madison e una donna dai capelli neri, molto simili ai suoi, stavano al centro della stanza, ridendo, mentre Roxanne era stata letteralmente risucchiata in un abbraccio da un uomo molto più alto di lei. L’uomo portava gli occhiali, sorrideva e aveva un certo fascino da intellettuale. Non poteva avere più di trentacinque anni.

Libera dal suo abbraccio, Roxanne si è fatta improvvisamente molto timida e ha assistito alle chiacchiere degli altri, mantenendo la testa bassa.
Madison sembrava eccitatissima mentree parlava, accompagnandosi con grandi gesti delle mani. La donna e l’uomo, annuivano condividendo due ampi sorrisi.

Roxanne, invece, pareva così priva di vita da sembrare una bambola di porcellana. Se n’è stata ferma lì, senza muovere un muscolo, contrariamente a quanto era solita fare.

Vederla così mi ha spaventata e, senza nemmeno rendermene conto, mi sono avvicinata al gruppo di persone per guardarla meglio in faccia.

«Ah, Kate!», ha esclamato Madison, intercettandomi, «Mi chiedevo dove fossi finita! Hai mollato Simon e sei sparita per più di mezz’ora. Ci stavamo preoccupando!»

Roxanne non ha alzato nemmeno lo sguardo, sentendo la sorella rivolgersi a me. Ha continuato a restare immobile.

«Ero andata solo a prendere una boccata d’aria», mi sono giustificata, esibendo un sorriso affabile, arrivando esattamente di fronte ai due nuovi arrivati.

«Mamma, Liam, lei è Kate. Kate è un’amica di Anne ed è anche la padrona di casa, ovvero la persona che ha organizzato la festa questa sera.»

«Piacere di conoscervi», ho risposto in maniera cortese, salutando la signora Miller e il suo compagno. Entrambi mi hanno sorriso, riempiendomi di complimenti per la casa e per il party. Tuttavia, dietro a quei sorrisi, che per lo meno da parte mia erano forzati, si avvertiva una certa inquietudine nell’aria.

«Mhm, avete sete?», ha domandato Madison tempestivamente, per riempire il silenzio, «Come è andato il volo?»

«Oh il volo è andato benissimo, tesoro», ha risposto sua madre, «Ma hai ragione, io ho voglia di un drink. Tu Liam, che ne pensi?», ha chiesto la donna, distraendo il suo compagno, che stava esaminando con un’espressione piuttosto intensa la strana pacatezza di Roxanne. Era come se l’energica miss Sono-Roxanne-Miller-e-non-mi-puoi-ignorare-nemmeno-se-lo-vuoi fosse scomparsa, trasformandosi in un oggetto di arredamento.

Era il comportamento più strano che avesse mai assunto.

«Ah sì, anche io sono molto assetato», ha risposto l’uomo con un tono piuttosto vivace. A prima vista mi è sembrato un logorroico: solo quelli che parlano tanto hanno sempre la voce così pronta e squillante

«Bene, allora seguitemi. Il bancone delle bibite è di là!», ha dichiarato Madison, portando con sé gli altri due verso il giardino.

Io sono rimasta a fissare Roxanne, che, continuando a tenere la testa bassa, non si è mossa nemmeno di un millimetro.

«Ehi! Guarda che non stiamo giocando alle belle statuine!», ho commentato, utilizzando di proposito un tono scherzoso.

Lei mi ha ignorato.

«Ehi!», ho ripetuto, «Roxanne? Ci sei?»

Mi sono abbassata, allo stesso livello della sua faccia e l’ho guardata dritto negli occhi.

Sorprendentemente, dentro quelle iridi zaffiro vi erano delle lacrime.

«Ehi! Perché stai piangendo?!», ho domandato scioccata. Lei non ha risposto, ma ha dimostrato di essere ancora viva, muovendo la testa per evitare il mio sguardo.

Il suo corpo minuto adesso sussultava per i singhiozzi. Siamo rimaste così per qualche minuto, sole nell’ampio soggiorno, fino a quando io non le ho afferrato malamente il braccio e l’ho trascinata di sopra, in camera mia.

Non riuscivo più a sopportare quella visione patetica.

Raggiunto il mio regno immacolato, ho chiuso a chiave la porta alle nostre spalle, l’ho fatta sedere sul letto e, prendendo posto accanto a lei, le ho chiesto nuovamente: «Allora, vuoi dirmi che diamine è successo?»

Lei stavolta mi ha guardato. Fiotti di lacrime le rigavano le guance rosee e una disperazione infinita si leggeva nei suoi occhi. Mi ha lasciata a dir poco senza parole.

Le sue labbra si sono schiuse e dalla sua voce tremante ho sentito una storia che non mi sarei mai potuta immaginare.

 

Roxanne tornò a quel momento descritto così minuziosamente nella pagina di diario.

Rivide chiaramente, riflessa nei suoi ricordi, l’espressione scioccata e incuriosita di Kate.

In quell’attimo di confusione, le sembrò l’unica cosa a cui potersi aggrappare. E lo fece davvero, afferrandole la mano in una presa quasi stritolante.

Kate, abbassò per un istante gli occhi sulle loro mani intrecciate, ma non disse nulla. Non protestò. Stette solo ad ascoltare.

E Roxanne, tramite quelle parole trascritte su carta, tornò a rivivere una seconda volta la sua stessa storia.

 

Era iniziato tutto tre anni prima.

La madre di Roxanne lavorava già da un bel pezzo all’Università di Miami, città dove la sua famiglia risiedeva più o meno stabilmente, tuttavia quella era la prima volta che Roxanne metteva piede nel campus universitario. Come una normalissima quindicenne, lei frequentava solo il secondo anno di scuola superiore e non pensava minimamente al suo futuro.

Era sempre la stessa Roxanne: battuta sempre pronta e sorriso disarmante, solo che gli ondulati capelli mogano le arrivavano appena oltre le scapole.

La sua missione per quel giorno era piuttosto semplice: doveva recapitare a sua madre un pacco che aveva dimenticato per sbaglio a casa. Il problema, tuttavia, era che non aveva la minima idea di dove si trovasse il dipartimento di Letteratura in quell’enorme edificio, trafficato da un via vai continuo di persone.

Seppur smarrita, Roxanne si sforzò di camminare. Giunta nell’ala est del complesso, dove c’era meno confusione, bussò ad una porta per chiedere indicazioni e sentendo un cordiale «Avanti», si affacciò all’interno della stanza.

Davanti ad una tela vi era seduto un uomo dai capelli castani disordinati che portava degli occhiali dalla montatura leggerissima e la guardava con un’espressione titubante.

«Ehm», mormorò Roxanne, trovatasi all’improvviso a corto di parole, «P-può dirmi dove si trova il dipartimento di Letteratura, per favore?»

L’uomo si rilassò in un sorriso gentile, il più gentile che Roxanne avesse mai visto, e le rispose: «Se non erro, dovresti prendere l’uscita che ti troverai davanti, girando a destra, e poi prendere la prima entrata che vedrai dall’esterno. Il dipartimento di Letteratura è il primo che troverai.»

Roxanne sembrò aver capito tutto e ringraziò calorosamente, con le guance imporporate e un sorriso in risposta a quello così simpatico dell’uomo.

Eppure trovare sua madre non fu cosa facile. Girò a destra, come l’uomo le aveva detto, ma tutto quello che trovò fu un altro corridoio. Lo percorse interamente, mentre gli altri studenti guardavano lei e il pacco che portava in mano con aria estremamente perplessa. Roxanne continuò per la sua strada, senza curarsene, ma non vedeva alcuna traccia dell’uscita.

Che mi abbia imbrogliato?, pensò Roxanne, riferendosi all’uomo che le aveva appena dato indicazioni. E sebbene rifiutasse quasi categoricamente questa possibilità, non era stata in grado di smentirla.

Sbuffò e cercò di affidarsi solo a sé stessa per trovare l’ufficio di sua madre. Lo trovò un quarto d’ora dopo, percorrendo a piedi tutto il perimetro dell’edificio senza demordere.

C’era un cartellino accanto alla porta che indicava a chiare lettere: “Letteratura”.

Roxanne afferrò la maniglia, facendo pressione per aprire l’uscio, ma qualcosa dall’altra parte della stanza glielo impedì. La porta non si apriva, eppure non sembrava nemmeno serrata. Lasciò andare il pomello indispettita e quasi di scatto ecco spuntare una faccia occhialuta. Sembrava che loro due avessero cercato di aprire all’unisono la porta, ma non ci fossero riusciti perché l’altro tentava di spalancarla dalla parte opposta.

«Oh, eccoti qui allora!», esclamò l’uomo che le aveva dato indicazioni, adocchiando Roxanne dall’alto.

Roxanne guardò affascinata per un attimo il suo sorriso, ma si ricompose subito. Quell’uomo l’aveva dapprima imbrogliata e poi le aveva persino impedito di entrare nell’ufficio di sua madre: non poteva di certo dimostrargli una faccia amichevole!

«Anne?», domandò una voce conosciuta, dall’interno.

L’uomo si fece da parte per far entrare Roxanne, che adesso lo scrutava sospettosamente. Lui, invece, continuava a sorriderle, rendendola forse un po’ troppo conscia di sé.

«Mamma ti ho portato questo», disse Roxanne, avvicinandosi alla scrivania dove sua madre era seduta.

«Grazie mille, tesoro», ringraziò la donna che aveva dei capelli a caschetto, neri come l’inchiostro e due occhi blu simili a quelli della sua figlia minore.

«Vedo che tutto sommato sei riuscita ad arrivare a destinazione», scherzò nuovamente l’uomo con un tono di voce musicale e molto piacevole da ascoltare.

«Sì», rispose Roxanne contrariata, «ma non grazie a lei». La sua sincerità, a volte, rasentava i limiti della maleducazione. L’uomo sembrò colpito dal commento, ma non si difese in alcun modo.

«Anne!», la sgridò sua madre, «Il professor Wane è arrivato da poco e non conosce molto bene il campus, perciò non devi prendertela con lui per averti dato delle indicazioni sbagliate!»

«Ma è arrivato qui prima di me, no?», domandò Roxanne con un pizzico di insolenza.

L’uomo annuì: «Sì, mi ha accompagnato un collega. Ero venuto ad assicurarmi che tu arrivassi qui sana e salva.»

Si morse la lingua, consapevole di essersi comportata malissimo.

«Oh, mi scusi allora.»

«Che ne dici di lasciar perdere il “lei”?», propose l’uomo con entusiasmo, «Mi chiamo Liam.»

Roxanne, che sin dall’inizio era stata conquistata dal sorriso dell’uomo, fu subito disposta a ritornare all’impressione positiva dell’inizio, senza portargli rancore.

Afferrò la sua mano più che prontamente e rispose: «Roxanne, ma tutti mi chiamano Anne.»

«Bene, Anne. Che ne dici se per ritornare indietro troviamo qualcuno che ci indichi la strada? Visto che è impossibile affidarsi al mio senso dell’orientamento, ci converrebbe farlo», suggerì il trentenne in torno ironico.

Roxanne pur avendo ben presente il tragitto, accettò la proposta, contenta di poter guardare per qualche minuto in più quel sorriso.

«Professoressa Miller, è stato un piacere conoscere lei e sua figlia», sorrise ancora Liam, mentre Roxanne arrossiva di botto e sua madre li salutava, prima di ritornare al suo lavoro.

Da quel giorno in poi, Roxanne cercò tutte le scuse per tornare all’università, quando ovviamente non doveva andare scuola. Anche se la signora Miller non aveva dimenticato nulla, Roxanne fingeva di doverle dire una cosa importante per passare puntualmente dall’ufficio di Liam, con cui nel frattempo era entrata molto in confidenza.

«Ti piace disegnare, allora?», le chiese un giorno l’uomo, mentre Anne stava abbozzando uno schizzo nel dipartimento d’Arte. Erano appena iniziate le vacanze estive e la ragazza ormai trascorreva ogni mattina in compagnia di Liam, passando appena per cinque minuti nell’ufficio di sua madre.

«Sì», annuì Roxanne, un tantino imbarazzata, coprendo quello che stava disegnando con la mano.

Lui gliel’afferrò delicatamente, scostandola dal foglio, per ammirare la figura abbozzata a matita.

«Non devi vergognarti di mostrare un tuo disegno. Lo sai che in queste linee c’è l’anima di chi le realizza? Hai forse paura di mostrare la tua anima?», le chiese lui con un tono soffice.

Lei lo fissò intensamente e rispose semplicemente: «No», rendendo completamente visibile il disegno.

Lui lo esaminò per qualche secondo e poi disse: «E fai bene, perché è un buon lavoro. Continua ad impegnarti.», concluse, scompigliandole i capelli.

Roxanne rise e tornò al suo schizzo, con ancora più dedizione di prima. Il profumo di Liam aleggiava ancora nell’aria. La mano che poco prima lui aveva afferrato, sembrava adesso contenere una qualche sorta di energia.

Era un bruciore immensamente piacevole che la ragazza ormai avvertiva sempre più spesso in sua presenza. E sebbene fosse piuttosto evidente, Roxanne comprese la natura dei suoi sentimenti solo qualche mese dopo.

Dopo il break delle vacanze natalizie ricominciò la scuola. Roxanne non rivide più Liam per quasi un mese e arrivato febbraio il suo compleanno era ormai alle porte. I suoi genitori organizzarono una piccola festa per il suo sedicesimo compleanno, a cui furono invitate solo le sue amiche più strette. Sebbene Roxanne fosse piuttosto benvoluta, non si sarebbe mai sognata di essere popolare a Miami, quanto lo era nella città di Kate. La realtà in cui si era trasferita successivamente era semplicemente un mondo diametralmente opposto a quello in cui aveva sempre vissuto.

La festicciola che era stata preparata per lei fu intima e divertente, ma sebbene Roxanne dispensasse sorrisi di qua e di là, c’era qualcosa che la tormentava.

Così, spegnendo con un soffio le candeline, non desiderò altro che rivedere ancora una volta il sorriso di Liam.

Pochi minuti dopo il campanello suonò e sua madre andò a rispondere.

«Chi è?», domandò Roxanne, senza sperare nulla in particolare, semplicemente per curiosità.

Sua madre sorrise senza rispondere, prima di aprire la porta e far entrare un individuo molto alto e occhialuto. Roxanne non credeva ai suoi occhi. «Vieni, Liam. Prego, entra.», disse la signora Miller e per un istante, prima che la confusione l’assalisse, Roxanne si chiese da quanto tempo sua madre avesse abbandonato l’appellativo di “Professor Wane” per riferirsi a lui semplicemente come Liam.

Quando poi lo sguardo di Liam incontrò il suo lui si illuminò di un sorriso e le si avvicinò, mostrando un mazzo di rose rosa che aveva dapprima nascosto dietro la schiena.

«Buon compleanno, Anne!»

Roxanne riuscì solo a rispondere un brevissimo grazie, ammirando estasiata quei fiori così rigogliosi. Tutte le sue membra tremavano e, ricacciando a stento le lacrime, lei capì di amarlo in quello stesso istante. Anzi, si rese conto di averlo amato dall’inizio. Si era infatuata di lui come una ragazzina debole e stupida, eppure adesso era arrivata ad un punto in cui le era impossibile ignorare i battiti accelerati del suo cuore e le mani che si facevano all’improvviso sudate per il nervosismo.

Suo padre, che a quel tempo viveva ancora con lei, le tolse i fiori dalle mani, asserendo che era meglio metterli in un vaso, ma Roxanne era ormai troppo su di giri per far caso a dei particolari del genere.

Per lei c’era solo Liam e basta.

Dopo un po’ di riflessioni, però, sembrò rendersi conto che la storia d’amore tra una ragazza di appena sedici anni e un uomo che ne aveva più di trenta, il quale non sembrava dimostrare alcuna inclinazione per lei, a parte l’amicizia, era praticamente impossibile.

Malgrado serbasse la delusione nel suo cuore, non riusciva ad impedire a sé stessa di correre da lui non appena fosse libera. Il campus dell’Università di Miami le era diventato ormai famigliarissimo e gran parte degli studenti del dipartimento d’Arte stravedevano per lei, considerandola quasi una mascotte.

Sei mesi dopo, sua madre chiese la separazione da suo padre. Roxanne non se ne meravigliò. Sentiva spesso sua madre piangere, perché abbandonata dagli impulsi egoistici del suo padre "bambinone" e, per quanto lo adorasse, riteneva fosse la cosa più giusta da fare. Ciò che la lasciò letteralmente basita, però, fu che suo padre alla vista delle carte del divorzio sparisse completamente dalla sua vita.

Ricordava ancora la sua corsa alla ceca, con le lacrime che le offuscavano totalmente gli occhi.

E ricordava soprattutto di essere piombata nelle braccia spalancate per la sorpresa di Liam, il quale aveva cercato di calmarla, bisbigliando parole di incoraggiamento.

«P-perché sembra che sia solo io a soffrire?», domandò, piena di rabbia e di rancore.

Liam, che pure avrebbe voluto dire tante cose, non rispose nulla, accarezzandole semplicemente la testa.

«M-mamma e M-Madison no-non hanno versato nemmeno una la-lacrima! C-come s-se non aspettas-sero altro c-che lui s-se ne andasse!»

«Non è così», disse lui, abbassando di qualche ottava il tono della sua voce, «Come tu sei venuta da me per piangere, loro magari hanno scelto di non farti vedere che stavano male per non renderti triste.»

«C-come po-posso n-non essere tr-iste? M-mio pa-padre s-se n’è a-andato!»

Lei strinse tra le sue mani la sua maglietta, singhiozzando appassionatamente accucciata sul suo petto, e lui non poté fare altro che ricambiare il suo abbraccio con tenerezza e compassione.

Roxanne era arrivata ormai alla conclusione che non avrebbe potuto più serbare i suoi sentimenti dentro di sé: doveva dirglielo ad ogni costo, anche se lui non provava la stessa cosa.

Ma, prima che potesse farlo, un’improvvisa notizia le arrivò come una mazzata sulla testa: sua madre si era trovata un nuovo fidanzato.
La ragazza considerava sua madre una donna piuttosto affascinante, malgrado i quarantotto anni d’età, ma non avrebbe mai ritenuto possibile che potesse riuscire a trovare così presto qualcun altro al posto di suo padre.

Sua madre, d’altra parte, si era categoricamente rifiutata di divulgare qualsiasi informazione sul suo nuovo compagno, prima della cena in cui l’avrebbe presentato ufficialmente alle figlie. Madison era la più scettica a riguardo, ma non osando distruggere le aspettative della madre, aveva invogliato anche Roxanne a mostrarsi entusiasta della situazione.

Nel frattempo, Roxanne, nella sua continua osservazione di Liam, l’aveva trovato un po’ più strano del solito, con la testa sempre sulle nuvole. Lui, però, aveva negato tutto con un sorriso e le aveva scompigliato ancora i capelli affettuosamente.
Roxanne si fece rassicurare da quelle parole e si accusò di essere diventata paranoica.

Il gran giorno della presentazione del nuovo fidanzato di sua madre arrivò in men che non si dica.

Roxanne guardò entrare dallo stipite della porta l’uomo di cui era innamorata, abbracciato a sua madre, e il mondo le cadde addosso.

Sua madre sorrise trionfalmente all’indirizzo della figlia minore. Era ormai a conoscenza dell’adorazione di Roxanne per Liam, anche se non poteva mai immaginare che si fosse trasformata in amore, e sapeva che anche lui le era molto affezionato. «Allora, Anne, non trovi che sia una meravigliosa sorpresa?»

Certo, una sorpresa lo era stata di certo, ma non era affatto meravigliosa.

Roxanne impiegò tutte le forze che possedeva per non crollare in quello stesso momento e finse un sorriso smagliante: «Sì, è una bellissima sorpresa.»

Era da quel momento che la sua vita si era trasformata in una finzione. Roxanne sorrideva anche se dentro di sé si sentiva morire e cercava di farsi in quattro costantemente per gli altri, solo per paura di essere abbandonata. Solo per conservare la stima di Liam, che amava così profondamente da stare male.

Riuscì a convivere con la situazione e ci si abituò, mantenendo il suo fronte allegro e sempre ottimista, fino a che sua madre non annunciò a lei e a sua sorella, con il solito tono di: “questo non si discute”, che Liam sarebbe andato a vivere con loro.

Roxanne, già in equilibrio precario, assistette passivamente agli eventi che l’assalivano. Da allora in poi si spense totalmente. Cercava di evitare il più possibile Liam, sebbene il suo cuore facesse male ogni secondo in cui lui era lontano, e diventò quasi invisibile.

Riusciva a rendersi praticamente priva di vita, mimetizzandosi con l’ambiente circostante, osando appena respirare.

E teneva gli occhi chiusi, timorosa di vedere qualche gesto d’affetto tra Liam e sua madre. Questo l’avrebbe davvero distrutta.

Ma a Liam, che l’aveva sempre vista come una ragazza solare, questo atteggiamento schivo non sfuggì di certo.

Era un comportamento talmente evidente che persino Madison e sua madre se ne erano accorte, eppure avevano deciso di darle tempo per superare da sola le sue difficoltà, conoscendo la testardaggine congenita della famiglia Miller.

Un pomeriggio in cui sua madre e Madison erano uscite per fare compere, Liam aveva avuto l’occasione per avvicinarla.

Roxanne, cercò dapprima di evitarlo, ma lui l’afferrò per il braccio e la costrinse a guardarlo negli occhi.

«Anne, è successo qualcosa?»

Roxanne scosse vigorosamente la testa, negando e implorandolo di lasciarla andare. Tutto inutile.

«Anne, c’è qualcosa che non va? Lo sai che puoi dirmi tutto!»

Lui le afferrò anche l’altro braccio, scuotendolo per spronarla a riprendersi.

«NO!», gridò lei, scoppiando a piangere. Lui la lasciò andare immediatamente, credendo di averle fatto male.

Roxanne cadde a terra. Un bozzolo di lunghissimi capelli mogano sparsi sul pavimento.

«NO! NO! NO!», continuava a ripetere, singhiozzando.

Lui non l’aveva vista reagire in quella maniera dalla scomparsa di suo padre. A quel tempo, era stato l’unico capace di calmarla.

Si inginocchiò accanto a lei e le posò delicatamente una mano sul braccio, massaggiandoglielo.

La piccola figura tremante iniziò a singhiozzare meno frequentemente.

«Puoi dirmi tutto», ripeté.

Roxanne tacque per un secondo e poi parlò, pronunciando quelle parole che non era mai riuscita a dire prima: «Io…ti amo.»

Lui, estremamente colto di sorpresa, si distaccò all’istante da lei.

Roxanne, nascosta dietro la sua coltre di capelli, lo sentì correre fuori dalla stanza.

E’ finita, pensò con l’animo a pezzi. E’ finita. Eppure si sbagliava di grosso.

Per altri due giorni, i due si ignorarono reciprocamente.

Roxanne iniziò a scambiare qualche parola in più con Madison e sua madre, e le due si ritennero soddisfatte del miglioramento. Fu Liam, invece, a rendersi improvvisamente taciturno.

La casa tornò ad essere nuovamente vuota e silenziosa, a parte lei. Roxanne pianse ancora di fronte a quelle mura che avevano ascoltato tanti dei suoi sospiri.

Un rumore, però, la distrasse. Voltandosi verso l’ingresso, scoprì che Liam era appena rientrato. Restò immobile, realizzando che era la prima volta che restavano soli dopo la sua dichiarazione. Cercò di pulirsi in fretta le lacrime, con la manica della maglietta e si fiondò subito in camera sua.

«Aspetta!», gridò Liam.

Lei, incapace di disobbedire ai suoi occhi, smise di correre e si voltò verso di lui.

Era l’unico in grado di decidere della sua sorte: regalarle la felicità o privarla completamente del suo sorriso.

Si sentì come un condannato ad un processo.

Liam la scrutò a lungo. Poi, con due grandi passi, la raggiunse e l’abbracciò stretta.

Lei ebbe l’impressione di soffocare tra le sue braccia, tanto più forti e robuste delle sue. Desiderando che quel momento non avesse mai fine, nascose la testa nell’incavo del suo collo, godendosi quel tepore.

Liam voltò leggermente il viso e si trovò faccia a faccia con lei.

Respiravano lentamente l’uno il respiro dell’altra, incapaci di smettere di fissarsi.

Lei, che aveva ormai già deciso di lasciar perdere la ragione, si aggrappò alla sua nuca e lo tirò verso di sé per il loro primo bacio.

Primo bacio che non sarebbe di certo restato l’ultimo.

Fu così che ebbe inizio il periodo più felice della vita di Roxanne: tra baci rubati in bagno e parole d’amore sussurrate tra le lenzuola disfatte.

La loro passione si consumava in segreto, alle spalle di sua madre che ne era totalmente ignara.

«Forse dovremmo smetterla», avevano ripetuto un sacco di volte, consapevoli del loro tradimento. Eppure non avevano smesso affatto.

Lui non sembrava averne mai abbastanza della dolce pelle di Roxanne e lei non riusciva a fare a meno del suo sorriso e della sua voce.

Ma dopo altri incontri clandestini, il senso di colpa piano piano iniziò a schiacciarla.

«Perché continui ancora a stare con mia madre?», gli chiese, guardandolo dritto negli occhi.

Era notte fonda, e sia sua madre che Madison erano profondamente addormentate nei loro letti.

«Io voglio bene a tua madre», le rispose Liam, « E’ un periodo difficile per lei, non posso lasciarla sola, lo capisci?»

E Roxanne annuiva, contenendo la feroce gelosia che provava nel vederli anche solo scambiarsi coccole innocenti.

«Io amo solo te, Anne», assicurava Liam, baciandole la fronte. E lei ci credeva, perché lo amava talmente tanto da non riuscirgli a dire di no. Ci credeva perché lo riteneva la persona più affidabile del mondo.

«Quando questa situazione si sistemerà, le dirò tutto e noi potremo essere finalmente liberi di stare insieme alla luce del sole», le prometteva allora, quando le domande della ragazza si facevano più frequenti.

«Ti fidi di me, no?»

«Sì. Certo che mi fido di te.»

Almeno tutto fino a quel giorno.

Una bella mattina di marzo, sua madre aveva mostrato a lei e Madison un raffinatissimo anello sul quale era incastonato un brillante.

«Io e Liam ci sposiamo», aveva dichiarato raggiante.

Sentendo quelle parole, Roxanne capì di essere stata solo una stupida.

Scappò via, odiando se stessa, vergognandosi di tutto ciò che aveva fatto, del modo in cui aveva tradito sua madre e qualsiasi principio morale. Non c’era più posto per lei in quella casa.

Raccolse qualche ricambio in un borsone e affittò la camera di un motel da quattro soldi con i pochi risparmi che aveva racimolato. Restò lì per quasi 26 ore, senza bere, né mangiare, fissando senza espressione le pareti grigie e monotone di quel tugurio.

Voleva morire, voleva sinceramente morire, eppure non era in grado di farlo. Riusciva solo a rimanere immobile.
Alla fine, anche tutti i suoi pensieri in quell’immobilità erano cessati.

Vi era solo il nulla.

Poi, quando tutto sembrava essere diventato statico e immutabile, Madison aveva fatto irruzione nella sua stanza e l’aveva trascinata fuori di lì.

Non le chiese nessuna spiegazione, ma le ordinò semplicemente di salire in macchina.

Sulla strada verso casa, Roxanne le disse semplicemente: «Se non mi lasci andare, scapperò di nuovo.»

Madison, conscia della sua determinazione, le rispose solamente: «Va bene, allora scapperemo insieme.»

Una settimana dopo, avevano lasciato la Florida, dirette verso il Wisconsin, dove Madison aveva accettato un’offerta di lavoro, propostale quasi un anno prima.

Senza lasciare ulteriori spiegazioni in merito, né specificare quando sarebbero tornate.

 

«O-oggi è st-ata la p-prima v-volta che li r-rivedevo da q-quando c-ce ne s-iamo an-date», ha singhiozzato Roxanne, completamente a pezzi.

Non credevo alle mie orecchie. Tutta la sua storia aveva un che di assurdo. Non riuscivo affatto ad ammettere che fosse la verità.

Lei si è rannicchiata accanto a me, con le spalle incurvate sotto una tristezza forse troppo grande.

Le ho sfiorato la schiena, cercando di calmarla, e lei mi si è aggrappata al collo.

Sono stata io la prima a subire l’effetto calmante di quel contatto. All’improvviso, con le sue braccia attorno a me, tutto quello che è successo con Nathan e Jason è passato in secondo piano. C’eravamo solo io, lei e nient’altro.

E’ stato proprio allora che sono stata colpita dalla consapevolezza di essere finalmente venuta in possesso del segreto di Roxanne Miller. Se tutta quella storia si rivelava vera, allora avevo anche smascherato la farsa di brava ragazza che la Miller continuava a mantenere.

Come può considerarsi una brava ragazza, d’altronde, qualcuna che è andata a letto con il fidanzato di sua madre?

Lei è bugiarda e corrotta quanto me.

Mentre prendevo in considerazione il da farsi, però, Roxanne ha parlato ancora, mostrando questa volta una voce più calma: «E’…la prima volta che ho raccontato a qualcuno…di me e Liam. Nemmeno Madison sa cosa sia veramente successo.»

“Perché? Perché proprio a me?”, ho pensato scioccata.

«Perché…tu sei la migliore amica che io abbia mai avuto, Kate.», ha confessato.

Sono stata totalmente assalita dalla confusione e anche i miei complotti sono andati a farsi friggere.

Non ho mosso nemmeno un muscolo in risposta e lei si è staccata dal mio abbraccio, senza aspettarsi apparentemente una qualche reazione.

«Non sei disgustata?», mi ha chiesto, strofinandosi gli occhi e impiastricciandosi ancora di più il trucco.

Io le ho afferrato il polso per impedirle di sporcarsi maggiormente la faccia.

«No», ho risposto semplicemente. Io stessa avevo fatto cose molto peggiori nella mia vita, per potermi stupire delle azioni altrui. «Sono solo sorpresa.»

«Sorpresa?», ha domandato, quasi incredula.

«Sì, mi chiedo come tu abbia fatto ad amare uno stronzo del genere.»

Lei ha fatto un sorriso amaro, ma non ha risposto.

E io ho improvvisamente capito che non eravamo affatto uguali. Io avevo mentito, ingannato e tradito chissà quante persone per un mio puro e semplice divertimento; Roxanne invece aveva fatto tutto per amore.

«Amare qualcuno…può essere una giustificazione sufficiente?», mi ha domandato lei, ricalcando quasi i miei pensieri.

Io ho scollato le spalle: «Non lo so.»

“Non sono capace di amare nient’altro che me stessa. Faresti meglio a chiedere a qualcun altro.”, avrei voluto risponderle, ma mi sono limitata a fissarla, mentre con il capo chino meditava su chissà cosa.

«Sei scappata dalla festa perché avevi paura di affrontarlo?», le ho domandato.

Lei ha annuito.

«Lo ami ancora?»

Roxanne si è voltata verso di me. Il mascara le era colato completamente sulle guance, rendendole quasi nere. «Direi che…sono stata abituata ad essere innamorata di lui per troppo tempo e adesso non riesco più a farne a meno.»

«Ma sei vuoi andare avanti devi mettere da parte il passato.», ho detto, non sapendo bene se mi riferissi più a me o a lei.

«Lo so…», ha mormorato con un gemito, prendendosi la testa tra le mani.

«Kate…perché vogliamo sempre ciò che non possiamo avere?», mi ha domandato con tormento, ma anche rassegnazione.

Lei si era innamorata di qualcuno che non avrebbe mai potuto essere suo. Aveva infangato anche il legame di sangue che la connetteva a sua madre.

Io ci ho pensato un attimo su e ho risposto: «Perché sarebbe illogico desiderare quello che abbiamo già.»

Lei ha annuito, tenendo sempre la testa bassa.

Mi sono alzata in piedi.

Roxanne mi ha guardato allarmata e mi ha trattenuta per il vestito, credendo volessi andarmene.

Io ho scacciato la sua mano e l’ho spinta a seguirmi, invece.

«Dobbiamo andare a sistemare quel trucco. E’ un disastro!», ho esclamato con un’intonazione quasi scioccata. Lei si è lasciata trascinare senza proteste verso il bagno, dove con un po’ di pazienza le ho levato i residui di mascara e ho applicato nuovamente l’ombretto sulle palpebre.

Quando ho finito con il make-up, attraverso lo specchio del bagno le ho intimato: «E adesso guai a te se piangi ancora e rovini tutto questo lavoraccio!»

Roxanne ha riso brevemente, conservando tuttavia un alone di tristezza.

«Adesso tornerò giù e tu verrai con me», le ho ordinato, guardandola assumere un’espressione spaventata.

«No! Non posso!», ha gridato, rifiutando categoricamente quell’opzione.

Io non mi sono arresa; non l’ho mai fatto, d’altronde.

«Hai intenzione di nasconderti per tutta la vita? Credi davvero di poter fuggire da lui per sempre? Vuoi che la tua vita sia controllata dal suo fantasma?», le ho chiesto, assillandola di domande.

«No…», ha sussurrato, «Non voglio, ma…»

«Allora niente ma», ho detto, fissandola dritto negli occhi.

Lei mi ha afferrato il polso.

«Kate, davvero, io non ce la faccio…», ha tentato di protestare, con voce tormentata.

Io mi sono liberata da quella presa e ho afferrato il suo polso. «Non c’è bisogno di preoccuparsi», ho detto, tentando di infonderle lo stesso effetto calmante che aveva su di me.

Abbiamo iniziato a scendere le scale. Io la precedevo di qualche gradino.

Roxanne ha ruotato il polso e mi ha afferrato la mano. «P-promettimi che resterai accanto a me…»

«Va bene», ho risposto con un sospiro, senza voltarmi.

In giardino la festa procedeva ad un ritmo incalzante.  Mentre tutti si sbizzarrivano in danze scatenate, Madison è corsa verso di noi, apparentemente sollevata di rivederci.

«Ma dove siete andate a finire?»

«Le stavo facendo vedere meglio il giardino», ho risposto, lasciando andare la mano di Roxanne, che si è mantenuta comunque incollata al mio fianco.

«Capisco…Anne, vieni subito con me! Mamma e Liam non ti vedono da mesi e tu sparisci così sul più bello!»

«Ah…sì», ha balbettato Roxanne, lanciandomi con la coda dell’occhio uno sguardo che sembrava voler dire: non-azzardarti-a-svignartela.

Io l’ho seguita di buon grado, mentre Madison ci conduceva da loro.

«Oh, eccola lì! Anne, tesoro, come mai oggi sei così sfuggente?», le ha chiesto la signora Miller con un sorriso raggiante. Roxanne ha cercato di rispondere nel miglior modo possibile. Le sue labbra hanno tremato per un attimo, prima di aprirsi in un sorriso.

Non avrei mai ammesso prima di avere un punto in comune con Roxanne Miller, eppure adesso dovevo farlo.

Lei è brava a fingere che tutto sia apposto almeno quanto me. Ho sempre avuto ragione su di lei: è uguale a me, né più, né meno.

Ho alzato lo sguardo e ho incontrato gli occhi di Liam, fissi su di lei. Quando lui si è accorto di essere stato scoperto, io ho sorriso in modo mellifluo, lasciandolo un tantino perplesso.

Hanno continuato a chiacchierare del più e del meno e Roxanne si è persino sforzata di rispondere in modo educato a Liam, senza però osare guardarlo dritto negli occhi. Ho apprezzato il tentativo.

Poco dopo, quando Madison ha visto sopraggiungere verso di noi Simon, apparentemente in cerca di qualcuno, se l’è svignata il più in fretta possibile, lasciandoci tutti a bocca aperta.

«Oh, Kate! Anne!», ha esclamato il ragazzo dai capelli rossi, riconoscendoci.

«Simon!», ho risposto io, altrettanto raggiante. «Come vanno i piedi?», ho domandando, indossando una maschera di innocenza.

Lui si è sforzato di ridere, ma doveva ancora considerarlo un ricordo orribile: «Ahahah! Meglio, grazie!»

«Visto che io sono così sbadata, perché non balli invece con Roxanne? Mi ha detto che adora il rock n’roll!»

«Davvero?!», ha chiesto Simon, accendendosi di entusiasmo.

Roxanne mi ha lanciato un’occhiata allarmata, ma io l’ho ignorata.

Il suo spirito della crocerossina, però, l’ha spinta ad assecondarmi: «Sì. E’ vero.»

«Allora andate!», li ho incitati con fervore, mettendo in atto parte della mia piccola vendetta contro Roxanne e Madison, le quali prima mi avevano lasciato volontariamente in balia dell’assillante Simon. Oh, se solo fossi riuscita ad acchiappare Madison…

Roxanne, seppure con un sorriso tirato, ha seguito Simon a bordo pista. Sapevo che era segretamente rincuorata di non dover passare altro tempo con Liam.

L’avevo fatta allontanare anche per questo? Può darsi.

Essendo rimasti ormai solo in tre, la signora Miller ha cercato di attaccar bottone con me.

«E così vai a scuola con Anne?», ha chiesto bonariamente. Era sul serio una signora affascinante. Elegante e snella, malgrado l’età.

«Sì», ho risposto, ostentando un sorriso: il mio miglior biglietto da visita. «Frequentiamo varie lezioni assieme.»

«Sono così contenta che Anne abbia trovato un’amica come te. Ti ringrazio tantissimo per la festa che hai organizzato per Madison…»

«Non è stato niente, davvero», ho replicato con falsa modestia, dimostrandomi sempre estremamente cortese.

«Scusa l’eccessiva faccia tosta», è intervenuto Liam, con un tono allegro e particolarmente gioviale, «Hai mai pensato di fare la modella?»

Mi aveva fatto la stessa domanda che Madison mi aveva posto il giorno precedente. Anche se a pelle lo trovavo piuttosto antipatico, mi sono comportata come se fosse uno dei miei più cari amici: «No, non proprio», ho confessato con un sorriso imbarazzato, «Perché me lo chiede?»

«Beh, come Anne o Madison devono averti già detto, lavoro al dipartimento d’Arte dell’Università di Miami. Spesso ingaggiamo delle modelle che posino per i vari artisti o per gli stessi studenti. Ecco, mi chiedevo se ti interesserebbe fare qualcosa del genere…»

L’ho guardato un tantino perplessa, sinceramente presa in contropiede dalle sue parole.

«In ogni caso, questo è il biglietto dell’agenzia che seleziona per noi le modelle.», ha detto porgendomi un cartoncino arancione emerso dal suo portafoglio, «E’ un’agenzia estremamente seria e professionale, te lo assicuro. Potresti contattarla anche per fare dei provini televisivi…»

Ho preso in mano il biglietto e lui mi ha sorriso: «Pensaci con calma.»

Madison è ricomparsa magicamente, asserendo di dover far assolutamente vedere qualcosa a sua madre, e l’ha trascinata con sé chissà dove.

Io e Liam siamo rimasti soli.

Nell’aria si avvertiva una certa tensione, che sembrava provenire principalmente da me, e rendeva l’atmosfera elettrica. Ho intercettato il suo sguardo ancora fisso su Roxanne.

Lei, ignara di tutto, si stava scatenando con Simon al centro della pista da ballo.

Era tranquillizzante vederla di buon umore, dopo tutte quelle lacrime a cui avevo assistito quella stessa sera. Volteggiava in modo leggiadro, scuotendo la sua ampia gonna anni sessanta ed esibendo un’espressione allegra, altrettanto ricambiata dal suo compagno di danze. Magari aveva scoperto di essere più simile a lui di quanto avesse mai pensato.

Quel pensiero mi ha fatto ridacchiare ad alta voce.

Liam mi ha guardato perplesso e io gli ho rivolto un sorriso furbo: «Come trova Roxanne?»

Lui ha esitato per un attimo e poi mi ha risposto: «Non pensavo di trovarla così…bene. D’altronde è arrivata qui da meno di due mesi…ma sembra davvero cavarsela alla grande.»

Sembrava persino deluso.

Io ho annuito.

«Forse non credeva che sarebbe stata in grado di vivere senza di lei?», ho chiesto con un tono sarcastico.

Lui era letteralmente scioccato.

«Beh, sì sbagliava», ho detto semplicemente, prima di voltargli le spalle e allontanarmi.

Sulla mia strada ho incontrato George, un appassionato di surf, molto amico di Jason.

«Ehi Kate! Ti va di ballare?», mi ha proposto, in una maniera completamente priva dell’insolenza di Simon.

Io ho esitato un attimo. Jason era un suo amico…si sarebbe ingelosito?

“No, con Jason è finita”, mi ha ricordato una voce zelante proveniente dai miei pensieri. Con frustrazione, mi sono trovata costretta a darle ragione.

Ho accettato la mano di George e gli ho risposto: «Certo.»

Dopo gli eventi incredibili e le scoperte della prima parte della serata, ritrovarmi a ballare tranquillamente assieme a George è stata la cosa più inaspettata che mi potesse capitare. Ho tenuto sempre d’occhio Roxanne e i suoi movimenti, senza tralasciare la posizione di Liam. Vederla a debita distanza da lui mi ha notevolmente rassicurata.

Quasi all’una di notte, Madison si è avvicinata a me con fare furtivo, assieme a sua sorella.

«Kate…noi dovremmo andare…», mi ha detto con delicatezza, quasi per non farmi arrabbiare.

«E perché?», ho domandato, incredula, «La festa non ti è piaciuta?»

«No, no, non è per quello. E’ che nostra madre e Liam torneranno in Florida domani mattina con il primo volo delle sette e vorrebbero riposarsi almeno un po’ prima della partenza.»

«Oh», ho mormorato. Lo sguardo di Roxanne, accanto a lei, sembrava piuttosto allarmato.

«Ma Roxanne resterà qui», ho dichiarato, «Deve aiutarmi a rimettere a posto, più tardi.»

«Ah…vuoi che resti anch’io?», si è offerta Madison, seppur a malincuore.

«No, non preoccuparti. Siamo a posto così», l’ho rassicurata con un sorriso, «Per te va bene, Roxanne?»

Lei ha annuito talmente forte da staccarsi il collo.

Naturalmente la mia era solo una scusa. Avevo chiaramente capito dalla quella occhiata di puro panico, che Roxanne non voleva restare per una notte intera sotto il suo stesso tetto. A pulire ci avrebbero pensato Marissa e gli altri inservienti, il giorno successivo. Il mio ultimo compito della serata sarebbe stato salutare tutti gli invitati e ricevere gli ultimi complimenti.

Quand’ anche il cancello della mia villa si è richiuso e il giardino si è svuotato, mi sono ritrovata abbastanza stanca per andare a dormire. Ho fatto preparare un letto per Roxanne in camera mia e ho riposto via il lungo abito di satin, per indossare una corta e più pratica camicia da notte di seta. Roxanne, invece, si è cambiata in una semplicissima maglietta un po’ più lunga del normale che è saltata fuori come per magia dal mio armadio delle meraviglie.

«Non russi, vero?», le ho chiesto, domandandomi se utilizzare o meno i tappi per le orecchie.

Lei ha riso di cuore. «No. Dovresti saperlo.»

«L’altra volta ero ubriaca fradicia e sono crollata immediatamente», mi sono giustificata, infilandomi dentro le coperte e spegnendo la luce.

Abbiamo condiviso qualche minuto di pacifico silenzio al buio. «Kate?», ha mormorato Roxanne.

«Mh?»

«Se non fosse stato per te, sarei rimasta tutta la sera in questa camera a tremare come un coniglio…», ha iniziato a dire.

«Oh, no. Non andare avanti o stanotte potrei avere degli incubi in cui hai le orecchie lunghe e ti muovi saltellando!», mi sono lamentata, ironicamente.

Lei ha riso e quel suono cristallino, sempre a causa dello strano potere che lei esercita sul mio umore, ha trasmesso una certa ilarità anche a me.

«A parte gli scherzi…», ha continuato.

«Guarda che non stavo scherzando. I miei incubi sono terribili!», ho ripetuto, ridendo apertamente questa volta.

«No. Dico sul serio…Kate, grazie

Ho lasciato che trascorresse qualche altro istante di silenzio e le poi le ho risposto, in tono soffice e per niente polemico: «Chiudi quella boccaccia e dormi.»

Una risata soffocata. «Buonanotte.»

Il mattino dopo, ovvero oggi, al mio risveglio, Roxanne era già andata via. Ed era anche piuttosto ovvio, visto che ho riaperto gli occhi solo dopo mezzogiorno.

Scesa in cucina, Marissa mi ha servito la colazione, anche se in realtà si trattava del pranzo, porgendomi un biglietto accuratamente piegato.

Diceva:

 

Lo so che ormai ti sarai stancata di sentirmelo ripetere, ma grazie. Grazie davvero.

Non so come esprimere tutta la gratitudine che sento dentro di me, quindi non posso far altro che riscriverlo ancora ed ancora.

Grazie per avermi dato coraggio e avermi fatto capire che posso andare avanti anche da sola, perché ormai i giorni in cui io ero schiava del suo sorriso sembrano del tutto passati.

Adesso me ne sono resa conto.

 

Ti voglio bene.

 

                                                                                          RoxAnne.

 

Ho guardato sinceramente stupita il pezzo di carta, soffermandomi soprattutto sugli ultimi due righi. Sembrava che all’inizio avesse scelto di firmassi semplicemente Anne, e poi avesse improvvisamente deciso di aggiungere le prime tre lettere del suo nome.

Ma era quel “ti voglio bene” la parte che non riuscivo a smettere di fissare. Ero sempre stata abituata ai zuccherosi “tvb” che le Gallinelle aggiungevano alla fine di ogni sms, come una semplice decorazione. Quello a cui non sono affatto abituata sono i “ti voglio bene” scritti per esteso e quelli detti faccia a faccia.

«Ti voglio bene», ho ripetuto, leggendo ad alta voce.

 

Era così strano sentir provenire simili parole dalle mie labbra.

 

 

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Capitolo 14
*** cap 14: La Fine ***


Salve a tutti e scusatemi ancora per il ritardo nell’aggiornamento…ormai sembra che io inizi il capitolo sempre allo stesso modo, ma purtroppo non ci posso far niente se un sacco di complicazioni si frappongono tra me e il tasto “Aggiungi un capitolo”

 

EDIT: Salve a tutti e scusatemi ancora per il ritardo nell’aggiornamento…ormai sembra che io inizi il capitolo sempre allo stesso modo, ma purtroppo non ci posso far niente se un sacco di complicazioni si frappongono tra me e il tasto “Aggiungi un capitolo”. Infatti, stasera devo ringraziare enormemente la mia carissima Contessa che ha pubblicato per me questo capitolo, dato che per vari problemi al pc, non mi è possibile entrare su internet. Grazie mille Giù, non saprei come fare senza di te, sei un tesoro!

Ritornando al capitolo, inizialmente avevo in mente un capitolo molto più ampio, ricolmo di avvenimenti e cose varie, ma in mancanza di tempo sono stata costretta a dividerlo in due parti, di due giorni differenti.

Contrariamente al titolo del capitolo, non si tratta della fine di BisB...per come ho pianificato tutto, tutta la pappardella andrà avanti per un po' e ho anche in mente un seguito XD. Spero che nonostante tutto, però, continuiate a seguirmi!

Ringrazio infinitamente Balakov, Flow, Pigna, Nikoletta89, per le graditissime recensioni, che fortunatamente non mi hanno linciata dopo lo scorso capitolo XD.

Piccolissima precisazione: malgrado possa essere sembrato così, Kate non ha detto di voler bene a Roxanne, chiariamoci U_U, ha semplicemente letto il suo biglietto che recitava quelle parole.

In ogni caso, mi auguro che anche questo capitolo sia di vostro gradimento, e vi do appuntamento al prossimo aggiornamento!




***

 

Dicono che il tempo sia in grado di rimarginare le ferite e combattere il dolore. Eppure, allo stesso tempo, esso non può nulla contro i ricordi.

Può sbiadirli, affievolirli, ma mai annullarli del tutto.

Ancora oggi le bastava solo chiudere gli occhi per rivedere il suo viso e far finta che niente fosse accaduto.

Per continuare a mentire come aveva sempre fatto.

 

25 maggio

 

Sono giunta ad un compromesso con me stessa: non scrivere sul diario più una volta a settimana.

Credo che sia logico, quindi, che ci sia un bel po’ da raccontare, dato che durante questi sei giorni è accaduto davvero di tutto.

Ma procediamo con calma da lunedì.

La tranquillità è qualcosa che non provavo da un bel po’, devo ammetterlo.

Passare il pomeriggio distesa sul letto, nell’assorta lettura di un giornale, con accanto a me Susie intenta a fare le fusa…avevo quasi dimenticato la piacevolezza di un tale passatempo.

Proprio per questo, quel pomeriggio avevo deciso di riscoprire il sapore di un tale ozioso relax.

E sarei anche riuscita nel mio intento, se qualcuno all’improvviso non avesse deciso di disturbarmi.

Tale disturbatore, come si può immaginare, non era niente po’ po’ di meno che Roxanne Miller.

«Ehi Kate!», ha esclamato con un sorriso smagliante, facendo irruzione in camera mia. Probabilmente pensava che bussare alla porta non fosse nient’altro che una noiosa formalità.

Trovandomi faccia a faccia con la mia nemesi, mi sono alzata di scatto, ricomponendomi in modo brusco e mettendomi a sedere correttamente.

Susie è saltata giù dal mio grembo con un balzo elegante.

La sorpresa sul mio viso era abbastanza evidente.

«C-che ci fai qui?», ho domandato incerta.

Roxanne ha allentato la sciarpa rosa che aveva al collo, guardandosi distrattamente intorno.

«Speravo di non disturbare, ma evidentemente non stavi facendo nulla di importante!», ha continuato entusiasta, ignorando la mia domanda.

«Ah…ah», ho acconsentito, ancora un tantino scossa.

Susie si è avvicinata in modo diffidente a lei, avvicinando il suo musetto grigio alla mano abbronzata della Miller.

«Attenta», l’ho ammonita, «E’ un po’ aggressiva con gli sconosciuti e tende a graffiarli…»

Roxanne ha alzato un paio di occhi ridenti su di me: «Ah sì, mi avevi già detto che era una gatta piuttosto violenta.»

Rispondendo al mio sguardo perplesso, lei ha mi ha ricordato: «Hai presente il morso sul collo?»

E’ vero. La mia patetica scusa. Me n’ero quasi scordata.

I suoi occhi hanno scintillato in modo canzonatorio, ma io ho fatto finta di niente, cercando di dimostrarmi il più naturale possibile. Con lei accanto, però, il tutto diventava estremamente difficile.

«Ah già…beh, sì, infatti è proprio questo che intendevo dicendo che è aggressiva», mi sono subito corretta, alzando il mento in un atteggiamento convinto.

Roxanne non ha risposto, ma si è semplicemente seduta sul bordo del mio letto, faccia a faccia con la mia gatta che continuava ad annusarla con soddisfazione.

L’ha lasciata fare per un po’ e, dopo essere stata riconosciuta adeguatamente, ha iniziato a massaggiarle morbidamente il pelo.

Le fusa di Susie sono diventate talmente tanto rumorose da far tremare tutto il letto.

«Ma che aggressiva!», ha riso allora Roxanne, «guarda qui, è una tenerona!»

Così dicendo, le ha preso il muso con entrambe le mani e l’ha baciata sulla fronte arruffata dalle carezze.

Ho soffocato un gemito di disgusto alla scena.

Tsk. Che gatta traditrice e svenevole che mi ritrovo! E’ pronta a soccombere ai piedi di chiunque le presti un po’ di attenzione!

«Non l’avevo mai vista qui prima di oggi», ha detto Roxanne con un lieve sorriso, senza deviare la sua concentrazione dall’essere peloso che sembrava tanto gradire le sue coccole.

«E’ perché di solito le piace gironzolare per la casa», ho replicato, raccogliendo le gambe e inginocchiandomi sul materasso in stile giapponese. Ho battuto poi le mani sulle mie cosce, coperte solo in parte da mini pantaloncini, e Susie si è precipitata verso di me, accoccolandosi nello spazio che le avevo riservato.

Malgrado si allontani spesso da me, l’unico posto dove ritorna sempre è tra le mie braccia.

Roxanne è rimasta con le mani a mezz’aria, improvvisamente vuote. Poi le ha riabbassate dopo un primo momento di esitazione.

Il suo sorriso era sfuggito dalle sue labbra, proprio come Susie era sfuggita dalla sua presa.

Ho preso la mia gatta in braccio, lasciando che si accoccolasse contro il mio petto proprio come un bambino. Il rauco vibrare delle fusa contro la mia gabbia toracica era straordinariamente rilassante.

Ho rivolto allora il mio sguardo verso Roxanne. Lei ha fatto lo stesso, restituendomi un’occhiata da dietro le lenti dei suoi occhiali da vista.

Indossava una maglietta dal colore sgargiante, arancio evidenziatore, e un paio di jeans chiari su delle scarpe sportive e colorate.

E come quella stessa mattina, sembrava sentirsi a disagio in mia presenza. L’ho vista discostare in fretta la sua attenzione da me, per commentare distrattamente un quadro appeso alla parete.

Poi è ritornato il silenzio.

Abbiamo ascoltato i soddisfatti mormorii di Susie per diverso tempo, finché Roxanne non ha preso la parola.

Seduta ai piedi del mio letto, l’ansia che stava provando era palesemente visibile dal suo comportamento.

Si toccava nervosamente i capelli, per poi torcersi le mani in una presa ferrea.

I suoi occhi erano sfuggenti e mai focalizzati su di me, quasi temesse alzare lo sguardo.

«Ascolta…per quello che ti ho detto sabato, io…», ha iniziato incerta, «Vorrei che tu non ne facessi parola con nessuno…Soprattutto con Madison.»

Ho accarezzato teneramente la nuca della mia gatta, scrutando con le sopracciglia aggrottate Roxanne.

La chioma mogano, raccolta in una treccia larga, appariva ancora più disordinata del solito.

Due ampie occhiaie contornavano le sue iridi zaffiro, mai come in quel momento prive del solito scintillio di vivacità che le caratterizzava.

La sua schiena incurvata sembrava supportare un peso insormontabile.

C’era chiaramente qualcosa che non andava, che la preoccupava.

La patina che ricopriva le sue menzogne piano si è fatta più sottile, dissolvendosi come mille veli sparpagliati dal vento, e sono riuscita a vederci attraverso.

“Ormai i giorni in cui io ero schiava del suo sorriso sembrano del tutto passati”, queste erano state le sue parole.

Perché allora fingere in quel biglietto che tutto andasse bene?

“Grazie per avermi dato coraggio e avermi fatto capire che posso andare avanti anche da sola”.

Bugie. Altre bugie.

Malgrado io stessa sia un’esperta bugiarda, non riuscivo proprio a capire il suo comportamento.

«E io vorrei che tu la smettessi di mentire», le ho risposto, evitando la sua domanda, proprio come lei aveva fatto prima con me.

Aver svelato quel segreto aveva abbattuto drasticamente la distanza tra di noi, eppure allo stesso tempo aveva creato un disagio difficile da superare.

Lei mi ha fissata allarmata. Era forse sorpresa di essere stata scoperta? Non credeva che sarei riuscita a vedere al di là della sua farsa?

Considerando l’indebolimento che le mie abilità recitative subiscono in sua presenza, è semplicemente naturale che nemmeno lei riesca a mentire con me.

Non che ci fosse mai riuscita prima, comunque.

«Quando hai detto che stavi bene, che l’avevi finalmente dimenticato, stavi mentendo, vero?», ho ripetuto.

Era una menzogna anche quel “ti voglio bene?”.

Il mio tono era calmo e tranquillo; martellante come una sentenza.

Lei, d’altro canto, sembrava piuttosto agitata. Ha scosso la testa con affanno e nei suoi occhi ho visto brillare delle lacrime.

«No!», ha sospirato a stento, «No, io…io…io…»

Sembrava sul serio in difficoltà con le parole.

«Perché sei qui, Roxanne? E non dirmi che sei venuta perché avevi paura che io dicessi qualcosa a qualcuno.»

L’ho vista sgranare gli occhi.

«Allora?»

Mi ha staccato gli occhi di dosso, volgendomi le spalle.

«Lui mi ha chiamata», è stato tutto ciò che ha detto.

Ho mollato Susie di scatto e lei ha protestato con un miagolio infastidito, balzando giù dal letto.

«Lui…mi ha chiamata. Liam mi ha chiamata», ha ripetuto con voce rotta.

La sua schiena sobbalzava a ritmo irregolare, ma sapevo che non stava piangendo.

«E tu gli hai risposto?», ho domandato, sentendo affiorare dentro di me un’enorme incertezza.

«Ho aperto la chiamata e l’ho lasciato parlare», ha mormorato lei.

Il mio silenzio deve esserle apparso come un incoraggiamento a continuare.

«Vuole vedermi, questo fine settimana.»

«Ve…vederti? Che vuoi dire?! Non sta per sposare tua madre?!», ho chiesto a raffica, senza riuscire a controllare il mio bisogno impellente di sapere.

Lei si è stretta nelle docili spalle che in quel momento mi sono sembrate più minute del solito.

«Ha un convegno ad Huston, martedì prossimo. Ha detto che il suo aereo farà scala a Milwaukee e quando sarà qui vuole vedermi per chiarire.»

La sua voce, inizialmente tremula e esitante, adesso appariva semplicemente inespressiva e distaccata.

Probabilmente i suoi occhi zaffiro si erano annuvolati di lacrime, persi in ricordi sottratti al tempo. Persi in ricordi che sin dall’inizio non sarebbero mai dovuti essere i suoi.

Oppure no.

Ciò che mi era permesso vedere era solo una schiena ricurva, ricoperta da una T-shirt arancione.

Una schiena indebolita dal dolore, eppure capace di sopportarne ancora.

Ma chi è in realtà una persona forte? Qualcuno che affronta a muso duro le difficoltà, oppure qualcuno che le accetta, ci convive, e nel frattempo continua ad andare avanti?

«Andrai all’appuntamento?», ho chiesto a bassa voce.

In qualche modo, avevo persino paura della sua risposta.

Lei ha scrollato ancora le spalle, senza rispondere nulla.

«…»

«Non ci andare», le ho detto.

La sua schiena si è risollevata leggermente, per poi bloccarsi per la sorpresa.

«Eh?»

«Non ci andare», ho ripetuto, «Mi hai detto che ormai lui è un solo ricordo per te: dimostramelo.»

Ho sperato sinceramente che le mie parole la raggiungessero prima che fosse troppo tardi.

«Roxanne, non ci andare», ho detto ancora, con fermezza.

Era ormai difficile non scambiare le mie parole per un ordine.

Lei si è alzata, senza mai voltarsi verso di me, e ha raggiunto la porta.

«Scusami», ha bisbigliato, prima di richiudersela alle spalle.

Mi sono immobilizzata.

Ho continuato a fissare con rabbia per altri interminabili istanti, il punto che la sua schiena aveva occupato fino a qualche minuto prima.

Mi sono imposta di stare calma, invano.

Con un intenso movimento, il mio petto si è alzato e abbassato, a ritmo del mio respiro accelerato.

Aveva osato andarsene? Aveva osato ignorare la mia domanda? Aveva osato disubbidirmi?

Ho afferrato la rivista che stavo leggendo fino a poco tempo prima, e con estrema violenza, lanciando un lamento infuriato, l’ho scagliata contro lo stipite bianco della porta.

Dopo pochi istanti, accorrendo affannata, la mia domestica si è precipitata da me, temendo che mi fosse successo qualcosa.

«Signorina, tutto bene?», ha domandato con una vocetta stridula, raccogliendo il giornale dal pavimento, «Si è ferita?»

No, non ero ferita, ma qualcosa dentro di me faceva male. Era una bestia dolente che non riuscivo a trattenere e che si lamentava in modo feroce.

«No!», ho urlato istericamente, «Sparisci!»

«Ma signorina, vuole che chiami la signora…», ha tentato di dire la mia domestica, cercando di addolcirmi.

Ho cercato il più possibile di calmarmi. Inspira ed espira.

Quando sono stata in grado di controllare abbastanza le mie reazioni, mi sono voltata verso di lei, ostentando un sorriso angelico.

Maschere, ancora maschere, eppure la mia voce era crudele quanto quella di un assassino.

«Adesso uscirai da questa stanza, senza protestare, e non dirai nulla a mia madre.

Questo se ci tieni al tuo posto di lavoro; altrimenti dirò ai miei genitori che hai rubato dal mio guardaroba, facendoti licenziare in tronco.», ho detto, senza perdere il sorriso, né la calma apparente.

La donna ha vacillato. Era abituata ai miei rimproveri o ai miei sciocchi capricci, ma non era mai venuta a conoscenza della mia vera natura.

Ha stretto in una morsa ferrea il grembiule che indossava, ha fatto un passo indietro, e si è inchinata leggermente, mormorando: «Sissignora», prima di correre via con la coda tra le gambe.

Susie mi ha fissato per qualche secondo, incerta se avvicinarsi o meno. Io ho teso una mano verso di lei, ma la mia gatta, dopo averla annusata con diffidenza, è schizzata via fuori dalla stanza.

Ero riuscita ad allontanare tutti da me.

Sarei dovuta essere soddisfatta del mio operato, eppure non lo ero neanche un po’.

L’indomani, il mio unico obiettivo consisteva nell’ignorare Roxanne.

Tuttavia, mentre io e le Gallinelle attraversavamo i corridoi per recarci a lezione, lei ha bloccato la nostra marcia.

Nancy e Sally si sono gettate su di lei, facendo delle stupide moine.

Superando Roxanne in altezza di quasi una ventina di centimetri, tacchi compresi, l’hanno abbracciata, accarezzandole la testa con fare materno.

Roxanne ha riso, divertita dalla loro esuberanza. Era ben consapevole di essere adorata dalle masse e sapeva comportarsi in maniera adeguata alla situazione.

Ashley, accodandosi alle altre, le ha poi scoccato un bacetto rumoroso sulla guancia.

Rita, invece, le ha preso le mani, esclamando un estatico saluto.

Se un uomo si fosse trovato nei panni di Roxanne in quel momento, circondato da quattro ragazze attraenti pronte a coccolarlo, avrebbe creduto di certo di essere finito in paradiso.

Roxanne, invece, sembrava semplicemente essere nel suo elemento.

Io, d’altronde, ne sapevo qualcosa.

Trattenendomi ad un’evidente distanza, mi sono schiarita la voce il più rumorosamente possibile, portando un pugno a coprire la mia bocca.

Le Gallinelle si sono voltate all’istante verso di me, subito sull’attenti.

Mi è bastato solo uno sguardo eloquente per riportarle in formazione alle mie spalle.

Trovandosi faccia a faccia con me, Roxanne ha perso all’istante la precedente allegria.

L’ho scrutata dall’alto, con uno sguardo insondabile, aspettando semplicemente che si facesse da parte per farmi passare.

Lei, però, sembrava non aver capito l’antifona.

«Kate», ha mormorato con un tono flebile e insicuro.

Io le ho fatto un muto cenno con il capo, per poi superarla senza ulteriori esitazioni.

«K-Kate», hanno bisbigliato le Gallinelle, circondandomi, «Anne non viene con noi?»

«No», ho dichiarato, impassibile.

Potrei scommettere che le quattro si siano scambiate un’occhiata perplessa, senza tuttavia riuscire ad afferrare bene la situazione. Non mi aspetterei mai così tanto dal loro intuito, dopotutto.

Mercoledì e giovedì, la situazione non è cambiata poi molto.

Roxanne ha cercato di avvicinarsi a me, ma si è trovata ad aver a che fare con una fredda replica da parte mia.

«Kate», mi ha chiamato Nancy, durante la pausa pranzo, «Perché Anne è seduta di nuovo con quelle…sfigate?»

Si riferiva chiaramente alle due amichette inseparabili della Miller, tra cui figurava anche l’appiccicosa e arrivista Patty Mason.

Io ho continuato a mantenere la mia attenzione sul filetto di pollo nel mio piatto, giocherellando distrattamente con il contorno di patate.

«Ma non può pranzare con noi?», è intervenuta Rita, «Anne è così divertente. Si sente la sua assenza!»

Che assurdità.

Solo la settimana precedente le Gallinelle, disdegnate dalla mia mancanza di attenzioni nei loro confronti, avevano lanciato occhiate velenose verso Roxanne, e adesso, invece, si lamentavano perché io non volevo che pranzasse al nostro tavolo.

D’altronde, non c’era molto di cui stupirsi: il mondo in cui sono nata è da principio un mondo dove l’ipocrisia regna da sovrana.

E’ il modo in cui la penso anche io, dopotutto.

«Quello è il posto giusto per lei», è stata l’unica risposta da parte mia.

Il mia voce musicale contrastava nettamente con il tono cupo che si nascondeva dietro quell’affermazione.

Le Gallinelle un po’ intimorite, sono tornate silenziosamente ai loro piatti senza protestare.

L’atmosfera al nostro tavolo è restata tetra per tutto il tempo, devo ammetterlo, soprattutto a causa delle mie risposte lapidarie che stroncavano qualsiasi tipo di conversazione iniziata dalle altre.

Era possibile, però, assistere ad una situazione completamente differente al tavolo dove Roxanne era seduta. I miei occhi sono scivolati inconsapevolmente verso di lei, mettendo a fuoco una ragazza dalla voluminosa coda di cavallo mogano che gesticolava animatamente, intrattenendo le sue compagne.

Vedere questa scena non ha fatto altro che peggiorare il mio umore.

L’avevo punita. L’avevo allontanata da me per farle capire che aveva sbagliato e invece lei non sembrava minimamente pentita delle sue azioni.

L’unica persona a cui la cosa sembrava importare, a quel punto, ero io.

Scagliare oggetti contro la porta, inoltre, era diventato uno dei miei più recenti hobby.

La sola conseguenza di questo nuovo sport erano un bel po’ di mobili ammaccati, inconveniente a cui avrei potuto facilmente rimediare acquistando un tirassegno con le freccette.

Magari avrei potuto usare una foto della Miller come bersaglio…perché no?

Un tale pensiero ha rallegrato la mattinata di giovedì, fino a che la suddetta signorina non si è materializzata di fronte a me.

«Kate…devo parlarti», ha esordito, bloccandomi alla fine della lezione di spagnolo.

Io ho sbuffato: «Quando ne hai avuto l’occasione non l’hai fatto e adesso non ho proprio tempo per starti a sentire.»

Non stavo nemmeno dicendo una bugia, considerando che la professoressa Brighton mi stava aspettando nel suo ufficio per discutere con me qualcosa a proposito del mio port-folio.

«Io…ho bisogno di parlarti, sul serio», ha continuato. Nella sua voce avvertivo del tormento.

«Non posso proprio adesso», ho replicato, «Scusami.»

Ho enfatizzato le mie scuse di proposito, e non perché fossi davvero dispiaciuta di non poterla stare ad ascoltare, ma solo perché quelle erano state le sue esatte parole il lunedì precedente.

Con quella frase aveva scelto di uscire dalla mia stanza e con quella frase io sarei uscita dalla sua vita.

Le ho dato le spalle e ho fatto per dirigermi verso l’ufficio della Brighton. Roxanne, però, mi ha afferrato il gomito di slancio, dimostrando una forza di cui mai l’avrei creduta capace.

«Domani…domani lui…», ha iniziato.

Io mi sono guardata in giro spaventata, temendo che qualcuno potesse origliare la nostra conversazione. Fortunatamente, però, nessuno sembrava essere intorno, in quanto al suono della campanella, tutti gli studenti si erano riversati rumorosamente al di fuori della scuola.

«Lui…lui mi ha dato appuntamento all’…all’aereoporto, domani…alle tre», la sua voce tremava terribilmente, «Kate, Kate, io non so…non so cosa fare! Ti prego… ti prego, accompagnami!»

Scioccata dalle assurdità pronunciate dalla sua bocca, mi sono decisa a guardarla in faccia.

«Ma cosa stai dicendo?»

Sembrava essere in uno stato di puro panico.

Come avesse potuto scherzare così liberamente con le sue amiche nemmeno due ore prima andava oltre ogni mia capacità di immaginazione.

Anche quella…era stata tutta una finzione?

«Non posso farcela!», ha esclamato lei, disperata, «Mi…mi sento così confusa da non riuscire a distinguere più quello che provo! All’inizio ero sicura della mia risposta…gli avrei detto semplicemente addio…ma adesso, adesso io…»

Tutte quelle belle parole…la voglia di lasciarsi indietro il passato…non sapevo più a cosa credere.

Non riuscivo a non sentirmi tradita.

«Stai avendo dei ripensamenti?», ho domandato con freddezza, cercando di celare i miei pensieri, «Vuoi ritornare da lui? Vuoi accettare di nuovo il ruolo dell’amante, finché tua madre non vi scopra con i suoi occhi?»

Più andavo avanti, più lei appariva turbata. Si è tappata con veemenza le orecchie, scuotendo la testa.

«E’ ritornato da te solo perché gli manca scoparsi della carne fresca», ho sputato con disprezzo.

I suoi occhi si sono spalancati con orrore.

Ho distolto gli occhi e le ho dato nuovamente le spalle, pronta ad andar via.

«Qualsiasi cosa tu faccia, devi farlo da sola. Va’ da lui e digli quello che provi. Non mi importa se decidi di farti usare nuovamente, oppure lasciar perdere. Adesso però devo andare, ho da fare.»

Strattonando il braccio, mi sono liberata dalla sua presa.

Non ho mai udito la sua risposta.

Quella sera sono uscita di nuovo con Nick, in mancanza di altri accompagnatori.

A quanto pare la voce che io e Jason facessimo coppia fissa non si era ancora sedata del tutto, malgrado adesso ci salutassimo appena, allontanando tutti gli altri miei possibili pretendenti.

La serata, per il resto, è andata piuttosto ordinariamente.

Non mi aspettavo alcuna originalità dai suoi gesti. Siamo andati a cena, come sempre, e successivamente siamo finiti nei sedili posteriori della sua macchina, come sempre.

Ad un certo punto, però, un pensiero ha iniziato ad assillarmi, costrigendomi a staccarmi da lui.

Come se niente fosse, Nick ha continuato a lasciare tracce umide di baci sul mio collo, mormorando cose insensate nel mio orecchio.

O almeno insensate per me.

«Lo sapevo che saresti ritornata da me. Abbiamo bisogno l’uno dell’altra. Non importa quanto ci metti per richiamarmi…io ti aspetterò.»

Io ho storto il naso disgustata, anche se lui non poteva vedermi, ormai intento a mordicchiare le mie scapole scoperte, dopo aver scostato le spalline del vestito.

«E io lo apprezzo molto, ma voglio sperare che questo mio…ritardo nel richiamarti non ti faccia sentire sfruttato…», ho detto con voce fintamente costernata.

Lui ha fatto un breve sorriso amaro. «Ti avevo detto che ci sarei stato per te in qualsiasi momento, per…dimostrarti realmente quanto ci tengo a te. E’ questa l’unica prova che posso darti: la certezza che potrai contare su di me. Non credo che io mi stia lasciando sfruttare. Sto solo mantenendo la mia promessa.»

Il che era esattamente la stessa cosa.

Nonostante ciò, mi sono voltata verso di lui con il più innocente dei sorrisi e ho premuto delicatamente le mie labbra sulle sue, accarezzandogli i capelli.

«Ti ringrazio», ho risposto con un sussurro, prima di avvicinarmi nuovamente al suo viso. Ho continuato la frase nella mia testa, dicendo: Ti ringrazio di essere il mio giocattolino ancora per una sera.

Il giorno dopo, per qualche strana ragione, le parole di Nick hanno continuato a rimbombarmi in testa.

Lui asseriva di non essere stato sfruttato da me, ma semplicemente il suo era un modo per dimostrarmi i suoi sentimenti.

Roxanne avrebbe fatto lo stesso?

Sapevo benissimo di non dover pensare a lei, ma non riuscivo ad impedirmi di farlo.

Ero giunta a scuola con la palese intenzione di ignorarla, eppure quella mattina sembrava che lei fosse la prima intenzionata a tenersi lontana da me.

Il fatidico giorno, uh?

Quando ami qualcuno, l’amore che provi nei suoi confronti ti acceca al tal punto da non lasciarti cogliere i suoi sbagli.

Magari avevo sottovalutato il sentimento di Roxanne per Liam.

Se davvero era stato qualcosa capace di spingerla a tradire la sua stessa madre, a mentire a tutta la sua famiglia…allora lei aveva tutto il diritto di essere confusa, adesso che lui aveva dichiarato di volerla incontrare per chiarire, dopo più di quattro mesi dalla loro rottura.

Roxanne, d’altronde, era andata via di casa poco dopo l’annuncio del matrimonio tra sua madre e il suo nuovo compagno. Non era così strano che lui volesse vederla un’ultima volta, prima di annunciare l’epilogo della loro storia.

E’ quello che le persone mature fanno: dirsi addio faccia a faccia, per poi proseguire lungo due strade separate.

Perché, allora, non riuscivo a restare tranquilla?

La risposta era semplice: era evidente che Roxanne provasse ancora qualcosa per lui e se il ragionamento di Nick poteva applicarsi anche al suo caso…lei sarebbe stata disposta a fare qualsiasi cosa, anche a sacrificare la sua stessa dignità, per potergli stare accanto.

Ho stretto i pugni, conficcandomi le unghie nel palmo della mano.

Non riuscivo ad accettare qualcosa del genere.

Non mi sono nemmeno soffermata sulle ragioni di questo mio rifiuto; semplicemente ero certa di pensarla in questa maniera.

Il giorno precedente, Roxanne mi aveva persino chiesto di accompagnarla.

Era una sciocchezza bella e buona, eppure era innegabile la mia curiosità in merito.

Semplice curiosità era un eufemismo, direi.

Avevo bisogno di sapere, oppure l’incertezza avrebbe lacerato ogni parte di me, mano a mano che le tre del pomeriggio si facevano più vicine.

Tornata a casa, dopo le lezioni, sono stata per tutto il tempo a fissare il quadrante dell’orologio appeso al muro.

Secondo dopo secondo il mio respiro si faceva sempre più pesante.

Guardavo ad intermittenza l’orario e il cordless gettato sul letto accanto a me. Sempre più rapidamente, sempre con più ansia.

Susie è balzata sul letto e, senza farlo apposta, una delle sue zampette screziate, si è poggiata sul tasto di avvio di chiamata del telefono.

Tu…tu…tu…tu. Lo squillo ripetuto che indicava la linea libera è rimbombato da dentro la cornetta.

Era forse un segno del destino quello?

Ho afferrato in mano il cordless e con decisione ho chiamato il centralino del taxi, fornendo l’indirizzo di casa mia.

Indossando una giacca leggera su di una pratica canotta avorio, luccicante di lustrini, sono scivolata fuori di casa, senza avvisare nemmeno mia madre dell’imminente uscita.

Esattamente dodici minuti dopo ero giunta all’aeroporto, luogo dove sarebbe avvenuto il loro incontro.

Dando una rapida sbirciatina al mio orologio da polso ho controllato che non fossi troppo in ritardo.

Erano a mala pena passati cinque minuti dall’ora del loro appuntamento. Ho sperato che non avessero cambiato l’orario all’ultimo momento.

Dopo essere scesa dal taxi mi sono fatta strada tra una marea di persone che si stavano riversando all’esterno dell’aeroporto di Milwaukee.

All’interno, il caos era, se possibile, anche maggiore. Persone irrimediabilmente in ritardo che correvano trascinando i loro trolley stridenti sui liscissimi pavimenti, hostess in divisa, precise quanto professionali, uomini di affari che riversavano nelle cornette dei loro cellulari un fiume di parole incomprensibili…per quanto il mio sguardo potesse spaziare in lungo e in largo, non c’era alcuna traccia dei particolarissimi capelli mogano chiaro di Roxanne, oppure della figura allampanata e occhialuta di Liam. Tutto inutile.

Ho fatto per arrendermi: non c’era modo che li trovassi in quella confusione abominevole.

Per caso, però, il mio sguardo è stato attratto dal tabellone che mostrava i voli nazionali in arrivo.

A quanto pare il volo diretto proveniente da Miami era appena atterrato al Gate 3.

«Mi scusi», ho chiesto ad una signora, intenta a guardare il tabellone accanto a me, «Sa dirmi dov’è il Gate 3?»

Avrei potuto anche arrivarci da sola, ma non avevo tempo da perdere, gironzolando qua e là senza meta.

La signora, rilassandosi immediatamente al tono carezzevole della mia voce, mi ha risposto con un sorriso disponibile, dandomi subito del tu.

«Ma certo, puoi venire con me. Anche io sono diretta là. Mia figlia è tornata da Miami proprio quest’oggi.»

Io ho sorriso in rimando, senza però fare alcuna domanda.

Avevo già intuito che fosse il tipo di donna sempre più che disposta a fare conversazione.

Io, d’altro canto, dovevo fare il possibile per mantenere l’anonimato, anche se ciò risultava un piuttosto difficile, in quanto vedevo spuntare facce di uomini interessati alla mia andatura, non appena mi guardavo intorno.

E menomale che avevo scelto di indossare semplicemente dei jeans aderenti, sotto alla canotta, preferendo alle calzature dal tacco a spillo, un paio di sandali intrecciati più bassi e pratici.

Seguendo di malavoglia la signora, che adesso parlava a ruota libera, senza tuttavia ricevere nemmeno un briciolo della mia attenzione, sono giunta al Gate 3.

Riconoscendo davanti a me, una schiena ricoperta da seriche onde mogano, sciolte in tutta la loro lunghezza, mi sono scusata con la signora, asserendo di aver sbagliato il numero del volo che stavo aspettando.

Lei, ne è rimasta un tantino perplessa, ma non ha avuto il tempo di farsi troppe domande, quando ha visto emergere sua figlia dalla folla.

Con entusiasmo l’ha abbracciata di slancio, e io sono stata discretamente sollevata di non avere più i suoi occhi puntati addosso, mentre mi nascondevo dietro un cartello che indicava le uscite di emergenza.

Mi sono concentrata nuovamente su Roxanne, sbirciando le sue mosse da dietro il cartellone. Questo celava completamente la mia faccia, lasciando però il resto del mio corpo scoperto.

Tuttavia, per mia fortuna, tutti i frequentatori dell’aeroporto sembravano aver faccende più importanti da sbrigare e nessuna attenzione da dedicare ad una tipa stramba dagli occhiali scuri che si nascondeva dietro l’insegna dell’uscita di emergenza.

Roxanne, frattanto, non sembrava essersi minimamente accorta della mia presenza.

L’ho vista attendere Liam con fervida impazienza, torcendosi le mani già rosse e screpolate.

Si è toccata i capelli, assicurandosi che fossero al posto giusto, sistemandosi meglio la frontiera rossa, abbinata alla casacca dello stesso colore, che indossava sopra a dei pantacollant neri.

Si trattava del suo solito modo di vestire casual-eccentrico, solo con un’attenzione maggiore all’accostamento dei colori.

La mia vicinanza mi consentiva perfettamente di vedere che, oltre ad aver preferito le lenti a contatto ai suoi occhiali da vista, aveva anche applicato un po’ di make-up sui suoi profondi occhi blu scuro.

Mentre i passeggeri del volo da Miami, facevano il loro ingresso, l’ho vista scansionare la folla, alzandosi ansiosamente sulle punte dei piedi per vedere meglio.

Stupida, l’ho sgridata mentalmente, stai facendo tutto questo per lui?

Ho riconosciuto subito Liam, non appena quest’ultimo ha fatto la sua comparsa tra i passeggeri atterrati. Roxanne sembrava aver avuto la stessa prontezza nel riconoscerlo.

E quando le sue iridi zaffiro si sono focalizzate sulla figura dell’uomo non ho avuto più dubbi su quello che stava per succedere.

Perché ero andata lì?

Di certo non perché fossi ansiosa di veder Roxanne dimostrare apertamente il suo amore nei confronti del compagno di sua madre. Questo è poco ma sicuro.

Mi sono morsa l’interno della guancia per stare zitta e non mettermi ad urlare.

Era lei la sporca bugiarda. Era lei che mi aveva preso in giro fin dall’inizio.

Tutto, anche quel pianto disperato a cui avevo assistito…le sue erano solo lacrime di coccodrillo.

Le mie impressioni su di lei erano state assurdamente accurate: la sua era tutta una farsa. Quella della ragazza simpatica e amata da tutti era solo una facciata per nascondere la sua reale natura.

Ho chiuso gli occhi con un sospiro, ormai totalmente disinteressata della situazione.

E’ abbastanza, mi sono detta, è abbastanza anche per me.

Mi sono preparata ad abbandonare il mio nascondiglio, per consentire ai due piccioncini di godersi la loro riunione, ma qualcosa, più precisamente un grido, mi ha impedito di farlo.

«No!», ha esclamato Roxanne a voce alta e io mi sono nuovamente appostata dietro il cartello, sbirciando con un solo occhio ciò che stava succedendo.

Tutti i passeggeri si erano ormai allontanati dal Gate, lasciando soli Liam e Roxanne, fermi l’uno davanti all’altra.

L’uomo aveva sorriso a Roxanne, alzando una mano per sfiorarle la guancia, ma quest’ultima aveva respinto il suo gesto, scostandolo da sé con un’espressione palesemente sofferente in volto.

Liam, di conseguenza, è diventato serio all’istante.

Ho teso di più l’orecchio, sperando di riuscire a captare il più possibile la loro conversazione.

Avrei dovuto andare via, ne ero ben consapevole, ma non ero abbastanza decisa per farlo.

«Siamo qui solo per parlare, giusto?», ha chiesto Roxanne, osando a malapena alzare lo sguardo al livello del suo collo.

«Sì», ha confermato lui, senza staccarle gli occhi di dosso per un momento.

Quella scena mi ha leggermente turbata.

Alla festa di Madison, la settimana precedente, avevo visto Liam fissare insistentemente Roxanne, eppure a differenza dell’ultima volta, lo sguardo che lui le rivolgeva adesso non era più semplicemente interessato, ma morbosamente interessato.

Era come se ogni fibra del suo essere fosse propesa verso di lei e, anche se incapace di farlo, cercasse di toccare ogni centimetro visibile del suo corpo.

Roxanne, evidentemente ignara di questo, si è morsa il labbro inferiore, stringendo i pugni in due nocche bianche.

«Io…credo di dover…mettere una fine a tutto questo. Dobbiamo mettere una fine a noi», ha mormorato, mantenendo fortunatamente un tono di voce appena comprensibile per me.

Lui è sembrato scioccato quanto me dalle sue parole.

Mettere una fine? Allora lei non vuole più…

Il borsone di Liam è caduto a terra con un tonfo sordo.

«Cosa stai dicendo?!», ha chiesto lui aggressivamente.

Roxanne ha socchiuso gli occhi, come se non sopportasse più di guardarlo in faccia.

«Non l’hai ancora capito? Quattro mesi fa…quando mi sono trasferita qui con Madison…io l’ho fatto per scappare da te», ha dichiarato lei, riacquistando un po’ di fermezza.

Mi ero domandata come potessero aver avuto una relazione, se tra di loro era presente un imbarazzo così grande, eppure solo in quel momento iniziavo a percepire realmente l’estensione dell’affinità che li legava.

Andava ogni oltre mia immaginazione e comprensione, è vero, ma riuscivo a farmene una vaga idea.

Non so cosa sia l’amore, ma credo di aver visto qualcosa di simile proprio in quel momento, semplicemente assistendo ai loro sguardi che si cercavano e si respingevano con uguale intensità.

«Quando…quando mamma mi ha detto che tu e lei vi sareste sposati appena foste stato possibile…riesci ad immaginare quello che ho provato?!», ha domandato Roxanne, alzando il tono della voce in una richiesta disperata.

Lui ha continuato ad ascoltarla attentamente, senza controbattere.

«Tu…tu hai detto che mi amavi!», ha continuato Roxanne, incontrando finalmente il suo sguardo.

L’ho vista tremare, mordendosi violentemente le labbra per non crollare.

«Era vero…è vero», ha confermato Liam con pacatezza, ma Roxanne ormai non sembrava più ascoltarlo.

«Io ti amavo», ha ribadito.

Dal tono con cui parlava, sembrava che fosse venuta a conoscenza di quelle cose nel medesimo istante.

Sul suo viso si è creata un’espressione di sorpresa per la recente scoperta.

Cosa stesse pensando, in realtà, non potevo minimamente immaginarlo.

«Ti amavo», ha ripetuto, quasi sovrappensiero, lo sguardo annuvolato e non più focalizzato sul suo interlocutore.

«E probabilmente…probabilmente quello che lei mi ha detto non era altro che la verità…», ha borbottato Roxanne, quasi parlando tra sé e sé.

«Di chi parli?», ha domandato lui, accendendosi improvvisamente di irritazione, «Non avrai mica detto a qualcuno di noi?! Sei pazza?!»

Roxanne ha alzato lentamente i suoi occhi zaffiro su di lui.

«Dopotutto penso che lei…abbia ragione», ha risposto con un tono di muta consapevolezza.

Liam non riusciva più a seguire il suo ragionamento. Io mi ritrovavo nelle sue stesse condizioni, eppure iniziavo a capirci vagamente qualcosa.

«Perché mi hai cercata ancora?», ha domandato Roxanne con una freddezza glaciale, prima che lui potesse controbattere, «è perché ti manca venire a letto con me?»

Mi sono appiattita dietro il cartello dove ero nascosta, nascondendo il più possibile il viso dietro i capelli.

Allora stava parlando davvero di me?!

«C-cosa stai dicendo?», ha esclamato lui, avvicinandosi a lei e strattonandola per la manica, «Io ti amo, Anne. Smettila di dire cazzate per evitare di guardare in faccia la realtà!»

Roxanne ha riso amaramente, per nulla divertita: «La realtà che vedo di fronte ai miei occhi è questa: tu e mia madre che convolate felicemente a nozze, mentre io resto a guardarvi da lontano.»

Liam è sembrato preso in contropiede, ma ha cercato di convincerla.

«Tua madre, il mio lavoro…qualsiasi cosa. Dammi del tempo e mi sbarazzerò di tutto il resto pur di stare con te», le ha promesso, raggiungendo una delle sue mani.

Roxanne non ha rifiutato la stretta, come aveva fatto prima, ma l’ha subita passivamente.

«Per me non è mai finita», ha continuato Liam, «Non c’è momento in cui io non pensi a te, Anne. Non ce la faccio a starti lontano. Troveremo una soluzione, ma ti prego solo di…non scappare più da me.»

Roxanne, con il capo chino e lo sguardo fisso sulle loro mani, non ha replicato.

«Ti prego», l’ha supplicata Liam.

Cercando di sbirciare con più precisione, ho visto che il braccio di Roxanne, stretto all’estremità dalla mano di Liam, stava tremando notevolmente.

«Ti prego», ha ripetuto lui, cercando di scatenare la minima reazione in lei, «Io voglio renderti felice.»

«Vattene», ha sibilato Roxanne, dopo qualche minuto di silenzio.

«Eh?»

«Mi hai sentita. Ho detto di andartene, adesso. Torna da lei e lasciami libera. Vuoi che io sia felice?

Io non posso essere felice con te! Forse lo sono stata in passato, ma non potrò esserlo mai più. Non posso essere realmente felice, se la mia felicità provoca la disperazione di una delle persone che amo di più!», ha esclamato Roxanne, liberandosi dalla stretta con calma, facendo scivolare lentamente le sue dita fuori dalla mano di Liam.

Lui se n’è accorto a malapena ed ha continuato a mantenere la mano a mezz’aria, quasi congelato da quelle affermazioni.

«Vattene», ha ripetuto lei.

Liam ha cercato di ricomporsi, stringendo il palmo inizialmente proteso verso di lei, in un pugno che ha portato al fianco: «E’ questo allora? Per non far del male agli altri, sei pronta a far del male a te stessa?»

Roxanne ha stretto le labbra in una linea dritta.

«Sei tu a farmi del male adesso», ha risposto, «Finiamola qui. Senza urla, né grida. In modo pacifico. Io non tornerò più a Miami; ho già preso la mia decisione. Tra pochi giorni arriveranno le conferme di ammissione dalle Università a cui Madison ha fatto domanda per me. Sceglierò quella più lontana.

Ti posso almeno garantire che i prossimi quattro anni mi vedrai così raramente da dimenticarti quasi della mia esistenza.»

Lui scuoteva la testa.

«Ci separano quasi quattro stati, adesso, ma quello che provo per te non è cambiato nemmeno di una virgola dall’anno scorso», ha detto Liam come se fosse la cosa più semplice del mondo, «Ed è lo stesso per te, non è così?»

«Credi che sarei capace di stare qui e dirti queste cose se ti amassi ancora come prima?», ha risposto lei, lasciando me e Liam altrettanto scioccati.

«Tu…»

«Se vuoi sentirtelo dire chiaramente, Liam, ti accontenterò: io non ti amo più. E’ tutto», ha replicato Roxanne, sfoggiando un’espressione impassibile.

Liam ha aperto la bocca a vuoto in paio di volte, ponderando sulle giuste parole da usare, ma alla fine ha preferito tacere, recuperando semplicemente il suo borsone da terra.

«Va bene, allora. Ciao.», ha detto, prima di voltarsi e allontanarsi di lì.

L’ho guardato scomparire e, quando non è stato più visibile, ho sentito dei singhiozzi provenire alle mie spalle.

Non c’era bisogno di voltarmi per ricevere la conferma che il viso di Roxanne fosse ormai rigato di lacrime.

Sabato mattina, ovvero oggi, non essendoci scuola, non avrei potuto rivedere Roxanne.

Il giorno precedente, la sua vista annebbiata le aveva impedito di smascherare la mia copertura, perciò lei non immaginava minimamente che io avessi assistito a tutta la sua conversazione con Liam.

E, ufficialmente, io avevo in programma di ignorarla ancora ad oltranza.

Tuttavia, quello che avevo sentito, aveva cambiato diametralmente le mie opinioni.

Io ero arrabbiata con Roxanne perché pensavo mi avesse mentito, dicendomi di aver dimenticato Liam.

Tutta la situazione, a questo punto, si poteva comprendere su due livelli.

Il primo: Roxanne mi aveva mentito dicendo di non amare Liam, visto che il pianto del giorno precedente aveva chiarito piuttosto bene i suoi sentimenti.

Il secondo: malgrado ciò che provasse ancora per lui, Roxanne era rimasta coerente alle sue parole e l’aveva respinto una volta per tutte.

Non avevo più alcuna motivazione per sentirmi tradita.

Così, in fretta e furia, ho indossato la giacca e le scarpe e mi sono precipitata fuori di casa.

Ho ordinato dei cornetti caldi al bar e ho suonato ripetutamente al cancello rosso di casa Miller.

Dopo un po’ mi è stato aperto, senza che qualcuno mi chiedesse di identificarmi.

La voluminosa chioma scompigliata di Roxanne ha fatto capolino direttamente dalla porta d’ingresso.

Non appena mi ha riconosciuta, la sua espressione si è fatta totalmente scioccata.

Le ho appoggiato in testa il sacchetto contenente i cornetti, sorridendole.

«Sono al cioccolato: i più dolci che ho trovato», ho dichiarato con un tono allegro.

Roxanne ha recuperato il sacchetto dalla sua testa, scoppiando a ridere fragorosamente.
Tutte le incomprensioni sembravano essersi volatilizzate in un batter d'occhio.
Ero stata troppo precipitosa?
Non saprei proprio dirlo, nè me ne importava qualcosa. Avevo fatto solo ciò che mi andava di fare. E mi andava di rivederla. Mi andava di tornare a parlare con lei. Mi andava di accertarmi che non pensasse ancora a lui.
Volevo solo che tornasse a sorridere per me, proprio come stava facendo in quel momento, e alleviasse l'inquietudine accumulata sul mio petto.
Sì, esatto, così. Così andava bene.

«Buon giorno anche a te, Kate», ha detto, senza perdere la sua rinnovata ilarità. Poi ha aperto di più la porta per lasciarmi entrare.

 

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Capitolo 15
*** cap 15: Futuro ***




Sono tornata con un nuovo capitolo! Pensavate che avessi abbandonato la storia? Vi sbagliavate! :P E’ che ovviamente come al mio solito sono sempre in ritardo per tutto…quindi non c’è da stupirsi XD

Comunque, tornando a noi, senza perdermi in ulteriori sproloqui, ringrazio chi ha commentato il capitolo precedente: Rayne91, nikoletta89, ninfea306 (ti ringrazio anche per le recensioni sparse negli altri capitoli) e balakov.

Dopo esserci dedicati a Roxanne, torniamo a concentrarci a 360° su Kate e in particolare sul suo “futuro” come il titolo del capitolo suggerisce. Magari più che a livello d’eventi, questo capitolo è di particolare rilevanza per la riflessione approfondita che Kate fa sulla sua vita, su Roxanne e sulle stesse Gallinelle che magari potrebbero essere un po’ diverse da come ce le ha presentate sempre. Non intendo dire che dietro le Gallinelle si nascondano dei geni matematici (oddio XD), ma semplicemente che non tutto quello che Kate vede con i suoi occhi ipercritici corrisponde alla verità. Mi piace particolarmente questo aspetto di lei, a dire il vero. Altrimenti, se fosse il contrario, non potrei perdermi nei suoi sproloqui senza senso che invece mi divertono molto. Un capitolo di transizione, quindi, che tuttavia ritengo necessario per lo sviluppo della protagonista e non solo. Nel prossimo capitolo torniamo all’azione e ai momenti OMG di BisB con l’introduzione di un nuovo personaggio che, se dovesse esserci seriamente un seguito a questa fantomatica soap, apparirà nuovamente.

Ma non mi dilungo ulteriormente. Come al solito, vi auguro buona lettura e vi do appuntamento al prossimo aggiornamento che, prometto e giuro, non arriverà molto tardi, proprio perché non vedo l’ora di scriverlo!

EDIT: Nella presentazione troverete il promo del prossimo capitolo...sarà pure un'idea stupida, ma mi andava di farlo (anche se piuttosto che perder tempo farei meglio ad aggiornare XD).

Enjoy! 

 

***

 

Nemmeno quei fiori meravigliosi che reggeva in braccio potevano competere con la straordinaria bellezza del sorriso che apparve sulle sue labbra.

 

Roxanne lo ricordava ancora fin troppo bene.

 

 

28 maggio

 

Rieccomi qua a scrivere. Forse un po’ troppo presto?

Sì, probabilmente è vero, ma non riuscivo proprio a trattenermi. D’altronde le pagine di questo diario sono ancora per la gran parte vuote e non aspettano altro che essere riempite.

Mi chiamano, ammaliandomi, affascinandomi con il suono delle mie stesse parole e io non posso fare altro che immergermi in questo mio “passatempo”.

Non sono mai riuscita a resistere alla tentazione, d’altronde.

Ma non scrivo solo per il piacere di farlo, questo è poco ma sicuro. Ho ripreso in mano la mia penna perché ho ovviamente un bel po’ di cose da raccontare.

Devo ammettere che non mi è mai capitato di vivere una vita noiosa. A volte, faccio persino fatica anche a tener testa a tutto quello che mi accade.

Ma, sproloqui a parte, inizierò a raccontare da ieri, ovvero da lunedì mattina.

L’orologio segnava appena le sette e io ero già sveglia da qualche minuto. Con gli occhi chiusi, godevo del tempo ampiamente a mia disposizione. Stiracchiandomi in modo esasperatamente lento, ho fatto frusciare il lieve lenzuolo adagiato sulle mie gambe, mugugnando soddisfatta.

La giornata sembrava davvero iniziata per il meglio.

Ovviamente, però, a conferma della mia pessima capacità di previsione, tale prospettiva è stata totalmente stravolta dal corso degli eventi successivi.

A distruggere la tranquillità del giorno appena arrivato, infatti, ci ha pensato il telefono che tutto d’un tratto ha preso a squillare. Ho cercato a tentoni il cordless appoggiato sul comodino e ho risposto, premendo un tasto alla ceca, con gli occhi ancora ostinatamente chiusi.

Ho bofonchiato un «Pronto», senza aver neppure il tempo di sorprendermi per l’orario così inusuale.

Come risposta, un coro di lamenti è risuonato dall’altro capo della cornetta.

Sono rimasta perplessa per qualche secondo, spalancando gli occhi e non sapendo sinceramente cosa pensare, finché una vocina debole e fioca è riuscita ad emergere da quel patetico piagnisteo, chiamando il mio nome.

Riconoscendo l’acutissimo verso, reso ancora più starnazzante dai singhiozzi, ho risposto esitante: «Ash…Ashley?»

«Kaaaaaaaaaate!», ha sospirato dall’altra parte una schiera di vedove addolorate.

«Ragazze…», ho sospirato, riconoscendo le Gallinelle dall’altro capo della cornetta.

Si trattava di una telefonata in contemporanea a cui, come al solito, avevano invitato anche me.

Mi sono strofinata gli occhi con irritazione, cercando di scacciare via il resto della sonnolenza. «Cos’ è successo?», ho domandato, tentando di non perdere la pazienza.

Dovevo dimostrarmi un’amica sincera e comprensiva, o, per lo meno, sforzarmi di esserlo. A qualsiasi orario del giorno e della notte, Kate Hudson non può smentire se stessa.

«UAAAAAAAAAAAAAAAAH!»

Un lungo pianto disperato è stata l’unica risposta che ho ricevuto.

Adesso iniziavo sul serio ad arrabbiarmi.

Io offro la mia completa attenzione, e loro, per tutta risposta, scoppiano a piangermi in faccia?

“Calma, Kate. Avevi promesso di dimostrarti comprensiva, no?”, ho pensato, cercando di spronare me stessa a proseguire con una buona condotta.

«Ragazze, adesso mi state facendo davvero preoccupare», ho detto allora, simulando un tono accorato, «…potete dirmi cos’è successo di tanto catastrofico

«Io…», ha iniziato una di loro, probabilmente Sally.

«…Noi-», l’ha corretta Nancy.

«Noi…», ha proseguito Ashley, assieme a Rita.

«Noi…»

«Sì?», le ho incitate, incoraggiandole a continuare.

«N-noi…N-noi…UAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH!», il loro patetico tentativo di risposta si è dimostrato nuovamente inutile, sfociando in un altro irritante e fastidiosissimo pianto.

Ho scosso la testa, coprendomi la faccia con esasperazione. Non avevo alcuna voglia di continuare quell’ assurda e patetica sceneggiata.

Disgustata ho staccato l’orecchio dalla cornetta, gettando senza troppo pensarci il cordless sul letto.

Era inutile cercare di parlare con loro: non mi avrebbero nemmeno ascoltata.

Ci sono abituata. Quando si trovano in uno stato di totale panico, anche il loro pochissimi neuroni funzionanti decidono di prendersi una vacanza. Non resta altro da fare, quindi, che attendere che le loro capacità intellettive tornino alla normalità, o per lo meno a quello che si considera un livello normale per i polli.

Alcuni mormorii disperati, provenienti dalla cornetta, si sono diffusi in sottofondo, continuando a ripetersi, mentre io m’infilavo di malavoglia l’uniforme.

Non capisco perché sia obbligatorio indossarla solo nelle ultime settimane del semestre, mentre per tutto il resto dell’anno è ritenuto facoltativo farlo o meno.

Quella tristissima gonna grigia a scacchi, abbinata ad una camicetta bianca a mezze maniche, proprio non fa per me. Per non parlare degli assurdi mocassini ultrabassi che ci costringono a portare assieme a dei candidi calzini bianchi che salgono fino a coprire totalmente i polpacci.

Suppongo che persino una suora abbia a disposizione un guardaroba più allegro. O forse no? Ah, non sono certo un’esperta di moda puritana, questo è poco ma sicuro!

Dopo essermi vestita, perciò sono scesa giù per la colazione.

Giù in cucina, mia madre era intenta a rigirare pazientemente il suo caffè fumante, mentre la mia domestica stava ripulendo dal tavolo le tracce di un posto mai occupato: quello di mio padre.

Mi sono seduta a capotavola come sempre, senza pronunciare una parola.

Harriet e Marissa mi hanno salutata con un caloroso buongiorno, soprattutto da parte della mia affettuosissima madre.

Io ho semplicemente bofonchiato qualcosa mandando giù i cereali.

Malgrado i modi cordiali e premurosi di sempre, mia madre non sembrava tanto di buon umore. Era appunto in modalità Harriet-isterica, sebbene le sue reali intenzioni fossero sapientemente coperte da una maschera di serena pacatezza. Avrò pure ereditato la mia faccia da poker da qualcuno, no?

«Ma papà non doveva tornare oggi dal Gambia?», ho domandato, innaffiando i cereali con una quantità maggiore di latte.

Harriet ha soppresso malamente una smorfia di disgusto. Ahah! Avevo colpito nel segno.

«In effetti sarebbe dovuto tornare, Kate. Ma forse tu lo vedi qui con noi? Oh…se è così digli che è diventato un vero fenomeno nel nascondersi!», ha risposto lei, ridendo quasi con l’affanno ad una battuta che non la divertiva per niente.

Ho storto il naso, distogliendo gli occhi da quel patetico spettacolo.

Quando mio padre è a casa, sebbene molto raramente, a causa del lavoro di ambasciatore che ricopre, mia madre lo degna appena di uno sguardo, e quando, invece, tarda a presentarsi, ecco che inizia a manifestare tutte le paranoie compulsive di una donna alle soglie della menopausa.

Insieme, i miei genitori mi sono sempre apparsi degli sconosciuti: mia madre conosce a malapena i piatti preferiti di mio padre, mentre lui deve aver visto i parenti di mia madre solo in occasione del loro matrimonio. E quando entrambi si ritrovano e hanno abbastanza tempo per parlare, lo fanno in modo freddo e formale, non spostandosi mai su argomenti troppo intimi e delicati. Campo neutrale. Come due persone che, invece di conoscersi da più di vent’anni, si fossero appena incontrate.

Un’artificiosa immagine ideale della famiglia americana ai giorni nostri.

Lo specchio di quello che sono stata, sono e continuerò ad essere per tutta la vita.

Se solo mi ci soffermo un po’, se solo ci penso per qualche secondo in più, tutto sembra avere un senso.

Il modo in cui sono, quello in cui vedo le cose, non è altro che una lente che i miei genitori mi hanno messo davanti da quando sono nata.

Non c’è mai stata un’altra via d’uscita, né qualcosa che mi permettesse di valutare le cose da un altro punto di vista.

E’ questo quello che chiamano destino, giusto?

Ma di questo non m’importa; sono solo chiacchiere inutili.

Il mio unico desiderio per il futuro è non finire come loro. Farei qualsiasi cosa pur di impedirlo. Andrei persino in pellegrinaggio alla Mecca o a Lourdes per evitare che accada! 

D’altra parte, non riesco per niente ad immaginarmi come una donna sposata che dedica la  vita alla sua casa e ai suoi figli, appassionandosi al giardinaggio o a qualcosa di altrettanto inutile.

Sarà la mia età a farmi parlare in questo modo, ma sono assolutamente certa di non voler questo nella mia vita. Allora cosa voglio?

Lo scorso gennaio ho saputo di essere entrata nell’Università di Princeton con un’ammissione anticipata per meriti scolastici e, sebbene non avessi mai pensato di trasferirmi così lontano, mi sono buttata a capofitto nella cosa. Di lì in poi ho capito di volere Princeton. Era quello il mio obiettivo primario.

Ogni cosa che mi è successa dopo, l’ho vissuta come un rito di passaggio per prepararmi alla vita del campus universitario.

E ho capito che in quel contesto riuscivo facilmente ad identificarmi.

Riesco ad immaginare in modo perfetto me stessa circondata da altri studenti, mentre cammino per i viali alberati del New Jersey. E’ questo ciò che perseguo con convinzione, per andare avanti, per abbandonare tutto ciò che mi ha stufata, per abbracciare l’avvento di un nuovo futuro.

Per Princeton, sopporterò di buon grado queste ultime settimane prima della cerimonia della consegna del diploma. Poi sventolerò la mia manina verso quei volti e quelle persone per anni hanno visto in me il simbolo di questa scuola, e dirò loro addio.

Sì, questa prospettiva mi alletta sicuramente.

Arrivata a scuola, dunque, ero di ottimo umore e piena di curiosità. Innanzitutto avrei scoperto il fantomatico problema delle Gallinelle e l’avrei risolto con un minimo sforzo neuronale, per la loro somma gioia. A quel punto poi mi sarei riconfermata come loro personale eroina e loro avrebbero continuato ad adorarmi nei secoli dei secoli…amen.

Eppure il susseguirsi reale dei fatti è riuscito a stupirmi, di nuovo.

Le Gallinelle sembravano essere sparite dalla circolazione, quando sono arrivata a scuola. Pensavo che si fossero assentate tutte assieme, ma qualcuno mi ha poi confermato di averle viste aggirarsi per i corridoi vestite con colori scuri e con un aspetto pietoso.

Potrebbe sembrare strano, eppure la cosa che mi ha inorridito di più del loro aspetto pietoso è stato venire a scoprire che avessero indossato abiti scuri. E non perché pensassi fosse accaduto un lutto improvviso, ma perché conoscevo il ribrezzo delle Gallinelle nei confronti dei colori non-pastello.

Doveva esserci sicuramente un motivo piuttosto grave alla base della loro disperazione, anche se io non riuscivo affatto a comprenderne la causa.

Ho incontrato Roxanne Miller a metà strada, mentre mi stavo recando alla lezione di letteratura.

Lei mi si è avvicinata subito con un sorrisetto.

«Oh guarda guarda cosa vedo! La tua gonna non è un po’ troppo corta?», mi ha domandato in tono scherzoso, indicando la parte inferiore dell’uniforme.

Io ho increspato le labbra in un sorriso, rispondendo a tono: «Sarà un effetto ottico: è che le mie gambe sono troppo lunghe!»

Lei ha fatto una faccia poco convinta, ma ha continuato: «E cos’è tutta quella scollatura?»

«Avevo caldo», ho risposto sempre stando al gioco.

«E ti sei scordata i calzini a casa?», ha chiesto poi, riferendosi alle mie gambe coperte solo da un paio di calze velate.

«Non sto bene con i calzini», ho dichiarato convintissima di ciò.

Roxanne è scoppiata a ridere per la mia palese ironia: «Tu stai bene con qualsiasi cosa, Kate.»

Io ho ridacchiato, semplicemente attestando la veridicità di quell’affermazione.

«Ma non è un’alterazione dell’uniforme anche quella?», ho domandato, allora, indicando la sua figura.

Roxanne ha subito guardato in giù e ha esclamato: «Merda!», prima di arrotolare meglio i bordi dei pantaloncini che nascondeva sotto la gonna, per renderli invisibili.

Guardando meglio, ho visto anche un alone rosso sotto la sua camicetta. Ho alzato eloquente un sopracciglio nella sua direzione.

«Ehm…la mia prossima lezione è educazione fisica ed ho già messo la tuta per evitare la briga di cambiarmi», ha confessato, grattandosi la testa con imbarazzo.

Io ho riso a gran voce, incapace di trattenermi.

Roxanne era tornata quella di sempre: il giullare della situazione, con la sua testardaggine congenita e le sue trovate da strapazzo. Magari, però, si trattava solo di una facciata. So benissimo che ne è capace.

Magari pensa ancora a Liam, anche se di fronte a me e al mondo riesce a nascondere tutto alla perfezione.

Oltretutto, lei non mi ha mai raccontato del loro incontro all’aeroporto, né io ho più sollevato l’argomento. D'altronde, sono già a conoscenza di tutto ciò che c’è da sapere; avendolo visto direttamente con i miei occhi.

Ma adesso, anche se solo in apparenza, tutto sembra essere passato.

Roxanne continua a sorridermi e io non posso impedire agli angoli delle mie labbra di piegarsi all’insù come una risposta automatica.

«Sei sola oggi?», mi ha chiesto poi, «dove sono le altre?»

Io ho aggrottato le sopracciglia: «A dire il vero, vorrei saperlo anch’io.»

Roxanne ha esibito una faccia alquanto perplessa ed io ho continuato a parlare: «Stamattina hanno telefonato a casa mia in lacrime, ma non sono riuscite a spiegarmi il problema. Le sto cercando da prima, ma sembrano sparite nel nulla!»

«Sul serio?», ha domandato Roxanne, apparentemente preoccupata, «Sicura che non sia successo loro qualcosa di grave?»

«E cosa sarebbe potuto succedere?», ho detto in tono ironico, senza riuscire a prendere seriamente la situazione, «Probabilmente i loro bei rugbisti le hanno mollate. Questo è quello che si chiama gioco di squadra, no?»

Roxanne mi ha guardato storto, senza riuscire a reprimere un piccolo sorrisetto.

Ma ecco che il lupus in fabula, o per meglio dire le gallinae in fabula, sono apparse improvvisamente davanti a noi.

Portavano degli occhiali da sole a mascherina, che nascondevano gran parte del loro volto stranamente pallido e privo di trucco. Indossavano delle giacchette nere sopra all’uniforme che appariva ancora più ingrigita, e camminavano con un passo incerto e tremolante, tenendosi strette tra di loro.

Ho portato le mani sui fianchi, guardandole con un’espressione di muto rimprovero. Ecco che finalmente i miei polletti tornavano all’ovile!

Roxanne, invece, è subito corsa verso di loro, cercando di sorreggerle.

La situazione appariva alquanto comica, perciò ho deciso di avvicinarmi anche io, dissimulando subito con successo il ghigno che si era formato sul mio viso.

«Ragazze, cosa è successo?», ha domandato Roxanne, scuotendo il braccio di Rita, la quale si teneva in piedi solo grazie ad Ashley, che a sua volta veniva sorretta da Nancy e Sally, in condizioni non molto migliori.

Sally ha scosso la testa, nascondendo la sua espressione dietro le lenti scure.

Nancy, invece, ha tentato di parlare con una voce rauca e debolissima. «V-vattene, Anne. Lasciaci stare.»

Roxanne è rimasta scossa da quella affermazione e si è subito scostata da loro. Non era mai stata trattata con tanta freddezza dalle Gallinelle e questo comportamento ha stupito anche me.

Ho fatto un altro passo in avanti, allora, frapponendomi tra di loro.

«Si può sapere che vi è successo? Invece che piangere e lamentarvi a non finire, perché non ci spiegate chiaramente qual è il problema?»

Le Gallinelle si sono dapprima ritratte alle mie parole, stringendosi di più fra di loro, ma poi non hanno risposto, abbassando semplicemente il capo e allontanandosi barcollando in assoluto silenzio.

Le ho guardate andare via a bocca spalancata.

«Ma che diavolo…»

Mi avevano ignorata? Avevano ignorato me? Le Gallinelle avevano sul serio fatto finta che io non esistessi?

«Non credo che la tua teoria sui rugbisti sia giusta», ha aggiunto Roxanne, alle mie spalle, «Ci dev’essere senz’altro qualcosa sotto…e dobbiamo scoprirlo.»

Mi sono voltata verso di lei, senza riuscire a cancellare la mia stupida espressione.

Non avevano ignorato Roxanne. Certo, l’avevano respinta con freddezza, ma non l’avevano snobbata come avevano fatto con me.

«Non contare su di me», le ho risposto allora, allontanandomi stizzita.

Le lezioni sono passate velocemente, senza che io riuscissi a seguirle davvero. Semplicemente non riuscivo a togliermi dalla testa quella scena. Le Gallinelle avevano osato mancarmi di rispetto. Le Gallinelle avevano mancato di rispetto a me.

Continuavo a ripetere queste parole nella mia mente, senza riuscire ad accettarle. Ero forse finita in un universo parallelo, senza neanche accorgermene? C’era qualche allucinogeno nei cereali che avevo mangiato a colazione? Si trattava solo di uno stupido sogno da cui apparentemente non riuscivo a svegliarmi?

Mi sono pizzicata la guancia giusto per controllare. Niente da fare. Dovevo essere sicuramente sveglia. L’ipotesi dell’allucinogeno sembrava essere la più verosimile. Una volta tornata a casa avrei sicuramente licenziato in tronco quell’avvelenatrice della mia domestica! Sì, questo è poco ma sicuro!

Sono riuscita a convincermi che tutto ciò fosse realtà solo a pranzo, quando mi sono ritrovata al mio solito tavolo da sola. Tutta la mensa si è voltata verso di me, guardandomi curiosa.

“Kate Hudson è stata abbandonata dalle sue compagne?” Immagino che il nuovo scoop si sia diffuso piuttosto presto.

Qualche mio amico o conoscente si è offerto di invitarmi al proprio tavolo, apparendo estremamente onorato di farlo, ma io ho deciso con ostinazione di stare ferma al mio tavolo.

Prima o poi le Gallinelle sarebbero arrivate e io avrei fatto loro una bella grattata di capo: questo è poco ma sicuro. Ma le Gallinelle non sono mai arrivate, rendendo la mia attesa totalmente inutile.

Al loro posto, invece, si è presentata Roxanne Miller, con al seguito Patty Mason ed Eve Morrison, le sue amichette sfigate in cerca disperata di popolarità.

Non avrei mai disdegnato la compagnia di Roxanne, visto che quest’ultima si unisce spesso a noi durante l’ora di pranzo, ma non potevo assolutamente permettere che quelle fecce umane sedessero al mio tavolo. Certo, una volta era già successo che avessero pranzato con noi, ma in quell’occasione le Gallinelle erano con me. Adesso sembrava che quelle due sfigate, mosse da un impeto di pietà, volessero farmi un favore. Loro, delle stupide e bigotte signorinelle, volevano tenere compagnia a me.

Avrei preferito molto di più restare sola per l’eternità.

Perciò, quando Roxanne si è avvicinata, con in mano il suo vassoio pieno di dessert, tallonata a breve distanza dalle altre due che scoppiavano di felicità al pensiero di condividere un pranzo con la regina della scuola, ho declinato l’offerta con altezzosità, sputando un secco: «No.»

Roxanne c’è rimasta male, non si può negarlo.

«E perché no?», ha domandato allora, intestardendosi.

Sapevo che sarebbe andata di certo a finire male.

«Perché ho detto di no. Tornatevene al vostro tavolo. Questo è il mio

Non mi sono curata affatto di apparire gentile. Volevo essere antipatica di proposito, così lei avrebbe desistito e mi avrebbe lasciata finalmente in pace. Oppure più probabilmente in quel momento mi stavo comportando semplicemente come vorrei comportarmi sempre.

«Ma c’è posto per tutti!», ha protestato Roxanne. Le sue amichette, dietro di lei, si sono ritratte inconsapevolmente.

«No, invece. Questi posti sono occupati», ho ripetuto, ancora una volta, in modo categorico.

Roxanne ha fatto finta di non sentirmi e si è seduta lo stesso. Timidamente anche le sue amiche l’hanno imitata.

«Ma sei sord-», mi sono bloccata quando mi sono resa conto di aver urlato e attirato l’attenzione di tutti i presenti in mensa. Così ho deciso di far finta di niente, dimostrandomi perfettamente tranquilla, onde evitare altre occhiate indiscrete.

Ho continuato a consumare il mio magro pranzo in religioso silenzio, escludendo dalla mia ricezione ogni tipo di rumore esterno. Alzando lo sguardo per qualche secondo, mi è sembrato di vedere la bocca di Patty Mason muoversi a vuoto, ma non sono stata assolutamente capace di recepire ciò che diceva.

Una volta finito, ho raccolto il mio vassoio e le mie posate e mi sono alzata in piedi, per portare tutto a posto. Ho fatto tutto questo senza degnare nemmeno di uno sguardo né Roxanne, né le altre due.

Molte facce si sono girate per seguire il mio breve e solitario tragitto, mentre con fluidità mi allontanavo dalla mensa, scivolando elegantemente oltre la porta a vetri.

Per un momento ho temuto che Roxanne mi seguisse, ma lei non l’ha fatto. Probabilmente doveva aver capito l’antifona.

Mi sono recata a lezione, da sola, attirando ancora più attenzione di quanta ne attiro normalmente, e mi sono seduta al mio posto con tutta la dignità possibile.

Dio, se solo fossi riuscita a prenderle…se solo fossi riuscita a parlare con loro…

Cosa avrei fatto in quel caso?

Sinceramente non lo so.

Conosco le Gallinelle dalla ridicola età di sei anni e loro non si sono mai comportate così nei miei confronti. Mai.

Io non ho mai dovuto dire loro cosa fare; sapevo che mi avrebbero seguita in qualsiasi situazione.

Qualsiasi attacco di ira, qualsiasi richiesta assurda…hanno sempre accettato tutto di buon grado.

Non le ho mai costrette, ma loro si sono sempre piegate al mio volere. Come se più che essere entità separate, loro fossero state un prolungamento del miei stessi arti, della mia stessa anima.

Eppure mi avevano abbandonata. Quelle dannate pettegole che avrebbero anche potuto odiarmi nel profondo di loro stesse, senza mai abbandonarmi in realtà, adesso l’avevano fatto.

E io ero sola.

Ho stretto i bordi del banco sotto le mie dita, sentendo dentro di me montare una tale rabbia capace di stritolare quell’accumulo di segatura.

All’uscita della lezione, poi, ho visto una scena che non avrei mai voluto vedere.

Le Gallinelle erano sedute in fila, l’una dopo l’altra, su una panchina del cortile. Roxanne stava davanti a loro e sembrava parlare non stop. Su cosa vertesse la discussione, allora non ne avevo la minima idea.

Quando mi hanno vista sopraggiungere, però, tutte si sono azzittite subito. Come se quella fosse una discussione a cui non potessi partecipare. Qualcosa che non dovessi assolutamente ascoltare.

Roxanne è sembrata sorpresa di vedermi, mentre le Gallinelle hanno abbassato lo sguardo, mostrandosi ancora indifferenti.

La rabbia aveva cancellato ogni segno di oltraggio dentro di me. Avevo semplicemente voglia di distruggere qualsiasi cosa.

«Kate…», ha mormorato Roxanne, tentando di fermarmi.

Io ho proseguito dritta verso il mio taxi con un ghigno malcelato.

Tornata a casa, ho iniziato a pensare alla strategia da adottare il giorno seguente.

Se loro avevano osato rendermi miserabile di fronte all’intera scuola, io le avrei ripagate con la stessa moneta. Avrei dimostrato loro che, come sempre, non sono io ad aver bisogno di loro, ma loro a non poter sopravvivere senza di me.

La mia entrata presso il cancello scolastico, perciò, è stata a dir poco trionfale. Attorno a me c’erano radunate più persone di quante mi avessero circondata al mio ritorno dopo la convalescenza.

Le Gallinelle,  che erano già arrivate a scuola, si sono voltate spontaneamente verso l’origine di tale confusione.

Jeff mi stringeva contro la sua spalla, canticchiando allegro mentre Thelma, ci invitava ad essere meno sdolcinati. Io allora l’ho spinto via, scherzosamente, e così Phil, Larry e Chris hanno iniziato a contendersi il suo posto.

Essere soffocata in quel modo mi irritava un po’, ma nonostante tutto ero riuscita a raggiungere il mio scopo: dimostrare alle Gallinelle che senza di me avrebbero perso il loro status e sarebbero finite nel dimenticatoio tra gli sfigati.

Ora che tutti i nostri amici avevano preferito me a loro, cosa avrebbero fatto? Tentare il suicidio sarebbe stata un’operazione fin troppo difficile per i loro pochi neuroni funzionanti; almeno di questo potevo essere certa.

Prima di sorpassarle, tutti si sono girati a salutarle allegramente. Loro hanno risposto tra un misto di sorpresa e confusione, rivolgendoci uno sguardo malinconico, perché costrette a restare indietro.

Pur avendole adocchiate per un tempo brevissimo, avevo notato che la loro uniforme era tornata alla normalità: accorciata come la mia e decorata con dei fiocchetti colorati al collo.

Mi è sembrato che avessero cercato di attirare la mia attenzione, ma io le ho ignorate, elargendo sorrisi a destra e a manca.

Ma la scena più divertente è avvenuta durante l’ora di pranzo, quando le Gallinelle, in mancanza di posti al mio tavolo, hanno dovuto accomodarsi assieme a Roxanne e alle sue amichette, in uno dei tavoli di periferia riservati agli sfigati D.O.C.

Le ho viste sistemarsi il più possibile a distanza da Patty Mason ed Eve Morrison, concentrandosi tutte attorno a Roxanne e cercando di stare il più attaccate possibile fra di loro.

Ho iniziato a sorridere da sola, e Thelma mi ha chiesto con altrettanta ilarità: «Cosa c’è?»

«Niente…è che tutto è estremamente divertente!»

Lei mi ha risposto con sorriso da volpe che dice tutto sulla sua personalità.

All’uscita da scuola, le Gallinelle, assieme a Roxanne, sono comparse davanti a me in cortile.

«Per favore, Kate, ti dobbiamo parlare», ha detto Rita, facendosi portavoce delle altre.

Roxanne mi ha guardato con un’espressione indecifrabile, ma non ha detto niente.

«Scusateci, ma non abbiamo tempo da perdere», ha detto Thelma, afferrandomi il braccio, «Vero, Kate?»

«Sì», ho confermato con voce estremamente cortese, «dobbiamo andare. Ci vediamo domani.»

Mi sono voltata, in direzione del cancello, ma qualcuno ha chiamato a gran voce il mio nome.

«Kate! Aspetta!»

Era Roxanne.

«Non posso ti ho detto», ho risposto, continuando a camminare. Mi sembrava di star ripetendo la situazione della settimana precedente.

«Se non ti fermi, dirò a tutti cosa sei veramente!», ha urlato Roxanne.

Io mi sono bloccata di scatto, voltandomi lentamente a guardarla. Cosa diamine voleva dire?

Roxanne allora ha sorriso adorabilmente, facendo un passo all’indietro e permettendo invece alle Gallinelle di avvicinarsi a me.

«Tesoro, io vado a chiamare un taxi, va bene?», ha detto Thelma sbuffando e lasciandomi andare il braccio, «Cerca di non metterci troppo, okay?»

Non ho risposto, continuando a guardare ad intermittenza sia Roxanne che le Gallinelle.

Nancy si è fatta avanti per prima.

«Ci…ci dispiace per tutto, Kate. Noi…noi abbiamo fatto il possibile!»

Eh?

«Ho assunto persino un tutor che mi aiutasse a studiare, ma non è servito ha niente!», ha sospirato Ashley con gli occhi che le diventavano lucidi.

«Perdonaci, se puoi!», ha ripetuto Nancy.

«Ma…di che state parlando?», ho mormorato, senza capirci niente.

Se c’era qualcosa di cui avrebbero dovuto scusarsi, era la loro precedente mancanza di rispetto. Cosa c’entrava, allora, assumere un tutor per lo studio?

«Abbiamo fatto il possibile, davvero, ma alla fine…non siamo state ammesse a Princeton!», ha confessato Sally, facendosi piccola piccola.

Eh?

«Ricordi cosa ti avevamo promesso, Kate, quando abbiamo saputo che tu eri stata ammessa in anticipo?», ha domandato Ashley.

Non riuscivo a seguirle. Ho annuito senza nemmeno pensarci e lei ha continuato a parlare.

«Avevamo promesso che avremmo studiato sodo e ti avremmo seguita sicuramente anche in New Jersey!», ha riso Sally, senza una reale allegria.

«Ma alla fine è stato tutto inutile, no?», ha detto Nancy con un lamento acuto e il labbro tremolante.

«Non siamo state in grado di riuscirci, Kate, scusaci…per questo ieri non siamo riuscite nemmeno a guardarti in faccia. Sapevamo che avresti sicuramente disprezzato delle persone come noi!»

Ashley si è coperta gli occhi con un braccio: «Non…non potremo più stare con te per i prossimi quattro anni…Perdonaci per non aver mantenuto la nostra promessa!»

Le vedevo mordersi il labbro, nascondere la faccia o soffiarsi il naso, tentando di camuffare il fatto che avessero ripreso a piangere.

Io non sapevo cosa dire.

Roxanne, allora, si è fatta avanti, con le braccia conserte e un’espressione pacata.

«E’ questo quello che volevano dirti sin da ieri, ma non c’è l’hanno fatta a confessare tutto perché si vergognavano e temevano la tua reazione.»

«Che assurdità», non ho potuto fare a meno di rispondere.

«Ieri, a furia d’insistenze sono riuscita a cavare da loro tutta la verità. Ho cercato di intervenire, perché lo sapevo che non le avresti ascoltate altrimenti», ha detto, lanciandomi un’occhiata storta.

«E che vuol dire: “dirò a tutti cosa sei veramente”?!», ho domandato, allora, incapace di trattenermi.

Roxanne ha sorriso in modo furbo: «E’ questo quello che sei veramente: una persona cocciuta più del marmo, che non ascolta mai le spiegazioni altrui e finisce con il fraintendere tutto, convincendosi di verità senza fondamento.»

Se quello era un insulto, era ben camuffato da un sorriso scherzoso. Ho fatto per risponderle a tono, quando la voce di Nancy mi ha interrotta.

Si è avvicinata a me, con le braccia nascoste dietro la schiena. Poi, lentamente, portando le mani in avanti mi ha mostrato un ricco bouquet sui toni del rosa. Un trionfo di camelie, gerbere e margherite dai colori vivacissimi, mi è stato messo in mano, lasciandomi totalmente senza parole.

«Questo è il nostro ringraziamento e augurio», ha risposto Ashley, asciugandosi bruscamente le lacrime.

«Anche se non potremo venire a Princeton con te, noi continueremo a tifare per te da qui», ha aggiunto Sally.

«Ma tu non devi scordarti di noi!», le si è accodata Nancy.

Allora mi sono sentita un po’ vacillare.

Thelma è tornata, dicendo che il taxi era arrivato.

«Va’ senza di me», le ho risposto.

«Cosa?!»

«Va’ senza di me, ho detto

Sbuffando, è montata nel taxi e se n’è andata.

«Non è bellissimo?», mi si è avvicinata Roxanne, indicando il mazzo di fiori tra le mie braccia.

«Sì è vero…è molto bello», ho risposto con un po' di esitazione.

«Se ti piace davvero, allora, c’è n’è uno anche per te!», ha esclamato Rita, porgendo un identico mazzolino anche a lei.

Roxanne è rimasta stupita quanto me da quel gesto.

«Congratulazioni anche a te, Anne!», ha detto Sally, «Sei stata ammessa anche tu a Princeton per il prossimo anno scolastico, non è vero?»

Mi sono voltata di scatto verso Roxanne, che è arrossita di botto.

«Come fate a…?», ha tentato di dire, ma poi si è bloccata incontrando il mio sguardo.

«Abbiamo le nostre fonti», le ha risposto prontamente Rita con un sorriso mellifluo e stranamente inquietante.

«Beh…non so che dire…vi ringrazio, ragazze!», ha replicato Roxanne tornando a sorridere ed evitando di voltarsi nuovamente verso di me.

Chi l’avrebbe mai detto? Se qualcuno avesse previsto che in futuro sarei stata stupita in questo modo dalle Gallinelle, io non gli avrei mai creduto.

Come non ho creduto alle mie orecchie, sentendomi bisbigliare un timido «Grazie», stringendo quei bellissimi fiori al mio petto. Ho sorriso lievemente, incapace di trattenermi.

«Dai, dai! Un bell’abbraccio di gruppo!», ha incitato Roxanne, stranamente divertita.

Scoppiando nuovamente a piangere, con un balzo, le Gallinelle mi sono saltate al collo, abbracciandomi e riempiendomi di baci.

«Attenzione! I fiori!», ho tentato di gridare, ma il mio avvertimento è stato del tutto inutile.

Dopodiché, abbiamo deciso di fermarci ad un bar per prendere un drink. Analcolico, sfortunatamente. Vedendoci in uniforme scolastica, nessuno avrebbe mai creduto che avessimo più di 21 anni, nonostante io avessi detto di essere stata bocciata per tre anni di seguito.

Più tardi, gli enormi rugbisti di turno sono arrivati per portar via le loro belle donzelle, le quali, prima di andarsene, mi hanno di nuovo stritolato in un abbraccio da boa constrictor. Roxanne ha assistito alla scena con immensa ilarità.

Una volta sole, ci siamo trovate a corto di argomenti di cui parlare. Perciò, come se niente fosse, io ho chiesto ciò che più mi interessava sapere.

«Dunque sei stata ammessa a Priceton?», ho domandato a bruciapelo.

«Beh…», ha esitato lei, «…sì.»

«Perché non me l’hai detto?», ho chiesto con la stessa rapidità.

«Perché…non sapevo quello che ne avresti pensato», ha replicato Roxanne.

«In che senso?» Non capivo dove volesse arrivare.

«Non sapevo se ti avrebbe fatto piacere, ecco», ha risposto, guardandomi finalmente negli occhi.

Io mi sono zittita per un attimo. Mi avrebbe fatto piacere?

Ultimamente trascorro sempre più tempo assieme Roxanne.

Ma perché prendermi la briga di passare più tempo con lei, quando un tempo avrei fatto di tutto per evitarla?

Non lo so e continuo a chiedermelo.

Probabilmente, le ultime rivelazioni sul suo conto hanno cambiato diametralmente la mia opinione. Forse mi hanno anche un po’ rammollita nei suoi confronti.

E’ che dopo mesi di sospetti, invidia, trame nascoste…tutto è giunto alla luce del sole, permettendomi di riprendere il respiro.

Odiavo vederla come una ragazzina buona e gentile fino al diabete. Mi metteva a disagio. Mi faceva sentire giudicata.

E’ per questo che avevo voglia di rovinarle la vita.

Adesso, invece, sento dentro di me una certa propensione verso di lei, che sinceramente non mi so spiegare. E’ come se tutte le mie macchinazioni si fossero volatilizzate. E’ come se io avessi scoperto che è più simile a me di quanto si possa mai credere.

Ormai non è più una persona da cui devo restare lontana per non vergognarmi di me stessa: è una persona come tutte le altre. Esattamente come la sottoscritta, anche lei è stata corrotta dal mondo.

Non devo più scappare da lei. Posso starle vicino e godere l’effetto calmante che ha sul mio umore.

E’ un’altra manipolazione, ne sono consapevole, ma chi potrebbe distinguerla da una semplice amicizia?

«E perché dovrebbe dispiacermi?», ho risposto allora con affabilità, sorpresa della sincerità delle mie stesse parole.

Lei ha sorriso timidamente, rincuorata.

Roxanne fa già parte della mia vita. Andare a Princeton con lei non cambierà nulla di tutto ciò.

E’ vero, ho detto di voler dare il benvenuto al mio nuovo futuro buttandomi tutto il passato alle spalle.

Ma magari…farò qualche eccezione.

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Capitolo 16
*** cap 16: Correre, correre ***


Allora, lo so che il promo era diverso…ma semplicemente ho iniziato a scrivere una cosa e ho finito per scriverne un’altra…ho preferito suddividere tutto il materiale due capitoli, altrimenti il prossimo sarebbe stato troppo lungo, quindi penso di averv

Allora, lo so che il promo era diverso…ma semplicemente ho iniziato a scrivere una cosa e ho finito per scriverne un’altra…ho preferito suddividere tutto il materiale due capitoli, altrimenti il prossimo sarebbe stato troppo lungo, quindi penso di avervi facilitato in qualche modo la lettura.

Tutti i discorsi in questo capitolo sono molto importanti, perché vengono menzionati in seguito o ripresi spesse volte da Kate. Non è il capitolo d’azione che vi avevo promesso, ma sarà il prossimo e questo è SICURO, quindi il promo seguente è per il capitolo 17, non il 16.

Abbiate un po’ di pazienza…dovrei riuscire a finire il prossimo capitolo entro mercoledì prossimo, ovvero prima di andare in gita…se non dovessi farcela per fortuna ci sono le vacanze di Pasqua!

Magari potrò avervi annoiato con questi due capitoli più riflessivi e di transizione, ma vi prometto che nel prossimo troverete tanti intrighi e colpi di scena (sperando di saperli scrivere decentemente) in modo da rimediare a tutte le mie pecche precedenti!

Un grazie infinito va a ninfea306 e balakov, che sono sempre molto perspicaci nel recepire le dinamiche interne dei personaggi e mi regalano tanta soddisfazione con le loro recensioni.

 

Ed ecco finalmente il fantomatico PROMO del CAPITOLO 17 nella sua versione DEFINITIVA:

 

Sospiri soffocati sulla bocca di uno sconosciuto.
Mani nei capelli che scorrono morbidi tra le dita.
"Sei la mia forza, Kate".
Lei non lo avrebbe saputo mai.

 

Alla prossima!

EDIT: Sono in hiatus fino alla fine della scuola...mi dispiace per chi aspettava l'aggiornamento, ma sono molto impegnata.

 

***

 

 

Il vento le spingeva i capelli in bocca, ma le sue labbra non riuscivano a chiudersi.

Con il cuore che batteva all’impazzata, notò una chioma bionda, davanti a sé, sobbalzare allo stesso ritmo dei suoi passi affrettati.

Continuò a sorridere come un’idiota.

“Questa è la libertà”, pensò Roxanne.

E continuò a crederlo per molto altro tempo.

 

31 maggio

 

 

Eccomi qui per ricapitolare le giornate da mercoledì ad oggi, ovvero venerdì. C’è un bel po’ da dire, perciò non mi perderò in inutili sproloqui, ma passerò direttamente ai fatti.

Dopo la stupida vicenda delle Gallinelle, non è successo poi molto a scuola. Loro mi stanno attaccate come sempre, mugugnando di tanto in tanto qualche lamento a cui non faccio proprio caso.

Ma seriamente, come pensavano di poter riuscire ad accedere a Princeton, una delle maggiori università d’America e del mondo?

Quando pochi mesi fa avevano pronunciato quel discorso di lealtà nei miei confronti, promettendo di seguirmi persino in capo al mondo, pensavo sul serio che scherzassero.

Talvolta nemmeno io sono consapevole dell’estensione della loro idiozia. Magari sotto questo punto potrei anche sottovalutarle.

Eppure la fine della scuola si avvicina e il miraggio del college non sembra poi così lontano.

E’ proprio per questo che Justin deve aver avuto la strepitosa idea di organizzare una serata in discoteca per tutti gli studenti dell’ultimo anno che vogliono parteciparvi. Un modo per dare l’addio definitivo agli anni dell’high school, prima di intraprendere delle strade differenti nella propria vita.

C’è anche chi l’ha definito un anti-ballo di fine anno, visto che quello vero è già avvenuto prima delle feste natalizie, per godere del suggestivo scenario innevato.

Io ho accettato di buon grado l’idea, coinvolgendo più persone possibili. Non ci si può divertire se si è in pochi, d’altronde.

Le Gallinelle si sono dimostrate altrettanto entusiaste e si sono subito date da fare per la creazione degli inviti.

Mercoledì mattina, uscendo dal bagno, mi sono scontrata con Roxanne che si stava precipitando affannosamente fuori da un’aula.

«Dove stai andando?», le ho chiesto un tantino perplessa.

Correre per i corridoi non è affatto educato.

Lei non mi ha risposto, mimando con le mani il segno “dopo”, per poi rigirarsi e continuare la sua corsa.

L’ho guardata andar via un po’ corrucciata.

«Allora viene anche Anne, vero?», mi hanno chiesto in coro le Gallinelle a pranzo.

Patty Mason ed Eve Morrison, le amichette della Miller, consumavano il loro pranzo da sole ai margini della mensa con una patetica espressione in viso.

«Ma certo», ho risposto, senza nemmeno averlo chiesto alla diretta interessata, «preparate un invito anche per lei.»

«Ci pensate? Tra qualche settimana la scuola terminerà…», ha sospirato Nancy.

«…E noi non vedremo più Kate!», le si è accodata Sally, ricevendo delle esclamazioni accorate di assenso dalle altre due.

«Non parlate di me come se stessi per morire, per favore», ho commentato esasperata da quelle patetiche scenette, «E poi abbiamo ancora tutta l’estate davanti…non mi trasferirò poi così all’improvviso.»

A quelle parole ho visto Rita animarsi all’improvviso e battere vivacemente le mani come una foca ammaestrata. «Ho avuto un’idea!»

Tale esclamazione non indicava niente di buono in arrivo, ma le sue simili si sono accese di eccitazione, domandando con frenesia: «Cosa? Cosa

Rita ci ha guardate con occhi carichi di suspance, malgrado io indossassi un’espressione enormemente annoiata in viso.

«Che ne dite di partire per una bella vacanza all’estero quest’estate? Solo noi cinque…no, oppure potremmo invitare anche Anne! Così potremmo stare tutte un po’ assieme prima che Kate ed Anne inizino il college!»

Prevedibilmente, la proposta è stata accolta con estatici gridolini da parte delle altre tre. Io mi sono limitata a sbuffare.

«Kate! Tu verrai, vero?», mi hanno chiesto con frenesia.

«Sì, certo», ho borbottato senza farci nemmeno caso. Quella sarebbe stata solo una delle tante promesse che non avrei mantenuto.

«Evvai! RiRì sei un genio!», ha esclamato Ashley, rivolgendosi a Rita con uno dei loro patetici nomignoli.

Per completare il quadretto si sono abbracciate con tanta dolcezza da far venire il diabete.

Un minuscolo sorriso è spuntato inconsciamente agli angoli delle mie labbra.

Certo. Rita si riconfermava la più intelligente del gruppo, ma elevarla a rango di genio era alquanto esagerato.
Nonostante tutto, ho lasciato che si godesse il suo vano momento di gloria, per quanto ciò potesse contare.

Più tardi ho incontrato Roxanne solo alla lezione di francese, dove è arrivata appena un secondo prima che il professore iniziasse a spiegare.

Tenendo il capo basso e lasciando che i suoi lunghissimi capelli sciolti le coprissero il volto, è scivolata in uno degli ultimi banchi, cercando di mantenere l’anonimato.

Ho passato un po’ di tempo a chiedermi come mai fosse così sfuggente, ma ho ricevuto la mia risposta solo due ore dopo.

All’uscita da scuola ho salutato le Gallinelle e sono andata a prendere un taxi. Mentre attraversavo il cancello, però, ecco arrivare alle mie spalle un’ombra che mi ha causato un grande spavento.

Si trattava di Roxanne, che si è scusata per lo scherzo con un timido sorriso, grattandosi la nuca in un gesto infantile.

«Ho voglia di frappè», ha dichiarato un momento dopo senza nemmeno dire “Ciao”, «vuoi venire con me? Conosco un posticino non molto lontano da qui che ne fa di buonissimi.»

Non avendo altro da fare ho accettato l’invito.

«Cos’è successo stamattina?», le ho domandato allora, camminando accanto a lei.

Roxanne si è sistemata meglio la borsa a tracolla sul fianco, addrizzando al tempo stesso la gonna dell’uniforme.

«A dire il vero, stavo scappando da Gutierez…», ha detto.

«Da Gutierez? E perché?», ho domandato, curiosa.

«Dovevo consegnargli un documento…ma l’ho perso. E sai com’è Gutierez in questi casi: se l’avesse saputo mi avrebbe fatto una paternale infinita, perciò…appena si è distratto sono scappata», ha mormorato Roxanne, guardandosi sospettosamente intorno per assicurarsi che l’assillante professore non fosse nei paraggi.

Io ho riso di gusto.

«Sei davvero strana», ho commentato divertita, «ma questo te l’avevo già detto, vero?»

Roxanne mi ha lanciato un’occhiata di sbieco; un’occhiata piuttosto ambigua.

«No, non me l’avevi mai detto.»

Ho chiuso la bocca di scatto, come se mi fossi morsa la lingua.

All’improvviso non sapevo più cosa dire.

Dopo pochi minuti di ambiguo silenzio, siamo arrivate al “posticino” consigliato da Roxanne e ci siamo sistemate in uno dei tavolini posti all’esterno. All’interno, il locale era davvero un buco, ma tutto sommato ben curato.

«Cosa? Non ci sono frappè al mango?», ha domandato Roxanne poco dopo alla cameriera, mentre ordinavamo.

«No, mi dispiace. Però potresti provare quello al kiwi…»

«No, se non c’è il mango non mi piace», ha risposto Roxanne con un broncio di testardaggine, «prendo un caffè allora.»

«Bene, per te?», ha domandato la signorina poi rivolgendosi a me.

«Un tè alla pesca», ho risposto prontamente.

Roxanne, quando la cameriera si è allontanata, ha sbuffato, afflosciandosi sul tavolino. I lunghi capelli mogano le hanno sommerso completamente il viso.

«Uffa, volevo il mio frappè al mango…», il suo mormorio era abbastanza soffocato.

Osservandola di sottecchi, mi sono resa conto che non ricevevo più la stessa impressione di sempre guardandola. C’era qualcosa che non andava.

Oppure era solo la mia immaginazione?

La cameriera è arrivata con le ordinazioni e Roxanne si è subito ricomposta.

Ha aperto tre bustine di zucchero, svuotandole completamente nella sua tazzina.

Io ho annusato brevemente il mio tè, prima di prenderne un sorso.

«Sai, stavo pensando che…la vita è come il caffè», Roxanne ha interrotto quel pacifico silenzio.

Io le ho puntato gli occhi addosso, con un’espressione estremamente confusa.

Lei ha sorriso brevemente. Troppo brevemente.

«Sì, dai, non guardarmi così. Segui il mio ragionamento: il caffè è originariamente amaro, no? Proprio come la vita, finché non lavori sodo per aggiungerci dello zucchero. E più fatichi, più zucchero avrai per rendere più dolce la tua esistenza!»

Ho sbattuto le palpebre, se possibile ancora più perplessa di prima.

Roxanne non ci ha fatto caso. Il capo chino sul suo caffè, continuava a zuccherarlo, rigirando il liquido nella tazzina con un cucchiaino.

«Certo, però, che se il caffè è pessimo sin dall’inizio, malgrado tutti i nostri sforzi non avrà mai un buon sapore…»

Io ho mandato giù un altro po’ di tè, sperando che mi permettesse di seguire meglio quel delirio.

«E se a qualcuno il caffè piacesse amaro?», ho domandato, sforzandomi di comprenderla.

Roxanne ha sgranato gli occhi, come se non potesse concepire una cosa del genere: «Allora è semplicemente un masochista!»

Ho provato a trattenermi, ma non ce l’ho fatta. Sono scoppiata a ridere e le sue labbra si sono increspate in un sorrisetto complice.

«Devo ammettere che sentirti dire: “la vita è come il caffè”, mi ha davvero spaventata…ma potrebbe essere una teoria interessante», ho commentato, stranamente ilare.

«Visto?», ha detto Roxanne, con un ghigno. Poi ha mandato giù un sorso del suo caffè iper zuccherato.

«Però non credo che aggiungere dello zucchero dipenda solo da noi, comunque», ha continuato dopo poco, «Ci possono essere un sacco di imprevisti esterni che rendono la nostra vita amara e, per quanto ci si sforza, certe cose non le puoi cambiare. Questo caffè, per esempio, è ancora amaro. Ci vorrebbe un’altra bustina di zucchero.»

«Ne hai già aggiunte tre», le ho ricordato.

«Sinceramente non riesco a sentire la differenza», ha replicato. Il suo tono mi è sembrato stranamente cupo.

Mi sono ammutolita.

«E’ qualcosa di sottilissimo…come il confine che separa il fuggire dal correre. Secondo te qual è la differenza in questo caso?»

Un tranello? Una domanda a trabocchetto?

Non riuscivo a capire cosa stesse cercando di chiedermi attraverso tutti quei giri di parole.

Così le ho risposto il più sinceramente possibile: «In apparenza non c’è alcuna differenza. L’atto è lo stesso, ma la motivazione no. Si fugge sempre da qualcosa che ci tormenta, che vogliamo evitare, invece possiamo correre anche solo per passatempo.»

«E’ vero», ha commentato, «però vorrei che la differenza fosse più netta. Così da non pensare di star fuggendo anche in questo caso.»

Poteva trattarsi di una metafora che ricalcasse la sua realtà?

«Perché pensi di star fuggendo?», le ho domandato, senza riuscire a trattenermi.

Qualcosa mi diceva che in quel momento avrei potuto chiederle qualsiasi cosa e lei mi avrebbe risposto sinceramente, senza remore.

«Perché per me ormai è diventata un’abitudine: sono scappata di casa dopo quello che è successo con…Liam», era la prima volta che lo nominava in mia presenza dopo tutto quel tempo, «e sto scappando ancora…accettando l’ammissione a Princeton.»

«Ma trasferirsi in un altro stato per motivi di studio non equivale a scappare», le ho ricordato.

Poi improvvisamente ecco riemergere dalla mia mente quelle parole che avevo origliato durante una conversazione a cui non avrei mai dovuto assistere: «Io non tornerò più a Miami; ho già preso la mia decisione. Tra pochi giorni arriveranno le conferme di ammissione dalle Università a cui Madison ha fatto domanda per me. Sceglierò quella più lontana.»

Roxanne ha scosso la testa, lasciando che alcune ciocche mogano le scivolassero sugli occhi: «Sto scappando, lo so benissimo. Ma che altro posso fare?»

«Hai un obiettivo, vero? Vedi qualcosa di fronte a te a cui vuoi assolutamente arrivare, giusto?», ho domandato, allora, all’improvviso.

Roxanne ha spalancato gli occhi. Adesso era il suo turno di essere confusa.

«Sì, ma…»

«Allora non stai scappando. Stai solo correndo verso il tuo futuro. E’ questa la differenza», ho insistito con determinazione.

Roxanne mi ha guardato per un po’, pensierosa.

Dentro di me sapevo cosa mi aveva spinta a dire quelle cose.

Anche io voglio gettarmi alle spalle il mio passato e se questo equivale a fuggire come una codarda, non ammetterei mai di esserlo.

Ma oltre a qualcosa da cui voglio allontanarmi, ho qualcosa verso cui dirigermi.

E’ questo quello che conta, giusto?

«E sei sicura che questo ragionamento si possa applicare anche a me?», ha domandato poi lei.

Io l’ho guardata stordita, senza sapere cosa dire.

«Come fai a dirlo?», ha ripetuto, accentuando lo scetticismo nella sua voce.

«Perché ti conosco», ho risposto subito. Quella era l’unica cosa che mi fosse venuta in mente.

Roxanne non sembrava ancora soddisfatta.

Era come se si fosse intestardita persino sul fatto che stesse fuggendo dai suoi fantasmi e non accettasse un’altra risposta, malgrado la cercasse avidamente.

«E quale me conosci?», mi ha domandato allora.

Carte scoperte. Una bugiarda che ammette la sua natura. Un sorriso onnipresente che si frantuma.

Ma io potevo capirla. Perché anche io combatto questa battaglia: una battaglia tra la vera me stessa e quel fantoccio allegro che mostro agli occhi del mondo.

«Le conosco tutte», ho detto, lanciandole un’occhiata asciutta, «tra qualcuna di queste deve pur esserci quella vera, no?»

La Roxanne che piange per il suo amore impossibile. La Roxanne che fugge, ma trova al tempo stesso il modo di andare avanti. La Roxanne che disinfetta le mie ferite nel cuore della notte. La Roxanne bambina. La Roxanne che ha già sbagliato troppe volte. La Roxanne assurdamente testarda. La Roxanne che risolleva il mio umore. La Roxanne che agisce da intermediario tra me e le Gallinelle. La Roxanne che adora sua sorella. La Roxanne che quando beve alcolici diventa ubriaca d’affetto. La Roxanne che disegna solo quello che per lei ha un’anima. La Roxanne che va pazza per i dolci. La Roxanne adorata, la Roxanne invidiata. La Roxanne dai lunghi capelli mogano sciolti o legati in una treccia. La Roxanne con gli occhiali o senza. La Roxanne secchiona. La Roxanne a suo agio in metropolitana. La Roxanne a cui tremano le mani. La Roxanne alla guida di un’enorme jeep. La Roxanne che scrive di volermi bene. La Roxanne a cui piace divertire raccontando storie assurde. La Roxanne che pensa in modo differente. La Roxanne minuta che annega in una grossa felpa colorata. La Roxanne pigra che indossa una tuta sotto l’uniforme. La Roxanne che mente, ma non lo fa mai solo per se stessa.

Posso dire senza dubbio di conoscerle tutte.

Mi sono alzata in piedi, facendo strisciare la mia sedia all’indietro con un suono spiacevole.

La Miller, totalmente atterrita dalla mia ultima affermazione, continuava a fissarmi sorpresa.

Il suo caffè troppo poco zuccherato si era ormai completamente raffreddato.

«Andiamo?», ho detto, dirigendomi verso il bancone del bar per pagare.

Annuendo appena, lei mi ha seguita ubbidientemente senza dire una parola.

«Ah…e questo sabato andremo in discoteca, ci sarai, vero?», le ho chiesto all’istante.

Ero ben consapevole che fosse ancora un po’ scioccata dalla mia affermazione, ma volevo alleviare tutta quella tensione.

Quale modo migliore che cambiare argomento, quindi?

Per un momento Roxanne mi ha guardato con degli occhi allucinati.

Ah già, lei non sapeva nulla dei nostri programmi…

«Prima della cerimonia della consegna del diploma, abbiamo deciso di passare una serata in discoteca, come addio ai tempi della scuola», ho spiegato, ciarlando in modo naturale per far sì che smettesse di avere quell’espressione sbigottita.

«Oh…», ha mormorato lei, sempre con lo sguardo basso, raccogliendo con perizia degli spiccioli dal suo borsellino per saldare il conto.

«Ovviamente tu ci sarai», ho asserito categorica, «Ho fatto già preparare l’invito dalle Gal-ehm, dalle altre…perciò l’unica cosa che ci resta da fare è trovare un abbigliamento adatto per l’occasione!»

Roxanne ha riso lievemente, lasciando che le sue guance si tingessero appena di rosa e la sua fronte smettesse di essere contratta.

«Vuoi davvero farmi credere che, pur avendo un armadio grande quanto una stanza, hai davvero bisogno di comprare un altro vestito?», ha domandato ironicamente.

Sollevata dal vederla nuovamente sorridere, le ho risposto incurvando furbamente le labbra in un ghigno.

«Ma certo. Tutti i vestiti che ho, li ho indossati almeno una volta e ho bisogno di qualcosa di nuovo. E’ un evento epocale, dopotutto. E’ la festa d’addio alla nostra adolescenza.»

Roxanne ha alzato le sue iridi blu su di me, lanciandomi una strana occhiata.

L’ho vista aprire la bocca un paio di volte, come se cercasse di dire qualcosa, per poi condensare tutti i suoi sforzi precedenti in un unico solitario sospiro: «Già.»

«E ovviamente dovremmo trovare qualcosa anche per te», ho ripreso a dire, ignorando volutamente la sua aria tutto ad un tratto pensierosa, «però…forse ho un’idea.»

Roxanne mi ha fissata sinceramente incuriosita, «Che intendi?»

«Lo vedrai», ho replicato suadente.

«Va bene. Ma mi rifiuto di passare tutto il pomeriggio impegnata in una staffetta da negozio a negozio», ha dichiarato categorica.

Io le ho fatto un occhiolino complice, sfruttando tutta la mia avvenenza: «Oh certo, non temere.»

Roxanne, per ovvie ragioni, non è sembrata affatto convinta dalle mie parole.

Il giorno dopo, dunque, ho dovuto trovare una scusa per trascinarla con me in uno shopping sfrenato. Fortuna che, se presa adeguatamente per la gola, Roxanne sa essere davvero un’ingenua.

«Lo sai che ho trovato un bar che fa dei buonissimi frappè al mango?», ho buttato lì con noncuranza, durante il pranzo.

Roxanne ha lasciato cadere il muffin che era intenta a divorare per la sorpresa.

«Davvero?!», ha esclamato troppo velocemente, per poi iniziare a tossire. Probabilmente, per la troppa foga, un pezzo del suo dolce doveva esserle andato di traverso.

«E’ vero. Si trova vicino alla stazione e molte persone me l’hanno consigliato», ho risposto con affabilità.

«Frappè?», ha domandato Ashley.

«…al mango?», le si è accodata Nancy.

«Esatto».

Quante volte avrei dovuto ripetermi?.

«Lo voglio anche io!», ha esclamato Sally, seguita a ruota dalle altre.

«Sì, anche io!»

«Pure io!»

Ho pensato seriamente di cambiare il loro nome il Pecorelle, piuttosto che Gallinelle, perché hanno il dannato vizio di accettare qualsiasi proposta, senza nemmeno pensarci su. Come un gregge indisciplinato e confuso si accodano alla prima di loro che prenda l’iniziativa, seguendola ciecamente come se fosse il loro perduto pastore (okay, adesso magari mi sto lasciando andare troppo a similitudini bibliche, quindi farei meglio a smetterla).

«Allora andiamoci tutte insieme!» Roxanne ha colto al volo quella proposta, piuttosto contenta.

«Certo! Come faremo quest’estate!», è intervenuta Rita, pienamente sostenuta dalle sue compagne che annuivano con feroce convinzione alle sue parole.

«Quest’estate?», ha domandato Roxanne, dubbiosa.

Ah, giusto…le avevo detto della serata in discoteca, ma avevo tralasciato questo piccolo particolare. Infondo nemmeno io avevo intenzione di andarci, perché avrebbe dovuto farlo lei?

«Non te l’ha detto Kate?», ha domandato Sally, rivolgendo verso di me due orbite acquose, circondate da palpebre pesantemente truccate.

Io non ho risposto, portando con artificioso stupore una mano alla bocca, fingendo di essermene completamente dimenticata.

«Quest’estate abbiamo in programma di partire per un viaggio in Europa…tutte insieme…che ne dici?», le ha chiesto Rita, ovvero la persona che aveva avuto quella meravigliosa idea.

Roxanne sembrava esser stata presa in contropiede.

Odiavo quell’espressione confusa che rivolgeva a chiunque le chiedesse qualcosa.

Era come se avesse iniziato a vivere con la mente in un altro mondo e ogni tanto lo abbandonasse per dare una pigra occhiata a quello che succedeva sulla terra, dove il suo corpo si trovava.

Mi infastidiva enormemente.

«Roxanne verrà», ho dichiarato, allora, «Andremo tutte e ci divertiremo da pazze, giusto?»

Come previsto, alle mie parole le Gallinelle si sono infuocate di gioia. Bastava così poco a farle felici!

Roxanne, immobile, alle loro spalle, mi ha fissata con uno sguardo indecifrabile per qualche secondo.

Sapevo di averla intrappolata tra la sua voglia di indipendenza e lo spirito da crocerossina così profondamente insito in lei.

Di fronte a tanto entusiasmo, non si sarebbe mai tirata indietro. La sua natura glielo impediva categoricamente. Le impediva di deludere qualcun altro. Le impediva di crearsi nemici. Le impediva di liberarsi da questo circolo vizioso di disperata ricerca d’amore e comprensione altrui.

Anche io, d’altra parte, mi ero intrappolata con le mie stesse mani.

Avevo ormai aderito ufficialmente a uno stupido progetto, ideato da menti stupide, per perdere stupidamente il mio tempo.

Ma Roxanne sapeva e continuava a guardarmi, scavando all’interno della mia pelle.

«Va bene», ha risposto dopo un po’, esibendo un sorriso praticamente perfetto: una dose esatta di solarità, di luccichio di denti e di occhi dolcemente socchiusi e piegati all’insù.

«Non avevo comunque intenzione di tornare a casa per l’estate», ha dichiarato, «Anche perché il contratto di lavoro di Madison scadrà alla fine del prossimo mese e quindi ci saremmo trasferite nuovamente a Miami attorno a quel periodo.»

«No, Anne, non andare! Vieni con noi! Ci divertiremo!», ha cercato di convincerla Nancy, sfoggiando due occhioni da cucciolo.

«Sì, sì, dai!»

«Va bene, ragazze! Ho detto di sì!»

Il sorriso di Roxanne risuonava assieme alle risatine delle Gallinelle, in un ensemble di segreti e falsità mai svelate.

Disgustata da quella scena ho abbassato la testa, lasciando che i capelli coprissero il sorriso amaro che era spuntato sulle mie labbra.

Roxanne aveva deciso di continuare a scappare e io le avevo appena dato l’occasione per farlo ancora.

 

«Oddio! Oddio, aspetta! Oh! La prego, mi scusi…Ma insomma! Dobbiamo per forza continuare a camminare in questo modo?!», ho domandato infuriata.

Le Gallinelle, assieme a Roxanne, ridevano divertite, come se a loro la cosa non importasse.

Mi avevano presa a braccetto da ambo i lati e avevano insistito perché camminassimo tutte in fila lungo il marciapiede. Ovviamente, per i passanti non era facile evitare sei persone che bloccavano totalmente il passaggio, e molte persone mi erano venute addosso spinte dalla folla. Agli uomini non dispiaceva affatto quel contatto, anzi, ma le donne sempre più spesso ci gridavano contro di stare più attente.

Abbassando il capo imbarazzata e umiliata, continuavo a chiedere scusa a tutti coloro che urtavamo per sbaglio, visto il totale disinteresse delle altre.

Stavo decisamente per avere una crisi di nervi.

«Oh, Kate, rilassati! Dopotutto sei anche riuscita a trovare il vestito che cercavi, no?», ha cantilenato Roxanne, alla destra di Ashley.

I suoi cambi di umore erano diventati talmente repentini da farmi girare la testa.

«Ti stai vendicando, vero? Ti stai vendicando perché non siamo riuscite a trovare il tuo benedetto frappè al mango, giusto?», l’ho accusata, senza riuscire a reprimere la mia indignazione.

L’idea di andarcene in giro a braccetto, d’altronde, era stata sua.

«Mannò», mi ha canzonato lei, avanzando soddisfatta tra Ashley e Nancy, «non ce l’ho con te perchè mi hai trascinata per negozi per più di tre ore - come avevi promesso di non fare - e nemmeno per il frappè che mi avevi assicurato avremmo sicuramente mangiato…no, questo no!»

«Come puoi pensare una cosa del genere, Kate! Anne non sarebbe mai in grado di prendersela con nessuno!», l’ha subito difesa Sally, senza afferrare il paese tono ironico usato precedentemente dalla Miller, «Però anche io volevo assaggiare quel frappè!»

A lei si sono accodati altri sonori lamenti di disappunto delle Gallinelle.

Io ho scosso la testa per l’esasperazione, senza riuscire a camuffare il ghigno apparso sulle mie labbra.

Immagino che qualche volta anche a me tocchi subire delle pene per le mie malefatte…e se un centinaio figure di merda possono assolvere la mia anima, chissà che io non finisca persino in paradiso!

«Sei troppo rigida e pignola», ha ripreso a dire Roxanne con un tono fin troppo onesto, «Ti devi lasciare andare! Non pensare a tutte le persone con cui ti scontrerai, ma semplicemente concentrati sulle tue gambe! Lasciati trasportare da loro!»

«Le mie gambe si muovono automaticamente verso la soluzione meno problematica per me, ovvero prendere un taxi e allontanarmi semplicemente da tutta questa folla», le ho risposto puntigliosamente, abbastanza infastidita dalla sua affermazione.

Lei si è voltata verso di me e mi ha sorriso, piano, sollevando appena i bordi delle labbra.

Il suo sguardo brillava di una scintilla bonaria e indulgente, quasi affettuosa: «Lo so. E’ per questo che te l’ho detto. Perché ti conosco.»

Se accanto a me non ci fossero state Ashley e Nancy che mi trascinavano quasi di peso, mi sarei fermata di botto in mezzo alla strada. Ero completamente ed assurdamente scioccata.

E poi ho ricordato le mie parole.

“Le conosco tutte”

E le sue parole.

“Perché ti conosco”

Non era un’affermazione, ma semplicemente una risposta lasciata in sospeso.

Avevo perfettamente capito cosa voleva dirmi: non ero solo io a conoscere tutte le sfaccettature del suo carattere, anche lei aveva imparato a capirmi col tempo.

Eppure non me n’ero mai accorta.

Io avevo sempre tenuto d’occhio Roxanne; una stupida ragazzina che un bel giorno era piombata nella mia vita e l’aveva stravolta totalmente.

Dapprima avevo cercato di liberarmene, è vero, ma lei, in qualche modo, era riuscita a far sì che l’accettassi nella mia cerchia di amicizie e imparassi persino a tollerare la sua presenza.

Ero stata io ad analizzare ogni mossa di Roxanne, impegnata a scovare qualche informazione che potesse smascherarla di fronte agli occhi del mondo, verso il quale si presentava con un visetto da bambina innocente e così buona da far venire il diabete.

Io avevo passato quegli ultimi mesi con la costante ossessione che lei volesse privarmi della mia popolarità e del mio status e sempre io ero riuscita a scoprire i suoi più oscuri segreti. Come poteva lei sapere altrettanto di me?!

E soprattutto cosa sapeva di me?

L’improvviso clacson di un’auto mi ha fatto trasalire.

Ho alzato gli occhi solo per vedere un uomo inveirmi contro, senza capirne tuttavia il motivo.

«Kate!», hanno gridato le altre, sbracciandosi nella mia direzione. Si trovavano sul marciapiede opposto. Ero rimasta indietro e non me ne ero nemmeno accorta.

“Dio, ma dove ho la testa?”, mi sono detta, scusandomi nel frattempo con l’autista che alla vista del mio sorriso si è rabbonito notevolmente. L’ho visto sbuffare lievemente e rimettersi alla guida in modo più calmo.

Dopo aver attraversato lo spazio che mi separava da loro, Roxanne, abbandonando il braccio di Ashley e Nancy mi è venuta incontro porgendomi una mano con un sorrisetto canzonatorio: «Andiamo! Dammi la mano così non ti perderai!»

Mi stava prendendo in giro, trattandomi come una poppante, solo perché mi ero distratta per un attimo.

Le ho restituito uno sguardo glaciale. Avrei potuto fare l’offesa e stare al suo gioco…ma non l’ho fatto.

Volevo smettere di essere quella rigida e pignola per dimostrarle che non mi conosceva.

Volevo farle capire che le sue erano solo illusioni: io non sono mai stata compresa facilmente.

Tutti sono all’oscuro del mio carattere e, sebbene siano abituati a qualche mio capriccio, non hanno mai avuto idea di cosa mi passi per la testa. E non lo sa nemmeno lei.

Non può saperlo lei.

E dovevo farglielo capire.

Così, ho deciso di fare qualche cosa di nuovo ed inaspettato.

Ho afferrato quella piccola mano dalle dita mangiucchiate tesa a mezz’aria e l’ho stretta tra le mie.

Poi ho iniziato a correre.

«Ferma! Piano! Oh mamma!», ha esclamato Roxanne, arrancando in difficoltà dietro di me.

Ho alzato il mento, sentendo i capelli frusciare accompagnati dalla brezza prodotta dalla velocità.
Adoro il vento.
Mi fa sempre sentire in qualche modo...completa.

«E adesso chi è la rigida?!», ho gridato, voltandomi verso di lei.

Tutti per strada ci guardavano, additandoci come stupide ragazzine che si divertono a correre mano nella mano, ancora nelle loro uniformi, infastidendo i passanti.
Ma a me, stranamente, tutto quello non sembrava importare.
Volevo dimostrarle che sbagliava a considerarmi una persona prevedibile e l'avrei fatto. Questo genere di capricci rientra nella mia natura, d'altronde.

Dopo un primo momento di scombussolamento, ho sentito Roxanne iniziare a ridere sonoramente.

Era affannata, ma allo stesso tempo rincuorata.

«Pensavate di lasciarci così, eh?», ha detto qualcuno alle nostre spalle.

Voltandoci abbiamo visto Rita che, in testa alle Gallinelle, ci stava seguendo.

Roxanne si è voltata verso di me e con uno sprint, mi si è affiancata, agitata ma al tempo stesso tremendamente eccitata da quel gioco improvvisato.

«Corri!», ha ordinato e io, sospirando pesantemente, ma con un sorriso stampato in faccia, le ho obbedito.

Ed ecco la tua risposta, Roxanne.
E' questa la differenza.
Noi abbiamo deciso di correre.

Ma corriamo solo per fuggire.

 

 

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Capitolo 17
*** cap 17: Cronache di un sabato tipo ***


E dopo quasi due mesi eccomi qua…pensavate fossi morta

 

E dopo quasi due mesi eccomi qua…pensavate fossi morta? Beh non è così XD!

Onde evitare di perdermi in inutili chiacchiere, vi annuncio che in questo capitolo ci saranno un bel po’ di colpi di scena e proprio per questo sarei curiosa di sentire pareri a proposito. E’ vero, è un capitolo molto lungo, ma contando tutta la mia assenza, diciamo che così mi sono fatta perdonare!
Voglio precisare anche che sebbene la data riporti 2 giugno, la linea temporale di BisB non è quella presente, perchè la storia è ambientata nel passato, come poteva essere inteso dalle parti iniziali prima della pagina di diario.
Ho introdotto nella narrazione anche un nuovo personaggio che rivedrete in futuro, in una forma un po' cambiata rispetto ad ora, nel seguito di BisB, dove sarà tra i protagonisti :)

La traduzione della canzone iniziale è la mia, anche se l’ho fatta in fretta quindi non garantisco sia correttissima, né letterale, ma in ogni caso dovrebbe dare un’idea generale dell’ispirazione che mi ha spinta a scrivere.

Ringrazio infinitamente ninfea306, balakov, nikoletta89 e Kobe90 per le gentilissime recensioni, e vi do appuntamento al prossimo aggiornamento!

Enjoy!

 

Ecco il promo del capitolo 18:
"Sabato sera in discoteca ho incontrato il tuo amico..."
Le sue parole mi hanno lasciata interdetta.
"Mi ha chiesto di te, sai? Voleva sapere come stavi..."
"Ma di chi stai parlando?"
Mi sono immediatamente pentita di averglielo domandato.

 

 

I’m just a man                                                            Sono solo un uomo
Not even a great one                                                  nemmeno qualcuno importante
I’m too vain for greatness                                          non sono fatto per la grandezza


Is this what they call love                                          E’ questo quello che chiamano amore
on a Saturday night?                                                 di sabato sera?

 

Time for the night clubs                                             E’ tempo dei night club,
Providing the soundtrack for                                     preparando la giusta colonna sonora per
Dry humping on dance floors                                    strusciarsi sulla pista da ballo


Is this what they call sex                                            E’ questo quello che chiamano sesso
on a Saturday night?                                                 di sabato sera?

 

Broken BEER bottles                                                 Bottiglie di birra rotte,
Thrown like American footballs                                gettate come palle da football


Is this what they call hate                                          E’ questo quello che chiamano odio
on a Saturday night?                                                
di sabato sera?

 

{Saturday Night – The Thrills}

 

 

C'è una bella differenza tra l'apparenza di qualcosa e la sua vera essenza.

Come la differenza abissale tra cielo e terra.

Eppure, Roxanne era certamente convinta di aver assistito almeno una volta nella sua vita alla fusione di queste due realtà opposte.

Proprio su quel palco.

Proprio lì dove, splendente di luci multicolori, aveva visto un angelo ancorato al suolo solo grazie ad un paio di tacchi a spillo.

 

Roxanne alzò il suo calice di cristallo in alto, solennemente.

Un brindisi alla libertà. Alla scuola che stava per terminare. Al baratro del futuro che stava per aprirsi davanti a lei.

Bevve velocemente il suo champagne sotto lo sguardo mezzo severo e mezzo divertito dell’angelo.

Poi, delle mani spuntate da chissà dove, afferrarono il viso di quella creatura perfetta, interrompendo la sua risata, e una bocca avida cercò di impossessarsi di quelle labbra rosee e divine.

Roxanne distolse lo sguardo con repulsione, allontanandosi velocemente in un vano tentativo di ignorare la realtà.

Nella sua vita aveva visto troppi esseri innocenti diventare corrotti.

Compresa se stessa.

 

 

2 giugno

 

 

Sono contenta di aver già fatto precedentemente un riassunto di tutta la settimana visto che, sebbene si tratti di un solo giorno, ho molto da raccontare.

Ovviamente non mi perderò in chiacchiere ma andrò dritta al punto.

Ieri non c’era scuola, come ogni sabato, e quindi ho detto a Roxanne di passare da me durante il pomeriggio, perché dovevo farle vedere una cosa.

Lei è arrivata, leggermente in ritardo, stritolando una borsetta marrone tra le mani e sfoggiando un look coloratissimo e decisamente stravagante.

Non so come altro si potrebbe definire una T-shirt arancione con grandi pois rossi, abbinata ad un’ampia gonna in stile gitana in cui tutti i colori dello spettro visibile si susseguivano senza alcun ritegno.

«Uhm…carina quella gonna…adorabile», ho commentato in modo affabile, invitandola ad entrare in casa mia.

«Oh, grazie», ha sorriso Roxanne, superando l’uscio, senza afferrare minimamente la mia ironia.

«Salve…», ha detto, guardandosi intorno per il soggiorno, aspettandosi apparentemente che qualcun altro apparisse da un momento all’altro per darle il benvenuto.

«Mia madre e la domestica non ci sono», le ho risposto, risolvendo i suoi dubbi. Eravamo sole. Era anche per questo che l’avevo fatta venire. Visto che Harriet - esatto, mia madre in versione isterica - chiede sempre di lei, le avrei fatto un dispetto accogliendola in sua assenza per poi dire: “Oh mamma! Non indovinerai mai chi è passato di qui prima!” e così ammirare la sua esilarante faccia sconsolata.

Lo so, mi divertono dei giochetti piuttosto stupidi, ma son fatta così. Mi piace fare irritare le persone almeno tanto quanto amo scaricare la mia rabbia su soggetti innocenti.

Ma, ritornando ora a noi, avevo invitato Roxanne per un motivo ben preciso, di cui lei non sapeva nemmeno l’esistenza.

«Allora…», ha mormorato, spostando il peso da un piede all’altro, titubante, «cos’è che dovevi farmi vedere?»

«Vieni con me», le ho detto, salendo le scale e facendomi strada verso la mia stanza.

Roxanne sembrava essere ormai diventata familiare con i dintorni e con l’arredamento immacolato della mia personalissima reggia. Con grazia si è appollaiata sul bordo del mio letto, senza staccarmi gli occhi di dosso mentre io entravo nell’armadio.

Tutta la sua essenza appariva in netto contrasto con i dintorni. Se ne stava lì, come un ammasso di colori vivaci messi a caso, i capelli mossi sciolti lungo la schiena e un paio di sandali ai piedi.

Lo stile gitana le calzava a pennello, talmente bene che se non la conoscessi l’avrei scambiata per una di quelle hippy degli anni 60.

«Ehi! Cos’hai lì?», ha interrotto i miei pensieri, scorgendo qualcosa tra le mie mani.

Ho sistemato l’oggetto che aveva catturato la sua attenzione sul letto accanto a lei, permettendole di vederlo meglio.

Si trattava di un vestito rosa pallido, pinzettato in vita da due cuciture laterali e lungo appena sopra al ginocchio. La gonna, scendeva morbida sui fianchi fino a terminare in un orlo di tulle bianco appositamente stropicciato che emergeva dal tessuto esterno rosa.

Roxanne si è coperta la bocca con le mani, boccheggiando.

Io ho ridacchiato per quella reazione plateale.

«E’…E’…E’…»

«Carino? Accettabile? Appena presentabile?», le ho suggerito, annoiata.

«STUPENDO!», ha detto lei, emettendo gridolini eccitati. Poi si è alzata e ha iniziato a vagare attorno al letto, studiando il vestito appoggiato sul materasso da ogni angolazione.

Un lieve sorriso si è formato immediatamente sulle mie labbra.

«Bene. Sono contenta che ti piaccia…puoi anche tenerlo se lo vuoi.»

In un millesimo di secondo, Roxanne ha puntato i suoi occhi zaffiro su di me.

«Cosa?! Stai scherzando?»

«E perché dovrei?», le ho risposto, scrollando le spalle, «ho un armadio grande quanto una casa pieno di vestiti che non userò più. Per di più questo risale a quando avevo circa tredici-quattordici anni e scarseggiavo nel reparto tette…quindi per te è perfetto.»

Sono certa di non aver immaginato la scintilla omicida nel suo sguardo a quell’affermazione.

Io, in ogni caso, ho continuato a sorridere, lasciando che i miei denti bianchissimi scintillassero, come ogni altro oggetto nella stanza.

«No, davvero, non posso», ha detto, scuotendo il capo dopo un primo istante di incertezza, «E perché hai deciso di farmi questo regalo poi?»

«Parlare di regalo è esagerato…Non è nemmeno nuovo!», ho replicato fervente, sentendomi a disagio al pensiero che io le stessi realmente donando qualcosa.

«Ma guardalo…il tessuto è morbidissimo e per niente rovinato!»

Ne accarezzava la superficie con le punte delle dita, con delicatezza, come osasse appena permettersi di sfiorarlo.

«Beh…l’ho messo solo…una volta», ho risposto, schiarendomi la gola, sentendo, mio malgrado, la voce venir meno alla fine della frase.

Ed è stato allora che ho ricordato. All’improvviso, come se il mio personalissimo vaso di Pandora fosse stato aperto, i ricordi hanno iniziato ad affollare la mia mente.

«Kate?», ha chiamato Roxanne, con tono allarmato.

Io ho alzato gli occhi e lei non mi è mai sembrata così lontana. Le distanze non sembravano combaciare, come se il suo corpo si trovasse in una prospettiva completamente estranea a quella della mia realtà.

«Scusami un attimo, devo andare in bagno», sono riuscita a dire, prima di precipitarmi con passo forzatamente rigido sino alla toilette.

Ho aperto il rubinetto, lasciando che l’acqua fredda scorresse sui miei palmi accaldati.

Poi, ho abbassato la testa, cercando refrigerio nelle mani bagnate.

Respiravo affannosamente e non riuscivo a calmarmi.

«Tranquilla», ho mormorato a me stessa, socchiudendo le palpebre.

Ma quando le ho riaperte e mi sono guardata nello specchio, tutto ad un tratto la persona riflessa non sembrava più me.

Boccheggiando, con il sottofondo dell’acqua che ancora scorreva con un flusso violento, mi sono ritrovata davanti alla versione quattordicenne di Kate Hudson.

Lei non mi ha detto niente, mi ha solo fissato, con la stessa espressione vuota di quella sera. Con la stessa espressione di qualcuno che, avendo troppe cose da dire, ha deciso di sbarazzarsene per cercare un po’ di conforto nell’oblio dell’ignoranza.

Okay…forse dovrei essere meno criptica. Almeno qui me lo posso permettere: posso permettermi di essere sincera almeno per una volta.

La prima vera volta che racconto a qualcuno questa storia.

Avevo quattordici anni, quella (non so se definirla dannata o maledetta o ormai troppo lontana) notte. Io e le Gallinelle eravamo riuscite a procurarci dei biglietti per il gran concerto dei Blue, che a quell’epoca adoravamo e andavano tanto di moda, e il nostro sogno di incontrarli dal vivo stava per avverarsi.

Avevo pregato mio padre di chiedere al suo amico, un pezzo grosso della casa discografica dei cantanti, di procurarci anche cinque pass per il backstage per me e le mie amiche, ma lui aveva ignorato le mie richieste, troppo preso dal suo lavoro.

Le Gallinelle si erano lagnate.

Ci saremmo dovute accontentare di vedere i nostri amati Blue da sotto il palco, tra migliaia di persone dalle ascelle puzzolenti e l’alito cattivo, che si dimenavano cercando di catturare l’attenzione dei cantanti?

No, no. Questo mai.

Nel mio solito impeto eroico avevo promesso loro che avrei trovato un modo per poter assistere a tutto il concerto dal backstage…e tenni fede alla mia parola.

Loro non hanno mai notato le mie guance arrossate, i capelli spettinati, il rossetto sparito dalle mie labbra e il vestito rosa - quello stesso vestito che ho prestato poi a Roxanne - stropicciato e sollevato fin sopra alle mie cosce ancora pallide in vista dell’estate, quando le avevo raggiunte dopo una breve assenza.

Dieci minuti, appena dieci minuti.

Non ho mai detto loro delle sue mani e di quella orrida barba che pungeva le mie guance sensibili, né della lingua ruvida che si era insinuata impietosa nella mia bocca serrata.

E la cosa più importante: non ho mai rivelato loro il dolore provato sentendo quel completo estraneo spingere dentro di me, privandomi di quell’ultima innocenza che mi era rimasta.

Se glielo avessi detto, credo che mi avrebbero risposto qualcosa del genere: «Mannò, è impossibile, Kate. Lo sanno tutti! La tua prima volta va ufficialmente Keith Derry, un tipo che hai conosciuto quella stessa estate e con cui sei stata per un paio di mesi. Non te lo ricordi?»

Come avrei potuto mai ammettere di aver venduto la mia verginità per un backstage-pass del concerto dei Blue?

Impossibile: Kate Hudson non lo farebbe mai.

E così ho cancellato totalmente quel ricordo, lasciando che un alibi inventato prendesse il posto della verità in tutti i racconti che erano seguiti.

Potevo quasi immaginare Keith sopra di me, mentre mi accarezzava e mi prometteva amore eterno prima di farmi sua per la prima volta. Era un ottimo materiale per incantare i miei ascoltatori. Una notte terminata in modo assolutamente romantico, dopo aver cenato a lume di candela in riva al mare.

Niente di squallido, insomma.

Quando ero ritornata dalle Gallinelle con cinque pass in mano, loro, troppo eccitate dalla notizia, mi erano saltate addosso, ringraziandomi, senza nemmeno chiedere come ci fossi riuscita.

Probabilmente erano convinte che una come fosse capace di ottenere qualsiasi cosa semplicemente aprendo bocca. Probabilmente lo pensano ancora tutt’oggi.

Eppure, chiunque tu sia, c’è un’unica grande regola a cui tutti dobbiamo sottostare: un prezzo si paga sempre.

Io l’ho capito quel giorno.

Al termine della performance dei Blue, dopo aver gridato promesse d’amore ai cantanti per tutto il tempo, abbiamo finalmente incontrato di persona Duncan James, Lee Ryan, Simon Webbe e Anthony Costa. Persino quel pulsare sordo che avvertivo in mezzo alle gambe aveva perso importanza, in confronto alla felicità nei volti delle Gallinelle, e di conseguenza anche la mia.

I quattro cantanti inglesi avevano persino azzardato un complimento caloroso sulla bellezza delle fanciulle americane.

Le mie labbra si erano aperte in un piccolo sorriso, sentendomi subito capacissima di fingere in maniera eccellente.

Chiaramente stavano parlando solo di me, ma le Gallinelle, quanto meno onorate, si erano perse in gridolini eccitati, ringraziando a destra e a manca.

Eravamo tornate a casa con un sacco di foto memorabili e un autografo da ciascuno dei membri della band.

“Ne è valsa la pena”, mi dissi, ma raggiunto il sicuro perimetro della mia cameretta, corsi in bagno a vomitare.

Il mio corpo tremava.

Schifo, schifo, schifo. Quando i conati sembravano essere ormai cessati, riecco che il disgusto tornava alle stelle e io ero costretta a ripiegarmi sul gabinetto con gli occhi lucidi per lo sforzo.

Quando il flusso di vomito si era ormai arrestato, barcollando raggiunsi il lavandino e alzai il capo verso lo specchio a muro.

Mi restituivano lo sguardo un paio di occhi vuoti, sopra un volto stanco. Era la prima volta che vedevo me stessa in quelle condizioni.

Mi sono odiata. Ho odiato quegli zigomi alti ed incavati che tutti mi invidiano, ho odiato la curva della mia stessa bocca e la fronte contratta dal disgusto.

Ho osato persino odiare me stessa, perché quella non ero io.

Perché nemmeno quel volto che ho visto ieri pomeriggio nello specchio ero io.

Era una versione fragile e debole di me, una versione che non ho voluto mai accettare.

Una parte di me che ho ricacciato immediatamente nelle profondità del mio essere.

Io amo solo me stessa, ma in quel momento mi è sembrato di perdere persino l’unica forma di affetto che mi è stato mai concesso di provare.

L’incanto spazio-temporale si è spezzato qualche secondo dopo, mentre l’acqua continuava a scorrere tra le mie mani e io mi ero persa a contemplare le iridi chiare di una Kate tornata diciottenne.

«Ehi? Stai bene?», ha chiesto una voce soffocata da dietro la porta chiusa a chiave.

Roxanne”, ho pensato. La mia unica reazione è stata sbattere le palpebre.

Era già fin troppo strano che fosse stata così silenziosa per tutto quel tempo.

Sospirando ho chiuso il rubinetto. Mi sono asciugata le mani ormai congelate contro un asciugamano e mi sono rassettata, controllando spasmodicamente il mio riflesso nello specchio.

«KATE?»

Ho sorriso, prima di disserrare la porta e trovarmi di fronte una Roxanne molto preoccupata.

«E’ tutto ok», le ho risposto cordialmente, cancellando il disagio dal suo volto.

Averla di nuovo davanti, ha fatto scattare una sorta di conforto anche dentro di me.

Al tempo stesso, però, avuto la conferma ai miei dubbi precedenti: Roxanne non mi conosce. Non può conoscermi davvero.

Se avesse capito davvero come sono fatta in quel momento non avrebbe ricambiato il mio sorriso. Non mi avrebbe creduto e mi avrebbe costretto ad ammettere la verità.

Ma così non è andata.

Lei ha accettato le mie parole e si è comportata di conseguenza, perché così tutto era più facile. Perché quando ci chiedono : “Come stai?”, noi rispondiamo sempre con un vago “Bene” per evitare complicazioni, e nessuno si azzarda a domandare di più, nel timore di rovinare anche quel briciolo di conversazione semi-decente.

Io, d’altra parte non avevo alcuna intenzione di espormi di più, perciò quel compromesso omertoso mi stava bene.

Roxanne, semi sorridente, ha esitato un istante, un istante solo, lanciandomi uno sguardo da sotto le sue ciglia brune, che mi ha fatto dubitare realmente delle sue reazioni.

Ma si è trattato appena di un attimo, un lasso di tempo troppo piccolo per riuscire a capire cosa le passasse per la testa.

Magari stavamo fingendo entrambe, senza sapere che l’altra stesse pensando la stessa cosa.

Chissà…

«Tornando a noi…», è intervenuta Roxanne, interrompendo bruscamente quell’istante di silenzio, «il vestito è perfetto, Kate, però…»

«Come fai a dire che è perfetto se non l’hai neanche provato?», le ho domandato a bruciapelo.

Roxanne ha sbattuto le palpebre, indecisa.

«Su, mettilo! Puoi cambiarti nell’armadio se vuoi…»

«No, no, va bene, posso cambiarmi anche qui», ha aggiunto lei frettolosamente, prima di liberarsi della sua T-shirt e della lunga gonna.

Guardandola solo in biancheria intima ho potuto notare quanto fosse magra sotto i vestiti, anche se niente di eccessivamente esasperato. La sua pelle, di una tonalità di colore decisamente più chiara rispetto a quando l’avevo conosciuta, ricopriva una figura naturalmente longilinea ma al tempo stesso morbida, senza curve troppo pronunciate, quasi ad angolo smussato.

Sembrava una bambina in tutto e per tutto.

Ovviamente mi sono ben guardata dal fissarla apertamente per non crearle disagio.

Quando poi ha infilato il vestito a partire dalle gambe, mi sono avvicinata per aiutarla a richiudere la zip.

Le stava a pennello, con mia grandissima soddisfazione.

«Lo dicevo io che era perfetto», ha detto lei, lanciandomi un’occhiata attraverso lo specchio.

Io per qualche motivo, probabilmente ancora scioccata da quello che era successo poco prima, ho evitato accuratamente di intercettare ancora il mio riflesso.

«Sì, modestamente ho buon gusto nel scegliere», ho buttato lì, nient’affatto modestamente, lasciando che Roxanne si liberasse in una piccola risata.

Poi qualcosa alle mie spalle è sembrato catturare la sua attenzione.

«Oh! Siete voi quelle?», ha squittito, avvicinandosi all’oggetto di tanto interesse.

Io mi sono voltata per accertarmi di cosa si trattasse, altrettanto confusa.

Era una fotografia. Quella fotografia.

«Sì», ho risposto, dissimulando senza troppo successo il mio tono di disagio.

«Che carine! Sembrate così piccole! Però tu sei sempre uguale, a parte l’espressione un po’ più infantile…», ha commentato a ruota libera riferendosi a me e alle Gallinelle, «Ehi, ma qui indossi questo vestito rosa, giusto? E chi sono questi quattro? Aspetta…non saranno mica quella band famosa…»

Mio malgrado, le ho risposto con un’espressione mesta: «Sì, sono i Blue…»

«Incredibile! A quanto risale? E voi eravate già amiche?», ha chiesto Roxanne, infervorandosi di curiosità.

Mi è scappato un sorrisetto che tuttavia non andava oltre gli angoli piegati all’insù della mia bocca.

«Poco più di quattro anni fa. Sì, io e le Gal-…ehm, le altre, siamo amiche dalle elementari.»

Considerare quei polletti microcefali mie amiche va oltre le più grandi falsità che ho detto in tutta la mia vita, ma in questo caso sono stata costretta a fingere.

«Oh», ha detto lei, dimostrandosi pensierosa per un attimo, «deve essere bellissimo avere un’amicizia che dura da così tanto tempo.»

«Già», ho mormorato io, giusto per assecondarla. Se avesse avuto le Gallinelle tra le calcagna per più di dieci anni, sono sicura che non la penserebbe più in questa maniera.

«Sai, un po’ vi invidio», ha ammesso la Miller, lasciandomi quanto meno sorpresa, «Io non sono mai stata capace di mantenere le amicizie per più di un anno scolastico. Un po’ per colpa dei continui spostamenti dei miei, un po’ per altre ragioni…era come se io fossi una moda temporanea che a fine stagione va cambiata…»

Si è stretta nelle spalle con un sorriso debole, quasi volesse scusarsi della sua inadeguatezza.

«E poi quando ho incontrato Liam…beh, devo ammettere di aver lasciato perdere qualsiasi altro contatto umano per stargli accanto…», ha riso nervosamente, tenendo lo sguardo basso sul pavimento.

Sentivo ancora il suo disagio nel parlarmi di lui, ma essendo l’unica a conoscere veramente tutta la storia, sono diventata quasi una sorta di “valvola di sfogo” per lei.

E’ come se non potesse fare a meno di parlarmene ogni tanto.

«Che stupida che sono stata…Non posso nemmeno dare la colpa a lui, a questo punto. Sono stata io a volere tutto questo», ha detto, quasi parlando con se stessa. Poi finalmente ha deciso di guardarmi.

Io sono stata un po’ presa contropiede dalla vista di quegli occhi blu così scuri e dalle lunghe onde mogano che si adagiavano morbidamente sulle spalline del vestito.

«Però venire qui ha cambiato le cose: sto cercando un nuovo equilibrio in me stessa…e le tue parole dell’altro giorno mi hanno aiutata molto…», ha confessato, in modo disarmante.

«Le mie parole?», ho domandato, non afferrando il riferimento.

«Sì», ha ripetuto Roxanne, facendosi appena più timida, «Ho capito di avere un obiettivo da raggiungere e amici con cui condividere il mio futuro…per la prima volta mi sembra di avere in mano la mia vita!»

«Oh…»

«E senza di te non ce l’avrei mai fatta, sai? Se tu non mi avessi spinta ad affrontarlo, se tu non mi avessi detto quelle parole…», ha continuato a dire.

Io l’ho fermata, mettendole un palmo davanti a mo’ di stop.

Poi ho scosso la testa, cercando di convincermi delle mie stesse parole: «No. Io non ho fatto niente…»

«E invece non è vero», si è ostinata Roxanne con quel cipiglio tanto familiare, «Senza di te adesso sarei ancora a piangermi addosso…Sei stata il grilletto che mi ha spinto ad uscire fuori da quell’incubo che stavo vivendo…»

«Ti ripeto che io non ho fatto veramente niente…Ho solo aperto la bocca a sproposito un sacco di volte e non credo si possa considerare questo “aiutare” una persona. Abbiamo anche litigato spesso per questo, no?», le ho detto, cercando in tutti i modi di distoglierla dalle sue stupide idee. Mi ero stancata dei fraintendimenti: doveva aprire gli occhi ed imparare che non ci si può fidare sempre delle persone…men che meno di me.

Oppure questo era solo un modo per nascondere a me stessa quello che avevo fatto davvero per lei?

«Non è quello che mi hai detto che ha importanza…ma è come l’hai fatto», l’ho vista perdersi in un piccolo sorriso diretto nel vuoto, «So benissimo di essere un po’…testarda, ecco, e preferirei di gran lunga fare a modo mio ed evitare di affrontare i problemi, ma tu mi hai in qualche modo costretta a sistemare le cose, perché c’era in ballo la nostra amicizia e io non volevo perderla…»

Sono restata ad ascoltare, con la bocca serrata e mille pensieri in testa.

«E io non so come ricambiare tutte queste cose che fai per me, tutte le volte che a modo tuo ti preoccupi per me…Non so nemmeno come ringraziarti perché un grazie non sarebbe abbastanza…»

Ho cercato di buttarla sul ridere per interrompere quella speculazione interiore che tanto mi stava infastidendo: «E chi ti dice che tutto questo sia gratis? Guarda che mi devi cento dollari», l’ho presa in giro, mostrandole la mano aperta in attesa della sua “mancia”.

«Mannaggia! E io che speravo di avere uno sconto addolcendoti con questo discorso!», ha replicato lei stando al gioco.

«Non è facile addolcirmi», ho asserito, alzando il mento con orgoglio.

«Ah davvero?», mi ha chiesto, scettica.

Io ho annuito convinta e lei ha ghignato, sfidandomi apertamente.

«Sei la migliore amica che abbia mai avuto», mi ha detto, rendendo la sua voce appena più infantile nello spudorato intento di scatenare una mia qualche reazione.

Io ho scosso la testa, ignorando la strana sensazione di sentire quelle parole provenire direttamente dalla sua voce e non più da un foglietto di carta.

«Niente da fare.»

«Mhm…», ha mugugnato, massaggiandosi il mento, pensando evidentemente ad un’altra strategia da adottare per costringermi a soccombere.

«Sei taaaaaaaaanto bella e simpatica!», ha riprovato, adulandomi con il tono lamentoso di una bambinetta.

Io ho scosso di nuovo la testa, dimostrandomi impassibile, ma incapace di non sorridere al pensiero di quello stupido giochetto che ci eravamo inventate lì su due piedi.

«Aha! Hai sorriso!», si è infervorata Roxanne, puntandomi contro un dito.

«Ma non mi sono addolcita!», ho replicato in modo tenace.

«E allora come faccio a capire se ho vinto o no?»

«Non lo saprai mai, semplice», ho concluso con un ghigno furbesco.

Roxanne esibiva in volto un’espressione a dir poco oltraggiata che mi ha fatto ridere di gusto.

Lo sguardo allora mi è caduto accidentalmente sull’orologio.

«Oddio!», ho esclamato.

Roxanne mi ha fissato, confusa: «C-cosa c’è?»

«La maschera facciale! Devo tenerla per due ore, o altrimenti non farò in tempo…»

«Ma in tempo per cosa?», ha chiesto lei, senza apparentemente capire di cosa stessi parlando.

«Oh insomma, Roxanne! Te lo ricordi che stasera c’è la serata in discoteca, vero

Dalle sue sopracciglia alzate in un moto di sorpresa ho capito che se n’era sicuramente scordata. Non so come sia materialmente possibile dimenticarsi dell’evento più chiacchierato della settimana, quando, come Roxanne, si è circondate per tutto il giorno da quattro vivaci Galline che ne parlano costantemente.

«Oh…adesso capisco…il vestito», ha mormorato, iniziando a ricollegare i tasselli.

«E’ per stasera, esatto», ho sospirato, dirigendomi in bagno, «Vieni ad aiutarmi oppure no?», l’ho poi chiamata a raggiungermi.

Lei mi ha seguita in fretta e dopo una mezz’ora di battibecchi, è riuscita finalmente ad applicare correttamente la maschera facciale sul mio viso.

«Non capisco perché devi sempre ostinarti a fare diversamente», l’ho sgridata.

«Ma diceva di mescolare due volte e poi una volta e io l’ho mescolato tre volte, non ci vedo nulla di male nel fare così!»

«Se dice di mescolare prima due volte e poi una volta un motivo ci sarà, no? Altrimenti avrebbero scritto semplicemente di mescolare per tre volte!»

«Pff», ha riso lei sotto i baffi.

«Ah e adesso ridi pure?», ho esclamato, incredula.

«Beh…è difficile stare seri parlando con qualcuno che ha la faccia verde come il Grintch», ha confessato, ridendo più apertamente.

Con un ghigno nascosto, ho affondato la mano destra nella vaschetta dove avevamo preparato la poltiglia verde della maschera. Con un guizzo, sono riuscita a sporcare la guancia di Roxanne, lasciandole una scia melmosa fino al collo.

«Ugh! Che schifo!», ha esclamato, spostandosi immediatamente. Adesso finalmente non si sarebbe più azzardata a ridere di me.

«Ma quale schifo! Questa mistura è capace di rendere la tua pelle liscia come seta!»

Roxanne ha storto le labbra, poco convinta, tentando di pulirsi.

Le ho afferrato il braccio e l’ho affrontata con la mia faccia verde ed inquietante.

«Io la uso sempre…non vedi i risultati?», l’ho minacciata con voce suadente.

«Beh se il tuo intento è travestirti da rospa per trovare un rospo che si trasformi in principe azzurro, direi che il risultato è quello più appropriato», ha ironizzato lei, cercando di liberarsi della mia presa. Io però l’ho placcata, sorridendo maleficamente al suo indirizzo.

Dopo una estenuante lotta sono riuscita a convincerla a provare definitivamente la maschera, visto che ormai le avevo impiastricciato già tutto il viso con la mistura.

«Okay, adesso siamo pari», ho decretato.

Lei ha tentato di fare una smorfia, ma l’intruglio denso sulle sue gote gliel’ha impedito.

«Di grazia, a cosa servirebbe questa maschera di bellezza?»

«Ad idratare la pelle, mantenendola in uno stato di relax e naturalmente a prevenire le rughe», le ho risposto prontamente, quasi come un libro stampato.

«Crema anti-rughe?», ha chiesto Roxanne, scioccata, «Ma Kate, abbiamo appena 18 anni, che tipo di rughe possiamo avere?»

«Meglio prevenire che curare», ho risposto, scrollando le spalle. Lei ha riso, convivendo con l’espressione perennemente rigida che la maschera le imponeva.

«Sei adorabile così», mi ha poi complimentata, indicandomi con un cenno del capo.

«Grazie», ho replicato con orgoglio, «nemmeno tu sei niente male», ho aggiunto con un occhiolino, «ma se credi di avermi addolcita, mi dispiace deluderti, ma non ci sei riuscita.»

Roxanne ha finto di essere stata colpita da una pugnalata al cuore, in modo molto teatrale.

«Oh povera me! E io che volevo persino dirti quanto tu sia sexy con quell’intruglio in faccia!»

«So di esserlo di più senza», le ho risposto, lasciando scintillare i miei occhi di malizia.

Roxanne ha riso di gusto, prima di illuminarsi, apparentemente colpita da un’idea improvvisa. Ha battuto le mani, entusiasta, dicendo: «Ehi! Hai per caso una macchina fotografica?»

«Uhm…sì, perché?»

«Dobbiamo commemorare questo momento!», mi ha risposto, alzandosi in piedi di scatto.

«No, no, no, no», ho asserito categorica, «Non possiamo farci delle foto conciate così!»

«E chi ce lo impedisce?», mi ha domandato lei, con un tono innocente.

«Maddai! Sembriamo oltremodo ridicole!», ho protestato, cercando di dissuaderla.

«Andiamo!», mi ha incitata, «è solo per gioco!»

L’ho fissata interdetta.

«Daiiiiiii!», ha insistito, lagnandosi come una poppante, tirando il mio braccio destro.

E io per qualche motivo mi sono arresa. Ho preso da un cassetto la mia fotocamera digitale e l’ho accesa. Roxanne mi si è avvicinata, prendendomi per il fianco ed avvicinando il suo viso al mio.

Non indossavo tacchi e sono stata abbastanza sorpresa nel trovarla quasi al mio stesso livello d’altezza.

Ho puntato l’obiettivo verso di noi, allungando il braccio il più possibile.

«Oddio! Non posso sorridere», ha esclamato Roxanne, quasi in panico.

Mi sono voltata a guardare con una pseudo tenerezza i suoi connotati celati dall’ impiastro verde oliva: «Non preoccuparti, tesoro, sei bella lo stesso».

E poi ho scattato.

Roxanne ha rimirato a lungo la foto, attraverso il piccolo schermo della fotocamera, ridendo come una pazza. Io mi sono accodata a lei, incapace di resistere a quella risata così allegra.

«Esigo che tu la incornici», mi ha poi detto, restituendomi la macchina fotografica.

«Ma scherzi? E perché dovrei tenere questo obbrobrio nella mia stanza?», le ho risposto, rimettendo l’aggeggio a posto.

Sebbene la sua espressione fosse diventata più rigida a causa della maschera, ho visto benissimo la delusione sui suoi lineamenti a questa mia affermazione.

Sprofondando a terra sul tappeto bianco di fronte al mio letto, l’ho vista lanciare una breve occhiata alla foto accanto al mio comodino. Più precisamente quella raffigurante me, le Gallinelle e i Blue.

«Che hai?», le ho domandato, sedendomi sul bordo del materasso, alle sue spalle.

Lei si è girata verso di me e mi ha detto che non aveva niente, sebbene la sua voce e la sua espressione suggerissero il contrario.

«A me sembri verde di rabbia», ho scherzato, canzonandola con un sorrisetto sulle labbra.

«Sì, come Hulk», ha risposto ironica, con un sorriso amaro sulle labbra.

Ho fissato per qualche minuto il suo mezzo profilo, senza dire nulla. Lei continuava a fissare il candido tappeto su cui era seduta a gambe incrociate.

«Credo che…farò stampare quella foto», ho esordito dopo un po’, facendola quasi sussultare, «In fondo è piuttosto divertente, no? In questa stanza non ci sono molte cose buffe», ho continuato, lanciando uno sguardo d’insieme ai mobili e ai suppellettili che mi circondavano. Bianco, bianco e ancora bianco. Un poster con una mia foto sul muro, la foto con le Gallinelle accanto al comodino, e una con i miei genitori. Una facciata. Cose e persone di cui non m’importa assolutamente nulla – tralasciando il poster.

Persone che, tuttavia, fanno parte della mia vita, che ci sono state sempre o quasi, durante tutto il corso dei miei diciotto anni.

E adesso nella mia vita c’è anche Roxanne.

Lei occupa un posto strano, non ben definito, ma è lì, senza alcun dubbio e senza nessuno che cerchi di rubarle il posto. E’ come se quel ruolo fosse sempre stato il suo; come un’eredità indiscutibile.

Roxanne è rimasta colpita dalle mie parole per un attimo e poi ha tentato di sorridere, senza riuscirci completamente per ovvi impedimenti.

«Ugh. Per quanto altro tempo ancora dovrò tenere questa robaccia?»

«Per quanto altro tempo dovrò dirti che non è della semplice robaccia?», ho replicato prontamente. Lei ha scosso la testa, apparentemente esausta e poi si è alzata in piedi con un fluido movimento, il vestito rosa che le danzava attorno ai fianchi, e ha recuperato il telecomando della tv.

Abbiamo fatto zapping per due ore, guardando prima mtv e poi una soap drammatica e parecchio sdolcinata.

Verso la fine della puntata, ho visto Roxanne portarsi una mano al viso, come per scacciare una lacrimuccia, ma avendo davanti semplicemente la sua schiena non ho potuto vedere di più.

Dopodiché, quando l’orario iniziava ad avvicinarsi, abbiamo iniziato ad affrettarci su e giù, cercando di rimuovere la maschera facciale che ormai era diventata dura come la pietra. Roxanne l’ha staccata così bruscamente da procurarsi un rossore evidente su tutto il viso, perciò ho dovuto amarmi di un bel po’ di fondotinta per rendere la cosa meno evidente, dopo averla sgridata almeno per mezz’ora. Io, invece, mi sono ripulita, facendo attenzione a non esagerare con la forza e mi sono ritrovata con una pelle liscissima, dal profumo di agrumi.

Poi sono entrata nell’armadio e ne sono emersa con un Hervé Léger monospalla a tubino, in raso bordeaux, dalla fattura ridicolosamente pregiata.

Non sto qui a riportare i commenti entusiastici di Roxanne, perché è ormai cosa nota, ma posso dire per certo che le è molto piaciuto.

Io ho scelto di lasciare i capelli sciolti e lisci, mentre Roxanne li ha raccolti ai lati in una treccia che impedisse al resto dei capelli di scivolarle davanti alla frangia.

«Wow», ha detto guardandosi allo specchio, «E’ strano…entro in casa tua vestita in un modo e ne esco conciata in maniera completamente diversa…chissà cosa penseranno i vicini…»

Io ho ridacchiato, pescando una collana di perle scure dagli altri gioielli, e indossandola seduta stante.

«I nostri vicini sanno farsi gli affari propri», ho risposto. Vivere in un quartiere residenziale ha sempre garantito una certa privacy.

«Però quelle scarpe non vanno bene. Andiamo, vuoi continuare ad indossare quei sandali?», le ho domandato, adocchiando in maniera sospetta i suoi piedi.

«Beh non ho altro qui con me…e non sapevo neanche che ci fosse la serata in discoteca e allora-»

«Che numero calzi?», le ho domandato, interrompendo i suoi stupidi sproloqui.

«Trentasei», ha risposto prontamente, senza capire dove volessi arrivare.

«Ok», ho detto, prima di scomparire nel guardaroba per poi riapparirne con un paio di decoltee della stessa tonalità del vestito.

Roxanne le ha prese, continuando a guardarmi confusa.

«Fortunatamente a quattordici anni portavo ancora il trentasei», le ho risposto, accennando un sorriso.

«Oddio! Non so come ringraziarti!», ha detto lei, entusiasta.

«Te l’ho già detto: dopo devi pagarmi», ho scherzato, ridendo in modo un po’ troppo forzato, forse perché non riuscivo a non sentirmi turbata da quella visione.

Roxanne stava in piedi, davanti a me, con quello stesso vestito, quelle stesse scarpe e gli stessi lunghi capelli di quella notte. I suoi occhi erano certamente di una gradazione più scura dei miei, come la sua chioma mogano era ben lontana da essere uguale alla mia…eppure non ho potuto fare a meno di rivedere me stessa in lei. Lo stesso corpo dalle curve acerbe, gli occhi accesi da una scintilla di ingenuità, i piedini stretti in quelle calzature dal tacco ancora ridotto.

Ho deglutito, incontrando il suo sguardo incuriosito, per poi distoglierlo immediatamente.

«Ah!», ho esclamato, «chissà dov’è andato a finire il mio cellulare! George ha detto che mi avrebbe fatto uno squillo quando sarebbe venuto a prendermi…»

Sentendo nominare il nome di un nostro comune amico, Roxanne si è subito animata.

«Sicura che ci sia posto anche per me? Non vorrei che la macchina fosse già completamente piena…»

«Ma certo! E poi che importa, uno in più, uno in meno!», ho risposto, agitando la mano in aria, come per scacciare delle mosche.

Roxanne non ne è sembrata molto entusiasta.

«In questo mondo ci sono delle regole chiamate “Codice Stradale”, lo sai Kate?», mi ha domandato, alzando un sopracciglio.

Ho scollato le spalle, prima di aprire bocca e fare un grandissimo errore: «Non sono cose che mi riguardano. Non ho nessunissima intenzione di imparare a guidare, d’altronde!»

Roxanne ha sbattuto le palpebre ricoperte da un velo leggero di ombretto, «E perché mai?»

«Oh», ho detto, censurando l’esclamazione che mi era saltata in mente.

Come avevo potuto parlare senza prima riflettere sulle mie parole?!

«E’ che…beh, non mi va…», ho farfugliato, cercando di fuggire al suo sguardo interessato.

«In che sens-», Roxanne è stata interrotta da uno squillo del mio cellulare che ci segnalava l’arrivo di George.

«Sono venuti a prenderci», ho tagliato corto, afferrando la mia borsetta e trascinando Roxanne con me giù per le scale.

In salotto abbiamo incontrato anche mia madre, arrivata da chissà quanto tempo, che alla vista di Roxanne si è subito illuminata e ha cercato di intavolare un discorso, finché io non l’ho letteralmente azzittita e mi sono diretta verso la porta, per poi girarmi e lanciare uno sguardo eloquente a Roxanne.

Lei si è scusata, il più cordialmente possibile, facendo sì che mia madre riacquistasse il sorriso dopo le mie dure parole, e poi mi ha raggiunta subito.

La macchina di George era parcheggiata fuori dal mio cancello, per cui abbiamo dovuto attraversare tutto il vialetto, caracollando con i tacchi sull’erba fin troppo soffice del giardino.

La Miller si è letteralmente aggrappata al mio gomito, per cui la nostra comune sopravvivenza dipendeva ormai unicamente da me.

Con enorme sollievo di Roxanne, la macchina era completamente vuota, salvo per il guidatore, il quale mi è sembrato un tantino deluso da non poter restare solo con me per tutto il viaggio.

L’ho visto squadrarmi totalmente, mentre mi accomodavo nel sedile del passeggero accanto a lui e Roxanne zampettava nei sedili posteriori, stravaccandosi come più le pareva.

George ha lanciato uno sguardo interessato anche a lei dallo specchietto, che io ho intercettato con un sorriso saputo: «Ciao, George.»

«Sarai tu il nostro chaperon allora?», ha domandato allegramente Roxanne, sporgendosi in avanti.

George ha riso, facendole un cenno di saluto: «Sì e sono fortunato di esserlo», ha detto poi, lanciandomi uno sguardo fugace che io ho fatto finta di non notare.

Siamo arrivati davanti alla discoteca venti minuti dopo e fortunatamente non eravamo stati i primi ad arrivare.

Ad accoglierci c’erano un paio di persone che conoscevo solo di vista e Thelma; il corpo rotondo e lo sguardo felino sempre attivo e vibrante.

Malgrado i soliti convenevoli di circostanza, non sembrava essere molto felice di vedermi. Molto probabilmente era ancora arrabbiata con me per la settimana precedente: quando l’avevo usata solo per non restare da sola in mancanza di Roxanne e delle Gallinelle.

I suoi occhietti verdi, appesantiti da una dose fin troppo generosa di matita scura sulle palpebre, si sono soffermati a lungo sul mio vestito con mal celata invidia.

La situazione era così palese che se n’è accorta persino Roxanne.

«Ehi, ma le hai ucciso il gatto o cosa?», mi ha sussurrato all’orecchio, quando Thelma ha iniziato a conversare un po’ con George e gli altri che non conoscevo, ma che, ovviamente, non potevano fare a meno di lanciarmi sguardi ammirati, piuttosto che concentrarsi sulla loro noiosa interlocutrice.

«Che io sappia no», ho replicato, con finta ingenuità. Beh potevano anche esserci un po’ di cose che le avevo fatto, ma non di certo avrei rivelato questa informazione a Roxanne.

«Lei, però, mi ha accusato di tingermi i capelli. E’ una iena», ho detto allora, stringendo le braccia al petto con un broncio che so bene essere adorabile.

Poco importa che avessi risposto alle accuse della suddetta iena con tutt’ altri mezzi.

Mi ero scopata il suo ragazzo, costringendolo al silenzio, e poi avevo fatto in modo che Thelma venisse a sapere della sua infedeltà (senza far scoprire qualsiasi mio tipo di coinvolgimento nella vicenda) attraverso la sua peggior nemica che, neanche a dirlo, è Ashley, una delle mie adorate pupille.

Sì, lo so. Gli scandali delle superiori sono talmente stupidi al punto di diventare morbosamente divertenti.

Credo che mi mancheranno molto questi momenti al college.

Per provocarmi, Roxanne ha osato mettere in discussione le mie parole, benché fosse palese il suo sarcasmo: «Oh davvero?»

L’ho fulminata con lo sguardo, roteando poi gli occhi con uno sbuffo: «Quello è stato il peggior insulto che mi è stato rivolto in tutta la mia vita.»

«E questo tu lo chiami un insulto?», ha domandato, con gli occhi danzanti di ilarità.

«E se accusassero te di tingerti i capelli di color mogano, cosa avresti risposto?», ho ribadito piccata.

Roxanne è sembrata gradevolmente sorpresa: «Come fai a sapere la gradazione di colore della mia tintura?»

A quel punto la mia bocca si è spalancata in assoluta incredulità: «Cosa?!», è stato il mio strillo strozzato.

Roxanne è scoppiata a ridere e la sua voglia di prendermi in giro mi ha un po’ offesa.

«Scherzavo», ha ammesso, mordendosi la punta della lingua in un’espressione esilarante.

Io ho continuato a fissarla oltraggiata e sospettosa, come se fosse un animale potenzialmente pericoloso; fino a che non sono arrivati anche gli altri. Erano presenti tutti gli studenti dell’ultimo anno, o per lo meno tutti gli studenti dell’ultimo anno che contano, il che, sinceramente, non è affatto la stessa cosa.

Ho visto Roxanne, accanto a me, rabbuiarsi per un momento, prima di entrare circondata dagli altri.

«Cosa c’è?», ho domandato scocciata. Si prospettava una serata da sballo e non avevo di certo intenzione di passarla assieme a dei musi lunghi.

«Mi spiace che Patty ed Eve non siano qui», ha commentato abbattuta, riferendosi alle sue amichette sfigate che per quella sera erano rimaste a casa, dove per quanto mi riguardava potevano anche restarci per tutta l’eternità.

Ho sbuffato ancora e non le ho risposto, sorridendo, invece, all’arrivo delle Gallinelle con la loro squadra di rugby, pentendomi poi di essere stata felice di vederle pochi minuti dopo, quando sono affogata nelle loro braccia e sono stata intontita da una fragranza troppo forte. Che fosse Dior o Chanel poco importava: era assurdamente esagerato.

Una volta entrati nel club, dopo aver superato un paio di bestioni umani, o meglio i buttafuori, ci siamo accomodati tutti attorno ad un tavolino, sprofondando nei divani di pelle rossa sparpagliati al bordo della pista da ballo.

La sala era ancora piuttosto tranquilla, perché le danze non erano ancora iniziate. Ne abbiamo approfittato per prendere qualche cocktail assieme a dei vari stuzzichini.

Stanca di vedere Roxanne armeggiare con il suo cellulare, piuttosto che godersi la serata, l’ho trascinata con me direttamente al bancone per andare ad ordinare il mio Martini.

Il barista ha cercato di flirtare un po’ con noi, ma Roxanne semplicemente non ci ha fatto caso, perché troppo impegnata a fissare qualcosa, mentre io cercavo di capire cosa le passasse per la testa.

Ho cercato di localizzare il punto che stava guardando, senza successo.

«Stanno distribuendo mentine», ha detto dopo un po’ con voce scettica, «in una discoteca?»

Sincronizzandomi con la sua linea visiva sono riuscita a vedere di cosa si trattava. Per poco non ho sputato il Martini che avevo appena sorseggiato.

Davanti a noi, un tipo di colore robusto, come se niente fosse, faceva scivolare delle “mentine” con nonchalance nella mano di coloro che gli si avvicinavano.

Scambiarle per delle semplici mentine era una cosa tipicamente “da Roxanne”, ma io non ho potuto evitare di restare turbata da quella scena.

Era come se il passato avesse deciso improvvisamente di iniziare a tormentarmi. Non bastava che cercassi di evitare continuamente di guardare il vestito che così stupidamente avevo prestato a Roxanne; adesso persino i ricordi di un’altra notte maledetta si facevano strada nella mia mente.

Mi trovavo in un locale, un club buio, nel quale si diffondeva una musica assordante. Mi avevano proposto una mentina e io, pur sapendo esattamente di cosa si trattasse in realtà, avevo accettato. Non so perché l’avessi fatto. Probabilmente una semplice sbronza non mi sarebbe bastata. Volevo divertirmi in un altro modo.

Una ragazza, in fila prima di me, ingoiò la sua mentina deglutendo a secco, mentre io stavo pagando il pusher per la mia dose.

Successe tutto in un secondo. Nello stesso istante in cui la mano contenente la pasticca raggiunse la mia bocca, la ragazza si accasciò a terra. Le sue ginocchia cedettero sotto il suo peso, e le sue braccia si mossero spasmodicamente in un ritmo febbrile come alla ricerca di qualcosa di irraggiungibile. Qualcuno gridò aiuto, mentre il pusher, mormorando un’imprecazione, scappava via, facendosi largo a spintoni tra la folla che si era immediatamente creata. Le mentine che avevo comprato caddero a terra, scivolando dal mio pugno improvvisamente spalancato. Non reagii in alcun modo. Non mi affrettai accanto a lei; né chiesi aiuto; né corsi via. Restai a guardare il suo corpo tremante mentre la scintilla nei suoi occhi si affievoliva, fino a diventare totalmente assente.

Roxanne, accanto a me, ha accennato una risata: «Non ti pare buffo? E’ forse qualche iniziativa per eliminare l’alito cattivo?»

L’ho guardata gravemente, senza ascoltarla davvero: «Il tuo alito sa di menta. Stanne lontana.»

Ho mandato giù tutto il resto del mio Martini, sentendo la mia gola bruciare per qualche secondo. Probabilmente anche quella ragazza aveva sentito la gola andare a fuoco; il suo corpo ridursi in cenere. Si era dimenata disperatamente in un mare di fiamme, senza trovare uscita, senza trovare alcun appoggio in quelle braccia che la sollevavano e le massaggiavano il cuore.

Cosa sarebbe successo se io avessi preso per prima quella pasticca me lo sono chiesta tante volte.

L’unica risposta che sono riuscita a darmi è stata che di sicuro non mi sarei trovata lì in quel momento, davanti ad una Roxanne incuriosita, un Martini svuotato troppo velocemente e una bella schiera di amici con cui divertirmi per tutta la sera.

Al nostro ritorno, due nuovi arrivati avevano preso il nostro posto.

Non è stato difficile trovarne un altro, in quanto tutti gli esseri di sesso maschile nel raggio di 30 metri si sono offerti di cedermi, o meglio cederci, la loro poltrona. Accettando l’offerta di Tom, io e Roxanne ci siamo inserite tra lui e Matt, trovandoci esattamente di fronte i nuovi arrivati.

Jason, ma certo. Mancava solo lui, d’altronde. Mi sono sorpresa di non averlo notarlo prima. Roxanne si è mossa un po’ a disagio al mio fianco, lanciandomi un’occhiata poco discreta.

Io sono restata assolutamente calma.

Persino le Gallinelle, che prima si erano sedute doverosamente accanto a me, e ora di conseguenza sedevano accanto a lui, mi fissavano come aspettandosi una mia qualche reazione.

Ma non c’è stata, non c’è stato assolutamente nulla. E’ questo quello che ha sorpreso tutti.

«Ciao», ho salutato cordialmente e Roxanne, come se si fosse improvvisamente svegliata da una trance, si è affrettata a fare lo stesso. Poi ho allungato la mia mano tesa verso quella della sua accompagnatrice, come se niente fosse.

«Piacere, io sono Kate», mi sono presentata con il miglior sorriso, «Tu sei…»

«Amanda», ha risposto con una vocetta debole la ragazza al fianco di Jason, ritraendosi impercettibilmente.

Bene. Ero riuscita, con così poco a stabilire chi comandava tra le due. Adesso potevo anche rilassarmi un po’…

Lo sguardo di Jason non mi turbava. Lo percepivo sbirciare verso di me, mentre dicevo qualcosa all’orecchio di Matt o ridevo con Roxanne e con George, persino quando in un impeto di magnanimità ho deciso di prestare attenzione agli schiamazzi delle Gallinelle.

Che stupido. Credeva che farmi conoscere la sua nuova troietta potesse scatenare in me una qualche reazione? Che stupido, davvero.

Quando finalmente ho riportato il mio sguardo in avanti, lui si è affrettato a posare un lieve bacio sulla gota di Amanda, la quale è arrossita terribilmente.

«Che carini!», ho squittito, imitando il solito entusiasmo ingiustificato delle Gallinelle.

Molti mi hanno guardata come se avessi perso la testa. Lo sapevano tutti d’altronde che Jason era stato il mio ex, o per meglio dire, qualsiasi cosa realmente fosse. Tutti tranne Amanda, a quanto pare, visto il sorriso colmo di gratitudine che mi ha rivolto al complimento.

Per rassicurare Roxanne che continuava a fissarmi preoccupata, l’ho stritolata in un abbraccio, ritrovandomi più cordiale e festaiola del solito. Qualche drink in più e lo sarei stata per tutta la sera, senza nemmeno dover fingere.

Le ordinazioni a quel punto sono arrivate, mentre continuavamo a chiacchierare allegramente, e le mani volavano ad afferrare le bottiglie di birra o di alcolici vari disposti sul tavolo.

Quando ho notato Roxanne adocchiare interessata un calice di champagne, l’ho colpita nel fianco con un gomito.

«Per stasera niente alcolici. Sarebbe meglio che tu non dessi troppo spettacolo con le tue attitudini affettuose da sbronza», l’ho minacciata, ricordando quella serata solitaria in cui io e Roxanne ci eravamo consolate per la festa andata a monte, ubriacandoci e affrontando strani discorsi sulle stelle e sulla luna. Senza dimenticare, ovviamente, il modo in cui si era aggrappata a me, come se la sua vita dipendesse da questo, e aveva finito per addormentarsi nel mio letto senza lasciarmi andare.

Roxanne mi ha lanciato un’occhiata contrariata, ma io non mi sono lasciata intimorire.

«No», ho ripetuto severa e lei ha sbuffato sonoramente, mantenendo le mani rigorosamente sul suo grembo.

Ho osservato il modo in cui era seduta sulla poltrona di pelle: le spalle curve, la schiena inclinata molto più del necessario e le sue gambe casualmente divaricate, come se avesse scordato di indossare una gonna. L’ho spinta un po’, stuzzicando il suo ginocchio con il mio per costringerla a sedersi in modo composto. Lei ha resistito un po’, ma rendendosi conto della sua posizione leggermente compromettente, si è raddrizzata, guardandosi intorno per assicurarsi che nessuno l’avesse notato.

«Imbranata», l’ho rimproverata, senza essere realmente arrabbiata con lei. Lei ha fatto finta di non sentirmi, continuando a restare imbronciata, guardandosi intorno annoiata per tutto il tempo, mentre gli altri potevano bere liberamente, al contrario suo.

Ho sogghignato leggermente alla scena, segretamente divertita, quando all’improvviso ho avvertito uno strano formicolio all’altezza del collo che mi ha spinta a voltarmi.

Jason mi stava guardando, o meglio guardava le mie gambe ora abbondantemente scoperte che, nell’impresa di riportare Roxanne alla decenza, si erano aperte inequivocabilmente, permettendo al suo sguardo di vagare sotto l’orlo del vestito.

Non si trattava di nessun posto che non avesse già visto, è chiaro, ma era ormai passato parecchio tempo dall’ultima volta che ne aveva avuto accesso.

Amanda, distratta dalle chiacchiere delle Gallinelle, non si è accorta di nulla.

Io ho sorriso maliziosamente quando i suoi occhi hanno incontrato di nuovo i miei e il suo volto si è colorito di un intensa tonalità di rosa. Con grazia ed eleganza, ho riaccavallato le gambe, non prima di lasciargli vedere almeno la mia biancheria intima.

Lui a questo punto è diventato rosso porpora, la sua fronte imperlata da un lieve strato di sudore, cercando in tutti i modi di evitare il mio sorriso saputo e vittorioso.

Non so cosa sia più patetico: se il suo disperato tentativo di ingelosirmi, oppure la constatazione che ancora dopo tutto questo tempo lui non è riuscito a dimenticarmi completamente.

«Patetico», ho mormorato tra me e me, prima di prendere un altro sorso dalla birra che Roxanne guardava con desiderio.

«Andiamo, non comportarti come se tu fossi un bambino del terzo mondo che sta morendo di fame e io fossi l’uomo bianco che non vuole nutrirti», ho risposto piccata alla sua muta domanda, senza staccare gli occhi da Jason e dal suo miserabile tentativo di non guardare le mie gambe.

«Sei crudele», ha replicato lei, imbronciata, e io non ho potuto fare a meno di ridere, sadicamente divertita dalla verità di quell’affermazione.

Mezz’ora dopo, o giù di lì, il DJ ha iniziato il programma della serata con della musica house.

Tutti si sono precipitati in pista, eccitati, e io ho dovuto solo fare un po’ di resistenza per portare con me anche Roxanne, la quale molto presto aveva perso tutta la sua allegria iniziale. Le Gallinelle, supportandomi, l’hanno presa a braccetto e trascinata al centro della sala.

Le luci fosforescenti che come piccole stelle illuminavano il soffitto e le facce di tantissimi altri sconosciuti attorno a noi, rendevano l’atmosfera eterea, mano a mano che la musica passava da un ritmo più lento ad uno molto più movimentato, per poi scoppiare letteralmente in un boato di urla e di mani che si levavano in aria in sincronia al “tum tum” proveniente dagli amplificatori.

Incapace di resistere, ho gridato assieme agli altri, ridendo assieme alle Gallinelle che, abbandonati i loro ragazzi, hanno iniziato a ballare tra di loro, scuotendo febbrilmente le anche al tempo dei battiti della musica.

Ashley, invece, staccandosi brevemente da loro, si è avvicinata a me e premendo la sua schiena contro la mia, ha iniziato a ballare assieme a me, in un ritmo sensuale che ha fatto girare molte teste maschili nei paraggi.

Roxanne ha ridacchiato nell’assistere al nostro spettacolo, come del resto anche gli altri, che si sono avvicinati sempre di più fino a formare un cerchio attorno a noi.

Jason era a bordo pista, con Amanda, che sembrava intenta a dirgli qualcosa, e mi fissava a dir poco rapito.

Accortosi di essere stato sorpreso con le mani nel sacco, però, si è subito ripreso e, prendendo per i fianchi la sua ragazza, che stava ancora parlando a vuoto, l’ha baciata sotto i miei occhi.

Io ho allungato un braccio, divertita da quella sfida, sino a toccare il petto sul quale si apriva la camicia leggermente aperta di George. Ho lasciato che le mie mani scivolassero voluttuosamente sui suoi pettorali appena ricoperti dal tessuto e George in un guizzo ha afferrato la mia mano vagante e l’ha portata alle sue labbra per posarvi un bacio.

I suoi occhi, scuri come l’onice, sembravano turbati da un alone di inquietudine e di eccitazione, tutto sapientemente diluito dietro quel gesto da vero gentleman.

Per niente impressionata da questo, mi sono scostata delicatamente da lui, senza perdere il ritmo e ho annuito in un segno di ringraziamento, tornando a ballare tra le altre ragazze.

Jason sembrava aver ormai mollato del tutto il pretesto di farmi ingelosire, incapace di togliermi gli occhi di dosso. Roxanne, accanto a me, continuava a ridere, riacquistando la sua solita vivacità nel guardare gli altri scatenarsi e liberarsi dagli schemi pre-imposti dalla società.

Si è avvicinata al mio orecchio, per dirmi una cosa, ma la musica assordante gliel’ha impedito.

«Che cosa?!», ho ripetuto io, aggrottando le sopracciglia.

«Credo che ricorderò questa notte per sempre!», ha ripetuto lei in un tono di voce più forte che, fortunatamente, sono riuscita ad afferrare.

Non ho potuto fare a meno di sorridere, ricambiando il suo sguardo per quello che mi era permesso a causa del buio illuminato brevemente solo da alcuni flash intermittenti.

Ed è stato allora che ho notato il palco. Accanto al DJ c’erano due grossi cubi colorati, capaci di contenere anche più persone, che piano piano iniziavano ad essere affollati da coloro che si consideravano i più audaci.

Il ricordo della sera dei concerto dei Blue, come quella della mentina, era lontano. Entrambi gli eventi avevano cambiato la mia vita in un giorno qualunque: l’avevano condannata e poi salvata dall’oblio.

Mi hanno plasmata e, perché no, anche condizionata nel pensare che Kate Hudson che balla tra i suoi amici è la cosa più giusta, mentre Kate Hudson sul cubo sarebbe…

Un altro breve sguardo al sorriso di Roxanne è bastato a convincermi.

Neanche io volevo dimenticare quella notte. Volevo ricordarla per qualcosa di positivo: una memoria innocente, divertente e soprattutto libera da qualsiasi altra condizione.

Qualcosa che in futuro mi avrebbe coperto di finto imbarazzo e segreta soddisfazione.

Ed è stato così, che a grandi falcate, tra le occhiate confuse dei miei compagni, mi sono avvicinata al bancone del disc jockey e senza tante cerimonie, mi sono arrampicata su uno dei due cubi e ho iniziato la mia danza di fronte a tutto il club.

Era il mio palco. Il mio pubblico. Il mio spettacolo. L’ora del mio riscatto.

Un coro di cori e fischi di apprezzamento si è levato oltre la musica, spingendomi a sorridere e mandare baci volanti a chi conoscevo con ampi gesti delle mani, mentre i miei fianchi si muovevano con un ritmo frammentato a destra e sinistra.

Due ragazzi che mi fissavano insistentemente ai piedi del palco, allora, si sono fatti coraggio e mi hanno raggiunta lassù, circondandomi in un abbraccio governato dal movimento del mio corpo.

Mi hanno afferrata per i fianchi e io ho giocato con le loro mani, ridendo e strusciandomi contro di loro senza alcuna pudicizia.

I cori di incoraggiamento sono aumentati e io ho lanciato uno sguardo di sotto dove alcuni dei miei amici esibivano un’espressione ammirata, altri sembravano totalmente estasiati e alcuni esterrefatti.

L’unica a non dimostrare alcun tipo di reazione è stata proprio Roxanne, la quale, con un bicchiere di champagne in mano – spuntato da chissà dove – mi guardava in modo neutrale. Quando ha intercettato il mio sguardo, però, ha sollevato il calice verso di me come per dire: «Alla salute!», prima di prendere un sorso del suo drink.

Tra le braccia di quei completi sconosciuti che continuavano a muoversi in sincronia, sono scoppiata a ridere al suo indirizzo, comprendendo perfettamente il suo muto messaggio.

Entrambe avevamo trasgredito le regole che c’erano state imposte quel sabato sera. Io ero salita su di un palco, costretta in un sandwich umano, mentre lei aveva disubbidito ai miei rimproveri sul non ubriacarsi e aveva tutta la seria intenzione di farlo ancora.

Nessuno ha notato il nostro scambio non verbale in corso. Era come se quello sguardo zaffiro fosse diverso dagli altri. Come se non si limitasse a guardare con distacco, ma condividesse il momento con me, completamente.

Qualche secondo dopo, il ragazzo che mi stava di fronte mi ha distratta, prendendomi per il mento, e ha tentato di baciarmi. Fortunatamente sono riuscita a voltare la testa appena in tempo, cavandomela con un semplice bacio sulla guancia.

Dal di sotto i cori sono aumentati a dismisura, mentre l’altro ragazzo alle mie spalle faceva scivolare le mani sui miei fianchi e mi stringeva a sé ancora di più. Allora mi sono irrigidita: sembrava ormai di assistere all’inizio di un film porno incentrato sul menage a trois. Con grazia, sono scivolata via dalla loro presa e sono scesa giù, cercando il mio gruppo.

«WOW!», hanno gridato le Gallinelle, prendendomi le mani e squittendo deliziate. Io ho sorriso loro, facendo un occhiolino. Poi mi sono guardata meglio intorno.

«Dov’è Roxanne?», ho domandato.

Rita si è voltata, convinta di trovarla alle sue spalle: «Non lo so», ha risposto, «fino ad un momento fa era qui!»

«Probabilmente è andata in bagno», ha suggerito Nancy, «Kate è stato strepitoso!»

«Lo so», ho accettato i complimenti senza alcuna modestia, urlando come una pazza per farmi sentire. «Ora che ci penso avrei bisogno anche io di andare alla toilette.»

Tutte e quattro hanno annuito, guardandomi andare via.

Individuato il bagno delle ragazze, l’ho trovato insolitamente vuoto.

Mi sono sciacquata le mani, trovando le cabine tutte vuote tranne una, ovviamente occupata.

Probabilmente Roxanne si trovava lì. «Roxanne?», ho chiamato, sperando di non sbagliarmi.

Nessuno mi ha risposto, ma qualche secondo dopo mi è giunto alle orecchie un mugugno non ben distinto.

«Roxanne?», ho riprovato, avvicinandomi all’unica cabina chiusa.

«Mhm, mhm», è stato l’unico rumore che sono riuscita a captare.

Era lei allora lì dentro? Si era sentita male? Aveva bevuto troppo?

Accidenti a quella stupida testarda, se solo avesse seguito i miei consigli non si sarebbe ridotta a vomitare nel bagno di una discoteca!

«Roxanne?», ho ripetuto, bussando lievemente alla porta della cabina, «Stai male?»

All’improvviso, si è udito un verso strozzato, più forte dei precedenti e un fruscio di vestiti.

Ho bussato nuovamente un po’ allarmata.

«Rox-», prima che potessi terminare il suo nome, la porta si è spalancata davanti a me, rivelando una donna spettinata, con il rossetto applicato piuttosto male, intenta nel tirarsi su il vestito. Alle sue spalle, un ragazzo molto più giovane di lei, cercava di rassettarsi alla stessa maniera, lanciandomi uno sguardo allucinato.

Li ho guardati scioccata. Avevo davvero interrotto un rendevouz romantico in bagno senza saperlo?

La donna sembrava piuttosto contrariata e mi ha sorpassata velocemente, spintonandomi con la sua spalla.

In un’altra situazione avrei quantomeno protestato o detto qualcosa, ma in quel momento sono riuscita solo a guardarla andare via senza pronunciare alcuna parola. Voltandomi ho notato il ragazzo ancora lì in piedi, gli occhi nocciola spalancati dallo stupore e la camicia abbottonata male. Una zazzera di capelli scurissimi ricadeva scompostamente sulla sua fronte imperlata di sudore e una traccia di rossetto era perfettamente visibile sulla sua guancia destra.

Il suo aspetto era un vero e proprio casino. Avrei anche riso di lui, se non fossi stata così dannatamente e fottutamente imbarazzata.

«Ehm», ho mormorato a disagio, percependo le mie gote accaldate, «mi dispiace, io non volevo…»

«No», mi ha interrotta lui, scuotendo la testa, «è a me che dispiace.», si è preso la testa fra le mani, mormorando frettolosamente, in un gesto che mi ha fatto tenerezza, « Dio, ma che diamine stavo pensando?»

Ho risposto a quello che era stato poco più di un sospiro: «Semplice. Non stavi affatto pensando.»

Non era certo il momento più adatto per dimostrarmi zelante e pignola, soprattutto rivolgendomi a lui in modo così informale semplicemente perché dimostrava appena un paio d’anni più di me, ma non sono stata capace di trattenermi.

«Giusto», ha annuito lui, tenendo lo sguardo basso. Questo, stranamente, mi ha fatto sentire meno a disagio.

Mi sollevava il fatto che lui fosse il più umiliato tra i due.

«Beh suppongo che io debba andare…», ha detto, pronunciando le parole ancora più velocemente di prima, «questo è il bagno delle donne giusto?», ha chiesto ironicamente.

«Sì», ho risposto e ho ghignato, senza che lui mi notasse, discretamente divertita.

Mi sarei aspettata un comportamento decisamente diverso da qualcuno che era stato appena sorpreso in un bagno pubblico con la sua amante. Per di più, lui non si era nemmeno preoccupato di inseguire quella donna nella sua ritirata.

La situazione era a dir poco strana.

Il ragazzo ha frugato nelle sue tasche in cerca di qualcosa e poi ha grugnito infastidito, portando le mani in aria teatralmente.

«Quella maledetta mi ha pure fregato il cellulare!», ha protestato, tornando a guardarmi.

Io ho dovuto lottare ferocemente contro me stessa per non scoppiare in una risata fragorosa.

«Mi dispiace…ne avevi bisogno adesso?», ho domandato cortesemente, chiedendo a me stessa cosa ci facessi ancora lì, piuttosto che cercare Roxanne.

«Sì», ha ammesso lui, «Devo assolutamente trovare mio fratello, altrimenti non saprei come tornare a casa.»

«Oh…beh, se vuoi posso prestarti il mio telefonino per una chiamata», ho offerto la mia disponibilità.

Lui mi ha sorriso e il suo volto si è illuminato improvvisamente, risaltando quei connotati che all’inizio mi erano sembrati così anonimi e comuni.

Suo fratello, tuttavia, aveva il cellulare staccato.

«Grazie lo stesso», ha detto, tornando stranamente depresso, restituendomi il cellulare.

In quello stesso momento la porta del bagno si è spalancata, rivelando una ragazza, che ha guardato me e lo sconosciuto in maniera allibita.

Il ragazzo è sembrato nuovamente imbarazzato, ma inghiottendo diverse volte, come a voler dissimulare la stranezza della situazione, ha protestato con quel particolare tono frettoloso che aveva usato anche prima: «Non capisco perché i bagni delle donne debbano essere sempre i più profumati! E’ un’ingiustizia verso l’igiene maschile! Dovrò farlo immediatamente  presente al direttore!»

E così dicendo, è uscito fuori di gran carriera, strofinandosi forte la guancia per cancellare il segno di rossetto.

La ragazza mi ha guardata, sconcertata, cercando in me una spiegazione, ma io ho scrollato semplicemente le spalle con un sorrisetto, uscendo a mia volta.

«Io devo cercare una mia amica», gli ho gridato all’orecchio, ritrovandolo fuori a pochi metri dalla toilette, tra la musica a tutto volume e una marea di gente, con le spalle ricurve e le mani nelle tasche dei suoi pantaloni neri, «Se vuoi possiamo cercare insieme lei e tuo fratello», gli ho proposto.

Perché avessi scelto di avvicinarlo nuovamente, quando avrei potuto benissimo ritrovare Roxanne da sola me lo sto chiedendo ancora adesso mentre scrivo.

Lui ha annuito e mi ha seguita, guardandosi spasmodicamente intorno. Se avessi dovuto descriverlo con un aggettivo, l’avrei definito così: perso. Sembrava che fosse finito in tutta quella situazione senza nemmeno saperne il perché.

C’era in lui un mix di innocenza e nervosismo che non avrei saputo descrivere in altro modo. Osservandolo di sottecchi, e notando che più lo guardavo più appariva carino ai miei occhi, ho pensato che suo fratello dovesse contare molto per lui, se solo perderlo di vista era in grado di portarlo alla nevrastenia.

Il fatto che non si fosse nemmeno girato a guardarmi per tutto il tempo mi ha lasciata un tantino offesa; il fatto che non avesse chiesto il mio nome poi mi ha praticamente infuriata.

Davvero pensava di poter ignorare me?

Eppure il mio obiettivo non era punire questo tizio, ma trovare Roxanne. Dove diamine si era andata a cacciare quell’ubriacona?

Nella folla ho individuato Thelma e mi sono subito avvicinata a lei, per chiedere se l’avesse vista, senza curarmi che il ragazzo mi seguisse. Se lui aveva osato fregarsene di me, gli avrei risposto con la stessa moneta. Chi si credeva di essere?

«Ehi hai visto per caso Roxanne?», ho domandato alla iena, lasciando perdere la nostra reciproca antipatia per un momento.

Lei, però, non sembrava ancora pronta a stipulare una tregua.

«No, non l’ho vista, ma ho visto il tuo bello spettacolo», ha ghignato, portandosi una ciocca di capelli scuri dietro l’orecchio.

«Sono contenta di sapere che ti sia piaciuto», ho risposto a tono, cercando di allontanarmi.

Thelma, però mi ha afferrato con quelle sue manine tozze e un po’ grassocce. Io l’ho guardata a dir poco adirata.

«Ma alla fine ti hanno lasciata da sola, no? Nessun altro da usare per alleviare la tua solitudine?», ha chiesto con voce innocente e un sorriso angelico su quella bocca troppo larga.

Jason alle sue spalle mi scrutava severo, ascoltando la conversazione.

La mia mascella si è contratta in una morsa rabbiosa, ma mi sono ripresa subito, fingendo un tono tranquillo.

«Non preoccuparti, se avessi mai bisogno di un tappa buchi saprei a chi rivolgermi», ho detto, facendo un cenno con il mento nella sua direzione (o a quella di Jason, chi lo sa?), «Tanto sappiamo benissimo entrambe che faresti di tutto per un solo momento sotto i riflettori.»

Prima che la iena potesse rispondere, amareggiata e infuriata, lo sconosciuto del bagno mi ha raggiunto.

«Oh, eccoti», ha detto, apparendo un po’ affannato, «mi sono voltato un attimo e non c’eri più.»

Io ho sorriso, guardando con sfida Thelma, che respirava in modo affannoso, e Jason, il quale inconsciamente si era avvicinato più a noi.

«Ero solo passata a salutare i miei amici per assicurarli che sono in perfetta compagnia», ho dichiarato dolcemente, voltandomi con un sorriso di adorazione verso il ragazzo, il quale mi ha restituito uno sguardo confuso, senza ribattere niente.

Con una mossa fluida, l’ho afferrato per la nuca e ho portato le mie labbra a le sue, spingendomi sulle punte.

Quando ho riaperto gli occhi ho notato con piacere che sia Thelma che Jason avevano avuto la delicatezza di sparire dalla circolazione.

«Cosa?», mi ha domandato lo sconosciuto atterrito, con il carnoso labbro inferiore rosso per i miei morsi.

Ti sto semplicemente trasformando in un’altra delle mie pedine, ho pensato, prima di trascinarlo di nuovo verso di me.

Lui ha continuato a fissarmi interdetto durante tutto il bacio in cui siamo restati con gli occhi mezzi aperti, ma non ha resistito alla mia insistenza contro la sua bocca. Ho strattonato con più forza i capelli corti sul retro del suo capo e l’ho spinto ad arrendersi completamente, chiudendo le palpebre e afferrandomi a sua volta per i fianchi.

Non so perché lo stavo facendo. Forse per vendetta, per riscoprire il mio senso di potere, per rassicurare me stessa contro le parole di Thelma.

Io non sono sola. Non sono le mie pedine a stancarsi di me; sono io ad abbandonarle.

Ecco perché mi sono trovata a trascinarlo con me in uno dei privè, quello più isolato possibile, spingendolo contro il divano e salendo a cavalcioni su di lui.

Lui ha chiuso gli occhi allora, staccandosi, scuotendo la testa e ritornando alla realtà. Lo sentivo eccitato e sudato, ma quel suo carattere nevrotico non voleva lasciarlo andare. Mi ha scostata e io l’ho guardato malissimo.

«No, no, no. Stasera ne ho abbastanza di queste imboscate, per favore. Ti ha mandata mio fratello?»

«Non so di cosa parli», ho mormorato, prima di spingerlo di nuovo contro il divano. Era buio e non riuscivo a vedere la sua espressione, ma ho sentito i suoi gemiti nella mia bocca.

Che sporco ipocrita, prima fa tutto il perbenista e adesso ansima sotto di me. Ma chi sono io per giudicare, visto che piuttosto che perdere tempo con uno sconosciuto avrei dovuto cercare Roxanne?

All’improvviso, però, lui ha invertito le posizioni e si è sistemato sopra di me a quattro zampe, staccando ferocemente le mie mani dai suoi capelli e fermandole sopra la mia testa.

Affannata, ho guardato truce il suo viso parzialmente illuminato dalle luci che, insieme alla musica, erano ormai lontane. La sua bocca era stretta in una morsa severa.

Non mi piace non poter reggere il gioco.

«Devo pensare di essere così irrimediabilmente irresistibile se due donne in meno di un’ora cercano di scoparmi, oppure è tutta una cosa organizzata?», ha ripetuto con un tono severo.

Io ho quasi riso.

«Posso assicurarti che questa non è affatto una cosa organizzata, ma confermare la prima opzione andrebbe sicuramente ad aumentare la tua totale mancanza di modestia.»

E’ sembrato piacevolmente interdetto dalla mia risposta e mi ha guardata a lungo, come non aveva fatto prima, caricando i suoi occhi scuri di una scintilla di desiderio che stranamente mi ha sorpresa.

«Chi sei?», ha domandato, dopo un lungo silenzio, senza diminuire l’intensità di quello sguardo.

«Sarah, tu?», ho risposto immediatamente, senza chiedermi due volte perché avessi mentito sulla mia identità.

«Reeve».

«Piacere, Reeve. Ti stringerei anche la mano, ma al momento è bloccata tra le tue», ho tentato di ironizzare, scatenando tutto il fascino che sono ben consapevole di avere.

Ridendo, suo malgrado, mi ha liberato immediatamente le mani.

Dopo qualche secondo di stallo in cui ci siamo semplicemente guardati senza dire nulla, lui è piombato su di me, baciandomi quasi affamato.

Aggrappandomi alle sue spalle, ho soffocato i miei respiri sulla sua bocca.

Lo sconosciuto ha accarezzato il mio corpo, rendendomi consapevole della sua erezione, spingendosi contro i miei fianchi da sopra i vestiti.

Sconosciuto, ha ripetuto una parte di me che dapprima ho voluto ignorare. Le mie mani si sono bloccate sul colletto della sua camicia, mentre lui mi sollevava piano piano il vestito.

Sconosciuto.

La sensazione che ho percepito in quel momento è stata molto strana. Sono stata con uomini che sono venuti a letto con me per soddisfare il loro appetito sessuale, o con altri che cercavano disperatamente di appagarmi per concedere loro una seconda possibilità.

Nessuno è mai stato così libero con me, a parte quella volta.

Sconosciuto.

Ho ripetuto a me stessa che la situazione era diversa da quella volta. C’era sincronia, adesso, una sincronia che non mi era mai capitata prima. Una sincronia che portava il mio corpo a strusciarsi contro il suo in un moto non programmato, ma semplicemente naturale.

E naturale non è un sinonimo di brutale.

Sconosciuto.

Ancora quella dannata voce. E quelle dannate mani violente che avevano sollevato il mio vestito rosa confetto, quelle mani che nella foga avevano quasi strappato le mie mutandine e a lavoro finito, mi avevano lanciato contro quei dannati backstage pass per il concerto dei Blue, come un cliente che paga la sua puttana.

Sconosciuto.

Ho cercato di convincermi che questo non era un semplice sconosciuto, il suo nome era Reeve e cercava suo fratello.

Era giovane e snello e non grassoccio come quell’uomo, le sue mani erano delicate e non ruvide come quell’uomo, le sue labbra erano le più morbide e succose che avessi mai assaggiato e non deformate in un gemito disgustoso come quell’uomo.

Eppure, malgrado abbia cercato di trattenermi, Reeve, ha sentito lo stesso il mio corpo irrigidirsi e iniziare a tremare. Si è staccato immediatamente da me, guardandomi allarmato.

«Ehi, stai bene?», ha chiesto, con un tono di voce più acuto, un tono che non gli avevo mai sentito usare, proprio perché per me era uno sconosciuto.

Mi sono portata un braccio sugli occhi, malgrado il buio celasse già abbastanza il mio volto, come se tentassi di nascondere la mia debolezza. Quella debolezza che quattro anni fa ho nascosto dietro un sorriso affabile.

«Sarah, stai bene?», ha domandato nuovamente Reeve e la sua voce mi è giunta ovattata alle orecchie.

Sconosciuto. Non sapeva nemmeno il mio nome.

Ho strizzato ancora di più gli occhi, riparati dal mio braccio, sentendo qualcosa pizzicare oltre le palpebre serrate ostinatamente.

Ho percepito il corpo di Reeve staccarsi dal mio e non ho potuto fare a meno di tirare un sospiro di sollievo, sebbene stessi maledicendo con tutte le forze me stessa per quello spettacolo patetico.

«Okay», l’ho sentito dire, malgrado il profumo dei suoi capelli mi indicasse che non era andato poi così tanto lontano, «Vuoi che ti racconti la mia storia? E’ una storia talmente sfigata che sono certo potrà tirarti su l’umore.»

Io non ho risposto, ma ho semplicemente annuito, cercando disperatamente qualcosa con cui distrarmi.

«Perfetto», ha ripetuto lui, «Per cominciare posso parlarti della mia famiglia. Mio padre fa l’avvocato, mio fratello è un avvocato e io sto studiando per diventare…»

«Un avvocato?», ho suggerito, constatando con piacere che la mia voce non era poi tanto malferma.

«Già», ha risposto, il fantasma di un sorriso nella voce. Per un momento ho pensato che mi sarebbe piaciuto vederlo, ma non mi sentivo ancora in grado di aprire gli occhi, spaventata da quel tumulto interno che avevo faticosamente cercato di arginare.

«Non so nemmeno perché ho scelto di fare questo lavoro. Insomma non è che sia una materia che mi appassioni poi molto. Però, sai…è stupido ammetterlo, ma ho sempre sperato che se avessi intrapreso la stessa carriera di mio fratello, magari mio padre mi avrebbe guardato per un momento con quella soddisfazione e orgoglio che riserva solo a lui. E mio fratello avrebbe imparato a considerarmi un suo simile e non semplicemente il fratellino minore che non ha niente di meglio da fare che rompergli le palle.»

Ho sorriso per metà, non un ghigno, né un sorrisetto che nasconde secondi fini.

In un’altra occasione avrei aborrito l’idea di perdere il mio tempo ascoltando qualcuno di cui non me ne fregava assolutamente niente, piuttosto che scoparmelo sullo stesso divano su cui ero sdraiata mollemente con un braccio a coprirmi gli occhi.

Ma ero io stata io a dimostrarmi debole. La colpa era stata mia e adesso non potevo fare a meno di ascoltare, sebbene una parte di me adesso premesse sempre di più per trovare Roxanne, per chiacchierare un po’ con lei e scaricare tutta quella tensione. Dovevo trovare Roxanne se volevo rimettermi in sesto, ma volevo stare anche ad ascoltare le avventure di questo quasi-avvocato in una famiglia di avvocati. Anche io ho in fondo ho una mezza idea di studiare legge al college, ad essere sinceri.

«Così quando ieri mi ha detto che oggi aveva un appuntamento a Milwaukee con un cliente importante, ho deciso di lasciare New York e raggiungerlo per essergli di supporto», ha continuato Reeve.

«Sei di New York?», ho domandato, quasi distratta. Lo sconosciuto iniziava a diventare un po’ meno sconosciuto e il mio cuore aveva nuovamente acquisito un ritmo accettabile.

«Beh il nostro studio legale si trova lì», ha risposto senza svelarmi di più, poi ha continuato, «Insomma, mio fratello all’inizio è stato contento di vedermi. “Mi darai una mano”, ha detto, ma quando sono atterrato all’aeroporto non è venuto a prendermi. Ho fatto varie ricerche, facendo credere agli agenti che credevo si stesse per suicidare per spingerli a rivelarmi almeno con quale volo fosse arrivato.»

Io ho sorriso ancora, più forte e questa volta lui mi ha sentito.

«Sì», ha ammesso lui, sorridendo a sua volta, «ero anche pronto a fare una sceneggiata sul tetto io stesso per spingerli a confessare, ma fortunatamente non è stato necessario.

Facendo delle ricerche poi ho scoperto dove mio fratello aveva usato l’ultima volta la carta di credito, e l’ho finalmente raggiunto. Lui mi ha detto che credeva che sarei arrivato con l’ultimo volo della giornata e mi ha portato al suo albergo. All’inizio ci ho pure creduto, in fondo capita a tutti di fare uno sbaglio. Ma poi, mi ha detto che avrebbe incontrato il suo cliente in un club di notte e, anche se la cosa mi insospettiva, gli ho creduto. Che stupido. Poco dopo essere arrivati qui l’ho perso di vista e io sono stato sbattuto da una donna che avrebbe potuto benissimo essere mia madre nel bagno delle donne…e chi sono io per dire di no?», ha scherzato e io ho questa volta sono scoppiata a ridere, sollevando lievemente il braccio dai miei occhi.

Ho fissato il soffitto scuro sopra di me, continuando ad ascoltare.

«Questo finché una certa ragazza dai capelli biondi, non ha quasi praticamente abbattuto la porta della cabina dove c’eravamo appartati e ci ha interrotto», ha ricordato, con un tranquillo sorriso sulle labbra, la camicia nuovamente abbottonata e i capelli sistemati.

Sembrava quasi assurdo pensare che fino a dieci minuti prima stessimo…

«Il resto è storia nota, no?», ha domandato e io mi sono voltata a guardarlo finalmente, ritrovandolo seduto in un divanetto vicino.

«Ascolta…io…mi dispiace, forse ho accelerato troppo le cose…non so nemmeno cosa ho fatto esattamente…ma questa serata è stata un casino totale», mi ha detto.

Io ho scosso la testa, rimettendomi seduta correttamente.

«Cosa farai adesso?», ho domandato semplicemente.

«Ritrovare mio fratello, se possibile», ha risposto lui, guardandomi cauto.

«Io gliela farei pagare», ho precisato, «Insomma se ha fatto tutto questo per toglierti dai piedi, poteva semplicemente dirti di restare a New York.»

«Lo so, ma…», ha tentato di dire.

«Ma continuerai a cercare di renderlo orgoglioso di te?», ho domandato, «E’ inutile, lui userà semplicemente la tua buona indole.»

E chi meglio di me, in qualità di manipolatrice innata, poteva saperlo? D’altronde anche io avevo ammesso di volerlo usare poco prima, ma lui non aveva usato me. E per quanto potesse sembrare irrilevante, aveva cambiato le cose tra di noi.

Si è preso la testa tra le mani, peggiorando il suo aspetto: «E cosa dovrei fare allora?»

«Sii te stesso. Se qualcosa non ti va bene, protesta, se lui non ti ascolta, alza la voce. Non farti più mettere i piedi in testa.»

Dicendo queste parole, non ho potuto fare a meno di visionare me stessa a terra, impotente, tra le gambe di quell’uomo rozzo e orribile.

L’uomo nero che ho nascosto a lungo con gli altri scheletri nel mio armadio.

L’uomo nero che sabato sera è riemerso dai meandri della mia memoria per la prima volta in quatto anni.

Improvvisamente, mi sono alzata in piedi, sollevando l’unica spallina del mio vestito, lasciandolo scorrere più in basso lungo i fianchi.

Non andava meglio, non andava affatto meglio. La mia testa pulsava chiamando il nome di Roxanne.

«Devo andare», ho dichiarato e lui ha annuito, istantaneamente pensieroso.

«Grazie», ha risposto.

«E per cosa? Per aver rovinato il tuo rendevouz in bagno?», ho domandato curiosa.

«Anche», ha replicato con un sorriso.

«Ehi, Sarah?», mi ha chiamato qualche secondo dopo, mentre io sgattaiolavo via dal privè. All’inizio non mi sono girata, prima di ricordarmi che sì, effettivamente per quella sera il mio nome era Sarah.

«Sì?»

«Gliela farò pagare», mi ha detto, con un sorrisetto che assomigliava stranamente al mio.

Sono andata via, chiedendomi se avessi creato davvero un nuovo mostro.

Ho esaminato gli altri privè, affannosamente, senza risultato, poiché Roxanne non rispondeva al cellulare. Poi ho sentito delle voci, a qualche metro di distanza e mi sono avvicinata cautamente, visto che era molto buio.

«Sembra carina», ha detto una voce maschile.

«Sì», ha confermato il suo amico.

«E sola…»

«Nessuno che possa guastare le feste…»

Sentendo una strana pesantezza dentro di me nel sentire quelle due voci ridacchiare tra di loro, ho continuato ad avvicinarmi inesorabilmente.

Ho visto un piccolo bozzolo umano raggomitolato su un divano, con i capelli lunghi e il vestito che terminava in tulle.

Due uomini le stavano davanti e piano piano le hanno sollevato la gonna, bisbigliando tra di loro.

La gola mi si è seccata all’istante.

Ho cercato di fare il minimo rumore con i miei tacchi, ma non è stato abbastanza.

Gli uomini si sono voltati immediatamente verso di me, togliendole le mani di dosso.

Ho sentito il disgusto montare ancora una volta dentro di me, ma ho camuffato il tutto con un bel sorriso provocatorio, ancheggiando in modo più pronunciato passo dopo passo.

Uno di loro ha fischiato quando la mia figura è stata debolmente illuminata da uno dei fari della pista da ballo.

«Ehi bella, come mai tutta sola?», ha domandato quello che aveva osato sollevare la gonna di Roxanne.

«Forse stavo aspettando voi», ho replicato, stando al gioco.

I due si sono guardati con un sorriso complice.

«Ti andrebbe di darmi il tuo numero?», ha chiesto l’altro.

«Certo», ho detto avvicinandomi in modo esasperatamente lento, adesso che sembravano essersi dimenticati di Roxanne. Ho preso il mio cellulare e ho scritto velocemente le 3 cifre, pausando il mio indice sul tasto verde.

«9…», ho iniziato a dire, facendo un altro passo.

«Sì…»

«1…»

«1…»

«Bene, 911 e poi?», ha detto quello che stava prendendo nota, prima di rendersi conto di cosa rappresentasse davvero quel numero.

«Ci prendi in giro?», ha detto l’altro in un tono minaccioso.

«No, affatto, perché il numero della polizia è l’unico numero che chiamerò se non ve ne andate immediatamente di qui», ho detto, modulando la mia voce in modo che risultasse un vero e proprio distillato di zucchero al veleno.

Ho portato il cellulare all’orecchio, pronta a premere il tasto verde, per dimostrare le mie chiare intenzioni. Uno dei due si è deciso per primo ad afferrare l’antifona e ha spinto il suo compagno a seguirlo, sparendo subito dalla mia visuale.

Io mi sono affrettata accanto a Roxanne, che continuava a dormire sonoramente, come se non fosse successo niente.

Inginocchiandomi davanti al divano su cui era accovacciata, l’ho guardata per qualche secondo, ritrovando fortunatamente quello strano senso di sollievo che la sua presenza mi regalava.

Le mie mani sono finite inesplicabilmente tra le onde dei suoi capelli, come surfisti impervi che cavalcano il mare, pur affondandoci dentro qualche volta.

«Roxanne?», ho chiamato, senza ricevere risposta.

«Che stai facendo?», mi ha domandato una voce familiare e la mia testa è scattata subito nella sua direzione, così come le mie mani sono tornate in un lampo sul mio grembo.

«Sì è addormentata», ho risposto, serrando i denti allo sguardo inquisitore di Jason.

«Dov’è la tua ragazza?», ho domandato, allora, spingendolo ad andarsene.

«Non lo so», ha detto lui, scrollando le spalle, «E il tuo ragazzo?»

«Doveva tornare a New York», ho replicato apparentemente tranquilla, ignorando uno dei suoi nuovi attacchi di gelosia che mi avevano divertito per tutta la notte.

«Roxanne? Svegliati, dai!»

Roxanne ha mormorato qualcosa, prima di girarsi e darmi le spalle.

«EHI!», ho gridato, «ROXANNE, questo non è né il LUOGO né il MOMENTO più adatto per ADDORMENTARSI!»

Lei ha fatto finta di niente, aumentando la mia irritazione.

«Roxanne?», ha tentato Jason, affettuosamente.

Quasi immediatamente Roxanne ha aperto le palpebre, come se il suo fosse uno sforzo immane e quelle fossero incollate.

«Mhm. Che è succeeeesso?», ha domandato con una voce strascicata, eruppendo in un piccolo singhiozzo che l’ha fatta ridere.

Bene. Era ubriaca, ci mancava solo questo.

«Vieni», le ho ordinato, strattonandola per il braccio. Lei ha protestato, fino a che Jason non è venuto ad aiutarmi per reggerla in piedi.

Passandole le mani sui fianchi, Roxanne si è immediatamente aggrappata al suo collo.

Quella vista mi turbava e così con uno spintone, l’ho staccata immediatamente da lui.

«Va a prendere la macchina, dobbiamo portarla a casa», gli ho ordinato.

Lui mi ha fissato per qualche secondo con gli occhi chiari annebbiati da qualcosa che non ho saputo riconoscere, per poi fare come gli avevo detto.

Dopo aver fatto sdraiare una protestante Roxanne sui sedili posteriori della coupè di Jason, io ho preso posto nel sedile del passeggero accanto a lui.

Stranamente infastidita da quel silenzio, sono sbottata: «Perché non mi dici niente?»

Avevamo passato tutta la serata a provocarci a vicenda e ora faceva finta di non conoscermi nemmeno?

«Perché non ho niente da dirti», è stata la sua unica e secca risposta.

Io ho guardato crucciata il paesaggio fino a quando non siamo arrivati a destinazione.

Quando sono andata a recuperarla, Roxanne è stata più che felice di stringermi in un abbraccio alla boa constrictor che mi ha fatto ridere fragorosamente.

Jason ha guardato la scena incuriosito, senza dire niente.

Afferrando le chiavi dalla sua borsetta, sono riuscita ad aprire il cancello e la porta d’ingresso della piccola villetta a schiera delle due sorelle Miller.

Madison non sembrava essere a casa, perciò senza troppe cerimonie mi sono fatta largo lungo i corridoi e mi sono diretta in camera di Roxanne, spingendola con poca delicatezza sul suo letto. Le ho tolto le scarpe e allentato la zip del vestito, mentre lei, seppur sveglia, continuava a guardarmi quasi in trance.

«Grazie, Kate», ha risposto a lavoro terminato e io ho pensato che fosse realmente sobria a quel punto.

«Prego», ho risposto, «ma spero che la prossima volta ci penserai due volte prima di prendere un bicchierino.»

«Almeno verrai tu a salvarmi», ha riso lei, confermando ancora di essere ubriaca.

«Sì, sì certo. Per chi mi hai presa adesso? Per il tuo principe azzurro?», ho ironizzato, scrutandola dall’alto e ridendo senza alcun pensiero cupo pronto a tormentarmi.

«No, ma tu sei la mia forza, Kate», ha detto allora Roxanne, apparendo molto convinta delle sue parole.

Per un momento l’ho guardata senza parole. Ma si stava davvero riferendo a me?

«Ah! Ho vinto!», ha esclamato lei, tutta contenta, agitando le gambe sul materasso.

«Eh?», ho domandato, confusa.

«La tua faccia! Ho vinto! Sono riuscita a farti addolcire! Ho vinto!»

Io ho scosso la testa, esasperata, non riuscendo a reprimere un sorriso.

«Okay. Ti concedo questa vittoria visto che domani mattina non ricorderai praticamente nulla.»

Roxanne ha protestato debolmente, lamentandosi, fino a che io ridendo ancora, non ho raggiunto l’interruttore della luce e l’ho spento, prima di augurarle buona notte.

Jason ha visto la mia espressione serena, quando sono uscita da casa di Roxanne, ma non ha commentato, limitandosi a mettere in moto ed accompagnarmi a casa.

 

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Capitolo 18
*** cap 18: Sotto tiro ***


Allora, qui di seguito farò un po’ di considerazioni in riguardo all’ultimo capitolo, per giustificare il “sorprendente” comportamento di Kate

 



Allora, qui di seguito farò un po’ di considerazioni in riguardo all’ultimo capitolo, per giustificare il “sorprendente” comportamento di Kate. Non c’è nessun contenuto aggiuntivo alla storia, perciò se volete potete tranquillamente saltarlo e andare direttamente a leggere il capitolo

 

Ho trovato particolarmente divertente il fatto che i commenti ritraessero il comportamento di Kate come “inaspettato” o “insolito” o “poco intelligente”, certo, anche a me sembra moralmente sbagliato, però io sinceramente ho sempre pensato che questo fosse “adeguato” per Kate.

Mi spiego meglio: scrivendo la storia dall’unico punto di vista di Kate, si perde certamente qualcosa, sebbene nel diario vi sia una descrizione piuttosto ampia degli avvenimenti. Roxanne spesso appare misteriosa al lettore e solo talvolta viene davvero fuori per quello che pensa attraverso alcune risposte che rivolge a Kate, oppure tramite quei pezzettini iniziali che adesso aggiungo prima di ogni capitolo.

Il dialogo in prima persona, esclude anche quell’auto esame psicologico che sarebbe necessario, visto che Kate ha deciso di non rileggere mai il suo diario.

Kate non potrebbe mai scrivere: “mi sto comportando così, perché in passato ho avuto questo trauma”, ma tende a giustificare qualsiasi sua azione come è giusto che sia.

Per quanto riguarda la storia, ora so che è passato parecchio tempo da quando ho iniziato a scrivere BisB e la mia lentezza nell’aggiornare non aiuta, però Kate nel primo capitolo si descrive come una “manipolatrice” a cui non importa nulla delle sue “marionette”, che non vede nulla di sbagliato nello scendere a compromessi. Cito le sue stesse parole: “non mi faccio scrupoli nell’usare mezzi di ogni tipo per ottenere ciò che voglio. Ho sempre trovato stupide quelle persone che si sforzano tanto per raggiungere qualcosa e poi ricevono in cambio solo un pugno di polvere. Io non rischio, non fatico, eppure raggiungo sempre i miei obiettivi. Non lo trovo un atteggiamento ingiusto, semplicemente sensato.

Dunque, per Kate questa è la definizione di sensato. Sacrificare la sua stessa dignità per ottenere ciò che vuole non è un problema per lei.

Di cosa parli “Beauty is the Beast” sinceramente io non lo so dire. Parla di un'amicizia, certo, ma io parlerei piuttosto di una connessione di anime. E’ questa la parola chiave.
E quando il collegamento è instaurato non si può più cancellare. Tutto va interpretato in questo modo: è un viaggio di vita, di formazione, di conoscenza dei propri fantasmi, della parte che resta nascosta dentro noi stessi e che è più feroce della maschera che noi usiamo per celarla al mondo.

Cosa abbia reso Kate così stronza e manipolatrice? Beh, io direi che non ci sia stato un vero e proprio avvenimento, ma una serie di cose e parte della sua stessa personalità indipendente dal resto. Kate è strana, perchè valuta sopra ogni altra cosa cose come l'aspetto fisico, ma per ottenere ciò che desidera sarebbe disposta a qualsiasi cosa. Non ha paura di scendere a compromessi, perchè per lei non sono un ostacolo, ma bensì l'unica via di agire.
Roxanne l'ha accusata di essere
noncurante di sé stessa ed è questo l'aspetto essenziale di Kate. Lei cura troppo ciò che in realtà dovrebbe essere superficiale e si sopravvaluta spesso, credendosi capace di affrontare tutto e tutti. E' un personaggio, forte, certo, ma il castello su cui ha costruito tutta la sua immagine non ha base solide, ma piuttosto minaccia di crollare da un momento all'altro.

Chiariamoci non è che a Kate dispiaccia vivere così, anzi, questo è il suo stile di vita. E’ molto realista e gli episodi che le sono accaduti in passato non hanno fatto altro che insegnarle che il mondo è crudele, che si deve sempre pagare un prezzo e che se non ci si impone per primi, gli altri cercheranno di fare lo stesso con te.

In più ha in sé quel senso di supereroina (non con nobili intenzioni) di dominare sugli altri e dimostrare la sua superiorità nel far sempre le cose meglio e per prima. Ovviamente ciò non è facile e per quello che non riesce ad affrontare diversamente, Kate ricorre al sesso.

Il sesso per Kate è una merce di scambio che tutto sommato non richiede di investire molto di sé: solo il suo corpo, purché questo continui a mantenersi in una forma perfetta.

Kate non investe mai sui suoi sentimenti, che sono più complicati di quelli di una qualsiasi persona normale, ma credo sia palese che qualcosa si sta muovendo già da qualche capitolo in reazione a Roxanne.

Kate, essenzialmente, sebbene sia un po’ maturata dall’inizio della storia, è sempre la stessa, tranne in presenza di Roxanne. E’ con lei che si nota la differenza.

E’ la suddetta connessione di anime di cui parlavo.

 

Detto questo la smetto parlare a sproposito, sperando che questo piccolo chiarimento sia stato apprezzato, e vi lascio leggere il nuovo (lungo) capitolo che spero susciti allo stesso modo una discussione come il precedente.

 

Grazie mille come al solito a ninfea306, balakov, nikoletta89 e flyily per le recensioni!

 

Mi scuso per il ritardo, ma per lo meno sono riuscita ad aggiornare nel giorno del mio compleanno, perciò sarei felicissima se mi lasciaste delle recensioni!

Finalmente ho la stessa età delle mie protagoniste! :D

 

Alla prossima!

 

***

 

Roxanne riteneva che non ci fosse poi molta differenza tra un sogno e una bugia.

Entrambi le permettevano di vivere per un po' in un mondo idilliaco, lontano da qualsiasi tipo di verità che potesse ferirla.

"Vattene"

Non si era aspettata quelle parole. Non facevano parte del piano.

"Vattene"

La sua voce glaciale le fece realizzare che quello non era semplicemente un sogno.

"Vattene"

Qualsiasi cosa potesse dire, non avrebbe mai riempito il varco che in un istante si era aperto fra di loro. L’eco di quel grido rabbioso le rimbombava nella mente.

"Vattene"

Avrebbe voluto urlare a Kate che era stata lei la prima ad allontanarsi sempre di più dalla sua comprensione, sebbene lei cercasse in tutti i modi di mettersi nei suoi panni.

Un baratro di distruzione in quelle iridi.

Un baratro di odio puro.

Ne ebbe paura.

"Vattene"

Non diceva sul serio. Ci doveva essere una spiegazione.

Cercò, scrutò, cacciò invano.

Non può essere.

"Vattene"

Nella sua bocca si diffuse il calore del sangue e del  dolore: il sapore della verità.

 

 

 

7 giugno

 

 

Nel momento in cui ho appoggiato la penna sulla carta, mi sono resa conto di essere molto fortunata di poter ancora scrivere su questo diario.

Perché? Beh, la questione è un po’ lunga, ma d’altronde ho tutto il tempo per spiegare.

Come si fa a capire quando gli incubi terminano una volta per tutte?

Ci sono tante cose nella vita che io ho voluto dimenticare, semplicemente perché non erano di mio gusto. Non rientravano nella mia definizione di giusto e così le ho cancellate.

Il tempo mi ha aiutato molto in questo: ha nascosto ciò che non volevo vedere e, a meno che io non rievocassi certe memorie di mia spontanea volontà, queste restavano nell’ombra.

Eppure questa volta non è andata così, perché qualcuno mi ha forzato a riaprire una cartella già archiviata.

Qualcosa…no, qualcuno con cui io non volevo più avere a che fare.

E’ tornato da me e ha tentato di nuovo di sconvolgermi la vita. Peccato non avesse ancora realizzato con chi aveva a che fare.

Ma andiamo con ordine.

Dopo il turbolento sabato di cui ho già parlato, la calma piatta di lunedì pomeriggio mi ha trovata un tantino impreparata.

Noia. Tanta noia, come raramente ne ho provata prima.

Guardavo il soffitto della mia camera, seduta ansiosamente sul bordo del letto, come aspettandomi che il bianco dell’intonaco si macchiasse improvvisamente e uno scricchiolio inquietante emergesse dall’armadio.

Avrei pregato perché succedesse qualcosa di diverso, qualsiasi cosa, ma le mie speranze sono rimaste disattese.

La stasi totale mi ha avvolta e il silenzio mi ha soppressa, fino a che non ho preso in mano il diario.

Non l’ho aperto come faccio sempre, scorrendo fino all’ultima pagina senza mai rileggerlo, ma l’ho tenuto semplicemente in mano, poggiandomelo sul cuore.

Il fatto che ricercassi conforto in un inutile oggetto inanimato mi ha fatta sentire patetica e così l’ho gettato via appena mi sono resa conto di cosa stessi facendo. Il risentimento è durato poco, però, visto che sono subito corsa a raccoglierlo e a riporlo con cura nel comodino.

Non era il momento di scrivere, quello. Ma dovevo trovare uno stratagemma che mi distraesse dal vuoto immobile che permeava le pareti.

Un secondo dopo, facendomi sobbalzare per la sorpresa mentre ero ancora intenta a richiudere il cassetto contenente il diario, la porta della mia camera si è aperta leggermente, rivelando uno spicchio dell’espressione intimidita di Roxanne.

«Uhm. Ciao Kate, disturbo?»

«No», ho risposto automaticamente, ricomponendomi.

Era la pura verità.

Mi sono sforzata di fare un sorriso, malgrado continuassi a sentirmi strana. La sensazione che mi aveva invasa era talmente peculiare, da non permettermi di associarla a nessuna esperienza passata.

Era sollievo, nervosismo, inquietudine, frenesia, turbamento. Niente a che vedere con la noia precedente.

«A cosa devo l’onore?», ho domandato affabile.

Roxanne, che allora si è decisa ad entrare completamente, è comparsa alla mia vista indossando una salopette di jeans, sotto alla quale si intravedeva una t-shirt bianca a righe azzurre. Andava a completare la sua immagine ancora prettamente fanciullesca un frontino blu, posizionato posteriormente alla linea della frangia, che cercava di trattenere quelle onde brune dietro le sue orecchie.

In risposta alla mia domanda, Roxanne ha semplicemente sollevato la busta che portava in mano.

«Ricordi? Te l’avevo già detto stamattina che sarei passata per restituirti il vestito», ha detto, consegnandomi la busta.

«Non ce n’era bisogno», ho risposto, evitando accuratamente di guardarne il contenuto, appoggiandola sul tappeto ai piedi del mio letto.

«E invece sì. Sei stata così gentile anche solo a prestarmelo! Non avrei potuto mai tenerlo!», ha insistito la Miller con fervore.

Io ho nascosto un sorriso sardonico, evitando di rivelarle che visto che non l’aveva tenuto con sé, il vestito sarebbe stato bruciato molto presto.

Non avevo intenzione di vederlo mai più.

Le ho sorriso, rispondendo in quel modo alle sue parole di ringraziamento.

«Immagino mia madre ti abbia tenuto sottotorchio un bel po’, prima di lasciarti salire», ho detto, avvicinandomi al letto.

Roxanne ha scosso la testa, lasciando che i suoi capelli danzassero nell’aria a ritmo di quel movimento: «Mannò. E’ solo molto socievole.»

«Se per socievole intendi una persona affetta da un atteggiamento logorroico impulsivo, allora hai ragione. E’ come una sveglia a cui non è stato aggiunto il pulsante dello spegnimento», ho commentato sarcastica, arrampicandomi sul mio morbidissimo letto e appoggiandomi mollemente contro la testiera.

Roxanne mi ha guardato severa, con un cenno di sorriso negli occhi. Naturalmente condannava la mia ipercriticità nei confronti della mia genitrice, ma questo al tempo stesso la divertiva, senza che potesse evitarlo.

Malgrado tutto, abbiamo un senso dell’umorismo molto simile.

Sprofondata tra i miei cuscini di seta, ho fissato Roxanne mentre lei con lo sguardo basso, spostava il peso da un piede all’altro. Come mai era così nervosa?

«Cosa stavi facendo di bello?», mi ha domandato dopo un po’.

Io ho scrollato le spalle, indifferente.

«Stavo aspettando che un mostro spuntasse dal mio armadio», ho replicato. Il mio tono serissimo aveva privato quella battuta di alcun possibile significato scherzoso.

Roxanne ha sbattuto le palpebre perplessa.

«Ovvero, mi stavo annoiando», ho continuato, cercando di risollevarla dalla sua confusione.

Le è scappata una risata, involontariamente. «Mi dispiace di non aver optato per un film horror, allora.»

«In che senso?»

«Tada!», ha esclamato, mostrandomi il cofanetto di un DVD.

Ho aggrottato le sopracciglia, dubbiosa.

«Di che si tratta?», le ho chiesto, sistemandomi meglio contro i cuscini della testiera e raccogliendo le gambe sotto di me. A quel punto, la mia adorabile gattina è comparsa dal nulla e mi è saltata in grembo, dove l’ho accolta di buon grado.

Roxanne non ha risposto, ma ha semplicemente iniziato a trafficare con la televisione e il lettore DVD, mentre io massaggiavo il pelo di Susie.

Sembravo aver trovato finalmente il modo di risollevare la mia noia. Non che fosse semplice, visto che a parte l’ossessione di trovare un vestito adatto per la cerimonia del diploma, non ho poi molto da fare in questo periodo della mia vita.

La scuola terminerà entro una settimana. Tutti quelli che hanno perso tempo a cazzeggiare fino a questo momento, tra cui figurano molti dei miei amici purtroppo, non possono fare altro che lavorare perché la loro media si alzi almeno un po’. Per qualcuno come me, invece, ammesso da mesi alla sua università prescelta, l’attesa del college è un’operazione semplicemente noiosa. Roxanne, allo stesso modo, deve trovarsi nella mia stessa situazione.

Terminata la sua operazione con il lettore DVD, Roxanne si è voltata verso di me soddisfatta e il suo sorriso si è ampliato di più quando ha visto Susie tra le mie braccia.

«Susie!», ha esclamato e la gatta ha alzato pigramente il muso verso chi la chiamava. Roxanne allora è saltata allegramente sul letto, liberandosi delle sue infradito, e si è avvicinata per strofinarle delicatamente la testa con due dita.

Susie ha iniziato a fare le fusa, vibrando forte e scuotendo tutto il letto. Questo mi ha fatto scoppiare a ridere.

Spostandomi più verso un lato, ho fatto posto a Roxanne accanto a me e lei si è accomodata volentieri. Susie, senza abbandonare il mio grembo, ha appoggiato il capo sulla coscia jensata di Roxanne, vicinissima alla mia, prima di chiudere gli occhi e decidere di mettersi a riposare.

Guardandola piacevolmente stesa su di noi, non sono riuscita a frenare un sorriso spontaneo.

«L’Era Glaciale», ha risposto Roxanne ad una domanda che avevo ormai scordato.

«Eh?»

«Guardiamo “L’Era Glaciale”», ha ripetuto, prendendo il telecomando e raggiungendo il menù del DVD.

«Cosa?! Ma non è un cartone animato?», ho protestato. Mi prendeva per una bambina?

Roxanne non ha detto nulla. Ha ignorato il mio sguardo allibito, per dirigere completamente la sua attenzione verso lo schermo.

«Io non guardo cartoni animati!», ho ripetuto, lagnandomi in un modo adorabile a cui so che nessuno può dire di no.

Nessuno, a parte Roxanne, a quanto pare.

Così mi sono arresa a vedere il film, non avendo a disposizione un’alternativa adatta per impiegare il tempo.

Meno di un’ora e mezza dopo Roxanne mi ha rivolto un sorriso saputo, alzando il sopracciglio in un’espressione eloquente.

«Allora?»

«Allora cosa?», ho domandato innocentemente.

«Ti è piaciuto, vero? Mi sembravi molto presa dalle scene!», ha esclamato divertita.

Io l’ho adocchiata in modo palesemente scettico: «Oh, davvero?»

«Certo! Qualcuno che non è preso dal film non scoppia a gridare “sì!” - facendomi anche spaventare - quando lo scoiattolo viene schiacciato a meno di tre minuti dall’inizio», ha risposto lei prontamente.

«Perché lo scoiattolo è un idiota. Persino più del bradipo», ho replicato noncurante.

«Sid? No! Io lo adoro! E’ un mito!», lo ha difeso tenacemente Roxanne.

Io l’ho ignorata: «Sono entrambi degli idioti, ma lo scoiattolo supera di certo il bradipo. Credevo fosse morto all’inizio, però continuava a resuscitare inspiegabilmente…»

Roxanne ha soffocato una risatina dietro una mano: «E’ un cartone animato, Kate.»

«Proprio per questo non riesco a capire come lo scoiattolo sia sopravvissuto dopo essere stato ripetutamente schiacciato, colpito da un fulmine e congelato nel ghiaccio per più di ventimila anni, mentre il capo delle tigri è stato ucciso da un paio di pezzetti di ghiaccio. Non è giusto che i cattivi siano uccisi più facilmente solo perché se lo meritano», ho protestato, restando ferma nelle mie opinioni.

Roxanne ha scosso la testa, sempre ridendo: «I pezzi di ghiaccio erano appuntiti!»

«Era comunque del ghiaccio!»

Roxanne ha sbuffato e compresa la mia ostinazione, ha deciso di adottare una strategia più diretta: «Ma insomma, hai da criticare tutto? Non ti è piaciuto niente?»

«Beh, mi piaceva il mammuth, che certamente in quel covo di pazzi era il più intelligente…e Diego», ho ammesso.

Roxanne ha increspato le labbra in un sorrisino, alzando un sopracciglio: «Aha! Ti ricordi il suo nome!»

«Perché non so a che specie appartenesse.»

«Una tigre zannuta, forse?», ha proposto lei, non abbandonando la sua ridicola espressione.

«Non è un nome molto chic», ho ribattuto.

«No, in effetti non lo è», ha riso lei, «Comunque stai sviando il discorso. Non sei stata tu quella che è balzata in piedi esclamando “Cazzo!”, quando il bambino è caduto nello scivolo di ghiaccio?»

«Pensavo fosse fico…anche Diego lo pensava!», ho risposto, quietamente. Roxanne ha tentato di nascondere la sua risata ma non ce l’ha fatta.

Alzando eloquentemente le sopracciglia le ho chiesto: «Dove vuoi arrivare?»

«Voglio farti ammettere che il film ti ha appassionata», ha replicato lei come una so-tutto-io.

L’ho guardata piuttosto infastidita, decisa a non dargliela vinta: «Non mi ha appassionata.»

«E chi ha stritolato in un abbraccio la sua gatta quando Manny ha ricordato la morte della sua famiglia?»

«Era Susie a volere le mie coccole», ho precisato.

«E chi ha gridato quando sembrava che Diego fosse morto?», ha continuato lei senza ascoltarmi.

Ho sentito le mie guance accalorarsi: «Ma…ma lui era l’eroe! Era un momento drammatico!»

«E chi è che ha sorriso come un’idiota quando Diego poi è riapparso?»

«Era una scena…simpatica», ho tentato di giustificarmi, «E tu non avevi niente di meglio da fare che studiare le mie reazioni?»

Roxanne è scoppiata a ridere, sinceramente divertita: «Il film l’avevo già visto e poi tu con il tuo debole per la tigre zannuta eri più divertente!»

«Non ho un deb-», ho cercato di smentirla, ma la sua improvvisa esclamazione di sorpresa mi ha interrotta.

«Cosa c’è?»

«Oddio! L’hai sviluppata davvero?», mi ha chiesto, voltandosi verso di me con il sorriso più entusiasta che avessi mai visto.

Seguendo la direzione del suo sguardo non è stato difficile capire a cosa si stesse riferendo.

Ho sorriso, mio malgrado: «Ti piace?»

«Stai scherzando? E’ fantastica!», ha risposto lei, balzando giù dal letto e avvicinandosi di più alla mia scrivania dove un’insolita cornice d’argento risaltava in mezzo ai soliti suppellettili.

Ed ecco lì la foto memorabile che raffigurava i nostri volti quasi irriconoscibili, celati da una mistura verde scuro decisamente disgustosa da vedere.

Roxanne ha preso in mano la cornice con cautela, sorridendo delicatamente.

«Marissa è andata per me dal fotografo stamattina per farla stampare», ho spiegato, «la cornice d’argento è un pugno nell’occhio vista la foto, ma non sono riuscita a trovare di meglio.»

«Allora costruirò io una cornice di melma che si addica alla foto», ha proposto Roxanne allegramente, voltandosi di scatto verso di me.

Inorridendo per i miei poveri mobili pregiati, le ho restituito un’occhiata truce a cui Roxanne ha risposto con una risata ancora più fragorosa della precedente.

Non si poteva di certo dire che non fosse di buon umore.

«Okay. Lo so che potrà sembrare strano, ma ho voglia di pop corn», ha dichiarato la Miller, rimettendo a posto la cornice.

«Dopo il film?»

Lei ha semplicemente annuito.

«A dire il vero anche io», le ho concesso di buon grado sorridendo, «Chiamo Marissa e lei ce li porterà su appena saranno pronti…»

«No, no, non preoccuparti. Scendo a prenderli io», si è offerta Roxanne.

Prima che potessi replicare, lei è uscita dalla stanza e io sono sprofondata tra le morbide coltri del mio letto, sospirando soddisfatta.

Inutile. Per quanto tempo possa passare, Roxanne ha sempre lo stesso effetto curativo su di me. I pomeriggi passati in sua compagnia non sono mai piatti. Le chiacchiere scambiate con lei mai scontate, sebbene molto poco serie.

Mi rassicurano. Mi permettono di chiudere gli occhi e prendere un gran respiro, senza nient’altro che turbi i miei pensieri.

Non più noia, ma pace. Una pace serena e tranquillizzante.

Roxanne è risalita pochi minuti dopo, portando con sé un vassoio su cui una grossa ciotola di pop corn si reggeva a malapena in piedi, a causa dei frequenti sbalzi della sua andatura.

«Ecco qua», ha esordito, facendo il suo ingresso.

«Attenta!», l’ho ammonita, permettendole di avvicinarsi al letto e posizionare correttamente il vassoio sul materasso. Fortunatamente nessun pop corn è andato perduto.

Ho allungato pigramente la mano verso la ciotola, ma Roxanne mi ha soffiato il boccone delle mani, portandosi alla bocca il pugno pieno, sorridendo furbamente.

Io ho ricambiato il sorriso e ho preso con un guizzo la ciotola tutta per me, noncurante delle sue proteste.

«Beh?», l’ho provocata e lei mi ha messo il broncio.

«Scusa», ha sbuffato.

«Non sembri molto convinta», ho continuato, con un ghigno mellifluo.

«Scusa!», ha ripetuto e in quello stesso istante il mio sguardo è stato calamitato sulla superficie d’appoggio del vassoio, dove una busta di carta giallognola recitava “Sig.na Kate Hudson”.

«E quella cos’è?», ho domandato, aggrottando la fronte.

Roxanne ha sbattuto un attimo le palpebre in confusione, prima di capire di cosa stessi parlando.

«Ah. Me l’ha data la tua domestica. Ha detto che qualcuno l’ha portata per te poco fa.»

«Qualcuno chi?», ho chiesto, avvicinandomi alla busta per prenderla.

«Non lo so», ha risposto lei, scuotendo la testa e scrollando le spalle, «Ma non credo che fosse l’ora del postino.»

La mia sveglia digitale segnava le ore 17.18 con caratteri grandi e rossi.

In effetti, Roxanne aveva ragione.

Più curiosa che titubante, ho afferrato la busta e me la sono girata tra le mani.

Roxanne ha sgranocchiato qualche altro pop corn dalla ciotola tornata ormai in suo possesso, scrutando attenta ogni mio movimento.

I suoi occhi blu erano fissi su di me in un modo difficile da ignorare.

Ho esitato per un momento, proprio perché la busta, la calligrafia e quel modo di spedizione non mi erano affatto nuovi, propendendo di aprirla in seguito, non appena Roxanne se ne fosse andata.

«Non la apri?», ha domandato, incrociando le gambe sotto il suo corpo.

«Magari dopo», ho sorriso affabilmente, alzandomi e posizionandola ordinatamente sulla scrivania, per poi ripiombare sul letto e sgranocchiare qualche altro pop corn. Sebbene i suoi occhi tradissero il suo palese interesse, Roxanne si è sforzata di non darlo a vedere, acquietandosi come mai l’avevo vista fare prima.

Per un momento si è persino incantata nel guardare un chicco di mais che non era scoppiato ed era finito per sbaglio nella ciotola.

«Oh…adesso che ricordo», ha iniziato, interrompendo il precedente lungo silenzio, «Sabato sera in discoteca ho incontrato il tuo amico.»

Le sue parole mi hanno lasciata interdetta, perciò non ho risposto nulla, permettendole di continuare.

«Mi ha chiesto di te, sai? Voleva sapere come stavi…»

Le cose iniziavano a non quadrare.

«Ma di chi stai parlando?», sono sbottata in quello che poteva essere considerato quasi un lamento.

Lei mi ha risposto e io mi sono immediatamente pentita di averglielo domandato.

Quel nome pronunciato dalle sue labbra è piombato dentro di me come un machete, abbattendo in un solo colpo tessuti organici e barriere intercellulari.

Incurante della presenza di Roxanne, adesso sempre più insospettita dalla mia reazione, sono scattata in piedi e sono corsa ad afferrare nuovamente la busta giallognola che avevo messo da parte poco prima.

Roxanne mi ha seguita con lo sguardo, stupita da quel movimento repentino.

Con un solo gesto ho strappato ferocemente la parte superiore della busta, così violentemente che tutto il suo contenuto è caduto ai miei piedi.

Il resto è successo talmente velocemente da non lasciarmi nemmeno il tempo per riprendere fiato.

La busta era piena di foto. Tra tutte quelle che erano cadute a terra me n’è rimasta solo una in mano.

Roxanne, preoccupata dal mio comportamento, si è alzata dal letto e si è avvicinata a me quasi immediatamente.

«No!», ho urlato io, sentendo l’ombra del pianto avvicinarsi nella mia voce, crollando a terra in ginocchio per coprire con il mio corpo il soggetto di quelle foto.

Roxanne si è bloccata: un piede già puntato in avanti nella mia direzione e l’altro che la tratteneva sul posto per mio ordine.

«Kate, cosa…»

All’improvviso non riuscivo più a sopportare la vista di quegli occhi così puliti su di me. Erano stati la mia cura per tutto quel tempo, ma in quel momento sono tornati a farmi lo stesso effetto di sempre. Mi mettevano a disagio e non facevano altro che evidenziare lo sporco presente dentro di me.

«No…», ho sussurrato, affrettandomi per celare quelle foto dalla sua vista, nascondendole spasmodicamente sotto le mie gambe e tra le mie braccia.

Roxanne è tornata in un momento l’odiosa perbenista che sin dal primo momento mi aveva dato sui nervi con il suo istinto di crocerossina totalmente altruista, pronta a dare tutto di sé agli altri solo per ottenere la loro ammirazione. Una bugiarda peggiore di me.

E quella stessa bugiarda adesso mi guardava, con quei dannati occhi spalancati e le punte dei suoi ondulati capelli mogano che scendevano scomposti sulle sue spalle. Quella stessa bugiarda che ora si era inginocchiata davanti a me e cercava di accarezzare il mio volto per calmarmi.

Ma la calma era ben lontana da me. Mi sentivo tremare, mentre gli occhi si gonfiavano inesorabilmente di lacrime di rabbia.

 “No! Lei non può guardare!”

Con un gesto brusco, ho scacciato la mano protesa di Roxanne, scostando il mio volto come schifata da quel contatto. Roxanne quasi automaticamente si è ritratta, fissandomi più stupita di prima.

«Kate, cosa è successo?», ha domandato, cercando di mantenere la sua voce bassa e non aggressiva.

Ma aggressiva o meno, io ero convinta che lei fosse il mio nemico numero uno in quel momento.

Non sopportavo il suo sguardo, non sopportavo il suo tocco, non sopportavo più niente.

La rabbia accresceva dentro di me, frenando l’istinto del pianto, ma stimolando in compenso il mio odio.

Ripensandoci adesso, quell’odio non era rivolto verso Roxanne, ma verso quello che lei nella mia mente ha rappresentato in passato.

In ogni caso, in quel momento non ho pensato da cosa potesse emergere il mio sentimento, ma semplicemente volevo sfogarlo in qualche modo.

«Vattene», ho soffiato tra i denti stretti, sforzandomi di rimanere rigida per coprire con il mio corpo tutte le foto cadute.

Roxanne ha sbattuto le palpebre interdetta, ma non si è mossa.

«Vattene!», ho ripetuto alzando la voce, ben consapevole di ciò che stavo facendo.

Non mi importava quali mezzi usare, ma dovevo mandarla via. Lei non poteva vedere. Non doveva vedere.

Più tardi ho realizzato che ancora una volta avevo fatto tutto questo per lei.

La bocca di Roxanne era pressata in una linea quanto mai rigida e le sue iridi blu, che hanno presto evitato il mio sguardo collerico, mi sono apparse più scure che mai.

Ha deglutito un paio di volte, prima di alzarsi in piedi con un movimento fluido.

Avevo visto un contegno simile solo in me stessa.

Le avevo fatto male, ne ero perfettamente conscia, eppure il suo contegno impassibile pochi istanti dopo mi ha lasciata totalmente esterrefatta, portandomi a dubitare che le cose stessero veramente così.

Roxanne è andata via, camminando senza alcuna fretta verso lo stipite e richiudendo diligentemente la porta alle sue spalle.

E’ rimasto solo silenzio.

Dopo qualche minuto passato inerte sul pavimento, il fantasma dei suoi occhi ancora impresso nella mia mente, mi sono decisa ad esaminare meglio quelle foto. Ho fatto un lungo respiro prima di raccoglierle tutte, evitando accuratamente di esaminarle prima che fossero disposte ordinatamente.

Era solo uno stupido espediente per ritardare la resa dei conti.

Quando finalmente il mio compito è terminato, mi sono decisa a rialzarmi e a disporre tutto il materiale sulla mia scrivania per averne una visione globale.

Erano all’incirca una ventina di foto, di qualità molto bassa, certo, ma di cui sfortunatamente era molto facile riconoscere i soggetti.

C’ero io che ballavo tra i miei amici, io che ballavo sul cubo da sola e poi attorniata da due ragazzi, io che tornavo tra i miei amici, io che baciavo Reeve, io e lui nel privè

Queste ultime foto erano le più sgranate di tutte e filtrate con un colore verde. Ho supposto che vista la scarsa luminosità del luogo si trattasse di infrarossi.

Un brivido mi è sceso lungo la schiena esaminando le foto più compromettenti.

Era una sensazione strisciante e viscida, come l’impressione di essere continuamente osservata e la paura di non poter avere più privacy.

Mi sono voltata di scatto, sapendo benissimo nonostante tutto di essere solo vittima dei miei timori. Affannata, ho guardato lo spazio vuoto davanti a me con i sensi all’erta e gli occhi che spaziavano da qualsiasi parte.

Quella paura mi stava lentamente consumando, talmente tanto da farmi impazzire.

Ritrovando il controllo delle mie mani sudate e per nulla focalizzate sulla presa, ho vagliato disordinatamente ancora una volta tutte quelle foto.

Quella più innocua di tutte ha attirato la mia attenzione. Si trattava di un mio primo piano in cui sorridevo innocentemente a qualcuno accanto a me. Ricordando il momento in cui questo era accaduto, sapevo che si trattava di Roxanne.

Al pensiero del suo nome, ho percepito una lingua di fuoco fatta di pura lava all’altezza del mio ventre.

Ho stretto i denti. No. Dovevo essere fredda, pensare chiaramente, agire guidata da una rabbia composta, ma non accecante.

Ho ripetuto quella sorta di mantra in testa, acquietando i furiosi battiti del mio cuore. Non potevo cedere prima di aver ottenuto le mie risposte.

Con calma esasperante ho girato la foto del mio primo piano e sul retro vi ho trovato senza alcuna sorpresa – come se sapessi già cosa mi aspettava, ma avessi semplicemente tentato di negarlo a me stessa – un suo messaggio:

 

Sono sempre vicino a te.

 

                                 N.

 

Sorridendo sardonica, senza essere affatto divertita, ho pensato che la presenza di quella iniziale fosse totalmente inutile.

Dall’istante in cui Roxanne mi aveva informato di averlo incontrato in discoteca avevo intuito esattamente chi fosse il mittente di quella busta.

«Nathan», ho pensato e sulla mia lingua ho scandito ogni lettera con lo stesso odio e la stessa furia che mi nutriva ed era l’unica cosa che mi aveva impedito di rannicchiarmi in un angolo e scoppiare a piangere per la vergogna, l’imbarazzo e la paura.

Checchè ne dicano gli altri, per me l’odio è il sentimento più forte. Citazioni sdolcinate a parte, che individuano nell’amore la forza in grado di muovere il mondo, io so solo che l’odio è l’unica cosa che mi ha spinta ad andare avanti in determinati momenti.

E’ stata la cosa che mi ha forgiata e mi ha resa anche se non totalmente invulnerabile agli attacchi del mondo, per lo meno capace di vendicarmi dei torti subiti.

Estraendo una forbice dalla scrivania ho iniziato a tagliuzzare quelle foto in parti talmente piccole da rendere i soggetti irriconoscibili. Ho proseguito con precisione clinica, fino ad ottenere un mucchietto di carta fotografica sparso sul tavolo che ho raccolto in un kleenex che avevo sotto mano.

Più tardi sono scesa in cucina, pur sapendo di attirare così l’incredulità di mia madre e mi sono offerta di buttare la spazzatura.

Marissa mi ha impedito inizialmente di farlo. Era il suo compito e mai prima d’ora mi era mai passato per l’anticamera del cervello di rubarglielo.

Eppure ero determinata nella mia missione. L’ho conquistata con un sorriso al miele e un paio di commenti premurosi che andavano ad esaltare il suo lavoro sempre zelante, in cui almeno per una volta volevo aiutarla.

Terminata la mia opera di convincimento, ho rassicurato mia madre ancora una volta di stare bene e mi sono diretta verso i cassonetti più vicini nella mia area residenziale.

Ovviamente tenevo la busta con la spazzatura il più distante possibile da me, osando a malapena usare l’indice e il medio per trattenere i manici con una smorfia di schifo totale sul mio volto.

Non appena ho abbandonato il cancello della mia proprietà, ho avvertito ancora una volta la sensazione strisciante sulla mia schiena. Era arrivato il momento.

Era simile all’impressione che avevo avuto quando uscendo di casa avevo trovato sulla soglia di casa i miei effetti personali che, nella fretta di scappare, avevo dimenticato a casa sua qualche mese fa. Doveva essere un po’ fissato con il recapitare le sue lettere personalmente.

Io, d’altro canto, non mi sarei tirata indietro davanti a questa richiesta di sfida, ma dovevo prima capire cosa avesse in mente di fare dopo avermi pedinato e aver scattato foto private di me.

Che lui ci fosse o meno non aveva importanza. Dovevo farlo per me. Per dimostrare chi era il più forte tra i due. Chi reggeva il gioco.

Avevo ottenuto questo tipo di forza immediata facendo la stronza con Roxanne, è vero, ma il prezzo ne valeva la pena.

In modo da essere ampliamente visibile, ho gettato nel cassonetto prima i rifiuti casalinghi e poi prendendo in mano il kleenex appallottolato, contenente i rimasugli delle foto, l’ho aperto, lasciando che quelli volassero come coriandoli tra l’altra immondizia.

La sensazione sul mio dorso si è fatta più vibrante. Mi sono voltata di scatto, rimanendo nuovamente sorpresa dalla mancanza di anime vive in giro. Magari si trattava solo dell’inquietudine che, anche se continuava a pesarmi addosso, cercavo di nascondere sotto una faccia da poker, a farmi degli scherzi. Oppure lui da qualche parte si stava godendo la mia dichiarazione di guerra.

Conoscevo i suoi motivi. Lui voleva che io soffrissi tanto quanto diceva di aver sofferto in prima persona, perché l’amore – l’attrazione - di suo padre per me aveva distrutto la sua famiglia.

Ma io non sarei restata a guardare. Mi sarei difesa con le unghie e con i denti, facendo pagare caro l’affronto a chiunque si sarebbe permesso di toccarmi.

Forse io avevo sbagliato, oppure no. Non importava. Dovevo proteggermi.

Stai calma. Era quello l’imperativo principale. Non farti annientare dalla tua stessa foga.

Così ho sorriso, lievemente. Sono ritornata in casa con un’espressione serafica in viso, come se niente a questo mondo fosse in grado di turbarmi.

Quella notte non ho dormito. Sapevo di trovarmi in una situazione relativamente pericolosa. Nathan non aveva affatto esitato a minacciarmi con un coltello prima e a tentare di strozzarmi alla mia festa, dopo. Per quanto potesse sembrare assurdo rivedere tutti gli eventi in questa chiave, ciò era accaduto per davvero.

Io non avevo la possibilità di difendermi in alcun modo sotto questo punto di vista.

L’unica cosa che potevo fare era continuare a fingermi tranquilla, nonostante i miei timori.

Oltre ad essere una bluffatrice carismatica, non avevo altri punti a mio favore, ma questo doveva bastarmi, almeno per il momento.

Roxanne era un altro problema. Non volevo trattarla così in fondo, ma non potevo permettermi di rispondere alle sue domande. Il mio era stato solo un meccanismo di difesa.

Cosa avrebbe pensato di me?

Non che rifiutare così platealmente il suo aiuto avesse reso le cose più facili tra di noi.

Mi avrebbe odiato in un caso o nell’altro, ma per lo meno questo l’avrebbe tenuta lontana per un po’, o almeno questo è quello che credevo sarebbe successo, prima di rincontrarla nuovamente a scuola il giorno seguente.

Lei non è scappata via, né ha evitato il mio sguardo, anzi, mi si è piazzata davanti prima che incontrassi le Gallinelle nei corridoi, mantenendo un fronte determinato.

«Posso parlarti?», mi ha chiesto seria come non mai.

Io ho annuito altezzosamente, seguendola verso un luogo più appartato.

Tienila lontana. In questa cosa devi essere sola.

«Kate», mi ha chiamato e il suo tono si è lievemente addolcito, «Sono stata preoccupata per tutto il giorno. Puoi spiegarmi cosa è successo esattamente? Eri sconvolta.»

Dannata Roxanne e la sua acuta percezione delle cose e dannata me che non ero riuscita a camuffare immediatamente il problema.

«Non è successo niente», ho replicato atona. Non avevo idea di che scusa inventare come causa del mio comportamento così peculiare, perciò ho deciso di negare qualsiasi cosa.

«Niente?!», Roxanne ha ripetuto, incredula, «Kate, non ti ho mai vista così…tremavi…ti muovevi come in preda ad una crisi--»

«Ti ho detto che non è successo niente», ho insistito.

“Lascia perdere, Roxanne. Per te è meglio non sapere nulla.

Dopo un primo momento Roxanne, inaspettatamente, si è messa a ridere. Io l’ho guardata come se fosse fuori di testa.

«Erano tutte stronzate, eh?», mi ha domandato, ma la sua sembrava essere una domanda retorica, «Tutte stronzate

«Quali?», ho domandato, incapace di seguire il suo discorso come accadeva la maggior parte delle volte.

«La stronzata dell’essere amiche, no? Di esserci l’una per l’altra!»

«Io non l’ho mai detto», le ho ricordato, il più freddamente possibile.

Era vero, d’altronde. Non stavo mentendo. Era Roxanne che continuava a ripetermi che io ero la sua migliore amica, senza dubbio per conquistarsi la mia fiducia. Io non le avevo mai risposto nulla.

E adesso sì, Roxanne era ferita. Oltre ogni capacità di camuffare le sue emozioni, il suo volto era una maschera di delusione. A causa dei suoi tratti leggermente infantili, era molto simile a quello di un bambino a cui era stato negato un dolcetto.

«Ok», ha detto, raccattando dignitosamente la borsa che aveva posato a terra poco prima, «Scusa se ti ho fatto perdere tempo.»

Se n’è andata via velocemente e io mi sono ritrovata a pensare che non poteva essere un caso che ultimamente dovessi assistere sempre a questa scena, per poi sentirmi sempre indiscutibilmente male dopo.

Ho saltato il pranzo più tardi per non vederla e per non dover ascoltare le chiacchiere delle Gallinelle che innocentemente mi pregavano di fare pace con lei.

Sono rimasta seduta in cortile a guardare il cielo, lasciandomi accarezzare dalla brezza che inspiegabilmente riusciva a tranquillizzarmi come se fosse un paio di braccia spalancate pronte a dare conforto.

Percepivo su di me gli sguardi curiosi degli altri studenti, stupiti di vedere Kate Hudson stranamente sola. Quel tipo di sguardi non mi creavano alcun problema, né mi provocavano una sensazione strisciante sulla schiena, semplicemente mi facevano sentire al centro dell’attenzione, pur non facendo assolutamente niente per attirare un così grande interesse.

Sapevo che nessuno avrebbe osato avvicinarsi, perché forse segretamente intimorito dalla stessa ammirazione che aveva nei miei confronti, quindi sono rimasta decisamente di stucco quando una ragazzina del primo anno mi si è accostata timidamente.

Io l’ho squadrata dalla panchina, senza muovermi di un millimetro. Lei si è ritratta all’istante, facendo un passo indietro. Bene.

«Ehm…un ragazzo all’entrata mi ha dato questa», ha balbettato lei, passandomi all’istante una busta giallo scuro. Riconoscendo lo stile, gliel’ho sottratta di mano in un guizzo, sentendo il mio cuore iniziare a battere all’impazzata.

Ho subito fissato il cancello che delimitava l’entrata, ma nessuno dei presenti lì vicino assomigliava minimamente a lui. E pensare che era stato così vicino…

«Grazie», ho detto il meno bruscamente possibile alla ragazzina, tentando di ricompormi, visto che non accennava ad andarsene. Afferrata l’antifona, lei è subito tornata dalle sue compagne, stranamente contenta.

All’improvviso tutti quegli sguardi, mi hanno fatta sentire a disagio. Non potevo aprire la busta all’aperto, così sono sgattaiolata in bagno. Lì avrei avuto tutta la privacy necessaria.

Questa volta, la busta conteneva un foglio ripiegato a metà. L’ho aperto freneticamente.

 

Sono deluso.

Pensavo che dopo la busta di ieri avresti voluto vedermi immediatamente, ma non è andata così.

Forse queste altre foto riusciranno a convincerti.

In qualsiasi momento vuoi, sai dove trovarmi.

Io sono sempre vicino a te.

                                                                                                                                  N.

 

Accartocciando il foglio in un pugno, sono andata subito alla ricerca delle nuove foto. Ed eccole lì, in fondo, dove inizialmente non le avevo viste perché nascoste dal foglietto.

Le nuove foto erano simili alle precedenti, ma ritraevano me e Reeve in un atteggiamento molto più appassionato, anche se questa volta le facce erano meno riconoscibili a causa dei baci.

Riaprendo il foglio appallottolato sono ritornata a leggere il suo messaggio.

Pensavo che dopo la busta di ieri avresti voluto vedermi immediatamente…

Quindi il suo scopo era incontrarmi?

Sai dove trovarmi. Io sono sempre vicino a te.

Ancora una volta quelle parole.

Intendeva dire che aveva iniziato a seguirmi? E poi perché voleva incontrarmi di persona?

E cosa aveva in mente di fare con queste foto?

Si trattava sicuramente di una trappola per adescarmi, questo non era difficile da comprendere, e una volta in mano sua, secondo lui avrei ricevuto la giusta punizione per le mie presunte malefatte.

Cosa avrei dovuto fare? La situazione sembrava complicarsi e lui non sembrava affatto disposto a lasciare perdere. Avrei dovuto denunciarlo alla polizia? Ma lui aveva quelle foto per ricattarmi e io non intendevo in alcun modo affidare i miei problemi a qualcun altro.

Uscita dalla cabina in cui mi ero rinchiusa, ho visto una figura familiare lavarsi le mani nel lavello comune. Ho incontrato lo sguardo di Roxanne nello specchio, ma lei si è curata di  distoglierlo immediatamente e io con la busta nascosta dentro l’uniforme sono andata via il prima possibile.

Mi sono subito pentita di aver condannato la calma piatta del giorno precedente, perchè avrei lungamente preferito annoiarmi a morte, piuttosto che finire in quel casino.

Conscia di non poter cadere nella sua trappola, poiché non sapevo ancora cosa aveva in mente di fare con quelle foto, ho deciso di aspettare. Probabilmente si sarebbe fatto vivo presto, stipulando meglio i suoi motivi e le sue intenzioni, io nel frattempo non dovevo fare altro che dimostrarmi assolutamente tranquilla.

Non andava bene isolarsi dagli altri, perché gli avrei dato solo una maggior possibilità di azione, ma sarei riuscita a proteggermi meglio in compagnia, vista la sua presenza continua alle mie calcagna.

Seguendo questo tipo di programma ho aspettato per due giorni trascorrendo tempo con vari conoscenti e amici, cercando il più possibile di evitare Roxanne e il senso di colpa che mi opprimeva, ma finendo indiscutibilmente per incontrarla molto spesso e a farmi investire dal rimorso non appena lei si trovava fuori dal mio campo visivo.

Il terzo giorno, ovvero giovedì, è arrivata un’altra lettera che ho raccattato personalmente dalla cassetta della posta. Tuttavia quest’ultima non era bollata, segno che era stata quindi recapitata personalmente come al solito.

 

Probabilmente il destinatario a cui scrivo è sbagliato, visto che continuo a non ricevere risposta.

Forse dovrei provare a contattare l’ambasciator Hudson, che ne dici?

Sono convinto che lui sarà molto curioso di vedere come si diverte la sua figlioletta quando smette di fare la brava bambina.

 

                                                                                                                                                  N.

 

Ed ecco il ricatto. Rivedere le cose con freddezza, cercando di riportare esattamente quali siano state le mie sensazioni sul momento, non è facile. So solo una cosa: ho avuto paura, una dannata paura.

Non avevo idea di cosa sapesse esattamente di mio padre, né come potesse contattarlo così facilmente, visto che non è quasi mai a casa, ma sapevo solo che non potevo permettere che questo accadesse.

Mio padre non mi è stato mai particolarmente vicino nella mia vita, è vero, ma ha sempre tenuto ad alcune cose come il mio comportamento cordiale con tutti, oppure il non tornare troppo tardi la sera, o primeggiare a scuola, o mantenere intatta la rispettabilità della nostra famiglia. Sono tutte cose che ho sempre cercato di rispettare per renderlo fiero di me, per dimostrargli che laddove la perfezione era impossibile, sua figlia era per lo meno riuscita ad arrivarci in apparenza.

E ora Nathan stava mettendo in pericolo anche quel piccolo legame che mi legava a lui.

Onestamente ho avuto paura.

Eppure la sua volontà di minare il rispetto di mio padre nei miei confronti, mi ha fatto capire che se lui poteva ottenere l’ausilio della mia autorità paterna contro di me, io d’altro canto avevo il pieno diritto di servirmene completamente.

E’ stato allora che ho realizzato che restare sola non solo mi avrebbe danneggiata in questa guerra, ma oltretutto mi avrebbe indebolita, logorandomi per l’ansia che, anche se nascosta nel miglior modo possibile, era sempre in agguato.

Con questa risoluzione ho afferrato il cellulare e sgattaiolando nello studio vuoto di mio padre, ho cercato alcuni numeri nella sua agenda che ho prontamente chiamato.

Mio padre era ospite del Presidente questa settimana e, dato il livello piuttosto alto di sicurezza già presente nel posto, avrebbe concesso loro di sicuro un periodo di pausa.

Mi dispiaceva disturbare le loro meritate vacanze, ma se tutto fosse andato per il verso giusto, con il loro aiuto avrei sistemato questo problema in men che non si dica.

Al “Pronto” piuttosto cupo proveniente dalla cornetta, ho sorriso, indubbiamente rincuorata.

«John, sono Katie», l’ho salutato, usando mio malgrado il soprannome con cui lui si riferisce spessissimo a me, «Devi darmi una mano.»

Convincerli ad aiutarmi non è stato affatto difficile, anzi, ho dovuto lottare con una fin troppo fervente disponibilità.

«No, no tranquillo», ho cercato di declinare le sue premure, «ho bisogno solo che mi aiutiate ad eliminare uno scocciatore.»

«Che tipo di scocciatore?», ha domandato John con il suo vocione.

«Uno scocciatore piuttosto insistente», ho replicato, non trovando altri modi di descriverlo, «sembra abbia preso l’abitudine di pedinarmi e mandarmi lettere minatorie.»

«Ti ha fatto del male?», ha chiesto John, improvvisamente adirato, «Lo dirò a tuo padre e…»

«No», l’ho bloccato io con autorità, «mio padre deve restarne fuori, capito? Non voglio si preoccupi. Mi bastate solo tu, Mitchell ed Steven e stasera sistemeremo questa cosa una volta per tutte.»

«Va bene, ma se la situazione dovesse essere più grave di quanto mi stai dicendo, dovrò informare l’ambasciatore per forza.»

«Non lo sarà», ho smentito categoricamente, tentando di non andare in panico, «come ti dicevo è solo uno scocciatore.»

Per qualche secondo John è restato a meditare, poi ha ceduto alle mie rassicurazioni: «Va bene. Dimmi tu dove e quando, noi ci saremo. Dobbiamo portare gli attrezzi?»

Io c’ho riflettuto su. «Sì, portateli, ma è giusto per precauzione. Non userete niente del genere.»

«Lo spero. Ehi, Katie, sicura di stare bene?»

«Sì, perché non dovrei?», ho chiesto, fingendomi sorpresa.

«Niente. Lo so che sei una tipa tosta, ma ogni tanto cedere è umano.»

«E’ uno scocciatore», ho ripetuto con un’enfasi maggiore, «nulla di cui preoccuparsi eccessivamente.»

In realtà avevo già passato tre notti insonni.

«Ci penseremo noi», mi ha rassicurato John che, dopo aver ricevuto le coordinate del nostro incontro, ha riattaccato tra battute di spirito.

Ho sospirato, premendo il pulsante rosso sulla tastiera del telefonino.

Tutto mi sembrava così confusionario un momento dopo aver riattaccato, che speravo sinceramente di aver preso la decisione giusta.

Due ore dopo, ero alla porta di Nathan.

Mi sono persino vestita bene per l’occasione. Indossavo un abito in stile baby doll di Alice + Olivia con delle spalline sottili e il corpetto paiettato, assieme a dei sandali alti.

Essendo sola, la situazione appariva dall’esterno estremamente rischiosa, ma ormai non era più possibile tornare indietro. Gli avrei fatto credere di essere totalmente al sicuro in questo modo, mettendolo chiaramente a suo agio il più possibile.

Ho suonato il campanello e ho aspettato all’incirca mezzo minuto, prima che lui venisse ad aprire con un’espressione più che sorpresa in volto. Immagino non si sarebbe mai aspettato che gli facessi una visita direttamente a casa.

In quelle condizioni mi è parso debole. Uno stupido, debole sciocco che mi aveva privata del sonno e mi aveva ossessionata per poco meno di una settimana, anche se, considerando le nostre esperienze passate, tutta questa situazione si trascinava da parecchio tempo.

Lui mi fissava con la bocca spalancata e io ho sorriso apertamente della sua infinita nullità nei miei confronti.

Era assurdo che per un momento avessi persino messo in discussione chi tra i due deteneva il controllo.

Vedendo che Nathan non riusciva ancora a riprendersi dalla sua sorpresa, gli sono andata incontro.

«E’ tanto che non ci vediamo», ho commentato in un tono soffice, continuando a sorridere.

I suoi occhi verdi hanno avuto un guizzo e lui si è subito irrigidito.

«Non ti aspettavi la mia visita?», ho domandato ironicamente, «Dopo tutte le lettere che mi hai mandato, pensavo saresti stato entusiasta del mio arrivo.»

Nathan ha tentato di sorridere, ma non essendo un esperto nell’arte del fingere, la sua sembrava piuttosto una smorfia esagitata: «S-sì, certo che sono contento che tu sia venuta.»

«Bene», ho acconsentito, inclinando la testa verso un lato, in un modo infantile che ispira tenerezza nell’altro.

Tutti i fili del palcoscenico sembravano essere nelle mie mani, in attesa che io li manovrassi, perchè se c’è una cosa che so fare bene, quella è la burattinaia.

Ho sorriso ancora e in realtà stavo sorridendo per davvero, colma di orgoglio in me stessa e di vittoria, sebbene fosse ancora troppo presto per parlare di resa dei conti.

Nathan era esterrefatto e io potevo benissimo comprenderlo. Presumo non si sarebbe mai aspettato di vedermi così salottiera, cordiale e disposta a conversare piacevolmente con il mio supposto carnefice. Forse stavo giocando con il fuoco, forse con una mera fiammella, eppure non riuscivo a reprimere il trionfo che riempiva le mie membra.

«Non mi fai entrare?», ho suggerito e lui, suo malgrado, ha fatto un passo indietro, probabilmente intuendo che c’era qualcosa che non andava.

Con una naturalezza spontanea ho sbattuto le palpebre, un tantino delusa.

«Non posso?», ho domandato innocentemente.

Nathan ha tentato disperatamente di ricomporsi: «Certo. Certo. Fa pure», mi ha invitata ad entrare, spalancando la porta.

Come avevo previsto. Naturalmente non si sarebbe lasciato scappare l’occasione che aveva tanto aspettato e che adesso gli veniva posta davanti quasi su un piatto d’argento.

Mi sono avvicinata all’uscio con nonchalance, ma prima che questo potesse richiudersi alle mie spalle, due mani pressoché enormi si sono infilate nei cardini della porta e l’hanno spalancata.

«Ehi amico! Hai dimenticato degli ospiti fuori!», ha esordito il primo uomo, alto e robusto quanto un armadio, mostrando i denti candidi che risaltavano visibilmente sulla carnagione di colore.

Ho sorriso soddisfatta, guardando l’ingresso trionfale di John alle mie spalle.

Accanto a lui sono piombati Mitchell e Steven, entrambi della stessa stazza di John, sebbene appena più bassi, e io mi sono chiesta incredula come quel corridoio così piccolo potesse contenerli tutti.

Nathan, evidentemente ancora più scioccato di me, li ha fissati a corto di parole.

«Nathan, loro sono John, Steven e Mitchell. Immagino avresti preferito conoscere i loro nomi prima di ricevere…», ho esordito.

«Questo!», John ha terminato la mia frase, mirando dritto alla faccia di Nathan con un cazzotto ben assestato. Non sono nemmeno riuscita ad immaginare quanto potesse essere stato doloroso quel colpo, visto che il suo naso ha iniziato a sanguinare all’istante.

«Che cazzo fai?!», ha urlato Nathan, cadendo automaticamente a terra.

«No, tu che cazzo fai? Pedinandomi, minacciandomi, scattando mie foto private…», l’ho accusato io, abbassandomi al livello della sua figura rannicchiata a terra per il dolore, per ringhiargli quelle parole in faccia.

«Tu hai distrutto la vita della mia famiglia! Devi pagarla!», si è giustificato lui, tamponando il più possibile il naso colante. Era apparentemente molto desideroso di parlare se questo gli permetteva di evitare altri pugni.

«Non l’hai ancora capito? Io non c’entro nulla! E’ stato tuo padre a perdere la testa per me e a rovinarsi la vita!»

«Questo è perché tu gli hai fatto un lavaggio del cervello!», ha insistito lui e io non sono riuscita a trattenermi dallo scoppiare a ridere di gusto.

«E’ inutile insistere allora, mi sembri piuttosto ostinato nella tua stupidità», ho commentato rialzandomi e lanciandogli uno sguardo disgustato dall’alto, prima di voltargli le spalle e dire a John e agli altri cosa fare.

«Spaccate il suo computer, la sua macchina fotografica e qualsiasi altro tipo di aggeggio che possa contenere delle foto. Io vi aspetto fuori», ho ordinato loro, prima di avviarmi verso l’uscita.

«Sei solo una sporca puttana che non sa nemmeno difendersi da sola!», ha urlato Nathan con una voce logicamente nasale.

Ho trattenuto John, che stava già per avventarglisi contro, con una mano sul petto, prima di voltarmi ancora una volta verso colui che aveva sputato tali accuse.

«Oh davvero?», ho domandato sarcastica, incrociando le braccia sul petto e incitandolo a continuare.

Fa' crescere la mia rabbia, su.

«Sì, sei una sporca puttana! E anche se dovessi riuscire a distruggere tutte le foto, rivelerò a tutti la verità personalmente! Prima di tutti alla tua amica! Immagino che non si aspetterebbe mai di sapere che in realtà sei fatta così.»

No, non Roxanne…

Stava cercando di indebolirmi, ma io non potevo fargli capire che in realtà temevo le sue parole, perciò sentendomi incapace di controllare l’espressione del mio viso, mi sono voltata e ho fatto ancora una volta per andarmene.

«Mi raccomando, le foto», ho ricordato ancora una volta a John e lui ha annuito mestamente, senza commentare.

«Sono sicuro che sarà stupita del fatto che la sua amichetta l’aveva abbandonata alla mercé di due ubriachi per scoparsi uno sconosciuto», Nathan ha continuato dal suo angolino e io ho stretto i pugni, incapace di andarmene davvero.

Era la verità, eppure perché sentirla raccontata da uno sconosciuto le dava un connotato più disgustoso della realtà?

«Ti vuole bene», mi ha canzonata lui, «E per farlo deve essere sicuramente all’oscuro della tua vera indole. Io le schiarirò solo un po’ le idee. E’ carina d’altronde, non mi dispiacerà nemmeno…»

Questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Frugando al di sotto della giacca di John, le mie dita sono venute al contatto con il manico della sua Beretta e l’ho tirata fuori dalla custodia sotto i suoi occhi spalancati.

«Katie, che stai…», ha tentato di dire l’uomo, sconvolto.

Guardando in basso verso Nathan, il cui naso era completamente rosso e gonfio, ho tolto la sicura alla pistola.

«Signorina Kate…», mi hanno chiamato tutti e tre gli uomini allarmati.

Io ho alzato una mano per azzittirli.

Nathan mi guardava come se avessi perso la testa.

Probabilmente era vero. Ma non ero più sicura di vincere e avrei fatto qualsiasi cosa per arrivare direttamente alla conquista del premio.

Oppure era stato solo il suo nome a scatenare tutto.

No, non lo doveva sapere. Di tutto questo schifo doveva rimanere all’oscuro. Quando tutto questo sarebbe finito, sarei tornata e lei ovviamente mi avrebbe sorriso e sollevato tutte le mie ansie. Non poteva conoscere la verità, altrimenti l’effetto curativo che aveva su di me sarebbe finito. Non potevo permettermi di perdere l’unica cosa che mi tenesse realmente in piedi. Non potevo perdere lei.

L’adrenalina scorreva nelle mie vene ed un brivido di eccitazione mi ha invasa.

L’euforia del potere, della dominazione, accrescevano contemplando la paura sconfinata negli occhi del mio nemico.

Ero in estasi. Volevo ridere e ridere ancora, completamente soddisfatta.

Mi sono inginocchiata nuovamente vicino a Nathan, ormai affannato come un animale in gabbia, e gli ho puntato la pistola alla gola senza alcuna esitazione.

«Sei pazza???», ha urlato lui, incapace di dimenarsi per il timore che al minimo movimento io potessi sparare.

Io ho sorriso adorabilmente.

«Se mi uccidi marcirai tutta la tua vita in galera, sei sicura di volerlo?», ha gridato ancora, sperando di farmi vacillare.

Ma non ha funzionato.

«Questi uomini, le guardie del corpo di mio padre, sono pagati per dare la vita per lui e in una certa estensione anche per la mia. Se io dovessi premere questo grilletto se ne assumerebbero la completa colpa e ne sarebbero profumatamente ricompensati», ho spiegato e mi è sembrato che gli altri tre alle mie spalle annuissero.

Nathan ha sgranato gli occhi, iniziando a sudare visibilmente. Se la stava facendo addosso.

«No, no, ti prego, non…»

«Non cosa?», l’ho spronato a continuare, lasciando che la canna della pistola nel frattempo gli accarezzasse lentamente tutto il collo.

«N-non m-mi vedrai più d-da oggi in poi…», ha balbettato, deglutendo di continuo mentre il metallo dell’arma sembrava marchiargli a fuoco la pelle con un semplice tocco.

«Pur senza farti vedere sei riuscito a rendere la mia settimana un inferno», ho commentato sarcasticamente, continuando a sorridergli.

«Non-non…», ha deglutito ancora lasciando che le parole scorressero il più velocemente possibile ma con qualche difficoltà, «t-ti prometto, che non ti contatterò m-mai più!»

«Anche se tu dovessi smettere di contattare me, hai appena detto di voler parlare con qualcun altro di questo, no? Fallo e ti distruggerò con le mie stesse mani. Come vedi non ho bisogno di nascondermi dietro nessuno per risolvere i miei problemi. Non è così?»

Lui ha annuito ferocemente.

«Allora, prometti?»

«Sì, cazzo! Adesso metti via quella pistola!»

«Na-ah», gli ho fatto il verso, «Non mi piace sentire parolacce.»

«Prometto, giuro, te lo garantisco! Non sentirai più parlare di me in nessun modo! Lasciami andare!»

Io ho finalmente lasciato da parte quel sorriso falso e l’ho guardato con la mia vera espressione.

Rabbiosa, furiosa, brutale, aggressiva, crudele eppure suadente gli ho sussurrato nell’orecchio: «Se non mantieni questa promessa, ti distruggerò, capito? E non sto scherzando. Lascia perdere il tuo desiderio di vendicarti contro di me, perché se dovessi fare sul serio io con la mia vendetta, nessuno riuscirà a fermarmi.»

Lui ha annuito ancora una volta, completamente fradicio di sudore, socchiudendo gli occhi e rabbrividendo.

Io mi sono allontanata lentamente e, quando la pistola ha smesso di toccare la sua pelle, Nathan è letteralmente crollato in un respiro di sollievo, esausto.

Ho restituito la pistola a John, che era ancora atterrito da tutta la scena che si era appena svolta, e gli ho ricordato: «Distruggi il resto.»

Le guardie del corpo hanno annuito, guardandomi con timore malcelato, e io sono andata via nel silenzio più totale, scandito solamente dal rumore fastidioso dei tacchi dei miei sandali sul pavimento e dal fruscio delle mie vesti. Quando sono iniziati il fracasso e le urla di Nathan che tentava di fermare i tre uomini nella loro impresa di demolizione, io stavo già scendendo le scale esterne di casa sua.

Ho preso un ampio respiro, chiudendo le palpebre, ferma sul marciapiede, assaporando la freschezza della sera. Il mio animo sussultava ancora, il cuore pompava nel sangue ancora adrenalina.

Era davvero tutto finito?

Le mie precedenti azioni hanno iniziato a pesarmi addosso in quello stesso istante.

Ma cosa avevo fatto?

Riaprendo gli occhi ho riconosciuto la strada. Quella stessa strada che non molto tempo fa mi aveva vista scappare con il timore che Nathan continuasse a seguirmi in direzione verso la ben più familiare villetta a schiera dal cancello rosso.

Dopo aver percorso una breve strada ed essere arrivata davanti a quest’ultimo, tutte le mie certezze sono crollate.

E se non avesse voluto vedermi? Se non mi avesse perdonato? Se non avesse più sorriso per me?

Era sconcertante pensare che qualcuno che fino a pochi minuti prima avesse minacciato di morte il suo peggior nemico, potesse trasformarsi nella persona più vulnerabile del mondo davanti ad uno stupido cancello cremisi.

Il nome Miller campeggiava sul campanello. Ho esitato a lungo, guardandomi le unghie dei piedi laccate di smalto bianco in coordinato con il colore dei miei sandali.

Poi ho suonato, mi sono presentata e il cancello si è aperto con uno scatto.

Roxanne era sulla porta, i capelli raccolti in una coda alta, la frangia che nascondeva le sue sopracciglia aggrottate e l’espressione poco amichevole.

Ti prego, sorridimi.

Ma lei non sorrideva. Si ergeva nella sua modesta statura, seria come non mai, e mi guardava camminare lentamente verso di lei, con un atteggiamento di distacco evidente.

La situazione volgeva verso il mio svantaggio, ne ero perfettamente conscia.

Ti prego, sorridimi o non riuscirò a sbarazzarmi di questo peso che ho sul cuore.

«Ciao», ho detto, cercando di trovare un’apertura.

«Ciao», mi ha risposto senza scomporsi.

Non volevo vedere un’altra mia brutta copia. Volevo vedere solo Roxanne.

Ti prego.

«Mi dispiace per quello che è successo questi giorni», ho ammesso onestamente, «ma c’era una faccenda che dovevo sistemare prima…»

«Cosa?», ha tagliato corto Roxanne, apparentemente non interessata ai miei sproloqui.

Io ho serrato la mascella.

Lei non può saperlo.

«Niente», ho risposto, schivando il suo attacco, «posso entrare?»

Era la seconda volta che cercavo di introdurmi da sola in casa di qualcun altro. Stavolta dovevo farlo perché era l’unico modo per non essere interrotta prima ancora di arrivare alla fine del mio discorso. Ero sicura di riuscire a convincere Roxanne con poche parole giuste, ma dovevo pur avere il tempo per pronunciarle.

«No», mi ha negato categorica lei, «Non ti ho chiesto di entrare. Ti ho solo chiesto di spiegarmi cosa sia successo.»

«Mi dispiace, ma…», ho tentato di continuare.

Ero arrivata a puntare una pistola alla gola a Nathan solo perché lei non venisse a sapere nulla e adesso si aspettava che io le confessassi tutto spontaneamente?

Poi ancora le sue parole: “Sono sicuro che sarà stupita del fatto che la sua amichetta l’aveva abbandonata alla mercé di due ubriachi per scoparsi uno sconosciuto. Ti vuole bene e per farlo deve essere sicuramente all'oscuro della tua vera indole…”

Lei non deve saperlo.

«Mi dispiace», ho ripetuto affranta. Lei non ha battuto ciglio.

«Cosa è successo? La mia domanda è questa. Non voglio che tu cambi discorso con un “mi dispiace”», ha replicato Roxanne.

Io l’ho guardata senza dire nulla e lei ha sospirato, scuotendo la testa.

«E’ inutile. Allora era vero. Erano solo cazzate», ha mormorato tra sé e sé, prima di tentare di richiudere la porta.

«Aspetta!», ho gridato allarmata, costringendola a bloccarsi.

«Cosa devo aspettare ancora? Non rispondi a nessuna delle mie domande. Non ti apri. Non mi parli di quello che ti turba. Questo è quello che si fa con un’amica e io per te evidentemente non lo sono», ha dedotto Roxanne e nelle sue parole c’era una verità che mi ha colpita.

«Aspetta…», ho continuato. Mi sono avvicinata a lei e ho bloccato la porta con la mano destra in modo che non potesse richiuderla.

La mia mano sinistra poi ha afferrato la sua.

Roxanne ne è rimasta scossa e, sebbene restasse passiva al contatto, non si è scostata.

Ho guidato la sua mano sulla mia guancia, continuando a coprirla con la mia.

I suoi grandi occhi blu erano spalancati, cercando di ricollegare la situazione.

La sua mano, quella stessa mano tesa verso di me che avevo cacciato, adesso era ritornata dove avrebbe dovuto essere.

«Mi dispiace», ho detto un’altra volta, sperando che alle sue orecchie la mia voce non suonasse così spezzata come sembrava a me.

La mia mano si è sollevata dalla sua che, invece, continuava ancora a sostare sulla mia guancia.

Rischia tutto. O la va o la spacca.

Ti prego, fa che funzioni. Fa che lei riesca a farmi sentire meglio.

Continuavo a ripetere quelle parole nella mia mente, come un disco rotto. Roxanne era l’ultimo appiglio che avevo.

Le mie membra avevano ormai iniziato a tremare.

Non ce la faccio più.

Il fuoco implacabile negli occhi di Roxanne si è affievolito e le sue labbra hanno vibrato simpateticamente quando le mie prime lacrime sono iniziate a sgorgare.

Allora la sua mano è scesa dalla mia guancia verso la mia nuca, attirandomi verso di sé in una stretta che io ho ricambiato goffamente.

Ti prego, fa che funzioni. Fa che funzioni.

Lo avvertivo nella sua stretta rigida. Lo sentivo nella sua voce stranamente atona che tentava di calmarmi. Lo percepivo nella distanza che era rimasta tra i nostri corpi durante l’abbraccio. Lo vedevo nello sguardo assente che evitava accuratamente di guardarmi negli occhi.

Avevo costretto Roxanne a consolarmi, spingendola a commuoversi per le mie lacrime fasulle. L’avevo convinta sfruttando la sua incapacità di lasciare qualcun altro da solo.

Fa che funzioni.

Ma quel nodo alla gola non se ne andava.

E’ stato allora che ho capito che si trattava del prezzo delle mie bugie da cui Roxanne non avrebbe mai potuto sollevarmi, perché ne era vittima allo stesso modo.

«Mi dispiace», ho ripetuto.

«Va bene. Andrà tutto bene.»

Non le ho creduto; stava mentendo.

 

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Capitolo 19
*** cap 19: Incompleta senza te ***


Lo so, sono un disastro immensamente in ritardo.
Spero che, nonostante tutto, qualcuno continui a seguire la storia, visto che in compenso ho preparato un capitolo lungo sul quale ho lavorato un sacco!
Nel frattempo, è passato anche un anno dalla prima pubblicazione di BisB e non posso dire di non sentirmi fiera di me per essere arrivata fino a questo punto della storia!
Come commemorazione, ho preparato persino un piccolo banner:



Detto questo, ringrazio tutti coloro che hanno recensito lo scorso capitolo e coloro che hanno aggiunto ultimamente la storia nei preferiti o nei seguiti. Spero possa piacervi anche il nuovo capitolo!
Alla prossima!

Piccole definizioni ricorrenti: "valedictorian": Il titolo di valedictorian (un'anglicizzazione dal latino vale dicere, dire addio) viene assegnato al miglior diplomato di ogni classe di maturandi. L'origine del nome è dovuto alla tradizione che il valedictorian è l'ultimo a parlare alla cerimonia di diploma.

"salutatorian": secondo diplomato, dopo il valedictorian, riceve il merito di introdurre il discorso finale con una breve premessa.

EDIT: ho corretto vari errori, adesso il capitolo è sicuramente più decente XD, scusate per l'inconveniente.

***

Ombreggiando delicatamente con un dito i tratti fatti con la grafite, Roxanne cercò di ricreare la morbidezza di quelle soffici piume esattamente come le ricordava. Con un semplice scatto del polso disegnò accuratamente il becco e un paio occhi neri e vispi, per poi concludere il piccolo schizzo accennando gli arti scheletrici che, nonostante il loro realismo, apparivano un po' fuori luogo, vista la pienezza e il vigore del resto del corpo.
Mentre disegnava il trespolo cilindrico attorno al quale si attorcigliavano le zampine del piccolo volatile, Roxanne sentì il suo cuore iniziare a battere forte.
Ecco arrivato il punto critico.
"Liberalo. Liberalo"
Ma non ci riuscì.
Quasi automaticamente, contro la sua stessa volontà, iniziò ad ingabbiare il canarino dietro delle sbarre ormai familiari.
L'ennesimo tentativo andato a vuoto.
Roxanne fissò nuovamente il ritratto accuratissimo dell'uccellino davanti a lei, e sentì l'angoscia e la frustrazione montarle dentro.
La sua vista era già offuscata a causa degli occhi inumiditi.
"Ho fallito ancora"
Gettò la matita che reggeva nella mano destra il più lontano possibile e percepì la sua punta rompersi, come se a fratturarsi, invece, fosse stata una parte del suo corpo.
Spezzata, frantumata, stanca, si accovacciò sul banco, respirando affannosamente.
La situazione non era cambiata poi molto d'allora.
Lei continuava ancora a ribellarsi per poter emergere da quella gabbia che aveva costruito con le sue stesse mani, ma i suoi occhi la incatenavano ancora ad una promessa che ormai non era più sicura di volere mantenere.

Un circolo vizioso dal quale non sarebbe mai riuscita a scappare.
Un fato che ancora oggi non era riuscita a spezzare.



15 giugno

Onde evitare alcun tipo di confusione, preferisco direttamente scrivere tutto ciò che è successo durante questa settimana, sperando di non scordare nulla nel frattempo.
Forse avrei fatto meglio ad aggiornare prima il diario, ma non ho avuto nemmeno un secondo da poter sprecare negli scorsi giorni.
La settimana precedente, senza contare gli eventi rocamboleschi con Nathan, è terminata con il mio sciocco tentativo di costringere Roxanne a perdonarmi.
Ho pianto per qualche minuto sulla sua spalla, fino a che, notando che la rigidità nel suo abbraccio non spariva, e stanca di versare lacrime inutili, l'ho lasciata andare, dicendo di dover tornare a casa.
Il mio tentativo di riappacificazione, come volevasi dimostrare, è stato totalmente inutile.
Sin dal giorno seguente a scuola, Roxanne ha iniziato ad evitarmi. Un sorriso nervoso e una sventolata di mano, prima di sparire via chissà dove.
Ovviamente non poteva prendermi in giro come faceva con le Gallinelle, le quali credevano ciecamente alle sue scuse affrettate per evitare di pranzare al nostro stesso tavolo.
Guardavo tutto questo siparietto patetico con un’espressione vuota e disinteressata. Se Roxanne temeva che l’avrei trattenuta in mia compagnia contro la sua volontà, poteva pure stare tranquilla. Non credevo ai suoi pretesti e agli impegni che elencava, è vero, ma al tempo stesso li accettavo impotentemente come le altre.
John, il bodyguard di mio padre, mi ha chiamata il giorno successivo, pronto ad aggiornarmi sullo sviluppo della situazione con Nathan.
Io ero esausta dal protrarsi di tutta quella faccenda, infastidita dal fatto che Roxanne avesse ormai deciso di evitarmi - senza ammetterlo direttamente - ma ho comunque accettato di incontrarlo.
Ci siamo incontrati davanti ad uno Starbucks in chiusura, venerdì sera.
«Katie! Tutto bene?», mi ha chiesto l’omone, pieno di buon umore.
Io ho annuito sorridendo e ho visto scintillare i suoi occhi colmi di ammirazione. Prevedibile.
«Allora, come è andata con lui?», ho chiesto, incapace di trattenermi. Era meglio arrivare subito al dunque.
Alla menzione di Nathan, il viso di John si è rapidamente incupito. Forse avrei dovuto tacere, ma d’altra parte, il motivo per cui ero lì riguardava proprio quell’infame personaggio.
«Bene, per quanto bene un pestaggio possa andare », ha commentato tetro e ho percepito nella sua voce anche un tono di rimprovero nei miei confronti.
«Oh…», ho sospirato, facendo finta di non essermene accorta, «E le foto…»
John si è diretto verso una panchina, poco distante dal nostro luogo di incontro, e io l’ho seguito di buon grado.
«Abbiamo perquisito tutta la casa e distrutto qualunque cosa che potesse contenere dati, immagini o quant’altro», ha spiegato John, pescando dalla tasca pettorale della sua camicia a mezze maniche un pacchetto di sigarette.
Poi me ne ha messa in mano una, senza che io gli avessi chiesto niente, e l’ha accesa assieme alla sua.
Giunto alla panchina, ci si è stravaccato sopra, mentre io continuavo a guardarlo titubante, a meno di un metro di distanza, con la sigaretta fumante in mano il più distante possibile da me.
Avrei potuto gettarla via senza altre cerimonie, ma non avrei voluto adirare un uomo capace di schiacciarmi la testa con una sola mano.
Anche se tutto questo fumo passivo potrebbe fare ingiallire i miei denti e…
«Quel ragazzo ce l’aveva chiaramente con te, Katie. Cosa hai fatto per farlo arrabbiare così tanto?», ha domandato, prima di aspirare un’intensa boccata di fumo.
La sua voce rimbombava possente, ma era tutto sommato tranquilla.
«Non ho fatto niente!», ho ribattuto io, incapace di mantenere un contegno simile al suo.
Ero stata aggredita, minacciata e perseguitata e adesso mi veniva attribuito persino il ruolo di colpevole in tutta questa faccenda?
«A me non sembra. Mentre gli stavamo mettendo in subbuglio la casa, il ragazzo ha detto alcune cose…»
Io ho deglutito, stranamente a disagio.
John stava guardando il cielo e mi era impossibile decifrare la sua espressione, in quanto potevo vedere solo il profilo delle sue spalle e della testa spuntare dallo schienale della panchina.
«E ha parlato di suo padre e di come tu hai rovinato la sua vita…», ha continuato John.
«Mentiva! Stava cercando solo una giustificazione per le sue malefatte!», ho ribattuto, cercando di riprendere in mano la situazione. Poco importa che fossi io l’unica a mentire, in realtà.
«Sicura?», ha domandato John, voltandosi appena verso la mia direzione per guardarmi in faccia.
Io ho annuito, dimostrandomi certa delle mie asserzioni.
«Bene. Allora potrò dire a tuo padre che si è presentato un inconveniente, ma ormai è stato sistemato completamente…»
«No!», ho urlato quasi. Il bodyguard sembrava stranito dalla mia reazione e io ho cercato subito di rimediare.
«Intendo dire che…dovrei vedere molto presto mio padre, la prossima settimana mi diplomerò e in quell’occasione avremmo modo di parlare personalmente. Voglio chiarire questa situazione con lui e basta, senza coinvolgere terze parti. Mi capisci?»
John è stato persuaso dalle mie parole e mi ha dato ragione, comprensivo. Io ho esultato internamente per la mia vittoria. Prendendo in mano tutta quella situazione direttamente nelle mie mani, avrei sicuramente impedito a mio padre di venirne a conoscenza.
«Bene», ha commentato l’uomo alzandosi, poi mi ha accarezzato brevemente la testa, «Se dovessi avere ancora bisogno di noi in futuro, non esitare a chiamarci.»
Io ho risposto affermativamente e, prima di allontanarsi, lui mi ha augurato di trascorrere una buona serata.
Ormai sola, mi sono sentita un po’ strana. Avevo l'impressione che un peso mi fosse stato tolto dalle spalle, e, al tempo stesso, fosse arrivato il momento di prendere coscienza di quello che il fardello conteneva realmente.
Buona serata. Quella non sarebbe stata una buona serata, anche a causa del mio stupido atteggiamento.
Ultimamente avevo rifiutato un bel po’ di nuovi ragazzi che mi avevano chiesto di uscire, perché mi sentivo stanca e, dopo quella conversazione, persino più abbattuta di prima.
Al contrario di quello che mi aveva detto Roxanne, quando aveva cercato di consolarmi, niente sarebbe andato bene.
Ed era solo colpa sua.
Ho alzato la mano contenente la sigaretta, ormai prossima a raggiungere il filtro, e l’ho levata al cielo.
Il fumo è stato trangugiato rapidamente dall’aria, come se questa ne fosse ghiotta, e non potesse fare a meno di inquinarsi sempre di più.
Per forza di cose, tutto si macchia e si sporca. E’ un processo naturale.
Anche le scuse, prima o poi, a causa del loro uso eccessivo, si macchiano di senso di colpa e insoddisfazione.
Sono una brava bugiarda, ma, nonostante avessi tentato di attribuire colpe a tutti gli altri, meno che alla diretta interessata, ero perfettamente conscia di quale fosse la mia posizione in merito.
Io posso continuare a mentire all’infinito, eppure questo stratagemma non funziona mai con me stessa. Vorrei fosse possibile, però.
Da venerdì in poi ho iniziato a riprendermi dai cinque rocamboleschi giorni che avevo passato: non c’era più nulla che non mi facesse dormire la notte e, seppure c’era ancora qualcosina che mi disturbava, non avevo veramente la forza di pensarci.
Credevo di avere ottenuto il massimo potere nelle mie mani, con una pistola e l’incredibile voglia di fare male, o addirittura almeno l’intenzione di uccidere davvero quella persona che aveva deciso di tormentarmi come proprio hobby personale, eppure adesso guardavo impotente Roxanne andare via, incapace di fare nulla in proposito.
E tutto sommato mi andava bene. Ero stanca e volevo solo trovare un equilibrio che mi permettesse di tornare la Kate di sempre, che mi consentisse di ammaliare gli altri con lo sguardo, evitando di fulminarli con sufficienz, scatenata dalla mia mancanza di interesse.
Ero annoiata dai miei conoscenti, da tutti i discorsi ormai già affrontati, e accecata solo dalla voglia di iniziare il college il più presto possibile. Non volevo scappare, solo accelerare i tempi di un risultato inevitabile.
Sabato, comunque, sono stata ad una festa improvvisata a casa di George. Mi ci sono trascinata con la forza, impietosita dallo stato in cui mi ero ridotta. Per tutto il tempo non mi sono nemmeno avvicinata alla pista da ballo, ma ho continuato semplicemente a bere ad oltranza.
Percepivo le chiacchiere dei ragazzi che mi si accalcavano intorno come un vero e proprio ronzio di zanzare, e ho continuato a mandar giù birra, champagne e cocktail vari, finché le loro stupide parole non sono state più distinguibili.
Volevo solo dormire…
Per il resto, ho un ricordo piuttosto vago e fumoso di come sono uscita dalla festa: ero in braccio a qualcuno che aveva degli arti alquanto robusti. Nella confusione, infatti, senza nemmeno realizzare ciò che mi stava accadendo, ho pizzicato gli avambracci del mio “salvatore” e mi sono ritratta spaventata, percependoli forti e tonici al tatto, nel momento della contrazione.
Poco dopo sono svenuta, suppongo, evitando a dir poco miracolosamente il coma etilico. Posso certamente affermare che questa sia stata la volta in cui più mi sono sbronzata in tutta la mia vita.
Lo so che non è una bella soddisfazione vantarsi di questo a soli diciotto anni, ma ritrovarmi viva e vegeta nel mio letto il giorno seguente è qualcosa di cui mi sono davvero stupita.
Avevo un ricordo vago di dita nella gola e vomito sul tappetino del bagno, ma quell’orrendo mal di testa bastava a spiegare cosa fosse successo durante il party.
Quella stessa mattina, però, una telefonata di Ashley ha risolto tutti i miei dubbi in proposito: a trascinarmi fuori dalla festa di George, ormai priva di sensi, era stato il suo bel rugbista.
Infatti, dopo avermi recuperato stravaccata su un divano, circondata da alcuni disperati che pensavano di avere una chance con me solo da ubriaca, lui e Ashley mi riavevano entrambi accompagnato fino alla soglia di casa. Nel frattempo, lungo il tragitto in auto, a loro detta, ero tornata miracolosamente semi-cosciente (anche se io continuo a non ricordare nulla)  o almeno abbastanza cosciente per entrare a casa e farmi strada fino alla mia stanza, evitando di crollare in soggiorno.
Ho chiesto scusa ad Ashley per lo spettacolo indecoroso, ma lei ha semplicemente espresso il suo genuino sollievo che tutto fosse passato e poi ha riattaccato.
Io ho scagliato il cordless dall’altra parte della stanza, sentendo una vampata di umiliazione salirmi dentro.
Cosa diamine avevo fatto?
Mi ero resa ridicola, allestendo uno spettacolo degno solo di Roxanne.
Roxanne…
Ho lanciato in aria un cuscino che mi sono trovata sottomano, come monito alla mia mente. Non dovevo pensare a lei. Non avrei dovuto più pensare a lei.
Ecco, così andava meglio.
Lunedì sono tornata a scuola, mantenendo il mento alto e procedendo spedita per i corridoi. Non riuscivo in alcun modo ad individuare esattamente chi fosse stato presente alla festa, ma dovevo in qualche modo far capire a tutti quanti che, nonostante quel momento di debolezza dovuto alla sbornia, ero in perfetta forma.
Sono riuscita bene o male a mantenere la mia recitazione a dei buoni livelli, ma per la stanchezza non mi era permesso fare di più.
Vedendomi così, le Gallinelle, nell’intervallo tra le lezioni, mi hanno chiesto se mi sentissi bene.
Diamine, allora dovevo essere stata davvero pessima nel fingere, se persino loro erano riuscite ad accorgersene!
Volevo sprofondare in un cratere e riemergere quando mi fossi sentita meglio, ma per quanto io tentassi di riposare, sembrava che la mia stanchezza non si estinguesse e, invece, aumentasse.
Alla terza ora, poi, Mr. Jonas mi ha detto che il Preside mi avrebbe aspettata nel suo ufficio per l’ora di pranzo, per darmi una comunicazione di rilevante importanza.
Guardando il mio sguardo allucinato, Mr. Jonas mi ha rassicurata subito.
«Tranquilla, Hudson, non è nulla di grave, anzi.»
Aveva uno strano sorrisetto sulle labbra che non prometteva niente di buono.
Nonostante tutto, però, come pattuito, all’ora di pranzo mi sono fatta strada verso l’ufficio del dirigente.
«Posso entrare?», ho domandato, tentando di sostituire la seccatura nel mio tono con un po’ di innocente timidezza.
«Oh, certo, signorina Hudson, prego, si accomodi pure», mi ha sorriso il Preside da sotto i suoi occhialini da lettura, facendo grandi gesti per indicare la sedia dove avrei dovuto prendere posto.
Mi sono seduta compostamente, lisciando con cura le pieghe della gonna dell’uniforme, in attesa che il Preside mi rendesse partecipe della ragione per cui ero stata convocata.
«Congratulazioni, signorina Hudson. Ho il piacere di comunicarle che è stata nominata valedictorian per quest’anno!»
Il suo sorriso serafico è stato quello che mi ha scioccata di più.
«C-cosa?», ho balbettato, incapace di trattenermi.
«La nostra è stata una decisione difficile, in quanto lei non è stata solo scelta in base alla sua media scolastica, ma anche per le sue qualità oratorie e la sua deliziosa presenza. Dopo una lunga decisione, che abbiamo rimandato a lungo, comunque, siamo stati tutti concordi nell’individuarla come prescelta per questo incarico.»
Ho sbattuto le palpebre, senza dire nulla, e lui si è sentito in dovere di continuare.
«Come concorrenti per il ruolo, c’erano altri studenti degni di lode come Tinette Seymour, Patrick Riggs e Roxanne Miller, ma abbiamo deciso di escludere la signorina Miller, che nonostante tutto era stata l’unica ad aver ottenuto il maggior profitto in così pochi mesi, proprio perché si è trasferita nell’ultima parte dell’anno scolastico e non le sarebbe stato possibile parlare nel suo discorso dei quattro anni che ha trascorso in un altro istituto. Mi capisce?»
Ho annuito meccanicamente; gli occhi sbarrati.
«Bene», il Preside si è compiaciuto della mia istantanea disponibilità, «Mi scuso ancora per il ritardo con cui le abbiamo comunicato questa notizia, ma confido in lei nel preparare entro la fine della settimana un discorso che possa renderci orgogliosi di averla scelta. Niente di troppo complicato, in ogni caso. Vogliamo un addio leggero e sereno. La prego di evitare qualche indesiderato stratagemma troppo alternativo, o a sua detta "originale", e un numero esagerato di battute di spirito. Si attenga ad un addio tradizionale e la invito a non dimenticare di nominare numerose volte la scuola e gli insegnanti.»
«Va bene», ho acconsentito, affondando le unghie nelle mie cosce, per placare la mia tempesta emozionale.
Entro la fine della settimana? Questo nonnetto è impazzito!
«Ora può andare, cara. Si goda quest’ultima settimana e si impegni a fondo per scrivere il suo discorso.»
«Sì, signore», ho risposto, precipitandomi fuori dall’ufficio.
Una volta fuori dalla porta, ho sentito l’ansia e il panico montarmi dentro. Venerdì ci sarebbe stata la cerimonia del diploma, il Preside mi aveva avvisato di lunedì, e pretendeva che io riuscissi a scrivere un discorso decente in soli quattro giorni? E come mi era saltato in mente di accettare?
Naturalmente non avrei permesso a nessuno di fregarmi il ruolo di valedictorian, dopo tutta la competizione dei mesi precedenti, ma in quel momento ero così stanca ed esausta che avrei volentieri buttato all’aria tutto il mio lavoro per un po’ di relax.
Ho continuato a vagare per i corridoi come un’anima in pena, cercando di pensare a qualcosa, qualsiasi idea che potesse agevolare la stesura del mio discorso, senza trovarne però nessuna.
Nonostante fossi distratta dal mio peregrinare fisico e mentale, non ho fallito nell’intercettare un rumore provenire da una classe dalla porta socchiusa.
Accostandomi all’uscio, ho visto qualcuno all’interno, accovacciato su un banco. La voluminosa chioma di capelli mogano sparsa a raggiera su delle spalle minute, poi,  non mi ha lasciato dubbi in merito all’identità della persona.
Ecco allora dove si nascondeva la signorinella all’ora di pranzo, quando le Gallinelle e io, più che per abitudine che per reale interesse, la cercavamo con lo sguardo tra i tavoli della mensa.
Mentre io continuavo ancora ad osservarla, Roxanne ha alzato nuovamente il capo e ha fissato un blocchetto di fogli aperti davanti a lei.
Non riuscivo a intercettare la sua espressione, per via dei capelli che le scendevano scompostamente sul volto, ma l’ho vista chiaramente strappare il foglio dal blocchetto che aveva dinanzi, per poi stringerlo nel suo pugno con un inaspettato vigore.
In modo ugualmente brusco si è alzata dal suo posto, e io mi sono ritratta allo stesso modo, curiosa di capire cosa esattamente stesse facendo.
Roxanne ha gettato il foglietto accartocciato nel cestino dell’immondizia e, per qualche secondo, l’ha fissato dall’alto, immobile.
Una volta ripresasi dalla sua trance, ha tentato di sistemarsi i capelli ondulati e la frangia alla bell’e meglio, e finalmente io sono riuscita a guardarla in faccia, anche se non vista da lei.
I suoi occhi erano rossi, ma tralasciando questo piccolo particolare, la sua espressione risultava impassibile.
Dopodiché, Roxanne è tornata verso il banco per sistemare le sue cose nella cartella e io, intuendo che molto presto sarebbe uscita dall’aula, ho deciso di nascondermi in un'altra classe vicina per non essere scoperta.
Preannunciati solo da un po’ di trambusto di sedie e banchi, i passi ritmati di Roxanne hanno iniziato a riecheggiare nel corridoio.
Mi sono affacciata dalla classe in cui mi ero nascosta, e ho visto Roxanne percorrere lentamente il suo percorso, con la cartella sottobraccio e la lunga chioma svolazzante, a causa del vento proveniente dalle finestre.
Sono restata lì a fissarla per un po’, guardandola allontanarsi, e i pensieri più svariati hanno attraversato la mia mente.
All’inizio sentivo rancore. Il Preside mi aveva detto che avevano preferito me a Roxanne, non per i meriti scolastici, ma perché lei si era trasferita da troppo poco tempo per essere in grado di scrivere un discorso che ritraesse davvero lo spirito di questa scuola.
Non potevo fare a meno di invidiarla per i meriti che aveva ottenuto in un così breve lasso temporale, eppure, nel contempo, sentivo dentro di me una profonda nostalgia nel guardarla andare via così.
Successivamente ho avvertito rabbia. La mia stanchezza, il mio essere esausta, era solo un risultato del suo freddo comportamento nei miei confronti.
Lei mi serviva e proprio per questo non avrebbe dovuto allontanarsi da me. La sua presenza mi era necessaria come deterrente per i miei problemi; non poteva da un giorno all’altro negarmi il suo effetto benefico e lasciarmi inquieta e smarrita come uno spirito errante in cerca del suo riposo.
Avrei voluto gridare: “Aspetta! Fermati!”, anche se ero perfettamente consapevole che ciò non sarebbe servito poi a molto. Roxanne si sarebbe voltata verso di me, avrebbe finto un sorriso, avrebbe agitato ancora una volta la sua mano in un saluto, e poi sarebbe corsa via, con l’allegro e spensierato scalpiccio di una bambina, mentre invece pensava di essere Cappuccetto Rosso in fuga dal lupo cattivo.
Quando la Miller è totalmente scomparsa dalla mia visuale, ho deciso di entrare nella classe che lei aveva appena lasciato.
Schifata dal gesto che stavo per compiere, ho tentato di recuperare il foglietto che Roxanne aveva appena buttato, per vedere cosa esattamente ci fosse scritto.
Promettendo a me stessa che avrei disinfettato le mie mani appena fosse stato possibile, ho afferrato dal cestino la pallina cartacea e ho tentato di distenderla il più possibile.
Con sorpresa, ho visto che sopra non v’era scritto assolutamente niente, ma c’era disegnato un canarino sorprendentemente realistico, dentro una gabbia dalle sbarre molto vicine tra di loro.
Accanto al cestino ho trovato a terra una matita dalla punta spezzata, che molto probabilmente Roxanne doveva aver dimenticato lì.
Era stata lei a disegnarlo? Tutti gli indizi suggerivano di sì, ma perché, allora, gettare
con tanta furia un così bel disegno tra gli altri rifiuti?
Non capivo dove Roxanne potesse aver sbagliato a disegnare, se questo era davvero il motivo che l’aveva spinta a sbarazzarsi del foglio, visto che più mi sforzavo di guardare l’immagine, più ne rimanevo completamente esterrefatta.
Era solo un uccellino, è vero, ma era la cosa più vera, più viva, che avessi mai visto disegnata da Roxanne.
Ricordavo ancora gli schizzi che un paio di mesi prima avevo visto nel suo album da disegno: tutti, per quanto fatti bene, possedevano tratteggi molto meno incisivi rispetto a questo, e nessun umano, tra le figure che aveva precedentemente realizzato, aveva quegli occhi penetranti.
Nessuno dei ritratti, né quello di Madison, né quello abbozzato di Liam, riusciva a scavare nell’anima di chi lo guardava come questo piccolo uccellino, che con le sue pupille nere e lucide sembrava sul serio capace di parlare.
Il canarino sofferente guardava dritto lo spettatore da dietro quelle sbarre, come un condannato alla prigionia eterna.
“Liberami”, sembrava dire.
Ho lasciato andare di scatto il foglietto stropicciato, come fulminata da quella realizzazione, e questo è volato lentamente verso il pavimento.
Il canarino continuava a fissarmi anche da laggiù, insistentemente, trasmettendomi la stessa inquietudine.
Stanca di perdere altro tempo così, ho deciso di tagliar corto. Mi sono chinata per raccogliere il disegno e dopo averlo piegato in quattro l’ho infilato in tasca, senza nemmeno pensarci due volte. Lì non avrebbe potuto più darmi alcun fastidio.
Successivamente sono uscita di gran carriera dall’aula, decisa a trovare le Gallinelle, ovviamente dopo aver igienizzato correttamente le mie mani.
Ritornata in mensa, le ho viste alzarsi dal tavolo, e allo stesso momento anche loro mi hanno individuato tra la folla, raggiungendomi immediatamente.
«Cosa voleva il Preside?», ha chiesto Nancy, seguita immediatamente dalle altre, che erano altrettanto curiose di conoscere il motivo della mia convocazione.
Io ho pensato che, dato che il momento lo consentiva, piuttosto che continuare ad auto-commiserarmi, potevo finalmente godermi il privilegio di essere lodata e ammirata, anche se semplicemente da persone del loro livello.
«Mi ha detto che sarò la valedictorian di quest’anno», ho annunciato.
Come di protocollo, le Gallinelle sono scoppiate in una serie di gridolini che mi hanno spaccato i timpani e hanno contribuito a farmi girare la testa.
Probabilmente avrei fatto meglio a tacere. I complimenti non mi facevano più lo stesso effetto di sempre.
Per di più, c’era un pensiero nel retro della mia mente che mi rendeva piuttosto a disagio: nell’ora successiva avrei sicuramente incontrato Roxanne durante la lezione spagnolo. Cosa avrei dovuto fare? Continuare ad ignorarla come lei faceva con me, oppure tentare di parlarle? Sarei riuscita a soffocare la mia curiosità e ad ignorare l’episodio a cui avevo appena assistito?
Mi era sembrata piuttosto agitata, d’altronde, quando avevo spiato i suoi movimenti poco prima.
Quella stanchezza che non riuscivo a scrollarmi di dosso, per il resto, non faceva altro che peggiorare le cose. E il discorso del diploma? No, non me n’ero affatto dimenticata.
Trascinandomi come un automa a lezione, ho deciso di smettere di assillarmi per qualche ora, almeno fino al suono dell’ultima campanella. Non mi avrebbe giovato, inoltre, non stare attenta alle ultime lezioni, rischiando di compromettere in questo modo la mia fresca nomina a valedictorian. A casa, in seguito, sarei stata libera di concentrarmi in tutta tranquillità.
Appena entrata in aula, Gutierez mi ha subito intercettata e prendendomi amichevolmente la mano mi ha detto: «Mi raccomando, signorina Hudson, non ci deluda!»
Come se la pressione sulle mie spalle non fosse già abbastanza e mi mancasse persino quella di un viscido professore mezzo ispanico!
Rabbrividendo involontariamente, mi sono seduta al mio solito posto e dalla mia posizione ho scansionato l’intera classe in cerca di Roxanne.
La campanella era ormai già suonata, i banchi erano tutti occupati ad eccezione del suo, e ciò mi spingeva a credere che probabilmente avrebbe saltato la lezione.
Non era affatto una cosa da lei. Per quanto potesse arrivare in ritardo, Roxanne si curava di non mancare mai.
Ma non potevo permettermi di aggiungere anche lei ai miei grattacapi.
Dovevo fare il possibile per concentrarmi solo su di me e focalizzare bene gli obiettivi che mi ero promessa di raggiungere in quel tempo così ristretto.
Ho deciso di prestare la massima attenzione alla lezione, quindi. Mettendo da parte tutti quei pensieri, però, non ero altro che un guscio vuoto dentro il quale le parole del professore rimbombavano, lasciando dietro di sé solo la propria fioca eco.
Al termine delle lezioni ho chiesto a Rita, l’unica tra le Gallinelle che non fosse stata bocciata all’esame della patente per più di tre volte, di accompagnarmi a casa con la sua auto il più presto possibile. Non che mi fidassi ciecamente delle sue capacità automobilistiche, certo, ma era meglio che aspettare per dieci minuti che il taxi mi raggiungesse e mi portasse a casa. Non avevo nemmeno un secondo da perdere.
Giunta di fronte alla mia villa, ho suonato ripetutamente il campanello, perché mi aprissero istantaneamente, e poi ho corso per tutto il giardino, ringraziando fortunatamente di indossare i comodi mocassini dell’uniforme al posto dei tacchi.
Sfortunatamente il caldo, associato all’affanno della mia corsa quasi disperata, mi ha resa grondante di sudore, perciò sono stata costretta a farmi una doccia e a sprecare ancora più tempo di quello che avevo previsto.
In più, a causa del mio incontro con il Preside e del mio scontro con Roxanne, avevo totalmente saltato il pranzo ed
ormai erano passate più di dodici ore dall’ultima volta che avevo addentato qualcosa.
Perciò, per completare l’opera, sono stata costretta a tornare in cucina e chiedere a Marissa di prepararmi qualcosa.
Mia madre, in quel modo, disgraziatamente per me, ha potuto intercettarmi prima che tornassi a rinchiudermi in camera mia.
«Kate, tesoro, che t’è successo?»
«Niente, mamma», ho risposto scocciata, sentendo le mie gambe fremere per l’impazienza, «Ho bisogno di lavorare sodo questo pomeriggio, perciò non voglio essere disturbata.»
Mia madre mi ha fissato in un modo particolare, come se fosse stata in parte ferita dalle mie parole, anche senza darlo a vedere nella sua solita maniera melodrammatica. Probabilmente aveva intuito che fossi seria.
«Va bene. Ma è successo qualcosa?», ha domandato di nuovo.
Beh, lei è pur sempre mia madre. Avrei dovuto dirglielo, no?
Pur temendo una reazione eccessivamente entusiasta, le ho spiegato il motivo, più per dovere, che per reale voglia di comunicarle la novità.
«Sono stata nominata valedictorian», ho risposto. Per me, ormai, quella era diventata una vecchia notizia che aveva perso tutto il suo interesse iniziale.
In ogni caso, però, ho assaporato a pieno le sue parole di lode. Una persona che sa di valere, d’altronde, è perfettamente conscia di meritare qualsiasi elogio che gli venga attribuito.
Ma mia madre, ovviamente, non ha deluso affatto le mie aspettative in quanto ad entusiasmo.
Si è messa letteralmente a saltellare per la gioia.
«Oh mio dio! E me lo dici solo ora? Dobbiamo preparare qualcosa per l’occasione! Dovrai leggere un discorso alla cerimonia, è vero? Sono così contenta!», ha detto applaudendo le mani, come se non le interessasse nemmeno ricevere una risposta a quelle numerose domande.
«Dobbiamo avvisare anche tuo padre», ha aggiunto dopo un po’, perdendo gradatamente la vitalità precedente.
Io, d’altro canto, a quella prospettiva mi sono più animata.
«Sicura che non sia impegnato?», ho chiesto. Senz’altro potevo usare la sua rara presenza come motivazione per dare del mio meglio nella scrittura del discorso.
Mia madre ha annuito, distrattamente, iniziando a guardarsi intorno.
«In ogni caso, farà meglio ad essere presente quando sua figlia si diplomerà», ha detto, allontanandosi verso il corridoio.
Marissa è spuntata dalla cucina poco dopo, distraendomi dallo studio del particolare comportamento di mia madre, con in mano un vassoio di tramezzini. Ringraziandola a sforzo, ho deciso di consumare il pasto in camera mia, per poter iniziare lavoro il più presto possibile.
Mezz’ora dopo, nonostante la precedente determinazione, fissavo immobile il foglio immacolato davanti a me, con la mia penna preferita in mano (una stilografica dall’inchiostro blu) e la testa prosciugata da qualsiasi idea.
Non avevo alcuno spunto per incominciare, ignoravo cosa avrei dovuto scrivere, di quale argomento parlare, quali tematiche affrontare.
Probabilmente, se non avessi sprecato il mio tempo interessandomi della vita sessuale di quattro donne mature con Sex and the City, e, al suo posto, avessi guardato uno dei soliti melodrammatici telefilm adolescenziali, in quell’istante non mi sarei ritrovata ad avere lo stesso problema. Se l’avessi fatto davvero, avrei avuto almeno qualche spunto in più per la creazione del mio discorso, visto che tutti gli adolescenti prima o poi si diplomano e, in tali occasioni, di solito gli episodi sono totalmente focalizzati sulla cerimonia.
Ma, possibilità mancate a parte, cos'altro mi restava da fare?
Senza sentirmi troppo in colpa per quello che stavo per fare, sono andata a prendere il mio portatile e l’ho acceso, connettendomi immediatamente ad internet.
Dopo aver digitato le parole chiave su Google, mi sono messa alla ricerca di alcuni esempi di discorsi per il diploma, da cui avrei innocentemente preso spunto.
Perché ridurmi ad uno straccio, dato il minimo tempo a disposizione, quando potevo trovare un discorsetto già bello e pronto da usare?
Sarebbe stata anche la mia personale ripicca contro il Preside. Quel baffone, infatti, aveva osato sminuire le mie capacità, rendendo esplicito il fatto che io non eccellevo sugli altri candidati per i miei meriti, ma per il mio bel faccino. Non che un complimento del genere, seppur estremamente elusivo, mi dispiacesse, solo che non potevo ignorare il fatto che al suo interno vi fosse implicato allo stesso tempo un chiaro insulto alle mie capacità intellettuali.
Sfortunatamente, la mia ricerca non mi ha portato a trovare un discorso integro da poter usare, ma solo una serie di consigli per la stesura, di cui ho comunque preso nota per precauzione.
Senza arrendermi, ho cercato alcuni video di cerimonie degli anni passati. Alcuni ritraevano l’intera cerimonia e io, nonostante i sonori sbadigli, ho deciso di sorbirmela interamente, pur di riuscire a vedere la parte che mi interessava.
Purtroppo non sono riuscita a continuare la mia visione, dato che, non appena il tizio che stava parlando è scoppiato a piangere - per la commozione probabilmente -, io ho sentito subito l’impulso di arrestare immediatamente il video.
Il Preside aveva detto di volere una cosa piuttosto tradizionale, nessun tipo di frivolezza né di originalità innecessaria, ma, se essere tradizionali significava piangere, facendo intendere al pubblico che mi importasse qualcosa della fine della scuola, io avrei notevolmente preferito non attenermi ai comportamenti usuali.
Sono capace di fingere un pianto, è vero, ma dopo aver fallito nel costringere Roxanne a perdonarmi, visti i risultati disastrosi, avevo giurato a me stessa di non provare mai più a fare una cosa del genere.
Per non parlare del fatto che, se l’avessi fatto davvero, non una sola persona, ma una folla di persone avrebbe assistito al mio spettacolino pietoso. E avrei dovuto portarmi persino uno struccante per rimediare alle tracce di mascara colato.
No, no, no. Assolutamente no. Era una situazione decisamente poco pratica.
Ho cliccato su un altro video allora. Stavolta, ho cercato di saltare tutta la ripresa della cerimonia, per arrivare immediatamente al discorso finale.
Speravo che questa volta si sarebbe rivelato meno patetico. Veder colare del muco dal naso del precedente frignone mi aveva disgustata abbastanza.
Il nuovo discorso, d'altra parte, era tutto quello che il mio Preside avrebbe potuto definire “originale” e pieno di “stramberie”.
Il pubblico rideva ad ogni battuta del valedictorian, che avveniva con una frequenza di tre volte al minuto, e, sebbene apprezzassi anche io il suo lavoro per certi versi, non vedevo in lui alcuna traccia della serietà del ruolo che gli era stato affidato.
Più che essere un vero valedictorian, a me sembrava semplicemente un comico da strapazzo, in grado di fare ironia persino sulla gatta del custode della sua scuola.
Inoltre, io non sarei mai riuscita ad identificarmi in un ruolo del genere.
, so intrattenere la folla, , attiro su di me molta attenzione, ma non mi riesce proprio naturale sparare una serie di battute a raffica. Non si addice affatto all’immagine posata ed elegante che voglio far trasparire da me.
Un’altra persona sarebbe stata molto più adatta per tale compito. Il suo sorriso e il caldo colore dei suoi capelli, assieme alla stravaganza dei suoi aneddoti, avrebbero di certo colpito il pubblico sin dal primo istante.
Sì, Roxanne sarebbe andata bene per il ruolo di giullare, io no.
Avrei dovuto iniziare a pensare sul serio a ciò che più si adattava a me, non a lei.
Ma c’era altro da aspettarsi? Intendo, oltre ad un coro di piagnucolosi fringuelli nostalgici, e ad un gruppo di burloni privi di qualsiasi credibilità, non esisteva una via di mezzo più salutare?
Ho cliccato e cliccato. Ho chiuso finestre di internet febbrilmente, per riaprirne altre allo stesso ritmo esagitato. E il tempo scorreva impietoso.
L’intero pomeriggio era ormai passato, lasciando spazio alla sera, e il mio foglio, allo stesso modo della mia mente, continuava a restare vuoto, a parte qualche scribacchio sul bordo superiore.
Avevo già perso un’intera giornata delle sole quattro che restavano. Merda.
Copiare andava bene, okay, ma nessuno di tutti quei discorsi andava bene. Nessuna di quelle parole era degna di essere pronunciata da me, nessuna di quelle storie era la mia, nessuna di quelle emozioni poteva appartenermi.
Ciò voleva dire che era rimasta solo un’ultima soluzione che potesse aggradarmi: scrivere personalmente il discorso.
Solo questo mi avrebbe soddisfatta. Non riuscivo ad accettare nella mia bocca le parole di un altro, per quanto, in fondo, la faccenda in sé per sé non mi era apparsa così fastidiosa all’inizio.
Ma non riuscivo a smettere di pensare che io avrei potuto fare di meglio, che io sarei stata più seria, che io avrei usato un’altra espressione, che io non avrei fatto quegli orrendi errori, che se avessi scritto a modo mio un discorso del genere, nelle mie mani sarebbe stato ben lontano dalla mediocrità che gli apparteneva.
Il cellulare, nello stesso momento in cui giungevo ad una tale realizzazione, è squillato. Io sono scattata a recuperarlo, rovistando nella tasca dell’uniforme, facendo cadere a terra durante quest’operazione anche un pezzetto di carta ripiegato.
Era un messaggio: Nick voleva rivedermi. Io ho fatto subito per cancellare il messaggio, quando all’improvviso mi sono resa conto di una cosa.
Perché stavo rifiutando l’offerta di una cena fuori?
Perché non mi andava.
E a cosa era dovuta la mia mancanza di entusiasmo?
Non poteva di certo trattarsi solo del discorso. Avevo già deciso che l’avrei continuato il giorno seguente. Mancava poco alla cerimonia, ma ero comunque troppo esausta per spremere ulteriormente le mie meningi.
E…allora?
Conoscevo la risposta. La conoscevo eccome. E questa era la stessa risposta al mio inspiegabile spossamento e alla sbronza esagerata del sabato precedente.
La risposta a tutto era solo una. O meglio, solo un nome, alla cui menzione i miei pugni si stringevano fermamente e un senso di rancore profondo iniziava a solleticare le mie viscere.
Non riuscivo ad andare avanti per colpa sua. Mi stavo riducendo ad un relitto a causa sua.
Ho stretto il cellulare nel mio palmo, prima di cancellare la mia risposta negativa a Nick e sostituirla immediatamente con un: “Va bene. Quando passi a prendermi?”.
Poi mi sono fiondata a prepararmi.
Quando, un’ora dopo, lui stava annusando il profumo del mio collo, io ho rilasciato un sospiro di sollievo. Era calmante sapere già come sarebbero andate a finire le cose. Avevo nuovamente il controllo.
E avrei anche impedito che lei mi riducesse peggio di così.
Il martedì a scuola è passato allo stesso modo del giorno precedente. Fortunatamente, però, non mi sono state recapitate altre notizie sconvolgenti e il mio sguardo dirottava automaticamente il suo focus, se per sbaglio veniva in contatto con una voluminosa capigliatura mogano.
Le Gallinelle, d’altro canto, erano diventate più rumorose a proposito della mia nomina a valedictorian e continuavano ad assillarmi sul discorso che, a mia detta, era già ben avviato.
«Di cosa parlerai?», ha domandato Sally, accendendosi di entusiasmo.
Io ho ingoiato il boccone di cotoletta che avevo già infilzato con la forchetta, prima di risponderle: «Beh, della scuola ovvio, e cose così…»
La mia risposta vaga le ha confuse.
Se le Gallinelle in tutti questi anni hanno compreso una sola cosa di me, è che di solito vado sempre al punto. I giri di parole stancano me per prima.
«Cose così?», ha replicato Ashley, confusa.
«Uhm…è una sorpresa», mi sono affrettata a rispondere.
La carta della sorpresa, per mia fortuna, le ha vinte totalmente.
Nancy ha iniziato a protestare: «Dai! Sono curiosa, diccelo!»
«No! Una sorpresa deve rimanere segreta fino al momento giusto!», è intervenuta Rita.
«Ma cosa stai dicendo!»
«Non m’importa, voglio sapere di cosa si tratta!»
«Ma la sorpresa sarà per noi?»
«Non lo ha specificato!»
«E per chi vuoi che sia, stupida!»
«Ehi! Stupida a chi?!»
Ridendo sotto i baffi, mi sono limitata ad osservarle discutere su quell’ipotetica sorpresa, senza aver alcun bisogno di intervenire per mantenere viva la conversazione.
Tornata a casa, mia madre mi ha informato di non essere riuscita ancora a contattare mio padre. E’ più difficile di quanto possa sembrare, per un ambasciatore, lasciare prima del tempo la dimora del Presidente, anche se per questioni familiari di massima urgenza.
Ho tentato di non essere troppo delusa da questa comunicazione, ma mia madre se ne è accorta lo stesso e mi ha stretta in un abbraccio stritolatore.
Io ho sospirato, scocciata, accettandolo doverosamente, ma tentando allo stesso tempo di allentare la sua presa il più possibile.
Lei mi ha accarezzato i capelli e sollevando il mento per poggiarlo sulla mia spalla, mi ha sussurrato nell’orecchio: «Mi dispiace, non volevo che deludesse anche te.»
Mio padre? Deludere me? Non avevo mai pensato che una tale opzione potesse esistere prima.
Siamo rimaste così per un altro po’. Io non sapevo esattamente cosa rispondere e lei non aveva altro da dire.
«Mamma…devo andare a scrivere il discorso per il diploma…», ho mormorato un po’ a disagio, anche se era la verità in fondo. Le effusioni si stravano trascinando un po’ troppo per le lunghe.
«Va bene.»
Mi ha lasciata andare e i suoi occhi mi sono sembrati lucidi per un istante, prima che lei si voltasse e tornasse in cucina, permettendomi di salire al piano superiore.
Ho avvertito ancora la stranezza del suo nuovo comportamento e, ad essere sincera, in un primo momento mi ha fatto persino pena.
Ma non dipende da lei questa situazione? Non dipende da lei la sua delusione verso mio padre? Perché mai dovrei provarla io? Perché dovrebbe convincermi a pensarla nel suo stesso modo? Dovrei avere pena per gli sbagli della sua vita? Dovrei compatirla per essersi dedicata ad un matrimonio che la rende sola, ad un marito lontano e ad una figlia che, suo malgrado, non riesce a comprendere il senso di questa tortura auto-imposta?
E comunque non era necessario che capissi una cosa del genere al momento. L’unica cosa fondamentale era scrivere il discorso.
Tornata in camera mia, sono quasi scivolata, mettendo il piede su una mattonella apparentemente troppo liscia. Ho evitato la caduta, appoggiandomi ad un’anta della libreria e poi ho guardato giù verso i miei piedi.
Sotto le mie pantofole c’era un pezzo di carta ripiegato, decorato da un’orma ben evidente che chiaramente mi apparteneva.
L’ho raccolto e, nello stesso momento in cui l’ho fatto, ho ricordato di cosa si trattasse.
Mi sono affrettata ad aprire subito le quattro parti in cui era piegato il foglio, e mi sono subito ritrovata faccia a faccia con l’ipnotico canarino disegnato da Roxanne.
Conoscendo già l’effetto che mi provocava fissare le sue pupille troppo a lungo, ho evitato di guardarlo troppo profondamente.
Ricordavo di averlo recuperato dal cestino in cui la Miller l’aveva gettato, ma che ci faceva sul pavimento della mia stanza? Non l’avevo lasciato nella tasca dell’uniforme?
Oh poco male. Probabilmente doveva essere scivolato.
L’ho riposto sulla scrivania, ripiegandolo di nuovo e ho riacceso il computer per cercare di trovare altri spunti che mi potessero aiutare. Alcuni discorsi da cui avrei voluto prendere spunto si incentravano su storie troppo personali, altri parlavano in generale di esperienze scolastiche, altri parlavano di ideali introdotti dai significati di alcune metafore, da immagini di vita…
Un attimo…immagini?
Come colta da un’idea, ho dispiegato il foglietto velocemente e mi sono trovata di nuovo davanti al canarino ingabbiato.
Liberami.
Senza nemmeno sapere con che logica avessi deciso di procedere, mi sono trovata a digitare “ritratto di un uccellino” come parole chiave per il motore di ricerca.
Ed è stato lì che ho trovato una poesia molto particolare: “Per fare il ritratto di un ucello” di Prévert.
Mentre leggevo quei versi, nella mia mente è nato ciò che cercavo. La storia che avrei voluto. Le parole con cui l’avrei scritta. La rabbia taciuta, il rimorso crescente, il bisogno soffocante, la speranza timorosa, il futuro stimolante.
Era tutto lì.
Ho afferrato la stilografica e ne ho quasi rotto la punta a causa della fretta con cui ho trascritto tutto per non dimenticare nulla. Dopo un po’, ho preferito ritornare all’uso della comune penna a stilo, non altrettanto preziosa e raffinata, ma al contempo capace di sopportare la violenza dei miei impeti di scrittura.
Ho letteralmente mandato al diavolo Nick, quando lui si è fatto sentire poco dopo, e ho continuato imperterrita la mia opera, cancellando, correggendo, scrivendo, modificando, aggiungendo pezzetti fino all’una passata. A quell'ora sono crollata e ho deciso che se non fossi andata a letto immediatamente, il giorno dopo i miei occhi sarebbero stati contornati da due borse colossali.
Ritrovata la mia iniziativa, mercoledì è stato di sicuro un giorno più piacevole dei due precedenti, sebbene la mia mente fosse offuscata da spunti e da altro materiale che mi sarebbe piaciuto aggiungere, ma non sapevo se poteva rientrare nel contesto del discorso.
Intorno a me le persone si facevano sempre più nostalgiche, la distribuzione degli Annuari Scolastici era ormai già iniziata e, tra commenti eccitati e depressi per qualche foto venuta male, tutti sembravano ansiosi a proposito della cerimonia del diploma.
Ho incontrato per giunta Roxanne nei corridoi affollati e a lezione, ma sarebbe stato praticamente impossibile parlarle, persino se avessi voluto realmente farlo.
L’unico pensiero che impediva alle Gallinelle di sciogliersi in un mare di lacrime, invece, era la fantomatica sorpresa - che erano certe avrei dedicato loro - durante il mio discorso da valedictorian.
Alla fine delle lezioni, sono potuta finalmente tornare a casa e solo lì ho avuto l’occasione di tranquillizzarmi, lasciando che le idee accumulate durante la giornata potessero nuovamente esplodere, come il giorno seguente. Ho trascritto nuovamente tutto di getto, senza prestare molta attenzione alla coerenza lessicale, particolare che avrei sistemato il giorno seguente.
Il giovedì, ultimo giorno di scuola prima della cerimonia, è passato tra abbracci, lacrime (non mie, chiaro), saluti da parte dei professori, auguri vari da altri studenti che non avevo mai visto in vita mia, lagne delle Gallinelle, Roxanne che è venuta a salutarle, nel momento stesso in cui io mi sono dovuta casualmente allontanare, strette di mano, ringraziamenti, bacini, bacetti, baciotti, bacioni, ultimi “in bocca al lupo” da coloro che sapevano della mia nomina a valedictorian, ultime frecciatine dagli invidiosi, l’ultima stilla di rancore da parte di Thelma, ultimi patetici approcci dei vecchi ammiratori, ultima (per fortuna) corsa spericolata per evitare la gratitudine di Patty Mason, Jason costantemente presente al limite del mio campo visivo, e poi Roxanne Miller e un suo mezzo sguardo.
Un mezzo sguardo che non sono riuscita ad impedirmi di restituire. Un mezzo sguardo che era un po’ mi sento in colpa, un po’ mi dispiace, un po’ non vorrei farlo ma devo, un po’ arrivederci, un po’ spero che in fondo tu stia bene.
Ma solo un po’, perché tutte quelle parole taciute erano state divise esattamente a metà tra me e lei.
Voltandole le spalle per prima, ho stretto i pugni ripensando alle parole che da giorni tentavo di scrivere e, per la prima volta, ho dubitato dell’efficacia delle mie stesse idee.
No. Andrà tutto bene.

Giusto. Era praticamente impossibile accettare che quel lavoro per cui avevo tanto faticato risultasse infine inutile. Dovevo smetterla con le paranoie.
Giovedì pomeriggio ho sigillato la mia camera a mo' di bunker e ho corretto fino all’ultimo momento la bozza che avevo scritto nei giorni precedenti.
Ne ero piuttosto soddisfatta, nonostante tutto. Chiaramente nella mia testa quell’ammasso di parole aveva molto più senso, ma allo stesso tempo ero riuscita ad estrapolare un numero consistente di concetti di cui avrei voluto parlare.
Ci ero riuscita, finalmente!
Venerdì mattina, la giornata sembrava prospettarsi già come una delle più calde di tutta la stagione, perciò avevo deciso di non indossare la toga, prima di arrivare a scuola.
Per un capriccio di pura vanità, volevo poter sfoggiare il più possibile il mio abito di seta a vita alta, drappeggiato, il cui colore sfumava leggermente dal delicato rosa salmone della parte superiore fino ad un colore più scuro nella parte inferiore della gonna. Ai piedi, invece, avevo abbinato al vestito un paio di Louboutin peep toe neri. Nella mano destra, invece, tenevo in mano un
chiaro cappello a cloche della Dolce e Gabbana, unico tocco soft del mio abbigliamento, decorato da un bel nastro e da un fiocchetto laterale. Mia madre, vestita di tutto punto sui toni del bianco, mi seguiva eccitata, portando con sé la cartellina contenente il mio discorso.
Giunte al campo da calcio dove si sarebbe svolta la cerimonia, dopo un breve tragitto in taxi, mia madre mi ha baciata sui capelli, che fortunatamente avevo lasciato semplicemente sciolti e arricciati nella parte inferiore, e si è andata a sedere assieme agli altri genitori. Le ho chiesto di mantenere per me la cloche, in modo da poterla sfoggiare in seguito.
Poi ho indossato di malavoglia la mia toga azzurra, lasciandola però aperta sul davanti, e ho raggiunto lo spazio di raccolta dei professori e dei diplomandi.
Malgrado l’ansia che percepivo scorrere sin nei polpastrelli delle mie mani, mi sono imposta di comportarmi tranquillamente. Ho fatto un respiro ampio prima di rituffarmi in un altro mare di abbracci come il giorno precedente, solo che stavolta i gesti d’affetto si erano fatti più forti, proprio perché la sensazione che tutto fosse giunto al termine aveva ormai raggiunto il suo culmine.
Le Gallinelle hanno insistito perché prendessi posto accanto a loro, a cerimonia iniziata, ma io ho dovuto rifiutare, perché, in quanto valedictorian, il mio posto sarebbe stato in una delle prime file, accanto al salutatorian, il ragazzo che avrebbe introdotto il mio discorso con una breve premessa.
Le Gallinelle hanno protestato e sono scoppiate in una serie piuttosto noiosa di pianti e lagne, che io ho tentato immediatamente di arginare, promettendo loro che avremmo passato sicuramente del tempo assieme dopo la cerimonia.
Ma fortunatamente, a distrarle subito dalla mia scomparsa, ci ha pensato la loro squadra di rugby, raccoltasi in massa per salutarle. In questo modo, sono riuscita a dileguarmi senza troppi problemi.
Sfuggita dalla morsa asfissiante delle Gallinelle, ho preferito evitare altri abbracci e ultimi saluti, dedicandomi solo a scorrazzare un po’ per il campo erboso. I miei tacchi affondavano nettamente nel terreno, bucandolo con precisione, e la mia toga si gonfiava sulle mie spalle a causa del vento, donandomi quasi un incedere spettrale.
Nel mio vagare, ho assistito a numerose scene di affetto famigliare - talvolta troppo patetiche perché potessi sopportarle interamente - , strette di mano vigorose tra i professori e i genitori dei neo diplomandi, gesti di incoraggiamento, brevi cenni di capo da coloro che mi riconoscevano, ma non avevano il tempo di fermarmi per scambiare quattro chiacchiere, finchè il mio sguardo è stato catturato da una scenetta famigliare un po’ diversa dalle altre.
Non c’era nulla di strano, ad essere sinceri, nella scena in sé, ma ciò che mi aveva colpita di più erano stati i suoi protagonisti. L’inconfondibile Madison, dalla capigliatura nera e dal quasi onnipresente sorriso sornione, torreggiava tra sua madre e sua sorella Roxanne, allo stesso modo inconfondibile, e sembrava essere quasi intenta a incoraggiare le due a scambiarsi ancora un altro abbraccio.
Mi sono sentita congelare sul posto quando ho realizzato che, se se la madre di Roxanne l’aveva raggiunta a Milwaukee, con molta probabilità anche il suo compagno aveva fatto lo stesso.
Guardandomi intorno, però, non sono riuscita ad individuare nessuno che assomigliasse al trentenne occhialuto, che tanto aveva segnato il passato di Roxanne.
La Miller, d’altra parte, sorrideva liberamente a sua madre e a sua sorella nel suo semplice abito smanicato bianco, decorato da grosse margherite nere, come non credo sarebbe stata capace di fare se lui fosse stato presente.
C’era qualcosa di troppo affrettato nella sua risata, però, che non mi convinceva del tutto.
Iniziando a ridere prima ancora che le sue due interlocutrici cominciassero a parlare, mi trasmetteva l’impressione che volesse dimostrare che quello scambio di battute fosse divertente, piuttosto che pensarlo per davvero.
Stavo per abbandonare la mia indiscreta osservazione della famiglia, quando nello stesso momento, Madison ha intercettato il mio sguardo oltre le spalle di sua madre.
«Ehi Kate!», ha esclamato, sventolando vivacemente la mano nella mia direzione.
Sua madre e sua sorella, di conseguenza, si sono immediatamente voltate nella mia direzione. Non sapendo esattamente cosa fare, ho risposto al saluto, sforzandomi di sorridere con nonchalance e poi ho ripreso in fretta il mio vagabondaggio, solo dopo aver assistito ad un'occhiata incerta di Roxanne.
L'incertezza non è poi così male, no? Almeno non sarei dovuta partire totalmente da zero.
La cartellina contenente il discorso era adesso nelle mie mani frementi.
Avrei potuto realmente leggere una cosa del genere? Mi era concesso? Lei me l’avrebbe concesso?
«Hudson, cos’è quella faccia distratta? Non ti senti pronta per il discorso?», la professoressa Brighton, la mia insegnante di lettere, mi si è avvicinata sorridente, stretta in quella che lei avrebbe chiamato stola, ma io avrei definito lo scialle di una vecchia.
Io ho esitato solo un attimo, prima di rispondere adeguatamente, senza reagire in nessun modo alla subdola insinuazione: «No, professoressa, niente affatto. Stavo semplicemente tentando di raccogliere la mia concentrazione per dopo.»
Lei ha annuito e poi ha adocchiato la cartella che avevo in mano.
«So che hai già avuto l’approvazione degli altri professori, ma potrei dargli un’occhiata?», mi ha chiesto, allungando verso di me un braccio flaccido e attorniato da una serie cospicua di bracciali, che, scontrandosi tra di loro a causa del movimento, producevano un rumore fastidiosissimo.
Io ho aperto il raccoglitore, per poi estrarre accuratamente il documento e porlo alla professoressa. Gutierez e il consiglio dei docenti, avevano potuto esaminarne solo la bozza, perché avevo terminato la versione definitiva solo la notte precedente (a causa del tempestivo avviso del Preside, è chiaro), eppure non avevano esitato a darmi tranquillamente l’approvazione che mi aspettavo.
Cosa aveva in mente di fare la Brighton, allora, se il testo non le fosse piaciuto? Ormai era troppo tardi per rimediarvi, e per di più io ero certa che la professionalità del mio lavoro non avrebbe deluso nessuno.
Scorrendo le pagine ad una velocità incredibile, terminata la sua lettura, l’insegnante ha poi posato gli occhi su di me e mi ha messo bruscamente i fogli di nuovo in mano.
«Può andare», ha asserito, ma prima che terminassi di dire il mio «Grazie», lei se n’è andata via precipitosamente, raccomandandomi di raggiungere il più presto possibile il salutatorian, per definire gli ultimi accordi prima dei nostri due discorsi.
Patrick Riggs, il suddetto salutatorian, era in un angolo del campo, circondato, come molti altri studenti, dalla sua famiglia.
La cosa che contraddistingueva i Riggs dagli altri, però, era che questi ultimi a differenza dei restanti presenti, non avevano un’espressione affatto lieta sui loro volti.
Per vie contorte, sono venuta a sapere che il fratello maggiore di Patrick è entrato in coma qualche settimana fa, perciò potevo comprendere senza sforzo il motivo della mancanza di facce felici.
Lo stesso Patrick, indossando la toga gialla caratteristica degli studenti di sesso maschile, in contrasto a quella azzurra di noi ragazze, non sembrava affatto entusiasta a proposito del suo compito di secondo studente più distinto della scuola.
Rallentando e addolcendo il ritmo del mio passo, ho cercato di avvicinarmi a lui quel tanto che gli permettesse di avvistarmi e venire spontaneamente verso di me.
Scusandosi dai membri della sua famiglia, mi ha immediatamente raggiunta.
«Sì, Kate?», ha domandato atono.
C’eravamo fermati a parlare brevemente per un paio di volte nei giorni precedenti, dopo aver saputo di essere stati nominati rispettivamente valedictorian e salutatorian, ma sin dal primo momento non ero riuscita a cavare da lui nemmeno un minimo interessamento per me. Non una fuggevole occhiata ammirata, né un elogio sofisticato tipico dei secchioni come lui…insomma, niente di niente.
Non che mi interessasse piacergli, chiariamoci, solo che l’indifferenza non è una reazione che sono abituata a scatenare.
Oppure, più probabilmente, deve essere gay.
«Allora, per quello che avevamo concordato…sicuro che ti vada bene inserire la poesia nella tua parte finale?», gli ho domandato.
«Sì, non c’è problema, ha commentato Patrick, sistemandosi per l’ennesima volta la cravatta sotto alla toga, «Trasmette in ogni caso un bel messaggio e per di più mi ha salvato il problema di preparare una presentazione più lunga dopo il tardo avviso del Preside».
«Non dirlo a me. Solo che io ho scritto già di per sé un discorso lungo e non mi va di protrarlo ulteriormente con la poesia, anche se quella mi serve per inquadrare tutto il resto. E poi inserirla renderebbe collegati anche i nostri due discorsi», ho tentato di spiegarmi, mantenendo il più possibile il colloquio in termini cordiali, anche se il suo piccolo tic con la cravatta iniziava a darmi davvero sui nervi.
«Va bene, ti ripeto. Non c’è problema: la leggerò io», mi ha rassicurata.
«Oh. Ok.»
Dopo qualche secondo di stallo - in cui lui ha continuato a guardarmi con la stessa attenzione che in genere si dà ad un muro spoglio - io mi sono ricomposta, salutandolo, e cercando di andare via il prima possibile da quell’atmosfera opprimente.
Gay, certo. Non c’era altra spiegazione.
I miei vagabondaggi, poco dopo, sono stati bruscamente interrotti dalle prove al microfono del professor Lennard. Stavano testando tutte le apparecchiature per il discorso del Preside, che sarebbe iniziato a minuti.
Iniziando a sentire improvvisamente una strana ondata di nervosismo, ho preferito prendere il mio posto nella prima fila, tra la vice Preside e Patrick Riggs, il quale mi aveva preceduto di un bel po’, accomodandosi di già e decidendo di rileggere tra sé la sua breve introduzione al mio discorso.
Senza dire una parola, mi sono seduta accanto a lui e sono stata tentata anche io di rileggere il mio testo, solo che nella mia mente si era già insidiata l’effimera convinzione che avevo sbagliato qualcosa, che il mio messaggio non sarebbe arrivato, che non avrei dovuto insistere così tanto e avrei semplicemente dovuto lasciar perdere tutto.
Un minuto dopo mi sono sgridata per quel ingiurioso pensiero a riguardo del mio lavoro. Mi ero impegnata tantissimo, malgrado il tempo ristretto, per renderlo una cosa che potesse rendermi orgogliosa, e ora ero disposta a buttarmi giù così facilmente con le mie stesse mani?
Mi sono sorpresa di me stessa per un tale pensiero. Non era da me. Sapevo di aver fatto del mio meglio e, al posto di vantarmene, mi deprimevo a tal punto?
Perché stavo reagendo in questo modo?
Ah già. Era colpa di Roxanne.
Avevo tentato di ignorare quell’oppressione che mi era caduta addosso, ma non ci ero affatto riuscita. Avevo cercato di sbarazzarmene, ma quest’azione si era rivelata allo stesso modo inutile.
C’era solo un modo per risolvere la situazione, quindi: riportare le cose a come erano prima. E l’unica chance per fare questo risiedeva nelle mie mani. Ma come potevo riuscire a convincere lei, se io ero la prima ad non aver fiducia nel mio operato?
«E ora ho il piacere di accogliere sul palco il signor Patrick Riggs, il salutatorian di quest’anno, per il suo discorso di apertura!», la voce tonante del Preside è riecheggiata nelle mie orecchie e tutto ad un tratto sono tornata alla realtà.
Patrick Riggs, al mio fianco, si è alzato dal suo posto e si è diretto verso il palco per raggiungere il Preside, il quale con il braccio teso verso di lui, lo invitava a salire sul palco.
Patrick ha mantenuto la sua espressione stoica per tutto il suo percorso, e solo quando si è trovato davanti al Preside, che gli ha consegnato il microfono, ha fatto un breve sorriso, si è sistemato gli occhiali e ha iniziato a leggere la sua introduzione.
Sbattendo perplessa gli occhi, mi sono guardata intorno. Non dovevamo aspettare quasi un’ora prima di salire sul palco? Il benvenuto del Preside che fine aveva fatto? E l’intro musicale? Avevano saltato tutto?
L’orologio, tuttavia, mi ha confermato che, nonostante il mio vuoto, la cerimonia era avvenuta secondo quanto stabilito. E io, rinchiusa nei miei pensieri, me l’ero persa completamente.
In panico, ho guardato Patrick giungere brevemente a conclusione della sua piccola introduzione, non prima di aver citato, a mio beneficio, la poesia di Prévert che gli avevo suggerito, anche se non avevo la minima idea del contesto nella quale l’avesse inserita.

«Per prima cosa dipingere una gabbia
che abbia la porta aperta
quindi dipingere
qualcosa di grazioso
qualcosa che sia semplice
qualcosa che sia bello
qualcosa di utile
per l'uccello
mettere poi la tela contro un albero
in un giardino
in un bosco
o in una foresta
nascondersi dietro quell'albero
senza dire niente
e senza muoversi
talvolta l'uccello arriva svelto
ma può anche metterci anni e anni
prima che si decida
Non scoraggiarsi
aspettare
aspettare se occorre anche per anni
la rapidità o la lentezza dell'arrivo dell'uccello
non ha nulla a che fare
con la riuscita del quadro
Quando l'uccello arriva
se arriva
osservare il silenzio più assoluto
aspettare che l'uccello
entri nella gabbia
e quando l'avrà fatto
richiudere dolcemente la porta col pennello
e poi
cancellare una per una tutte le sbarre
avendo cura di non toccare le piume dell'uccello
Fare a questo punto il ritratto dell'albero
scegliendo il suo ramo più bello
per l'uccello
dipingere allora il fogliame verde e la freschezza del vento
il pulviscolo del sole
il rumore degli insetti nascosti nell'erba
nella calura estiva
Poi aspettare che l'uccello abbia voglia di mettersi a cantare
Ma se non canta
è un gran brutto segno
è segno che il quadro è venuto male
Ma se canta invece è un buon segno
segno che il lavoro va firmato
E quindi voi strapperete
con grande dolcezza a quell'uccello
una sua piuma e scriverete
il vostro nome in un angolo del quadro.»


Come risposta al suo intervento, seguito da altri brevi ringraziamenti che non sono riuscita a seguire, il pubblico ha applaudito calorosamente e il Preside ha lanciato uno sguardo orgoglioso a Riggs.
Con una rapidità esasperante, era finalmente giunto il mio momento. E io non ero pronta. Affatto.
Non cito tutte le bestemmie che mi sono passate per la testa in quell’istante, perché in meno di un minuto me ne sono venute in mente più di quante credevo di conoscerne; fatto sta che mi sono sforzata di mantenere un sorriso, mentre Patrick, che aveva oramai terminato il suo compito, è tornato a sedermi accanto e il Preside, questa volta, ha rivolto il suo invito a salire sul palco
a me.
Sorridi, cammina con grazia, lascia fluttuare la toga azzurra sulle spalle, i capelli perfettamente arricciati al vento e…
Conquistali.
Il dirigente scolastico poi mi ha offerto una medaglietta, simbolo del mio ruolo da valedictorian, e io l’ho accettata di buon grado, piegando leggermente il capo, in modo da facilitargli l’operazione.
Mi sentivo fremere dall’ansia e dall’impazienza di cominciare, ma al tempo stesso avvertivo dentro di me la solita eccitazione di essere al centro dell’attenzione. Finalmente avevo una buona idea del numero di persone presenti, visto che vederle sparse per l’immenso campo non rendeva allo stesso modo.
Il sole splendeva sulle teste del pubblico e faceva piuttosto caldo, ma per fortuna una piccola pensilina e il cappello da diplomando, mi riparavano dal sole.
Potevo finalmente cominciare.
«Per concludere, un addio e un augurio caloroso a tutti voi, diplomandi», ha dichiarato il Preside, prima di cedermi il microfono, «Vi lascio al discorso del valedictorian di quest’anno: la signorina Katherine Johanne Hudson!»
Ho accolto l’applauso caloroso seguito alla proclamazione del mio nome e ho deglutito, calmando una volta per tutte i miei pensieri. Ho individuato al primo sguardo le Gallinelle sventolare allegramente le braccia verso di me e ho sorriso loro, prima di notare che seduta accanto a Rita c’era Roxanne, assieme alle sue due amichette. Ho notato persino che Nancy appariva turbata dalla vicinanza così ristretta con sfigate di quel calibro, ma si sforzava comunque di mantenere un sorriso, incitando il mio nome.
Prima di lasciarmi assalire da qualsiasi tipo di emozione, in ogni caso, ho sorriso ancora in direzione di tutto il pubblico, e ho iniziato a parlare.
Ho incollato qui tutto il mio discorso.
«Un caloroso benvenuto ai nostri distinti ospiti, alle famiglie presenti, ai docenti e a tutto il resto del personale scolastico che ogni mattina mi ha dato il buongiorno per più di quattro anni; vi ringrazio di cuore di essere venuti!», sorrisi, tanti sorrisi. Al pubblico non sembrava dispiacere.
«Spero di poter commemorare nel modo migliore la vostra presenza qui oggi con il mio discorso, ma lascio a voi l'opportunità di giudicare se le mie parole saranno in grado di assolvere a tale compito.»
«Se devo dirvi la verità, per lungo tempo ho desiderato che la fine della scuola superiore arrivasse il prima possibile», sguardi perplessi da parte del pubblico, perfetto, proprio quello che volevo ottenere, «Sì, non guardatemi in quella maniera, lo so che sono qui per parlare proprio di quello che hanno rappresentato questi anni e non di quello che ci sarà dopo, come so altrettanto bene che da adulta tutte le responsabilità mi faranno rimpiangere a lungo questi momenti spensierati. I miei genitori mi hanno ripetuto questo discorso un'infinità di volte, anche se io sto cercando ancora di capire a cosa esattamente si riferissero», smorfia buffa per guadagnare la loro simpatia, seguita come previsto da brevi risatine, «ma, nonostante tutto, l'entusiasmo di andare verso il futuro è sempre stata la cosa più forte che ho avvertito dentro di me, per quanto io possa ricordare», tono più grave, adesso si inizia a parlare di cose serie, «Non dico che ciò mi abbia impedito di godere del presente, questo no, ma tali pensieri oscuravano così tanto la mia mente, da impedirmi di dare più di una fuggevole, distaccata occhiata a quello che mi stava accadendo.»
«Pensavo costantemente a cosa avrei fatto, dove sarei stata, chi avrei incontrato e semplicemente il presente per me non riusciva ad avere la stessa attrattiva dell'avvenire. In poche parole, per ricollegarmi alla poesia precedente che il nostro salutatorian ha letto, tentavo di ritrarre un uccellino che non era ancora arrivato», il mio sguardo, prima vagante, si è fissato su Roxanne e l’ho vista sussultare quasi impercettibilmente. Reazione ugualmente prevista. Ho continuato come nulla fosse, staccando di nuovo gli occhi da lei e rivolgendomi al resto del pubblico, con fare teatrale. Tutti mi fissavano incuriositi, alcuni spaesati, alcuni scettici, ma avevo comunque i loro sguardi concentrati sulla mia figura, come era mia intenzione.
«In parte ciò è ancora vero tutt'oggi, ma dopo l'arrivo di una persona alcuni mesi fa, è stato come se la mia vita avesse rallentato il suo ritmo: i giorni dovevano essere vissuti singolarmente e non come settimane intere che correvano talmente veloci da sfuggire alla mia realizzazione», di nuovo sono tornata visivamente su Roxanne e di nuovo lei è stata scossa da quelle parole. Ho represso un sorrisino di vittoria solo per mantenere la tensione.
«E così, dopo questo fatidico incontro, ho aperto gli occhi e ho iniziato a guardare davvero il mondo a cui ero da sempre appartenuta e che avevo volutamente ignorato per potermi concentrare troppo in anticipo su progetti utopici», tono dolce, incoraggiante, che li invogli ad ascoltare quella che appare semplicemente come una storiella, ma in realtà è molto di più.
E’ la mia strategia.
«Vivendo questa esperienza così inaspettata, ho scoperto quell'entusiasmo e quelle risate che mi erano mancate per tutta una vita, accompagnate anche da una bella dose di incomprensioni per nulla facili da sistemare», ho modellato ancora la mia espressione per scatenare il coinvolgimento del pubblico, «Ma questo è vivere, nel bene o nel male, e vivere è essere pronti ad accettare ciò che c'è di positivo o negativo, senza alcuna barriera frapposta fra noi e il mondo. Questa barriera viene rotta dalla fiducia che abbiamo nel prossimo.»
«Io non sono mai stata consapevole dell'esistenza di questa barriera dentro di me, fino a quando la fiducia che una persona mi ha concesso ha tentato di mandar giù tutte le mie difese.»
«Questa era una situazione talmente nuova per me, mi confondeva, mi indeboliva e ciò ha innescato una diffidenza maggiore, un'incapacità di comunicare i miei problemi a chi si preoccupava così tanto e cercava di comprendermi come meglio poteva», altro sguardo rivolto a Roxanne, che stavolta sembrava aspettarselo. La sua espressione era apparentemente grave, le labbra pressate in una linea dritta e la sua attenzione completamente focalizzata su di me. Tuttavia non potevo dire che le cose stessero andando male.
«Se sono qui oggi, è perché ho trovato qualcuno che è stato capace di credere in me e nelle mie capacità, affidandomi il compito di lasciarvi andare via con un bel ricordo di questo giorno.»
Nominare lo staff scolastico, per la leccata di culo d’obbligo: «Proprio per questo, allo stesso modo in cui professori che durante questi anni mi hanno seguita, consigliata e onorata grazie a questo incarico, vorrei tanto che anche questa persona potesse ancora credere in me come una volta.»
«Probabilmente nel futuro che ho tanto atteso e che adesso è vicino più che mai, commetterò altri sbagli e tornerò a chiederle scusa, anche se magari non potrò più farlo così pubblicamente come sto facendo adesso», ironizzo per spingerli a ridere, e infatti ottengo calorose risate. Roxanne, però, non reagisce, «ma oggi noi tutti siamo qui per chiudere un capitolo della nostra vita e aprirne un altro nel modo migliore possibile e io vorrei farlo senza trascinarmi dietro alcun tipo di rimpianto.»
«Non ho la minima intenzione di scatenare commozione, o quant'altro, semplicemente spero che tutti voi possiate salutare questa scuola andandovene con un sorriso e tanti bei ricordi stampati nel cuore», e sulle mie fatidiche parole, le Gallinelle si stanno già soffiando il naso in fazzolettini intrisi di lacrime.
Continuo sorridente, scatenando le reazioni che avevo precedentemente programmato.
Ridono quando voglio io, si fanno più seri quando io imposto l’intonazione della mia voce in un modo differente, percepiscono ciò che voglio dire, senza che lo dica, eppure non riescono a trovare alcuna via d’uscita da questo condizionamento. Sono completamente nelle mie mani. E io adoro questa sensazione di potere.
«Infatti, esattamente come io ho sbagliato a vivere troppo nel futuro, c'è persino chi erroneamente è attaccato troppo al passato», Roxanne avvampa alla mia occhiata, intendendo benissimo cosa volessi dire, «Entrambe le cose non portano nulla di buono: in un modo si perde tutta la bellezza e la spontaneità del momento, nell'altro saremo sempre infelici perché incapaci di lasciare andare via qualcosa che in fondo abbiamo già perduto.»
«Prévert diceva: “Aspettare, se occorre anche per anni. La rapidità o la lentezza dell'arrivo dell'uccello non ha nulla a che fare con la riuscita del quadro. Quando l'uccello arriva, se arriva, osservare il silenzio più assoluto. Aspettare che l'uccello entri nella gabbia e, quando l'avrà fatto, richiudere dolcemente la porta col pennello e poi cancellare una per una tutte le sbarre, avendo cura di non toccare le piume dell'uccello.”»
«Questa poesia mi ha ispirata, perché contiene tutto ciò che avrei voluto esprimere quest’oggi. Tutti noi durante questi anni abbiamo cercato qualcosa, il nostro soggetto da dipingere, e l’abbiamo atteso, anche se magari inconsapevolmente. Talvolta abbiamo sbagliato e l’abbiamo confuso per qualcos’altro. Talvolta siamo stati troppo frettolosi e l’abbiamo spaventato, facendolo volare via. Talvolta non siamo stati cauti, e stavamo quasi per distruggerlo con le nostre stesse mani.
Ma un punto fondamentale è questo: non siamo in grado di individuare cosa stiamo veramente aspettando, fino a quando non conosciamo a fondo noi stessi. Questi anni mi sono serviti a questo. Mi hanno permesso di crescere e di maturare con tante altre persone: coloro che mi hanno cresciuta», mia madre sedeva troppo in fondo perché potessi vederne chiaramente l’espressione, «tutti quelli che sono stati disponibili con me, chi mi ha appoggiata da lontano, chi mi ha seguito nonostante tutto e mi ha fatto sentire importante», non ho potuto evitare l’occhiata alle Gallinelle che, come pronosticato, ormai frignavano a tutto spiano, «quelli a cui invece non piacevo, chi non mi ha compreso, chi mi ha voluto bene e chi purtroppo ho involontariamente ferito», Roxanne appariva totalmente priva di espressione a questo punto.
Qui cominciano le lagne sulla validità della scuola e degli alunni, per attenermi al desiderio di “discorso tradizionale”, esplicitamente richiesto dal preside: «Questa scuola mi ha insegnato cosa vuol dire essere parte di un gruppo in cui collaborare per raggiungere i propri obiettivi. Un esempio eclatante di tutta la gentilezza che mi è stata concessa nei mesi passati, è stata l'esperienza del “Comitato D'Accoglienza” per gli studenti stranieri, provenienti da alcune scuole gemellate con la nostra. Alla fine i nostri sforzi per la loro festa di benvenuto sono stati ripagati con lo schianto di un aereo e, anche se la nostra avventura ha avuto disgraziatamente una fine tragica - lungi da me il desiderio di fare qualsiasi tipo di ironia in proposito -, la reazione di tutti gli altri miei compagni è stata quella che mi ha stupita di più. Agivano tutti all' unisono, uniti nei preparativi, uniti nella commemorazione dei defunti dell'incidente, come un vero e proprio organo compatto e non più entità distinte. Ormai è fin troppo facile accusare le nuove generazioni di mancanza di valori e sani principi. I bigotti non cercano altro che le continue notizie di cronaca nera sulle stragi del sabato sera, sulle crescenti morti per overdose, sugli sprechi e i vizi dei più giovani, per classificarci come rovina della società moderna.»
«Ma se tali dimostrazioni di collaborazione e di supporto comunitario, delle quali sono stata direttamente testimone, sono ancora possibili, allora forse c'è più di una semplice speranza che qualcuno tra i brillanti diplomati della classe di quest’anno possa sconvolgere gli stereotipi che portano gli altri a condannarci come generazione di drogati e nulla facenti.»
«Avrei potuto parlarvi di tutte le attività extracurricolari - mai troppe - che in molti, me compresa, si sono affannati a compiere all'ultimo minuto e ad elencare nelle proprie domande di ammissione universitarie, oppure del sudore versato, delle delusioni o ancora dei sorrisi di soddisfazione al termine di qualcosa andata a buon fine. Avrei potuto ricordare qualche aneddoto divertente appartenente alle notti insonni passate a studiare per gli esami, dove l’aggettivo "divertente" era stato ormai bandito dai vocabolari di qualsiasi lingua», risate, poi una pausa più seria, «ma ho deciso solo di accennarvi quello che ha significato per me il contatto umano che ho ricevuto e alcuni piccoli spaccati di un'amicizia che è nata tra queste pareti, si è nutrita di chiacchiere scambiate in corridoio e io sto tentando disperatamente (o quasi) di recuperare in questo modo.»
I miei riferimenti erano così eclatanti che, persino le Gallinelle, pur con le facce totalmente nascoste nei loro fazzoletti, hanno lanciato un’occhiata piuttosto esplicita in direzione di Roxanne.
Lei si è impietrita, se fosse possibile, ulteriormente, ma nonostante tutto io mi sono sforzata di andare avanti. Ero perfettamente cosciente che prima o poi avrei perso il controllo delle reazioni di Roxanne, visto il suo peculiare modo di pensare e di sorprendermi, perciò sul momento non me ne sono preoccupata più di tanto.
Davanti a me c’era un’intera folla di persone da intrattenere, e ormai i saluti finali si avvicinavano sempre di più.
«Un "grazie" e uno "scusatemi" a tutti voi, cari genitori, professori, amici e conoscenti, grazie per avermi permesso in un modo o nell'altro di comprendere i miei sbagli e scusatemi se magari non sono riuscita a rimediare completamente tramite queste parole; so per certo, però, che tutti i vostri insegnamenti e le lezioni di vita di cui mi avete resa partecipe durante la mia permanenza tra queste mura non saranno mai dimenticati da me.» Fortunatamente sono stata sempre brava a fingermi modesta.
«Nessun rimorso, nessun rancore, nessuna aspettativa, quindi, semplicemente dobbiamo essere pronti ad andare incontro a tutto quello che il nostro destino ci riserverà, con la migliore disponibilità d'animo», un’intonazione delicata e un sorriso altrettanto placido, ma al contempo irresistibile, da rivolgere alla gente, «Ed è con questo, un sorriso, che vi lascio miei ascoltatori. Spero di riceverne altrettanti anche da voi. In caso contrario, tuttavia, vi prego di evitare uova o altri generi alimentari, perché stonerebbero incredibilmente con queste favolose tuniche azzurre», ho riso seguita da un altro centinaio di persone tutte ugualmente divertite, «Buona fortuna a tutti i novelli diplomati e grazie a tutti per essere venuti!»
Assieme a tanti sorrisi, ho ricevuto un numero ancora maggiore di applausi. Tutta la folla sembrava di buon umore, escludendo le Gallinelle frignanti e l’impassibile Roxanne, e, per merito mio, si era diffusa, nell’aria di quella calda giornata di metà giugno, un’atmosfera serena e delicata che calzava a pennello.
Appena scesa dal palco, sono stata investita da una bolla di persone che mi hanno fatto complimenti e stretta in calorosi abbracci.
Persino Thelma, vincendo la sua diffidenza, mi si è avvicinata e mi ha detto: «Complimenti, devo ammettere che il discorso è stato bello. Di chi stavi parlando, però?»
«Sì, è vero, a chi ti stavi riferendo?», si sono accodate altre voci, imitandola.
Io mi sono guardata intorno spaesata, senza sapere cosa dire. Ho cercato le Gallinelle inutilmente, per usarle come scappatoia, ma sembrava che la folla avesse impedito loro di avvicinarsi a me.
«Ehm…», ho iniziato. Gli occhi dei presenti erano tutti fissi sulla mia figura.
«Permesso, permesso, fate passare!», la voce di Ashley è emersa da quella calca e io l’ho chiamata subito, sollevata.
Destreggiandosi tra gli spintoni, Ashley mi ha raggiunta e, sebbene inizialmente il suo primo impulso sia stato quello di piagnucolare ancorata al mio braccio, tra le lacrime è riuscita a dirmi che c’era qualcuno che voleva parlarmi.
«Chi?», ho domandato incuriosita. Se si fosse trattato di Roxanne non ci sarebbe stato tutto questo mistero, no?
Ashley, soffiandosi rumorosamente il naso e sorridendomi, ha insistito nel non dirmelo.
In qualche modo, siamo riuscite a distaccarci dalle persone che ci circondavano, e guidata a braccetto da lei, sono arrivata davanti ad un signore alto e distinto, vestito di tutto punto.
Non credevo ai miei occhi.
«Papà?»
Ashley ha avuto la decenza di concederci un po’ di spazio, tornando dalle altre.
L’uomo ha sorriso e mi si è avvicinato con grandi passi. Era papà.
«Oh! Guarda chi si vede! La mia principessa!»
Ci siamo abbracciati e io quasi non credevo ai miei occhi. «Come mai sei qui?», ho chiesto eccitata, «Mamma mi aveva detto che eri troppo impegnato.»
«Oh, sai com’è fatta tua madre. Tende ad esagerare drammaticamente qualsiasi cosa», ha sorriso e io ho ricambiato il sorriso, ancora scossa dalla sorpresa.
«Chi è che esagera drammaticamente qualsiasi cosa?!», è intervenuta mamma, raggiungendoci in modalità già impostata su Harriet l’isterica.
Mio padre ha riso sonoramente e io mi sono accorta di quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che avevo udito quel suono, «Ciao Harriet, come stai?»
Mia madre, nonostante le mie previsioni, era più cupamente arrabbiata, che visibilmente isterica, e gli ha risposto in tono apparentemente tranquillo.
«Mi avevi detto che non saresti venuto», gli ha fatto notare.
«Non potevo mancare in un momento così importante per la mia principessa», ha detto papà, sorridendomi, e una volta ancora io mi sono trovata ad imitarlo senza che ne fossi consapevole.
«Allora sei stata nominata valedictorian, uh? Sapevo di non potermi aspettare niente di meno da te», mi ha detto, ignorando ancora una volta la presenza di mia madre, e pizzicandomi affettuosamente il mento.
«Grazie», ho risposto orgogliosamente.
«Non dovresti mostrare alcun dubbio sulle potenzialità di tua figlia», è intervenuta mia madre e io le ho lanciato un’occhiataccia. Perché lo stava provocando così tanto?
«Non ho dubbi infatti», i suoi occhi, vivaci e affettuosi, hanno continuato a guardare solo i miei, «Solo che voglio che lei continui ad impegnarsi sempre per raggiungere questi traguardi. Una principessa potrebbe anche perdere il trono se si dimostra incapace di tenerselo stretto.»
Quell’ultima frase e il tono in cui l’aveva pronunciata, ha fatto scattare una sensazione ambigua dentro di me, che mi ha spinta subito ad allontanare qualsiasi tipo di dubbio da lui.
«Non c’è pericolo, papà, tranquillo», mi sono affrettata a replicare e lui, apparentemente soddisfatto di quel tipo di risposta, mi ha accarezzato la guancia.
«Bene. Princeton sarà una bella impresa da affrontare in futuro, anche se non puoi immaginare quanto mi sia dispiaciuto per Harvard…», la sua voce si era fatta più accorata e ho subito avvertito la sua delusione. Per colpa mia.
Non sapevo veramente cosa dire o come giustificarmi.
«Ron, perché continui ad insistere con questa storia? Kate ha fatto del suo meglio per entrare nella tua stupida università, e anche se non ha ricevuto l’ammissione, è stata comunque accettata in uno dei tre college migliori dell'intero stato!»
Le parole di mia madre non mi hanno risollevato molto il morale. Mio padre aveva sempre voluto che io fossi ammessa ad Harvard, la scuola nel quale aveva proseguito i propri studi universitari, ma non avendo superato l’intervista e i test di ammissione, ero stata, per così dire, solo accettata a Princeton.
Vedendomi un po’ turbata, mio padre, mi ha sollevato il mento e mi ha rassicurata che a lui non dispiaceva affatto ed era contento anche così. Io non gli ho risposto niente, perché sapevo bene che mi aveva mentito solo per tranquillizzarmi
«Comunque adesso devo andare», ha commentato frettolosamente, rimettendo il cellulare in tasca, dopo aver rifiutato una chiamata, «Sono contento di essere potuto almeno passare per fare gli auguri alla mia bellissima neo diplomata.»
Io ho sorriso e lui, dopo avermi tolto il capello in coordinato alla toga, mi ha baciato il capo, per poi salutare mia madre con un frettoloso bacio sulla guancia e un «Ci sentiamo al più presto.»
«E così se ne va, dopo averci fatto il solito lavaggio del cervello», ha detto mia madre, guardandolo andare via in fretta e furia, per poi entrare in una macchina nera ed essere condotto dal suo autista personale verso la prossima destinazione.
«Non riesco mai a non stupirmi di quello che ti inventi, mamma. Cosa c’entra il lavaggio del cervello questa volta?», ho domandato, esasperata da quegli stupidi tentativi per convertirmi in una sua alleata, a discapito di mio padre.
Poi le ho consegnato il capello e la toga da diplomando e ho recuperato il mio adorabile cappellino a cloche, che avrebbe armonicamente nascosto i miei capelli schiacciati a causa del copricapo che avevo indossato per tutto il tempo.
«Io devo finire salutare un po’ di persone. Tu puoi anche andare a casa se vuoi, visto che ormai la cerimonia è finita», l’ho informata, allontanandomi prima che scoppiasse in un attacco isterico.
La folla di persone si era ormai raccolta al di fuori del campo e io ho raggiunto le Gallinelle, che mi hanno riempita nuovamente di complimenti per il discorso, e mi hanno chiesto come fosse andata con mio padre.
«Bene, bene. Solo che aveva da lavorare, perciò è dovuto andare subito via.»
«Oh! Che peccato!», hanno risposto in coro.
«Già…sentite, avete per caso visto Roxanne?», ho domandato, incapace di aspettare oltre.
Loro si sono lanciate un’occhiata un po’ turbata e mi hanno detto di averla vista seduta sugli spalti del campo, meno di dieci minuti prima, dopo che sua madre e sua sorella erano andate a parlare con alcuni professori.
«Però, Kate…a me Anne non è sembrata molto contenta, prima», mi ha fatto presente Rita.
«Già…noi pensavamo avessi dedicato una parte del tuo discorso a lei e invece era per Patty Mason!», ha esclamato Sally.
«C-cosa?», ho chiesto, sentendomi improvvisamente mancare la voce.
«Sì, quella sfigata di Patty Mason continuava a ripetere che tu le avevi dedicato il discorso, e quando Anne l’ha sentito, c’è rimasta molto male.»
«Io avrei dedicato il discorso a Patty Mason?», ho domandato, atterrita.
«Sì!», ha esclamato Nancy, poi trovandosi faccia a faccia con la mia espressione sconcertata, ha vacillato: «Non-non è così?»
«Per quale assurda ragione dovrei dedicare qualcosa del genere a Patty Mason?!», ho ripetuto. La cosa stava iniziando a darmi sui nervi. Non avevo mai pensato che la loro stupidità potesse arrivare a tal punto.
Le Gallinelle, incapaci di trovare una risposta, si sono guardate tra loro, piene di dubbi.
«Lo sapevo che non era per la Mason!»
«Ma cosa stai dicendo! Sei stata tu la prima a crederle!»
«Ah! Senti chi parla!»
«Cosa vorresti insinuare? Io l’avevo capito sin dall’inizio!»
«Non è vero!»
Mi sono allontanata senza essere vista da loro, ormai completamente intente a litigare, e sono rientrata nel campo da calcio, dove si era stolta la cerimonia, in cerca di Roxanne. Avevo in mente di chiarire qualsiasi tipo di incomprensione. Riguardante Patty Mason, o meno.
Come mi avevano detto le Gallinelle, Roxanne era seduta da sola su uno degli spalti in cemento del campo.
Nonostante mi avesse chiaramente vista avvicinarmi, lei non si è mossa e io ho interpretato questa cosa già come un buon segno.
«Che ci fai qui da sola?», ho domandato, sedendomi accanto a lei, «Gli altri sono tutti fuori.»
Roxanne non mi ha risposto, ma ha continuato semplicemente a fissare l’erba verde sotto di noi. Io ho fatto lo stesso per qualche minuto.
«E’ sorprendente calmo qui. Non è affatto male.», ho provato ancora, tentando di apparire casuale e non disperatamente in ricerca di una risposta.
Roxanne ha sospirato, prima di mormorare un tiepido: «Già.»
Nonostante un breve spiraglio di conversazione, il silenzio dopo quell’ultimo monosillabo si è fatto sempre più opprimente. Probabilmente il mio tentativo era stato del tutto inutile. Probabilmente non c’era più alcuna speranza di recuperare la nostra "amicizia", come la chiamava lei. Probabilmente, come invece sostenevo io, non eravamo state mai amiche e questa condizione non sarebbe cambiata mai.
Probabilmente io avrei dovuto rassegnarmi a vivere come prima, con i nervi a pezzi, stanca, esausta, senza riuscire a trovare alcun tipo di sollievo in niente e nessuno.
Avevo tentato, avevo lottato, ma non ero riuscita a fare di lei uno dei miei burattini, forse perché lei era troppo simile a me per cadere in una trappola del genere.
O forse perché le mie intenzioni erano diventate altre.
Ed erano propro quelle intenzioni problematiche e difficili da gestire, che mi avevano ridotta in questo modo. La mia faccia sorridente era in grado di durare solo per pochi minuti, intervallati da eternità di silenzi come quello.
Ho stretto i pugni e ho percepito la carta piegarsi di più sotto la pressione delle mie mani.
«C’è una cosa che devo restituirti», ho detto, porgendole un malconcio pezzetto di carta piegata.
Roxanne, finalmente, mi ha guardato, scostando, però, immediatamente gli occhi un istante dopo.
«Cos’è?»
«E’ qualcosa di tuo», ho teso la mia mano verso di lei e finalmente lei si è decisa a prendere il foglio e a dispiegarlo per rivelarne il contenuto.
Ho studiato la sua espressione alterarsi immediatamente alla vista del foglietto, e i suoi occhi dirigersi precipitosamente verso di me.
«D-dove l’hai trovato?», ha domandato, rauca.
«Non importa. Quello che importa ora è che lui è libero», le ho risposto, consapevole dei cambiamenti che avevo apportato al disegno.
Avevo cancellato, tentando di non intaccare il disegno originale, tutte le sbarre che costringevano il canarino dentro una gabbia, in modo che i suoi occhi smettessero di implorarmi di liberarlo.
Roxanne ha continuato a tacere, esaminando il disegno, per poi ripiegare immediatamente il foglio.
Io ho aspettato per qualche altro minuto, ma non vedendo alcun tipo di reazione o risposta arrivare, ho fatto per alzarmi, interpretando il suo silenzio in modo negativo.
«Aspetta!», ha gridato lei.
«E cosa dovrei aspettare?»
«Non lo so! Non lo so…», ha continuato Roxanne, improvvisamente abbattuta.
«Che c’è?», ho insistito, intercettando una possibile apertura disponibile, «Non sei stata tu a evitarmi per tutta la settimana?»
Roxanne si è ammutolita.
Io ho fatto lo stesso, ma in compenso ho ripreso di nuovo posto accanto a lei.
«Era per te.»
«Eh?»
«Il discorso. Era per te», ho tentato di chiarire, nel caso in cui lei avesse davvero creduto ai vagheggiamenti di Patty Mason.
«…Lo so», ha ammesso dopo una breve pausa.
«Oh. E’ bello sapere che almeno qualcosa la sai», ho ironizzato.
Roxanne apparentemente non è riuscita ad evitare di lanciarmi un’occhiataccia che, malgrado tutto, mi ha fatto ridere spontaneamente.
Da arrabbiato e incupito, però, il suo volto si è leggermente rilassato, assumendo i connotati del turbamento.
«Com’è stata per te questa settimana?», mi ha domandato, lasciandomi quasi senza parole.
La sorpresa è stata tale che ho risposto immediatamente dicendo la verità, senza nemmeno pensarci due volte: «Uno schifo.»
Le labbra di Roxanne si sono increspate brevemente, ma non abbastanza perché il suo potesse essere un sorriso.
«Hai ragione», ha confermato, «e perché è stata uno schifo?»
Di nuovo mi sono trovata quasi costretta a dire la verità, inchiodata da quelle domande che, nella loro semplicità, mi esponevano fin troppo.
«Per colpa tua», ho confessato, senza aver nemmeno il tempo di considerare la mia risposta inopportuna.
Roxanne, a dispetto di tutto, non è stata offesa dalle mie parole. Anzi, ha annuito e ha ammesso, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo che, sì, era vero, la settimana era stata uno schifo per entrambe proprio per colpa sua.
L’ho adocchiata, interdetta.
Lei è tornata a parlare, mantenendo gli occhi fissi sull’erba fresca del campo.
«Questa settimana…è stata strana. E’ stato come se fossi ritornata sola. Ero preoccupata perché sapevo che la mia famiglia sarebbe tornata per la cerimonia del diploma, ma non ero sicura se Liam sarebbe tornato oppure no…», ha detto rilasciando un respiro tremulo, «Avevo paura di incontrarlo di nuovo ed ero preoccupata, perché non avevo nessuno con cui parlarne e...no, più semplicemente ero preoccupata perché non potevo più parlare con te.», ha ammesso e io ho quasi trattenuto il respiro a quella rivelazione, «E...e oggi, oggi stavo impazzendo, perché tutte queste persone felici, tutti questi sorrisi, non fanno altro che ricordarmi che io, che ho rubato la felicità delle persone a me più care, non dovrei essere felice, mai. Pensi che…potrebbero mai perdonarmi se io ammettessi le mie colpe?»
La vedevo torturarsi le mani e respirare a fatica, tentando di cacciare indietro le lacrime, e questo mi ha trasmesso una sensazione molto peculiare.
Ho pensato tutto ad un tratto alle bugie della settimana precedente. Al motivo per cui non volevo che Roxanne ne venisse a conoscenza, al modo in cui avevo lottato perché tutto rimanesse nascosto e non le facesse vedere una parte di me che lei non sarebbe capace di perdonare. Una parte di me di cui deve restare per sempre ignara, per poter continuare a starmi accanto.
Lei non mi avrebbe perdonata. E sua madre e sua sorella non avrebbero perdonato lei. Oppure, anche se l’avessero fatto, il loro rapporto non sarebbe stato più lo stesso.
Non ci sarebbero stati abbracci affettuosi come quello a cui avevo assistito prima, ma solo occhi freddi che avrebbero continuato a ricordarle le sue colpe per sempre.
«No, non lo farebbero», ho risposto come se quello fosse un dato di fatto.
Roxanne, con la testa tra le mani, ha annuito, ammutolendosi.
Non riuscendo a star ferma, ho tirato la sua mano destra verso di me per fare in modo che mi guardasse, e lei, sebbene incerta, ha alzato il capo e mi ha fissata.
«Il tuo discorso è stato…d’effetto, davvero. », ha detto dopo averci pensato un po’, «Ti ho ascoltata, ma mi sembrava di essere semplicemente uno spettatore di quella che avrebbe dovuto essere parte della mia vita. Tu…tu non stavi parlando di noi, vero?»
Io l’ho guardata disorientata, incapace di rispondere e riuscire veramente ad afferrare ciò che lei intendesse.
«Ma è anche comprensibile. Noi non siamo solo delle parole, dopotutto», ha ricominciato, voltando il capo di nuovo verso il campo con un'espressione ancora pensosa in volto, «Le parole sono solo in grado di ferirci. Sono relative ed effimere, ma le sensazioni non mentono mai. Questa settimana è stata un incubo. Era come se mi mancasse un braccio e io non fossi mai stata consapevole di non averlo mai avuto. Ma senza il braccio perduto non si è più capaci di fare niente. Anche una folla di persone, disposte a fare qualsiasi cosa per te, non potrà mai sostituire la sola presenza di quel braccio che ti permetteva di essere autosufficiente.»
Mi sono sentita tremare, perché quelle parole scavavano affondo, pur essendo, a sua detta, solo semplici parole.
«Perché quel braccio ti permetteva di essere…», Roxanne ha fatto una pausa, incapace di trovare il termine giusto.
«.. completa.», sono intervenuta per aiutarla.
«Già…», ha ammesso Roxanne un po’ a disagio.
La sua mano era vicino a me, così vicina che non sono riuscita a non afferrarla.
«Mi dispiace», ho detto, rievocando le ultime parole con le quali avevo tentato di giustificarmi.
«Perché non mi hai detto la verità?», ha domandato Roxanne.
«Non l’hai appena detto? Le parole sanno solo ferirci. Ma quello che so, è che mi è mancato questo stupido braccio dalla testa dura», le ho detto con delicatezza, pronunciando i connotati negativi in un tono affettuoso.
«Come può un braccio avere la testa dura?», ha domandato stupefatta la Miller, allora.
«Non lo so, chiedilo al geniaccio che ha inventato tutta questa storia. E’ peggio di una parabola biblica», ho commentato, facendola ridere di gusto.
Con la sua mano ancora nella mia, ho tirato un lungo respiro, prima di balzare in piedi e incitarla a fare lo stesso. «Forza, andiamo dagli altri.»
«No», ha mormorato Roxanne, senza alzare il capo.
«Perché?», ho sbuffato esasperata. Non era di certo il momento più adatto per giocare a fare la bambina capricciosa.
«Non voglio.»
«Va bene, allora. Andrò via da sola», ho dichiarato perentoria, prima di girare i tacchi.
«No!», Roxanne mi ha afferrato il braccio, «Non possiamo restare semplicemente qui?»
«Perché?» Sapevo che mi stava nascondendo qualcosa, perciò sentivo il bisogno di indagare.
«E’ per Patty,» ha ammesso Roxanne abbattuta, «è stancante sentirla vantarsi senza sosta del fatto che le hai dedicato il discorso.»
Io non ho potuto fare a meno di scoppiare a ridere, sotto gli occhi sconcertati di Roxanne, la quale, invece, non sembrava affatto divertita.
«Che c’è, sei gelosa del fatto che lei proclama per suo un discorso che dovrebbe essere in realtà solo per te?»
Il lieve rossore apparso sulle guance di Roxanne mi ha risposto di sì.
«Allora c’è un solo modo per farle capire che si sbaglia», le ho suggerito all'istante.
«Quale?
»
«Dimostrarglielo!», con una tirata decisiva sono riuscita a farla alzare in piedi e a trascinarla con me dagli altri.
Mano nella mano, siamo tornate dal gruppo nutrito di famiglie e di studenti, ancora riuniti fuori dal campo di calcio.
Se lasciavo vagare il mio sguardo al di sotto delle mie spalle, verso il volto di Roxanne, potevo vedere impresso sulle sue labbra un sorriso.
E non era quel sorriso enorme e colmo di felicità apparente che lei aveva avuto cura di stamparsi in faccia per tutta la mattinata, ma un sorriso appena accennato e modesto: una lieve curva nella sottile linea delle sue labbra, dall'indiscutibile sapore malinconico, ma senza alcun dubbio più autentico di qualsiasi espressione che le avessi mai visto indosso.

Quanto a me, non ho lasciato andare quella mano per tutta la giornata.
E solo allora ho potuto tirare una volta per tutte un sospiro di sollievo.

Alla fine, eravamo tornate complete.

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Capitolo 20
*** cap 20: Il mondo e Noi ***


Mi scuso immensamente per l'aggiornamento così in ritardo! Spero che qualcuno continui a seguirmi, in ogni caso!
Un grazie mille a nikoletta89 e ninfea306, che hanno commentato lo scorso capitolo. La prima mi ha resa molto felice per il vivace entusiasmo che mi ha trasmesso con la sua recensione, e la seconda è sempre eccezionale nel recepire lo sviluppo dei personaggi. Tento di filtrare il più possibile i contenuti attraverso il punto di vista di Kate, ed è bello sapere che ogni tanto riesco a trasmettere ciò che vorrei davvero (mi accontento di poco XD). Grazie ancora ad entrambe, dunque.
Eccoci quindi alla ventesima tappa di questa storia! Questo capitolo è un capitolo di transizione, mi andava di scrivere di alcuni momenti quotidiani tra Kate e Roxanne, perciò per la vera azione(siamo sulla strada della conclusione!) aspettate i prossimi aggiornamenti. Spero, comunque che questo capitolo sia piacevole e veloce da leggere, poichè è meno lungo dei precedenti. In generale dovrebbe lasciare un po' di domande in sospeso, proprio in funzione del prossimo capitolo.
Buona lettura!

*La descrizione del Milwaukee County Zoo è presa dal sito ufficiale, tradotta quasi per la gran parte da me. Lo so, è una stupidata, ma Roxanne lo farebbe di certo XD.


***


Roxanne, malgrado naturalmente avvantaggiata dal suo carattere espansivo nello stringere amicizie, trovava essenzialmente complicato il processo successivo a questo: mantenere in piedi dei rapporti personali.
Avere a che fare con persone sempre diverse non era affatto un’impresa facile e priva di seccature.
Ogni volta che questo accadeva, infatti, Roxanne era costretta a sgombrare i suoi pensieri confusionari per poter focalizzarsi sulla persona che aveva davanti e permetterle di entrare nella propria vita, dedicarle un bel po’ di tempo e di attenzione anche nei giorni in cui avrebbe preferito stare sola, offrirle sorrisi, essere accondiscendente, gentile, cordiale…
Tutto ciò, però, non era stato necessario con Kate.
Roxanne non aveva dovuto scostarsi per lasciarla passare, né aspettare che lei decidesse di concederle la sua compagnia, semplicemente la ritrovava accanto a sé, come se questa fosse la cosa più naturale del mondo, in quei momenti in cui lo spazio libero necessario per ognuna di loro diventava troppo, il silenzio gravava insopportabile, oppure il desiderio di stringere una mano calda nella propria s'era fatto opprimente.
Senza alcuno sforzo, Kate aveva colmato ogni spazio, infilandosi in ogni minima frattura, portando Roxanne per la prima volta a pensare che la sua vita non fosse poi così caotica come credeva all'inizio.

Ritornando con la mente al presente, rilasciò un respiro tremulo dalle labbra ormai secche.
Sebbene per lei i ricordi fossero sempre stati solo un tormento, rivivendo i momenti impressi sulla carta di quel diario, Roxanne provò qualcosa di immensamente diverso dal solito: nostalgia.
Nessuna di quelle pagine parlava di qualcosa che l'intimoriva o le faceva desiderare di fuggire via. Affatto.
Ogni singolo attimo, ogni singolo respiro, ogni risata condivisa, era un qualcosa di caro da cui non avrebbe voluto mai separarsi.
Perché le cose erano andate a finire in quel modo, allora?
A questo, però, non seppe rispondersi.
Riuscì solo a trovare una giustificazione all'intenso pulsare del suo cuore, sollecitato dalle memorie di quell’estate.
Lei, nonostante tutto, le mancava.

Da morire.


17 giugno


A meno che la mia memoria non m’inganni - di rileggere il diario non se ne parla -, la scorsa volta ho parlato della cerimonia del diploma, e, di conseguenza, del discorso che ho letto in tale occasione, per poi concludere la ricapitolazione della settimana con la mia riconciliazione con Roxanne.
Forse troppo stanca di scrivere, ho scordato di descrivere i festeggiamenti che sono seguiti alla consegna dei diplomi, il lancio di rito dei classici cappelli indossati sulla toga, e i ricchi banchetti successivi.
Ad essere sincera, mi sarei aspettata di trovare un’atmosfera più nostalgica e piena di esasperati patetismi, ma al termine della cerimonia, tutti i miei compagni mi sono sembrati molto energetici e fiduciosi nei loro propositi futuri. Qualcuno mi ha detto persino che è stato proprio il mio discorso ad averlo aiutato a pensare in questa maniera.
Io, d’altra parte, sono tornata a casa con un’inspiegabile sensazione di benessere, ho lasciato alla mia domestica il diploma perché lo incorniciasse, e dopo aver conservato la mia toga azzurra sul fondo di un cassetto, sono crollata sul mio letto e mi sono addormentata quasi subito, come mi accade difficilmente.
Si era appena conclusa una dura settimana, durante la quale ero stata messa più volte sotto pressione, e io ormai non desideravo altro che riposare. Un po’ di preoccupazioni erano sparite nella mia lista delle priorità, e altre cose si erano sistemate in un modo che io inizialmente non avevo previsto; come se un puzzle avesse acquistato improvvisamente un senso di fronte ai miei occhi, nonostante le parti ancora mancanti.
Mi trovavo di fronte ad una svolta della mia vita: il momento che avevo sempre desiderato, il momento in cui avrei finalmente intrapreso il mio futuro, era arrivato, eppure io non avevo alcuna fretta di percorrerlo, decidendo, invece, di assaporarlo gradatamente.
Anche il tempo sembrava scorrere in una maniera più delicata: con passi misurati e accorti, senza spaventarmi, né sorprendermi in una qualche maniera.
E’ stato allora, probabilmente, che ho ammesso a me stessa di essere stanca di fissare il soffitto e controllare costantemente l’orologio, per trovare inspiegabilmente le lancette quasi sempre nella stessa posizione.
Ero nelle stesse condizioni stamani, quando il mio cellulare ha squillato a vuoto un paio di volte, diffondendo nella stanza un’allegra suoneria. Poco dopo è sopraggiunta Susie che, grattando insistentemente contro la porta della mia stanza con le sue unghie affilate, mi ha fatto capire di volere entrare.
Io, però, non le ho aperto, limitandomi ad ascoltare insieme agli insistenti miagolii, i rumori di stoviglie provenienti dal piano inferiore.
Ho continuato a restare ferma sul materasso, immobile, non perché volessi realmente farlo, ma perché qualsiasi azione, oltre respirare, sembrava costarmi fatica.
Il mio cellulare ha rotto il silenzio ancora una volta e, sospirando esasperata, ho allungato la mano per raggiungerlo, tastando a vuoto il comodino, fino a percepirlo squillante sotto le mie dita.
«Pronto?», ho bofonchiato, senza nemmeno verificare l’ID chiamante.
«Kate! Sono ore che ti chiamo! Che fine avevi fatto?», mi ha domandato la voce di Ashley, accorata.
«Nessuna fine orribile, a quanto pare, se sono ancora qui a parlare con te», ho ribattuto in un tono palesemente acido che l’ha acquietata per qualche secondo.
«Oh, oh, capisco…», ha mormorato, anche se io dubitavo fortemente la verità di tale affermazione.
Dopo un breve momento d'esitazione, s’è concessa persino un'imbarazzata risatina, «Volevo solo dirti che la prenotazione è andata a buon fine.»
Cosa?
«Prenotazione? Quale prenotazione?»
«Quella per l’Europa, no?», ha risposto, come se quello fosse un semplice dato di fatto.
Io ho fatto un lungo sospiro, per evitare di gridare nella cornetta.
Mi ero già dimostrata piuttosto scortese all’inizio, perciò sarebbe stato meglio calmarmi prima di continuare la conversazione.
«Di cosa stai parlando?», ho dirottato la mia impazienza, preferendole un’intonazione apatica.
«Dai, Kate! Non fare la finta tonta! Non avevamo già deciso di organizzare un viaggio all’estero alla fine della scuola?»
L’avevamo programmato? Io non ricordavo nulla in proposito, fuorché il loro inutile blaterare, a cui non avevo mai dato troppa importanza.
Vista la mancanza di segnali di vita da parte mia, Ashley è andata in panico.
«Oddio! Non può essere! Te ne sei scordata?»
Chi tace acconsente. Ho continuato a star zitta, lasciando al famoso detto il compito di rispondere per mio conto.
«Non è possibile!», ha ripreso a lamentarsi Ashley, «E adesso che facciamo?»
«Come “adesso che facciamo”?», ho ripreso a parlare, «Va’ subito a disdire tutto!»
«Non posso!», ha piagnucolato lei, «Partiamo dopodomani mattina! Ho già comprato i biglietti aerei e pagato l’agenzia!»
Che razza di situazione…
Ho affondato il viso nella mano che non reggeva il cellulare, colta da un intenso nervosismo.
«Come…come vi è saltato in mente di organizzare tutto senza avvisarmi?!», finalmente le ho urlato contro, fregandomene del resto, e mi sono sentita soddisfatta di poter scaricare la mia rabbia su qualcuno.
Anche se non mi era possibile vederla, ho chiaramente immaginato Ashley fare un brusco passo indietro, intimorita, dopo esser stata sgridata.
«Kate scusami!», ha iniziato a singhiozzare lei, «Pensavamo che anche tu e Roxanne foste d’accordo e abbiamo anticipato le vostre quote. Ho combinato un casino!»
A proposito di Roxanne, era anche lei a conoscenza di tutta questa storia e non mi aveva avvisata? Come aveva osato?
«Lo sapeva anche Roxanne?», ho domandato a bruciapelo, ignorando le sue auto commiserazioni.
Ashley ha tirato su con il naso prima di rispondere incerta: «Beh c’era anche lei il giorno in cui abbiamo proposto il viaggio, no?»
«Non intendo quello!», ho sbraitato, nuovamente irritata, «Anche lei è a conoscenza della vostra stupida prenotazione?»
«…No.»
Più che nascondere ancora una volta il viso nel mia mano destra con un fiacco sospiro, ho sbattuto violentemente il palmo contro la mia fronte, sperando quasi per un momento che quelli fossero solo dei deliri febbricitanti.
Era praticamente impossibile, però, credere di avere la febbre a metà giugno, con tutto quel calore asfissiante, attenuato solo dai condizionatori in casa.
L’unico aspetto positivo in tutta questa faccenda era che, perlomeno, Roxanne aveva mantenuto la sua lealtà nei miei confronti, a differenza di quelle infami Gallinelle.
Il respiro affrettato ed esitante di Ashley continuava ad infrangersi contro la cornetta, in trepidante attesa di una mia risposta.
«Va bene, l’avviserò io allora», ho risposto dopo un po’, rassegnata.
Ashley è stata colta dall’entusiasmo, scordando il rammarico precedente: «Quindi verrai?»
«Non c’è altra soluzione, no?», le ho fatto presente in tono severo, «Se non ci andiamo perderai tutti i soldi che hai già pagato, giusto?»
«Sì…», ha confessato costernata, sebbene non riuscisse a reprimere totalmente la propria euforia.
Io ho sospirato pesantemente.
Quali alternative avevo ad un viaggio in Europa con le Gallinelle e Roxanne?
Un’estate di party in piscina, sbronzate in piscina, nuotate in piscina, full immersion in piscina, totalmente uguale a quelle degli anni precedenti.
C’è Princeton, a settembre, è chiaro, ma mancano più di due mesi all’inizio dell’università. E’ troppo presto perché io me ne preoccupi.
Ho sospirato ancora, tentando di risollevare il mio umore con pensieri più gradevoli e adatti a me: prima di partire avrei dovuto fare shopping in abbondanza e rifornirmi di tutto ciò di cui avevo bisogno. Una bella sessione di shopping è sempre capace di rendermi attiva e pimpante. E poi non mi stavo già annoiando?
In più l’Europa, sede delle più grandi casate di moda, ha sempre rappresentato per me l’olimpo dell’eleganza e del buon gusto. Sarebbe stato quasi coronare un sogno andarci per un bel tour, no?
Sono stata a Parigi quattro anni fa, è vero, ma allora ci ero andata assieme a mia madre, per accompagnare mio padre durante un viaggio di lavoro a nome dell’ambasciata, e perciò non avevo avuto potuto di girare in lungo e in largo, come invece avrei voluto.
«Va bene», ho sospirato, contenta di essere straordinariamente persuasiva persino con me stessa, «Io intanto avviso Roxanne. Ti chiamo più tardi per sapere tutti gli altri dettagli. Hai detto che partiamo dopodomani, vero?»
«Sì, è un volo diretto dal General Mitchell alle 08.24 di mercoledì mattina!»
Chiudendo in fretta la conversazione, per iniziarne un’altra diretta a Roxanne, ho deciso di tirarmi su da letto e iniziare a preparami. Lamentandosi o meno, Roxanne stavolta sarebbe stata costretta a far shopping con me a qualsiasi costo. Ricordavo che era stata una spina nel fianco le volte precedenti, ma l’impellenza della nostra partenza l’avrebbe sicuramente convinta a seguirmi.
Come al solito, però, Roxanne ha rovinato tutte le mie previsioni.
Un’ora dopo la mia chiamata, infatti, eravamo sedute nei comodi sedili dell’abnorme jeep guidata da Madison e dirette verso il centro commerciale, visibilmente contro la sua volontà.
Pur maledicendo ancora una volta l’arrampicata necessaria per raggiungere la jeep, ero piuttosto soddisfatta che Madison avesse deciso di darci un passaggio, oltre che avermi spalleggiata nel portare con la forza Roxanne assieme a noi, dopo aver saputo della nostra imminente partenza per l’Europa.
Roxanne aveva deciso persino di sedersi nei sedili posteriori, in segno di aperta ostilità nei miei confronti e in quelli di sua sorella.
«Non intendo stare vicina ad una di voi due, né parlarvi!», aveva dichiarato, incrociando le braccia e spingendo il mento all’insù, con un broncio ben visibile sulle sue labbra, «E tu poi, Madison, sei una traditrice!»
Io ho guardato Madison, seduta al volante di fianco a me, con un’espressione incuriosita.
«Traditrice? Perché?»
Madison ha roteato gli occhi scuri, tenendoli comunque fissi sulla strada, «Veramente le avevo promesso che l’avrei portata in un posto oggi…»
«Ecco, bene! Spiega perché sei inaffidabile e una traditrice! Dovevi portarmi al Milwaukee County Zoo stamattina!», è intervenuta energicamente Roxanne alle nostre spalle.
«Milwaukee County Zoo?», ho ripetuto, sopresa.
«Sì», ha esclamato Roxanne, proseguendo tutto d’un fiato, «Il Milwaukee County Zoo è una casa serena per più di 1800 mammiferi, uccelli, pesci, anfibi e rettili, con più di 350 specie rappresentate.
Riconosciuto come una delle più grandi attrazioni zoologiche del paese, il Milwaukee County Zoo è una risorsa per educare, divertire ed inspirare.
L’avventura iniziò nel 1892, quando il Milwaukee County Zoo era una semplice mostra di mammiferi ed uccelli nei sobborghi di Milwaukee. Nel 1902, la superficie dello zoo si è espansa fino a raggiungere i 23 acri e 800 feroci animali. Trentadue anni dopo, lo zoo poté crescere ulteriormente e prosperare. Ne ebbe l’occasione nel 1958, quando lo zoo si trasferì nella sua attuale locazione di 200 acri, ricchi di meravigliose aree verdi, colme di attrattive per i più grandi e i più piccoli. Dieci anni dopo il trasferimento nella sua attuale posizione, lo zoo vide diversi sviluppi nella sua struttura: L’Edificio dei Primati, L’Isola delle Scimmie e la costruzione dei Quartieri Invernali. Negli anni 60, vennero completate le tane per i grizzly, orsi polari e orsi bruni, come quelle dei felini, pachidermi, giraffe, uccelli, piccoli mammiferi, rettili e quelle per i marsupiali.
Al giorno d’oggi il Milwaukee County Zoo è tra i più grandi zoo d’America e si distingue tra questi per il suo attivo coinvolgimento nei programmi di recupero delle specie in via d’estinzione.
E’ chiaro che il Milwaukee County Zoo è e rimarrà una delle attrazioni di punta del Wisconsin. Con la sua rinnovata collezione di animali e speciali esibizioni, lo Zoo offre ai visitatori un percorso educativo e di sicuro divertimento, assolutamente da non perdere!»
Ho fissato Roxanne senza parole, dopo il lungo monologo che l’ha lasciata letteralmente senza fiato.
«Ha guardato talmente tante volte il volantino che l’ha imparato a memoria», è intervenuta Madison, rassegnata.
Io non sono riuscita a trattenere una prorompente risata. Un comportamento simile non si poteva definire in altro modo. Era semplicemente Roxannesco.
Roxanne mi ha lanciato un’occhiata stupefatta che ho intercettato dallo specchietto retrovisore: «Bene! Adesso le traditrici sono due!»
«Milwaukee County Zoo?», ho ripetuto, ignorando i suoi sguardi omicidi, e continuando a ridacchiare. Poi ho voltato leggermente il viso nella sua direzione, scrutandola: «E’ per questo che ti sei vestita come se dovessi partecipare ad un safari?»
Il colorito di Roxanne ha assunto tinte scarlatte, mentre istintivamente le sue mani si sono strette attorno al suo corpo, nel tentativo di nascondere il suo vestiario: una semplice canotta nera indossata sopra un paio di bermuda beige, in lino, il tutto coordinato ad un cappellino a visiera, dal quale faceva capolino sul retro una folta capigliatura mogano, acconciata in una coda di cavallo. Scarponcini adatti al trekking, zainetto in spalla e macchina fotografica appesa al collo con un laccetto, completavano poi la scena.
Non sono riuscita di nuovo a trattenermi dal ridere, accompagnata questa volta da Madison, la quale ha poi ammesso di non essersi accorta dell’abbigliamento a tema della sorella, finché non gliel’avevo espressamente fatto notare io.
«Sporche traditrici!», ci ha accusato di nuovo Roxanne con fare volutamente drammatico, «Giuro di non rivolgervi più la parola!»
«Sono più di venti minuti che aspettiamo che tu lo faccia», ha scherzato Madison, tamburellando le dita sul volante, «Eppure non hai smesso neppure per un secondo di blaterare.»
«Se io la smettessi di blaterare», ha spiegato lei, per nulla turbata, «voi due avreste dei musi lunghi quanto…quanto…»
«Serve aiuto?», sono intervenuta io, ridendo nonostante tutto.
«No, ce l’ho! Ce l’ho!», ha risposto Roxanne, «Se io la smettessi di blaterare, voi due avreste dei musi lunghi quanto il Mississipi
«Bel paragone», ha commentato Madison, e il suo sorriso ha perso per qualche strano motivo il brio iniziale.
«E anche tu, Kate! Non pensare che l’espressione di prima mi sia sfuggita!», è tornata alla carica Roxanne, sorprendendomi.
«Beh», ho esitato, «è perché le ragazze mi hanno avvisata all’ultimo momento e hanno scombussolato tutti i miei piani.»
«Anche i miei piani sono stati totalmente scombussolati!», ha annuito Roxanne con fervore, «Ma qui non sembra importare a nessuno!»
«Andiamo, Anne, lo zoo non scappa di certo», ha tentato di calmarla Madison.
Roxanne s’è azzittita e io, incuriosita, mi sono voltata a guardarla, ostacolata in parte, però, dalla cintura di sicurezza.
Fino a quel momento, la minore delle Miller aveva insistito a recitare la parte dell’imbronciata, lamentandosi e assillandoci, sebbene io l’avessi vista discretamente soddisfatta delle nostre risate e del generale buon umore diffuso nell’abitacolo a causa sua. Stavolta, però, il suo temperamento si era acquietato repentinamente, e solo un sussurro, che tuttavia non sono riuscita comprendere interamente, è fuoriuscito dalle sue labbra.
Sopportando la cintura di sicurezza tesa contro il mio collo, ho sbirciato la sua figura intenta a guardare fuori dal finestrino, cercando di convincermi che le sue ultime parole non fossero state: «E se fossi io a scappare?»
Dopo qualche secondo di silenzio, che ho sopportato a fatica a causa dall’ansia che quella presunta frase mi aveva trasmesso, Roxanne è tornata a parlare: «Non ho ancora chiesto a mamma di prestarmi i soldi per il viaggio. Sarà d’accordo secondo te, Mad?»
Chiaramente esclusa da quel tipo di domanda, ho fatto in modo di mantenere almeno in apparenza la mia discrezione, fissando lo sguardo verso il paesaggio soleggiato che scorreva ai bordi della carreggiata.
Per me, d’altronde, i soldi non sono mai un problema. Basta solo una telefonata a papà, e la mia carta di credito mi permette di fare qualsiasi acquisto.
«Sai che mamma sarebbe pronta a spendere qualsiasi cifra per te, dopo il modo in cui il Preside e gli altri insegnanti ti hanno lodata il giorno del diploma», le ha risposto Madison, mantenendo gli occhi fissi sull’automobile che ci precedeva, «e se avessi trascorso tutto l'anno scolastico a Milwaukee, saresti stata persino in pole position per il ruolo di valedictorian.»
La sua affermazione mi ha ovviamente infastidita, anche se ho tentato in tutti i modi di non darlo a vedere. Considerando che ero stata io la valedictorian di quell’anno, affermare che Roxanne avrebbe meritato pienamente quel titolo, equivaleva in qualche modo a screditare la mia persona. Avevo ricevuto parole simili dallo stesso Preside e, di certo non mi aveva fatto piacere. Se avessi potuto, avrei volentieri spaccato la faccia di quel vecchio rimbambito, che aveva osato assegnarmi un tale compito solo cinque giorni prima della cerimonia ufficiale. Magari avrei riservato a Madison un atteggiamento meno crudele, dato che talvolta avevo apprezzato la sua compagnia, ma non avrei comunque tollerato simili parole da parte di nessuno.
Roxanne ha pensato bene di intervenire al mio posto, prima che io potessi rispondere in maniera esplosiva: «No, no. Io non sarei mai stata in grado di fare il magnifico lavoro che ha fatto Kate…assieme a tutto il resto
Sapevo bene cosa Roxanne intendesse con “resto”, ma onestamente non credevo di potermi assumere tutti i meriti in proposito. A dire il vero, nemmeno io avevo ben presente quale fosse stata la dinamica che ci aveva portate a riappacificarci.
«Sì, certo, non volevo togliere nulla al discorso di Kate, ci mancherebbe», s’è corretta immediatamente Madison, e io le ho semplicemente rivolto un falso sorriso salottiero, mettendo da parte i miei propositi di vendetta.
A convincermi era stato soprattutto il pronto intervento Roxanne, e non di certo quelle insulse giustificazioni dell’ultimo momento.
«In ogni caso», la ventitreenne si è focalizzata nuovamente sul proposito iniziale della loro discussione, «Non devi preoccuparti dei soldi, mamma non esiterà a pagare. Te lo meriti. E poi sabato, prima che tornasse in Florida, mi aveva persino accennato di voler vendere il camper…»
«Il camper?!», ha esclamato Roxanne con un salto, e tutto il veicolo è stato scosso dal brusco movimento.
«Sì. Nessuno lo guiderà più, d’altronde. E mamma vuole solo sbarazzarsene.»
«Ma certo», Roxanne ha risposto ironica dal sedile anteriore, «Sbarazzarsene è la soluzione migliore.»
Io ho iniziato a sentirmi un po’ a disagio. Non mi andava di essere così palesemente esclusa dalla conversazione, incapace persino di individuare il significato nascosto dietro quelle parole.
Madison ha sbuffato.
«Cerca di capirla, Anne. E’ necessario andare avanti. E poi lei adesso ha Liam e…»
Ero certa, anche se non mi era stato possibile accertarmene, che Roxanne avesse trattenuto come me il respiro alla menzione di quel nome, per poi fermare bruscamente la sorella.
«Va bene, ho capito», ha detto in un tono privo di qualsiasi spessore, «Hai ragione. Mamma ha ragione. Tutti quanti hanno ragione, tranne me.»
«Anne-»
«Oh, ecco! Siamo arrivati!», ho esclamato, cambiando argomento. Era estremamente frustrante non capire a cosa si stessero riferendo.
«Già», ha concordato Madison.
«Ahimè!», ha sospirato Roxanne, riacquistando rapidamente le vesti di eroina tragica, «E’ arrivato il momento di dire definitivamente addio alla mia visita al Milwaukee County Zoo!»
Io e Madison abbiamo sogghignato in risposta.
Fortunatamente, i discorsi troppo seri e difficili da comprendere erano stati messi da parte.
«Voi due potete scendere già», ha detto Madison un momento dopo, fermando la jeep di fronte all’ingresso del centro commerciale, «Io vado a cercare un parcheggio. Aspettatemi qui.»
Trattenendo il respiro, sono letteralmente saltata dalla jeep, ringraziando di indossare delle calzature basse, abbinate ad un paio di pantaloni bianchi scampanati ed una camicetta a maniche corte, sempre bianca, sulla quale avevo indossato un gilet marrone, chiuso sul davanti da grandi e simpatici bottoni, nei quali purtroppo tendeva ad impigliarsi spesso la collana multifilo che portavo al collo.
L’atterraggio è andato bene sia per me che per Roxanne (versione safari selvaggio), che ho potuto esaminare meglio una volta scesa dall’auto.
Ho sghignazzato, mio malgrado, adocchiando nuovamente la sua mise, e Roxanne mi ha trucidata con lo sguardo, fino a che Madison non ci ha raggiunte poco dopo.
Roxanne, come avevo previsto, non è stata affatto facile da gestire. Preferiva rintanarsi in negozietti assolutamente inutili, per poi emergerne con ogni sorta di cianfrusaglia possibile, piuttosto che concentrarsi su quello che ci sarebbe stato utile per il viaggio.
Ridotta alle strette, allora, Madison ha iniziato a comprare per lei, senza chiederle nulla, e costretta ad intervenire per fermarla, Roxanne alla fine ha scelto ciò che le piaceva di più tra quello che la sorella aveva selezionato.
Abbiamo acquistato insieme anche due set di trolley in coordinato. A casa ne ho già uno firmato, ma Roxanne si era talmente impuntata, perché prendessimo gli ultimi colori rimasti (blu per me, rosso per lei), che ho finito per accontentarla. Ora che ci penso, nonostante la decisione improvvisa delle Gallinelle mi avesse disturbata non poco, dovevo essere di certo di buon umore per avere un simile atteggiamento. Un umore che ha continuato a migliorare mano a mano che il tempo passava e l’eccitazione per il viaggio cresceva. Roxanne, allo stesso modo, dopo i capricci iniziali, ora zigzagava di qua e di là, immaginando i vari scenari europei e le peripezie che avremmo affrontato, sebbene non sapessimo poi molto dell’itinerario che avevano scelto le altre.
Non che ci fosse poi molto da immaginare, comunque, dato che mancavano poco meno di quarantott’ore alla partenza.
Dopo più di quattro ore e mezza di shopping non-stop, abbiamo deciso di mandar giù un boccone per il pranzo, anche se un po’ fuori orario.
Per la prima volta ho visto Roxanne non mangiare solo ed esclusivamente alimenti dolci, e la visione mi ha scioccata non poco.
In risposta al mio stupore, Roxanne ha sorriso, dopo aver trangugiato con gusto più di metà del suo trancio di pizza: «Madison non vuole che io esageri con i dolci.»
«Per forza, non fai che mangiare altro. Il tuo corpo ha naturalmente bisogno di proteine, e fibre, oltre che di zuccheri», ha risposto Madison, seduta di fronte a lei, addentando a sua volta un hot dog.
Io ho ridacchiato sotto i baffi all’assurdità di quel commento salutista, proveniente proprio da qualcuno intento a mangiare del fast food.
Poco dopo siamo definitivamente uscite dal centro commerciale, cariche di buste, e Madison si è di nuovo allontanata in cerca del luogo dove aveva parcheggiato la jeep, mentre noi abbiamo deciso di aspettarla all’ingresso. La differenza climatica tra l’ambiente interno e l’insopportabile afa all’esterno era innegabile.
Eppure, nonostante il caldo, avremmo continuato ad aspettare Madison lì, se Roxanne, noncurante dei pacchi che trasportava in mano, non si fosse letteralmente precipitata verso un’altalena, circondata da un mini parco giochi riservato ai più piccoli.
Io ho tentato di richiamarla: «Roxanne, dobbiamo andare!»
«Un momento solo!», ha gridato lei in risposta, accomodandosi sull’asse di legno dell’altalena, per poi darsi una leggera spinta e iniziare a dondolare.
L’ho raggiunta sbuffando e lei mi ha accolta con un gran sorriso, indicando il sedile libero accanto al suo.
«Dai, Kate! Provaci anche tu!»
«No, grazie.», ho risposto in un tono pacato, «É tardi. Madison ci starà sicuramente aspettando all’entrata.»
«Solo un minuto!», ha riso lei, spingendo le gambe in avanti per aumentare la velocità del dondolio, «Adoro le altalene!»
Ho trattenuto il sorriso che stava per sfuggirmi, avendo cura di mantenere un atteggiamento impassibile: «Buono a sapersi. Ora andiamo.»
«Quanto sei noiosa!», ha esclamato lei, leggermente affannata, e, nonostante la mia occhiata omicida, ha continuato imperterrita il suo discorso, «Non piacerebbe anche a te sentire questa fresca brezza sul viso, nonostante il caldo, mentre ti dondoli liberamente senza nessun pensiero?»
Di fare caldo, effettivamente faceva caldo. Anche troppo.
Mi stava seriamente tentando.
«Sei un demonio», le ho detto a denti stretti.
Lei mi ha risposto con una fresca e sonora risata, ben lontana dall'essere demoniaca.
La mia forza di volontà, infiacchita dalla calura, è stata capace di fornirle solo una misera resistenza: «I miei pantaloni sono bianchi, potrei sporcarmi.»
Roxanne, ha deciso di aizzarmi, sfruttando a suo favore la mia naturale competitività.
«Basta scuse», ha dichiarato categorica, «Dì la verità: non ne sei capace!»
Ho alzato un sopracciglio, aggrottando la mia fronte ormai sudata, «Stai cercando di provocarmi?»
«Esattamente!», il suo volto si è illuminato di un sorriso, e i capelli stretti nella lunga coda, sono stati frustrati all’indietro dal movimento ondulatorio dell’altalena.
«Andiamo! Solo per un po’!», ha continuato Roxanne e io, mi sono lasciata lusingare da quel richiamo.
«E va bene!», ho detto, prendendo posto sul sedile accanto a quello di Roxanne, mentre quest’ultima esultava con piccoli gridolini. Ho iniziato a spingere l’altalena con le gambe, fino a raggiungere una velocità accettabile.
Oh, davvero. Che magnifica brezza.
«Visto che bello?», mi ha richiamata Roxanne e io mi sono accorta solo allora di aver chiuso le palpebre quasi in un’estasi mistica.
«Sì», le ho risposto concedendole un sorriso.
«Vediamo chi riesce ad andare più forte?», mi ha proposto lei e, anche se una parte di me continuava ad obiettare che esser contagiata così da Roxanne fosse un’azione estremamente stupida ed infantile, non ho potuto fare a meno di accettare.
E tra quelle risate, quelle urla di vittoria per un match in cui era praticamente impossibile trovare dei vincitori o dei vinti, con i nostri capelli che perdevano totalmente la loro piega iniziale, ho notato una cosa magari un po’ scontata, a cui però non avevo fatto mai caso prima.
Quando noi siamo in movimento, anche il mondo lo è. Quando saltiamo, anche lui salta con noi in cerca del cielo, e quando scendiamo a terra, lui ci accoglie sempre e comunque, ponendo un fine alla nostra caduta.
Roxanne dondolava nel mio campo visivo, mostrandomi il suo sorriso dondolante, e dondolanti erano anche i suoi occhi e il battito del mio cuore.
Trascinata dal vento che penetrava le mie narici, asciugava il mio sudore, sferzava violentemente la mia capigliatura, sono stata vittima dell’illusione che fossimo parte di un moto perpetuo.
Sono stata vittima dell’illusione che Roxanne avrebbe continuato a dondolare assieme a me all’infinito, con le sue mani strette alle catene che reggevano il sedile all’intero supporto, e le gambe ricoperte dai bermuda, proiettate in avanti per acquistare una maggiore spinta, in grado di competere con la mia.
Per qualche istante mi sono illusa che tutto ciò potesse durare per sempre. Che noi potessimo stare lì per sempre.
Ad interromperci ci ha pensato però un colpo di tosse, di qualcuno che cercava evidentemente di catturare la nostra attenzione, prima totalmente focalizzata su quella piccola gara.
Roxanne s’è fermata di colpo, tenendosi bene stretta alle catene, per non essere sbalzata via dall’altalena e anche io ho subito rallentato, per rendermi conto di chi si trattasse.
Una donna, affiancata da altre due signore e da quattro bambini impazienti, ci guardava spazientita, picchiettando le dita nervosamente sulle sue braccia conserte.
«Allora ragazze, credete sia possibile permettere anche a questi bimbi di divertirsi come stavate facendo voi fino ad un secondo fa?», ha domandato la signora, rivolgendoci un sorriso velenoso.
Roxanne, si è immediatamente alzata, rossa in viso, raccattando le nostre buste, e io ho fatto lo stesso, facendo ben attenzione a rivolgere alla signora che aveva parlato un sorriso ben più perfido e calcolatore del suo.
«Ma certo», è stata la mia noncurante risposta al vetriolo, «Fate pure.»
Poi ho sostituito al falso sorriso un’espressione che sembrava suggerire molto eloquentemente: “Fottiti, vecchia stronza”, lasciando le altre donne alquanto stupite, prima di seguire con calma regale Roxanne, che si era già allontanata in tutta fretta, senza assistere alla scena (per fortuna).
Avrei voluto rivolgere un altro “Fottiti, stronza”, anche a Madison, la quale ci ha assillate con ogni sorta di rimprovero al nostro ritorno, ma obiettivamente ho dovuto riconoscere che anche lei aveva le sue ragioni.
«Mi avete lasciata qui ad aspettarvi come una stupida!», s'è lamentata Madison. Io e Roxanne abbiamo preferito tacere, lasciandola sfogare.
«E si può sapere dove vi siete andate a cacciare nel frattempo? Mi avete fatta preoccupare!», ha continuato, e noi non abbiamo fatto alcuno sforzo per fermarla.
Io avrei voluto in qualche modo discolparmi. Perchè dovevo accettare così passivamente quelle grida?
Non era stata tutta colpa di Roxanne, in fondo? Non mi aveva trascinata lei in qualcosa che non avrei voluto fare?
Voltando leggermente il viso dal suo posto del passeggero, che questa volta aveva deciso di occupare, lasciando a me i sedili posteriori, Roxanne mi ha rivolto di nascosto un piccolo sorriso, nel bel mezzo dei borbottii di Madison.
«Ma mi state almeno ascoltando?»
Ignorando gli sproloqui di Madison, non sono riuscita a non ricambiare lo sguardo di Roxanne attraverso lo specchietto retrovisore.
Quando noi siamo in movimento, anche il mondo lo è. Quando sorridiamo, anche il mondo sorride.
Ci ho pensato un po' su e le ho sorriso, lasciando perdere le colpe e le responsabilità. Non contavano più molto adesso.
Roxanne ha inclinato leggermente la testa, continuando a guardarmi. Ne è valsa la pena, no?
Le ho sorriso ancora.
Assolutamente.


Ok, piccola annotazione. Porterò con me in viaggio questo diario e racconterò tutte le nostre esperienze non appena mi sarà possibile, senza aspettare che passi una settimana. Ho già rotto oggi questa piccola regola, d’altronde. Dovrò solo fare attenzione che né le Gallinelle, né Roxanne lo scoprano o lo leggano. Probabilmente farei meglio a tenerlo sempre in borsa, visto che non è molto ingombrante. Sì, penso proprio che farò così.
Al prossimo aggiornamento, allora! L’Europa mi aspetta!
(E menomale che all’inizio non ero per niente eccitata al pensiero di un viaggio all’estero…)

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Capitolo 21
*** cap 21: Frullato di ricordi ***


Dopo infinito tempo sono ritornata, lo so, lo so, il mio ritardo è stato imperdonabile, ma il lato positivo è che così posso augurare a tutti un buon anno! Ringrazio infinitamente Ninfea Blu e nikoletta89 che avevano commentato lo scorso capitolo (adesso per rispondere ai commenti c’è un metodo più pratico e conto di usarlo!)
Il mio intento in questo capitolo è stato essere il più realistica possibile e spero di esserci riuscita.
Sul volo e i suoi tempi, l’albergo, i locali visitati da Kate e dalle sue amiche mi sono informata il più possibile, ma ci sono comunque delle piccole libertà che mi sono dovuta prendere per forza di cose.

(*)Sparkle Motion è un riferimento al film Donnie Darko, siete curiosi di capire a cosa mi riferisco potete vedere l’inizio di questo video. Il vestito "Sparkle Motion" di Kate è ispirato a questa immagine di Taylor Swift. Buona lettura e alla prossima!


Se non vi ricordate dove eravamo arrivati…

Kate è straordinariamente bella, popolare con il sesso opposto e la reginetta (solo apparentemente) superficiale della scuola. Si dimostra gentile e amichevole con tutti, ma in realtà cova dentro di sé rancore verso gran parte delle persone e una glaciale freddezza nei rapporti umani. Roxanne ama disegnare ed essere eccentrica. Imbranata, testarda e sensibile, appena trasferitasi dalla Florida conquista al primo colpo tutti gli amici di Kate, e quest'ultima non può fare a meno di sentirsi minacciata dalla sua crescente popolarità.
Una volta che Roxanne entra nella sua vita, però, Kate cerca più di ogni altra cosa di continuare ad odiarla, ma i suoi sforzi ben presto si rivelano vani.


Kate e Roxanne si sono appena diplomate e sono dirette alla stessa università, Princeton, in pochi mesi. Andando a Princeton, Kate si separerà dalle Gallinelle, quattro ragazze molto superficiali e sue “amiche” (se solo Kate avesse meno ritrosie ad usare questa parola) da una vita.
Assieme alle Gallinelle e Roxanne, Kate parte per una vacanza in Europa, forse ultima meta di sballo e divertimenti della sua adolescenza…

***

Essere circondati da mucchi di persone e rendersi conto di contare solo sullo sguardo di una di queste, perché tutti gli altri potrebbero anche esserti contro, ma è solo lei a fare la differenza.

Roxanne sa cosa vuol dire.

Roxanne lo ricorda.




19 giugno (mercoledì – primo giorno)

Sono quasi le sei e mezzo di pomeriggio. Siamo arrivate da poco in albergo dall’aeroporto e Roxanne si sta facendo una doccia. Mi ha detto che ci metterà parecchio, perciò piuttosto che gridarle dietro di sbrigarsi, utilizzerò questo ritaglio di tempo per scrivere ciò che è accaduto dal momento della partenza.
Stamattina, mercoledì, come previsto, io, Roxanne e le Gallinelle ci siamo incontrate all’aeroporto General Mitchell alle 06.00 circa, e dopo aver sostato per un po’ senza alcun particolare proposito, alle 06.30 ci siamo dirette al check-in.
Temevo il momento in cui il mio bagaglio sarebbe stato pesato. Il limite di peso era 18 kg, com’era scritto in neretto sul depliant che avevo in mano, e sì, l’avevo pesato un migliaio di volte il giorno precedente, riducendo fino all’osso il mio guardaroba (devo ammettere di aver esagerato inizialmente, visto che il viaggio durerà poco più di una settimana) e il suo peso esatto era di fatti di 18kg, ma continuavo ad esser preoccupata.
Tutta colpa di Roxanne.
«Il mio è appena 16 kg», mi ha risposto lei senza che le avessi chiesto nulla, «Ho pensato di evitare di raggiungere il limite, nel caso in cui trovassi qualche souvenir.»
Io l’ho fissata per diversi secondi senza dire nulla. Anche io avevo in mente di portare a casa dei souvenir, ma non avevo affatto pensato che avrebbero alterato il peso della mia valigia al ritorno.
«Il mio è 17,23 kg», ha dichiarato Sally con aria orgogliosa, «L’ho misurato con una bilancia digitale!»
«Attenta a comprare solo pensierini molto piccoli, allora», le ha fatto presente Rita, il cui bagaglio pesava, come quello di Nancy, 16,5 kg precisi.
Dannazione.
«Il tuo quanto pesa?», mi sono voltata verso Ashley con un’intonazione quasi isterica.
«Ah-uhm. Sedici, credo», mi ha risposto, «O diciassette. La mia bilancia era indecisa», ha aggiunto con una risatina.
Perfetto. Ero un’idiota più di Sally.
Pur non avendo assolutamente aperto bocca, Roxanne mi ha rassicurata dopo avermi scrutata per un momento: «Se non si tratta di liquidi o oggetti metallici potrai metterli nel bagaglio a mano.»
Peccato che anche il mio bagaglio a mano fosse strapieno, occupando del tutto i 5 kg disponibili.
«Non preoccuparti», Roxanne mi ha risposto, e di nuovo io ero certissima di non aver dato voce a nessuno dei miei pensieri, «Se hai bisogno, posso prestarti un po’ di spazio nella mia valigia.»
«Anche nella mia!», si è accodata Nancy.
«Puoi usare anche la mia!», ha detto Sally nonostante i suoi 17 chili pieni, «Pensiamo solo a goderci questa vacanza. Non serve preoccuparsi di queste sciocchezze!»
«Non sono sciocchezze, Sal! Potrebbero ritirarvi la valigia e lasciarvi solo con il bagaglio a mano!», ha fatto presente Rita, la quale sembrava essere meno eccitata delle altre a proposito del viaggio, «E poi c’è sempre il pericolo che perdano i bagagli! Oddio, cosa farei se dovessi perderlo?»
«Perdere i bagagli?», ha chiesto Roxanne, chiaramente sorpresa.
«È possibile», le ho spiegato. L’eventuale perdita dei bagagli era anche il motivo per cui avevo intasato il mio bagaglio a mano. «Ma è molto raro che succeda. Chiaramente non sappiamo quale sarà la situazione all’arrivo, ma sarebbe stato di certo peggio se fossimo partite ad agosto. Ci sarebbe stata molta più gente e più rischio di perdita o scambio dei bagagli allora.»
Roxanne ha solo annuito.
Io ho aggrottato le sopracciglia. «Non hai mai preso l’aereo?»
«Solo una volta, per arrivare in Wisconsin da Miami, ma il volo non era certo così lungo», ha detto lei, sforzandosi di sorridere, anche se un pizzico di preoccupazione era ben visibile nell’incerta curva delle sue labbra.
«Dav-vero?», ha domandato Nancy, allungando sulla lingua le prime due sillabe della parola.
Sapevo che tutte le Gallinelle erano già state diverse volte in Europa o in America Latina, e Nancy addirittura in Africa l’anno precedente.
«Mhm», ha annuito Roxanne, spostando il peso da una gamba all’altra e trasferendolo infine sulla mano poggiata sul manico allungato del trolley.
«Nervosa?», Sally le ha dato un colpetto per attirare la sua attenzione, «Tranquilla, ti terrò la mano alla partenza!»
«Ehi!», ha protestato Rita, «Non avevi detto che saresti stata vicino a me?»
Io ho roteato gli occhi. Ci risiamo. La tortura del ‘dobbiamo decidere assolutamente i posti come se non fossimo consapevoli di trovarci tutte a pochi metri di distanza l’una dall’altra’ era iniziata.
«Non decidete nulla finché non torno! Devo andare a comprare una bottiglia d’acqua!», ha gridato Ashley, iniziando a correre nella direzione opposta del check-in mentre noi continuavamo ad aspettare in fila.
Aspettando che un ragazzo con un accento strano lasciasse il proprio bagaglio, Roxanne, prossima in fila, ha consegnato il suo trolley rosso di 15 chili e 700 grammi – così diceva la bilancia - e dopo che le è stato restituito il passaporto e il biglietto aereo, è stato il mio turno.
Ho appoggiato cautamente la valigia sulla bilancia, controllando ansiosamente i numeri che essa segnava, i quali dopo un primo picco si sono stabilizzati a 17 chili e 950 grammi. Cazzo. Passata con un margine di appena 50 grammi!
Tranquillizzata, ho rilasciato un sospiro di sollievo e ho ritirato il mio biglietto, guardando scomparire il mio trolley blu, comprato assieme a quello di Roxanne, su una piattaforma mobile assieme agli altri carichi da stiva.
Dopo di me le Gallinelle hanno tutte effettuato il check-in senza problemi e abbiamo cercato il più possibile di tener il posto ad Ashley, ma purtroppo, quand’è arrivata ha dovuto fare la fila daccapo. Noi abbiamo atteso che finisse l’operazione, prima di dirigerci al Gate, e lei ha avuto persino la faccia tosta di protestare, perché secondo lei non l’avevamo aspettata abbastanza.
Abbiamo effettuato tutta la procedura di sicurezza, liberandoci di oggetti metallici per poi passare sotto un metal detector, e finalmente ci siamo ritrovate nella sala d’attesa del Gate. Ripensando all’esperienza, non ho potuto fare a meno di notare quanto la sicurezza all’arrivo in America sia molto più aggressiva di quella per la partenza verso l’estero.
Dopo l’11 settembre, è praticamente diventata una delle procedure più fastidiose dei viaggi in aereo. Ma adesso è meglio non pensarci, mancano ancora otto giorni al nostro ritorno a casa e al fastidioso controllo droga-armi-bombe che ci aspetta.
Sally e Nancy si sono sorbite le lamentele di Ashley finché Rita non l’ha sgridata a sua volta, costringendola ad azzittirsi. Io ho assaporato con soddisfazione qualche minuto di silenzio, sedendomi accanto a Roxanne su una delle sedie nella sala d’attesa.
Mancava ancora più di un’ora all’imbarco.
Roxanne non riusciva a stare ferma. Non nel solito modo, però. Non era la sua naturale iperattività a renderla così irrequieta stavolta, era chiaramente il nervosismo del suo primo viaggio transatlantico in aereo.
«Non avevi detto di aver viaggiato molto da piccola?», le ho chiesto, senza nemmeno ricordare di preciso da dove avessi preso quell’informazione. Lo sapevo e basta.
Roxanne si è voltata verso di me sorpresa, come se non si aspettasse che io fossi stata seduta accanto a lei per tutto quel tempo: «Beh. Sì. Quando c’era--da piccola, sì.»
«E non hai mai preso l’aereo?»
«No. Viaggiavamo in camper», ha risposto lei, incurvando la bocca in un breve sorriso, «Era molto divertente. Io e Madison adoravamo nasconderci dentro i compartimenti della cabina o negli armadi ad incastro e sentire la strada scorrere sotto di noi.»
«Oh», ho risposto eloquentemente. Ero certa che un simile stile di vita non sarebbe mai potuto piacere a me.
Io sono una fan della comodità e della velocità e quale mezzo migliore dell’aereo? Ma Roxanne sembrava ormai persa nei suoi ricordi e sorrideva pensando a chissà cosa. Per lo meno non sembrava più ansiosa per il volo.
«Ora mia madre vuole venderlo. Il ricavato dovrebbe servire a finanziare i miei studi a Princeton», ha detto Roxanne, scuotendo la testa come se non volesse accettare quell’idea, «In fondo non lo guiderà più nessuno…adesso che papà se n’è andato.»
«Oh», ho ripetuto.
Il padre di Roxanne. Ricordavo che Roxanne aveva menzionato la sua scomparsa. Ma l’ultima volta lei era sembrata così fiduciosa che lui avesse trovato un posto migliore, dopo la separazione con sua madre, che io non credevo affatto che la situazione la tormentasse ancora così tanto.
Il modo in cui lei si è richiusa subito in sé stessa e a cercato di cambiare discorso mi ha fatto intendere che mi sbagliavo.
«Allora!», ha detto lei, trasformandosi nella sua solita versione pimpante ed entusiasta, nonostante fosse palese che la sua fosse solo una finta, «Ti siederai accanto a me?»
Io l’ho scrutata per qualche secondo, confusa.
Ero convinta che Roxanne fosse superiore alle chiacchiere tipiche delle Gallinelle.
«Kate!», si è avvicinata nuovamente Ashley, «Non avevamo deciso che saresti stata vicino a me?»
Io mi sono voltata verso di lei, aggrottando le sopracciglia. «Deciso? Deciso quando?»
«Non possiamo decidere noi», è intervenuta Rita, «L’aereo sarà pieno di persone. Dobbiamo rispettare i posti assegnati dai biglietti!»
Nancy ha abbassato prima lo sguardo sul suo biglietto e poi ha dato una sbirciatina al numero e alla lettera impressi su quelli di Sally e Rita.
«Noi tre siamo insieme», ha detto, «fila F.»
Io ho guardato il mio.
«18 E», ho letto, voltandomi verso Roxanne che ha risposto: «17 E.»
«E perché diavolo io sarei al 43 P?», ha esclamato Ashley, attirando l’attenzione della maggior parte delle persone sedute nella sala d’attesa del Gate.
«Perchè molto intelligentemente hai fatto il check-in venti minuti dopo di noi», non ho potuto evitare di rispondere con un sospiro esasperato.
La giornata era iniziata da poco ed ero già stanca di sentire Ashley lagnarsi.
Ashley mi ha guardato affrontata, ma non ha osato aprir bocca, forse per una volta consapevole di aver sbagliato.
«Potresti provare a metterti d’accordo con qualcuno e sederti con Anne e Kate. Loro sono solo in due e dovrebbero essere sedute accanto a un’altra persona. Puoi provare a contrattare il tuo posto per il suo», ha suggerito Rita.
«Esatto», l’ha appoggiata Roxanne, mettendole una mano sulla spalla in un gesto di incoraggiamento, «Non avevamo detto che non ci saremmo rovinate la vacanza sin dall’inizio? Non ti preoccupare, troveremo una soluzione.»
Roxanne aveva di nuovo indosso la sua maschera. La maschera della brava bambina sempre pronta ad aiutare gli altri, speranzosa, ottimista e sicura di sé. Io ho avuto l’urgenza di strappargliela di dosso con tutta la forza possibile. Poi lei si è voltata di nuovo verso di me e mi ha sorriso.
Io sono rimasta congelata sul mio posto. Non potevo.
«Tu e Kate dovrete cercare di rassicurarmi, ok?», Roxanne ha continuato in modo determinato ed era assurdo pensare che qualcuno come lei potesse cercare una rassicurazione da un’Ashley ancora visibilmente agitata, «Ho bisogno di qualcuno che mi convinca che l’aereo non si schianterà proprio oggi o non sarà vittima di un attacco terroristico.»
«Gli attacchi terroristici non dovrebbero essere orientati verso l’America?», Sally ha fatto un’osservazione stranamente acuta, «A Ibiza ucciderebbero solo turisti.»
Esatto. Ibiza, isola delle Baleari, era la nostra destinazione. Destinazione che le Gallinelle avrebbero preferito mantenere misteriosa e che io avevo scoperto solo il giorno precedente dopo aver lusingato Nancy per un tempo più lungo di quello che avrei ritenuto necessario, vista la sua tendenza ad aprir bocca a sproposito.
«Anche questo è vero», ha risposto Roxanne, «ma non credo che una simile logica fermerebbe un terrorista. Vittime sono sempre vittime.»
«Oddio», ho interrotto il dibattito, «ma vi siete sentite? Vi siete per caso trasformate in uno di quei catastrofisti che si sentono in tv e prevedono la fine del mondo non appena si tira fuori una vecchia profezia?»
«Giusto», mi ha sostenuta Nancy, guardandole come se fossero pazze, «Non so voi, ma io personalmente me ne frego di terroristi, alieni o annunci di morte vari. Voglio godermi la mia vacanza e basta. Possiamo farlo?»
«Wow, Nance. É la cosa più sensata che hai detto in tutta la mattinata», le ha risposto Rita. Nancy ha alzato solo il dito medio in risposta, risollevando così il tono della conversazione.
Quaranta minuti dopo eravamo in fila al Gate, pronte a consegnare il nostro biglietto e a mostrare il passaporto. Dopo l’ok dell’assistente di volo, abbiamo preso una navetta che ci ha condotto fino alle scale dall’aereo.
Nonostante la disposizione dei posti indicata dai biglietti, ho lasciato sedere Roxanne vicino al finestrino, io ero al centro, mentre all’altro misterioso occupante spettava il posto accanto al corridoio attraversabile. Nancy, Rita e Sally erano disposte lungo la nostra stessa fila, ma nella parte sinistra dell’aereo.
Ashley, determinata a non trascorrere le 10 ore di viaggio lontana da noi e relegata nella fila P, si è accomodata accanto a me, pronta ad aspettare il legittimo proprietario/a del posto per scambiare il suo posto con lui/lei.
Roxanne fissava ansiosamente la pista d’atterraggio dal finestrino che aveva alla sua destra e io le ho dato un colpo con la spalla, indicando un aereo che stava decollando proprio in quel momento a quasi 50 metri da noi.
«Quelli saremo noi tra poco», l’ho informata con un sogghigno. In un viaggio lungo 10 ore avrei dovuto far di tutto per non annoiarmi e se il mio unico intrattenimento prevedeva prendere un po’ in giro Roxanne, perché non farlo?
«Mhm», ha mormorato semplicemente lei in risposta, senza concedermi alcuna soddisfazione.
«Perché non arriva ancora?», ha mormorato Ashley al mio fianco opposto, «Probabilmente ha annullato il volo?»
«Lo dubito», ho risposto, valutando la situazione, «Ci sono un sacco di persone che stanno ancora occupando i posti e magari la persona è stata trattenuta solo per un momento…»
«Scusi», è intervenuto un ragazzo che non era chiaramente americano e arrancava a fatica sull’inglese di base con cui stava comunicando, «Questo…è mio», ha detto, mostrando il numero sul suo biglietto che indicava chiaramente il posto “16 E” occupato clandestinamente da Ashley.
Ashley è letteralmente saltata dalla sua sedia, rivolgendosi a lui immediatamente e parlando a raffica: «Sì, ecco. Vede il mio posto è quattro file dietro di questo…e queste sono due mie amiche e volevo sapere se potevamo scambiare i nostri posti. Cioè io le do il mio posto al 43 P», ha mostrato il suo biglietto con mani nervose, «E io prendo questo qui per star vicino a loro. Il mio posto è anche di fianco al finestrino, sono sicura che le piacerà!»
Il ragazzo, o uomo, ero ancora incerta su come definirlo, ha aggrottato le sopracciglia, avendo colto poco della spiegazione di Ashley. Probabilmente solo l’offerta gesticolata del biglietto 43 P di Ashley doveva avergli dato un’idea di cosa lei stesse tentando di fare.
Ha scosso la testa. «No.»
«Ma le ho detto che è vicino al finestrino!», ha insistito Ashley, indicando l’oblò attraverso il quale Roxanne stava guardando la pista, «Tutti vogliono il posto vicino al finestrino!»
«No. Questo è mio», ha ripetuto l’uomo, chiaramente spazientito dalla situazione.
Io ho cercato di placare Ashley, poggiandole una mano sul braccio: «Forse dovresti lasciar perdere…»
«No! Voglio stare qui!»
«Scusi», l’uomo ha riportato la nostra attenzione su di sé, gesticolando ad Ashley di accomodarsi al suo posto con un gesto piuttosto eloquente e al tempo stesso rude.
Visibilmente demoralizzata e con gli occhi un tantino lucidi, Ashley si è finalmente alzata e ha preso il suo bagaglio a mano dallo scompartimento superiore su cui anche io e Roxanne avevamo poggiato i nostri oggetti personali.
Le restanti Gallinelle, dalla fila accanto alla nostra, hanno protestato ad alta voce, ma al ragazzo nulla di questo sembrava interessare.
Incurvando le spalle, Ashley si è fatta strada verso il suo posto, senza guardare nessuna di noi.
«Ashley!», l’ha chiamata Roxanne, la quale per tutto lo scambio di battute era rimasta zitta ad ascoltare, «Puoi passare qui dopo, no? Quando ci fanno slacciare le cinture?»
Ashley ha annuito brevemente e si è allontanata. Mi è quasi dispiaciuto vederla così. Di solito sono sempre io a sgridarla per qualcosa.
Ecco come il mio vicino di posto si è guadagnato la prima occhiata ostile da parte mia.
Lui è piombato senza troppe cerimonie accanto a me, appropriandosi arbitrariamente di tutti e due i manici del sedile (di cui uno avrebbe dovuto condividere a metà con me) per poi lanciarmi uno sguardo di apprezzamento piuttosto mal celato dalle lenti degli occhiali da sole che indossava. In un altro momento avrei trovato l’occorrenza piuttosto normale, ma in quella situazione non potevo fare a meno di sentirmi infastidita. Avrei preferito vivamente non dover passare quasi un giorno intero di volo in compagnia ravvicinata di un pervertito.
Roxanne ha attirato la mia attenzione con un colpetto sul braccio e ha roteato gli occhi in modo drammatico. A me è scappata una breve risatina che subito lei ha condiviso alzando le sopracciglia in direzione dello strano tizio.
Lui non s’è accorto di niente. Certo, ha continuato a lanciarmi occhiate in modo poco discreto, ma non appena tutti i posti dell’aereo sono stati occupati e le assistenti di volo hanno iniziato a dare istruzioni sulle misure di sicurezza dagli speaker, si è irrigidito in tensione.
Anche Roxanne al mio fianco non sembrava stare molto meglio.
Sbuffando, le ho mostrato il mio palmo.
«Cosa?», ha chiesto lei con un’intonazione di voce piuttosto alta.
«Sally è seduta dall’altra parte, quindi tocca a me darti la mano.»
«Oh», ha detto Roxanne e per un momento è sembrata quasi commossa. Fortunatamente per me, non si è lasciata andare ad altri patetismi e ha accettato la mia offerta, stringendo le mie dita e restituendomi un sorriso di ringraziamento.
L’aereo ha iniziato a muoversi e il sorriso di Roxanne si è fatto immediatamente più nervoso. Cercando di sdrammatizzare il momento, ci ha riso su come meglio poteva.
Le hostess hanno iniziato ad elencare i sistemi di sicurezza e io ho fatto in modo che Roxanne ascoltasse dov’era riposto il sacchetto per il vomito, per evitarmi spiacevoli sorprese.
Il tizio accanto a me era rigido come un blocco di ghiaccio in Antartide e ha afferrato ancora con più forza il bracciolo che lo separava da me.
L’aereo ha iniziato la sua ascesa, schiacciando i nostri corpi contro i sedili per l’aumento di pressione, e Roxanne ha rafforzato la sua presa fino ad immobilizzare completamente la circolazione del mio polso.
Tornati in una posizione orizzontale, l’ho guardata tirare un sospiro esitante, che è stato soffocato dalla fragorosa esclamazione di sollievo del nostro vicino.
«Come va?», ho chiesto in tono colloquiale.
Roxanne ha riso e mi ha solo annuito, ma dopo un po’ le sue sopracciglia si sono aggrottate.
«Mi sento le orecchie tappate più di quanto ricordassi», ha commentato, come se quella fosse l’ultima cosa che si fosse aspettata.
«E’ normale. Prova ad ingoiare un paio di volte, aiuta.»
Roxanne ha deglutito, ma è restata zitta, fissando insistentemente lo schienale del sedile del passeggero che ci precedeva.
«Sei sicura di stare bene?», ho insistito.
«Sì. Boh. Credo», ha replicato in tutta fretta, «Prova a richiedermelo tra un po’.»
Ho riso di nuovo. «Cosa c’è di tanto difficile nel rispondere a una domanda del genere?»
«Non lo so», si è limitata a dire Roxanne, storcendo il viso in una smorfia che ha increspato buffamente il suo naso, «Penso di stare bene, se tralasciamo la pressione che sento sulla testa. È più forte dell’altra volta.»
«Ti ci abituerai», ho risposto, rilasciando un po’ la stretta in cui Roxanne mi aveva intrappolata. I nostri palmi erano entrambi sudati e Roxanne ha lasciato andare completamente per ripulirsi la sua mano contro la stoffa dei suoi jeans.
«Sì, ma che faremo in dieci ore?»
«Innanzitutto le hostess porteranno del cibo, anche se nella maggior parte dei casi fa schifo», ho spiegato sentendomi una maestrina in presenza di Roxanne, la quale sapeva poco o niente dei viaggi in aereo, «Credo che serviranno il pranzo tra circa due ore. Dopodiché presumo che nel pomeriggio guarderemo un film e faremo merenda.»
Roxanne, tuttavia, sembrava non avermi affatto ascoltata.
Dimentica del suo disagio iniziale, aveva il naso spiaccicato contro il finestrino, quasi si fosse accorta solo ora di sedere in un posto che le garantiva una vista privilegiata del panorama che stavamo attraversando in questo momento. Il ragazzo che sedeva accanto a me ha sbuffato fragorosamente, interrotto dalla sua contemplazione del paesaggio dalla folta capigliatura mogano di Roxanne, che ormai occupava l’intero oblò.
«Oddio! Guarda le case! Sono così piccole! Come una città di bambole!», ha esclamato puntando all’infinita distesa dei laghi al di fuori di Milwaukee su cui stavamo volando.
«Io avevo una casa di bambole enorme da piccola», le ho detto senza alcun particolare motivo, «Era decorata e arredata con accessori costruiti artigianalmente. Presumo me l’avesse regalata la mia nonna materna.»
Roxanne finalmente si è scostata dal finestrino, lasciando al mio vicino nuovamente la possibilità di guardare al di là del vetro.
«Presumi?»
«Beh sì», ho risposto, «Insomma, avevo sei anni, credi che dopo aver ricevuto un regalo del genere mi importasse qualcosa di chi me l’avesse comprato? Non vedevo l’ora di riempire gli armadietti con tutti i vestitini per bambole che avevo e far rotolare le mie Barbie sulla moquette di velluto.»
Roxanne ha sorriso alle mie parole e poi ha aggiunto: «I tuoi giochi erano più innocenti dei miei almeno.»
«In che senso?»
«Il mio hobby era staccare parti anatomiche dalle mie Barbie. Ovviamente c’erano quelle che avevano delle braccia o gambe fissate troppo bene e non riuscivo a smontare, ma non ho mai fallito nella decapitazione!»
Io mi stavo tenendo la pancia dalle risate, letteralmente piegata in due sul sedile, mentre Roxanne mi guardava compiaciuta della mia ilarità.
Più tardi, Roxanne ha tirato fuori dal suo bagaglio a mano un lettore mp3 a pile e ha fatto un gesto nella mia direzione.
«Ti va di ascoltare un po’ di musica?»
Dato che non avevo niente di meglio da fare, tranne che sentire il pesante respiro del passeggero addormentato alla mia sinistra, ho accettato la cuffietta che Roxanne mi ha offerto e io mi sono avvicinata di più a lei, vista la limitata lunghezza del filo.
Roxanne ha acceso il lettore, senza controllare la canzone su cui era posizionato dopo l’ultima accensione, l’ha lasciato cadere sul suo grembo e ha chiuso gli occhi, rilassandosi. Io ho cercato di fare lo stesso.
La canzone era lenta, fin troppo lenta. Continuavo ad aspettare un ritornello che segnasse che fossimo arrivati almeno a metà canzone, ma questo non arrivava. Ai tre minuti, durata media di una canzone normale, è arrivato e io mi stavo annoiando più di prima.
Più che un ritornello era una lamentela.
«Quando finisce?», ho chiesto, incapace di trattenermi.
«Eh? Cosa?», ha risposto Roxanne, la quale sembrava appena essersi risvegliata da una trance.
«La canzone! Sono quasi cinque minuti che è ferma sempre allo stesso punto e mi sto annoiando. Per quanto ancora va avanti?»
Roxanne ha roteato gli occhi e mi ha informata che la canzone era Transqualcosa dei Deathqualcosa. Come se ciò facesse differenza.
«Io non ascolto roba emo», le ho detto, «la musica per me deve essere movimentata…ballabile!»
Roxanne non ha detto nulla e ha scelto un’altra canzone, dopo aver mormorato qualcosa di simile ad un: “La cosa non mi stupisce”. Io le ho dato una spintarella nel fianco, giusto per avvertirla di non esagerare con l’ironia.
Nella nuova traccia, il cantante ci pregava disperatamente di ucciderlo, ma il ritmo era sicuramente meno smorto della precedente e ho cercato di adattarmi il più possibile.
Avevo lasciato il mio mp3 nella valigia riposta nella stiva e non c’era modo di recuperarlo mentre ero ancora sull’aereo.
Il pranzo è arrivato poco dopo, servito dalle hostess che trascinavano un carrello nel corridoio.
«Il panino e l’insalata dovrebbero essere le cose più commestibili», ho detto a Roxanne, esaminando il contenuto del mio piatto che conteneva anche una fettina di pollo anemico, cubetti semi congelati di patate al forno e carote lesse altrettanto pallide, come contorno.
Il mio vicino non sembrava essere della stessa idea: stava ingurgitando con entusiasmo il panino e tagliando a pezzetti il suo pollo, senza lasciarsi abbattere dall’assoluta inefficienza delle posate. Aveva già inalato le patate e l’insalata ed ero quasi certa che avrebbe chiesto anche un bis se fosse stato possibile.
Roxanne, decidendo di andare deliberatamente contro i miei consigli, ha assaggiato il pollo, per poi fare una smorfia e lasciare quasi all’istante la sua forchetta.
«È insipido.»
«Siamo a più di 10.000 metri di quota e ti stupisci di questo?»
Sotto sforzo, alla fine l’ho convinta a mangiare come me l’insalata e il panino, evitando gli altri condimenti disponibili. Si è solo animata al prospetto della merendina al cioccolato che era prevista come dessert. Le ho dato anche la mia, sperando che un po’ di zucchero placasse i suoi ho fame, ho fame, ho fame.
Quando persino la merendina si è rilevata solo un pezzo rigido di pan di spagna, contenente all’interno un sottilissimo strato di crema al cioccolato, il quale sapeva più di aromi chimici al cioccolato che di vero e proprio cioccolato, Roxanne sembrava sull’orlo di una crisi di nervi.
Dato che non ne potevo più di stare seduta ad ascoltare Roxanne affamata e insoddisfatta, mi sono alzata dal mio posto. Per passare sono saltata oltre la sedia del mio vicino, (che logicamente non si è preso la briga di scostare le gambe) e ho attraversato il minuscolo corridoio che ci separava dai sedili occupati dalle Gallinelle (esclusa Ashley, la quale stava masticando chissà cosa imbronciata nella fila P).
Sally e Nancy si stavano contendendo una busta di M&M’s, mentre Rita stava districando tra i suoi denti una rotella di liquirizia.
«Ehi Kate!», ha esclamato Sally, accorgendosi troppo tardi di aver lasciato le M&M’s completamente nelle grinfie di Nancy.
«Ehi ragazze», ho sospirato, cercando di non storcere il naso al campo di battaglia formato da involucri e cartine di caramelle colorate cadute sui piatti serviti dalle hostess, i quali invece risultavano assolutamente intatti, «Ho una piccola emergenza», ho iniziato, indicando nella generale direzione di Roxanne, che era ritornata a spiaccicarsi contro il finestrino per fare foto con la mia macchina fotografica, costringendo il nostro vicino di posto a cercare di vedere le nuvole dall’oblò dei passeggeri seduti davanti a noi, «Vi è avanzato qualche snack?»
Rita ha iniziato a rovistare nella sua borsa, «Allora, ho due Mars…»
«Sono miei!», ha esclamato Sally, «perché Nancy s’è fregata tutti gli M&M’s!»
«Ehi, non è colpa mia se sei una stupida!», ha replicato Nancy, la quale sembrava esserlo più di tutti mentre stava facendo a Sally una linguaccia con una lingua policroma a causa dei coloranti nei cioccolatini.
«Due buste di Twizzlers, una barretta di cioccolato-», ha continuato Rita, ignorando gli sproloqui delle due, ma io l’ho interrotta prima che potesse andare oltre e elencarmi tutte le schifezze di cui avevano fatto scorta.
«Va bene la barretta, grazie», ho detto, aspettando che me la passasse, «Ripasso più tardi, o venite voi da noi, ok?»
«Tra un po’ andiamo da Ashley», ha annuito Rita, «Mi dispiace che sia lì tutta sola.»
«È colpa sua però», ho risposto, incapace di frenare la lingua, anche se ho visto il volto di Rita farsi costernato, «Adesso vado.»
Roxanne ha lasciato perdere la sua missione di fotografa e si è gettata sulla barretta di cioccolato come una tigre inferocita. Io ho controllato le foto che aveva fatto con la mia macchina fotografica alle nuvole e, nonostante fossero praticamente identiche l’una all’altra, ho deciso di non cancellarle. Avevo fatto di tutto per rimediare al problema del suo stomaco mormorante e non intendevo essere sottoposta ad un’altra serie di lamentele.
A dire il vero, non si trattava di lamentele verbali. Più che esternare apertamente il suo disappunto, ho notato che Roxanne si fa più quieta, e il silenzio che segue è talmente imbarazzante da farmi desiderare le sue costanti chiacchiere.
Ma anche dopo la barretta di cioccolato, l’umore di Roxanne non è migliorato. È ritornata ad ascoltare il suo mp3, con gli occhi chiusi e il respiro forzatamente calmo, questa volta senza offrirmi una cuffia, insinuandosi di più nello spazio tra il sedile e oblò, e premendo la sua tempia destra contro il vetro.
Platealmente ignorata, ho deciso di fare altrettanto con lei. Per distrarmi ho cercato di completare il cruciverba sul retro del New York Times che avevo comprato quella stessa mattina.
Il mio vicino stava guardando il cruciverba insieme a me e un paio di volte l’ho visto aprir bocca senza emettere suono, probabilmente indeciso tra il suggerirmi qualche parola oppure astenersi dal farlo, vista la maniera decisa con cui stavo scribacchiando le lettere trovate. Per di più non mi sembrava nemmeno che conoscesse poi tanto l’inglese, quindi forse il suo comportamento da pesce ritardato era dovuto ad un tentativo di approccio nei miei confronti, che per mia fortuna non è andato in porto.
Roxanne ad un certo punto si è liberata astiosamente delle cuffie. Ha gettato il lettore mp3 nello spazio tra le nostre cosce ed è ritornata a raggomitolarsi in un angolo.
Io ho alzato un sopracciglio, senza commentare ulteriormente.
Mezz’ora dopo, la sua testa è rotolata contro la mia spalla. Roxanne sembrava essersi persa beatamente in un sogno, respirando con la bocca spalancata a breve distanza dal mio collo.
Io mi sono assicurata che non stesse sbavando contro il colletto della mia camicia e sono tornata a lanciare insulti agli spazi incompleti delle parole crociate che avevo in mano (insulti sotto voce, eh. Mi sentivo talmente buona che non mi andava di disturbare il suo risposo, se si escludono gli “accidentali” colpi di gomito che dirigevo alle sue costole ogni volta che il mio braccio si addormentava sotto il peso della sua testa).
Ero decisa a non controllare i risultati stampati sul retro della pagina, finché non avessi terminato tutto il gioco.
Dopo aver sfidato il foglio di giornale ad una gara di sguardi intensi, visto che avevo ormai esaurito tutte le definizioni che avevo saputo riconoscere, anche il mio vicino mi ha abbandonata, iniziando a russare in maniera se non troppo esagerata, sicuramente insistente.
Alla fine mi sono arresa anche io e ho abbandonato il gioco, decidendo di recuperare invece l’mp3 di Roxanne, il quale si era infiltrato assurdamente in profondità, considerando il minimo spazio che ci divideva.
Qualsiasi melodia emo sarebbe stata sicuramente superiore al tutt’altro tipo di sinfonia che adesso avevo in una delle mie orecchie. Fortunatamente scrollando il menù e i vari album disponibili, ho trovato dei pezzi strumentali piuttosto rilassanti al ritmo dei quali mi sono addormentata poggiando a mia volta la testa sul capo di Roxanne, alleviando così almeno di un po’ la pressione sulla mia clavicola.
Non so per quanto devo aver chiuso gli occhi, so solo che sono riemersa al suono di brevi soffocate risate e un: «No, stanno dormendo», che per quanto volesse passare per sussurro, proveniva da una voce troppo squillante e familiare perché potessi ignorarla.
Roxanne ancora visibilmente addormentata, sentendomi muovere, ha aggiustato la sua posizione, allontanandosi verso il centro del suo sedile. Io ho aperto gli occhi, sbattendo diverse volte le palpebre per elaborare la situazione davanti a me: le Gallinelle erano tutte in piedi, rumorose come al solito e ammassate nel minuscolo corridoio dell’aereo.
Fortunatamente non erano le uniche tra i passeggeri ad intralciarlo.
«Buon giorno, bella addormentata!», ha scherzato Sally, facendo ridacchiare le altre, tutte tranne Ashley, la quale mi stava fissando con un’espressione indecifrabile.
«Ehi», le ho salutate io, pronunciando le parole con qualche difficoltà a causa della bocca pastosa che mi ritrovavo, «sei tornata tra noi?»
«Sì», ha risposto Ashley. Mi ha fissata ancora per qualche secondo, come se non mi avesse mai vista prima d’allora, e poi ha fatto una smorfia teatrale: «Mi sono annoiata da morire senza di voi! Non sapete cosa è successo prima! È stato terribile! La signora seduta dietro di me ha seri problemi di flatulenza!»
Io sono scoppiata a ridere, sorpresa soprattutto dal fatto che Ashley conoscesse la parola flatulenza. D’altra parte se non l’avesse conosciuta, la sua spiegazione dell’avvenimento sarebbe stata sicuramente più dettagliata e imbarazzante per tutte.
«Flatu…che?»
Nancy, ovviamente.
Rita l’ha guardata interdetta, Sally ha iniziato a lanciare occhiate curiose in lungo e in largo, probabilmente altrettanto ignorante sull’argomento, Ashley, invece, si è subito azzittita, interrompendo il suo aneddoto.
«Puzzette dal culo», è intervenuta Roxanne, con voce rauca di sonno, stropicciandosi gli occhi con un pugno.
Ed è stato così che il potenziale momento imbarazzante è stato evitato grazie all’inappropriatezza di Roxanne e alle numerose risate che sono seguite.
Nonostante tutto, il nostro vicino di posto ha continuato a russare come se fosse circondato da cori angelici, anziché dallo squillante vociare di sei diciottenni.
Abbiamo continuato a parlare per qualche minuto, durante il quale il breve sonno che avevo m’è passato del tutto, mentre Roxanne continuava a chiudere gli occhi persino nel bel mezzo della conversazione per poi riaprirli in apparenza più stanca di prima.
Ashley è tornata al suo posto quando le hostess hanno annunciato la visione del film, per cui tutti dovevano essere seduti. Noi le abbiamo augurato buona fortuna, nella speranza che la signora flatulente le concedesse una tregua almeno durante la riproduzione della pellicola.
Il film trasmesso era il seguito del “Diario di Bridget Jones”, proiettato meno di un anno fa nelle sale, o almeno così stava spiegando Rita a Sally, dal fianco dell’aereo opposto al nostro.
Io non avevo visto nemmeno il primo film e ho detto altrettanto a Roxanne.
«Mia sorella ha letto il romanzo quando ancora andava alle superiori», mi ha risposto lei.
Ora che ci penso, in effetti Madison sembra il tipo di persona a cui piacciono le commedie romantiche.
La storia si incentrava su una donna inglese, Bridget Jones, che parla di tutte le sue (dis)avventure in un diario, ma non un diario come il mio.
Sicuramente se avessi fatto io un libro e film intitolato “Il diario di Kate Hudson”, sarebbe stato molto meglio, dato che Bridget, nonostante sia una trentenne, ha una voce narrante peggiore di quella di una teenager lagnosa.
All’inizio del film, Bridget sembra euforica del suo nuovo fidanzato, un pover uomo costretto a subire gli sguardi maniaci di Bridget mentre dorme e obbrobriosi maglioni in coordinato a quelli della sua fidanzata.
«Guarda quanto sono carini e in sincronia», ho detto a Roxanne, la quale ha sorriso flebilmente, senza però staccare gli occhi dallo schermo.
La scena è cambiata e tutto ad un tratto sono apparsi Bridget e il suo fidanzato, che stavano correndo l’uno verso l’altra con due sorrisi idioti stampati in faccia.
«Okay. Hanno superato il mio limite per i patetismi a nemmeno tre minuti dall’inizio del film», ho informato chissà chi, visto che il mio vicino di posto stava ancora ronfando in sottofondo e Roxanne sembrava trovare tutto troppo interessante per rivolgermi uno sguardo.
Bridget è una giornalista, una giornalista un po’ sfigata e incompetente, sulla quale ammassano ogni tipo di compito che altre persone sane di mente rifiuterebbero. Come il paracadutismo in diretta.
In risposta alla scena durante la quale Bridget si getta dall’aereo, Roxanne ha esclamato: «Sembra divertente!»
Io ho sorriso, inspiegabilmente eccitata dalla partecipazione di Roxanne ai commenti in diretta.
«Soprattutto se ti dimeni come lei a 1000 metri di altezza», ho replicato.
Bridget, chiaramente mai immune a ondate di sfiga pura, apre il paracadute quando ormai sembra troppo tardi e tutto ciò porta ad un arrivo a terra a dir poco disastroso.
«Quale punto di arrivo migliore di un ammasso di merda suina?»
Roxanne ha ridacchiato sottovoce, «Almeno è atterrata sul morbido.»
«Io avrei preferito spezzarmi l'osso del collo, piuttosto che dover sopportare per giorni quella puzza addosso», ho detto, rabbrividendo al solo pensiero.
Bridget conclude il suo servizio televisivo con i maiali in sottofondo e…
«Oddio, tra quei maiali ci sono due che stanno scopando!», ho commentato schifata a bocca spalancata.
«Potresti far finta di non aver visto quella scena perchè era troppo veloce», ha suggerito Roxanne, ridacchiando a mie spese.
Io le ho lanciato un’occhiataccia, «È quello che ho intenzione di fare!»
Il servizio sul paracadutismo di Bridget, anche se letteralmente merdoso, è accolto con successo dai produttori televisivi, solo perché la telecamera riesce a riprendere il suo gigante sedere alla perfezione.
«Ma perché sono tutti fissati col suo culo?», ho domandato, incapace di trattenermi, «è grosso e grasso!»
Roxanne storce la bocca con altrettanto disgusto: «Appunto.»
Bridget parla nel suo diario della storia tra lei e il suo ragazzo…il cui cognome è Darcy, interpretato da Colin Firth.
«Aspetta, aspetta, ma Colin Firth non era Darcy pure in “Orgoglio e Pregiudizio”?», ho chiesto, aggrottando le sopracciglia.
«Hai visto la miniserie BBC?», Roxanne si è finalmente voltata verso di me con un sopracciglio alzato.
Io ho cercato di non mostrarmi offesa dalla sua diffidenza. «Per rinfrescarmi la mente sulla trama, prima di un compito di letteratura sulla Austen», mi sono giustificata, «perché l’hai visto pure tu?»
Roxanne ha scrollato le spalle con nonchalance: «Mi piace il periodo della Reggenza inglese.»
Parlando c’eravamo perse un paio di battute, ma la cosa non sembrava importare poi molto ad entrambe.
Siamo ritornate al film appena in tempo per sentire Bridget vantarsi del suo record di 71 scopate acrobatiche in appena sei settimane.
Io ho dovuto chiudere a forza la mia bocca spalancata: «Wow, non l’avrei mai detto vista la sua faccia.»
«Mi chiedo cosa rientri esattamente nella sua definizione di “scopate acrobatiche”», ha detto Roxanne.
Qualche minuto dopo, Bridget parla in vivavoce con il suo fidanzato di ciò che avevano fatto sera precedente, mentre quest’ultimo è in un meeting di fronte ad una decina di altri presenti.
Mi è scappata una risata spontanea: «Adesso non sei più la sola che si sta domandando in cosa consista il loro sesso estremo
Roxanne mi si è accodata e il suono della sua risata è finalmente riuscito a interrompere il sonno profondissimo del mio vicino, il quale sembrava sorpreso che stessero proiettando un film.
Dopo aver consultato il suo gruppo di migliori amici ultrastereotipati (consistente di amiche rumorose e insolenti + un gay supereffemminato), abbiamo guardato Bridget rendersi ridicola in preda alla gelosia per il suo adorato fidanzato.
«Seriamente», sono sbottata, «questa tipa qui dovrebbe essere una rappresentante di noi donne, simbolizzare i sacrifici che sopportiamo e bla, bla, bla, ma a me sembra giusto patetica. Mi chiedo come diamine abbia fatto a diventare una giornalista!»
Roxanne ha sospirato al mio fianco. «È una commedia romantica, Kate, puro intrattenimento senza secondi fini. Non prenderla troppo seriamente.»
Ciò mi ha un po’ offesa. «Io non sono abituata a decidere cosa o no prendere seriamente», ho insistito, «Tratto qualsiasi cosa allo stesso modo.»
«Guarda e basta», ha detto Roxanne, sprofondando di più nel suo sedile e portandosi una mano alla tempia.
Io sono rimasta interdetta, perché avevo pensato che anche a Roxanne piacesse scambiare opinioni, e solo dopo qualche minuto mi sono resa conto con irritazione che ero stata zittita e non avevo nemmeno protestato.
Bridget decide di indossare per una serata di gala con il suo fidanzato un orrendo vestito giallo oro. Io avrei voluto commentare che il giallo di per sé non sta bene a nessuno, escludendo solo me, probabilmente. Ma questa non è qualcosa che ho intenzione di testare nell’immediato futuro.
Io e Roxanne siamo restate in silenzio in seguito, anche se abbiamo riso quando Bridget ha cercato di spiegare in modo fallimentare ad un farmacista tedesco che voleva un test di gravidanza.
Dopo il falso allarme della gravidanza, Bridget lascia il fidanzato, perché lo ritiene incapace di far funzionare le cose tra loro.
«Dovremmo dispiacerci per lei?», ho domandato, incerta se avrei ricevuto o meno una risposta.
«La musica malinconica suggerisce di sì», ha detto Roxanne e non sembrava nemmeno troppo infastidita dalla mia interruzione.
Bridget si ritrova a lavorare con un tizio con cui era andata a letto in passato, storia spiegata probabilmente meglio nel primo film, e sotto la scusa del lavoro inizia a passare sempre più tempo con lui.
Ho indicato il personaggio di cui non ricordo il nome, interpretato da Hugh Grant, e ho commentato: «Lui mi piace più del suo ex-fidanzato. Quello era troppo rigido.»
«Non è il suo vero amore», ha replicato Roxanne, riferendosi a Colin Firth.
Io ho roteato solo gli occhi e ho deciso che non valeva la pena di risponderle, visto che neanche Roxanne s’era poi sforzata molto a trovare una motivazione decente.
Vero amore. Sì, certo.
Bridget viene arrestata per un malinteso alla dogana e va in contro ad una serie di incomprensioni e casini che la portano a dover sostare in un carcere comune femminile.
Il suo ex-fidanzato - Colin Firth per capirci - accusa Hugh Grant di aver abbandonato Bridget quando era stata arrestata e i due finiscono per prendersi per capelli.
«Mi piace come litigano, sono molto virili», ho detto, guardandoli inzupparsi in una fontana.
Roxanne ha soffocato una specie di risata-singhiozzo dietro una mano e mi ha lanciato con la coda dell’occhio un’occhiata complice, chiaramente divertita più dalla mia osservazione che dallo stupido teatrino che stavamo guardando.
Bridget viene liberata, torna in Inghilterra, pronta a confessare il suo amore per Colin Firth e passa prima da casa dell’uomo, dove incontra la collega di lui, di cui era stata gelosa per tutto il film…che ammette di essere lesbica e innamorata di Bridget!
Non ci stavo capendo più niente.
«Allora era…»
La collega di Colin Firth bacia Bridget e io ho azzardato un’occhiata verso Roxanne, la quale sembrava così sorpresa che persino la sua frangetta aveva assorbito le sue sopracciglia impossibilmente alzate.
«Questo non me l’aspettavo», ha detto lei dopo qualche secondo di silenzio.
Io ho riso, sentendo il brusio del resto dei passeggeri in aereo e ho commentato: «Non c’è niente che sciocchi di più l’audience di un bacio lesbico in una prevedibilissima commedia romantica.»
Roxanne ha mormorato un «Già» ironico e io ho continuato la mia tiritera precedente.
«Ma io continuo a non capire come facciano Colin Firth, Hugh Grant e anche questa tizia ad essere tutti pazzi di Bridget! È un’idiota!»
Roxanne ha replicato in modo condiscendente: «È una brava persona, in fondo.»
«È tutto qui? Se una donna con un'intelligenza sotto la media e chiappe enormi ha un buon cuore, troverà un fidanzato che la ami nonostante i difetti sopramenzionati?», ho domandato, incredula.
Roxanne ha riportato lo sguardo verso lo schermo, dove Colin Firth, o meglio il suo personaggio, stava chiedendo a Bridget di sposarla.
«A quanto pare sì», ha sospirato.
Mancava poco meno di un’ora e mezza all’arrivo, e io ho provato di nuovo a terminare il cruciverba. Roxanne mi ha offerto a tratti il suo ausilio, continuando, però, a strofinarsi la fronte e le tempie con una smorfia in volto.
«Che c’è?», le ho domandato, perché vedere i suoi movimenti costanti con la coda dell’occhio mi stava distraendo.
«Non ti dà fastidio la pressione? Mi sento la testa ristretta in una morsa e le orecchie scoppiare. Sento a malapena la tua voce.»
Io l’ho guardata stupita. Era questo il motivo per cui Roxanne sembrava assente a tratti e presente in altri?
«No…non ho questo problema», ho risposto sinceramente, «Siamo quasi arrivati. Scommetto che appena scendiamo ti passerà tutto.»
Roxanne mi sembrava poco convinta, ma ha annuito sospirando un flebile «Speriamo» ed è tornata a reggersi la testa, rivolgendo lo sguardo alle nuvole al di là del vetro.
Alla fine del cruciverba mancavano altre due soluzioni quando ho deciso di lasciarlo del tutto. Non volevo arrivare a soffrire di un mal di testa come quello di Roxanne.
Ashley è venuta a trovarci un’altra volta più tardi, mentre il nostro vicino era andato in bagno, e si è appropriata del suo sedile per qualche minuto, fino a che lui non è ritornato e lei è scattata in piedi così velocemente da sembrar impazientissima di ritornare dalla signora flatulente.
Durante l’inizio della discesa dell’aereo, in previsione dell’atterraggio, Roxanne ha chiuso gli occhi, stringendoli in una smorfia di dolore che è durata fino a che non siamo giunti a terra, con solo un minuscolo sobbalzo all’apertura del carrello. Non mi ha preso più la mano, ma sembrava stare peggio rispetto a quando siamo partite.
Il nostro vicino si è rimesso gli occhiali da sole, nonostante fosse ormai scesa la sera, e prima di lasciare la sua sedia ha stupito me e Roxanne con un «Arrivederci», che noi abbiamo restituito dopo una breve esitazione.
All’uscita dell’aereo, Ashley è tornata ad accodarsi a noi e le chiacchiere eccitate sono iniziate. Roxanne appariva ancora un po’ confusa, ma meno letargica di prima, e ha cercato di mostrarsi entusiasta quanto le altre, anche se era palese lo sforzo che stava facendo per ascoltarle.
Recuperati fortunatamente con successo tutti i bagagli, all’uscita dell’aeroporto il sole era appena tramontato e il cielo stava perdendo gli ultimi sprazzi color rosa-arancio, per far posto al blu intenso quanto il mare che si vedeva all’orizzonte.
Vivendo a Milwaukee, le uniche distese d’acqua visibili sono quelle del lago Michigan, e riuscire finalmente a dare un’occhiata al Mediterraneo mi sembrava surreale.
Sono stata sulle coste della Florida, della Louisiana, della California e anche per una breve tappa su quelle del Messico, quindi non è che non abbia mai visto l’Atlantico o il Pacifico, ma la mia unica tappa europea prima d’ora era stata Parigi ed ero stata ben lontana dalla Costa Azzurra allora.
«Wow!», ha esclamato Nancy e io mi sono accodata in quieta contemplazione.
«Ci siamo davvero, eh?», ha riso Sally, osservando i turisti per le strade e quelli che si affrettavano a portare i bagagli nell’aeroporto.
«Dovremmo chiamare un taxi per raggiungere l’albergo», è intervenuta Rita, «O meglio due. Siamo in sei e abbiamo tutti questi bagagli, sarebbe impossibile entrare in uno.»
Fatto sta che al momento non sembrava essercene nemmeno uno disponibile.
«Qual è il nome dell’hotel?», ho chiesto, avvicinandomi verso la strada nella speranza di attirare l’attenzione di qualche tassista.
«Palmyra», ha risposto Roxanne, leggendo dal bigliettino che le aveva appena passato Ashley, «è vicinissimo a San Antoni de Portmany.»
«Non siamo ad Ibiza?», ho chiesto io, rivolgendomi ad Ashley, la quale aveva supervisionato la prenotazione.
«L’isola è la stessa, le città sono diverse, ma vicine», s’è difesa Ashley, «È solo che all’agenzia mi hanno detto che la costa nord-ovest di Sant Antonio è quella con più turisti americani, in più è facilmente collegata e piena di locali.»
«È molto lontano di qui?», ho domandato.
«Non troppo, ma di sicuro riempiremo le tasche dei tassisti, perciò controllate se avete abbastanza contanti.»
Io ho storto il naso pensando al cambio valuta e agli euro multi colorati che avevo avuto in cambio dei miei dollari. Menomale che non avevo portato con me solo carte di credito.
Fortunatamente un taxi si è fatto vivo abbastanza presto e io ho alzato automaticamente il braccio per fargli segno. Con me sono entrate Nancy e Roxanne, Ashley, Sally e Rita salite in un taxi vicino.
Il nostro tassista si è presentato come Pierre, francese ormai trasferitosi ad Ibiza, che grazie alla sua multi nazionalità sapeva parlare altrettanto bene l’inglese e ci ha pure fornito indicazioni sui locali che avremmo potuto visitare quella stessa sera.
Dopo poco più di venti minuti di macchina siamo arrivate all’hotel. Dopo aver raccolto i miei due bagagli, mi sono fermata meglio a guardare l’edificio bianco di quattro piani che era il nostro Hotel Palmyra e la folta vegetazione mediterranea che lo circondava.
Nancy ha cercato il mio sguardo, visibilmente eccitata dal lusso dell’albergo e io le ho risposto con un sorriso. Anche Roxanne sembrava piacevolmente sorpresa, ma in una maniera più pacata di quanto lo sarebbe stata se il volo non l’avesse provata.
Le ragazze nell’altro taxi ci hanno raggiunto dopo pochi minuti di ritardo e hanno espresso il loro consenso molto più rumorosamente di noi.
L’entrata dell’hotel si apriva con un pavimento di marmo lucido che conduceva fino alla reception, dove una ragazza, senza che aprissimo bocca per darle indicazioni sulla nostra nazionalità, ha iniziato immediatamente a parlare inglese.
«Posso aiutarvi?»
Ad occuparsi dei nostri nominativi è stata Ashley. Lei aveva prenotato tre suites, le più spaziose, nelle quali ci saremmo divise a gruppi di due.
Sally si è immediatamente ancorata al braccio di Rita, rendendo ben chiaro con chi volesse dividere la stanza e lasciando noi quattro confuse su come deciderci.
Io ho guardato Roxanne e Roxanne ha guardato me, anche se nel frattempo sapevo di aver addosso gli occhi di Ashley, la quale per forza di abitudine si aspettava che io avrei scelto lei.
«Allora Kate, che hai deciso? Per me va bene qualsiasi opzione», ha risposto Nancy, anche se sembrava un po’ offesa dal gesto categorico di Sally.
«Anche per me è lo stesso», ha detto Roxanne, immediatamente, nonostante continuasse a fissarmi eloquentemente.
Ashley non ha detto nulla, e io ho capito benissimo che la sua reticenza era da attribuire al fatto che a lei invece la mia scelta sembrava importare eccome.
Io ho fatto un cenno a Roxanne, la quale mi ha risposto alzando le sopracciglia in un segno di quindi? e poi ho guardato Ashley, la quale aveva fissato il nostro scambio silenzioso con un broncio in viso.
«La 102 è mia e di Roxanne, ragazze», ho annunciato, voltandomi verso la receptionist per prendere la mia chiave e firmare il possesso della camera.
Roxanne si è voltata solo un attimo verso Ashley, ma mi ha seguita senza commentare verso l’ascensore, trascinando il suo trolley dietro di sé.
Solo quando ho richiuso la porta della 102 alle nostre spalle ha dato voce ai suoi pensieri.
«Perché non hai scelto Ashley?», ha domandato, trascinando i suoi bagagli verso la parte sinistra del letto, dato che io mi ero già appropriata della destra.
Impostata su colori pastello, la stanza ha luminose finestre e balconcino con vista sul mare, che occupa interamente il lato sud, e un letto matrimoniale, sormontato da una testiera in legno sulla quale sono collocate le luci. In un angolo ci sono delle graziose poltroncine e un tavolino a comporre un minisalotto piuttosto raffinato. L’arredamento è semplice quanto sobrio.
«Tu volevi che io scegliessi te», ho risposto a Roxanne, senza guardarla e dirigendomi verso il bagno.
Anche questo è altrettanto di buon gusto. La ceramica dei sanitari splende, come se fosse stata appena lucidata, e offre la doppia possibilità di utilizzare il box doccia e la Jacuzzi incastrata nel marmo rosato che riveste il pavimento e arriva a metà delle pareti.
«Sì, ma Ashley sembrava piuttosto arrabbiata», ha ragionato Roxanne, raggiungendomi per ammirare gli interni.
«Wow», ha sospirato e io ho ridacchiato, ritornando in camera da letto.
«Le passerà», ho detto sicura, «Domani non si ricorderà nemmeno più di avercela con me e con te.»
«Odierà me», ha replicato Roxanne, apparendo turbata da una simile idea, «E comunque perché non hai scelto lei? Non lo fai sempre? Io sarei stata bene anche con Nancy e nessuno si sarebbe offeso.»
«Prima di tutto, non sono io che la scelgo sempre come compagna di stanza», ho chiarito, «nei casi rari in cui c’è capitato di andar da qualche parte, è stata lei ad autoinvitarsi, e quando siamo in 5 le cose sono più complicate. Secondo, Ashley russa. E oggi ho già sopportato abbastanza soavi melodie per colpa del nostro vicino in aereo.»
Roxanne non ha potuto fare a meno di ridere e io ho continuato: «Invece quando tu hai dormito a casa mia o in aereo, non hai emesso suono. In più Ashley tende a rubarsi le lenzuola, mentre so di poter stare tranquilla con te, a condizione che tu rimanga sobria.»
Roxanne ha riso ancora ed è un po’ arrossita, probabilmente pensando a quanto fosse affettuosa da ubriaca.
Poi tutto ad un tratto la sua espressione si è fatta più rigida ed è corsa a recuperare il cellulare dalla borsa. «Oddio. Ho scordato di avvisare Madison che sono arrivata.»
«Giusto», ho risposto, scrivendo il più velocemente possibile un SMS a mia madre che le comunicava sinteticamente che ero arrivata, il posto era bello e stavo bene. Poi ho chiamato mio padre, certa di trovare la segreteria, e gli ho lasciato un messaggio contenente praticamente le stesse parole.
Tutto ad un tratto dai muri è emersa una voce spaventosamente simile a quella di Sally, la quale ha gridato «Amore, mi sei mancato tantissimo!», rendendoci immancabilmente partecipi della sua telefonata romantica.
Io ho ridacchiato, disfacendo la valigia e iniziando a preparare quello che avrei indossato quella sera.
Roxanne è sprofondata sulla sua parte di letto e ha chiuso gli occhi, emettendo un grosso sospiro.
«Come ti senti?», le ho chiesto, continuando a muovere capi d’abbigliamento fuori dalla mia valigia e lei ha emesso un verso che poteva essere interpretato sia positivamente che negativamente.
Io ho alzato le sopracciglia irritata, «Beh?»
«Va un po’ meglio», ha sbuffato Roxanne, stiracchiandosi meglio sul materasso, «Ma sento tutto ancora molto ovattato.»
Visto che al momento non c’era altro da ascoltare, oltre i rumorosi squittii della voce di Sally nell’altra stanza, le ho detto: «Ritieniti fortunata.»
«Riesco comunque a sentire Sally», ha risposto, aggrottando le sopracciglia, «e Ashley.»
Io ho prestato attenzione e non mi è risultato difficile sentire le lamentele di Ashley nella stanza alla nostra sinistra.
«Ma ti sembra possibile?», stava domandando Ashley a Nancy in tono accusatorio dall’altra parte di questi muri che apparentemente hanno una pessima insonorizzazione, «Prima non la poteva sopportare e adesso le sta sempre appiccicata!»
La sua voce si è poi abbassata, probabilmente sotto richiesta di Nancy, e il resto delle sue parole sono diventate più difficili da distinguere, ma non ci voleva poi molto per capire a cosa si stesse riferendo.
Io ho azzardato uno sguardo a dove Roxanne era ancora distesa. Quest’ultima stava fissando il soffitto, mordendosi le labbra.
«Visto? Mi odia», s’è lagnata.
«Và a farti una doccia», le ho detto io invece, «La cena è tra un’ora e mezza e non abbiamo molto tempo.»
Roxanne ha sbuffato ancora. Si è trascinata in piedi di malavoglia, ha recuperato il suo beauty case e il ricambio di vestiti che le serviva e si è chiusa in bagno, lasciandomi appena il tempo per scrivere queste pagine.
Il getto dell’acqua è terminato da un paio di minuti, perciò per non rischiare che mi sorprenda scrivere, sarebbe meglio terminare qui.
Al più presto l’aggiornamento sulla nostra serata.


20 giugno (giovedì – secondo giorno)

Come promesso ecco il mio resoconto della nottata precedente. Adesso sono in spiaggia, in una deliziosa insenatura coperta da sabbia e palme di fronte al nostro hotel, e sono riuscita finalmente ad avere accesso al mio diario.
Le Gallinelle e Roxanne sono in acqua in questo momento. Roxanne ha corso con entusiasmo fino alla riva, trascinando sotto braccio il suo materassino verde mezzo-sgonfio, e si è immersa non appena siamo arrivate, mentre ho dovuto faticare di più per far allontanare le Gallinelle.
Apparentemente restie a lasciare i loro cellulari, ho promesso loro che avrei inviato qualsiasi tipo di segnali di fumo nel caso in cui fosse arrivata una chiamata dai loro amori.
Sono ancora un po’ stanca dopo ieri sera, ma l’aria e il profumo di mare che si sentiva dalla finestra del nostro albergo è ancora più piacevole da questa minima distanza.
Meglio raccontare prima cosa mi sia successo, però.
Ieri sera, dopo esserci lavate ed essere scese a cena, sotto consiglio dello staff alberghiero, abbiamo scelto di visitare come primo locale l’Es Paradis, perché era situato come il nostro hotel a San Antoni e sarebbe stato il più vicino da raggiungere, visto che eravamo già stanche dopo il viaggio.
Quando ci siamo sedute con le altre a cena, la situazione è rimasta tesa per qualche minuto tra me, Roxanne e Ashley.
Io, nonostante le occhiate allarmate che Nancy mi stava lanciando, ho preso posto accanto ad Ashley e mi sono sforzata di trattarla normalmente, persino con più considerazione del solito. Lei c’è abboccata come un pesce all’amo.
Dopo dieci minuti in cui ho fatto in modo di dedicarle la maggior parte delle mie attenzioni, Ashley è tornata a parlare a Roxanne.
Roxanne sembrava ancora incerta dal repentino cambio d’umore, ricordando chiaramente le parole astiose di mezz’ora prima, ma io le ho dato un colpo al ginocchio con il mio e lei ha capito che avrebbe fatto meglio a comportarsi come se non avesse mai sentito le accuse precedenti.
Fingere è l’imperativo a questo mondo e lo sappiamo bene entrambe.
Dopo cena siamo subito tornate in stanza per cambiarci. O meglio, Roxanne ha asserito di voler rimanere con la sua canotta bianca e la gonnellina fiorata da hippy, mentre io mi sono cambiata.
Ho rovistato per un po’ nella mia valigia, cercando di non stropicciare troppo ciò che vi avevo messo e poi ho deciso di indossare il vestitino più peculiare che avevo. Di materiale satinato, appare essenzialmente scuro ma se toccato dalla luce si colora di riflessi blu, viola scuro, verdi e gialli. Aderentissimo sul torso per evidenziare le mie curve, a livello del bacino si apre in una gonnellina a pieghe dalla quale per qualche centimetro sbuca la sottoveste di voile interna.
Se Roxanne appariva un icona dei primi anni ‘60, io apparivo più un membro delle Sparkle Motion(*), arrivata direttamente dagli anni ‘80.
In ogni caso il look mi piaceva e, senza girarci troppo intorno, stavo da Dio. Gli ultimi tocchi finali sono stati raccogliere i capelli in una coda ad un lato e scegliere due grossi orecchini pendenti, luminosi addirittura più dello stesso vestito, assieme ad un bracciale colorato.
Le Gallinelle, lungi dall’essere originali, hanno optato per minigonne aderentissime, come Nancy e Rita, o per vestiti a tubino con pois in contrasto, come invece hanno fatto Ashley e Sally.
Mi inquietava pensare che ogni pezzo del loro guardaroba fosse in coordinato con quello delle altre.
Per arrivare all’Es Paradis, abbiamo preso come al solito due taxi e abbiamo acquistato i biglietti sul posto, visto che non avevamo potuto farlo prima.
Dato che per entrare era necessario essere accompagnate, ci siamo accodate ad un gruppo di ragazzi britannici, con cui abbiamo fatto finta di essere insieme.
Ci siamo salutati e separati dopo aver varcato l’entrata, e io e le altre ci siamo guardate intorno per ammirare l’ambiente. La discoteca si articolava su più livelli, collegati da scalinate che conducevano a balconcini che occupavano tutto il piano superiore e alla pista enorme centrale.
La discoteca era già in pieno movimento alle 22.30 passate, ma la gran parte delle persone stavano ancora arrivando.
Approfittando di quanto siano permissivi per gli alcolici in Europa, dove non si rispetta l’obbligo legale di non bere fino a 21 anni come in America, abbiamo passato quasi tutta l’ora successiva ad ordinare drink alla frutta al bar, tra cui i più buoni erano le “Puta Bolas”, nonostante il nome offensivo. Io ho costretto Roxanne a limitarsi a della soda e lei ha accettato, sbuffando.
Abbiamo ritrovato il gruppo dei quattro ragazzi inglesi di prima e abbiamo chiacchierato con loro del più e del meno per il resto del tempo. Il loro albergo si trovava a San Rafael e si stavano muovendo in lungo in largo per l’isola grazie a dei motorini che avevano affittato per la settimana. Due di loro, Alec e Clay, dopo essere stati rifiutati da me, che piuttosto preferivo parlare con il barman, hanno virato il loro interesse su Ashley e sorprendentemente su Roxanne. Non che Roxanne sia deturpata o incapace di ricevere attenzione, solo che c’è qualcosa dentro di lei che sembra attirare quasi esclusivamente potenziali amici, e non pretendenti.
Respinto anche da Ashley, che gli ha mostrato l’anellino che il suo ragazzo le aveva regalato dopo il loro primo anniversario insieme, Clay ha finito col trovarsi a parlare con una biondina tedesca ferma accanto a lui al bancone. Lei sembrava capire appena il suo pesante accento di Liverpool, ma il suo sorriso sembrava averla convinta a restare e ad annuire anche senza comprendere il discorso.
Alec, invece…beh, raramente ho visto qualcuno flirtare così palesemente con un’altra persona. Roxanne sembrava stare alla conversazione, senza però apparire mai presa quanto lui. Per qualche minuto ho pensato che lei non si fosse nemmeno accorta che la conversazione stesse sviando da temi amichevoli, ma poi l’ho vista rivolgermi uno sguardo colmo di panico e nascondendo un sorriso mi sono finta interessata da quello che Rita stava dicendo agli altri due ragazzi che abbiamo conosciuto, Jimmy e Frank.
A mezzanotte il locale si era quasi completamente riempito e il DJ ha aumentato il volume della musica e sostituito il colloquiale hip hop iniziale, con pezzi house e techno.
In pista e sui balconcini tra le luci stroboscopiche hanno iniziato a muoversi anche delle cubiste mezze-nude, una delle quali era sospesa sulla palla a specchi centrale e stava compiendo acrobazie degne dei trapezisti da circo.
Ashley ha suggerito di scendere in pista a ballare e Roxanne è stata la prima ad accodarsi a lei, cercando di sfuggire ad Alec in modo più evidente di prima.
Notando la sua espressione sconsolata ho messo una mano sulla spalla di Alec e gli detto: «Mi dispiace, amico!»
Quando lui ha rivolto verso di me uno sguardo più che speranzoso, gli ho dato un'altra pacca più forte del dovuto e ho seguito l’esempio di Roxanne, comprendendo tutto ad un tratto la sua fretta.
Nella folla abbiamo perso gli inglesi e cercando di farmi spazio nell’enorme puzzle di persone per essere più vicina alle altre, ho trovato…lui.
Lui mi stava fissando, appoggiato ad una delle colonne a bordo pista, e non cercava affatto di camuffare il suo palese interesse.
Quando anche io l’ho restituito, mi si è avvicinato, allungando la sua mano verso di me.
«Jorge», mi ha detto, pronunciando la g del suo nome in q. Vista la grande comunità inglese e americana che sembrava circondarci sia qui che al nostro hotel sono stata stupita dall’aver davanti finalmente uno spagnolo purosangue.
In poco più di un’ora, allontanandoci dal caos della pista, Jorge, 23 anni, mi ha raccontato gran parte della sua vita a Valencia, dove abita in un piccolo appartamento con altri tre amici, anche loro qui ad Ibiza, lavorando in un club notturno e cercando di risparmiare il più possibile per poter registrare un disco musicale e tentare di portare la sua band in un tour per la Spagna. Io l’ho lasciato parlare, evitando di commentare che probabilmente il mio spagnolo era più sciolto del suo inglese. Il tono sensuale della voce compensava per la saltuaria orrenda pronuncia.
Jorge mi ha raccontato che Ibiza è stata per lui e i suoi amici una brevissima gita fuori porta, vista la vicinanza con Valencia. Si sarebbero fermati solo per una notte e poi sarebbero tornati a casa la sera seguente, ovvero oggi, con l’ultimo traghetto.
Non so perché sia andata con lui alla fine. Forse era il fascino del musicista sfigato, forse era l’ombra fumosa che si creava sulle sue palpebre quando lui le apriva, forse le sue labbra incredibilmente soffici e carnose, o forse più semplicemente il fatto che non avrei mai avuto più l’occasione di andare a letto con qualcuno chiamato Jorge.
Lungo la strada verso il suo albergo, percorribile a piedi dall’Es Paradis, ho inviato un messaggio al cellulare di Roxanne, dicendole che ero andata a fare una cosa e le avrei riviste direttamente in albergo più tardi.
La camera tripla che Jorge condivideva con i suoi amici in un minuscolo Bed&Breakfast a 2 stelle, era naturalmente vuota e noi due siamo capitombolati sul primo letto che abbiamo trovato, di chiunque esso fosse.
L’ombra misteriosa sui suoi occhi era ancora più intrigante da vicino e le sue labbra tanto soffici al tocco quanto erano apparse alla vista, ma entro pochi secondi passati a baciarci e a spogliarci, ho subito scoperto quanto lui fosse…vocale.
Cercando di azzittirlo, ho invertito le nostre posizioni e gli sono salita a cavalcioni.
Io ho ripetuto nella mia testa tutto ciò che sapevo su di lui e ho represso forzatamente la voce dentro di me che ripeteva che era uno sconosciuto. Non che non pratichi quasi esclusivamente sesso casuale, ma tendo a farlo con persone con cui ho già avuto sesso casuale. In alcuni casi diventa una cosa quasi abitudinaria.
Ma Jorge era sotto di me, ansante. Farneticava oscenità e incoraggiamenti assieme al mio nome ad ogni spinta. Io ho represso un grugnito poco elegante. Odio quando le persone parlano durante il sesso.
L'orgasmo si stava avvicinando per entrambi, ma io non riuscivo a concentrarmi sul piacere che si andava diramando dall'interno delle mie cosce, perchè lui continuava insistentemente a parlare e gemere a voce estremamente alta, come se fossimo in un porno di pessima qualità.
Ho usato l'altra mano che avevo posato per mantenere il mio equilibrio su di lui per tappargli la bocca.
Lui ha subito iniziato a protestare, muovendosi a scatti e cercando di allontanarsi, bloccato però dal peso del mio corpo contro il suo addome.
Ha tentato di urlare, ma le parole soffocate sotto il mio palmo si sono dissolte del tutto in brevissimo tempo.
Raggiunto l'orgasmo, i suoi occhi sono roteati all'indietro e il suo corpo, sopraffatto dal piacere e dalla mancanza d'aria nei polmoni, si è rilassato completamente sotto di me.
Io ho subito rimosso la mano che bloccava le sue vie d'aria, scioccata. Volevo che stesse solo un po' zitto, non che morisse mentre stavamo facendo sesso.
L'ho seguito anche io qualche secondo dopo e, senza nemmeno godere del tutto del momento d'ebbrezza successivo, mi sono subito staccata di lui, alzandomi in piedi e iniziando a raccattare le mie cose.
Ripresosi, sebbene stesse ancora cercando di recuperare il respiro, ha cercato di fermarmi, circondando il mio polso con una mano.
«Wow», ha mormorato con voce rauca, «È stato…intenso.»
«Mhm», è stata la mia unica risposta.
«Perchè non rimani? Domani mattina possiamo fare colazione insieme…»
«Mi dispiace. Devo andare.»
«Oh andiamo! Lasciami almeno il tuo numero.»
Io l'ho squadrato, aggiustando meglio la posizione della pochette sotto il mio braccio.
Jorge giaceva disteso sul letto, preservativo ancora indosso, braccia e gambe distese lungo tutto il perimetro del materasso, polpacci parzialmente celati dalle lenzuola. Il suo petto continuava a muoversi velocemente in su e in giù e lui mi stava guardando con un'espressione di genuina meraviglia in volto.
Se fossi stata io al suo posto, avrei preso a calci in culo chiunque avesse osato soffocarmi. Durante un orgasmo addirittura. A lui, invece, sembrava esser piaciuto. Figurati con chi ero andata a capitare. Che fosse un masochista? O più semplicemente un individuo particolarmente perverso?
Mah. D'altronde avevo visto di peggio.
«No, grazie», gli ho risposto senza prendere nemmeno per un momento in considerazione la sua proposta. Non valeva nemmeno la pena di fingere un qualsiasi attaccamento. «È stato un piacere. Credo.»
E sono andata via.
Nonostante fossi stata via solo per un’ora, le Gallinelle e Roxanne erano già tornate in albergo al mio ritorno. Non erano ancora tornate in camera, però, ed erano sedute al bar, chiacchierando con un ragazzo che stava pulendo il bancone e asciugando un paio di boccali di birra.
«Oh, sei tornata!», ha esclamato Rita, la prima a vedermi.
Le altre e il barista compreso, si sono girati verso di me.
«Già», ho risposto, tentando di mostrarmi casuale, nonostante i loro occhi mi stessero supplicando per dettagli.
«Beh, non so voi, ma io sono piuttosto stanca», ho detto invece, notando il modo in cui le palpebre di Roxanne erano già scese a metà del suo occhio e sembravano riaprirsi di scatto al minimo rumore nella hall.
«Hai ragione», si è accodata Sally, sbadigliando senza coprirsi la bocca e scendendo con un saltello dallo sgabello sul quale era appollaiata, senza riguardo per mantenere la decenza del suo mini tubino.
Una dopo l’altra, anche le altre si sono accodate alla nostra decisione e ci siamo dirette verso gli ascensori, la cui massima capacità era fortunatamente di 8 persone.
«Allora, dove sei andata?», mi ha chiesto Ashley, non appena la porta automatica si è richiusa alle nostre spalle e l’ascensore ha iniziato la sua salita.
«A prendere una boccata d’aria», e visto che ciò non sembrava aver placato la loro curiosità ho aggiunto, «Con un ragazzo che ho conosciuto al Paradis. Mi ha portato a vedere dov’era il suo hotel e siamo rimasti un altro po’ a parlare.»
Visti i miei precedenti, mi rendeva orgogliosa pensare di aver detto una mezza verità per una volta. E poi a loro non interessava certo cosa io intendessi per “parlare”.
Tornate nella nostra stanza, Roxanne si è trascinata con eccessive moine in bagno per spazzolarsi i denti, mentre io mi stavo sfilando molto lentamente le Christian Louboutin. (Le adoro sul serio, sono fantastiche e super sexy, però devo ammettere che in quel momento se i miei piedi avessero avuto libero arbitrio, le mie povere scarpine sarebbero state gettate nella spazzatura senza doppi ripensamenti.)
Roxanne è ritornata in stanza e si è spaparanzata sul letto, rilasciando una sorta di fischio come un palloncino bucato.
«Che avete fatto dopo che me ne sono andata?»
«Non siamo rimaste molto in discoteca, c'era troppo casino e un sacco di idioti. Siamo tornate in albergo e ci siamo fermate un po’ al bar, sai…», ha detto Roxanne, facendo un vago gesto con la mano che doveva servire a chiarirmi le idee, ma non l’ha fatto.
L’ho scrutata per qualche altro secondo e poi le ho chiesto: «Hai bevuto?»
«No!», ha sbuffato Roxanne, riuscendo a dimostrarsi convincente nell’imitazione di una bambina di otto anni più di una bambina di quell’età.
«Ho bevuto solo una birra», ha continuato, notando il mio sguardo accusatorio, «E nemmeno per intero. L’ho divisa con Nancy.»
«Se tenti di nuovo di saltarmi addosso con le tue braccia da polipo come l’altra volta, ti mostrerò quant’è comodo il parquet», l’ho avvisata, serissima nelle mie minacce.
Roxanne ha iniziato a ridacchiare e l’intensità delle sue risatine scattose non ha fatto altro che dare una seria conferma ai miei dubbi.
Mi sono distesa sulle lenzuola fresche, troppo accaldata per infilarmici dentro, e prima di poter spegnere le luci sulla testiera ho notato che Roxanne si era girata sul suo fianco, raggomitolata sul bordo del materasso e in serio pericolo di capitombolare da un momento all’altro. C’era così tanto spazio che tra noi due avrebbe benissimo potuto dormire un’altra persona.
Ho afferrato tra due dita il bordo del top del pigiama di Roxanne e ho tirato la stoffa verso di me.
«Vieni qui», ho detto, «Non ho voglia di svegliarmi durante la notte perché sei caduta sul pavimento.»
«No», ha protestato lei, «Non voglio fare come Ashley…non voglio…non voglio farti pentire di aver scelto me.»
Io ho fissato interdetta la sua schiena nella fioca luce della lampadina che ci sormontava.
«Smettila di fare la stupida e vieni qui», ho ripetuto, tirando più insistentemente la sua maglietta.
Roxanne si è lasciata guidare senza più proteste e quando io ho spento la luce ha mormorato semplicemente «Notte», prima che il suo respiro si rilassasse, fino ad essere quasi indistinguibile.
Che bel silenzio. Perfetto.
Il mio ultimo pensiero prima di scivolare nelle braccia di Morfeo è stato questo: “Spero almeno che questi muri dall’insonorizzazione schifosa mi evitino il russare di Ashley”.
Quando mi sono svegliata, stamattina, ho visto che Roxanne aveva mantenuto la promessa di starmi lontana e infatti stava abbracciando il suo cuscino come forma sostitutiva d’affetto.
Se fossi stata avvezza alle smancerie quanto le Gallinelle, l'avrei definita adorabile - aggettivo che solitamente riservo a Susie quando fa qualcosa di particolarmente carino. Però dubito che a qualsiasi altro essere umano faccia piacere essere paragonato ad un gatto.
Ho evitato di esternare i miei pensieri e invece ho svegliato Roxanne colpendola con il mio cuscino. Roxanne ha alzato a rallentatore un braccio per fermarmi e io ho riso quando mi sono trovata faccia a faccia con la sua faccia segnata dalle pieghe della federa.
Il tempo di rifocillarci e vestirci e siamo scese a colazione.
Io, Nancy e Sally abbiamo scelto latte e cereali, croissant per Rita e Roxanne, e uova strapazzate per Ashley, la quale, a sua detta, voleva accumulare più energie possibili per farsi una bella nuotata.
Nemmeno due ore dopo, non rispettando completamente la procedura delle 3 ore di digiuno, siamo giunte nella spiaggia privata del nostro hotel, decidendo invece di visitare l’enorme piscina interna questo pomeriggio.
Ed ecco tutto.
In questo momento Roxanne è sul suo materassino, unita finalmente con le acque che ha lasciato in Florida, mentre le Gallinelle, nonostante i piani olimpici di Ashley, sono rimaste attaccate per tutto il tempo a degli scogli, quasi volessero diventare dei coralli e…no, un momento.
Le Gallinelle hanno appena ribaltato il materassino verde di Roxanne e lei…lei si è gettata su di loro, scompigliando le loro perfette acconciature per tener lontana l’acqua salata.
Se avessi ancora dubitato che lei si fosse ripresa dopo il volo di ieri, ho smesso di farlo proprio in questo momento.
Forse è il caso che le raggiunga. I loro urletti si sentono fino a qui.
A differenza loro, io non temo gli assalti di Roxanne.

Ritornerò sicuramente vincitrice.

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Capitolo 22
*** cap 22: Cambiamenti di stato ***


Sono imperdonabile per il ritardo con cui ho aggiornato la storia, ma se c’è ancora qualcuno che mi segue ancora…beh, spero possa piacervi anche questo nuovo ultimissimo capitolo :) Se non vi ricordate dove eravamo rimasti:

“Kate e Roxanne si sono appena diplomate e sono dirette alla stessa università, Princeton, in pochi mesi. Andando a Princeton, Kate si separerà dalle Gallinelle, quattro ragazze molto superficiali e sue “amiche” (se solo Kate avesse meno ritrosie ad usare questa parola) da una vita. Assieme alle Gallinelle e Roxanne, Kate parte per una vacanza in Europa, forse ultima meta di sballo e divertimenti della sua adolescenza…”


***

Le parole scorrevano sotto i suoi occhi e una dopo l'altra acquistavano sempre più significato.

Roxanne iniziava a capire la differenza.

È come essere in una stanza chiusa piena di persone, senza rendersi conto di quanto l’aria sia diventata stagnante per colpa dei loro respiri.

Mentre si è lì dentro, non si riesce a sentire lo stesso tipo d'odore putrido che una nuova persona appena entrata nella stanza avverte.

Per capirlo, bisogna allontanarsi. Bisogna chiudere la porta, respirare un altro tipo di aria e distinguerla dalla precedente.

Se si è bloccati in quella stanza non ci si accorgerà mai della realtà della situazione.

Roxanne aveva fatto le valigie e sventolato la mano in saluto, prima che qualcuno potesse chiederle spiegazioni che non sarebbe stata in grado di dare. Ma non aveva capito quanto fosse diversa quella nuova aria, finché non aveva ammesso di essere effettivamente scappata dal suo passato.

Andando via, però, s’era accorta che non era cambiata solo l'aria nelle sue narici.

Era cambiata anche lei.


22 giugno (domenica mattina – quinto giorno)

Non sono riuscita a raccontare il nostro viaggio in sequenza come mi ero ripromessa, perciò per rimediare ai buchi nella narrazione, continuerò da giovedì pomeriggio.
Giovedì è stata una giornata piacevole, meno movimentata del primo giorno e molto più ordinaria dei giorni successivi, che presto andrò a raccontare, perciò sarò abbastanza sommaria nel resoconto.
Dopo aver passato la mattinata a crogiolare sotto il piacevole sole e a giocare nell’acqua cristallina della spiaggia privata del nostro hotel, abbiamo deciso di passare il pomeriggio nella piscina olimpionica all’interno della struttura.
Abbiamo provato anche la sauna e la vasca idromassaggio interna al centro benessere, entrando tutte e sei insieme e scherzando tra di noi a pestare i piedi di quella che ci stava di fronte.
La sera abbiamo deciso di raggiungere il centro cittadino, infilandoci insieme in un taxi, per poi seguire la direzione della folla verso il porto, dove si era infatti raccolta la maggior parte dei turisti, tra bancarelle fornite di ogni più piccolo gingillo o dentro i vari pub, negozi e ristoranti che costellavano le viuzze vicine.
Tornate in albergo, dopo alcuni drink e chiacchiere casuali con un gruppetto olandese, Nancy e Roxanne si sono fermate a parlare con il barista dell’hotel, Nole, raccontandogli brevemente della nostra giornata e facendosi consigliare da lui nuovi posti da visitare il giorno successivo.
Io sono crollata a letto, inspiegabilmente stanca, appena dopo l’1.00, senza nemmeno aver la forza di ammonire Roxanne a tenere le sue ventose lontano da me.
Il giorno successivo, venerdì, ha avuto un inizio del tutto diverso, tenendo completamente fede al detto “il buon giorno si vede dal mattino”.
Roxanne stava ancora dormendo quando io mi sono allontanata dalla nostra stanza per usare la fornitissima palestra dell’hotel che avevo adocchiato sin dal primo giorno.
Dopo i miei soliti venti minuti di corsa sul tapis roulant, sono ritornata in stanza per rinfrescarmi un po’.
Roxanne era finalmente sveglia, seduta al letto, con il cellulare in mano e intenta a fissare chissà cosa fuori dall’enorme vetrata affacciata sul mare.
«Perché quella faccia?», le ho chiesto.
Lei ha sussultato, come se non mi avesse sentita emergere dalla porta: «Mi ha chiamato mia sorella.»
«Madison? Perché? Sta bene?»
Visti gli esorbitanti costi delle chiamate internazionali, avevamo preferito tutte comunicare con i nostri famigliari tramite SMS. Una chiamata poteva essere giustificata solo da una emergenza.
«Sì, sì…Mi ha chiamata per dirmi che aveva già iniziato a mettere in valigia tutte le nostre cose». Osservando la mia espressione confusa, Roxanne ha poi aggiunto: «Al mio ritorno dalle vacanze, io e Madison dobbiamo lasciare la nostra casa a Milwaukee e tornare in Florida.»
Io ho spalancato gli occhi e in un tono che in seguito ho ritenuto, ahimè, alquanto stridulo, ho chiesto: «Volete tornare in Florida? Perché?»
«Beh, mia sorella aveva un contratto di lavoro che è terminato alla fine dell'anno scolastico», ha spiegato Roxanne, iniziando a giocherellare nervosamente con le sue mani, «È il motivo per cui io sono venuta con lei in Wisconsin. Oltre che per-»
Si è bloccata e ho notato la sua incapacità di continuare. Potevo benissimo immaginare quello che avrebbe detto se avesse continuato: “Per allontanarmi da Liam”.
Questa mia nuova abilità di completare le sue frasi mi ha stranamente compiaciuta.
«E Princeton?», ho dovuto chiedere. Non avevo previsto una simile svolta nei miei piani.
Avevo previsto il nostro ritorno in America, altri divertimenti e giorni passati in compagnia sua e degli altri del gruppo, almeno fino all’inizio del college, dove saremmo andate insieme…ma questo? No.
«Princeton è tra due mesi», Roxanne ha detto facendo spallucce e continuando a tenere lo sguardo sulle sue mani inquiete sul lenzuolo, «Purtroppo a breve scade l'affitto della casa...e con Madison senza più un lavoro, non abbiamo granché di cui mantenerci in Wisconsin.»
«Oh…», ho risposto, ritrovandomi all’improvviso senza parole. Non sapevo esattamente cosa avrei dovuto dire.
Un “mi dispiace” era sulla punta della mia lingua, ma non ero certa ciò fosse quello che stessi veramente pensando, a dire il vero.
Stavo cercando ancora di riconciliare le mie idee con i nuovi cambi di programma.
«Già», ha sospirato Roxanne. Non sembrava aspettarsi una risposta migliore da me.
«Ragazze!», al di là della nostra porta è risuonata la voce di Ashley, la quale ha iniziato a bussare insistentemente.
Le ho aperto sbuffando, ma al tempo stesso un tantino curiosa di sapere a cosa fosse dovuto tutto quel trambusto.
«Sally non si sente bene», ha esordito lei, un po’ affannata e saltando i soliti convenevoli.
«Cosa le è successo?», ha chiesto Roxanne, dando voce ai miei pensieri.
Ashley si è voltata verso di me: «Beh...ha, sai, problemi di stomaco.»
Io ho alzato un sopracciglio, perplessa: «E allora? Non sono un medico, cosa posso farci? Non aveva messo delle medicine in bagaglio?»
Ashley ha continuato a fissarmi intensamente, aggrottando la fronte e inarcando il naso in una smorfia che la faceva assomigliare incredibilmente ad un maiale: «No, non proprio…Cioè…capito?»
Aspetta, aspetta. «Lasciami indovinare. Uno dei suoi soliti problemi?»
Ashley ha annuito, «Ha litigato con Brian.»
«Adesso capisco.»
«Capisci cosa?», ha domandato Roxanne, alzandosi in piedi dal bordo del letto.
«Lascia perdere», ho tagliato corto, rivolgendomi nuovamente ad Ashley, «è ancora in bagno, o-»
«No, ha finito. Ma se tu potessi parlarle, come l'altra volta...»
«Non mi ha ascoltata nemmeno l'altra volta, Ashley.»
Roxanne ha sbuffato, alzando la voce: «Continuo a non capire!»
«Lascia perdere, Roxanne. Nulla di importante.»
«Io direi che è qualcosa di piuttosto importante, Kate», è intervenuta Ashley con fervore, «Stava così male che ho avuto paura avrebbe vomitato anche l’anima per quello stronzo!»
«È una sua scelta», ho risposto senza scompormi.
«Come si può scegliere di vomitare?», ha chiesto Roxanne con un tono incredibilmente infantile.
«Mettendosi due dita in gola?», ho detto, lanciandole una rapida occhiata con la coda dell’occhio.
Lei si è irrigidita: «E perché l'avrebbe fatto?»
«Perché è bulimica?», sono sbottata, irritata dall’ipocrisia dei suoi occhi blu spalancati. Credevo avesse ormai rinunciato a fingere di essere l’ignara bambina innocente. A quanto pare, non del tutto.
«Non parlare di lei come se fosse un caso clinico, Kate», si è intromessa Ashley.
«Beh, lo è. Questa non è di certo la prima volta, lo sai anche tu. Lo fa ogni volta che si lascia col suo ragazzo, per poi tornarci insieme dopo qualche ora. Il solito insomma.»
«Va bene...ma per favore Kate, fa qualcosa! Sei l'unica persona che ascolta quando è in questa condizione!», mi ha implorata.
«Te l'ho già detto, non mi ascolta!», stavo diventando sempre più frustrata dalle sue pretese, «O non saremmo di nuovo a questo punto dopo poco meno di un anno!»
«Per il momento…Se non facciamo qualcosa, si rovinerà completamente le vacanze! Solo tu sei capace di schiarirle la testa!»
«Non posso», ho concluso, voltandole le spalle e incrociando le braccia al petto.
«Sì, che puoi!», ha insistito Ashley, assurdamente convinta che la sua lagna potesse convincermi.
«Beh, Kate, tu sei capace di essere molto persuasiva…», ha fatto capolino la voce di Roxanne, «Non conosco esattamente tutti i dettagli, ma credo che se ci fosse un modo per farla sentire meglio…allora si dovrebbe far qualsiasi cosa per riuscirci.»
Roxanne mi stava dicendo qualcosa che conoscevo già perfettamente. So di cosa sono capace. Qual era il punto di tutta la conversazione allora?
Mi sono voltata di scatto verso entrambe: «Perché dovrei prendermi tutta la responsabilità? È lei che ha deciso di agire in un certo modo. È il suo corpo, è la sua responsabilità. Se non vuole mangiare, se vuole vomitare…è libera di farlo. Perché dovrei essere io a convincerla di smettere?»
«Perché sei sua amica! Smetti di chiederti perché e pensa ad aiutarla!», ha gridato Ashley, prima di uscire con la stessa irruenza con cui era entrata.
Io ho alzato un sopracciglio e osservato il tutto cercando di trattenere delle risate.
Amica? Sì, certo. Se amiche si possono definire delle invidiose opportuniste che ti stanno attorno solo per acquistare più popolarità.
Voltandomi verso Roxanne, l’ho notata fissarmi.
Ho ricambiato il suo sguardo senza abbassare la testa per alcuni secondi, fino a che lei non l’ha interrotto, asserendo di doversi dare una sistemata e richiudendosi la porta del bagno alle spalle.
Io ho sospirato alla stanza ormai vuota, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi e guardando al di là della vetrata un gabbiano volare sul pelo dell’acqua.
Come dicevo, il buon giorno si vede sul serio dal mattino.
A colazione Sally si è comportata normalmente. Fin troppo normalmente.
Non ha mangiato nulla, confessando di avere lo stomaco ancora pieno dal giorno precedente. Fiato sprecato, tutte noi eravamo consapevoli che il suo pasto fosse finito giù nello scarico.
Ashley non ha aperto bocca, ma mi ha lanciato diverse occhiate che suppongo ritenesse intimidatorie tra un boccone e l’altro.
Roxanne si è impegnata al triplo delle sue capacità per mantenere in corso una conversazione per tutto il tempo, ma nemmeno il suo flusso di chiacchiere costanti è riuscito ad evitare qualche silenzio imbarazzante.
A quel punto mi sono accorta che non era più solo Ashley a fissarmi, ma tutte le Gallinelle, Sally esclusa e Roxanne compresa.
«Cala Tarida?», ho suggerito, ignorando i loro sguardi pieni di aspettativa.
Cala Tarida era una delle spiagge che Nole ci aveva consigliato di visitare il giorno prima.
«Fantastico! Andiamoci subito!», è sobbalzata Sally, attirando gli sguardi straniti delle altre e praticamente di mezzo ristorante, «Cosa?»
«Niente», ha sospirato Rita, certamente più furtiva di Ashley nel lanciarmi sguardi pungenti, poggiandole una mano sulla spalla e spingendola in direzione delle nostre camere d’albergo, «Andiamo a prendere le borse.»
Credevo saremmo arrivate alla spiaggia con un altro taxi, ma prima che potessi prenotarne uno, Rita ha tirato fuori dalla sua maxi borsa una stampa degli orari e delle fermate dei bus che circolano per Sant Antonio.
Al mio sguardo incuriosito nel vedere il foglietto lei ha risposto solamente: «Nole.»
Quel Nole! Fa il barista, ma giuro sia più zelante di una guida turistica nell’aiutare delle povere ragazze in cerca di divertimento. Sarà stato l’altruismo la sua unica motivazione? O forse era tutto per ringraziare Nancy che, grazie alla sua maglietta, gli aveva garantito un tour completo della sua scollatura il giorno prima?
Personalmente propendo per questa ipotesi.
I bus sono frequenti e puntualissimi. Siamo arrivate alla fermata appena in tempo per vedere l’ultimo bus andar via, ma nemmeno dieci minuti dopo ne è arrivato un altro a prenderci.
Il viaggio è durato poco più di 30 minuti. Lo spettacolo che ci ha aspettate non è stato troppo diverso da quello che avevamo dalla spiaggia del nostro albergo, ma non dico questo in senso dispregiativo, anzi.
Ci siamo fermate qualche secondo in cima alle scale della caletta per assorbire bene lo spettacolo e il profumo del mare turchese almeno quanto il bikini che avevo deciso di indossare quel giorno.
Numerosi ristoranti erano disseminati lungo la spiaggia, irrompendo però l’illusione della natura incontaminata.
Cala Tarida era già affollata sebbene fossero appena le 10 di mattina.
Per Roxanne sarebbe andato bene anche sistemarci nei tratti di spiaggia libera, ma io inorridivo al solo pensiero di sistemare il mio asciugamano in un posto dove un flusso costante di marmocchi mi avrebbe calpestata con piedi sporchi di sabbia bagnata e chissà cos’altro.
Invece ho suggerito di prendere un posto in un lido privato e Sally si è subito accodata: «Dobbiamo per forza prendere un ombrellone, non posso espormi direttamente al sole per più di un’ora. La mia pelle è troppo delicata!»
Io ho roteato i miei occhi. Evidentemente non era solo la sua pelle ad essere troppo delicata o le vicissitudini di quella mattina non sarebbero accadute.
Ashley, che sicuramente mi aveva vista, mi ha lanciato un altro sguardo duro e io ho pensato che storcere il viso in quelle smorfie poco lusinghiere le avrebbe fatto venire le rughe prima dei 30.
Abbiamo occupato uno dei posti nel lido, con 6 sdraio attorno ad un ampio ombrellone che avrebbe tranquillamente potuto contenerci tutte e abbiamo passato il primo paio d’ore in maniera molto tranquilla, spalmandoci creme solari a vicenda, prendendo il sole, scambiando qualche chiacchiera superficiale, stando bene attente ad ignorare la questione scottante che riguardava Sally.
Roxanne, meno elusiva nel suo approccio, le è stata vicina per tutto il tempo. Un’altra persona si sarebbe insospettita, ma Sally essendo Sally, non è sembrata nient’altro che deliziata dalla cosa.
Poi siamo entrate in acqua per il bagno e sebbene le alte temperature, l’acqua era così fredda a primo impatto che ho impiegato 10 minuti solo per arrivare a bagnarmi fino alla vita. Roxanne, stanca di aspettare, si è tuffata impulsivamente, portando le ginocchia al petto e cadendo nell’acqua con uno splash che ci ha bagnate da capo a piedi senza che avessimo altra scelta, cancellando ogni nostra esitazione.
Nel far questo, ha colpito un altro paio di ragazze, intente a giocare a beach volley. Queste, vista la doccia inaspettata, si sono girate verso di lei indignate.
Roxanne si è scusata tra le risate. Ma io, se fossi stata in loro, avrei premuto la mano contro la sua testa, spingendola sott’acqua fino a che lei non sarebbe riemersa senza fiato e altrettanto contrariata…Ok, pur non essendo in loro, devo ammettere di aver fatto comunque questo identico gesto!
Dopo una breve nuotata, le Gallinelle si sono ritirate sulla battigia a guardare e, presumibilmente, criticare il resto dei bagnanti, mentre io e Roxanne siamo tornate al nostro ombrellone a recuperare il materassino verde di Roxanne.
Il giorno prima l’avevamo sgonfiato perché non sarebbe stato pratico portarlo così in giro e quindi abbiamo fatto a turno per gonfiarlo, riprendendo quando l’altra lasciava per mancanza d’aria.
Non appena abbiamo ritenuto che il materassino fosse abbastanza gonfio da reggerci, siamo ritornate a bagnarci. Roxanne si è distesa su di questo e io mi sono ancorata alla parte terminale accanto ai suoi piedi, incrociando le braccia e poggiandovi sopra la testa, mentre il resto del mio corpo fluttuava nell’acqua. Il dondolare sotto di me era così rilassante, che dopo un po’ ho chiuso gli occhi per godere meglio della sensazione.
Insomma, eravamo lì a goderci la tranquillità del momento, quando all’improvviso, Roxanne ha lanciato un gridolino, alzando di scatto le gambe e colpendomi alla nuca con i suoi talloni, facendo in modo che perdessi il mio ancoraggio al materassino e cadessi in acqua. Anche Roxanne, in tutta quella confusione, è rotolata giù del materassino facendo la mia stessa fine.
Stavo appunto per dirle che se non avesse imparato a coordinare meglio i suoi arti avrebbe ucciso qualcuno, quando due voci hanno gridato all’unisono: «Scusate!»
Due ragazze, una dai capelli corti tinti di rosso acceso in un costume intero blu notte e la sua amica, bruna con un costume arancione che risaltava sulla carnagione scura, si sono avvicinate verso di noi. Avevano delle espressioni conciliatorie, ma qualcosa nei loro occhi mi faceva intendere che non erano poi tanto dispiaciute dell’accaduto.
Ecco quando mi sono accorta che appartenevano al gruppetto di beach volley che poco prima Roxanne aveva bagnato tuffandosi. Si trattava chiaramente di una vendetta pianificata. E tutto per colpa di Roxanne!
Le ho lanciato uno sguardo omicida, ma lei stava ridendo. Non era lei quella a cui sarebbe cresciuto un bel bernoccolo sulla nuca, dopotutto.
Tra le mani aveva la palla che l’aveva colpita all’improvviso e causato tutto quello scompiglio. Le due si sono avvicinate di più e teso le braccia verso la palla che Roxanne ha prontamente restituito.
«Scusate ancora», ha continuato la rossa, indicando la sua amica, «Bonnie qui ha una pessima mira.»
Bonnie non ha smentito affatto l’affermazione, sorridendoci sorniona.
Roxanne ha scosso la testa di buon umore: «Non c’è problema. Se la vostra palla non ci avesse svegliate, ci saremmo prese di sicuro un’insolazione.»
«Parla per te, io non stavo dormendo», ho borbottato, incapace di nascondere la mia irritazione.
Suppongo che le altre più che ostile mi abbiano trovata divertente, vista la grassa risata che ho ricevuto in risposta.
Pochi minuti dopo le presentazioni di rito - la rossa accanto a Bonnie ci ha detto di chiamarsi Nina - le due ci hanno convinte ad unirci alla loro partita di beach volley.
Roxanne ha menzionato gli altri ragazzi e le altre nazionalità che avevamo incontrato i due giorni precedenti e Nina ha confermato che anche per loro noi eravamo i primi americani incontrati ad Ibiza.
Abbiamo richiamato le Gallinelle a raccolta e Nina e Bonnie ci hanno presentate ai loro compagni di gioco: Leah, l’altra ragazza nella loro stessa squadra, e i tre ragazzi che componevano la squadra avversaria: Simon, Frank e un altro tizio con voce molto flebile di cui non sono riuscita ad afferrare il nome, ma che aveva un grosso 42 tatuato sul collo.
Abbiamo scoperto presto che tutti e sei frequentano il secondo anno dell’UCLA. Per qualche ragione ho visto il viso di Sally farsi più scuro alla sola menzione dell’università californiana.
«È dove il ragazzo di Sally ha ricevuto una borsa di studio per meriti atletici», mi ha bisbigliato Roxanne, dopo essersi assicurata che le Gallinelle fossero distratte dalle nostre nuove conoscenze, «Lei non vuole che lui accetti, vista la lontananza, lui vuole accettare. È per questo che hanno litigato.»
Oh. Pensavo il loro litigio fosse basato su uno dei soliti futili motivi.
Per esempio, una volta Sally aveva beccato Brian fissare un’altra ragazza per più dei 10 secondi che Sally gli aveva concesso come margine di distrazione. Venti secondi gli erano costati più di due settimane di litigi…Povero ragazzo.
«Che stronzate. Solo perché lei è un’idiota e non è stata accettata da nessun college, non dovrebbe impedire al suo ragazzo di andarci», ho risposto stizzita.
Roxanne ha subito cercato di soffocare il mio commento polemico.
Non avevo risposto a voce così alta, anche se non avevo bisbigliato come Roxanne, ma il suo tentativo di zittirmi non aveva fatto altro che catturare l’attenzione di Rita e Nancy che ci hanno guardate incuriosite.
«Cosa, cosa, cosa?», hanno chiesto mostrando grandi occhioni. Roxanne ha cercato di sviare la conversazione, ma gli occhi di Nancy si sono illuminati ancora di più - supponendo ci fosse un succulento segreto da rivelare - e ha roteato verticalmente l’indice in aria. Sarebbe tornata a chiedercelo dopo.
Perfetto.
Ci siamo unite al gruppo di Nina, formando stavolta due vere e proprie squadre di pallavolo, con sei membri ciascuno. Nonostante la rete bucata e molto più bassa delle nostre teste, siamo riusciti a giocare una partita più o meno decente, anche se piena di falli e infrazioni del regolamento.
Soprattutto Frank, schiappa totale nel gioco, oppure solo fingendosi una schiappa totale -era difficile capire se fosse serio o meno ogni volta che apriva bocca - ci ha fatto ridere come non mai. Inseguiva la palla per poi capitombolare con la faccia nella sabbia o iniziava a colpire la palla con i piedi, come se si fosse scordato che stessimo giocando a pallavolo e non a calcio. Aveva, inoltre, l’abitudine di appendersi alla rete nel momento in cui avrebbe dovuto saltare per formare un muro di difesa, aprendo e chiudendo la bocca nell’imitazione di un pesce.
Ogni volta che lo faceva, tutti noi scoppiavamo a ridere, anche il timido e serioso ragazzo con il tatuaggio 42, e la competizione perdeva ogni briciolo di serietà che aveva acquistato nei precedenti minuti di gioco continuato.
E poi, dopo aver visto le notevoli abilità di Bonnie sul campo, potevo ormai dire con sicurezza che lei aveva tutto fuorché problemi di mira, e dunque ci aveva colpite di proposito prima sul materassino.
Ho tentato di aggrapparmi saldamente alla mia indignazione, ma non riuscivo a dimostrarmi troppo arrabbiata. L’allegra compagnia del loro gruppo compensava in tutto e per tutto gli infantili screzi iniziali.
Giunta l’ora di pranzo, troppo stanchi e esausti dalla sabbia e dalle risate per continuare a giocare, siamo tornate all’ombrellone a prendere le nostre cose e poi ci siamo dirette con gli altri verso uno dei più pittoreschi ristoranti sulla spiaggia: “Plaza del Sol”, raggiungibile attraverso una scalinata bianca fino al locale interno, che attraverso le grandi vetrate fornisce una vista perfetta della spiaggia. Finalmente un po’ d’aria condizionata!
Abbiamo ordinato tutti una paella, raccomandata anche dal cameriere, e abbiamo continuato a intrattenere futili chiacchiere per conoscerci meglio.
Ho annuito, riso, gesticolato, scherzato con le parole giuste al momento giusto. Primo stadio completato: senza faticare dopo un paio d’ore avevo già conquistato la loro simpatia.
Era facile vedere come le loro espressioni e voci si addolcivano solo nel richiedere la mia attenzione.
Ho scoperto che Nina è una studentessa di psicologia, intenzionata a specializzarsi anche in sociologia, che Bonnie e Simon stanno insieme e frequentano entrambi architettura, che il tizio con il 42 studia un qualche tipo di ingegneria, che Leah studia medicina e sembra a malapena sopportare Frank, il quale invece è iscritto a numerosi corsi, senza sapere esattamente che fare della propria vita.
«Potresti fare il comico», gli ha suggerito Rita e un coro di assenso si è sparso per il tavolo. Frank si è grattato la testa imbarazzato e ho visto Nina soffocare una risata insieme al resto del loro gruppo, prima che lui potesse borbottare che era stato già cacciato dal club teatrale.
Nonostante la nostra insistenza, lui non ci ha voluto dire il motivo di tale allontanamento.
All’inizio faticavo anche solo a ricordare chi fosse chi, e non avevo ancora la più pallida idea del nome non numerico di 42, l’unico apparentemente più interessato alla paella che a fare nuove conoscenze, ma loro sembravano catturati dal primo istante.
Roxanne, appena meno affascinante di me, ma altrettanto trascinante, li ha intrattenuti per più di mezz’ora con una storia riguardante le sue disavventure con le allergie alimentari. Era ridicola, a tratti schifosa, e assolutamente inappropriata di fronte ad un pasto caldo, ma ci ho riso sopra lo stesso, nonostante l’avessi già sentita prima.
Sally ha letteralmente ingurgitato la paella, finendo prima che gli altri potessero anche solo arrivare a metà del piatto, e poi ha spezzato il pane in minuscoli pezzettini, mangiandone ogni tanto qualcuno per avere qualcosa da fare.
Ashley l’ha fissata ansiosamente per tutto il tempo, così tesa da sobbalzare non appena il suo nome fosse menzionato, ma Sally è rimasta seduta al tavolo durante l’intero pranzo.
Non c’è stata nessuna tempestiva corsa in bagno. Molto probabilmente la presenza di estranei al nostro tavolo e il posto non familiare era l’unica cosa che l’aveva trattenuta dal farlo.
Anche io mi sono trovata a fissare Sally e controllare i suoi movimenti e nel farlo ho visto che tutte le componenti del mio gruppo stavano facendo lo stesso.
La mia irritazione iniziale, allontanata solo temporaneamente dalla piacevole compagnia, è tornata.
Perché assecondare ogni suo minimo capriccio? Perché monitorarla e proteggerla come se fosse incapace di prendersi cura di se stessa? Perché trattarla come una stupida bambina incapace di distinguere il bene dal male?
“Smetti di chiederti perché e pensa ad aiutarla!” Quelle erano state le parole di Ashley, ma io non riuscivo ad essere d’accordo.
Se Sally continua a comportarsi così è perché sa di avere persone accanto a lei che l’aiuteranno nella sua sofferenza. È troppo codarda per chiedere aiuto di persona, perciò ricorre a questi metodi.
Pur da esperta manipolatrice, io non mi sono mai ribassata a tali livelli. Usare delle persone sfruttando la pena che provano nei tuoi confronti è la forma più vile di manipolazione che possa esistere.
Non che ci sia un codice d’onore in questa, il solo atto per i soliti frignoni moralisti è privo di onore in sé per sé, ma non c’è niente che io disprezzi di più.
E sì, avevo sempre ammesso di disprezzare allo stesso modo le Gallinelle. Non c’era niente di nuovo in questo. La lieve esitazione dentro di me, però, diceva di sì. C’era effettivamente qualcosa di nuovo.
Era cambiato qualcosa, per qualche giorno, per qualche ora, su quell’isola. Avevo forse scordato - o solo messo da parte – quanto io fossi diversa da loro. Mi ero sentita legata a loro da un collante che prima non era mai esistito. Per la prima volta, mi era sembrato di appartenere ad un gruppo, ad un qualcosa che non fosse un club esclusivo che conteneva solo me stessa.
E il merito di questo non era difficile da attribuire: Roxanne.
Roxanne, l’innocente bugiarda. Con un visino pulito e un sorriso infantile nasconde dentro di sé colpe che nessuno mai le attribuirebbe. Colpe di cui solo io conosco l’esistenza.
Roxanne che sta vicino a Sally perché ritiene di doverlo fare, che racconta sue esperienze negative, rigirandole al pubblico in modo da renderle buffe, che mi ribadisce ciò che sono e di cosa sono capace.
Roxanne che all’inizio odiavo nella versione superiore a me. Che accetto nella versione simile a me.
Se lei non fosse qui, non credo questi giorni sarebbero stati gli stessi. Non sarebbero stati nient’altro che incessanti schiamazzi delle Gallinelle, tra la mia noia crescente poi sfociata in irritazione e rancore e odio ben più profondi di quelli che provo già adesso. Ovviamente il tutto mascherato da uno sfavillante sorriso.
E ora mi chiedo, sarei stata capace di mantenere la farsa così a lungo senza esserne stremata?
Ma dopotutto, non l’ho mantenuta per anni e anni prima che Roxanne si trasferisse a Milwaukee?
Già. Roxanne si è trasferita da noi solo da qualche mese, eppure ho perso il conto di quante cose siano mutate negli ultimi tempi. È stato realmente tutto merito suo? Solo quella mattina Roxanne mi aveva detto che al ritorno dalle nostre vacanze sarebbe tornata in Florida. Le cose sarebbero nuovamente cambiate con la sua assenza? E se sì, in quale modo? Sarei stata capace di sostenere il tutto come avevo sempre fatto prima?
Il solo pensiero mi faceva venire un’emicrania.
La soluzione a tutto questo era semplice. Mi è sobbalzata alla mente quasi immediatamente: offrire a Roxanne ospitalità in casa mia fino alla nostra partenza per Princeton.
Ero sicurissima di non aver solo immaginato l’esitazione nella sua voce quando mi aveva parlato del suo ritorno in Florida. Roxanne non aveva citato in alcun modo Liam, ma sapevo che gran parte del problema era dovuto alla presenza di lui in casa sua.
Sarebbe stata in grado di vivere 24 ore su 24 con la madre a cui aveva nascosto tutto e l’uomo con cui l’aveva tradita?
Ho evitato di tenere in conto i sentimenti di Roxanne per lui - visto il mio assoluto disinteresse per simili baggianate - ma ero certa che nemmeno io sarei riuscita a sopportare una simile situazione senza crollare prima sotto la pressione dei convenevoli e delle aspettative familiari.
Come poteva Roxanne vivere altri due mesi in una tale condizione senza impazzire?
Magari avrebbe accettato di buon grado la mia offerta.
Magari l’avrebbe vista come unica scappatoia. Magari mi avrebbe vista come sua personale salvatrice. Magari mi sarebbe stata riconoscente per tutta la vita.
Non male come idea. Direi che potrei competere con Nole in termini di altruismo!
Ma in quel momento, tra i tavoli affollati del Plaza del Sol, con Frank che stava attirando l’attenzione di mezzo ristorante con la sua ode dedicata alla deliziosa Paella, ho deciso che sarebbe stato assolutamente fuori luogo chiederle una cosa simile.
Il pomeriggio sulla spiaggia è passato sulla falsariga della mattinata. Nina ci ha poi menzionato i loro piani per la serata: lei e il suo gruppo avevano noleggiato dei motorini con cui avevano intenzione di fare un giro lungo tutta l’isola per poi accendere un party sulla spiaggia, assieme ad altri ragazzi che avevano incontrato nel loro albergo.
Io ho guardato le eccitate espressioni delle altre e ho risposto che ci saremmo accodate anche noi.
Abbiamo noleggiato altri 3 motorini, su cui saremmo andate in 2, e ci siamo accordati sul luogo del nostro incontro.
Io avrei voluto tanto indossare uno dei bei vestiti che avevo avuto cura di portare con me, in particolare uno di raso rosso, ma vista l’impraticabilità dei nostri mezzi di trasporto e il modo in cui avremmo passato il resto della serata, ho preferito optare per l’abbigliamento più “semplice” che avevo portato con me. Canotta panna e pantaloncini beige, mantenuti in vita da una doppia cinta pitonata. Poco importa che la canotta fosse interamente paiettata e rifinita da preziose applicazioni e i pantaloncini di un lino pregiatissimo…almeno non sfiguravano con i sandali Jimmy Choo ai miei piedi.
Roxanne era nella sua tenuta da esploratrice del Sahara, con la mia fotocamera al collo per raccogliere tutti i ricordi della serata. Le Gallinelle, le quali evidentemente avevano coordinato il loro intero guardaroba prima di partire, avevano scelto dei freschi vestitini estivi di uguale modello, ma diverso colore, che fortunatamente hanno resistito al vento sulle moto senza denudarle e offrire spettacoli indecenti al resto dei turisti.
Ci siamo organizzate così sulle tre moto: Nancy guidava una moto con Rita a bordo, Sally una con Roxanne, e io sono andata su una guidata da Ashley.
Il nostro rapporto non era stato dei migliori a partire da quella mattina, ma Ashley è l’unica di cui avevo già provato la guida motociclistica anche a casa e sapevo di potermi fidare di lei.
Lei è sembrata estremamente compiaciuta dal fatto che io l’avessi personalmente scelta come guidatrice e io ho capito che non era stato solo il mio rifiuto a voler aiutare Sally ad aver causato la sua ostilità nei miei confronti, ma soprattutto l’aver scelto Roxanne come compagna di stanza. Ciò dimostrava che Ashley non aveva ancora lasciato perdere l’infantile capriccio dei giorni precedenti. Ecco perché sceglierla almeno in qualcosa l’aveva addolcita così tanto. Buono a sapersi.
Ci siamo recati al posto di ritrovo stabilito con Nina e gli altri e lasciato che le nostre sei motociclette vagassero per le strade dell’isola. Il cielo si andava scurendo e le luci diventavano sempre più forti e brillanti, catturando i nostri occhi su luoghi di ritrovo, locali di intrattenimento, negozi, ristoranti, bancarelle per tutti i gusti e tutte le esigenze. La brezza creata dalla velocità scuoteva i nostri vestiti leggeri e i nostri bracciali mentre sfrecciavamo sulle due ruote.
Abbiamo seguito le moto degli altri sul lungomare, per poi sviare per un breve tratto in città, dove abbiamo intravisto il centro medievale che ci siamo ripromesse di tornare a rivedere in un secondo momento. A dire il vero, il nostro obiettivo principale nel venire ad Ibiza è stato il divertimento e non la cultura…ma perché non provare entrambi se c’è l’occasione di farlo?
La spiaggetta che ci era stata indicata per il party era vicina al hotel di Nina e degli altri, e quando siamo arrivati questa, c’era già qualche ragazzo intento a posizionare i tavoli, con abbondanza di alcolici - per mia fortuna - e di cibo.
Nina ci ha presentate ad un sacco di persone, di cui posso tranquillamente dire di non ricordare affatto il nome, ma noi siamo rimaste attaccate al gruppo già formatosi. Neanche io avevo una grossa voglia di fare conoscenza, specialmente perché quello non era il mio solito terreno di gioco.
Frank ha proposto un torneo di tiro alla corda. Dai tavoli delle bibite, intenta ad aprire la mia prima birra, non l’avevo sentito, ma all’improvviso Roxanne è arrivata per prendermi e trascinarmi verso la gara. Eravamo nella stessa squadra di Frank, insieme ad altre due ragazze.
Frank ha lasciato andare la corda dopo pochi minuti di gioco, appena il secondo gruppo ha iniziato a tirare più forte, in modo da farli capitombolare a terra. Abbiamo perso, ma almeno le risate sono state assicurate.
Quando alla fine il gruppo composto da Leah, 42, Nina e altri due ragazzi sconosciuti è stato dichiarato vincitore, Frank è corso da loro per rubare la corda e ha iniziato a crearne un cappio e a rotearlo come fosse un lazo. In maniera inaspettata è riuscito ad acchiappare Bonnie, la quale stava baciando Simon ad una distanza piuttosto considerevole. L’espressione sorpresa di lei all’essere stata catturata in modo così bizzarro mi è stata fatale ancora una volta e ho riso fino ad avere i crampi allo stomaco.
«Come diavolo ha fatto?», ho chiesto dopo a Nina.
«Frank viene dal Texas, terra di cowboys», mi ha risposto lei con fare ammiccante e io non ho potuto fare a meno di ridere di nuovo, tentando di immaginarlo in tali vesti.
Dopo pochi minuti di fallite speculazioni, ho concluso che Frank e cowboy nella stessa frase per me non potevano coesistere.
Qualcuno ha acceso la musica e sempre più persone hanno iniziato a ballare. La luce della luna e le intense fiamme di un piccolo falò davano la miglior illuminazione possibile alle danze.
Mi sono buttata nella mischia per un ballo movimentato circondata dalle Gallinelle e un altro più lento con Frank.
Lui è sembrato sinceramente sorpreso quando io ho accettato la sua offerta.
«Chi l’avrebbe mai detto, a volte la simpatia basta per conquistare una ragazza così bella…», ha commentato a metà del nostro lento con una risatina nervosa.
«Infatti, non sempre basta», gli ho detto, ancorata alle sue spalle.
«Ah no?», ha chiesto lui, staccandosi un po’ per guardarmi negli occhi. Alto quanto me, moro con profondi occhi verde bottiglia che ho notato solo da vicino, basette e pizzetto perfettamente millimetrati, al contrario dei capelli spettinati. Certamente carino, ma in una maniera più generale e dispersiva che ben definita.
Non era per niente il mio tipo, anche se non completamente fuori dai miei canoni estetici…ma poi a cosa sarebbe servito cercare un modo per farlo rientrare nei miei canoni? Non ero benché meno interessata.
«No», ho risposto con un sorriso indulgente. Lui ha fatto spallucce, un approccio molto più salutare di quello di altri che sembravano diretti al suicidio dopo un mio rifiuto. «Valeva almeno la pena di provare», ha detto. Poi mi ha fatto un occhiolino e trascinata in un melodrammatico casquè davvero fuori luogo rispetto alla dolce musica in sottofondo.
Ho sentito l’acuta risata di Roxanne e un breve applauso è seguito alla nostra performance. Ci siamo rialzati e abbiamo fatto un teatrale inchino di ringraziamento. Altri balli con tutto il gruppo sono seguiti, intervallati da piccole pause per mangiare e bere – ho concesso a Roxanne di finire la mia seconda birra, ma niente di più visto che sarei stata io a finire nello stesso letto con la sua affettuosità da ubriaca altrimenti – e poi ho deciso finalmente di riposarmi, sedendo a una distanza media dal fuocherello. Abbastanza vicina per ricevere la sua luce, ma abbastanza lontana per evitare di ricevere il suo calore.
Girando la testa mi sono accorta che anche 42 era seduto su di un masso a poco meno di un metro di distanza e stava fissando le fiamme. Lui sì che mi intrigava invece. Il 42 tatuato sul suo collo spiccava sulla sua pelle anche in quell’atmosfera notturna.
Non ho saputo sopprimere la mia curiosità e gli ho rivolto parola per la prima volta nella giornata: «Il tuo 42…cosa significa?»
Lui ha restituito il mio sguardo e ha alzato un sopracciglio: «Cosa pensi significhi?»
Io ho aggrottato le sopracciglia: «Non lo so, è per questo che te lo sto chiedendo.»
Lui ha riso e bofonchiato qualcosa prima di alzarsi all'improvviso e allontanarsi da me.
Io l'ho guardato farsi strada verso il tavolo delle bibite a bocca aperta. Che razza di cafone! E per di più matto da legare!
«Lascialo perdere», la voce di Nina ha interrotto le ingiurie che gli stavo rivolgendo mentalmente. Lei si è seduta a cavalcioni sullo scoglio lasciato dal suo amico e poi ha continuato a parlare sorridendo e scuotendo la testa: «Jeremy ha una strana abitudine: non vuole parlare a chi non sa cosa significhi il suo tatuaggio.»
Jeremy, ecco il suo nome!
«Cosa significa allora?»
«È preso da un libro», ha detto lei velocemente.
Non capivo la necessità di tutto questo mistero. Anche se avessi saputo di cosa si trattava non avrei più cercato di parlare al cafone. Lungi da me il solo pensiero!
Roxanne è venuta a recuperarmi dopo solo 10 minuti di chiacchiere con Nina, dicendo: «Kate devi assolutamente provare queste tartine!»
Io ho lanciato un sorriso di scuse verso Nina e mi sono lasciata trascinare verso il tavolo da Roxanne.
Sally aveva già un piatto colmo di tartine, ma non le stava mangiando, invece stava parlando e scherzando con…Jeremy!
Li ho osservati interagire, mentre Roxanne riempiva il mio piatto senza essersi accorta di non avere più la mia attenzione.
Sally ha lanciato un’occhiata al prominente tatuaggio sul collo di Jeremy e semplicemente detto: «Guida galattica per autostoppisti? La risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l'universo e tutto quanto?»
Gli occhi di lui si sono illuminati: «Lo conosci?»
«Brian mi ha fatto vedere il film», ha risposto lei con una risatina.
Anche lui si è accodato, sebbene io personalmente non ci trovassi molto da ridere: «E chi è Brian?»
Sally ha sventolato la mano non occupata dal piatto di tartine come se stesse scacciando delle mosche: «Un coglione», ha detto in maniera conclusiva e Jeremy ha riso di nuovo.
Cataloghiamo i fatti:
1) In meno di 5 minuti con Sally l’avevo visto sorridere più di quanto non avesse fatto in un’intera giornata.
Situazione sospetta.
2)La rapidità in cui Sally aveva dismesso il suo amato Brian per discutere con Jeremy. Situazione estremamente sospetta.
Sebbene frivole e spesso indecenti, c’è da ammettere che le Gallinelle sono rimaste abbastanza fedeli negli anni ai loro rugbisti, tralasciando i frequenti tira e molla.
Sally si stava comportando davvero in maniera molto diversa dal solito. Di questo ero certa.
«Kate!», la voce di Roxanne mi ha richiamata, «Dai! Prova le tartine!»
Ho provato le tartine, e in effetti erano buone, ma continuavo a non capire l’ossessione di Roxanne per queste.
Frank mi ha rubata per un altro ballo così da mostrare anche ad altri suoi amici la nostra abilità nel casquè. Il fatto che lo avessi rifiutato meno di un’ora prima non sembrava averlo colpito affatto nell’orgoglio.
Nancy e Ashley mi hanno poi convinta a restare in pista quando un po’ di house decente è emerso dalle casse.
Mentre ballavamo ho avuto modo di notare che Sally e Jeremy erano restati al fianco l’uno dell’altra per tutta la serata.
Anche le due Gallinelle sembravano averlo notato, il che è sorprendente visto che solo le cose più ovvie del mondo spiccano ai loro occhi.
«Hai visto quei due?», ha sussurrato Ashley al mio orecchio, Nancy all’altro mio fianco mi ha dato un leggero colpetto nella loro direzione.
«Sarebbe difficile non farlo», ho sbuffato, irritata dalla loro mancanza di discrezione. Era persino più difficile non notare che loro due li avessero visti.
«Colpa del litigio con Brian», si è avvicinata Rita con Roxanne, «Non so cosa Sally abbia intenzione di fare con Jeremy.»
Io ho roteato gli occhi, data l’ovvietà della situazione: «Scoparselo?»
Roxanne e le Gallinelle hanno spalancato gli occhi.
«Ha già un ragazzo!», Ashley ha squittito come uno dei topolini di gomma con cui la mia Susie gioca continuamente.
«E allora? Ad un oceano di distanza, credete che Brian possa farci qualcosa?»
«Lei non lo farebbe», ha dichiarato Roxanne sulla difensiva. Le altre si sono accodate alla sua opinione e io ho preferito non sprecare fiato con le loro sciocche convinzioni.
Una Bonnie già abbastanza sbronza ci ha raggiunte al termine delle danze con un’ancora sobria Nina sotto braccio.
«Fallo anche a loro!», ha esclamato Bonnie rivolgendosi verso la sua restia amica.
Noi ci stavamo incuriosendo: «Perché, cosa sa fare?»
«È una maga», ha risposto Bonnie in tono cospiratorio e noi siamo scoppiate a ridere.
«No, non lo sono!», ha negato Nina, fingendosi offesa.
«Lo è! Fa questo piccolo giochetto di prestigio-», ha iniziato Bonnie.
«Non è un giochetto di prestigio», l’ha interrotta Nina, «è basato su importanti studi della psiche umana-», prima di esser nuovamente interrotta.
«Insomma, un giochetto di prestigio per indovinare il vostro partito politico dal vostro animale domestico», ha continuato Bonnie imperterrita, «L’ha già fatto a cinque persone e ha indovinato sempre!»
«E se non si ha un animale domestico?», ha chiesto Rita.
«Allora sei fuori dai giochi», ha tagliato corto Bonnie, «Non ne avete?» ha poi chiesto alle Gallinelle che hanno tutte scosso la testa.
«E voi due?», ha indicato me e Roxanne. Io ho visto Roxanne annuire e ho fatto lo stesso.
«Benissimo!», ha applaudito Bonnie, rilasciando il braccio di Nina, «Allora puoi farlo a loro due!»
«Bene», ha sospirato Nina, indulgente, «Iniziamo da Kate. Che tipo di animale domestico hai?»
«Una gatta.»
«Mhm, ciò suggerirebbe democratica…ma non del tutto. È di razza?»
Ho risposto affermativamente.
«È uno dei gatti più belli che abbia mai visto!», è intervenuta Ashley tra gli assensi delle altre che hanno visto la mia gatta, «Come quelli in tv, nelle pubblicità di cibo per gatti!»
«Qual è il suo nome?», ha domandato Nina.
«Susie», ho risposto.
«Gatto di razza con un nome umano: repubblicana moderata.»
«Sì», ho confermato alquanto sorpresa, «mio padre è uno degli ambasciatori del presidente.»
«Un altro trucchetto andato a buon fine!», ha esclamato Bonnie.
«Non è un trucchetto, è psicologia», ha precisato Nina, «e tu Roxanne, che tipo di animale domestico hai?»
«Un canarino», ha risposto lei.
«Ok. Gli hai dato un nome?»
Roxanne mi è sembrata interdetta per un instante prima di rispondere: «Sì, si chiama Air.»
Io ho subito ripensato al suo disegno del canarino in una gabbia di cui avevo cancellato le sbarre. Quello era Air?
«Non si può essere più liberali di così!», ha riso Nina e Roxanne, subito ripresasi dallo strano momento di prima, si è accodata a lei confermando il suo responso.
«Ora però torniamo al motivo principale per cui eravamo venute qui», ha detto Nina, dando un leggero colpo di fianchi a Bonnie, la quale ha oscillato pericolosamente prima di ritornare dritta, «Avete visto Jeremy?»
«No», abbiamo risposto all’unisono, senza menzionare che lo avevamo perso di vista con Sally meno di mezz’ora prima.
«Chissà dove sarà andato a cacciarsi quello sfaticato! Doveva andare a restituire la moto al noleggio!», ha quasi urlato Bonnie.
Nina l’ha ripresa sotto braccio per calmarla e ci ha sorriso prima di allontanarsi con lei.
Nessuna di noi ha menzionato Sally o Jeremy, ma vedevo nelle espressioni incerte di Roxanne e delle Gallinelle che avevano iniziato a considerare seriamente le mie ipotesi.
Ho girato la testa per nascondere il mio sorrisino soddisfatto.
Il piccolo party stava quasi per volgere al termine, quando i protagonisti dei nostri pettegolezzi sono riemersi da chissà dove.
Non si stavano tenendo per mano, ma camminavano così vicini l’una all’altro che nemmeno un filo d’erba si sarebbe potuto frapporre tra loro. Per di più continuavano a sorridersi con delle espressioni idiote che hanno fatto suonare in allarme tutti i campanelli nella mia testa.
Nessuno oltre noi ha fatto troppo caso alla loro ricomparsa, ma poco prima che Sally tornasse da noi e Jeremy dal suo gruppo, ho visto Nina ferma impalata sulla sabbia che li osservava con un’espressione alquanto turbata.
Oh! Oh! Oh! Che ci fosse un conflitto di interessi su Jeremy? Le cose si facevano più interessanti…
Sally ha prontamente sviato ogni nostro immediato tentativo di raccolta informazioni, promettendo di elaborare tutto quando saremmo tornate in albergo.
Abbiamo salutato il gruppo di Nina, con cui avevamo fatto già dei programmi per il giorno successivo - ovvero ieri - e gli altri ragazzi che avevamo brevemente conosciuto al party prima di dirigerci verso le nostre motociclette e percorrere lo stesso percorso ampio iniziale per tornare in albergo, visto che non conoscevamo altre strade. Data l’ora tarda, avremmo restituito le moto al noleggio la mattina dopo.
Sally non è riuscita a tenerci a bada per molto. Siamo arrivate appena al bancone di Nole – che fortunatamente aveva tenuto il bar ancora aperto per qualche cliente ancora sveglio – quando l’abbiamo assalita con mille domande. Nole, anche lui interessato alla vicenda, è rimasto ad ascoltare, finché non è stato richiamato da un suo collega.
«Allora che è successo?», l’ha attaccata Ashley, «Dove siete andati?»
«Calma calma!», ha cercato di rispondere Sally, «Non è successo nulla di che…abbiamo solo parlato un po’ e poi lui…»
«Lui?!», abbiamo esclamato esasperate.
«Mi ha baciata», ha ammesso Sally, avendo la decenza di vergognarsi, «Ma io non volevo! Insomma, sto con Brian…Jeremy mi ha solo colta alla sprovvista. L’ho allontanato subito dopo!»
Sì, certo. Quando sono tornati, camminando appiccicati l’uno all’altra, non sembrava affatto che lei l’avesse rifiutato…
Le altre, come prevedibile, si sono bevute le sue scuse.
«Che bruto!», ha esclamato Ashley con fare estremamente drammatico, «ti ha baciata senza il tuo consenso!»
Io ho roteato gli occhi alle sue spalle.
Sally aveva il viso contorto in una smorfia: «Mi ha chiesto scusa però!», ha cercato di difenderlo.
«Almeno questo», ha sospirato Rita, dimostrandosi la più magnanima, «Non gli avevi detto di avere già un ragazzo?»
«Non è capitata l’occasione», ha ammesso lei, distogliendo lo sguardo.
Come no.
Ero stanca di stare a sentire le sue patetiche giustificazioni perciò ho detto: «Va bene ragazze, io me ne vado a dormire. A domani.» E ho girato i tacchi diretta verso la mia stanza.
Roxanne si è affrettata a seguirmi, dato che le chiavi della nostra suite erano con lei.
Ci siamo spogliate in silenzio. Un silenzio strano, almeno per Roxanne, la quale si sente sempre in dovere di riempire gli spazi vuoti con inutili ciance.
Le ho lanciato uno sguardo e ho visto che lei mi stava già osservando di soppiatto.
«Cosa ne pensi?», m’ha chiesto e ho immediatamente capito che si stava riferendo a Sally.
Io ho sorriso senza divertimento, prima di sedermi al letto per slacciare i miei sandali: «Indovina.»
«Secondo te Sally ha mentito», Roxanne ha indovinato correttamente i miei pensieri, «Jeremy non ha baciato Sally contro la sua volontà.»
Io ho schioccato la lingua contro i denti in assenso. Ero impressionata dalla facilità con cui Roxanne aveva estratto quelle parole direttamente dalla mia testa, ma più di questo ero determinata a farle ammettere che avevo ragione.
«Certo che non ci credo. Ho esperienza con ragazzi che mi hanno baciata nei momenti più inaspettati, ma è raro che un ragazzo si esponga così ad una ragazza che si dimostra totalmente disinteressata…se non si tratta di violenza sessuale, ovviamente, ma credo che possiamo escludere quest’opzione nel nostro caso», ho spiegato, «Ci sono anche dei tipi che si ossessionano facilmente senza incoraggiamento, ma Jeremy non sembrava quel genere di persona.»
«Sembrava più che altro un ragazzo timido e riservato», Roxanne ha annuito riluttante, mordendosi il labbro inferiore, «Quindi credi che-»
«Non credo. Lo so.»
Roxanne si è imbronciata.
«Ovviamente tu non sei d’accordo», ho risposto per lei.
«No.»
«Perché tu pensi: “ama il suo ragazzo e non lo farebbe”», ho aggiunto imitando il suo tono di voce con fare beffardo, «giusto?»
«Non sto pensando questo», è sbottata Roxanne, iniziando a rovistare nel suo trolley.
«Allora cosa?», ho domandato.
«Niente», ha risposto lei evasiva. Entrambe sapevamo che stava mentendo.
Ha estratto il suo pigiama dalla valigia e ha iniziato ad indossarlo, voltandosi nell’altra direzione.
Per qualche strana ragione ero convinta che, anche se Roxanne non sarebbe stata mai d’accordo con me, lei era l’unica persona in grado almeno di capirmi.
Avevo subito intuito che qualcosa sarebbe successo tra Sally e Jeremy, eppure nessuno mi aveva ascoltata. Le mie veritiere previsioni erano state ignorate solo perché poco piacevoli. Che buffo! Solitamente tutti sono così disposti a credermi quando mento, invece.
Eppure ora volevo che qualcuno riconoscesse che avevo ragione, volevo che qualcuno accettasse che non mi ero sbagliata.
Perciò, nonostante il suo congedo, ho continuato a parlare: «Mi hai chiesto che ne penso…vuoi sapere davvero cosa penso io? L'amore non esiste. Quello che noi chiamiamo amore è egoismo. È la voglia di essere amati dalla persona che riteniamo più degna di ammirazione, perché se siamo riusciti a conquistarla vuol dire che valiamo qualcosa. L'altra persona ha fatto lo stesso, ha scelto colui o colei che riteneva più degno per ritrovare conferma di sé in qualcun altro. Mi disgusta pensare che il sentimento più nobile sia in realtà l'ennesima dimostrazione delle insicurezze della gente.»
Ed ecco perché non perdo tempo in simili cazzate. Io non ho bisogno di trovare qualcuno che mi "ami" per capire quello che valgo. Lo so benissimo da sola.
Roxanne, ha alzato finalmente il capo, guardandomi in modo indecifrabile. Il suo viso, solitamente espressivo, non mostrava alcun’espressione in particolare. Non riuscivo a capire se fosse impressionata dalle mie parole o meno.
«Dai, dimmi che non ho ragione. Dimmi che mi sbaglio», l’ho spronata.
«Io…non posso», ha sussurrato lei, affaccendandosi a piegare meticolosamente i vestiti che aveva indossato quella sera.
Io l’ho fissata, confusa: «Non puoi cosa?»
«Non posso dire che ti sbagli», Roxanne ha continuato e la tristezza nella sua voce sembrava più simile alla rassegnazione che al dolore, «Qualche mese fa avrei cercato di smentirti, ma adesso...adesso non lo so proprio.»
Avrei voluto chiederle cosa era mutato, cosa realmente Roxanne stesse pensando in quel momento.
Poi ho ripensato al cambiamento che invece stavo avvertendo nella mia vita e ho capito che forse anche lei come me non avrebbe voluto discuterne così apertamente.
Ci siamo distese sulle fresche lenzuola del nostro letto e ci siamo addormentate prima che una delle due potesse aggiungere un’altra parola.
Sabato mattina, dopo aver riportato le motociclette a noleggio, ci siamo incontrate con il gruppo di Nina per andare insieme a Cala Comta.
Nole ci aveva specificamente consigliato di restare almeno a vedere il tramonto su di questa spiaggia, perché non ce ne saremmo pentite.
Ho scelto tra i miei bikini uno rosa e arancione per restare in tema tramonto, poi indossato una maglietta bianca con una boccetta di Chanel n.5 disegnata sopra e una pratica minigonna di jeans. I miei capelli, che la sera precedente avevo asciugato mossi, erano tenuti indietro dai miei Ray-Ban.
Non avevo cercato aggiornamenti su Sally, ma Ashley mi è sembrata molto più calma quella mattina a colazione, quindi ho dedotto che l’episodio spiacevole del giorno precedente non si fosse ripetuto.
Io, Roxanne e Nancy abbiamo preso un gelato mentre aspettavamo gli altri. Fragola e cioccolato per Roxanne, Cocco e mela verde per Nancy e per me…Un lieve fremito d’aria accanto al mio orecchio è stato tutto l’avviso che ho ricevuto prima che qualcuno leccasse il mio cono.
«Mhm, pistacchio e melone», ha detto Frank, deglutendo il boccone, «Interessante combinazione.»
Io, che mi ero portata una mano al petto per la paura, non ho esitato ad usarla per colpirlo e spingerlo via da me. Frank è solo scoppiato a ridere in risposta.
«Buongiorno!», ha annunciato Bonnie, sventolando selvaggiamente le braccia in saluto, incurante delle dita di Simon ancora intrecciate alle sue.
Dietro Bonnie, è spuntata Nina. Era impossibile ignorare il rosso sfavillante dei suoi capelli colorati ora che la vedevo di nuovo alla luce del sole. Leah mostrava in volto il solito severo cipiglio riservato alle pagliacciate di Frank.
Jeremy, solo un passo indietro a lei, ha annuito nella nostra direzione dopo il «Ciao» generale che è emerso dal mio gruppo.
La lieve increspatura delle sue labbra alla vista di Sally e il più fulmineo sorriso sulle labbra di lei erano una delle interazioni meno eclatanti in cui li avevo visti coinvolti. Se non l’avessi appositamente cercata, avrei anche potuto perderla.
Meditavo queste cose quando tutto ad un tratto, Roxanne ha attirato la mia attenzione sulla borsa di Nina. Rigida e compatta, dalla forma di maggiolino, ritraeva appunto una carinissima auto blu con i fanalini rossi.
«Oddio, quella borsa è stupenda», ha sospirato Roxanne, afferrando il mio braccio in una morsa che stava per arrestare la mia circolazione.
Io mi sono staccata da lei, irritata, ma mi sono bloccata quando ho visto meglio la borsa: «Sì», ho ammesso dopo una pausa, «Non è male…»
«Chiedi a Nina dove l’ha comprata!», ha sussurrato lei tra i denti.
Io mi sono voltata nella sua direzione.
Roxanne stava ancora finendo il suo gelato e spiando la borsa di Nina nascosta dietro il suo cono.
«Io non compro mai delle “copie”», ho affermato stizzita.
«Ma quella borsa è così…», ha iniziato Roxanne con un’espressione trasognata.
«Carina. Lo so», ho sospirato a fatica, quasi mi facesse male ammetterlo, «Potresti chiederle tu dove l’ha presa se sei così curiosa!»
«No! Non -»
Ho interrotto Roxanne prima che potesse finire: «Ok. Facciamo una scommessa.»
Lei ha inghiottito quasi l’intera parte finale del cono in un sol colpo.
Io mi sono interrotta, aspettandomi che la cialda l’avrebbe soffocata, invece lei ha continuato a masticare come se nulla fosse.
«Decidiamo chi sarà a chiedere a Nina della sua borsa con una scommessa», ho ripetuto dopo quella esitazione, ammiccando, «Io scommetto che Sally se la spasserà con Jeremy, che ne dici?»
Roxanne si è visibilmente irrigidita: «Non lo so. Non so se mi va di scommettere su queste cose.»
Io ho riso sommessamente per non attirare l’attenzione degli altri che stavano già chiacchierando tra di loro: «Roxanne Miller indecisa su qualcosa! A cosa dobbiamo l’onore?»
Con un’espressione molto simile a quella indecifrabile della sera prima, lei ha sospirato: «Credo di avere qualche dubbio…sulla fedeltà, o meglio sulla capacità delle persone di essere fedeli. A causa delle mie esperienze.»
Ho sentito un’ondata di soddisfazione salire dentro di me.
Roxanne aveva dei dubbi a causa delle sue esperienze con Liam, il suo ex amante (?) e attualmente compagno di sua madre. Forse ero la sola persona al mondo a sapere quello di cui stava parlando. Nonostante ciò, la sua ammissione così diretta mi ha sorpresa non poco: «L’avresti pensata diversamente prima?»
«Sì», ha iniziato, «credevo nell'essere fedeli e fidarsi del tuo partner e tutta quella roba lì...prima di– ci credevo. Ed ero sicurissima che non mi sarebbe mai capitato di trovarmi in una situazione del genere.»
Ho preso un bel respiro: «Se non questo…allora su cosa scommettiamo?»
Roxanne ha alzato scurissimi occhi blu su di me. I suoi capelli erano raccolti in una doppia treccia, assolutamente identica a quella che lei era solita portare i primi tempi dopo essersi trasferita a Milwaukee. Così uguale eppure così diversa da allora, in una maxi t-shirt con barchette blu in sottofondo, e sotto braccio una grossa borsa di paglia: «Penso che Sally non tradirà il suo ragazzo, ma ho i miei dubbi.»
Le sue parole insicure contrastavano contro la decisione nel suo sguardo e nella sua voce.
«Vuoi comunque accettare la scommessa?», ho chiesto, «Cioè, se non sei sicura...»
«No, la accetto», ha detto Roxanne, «Chi perde dovrà chiedere a Nina dove ha comprato la sua borsa.»
Io sono scoppiata a ridere, pur mantenendo le mie risate ad un volume ridotto per non attirare l’attenzione degli altri.
«Quando la spieghi così, sembra una scommessa davvero stupida», ho sussurrato.
Roxanne ha risposto alle mie risate con altre appena più fragorose e poi si è fermata per stringermi la mano in un segno di accordo. Io ho restituito la sua stretta.
La mattina è passata in maniera molto simile alla precedente. Abbiamo preso il sole, ci siamo fatti un bagno nelle acque della cala, scherzato tra di noi e organizzato un’altra partita di beach volley. Il tutto, evitando di fissare troppo i nudisti che ogni tanto ci passavano davanti in tutta tranquillità. Ciò non ci ha impedito, però, di scoppiare a ridere come dei dodicenni ogni volta che qualcuno di questi sfilava di fronte a noi.
In più, ho osservato quasi ininterrottamente Sally e Jeremy, usando come scusa la nostra scommessa. Sally aveva sorriso per tutta la mattina precedente, ma sempre in maniera vacua e falsa. Stavolta il suo sorriso era sincero - per quanto quello di una delle sciocche Gallinelle possa esserlo - e costantemente rivolto verso Jeremy.
Ho tenuto sott’occhio anche Nina, e con sempre più ammirazione la sua borsa, ma in lei non sono riuscita a trovare i segnali che mi avevano allertata durante la sera prima. Sembrava piuttosto normale nei confronti di Jeremy, sebbene li avessi visti interagire molto di più il giorno precedente.
È vero, il loro rapporto non era mai stato troppo evidente ai miei occhi, eppure avrei affermato senza dubbio che fossero buoni amici e non semplici amici di circostanza.
Tutti tranne me, Roxanne e Ashley sono andati a fare un secondo bagno dopo un’oretta dal primo. Io e Ashley abbiamo osservato Roxanne, intenta a scarabocchiare il panorama mozzafiato di Cala Comta. Roxanne aggiungeva linea su linea, ma per quanto il disegno fosse già verosimile e in perfetta prospettiva, lei non sembrava mai soddisfatta. Curvava di più a sua linea per ritrarre le leggere onde del mare e la induriva per i grossi scogli vicini all’orizzonte. Era riuscita persino a catturare il veloce passaggio di un bagnante su una grosso moto d’acqua.
Anche senza i fantastici colori del tramonto che Nole ci aveva già annunciato, con il solo tratto della grafite, Roxanne aveva dato vita ad una copia perfetta della spiaggia sul suo foglietto striminzito. Era inevitabile immaginare la portata di quello che sarebbe riuscita a produrre su un supporto più decente.
«Wow», ha esclamato Ashley con occhi sgranati, echeggiando inconsapevolmente i miei sentimenti. Roxanne ha fatto un breve sorriso e ha lasciato che guardassimo il disegno fino a soddisfare i nostri occhi, prima di ripiegarlo e gettarlo distrattamente in borsa. Mi è piaciuta la nonchalance con cui ha reagito, ma devo ammettere che l’unico campo in cui Roxanne l’ha mai dimostrata è appunto la sua arte.
Nina è tornata in spiaggia sulle spalle di Frank, il quale aveva insistito nel portarla a cavalluccio per tutta la distanza per dimostrare la sua prestanza fisica. Tutti gli altri che li seguivano stavano sorridendo di buon umore.
Gli unici che mancavano all’appello erano Jeremy e Sally, ma quasi nessuno l’ha notato in favore dell’ilarità del momento.
Dopo un po’ Simon e Frank si sono allontanati per chiedere dove fosse possibile recuperare una di quelle moto ad acqua che avevamo visto sin dalla mattina, lasciando sole noi ragazze.
Le Gallinelle, esclusa Sally, si sono messe tutte distese in fila sotto la linea del sole come lucertole in bikini colorati.
Roxanne e Leah si erano addormentate sotto l’ombrellone.
Io, Nina e Bonnie stavamo chiacchierando del più e del meno, godendo altrettanto dell’ombra.
Quando il silenzio è calato sulla nostra conversazione, Bonnie si è guardata intorno e poi si è rivolta a Nina: «Dov’è andato a finire quel cretino del tuo ex?»
Nina mi ha lanciato un breve sguardo, poi ha restituito quello di Bonnie scandendo accuratamente ogni parola: «Non ne ho la più pallida idea.»
Bonnie ha alzato un sopracciglio, ma non ha commentato ulteriormente.
«Chi?», ho chiesto in un impulso di innocente curiosità. «Jeremy», ha risposto Bonnie, imperturbata.
«Coooosa?», Nancy è sobbalzata in piedi lasciando il suo posto al sole, seguita a ruota dalle altre Gallinelle, «Jeremy è il tuo ex ragazzo?!»
«Sì», ha confermato Nina, «Ci siamo lasciati lo scorso febbraio.»
Ammetto che a questo punto anche io avevo la stessa espressione idiota di sorpresa stampata sui volti delle altre.
«E avete deciso di andare in vacanza assieme?», ha esclamato Rita in un tono che io considererei semi-isterico, ma che per le Gallinelle è normale, «Come se niente fosse?»
Nina non le ha detto di farsi i cazzi suoi – come invece avrei fatto io – ma ha risposto alla sua domanda con calma e ragionevolezza: «Beh, ci conosciamo da più di sei anni ormai. Più che il mio ex ragazzo lo considero come il mio migliore amico, perché è quello che è sempre stato.»
«Due migliori amici che si innamorano l’uno dell’altra…è romantico no?», ha detto Nancy.
Nina, inaspettatamente è scoppiata a ridere, «Sì, ma è stata anche la nostra rovina. Un cliché romantico che funziona nei film, ma non nella realtà.»
«E perché no?», ha insistito Rita.
Nina ha fatto un breve sospiro, prima di iniziare a raccontare la sua storia.
In breve, da migliori amici lei e Jeremy erano ben consapevoli degli aspetti negativi l’uno dell’altra, ma non erano stati mai costretti a sopportarli come si fa con quelli con cui si sta assieme. È stato così che, nell’assoluta mancanza di sorpresa dei loro amici, i quali avevano già previsto l’evento da tempo, si erano innamorati.
I primi mesi insieme erano stati bellissimi, poi le cose avevano iniziato a degenerare. Avevano iniziato a litigare, ma non riuscivano a farla finita. Erano troppo attaccati l’uno all’altra.
«E poi che è successo?», ho domandato, mio malgrado presa dal racconto.
«Le cose erano diventate orribili a quel punto e alla fine abbiamo deciso di lasciarci», ha risposto Nina, «ma anche se la decisione era partita da entrambi, è stata comunque la fine di una storia importante per me, perciò i primi tempi non volevo vederlo.»
«Sì», si è inserita Bonnie, «e ci avete costretto a dividere il gruppo in due a causa vostra.»
«Non avresti fatto lo stesso se tu e Simon vi foste lasciati?», le ha chiesto Nina, in un tono che faceva intendere che in passato avesse già usato quella tesi a suo favore.
Bonnie ha scacciato ogni tipo di dubbio con la sua risposta: «Io e Simon non ci lasceremo mai.»
Nina ha roteato gli occhi in risposta e io ho incontrato i suoi occhi per un breve sorriso divertito.
Nina ha continuato a spiegare come il gruppo si fosse diviso per colpa della loro rottura e di quanto Bonnie e gli altri fossero arrabbiati con entrambi all’inizio.
Poi ci ha detto che una delle lezioni di psicologia seguite al suo college riguardava uno studio sulle relazioni interpersonali e su come risolvere le situazioni più disparate in modo maturo. È stato allora che lei ha dovuto ammettere l’assurdità della cosa: studiare come gestire maturamente i rapporti con le altre persone, eppure vivere la propria vita in maniera completamente opposta. Quello è stato l’impulso necessario per farle prendere di nuovo la situazione in mano.
Lei e Jeremy sono tornati a parlarsi poco più di un mese fa e deciso di fare una vacanza in Spagna, per tentare di ricostruire il loro precedente rapporto.
«Perché con i miei ex…una volta che l’amore era finito, dopo la rottura non volevo parlarci più», ha continuato «ma con Jeremy è stato diverso…gli volevo bene già da molto prima che ci mettessimo insieme, gliene voglio ancora, e credo ci sarà sempre del bene per lui da parte mia.»
Bonnie aveva un sorriso triste sulle sue labbra, ma Nina l’ha ignorata continuando a raccontare di come la settimana precedente, quando il suo gruppo era a Barcellona, Jeremy l’aveva vista baciare un ragazzo in un locale. Lui l’aveva avvicinata e le aveva augurato buona fortuna, spronandola a lottare contro la distanza che li separava se il nuovo tipo le piaceva veramente. Nina ha ammesso di aver rassicurato diverse volte Jeremy che quel bacio non era significato nulla: solo un momento di impulsività in una serata altrettanto casual.
«Ma il solo fatto che lui fosse venuto da me per incoraggiarmi – come aveva fatto in passato solo da mio migliore amico – ha significato molto per me», ha ammesso, concludendo la storia.
Bonnie ha fatto la domanda che tutte noi avremmo voluto farle, ma nessuno si era azzardato ad esporre ad alta voce: «E quando l’hai visto con la loro amica? Sembravi scioccata. Non negare, perché ti ho vista.»
«Io…Non dico di non essere stata scioccata, o anche ferita, dalla cosa», le ha risposto Nina, intrecciando le mani sul tavolo attorno al quale eravamo ormai tutte sedute, tralasciando Roxanne e Leah, ancora addormentate sui loro asciugamani, «ma non ero gelosa.»
Bonnie ha scosso la testa in una risata di scherno.
«Davvero», l’ha rassicurata Nina, «Non provavo gelosia…solo delusione. Delusione perché la nostra storia non aveva funzionato. E quando rifletti sulla tua vita… se non riesci a far funzionare le cose con il tuo migliore amico, che altre speranze puoi avere? Nessuno ti capirà più di così e chi ti capiva meglio di tutti ti ha lasciata. Però, anche se non è facile, voglio che questo nuovo rapporto con Jeremy funzioni. Prima o poi dovrò abituarmi di nuovo a vederlo con altre ragazze, o in questo caso con Sally.»
«Sally ha già un ragazzo», ho specificato. Le Gallinelle mi hanno lanciato delle occhiate omicide, ma stavo dicendo la verità perciò non ho lasciato che questo mi fermasse: «Dubito dovrai abituarti a vederlo con lei. Domani non avete l’aereo del ritorno?»
Nina ha annuito alla mia ultima affermazione, aggiungendo solo: «Non è questo il punto, Kate.»
Diversi secondi di silenzio sono passati. Ho atteso che lei elaborasse ulteriormente il suo punto, invano.
In un breve intermezzo nella conversazione, ho riferito a Roxanne l’ultima rivelazione riguardante Nina e Jeremy.
Lei ha spalancato gli occhi, come avevamo fatto noi tutte in precedenza, trattenendosi giusto per un pelo dall’esclamare un «Cooosa?» ancora più rumoroso.
Io ho portato l’indice alla bocca e mormorato un «Shhh!», che l’ha placata prima che potesse attirare troppa attenzione. Mi ha chiesto poi altri dettagli a cui io non ho saputo rispondere, limitandomi a riferire ciò che la stessa Nina aveva ammesso.
Roxanne ha smesso di guardare la borsa di Nina con interesse e ha iniziato a fissare l’ignara ragazza come se stesse per crollare a terra da un momento all’altro. Io ho rilasciato un respiro esasperato. La vicinanza alla melodrammaticità delle Gallinelle era seriamente nociva per il buon senso della Miller.
Per l’ultima sera di Nina & Co ad Ibiza avevamo programmato una serata in discoteca, ma prima avevamo deciso di visitare meglio il borgo medievale intravisto la sera precedente in moto.
Ho evitato di indossare l’abito che avevo preparato per la discoteca, e ho indossato un leggero scamiciato blu sui sandali che avevo indossato la sera precedente in spiaggia, assieme ad una deliziosa pochette che risaltava nella notte grazie a coloratissime pietruzze incastonate sulla superficie esterna.
Il mio pezzo forte della serata era riservato al dopo cena.
Roxanne aveva già indosso il semplice vestito longuette con maniche corte leggermente a sbuffo, che lasciava la sua spalla scoperta appena sotto la linea delle scapole abbronzate. Era il più delizioso abbigliamento che le avevo mai visto addosso e, proprio quando stavo per dirle ciò, lei ha ammesso di averlo fregato a sua sorella. Io non ho trattenuto le mie risate, e il suo sguardo leggermente offeso non ha fatto altro che moltiplicarle.
Sotto mio suggerimento, Roxanne ha sciolto le sue trecce, sistemando i suoi mossi capelli mogano in due lunghi codini, che le ricadevano sulle spalle e contrastavano visibilmente con il colore scuro del vestito che indossava.
Per la prima volta durante tutto il viaggio, ho visto le Gallinelle vestite diversamente l’une dalle altre e non solo nel colore dei loro vestiti. Che ciò fosse indice di disconnessione nel loro gruppo?
Ashley indossava un tubino senza spalline con vivaci ricami e applicazioni sulla parte anteriore, Nancy portava dei pantaloni marroni lucidi sotto una camicetta rosa salmone (look molto azzardato, ma che tutto sommato è riuscita a far funzionare), Rita sfoggiava un semplice vestitino nero, con gonna a palloncino e Sally un aderentissimo vestito nero decorato da cerchi concentrici argentei che descrivevano la sua vita e tutte le sue curve, avvolgendosi attorno a tutto il suo corpo. Non c’era dubbio: il suo era un look fatto per sedurre. Persino più facile era indovinare verso chi volesse indirizzare tali piani di seduzione.
Jeremy, però, sembrava rivolgerle gli stessi sorrisi semi-discreti della mattina, niente di più, niente di meno.
Le strade della città medievale erano stracolme di monumenti, muri di recinzione e soprattutto persone, locali, e ancora tante altre persone come in tutto il resto dell’isola.
I turisti rappresentavano quasi l’integrità della popolazione che intasava le strade, facendo tante foto quante ne stavano facendo Roxanne e Leah, designate come fotografe ufficiali dei due gruppi.
Frank ha comprato un irritante fischietto da una bancarella e si è divertito per quasi tutto il tempo a inscenare la parte dell’intransigente allenatore, richiamandoci all’attenzione con questo, in modo che non sostassimo troppo in un negozio, o a guardare la merce esposta su una bancarella, o a prendere un drink in un bar.
In mezzo alla strada alcune discoteche si facevano pubblicità con originalissime sfilate, fatte da ragazze che lanciavano volantini o pass che permettevano di avere un drink gratis all’entrata.
Noi avevamo già pensato di dirigerci verso una discoteca suggerita da Simon (il quale aveva degli amici che ci erano stati prima e si erano divertiti immensamente), ma abbiamo raccolto comunque qualche volantino lanciato nella nostra direzione.
Al termine della nostra esplorazione, Bonnie ha suggerito che ci avviassimo direttamente in discoteca, ma io ho insistito perché tornassimo al mio hotel e io potessi cambiarmi nel vestito che avevo già programmato e su cui avevo basato anche lo smalto rosso alle mie unghie e il vivace rosso ciliegia del mio rossetto.
Ho sentito qualcuno sbuffare alla mia richiesta, ma non ho desistito: «Ragazzi, io devo assolutamente andare a cambiarmi. Voi potete fare ciò che volete. Vi raggiungerò in taxi appena sono pronta.»
Roxanne, però, ha insistito a venire con me, e con lei le Gallinelle, e quindi anche i più restii del gruppo di Nina si sono lasciati trascinare loro malgrado nella hall del nostro albergo, in attesa della mia discesa.
Io mi sono subito infilata nel vestito già disteso sul letto.
Roxanne dopo aver chiuso la porta alle sue spalle, ha emesso un wow di ammirazione.
Il vestito monospalla (fortuna che avevo abbassato le spalline del costume! Niente bruttissimi segni d’abbronzatura!) color ciliegia, scendeva sul mio corpo con tutta la delicatezza del raso, in punti di stoffa arricciata alternati a stoffa liscia, fermandosi in una linea decisa sopra il mio ginocchio. I ricci che avevo domato al ritorno dal mare erano ormai diventati ordinatissimi boccoli che coprivano le mie spalle quasi a sopperire la mancanza stilistica della seconda spallina per il vestito.
Gli unici gioielli che portavo addosso erano un paio di luminosi orecchini pendenti – e soprattutto pesanti – indossati assieme a due voluminosi bracciali rigidi: uno argentato e l’altro dorato.
Con le mie fidate Louboutin nere ai piedi mi sentivo finalmente pronta per affrontare la serata.
Sapevo che avrei avuto di sicuro gli occhi di tutti puntati addosso al mio ritorno. Li avevo fatti tornare apposta al nostro hotel solo per un cambio di vestito, dopotutto! È facile ricordare le facce che il resto del gruppo mi ha rivolto, quando ho sceso le scale che portavano alla hall.
C’erano una miriade di espressioni e sentimenti, concentrate in quasi una dozzina di paia di occhi: chi mi voleva, chi voleva essere me, chi mi invidiava, chi odiava non poter raggiungere il mio livello, chi si accontentava di respirare anche solo la mia stessa aria, chi mi aveva elevata sull’Olimpo delle cose troppo belle per essere vere, ma che presto avrebbe avuto la conferma che io ero a tutti gli effetti reale. In quanto a vera…beh, quella è un’altra storia.
La discoteca Pacha era la nostra meta, per l’ultima serata trascorsa con il gruppo di Nina, il quale avrebbe preso un volo diretto a Los Angeles solo il pomeriggio successivo.
Dopo esserci guardati attorno nel locale, abbiamo notato una parete lungo cui scorreva del fumo illuminato da faretti colorati posizionati in alto, che lo facevano sembrare quasi una cascata arcobaleno.
Un folto gruppo di persone si è riunito per fare foto con la pseudo cascata in sottofondo.
«Ne facciamo una anche noi?», mi ha chiesto Roxanne e io ho annuito. Perché no.
Abbiamo aspettato che lo spazio di fronte alla parete fumosa si liberasse e poi io ho dato la mia fotocamera a Frank, il più vicino a noi, perché ci fotografasse.
«Pronte?», ci ha incitate, pronto a scattare.
«Che ne dici delle Charlie’s Angels?», ho suggerito a Roxanne, mettendomi in posa e lei ha fatto lo stesso, spalla contro spalla, imitando una pistola con le dita.
«Non avete niente di più originale? Noiose!», ha detto Frank con voce divertita.
Roxanne non si è smentita nella sua imprevedibilità: «Questo è abbastanza originale per te?», ha chiesto alzando il medio e sorridendo verso la fotocamera.
«No, Leah mi ha risposto così cinque secondi fa!», ha canzonato Frank, per niente offeso.
«Brava!», chiamata in causa, Leah ha incitato Roxanne tra il divertimento degli altri in sottofondo.
Frank ha innescato il flash, ritraendo Roxanne con un sorriso mezzo sorpreso in volto e me piegata all’indietro, appoggiata completamente alla sua schiena con una grassa risata sulle labbra.
Siamo rimasti alla “cascata” per qualche altro minuto, scattando varie foto, individuali e di gruppo, fino a che il luogo ha perso l’attrattiva iniziale e abbiamo deciso di addentrarci più all’interno del locale.
La serata è iniziata in maniera tranquilla, cosa che non mi aveva affatto preparata al pandemonio che sarebbe successo in seguito.
Ci siamo assicurati un tavolino in un privè che per fortuna ci conteneva tutti e 12 e poi io, Roxanne e Frank siamo andati al bancone per ordinare qualcosa. Roxanne ha dichiarato di voler venire con noi solo per dare un’occhiata all’altra parte del locale, ma io avevo deciso di tenerla ben sotto controllo nel caso si avvicinasse a qualche drink.
Una delle nostre ultime esperienze in discoteca - con Roxanne sbronza, addormentata su un divanetto alla mercé di qualunque pervertito fosse passato di lì - non era stata delle migliori.
Ci siamo destreggiati tra la gente e tra l’arredamento verde acido e fucsia evidenziatore che le luci psichedeliche illuminavano ad intermittenza, colori interrotti solo da qualche tavolino giallo fosforescente che risaltava nell’atmosfera semibuia.
Il DJ che avrebbe animato la serata non era ancora arrivato, perciò nell’attesa stavano riproducendo alcune canzoni commerciali su cui pochi avevano iniziato già a ballare, incuranti degli sguardi annoiati degli altri appoggiati ai muri.
Una ragazza si stava allontanando dal bancone e io ho colto l’occasione, arrampicandomi sullo sgabello che lei aveva appena abbandonato. Dico arrampicata, perché quel affare fosforescente era così alto che seduta lì troneggiavo letteralmente sia su Frank che su Roxanne.
Abbiamo chiacchierato del più e del meno, attendendo che il barman si liberasse, o meglio, io e Roxanne abbiamo lasciato parlare solo Frank e riso alle battute che lui sembrava emettere facilmente quanto il sudore (se la stoffa fradicia della sua maglietta rossa fosse di una qualche indicazione). Il suo deodorante, però, sembrava fare più che il suo lavoro, perciò non ho dovuto inventare nessuna scusa per allontanarmi.
Insomma, tutto stava andando per il meglio, quando all’improvviso ho notato un tizio pelato (rasato, più che altro, vista la ricrescita) fissarmi a bocca spalancata. «No!», ha esclamato lui, superando di gran lunga la musica di sottofondo con la sua voce.
In più di 18 anni di vita, dopo essere stata oggetto di centinaia di sguardi di desiderio, catalogata, osservata, fissata o più semplicemente ammirata da lontano, non avevo mai visto qualcuno guardarmi così. Come se fossi un sogno fatto realtà e un incubo insieme.
All’inizio non pensavo nemmeno che si stesse riferendo a me. Mi sono voltata verso Roxanne, credendo che si fosse rivolto a lei (e che lui avesse anche un leggero problema di strabismo), ma le sue sopracciglia alzate erano molto più eloquenti di un “Guarda che sta parlando a te.”
«Perché sei qui?», ha continuato lui, imperterrito.
Io mi sono guardata nervosamente attorno, fino a quando ho dovuto accettare che l’attenzione non solo del tizio, ma di un’altra decina di persone era tutta incentrata su di me.
L’ho guardato meglio allora, tentando di ricordare se l’avevo mai visto prima, se ci avevo mai fatto qualcosa (domanda che non mi sarei mai dovuta nemmeno fare…cazzo, ho degli standard!), se era stato vittima di una mia vendetta, oppure una pedina in una mia manipolazione.
Il responso è stato negativo su tutti i fronti: ero assolutamente certa di non conoscerlo.
«Mi dispiace, non-», ho iniziato a liquidarlo.
«Prima mi dici di non farmi più vedere e poi arrivi persino a seguirmi qui?!», ha urlato lui, avvicinandosi ulteriormente e così scansando con le sue larghe spalle un altro ragazzo che si stava godendo lo spettacolo, visti gli occhi spalancati e l’enorme sorriso idiota che aveva in faccia. Nessun altro intorno a noi ha osato fiatare.
«Ehm…»
«Sentiamo, sentiamo! Quali scuse troverai stavolta? Sei tu che hai voluto lasciarmi e adesso fai pure la gelosa?»
«Gelosa?!», non sono riuscita a trattenermi dal deriderlo. Che assurdità! Io gelosa di un simile uomo-armadio pelato?
Il corpo di Roxanne è sussultato in un singhiozzo e le ho lanciato un breve sguardo, appena in tempo per vederla modersi le labbra per non ridere. Frank sembrava essersi dileguato misteriosamente.
«DovecazzoèFrank?», ho bisbigliato tra i denti.
«Credo sia andato a prendere la telecamera…», ha commentato lei, dietro la mano che aveva portato alla bocca, in un ulteriore tentativo di trattenere le risate.
Oh no! Che figura di merda!
Avevo voglia di morire, ma non prima di aver ucciso con le mie stesse mani Frank, questo tizio e forse anche Roxanne.
«E per quale altra ragione!», l’uomo ha attirato di nuovo la mia attenzione su di sé.
«Senti, tizio. Sono qui solo per passare una bella serata con i miei amici, non di certo per-»
«Ah, adesso sono diventato “tizio” per te? Eh, Lara?», è ritornato alla carica, avanzando ancora di un passo.
Roxanne, ridendo ormai apertamente, ha puntato un indice verso di me, assumendo il ruolo di un utile segnale stradale: «Si chiama Kate.»
L’uomo si è accigliato nel cercare di metterla a fuoco: «Ah! Non sei tu quella stronza che le ha messo in testa che avrebbe fatto meglio a lasciarmi perché non ero al suo fottuto livello?!»
Roxanne ha ingoiato indietro la risata per la sorpresa. Tutti iniziavano a guardarci in tono accusatorio, probabilmente convinti dalla sua fantomatica versione dei fatti.
«Chi cazzo sei per parlarci così?», sono sbottata non potendone più delle sue accuse, «Non ti ho mai visto in vita mia prima d’ora, e nemmeno lei c’entra niente con tutto questo! Che diritto hai di chiamarla stronza?»
«Ho tutti i diritti! Mi hai mollato senza motivo e senza una spiegazione! E ora fai finta di non conoscermi, perché sto facendo vedere a tutti che razza di persona sei! I miei diritti nascono solo da questo!»
Un coro di simpatia si è elevato dagli spettatori alle sue spalle. Era chiaro chi avesse ormai conquistato le grazie del “pubblico”.
L’ho guardato meglio e ho visto che il pelato era rossissimo in volto. Sicuramente non solo per il caldo e l’agitazione.
Bene! Avevo tra le mani uno sbronzo cocciuto ed ostinato. Roxanne, pur con la sua disperata voglia di coccole, al confronto, era un’ubriaca molto più innocua.
Non sapendo come togliermi da quella situazione, visto che tutti ormai sembravano convinti che io fossi l’ignobile Lara, mi sono girata sul mio sgabello e ho dato le spalle al tizio, tornando a parlare con Roxanne. Roxanne, sebbene interdetta dal mio gesto, mi ha assecondata, notando quanto fossi disperata di ritornare alla normalità.
Continuava però a lanciare nervose occhiate oltre le mie spalle, ogni qual volta lui gridava qualcosa nel tentativo di catturare la mia attenzione. Io non ho ceduto e l’ho ignorato ad oltranza, come avrei dovuto fare sin dall’inizio.
Forse il fatto che Frank non fosse ancora ritornato brandendo le riprese dell’accaduto avrebbe dovuto allarmarmi sul fatto che niente si fosse ancora concluso.
L’unico avvertimento che ho avuto è stato un’ ultima occhiata alle spalancate iridi blu di Roxanne, prima che una forza mi spingesse all’indietro, facendo ruotare con la forza il mio sgabello e costringendomi a fronteggiare il tizio che a quel punto mi era più vicino che mai.
“Ora questo mi dà un ceffone”, ho pensato e stavo già alzando la mia mano in risposta, convinta di poterlo battere in velocità, quando lui si è praticamente accasciato davanti a me, come se privo di forze, e ha incominciato a piagnucolare «Lara, ti prego, non mi lasciare di nuovo, ti prego!»
Io ho assistito alla scena basita, mentre tutto intorno a noi c’era chi stava incitando incoraggiamenti in spagnolo, inglese, francese e anche qualche altra lingua europea che non riuscivo a riconoscere. I cori di: «Perdonalo!» andavano per la maggiore.
Lui a quel punto, in un ultimo impulso di dignità – che io credevo ormai avesse perso del tutto – si è mezzo rialzato, cercando di appoggiare le mani sulle mie ginocchia. Ma su quello sgabello fosforescente veramente troppo alto, i miei piedi erano al livello in cui avrebbero dovuto essere le mie ginocchia, quindi lui si è dovuto appoggiare alle mie scarpe per cercare di tirarsi su.
Non appena ho visto le sue dannate manacce lasciare luride impronte sulle mie Louboutin tirate al lucido, mi sono ripresa dalla mia temporale paralisi.
La rabbia, l’irritazione e il fastidio generale per tutta quella situazione mi hanno assalita e ho iniziato a scalciare, minacciandolo con i miei tacchi a spillo.
«Lasciami, lasciami!», ho iniziato a strillare. Se lui fosse stato un po’ meno sbronzo e avesse avuto un po’ più di sale nella zucca, si sarebbe allontanato a gambe levate, invece continuava a cercare di afferrare le mie caviglie per fermarmi e invitarmi a ragionare.
Non che sarei stata molto più disposta a ragionare persino prima che lui avesse attentato all’incolumità del mio paio di scarpe preferite, ma arrivata a quel punto mi stavo a malapena trattenendo dal trapanare il suo cervello con il mio tacco 12.
Il pubblico ha assistito stupefatto, fino a che Roxanne non mi ha tirata da dietro, costringendomi a smettere il mio assalto. Io sono scivolata indietro dallo sgabello con un urletto, accidentalmente fornendo a chi mi stava di fronte un primo piano delle mie mutande.
Le braccia di Roxanne, inaspettatamente solide, mi hanno raddrizzata e aiutata a ritornare in piedi.
Nel frattempo, allo stesso modo gli amici del pelato sono arrivati per riprenderselo – ancora rosso, demoralizzato e con il volto striato di lacrime.
Mi hanno anche chiesto scusa al posto suo, asserendo di sapere che io non ero la famosa Lara che gli aveva spezzato il cuore, ma solo qualcuno che le assomigliava molto.
Ironico che, nonostante tutti i cuori spezzati di cui sono stata responsabile, la prima volta che sono stata direttamente accusata di una simile malefatta, la colpa non era nemmeno realmente la mia.
Finito lo spettacolo, la piccola folla radunata intorno al bancone, attirata da tutto quel clamore, si è dissipata molto velocemente. Fin troppo velocemente, ho pensato, almeno fino a quando non ho sentito il saluto del DJ alla console.
Frank è riemerso dall’ombra, reggendosi la pancia dalle risate e brandendo orgoglioso la sua telecamera: «Ho filmato tutto!»
Sono piuttosto sicura che lui non sia stato il solo ad avere una simile idea. Molto probabilmente, nei prossimi giorni, in qualche parte remota di Youtube, spunterà una copia dell’accaduto. Devo solo sperare che nessuno, vista la scarsa luminosità, riesca a riconoscere me nei panni della “psicopatica” che ha assalito un ragazzo grande e grosso armata solo delle sue vertiginose calzature.
Ho lanciato a Frank uno sguardo omicida in risposta e lui deve avermi presa sul serio, perché avevo appena dimostrato di non aver alcun problema a far del male a qualcuno se necessario.
«Cancellalo subito», ho ordinato.
«No dai!», si è lagnato, «lascia almeno che lo faccia vedere una volta agli altri!»
«Fallo adesso!»
«Su, Kate», si è intromessa Roxanne, nuovamente piena di energia, dopo lo shock dell’intervento che mi aveva aiutata a tornare in me stessa, «Solo una volta. Le altre non sanno cosa si sono perse!»
Forse per riconoscenza verso quello che lei aveva fatto per me pochi minuti prima, mi sono lasciata convincere.
Una volta si è trasformata in due, poi in tre, poi in quattro…e poi ho perso il conto. Tutti gli occupanti del nostro tavolo hanno guardato e riguardato il filmato sulla telecamera di Frank, eruttando in sonore risate ogni qual volta si arrivava al punto in cui io iniziavo a minacciare il tizio con le Louboutin.
Io ho nascosto la testa tra le mani mortificata e ascoltato il loro divertimento, come se fosse qualcosa di lontano e troppo estraneo a me.
Ashley, in un raro lampo di perspicacia, deve essersene accorta e ha tentato di sviare l’attenzione degli altri sulla pista da ballo che avevamo a lungo ignorato in favore del video amatoriale.
Io ho guardato gli altri alzarsi uno per uno, pronti a scendere a ballare. Stavo pensando di declinare l’offerta, nel timore che uscendo dal privè qualcuno mi avrebbe riconosciuta come la ragazza che aveva appena dato spettacolo vicino al bar, quando Roxanne mi ha afferrato il braccio e dato uno scossone.
Prima che potessi scuotere la testa in diniego, lei è riuscita a trascinarmi via dai divanetti, rimettendomi in piedi come già aveva fatto durante quella serata.
Lasciare il mio corpo libero di muoversi nella musica, incontrare con un sorriso gli sguardi delle Gallinelle, Nina, Bonnie, Frank, Leah, e vedere quelli di Jeremy e Sally che si incrociavano reciprocamente di nascosto, ridere quando Frank ha iniziato a ballare su di un ritmo particolarmente movimentato scalciando i piedi in una efficace imitazione del mio famoso gesto, osservare Roxanne inseguirlo allo stesso modo con le sue ballerine ultrabasse che non avrebbero mai potuto fargli alcun male, alzare le braccia verso la schiuma colorata che ha iniziato a scendere dall’alto bagnandoci completamente fradici…mi sarei persa tutto questo e molto di più se fossi rimasta da sola al privè.
Ho guardato Roxanne e ho pensato che un altro grazie si sarebbe aggiunto alla lista di quelli che non le avrei mai detto.
Erano le tre di mattina quando siamo tornate al nostro hotel con un bus navetta della discoteca, ancora un po’ umide. Avevamo appena finito di salutare con baci, abbracci e promesse di risentire il gruppo di Nina, che sarebbe ritornato in California con un volo del pomeriggio dopo. Ho evitato di guardare il modo in cui Jeremy e Sally si salutavano, proprio perché la cosa mi sembrava ormai così ovvia che aveva perso tutta la sua attrattiva iniziale. E poi sia io che Roxanne avevamo ormai già dimenticato la borsetta di Nina, in favore di una particolarissima collana di fibra intrecciata che avevamo visto indosso ad una ragazza in discoteca.
Ero leggermente brilla, grazie alla vodka condivisa con Nancy (è difficile lasciarsi scappare l’occasione di ordinare un alcolico, visto che ci sono molti meno controlli in Europa), ma certa che una buona dormita e un intenso mal di testa al mio risveglio sarebbe stato sufficiente a smaltire il tutto. Niente di piacevole, ma batteva di sicuro il vomitare sul tappetino del bagno.
Io e Roxanne abbiamo salutato le altre e siamo entrate in camera. Ci siamo velocemente liberate dei nostri vestiti, Roxanne per infilarsi nei pantaloncini e la canotta del suo pigiama ed io per indossare la mia camicia di notte di seta di Victoria’s Secret.
«Che giornata», ha sospirato Roxanne distesa sul letto fissando il soffitto, con le mani incrociate sulla sua pancia.
«Già», ho concordato io, al suo fianco.
Improvvisamente lei ha iniziato a ridere.
Io ho roteato gli occhi, girando la testa verso di lei: «Che c’è?». Ero certa che stesse ridendo perché le era venuta in mente di nuovo la scena di cui ero stata protagonista al bancone.
«Posso chiederti una cosa?», ha chiesto lei, riducendo l’intensità della sua ilarità a brevi risatine.
«Potrei impedirtelo?», ho sbuffato sarcastica.
«No.» ha risposto Roxanne senza alcuna vergogna, poi ha proseguito: «Qual è stata la cosa che ti ha fatta sbottare? Certo, quel tipo era estremamente irritante e non è mai piacevole farsi toccare da uno sconosciuto…ma…»
«Le scarpe», ho borbottato, ancora restia a rivangare la figura di merda che avevo fatto.
«Le scarpe?», ha ripetuto Roxanne, confusa.
«Sì. Mi stava insozzando le Louboutin con le sue schifose manacce», ho insistito, «Dopo sono corsa in bagno per togliere le impronte, ma credo ne sia rimasta ancora qualcuna sulla vernice.»
La risata in cui Roxanne è scoppiata dopo pochi istanti mi ha fatto quasi sobbalzare nel semi-buio della nostra stanza. Ho girato la testa sul cuscino ed è stato facile vederla accanto a me, illuminata solo dai bagliori residui della strada sottostante alla stanza d’albergo.
Le mie labbra si sono increspate in un sorriso e, per la prima volta in tutta la serata, ho messo da parte l’imbarazzo per godermi l’aspetto più esilarante di tutta quella vicenda.
«Davvero», ho continuato, «L’ho fatto.»
«Non lo metto in dubbio», ha replicato Roxanne, scuotendo tutto il letto con le sue risate. Io non ho potuto fare a meno di unirmi a lei.
Quando eravamo ormai senza fiato, Roxanne ha dichiarato: «Basta adesso. Dormiamo.»
I minuti sono passati, ma i nostri fiati nel buio erano ancora troppo pesanti perché una delle due si fosse appisolata.
«Non stai dormendo», ho notato.
«Nemmeno tu», si è difesa lei.
«Non sei stanca di ridere sulle mie sventure?»
«No», ha risposto con un’altra risatina soffocata, «È difficile trovare qualcosa di così tanto divertente.»
«Ah sì?», ho detto, pensando già a qualcosa, «E se ti dessi un altro motivo per ridere?»
«Quale?», la voce di Roxanne mostrava tutta la sua curiosità. Allo stesso modo, quando mi sono avventata addosso a lei per farle il solletico, l’acuto gridolino emerso delle sue labbra mostrava tutta la sua sorpresa.
Roxanne ha risposto al mio assalto, tentando di fare altrettanto, e riuscendo un paio di volte a raggiungere il mio punto debole a livello dei fianchi, che mi ha fatta piegare letteralmente in due. Dopo qualche altro minuto di lotta, ci siamo arrese reciprocamente, ricadendo sul materasso e gettandoci reciprocamente il fiatone accumulato in faccia. Le nostre fronti sudate scivolavano l'una contro l'altra al ritmo delle nostre risate.
È passato qualche altro istante di silenzio, prima che io lo interrompessi con la mia voce: «Perché non vieni a stare da me?»
«Uh?», Roxanne si è staccata per guardarmi meglio.
«Al ritorno. Non devi tornare a Miami…non se non vuoi. Puoi restare a casa mia fino a settembre. E poi possiamo partire insieme per Princeton.»
Ecco fatto.
Il mio ragionamento non faceva una piega. Certamente l’avrebbe capito anche lei.
Le stavo offrendo un’occasione imperdibile: un’estate libera e lontana chilometri e chilometri dalla ragione dei suoi rimorsi, per poi fuggire verso un’università in un altro stato.
Roxanne era esterrefatta, potevo benissimo vederlo anche nell’ombra: «Sul serio?»
Ho annuito: «Non vuoi?»
«No! Cioè-lo voglio, mi piacerebbe molto, se non sono di troppo disturbo-»
«Se lo fossi stata, non te l’avrei chiesto», ho notato acidamente, rigirando lo sguardo verso il soffitto, irritata da tutta quella sua falsa modestia.
Mi aspettavo che lei sarebbe stata più pronta ad accettare un tale onore. La mia casa è praticamente una reggia ma, nonostante l’abbondanza di spazio, non è mia abitudine invitarvi ospiti così a lungo termine. Come al solito, Roxanne aveva frainteso completamente la situazione.
Stavo per ritirare l’offerta, quando lei mi ha preceduta con un «Va bene. Domani chiamo Madison e le dirò che resto a Milwaukee da te.»
Ho atteso che parlasse ancora, ma lei ha semplicemente colpito il cuscino per gonfiarlo e ci ha appoggiato la testa sopra. La conversazione è finita così, senza che nessuno aggiungesse altro o avesse bisogno di farlo.
Un fastidioso bip mi ha svegliata poco più di due ore dopo. Il cellulare sul comodino mi segnalava la batteria scarica.
Ho tentato di riaddormentarmi, frustrata, pur sapendo che una volta svegliata è difficile che riesca a riprendere sonno. Ho profondamente invidiato Roxanne spaparanzata su tutta la sua metà del materasso.
Vista la futilità dei miei tentativi, mi sono alzata alla ricerca del caricabatterie, quando improvvisamente ho ricordato di averlo prestato a Rita il giorno prima. Lei aveva la mia stessa marca di cellulare e scordato il suo caricatore a casa.
Le Gallinelle stavano molto probabilmente dormendo, ma ho deciso comunque di andare a bussare alla loro camera. Non era giusto che fossi l’unica perseguitata dall’insonnia.
Sono uscita in corridoio ancora in camicia da notte – pensando di non trovare anima viva in giro – quando ho ricevuto una sorpresa che ha smentito i miei pensieri.
Alla fine del corridoio, scarpe in mano e piedi nudi sul carpet del corridoio dell’albergo, Sally si stava facendo lentamente strada verso la sua stanza. Io ho cercato di ricordare se lei fosse tornata con noi. Ero certa di sì, ma allora perché sembrava essere arrivata appena adesso? E poi con dei capelli persino più scompigliati di quelli che aveva in discoteca? Che a scompigliarli fosse stato proprio lo stesso Jeremy in un ultimo gesto di addio prima della sua partenza?
L’ho fissata farsi strada verso la stanza che condivideva con Rita fino a che lei non ha alzato gli occhi e li ha spalancati quando mi ha vista.
«Kate?»
«Rita ha il mio caricabatterie», ho spiegato, volendo specificare che non ero rimasta sveglia per controllare quando sarebbe tornata, «Potresti restituirmelo?»
Lei ha sbattuto le palpebre, chiaramente aspettandosi di essere vittima di un interrogatorio. Per sua fortuna, io non sono come Ashley e il resto delle Gallinelle ficcanaso.
«Sì…aspetta un attimo, te lo cerco.»
È entrata in camera, assicurandosi di fare piano per non svegliare Rita, e poi è ritornata qualche secondo dopo in pantofole e con il mio caricabatterie in mano.
L’ho fissata dritta negli occhi e lei ha abbassato lo sguardo verso la mano contenente l’oggetto che cercavo.
Uh. Uh. Che avesse da nascondere più di un semplice bacio questa volta? Povero Brian ignaro di tutto a casa!
Ho preso il caricabatterie dalle sue mani e ho annusato l’aria sentendo il forte odore di alcol addosso a lei. Prima in discoteca non l’avevo nemmeno vista bere, ma era indiscutibile: neanche la sua prestigiosa eau de toilette riusciva a camuffarlo.
«Buon drink?»
Sally ha annuito, sguardo ancora basso: «Sì, era buono.»
«Beh, cerca di non abusarne. Anche se ti darebbe una vera scusa per vomitare, stavolta», ho detto, mostrando tutta la mia faccia tosta.
Lei ha alzato di scatto la testa. Credeva davvero che io non avessi saputo niente della sua ultima crisi?
«Kate…»
«Lascia perdere», ho tagliato corto le sue giustificazioni, «Hai una bella vita, buoni amici e sei in questo bellissimo posto per divertirti, giusto?»
Avevo finalmente ceduto e detto ciò che Ashley mi aveva supplicata di dire da due giorni, eppure l’avevo fatto non perché mi ero sentita in dovere di farlo come sua amica, ma semplicemente perché mi andava di farlo. Niente più, niente meno.
È questo il solo tipo di motivazione di cui ho bisogno la maggior parte delle volte.
«Sì, giusto», ha ammesso lei con una certa fatica, sebbene fosse la cosa più evidente del mondo.
«Allora non sprecare tutto questo», ho concluso.
«Ok», ha risposto Sally, guardandomi con uno sguardo quasi scintillante di lacrime.
«Ok», ho ripetuto nervosamente, desiderosa di scappare prima che potesse costringermi a subire uno degli abbracci superzuccherosi delle Gallinelle, «Beh, grazie per questo», ho indicato il caricabatterie, «Me ne torno in camera. Buonanotte.»
Ed eccomi qui a riportare tutto il resoconto delle mie giornate alla fioca luce della lampada, aspettando che arrivi l’alba.
Meglio non rinunciare ulteriormente al mio sonnellino di bellezza per aggiornare questo dannato diario. Dopo tutto questo scrivere, suppongo di avere un po’ più di sonno adesso, quindi farei meglio ad andare…bye, bye!

Ore 15.00: Approfitto di un momento di distrazione di Roxanne, intenta a fare zapping tra i canali spagnoli, per riportare un breve aggiornamento.
Dopo una mattinata molto pigra, passata a recuperare il sonno che avevamo perso questi giorni, poco fa la voce di Sally è squillata al di là del muro in un: «Ciao amore, mi sei mancato tantissimo!»
Roxanne mi ha lanciato un sorrisino, chiaramente compiaciuta che Sally e Brian avessero risolto i loro problemi.
Anche io ho sorriso, ma per ben altri motivi.
Non le avevo detto del breve incontro che avevo avuto con una scompigliata Sally quella stessa mattina, conservando dentro di me il segreto, casomai si fosse rivelato utile in futuro. Chi può sapere se un giorno mi sarebbe servito ricattare una delle Gallinelle per raggiungere uno dei miei scopi?
Le Gallinelle hanno iniziato a strillare di gioia per la riunione della coppia nell’altra stanza e io ho sospirato in rassegnazione.
È vero.
Pur in un mondo in continua evoluzione, certe cose non cambiano proprio mai.

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