Loving you - My nightmare di flyingangel (/viewuser.php?uid=56857)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** -1- ***
Capitolo 3: *** -2- ***
Capitolo 4: *** -3- ***
Capitolo 5: *** -4- ***
Capitolo 6: *** -5- ***
Capitolo 7: *** -6- ***
Capitolo 8: *** - 7 - ***
Capitolo 9: *** - 8- ***
Capitolo 10: *** - 9- ***
Capitolo 11: *** -10- ***
Capitolo 12: *** - 11- ***
Capitolo 13: *** -12- ***
Capitolo 14: *** -13- ***
Capitolo 15: *** -14- ***
Capitolo 16: *** -15- ***
Capitolo 17: *** -16- ***
Capitolo 18: *** -17- ***
Capitolo 19: *** -18- ***
Capitolo 20: *** -19- ***
Capitolo 21: *** -20- ***
Capitolo 22: *** -21- ***
Capitolo 23: *** -22- ***
Capitolo 24: *** -23- ***
Capitolo 25: *** -24- ***
Capitolo 26: *** -25- ***
Capitolo 27: *** -26- ***
Capitolo 28: *** -27- ***
Capitolo 29: *** -28- ***
Capitolo 30: *** -29- ***
Capitolo 31: *** -30- ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Loving
you my nightmare
what
do you hide behind your eyes?
Prologo
–
-
Ero allibita. Tutto quello che succedeva attorno a me era come se
svanisse.
Quel poco che mi dava certezza stava svanendo. Puf. Nel nulla.
E avevo paura più che mai.
"Corri!" mi urlò Jen " Corri più forte che puoi
Chey!" continuò a urlare.
I nostri fugaci passi si disperdevano nella notte, dove c'era qualcosa
che non andava.
Il nostro odore aveva raggiunto qualche olfatto affinato, e
quell'olfatto ora ci seguiva.
Non sapevamo chi fosse, non sapevamo cosa fosse.
Ma avevamo paura, eravamo terrorizzate.
I nostri piedi faticavano a toccare terra, le nostre mani si spingevano
in avanti desiderose di metter in salvo anche il resto del corpo, si
spingevano in avanti come ali, come ali bianche, i nostri occhi
affondavano nell'oscurità di quella notte selvaggia,
roteavano a destra e a sinistra in cerca di una via, di una scappatoia,
di fuggire.
Di salvarsi.
Le nostre gole imprecavano di ricominciare a salivare, ma il nostro
cuore pompava talmente forte che era persino difficile pensare.
Sentimmo i suoi battiti torcersi dentro di noi, fino a martellare
persino nella nostra testa e farci cadere per terra.
Ma in quel momento qualcosa accadde. Qualcosa, o meglio qualcuno di
furtivo sopraggiunse a salvarci dal peggio.
E aveva delle lunghe mani affusolate, degli occhi brillanti in quel
nero pece e una sagoma affascinante.
Restai rapita dal suo fiato sopra le nostre teste.
Sembrava un fiato disperso, fine, sembrava qualcosa di trasparente,
qualcosa di inesistente, non sapevo spiegarlo.
Ma lo sentivo.
Ci rapì con le sue lunghe braccia a difenderci, ci
portò via da quella notte, da quella grossa creatura che
bramava nel nero, desiderosa di agguantarci, senza tregua.
"Lupi mannari" disse qualche minuto dopo, quando fummo al salvo, in un
posto non tanto ben identificato.
"Lupi mannari?" chiesi io, incerta se magari avessi capito male.
"Esatto" rispose lui, con quegli occhi, quegli occhi liquidi, di un
azzurro dorato che mi incendiavano le pupille.
"Esistono i lupi mannari?" chiesi perplessa, cercando di non perdermi
nei suoi occhi più del dovuto.
Arrossii quando lui mi guardò indugiando sui miei.
"Si" sorrise continuando a guardarmi "Ne eravate all'oscuro
immagino".
"Infatti" si intromise la mia amica guardandoci, prima lui, poi me.
Rimasi scioccata dalla sua affermazione, magari erano solo lupi, non
mannari, che ne sapeva lui?
"Comunque grazie davvero per averci salvate, senza di te..." cominciai
un po' imbarazzata cercando le parole, che mi uscivano piuttosto
confuse.
"Non c'è bisogno che continui, ho ricevuto il messaggio"
fece un'altro sorriso e ci guardò entrambe.
"Ma dove siamo?" chiesi ancora imbarazzata.
"In un posto" cominciò guardando i nostri visi che
prendevano l'espressione mi sembra ovvio
"...dove vengo spesso, siccome era vicino...ho pensato di portarvi qui".
"Ma io non ricordo nulla di quando ci hai portate qui..." continuai
curiosa fissando la sua chioma liscia e luccicante biondo chiaro.
"Bè eravate in preda al panico e forse l'agitazione vi ha
fatto dimenticare quegli istanti...vi ho portato qui usando una
scorciatoia, e non provate più ad avventurarvi per strada a
notte inoltrata" rispose con un sorriso sull'ultima frase pronunciata,
il suo tono era seducente, basso e profondo, non avevo mai sentito
nessuno con una voce così.
"Stavamo tornando da una festa e siccome era vicino a casa...".
"State attente, c'è di mezzo la foresta...queste strade
hanno sbocchi verso gli alberi fitti e scuri, bisogna prestare, come ho
detto, molta attenzione" continuò indugiando sulle mie
labbra, e arrossii.
"Certo, grazie".
"Non hai bisogno di ringraziarmi" fece lui spezzando la mia attenzione.
Mi chiesi perchè fosse così modesto, o forse era
terribilmente vanitoso e pieno di sé.
Più cercavo di capirlo, più ne capivo meno.
"Ehm...scusa se te lo chiedo, ma possiamo dormire qui?" arrischiai.
"Si, qui sarete al sicuro".
Gli feci un sorriso come cenno di ringraziamento.
Passammo la notte, quella notte nera, in quel posto, altrettanto scuro,
ma meno scuro forse, dotato di una lampada dalla luce fioca che
illuminava i nostri letti, due brandine senza fronzoli, ma abbastanza
comode da passare una notte calma.
Quando ci svegliammo mi chiesi se lui aveva dormito veramente in quel
posto.
Non sapevo il perchè, ma sentivo che lui non ci aveva
dormito.
A volte l'intuito gioca brutti scherzi.
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Capitolo 2 *** -1- ***
- PRIMO CAPITOLO -
*
Mi alzai dalla brandina e lo vidi seduto nella poltrona all'angolo
della stanza.
Gli andai incontro e lo guardai.
Ci fissammo.
"Come ti chiami?" gli chiesi sprofondando nell'azzurro.
"Loud, molto piacere. Tu?" inchinò la testa elegantemente e
sorrise.
"Chey, si lo so uno strano nome...".
"No affatto, adoro gli strani nomi..." continuò lui tenendo
viva la mia attenzione.
"Ehm... immagino che sono spettinata e arruffata, perciò
devo assolutamente consultare uno specchio"
dissi arrossendo un po', visto che lui continuava a guardarmi.
"Non sei poi tanto spettinata" disse indicando, comunque, alla
direzione dello specchio.
Lo raggiunsi e mi guardai.
I capelli non erano nella loro condizione migliore e così
nemmeno il mio viso.
Il trucco della sera prima era sbavato e mi tracciava linee informi
sulla faccia, linee zigzagate, linee a
ragnatela, linee alquanto strane e indefinibili.
Arrossii pensando che lui mi aveva vista in quello stato.
Basta. Non doveva importarmi. D'altronde l'avevo appena conosciuto...o
forse già mi importava?
Indubbiamente aveva fascino.
Sistemai con le mani i piccoli nodi tra i capelli e li lisciai,
cercando per loro la posizione migliore.
Poi mi lavai la faccia assaporando l'acqua fresca a contatto con la
pelle calda.
Adoravo quella sensazione.
Tornai alla stanza e incrociai di nuovo il suo sguardo.
"Loud ma che posto è questo?".
"Te l'ho detto. Ci vengo spesso, è una specie di rifugio".
Quella sua frase mi incuriosì ancora di più.
"Sai che sei strano?" dissi sorridondegli e lui, guardandomi con
espressione indubbia, sorrise a sua volta.
"Ehi ricordati che ti ho salvato da un lupo".
"Tranquillo non me lo posso dimenticare" dissi prolungando il sorriso e
cercando i suoi occhi brillanti.
"La tua amica ha sonno?" cambiò argomento velocemente.
"A quanto pare..." risposi soffocando un sorriso, mentre guardavo Jen
stesa a caso sulla brandina,
che sonnecchiava con un'espressione sognante e felice.
"Appena si sveglia se desideri vi accompagno a casa" affermò
lui portando le sue lunghe gambe una sull'altra.
"Oh non fa nulla, ti ringrazio, penso che quel lupo non
tornerà a quest'ora, no?" risposi catturando il suo
sguardo chiarissimo.
"Già" fece un sorriso bellissimo, un sorriso semiaperto.
"Allora ehm...tu dove vivi?" gli chiesi.
"Qua vicino. Sulla collina, presente dove le case si fanno
più rade?" rispose deciso ma con lo sguardo
un po' vago.
"Sì ho presente, davvero vivi rintanato là? Ma
che divertimento".
"Già uno spasso" tirò fuori un'altro suo sorriso.
"No, dai non è così male come sembra".
concluse congiungendo le mani.
"Ah...bene allora" non sapevo più che dire e stare in piedi
con quel ragazzo seduto davanti a me mi
metteva ancora di più a disagio.
"Ti metto in imbarazzo?" mi chiese gettando su di me il suo sguardo
intrigante.
"Come? ero persa nei miei pensieri ed avevo fatto la figura della
stupida rispondendo a quel modo,
magari pensava fossi imbranata "no..." risposi.
Ma come aveva fatto a...? Si vedeva così tanto che ero un
po' imbarazzata?
Cercai di incrociare il meno possibile il suo sguardo, in quel momento
ero alquanto agitata.
"Tranquilla, sono amichevole" sorrise "almeno credo" aggiunse portando
lo sguardo su di me e su
tutta la mia figura intera.
"Eh eh" cercai un sorriso di rimando da far sembrare il meno possibile
stupido.
"Uhm" in quel momento il sospiro rilassato di Jen s'intromise tra di
noi e ci fece ultimare la conversazione,
se così si poteva chiamare.
"Jen" chiamai il suo nome, salutandola.
Lei mi guardò con espressione interrogativa, magari non si
ricordava poi tanto cosa era successo quella notte.
"Ehi" disse dopo qualche secondo guardandomi "ciao" poi si rivolse a
Loud.
"Ciao" rispose gentilmente lui facendo un cenno col capo nella sua
direzione "dormito bene?" chiese altrettanto gentile.
"Sì, grazie, ma ora penso che dovremmo andare, vero Chey?"
Jen si rivolse a me aspettando una risposta.
Guardai entrambi. Loud aveva gli occhi liquidi, mi guardava, e quando
lo faceva sembrava che mi scrutasse
dentro. Nonostante la luce fioca che entrava dalle tapparelle semi
chiuse quei suoi occhi perforavano i miei.
Jen, invece, aveva un'espressione confusa, ma rilassata, abbastanza
calma.
Ci credo, aveva appena dormito!
"Si, ora dobbiamo andare, ci vediamo allora" dissi concetrandomi su
Loud.
Lui, in quel momento, si alzò in piedi e ci sorrise.
"Allora ci sentiamo" pronunciò "se mi vorrai vedere ancora
ricomparirò, sai lo so fare piuttosto bene" si
rivolse poi a me, mentre Jen usciva dalla stanza.
"Non so per quale motivo, ma ti credo" affermai sussurrando un
po'"allora ciao" dissi poi con voce più alta.
Lui fece il suo cenno di saluto e sparimmo dalla sua vista.
*
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Capitolo 3 *** -2- ***
- SECONDO CAPITOLO –
*
Correvamo. Correvamo più che potevamo.
La nostra scuola era a pochi isolati perciò non ci avremmo
messo molto, ma sapevamo di essere già in ritardo.
E non era neppure colpa nostra. Come l’avremmo spiegato,
questa volta?
“Chey! Cavoli, fermati, non ce la faccio
più” urlò Jen, col fiato a un
centimetro da me.
“Avanti, Jen” sospirai per riprendere fiato,
tirandola per un braccio.
“Caspita” respirò rumorosamente lei.
Ricominciammo a correre e in poco raggiungemmo l’edificio
bianco.
Jen mi sospinse verso la porta dell’aula di storia, e io le
sbuffai di rimando.
“Sì, ma non ti azzardare più”
le intimai, aprendola.
Jen non rispose.
La professoressa di storia se ne stava con gli occhi puntati a noi, con
quei due grossi fanali a scrutarci e a farci da sbarra.
“Ehm… mi scusi” biascicai, in preda
all’ansia.
Lei mi perforò ogni centimetro di pelle col suo sguardo. La
sua espressione mi faceva ricordare quella d’un animale.
“Chey non si sentiva bene ieri notte, io ero da lei,
così l’ho aiutata. Questa mattina sta meglio, ma
ci siamo svegliate tardi”
spiegò Jen, dietro di me.
Mi voltai a guardarla, alzando un sopracciglio.
“Andate a posto” mormorò la
professoressa a denti stretti.
Il nostro banco era nell’ultima fila: il posto migliore per
fantasticare.
Mi appoggiai al palmo della mano e sospirai.
Quando mai avrei rivisto quel tizio? Loud, o come diavolo si chiamasse.
Cavoli, se era davvero affascinante.
Sospirai ancora e scossi la testa. “Ma quando mai”
mormorai senza accorgermene.
“Come ha detto, scusi?” bofonchiò la
professoressa, irritata per essere stata interrotta durante la sua
spiegazione.
“Uhm?” biascicai, rendendomi subito conto di aver
detto quelle parole; erano uscite completamente fuori dai miei
pensieri.
“Ah, no nulla” mi corressi velocemente
“mi scusi”.
La professoressa fece un debole cenno d’assenso e riprese il
suo discorso.
“Ma stavi un minimo attenta, oggi?”.
“Eh?” risposi, soprapensiero.
Jen mi guardava con aria di sufficienza.
“No, stavo pensando al tizio di ieri” mormorai,
irritata.
Jen mi rivolse uno sguardo sorpreso.
“Pensa te…”.
“Senti non ti ci mettere anche tu, lo sai che sto spesso
sulle nuvole”.
“Ah per saperlo lo so, solamente…”.
“Solamente?” biascicai, rivolgendole
un’occhiata di sbieco.
“Niente, lascia perdere” continuò lei,
arresa.
“Brava, così mi piaci, decisamente”
affilai lo sguardo, con un mugugno di assenso.
Jen riprese a camminare. “Ma come farai a recuperare quello
che non sai di storia?”.
“Recuperare?” ripetei, alzando un sopracciglio.
“Sì, bè, dovrai pure farlo”
riprese Jen, squadrandomi.
“Fare che?” biascicai, confusa.
Jen roteò gli occhi e sospirò. “Se
stavi sulle nuvole, immagino che non hai seguito…”
riformulò.
“Prenderò i tuoi appunti” bofonchiai con
una lieve alzata di spalle.
Jen aprì la bocca come per dire qualcosa, ma alla fine ci
ripensò. Si limitò a lanciarmi
un’occhiataccia.
“Grazie” le dissi.
“Ma figurati non c’è di che”
mormorò lei, a bassa voce.
“Senti va bene se dico con mia zia che ero a casa
tua?” chiesi.
Jen mi guardò. “Okay”.
“Altrimenti comincerà con le
domande…” continuai.
Jen annuì, facendo un gesto con la mano. “Certo,
non ti preoccupare”.
Le sorrisi. “Sei grande”.
Jen sbuffò in un sorriso, arrossendo.
La salutai lungo la strada e arrivata davanti a casa mia, restai a
fissare il cancelletto senza accorgermene, immobile per
qualche istante.
Era sempre così difficile cacciare i pensieri, soprattutto
perché non se ne volevano andare.
Guardai il cielo: non era dei migliori. Probabilmente si sarebbe messo
a piovere di lì a poco.
Sbuffai, quel tempo coincideva troppo col mio umore. O forse era il mio
umore che coincideva troppo con quello
del tempo.
Non sapevo se ero meteoropatica o no, ma non feci in tempo neanche a
pensarci.
Dovevo entrare.
Aprii il cancelletto e mi intrufolai dentro casa.
C’era silenzio a parte forse il ciottolio di qualche piatto
in cucina.
Mi appoggiai all’uscio e guardai mia zia intenta con le
pentole. Lei si accorse in quel momento della mia presenza e
ricambiò lo sguardo.
“Chey, aiutami qui” disse.
I suoi capelli rossi erano legati in una coda morbida che le ricadeva
sulle spalle. Sembrava un po’ affaticata.
“Tutto bene?” chiesi.
Lei si strofinò il viso con la manica, poi mi mise una mano
sulla spalla. “Sì, stai tranquilla”.
Mia zia era piuttosto bella e giovane, però era di salute
cagionevole.
A volte la si poteva trovare con una mano sul cuore dopo essersi
affaticata o essersi presa uno spavento. Speravo
vivamente che nessuno mai le facesse una cosa simile.
La guardai e le sorrisi. “Dai, muoviamoci”.
Mia madre insegnava in un collegio e non riusciva facilmente a tornare
a casa, perciò io abitavo con Anne.
Seppur all’inizio non lo riuscissi ad accettare, col tempo le
cose erano migliorate.
Niente però sarebbe stato come prima.
Quando mi buttai sul mio letto avvertì un lieve sollievo e
mi stesi completamente rilassata.
Sentì un rumore sordo in sottofondo.
Voltai lo sguardo alla finestra.
Stava piovendo.
“Senti, non è che siamo in ritardo?”
mormorò Jen, sciacquando l’ombrello.
“Siamo pur arrivate” dissi entrando.
Il corridoio era affollato.
“Sei incorreggibile” riprese lei.
Le sorrisi e poi mi voltai.
Una chioma lucida e chiara passò davanti al mio campo
visivo. Rimasi immediatamente immobile.
Sebbene fosse ancora lontano non c’erano dubbi,
sapevo già di chi si trattava.
Loud ci vide e mi guardò da un metro, avvicinandosi.
“Ehi, ciao” disse, con quel suo tono impossibile da
definire, dolce come il miele.
Risposi con un mugugno e Jen si avviò a sorridergli.
Era talmente bello. Qualsiasi espressione sarebbe stata inutile di
fronte a lui.
E poi mi sarebbero comunque mancate le parole.
Ma non era un bello normale. Era … seducente, affascinante,
pareva una statua scolpita tremendamente con talento.
Potevo disegnarne i perfetti lineamenti col pensiero ed imprimerli in
mente. Avrei potuto scolpirlo io, se avessi
saputo disegnare così da dio.
Sorrisi.
“Non parevi un tipo da scuola”.
“Già” bofonchiò lui.
“Non sono un tipo da scuola”.
“Ah no?” feci, sorpresa.
“No” riprese lui scuotendo lievemente la testa per
dare più enfasi alle parole.
Lo guardai alzando un sopracciglio.
Aspettavo che andasse avanti.
“Lavoro come inserviente”.
Sbuffai un sorriso, subito cercando di trattenerlo indietro.
Loud mi guardò in modo gelido spalancando leggermente quei
suoi incredibili occhi azzurri.
“Ti diverte? Non sapevo fosse una battuta”.
“Non lo è, solo che mi
è…”.
“Le è venuto da ridere”
riformulò brevemente Jen e io le rivolsi
un’occhiata di sbieco “non sembri uno degli
inservienti”.
Loud sorrise, i suoi denti erano perfetti. Lo guardai completamente
rapita.
Cacciò una piccola e breve risata che pareva un tintinnio di
cristalli.
“Bè, allora grazie” disse, rivolgendomi
uno sguardo penetrante, come se mi stesse guardando dentro, che mi
sciolse.
Il suo viso era a pochi centimetri dal mio.
L’avvertì fino al mio cuore, cercando di non farlo
passare oltre e risposi
con un sorriso, arrossendo.
“Scusami” disse “ora devo tornare al mio
lavoro” ci guardò di sbieco e si
allontanò.
“Buffo, no?” fece Jen, guardandolo sorpresa e
divertita allo stesso tempo.
Annuì, nei pensieri. Non avrei mai immaginato che un tipo
come lui facesse l’inserviente.
Proprio non gli si adattava. Magari non aveva trovato
nient’altro.
Che cosa gli avevano detto al colloquio? “Non dare lo
straccio, tanto ovunque passi brillerà di sicuro”?
Sorrisi dei miei pensieri stupidi e di quelle scene immaginarie.
“Ma no” bofonchiai con una smorfia.
Che idee assurde.
“Chey, non parlare da sola” mormorò Jen,
guardandomi di soppiatto.
“Capita” conclusi, avviandomi in aula.
Mi appoggiai al solito, sul palmo della mano e in un secondo quello che
mi circondava diventò sbiadito e svanì
e la mia mente si offuscò nei pensieri.
Cavolo, mi serviva un pizzicotto per tornare alla realtà.
Non riuscivo a concentrarmi, faticavo letteralmente a
stare in quella stanza e a continuare ad ascoltare le parole della
professoressa.
Certe volte, avrei voluto uccidere il potere dei miei pensieri.
Era come micidiale.
Lanciai un sospiro all’aria, ben attenta a non farmi scoprire.
Avrei recuperato tutto nei prossimi giorni, dagli appunti di Jen.
Mi voltai a guardarla.
Uffa, lei riusciva a stare attenta.
Mi mordicchiai un labbro e cercai di concentrarmi sulla spiegazione.
“…naturale,
perché…”
Il suo viso era così bello, oserei dire… perfetto.
“…trovato un’abitazione
nell’immediato…”
Che cavolo diceva?
I suoi occhi: quei suoi occhi infiammavano la mia vista, era come
sfocata.
Dovevo concentrarmi sulle parole, sulle parole…
“…30 anni fa…”
Uffa, quella roba era pallosa.
Mi accorsi che stava suonando. Chiusi il libro e ricambiai lo sguardo
che Jen mi aveva appena rivolto.
Quella sua bocca… non sapevo perché non riuscivo
a staccarmi da quel pensiero…
era tutto così irreale.
Ma come poteva perseguitarmi, se l’avevo appena conosciuto?
Era stupido, davvero stupido da parte mia.
Mi buttai sul letto, quando fui a casa.
Abbracciare il cuscino e sentirlo morbido sotto le mie dita era
l’unica consolazione del giorno.
*
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Capitolo 4 *** -3- ***
- TERZO CAPITOLO -
*
Mi svegliai di soprassalto. Aprii gli occhi e poi li richiusi, per
abituarmi all'oscurità della stanza.
Svegliarsi velocemente come avevo appena fatto mi avrebbe reso ancora
più nervosa del solito. Maledì all'aria, stando
con la testa mezza nascosta sotto le coperte. Sbuffai, era
già mattina.
Mi alzai da un lato del letto, e mi infilai i calzetti bianchi. Aprii
la finestra, e la tiepida luce del sole infranse i frammenti
dell'oscurità che c'era fino a prima.
Scesi al piano di sotto, e cominciai a prepararmi la colazione, mentre
mia zia stava già pulendo la cucina.
“Ehi" le dissi, entrando.
Lei mi rispose con uno sguardo. “Buongiorno”.
“Tutto okay?” continuò Anne, lanciandomi
un’occhiata, stava pulendo sui fornelli.
“Certo, grazie. E tu?”.
Lei annuì e mi guardò di sottecchi, strofinando
più del dovuto. “Ha telefonato tua
madre”.
“Ah sì?” feci, sorpresa “Che
ha detto?”.
“Bè, ti saluta. E ha detto che tornerà
a fine settimana e di non essere troppo arrabbiata quando la
vedrai”.
“Non lo sono”.
“Sicura?”.
“Perché?” la guardai.
“Non lo so, però ti capisco. La lontananza non fa
mai bene alle persone”.
“Invece qualche volta sì” replicai.
Anne mi guardò e annuì. “Sta’
tranquilla, comunque. Qualsiasi cosa provi per lei, non
c’è nessun problema”.
Questa volta la guardai io. “Senti, ora devo
andare” finii la mia colazione e poi presi in fretta il
cappotto, e uscii.
“Ma va tutto bene?” mi chiese Jen, che era accanto
a me nel banco.
“Sì, perché?” risposi
controvoglia.
“Non lo so, ti ho rivolto qualche domanda ma non mi hai mai
risposto ed è da quando siamo arrivate che non apri bocca,
cosa insolita per te”.
“Non è vero” la guardai male
“non dire sciocchezze”.
“Okay” rispose lei, spostando lo sguardo alla
cattedra. “Comunque se mai avessi problemi, per ipotesi, ci
sono io,
ricordatelo”.
Mi voltai e le gettai un’occhiata.
“Senti, tu come fai quando devi toglierti dalla testa
qualcosa?” le domandai, perplessa.
“Qualcosa o … qualcuno?”.
“Oh avanti, fa’ lo stesso”.
“Se lo dici tu” mormorò lei, per non
farsi sentire.
“Allora?”.
“Dunque… e che ne so io”
bofonchiò “pensi a
qualcos’altro”.
“E se non riesci a pensare a
nient’altro?”.
“Allora non lo so” Jen alzò le spalle e
mi rivolse un’occhiata.
Sbuffai.
“Ma ci stai capendo qualcosa di quello che dice la
prof?” chiese Jen.
“Certo, come no” risposi, lievemente irritata.
“Ah bè, se la metti così
allora… comunque, ti conviene prendere appunti” mi
fece notare lei, indicando il mio quaderno.
Vuoto.
“Tranquilla, ce la faccio” mormorai.
Jen fece di sì con la testa e tornò a fissare
davanti.
Finalmente suonò. Non ne potevo più. Era
frustrante avere altro tipo di pensieri, quando eri costretta ad
ascoltare una
stupida ed inutile spiegazione.
Uscii dalla porta dell’aula e respirai rumorosamente, dietro
avevo Jen.
Mi voltai verso il corridoio.
Un lampo,
e vidi i suoi occhi brillanti scrutarmi da lontano.
Ebbi un brivido, sussultai leggermente, cercando di trattenermi.
Loud prolungò lo sguardo e io non seppi più dove
guardare, per cercare di non sprofondarci dentro,
era terribilmente difficile tenere il controllo di me stessa in quel
momento.
Lo fissai, e continuai a fissarlo per tutto il tempo in cui lui
continuava a fissare me;
mi sentii come un tumulto dentro, era così strano.
Loud, poi, si avvicinò e mi sorrise, continuando a
percuotermi con quegli occhi brillanti. Lo fissai, senza staccarmi
un momento.
“Allora, ciao” disse. Il suo tono mi sciolse.
“Ciao” vociò Jen, dietro di me.
“Come va il lavoro?”.
Mi voltai e le lanciai un’occhiataccia. Poi mi rigirai verso
di lui e continuai a fissarlo,
incapace di dire qualcosa.
“Tutto bene, grazie” disse lui, ed ebbi un
incontrollabile sussulto. La sua voce era come il miele che ti scalda
dentro, dolce e passionale, intrigante, e così particolare.
Seducente e profonda.
Sorrisi, continuando a guardarlo.
Anche lui sorrise, ricambiandomi.
“Come va a scuola?” indicò
l’aula; tratteneva un sorriso sul volto.
“Mmm… bene” risposi, concentrandomi
sulla tonalità che sfumava nelle sue pupille.
“Davvero?” fece Jen, mettendosi accanto a me e
rivolgendogli un’occhiata.
Mi voltai verso di lei e affilai lo sguardo nel suo. Jen
alzò le spalle e corrugò le sopracciglia.
Avvertì Loud sorridere davanti a me. Lo guardai, perplessa,
e lui continuò.
“Scusa, siete buffe” mormorò,
sciogliendomi completamente.
“Figurati” dissi, facendo un rumoroso sospiro.
“Scusa, ma ora dobbiamo andare” presi il braccio di
Jen e la tirai per
tutto il corridoio.
Mi voltai solo una volta, e vidi che Loud mi aveva lanciato
un’occhiata perplessa, ma divertita.
Roteai gli occhi, e me ne andai di fuori, a respirare l’aria
fresca mista ad un sole appena accennato.
“Ehi ma che fai!” gemè Jen,
rimproverandomi.
“Niente” replicai “tu ti sei messa a
parlare…”.
“E allora?” fece lei, confusa.
“Allora, mi sono sentita in imbarazzo”.
“No, tu eri già in imbarazzo”.
La fulminai, e la superai per raggiungere la mia bicicletta appostata
fuori, davanti al cancello bianco.
“Che fai?” domandò lei.
“Vado a casa” borbottai, cercando di sciogliere il
lucchetto, con le mani agitate. “Oh, su avanti”
blaterai contro
il lucchetto, riuscendo infine a liberare la mia bicicletta.
La inforcai. “Allora, ci vediamo domani?”.
“Ma aspettami, che vengo anch’io” fece
Jen, guardandomi confusa.
“Ah, okay”.
Inforcò velocemente la sua bici e poi ce ne andammo.
“Ma che fretta avevi?” mi chiese lei, un minuto
dopo.
“Nessuna fretta. Volevo solo andarmene” le risposi,
seccata.
“Ah, certo, si vede”.
La guardai. “Hai finito con le tue sottili
battute?”.
Jen corrucciò le sopracciglia. “Scusa
eh”.
“Niente” alzai le spalle.
“Ero ironica” replicò lei.
La fissai. “Okay, scusami tu” le dissi, poi ripresi
a guardare la strada davanti a me.
Pedalare faceva volare i miei pensieri dentro al vento, che mi
accarezzava i capelli come un guanto morbido.
Lo adoravo, quando non era troppo forte da spazzarmi via.
“Vuoi i miei appunti?” mi chiese Jen.
“No” le rivolsi un’occhiata.
“Ma no”.
“Okay” fece lei, pedalando al mio fianco.
“Non sono arrabbiata” dissi.
“Nemmeno io” disse lei, guardandomi.
“Allora ciao” la salutai, quando fu arrivata
davanti a casa sua.
Lei mi rivolse un’occhiata e scese dalla bici.
Continuai a pedalare e diedi uno sguardo al paesaggio lontano, dove a
poco a poco, s’intravedeva una collina.
La guardai meglio, avanzando prendeva più forma e si
stagliava col suo profilo rotondo contro il cielo e a fianco
della città.
Il cioccolato aveva un sapore più buono.
Non sapevo perché. Mischiai le fragole col cioccolato e le
mangiai.
Erano davvero divine.
“Chey!” urlò mia zia dal seminterrato.
“Sì, zia, sono io” le risposi, urlando.
Succhiai una fragola e la privai di tutto il cioccolato.
Mia zia apparve dalle scale.
“Appena tornata” dissi.
Lei corrugò le sopracciglia e guardò le fragole
col cioccolato sul banco della cucina. Poi si affacendò
nella credenza.
“Com’è andata?” chiese.
“Oh, tutto a posto”.
“Anche con i ritardi?” continuò,
lanciandomi un’occhiata furtiva.
“Già” risposi, di malavoglia. Mi aveva
preso in contropiede.
“Comunque se c’è qualcosa che non va te
lo dico io” mormorai, mettendo in bocca l’ultima
fragola. Leccai tutto
il cioccolato rimasto.
“Davvero?”.
“Sì, certo” ripresi, con tono
tranquillizzante.
“Okay” lei continuò a mettere in ordine
la credenza.
Uscii nella fredda aria del pomeriggio, in mezzo a quel vento cupo, e
non riuscii a non perdermi nei pensieri.
Soffiai, e formai una nuvola nell’atmosfera. Il cielo era
davvero striato, come un dipinto. Gli gettai un’occhiata,
era davvero bello.
“Sshh” sentii una mano coprirmi la bocca, prima che
potessi dire qualcosa. Mugugnai spaventata, cercando di
divincolarmi.
“Sono io” disse. Riconobbi la voce di Loud.
Mi presi un colpo.
Levò la mano dalla mia bocca e mi lasciò andare.
“Mi hai spaventato” lo fissai ad occhi sgranati.
“Scusami, non era mia intenzione”.
Sgranai ancora di più gli occhi.
“Ti ho vista solamente passare”
“Ah, ed è così che saluti le persone
che conosci?” bofonchiai, sorpresa.
“Sì” disse lui. “Che
c’è non sei convinta? Ciao, comunque”.
“Ciao”.
“Ora è un po’ più normale il
modo?” chiese, trattenendo il mio sguardo.
Sprofondai nel suo. “Sì, va meglio”.
Loud sorrise.
“Allora, andiamo a fare una passeggiata?”.
Sgranai gli occhi. Di nuovo. “Una che?”.
Loud mi prese la mano e mi condusse verso la parte meno popolata della
città.
“Dove stiamo andando?” gli chiesi, sorpresa.
“Aspetta e vedrai” disse lui, in tutta risposta.
La sua mano era fredda, contro la mia calda. Fredda come il ghiaccio.
“Ma mi volevi rapire prima?” chiesi, dopo un
po’.
“Come? Ma se ti ho detto che volevo salutarti”
rispose lui, irritandosi.
“Ah, credevo fosse una scusa. Puoi anche dirmi la
verità” continuai.
Lui si fermò di scatto e mi guardò negli occhi.
Il suo modo di fissarmi mi faceva raggelare le vene. Mi vennero i
brividi.
“Sai essere freddo…” mormorai,
ironicamente.
Lui mi squadrò. “Era una battuta?”
alzò le sopracciglia.
Ricambiai lo sguardo e dissi di lasciar perdere.
“Mi vuoi dire dove stiamo andando?” biascicai.
“Quanto sei insistente” mormorò Loud.
Sbuffai, guardando la collina sempre più vicina, stagliarsi
contro le venature azzurre e grigie del cielo.
Le nuvole formavano una specie di contrasto con il quadro dipinto
dietro a loro, i colori si mischiavano come
sulla tavolozza degli acquerelli ed era un piacere stare a guardarli.
Sgranai gli occhi. Loud mi aveva preso contro di sé,
trattenendomi forte stretta a lui.
Cercai di respirare, il mio cuore martellava contro il suo petto. Stavo
quasi soffocando e controllai di non aver
nessun suo prezioso capello lucente impigliato in bocca. Ci sperai. E
per fortuna non c’era.
Loud mi strinse più forte e il mio cuore ebbe un sussulto:
per un istante fu come se martellasse in entrambi i
nostri petti, muovendoci.
“Ti senti bene?” mi chiese.
Lo guardai, il suo volto era più in alto sopra al mio.
Quei suoi occhi… i suoi occhi brillavano come fari.
Annuii e lui non allentò la presa, tenendomi ferma contro di
sé, sprofondai nel suo profumo che sapeva di pericolo
e dolcezza…
Ero rapita tra le sue braccia, come se il tempo si fosse fermato. Mi
accorsi alzando la testa un poco che non
eravamo distanti dal percorrere la strada per la collina. Lo guardai in
viso, quel suo viso così dannatamente perfetto.
Ebbi un fremito.
Lui mi strinse un braccio, abbandonando la presa. Si mise un dito sulle
labbra che erano come ciliegie.
“Ora devo andare”.
Inarcai le sopracciglia, confusa, chiedendomi che cosa ci fosse stato
di sbagliato. “Okay.”
“Ci vediamo” mormorò, staccandosi da me.
Lo vidi allontanarsi e mi salutò, levando una mano.
*
Ringraziamenti a tutti
coloro che leggono questa ff e a:
Bella4
Grazie mille per avermi letta e per i complimenti...dunque di Loud...
dovrai vedere i prossimi sviluppi, ti lascio con la storia ^_^
|
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Capitolo 5 *** -4- ***
- QUARTO CAPITOLO -
*
Il giorno dopo, era davvero presto quando mi svegliai.
Avevo fatto un incubo, una mano che mi assaliva al collo e mi
strozzava. Avrei voluto cancellare quell’immagine
dalla mia testa, era troppo anche per me.
Buttai all’aria le coperte e mi coprii, ero solamente in
biancheria intima. Ma come avevo fatto?
Eppure era freddo, non da gelare, ma era freddo.
Che stupida, mi ero spogliata di notte, senza accorgermene. Che strane
abitudini che avevo. Scrollai la testa.
Indossai velocemente una maglia grigia abbastanza larga e dei pantaloni
neri. Mi guardai allo specchio: forse ero
credibile come persona normale.
Alzai un sopracciglio e scesi le scale.
“Zia” mormorai, salutandola
“Chey, ciao”.
“Sei già sveglia?” chiesi.
“Come mai anche tu?”.
“Mmm… non sono riuscita a dormire bene, questa
notte”.
“Mi dispiace" mi guardò, un po' preoccupata. "Vuoi
un po’ di tè?”.
“Sì, grazie” sussurrai.
Lei mi porse una tazza.
“Anch’io, comunque, non ho dormito bene”.
“Davvero?” dissi, alzando le sopracciglia.
Lei annuì e bevve dalla sua tazza.
“E quand’è che viene la
mamma?”.
“Ha detto che entro due giorni dovrebbe farcela”.
Questa volta annuii io.
“Ti fa almeno un po’ piacere?” mi chiese,
spostando lo sguardo su di me.
Ricambiai lo sguardo. “Ma ti pare. È ovvio che mi
fa piacere”. Attesi un secondo. “E a te?”.
Lei mi rivolse un’occhiata. “Certo” disse.
La fissai un lungo istante e poi ripresi a bere. “Vado a fare
un giro” mormorai “ci vediamo più
tardi”.
Chiusi la porta ed uscii nella fresca brezza mattutina. Era un
toccasana per i miei occhi rossi e gonfi. Il sole stava
apparendo, da dietro le nuvole.
Infilai le mani in tasca e sospirai. La collina non doveva essere
troppo lontana. “Mmm”.
M’intrufolai in garage e presi la mia bici, forse un piccolo
aiuto non avrebbe guastato. Cominciai a pedalare, finchè
non raggiunsi la strada ghiaiosa, un po’ in salita.
Scesi dalla bici, e camminai. Sulla collina prendeva posto un enorme
villa, che pareva un castello. Non sapevo nemmeno
dove fosse l’entrata, ma ero troppo curiosa per abbandonare
quel luogo.
Vidi un portone scuro con un catenaccio. Sarebbe stato troppo andare a
bussare. Sorrisi.
Ma Loud davvero abitava in un posto del genere? O forse mi aveva
solamente detto una cavolata?
Sbuffai. Chissà quant’era alta quella villa.
Sicuramente aveva tre piani.
L’intonaco era sfatto e di mattoni bianchi ingrigiti. Le
finestre erano completamente chiuse e le ante erano in legno
scuro, parevano quasi sigillate.
Aprii la bocca con stupore. Chissà chi l’aveva
costruita. Chissà chi ci abitava.
Nonostante stessi lì vicino, non c’ero mai andata,
eccetto una volta con mia madre, quando ero ancora piccola.
Ma non ricordavo molto: avevamo solamente sbirciato, ma non ci avevamo
trovato nulla. Alla fine avevamo concluso
che doveva essere deserta.
Quello che avevo sempre creduto io finora.
Mi illuminai. “Ma certo”.
Loud, ovviamente, non abitava lì, a meno che non ci fosse un
seminterrato o un rifugio degli inservienti, ma doveva
abitare in una delle case lì accanto.
Spostai lo sguardo e vidi un branco di casette bianche o in legno farsi
spazio sulla restante parte di collina.
Già, quell’enorme villa non era mica
l’unica opzione. Eppure se lui avesse abitato lì,
come inserviente o no, mi sarebbe
piaciuto chiedergli un giorno di entrare, per esplorarla.
“Psst”.
Mi voltai di scatto. Avevo sentito un rumore, o forse una voce.
C’era qualcuno.
Lo spazio antistante la villa era immerso nel verde ed era pieno di
erbacce e cespugli. Probabilmente il rumore era
provenuto da uno di quelli.
“Psst”.
Mi voltai di nuovo, spaventata. Vidi una chioma chiara muoversi tra i
cespugli e mi tranquillizzai.
Doveva essere Loud.
Aprii la bocca come per salutarlo, quando lui uscì da dietro
i cespugli e mi venne incontro furtivamente.
“Ehi ma che fai” brontolai, interdetta.
“Sshh” mi sussurrò, in un modo che mi
sciolse.
“Ma che…”
“Sshh” ripetè.
Mugugnai qualcos’altro, ma lui mi mise una mano sulla bocca e
mi smorzò le parole in gola. Mi portò velocemente
dietro ai cespugli.
“Ma che stiamo facendo qui?”.
Lui fece ancora segno di star zitta. “Parla piano, Chey, per
piacere”.
“Ma cosa…”.
“Non dovresti essere qui, cosa stai facendo?” mi
chiese.
Notai quanto i suoi occhi luccicassero.
“È la stessa cosa che mi chiedevo di te”
mormorai. “Cos’è il rifugio degli
inservienti?” notai.
Lui inarcò le sopracciglia. “Come?”.
“Ma tu non le capisci proprio le battute” mugugnai.
Lui sciolse lo sguardo. “Non conosco tutta la vostra
lingua”.
Lo guardai sorpresa.
“Per piacere, potresti dirmi che ci fai qui?”
continuò. I suoi occhi perforavano la mia vista.
“Stavo solamente dando un’occhiata… ehm,
passeggiando”.
“D’accordo e non potresti dare
un’occhiata, cioè passeggiare, da qualche altra
parte?”.
Sgranai gli occhi. “Non saprei”.
Loud trattenne un sorriso.
“Senti, questo è un postaccio, non è
luogo per te”.
“E tu che ne sai?”.
“Ricordi i lupi mannari?” mi chiese, guardandomi
dritto negli occhi.
“Sì, perché?”.
“Ecco, se hai presente le creature così, allora
dovresti starci alla larga”.
Corrugai le sopracciglia, stupita.
“Loud” mormorò qualcuno, al di fuori dei
cespugli. “Dove ti sei nascosto?”.
Sgranai gli occhi. Loud era immobile, davanti a me. Uscì dai
cespugli, con fare tranquillo.
“Antoine” mormorò.
“Si può sapere dov’eri? Con chi stavi
parlando?”.
Loud non rispose, si scostò leggermente e Antoine mi
notò da dietro i cespugli.
“Mon dieu” sussurrò.
Loud non disse nulla ancora una volta.
Sussultai. Quel ragazzo mi stava fissando, in modo… troppo
ravvicinato. Avevo l’impressione di essere
mangiata con gli occhi.
Era bellissimo, aveva i capelli castani, più o meno del mio
stesso colore, ed era alto e dalla corporatura perfetta.
Lo guardai sorpresa e poi guardai Loud.
“Che ci fa qui?” mormorò Antoine,
abbassando la voce.
Loud alzò impercettibilmente le spalle.
“Abiti qui vicino?” mi colse di sorpresa. Antoine
mi si avvicinò e io fremetti.
"Sì”. Come faceva a saperlo?
“Portala via” mugugnò a Loud, a denti
stretti.
La sua espressione cambiò, pareva irritato. Poi, mi si
rivolse ancora e sembrò più pacato.
“Quanti anni hai, ma cheri?”.
“Ehm… diciassette”.
“Diciassette…” ripetè,
toccandomi il mento con la punta delle dita.
“Avanti, Antoine” mormorò Loud.
Antoine si destò un attimo e si voltò verso di
lui. “Vi ho già visto ieri, vorrei non dovervi
beccare più” sussurrò.
Corrugai le sopracciglia. Ci aveva visti ieri?
Loud mi rivolse un’occhiata.
Ecco perché se n’era andato. Eravamo spiati.
“Senti, non volevo farmi gli affari vostri” mi
disse Antoine “vi ho solamente visto, per caso”.
Loud fece un’espressione indecifrabile, io mugugnai qualcosa,
incapace di parlare e annuii.
Gli occhi di Antoine mi avevano confuso, erano sfumati di castano e di
verde e brillavano.
“Lo sai sei molto carina, très
jolie…”
“Antoine” lo ammonì Loud, avvicinandosi
a lui.
“Allora siete francesi” mormorai.
“Che intuito la mademoiselle” sorrise Antoine.
Loud fece una smorfia. “Non è mica
stupida” fece un passo indietro.
“Lungi da me darti della stupida”
sussurrò Antoine.
Notai che il suo viso era davvero bello, pareva avere qualcosa di
femminile.
Annuii.
“Scusami” venne avanti Loud, dandomi
un’occhiata. Mi prese un braccio, dolcemente, e
tirò verso di sè.
“Ora dobbiamo andare” mormorò ad Antoine.
Antoine aveva appena preso fuori una sigaretta e stava tirando.
Alzò le sopracciglia, fingendo innocenza.
“D’accordo, saluto la tua amica” Antoine
mi venne vicino, dandomi un bacio sulla guancia. La sua bocca
odorava di fumo.
Loud fece un’espressione contrariata e mi si
avvicinò all’orecchio. “Meglio che ora
torni a casa” mi sussurrò
sfiorandomi i capelli.
Ebbi un brivido. Annuii e ricambiai lo sguardo che mi rivolse.
“Ciao” mi disse.
“Ciao” risposi, allontanandomi. Diedi
un’ultima occhiata, quando fui un po’
più lontana.
Quelle due alte figure contornavano il cielo dietro alla
collina… erano come due statue.
Inforcai la bicicletta e mi lasciai alle spalle quel cielo grigio.
*
Ciao a tutti/e e grazie a chi sta seguendo questa ff, in particolare
ringrazio per il commento:
Bella4
grazie mille ^_^ mi fa piacere ti sia piaciuta.
|
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Capitolo 6 *** -5- ***
- QUINTO CAPITOLO -
*
Non riuscivo a non pensare al giorno prima. Ero nel mio letto, sveglia.
Le coperte mi nascondevano completamente.
L’unica cosa che sentivo era il mio cuore, martellare nel
petto.
Non sapevo perché fossi tanto agitata. Ma non riuscivo a
calmarmi.
Era una sensazione che mi metteva a disagio. Respirai rumorosamente,
sotto le coperte.
Sentire quel tepore sarebbe servito a coprire quelle ore senza sonno?
Quando uscii per andare a scuola il cielo si era fatto più
chiaro, ma non era molto meno freddo.
“Ciao” dissi a Jen, mentre arrivai davanti casa sua.
Percorremmo il restante tratto di strada in silenzio. Io non sapevo
cosa dire e probabilmente neanche lei.
La guardai un istante per aprire bocca e poi richiuderla. Mi rivoltai
verso la strada.
“Non mi hai chiamato ieri” mi disse, questa volta
fissandomi lei.
Le lanciai un’occhiata perplessa. “Scusa, mi devo
essere dimenticata”. Sospirai. “Davvero, non
l’ho fatto apposta”.
Lei mugugnò qualcosa di incomprensibile e poi si
schiarì la voce.
“Credevo dovessimo vederci e uscire”.
Stetti in silenzio.
“Magari la prossima volta” Jen mi guardò
e io annuii.
“Dove sei stata?” riprese, con voce più
alta.
“Ehm… non ho fatto nulla per la verità
a parte una lunga passeggiata”.
Jen annuì, le mani in tasca.
“Uff. Non ho studiato” sbuffò.
“Studiato?” m’illuminai
all’istante e nella mia testa cominciò a vagare
una serie d’imprecazioni.
“Sì, dovresti conoscerla come parola”.
Sbuffai io.
“Non dirmi che non hai nemmeno aperto il quaderno?”.
“Vuoi dire i tuoi appunti fotocopiati?” rincalzai.
“Bè, sì” si corresse lei,
guardandomi con aria interrogativa.
“Un po’…”
“Un po’?” ripetè,
più agitata.
“Dai, Jen, non è così grave”
dissi, dandole un’occhiata.
“Vuoi che ti boccino?” mormorò lei,
sorpresa.
“No” sussurrai. “D’accordo,
sta’ tranquilla. Recupererò”.
“Ah sì, e quando?”.
“Presto” riposi.
Volli terminare lì la conversazione. Non avevo voglia di
litigare, tantomeno con lei.
Arrivammo a scuola dì lì a poco.
“Senti, magari dai un’occhiata oggi con me ai miei
appunti… così, ti posso aiutare”
mormorò Jen, eravamo appena entrate.
“Sì, okay” sbuffai.
Avvertì la presenza di qualcuno che mi stava guardando: vidi
Loud da lontano.
Lui mi sorrise, e si avvicinò.
“Ehi, ciao” disse ad entrambe “come
va?”
Alzai le spalle, mentre Jen rispondeva “bene”.
“E tu?”
“Tutto okay” alzò le spalle lui.
“Mi sto divertendo a fare questo” alzò
il manico con lo straccio e abbozzò un sorriso bellissimo.
“Ah bè sì certo” bofonchiai,
rispondendogli al sorriso.
Mi prese velocemente da parte. “Ci vediamo oggi?”
disse sbrigativo.
“Oggi?” alzai le sopracciglia.
“Già, oggi… Dunque?” era
insolitamente agitato. Ma mi pareva una scena troppo comica, lui,
bellissimo, con in mano quell’insulso e sudicio straccio.
“O-okay” mormorai, concentrata nei suoi occhi, per
poco non ci affondavo dentro. Mannaggia.
“D’accordo, ci vediamo da te alle cinque”
concluse, allontanandosi e facendo un cenno di saluto a Jen.
Da me alle cinque?
Spalancai gli occhi e pensai a lui, cioè a me e lui da me, a
casa mia… soli … e…
“Chey”
e…
“Chey”
“Che c’è?” sussurrai a Jen,
irritata.
“Ehm dobbiamo andare, stai bloccando il corridoio”
Mi spostai per far passare le persone ed entrammo in aula.
“Mi ha appena … Loud mi ha appena invitata da
me” bofonchiai, incredula.
Jen alzò un sopracciglio. “Wow, vuoi dire che ti
ha appena invitata da te?”
La guardai di sbieco. “Mi prendi pure in giro?”
“No, no, guarda, anzi sono contenta che ti abbia invitata da
te, davvero” mi sorrise, sinceramente.
“Grazie” le sussurrai vicina all’orecchio.
Il giorno passò piuttosto velocemente, nonostante non avessi
nulla da fare, se non guardare l’orario o leggere un libro.
In realtà, funzionava così. Quando aspettavo
qualcosa o qualcuno che mi piaceva il tempo non passava mai…
ma quel giorno era passato abbastanza in fretta. Non sapevo
perché.
Arrivata l’ora dell’appuntamento con Loud, mi alzai
dal letto e uscii dalla camera, infilandomi nel freddo esterno.
Mia zia era al lavoro, non avevo nessuno che mi impedisse di uscire.
Sospirai e mi guardai intorno, per vedere se Loud era arrivato.
Guardai l’orologio. Le cinque.
“Ehi, aspetti qualcuno?”. Mi voltai di scatto.
Loud sorrise apertamente. “Ti ho spaventata?”
“Sinceramente sì” risposi, esterrefatta.
“Scusa, allora” allungò il sorriso.
“Dunque, che dobbiamo fare già?” chiesi,
alzando un sopracciglio.
“Vedrai” mi prese per il polso e lo seguii.
“Ma perché tutto questo mistero?”
sussurrai, cercando di avere una risposta. Ero davvero curiosa del suo
comportamento.
Lui si limitò a girarsi verso di me e a rivolgermi
un’occhiata.
Sbuffai. Non me l’avrebbe mai detto.
“Eccoci” disse dopo qualche minuto che camminavamo.
Strabuzzai gli occhi. “E dove siamo?”
“Ma come non vedi?” sgranò i suoi occhi
belli.
“No” feci segno con la testa.
Guardai ancora dritto davanti a me, ma non c’era nulla di cui
mi accorgessi, in particolare.
“Avanti guarda” mi incitò.
“Sto guardando” risposi.
“E non vedi proprio niente?” si voltò a
incontrare i miei occhi.
Lo fissai per un istante. “No, mi dispiace”.
Sbuffò, stranamente. “Ecco”
indicò un punto.
Il panorama davanti a noi era fatto di un fiume, e noi eravamo sopra al
ponte della città. Sotto, l’acqua scorreva, e una
tiepida luce naturale increspava le onde, e il loro profilo.
Fissai il punto da lui indicato.
“Non vedi, quant’è bello?” mi
disse.
Guardai con più attenzione. Già, era davvero
bellissimo. Rabbrividii. Una scossa di vento mi aveva fatto sentire di
più il freddo.
“Già, è davvero bello”
risposi, che poi era quello che avevo anche solo pensato.
Mi illuminai. Quel paesaggio mi aveva dato in un secondo una gran
calma, e una gran tranquillità. All’improvviso mi
sentii come rilassata; fissai Loud.
“Si sta proprio bene, qui” mormorai.
Lui si voltò verso di me e annuì, con un sorriso.
Si avvicinò e mi prese una mano portandosela vicino alla
bocca, pericolosamente.
“Non sai quanto piace a me” sussurrò,
facendomi raggelare tutto il sangue nelle vene. E questa volta non
c’entrava il freddo.
“Già, e pure a me” bofonchiai, cercando
di spezzare l’atmosfera imbarazzante.
Lui non trattenne un sorriso. “Sei spiritosa, lo
sai”.
“Ehm… sì” ripresi, cercando
di calmare il respiro, che aveva preso ad essere incontrollato dalla
mia volontà.
Loud cacciò una risata che mi procurò un altro
brivido.
“Tutto bene?” mi chiese, guardandomi serio.
Annuii. Letteralmente spaventata.
Quello che poteva farmi anche il solo guardarlo mi metteva i brividi,
quello che poteva farmi anche solo se mi toccava la mano…
bè era indescrivibile.
Tenne ancora la mia mano tra le sue, e notai quanto le avesse belle ed
affusolate, pallide e dalle unghie lunghe e curate.
Si portò la mia mano alla bocca e la baciò,
delicatamente. Pareva metterci una certa e strana passione.
Non riuscivo a non rabbrividire, era come dirmi di non respirare (cosa
che poi facevo saltuariamente, in quel momento).
Spostai la mia attenzione ancora al paesaggio al di sotto del ponte nel
quale stavamo, ma lui riprese a sbaciucchiarmi la mano e non capii
più niente.
Fissai gli occhi nei suoi, così vicini e
brillanti… che era una meraviglia perdersi.
Sbattei le ciglia, troppo concentrata altrimenti. Loud sorrise ancora.
“Che c’è?” bofonchiai, incerta.
“Nulla. Sei molto dolce” affibbiò lui,
cercando di sviarsela con le parole.
Alzai le spalle, imbarazzata. Mi leccò l’indice
con quelle labbra che parevano ciliegie, rosse e piene, chiudendo gli
occhi.
“Ehm senti… Loud…”
Lui leccò con più passione il mio dito e mi
sembrò di essermi immersa nel miele, da quanto era dolce.
Un altro brivido.
“Ehm Loud…” proferì cercando
di farmi ascoltare.
Loud aprì gli occhi e mi persi nella sua tonalità
azzurra, sprofondando completamente.
“Che c’è?” questa volta fu lui
a dirlo.
“Nulla…” sorrisi tra me e me, ripensando
al discorso uguale che avevamo già fatto prima
“solamente… che stai facendo?” alzai un
sopracciglio, curiosa.
Loud per poco non scoppiò a ridere; si trattenne .
“Proprio niente” mormorò.
“Ah, lo vedo”.
“Sto tastando il terreno”.
“Come, prego?” borbottai, perplessa.
“Ti sto tastando” riprese, sicuro. Il suo sguardo
era come il cielo.
“Mi stai testando?”.
“Tastando, tastando” ripetè, con
più enfasi.
Io arrossii. Eppure non riuscì a non ridere del modo in cui
l’aveva detto. Forse si chiedeva se avesse usato bene la
parola nella nostra lingua.
“Ah, credevo intendessi testare”.
“No, tastare. Conosco questa parola”
mormorò. Ah, allora la sapeva; conosceva il significato.
“Ehm… dunque. E come pensi di tastarmi o testarmi,
o come ti pare?” chiesi, incredula, corrugando le
sopracciglia.
“Toccandoti” proferì.
Sussultai … leggermente (per fortuna).
“Come?”
“Oh su avanti” mormorò. Si
avvicinò ancora di più e mi sporse contro al
ponte, attaccato al mio corpo.
Cercai di allontanarlo, ma invano. Poi smisi, sentendo il calore che
gli trasmettevo.
Mi abbracciò dolcemente, trattenendomi contro il ponte.
Avevo il viso contro il colletto del suo giubbotto nero.
Mi guardò fisso negli occhi e poi mi baciò,
tenendomi stretta contro di lui, come se non potessi scappare.
Sentii un inspiegabile (o forse sì) calore dentro di me, ed
ero così eccitata.
Porca…
“Hai fame?” dissi, per spezzare il silenzio.
“Mmm? Fame?” rispose lui, concentrato su di me.
“Sì… fame. Faim” tradussi
velocemente.
Lui sbuffò in un sorriso. “No, tu?”
“Nemmeno io”.
“Hai voglia di andartene?” riprese, guardandomi e
socchiudendo gli occhi.
“Non sarebbe ora?” chiesi, aspettando che tirasse
avanti lui la conversazione.
Scosse la testa. “No, non credo”.
“E invece sì per me. Devo studiare”
bofonchiai, amareggiata (dentro di me).
“Ah, capisco”.
Mi lasciò andare.
“Allora vado…” mormorai.
Lui annuì. “Per la verità devo andare
anch’io… sai a ripassare il manuale per stracci e
manici di scopa”.
Sbuffai.
“No, comunque devo andare davvero” riprese.
“Allora, ci vediamo”
“Ci vediamo” mi sussurrò a un passo da
me.
*
Ringrazio chi sta leggendo
questa ff.
|
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Capitolo 7 *** -6- ***
- SESTO CAPITOLO -
*
Quel giorno arrivava mia madre, era il weekend e non sapevo cosa
aspettarmi. Sbuffai.
Non ne avevo proprio voglia. Era una sensazione scomoda che mi prendeva
all’altezza della pancia.
“Bleah” dissi, amareggiata.
Eppure non riuscivo a fare a meno del vederla . Mia madre.
Probabilmente perché dentro di me avevo
ancora bisogno di lei.
“Senti zia, hai preparato di già le lenzuola nuove
per la mamma?”
Anne mi guardò “Si, ho già fatto.
Dovrebbe arrivare intorno alle undici”.
Quando mia madre suonò il campanello, andai io ad aprire.
Fissai i miei occhi nei suoi.
La guardai un lungo istante perdendomi su cosa mai potessi dirle.
“Ciao” disse.
“Ciao” mormorai.
Era un po’ cambiata dall’ultima volta che
l’avevo vista.
“Ti sei tagliata i capelli?” chiesi.
Lei annuì ed entrò in casa. “Ciao
Anne” salutò.
Anne le fece un cenno di saluto con la testa.
“Ti trovo bene” mormorò Lillian, mia
madre.
“Anche tu stai bene così” rispose Anne
di rimando.
Lillian tirò le labbra in un sorriso. “Vi aiuto a
preparare il pranzo?”
“No, è quasi pronto” mormorò
Anne, a denti stretti.
“Va bene”
Mi accomodai a tavola, con mia madre davanti a me, che poteva fissarmi
tranquillamente di continuo negli occhi.
Al pomeriggio dovevo vedere Jen, era sabato.
Mi avvicendai di fuori, richiudendo la porta e il cancelletto bianco.
Sbuffai guardando il cielo: era pieno di nuvole.
Mi avviai verso casa di Jen, intanto presi fuori il cellulare e composi
un messaggio dicendo che stavo per arrivare.
Ciao Jen, sto venendo a casa tua, aspet…
Crash.
Mi girai di scatto, un rumore sordo come di un vaso caduto
destò la mia attenzione e per poco il cellulare
non mi cadde dalle mani.
Sussultai sul posto.
Non era niente.
Un fruscio veloce, come quello che fanno le foglie. Ma succedeva sempre
così?
Ebbi paura, allora doveva essere Loud… quello era il suo
modo di entrare in scena, sbuffai e sorrisi.
Frush. Frush.
Sgranai gli occhi, terrorizzata.
Ma possibile che doveva sempre farmi così paura?
Roteai gli occhi, frastornata.
Una mano gelida mi tolse il respiro, era sulla mia bocca e non
respiravo più…
“Mmm”
“Sta’ zitta” mormorò la voce,
una voce maschile, morbida e profonda…
Biascicai un chi sei?, ma venne smorzato dalla sua stretta sulla mia
bocca.
“Vieni con me” sussurrò ancora.
Non riuscivo a vederlo, era alle mie spalle e mi teneva stretta contro
il suo petto.
“Mmm”
“Sta’ buona, sarà indolore,
vedrai..”
Sgranai gli occhi per la paura e cominciai seriamente a tremare.
Portò la sua bocca a stretto contatto col mio collo, sentii
le sue labbra gelide sfiorare la mia pelle.
Ebbi un brivido.
I suoi denti li sentii contro la superficie del mio collo. Gli diedi un
violento strattone e lui inciampò indietro,
guardandomi un secondo dopo in malo modo.
Lo fissai sgranando gli occhi, spaventata.
Lui fece un debole sorriso e si avvicinò ancora a me.
Eravamo mezzo nascosti dai cespugli della siepe.
I suoi occhi erano come cristalli, e la sua pelle come marmo, i suoi
capelli erano color del grano dorato…
in poche parole aveva un fascino irresistibile.
Sussultai. La sua mano dalle lunghe unghie mi toccò la
pelle, sul viso. Il mio respiro smise di essere regolaer
ed ero certa che il mio cuore non prendesse tutti i battiti.
“Non aver paura” mi intimò, i suoi occhi
s’illuminarono all’istante e lo guardai stupita.
Lui sorrise, beffardo. “Caspita, sei adorabile, il modo in
cui arrossisci… mi fa eccitare” mormorò
sfiorandomi
con il naso il mio.
Passò ancora la mano a toccarmi le guance e
ridacchiò.
“Molto affascinante” il tocco del suo indice e del
suo pollice contro la mia bocca mi fece rabbrividire.
“Ehm… senti…”
“Allora parli?” disse lui, con un sorriso stampato
sul volto.
Alzai un sopracciglio. “Certo, ovviamente”.
Lui passò il suo dito sulle mie ciglia e mi costrinse a
chiudere gli occhi.
Non riuscivo a riaprirli finchè mi teneva il dito sopra. Lo
allontanai di poco e spostai il mio sguardo su di lui.
I suoi occhi cristallini catturavano i miei e mi squadrò
abilmente. “Ma cheri, sei così…
tenera”
Sussultai. Ma cheri?
“Sei francese pure tu?” mormorai, stupita.
Lui corrugò le sopracciglia e fece un passo indietro.
“Che vuol dire pure tu?”.
Ci risiamo con questi francesi che non capiscono i riferimenti della
nostra lingua…
“Dico, come gli altri” riformulai velocemente.
“Come gli altri chi, ma cheri?” si
riavvicinò a me e aspirò il mio profumo
inclinando la testa verso il mio collo…
“Pearl” sussurrò una voce esterna.
Davanti al mio campo visivo apparve Antoine.
“Pearl, Pearl, Pearl. Ma che fai?”
sbottò, indignato, avvicinandosi a noi, con passi pieni di
grazia.
Aprii la bocca come per dire qualcosa, ma non mi uscì nulla.
“Ciao, mademoiselle” mi salutò Antoine,
con un cenno del capo.
“Salve” dissi.
Lui sorrise e lo guardai stupita.
“Dunque… hai già fatto la sua
conoscenza?” mormorò Antoine, a denti stretti,
verso di me.
Alzai le spalle, non sapendo cosa dire.
“Bien, bien Peral. E dimmi che cosa volevi farle?”
Antoine alzò un sopracciglio. “Sono
tutt’orecchi”.
Pearl scosse la testa per non rispondere.
“Contento che tu abbia trovato le
parole…” sussurrò Antoine.
“Ma cheri, se non ti dispiace, porterei via questo
tizio…”
Aprii di nuovo la bocca, ma non uscì ancora nulla.
“Pearl, su vattene”.
Pearl digrignò i denti, irritato e Antoine sorrise. Pearl mi
diede un’ultima occhiata e se ne andò velocemente.
“Scusami, è mio fratello minore”
mormorò Antoine “deve ancora imparare il
mestiere”.
Sgranai gli occhi fissandoli in quelli castano verde di Antoine.
Mi si avvicinò talmente tanto che riuscii a sentire una
fragranza invitante provenire da lui.
Mi vibrò il cellulare e sussultai.
“Scusa…” sussurrai a un centimetro dalla
bocca di Antoine.
“Pronto? Jen… no, è che ho
avuto… sì, ho avuto un imprevisto…
lasciami spiegare…” bofonchiai al telefono.
Sentii lei sbuffare.
“Non è colpa mia…” continuai,
cercando di calmarla e al contempo di darle una spiegazione.
“è tua amica?” sbottò
Antoine. “Porta anche lei qui”.
Lo guardai male.
“Mi vuoi tutto per te, cheri?” mormorò
lui, soffiando sui miei capelli.
Ritrassi la mano col cellulare dal mio orecchio, mi rendeva nervosa
averlo così vicino.
“Chey? Chey?” esclamò Jen
dall’apparecchio. “Ci sei?”.
“Scusami Jen, ti raggiungo a breve”. Chiusi la
chiamata.
Antoine mi sfiorò le labbra, baciandomi delicatamente.
“Saggia scelta” sussurrò, portando una
mano
attraverso i miei capelli.
“Ma cheri…” mi baciò ancora
sulle labbra e poi infilò una mano sul mio seno, delicato
come una piuma.
“Antoine” disse una voce cupa e bassa, offesa e
arrabbiata.
Antoine si voltò, Loud stava di fronte a me, a pochi metri.
“Loud” bofonchiai, non sapendo che parola
spiccicare.
Loud rivolse uno sguardo carico e tradito ad Antoine. Lui lo trattenne
e poi lo abbassò su di me.
“Scusami, ma cheri, ma è ora che vada”
mormorò alzandomi il mento con un dito.
“è stato un piacere”
sussurrò al mio orecchio.
Si allontanò. “Tutta tua”
mormorò di sbieco.
Loud mi si avvicinò. “è un
bastardo”.
Sgranai gli occhi. “No, perché?”
“Perché sì”
biascicò Loud, a denti stretti. “Stai
bene?”
“Certo” alzai le spalle, corrugando le
sopracciglia, confusa.
Loud mi baciò tra i capelli. “Mi sa che devi
andare, ti vibra il telefono”.
“Ah sì, il cellulare…”
Risposi. Era ancora Jen.
“Chey?”
“Sì, arrivo” lo richiusi.
“Scusami…”
“Fa’ niente” lui pareva offeso e restio.
“Ci vediamo, vero?”.
Lui annuì, con un sorriso spento.
*
Ciao a tutti/e e come
sempre, un ringraziamento speciale a chi commenta e legge!
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Capitolo 8 *** - 7 - ***
- SETTIMO CAPITOLO -
*
Arrivai a scuola in ritardo. Era già suonata la campanella.
“Chey, ma che fai?” mi accolse Jen.
Le lanciai una vaga occhiata, seccata.
“Ma pure ieri eri strana, ti è successo
qualcosa?” lei si fece un po’ più
preoccupata.
Alzai le spalle. “No, figurati. Niente”.
Jen tornò a guardare la cattedra. “Ricordati
quello che ti ho detto”.
“Cosa?” mormorai.
“Che se hai bisogno, io sono qui”.
La fissai un istante. “Lo so, grazie”.
Mi sedetti sul banco, ad ascoltare la lezione. Guardai continuamente
l’orologio appeso al muro, era tondo,
grande, enorme… che cavolata. Era piccolo,
invece…
Ma cosa mi prendeva?
Mi sentivo una stupida. Di più, un aliena. Scossi la testa
per cacciare quei pensieri idioti. E mi ripromisi, per questa volta,
di non parlare da sola, a voce alta.
Quandò suonò fu un sollievo, mi fiondai in
corridoio a prendere una boccata d’aria. Sbuffai.
“Uff…”
“Ehi, ti riposi un po’?” la voce di Loud
mi raggiunse da dietro.
Lo guardai. “Sì, e tu?”
Lui alzò le spalle. “Uguale” poi
sorrise.
“Allora, senti…”.
“Perché non ci andiamo a prendere una
lattina?” mi chiese.
“Okay” lo guardai, stupita.
Arrivammo davanti alla macchinetta. “Dunque, che vuoi
tu?” domandai, con lo sguardo perso nella scelta di cosa
prendere.
“Mmm… no, non mi va nulla... Prendila
tu” mi sorrise, mettendomi fretta nel pigiare il bottone.
Lo scrutai male, cercando di capirlo.
“D’accordo” dissi, un po’
confusa.
Presi la mia lattina di coca cola e cominciai a berla. “Ma tu
sei sempre così strano?”
“E tu, sei sempre così strana?” lui mi
fissò, ma non era troppo serio.
Alzai le sopracciglia. “La mia domanda era per
prima”.
Lui scosse la testa. “Dipende che cosa hai in mente tu come
idea di strano”.
“Non ho in mente nulla”.
“Allora non ti posso dire se lo sono o no”.
“Perché hai accusato Antoine di essere un
bastardo, siete amici no?” gli chiesi, incuriosita.
Lui alzò le spalle. “Per la verità,
c’è un motivo”. Smise di parlare e io
aspettai.
“Sarei curiosa”.
“Rimani così allora, sei molto bella”
sorrise, lasciandomi di stucco.
“Ma… “
Loud mi venne vicino, continuando col suo sorriso. Altro che
pubblicità in tv.
“Non ha senso..” continuai a bofonchiare.
“Sì che ce l’ha. Ha senso se ti dico che
sei bella”.
“Hai detto molto” ripresi.
“Lo devo ripetere?”.
“Mmm … no, okay”.
Loud sorrise ancora. “Davvero ti faccio questo
effetto… di essere strano?”.
“Sì, un po’ direi”
“E come mai?”
“Perché… non lo so”
“Ah, fantastico”.
“Sì, ma tu non mi hai risposto”.
“Neanche tu” replicò.
“Io ho detto non lo so” alzai le spalle.
“Senti… ti interessa Antoine che vuoi sapere sul
suo conto?” non capivo l’espressione della sua
faccia quando me lo chiese.
“Mmm… mi interessava sapere come mai hai detto
così… Ma siete fratelli?”
“Come ti viene in mente?” alzò un
sopracciglio, piuttosto sorpreso.
“Niente… è che Antoine ha detto che
Pearl è suo fratello minore... e
così…”
“No. Io e Antoine non siamo fratelli” lui
alzò le spalle, serio.
“Ah, capisco. Ma abitate insieme?”
“Sei un po’ curiosa, eh? Comunque
sì… solamente che io abito in un piano e Antoine
e Pearl in un altro…”
Annuii, mugugnando qualcosa.
“Oggi vieni da me?”
Sgranai gli occhi. “Posso venire da te?”
“Sì, certo”.
“Okay, quindi devo venire in collina?”.
Lui annuì. “Ti aspetto per le sei”.
“D’accordo” questa volta fui io ad
annuire.
“Allora ti saluto che torno al mio lavoro”
alzò lo straccio per mostrarmi.
Tornai da Jen, in classe.
“Adesso va meglio?” mi chiese.
“Mmm… sì, forse” mormorai
più a me stessa che a lei.
Aprii il cancelletto ed entrai in casa.
“Mamma, zia, sono tornata” bofonchiai.
“Chey, vieni qua” mormorò Anne, dandomi
una vaga occhiata di sbieco.
“Sì, che c’è?”
“Tutto a posto?”
“Sì, zia te l’avevo detto giorni
fa…”
“Lo so… ma tua madre è preoccupata,
perché non sa nulla di te”.
Guardai verso il piano superiore. “È di
sopra?” indicai con il viso.
Lei annuì.
“Vado…”
Salii le scale e bussai in camera sua.
“Sì?”
“Mamma… sono io, avevi bisogno di
parlare?”
“Entra un attimo, Chey” il suo tono non era troppo
serio.
Entrai. “Sì, dimmi…”
“Siediti” indicò un punto del letto,
proprio accanto a lei. “Come stai?”
“Bene perché? Tu?” le chiesi, sorpresa.
“Bene… e la scuola?”
“Mmm… sto recuperando” mentii, anche se
non era del tutto falso.
“Davvero?” lei alzò le sopracciglia.
Annuii. “E comunque, quest’anno è
più difficile… sai, poi
storia…”
Sorrise un attimo. “Già, lo so. E
letteratura?”
“Letteratura me la cavo, mi piace”.
Lei annuì, convinta. “È passato troppo
tempo” disse.
Feci di sì con la testa, un po’ amareggiata.
“Ti ho reso la vita triste?” mi chiese, seria.
Scossi la testa, leggermente. “Perché pensi
questo?”.
“Perché sono distante da te e non ci sono
mai”
“No… non è vero”.
Lei mi guardò con rimprovero. “Chey, è
così”.
“Sì, ma non mi hai resa triste”
“Proverò a crederti, anche perché il
mio desiderio più grande è vederti felice, che tu
lo creda o no”
“Ci credo” la guardai con consenso.
“Nonostante non ti possa essere vicina, ti penso tutte le
notti… i giorni sono troppo occupata con i bambini”
mi sorrise e io glielo rimandai.
“E con le persone come ti trovi?”
“Ho solo Jen… per il momento” risposi,
con un mugugno.
Lei annuì. “Sei troppo in gamba, perché
Jen non se ne fosse accorta” rise.
“Già” risi anch’io. Che ero
troppo in gamba, non significava certo che me ne vantassi, ero
solamente
diversa dal resto del genere giovane.
“Allora… non hai conosciuto nessun
altro?” mi chiese, con una nota di curiosità nella
voce.
“Mmm… no, perché?”
Lei scosse le spalle.
“E tu come te la cavi con i bambini?”
“Mi diverto… e impazzisco” sorrise un
attimo. “Ma non ne posso fare a meno”.
“Lo immaginavo” ricambiai il sorriso.
“Forse perché ci sono portata, forse
perché è destino… che noi due stessimo
lontane” aggiunse un po’
malinconica.
“Non lo so, anch’io sento la tua mancanza, ma non
per questo ti odio” ammisi, con sincerità.
“Di questo sono felice” concluse, guardandomi negli
occhi.
“Sai, avevo paura di parlarti”.
“E perché?” mi domandò,
corrugando le sopracciglia.
“Perché è da tanto che non parlavamo e
non ricordavo più come facessimo prima” lei mi
guardò e mi sorrise,
avvicinandosi.
“Ricorda di chiamarmi al cellulare, ogni volta che vuoi. Non
c’è bisogno di preoccuparsi se è da
tanto che non
parliamo, o se hai qualcosa che non vuoi dirmi. Basta che mi dici
mamma, mi sento bene o mamma, c’è
qualcosa che non va. Voglio solamente essere partecipe del tuo umore ed
essere felice se lo sei tu o essere triste per te”
Attesi un attimo, sorpresa. “Grazie”
Il vialetto sembrava più accogliente, quando uscii verso le
sei.
Dovevo raggiungere la collina, si dava il caso che avessi appuntamento
con Loud; cosa che mi sembrava
ancora alquanto strana.
“Vieni da me?“ Un francese? Ma quando mai si era
visto?
Sorrisi, scuotendo la testa, stupita. Nooo, non poteva essere.
Mentre ancora rimuginavo dentro ai miei pensieri, avevo già
raggiunto la collina in bici. L’appostai di fuori e
attesi un segno, lui che venisse all’esterno e mi chiamasse.
Mi misi a braccia conserte, passarono due tre quattro minuti, ma Loud
non si faceva vivo.
Oh mio Dio, e se gli fosse successo qualcosa? Magari per colpa mia, che
doveva incontrarmi?
Mi mordicchiai un labbro, pensierosa.
No… non poteva essere colpa mia… giusto?
“Ehi” biascicò una voce; era di Loud.
“Oh, credevo non ci fossi” ammisi, un po’
stupita.
Lui curvò le sopracciglia. “Perché non
ci dovrei essere stato?” chiese.
Scrollai le spalle. “No… è che non ti
vedevo…”
“Eccomi qui” fece un sorriso a metà.
“Scusami, non sto tanto bene…” gli andai
incontro, abbracciandolo.
Lui rimase un po’ sorpreso, l’avvertii quando
toccai il suo corpo, ma mi avvolse.
“Stai male?” mi chiese, preoccupato.
Annuii. “Sì… e non so
perché. Forse ho la febbre, mi dispiace che mi stia venendo
proprio ora”.
“Non c’è problema, possiamo stare anche
così”
Sussultai leggermente. Ah…
Poi lo guardai in volto, e lui ricambiò lo sguardo.
“Posso continuare a dirti che sei strano?”
mormorai.
Lui fece cenno di sì con la testa. “Anche se non
capisco il perché lo pensi”.
*
Ringrazio chi legge, e:
valevre:
grazie mille, davvero, anche per essere passata di qui e per continuare
a leggermi! mi fa molto piacere :)
|
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Capitolo 9 *** - 8- ***
- OTTAVO CAPITOLO -
*
Era una bellissima giornata quella mattina. Come non ne capitavano da
millenni. Il sole era quasi dorato, e non ero
abituata alla sua vista per poter dire che fosse stato sempre
così. Brillante.
I giorni che erano passati erano come nuvole sul mio cielo, ma forse
non dovevo preoccuparmi troppo, di solito il
peggio doveva ancora venire, e ora non ero decisamente nel peggio.
Di solito al peggio non c’era limite. Non volevo preoccuparmi
con anticipo, volevo semplicemente godermi quella
bellissima giornata di sole e non pensare a nulla. Ma il suo viso, i
suoi capelli e persino quei suoi occhi così luccicanti
mi affiorarono in testa e mi fecero accapponare la pelle, come mai
prima. In realtà, erano passati alcuni giorni dall’
ultima volta. Dall’ultima volta che avevo visto Loud.
Perché doveva già mancarmi? Eppure, ancora non
ero innamorata.
“Chey, hai sentito tua madre?” mi disse Jen,
dall’altra parte del cellulare.
Alzai le spalle. “Lo sai che la pensa come te”
bofonchiai, con poco entusiasmo.
Lei sorrise. “Appunto, concentrati, studia, devi rimanere con
la testa sulla terra, come si osa dire”.
“Veramente è con i piedi per terra”
corressi, scuotendo la testa.
“Va bhè, restaci con quello che vuoi, ma
restaci” replicò ancora lei, con un soffio che
squillò troppo nelle mie orecchie.
Già, dovevo impegnarmi, rimanere sulla terra…
Scossi ancora la testa. “D’accordo, lo
farò” conclusi, annuendo.
“Ehi, ma non mi puoi già lasciare
così!” esclamò lei, con disappunto.
La vista che avevo davanti agli occhi superava qualsiasi aspettativa.
Un parco, la panchina sulla quale ero seduta,
e un meraviglioso cielo rosa e azzurro, contornato dai raggi del sole,
di quel sole un po’ dorato che faticavo a riconoscere.
Sorrisi.
“Hai visto che bella giornata?” mormorai al
cellulare.
Jen, dall’altra parte, annuì, e ne
sentì il mugugno. “È
splendida”.
“Già, è proprio splendida. Senti,
quand’è che ci dobbiamo vedere?” chiesi;
non ricordavo il giorno.
“Siccome oggi siamo a casa, possiamo vederci anche oggi.
Posso passare io” disse; sentii un rumore in sottofondo,
forse stava contorcendo il filo del telefono tra le dita.
“Sei a casa?”
“Sì, ma ti posso raggiungere in breve”
quasi sorrise e il rumore di sottofondo svanì.
“D’accordo. Ti aspetto, sono al parco”.
Jen mi raggiunse che erano passati alcuni minuti, mentre mi godevo con
tranquillità quella pace mattutina, seduta in
quell’isolata panchina; non c’era proprio nessuno.
Mi voltai varie volte indietro, verso la quercia e gli altri alberi e
verso lo spazio dietro di me. Ero come immersa in quella vista, da
sola.
“Ciao” mi salutò, togliendosi lo zaino
dalla spalla e mettendoselo accanto ai piedi, quando si sedette vicino
a me.
“Come stai?”.
La guardai un attimo e annuii. “Tutto bene, e tu?”
Anche lei mi guardò. “Non c’è
male”.
“Mi dai uno specchio? Questa mattina uscendo, mi sono fatta
un livido” mormorai, a denti stretti, ancora imprecando
mentalmente per il piccolo incidente contro lo stipite della porta.
“Accidenti, okay” lei rovistò per un
po’ alla ricerca dello specchietto nel suo zaino.
“Fortuna che ho sempre
l’occorrente” mi sorrise di sbieco.
Presi lo specchio, quando me lo tese, e mi stava su un palmo della
mano. La faccia di un assurdo animale mi
guardò per alcuni secondi, prima di aprirlo e potermi
fissare. La mia frangetta castana, di quel castano non
troppo chiaro né troppo scuro, non spento, ma non troppo
acceso, mi copriva quasi del tutto il livido, o
bernoccolo, sulla fronte. Mmm, mormorai, seccata.
“Ma come hai fatto?” chiese Jen, guardandomi un
po’ sconcertata.
La fissai da sotto le ciglia. “Per la fretta di andare a
vedere il sole” bofonchiai, disillusa.
Era viola, e cercai di coprirlo bene con la frangia. “Si
vede?”
Jen mi scrutò un istante, e scosse la testa. “Non
direi. Non molto”.
“Okay” dissi, porgendole lo specchietto.
“Che cosa facciamo?” mi chiese, rovistando ancora
nello zaino per metterlo via, questa volta bastarono solo
alcuni secondi.
“Perché non andiamo a fare un salto su in
collina?” alzai un sopracciglio, cercando di notare la sua
espressione.
“Perché proprio in collina?”
“Perché no?” rimarcai, decisa sulla mia
idea.
“E che cosa intendiamo fare in collina?” lei
assunse un’espressione stupita, mentre mi guardò.
Scrollai le spalle. “Tutto e niente” le sorrisi,
cercando di convincerla a fare qualcosa, oltre a stare ferme su
quella panchina isolata.
Lei annuì. “Ma niente pericoli”.
“Di quali pericoli parli?” la guardai, sgranando
gli occhi e lei sbuffò, scuotendo la testa.
“Lascia perdere, che è meglio”.
Arrivare a piedi in collina era per me come qualcosa che mi era apparso
solo in sogno, finora, a parte quella
volta con mia madre quand’ero piccola, avevo sempre percorso
quella distanza a piedi.
“Caspita, ma è faticoso”
biascicò Jen.
“Ma no, che dici” le diedi una pacca sulla spalla.
“Come mai ti interessa così tanto?”
Scossi la testa. “Per fare un giro, dai”
“E che si fa quassù?” chiese Jen, dando
un’occhiata in giro, al posto.
Erano presenti abbastanza case, ma la maggior parte occupavano uno
spazio ristretto ed erano tutte ammucchiate,
come se fosse un paesino sulla collina.
“Io ho voglia di avventura” dissi, compiaciuta.
Jen mi squadrò, con la bocca aperta. “Ma allora
sei tu che te le vai a cercare”.
La guardai, sgranando gli occhi. “Ma no”
Lei scrollò la testa. “Figuriamoci… se
non era così” bofonchiò.
“Ma no, ti ho detto che non è
così” rimarcai, corrugando lo sguardo.
Jen mi guardò. “Ma per piacere”
La fissai delusa.
“E dunque?”
“Che cosa?”
“Che cos’è quest’enorme
villa?” lei fissò la villa ad occhi apertissimi.
“È enorme, vero?” la guardai
anch’io, come sempre sorpresa.
“Caspita se lo è, ma che c’è
dentro?”
“Vorrai dire chi… bhè non lo per
certo…” dissi, dandole un’occhiata di
sbieco. Alzai le spalle. “I misteri…”
Psst.
Psst.
Mi voltai di scatto. Ma cos’è?
Jen mi guardò spaventata.
“Cos’è stato?”
“Non lo so” ammisi, alzando le sopracciglia.
“Chey, ma non mi riconosci?”Antoine venne verso la
mia direzione, con fare elegante.
“Antoine, ciao”
“Oh, ecco… dicevo” sorrise, ammiccando
con qualsiasi muscolo del viso. “E tu chi sei?”
squadrò, prima
velocemente, poi soffermandosi in un modo più accurato su
Jen.
Lei arrossì violentemente e la guardai, corrugando le
sopracciglia.
“Sono Jen… mi chiamo Jen” era
visibilmente accaldata in volto.
“Piacere, ma cheri Jen” lui le tese la mano, e se
la strinsero. “Sei molto jolie…”
Jen si voltò fulminea verso di me, sgranando gli occhi.
“Cos’è jolie?” mi chiese.
Trattenni un sorriso. “Sei carina, bella, quello che ti
pare”
Ricevetti uno sguardo di consenso da Antoine, e un sorriso.
“Ma cheri” mi venne vicino “è
da un po’ che non ci si vede” affermò.
“Come stai?”
“Sto bene. E tu?” la sua vicinanza mi preoccupava
non poco.
Notai una cosa curiosa: Antoine mentre parlava, rimaneva sotto alle
chiome degli alberi, e non capivo il perché.
Lo guardai, cercando una spiegazione. “Che bella giornata non
trovi?” gli chiesi, di sbieco.
“Già” lui sorrise.
“Ti piace il sole?” continuai, mentre Jen mi
lanciava un’occhiata confusa.
“Non tanto a dir la verità” ammise,
sempre con il sorriso stampato.
“Ah” dissi. Adesso avevo capito. Era un
po’ come un nemico del sole. Anche a me una volta non
piaceva.
Sorrisi.
“E dov’è Loud?” continuai,
inarcando le sopracciglia.
“Loud? Non è nei dintorni?” lui aveva
un’espressione sorpresa.
“Non penso. Non l’ho visto. Per la
verità sono giorni che non lo vedo” ammisi,
alzando le spalle, perplessa.
“Ah, davvero? Strana cosa” Antoine mi stava
pericolosamente vicino.
Jen ci squadrava a pochi centimetri da noi.
“Non l’hai visto per niente?” continuai,
cercando di spezzare la nostra vicinanza con le parole.
“Era a casa, prima” rispose.
Aguzzai la vista, sorpresa. “A quale casa ti
riferisci?”
Lui si girò verso la villa. “A questa”
disse, il suo tono era serio.
“Voi due abitate qui?” mormorai, incerta.
Lui annuì. “Ma paghiamo
l’affitto” aggiunse.
“Pagate l’affitto?” lo guardai, sorpresa.
“Già, al proprietario” mi sorrise,
guardandomi negli occhi. Mi persi per un istante nei suoi, ancora,
ancora…
“Ho capito” dissi, quando riacquistai le parole.
“Comunque, complimenti per la casa”
“Grazie. E la tua amica non parla?” Antoine rivolse
lo sguardo verso Jen, che lo fissava a occhi mezzi chiusi.
“Tutto bene, ma cheri?” lui la guardò,
un po’ preoccupato.
Jen si destò impercettibilmente e annuì.
“Sì, certo, grazie”
Antoine sorrise, era un bellissimo sorriso.
“Posso entrare?” chiesi, rivolta verso
l’entrata della villa. Il portone era davvero enorme.
Lui mi squadrò un instante. “Certo” il
suo tono era allusivo, ma continuò a sorriderci.
Mi avvicinai al portone d’ingresso, e mi voltai
un’altra volta verso Antoine, guardandolo negli occhi,
lui aveva sempre quel sorriso di prima…
“Ehm… puoi aprire?”
“È aperto, entra” disse, inclinando la
testa.
“Ah, okay” aprii, tastando sulla porta. Si
aprì ed entrammo.
“Caspita” dissi squadrando l’incantevole
e alto soffitto, e così fece pure Jen.
“Ma quant’è alto?” disse lei,
a bocca aperta; Antoine sorrise.
“Dunque, se vi volete accomodare, possiamo andare di
là. Seguitemi, pure” si incamminò a
sinistra,
verso un’altra enorme porta e noi lo seguimmo. Poi, entrammo
dopo di lui.
“E questo è il salotto?” chiesi.
Antoine si girò a guardarmi e annuì.
“Accomodatevi, arriva il tè”
Ci sedemmo su delle poltrone magnifiche, parevano importate da un altro
stato, e il tappeto a terra era rosso
e oro, di un tessuto che pareva pregiato.
“Chey” disse una voce in lontananza. Loud si
avvicinò a noi.
“Loud, questa è casa tua… potevi anche
dirmelo” lo fissai, alzando le sopracciglia.
“Già” lui sorrise. “Che ci
fate qui?”
“Nulla, un controllino” biascicai, continuando a
fissare i suoi incredibili occhi.
“Ah” mormorò lui, sempre col suo
sorriso. “Benvenute a casa nostra, allora. Antoine gli hai
offerto il tè?”
Antoine lo guardò. “Sì, lo stavo
andando a prendere” fece un sorriso compiaciuto.
“Ma siete ricchi, quindi?” domandai, perlustrando
con lo sguardo il posto, ad occhi spalancati.
Antoine rise. “Non così tanto come ti immagini, ma
ce la caviamo, sì”
“E poi, bè… siete francesi”
mormorai, a denti stretti.
Lui mi lanciò un’occhiata. “Ah quindi
dovremo essere ricchi?” rise.
Annuii. “Già, perché non è
così?” corrugai le sopracciglia.
“Non proprio” lui era divertito. Uscì
dalla stanza.
Loud si sedette al divano rosso e oro, che era al centro della stanza,
di quello che chiamavano salotto.
“Allora, che mi raccontate?” accavallò
le lunghe gambe esili, aveva i pantaloni beige, incollati… e
notai
un anello bellissimo al suo dito, rosso con un rubino.
Lui notò il mio sguardo e mi fissò negli occhi.
Lo distolsi e mi concentrai sulla domanda. “Nulla di
particolare,
devo recuperare qua e là, e tu che ci racconti?”
Sorrise. “Non molto. Questa collina diventa assai noiosa, se
non hai nuova gente…”
Ebbi un brivido, leggero. “Già”
“Mi fa piacere che siate passate”.
Non capivo il suo tono, a volte sembrava più sicuro di
sé, quasi arrogante nel modo di porsi, e altre volte mi
sembrava più propenso ad una sensibilità normale.
O forse ero solo io che mi facevo di quelle paranoie.
Probabilmente non lo avrebbe notato nessun’altro o
nessun’altra.
“State comunque attente ad aggirarvi da queste
parti” il suo sguardo divenne serio. “Non si
è mai certi di chi si
potrebbe incontrare”.
Lo guardai, concentrandomi sui suoi occhi, e anch’io assunsi
un’espressione seria, ma nel mio volto ce n’era una
anche interrogativa.
*
Ringraziamenti a chi mi
legge e a:
valevre:
grazie mille! :) ehhh ci sarà un po' di tutto, piano piano
questi personaggi si vedranno meglio, penso hahaha !
|
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Capitolo 10 *** - 9- ***
- NONO CAPITOLO -
*
“Ecco qua” ritornò Antoine, con due
tazze di tè su un vassoio. “Per voi”.
Jen fece un sorriso di circostanza, e io la seguii. “Grazie
mille, Antoine”
Lui fece un breve inchino col capo e si andò a sedere.
L’unica cosa che ci separava da loro due era quel tavolino
nel bel mezzo del tappeto e della sala.
Sbuffai.
“Scotta troppo?” chiese Antoine, inarcando un
sopracciglio.
Lo guardai, inclinando la testa. “Mmm? Oh, no, no, va
benissimo” mi corressi in fretta, con un breve sorriso.
“Bene, allora” mi sorrise anche lui.
“Senti Loud, mi mostreresti il resto della casa?”
asserii, spostando di scatto la mia attenzione a lui; Antoine
non sembrò molto contento.
“Mmm… d’accordo”.
“Perfetto. Torniamo subito” diedi
un’occhiata di sbieco a Jen, mentre uscivo dalla stanza,
seguendo Loud.
“E dov’è che vuoi andare?” mi
chiese lui, quando la porta fu richiusa.
Alzai le spalle. “Tutta la casa, se vuoi”.
Inarcò le sopracciglia verso una direzione immaginaria.
“D’accordo, ti mostro il possibile”.
Annuii.
Tutto per chiedergli spiegazioni.
Attraversammo la hall, e ci dirigemmo in un paio d’altre
stanze, erano più o meno come quella chiamata sala,
però alcune ospitavano mobili diversi.
Parevano sempre d’antiquariato.
“Da quant’è che abitate qui?”
Lui ci pensò su un attimo. “Decenni”
“Decenni?”
“Anni”
“Quanti anni?” chiesi, curiosa.
“Mmm… non saprei, non ricordo” mi fece
un sorriso furbo.
Alzai un sopracciglio, quando lui si stava già dirigendo
verso un’altra stanza.
“E questa che sarebbe?”
“La cucina” entrammo, e richiuse la porta.
“Senti…”cominciai, notando che eravamo
gli unici due a stare lì dentro.
“Sì?” lui alzò le
sopracciglia, curioso.
“Dunque…” venni interrotta ancora.
“Volevi chiedermi qualcosa?” rimarcò
lui, le braccia conserte; ma il viso non era teso in un espressione
dura.
Annuii. “Cos’ha fatto di sbagliato
Antoine?”
Lui mugugnò. “Ti ha per caso versato del veleno
assieme al tè?” scherzò.
“Ma no” sbuffai, contrariata. “Cosa
c’è che non va con lui, come mai hai detto che
è cattivo? Vorrei sapere un
po’ della vostra storia, se non ti dispiace”.
Lui, a sorpresa, sorrise. “D’accordo…
allora… veniamo da Toulouse, un piccolo paese della
Francia…”
fece una piccola pausa. “… e avevamo il desiderio
di trasferirci in America, da tutti vista come la grande
patria…”
Inarcai le sopracciglia. “La grande patria?”
“Certo. Anche in Francia ce la cavavamo bene, ma dicevano che
in America… bè in America, si stava
meglio”.
Sgranai gli occhi, leggermente. “Ah, davvero?”
Lui fece di sì con la testa.
“E allora?”
“Allora, siamo partiti”.
“Ma cosa c’entri tu con Antoine?” chiesi,
veramente curiosa.
“Abitavamo nello stesso collegio”
“Andavate in collegio?” sgranai ancora gli occhi,
stupita.
“Già”.
Pensai a mia madre, che magari badava bambini e ragazzini come
loro… della loro bellezza e…
“E dunque, siamo capitati qui, cioè le nostre
maestre ci hanno fatto capitare qui”.
“Maestre?”
“Insegnanti, docenti, come le chiami tu?”
Annuii. “Ah sì, sì, ho
capito”.
“E ci siamo stanziati in questo posto, bè in
questa villa” lui guardò
l’immensità del soffitto e pure io lo feci.
“E vi trovate meglio?” chiesi.
Lui annuì. “Ci troviamo bene e ce la caviamo pure,
insomma ormai ho imparato il mio lavoro
d’inserviente” rise.
“Già” mi feci contagiare; aveva quel
sorriso che era impossibile resistergli…
“Ma quindi quali sarebbero le vostre maestre?”
Sorrise. Era divino. “Sono tre insegnanti e tre di supplenza,
e ci hanno portato con loro fino a qui…”
“E vivete tutti assieme?” corrugai le sopracciglia,
confusa.
Lui annuì. “Sì, in questa
casa… o villa, o come preferisci chiamarla. Ma ognuno ha la
sua stanza ovviamente…”
“Ovviamente” mi scappò, rimarcando la
sua stessa parola, annuendo convinta.
Sorrise ancora, ma lo trattenne.
“E quanti siete?”
Lui mi guardò strano.
“Dico, voi ragazzi?” mi uscì
un’espressione curiosa.
“Una quindicina, credo” lui fece finta di
immergersi nei pensieri, ma io ero troppo brava a pensare, per capire
che in realtà non lo faceva davvero.
Annuii. “Però… siete
abbastanza”.
“Devi contare che eravamo in un collegio”.
Pensai a mia madre e ai suoi bambini, di nuovo…
“In effetti… come mai solo quindici?”
Rise. “Ma non avevi detto abbastanza?”
“Ho sbagliato, pensandoci…” sorrisi, di
strascico.
“Già. Bè in origine eravamo di
più…”
“In origine?”
“Sì, dico in Francia”.
“E che è successo? Non ve li siete portati tutti
dietro?” inarcai le sopracciglia, ancora più
confusa.
“No, in effetti, no”
“Ah e come mai?”
“Non erano idonei a spostarsi” disse lui serio.
Annuii, mugugnando qualcosa di incomprensibile.
Ma pensa te…
“E quale sarebbe la tua stanza?” chiesi, dando una
veloce occhiata all’immensa cucina (più del doppio
della mia).
Lui fece cenno di seguirlo. “È al piano
superiore” disse. Lo seguii.
Le scale non avevano niente a che fare con quelle di casa mia; erano
rinomate, pregiate, di rosso e d’oro, con
rifiniture e abbellimenti.
Pareva di essere in una villa Ottocentesca.
“Ma non avevi detto che dovevamo tornare subito di
sotto?” mi disse lui, sorridendo.
“Già…”
Sorrise ancora. “Dunque questa è la mia
stanza”.
Entrai, e mi fece passare per prima.
“Wow, è bellissima” ammisi. Le pareti
erano di un bianco sporco, che sì, sapeva di francese,
nonostante fossimo
in America (magari era per rimarcare le loro origini).
I quadri alle pareti erano di celebri artisti francesi, ed erano tutti
in sintonia tra loro. Colsi alcuni quadri che riflettevano
la femminilità e la bellezza della donna.
Il pavimento in legno era ricoperto al centro da un tappeto blu e
rosso. L’unica finestra era rettangolare e alta forse
un metro.
Aveva un’armadio striminzito (che per la loro ricchezza, a
giudicare dalla casa che possedevano, io avrei sicuramente
ampliato e riempito), e una scrivania sempre in legno, con sopra un
sacco di fogli sparsi e accartocciati.
“Appunti?” chiesi, indicando con lo sguardo il
tavolo.
Lui seguì i miei occhi e mugugnò qualcosa,
annuendo.
“L’hai arredata tu?”
“Io e le mie maestre”
“Ti hanno aiutato loro?”
“Bè, io di certo non potevo permettermi questa
roba” allargò leggermente le braccia.
“Ma loro sono ricche?”
“Lo sono diventate” rispose, volendo terminare
lì il discorso.
“Ah…” mi mordicchiai un labbro.
“Giusto, quando siete arrivati qui eravate anche
più piccoli…
perciò…”
Lui ci pensò un secondo e poi annuì.
“Già”.
“Ha senso”.
Sorrise. “Perché non ne dovrebbe avere?”
“Perché è tutto così
strano”.
“Dunque, io sono strano, questa stanza è strana,
questa casa è strana, e la mia famiglia è
strana…” alzò un sopracciglio,
divertito.
“La tua famiglia?” domandai.
Lui annuì. “Sì, tu come la
chiami?”
“Ah… non hai più i tuoi
genitori?”
“No, nessuno dei due”.
Guardai a terra, amareggiata. “Mi dispiace. Sono
morti?” non volevo essere troppo invadente, ma ora che aveva
cominciato a parlare, perché fermarlo?
Scosse la testa. “Per la verità, non ho
più saputo nulla di loro. Mia madre mi ha abbandonato e mio
padre credo
avesse abbandonato lei. Nessuno dei due mi ha più
cercato” concluse.
“Capisco, bè, mi dispiace, scusa se lo
ripeto”.
Mi guardò, facendo segno con la testa che andava tutto bene.
“E Antoine?” ricordai che non avevamo finito il
discorso.
Lui alzò un sopracciglio. “Dunque che vuoi
sapere?”
“Vorrei sapere la storia…”
“La storia è ampia, e a tratti incomprensibile,
magari… comunque, Antoine è una persona
emblematica e ambigua.
Lo si vede anche da come si pone e da come si presenta. Dimmi o no se
non ti pare avere una certa grazia femminile…?
È perché è sin troppo originale, e
sensibile nella sua personalità e nel suo carattere. Io,
personalmente, non l’ho
mai capito. Pearl, che è suo fratello, qualcosa in
più di certo ci capisce.
Ma Antoine… ecco, abbiamo avuto un episodio non tanto
carino, una volta…che ci è capitato insieme,
e…
preferirei non parlarne”.
Sgranai gli occhi. “Un episodio? Di che genere?”
“Genere pericoloso” acuì lo sguardo e
rabbrividii.
“Ah, capisco”.
Per un momento, mi aveva fatto paura.
“E Pearl? Invece, lui è un santo?”
Sorrise. “Non ho detto che Antoine è un diavolo e
non dirò che io e Pearl siamo santi”.
“E quanti altri ragazzi come voi, ci sono oggi in
casa?” incurvai le sopracciglia.
“Nessun altro”.
“E come mai?” mi feci sempre più
curiosa.
“Sono via”.
“Ah, sono usciti”
Lui vagò per un attimo con lo sguardo nel vuoto, poi
annuì.
“E le maestre? Insomma, le vostre insegnanti
francesi?”
“Sono via pure loro”.
Annuii di nuovo, un po’ perplessa.
“Dunque, ti va uno spuntino, o preferisci passare
un’altra volta?”
Che cosa intendeva con “passare un’altra
volta”?
Lo guardai, confusa e feci cenno di sì (non so nemmeno io il
perché). “D’accordo, un’altra
volta”.
“Sicura, che non vuoi nemmeno uno spuntino?” i suoi
occhi brillarono per un istante come fiammelle nei miei e
avvampai di calore.
Sorrise. “Non metterti paura, sono innocuo” disse.
Mmm… non sapevo se credergli, veramente…
*
Ciao a tutti e ringrazio chi legge la mia ff *_* e:
valevre
grazie mille che continui a seguire! eh sì ero riuscita a
scriverli ravvicinati, spero piaccia anche questo chap, si capisce
qualcosa in più! :)
|
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Capitolo 11 *** -10- ***
- DECIMO CAPITOLO -
*
Da quando avevamo
parlato, non riuscivo a non pensare a lui. Non riuscivo a non pensare a
Loud.
Più ci provavo e meno concludevo. Avevo persino fatto un
programma mentalmente, per distrarmi dal pensarci.
Dunque faceva più o meno così: colazione
strascicata, poi un po’ al computer a scaricare le e-mail e a
navigare,
poi a leggere uno dei libri sulla mia lista ancora da finire.
Poi pulizia che comprendeva quella della mia camera e di un
po’ del piano inferiore. Aggiunsi anche il garage.
Così andava tutto a posto (o almeno secondo il mio calcolo
mentale).
In realtà, le cose non andarono così.
Feci colazione e sì al computer e sì pulii la mia
camera e il piano inferiore e il garage, ma era impossibile per me
togliermelo dalla testa.
Non riuscivo a non pensarci.
Era come essere in una cella e aver perso la chiave.
I miei pensieri giravano come indisturbati alla velocità
della luce, mentre avrei voluto solamente poterli fermare.
Il suo volto mi appariva assieme così nitido eppure
sbiadito, nel momento in cui ne tracciavo i contorni a mente,
come se avessi una matita e lui fosse il mio ritratto, ne perdevo i
reali lineamenti.
Ancora non avevo ben chiaro che cosa provassi per lui. Mi sentivo come
una pedina nelle sue mani, immobilizzata
e incapace di fare una mossa se non approvata.Qualsiasi cosa facessi
lui rientrava nei miei pensieri, eppure in realtà
lui non c’era, non sapeva… che cosa mi faceva.
Arrivai a scuola in ritardo e quando posteggiai la bici per poco non mi
cadde.
“Bisogno d’aiuto?” mi voltai e vidi un
ragazzo alto e snello affiancato ad uno in sovrappeso.
Scossi la testa.
Lui mi accennò un sorriso e l’ amico
più basso di lui mi guardò ancora, mentre si
allontanava.
“Maledizione” biascicai, poggiando bene la bici e
richiudendola col lucchetto.
Mi incamminai verso la mia prima lezione, l’aula in fondo al
corridoio. Jen mi aveva tenuto il posto, la ringraziai
mentalmente.
“Che è successo?”
Alzai le spalle, dandole una veloce occhiata e sedendomi accanto a lei.
“Da quant’è che ha cominciato a
spiegare?”
Lei alzò un sopracciglio e sbuffò, voltandosi di
nuovo verso il professore.
Sbuffai anch’io. Quella materia era noiosa.
Quando raggiunsi la mensa scolastica il polentone di gente si era un
po’ amalgamato ad un angolo, e a far la fila
per prendere il cibo non c’erano rimaste granchè
persone.
Chiesi qualcosa che mi andasse bene e presi posto ad un tavolo
qualsiasi. Jen non c’era.
Mangiai abbastanza velocemente, avevo circa mezz’ora.
Da lontano, vidi Loud entrare. Il mio cuore ebbe un sussulto e un
fremito, e cercai di metterlo a tacere.
Mi vide e mi raggiunse, accennando un sorriso.
“Ehilà”
Lo guardai, corrugando le sopracciglia.
“Mangi?”
Annuii, guardando il cibo che avevo quasi finito. “Sei di
buonumore?”
Lui fece di sì con la testa. “Sì, oggi
è una di quelle giornate in cui mi sento meglio”.
“Mi fa piacere” lo guardai, cercando qualcosa nei
suoi occhi… cercando qualcosa che mi dicesse che gliene
importava veramente di me…
“Posso?”. Annuii e si sedette davanti a me.
“Ma quanta fame hai?”
“No è che non voglio far tardi alla prossima
lezione, e devo recuperare anche degli appunti,
così…”
“Ah, ecco spiegato” indicò la mia fretta
nel finire e trangugiare il cibo.
“Già”.
“E tu come stai?” si fece più cupo,
scrutandomi.
Alzai le spalle. “Leggermente bene, me la cavo”.
Sorrise un attimo. “Fantastico umore, anch’io lo
sento spesso”.
Non sapevo se mi stesse prendendo in giro, così mi limitai a
succhiare dalla cannuccia del mio succo di frutta.
“E cosa fai oggi?”
“Oggi nulla” biascicai, il rumore si faceva noioso,
smisi di succhiare.
“Nemmeno io” guardò di lato e si
soffermò su alcune facce.
Mi chiesi chi stesse guardando.
“Mmm… chi è quello
lì?” chiesi, curiosa, indicando il tizio che mi
aveva chiesto se avessi bisogno d’aiuto con la bici.
Loud si soffermò su di lui. “Ah, quello
è Seb, uno di noi” mi lanciò un vago
sorriso.
Alzai le sopracciglia. “Ah, uno di voi, e pure quello
più basso?” indicai quello accanto a lui, quello
in sovrappeso.
Loud scosse la testa. “No, lui è suo
amico” ritornò a guardare me.
“Ah”.
Qualcuno entrò in quel momento, catturando la mia
attenzione.
Sgranai gli occhi, quando incontrai i suoi. “Chi
è?” mormorai a Loud, di sbieco.
Lui lo guardò e storse il naso, facendo una smorfia.
“Orrore” disse.
“Orrore?” ripetei, curiosamente.
Lui alzò le spalle. “Orrore. Licantropo, come lo
vuoi chiamare”.
Tornai a guardare il nuovo arrivato. “Che ci fa
qui?”
“Credo frequenti, il terzo anno mi
pare…”
Non riuscivo a distogliere lo sguardo dal licantropo. “Ha
altri come lui?”
Loud ci pensò. “Probabile, non credo sia
l’unico licantropo che frequenta” mi
guardò di striscio.
“Già” mormorai, dandogli ancora
un’occhiata. Era vestito completamente di marrone scuro e
nero, e teneva
i capelli sciolti, ruffi e ricci, castani.
I suoi occhi castani incontrarono i miei per una frazione di secondo.
Sussultai. “Mi fa una strana sensazione”.
Loud fece una smorfia. “Anche a me”.
“Sì ma io dicevo in un altro senso” lo
contraddissi.
Si girò verso di me. “In che senso?”
“Nel senso, che mi mette soggezione”.
“Io lo odio. Sì, è diverso”.
“Ma se non lo conosci neppure” gli feci presente.
Lui alzò le spalle, e fece di nuovo una smorfia.
“Non importa, quelli della sua specie non li posso
sopportare”.
“Come il gatto e il topo?” alzai un sopracciglio.
Mi guardò. “Come il gatto e il topo”.
Annuii. Eppure quel licantropo avevo la sensazione di averlo
già visto, da qualche parte.
“Devo tornare al lavoro” mi lanciò una
veloce occhiata.
“Sì, pure io devo tornare, ci vediamo”
borbottai, alzandomi.
“A presto” mi lasciò, uscendo dalla
mensa.
Mentre raggiungevo anch’io l’uscio della porta,
incontrai di nuovo lo sguardo del licantropo e fremetti.
Non si staccò dai miei occhi per un lungo istante. Mi chiesi
che cosa c’era che non andava.
*
Ringrazio coloro che
continuano a leggere questa ff, e sperando che ancora vi piaccia... e :
valevre:
grazie mille di continuare a seguirmi, commentare e farmi complimenti!
:)
|
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Capitolo 12 *** - 11- ***
- UNDICESIMO CAPITOLO -
*
Quando raggiunsi casa mia, il cancelletto era già aperto.
Entrai.
“Mamma, zia?”
Mia madre venne in cucina. “Tesoro, mangia che è
ancora in caldo”.
Anne ci raggiunse di lì a poco.
“Devo tornare al collegio” mi disse Lilian,
sistemando l’insalata sul tavolo.
“Così presto?” bofonchiai, alzando le
sopracciglia.
Lilian mi lanciò un’occhiata.
“Tornerò appena posso, promesso” mi
diede un bacio in fronte.
“Mi ero già abituata” alzai le spalle,
amareggiata.
“Eppure non sono rimasta molto” mi
lanciò un sorriso, sistemandosi a tavola.
“Mi mancherai” ammisi.
Lei mi fissò un secondo, i suoi occhi brillarono nei miei.
“Anche tu, Chey, davvero. Dirò agli altri bambini
che mia figlia è cresciuta in un modo stupendo, e
dirò che se fanno i bravi anche loro potranno diventare come
te”.
Sussultai. “Grazie. È davvero carino come
insegnamento”.
“Già, non tradire la loro fiducia”.
Scossi la testa. “Rimango così”
biascicai, cominciando a mangiare.
Anne mi lanciò un’occhiata e poi guardò
Lilian. “Ti aspettiamo per dicembre?”
Lilian le rispose all’occhiata e annuì.
“A questo punto, credo di sì”.
La salutai, che erano appena le sei del pomeriggio. Mi sarebbe mancata,
e non era una bugia.
Mi aveva fatto compagnia nei giorni in cui era rimasta, e pensare di
non rivederla per mesi, mi riportava alla
mente tutto il periodo di assenza che avevo già provato.
Senza di lei.
La sera passò più o meno in fretta, telefonai a
Jen.
“Pronto?” fece lei.
“Pronto” risposi.
“Hai studiato?” continuò.
“Cosa?”
“Chey?” si spazientì, la sentii
sbuffare.
“Sì, sto studiando, davvero. Guarda, proprio qui
sotto di me, ho un quaderno e un libro aperti” presi
velocemente
un libro e un quaderno e li aprii.
“Mmm… d’accordo. Domani vediamo come
andrai all’interrogazione”.
“Dai, non mettermi fretta” aggiunsi, richiudendo il
libro e il quaderno.
“Però guardaci nei miei appunti”
bofonchiò, la sentii accendere la televisione.
“Certo, me li leggo tutti d’un fiato”.
Sbuffò e sentii che sgranocchiava qualcosa. “Sei
sempre la sciolita” biascicò.
Sorrisi. “Allora, ci vediamo domani?”
“Aspetta. L’hai più visto Loud e
compagnia bella?”
“Compagnia bella?” Alzai un sopracciglio, pensando
a quella definizione.
“No, a parte per stamattina alla mensa”.
“Ah, l’hai visto alla mensa?”
“Sì, solo Loud. Era strano, felice più
del solito” pensai a lui, che mi diceva che stava bene.
“Ah” sembrava sorpresa. “E
Antoine?” mi chiese.
“Antoine, no, non l’ho più visto dal
giorno prima”.
“Ma possiamo andare sempre a trovarli, no?”
Sgranai gli occhi. “Certo, almeno penso”
bofonchiai, alzando le spalle.
“D’accordo” la sua voce si fece
più lieve, dall’altra parte
dell’apparecchio. “Allora adesso mi guardo la
tivù,
ci sentiamo domani” bofonchiò, chiudendo la
chiamata.
Feci un cenno d’assenso e riposi il telefono.
Mi guardai in giro, la stanza sembrava come sospesa in
quell’atmosfera che si creava di sera, dove non
c’era nulla pressoché da fare.
Sbuffai. Non sapevo perché, avessi una terribile voglia di
vederlo. Di stringere Loud più forte che potevo.
Eppure avrei giurato di non provare ancora nulla di forte per lui.
O forse era qualcosa che mi ingannava, che mi faceva pensare a quello.
Ma non lo sapevo. Non sapevo perché anche quella stessa
notte lo sognai e mi apparve in sogno come un angelo,
dalle bianche ali, e dagli occhi azzurri, e quei dannatissimi e
splendidi capelli biondi… tutto mi faceva sciogliere tra
le sue braccia, ed eravamo come due statue che si baciavano e si
intrecciavano in un abbraccio infinito, perso
nell’oscurità della notte e assieme illuminato da
una luce magica, inspiegabile che proveniva dal nulla, o forse da noi.
Ed ero felice. In quel sogno, lo stringevo forte a me, così
forte a me che mi parve di poterlo sbriciolare sotto le mie
stesse mani, sotto le mie stesse dita.
Lo abbracciavo così potentemente, da sentirlo mio con tutto
il corpo.
Eppure non ero ancora innamorata di lui.
Quando il giorno dopo mi svegliai, quello strano sogno mi
accompagnò fino a scuola, sentii la mancanza di mia
madre, quando feci colazione con Anne. La salutai, con un sorriso un
po’ triste negli occhi. Sapevo che dovevo
impegnarmi a scuola per lei, che mi aiutava sempre, ogni giorno e per
Lilian, che lo faceva indirettamente,
amandomi a distanza.
Varcai la porta della mia prima lezione e quando ne uscì
incontrai il suo sguardo, in una moltitudine di altri. Ma
nonostante quegli sguardi fossero così tanti, io vedevo solo
il suo.
Eppure, potrei giurare di aver sentito il mio cuore fare un sobbalzo
per poi tornarmi a battere nel petto. Ma non
credo che fosse perché sentissi ancora qualcosa di
così forte per lui, almeno non precisamente in quel momento.
Era strano che cosa potevano fare i pensieri, assieme a loro
c’era quella forza distruttiva che si portavano con
sé,
un arma a doppio taglio. Più mi convincevo di non provare
nulla, più pensavo a quanto magari invece tenessi
a lui, indirettamente. Pensavo che in realtà, già
provavo qualcosa per lui.
Eppure, non ero sicura di niente. Non ero sicura di nulla, mi sembrava
di viaggiare alla velocità della luce su una
montagna russa, e di averlo accanto a me, a volte senza una luce a
illuminargli il viso, a volte come se avesse una
luce da palcoscenico puntata addosso.
A volte lo sentivo così vicino, a volte sentendolo
così vicino lo sentivo invece così lontano.
Eppure era sempre accanto a me, nei miei pensieri, come se non se ne
potesse mai andare.
Lui restava lì, come se fosse immortale, dentro ai miei
pensieri, lì non moriva mai.
Avevo paura per quello che stavo pensando, per quello che stavo
provando. Non volevo provare qualcosa di
troppo forte, di così forte che mi faceva pensare a quelle
cose.
Dovevo concentrarmi sulle prossime lezioni,
sull’interrogazione imminente della terza ora, su altro, su
studiare, i compiti…
eccetera… eccetera… e poi appariva lui in mezzo a
quel nulla, in mezzo a quel niente
non segnato, non confinato, appariva lui, nonostante cercassi di
cacciarlo. Che cosa c’entrava, ancora?
Non era quello che provavo in quel momento che ora mi spaventava. Ma il
saperlo sempre lì costantemente
nei miei pensieri, qualsiasi cosa in realtà provassi per
lui.
Il vederlo sempre apparire in mezzo al nulla, in mezzo a quel nulla,
era più spaventevole di qualsiasi altra
cosa, perché mi appariva sempre?
Che cosa c’era che doveva succedere? Che cosa c’era
che doveva accadere?
Che cosa c’era in realtà tra di noi?
Mi guardò ancora, quando finii di pensare a quei pensieri.
Mi sorrise lievemente da lontano e io feci lo stesso, ma mi diressi
verso la mia prossima aula.
*
Ringraziamenti a coloro che
leggono e a:
valevre eheh
parlano così di licantropi, perchè nel capitolo
1, lui dice che esistono e gli spiega che ci sono i licantropi anche
lì da loro... non so se sia chiaro... dimmi pure se non si
capisce, magari mi è sfuggito qualcosa ;)!
e grazie mille per i complimenti... : )
|
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Capitolo 13 *** -12- ***
- DODICESIMO CAPITOLO -
*
Quando mi perdevo in quei pensieri, era ancora più difficile
svegliarsi la mattina. Sbadigliai, ma non servì a nulla,
dovevo svegliarmi, dovevo alzarmi. Sbadigliai ancora.
Pensare a lui era peggio di qualsiasi droga, se mai ne avessi presa
una. Era peggio, quando il suo viso dalla mia testa
non se ne voleva andare.
E provare a scacciarlo era pressoché inutile, come
continuare a sbadigliare.
Aprii gli occhi e li richiusi un istante, per poi riaprirli. La
semi-oscurità della stanza sbiadì dentro ai miei
occhi in qualche
attimo, e mi alzai per aprire la finestra. La giornata di fuori faceva
schifo, era tutto nuvole e grigiume. Guardai sul
comodino e diedi un’occhiata alla sveglia digitale. Non erano
neanche le sette.
Sbuffai. Guardai fuori dalla finestra, ma non c’era nulla di
bello che mi desse un tono allegro, quella mattina. Erano
sempre quelle cento nuvole sparse e quel grigio fumo, depresso.
Raggiunsi il piano inferiore e mi infilai in cucina, facendomi un
toast. Quando uscì dal tostapane me lo scroccai in
bocca.
Era una cosa terribile continuare ad avere in testa un viso preciso di
una persona, e non poterlo togliere, mentre
dovevi comunque continuare a vivere la tua vita.
“Chey, tutto bene?” mi si avvicinò Anne,
con espressione preoccupata.
La guardai un attimo, alzando un sopracciglio e annuii.
“Sembri più strana del solito” mi
scrutò, accigliata.
Scossi la testa. “No”.
“Se lo dici tu” abbassò lo sguardo sul
suo piatto appena preparato. “Hai recuperato qualcosa a
scuola, perlomeno?”
Annuii. “Sì, l’interrogazione era
sufficiente”
Annuì anche lei. “D’accordo, bene.
Allora ti manca qualcos’altro”
“Sì”. Decisamente
qualcos’altro.
“Ha telefonato tua madre, ieri sera, mentre eri crollata nel
letto. Ti cercava e ti voleva salutare”
“Ah” alzai le sopracciglia “grazie per
avermelo detto. La saluterò appena la richiamo”
Annuì. “Certo, mangia ora”
Uscii da quella confortevole casa per immergermi nel freddo pungente di
quella mattina, e guardai ancora una volta
il cielo, ma non era cambiato di una virgola.
Mi strinsi nel cappotto e inforcai la mia bici congelata nel garage.
Arrivai a scuola, passando da casa di Jen non
l’avevo vista.
Entrai nella mia prima aula di quel giorno; avevo scienze.
Raggiunsi il mio posto a sedere, ma Jen non c’era. Presi il
cellulare dalla tasca e le scrissi un messaggio.
“Jen, dove sei? Sono a scuola”.
Aspettai che mi rispondesse.
Passarono due ore, ma da lei nessuna risposta. Mi preoccupai. Che cosa
poteva aver fatto?
Non poteva dirmelo subito se era malata? O se, cosa piuttosto strana,
non aveva studiato?
Guardai di nuovo il cellulare. “Un nuovo
messaggio”.
Lo lessi.
“Chey, scusa è che mi sono ammalata. Prendi anche
per me gli appunti, grazie”.
“Fantastico” biascicai. Non bastava che dovessi
recuperare, già difficile per me, ma pure seguire in diretta
la lezione
e prendere appunti.
Sbuffai ripetutamente, senza farmi sentire.
Il professore doveva ancora entrare, e detti un’occhiata agli
altri studenti.
Dalla porta aperta, in cui si entrava in aula, intravidi il viso di
Loud e sgranai gli occhi, fremendo. Non poteva essere.
Doveva essere ancora nei miei sogni.
Guardai meglio, ma era lì. Era lì che mi fissava,
mandandomi un sorriso a distanza. Lo ricambiai, e lui alzò
una mano
allontanandosi.
Abbassai gli occhi sul mio banco ancora vuoto, e mi ci persi,
sprofondando nei miei stupidi pensieri.
Perché doveva essere sempre lì? E se non
l’avessi visto, mi sarebbe mancato?
Quando terminò scienze, mi fiondai alle macchinette; avevo
una fame.
Clanc. Spinsi il bottone della merendina.
Clanc.
Si appoggiò alla macchinetta con un braccio e mi voltai di
scatto verso di lui.
“Ciao” sorrise.
“Ciao” mormorai, così persa dai suoi
occhi luminosi, dal non accorgermi che la mia merendina era
già pronta da
prendere.
“Posso?” continuò, mentre i miei occhi
non si volevano staccare dai suoi.
Annuii, continuando a guardarlo. Allungò una mano verso di
me e fremetti. Poi la mise dentro al contenitore e ne
tirò fuori la mia merendina. Gli sfuggì un
sorriso.
“Che avevi capito” mormorò,
così a bassa voce, che quasi non lo sentii.
Imbarazzata, ero arrossita di mille tonalità. Guardai in
basso e presi la mia merendina dalle sue splendide mani.
“Grazie”.
Sorrise di nuovo. “Non c’è bisogno di
tutti questi convenevoli, con me”.
“Me ne vado” biascicai.
Alzò un sopracciglio, confuso. “Dove?”
“Come, dove? In classe”.
“Ma ancora non è suonata” mi fece
presente.
Alzai le spalle, un po’ scossa da quella situazione.
“Non mi puoi scappare per sempre” quasi mi sorrise.
Lo guardai, stupita e ammaliata come sempre, come una povera
deficiente.
“Dai, scherzavo” riprese. “Ma che hai
fatto oggi?”corrugò le sopracciglia.
“Non ho dormito molto” alzai ancora le spalle,
abbassando gli occhi.
Mi accarezzò una spalla. “Su, andrà
meglio” mi salutò con uno sguardo e poi scomparve.
Ecco, l’aveva fatto di nuovo. Ora non se ne sarebbe andato di
certo dalla mia testa, e io come facevo? Come
facevo a continuare quella giornata? E quelle successive, senza averlo
impresso nella mia testa, come una povera
deficiente?
Cercai la mia prossima aula e guardai il banco vuoto accanto al mio.
Jen che si era ammalata, ma come aveva fatto, uffa…
Appoggiai il mento al palmo della mano e cercai, più o meno,
di ascoltare la lezione e nel contempo, spostandomi
da sopra il palmo della mia mano al banco con i gomiti, di prender
appunti.
La lezione passò strascicante, e dovetti guardare tremila
volte l’orologio per controllare che almeno qualche minuto
fosse davvero passato.
Mi sembrava di essere ferma in un momento malinconico e senza tempo. Ma
era impossibile.
Raggiunsi la mia bici, ancora fredda, e mi diressi a casa.
Quando mi buttai sul letto, la solitudine mi invase così
bene, come una crudele coperta calda.
Nascosi il viso tra le braccia, incapace di rialzarmi, o di guardare
altrove, se non al grigiume fumo fuori dalla finestra.
Quelle nuvole contornavano quel cielo come un tratto di pennarello, e
lo tracciavano così bene che avrei detto di
essermelo solo immaginato. Forse, non era tutto reale, quando guardavo
fuori.
Non volevo piangere, non volevo. Ma non sapevo perché
sentivo quell’infinita tristezza, che ci sono quei momenti
in cui prende maggiormente, senza nessuna spiegazione.
Rrrr. Rrr. Rrr.
Mi voltai. Guardai il mio cellulare che vibrava sul comodino.
Incurvai le sopracciglia. Lo presi e lo aprii.
“Un nuovo messaggio”.
“Chey, vieni da me? Ti aspetto entro poco, se riesci.
Loud”
Fremetti. No, non poteva essere.
Ributtai un’occhiata al cielo, fuori dalla finestra.
Uscii di fretta dalla casa, e inforcai la mia bici congelata, su per la
collina e verso la sua villa.
Lo vidi, di fuori, ad aspettarmi e quando buttai la bici a terra, gli
andai incontro, buttandogli le braccia al collo.
Lui mi strinse con la stessa intensità.
“Sono un po’ triste” gli dissi, tra i
suoi splendidi capelli.
La sua mano mi accarezzò il viso e i capelli,
così dolcemente che mi avrebbe sciolto.
Strofinai il naso contro il suo cappotto marrone, e lo sentii ancora
più vicino a me, le sue mani mi toccarono i
fianchi e la curva della schiena, e lo avvertii anche da sotto il
cappotto.
Strinsi le mie braccia attorno al suo collo, e poi lo abbracciai,
tenendolo fermo contro di me. Non sapevo che cosa
stesse pensando di me.
Lo tirai ancora più verso di me, sentendo il suo corpo
attaccato al mio. Lo guardai in viso, solo in quel momento e
mi accorsi che i suoi occhi erano lucenti come lucciole.
Sorrisi. Loud mi guardò un istante e sorrise.
Mi spostò i capelli dal viso e mi sorrise ancora. Strofinai
il mio naso contro il profilo del suo mento e del suo collo…
Sentii le sue mani stringermi forte nei fianchi, contro di lui,
così vicino, così vicino…
Mi appoggiai al suo collo, imprimendomi il suo profumo su di me.
Lo odorai e poi mi nascosi contro i suoi capelli lunghi, toccandoglieli
e rastrellandoglieli con le dita. Sorrisi.
Loud mi guardò. Mi strinse ancora più forte. E io
feci lo stesso, trattenendolo così fermo verso di me, contro
di me…
Così fermo…
Lui chiuse gli occhi, contro la mia testa e si appoggiò
lì, mentre io sentii il suo profumo tutto su di me, mentre
lo
tenevo stretto abbracciandolo dalla schiena.
Mi sembrò che fossimo sospesi in una nuvola, o forse in una
bolla, avevo paura che si potesse rompere, e che noi
potessimo cadere
giù…giù…giù
Lo strinsi ancora più forte e sentii il calore del mio corpo
contro il suo.
Lo baciai su una guancia e lui mi guardò, fissandomi. Fece
lo stesso contro la mia guancia.
Non dissi nulla, e lui era come muto.
“Chey”
“Chey”
Avevo il suo profumo tutt’addosso, come qualcosa che non si
potesse mai smacchiare o cancellare.
“Chey” ripetè la voce.
Il suo corpo non era caldo quanto il mio, ma era così bello
poterlo stringere così forte, contro di me…
“Chey…”
Mi girai.
Era Jen.
“… ehm, in realtà ero venuta a trovare
Antoine”
Sgranai gli occhi, sbigottita. “Come?”
Lei si voltò alla sua sinistra e vidi Antoine accanto a lei.
Corrugai le sopracciglia, lanciandole un’occhiata.
Guardai Loud, che mi fissava di rimando.
“Sarà meglio andare, scusami Loud” lui
annuì impercettibilmente.
Andai da Jen e l’afferrai per un braccio.
“Se ci stai sulla mia bici, monta su”
“No, ho la mia” mi disse, accigliata.
“Okay, sali nella tua, ci vediamo” lanciai uno
sguardo a loro due, che si allontanavano sempre di più da
noi,
mentre pedalavamo velocemente giù dal pendio della collina.
*
Ringrazio tutti coloro che
leggono e:
valevre ahahh
è vero! :) grazieee spero piaccia anche questo.. .:)
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Capitolo 14 *** -13- ***
- TREDICESIMO CAPITOLO -
*
“Ma si può sapere che ti prende, eh?”
borbottai, a Jen, quando fummo davanti a casa sua.
Eravamo ancora sulle nostre bici.
“Che cosa prende a me, eh?” rimarcò lei.
Annuii. “Sì”.
“Ma sei cieca, Chey? Hai visto come abbracciavi
Loud?”
Rimasi in silenzio, pensando alla scena di poco prima. Mi schiarii la
voce. “Sì”.
“Ecco, allora, direi che è meglio che non ne
parliamo più”.
“Che cosa ci facevi da Antoine, questa mattina?”
continuai, decisa.
Lei alzò le spalle. “E tu che ci facevi da Loud,
questo pomeriggio?”
“Jen” la guardai, infuocandola con
un’occhiata.
“Sono andata a trovarlo, hai detto che era possibile
tornarci. Ecco, siccome mi aveva colpito volevo vederlo
ancora”.
“Ti piace?” corrugai le sopracciglia.
“Non esattamente”.
“Non esattamente?” ripetei, alzando un sopracciglio.
Lei scosse le spalle. “Non lo so, è
così strano, non ho mai visto nessuno come lui. Volevo
solamente fare luce
su questa cosa”.
“E adesso hai fatto luce?”
“Bè, non ho fatto granché in tempo,
visto che sei sopraggiunta tu...”
“Ah, quindi devi continuare a far luce?” la guardai
incredula.
Alzò le spalle, con espressione assente.
“Probabilmente sì”
Sbuffai, e scossi la testa. “Ma pensa te”
“Che c’è? Che c’è
di male?”
“Nulla, proprio nulla”.
“Piace a te Antoine?”
La guardai, accigliata. “No” dissi.
“Ah, allora che problema c’è?”
“E se mi fosse piaciuto come ti saresti
comportata?” le chiesi.
“Non lo so” lanciò un’occhiata
al vuoto.
“D’accordo, fai come vuoi. Torno a casa”
le dissi, direzionandomi verso casa mia.
“Ciao” mormorai e lei levò una mano.
“Ciao”
Litigare con lei era sempre spiacevole, soprattutto perchè
la consideravo la mia unica amica.
Eppure, non volevo litigare... non sapevo perché a volte mi
facessi prendere dall’impulsività del mio
carattere, così facilmente.
Avevo voglia di vederlo. Avevo voglia di vedere Loud.
Il giorno dopo, non m’importava come lui reagisse alla mia
vista, o alla mia impulsività, ma decisi di guardare da
qualsiasi parte dei corridoi, finchè non l’avessi
trovato.
Stava spazzando in uno sgabuzzino, con la porticella semi aperta.
Entrai.
Lui si voltò di scatto e mi guardò, stupito.
Gli ricambiai l’occhiata, fissandolo, immobile.
“Ciao” disse, lasciando stare la scopa.
“Ciao” risposi, perdendomi nei suoi occhi azzurri.
“Avevi bisogno?” alzò un sopracciglio,
confuso.
Feci per aprir bocca, ma non riuscii a dire nulla. “Ehm...
volevo solo vederti” sputai la verità.
Incurvò le sopracciglia, e mi guardò socchiudendo
gli occhi. Poi sorrise. “Che c’è che non
va?”
Ci pensai. Che c’era che non andava?
“Ti ricordi ieri?” chiesi, aspettandomi
ardentemente una sua risposta.
Lui annuii. “Sì, certo”.
“Ecco... sono un tipo impulsivo, giusto per
informarti”.
Sorrise ancora. “D’accordo, grazie per avermi
informato”.
“Prego” annuii e presi un respiro.
“Veramente...”
Alzò un sopracciglio, di sbieco.
“Sì?”
Lo guardai fisso negli occhi. “Veramente, ecco... mi chiedevo
se potessi passare da te...”
Mi lanciò un’occhiata, confusamente.
“Quando?”
“Oggi... ?”
“Oggi...” ci pensò un attimo.
“Okay”.
Eppure forse c’era qualcosa nei suoi occhi che mi diceva di
non andare... già forse c’era...
forse guardandoci meglio...
“Allora ci vediamo, oggi...” mormorò,
con un sorriso.
Annuii. “Okay, allora vado, ciao” biascicai,
uscendo dallo sgabuzzino.
Lasciandomelo alle spalle a pulire la stanzetta, sentii come un
brivido, come se l’avessi sempre sognato
quel momento, come se avessi sempre sognato lui... eppure, non ero
innamorata.
Non sapevo, non capivo che cosa mi stesse succedendo.
L’avevo abbracciato così forte, eppure lui non
aveva detto nulla... come mai?
Forse, in realtà, non gli importava?
Tremai a quella probabilità, quando raggiunsi la mia prima
aula di quella mattina.
Vidi Jen che mi aveva tenuto il posto, e mi sistemai accanto a lei.
“Scusa per ieri” borbottai, più o meno
convincente.
Mi lanciò un’occhiata e alzò le spalle.
“Ti ho già perdonato”.
Sorrisi e le dissi all’orecchio: “grazie”.
Quando raggiunsi la collina a bici, non sapevo il perché
faticai più del solito e più del previsto.
La giornata era ingombra di brutte nuvole, che di certo non mi
favorivano l’umore.
Eh sì, lo so che dovevo studiare... ma più tardi,
più tardi...
Posteggiai la bici e mi guardai attorno. Mi voltai ed eccolo
lì.
“Ehi” mi disse, venendo avanti e abbracciandomi di
lato.
“Ma allora ti ricordi di ieri?” chiesi.
“Cos’è ricominciamo con le
domande?” alzò un sopracciglio, sorridendo.
“No, è che... volevo sapere se ti ricordassi
bene... della mia impazzata...”
“Certo. Più che bene”.
Sussultai.
“Mi ricordo che mi hai abbracciato e mi sei saltata addosso,
credevo che la bici si rompesse da come
l’hai buttata...”
Sbuffai. “Come, scusa?”
Rise. “Dai... ho pensato cavolo se è
così impedita, potrebbe star più attenta con gli
oggetti... e le persone”.
Non sorrisi. “Ma vai a...”
“Ah-ah-ah” mi fermò, prendendomi per un
polso. “Cosa mi volevi dire?” mi fissò
così dritto negli
occhi, che per un attimo persi la percezione di tutto.
“Proprio nulla” biascicai, col cuore che martellava
a tremila al secondo.
Sorrise, venendomi ancora più vicino. “Cosa
pensi... a me guarda che piace questa vicinanza con te” mi
soffiò in un orecchio.
Ebbi un brivido, e stetti in silenzio non sapendo proprio cosa dire.
Ero rimasta stupita.
“Dai, su” mi prese in braccio e mi portò
dietro ai cespugli, dove prendeva posto un bel giardino.
Era il retro della villa, e c’erano grovigli di rose e alberi
contorti.
“Molto suggestivo” commentai.
Lui si guardò intorno e abbozzò un sorriso. Mi
lasciò andare, ma continuò a starmi vicino.
“Aspetta...” mi stava soffocando, mentre aveva
cominciato ad abbracciarmi così forte…
“Come, tu lo puoi fare e io no?” rise un attimo e
mi sembrò di volare.
Mi lasciò andare lentamente.
“Visto che la tua curiosità non ha limiti, vuoi
dare un’occhiata in giro?” mi guardò, di
sbieco.
Corrugai le sopracciglia, e ricambiai l’occhiata, a lungo.
Scossi la testa.
“Ah, avrei giurato di sì...” sorrise.
“No, grazie, adesso no”
Prolungò il sorriso. “Ah, adesso no”
Mi prese ancora vicino a sé e lo strinsi con le braccia
accanto al mio collo.
“Ehm ehm”
Ci sciogliemmo dall’abbraccio. La voce di Antoine ci aveva
interrotto, lo guardai stupita.
“Mademoiselle...” mi fece un inchino.
“Ciao, Antoine” dissi, delusa al massimo.
“Ciao, tutto bene?” diede una veloce occhiata
irritata a Loud e io annuii.
“Vieni un attimo, Loud?”.
Loud lo seguì, lasciandomi da sola. “Torno
subito” mi disse all’orecchio.
Non sapevo che fare lì da sola. Incominciai a girarmi i
pollici, ma non era un gran passatempo.
Quel giardino era bello, pareva curato e non curato... le rose erano
fantastiche, mi avvicinai ad alcuni rovi
e ne presi una, attenta a non pungermi.
“Cosa fai?”
Mi girai verso la voce. Vidi una donna molto bella, guardarmi storto e
in cagnesco.
“Nulla” mi affrettai a rispondere.
Alzò un sopracciglio. “Lo vedo”.
“Scusami, è che stavo solamente
guardando...”. Mi punsi. Non me ne accorsi subito, ma lei mi
guardò il
dito. Lo fissai anch’io in quel momento, vedendo che scorreva
sangue.
“Ehm” borbottai, non sapendo cosa dire.
“Lascia, faccio io” mi venne vicino e mi prese il
dito, avvicinandoselo alla bocca.
Sussultai. “No, non c’è
problema” dissi, subito.
Mi guardò profondamente, e sorrise di sbieco.
“Tranquilla, non ti faccio nulla”.
I suoi capelli erano rossi misti al castano naturale, e la sua faccia
era incredibilmente bella, il suo portamento
elegante, e bè, il suo modo di vestire, un po’,
come dire, inusuale.
Sentii la sua lingua sul mio dito e la guardai storto.
“Ehm...” bofonchiai, ma non mi fece finire. Mi
zittì alzando
un dito.
Mi leccò via il sangue, avidamente, come se se lo dovesse
mangiare... mi mise una paura incredibile.
“Fatto” mormorò, soddisfatta,
scostandosi da me. “Quest’altra volta stai
più attenta. Ci sono persone che non
ti lascerebbero viva”.
Ebbi un brivido. Persone che non mi lascerebbero viva? A chi si
riferiva?
Un’altra ragazza, che pareva un po’ più
giovane dall’aspetto di lei, comparve nell’entrata
del giardino.
La rossa si girò, vedendo che io guardavo oltre lei, e
avvertì la sua presenza.
“Seyla” disse, rivolgendosi a lei.
“Abbiamo un ospite”.
“Oh no” bofonchiai “non sono un ospite,
me ne vado subito”.
“Aspetta” mi disse la rossa. “Io mi
chiamo Mer, e tu?”
“Cheyzanne” mormorai. “Ma Chey
è il mio soprannome”.
“Chey... sembri un dolce molto buono” mi sorrise e
ebbi di nuovo un brivido.
“Ehm, non c’è bisogno che io
rimanga” borbottai, molto confusamente.
“Seyla, vero che sembra così carina?”
mormorò Mer, in direzione dell’altra.
Seyla fece alcuni passi avanti. Era di un biondo scuro, con i capelli
sul seno scoperto, e indossava un vestito
lungo e bianco, per nulla normale. I suoi occhi castani scrutarono me e
poi li abbassò a terra.
“Non le dai il benvenuto?” sussurrò Mer,
andandole accanto.
“Sentite, io vado...” bofonchiai, avviandomi verso
l’uscita e la parte anteriore della villa.
Mi affrettai verso la mia bici, e prima che potessero dirmi
qualcos’altro, ero già sparita.
*
Ringraziamenti speciali a
coloro che mi leggono... e a :
valevre
grazie mille che continui a seguirmi, mi fa piacere!
ehh ...sì li hanno visti anche jen e antoine :=) eheh
non ti preoccupare ;)
|
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Capitolo 15 *** -14- ***
- QUATTORDICESIMO CAPITOLO -
*
Buttai la bici a terra nel garage, lo richiusi ed entrai in fretta in
casa. Non volevo avere niente a che fare con quello
che era successo, era così tremendamente strano che avrei
voluto dimenticarlo all’istante.
Gettai le chiavi all’ingresso, sul tavolino e mi diressi in
cucina, attinente al salotto. Diedi un’occhiata in giro, ma
Anne
non era lì.
“Anne?” chiamai, cercando di farmi sentire. Avevo
ancora il battito del cuore accelerato, e mi misi una mano sopra
per calmarlo.
“Anne?” ripetei.
Venne fuori dopo un po’, dal piano inferiore, dal
seminterrato.
“Che facevi?” chiesi, corrugando lo sguardo.
Lei scosse la testa. “Nulla, mettevo a posto vecchie cose e
riordinavo in seminterrato, c’è una tale
confusione…
dovremmo metterci un giorno a guardarci…”
Fatica sprecata, pensai.
Nel nostro vecchio seminterrato ciò che vigeva con assoluto
regime era la polvere.
“Tutto okay?” mi chiese lei, squadrandomi con
un’occhiata decisa.
Annuii.
Perché, avevo qualcosa di diverso o strano? Alzai le
sopracciglia, pensandoci.
“Comunque, ho trovato queste… non so cosa
siano…” mi porse delle lettere, e dandole
un’occhiata di
sbieco, le presi.
“Che cosa sono?” domandai, incerta.
“Non ne ho proprio idea” le guardò dalle
mie mani, poi sbuffando e mettendo a posto anche il salotto.
“Io odio la
polvere”.
Guardai le lettere, parevano vecchie, e ognuna aveva una specie di
sigillo, come chiusura. Mi domandai chi le avesse
scritte.
“Non le hai guardate?”
“No” rispose Anne, sistemando il divano.
Vidi che erano state aperte tutte, precedentemente, tranne una.
Ne aprii una già aperta, e ne tirai fuori il contenuto.
Mi misi a leggerla.
“Sono solamente preoccupato, sono giorni che non ti fai
sentire… ero nelle vicinanze ma non sei venuta,
non ti ho visto… ti cercava Leo… volevo solamente
dirtelo…”
Il nome era indecifrabile, sbiadito…
“Ma di chi sono?” chiesi ancora, più
soprappensiero che altro.
Anne corrugò le sopracciglia, nella mia direzione. Scosse la
testa, alzando le spalle e continuò a ripulire il salotto.
Ne aprii un’altra.
“Sono certo che non sei scomparsa così nel
nulla… ho atteso tanto che arrivasti, l’altro
giorno… fammi sapere
tue notizie, le attendo con ansia…
Dov’è sparito, Leo?
Loud”
Sussultai; un brivido mi corse lungo tutta la schiena.
Loud?
Diedi un’occhiata ad Anne, ma non guardava verso di me, era
intenta a pulire lo schermo della tivù.
Come potevano essere di Loud, se erano in casa mia, ed erano vecchie?
“Oh mio Dio” biascicai.
Che ci fa Loud menzionato in casa mia?
“Chey, mi puoi spiegare che cos’hai?” mi
chiese irritata Jen. “Non smetti più di essere
agitata”.
“Sono calmissima, invece”.
“È successo qualcosa?” si
preoccupò, dandomi un’occhiata profonda.
Scossi la testa, decisa. “No, niente”.
“Okay, tu solitamente sei più strana della media,
ma ora mi stai davvero facendo preoccupare”.
La guardai. Ma che diceva?
“No, Jen. Ti ho detto di star tranquilla, non
c’è niente che non va”.
“Eppure, qualcosa mi puzza…”
Le lanciai un’occhiata torva. “Sei
paranoica”.
Lei la ricambiò, in malo modo. “Non dire
cazzate” mi rimproverò.
Alzai le spalle. “Non dico cazzate, e tu sei
paranoica”.
Sbuffò, sistemando la ciotola con le patatine sul tavolino
del salotto.
Era venuta quello stesso pomeriggio da me.
“Allora, che guardiamo?” arricciò il
naso, prendendo un’altra patatina e guardando lo schermo
della tivù.
“Accendi intanto, come prima cosa” dissi.
Lei sbuffò ancora e accese, afferrando il telecomando.
“Secondo me, faresti meglio a parlarmene di quello che ti
dà fastidio o di quello che pensi…secondo me,
parlarne è la cosa migliore…”
Soffiai. “Ma la vuoi smettere, Jen? Ti ho
detto…”
Un rumore che proveniva dalla finestra mi fece salire un brivido lungo
la schiena.
Fremetti un attimo, prima di girarmi verso di quella a controllare chi
fosse.
“Cos’è stato?” ero
preoccupata.
Lei sgranò gli occhi, confusa. “Non ho sentito
niente”.
“Ma…”
“Senti, non mi interrompere mentre ti dico le mie opinioni su
quello che dovresti fare, so che sono pallosa e
che non vuoi sentirle, però se mi facessi un attimo
spiegare… sai, so anche essere convincente se
voglio”
Alzai un sopracciglio, e lei sbuffò. “Se tu mi
prendessi sul serio…”
Un altro rumore proveniente dalla finestra, come un clanc…
Mi girai di scatto. “Questa volta l’hai
sentito?” bofonchiai, a mezza voce, rabbrividendo.
Lei annuì, spaventata.
“Cos’è?”
“Non lo so” la guardai, dritta negli occhi
sbarrati.
Mi alzai. “Ma che succede qui? Forse è il
vento…” biascicai, cercando di convincermi,
diretta alla finestra.
“Eppure non è aperta…”
Jen borbottò qualcosa, dal suo posto.
Mi girai verso di lei. “Tranquilla adesso la metto a posto,
forse…”
Mi rivoltai verso la finestra ed ebbi un sussulto. Una mano
l’aveva aperta dall’esterno e si insinuava verso
l’anta.
Lanciai un grido, allarmata.
Jen urlò: “Chey, vieni qua!”
Mi direzionai verso di lei, ma la mano mi prese il braccio,
bloccandomi.
“Aiuto!” gridai.
Lo fissai negli occhi. I suoi castani perforavano i miei, erano
socchiusi e dalle ciglia lunghe. Lo fissai per un istante
lunghissimo… anche se un istante era sempre un
istante…
“Jen!” urlai, ancora.
Lui mi fissò ancora, e non staccò lo sguardo. La
sua presa su di me era forte e penetrante.
Indietreggiai, alzando il polso e cercando di togliermelo di dosso.
Scalciai verso il divano, ma ancora era troppo
lontano per poterlo raggiungere.
“Lasciami!” strattonai la presa, e cercai di
divincolarmi, riuscendo a fare un passo.
Lui mollò la presa, scappai di scatto, velocemente.
Fu più veloce, si mise davanti alla porta
d’ingresso e lo guardai ad occhi sbarrati, cercando
un’altra via. Salii le
scale di corsa, accorgendomi che lui era dietro di me. Corsi
più velocemente che potevo.
Sentivo i suoi passi farsi più pesanti dietro ai miei.
“Ti prego, lasciami stare!” gridai, terrorizzata.
Entrai in camera mia, richiudendo la porta e corsi verso la mia
finestra, muovendomi a scavalcarla. Misi un piede
dall’altra parte ed ero a cavallo, guardai verso la porta,
lui aveva fatto un rumore.
Rabbrividii. Gettai anche l’altro piede dall’altra
parte e stetti attenta a non cadere.
Guardai di sotto, ma c’erano tre metri… come
facevo, come avrei fatto?
Il respiro, mi accorsi, che mi mancò per una frazione di
secondo. Il vento gelido mi scompigliò i capelli, guardai
ancora in basso e il piede per poco non mi scivolò.
Sentii una presa forte sul mio braccio, e mi voltai spaventata. Lui mi
aveva preso in pugno. Gridai, gridai forte.
“Vi prego aiuto!”
Il respiro mi mancò per un altro istante, e il mio cuore mi
martellava nel petto, incessante.
Mi prese il lembo della mia maglia, nel mio tentativo vano di
sfuggirgli dalla presa.
Misi male un piede e mi trovai spenzoloni dal cornicione. Lanciai un
grido che squarciò il cielo.
Mi prese una mano e mi tirò su con violenza. Mi
guardò negli occhi per una frazione di secondo, poi scappai
dalla mia camera e scesi le scale, trapanando con i piedi sugli
scalini, velocemente, più veloce che potevo.
Mi saltò addosso con una veemenza che mi accasciò
a terra. Ero sotto di lui, inerme e immobile, incapace di muovermi.
*
Ciao a tutti/e questo
capitolo capita in tempo con Halloween XD
Ringraziamenti speciali a chi mi legge e a :
valevre grazie!!! spero ti piaccia anche questo;D
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Capitolo 16 *** -15- ***
- QUINDICESIMO CAPITOLO -
*
Soffiai, i capelli mi impedivano ancora di più un respiro
regolare. Sentivo il suo peso fremere sopra di me, era
caldo come un animale.
“Avanti… girati” disse, prendendomi a
forza un polso e stringendolo.
Mi voltai, e il suo corpo mi permise di farlo per una frazione di
secondo, poi ritornò sopra di me; questa volta
eravamo occhi negli occhi.
Lui sorrise, di sbieco. “Ciao” mormorò,
soffiandomi nell’orecchio.
Rabbrividii.
“Non mi rispondi neanche?” continuò, con
lo stesso tono.
Scossi la testa, disgustata.
“Ma che maleducazione” le sue labbra sfiorarono la
mia pelle, sul viso.
“Non ho voglia di parlarti” biascicai, col cuore
che pompava veloce.
Lui alzò un sopracciglio. “Come?” disse,
meschinamente.
Lo guardai fisso negli occhi, proprio come faceva lui. “Posso
alzarmi?” chiesi, cercando di ottenere qualcosa.
Lui fece di no con la testa. “Non ci penso
nemmeno”.
“E allora cosa vuoi da me?” mi arrischiai,
rabbrividendo interamente. Sentii il suo corpo caldo a contatto con il
mio.
“Quello che vogliono tutti” sorrise.
Alzai un sopracciglio. “E cioè?”.
Alzò le spalle. “Sei una ragazza. Sei carina, e
questi capelli lunghi, castani… questa adorabile bocca,
questi occhi
grandi… mi capisci, no?”
Fremetti per un istante. Scossi la testa.
“Ma come no?” sorrise di nuovo. “Non
capisci il fatto che sei bella?” alzò le
sopracciglia, spingendo contro il mio
corpo.
“Senti, vorrei alzarmi, se non ti dispiace” il modo
in cui lo dissi mi stupii a mia volta; la timidezza a volte, per
fortuna, lasciava spazio all’arroganza.
Alzò le spalle. “In verità,
sì” mi fissò dritto negli occhi.
I suoi avevano delle ciglia nere, bellissime.
“Come vuoi, ma prima o poi preferirei andarmene”.
“Eppure siamo a casa tua, non c’è nessun
problema a quanto pare…”
“Sì, invece che
c’è” mormorai, a denti stretti.
“E quale sarebbe?”
“Non sei invitato, non sei gradito. Come te lo devo
dire?”
“Per essere una ragazzina ne hai di faccia tosta”
mi sussurrò, sfiorandomi le labbra con le sue.
“Ma ti piaccio, che cosa vuoi?” bofonchiai, non
capendo.
“Caspita, non ti facevo così coraggiosa”
soffiò.
“Sto cercando di capire delle cose… e a volte la
faccia tosta mi viene naturale, a quanto pare”.
Lui sorrise. “Quali cose?”
“Ma sei forse sordo? Oppure proprio non capisci?”
Lui alzò le sopracciglia, facendomi segno di andare avanti.
Sbuffai. “Che cosa vuoi da me” ripetei,
meccanicamente.
Lui sbuffò, seguendomi. “Non posso nemmeno provare
a rincorrerti, che subito ci deve essere un motivo?”
Sussultai; era davvero un tipo strano.
“Sei umano?” chiesi, non sapevo perché
ma riuscivo a tener testa a una certa conversazione; pareva
più
rilassato, pareva che non mi volesse uccidere, altrimenti avrei
cambiato tono.
Lui soffiò un sorriso. Si alzò e mi
lasciò andare. “Sei un’umana dolce e
dalla faccia tosta” mi disse, sistemandosi i
pantaloni con una mano, dal retro.
“E si può sapere che cosa vuoi farmi?”
“Volevo farti male… ma ho cambiato
idea”.
Mi prese alla sprovvista e sgranai gli occhi. “E si
può sapere perché tutto questo?”
“Perché ti volevo far del male?” sorrise
“perché non ti sopporto. E perché ho
cambiato idea? Perché non ti sopporto”.
Corrugai le sopracciglia, confusa e sorpresa allo stesso tempo.
“Sai che sei parecchio strano. Quello che dici non
ha senso. Un giorno o l’altro dovrò trasferirmi da
qui”.
Alzò un sopracciglio, perplesso e curioso.
“Perché?”
“Ci sono troppi tizi strani da queste parti… e la
cosa mi fa paura” mormorai.
Scosse le spalle. “Non devi averne…”
Lo guardai, fissandolo negli occhi. “Ah, no?”
“No”.
Invece, in quel momento, fremetti spaventata, senza sapere bene il
perché.
Il cellulare mi vibrò.
Gli gettai un’occhiata e poi aprii lo sportellino.
“Sì?”
“Chey, sono andata da Loud, sono qui con lui e
Antoine… siamo preoccupati. Dove sei?” mi disse
Jen, la sua voce
era ansimante e ansiosa.
“Tranquilla, Jen. Sto bene. Sono a casa mia”.
Lei tirò un grosso sospiro di sollievo. “Oh mio
Dio, non sai quanto sono felice di sentire che stai bene, ho avuto
davvero paura… e quando mi sono girata e non ti ho
più visto… sono tornata in casa ma non
c’eri”
“Eravamo sul tetto”.
“Sul tetto?” sembrò spaventata, di
nuovo.
“Sì, ma tutto a posto. Credevo mi volesse
uccidere, invece non è così”.
Un attimo… in quel momento mi illuminai. Mi voltai fulminea
verso il ragazzo che era alle mie spalle, dagli occhi
castani e vestito di scuro… Lo guardai. I suoi capelli erano
folti e ricci, castani. Sgranai gli occhi. Oh, mio Dio.
Lui mi ricambiò l’occhiata. “Che
c’è che non va? Tutto a posto?”
Annuii. Terrorizzata.
Socchiusi la bocca e abbassai lo sguardo. Ripresi a parlare
all’apparecchio. “Senti Jen…”
“Sì?” mi disse lei; la sua voce
risultò meccanica.
“Ehm…” mi accorsi che non potevo
parlare.
“Dovrei andare in bagno…” dissi al
ragazzo, alle mie spalle.
Lui alzò uno sguardo su di me, e lo lasciò per un
secondo, poi annuì.
Salii le scale, senza dare a vedere quanto in realtà fossi
spaventata.
Le gambe, le sentivo tremare mentre camminavo. Quando fui in cima,
diedi un altro sguardo a lui, al piano
inferiore… non mi stava guardando.
Raggiunsi il bagno e mi ci chiusi dentro. “Jen”
mormorai al telefono.
“Sì?” ripetè lei, e mi
sembrò ancora in ansia.
“C’è un problema…”
sussurrai, con la più bassa voce che conoscessi.
“Che cosa succede?” lei pareva veramente allarmata.
“Ho bisogno d’aiuto, credo” bofonchiai.
“Il ragazzo che ci ha aggredito, è qui al piano
inferiore, e prima ho detto
che pareva più cauto… insomma che ero fuori
pericolo. Ma ora non ne sono più così sicura.
L’ho visto a
scuola, e Loud mi ha detto che è un lupo mannaro”.
Jen prese una pausa, senza fiato. Sentii che mormorava qualcosa a Loud
e Antoine, lì con lei.
“Chey, stai bene?”
“Sono in bagno” spiegai, velocemente.
“Senti, noi arriviamo subito… cerca di prendere
tempo” Jen faceva una voce comandata; in realtà
sapevo che
aveva una gran paura per me.
“D’accordo” mormorai, e chiusi la
chiamata.
“Tutto bene?” una voce dall’esterno
sopraggiunse. Sussultai.
“Sì, tutto a posto, ho quasi fatto”
biascicai, completamente in preda all’agitazione. Tirai lo
sciacquone.
Cosa faccio, cosa faccio? E ora cosa devo fare?
Mi guardai intorno; l’unica arma plausibile era la lametta.
La presi e me la misi nella tasca…
“Parlavi da sola?” disse, sempre
dall’altra parte della porta.
Sussultai ancora. “Sì”.
Sentii che non proveniva più nessun rumore
dall’esterno.
Diedi un’ultima occhiata e poi uscii.
“Ecco” dissi, cercando di nascondere
l’agitazione che si faceva sempre più
crescente; soprattutto quando incontravo i suoi occhi. “Ho
fatto”.
Mi portò un braccio oltre le spalle, accompagnandomi
giù per le scale.
“E perché non mi sopporti?” chiesi,
cercando di capire che cosa pensava di me, e cercando di prendere
tempo.
Lui fece qua e là con la testa. “Tu quando non
sopporti qualcuno a pelle, hai un motivo?”
Corrugai le sopracciglia, cercando di pensare, nonostante la testa in
panne. “Ehm… forse, non so”
“Pensaci” continuò.
“No” mi decisi, dandogli uno sguardo di sbieco. Lo
ricambiò, più lungamente.
“Esatto” sorrise. “Non ho un motivo per
il quale non ti sopporto. Succede e basta”.
Rabbrividii sotto al suo tocco caldo.
“Allora, che cosa c’è che non
va?” ripresi, e la mia voce suonò sulle prime roca
e bassa.
Me la schiarii.
Scosse la testa, un po’ divertito, lanciandomi
un’occhiata. “Niente, che c’è
che non va?” rimarcò.
“Per me nulla, a parte il fatto che vorrei essere libera di
stare in casa mia…” mormorai.
Alzò un sopracciglio. “E non lo sei?” mi
guardò di sbieco e mi fece rabbrividire. Di nuovo.
“Ora no” risposi, cercando di farmi coraggio; di
lì a poco Jen, Loud e Antoine sarebbero arrivati…
sarebbero
arrivati, ne ero certa…
“Preparati quello che vuoi da mangiare, guarda quello che
vuoi in tivù, vai in bagno, anche se presumo che tu
abbia già fatto, fumati una sigaretta, leggi un
libro… insomma, fai quello che ti pare”
sussurrò.
“Io non fumo” ribadii, schietta.
Sorrise. “Non mi interessa, comunque dovresti
provare”.
Gli lanciai un’occhiata di disapprovazione. “No,
grazie, non mi interessa”.
“Anche a me non interessavano certe cose… eppure
dopo ne ho scoperto la meraviglia e l’ebbrezza”.
Sussultai. “Senti… nonostante quello che hai
detto, io non sono libera. Non vedi? Ci sei tu a guardarmi e io
posso cucinare, leggere, e guardare la tivù… ma
ci sei tu a guardarmi”.
“Mi piace guardarti” disse, fissandomi negli occhi.
Un brivido mi corse lungo la schiena. “Sì,
ma… non avevi detto che non mi sopportavi?” alzai
un
sopracciglio, confusa.
“Già, esatto. E perché non ti sopporto,
significa che devo odiare guardarti?”
“Sì” risposi, guardandolo perplessa.
“Oh, avanti. Il desiderio può anche non andare
nello stesso binario della sopportazione…”
mormorò, avvicinandosi.
Fremetti ancora. “Senti… cosa vuoi dire
con…”
“Desiderio?” si leccò le labbra con la
lingua, socchiudendo gli occhi virtuosamente e avvicinandosi al mio
viso.
“Posso non essere una creatura malvagia, ma il desiderio
è anche dei comuni mortali”.
Che stava dicendo?
“Quindi ti piaccio, ma non mi sopporti?” cercai
ancora di guadagnare tempo.
Annuì. “Forse” sorrise. Venne ancora
avanti.
Un rumore, come di vaso caduto, interruppe il suo sguardo concentrato,
e lo fissò da un’altra parte. Presi
tempo per guardare oltre la finestra, ma non vidi nessuno dei
tre che mi avrebbero salvato…
Dov’erano?
Si rigirò verso di me. “Ah, i gatti che cercano
cibo… all’esterno delle case, come li
capisco”:
Sussultai, guardandolo in quegli occhi così fissi sui
miei…
Un altro rumore lo fece scostare dal mio viso, e si guardò
in giro, più allarmato di prima.
“Che cos’è?” si rivolse a me e
io abilmente lo guardai, scuotendo la testa leggermente.
Mi prese un braccio, con una mano…
Qualcuno entrò furtivamente dalla finestra e vidi che era
Loud. I suoi capelli chiari me lo fecero riconoscere
anche in quello scatto veloce.
Raggiunse di spalle il licantropo, e quest’ultimo si
voltò appena in tempo.
Loud ruggì. “Lasciala stare!”
“Che cosa vuoi?” il licantropo si adirò,
mentre Loud gli aveva sferzato un colpo, al viso.
Il licantropo vacillò un istante, prezioso per
me… e vidi Jen scavalcare la finestra subito dopo Antoine.
Raggiunsi Jen, ansimando in preda all’agitazione.
Il licantropo si rivolse verso di me e si aggrappò a un
lembo della mia maglia, tirandomi verso di lui. Strillai e
afferrai, con le mani tremanti, la lametta dalla tasca. Gliela sferzai
contro… vidi solamente di avergli fatto un taglio
sulla mano, perché gli stava uscendo del sangue…
Loud si scaraventò su di lui, buttandolo a terra.
Il licantropo diede un pugno in pieno viso a Loud; Antoine prese i
polsi del licantropo e li tirò in alto, a terra.
Loud si avvicinò al viso del licantropo, steso sotto di lui.
“Che cosa vuoi, eh? Perché non ti vai a cercare
altre
prede?”
Il licantropo lo guardò riluttante e disgustato.
“Io non sono mica come voi, io gli umani li aggredisco e
basta”.
“Vantati” esclamò Loud, furente,
tenendolo stretto per la gola. Le sue labbra erano rosse, e i denti
aguzzi…
quando li scoprii.
“Non vorrai mica assaggiare…” Loud lo
interruppe, sferzandogli un colpo sul viso.
Il licantropo rise, muovendo tutto il corpo, sotto di Loud.
Loud si intirizzì, palesemente irritato. “Cosa
vuoi, scusa?” disse, furioso.
Il licantropo continuò a ridere.
Loud gli sferzò un pugno in pieno volto, facendoglielo
girare di fianco e smorzandogli il sorriso. Sulla bocca
del licantropo apparve un rivolo di sangue.
“Questo…” Loud indicò il
sangue “è la tua punizione per avermi preso in
giro. E questo” Loud continuò ad
indicare ancora il sangue “è il tuo sangue
schifoso, degno di un verme come te!” gridò.
“Senti chi parla!” esclamò il
licantropo, riprendendo coscienza e rivoltandosi verso di Loud.
Loud digrignò i denti. “Se mi fosse
piaciuto…” mormorò, a denti stretti.
Il licantropo fece comparire un sorriso tirato sul suo volto.
“Hai finito di sfogarti su di me?”
“Stanne certo, che non finisce qui”
“Lo sospetto anch’io” mormorò
il licantropo, mentre Antoine gli lasciò i polsi e li
affidò a Loud, avvicinandosi
a me e a Jen.
“E ora vattene” biascicò Loud,
lasciandogli i polsi.
“Non vuoi più uccidermi?” rise il
licantropo, dandomi uno sguardo carico di tensione e lasciando la
casa, sbattendo la porta.
Loud mi lanciò un’occhiata preoccupata.
“Stai bene?”
Annuii. “Sì, grazie a voi… a
te” mormorai, abbracciandolo. “Ma ho avuto una
paura…”
“Te l’ho detto di star attenta. E come ci
è entrato? Ha fatto finta di vender oggettistica?”
corrugò lo sguardo; non
sapendo nemmeno che era da battuta quella frase…
Scossi la testa. “No, è entrato dalla finestra,
aprendola con qualcosa… probabilmente”.
“Adesso la mettiamo a posto noi…” disse
Loud, alzandosi, era rimasto in ginocchio, e guardando per un attimo
Antoine.
“Facciamo in modo che questo non accada
più”-
*
Ringraziamenti a tutte le
persone che continuano a seguirmi, e che leggono! e a:
alexis ohhh
*_* wow una nuova lettrice! : ) grazie mille per i complimenti e per
aver letto la storia! sono davvero contenta che ti piaccia e grazie per
aver commentato! ; )
|
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Capitolo 17 *** -16- ***
- SEDICESIMO CAPITOLO -
*
Loud mi guardò, ancora preoccupato per me, dopo aver messo a
posto la finestra. Non so che cosa aveva
armeggiato, ma cercò di tranquillizzarmi.
Mi strinsi nelle spalle. Antoine e Jen avevano raggiunto la mia cucina
per preparare qualcosa.
“Ci sono rimasto male anch’io. Che cosa voleva, si
può sapere?”
Mi irrigidii alle sue parole. Scossi la testa, non sapendo cosa
rispondere. Ci fu un attimo di silenzio.
“Forse voleva farmi del male” feci una pausa.
“A quanto ho capito, ha un’avversione contro di me,
non mi sopporta”.
Loud mi lanciò un’occhiata perplessa.
“Spero non ritorni più, non vorrei mettermi in
guerra con lui”.
“E cosa potresti fargli?” chiesi, stupita.
“Non puoi mica ucciderlo. Mettersi contro un licantropo non
è cosa da
poco. è pericoloso”.
“Non ti preoccupare” mi guardò e io
fremetti. Attese un secondo. “Lo so”
Annuii, lanciandogli un’occhiata. “Come faccio a
far sì che non mi uccida?” chiesi, alzando le
sopracciglia.
Ero davvero sconcertata, anche per la mia stessa domanda.
Mi guardò e poi spostò gli occhi oltre me.
“Ci penserò io ad aiutarti. Ci penseremo
noi”.
Con “noi” capii che intendesse anche Antoine, e
forse qualcun altro.
“Ma non sono sicura comunque. E poi voi potreste farvi
male”. Rabbrividii.
Loud scosse la testa e mi prese per mano. “Non ti preoccupare
per noi” la mia mano sudata scivolò sulla sua
liscia pelle fredda.
“è una parola” mormorai a denti stretti.
Lasciai la sua mano. “Sarà meglio che mi compri
delle valide “sicure” per porte e
finestre”.
Loud sorrise. Allora alcune battute le capiva.
“Sta’ tranquilla, ora” mi
sussurrò all’orecchio.
“Non te ne vai, vero?” mormorai, guardandolo in
quegli occhi profondi.
Ricambiò il mio sguardo, dandomi un buffetto sulla spalla.
“Rimango se hai bisogno”.
“Pareva ti conoscesse” dissi, fissandolo perplessa.
Loud alzò un sopracciglio e stette in silenzio qualche
secondo. “Non lo conosco, so solo che è meglio
stargli alla larga”.
“Pareva avesse un’avversione anche contro di
te” continuai a tenere il mio sguardo fisso sui suoi occhi.
Lo ricambiò e fremetti. “Probabile.
Chissà che non gli stiamo entrambi antipatici”.
Cercò di sorridermi e io cercai di ricambiare.
“Ehm” ci interruppe Jen, entrando dalla cucina al
salotto. “Abbiamo preparato qualcosa”.
Ci sedemmo a tavola, io e Jen, mentre Loud e Antoine rimasero in piedi.
“Noi abbiamo già mangiato”
bofonchiò Loud, guardando Antoine e poi noi, con sguardo
innocente.
Annuii e presi a mangiare, dopo tutta quella tensione accumulata.
Fu un sollievo riempirmi finalmente lo stomaco.
La sera passò piuttosto in fretta, al contrario di quello
che avevo immaginato.
“Ce ne andiamo allora, grazie anche per la cena”
disse Loud, entrando in cucina.
“Ma se non avete mangiato nulla” biascicai,
riponendo i piatti appena lavati, consumati da me e Jen.
Lui fece spallucce. “Non importa, siamo stati bene”
fece un sorriso di sbieco e mi venne vicino.
“Allora ci sentiamo” borbottai, imbarazzata per la
sua vicinanza.
“Puoi contarci” levò una mano
all’altezza della fronte e io roteai gli occhi, mentre
uscì, abbandonando la stanza.
Riposi i piatti nella credenza e mi voltai, quando Jen entrò
nella stanza.
“Tutto bene?” mi chiese lei, dandomi
un’occhiata da lontano.
Annuii. “Certo e tu?”
Lei fece di sì con la testa. “Sono stata
bene” ora sorrise.
“Fa’ strano avere quei due per la casa, non trovi
anche tu?” alzai un sopracciglio e lei continuò a
sorridere.
“Smettila di trovarlo strano, io lo trovo… bello,
jolie..”
“Non credo jolie sia adatto usato anche per un aggettivo
maschile” sorrisi, guardandola di sbieco.
“Ma smettila” sbuffò lei, aiutandomi a
riordinare la tavola.
Il giorno dopo c’era il sole. Ma dopo qualche ora, mi accorsi
che il cielo era diventato grigio ed era infangato
di nuvole da far venire male.
Raggiunsi lo sgabuzzino dove sapevo di trovare Loud e bussai, quasi
stupidamente con un mezzo sorriso
stampato in faccia.
“Ehi” dissi entrando.
Lui si girò, prima mi dava la schiena, e proferì
un sorriso. “Buongiorno, Chey”.
“Ciao, come stai?” alzai un sopracciglio,
squadrandolo.
“Bene” sorrise ancora.
Mi voltai indietro e vidi un sacco di studenti che si accalcavano verso
le loro aule. “Credo sia suonata, devo
andare” levai una mano. “Se ti va ci vediamo, da
qualche parte.”
Lui annuì, salutandomi.
Tenni saldi i libri tra le braccia, mentre raggiungevo la mia prima
aula di quella mattina: scienze.
Una palla.
Ma mi ero preparata. Eh, già. Ero riuscita a studiare prima
di ieri, almeno mezz’ora. Perciò, forse ne avrei
cavato una sufficienza, utile a riportarmi in superficie.
Qualcuno mi guardò da lontano, ne avvertii il fastidio
addosso. Non ci detti peso; tutti guardavano tutti in
malo modo, se li giudicavano senza nemmeno conoscerli.
Proseguii verso l’aula. Qualcuno mi si avvicinò,
teneva i suoi occhi puntati su di me; mi sentivo in imbarazzo.
Lo urtai accidentalmente, mentre tenevo i libri in mano, ma non era
colpa mia.. secondo me. Alzai lo sguardo
e fui stupita. Il licantropo che mi aveva attaccato mi
guardò, era a un centimetro da me, i suoi occhi profondi e
seri… poi passò oltre.
Ebbi paura di voltarmi indietro, perciò attesi qualche
istante. Contai mentalmente qualche numero e poi mi
voltai a constatare la sua presenza in quel corridoio.
Lo vidi di spalle, mentre se ne andava verso un’altra
direzione.
Decisi di non pensarci, o almeno di pensarci il meno possibile.
Al pomeriggio, subito dopo l’ultima lezione, ero rimasta tra
le ultime per uscire. Ero talmente stanca…
riposi i miei libri nello zaino e poi me lo misi in spalla.
Mi affrettai verso la porta e la richiusi. Sentii un rumore e guardai a
terra. Un piede aveva fatto sì che la porta
non si chiudesse. Spalancai gli occhi verso di lui. Il licantropo. E
rabbrividii. Mi diede una leggera spinta verso
l’interno dell’aula, dove non
c’era più nessuno, se non noi due.
Mi fece arretrare verso la parete, accanto alla lavagna e diede uno
strattone al banco della cattedra, facendolo
spostare. Il rumore provocò un leggero stridio contro il
pavimento.
Ero attaccata al muro. Fremetti, spaventata. Che cosa mi voleva fare?
Voleva uccidermi?
Cercai di dire qualcosa, ma non mi uscì nulla; tremavo
troppo, ero troppo agitata per parlare.
Mi scostò il viso, premendomi la mano contro e mi costrinse
a guardarlo negli occhi.
“Adoro il modo in cui mi eviti” mi disse, e il suo
alito soffiò tra i miei capelli e mi provocò un
brivido.
Lo fissai negli occhi. “Non ti evito, non riesco a capire
cosa vuoi da me” biascicai, e non mi accorsi che una
lacrima scese dai miei occhi, spaventati.
Mi guardò, fisso. “Tu mi eviti. Hai capito che ti
faccio paura. Io ti faccio paura” mormorò e
digrignò i denti
verso il mio orecchio. “Ma non devi averne”
“E perché, se tu me ne metti?” cercai di
infondermi un po’ di coraggio; ma in realtà non mi
sentivo così coraggiosa
in quel momento.
Sentivo il suo corpo magro contro il mio, era vestito completamente di
nero, e i suoi capelli alla
casaccio, castani, avevano dei riflessi al sole che era rientrato a
brillare contro le finestre dell’aula.
I suoi occhi grandi dalle ciglia lunghe non persero il movimento dei
miei; faticavo a non tremare contro di lui e ciò
mi metteva ancora di più in agitazione. La sua faccia,
così vicino alla mia, era bellissima, nella sua rudezza
pareva quasi angelica.
Che cosa mi avrebbe fatto?
“Tu hai idea di chi frequenti, almeno?” mi prese
alla sprovvista.
Di chi frequento chi? Che idea dovevo averne?
“Scusami, che stai dicendo?” proferì,
avvertendo un altro brivido percorrermi la schiena, contro la parete
bianca.
Alzò un sopracciglio.
“Lo so io chi frequento, e non mi pare il momento di
parlarne. Piuttosto, tu che sei un licantropo, dico un licantropo!
vaghi a zonzo per la nostra scuola, come se nulla fosse! Ma dico, ti
pare normale questo?” alle mie parole arretrò
di un passo, sempre tenendo la sua mano a sbarra accanto alla mia
testa, contro il muro bianco.
“Questo non ti da il diritto di giudicare”
mormorò, a denti stretti, evidentemente offeso.
“Oh, non voglio offenderti, ma sai è
pressoché strano il tuo comportamento e il fatto che
sei… bè sei un animale
e continui a non dirmi che cosa ti ho fatto, che cosa vuoi da
me… non capisco” biascicai, mentre lui prendeva a
riavvicinarsi a me di un passo, provocandomi ancor più
agitazione di prima.
“Non importa” mi disse soffiandomi accanto
all’orecchio, dandomi poi le spalle.
“Sì che importa” affermai.
Alzò un sopracciglio, rigirandosi verso di me.
Fremetti, contro la parete. “D’accordo, allora se
mi lasci andare, me ne vado” biascicai, cercando di non
piangere.
Lo superai e poi mi affrettai richiudendo la porta dietro di me e
camminando velocemente verso l’uscita; la scuola era
deserta.
All’esterno, c’era ancora qualcuno che
chiacchierava e raggiunsi la mia bicicletta, montandola e avviandomi
verso casa,
senza voltarmi più indietro.
*
un grazie entrambe ragazze, che mi commentate!!!
valevre: non
ti preoccupare, grazie per essere passata ancora!, e… si
scoprirà chi è leo…
alexis: ma
che dici! non dirò che non voglio più i tuoi
commenti, anzi grazie per postarli! mi fanno molto piacere, e vediamo
che cosa ne pensi anche in questo chap del licantropo…
apprezzo la tua curiosità ; ) ehhhh Loud :=)
|
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Capitolo 18 *** -17- ***
- DICIASETTESIMO CAPITOLO -
*
Arrivai di volata in casa, e richiusi la porta dietro di me, prendendo
un grosso sospiro di sollievo. Da un po’
a quella parte avevo sfuggito ad una brutta sorte troppe
volte… mi potevo ritener fortunata. Sospirai
ancora, socchiudendo gli occhi, contro la porta d’ingresso.
Poi la lasciai per andarmi a sistemare sul divano, e
appoggiai gli stivali sul tavolino che frapponeva me stesa alla tv.
L’accesi, e cercai di rilassarmi. Invano. Posai uno
sguardo verso la finestra, e agli alberi che si dibattevano come mostri
al di là, fuori in quel paesaggio grigio e azzurro.
Tornai allo schermo della tv, sentendo i battiti del mio cuore e
sperando che tornassero ad un ritmo regolare di lì a poco.
Qualcuno bussò alla finestra, e mi voltai terrorizzata. Il
volto del ragazzo dai capelli ricci e castani, dagli occhi grandi
dello stesso colore, mi fissò, da lontano. Rabbrividii,
spalancando gli occhi.
“Che cosa vuoi?” gridai, in preda al panico,
trattenendo attaccato al mio petto un cuscino e alzandomi dal divano.
Lui mi lanciò un’occhiata, sgranando gli occhi. Il
licantropo.
“Che cosa vuoi?” rilanciai, spaventata. Lui
picchiettò ancora sulla finestra.
Lo raggiunsi, avvicinandomi piano a quella, cercando di capire qualcosa
dal suo sguardo. Battei le palpebre,
facendomi più vicina.
Aggrottai le sopracciglia, guardandolo.
Lui alzò le mani, in segno di resa.
“Non voglio assaggiarti, o mangiarti” disse, e io
non sorrisi affatto.
Lo scrutai in volto. “Che cosa vuoi da me?” questa
volta la mia voce era bassa e profonda, irritata fino
all’osso.
Alzò le spalle, facendo un respiro. “Mi
apri?”
“Perché mai dovrei farlo?” esclamai,
offesa. Quel licantropo non aveva davvero un briciolo di decenza!
Abbassò lo sguardo per un secondo e poi lo rialzò
su di me. “Non avercela con me, non voglio
ucciderti” sbottò.
“Non ne sono mica così sicura” dissi,
tra i denti.
Lui scosse la testa. “No, è così.
Perché mai dovrei ucciderti?” mi disse,
dall’altra parte del vetro della finestra.
Spostai lo sguardo ad un lato, in basso, della finestra, e vidi le mie
stupide “sicure”che avevo comprato, e pure
quello stupido cerotto colorato, attaccato alla casaccio.
Tornai sui suoi occhi e sbuffai. “Non so chi sei, non so cosa
vuoi” dissi, quasi meccanicamente.
“Fammi spiegare” disse lui, alzando ancora le mani.
“Non avrai intenzione di entrare dalla finestra?!”
dissi, scocciata.
Lui mi sorrise e scosse la testa.
“D’accordo, ti concedo di entrare dalla
porta” mi arresi, direzionandomi verso quella e aprendola,
per farlo passare
qualche secondo dopo.
“Grazie” disse.
“Ciao, piacere, sono Chey, sono una ragazza di diciassette
anni e sono perfettamente umana. Che cosa vuoi da me?”
gli presi la mano, stringendola alla bell’e meglio di sbieco
e poi lo guardai.
Lui rimase spiazzato. Era vestito come prima, a scuola.
“Volevo scusarmi per prima, per averti spaventata”.
“è il minimo, apprezzo. Grazie” alzai un
sopracciglio. “E allora?” continuai, notando che
stava dritto e immobile
come fosse una statua.
La schiena però rimaneva leggermente ricurva e fissava il
pavimento, indeciso forse, su cosa dire e rispondermi.
Gli lanciai un’occhiataccia, e in quel momento lui
alzò lo sguardo.
“Vorrei conoscerti. Mi farebbe piacere conoscerti”.
Sbuffai, sconcertata e lo guardai in maniera torva. “Non
crederai mica che io sia così stupida?” sbottai,
contrariata.
“Io non voglio conoscerti!”.
“Senti, fammi spiegare…”
“Spiegare?” alzai le sopracciglia, adirata.
“Non voglio farti del male, quante volte te l’ho
detto?”
“Senti, lasciami in pace, per favore!”
Gli andai incontro, sbattendolo fuori di casa.
Un lampo chiaro mi attirò sulla sinistra, e voltai lo
sguardo.
Loud.
“Loud, oh per fortuna” presi un respiro
“vieni dentro” lo presi per mano, e lo trascinai
all’interno, mentre il licantropo
se n’era andato, e non sapevo che faccia avesse fatto, non
l’avevo più guardato.
“Che è successo?” mi chiese Loud,
perplesso.
Scossi la testa. “Sono contenta che ora ci sei tu”
appoggiai la testa contro il suo petto e respirai il suo
profumo, sapeva di rose…
“Dai, su non ti preoccupare” mi
accarezzò la testa. Poi cambiò espressione.
“Che cosa ti ha fatto? Come faceva
ad essere in casa tua?”
“Lascia perdere”.
Loud digrignò i denti, offeso.
“Ha detto che non vuole uccidermi… ma lascia
perdere. Non mi interessa. Se non mi vuole uccidere, che mi
lasci in pace, basta che non mi mangi, no?”
Loud annuì.
“Sono contenta che tu sia venuto a trovarmi”.
Loud sorrise, apertamente e mi sciolse. “Te l’ho
detto però, che se hai bisogno… non esitare a
chiamarmi. Faccio
un po’ fatica a capire quei cosi, i cellulari, ma non sono
così deficiente” sorrise, ancora e mi
rasserenò.
“Certo” sbottai, alzando una mano per aria e
muovendola a destra e a manca.
Mi trattenne ancora verso di lui, per qualche minuto e ne fui felice.
“Grazie” dissi, sussurrandolo. Quasi senza
accorgermene.
Uno speciale grazie a chi mi commenta, chi mi legge, e chi ha messo tra
i preferiti questa ff! grazie mille!!! Questo mi rende davvero
contenta!
Ringrazio:
valevre
hehehe mm… per attore non avrei nessuno… se
magari mi viene in mente qualcuno lo dico ! :D grazieee
alexis
graziee il lupo… ancora non si è detto come si
chiama! :D *me non ti crede pazza* XD *me ti crede muy simpatica*
nessun fastidio, per nulla, anzi mi fanno davvero piacere le tue
recensioni! ;)
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Capitolo 19 *** -18- ***
- DICIOTTESIMO CAPITOLO -
*
Mi slacciai dal suo abbraccio; avrebbe pensato che ero troppo
deficiente per farcela da sola. Ma da sola ce la
facevo benissimo.
“Vuoi che ti offra qualcosa, visto che sei qui?”
biascicai, guardandolo.
Loud scosse la testa.
“Credevo che solo le donne fossero
anoressiche…” lo guardai ancora. “Sto
scherzando” aggiunsi.
Lui mi guardò torvo.
“Adesso, non c’è bisogno che rimani, sto
meglio davvero” mormorai, lanciandogli un sorriso
compiaciuto.
“Grazie per essere passato”.
“Ma perché mi vuoi sempre cacciare?”
Aggrottai le sopracciglia. “N-no… io non ti voglio
cacciare, ti sbagli” borbottai, tra i denti.
“Allora, permettimi di restare”
continuò, senza nessuna esitazione.
Annuii, un po’ confusa. “D’accordo, resta
pure”.
Lui si avvicinò. “Non fumo e non bevo, e non sono
anoressico” disse, in un sussurro, prendendo posto sul
divano.
Sbuffai, sollevata e mi voltai verso di lui. Era già
stravaccato con gli stivali sul tavolino. Vecchia, brutta abitudine
di tutti quanti.
“Ehm… senti…” mi misi a
sedere vicino a lui; questa volta però non appoggiai i piedi
anch’io.
Lui si girò verso di me, alzando un sopracciglio.
“Non hai proprio idea di chi sia quel ragazzo?”
mormorai, un po’ imbarazzata di rigettarmi
sull’argomento.
Mi lanciò una lunga occhiata, poi rispose: “Abbiam
scoperto che si chiama Liam. Abita vicino al fiume, e non
parla granchè… diciamo con nessuno. A quanto ho
capito è un lupo mannaro solitario”. Sorrise un
attimo.
“Ah dunque, si chiama Liam…”
“Sì, perché?” mi rivolse uno
sguardo confuso e curioso.
“No, niente” scossi la testa. “Ma
com’è di carattere?”
“Questo non lo so” disse lui.
“Non so se averne paura, ma come ti ho detto ora è
tutto sotto controllo” mi confortai, per non sembrargli
spaventata più del necessario.
Lui annuì. “Divertente
quest’affare” disse, in direzione della tv.
“A casa ne abbiamo uno gigante, ma io preferisco
quello piccolo che tengo in camera mia”.
Scoppiai a ridere.
Loud mi guardò sconcertato. “Che
c’è?”.
“Sembra che vivi nel 1800! Non dirmi che non eri un
appassionato della tv” sbottai.
Mi fece un sorriso di sbieco, che mi lasciò senza fiato.
Sorrisi anch’io, incrociando le braccia e concentrando lo
sguardo allo schermo.
“Stavo scherzando” sussurrò lui, tra i
denti.
Mi voltai di scatto, sgranando gli occhi.
“Brutto…”
Loud mi prese una mano e mi bloccò, baciandomi dolcemente
sulle labbra.
“La prossima volta dì bello. Apprezzerei di
più” sorrise, lasciandomi andare.
“Sei incredibile” sbottai.
“Grazie”. Il suo fascino mi teneva incollata a lui,
più che alla tv, così persi più della
metà del programma che davano.
Improvvisamente, ripensai alle lettere che avevo trovato a casa mia.
Guardai Loud fissare lo schermo della tv, assorto.
Non potevano… e invece sì. Erano proprio sue. Chi
altro si chiamava Loud?
Respirai.
Loud mi lanciò uno sguardo, poi tornò a fissare
la tv.
Come diavolo aveva fatto a sapere che il licantropo che mi perseguitava
si chiamava Liam? Cos’era, un agente
investigativo? Magari, assieme ad Antoine e alla sua
famiglia…
“Come sta Antoine?” gli chiesi.
“Bene” rispose lui, serio. “Vuoi andare a
trovarlo?” abbozzò un sorrisetto.
Annuii. “Sì, appena andiamo, voglio
salutarlo”.
“Okay”.
“Insomma, l’altra volta mi avete salvato in
due” sorrisi. “In tre, se consideriamo
Jen”.
Anche lui sorrise.
“Si sta comodi sul tuo divano” disse, continuando a
seguire il programma in tv.
“Già” mormorai.
Mi appoggiai alla sua spalla, quasi senza accorgermene. Sentivo una
gran stanchezza.
“Esser attaccati non è il massimo, eh?”
sussurrò al mio orecchio.
“Scusa” dissi, rialzando la testa e trovandola a
pochi centimetri dal suo sguardo e dalla sua bocca.
Lui scosse la testa, lievemente. Mi si avvicinò e credevo
che mi stesse per baciare; sviò sulla guancia e poi sorrise.
“Intendevo da un lupo mannaro, non alla mia
spalla”.
Socchiusi la bocca per dire qualcosa, ma non dissi nulla. Mi sentivo
solo una stupida, e non sapevo il perché.
“Ah” si stirò, alzandosi.
“Sarà meglio andare”.
“Poltrire non è il tuo forte?”
Alzò un sopracciglio. “Non direi”-
Sorrisi. “D’accordo, ti seguo. Sempre che io non ti
dia fastidio”.
“Ma smettila” biascicò, prendendomi il
braccio e trascinandomi fuori casa.
“Aspetta! Devo chiudere a chiave; non tutti sono impavidi
come te a lasciare casa senza sicure…”.
Alzò un sopracciglio, sbuffando un sorriso.
“Quando mai io…”
“Scherzavo”.
Loud mi guardò dritto negli occhi e ricambiai. Poi chiusi a
chiave la porta e lo seguii nel freddo della sera.
“Che ore saranno?” borbottai, stringendomi nel
cappotto.
Mi mise una mano sulla spalla, attirandomi a sé.
“Saranno le sei”.
Raggiungemmo la sua villa, dopo una decina di minuti, se non di
più. Camminavamo piano, la sera era sopraggiunta
e il cielo si era progressivamente oscurato. Era blu scuro.
Ce la prendemmo comoda. Arrivati, lui bussò alla grande
porta d’ingresso e aspettammo.
“Ohilà” ci accolse Antoine, aprendo.
“Ma che ci fate qua?” alzò un
sopracciglio.
Alzai le spalle, e lo guardai. “Ciao Antoine, come
stai?”
“Bene Chey, grazie del pensiero” sorrise.
“Tu tutto bene, cheri?”
Annuii. “A parte il freddo e i compiti da
recuperare”.
Loud mi lanciò uno sguardo, sorridendo.
“E qualche animale da arginare”.
Antoine mi guardò compiaciuto e ci lasciò
entrare.
“Stavate mangiando? Vi ho disturbato?”.
Antoine quasi sorrise. “Oh no, cheri, non ti
preoccupare”.
Loud e lui si scambiarono un’occhiata.
“D’accordo” mi feci spazio nel salotto.
Vidi un ragazzo, che riconobbi subito come quello che mi aveva
attaccato tra i cespugli, fuori da casa mia.
“Pearl, abbiamo un ospite. Sii carino” disse
Antoine, entrando dopo di me. Loud entrò per ultimo.
Pearl alzò lo sguardo su di me e non decifrai la sua
espressione.
“Ciao” mormorai; mi faceva un po’ paura
il modo in cui mi guardava.
Lui rilasciò lo sguardo e lo puntò sul tavolino;
stavano giocando a carte.
“Disturbo?” ripetei, cercando di mostrarmi cordiale
anche a loro.
Lui scosse lievemente la testa, non degnandomi neanche di uno sguardo.
“Ciao” mormorò un altro ragazzo; mi
voltai verso di lui e abbozzai un sorriso.
“Mi chiamo Seb, tu?”
“Chey” sussurrai, contenta che ci fosse qualcun
altro che poteva apprezzare la mia presenza.
“Ciao, io sono Andrè” venne avanti un
altro ragazzo dall’aspetto abbagliante; aveva capelli
boccolosi e color del
rame, e gli occhi come smeraldi.
“Piacere” mormorai, imbarazzata dal suo incredibile
sguardo.
Loud si fece accanto a me. “Che stavate facendo?”
“Una partita. Vuoi?” Andrè teneva in
mano delle carte.
Loud mi lanciò uno sguardo e andò a sedersi
accanto a lui, prendendo parte alla partita.
Mi sistemai vicino a Loud, su un bracciolo del divano.
“Tesori…” una donna dai capelli rossi
entrò.
Si bloccò davanti a me. “Oh, non sapevo avessimo
ospiti”. Mi lanciò una lunga occhiata.
“Ma tu sei la ragazza
dell’altra volta”.
Loud mi guardò, aggrottando le sopracciglia.
“Ehm…” non sapevo cosa dire
“mi ero un attimo… imbarazzata” dissi.
Ripensai al fatto che fossi scappata
via, senza nemmeno degnarla più d’una
parola…
Lei annuì, compiaciuta. Sembrò capirmi.
“Certo, ma non ti preoccupare. Posso offrirti
qualcosa?”
Anche se mi sembrava gentile, qualcosa in lei non mi convinceva.
Scossi la testa.
“Ti chiami… vediamo…”
“Chey” le ricordai.
“Mer” mi fece un sorriso, pronunciando il suo nome.
“Sì, ricordo” dissi, incrociando il suo
sguardo penetrante.
Quella donna aveva strani gusti?
Bè, io no.
Si sedette nella poltrona accanto al divano dove eravamo seduti noi. Mi
guardò e sorrise, bevendo da una tazza di tè.
“Conosci Loud?” mi chiese.
Incrociai di nuovo il suo sguardo e annuii.
“Bravo ragazzo” rise, compiaciuta.
Loud le lanciò un’occhiata, divertito. Li guardai,
sorpresa.
Mer si sporse a guardare sul tavolino. “Dunque, io e Chey
puntiamo su una delle vostre due squadre, qual è la
più conveniente?”.
*
Ringrazio:
valevre,
grazie! eh sì, se è insistente.. hahha ;)
alexis,
ehilà : D eheh, ehhh aiutalo a trovare il piano B! ehhh
contenta che ora sai il nome? : D grazie comunque.
---> uno speciale grazie a chi continua a leggermi, fatemi
sapere se vi piace la mia storia, anche a chi non ha mai commentato ;),
ci tengo, grazie.
|
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Capitolo 20 *** -19- ***
- DICIANNOVESIMO CAPITOLO -
*
Le lanciai un’occhiata. Mer mi guardò, con un
sorriso aperto.
Rrrr. rrr. rrr.
Mi guardai intorno, cercando di capire da dove venisse il rumore;
sembrava un cellulare.
“I’m walking on
sunshine…oh….” cantava la suoneria.
Mer si guardò in tasca e tirò fuori il suo
cellulare, compiaciuta. “Scusa…”
mormorò a me, tralasciando gli altri.
“Sì? Oh, tesoro. Ma no, vieni a casa. Mangiamo
più tardi, sta’ tranquilla dai…
Sì, stiamo giocando a carte”.
Richiuse lo sportellino del cellulare e mi guardò.
“Allora Chey, su chi puntiamo?”
“Uhm… non lo so”.
“Tu punti su Loud e Andrè e io su Pearl, Seb e
Antoine, okay?”
Annuii; se andava bene a lei, che problema potevo avere io? Di certo,
non mi interessava granché su chi puntassi.
Tutti i ragazzi, chi più chi meno, sbuffarono
all’unisono e Mer sorrise.
“Sono i miei ragazzi” mi guardò.
Socchiusi le labbra, incrociando i suoi occhi.
“Diciamo, più alunni…”
sorrise ancora. Il suo sorriso era un misto di adorabile e malizioso.
“Oh” mormorai. “Sei
un’insegnante?”. Non era un po’ giovane?
“Sì” annuì lei.
“Veniamo dalla Francia, non te l’hanno
detto?” lanciò un’occhiata ai ragazzi e
poi a me.
“Sì, sì. Siete tutti molto…
gentili ad ospitarmi, comunque”.
“Oh, nessun problema, tesoro. Adoriamo gli ospiti”
mi lanciò un’occhiata che pareva infuocata, ma era
sempre adorabile.
Una ragazza entrò in quel momento nella stanza.
“Che palle, quegli incompetenti che affollano le
strade”
mormorò, a denti stretti.
“E questa chi è?” biascicò,
slacciandosi una sciarpa bianca e buttandola su una poltrona, poi ci si
sedette.
Mer le andò accanto, sul bracciolo. “Questa
è Cheyzanne… vero, tesoro?”
Annuii; si ricordava il mio nome completo, almeno.
“Ah, e chi sarebbe?” continuò la
ragazza; i capelli castani e gonfi, lunghi alle spalle e tagliati pari.
Gli occhi
indagatori parevano dello stesso colore a quella distanza. Indossava un
vestito senza spalle, grigio.
“è un’amica di Loud. Su, sii gentile
Amie”.
Amie mi lanciò un’occhiata di fuoco e ghiaccio.
“Piacere” mormorò, tra i denti.
“Non farci caso” disse verso di me
“è un’insegnante anche lei”.
Qui sgranai davvero gli occhi. “Ah davvero?”
Amie mi guardò male.
“Cioè, non intendevo… volevo dire,
sembri giovane per fare l’insegnante”.
“Oh, siamo tutti molto giovani” rilanciò
Mer, sorridendomi. Poi passò un braccio sulla spalla di Amie
e le baciò
la fronte. “Quest’altra volta, aspettami,
tesoro” le disse “i barboni e gli incompetenti
mettono paura anche a me, a volte”.
Amie annuì e sembrò addolcirsi di un poco.
“Forse è meglio che vada” mormorai,
alzandomi quasi goffamente.
“No, rimettiti pure a sedere, tesoro. Non
c’è nessun problema” mi fermò
Mer, alzandosi dalla poltrona e tornando
a sedersi accanto a me. “E fammelo presente se desideri
mangiare qualcosa, mi raccomando”.
Annuii. “Grazie. Guardo il risultato della partita e poi
vado, è anche tardi” ricordai.
Anne non sarebbe stata tanto contenta di vedermi tornare a
quell’ora.
Lei mi fece un cenno con la testa, e poi guardò la partita
assieme a me.
Quando Loud e Andrè vinsero, mi dileguai dicendo che era
troppo tardi.
Mer mi accompagnò alla porta, e salutai tutti. Loud mi fece
un sorriso da lontano, e lo ricambiai.
“Sono le nove, tua mamma non dovrebbe arrabbiarsi
troppo” disse, mettendo una mano sull’uscio della
porta.
Quella donna mi incuteva timore.
“Mia zia… comunque, preferirebbe che fossi a
casa” cercai di sorridere, ma non mi uscì
piuttosto convincente.
“Ci vediamo, e torna presto, mi raccomando” mi
salutò lei.
“Certo, ci vediamo e grazie per
l’ospitalità”.
Lei mi sorrise e io mi allontanai, percorrendo in poco più
di cinque minuti di camminata veloce la distanza che
spaziava tra la villa e casa mia.
Chiusi il cancelletto e presi un respiro. Infilai la chiave ed entrai
in casa. Cercando di fare meno rumore
possibile, per non destare l’attenzione su di me e per non
farle crescere sospetti, misi piano un piede…
“Chey” mormorò Anne, apparendo
sull’uscio della cucina.
“Zia, mi hai visto arrivare” non voleva essere una
domanda, e difatti non suonò come una domanda.
“Sì, dalla finestra”.
Guardai in basso e alzai le spalle, mentre prendevo un respiro.
“C-certo”.
“Dunque?”
Buttai un occhio all’orologio. Erano le nove e dieci.
“Sono andata a fare una passeggiata” dissi.
“A quest’ora?” alzò le
sopracciglia, guardandomi torvo, il che mi metteva ancora di
più a disagio.
Annuii.
“Senti Chey, se ci sono problemi puoi parlarmene”.
“No, non ne ho. Sto recuperando, come sai.”
“Non mi riferivo solo alla scuola”
proseguì, e io rabbrividii inspiegabilmente.
“Certo” mormorai. “Ma va tutto
bene” aggiunsi subito. “Non ti devi
preoccupare”.
“E invece se torni a quest’ora, io mi
preoccupo”.
“D’accordo ero con degli amici, con i miei
amici”.
Sembrò sollevata. “Se sono tuoi amici, mi fido e
ti credo” disse.
“Okay, ora vado in camera mia. Sono stanca e domani ho un
compito in classe”
Lei mi guardò e annuì. “Dormi
bene” mi diede un bacio sulla guancia. “A domani, e
sogni d’oro.”
“Anche a te” mormorai, poi salii le scale.
Quando entrai in camera mia, mi richiusi la porta alle spalle e tirai
un sospiro di sollievo. L’avevo scampata.
Che palle i genitori… o chi ne faceva le veci.
Mi rilassai sul letto, accendendo la televisione. Era minuscola, ma a
me andava bene così. Tenni il volume
basso, non volevo dar fastidio a quell’ora.
Sapevo che Anne andava a dormire di lì a poco, lavorava al
negozio di fiori e si stancava parecchio.
Mi presi le ginocchia al petto, e sbuffai, guardando la tv. Ripensai a
tutte le persone con cui avevo trascorso la
serata. Uao.
Un rumore.
Qualcuno picchiettò sulla finestra, e mi destai dai
pensieri, rivolgendo uno sguardo in quella direzione.
“Che palle questo vento” biascicai, irritata.
Andai alla finestra, intenta a chiudere le tapparelle. Qualcuno mi
bloccò. Il vetro però era chiuso.
“Ma chi è?” sbottai, un po’
spaventata. “Non ne posso più” mormorai,
a denti stretti.
“Sono io”.
Rivoltai lo sguardo alla finestra e al di là del vetro
c’era il licantropo. O Liam.
“Scusami, ma che ci fai pure di notte, dalla mia finestra?
Per giunta, quella della mia camera”
sbottai, contrariata, gettandogli un’occhiata.
“Scusa, dovrei dirti una cosa”.
“Come? Tu devi dirmi una cosa? E ti pare il
momento?”
“Oggi non andava bene” mormorò lui,
guardandomi.
Presi un respiro; mi metteva un tono cagnesco parlare con lui.
“Senti, sono stanca e non vedo perché dovrei fare
amicizia con un licantropo. Come te lo devo dire?” cercai
di non essere troppo dura.
“Stai frequentando delle creature che non hanno nulla di
umano” disse, cupamente.
“Come?” avevo paura di non aver sentito bene, forse
il vetro attutiva le voci e i suoni.
“Stai facendo amicizia, stai frequentando delle creature non
umane”.
“Puoi ripetere?” Questo era davvero troppo. Venire
in casa mia, per giunta dalla finestra e dirmi quelle
stupidaggini…
“Quelle persone… le persone che frequenti. Non
sono umane, sono vampiri”.
Gli gettai uno sguardo spaventato e intimorito. “Che vuoi
dire?”
“Che sono vampiri” ripetè, cercando nei
miei occhi qualcosa che gli dicesse che avevo afferrato il concetto.
“N-non è possibile” biascicai.
“Che cavolo stai dicendo?” mi tornò il
tono cagnesco; non riuscivo a farne a meno
di rispondergli così.
“Stacci alla larga. Mi dispiace, ma non sono innocui. I
vampiri fanno del male alle persone, le uccidono”
mormorò, sempre continuando a guardarmi negli occhi.
“I vampiri non esistono” dissi, e rilanciai lo
sguardo che mi mandava.
Lui annuì, amaramente.
Aprii la bocca, ma non uscì nulla. Che cosa stava dicendo?
Che cosa voleva dirmi? Perché era venuto per farmi
questo?
Non poteva essere vero. No, non poteva essere vero.
Loud… Loud, non era un vampiro. Lui era la prima persona
umana che mi aveva colpito, in diciassette anni di vita.
Lui non poteva essere diverso.
Doveva essere il mio umano, la persona che avevo incontrato per caso e
che mi aveva salvata due volte…
Mi aveva salvata due volte da lui.
Lo guardai. “Tu menti”.
“No”.
“Sì” ribattei, incazzata come non mai.
“Non capisci che è così?”
“Non è vero!” ero incazzata, come poteva
dire quelle cose? come poteva insinuare quelle cose su di loro, su di
lui?
Dopo che Loud mi aveva salvata da lui.
“Tu sei un bugiardo”.
“Aprimi” disse, in un sussurro.
“No, non ci penso nemmeno”.
“Aprimi” ripetè, in tono tranquillo, ma
aveva sempre una nota di malinconia.
“No, non ci penso nemmeno!” esclamai, spaventata.
Stavo piangendo, era tutta la pressione che quel periodo mi
aveva messo addosso.
“Smettila di dire certe scemenze!” gli urlai
contro. “Tu non sai nulla! Smettila! Non puoi venire qui e
distruggermi
le cose! Tu, non sai nulla!”.
Liam mi guardò, sgranando gli occhi. “Dai,
aprimi”.
Senza accorgermene, gli aprii la maniglia e così facendo gli
consentii di entrare.
Lui scavalcò la finestra e mi si fece accanto.
“Devi credermi” mi prese la testa e me
l’avvicinò a lui.
“Ma che vuoi! Stupido bugiardo, fatti da parte, allontanati
subito da me. Non sto scherzando”.
Fece un passo indietro. “So che sei spaventata, lo avverto
guardandoti negli occhi”.
Gli lanciai un’occhiata gelida. “Vattene. Per
favore, vattene. Non voglio che mi rovini quello che sto provando.
Perciò, vattene, prima che cambi idea e ti sbatta contro il
muro”.
Lui continuò a guardarmi. “Stacci lontana, sono
vampiri” disse, allontanandosi da me e scavalcando ancora la
finestra.
Non lo vidi più.
Feci un respiro. Come poteva essere? Che cosa mi aveva detto?
Cominciai a piangere veramente, non potevo più tenermi
dentro nulla. E così, mentre la luna troneggiava incauta nel
cielo e le stelle le brillavano attorno, mi disperai…
perché volevo disperatamente che tutto andasse bene, per una
volta nella mia vita.
*
Ringrazio:
alexis ahhhh
mi fai ridere!! spero ti sia piaciuto anche questo capitolo ;) *me
ascolta la canzoncina cantata da alexis*
Special thanks
: Un grazie particolare a tutte le persone che hanno messo questa
storia tra i preferiti, siete veramente gentili:
Anthy
Bella4
bella5
bibba88
BlacK_RosE_
blinkina
candycotton
Devily
egypta
Mnemophobia
valevre
Sono commossa *_*
grazie mille, di cuore.
Campagna di Promozione Sociale -
Messaggio No Profit:
Dona l’8‰ del tuo tempo alla causa pro recensioni.
Farai felice milioni di scrittori. |
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Capitolo 21 *** -20- ***
- VENTESIMO CAPITOLO -
*
Non pensarci era impossibile. Pensarci lo era ancora di più,
perché quando ci pensavo era troppo difficile sopportarlo.
Ero in bilico, tra due mezze verità e tra due mezze scelte.
Che cosa avrei fatto, a quel punto?
Le persone con cui stavo instaurando una futura amicizia, mi era stato
detto che non erano mortali. Che non erano umane.
Che erano vampiri.
Pensai soprattutto a Loud, al ragazzo del quale me ne fregava. Non ne
ero innamorata d’accordo, ma non potevo dire che fosse strano
pensarci durante il giorno o la notte. Anzi, ci pensavo spesso.
Stava di fatto che l’unica amica che avessi era Jen, e
così conoscendolo mi si erano aperte altre porte. E avevo
conosciuto anche la sua… diciamo famiglia.
Avrei voluto integrarmi come si deve nel suo mondo, cercando di passare
dei bei momenti, ma ora tutto mi era… crollato addosso.
E come potevo fare? Ormai quello che avevo sentito, quello che mi era
stato detto dal licantropo, Liam, era tale.
Non potevo cambiare l’ordine delle cose. Potevo solamente
cercare di scoprire qual era la verità.
La mattina si oscurò di nubi, attorno alle dieci, quando ero
nel banco dell’aula di storia; avevo preso un bel sei
nell’interrogazione di scienze ed ero soddisfatta.
Ma non lo sarei mai stata davvero, finchè non avessi
scoperto la verità su di loro.
“Chey, va tutto bene?” mi chiese Jen, lanciandomi
un’occhiata preoccupata. Era a qualche centimetro da me,
vicino al mio banco.
Scossi la testa. Preoccuparla era l’ultima cosa da fare.
Oppure era la prima? Se le avessi detto… se le avessi detto
quello che Liam aveva detto a me, forse avrei avuto
un’alleata, forse avrei potuto avere un aiuto.
D’altronde anche lei ormai li conosceva, e forse avrebbe
voluto sapere…
No, l’avrei messa di certo in pericolo, e non potevo
permettermelo. Inoltre, sapendo quanto soffrissi io a
quell’idea, le avrei di certo procurato dei brutti momenti,
come quelli che stavo passando.
No, non potevo dirglielo.
“Va tutto bene, Jen. Tu?”
Lei annuì, ma non mi sembrò tanto convinta.
“Se hai bisogno…” iniziai, ricordando
che lei per me lo faceva sempre.
Lei annuì di nuovo, accennando un sorriso.
Mi chiesi se lei vedeva Antoine anche da sola, anche se non
c’ero io. Chissà a che rapporti stavano veramente.
La guardai, aggrottando le sopracciglia. Lei dopo poco se ne accorse e
cercai di sorridere, voltandomi verso l’insegnante.
Era tutto così confuso, persino i contorni
dell’aula mi apparivano sbiaditi. Appoggiai una mano sul
mento, ricordando l’inizio della scuola, dove tutto era
così, soffuso e palloso.
Improvvisamente, pensai al licantropo… Loud mi aveva salvato
da lui due volte, era lui quello che mi aveva attaccato, quando ero con
Jen… oppure uno dei suoi amici lupi, se mai ce ne fossero
stati?
No, non potevo saperlo con certezza. Di certo, se lui era
l’unico licantropo in circolazione in quella zona, era lui
che ci aveva attaccate. Diversamente, poteva essere stato qualcun altro.
Rabbrividii. Chissà quante creature c’erano in
quel posto, senza che nessuno ne sospettasse nulla. Era spaventoso.
Erano potenziali assassini, criminali nascosti.
In una villa, criminali nascosti in una villa, oppure in giro.
Chissà dove se ne stava Liam… in una casa? Oppure
non l’aveva?
Scossi lievemente la testa, cercando di smettere di pensare. Sospirai,
fare tutte quelle stupide congetture e non saperne nulla della
verità era frustrante.
Ero immersa nello studio quel pomeriggio, così non potevo
pensare ad investigare sulla faccenda. Dopo le due sufficienze che
avevo preso, era ora di tornare a galla nelle materie scolastiche e
cercare di recuperarle un po’ tutte. Ma matematica…
Mordicchiai la penna, pensare mi portava sempre in ampi spazi aperti e
mai rimanere vigile su ciò che stavo facendo nella
realtà.
Così scossi la testa e mi concentrai sul quaderno pieno di
strani simboli e numeri…
“Chey, Chey” mormorò una voce, che prima
mi parve piuttosto lontana, poi più vicina.
Qualcuno mi puntellò la spalla.
“Chey, svegliati”. Aprii gli occhi e vidi mia zia.
“Anne…”
“Ti sei addormentata sul quaderno…” fece
un’espressione un po’ contraria ma non fu di
rimprovero, d’altronde anche lei capiva la
difficoltà di studiare quella roba.
“Hai dormito tutto il pomeriggio”.
“Ops” biascicati, alzandomi dal letto e mettendo il
quaderno sulla scrivania.
“Che ore sono?” mugugnai.
Anne guardò l’orologio prima di me. “Le
sei”.
Sospirai. “Devo aiutarti con la cena?”
Scosse la testa. “Se vuoi mangiare è
già pronto”.
Scendemmo le scale e mangiammo in silenzio.
“Senti Anne… tu per caso conosci abbastanza le
persone della zona?” chiesi, lasciando il cucchiaio sul
piatto della zuppa.
Lei mi lanciò un’occhiata. “Non troppo
bene, sono tutti così per i fatti loro e gli altri sono
enigmatici”.
Sgranai gli occhi. “A che cosa ti riferisci con
“enigmatici”?”
Lei succhiò un po’ di zuppa dal cucchiaio.
“Nulla di particolare. Mi sembra sia
così”.
“Oh, bè” dissi, rimuginando un attimo
sulle sue parole.
“Con enigmatici intendi anche strani?”
Lei mi guardò un secondo poi sembrò scrutare il
vuoto, con le sopracciglia alzate. Annuì.
“Sì, la penso anch’io così.
Sono tutti un po’ strani qui”.
“Conosco varie persone… dipende”
andò avanti lei, ponendomi altri interrogativi in testa.
“E della collina conosci qualcuno?” alzai un
sopracciglio, guardandola curiosa.
Lei sembrò pensarci un attimo. “Della
collina?”
“Non so… è un posto poco frequentato,
per noi del paese, ma ci sono varie case e … e persino una
villa” mormorai, scrutandola.
Lei annuì, socchiudendo la bocca. “Ah
sì, conosco qualcuno che sta in negozio e la
villa… conosco una certa Mer, della villa”.
La bocca mi si aprì a metà, ma non riuscii a dire
nulla. Lei mi scrutò, continuando a mangiare.
“Ah, conosci una certa Mer… e
com’è?” dissi, rivolgendole
un’occhiata.
“Mmm… una persona pacata, credo”.
“Pacata?” alzai le sopracciglia, incredula.
“Sì insomma si fa gli affari suoi, però
è abbastanza estroversa e simpatica. Mi sembra una persona
cordiale, perché?”
“Nulla” scossi la testa, trangugiando un
po’ di zuppa.
La sera mi cullò tra le sue braccia, e mi stesi nel letto.
Mia zia, Anne, che conosceva Mer, quella della villa. Una coincidenza?
Una possibile spiegazione c’era? Che idiozia, magari si erano
solamente incontrate e siccome Mer ha una predilezione per qualsiasi
essere, ed è estroversa, cordiale e simpatica ha cominciato
a parlare con Anne e così si sono un attimo conosciute.
Magari avevano parlato solamente una volta, magari erano semplici
conoscenti.
Anne aveva mai visto i vampiri, oltre Mer? Mi mordicchiai un labbro,
pensandoci e rabbrividii, quasi involontariamente. Non ci capivo
più niente, ma mi rasserenò l’idea di
non aver visto né Liam, né Loud e gli altri, in
quella giornata. Così potevo tuffarmi nel mio piccolo mondo
di ovatta, cercando di rasserenare i miei pensieri, per quanto potessi.
Infine, andai a dormire, certa che prima o poi avrei dovuto scoprirne
di più.
*
Se ci sono errori fatemi presente... forse c'è qualcosa di
incoerente, uhm...
Ringraziamenti a chi continua a leggermi, e grazie a chi mi vuole
lasciare un commento, fanno sempre piacere! E a:
alexis --->
sono contenta che ti sia piaciuto! Eh già, Loud in quanto a
famiglia non scherza! haaa :D ehheh ; )
|
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Capitolo 22 *** -21- ***
- CAPITOLO VENTUNO -
*
Mi svegliai di colpo. Cercai di riprendere un battito regolare e di
abituare gli occhi alla penombra. Ansimai forte,
avevo appena sognato che Loud beveva avidamente e con piacere dal mio
collo.
Tremai, prendendo un respiro. Perché dovevo sognare quelle
cose? Quanto ero stupida a immaginarmi quelle scene?
Scostai le coperte e cercai di alzarmi, la testa mi girò.
Scesi le scale, arrivando al piano inferiore: tutto era buio.
Non dovevano essere ancora le sei. Buttai un occhio
all’entrata della cucina e mi diressi all’interno,
presi un bicchiere
d’acqua fresca e lo inghiottii in un solo sorso.
Feci un altro respiro. Dovevo calmarmi. Dovevo solo calmarmi. Ansimai e
mi misi una mano sul cuore: era troppo
accelerato, sentivo i suoi battiti sordi rimbombarmi in gola.
Mi calmai, lasciando il bicchiere nel lavello.
Andai a sedermi sul divano e facendo meno rumore possibile accesi la
Tv. Tenni il volume basso e guardai un telefilm.
Piano piano gli occhi mi si chiusero…
“Chey, devi andare a scuola!” esclamò
mia zia, svegliandomi.
Doveva essere in una stanza attinente alla mia. Aprii gli occhi e
battei le palpebre. Mi alzai, aprendo le tapparelle.
La giornata ospitava una timida luce bianca di sottofondo, le nuvole
erano in primo piano, anch’esse bianche.
Sbadigliai e lentamente mi vestii. Non volevo rischiare che mi venisse
ancora l’ansia. Mi avviai in cucina e mangiai la mia
colazione, sotto gli occhi indagatori di Anne, che mi scrutava di
sottecchi. Le lanciai un’occhiata alzando piano lo sguardo
e poi mi diressi fuori.
Mi imbacuccai bene nel mio cappotto e salii sulla mia bici. Era freddo.
Raggiunsi la scuola in dieci minuti, Jen doveva già
esser arrivata.
L’aula pareva più vuota quella mattina, forse
perché io ero stressata e la mia percezione delle cose
diminuiva, senza interesse.
La salutai con un cenno della mano e lei mi guardò in
cagnesco. Mi accigliai e mi chiesi che cosa ci fosse che non andava.
Le lanciai solo qualche vaga occhiata durante la lezione, non volevo
ulteriori problemi, visto che già il mio umore era ai
bassifondi.
“Ho conosciuto Mer e tutti gli altri” mi disse, a
bassa voce, nel mezzo della prima lezione.
La guardai, e la bocca mi si socchiuse automaticamente.
“Vorrei sapere perché non ti sei fatta viva, se
c’erano problemi potevi dirmelo”.
Continuai a fissarla, incapace su cosa dire.
“Anche loro si sono preoccupati, non ti sei fatta
vedere”.
Alzai le sopracciglia. “Senti…”
cominciai, lei mi lanciò un’occhiata torva.
Oh mio dio, se Jen rimaneva da sola con loro potevano anche farle del
male e ferirla o peggio, morderla. Chissà che balla
gli avevano raccontato per farla restare un po’ di
più in quella villa.
“Non hai notato nulla di strano?” chiesi.
Lei mi guardò male. “Che intendi?”.
Scossi la testa.
Lei non poteva immaginarlo, non doveva sapere. O forse sì?
Non sapevo cosa fare. Indubbiamente mi avrebbe preso per pazza. Mi
girai ancora verso di lei: guardava tranquilla la
professoressa. Mi voltai anch’io verso quest’ultima.
“Questa volta ho studiato” le sussurrai,
sporgendomi verso di lei. Mi guardò di sbieco.
Tornai a casa e il freddo pungente mi fece rabbrividire le ginocchia;
aprii la porta e la richiusi alle mie spalle. Mi ci appoggiai
sopra, sbuffando. “Ciao zia”.
Non sentii nessun rumore provenire dalla cucina, così mi
affacciai sull’uscio e non vidi nessuno.
“Chey”.
Sobbalzai e me la trovai alle spalle, socchiusi gli occhi.
“Ciao” ripetei.
Lei sorrise. “Mangia pure, ti raggiungo. Sto cercando di
finir di metter in ordine questa casa, è una vera
confusione”.
Annuii, soprappensiero, mettendomi a sedere.
Pensai a Jen che ora li conosceva tutti pure lei. Pensai a Mer che
intratteneva mia zia, pensai alle lettere di Loud in casa mia.
Era tutto troppo strano. Il destino a volte gioca brutti scherzi.
All’improvviso ricevetti una telefonata. Aprii lo
sportelletto del cellulare, e detti un’occhiata fuori dalla
cucina, mia zia gironzolava
a metter in ordine nel salotto.
Risposi. “Pronto?”
“Ciao”.
“Chi sei?” chiesi, piuttosto confusa.
“Sono Liam”.
“Che vuoi?” risposi, non capivo che cosa volesse
ancora da me.
“Nulla. Volevo chiederti, come stai?”
“Come sto? Direi normale” quasi sbraitai.
“Come fai ad avere il mio numero?”
“Ho cercato un po’ in giro. Non ti arrabbiare, stai
tranquilla”.
“Tranquilla?” mormorai, a denti stretti.
Lui mugugnò qualcosa, e non capii. “Tutto bene,
quindi?”
“Ma sei pure sordo oltre a insistente?” esclamai,
piuttosto attizzata.
Lui sbuffò. “D’accordo, ci
sentiamo”. Riattaccò.
“Ci sentiamo?” sbraitai. Mi accorsi che non poteva
più udirmi e chiusi la chiamata.
Notai che qualcun alto mi aveva chiamata quella mattina,
c’era uno squillo tra le ultime chiamate ricevute. Era Lilian.
Chiamai e attesi. “Mamma, ciao” dissi.
“Chey!” esclamò lei. “Come
stai?”
“Bene. Mi avevi chiamato?”
“Sì, ma mi ero scordata che dovevi essere a
scuola. Che cosa mi racconti?”
“Ah, non molto. Ho recuperato parecchie insufficienze, e per
il resto tutto tranquillo e noioso come al solito” sbuffai.
“E tu il lavoro?”
“Bene, ho detto a tutti quanto tu sia responsabile”
sorrise, evidentemente contenta.
“Mi fa piacere” sorrisi anch’io.
“Allora, se c’è qualche problema
chiamami, eh? Chiamami anche se non ne hai, cosa che preferisco. Ti
voglio bene”.
“Ti voglio bene, mamma” riattaccai.
Controllai tra le chiamate perse, ma non ce n’era neanche una
di Loud. Alzai le spalle, prendendo un respiro e buttai
un’occhiata
al cielo fuori dalla finestra.
*
Ringraziamenti a tutti
coloro che continuano a seguire, leggere e commentare questa ff
e a:
Black_DownTH:
*_* grazie mille per aver letto questa ff e mi fa davvero piacere che
ti sia piaciuta! e grazie per aver commentato!
|
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Capitolo 23 *** -22- ***
- CAPITOLO VENTIDUE -
*
Il fatto che Liam si fosse preoccupato per me si protrasse anche per il
giorno dopo. Nella mia testa c’era una specie di battaglia.
Al contempo mi chiedevo perché stessi pensando a lui e alla
sua telefonata e perché me l’aveva fatta. Non
avevo nemmeno ricevuto una chiamata da Loud. Ciò mi
preoccupava e non poco. Dovevo essere attenta alla sua natura, ma non
potevo fare a meno di pensare ai giorni passati in sua compagnia e a
quanto mi fossero piaciuti.
Provare a dimenticare un volto che ci piaceva, la sensazione di
vicinanza di un corpo che ci faceva battere il cuore, i tratti
personali come una bella bocca, degli occhi profondi o un viso
affascinante, era davvero difficile.
Ogni tanto la mente produceva pensieri riguardanti quella persona e non
era sempre facile scacciarli; a volte diventava come una trappola.
Loud, non potevo ignorarlo. Per quanto mi sforzassi ero attirata da
lui. Ma non potevo abbandonarmi completamente alle sue fantasie,
sapendo che cos’era.
Ma ancora non sapevo con certezza che cos’era. E come avrei
fatto a scoprirne di più?
Mi alzai dal letto piuttosto confusamente. Spostai le coperte e guardai
dalla finestra: una tiepida luce faceva capolino nel limitare tra il
cielo e il paesaggio. Scesi le scale e vidi Anne che preparava la
colazione.
“Buongiorno” dissi.
“Buongiorno” fece lei. “Dormito
bene?”
Alzai un sopracciglio, dandole una veloce occhiata.
Sospirò. “È un gran freddo”.
La guardai e presi il mio toast. Lo mangiai, presa dai soliti pensieri.
Anne stava sciacquando dei piatti nel lavello e sentivo il rumore
dell’acqua che fluiva tra i pensieri.
Finii il mio toast e mi pulii le mani. “Ora vado, ci vediamo
dopo” biascicai, salutando Anne e uscendo.
Tenevo le mani in tasta, quando raggiunsi la scuola. Era davvero
freddo, se non altro il mio pesante giubbotto avrebbe fatto il resto.
La mia prima lezione era storia, e per quello già mi potevo
tranquillamente buttare giù, a parte per il fatto che avevo
preso la mia prima sufficienza da quando era cominciato
l’anno.
Mi guardai attorno e tutti erano così presi dalla lezione,
da non prestar attenzione a nient’altro, nemmeno al fatto che
stava cominciando a nevicare. La neve riempiva a mano a mano,
leggermente, lo spazio bianco tra le cornici delle larghe finestre e
l’erba verde era ormai
colorata di bianco.
Tutti si meravigliarono appena gettarono un’occhiata fuori,
prima che la professoressa entrasse. Sorrisi e guardai lo stupore
generale.
Era sempre cupo quell’antro di mondo dove vivevo, ma non
nevicava così spesso. La neve era ben accolta,
così come il sole.
In pausa pranzo, uscii dall’aula e mi misi l’ipod
nelle orecchie, sintonizzai su Stairway to heaven. La musica mi
permetteva di mantenere una certa calma perfino in un ambiente scomodo
come era quello scolastico, e mi lasciava rilassata, anche in mezzo
alla folla più rompiscatole da gestire.
Gli altri studenti si intricavano tra di loro nel corridoio, per
trovare i loro compagni e per pranzare. Sospirai e mi infilai una mano
in
tasca, mentre l’altra teneva l’ipod.
Deglutii rumorosamente quando nella mia vista comparve la solita scia
di capelli chiari. Socchiusi la bocca per lo stupore, ma lui era ancora
troppo lontano.
Respirai, sentendo il mio cuore accelerare i battiti. Continuai a
camminare, alzando lievemente la testa, per non apparire troppo in
imbarazzo. Loud mi passò accanto e mi sfiorò un
braccio.
Ebbi la sensazione che non mi avrebbe parlato. Invece si
fermò. “Ciao” sorrise.
Lo guardai, rapita. “Ciao” riuscii a mormorare, ma
mi sembrai solamente una deficiente.
Mi sorrise ancora. “Come stai? Tutto bene?”.
Ricambiai la sua occhiata assorta. Perciò si era preoccupato
per me? Gli importava se non mi aveva vista, se potevo esser stata male?
Deglutii. “Tutto okay, e tu?”.
Si strinse nelle spalle. “Al solito” poi mi si fece
un poco più vicino e sentii il suo odore contro i miei
capelli. Corrugai le sopracciglia, concentrata sul suo sguardo.
“È da un po’ che non ti vedo, sei sicura
di stare bene?”.
Respirai. “Certo. Anzi, grazie per avermelo
chiesto”.
Sbuffò in una risata. “Ma dai, figurati”.
“Adesso devo andare” mormorai, cercando di
allontanarmi dal suo corpo che mi attirava come una calamita.
Lui annuì. “D’accordo”.
“Ci vediamo” borbottai, alzando lievemente una
mano, con un’espressione contrita e tesa sul volto. Lui mi
guardò un ultima volta, poi in fondo, svoltai
l’angolo e mi infilai in bagno.
Chiusi la porta dietro di me e sospirai. Ci vediamo? Quando mai
l’avrei rivisto?
E perché, volevo davvero vederlo?
Non mi aveva neppure chiamata.
*
Questo capitolo è un po' corto, ma spero che vi piaccia :
Ringrazio tutti coloro che continuano a leggere questa ff, chi la
commenta e :
alexis: non
ti preoccupare per il ritardo, anch’io sono in ritardo, e
grazie mille per il commento! hehehe è sempre uno spasso
leggerli !
|
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Capitolo 24 *** -23- ***
- CAPITOLO VENTITRE -
*
Ero arrivata ad un punto di non ritorno. Dovevo scegliere per forza in
che direzione andare, se mai avessi saputo la verità su di
loro. Erano vampiri oppure no? Bevevano sangue, e tutte quelle cose
lì?
Se gliel’avessi potuto chiedere come si chiede
l’età o la provenienza, avrei fatto di certo
prima. Non mi ero mai messa ad indagare su nulla, e quella era la prima
volta. Non avevo idea di che ricerche e conclusioni avrei fatto, se
avessi cominciato a guardarmi attorno.
Qualsiasi persona che mi chiedeva come stavo, come andava, eccetera,
era per me fonte di non interesse; quando le cose non andavano
granché bene, o non andavano bene affatto, non si voleva
riferire una risposta a proposito. Perciò preferivo
tenermelo per me.
Raggiunsi il cancelletto della mia abitazione, e me lo richiusi alle
spalle, constatando che mia zia era in cucina, dalla luce accesa nella
stanza.
Aprii la porta e la salutai, ancora prima di vederla.
“Chey, tutto bene?” mi raggiunse la sua voce, calda
e familiare. Sbuffai, nemmeno entrando in cucina, ma ripiegando sulle
scale. Non le avrei risposto. Adesso basta, pensavo.
Nonostante tutta quella situazione mi poteva risultare familiare e
più accogliente di quella scolastica o di quella di altre
persone, facevo fatica a far finta di nulla, come se niente fosse.
Appoggiai la sciarpa sulla sedia della mia scrivania, e mi sedetti di
fronte al mio computer portatile. Decisi di scrivervi tutto quello che
la mia testa era in sovrabbondanza a tenere.
Ne venne fuori una specie di poemetto o racconto piuttosto bizzarro,
richiusi il computer e mangiai una brioche, attenta a pensare ad un
piano per smascherare i presunti vampiri.
Mentre ci pensavo, non potevo non guardare fuori dalla mia finestra. A
volte, guardarci era come un impulso incontrollabile. Quando si passava
la maggior parte della giornata chiusi in casa, poi quel piccolo antro
che ti permetteva di spiare all’esterno, diveniva un
oblò di salvezza e di respiro. Mi immaginavo di essere
già lì fuori, di correre via, prendere tutto,
impachettare i bagagli e correre. Verso nessuna direzione. Il che
sarebbe stato bello, e di certo un sogno, se non avessi aperto bene gli
occhi per constatare che non poteva accadere. Non in quel momento, non
in quella situazione. Però, avrei raggiunto mia madre.
L’avrei raggiunta volentieri nel collegio dove lavorava.
Almeno avrei potuto cambiare aria, almeno avrei potuto provare a vivere
una nuova vita, lontana da lì, lontana da quei problemi.
Suonai il campanello e una figura non tanto alta mi venne ad aprire; la
trovai un po’ mogia sull’uscio di casa sua.
“Ciao” mormorai.
Lei mi guardò, poi accennò a parlare:
“Ciao Chey” disse.
“Jen, senti… vorrei parlarti” continuai,
non sapevo bene nemmeno io cosa stessi facendo, ma indubbiamente volevo
e dovevo fare qualcosa per cambiare la situazione.
Lei corrugò le sopracciglia, evidentemente non riusciva a
capire perché mai dovessi parlarle così
all’improvviso.
“Ci sono alcune cose non chiare” rimarcai, notando
che proprio in quel momento lei mi stava facendo passare verso
l’ingresso.
“Dimmi, pure” rispose; eravamo in piedi
all’entrata, in un corridoio non tanto stretto e poco
illuminato, dal pavimento in legno.
“Qui?” chiesi, guardando un attimo il vano.
Lei fece lo stesso. “D’accordo, andiamo di
sopra”.
Annui, seguendola su per le scale. Raggiungemmo camera sua, e lei
chiuse la porta bianca.
“Scusami per quest’incursione” dissi,
riferendomi al fatto che fossi arrivata senza avvertire “ma
avevo proprio bisogno di confidarmi”.
Lei sembrò vivamente curiosa, e la guardai negli occhi
azzurro verde.
“Ho tante cose per la testa…” ammisi,
constatando la mia confusione mentale, troppo zeppa di pensieri, anche
inutili.
Lei mi guardò, perplessa e curiosamente. “Dimmi,
cosa c’è che non va?” mi chiese; la
scrutai a lungo nel suo viso tondo e da bambina.
“Ecco… ho paura di varie cose” ripresi,
notando che stavo per mettermi a piangere, ma non volevo. Mi controllai.
Lei mi fece segno di continuare.
“Non vorrei parlarne, visto che mi fa male, ma devo. Loud,
Antoine e tutta la loro storia… ecco, non sono normali.
Quella storia non è normale”.
“La storia?” Jen mi guardò in modo
strano. Forse pensò che fossi ubriaca.
Annuii. “Sì, tutta la loro faccenda, tutta la loro
famiglia. Loro non sono normali”.
“Chey, ma che dici?” la sua occhiata divenne quasi
palpabile, me la sentii addosso con veemenza.
“Loro… loro sono vampiri” ammisi,
sentendo che quell’occhiata come lama mi trafiggeva.
“Cos’hai detto?” mi fece lei, incredula.
Quasi i suoi occhi non tenevano lo spazio della palpebra, erano
sgranati.
Guardai per un attimo in basso, pensando che dovevo ripetere tutto e
poi spiegare tutto. Presi un respiro e rialzai la testa.
“Sì, loro non sono normali. Ma non sono ben sicura
del fatto che siano vampiri. Liam, il licantropo, bè
ecco… ora parrà strana come testimonianza, visto
che mi ha aggredita… però, lui mi ha detto che
sono vampiri. E se lui è un licantropo forse qualcosa ne
sa”.
Lo sguardo di Jen ora mi diceva che ero veramente un’ubriaca.
Cercai un po’ di comprensione e di aiuto nei suoi occhi e lei
cercava di capire me, nello stesso momento.
“Ma cosa stai dicendo?”.
Soffiai. “Mi prendi per pazza, vero?”.
Lei scosse la testa, e poi contorse le labbra, mentre pensava.
“Tu mi stai dicendo…”
Annuii.
“Ah, ho capito”.
Mi illuminai. “Davvero?”
“Certo. Tu ti senti in colpa perché non hai
più visto Loud, e anche gli altri, e ora magari non ne vuoi
più sapere perché ti fa meno soffrire non
frequentarlo più, così ti inventi che sono
anormali, per far disertare anche me”.
La guardai, incredula. “Ma Jen, che dici?”.
“Dico quello che penso. Dico quella che penso che sia la
verità” mormorò, fissandomi dritto
negli occhi.
“Ma è assurdo” biascicai, i miei erano
sgranati quanto i suoi prima. Non mi credeva, mi stava dicendo che non
mi credeva affatto?
“Secondo te, quindi, mi sto inventando tutto”
mormorai, a bassa voce. Forse ero un po’ delusa.
Lei non trattenne più il mio sguardo. “Sentii
Chey, è comprensibile. Con tutto lo stress che si
può accumulare…”
“No Jen, ti ho chiesto se tu mi reputi una
bugiarda” dissi, la voce ancora bassa, forse più
delusa.
“Io… io non lo so, se vuoi la
verità” mi rispose. Non sapevo più dove
guardare, lei non mi credeva, lei non sapeva.
Scossi lievemente la testa, pensando di arrendermi.
Poi la rialzai e puntai di nuovo gli occhi su di lei. “Questo
è quanto. Ho bisogno del tuo aiuto, se
vuoi aiutarmi, per scoprire se sono davvero vampiri e se possono essere
una minaccia per noi e per tutti gli altri abitanti del
paese”.
Lei parve non rispondere, e anzi cambiò argomento.
“E Liam, cioè il licantropo? Hai intenzione di non
prendere provvedimenti contro di lui?”
Aprii la bocca come per parlare, poi presi un respiro e parlai:
“Liam è una questione. Loud e compagnia
un’altra”.
Lei alzò un sopracciglio, perplessa.
“Liam la posso risolvere anche dopo, o anche subito, dipende
dalle circostanze. Non ci sono legata, come sai, come sono legata a
Loud e agli altri. Di Liam, insomma, me ne frega assai meno.
Perciò sono decisa a far luce sulla natura di Loud, visto
che comunque su quella di Liam non ci sono dubbi”.
“Ah sì?”
“Che vuoi dire?” la guardai, come per chiedere
spiegazioni. Non capivo dove volesse arrivare.
“Se pensi che Loud sia un vampiro, se dubiti di lui, allora
magari puoi dubitare del fatto che anche Liam sia un licantropo, visto
che è stato Loud che te lo ha riferito per certo”.
Ascoltai attentamente la sua spiegazione, e poi mi smarrii a cercare le
parole, con gli occhi alla coperta trapuntata del letto.
“Ecco…” Aveva ragione? Poteva aver
ragione lei, questa volta? Forse, Loud mi aveva mentito, anche su
quello.
“No” ripresi “non credo che Liam si sia
mostrato per quello che non è. A me è sempre
parso come un animale, poi quando mi ha attaccato ho avuto ancor meno
dubbi. Insomma, non credo che Loud si sia inventato la sua natura per
coprirsi le spalle”.
“Ah no?” Jen non era convinta, evidentemente. Come
potevo spiegarlo meglio? Ed ero sicura che anch’io sapessi
bene la verità per spiegarglielo a lei?
“Insomma, su questo possiamo ancora far luce. Non
è importante ora la natura di Liam, non deviarmi
dall’obbiettivo. Voglio sapere fino a che punto saresti
disposta per andare contro i tuoi sentimenti”.
“Intendi per andare contro Antoine?”.
Annuii; aveva capito.
Lei non rispose subito, si fissò le mani per un minuto
buono, e poi non seppi che cosa aspettarmi. “Se
dici… insomma, se sei davvero convinta che ci sia qualcosa
di strano in loro… allora, non posso non aiutarti e non
darti appoggio”.
Mi illuminai, visibilmente sollevata. “Bene, perfetto. Grazie
davvero, Jen” dissi, abbracciandola di sbieco.
“Credo che bisogna andare in fondo a questa faccenda, del
resto ci siamo dentro ormai. Tocca a noi far luce. Non possiamo
chiederlo a nessun altro, e poi se provassimo a dirlo agli altri
abitanti del paese, ci prenderebbero per pazze. No, è una
questione che dobbiamo risolvere da sole”.
Jen annuì, parve capirmi e ne fui contenta.
Le sorrisi, alzandomi dal letto. Mi sentivo il cuore più
leggero.
*
Ringraziamenti a tutti
coloro che leggono ancora questa ff, e a:
alexis:
heeee lo so devo andare a nascondermi -_-' aggiorno ogni morte di papa
XD hhhehee
ehm.... se sono una vampira ora?? mm... preferirei mantenere
l'incognito... non si sa mai....
e grazie mille del commento!! buone feste!!
|
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Capitolo 25 *** -24- ***
CAPITOLO 24
*
Chiusi la
porta d’ingresso e
salutai Anne, che stava sul divano. Mi rintanai in camera e accesi la
radio, un
po’ di musica mi avrebbe aiutato.
Presi il
quaderno e il libro di
geografia e incominciai a studiare. Quando pensai di aver capito
qualcosa
almeno sufficientemente, mi alzai dal letto e buttai tutto sulla
scrivania.
La finestra
era chiusa, ma da
fuori proveniva il rumore ululante del vento che sembrava sbattere
contro i
vetri. Subito, mi ricordai di quello di cui avevo parlato con Jen. Mi
ritornò
in mente la sua espressione confusa, non sapeva a chi e a cosa credere.
Decisi di
chiamarla, l’avevo
vista solo qualche ora prima, ma dovevamo agire e dovevamo prepararci
un piano.
“Pronto?”
rispose lei con voce
stanca.
“Pronto
Jen, sono io, ciao”
mormorai, sperando che mi ascoltasse. “Senti, stavo pensando
ad un piano”
continuai.
“Mmm?”.
Roteai gli
occhi al cielo. “Un
piano per scoprirli”.
Per un
attimo, lei sembrò ancora
tra le nuvole, poi fece un cenno di assenso con la voce.
“Bene. Cosa proponi?”
Ci pensai un
istante. “E se
organizzassimo una festa?”
“Una
festa?”
“Già”
annuii. “Per smascherarli.
Li invitiamo e poi creiamo una situazione a loro sfavorevole”.
“E
come?” chiese lei.
Ci pensai
ancora un attimo. “Non
lo so. Magari una di noi due si fa male, e il sangue esce
e…”
“Loro
lo bevono?”
Spostai gli
occhi di lato,
prendendo un respiro. “Ma no. Loro avranno qualche istinto.
Probabilmente se
sono vampiri magari uno di loro, sempre per istinto, si fionda su di
noi, ma
viene fermato…”
“E?”
“E
poi è troppo tardi, perché
ormai abbiamo capito…”
“Quindi
quello ci farebbe capire
che sono vampiri?”.
“Ai
nostri occhi sì, per loro
sarà semplicemente un’esposizione, mentre per noi
un indizio. Poi attueremo
altri piani per smascherarli in altre situazioni” proseguii.
“Ah”.
“Non
va bene?”
“Sì,
sì. Stavo elaborando
mentalmente il piano”.
“Sì,
giusto” affermai “Che ne
dici?” attesi un istante.
“Per
me va bene”.
Annuii,
soprapensiero. “Hai visto
Antoine di recente?”
“No,
tu?”
“No”
scossi la testa. “Bene,
d’accordo. Ora ci toccherà organizzare questa
festa”.
“Sì,
ma dove?”
“Non
conosci qualcuno che ci
potrebbe prestare casa sua?”
“Mmm…
sì, veramente qualcuno
c’è”.
“Davvero?
Okay, contatta e fammi
sapere”.
“Certo,
ciao allora”.
“Ciao
Jen” la salutai,
sorridendo.
Era fatta.
Avevamo un piano.
Il giorno
della festa arrivammo
davanti ad una grande casa bianca e rosa addobbata con tante luci. Era
piena di
piante ed arbusti.
“Salve.
Ciao, ciao” ci disse molto
frettolosamente, e con una punta di narcisismo quando portò
gli occhi sui
nostri vestiti, quella che doveva essere la proprietaria, una ragazza
della
nostra età dai capelli scuri.
Salutammo e
ci fece entrare. La
sua casa rifletteva la sua superficiale personalità. Guardai
in modo torvo Jen.
“Ma…”
cominciai.
Lei fece
orecchie da mercante,
presi un respiro e squadrammo l’interno e tutti gli invitati.
In un lampo mi
accorsi che c’era anche Liam.
“Che
cosa ci fai qui?”
chiesi, rivolta a
Jen.
Lei mi
guardò, poi fissò lui.
“Non lo so”.
Non mi
accorsi di continuare a
fissarlo. Quando lui mi guardò, sussultai e distolsi
immediatamente lo sguardo.
Mi metteva
un certo disagio,
forse per il fatto che era un animale e che mi aveva stesa al tappeto e
attaccata. Dovevano esserci anche loro. Erano stati invitati.
Infatti,
proprio in fondo alla
sala, vidi Loud, Antoine e gli altri. Erano alla festa. Bene, si
comincia.
Sorrisi.
“Questa sera, gli faremo
vedere noi” sussurrai, per far sì che solo Jen mi
sentisse.
La vidi
annuire al mio fianco.
L’avremo scoperto, sì l’avremo scoperto
presto.
Il tempo,
quando hai una missione
da fare e in breve, passa in fretta. Io e Jen sorseggiammo un drink
comodamente
sedute su delle poltrone, a gambe accavallate.
Pensai, e
ragionai più che altro,
su quello che potevo fare e su quello che avrei dovuto fare. Avere
piani non
era la mia specialità, mi chiesi se anche Jen ci stesse
pensando.
“Torno
subito” le
dissi improvvisamente, alzandomi.
Lei
voltò lo sguardo verso di me,
curiosamente. In un nanosecondo, raggiunsi il bagno di quella villa e
mi ci
chiusi dentro.
Mi lavai le
mani e mi detti una
sistemata allo specchio. Poi uscii. Vagai con lo sguardo tra i
presenti, quando
vidi una macchia marrone entrare nel mio campo visivo.
“Antoine”
mormorai. Maledizione.
E adesso che gli avrei detto? Come mi sarei comportata?
“Come
stai, cheri?” mi chiese
lui, senza nessun cenno di presunzione.
Accennai a
guardarlo fisso negli
occhi, poi mi accorsi di star sbagliando e li abbandonai, per scrutare
la
folla. “Abbastanza bene, e tu?”
Lo vidi
alzare le sopracciglia,
in tono sarcastico. “Me la cavo”.
“Già,
anch’io. Bella serata, non
trovi?”
Annuì.
“Eccellente, tante belle
persone”.
“E
un gran bel buffet” dissi,
sorridendo. Lo vidi indugiare su di me e spostai gli occhi a incontrare
i suoi.
Annuiva.
“Dunque,
sarà meglio che vado a
cercarmi da bere”.
“E
io vado a salutare Jen”.
Questa volta
fui io ad indugiare
su di lui. “D’accordo”.
“Ci
si becca” fece una specie di
inchino col capo.
“Ci
si becca”.
Maledizione,
stava andando da
Jen. Mi voltai verso di lei, che stava ancora seduta dove eravamo prima
e vidi
Antoine raggiungerla e avvicinarsi, sorridendo. Jen
ricambiò, meno entusiasta.
Mormorai
qualcosa, e mi voltai
dall’altra parte. Sgranai gli occhi, quando incontrai quelli
di Loud. “Ciao”
disse.
“Ciao”.
“Ti
stai divertendo?”
“Una meraviglia” borbottai.
“Anch’io,
ti capisco” sorrise e
mostrò subito i suoi denti perfetti.
“Credo
di aver bisogno di un
drink” mormorai, per cavarmi da quella situazione, deviando
sulla destra di lui
e spostandomi al tavolo.
Però,
mi fu accanto. Lo guardai
un po’ sorpresa. Sorrideva ancora.
“Anche
tu vuoi qualcosa?”
Scosse la
testa. “Mi mancava
parlarti”.
“Davvero?”
lo fissai nei suoi
occhi azzurri.
Annuì,
sfiorandomi una guancia,
dandomi un leggero brivido; mi scostai, irrigidendomi.
Cavoli,
avevano dei poteri, se
erano vampiri. Come raggirare le persone, metterle i brividi e
ipnotizzarle.
Era
incredibile.
Sembrò
captare un qualche segno
di imbarazzo. Girai gli occhi a destra impercettibilmente, mantenendo
la testa
fissa davanti. Mi era venuta un’illuminazione. Abbassai gli
occhi sulle mie
mani, e poi su di lui che guardava i drink sul tavolo. Mi ero
conficcata una
spilla da balia nell’abito, per la verità tre, nel
caso non avessi pensato a un
piano migliore o maggiormente elaborato. Insomma, per emergenza.
Mi conficcai
la spilla,
staccandola dal vestito per metà, nel dito destro, poi mi
procurai altri due
fori sempre in quel dito. Cercai di far fuoriuscire il sangue il
più possibile.
Mi accorsi
che fuoriusciva
leggermente. Bene. Non passai nulla a fermarlo.
“Oh…”
mormorai.
Loud mi
guardò.
“Penso
che mi esca il sangue dal
naso”. Tenni il dito per aria.
Corrugò
le sopracciglia,
venendomi vicino e controllandomi il naso e poi la mano che avevo
premuto su di
quello per macchiarlo.
Mi
guardò il vestito. “Non credo
sia il naso, ti sei punta”.
Feci una
faccia sorpresa. “Ah…”
“Dunque,
ti cerco un tovagliolo o
un fazzoletto…”
Annuii, poi
ci pensai un attimo.
Lo tirai per un braccio, verso di me.
“Ehm…
aspetta. Non è niente”
“No,
lo tamponi e poi non è
niente”.
Antoine e
Jen si stavano avvicinando
a noi. “Tutto bene, ragazzi?” chiese lui.
“Le
serve un fazzoletto” Loud
indicò il mio dito. Jen mi guardò in faccia, che
a giudicare dalla sua
espressione doveva essere macchiata di sangue.
“Non
è niente” continuai. Cercai
un qualche segno di desiderio nello sguardo di Antoine che non trovai.
Mi
voltai verso il tavolo dei drink e mentre loro cercavano un fazzoletto,
immersi
la mano nel mio drink di prima, dal liquido color rossastro.
Loud mi si
avvicinò. “Ecco”.
Doveva
essere pomodoro coi grumi,
perché un po’ si notò e
sembrò sangue sbiadito.
Loud e
Antoine mi guardarono
perplessi.
“Adesso…
te la metto a posto”
mormorò Loud, prendendomi la mano.
“In
bagno” aggiunse Antoine.
Raggiungemmo
il bagno e
amaramente mi lavai la faccia. Nessun cenno di cedimento da parte loro.
E adesso
come avrei fatto?
Poi Loud
annusò, tenendomi il
polso nella sua mano. “Sembra pomodoro misto a
sangue”
“Devo
essermi sporcata col
drink”.
Sorrise e
poi mi lavai la mano,
ormai smacchiata dal sangue.
Gettai
un’occhiata di sbieco a
Jen, che ricambiò. Tornammo tutti e quattro nel salone
principale, dove tutti
continuavano a ballare.
*
(modificata una parte del finale, e alcune altre cose. Prego chi
seguisse la fan fiction dall'inizio, di rileggere questo capitolo.
Grazie ^_^)
Un ringraziamento particolare a chi ancora legge questa ff,
e attende che posti nuovi capitoli. Non ho intenzione di prolungarla
ancora tanto, perchè preferisco scrivere altre cose, ma
ancora un po' manca.
Grazie ad alexis che continua a commentare e a farmi ridere ^_^
un saluto a tutti, flying angel.
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Capitolo 26 *** -25- ***
VENTICINQUEESIMO CAPITOLO –
“Allora, mi vuoi dire qual è il piano,
ora?” biascicò Jen, trastullandosi le mani.
La guardai di striscio. “Far in modo che ci caschino
ancora” gettai un’occhiata in lontananza.
“Ci sono cascati?” Jen strabuzzò appena
gli occhi, guardandomi.
“Mm… quasi, si può dire”.
“Ah, sì?”
Rimuginai su qualcosa, poi ricambiai il suo sguardo e mormorai:
“Sì”. Lei incrociò le braccia
al petto e aspettò che aggiungessi qualcos’altro.
Invece, mi incamminai di nuovo verso il bagno. Faticò a
starmi dietro, avendo notato in ritardo che mi ero mossa.
“Si può sapere che ti prende?”,
mormorò quasi al mio orecchio, facendosi vicina al lavabo.
“Mi sto specchiando e in contemporanea lavando le mani.
Perché?”, decisi di far finta di non risponderle.
Mi passai il rossetto rosso che avevo portato, tenuto in tasca fino ad
allora, ad un lato della faccia, macchiandomela.
“Ma che stai facendo?”
“Li attiro. Così cascheranno in
trappola” la guardai, immobile.
“Con un rossetto?”.
Ci misi un po’ a “riordinare” il rossetto
sul mio volto. Ma quello era solo un trucco in più, per
cercare di non dissanguarmi ad utilizzare il mio sangue. Poi questo lo
usai per la mano, facendomene fuoriuscire un po’,
pizzicandomi con una spilla da balia il pollice. Questa volta
l’effetto era decisamente diverso. Pareva tutto vero, non
sembravo solo un’imbranata, ma sembravo in bisogno
d’aiuto.
Quando ebbi finito, uscii dal bagno, seguita da Jen.
Avevo notato prima che Loud ed Antoine erano lì vicino.
Avrei attirato la loro attenzione all’istante. Caddi
lì, davanti alla porta. Jen socchiuse le labbra, incerta e
stupita. “Oddio” borbottò.
Aprii per un secondo gli occhi, facendole cenno di stare calma, poi li
richiusi subito, quando sentii uno scalpicciare attorno a me.
“Chey… Chey, stai bene?” la voce di Loud
mi raggiunse l’orecchio, come se fosse distante. Forse, era
perché ero a terra.
“Che ti è successo?” continuò.
“è svenuta”, le parole di Jen parevano
più in tono di domanda che altro.
“Mm…” biascicai.
“Chey?” mormorò Loud, con voce incerta.
“è tutta la sera che non si sente
bene…” continuò Jen.
“Che hai fatto, Chey?” riprese lui, in tono
stranito.
“Mi esce del… sangue…” non
finii la frase, per dar più un tono teatrale al tutto.
Voltai appena il collo e la testa da una parte. Sperai che tutto
funzionasse al meglio.
Loud si avvicinò a me, tastandomi il polso e sentii i suoi
polpastrelli freddi contro le mie vene. Con le braccia lo respinsi,
agitandole come una forsennata per aria.
“Il sangue… mi dà la
nausea…” biascicai. “Toglimelo, ti
prego… toglimelo…!”
Senza pensarci neanche un attimo, sentii Loud avvicinarsi talmente
tanto che mi leccò sul polso, dov’era sceso il
sangue.
Aprii gli occhi di scatto, mentre sentivo chiaramente che me lo
assaporava.
Rialzò la testa altrettanto di scatto, fino ad incontrare il
mio sguardo, meccanicamente, come se si fosse accorto solo allora dello
sbaglio.
Sorrisi mentalmente, in altro modo non potevo permettermelo.
Mi guardò con espressione sorpresa.
“Ho fatto quello che avrebbe fatto chiunque” si
giustificò frettolosamente. “Spero starai
meglio”. Si alzò, con gli occhi chiari ancora
fissi sui miei.
“Tu mi hai leccato!” alzai di un ottava il tono.
Loud si guardò intorno, spiazzato, incontrando lo sguardo
degli altri presenti.
“Avanti, Chey, che cosa dici…”
“L’ho sentito chiaramente! Hai assaporato il mio
sangue!” rialzai delicatamente il busto, aiutata da
Jen.
“No… non è vero”.
“Ma…” irrigidii lo sguardo.
“Che ti è preso?” feci in modo che mi
ascoltarono tutti. “Che schifo! Come ha fatto a
piacerti… Ti piace il sangue?” continuai a
provocarlo, senza pensare a nulla, solamente a parlare e a parlare.
“No… Chey, io…”
“Bugiardo… ma che razza…” non
finii la frase, Jen mi tese verso di lei, per un braccio.
Loud aveva lo sguardo gelido e immobile, più freddo di
quanto l’avessi mai visto. Tutti quelli attorno a noi, si
erano affollati a formare un cerchio, curiosi di ascoltare.
“Io…” Loud non finii la frase, e
indietreggiò, facendosi spazio a fatica tra i presenti che
erano venuti a ficcare il naso.
“Loud…!” quasi esclamai, sentendomi la
testa girare, per essere rimasta a terra, e per aver detto quelle cose.
“Chey, ma cosa ti è preso?” Jen mi
guardava con delusione. Fissai i suoi occhi, interdetta.
“Perché? era questo il piano” risposi,
mettendomi a sedere e poi alzandomi lentamente. Tutti mi avevano visto
quasi svenire.
“Sto bene” mormorai, per far finta di essermi
ripresa. “Jen, posso farcela da sola”. Lei si
allontanò di un passo, mentre io presi la direzione in cui
avevo visto scomparire Loud.
Incrociai per un secondo lo sguardo lugubre di Antoine, ad un lato
della folla. Forse, era malinconico, forse ferito.
------------
*
Finalmente eccomi col nuovo capitolo. Mi sono presa un'ampia pausa da
questa fan fiction, ora sono tornata con la sfilza di ultimi capitoli.
Fra poco finirà, e volevo ringraziare tutte le persone che
la stanno leggendo, che l'hanno letta sin dall'inizio, che l'hanno
apprezzata
che hanno commentato e mi hanno scritto. Vorrei che non vi dileguaste
con la fine, ma spero di ritrovarvi più avanti, se ne
posterò delle altre.
Spero che questi ultimi capitoli vi piacciano altrettanto come gli
altri. Volevo anche dirvi, che sistemerò meglio i primi, e
che questa fan fiction, come
molti potevano pensare, non è nata con lo scopo di
eguagliare altre storie. Mi è venuta in mente due anni fa, e
ho ricalcato alcune cose che mi
sono accadute. Mentre il resto l'ho inventato. Spero di essere
migliorata nello stile e nella caratterizzazione dei personaggi, oltre
che nel rendere
la storia più brillante possibile, mano a mano che si arriva
alla fine.
Ancora non è finita lo so, ma volevo ringraziarvi tutti lo
stesso.
Scusatemi davvero per il ritardo, soprattutto a chi mi seguiva e magari
mi ha atteso invano, ma ora sono qui e spero mi possiate perdonare ^^-
Ringrazio :
1 - Anthy
2 - Bella4
3 - bella5
4 - bibba88
5 - blinkina
6 - candycotton
7 - Devily
8 - egypta
9 - Fantasy_Mary88
10 - Horit
11 - Ladynotorius
12 - Mnemophobia
13 - Saiyo83
14 - Tonks95
15 - Ukyu93
16 - valevre
che hanno aggiunto questa storia ai preferiti e :
1 - Horit
2 - IriSRock
3 - velia1
che la seguono.
Ringrazio alexis per i suoi dolcissimi e divertentissimi commenti
(spero non mi abbandonerai ;) ), valevre, black down, e bella per i
commenti molto apprezzati ^^
Grazie mille anche a Ukuy per il tuo commento. Mi fa davvero piacere
che ti piaccia questa storia e il personaggio di Loud ^_-
aspetto anche un tuo commento sui seguenti capitoli.
Buona lettura a tutti, e scusate il poema!!
F. angel
|
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Capitolo 27 *** -26- ***
VENTISEIESIMO
CAPITOLO –
Guardai le facce di quelli attorno a me, quelli rimasti, che non
avevano udito la mia sceneggiata. Cercai il suo sguardo, ma non lo vidi
lì.
Ansimai, era stato tutto così frenetico. Forse faceva bene a
non volermi più. Non mi accorsi che probabilmente, dentro di
me, mi stavo pentendo.
"Loud!" esclamai, quando vidi un'ombra nel giardino, fuori dalla villa.
Alla fine ero uscita e l'aria era frizzante, scricchiolava sulla pelle
e la sentivo punzecchiarmi.
"Cosa fai qui, è freddo" mormorai, in tono tetro.
"Non dovresti lasciarmi stare?"
Non capii il suo tono: era come indecifrabile. Non capivo quanto fosse
arrabbiato con me. "Senti..." cominciai.
"Mi hai stupito".
Socchiusi le labbra, ma non uscì molto. "Come?"
"Non credevo fossi capace di ridicolizzare qualcuno a quel modo".
Rimasi a bocca semi aperta. "Io... non ti volevo ridicolizzare,
davvero".
"Che cosa vuoi?" si girò, e incontrò i miei
occhi.
Li sentivo offuscati. "Mi dispiace".
"Non mi interessa".
Lo guardai, stupita. "Non dire così, non è vero".
"Tu non lo sai. E comunque quanto interessa a te, per me è
uguale".
"A me interessa" pronunciai, il più delicatamente possibile.
"Sei una stupida".
"Come... come ti permetti?" sentivo il sangue ribollirmi dentro.
"Cosa pensavi di fare? A cosa alludevi?" mi infuocò con lo
sguardo.
"Io... volevo solamente sapere!"
"In quel modo spregevole?" alzò il tono. "E cosa volevi
sapere?"
"Vorrei... vorrei solamente sapere se sei un vampiro o no".
I suoi occhi rimasero immobili lì dov'erano, dentro ai miei.
Lo irrigidii completamente per un secondo.
"Che cos'hai detto?"
"Hai capito, Loud. Sei un vampiro oppure no?" mi avvicinai di un po',
per far sì che la poca luce fioca proveniente dal lampione
illuminasse a sufficienza il suo viso.
"Perchè lo vuoi sapere?"
"Perchè non me lo dici e basta, semplicemente?" ripetei,
aggrottando le sopracciglia e avvicinandomi ancora.
"Sì, lo sono".
Mi arrestai dov'ero, stupita e incredula. "L'hai detto" mormorai.
"Sì, l'ho detto" annuì lui "Lo sono. Sono un
vampiro, contenta?".
"No" mormorai ancora, con gli occhi più offuscati di prima.
Il suo sguardo nascondeva un po' di rabbia, glielo leggevo chiaramente;
il mio probabilmente era preso dallo stupore. Non seppi più
cosa dire, o cosa aggiungere.
La rivelazione era arrivata. Era fatta.
Continuai a guardarlo, semplicemente, come solo uno stupido essere
umano sa fare.
Indietreggiai di un passo, poi corsi via.
Non doveva succedere così, mi ripetei. Non doveva succedere
a quel modo. Eppure... era già successo. Tutto.
Il mio piano aveva contribuito a smascherarlo, ma la mia
stupidità era stata quella che gliel'aveva fatto ammettere.
Non potevo stare un secondo di più lì. No, non
potevo proprio. Sarei scappata via, e la mia stupidità non
avrebbe davvero avuto una fine.
Mentre lo lasciavo solo in quel giardino, piangevo ancora. Camminai
più velocemente, ma non potevo mettermi a correre ed era
frustrante. Sarei scappata e mi sarei chiusa in una capanna a meditare,
se ne avessi avuto l'occasione. Ma l'occasione non mi si
presentò.
Invece, dovetti far quasi finta che non fosse successo niente.
Ma il fatto di sapere ormai la verità, non me lo poteva
portar via nessuno.
Cercai Jen con gli occhi, e la vidi pressochè nello stesso
posto di prima. Avanzai per raggiungerla e la chiamai, ma non potevo
alzar troppo la voce.
La vidi darmi le spalle e non mi sentì.
"Jen..." volevo urlare più forte.
"Chey". Girai gli occhi alla mia destra, ed incontrai quelli di Liam.
"Stai bene?" mormorò, a denti stretti.
Annuii, vagamente.
"Ma stavi piangendo?"
Scossi la testa.
"Sai anche darmi una risposta decente?" proseguì, il tono
più alto, accigliandosi.
Scrutai nel suo sguardo magnetico. "Scusami, ma non vedo
perchè dovrei renderne conto a te".
Mi scrutò anche lui, con aria di sfida. Poi
sembrò acquietarsi. "Tengo al tuo benessere, anche se non ti
interessa" pronunciò.
"Ma non dire sciocchezze" blaterai.
Mi strinse forte il braccio, impugnandolo nel suo. "Davvero". Il suo
sguardo si fece di colpo più acuto.
Sospirai. "Sì, grazie infinite. Però non mi va
davvero di parlarne".
"Ci credo, ma Loud ci è rimasto male".
Acuii lo sguardo. "Non siete rivali voi due? E comunque non ti
intromettere, per favore."
"Ho addirittura elargito una forma di cortesia, facciamo passi avanti"
cercò di sorridermi, venendomi più vicino.
"D'accordo, c'è stato qualche piccolo problema".
"Piccolo, dici?"
"Scusa, ma ora davvero devo andare".
Mi allontanai, superandolo. Che faccia tosta.
Corsi velocemente, verso casa mia. Il freddo pungente mi avrebbe
svegliato i sensi, che credevo ormai addormentati. Dopo la scenata di
quella sera, non sentivo più nulla. O meglio, mi rifiutavo.
Non avevo voglia di parlare, e persino di respirare. Ero stanca, stanca
come non mai.
Aprii e richiusi in fretta il cancelletto, cercando di introdurmi in
casa velocemente. Passai il resto della nottata a piangere, seduta sul
mio letto.
“Chey, sono le undici e mezza. Chey…”
Improvvisamente, sentii le mie palpebre avvertire
l’oscurità. Aprii gli occhi.
“Chey, tesoro, è ormai ora di pranzo. Mi
aiuteresti in cucina?”
Sbattei gli occhi. “Zia…” mormorai,
incerta.
Lei annuì. “Sì, tesoro. Che ti
prende?”
“Credo di essere malata”.
“Hai la febbre?”
Annuii, stanca. “Puoi controllare?”
Lei mi si avvicinò, appoggiando un suo palmo sopra alla mia
fronte. “Sì, credo che tu ce l’abbia.
Ora prova a riposarti, al resto ci penso io. E mi raccomando fai sogni
d’oro”.
Volevo sorriderle. Da troppo tempo, cioè da sempre, mi
augurava sempre di fare quei sogno d’oro di cui parlava. E a
me faceva sorridere, quante volte me l’avesse ripetuto, e
quanto sembrasse una frase da dire ad una bambina di due anni e non
invece ad una della mia età.
Ma le parti del mio viso si addormentarono come il resto del mio corpo.
*
grazie mille valevre!! grazie mille ancora per leggerlo, e per il
commento
Chey non ha fatto una gran cosa, ma penso che la sua mente non fosse
collegata tanto bene in quel momento. A volte diciamo quello che non
vorremmo, solo perchè ci scappa... comunque anche secondo me
ha sbagliato ;)
spero vi piaccia questo...
aspetto consigli e commenti, anche per migliorare :) grazie a tutti
f,angel
|
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Capitolo 28 *** -27- ***
VENTISETTESIMO CAPITOLO
–
“Chey, finalmente. Ieri non ti ho trovata al
cellulare, dov’eri?” mi chiese Jen. Mi voltai verso
di lei, come per prendere atto della sua presenza, di
un’amica accanto a me. Riposi la bicicletta con il lucchetto
attaccato, e indugiai a guardarla.
“Dormivo” dissi, a braccia conserte.
“Dormivi? E come mai, tutto il giorno?”
Annuii. “Avevo la febbre, stavo male.”
“Ehi, ehi, altolà. Stammi lontana, non vorrai mica
che mi ammali anch’io” sbottò,
guardandomi contrariata.
Scossi la testa. “No, ma tranquilla, mi è passata.
Ora ho solo un lieve mal di testa.”
“Sicura?” alzò un sopracciglio
scrutatore.
“Certo. Anzi, ora è meglio che entriamo a
lezione”.
Quando mi fui liberata della scuola e delle domande insistenti di Jen a
proposito della festa, fui sollevata di potermi rintanare in casa. In
realtà, non mi era passato tutto con la febbre.
Sentivo un senso di inadeguatezza prendere il sopravvento su di me, e
una tristezza e stanchezza che mi fecero ancora una volta crollare sul
letto.
Mi svegliai di soprassalto, ultimamente non era stato così
raro. Bevvi un bicchier d’acqua e poi mi alzai dal letto. Non
volevo più poltrire.
Mi avrebbe fatto bene una bella doccia. Pensai che per fortuna o per
caso, non avevo visto Loud a scuola.
Mi apparve il suo volto deluso davanti, improvvisamente. Cercai di
scacciarlo iva, ma pareva impiantato lì, come se fosse stato
comandato da una magia.
Scossi la testa ed entrai nella doccia calda. Il mio raffreddore se ne
sarebbe andato via. Sospirai, assaporando l’acqua sulla
pelle. Un getto costante e mi stavo per riaddormentare ancora.
“Ah, lo so che è stressata. Sono stressata
anch’io. Non è mica facile…”
“Già. Però mi chiedo cosa abbia sempre
nella testa…”
“Credimi Anne, siamo messi tutti allo stesso modo”.
Sentii un mormorio di assenso. “Comunque, se vuoi
Jen, puoi passare più tardi…”
“Oh bè…” sentii uno
spostamento d’aria.
Aprii gli occhi ed incontrai i suoi, quelli di Jen. Mi stava fissando,
il volto dolce ma indecifrabile.
“Chey” sbottò “ben
svegliata”.
“Grazie” abbozzai un sorriso, tirandomi su. Il
pigiama che indossavo era davvero ridicolo.
“Ti sei riposata?” mi chiese lei.
Annuii, controvoglia.
“Ciao tesoro” mi salutò Anne, mentre
spostai lo sguardo su di lei, sorridendo un poco.
“Che ore sono?” domandai.
Spinsi la bicicletta più forte, poi mi fermai e feci lo
stesso di Jen, smontandola.
“Allora, volevi evitarmi?” cominciò lei.
Non avevo davvero voglia di discussioni. Cominciai la tiritera di
movimenti. Scossi la testa.
Lei mi guardò contrariata, capendo che non avrei parlato.
“Dai, puoi anche far la maleducata ora, eh?”.
La scrutai di sottecchi. “No, non ti volevo evitare. Volevo
solamente tenermelo per me. Non avevo voglia di parlarne, tutto
qua”.
“Ma cosa ti ha detto Loud?”
Mi girai improvvisamente verso di lei: era vero, non sapeva nulla.
“Lo ha ammesso”.
“Che cosa?”
“Di essere un vampiro. Lo ha ammesso, quando
gliel’ho chiesto”.
“Gliel’hai chiesto?”
Annuii. Dopo questa conversazione non ne avvennero delle altre e
passeggiammo tranquille davanti al parco.
“Ormai è una foresta, se non tagliano un
po’ d’erba” mormorai, guardando le
panchine e in terra.
“Quello che se ne occupa ha avuto un incidente, lo devono
sostituire”.
La guardai. Non lo sapevo. “Meglio che ci sediamo un
po’”.
“Sei già stanca?” mi chiese lei.
Ci pensai. “In effetti, ultimamente non combino un
tubo”.
Lei annuì, certa. “Sì, l’ho
notato. Ne ho parlato anche prima con Anne”.
“Vi ho sentito. Prima di questo che le hai detto?”
“Niente. Mi ha chiesto un po’ di te e cosa ti
è successo da un po’ a questa parte,
perché non parlate molto. Ma la tua anormalità di
ora per me è la tua normalità di sempre,
così dopo mi sono messa a guardarti dormire, per far cadere
il discorso”.
“Capisco, grazie mille…” le dissi. Dopo
un secondo, la fissai. “Sei arrabbiata con me?”
“Perché?”
“Perché ora sarà più
difficile per te frequentare Antoine normalmente”.
Scosse la testa. “Tanto non posso nemmeno aver figli con
lui”.
Continuai a fissarla e stavo per ridere. “Sei davvero
forte”.
Mi sorrise anche lei.
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Capitolo 29 *** -28- ***
VENTOTTESIMO
CAPITOLO –
“Anne,
oggi non ho davvero voglia di far colazione. Mi dispiace sprecare il
tuo meraviglioso toast, ma sto avendo un periodo difficile a causa di
questa febbre”. Finii il mio bicchier d’acqua, in
piedi accanto
alla credenza della cucina, e la guardai.
Lei
mi ricambiò, prendendo un respiro, e alzandosi dalla sedia.
“Ti
posso capire, tesoro. Ma vorrei sapere se questa febbre è
l’unica
ragione che ti fa star male”. Si preoccupò
visibilmente,
indugiando sui miei occhi.
“Sì,
lo è. Non c’è nient’altro che
mi fa star male” dissi.
“Sei
sicura?”
Annuii,
poi guardandola compiaciuta, uscii dalla porta. Finite le scale, mi
appoggiai al muro della mia camera, prendendo un respiro. Era tutto
così difficile.
“Allora
lo zucchero ce l’ho, la farina… la
cannella… Che mi manca,
Chey?” Jen mi indirizzò uno sguardo vago e attese.
“Come?”
la fissai di sbieco, stupita. “Ah, certo. Zucchero, farina e
cannella”.
“No.
Hai solamente ripetuto quelli che ho già. Ma la tua testa
è
presente qui accanto alla mia? Perché non la sento connessa
al
momento…” biascicò, incredula,
afferrando un pacco di biscotti
al cioccolato.
“Scusami
Jen. È che in questo periodo, come sai, ho molto a cui
pensare e non
riesco a stare concentrata per più di due minuti”.
“Vorrai
dire secondi”.
“Senti,
ti prometto che ora ti ascolto e ti aiuto, okay?”
“Visto
che me lo prometti… prova a ricordarti che cosa mi manca da
comprare…” mi guardò, facendo un cenno
lieve con la testa, di
lato.
“D’accordo…
allora…”
Il
resto del tempo lo passai in casa e a camminare. Avevo davvero
bisogno di rinfrescarmi le idee. Avevamo fatto una torta, come da
programma, e l’avevo pur mangiata, sforzandomi.
Ora
era tempo di mettermi la musica alle orecchie e affondare la testa
nei sogni.
Quando
raggiunsi il parco a piedi, faceva ancora freddo. C’era
persino
un’atmosfera offuscata. Mi strinsi nella felpa e quando vidi
la
panchina in mezzo all’erba raggrinzita, in mezzo agli alberi,
mi ci
sedetti.
Cercai
di far riprendere al mio cuore un battito regolare; per un
po’ fu
tutto inutile. Poi mi rilassai, e cominciai a sentire il mio respiro
attraversarmi la pancia.
Forse
c’era una ragione perché avevo incontrato Loud e
la sua compagnia
bella; forse dovevo imparare qualcosa da quanto era successo. Magari,
era un segno del destino. Un minuscolo stupido segno del destino;
comunque andava tutto storto. Se il destino voleva che li conoscessi,
bè ora era stato accontentato.
Ma
non ero tanto felice in quel periodo. Sapere che la mia testa era
sovraccarica di problemi, come mai prima era stata, era stressante.
Sapere che non potevo far nulla per cambiare le cose e renderle
migliori, lo era ancora di più. Mi sarei immersa nella
lettura di
qualche insulso o catturante libro se ne avessi avuto lo spirito
giusto.
Ma
mi sentivo a terra. Costantemente. E piangere, era davvero
l’unica
cosa che mi riusciva di fare.
“Ehi,
Cheyzanne” mandai giù il groppo che avevo in gola
e incontrai la
figura di Mer, poco distante da me.
Non
seppi cosa dire.
“Adesso
ti penti?” proseguì lei, senza indugio.
Abbassai
lo sguardo ad incontrare la punta delle mie scarpe e l’erba
raggrinzita.
“Non
mi rispondi neanche” la sentii avvicinarsi a me,
improvvisamente
“ma che coraggio che hai”.
La
fissai negli occhi. “Cosa vuoi che ti dica? Ciao, va tutto
bene, ma
scusa per quello che vi ho fatto?” mormorai, a denti stretti.
“Fai
tu l’incazzata, ora?” mi aggredì con la
voce, mettendosi davanti
a me. Ne vidi la scollatura e gli occhi che brillavano.
Scossi
la testa, prendendo un respiro. “No. Vuoi che ti chieda
scusa?
Scusa. Non sono riuscita a controllarmi. Non ci ho nemmeno pensato a
farlo, sul momento. Se voi siete incazzati adesso, io lo ero prima.
Se devo scusarmi perché ero incazzata, bè
l’ho già fatto”.
Abbasso
lo sguardo su di me, e mi penetrò con le pupille. Si
mordicchiò un
labbro, guardandomi. “Potevi pensarci”.
“Non
credo che qualcuno associ il fatto del sangue all’esistenza
di
vampiri, e al fatto che Loud sia uno di questi” presi una
pausa “E
poi scusa tu come hai fatto a saperlo? Te l’ha detto
lui?”
Mer
scosse la testa. “Ero alla festa, cioè sono
arrivata dopo un po’,
per saltare la parte in cui ogni festa comincia, quella
mezz’ora o
quell’ora… la più noiosa. Vi ho visti
parlare e poi ho visto che
ti accasciavi a terra. Subito ho pensato che potevi aver avuto un
giramento. Poi mi sono chiesta che cosa avessi fatto in
realtà e
stavo cercando di controllare la situazione con Loud accanto a te.
Ma
dopo ho sentito che l’accusavi, e mi sono sentita ferita
quanto
lui. Non c’era bisogno di urlare”.
“Non
c’era bisogno di attirarmi nella vostra trappola”.
“Quale
trappola?” assunse un espressione innocente, mentre lo diceva.
“Mi
avete attirato nella vostra bella casa fatta di mobili lussuosi e
calici di sangue. A saperlo prima, avrei rifiutato l’aiuto di
Loud”.
“L’aiuto?”
Mi
accorsi che forse lei non sapeva tutta la storia. “Non volevo
immischiarmi nelle vostre faccende, ma non sono stata io a tirarmi in
mezzo”.
“Ma
tu ne hai una vaga idea di cosa abbia passato Loud grazie alla tua
famiglia?”
Sbarrai
gli occhi. “Di cosa stai parlando?”
“Come
non detto. Bene, rimani sulle tue belle nuvole rosa, ora devo
andare”
mi voltò le spalle, molto alla svelta.
“Aspetta
un attimo” mi alzai in piedi. “Che cosa
c’entra la mia
famiglia?”
“Non
credo spetti a me dirtelo. Arrivederci, Cheyzanne” si
allontanò
prima che potessi dire altro, e io mi rimisi a sedere, più
scombussolata di prima.
Quando
giunsi a scuola, l’indomani, fu davvero un toccasana. Sapevo
esattamente quello che dovevo fare, e non volevo che nessuno mi
scansasse dal mio obbiettivo.
Bussai
lievemente nella porta degli inservienti, e mi lasciai entrare
dentro, anche senza aver avuto nessun cenno d’assenso.
“Buongiorno”
dissi, constatando le spalle di Loud dinnanzi a me. Si voltò
e in
quel momento mi persi nei suoi occhi bui.
“Salve”
mi disse, come se nulla fosse stato. Ma glielo leggevo chiaramente
che qualcosa era cambiato. Era tutto accaduto veramente.
“Senti,
volevo parlarti. Ho bisogno di chiederti alcune cose”.
Lui
mi guardò con un’espressione compiaciuta.
“Che c’è?”
“Ho
parlato con Mer, ieri. In realtà lei ha parlato con me. Mi
ha detto
che la mia famiglia ti ha fatto qualcosa. Io non so di cosa parla,
potresti illuminarmi?”
Vidi
che mi guardò con espressione interrogativa per alcuni
lunghi
istanti, poi si fece più scuro in volto. “Che cosa
ti ha detto?”
“Solo
questo. Allora, faresti sapere anche me?”
“Ti
sei preoccupata che nessuno mi accusi di essere un deficiente, qui a
scuola?”
Fui
spiazzata, e lo guardai assorta e smarrita allo stesso tempo.
“Ma…”
“Oppure
dovrei usare un’altra parola. Mm.. stupido,
deficiente… sì, più
o meno tutte quelle cose lì”.
“Almeno
nessuno crede che tu sia un vampiro”.
Lui
alzò un sopracciglio. “Solo perché non
sospettano che esistono,
proprio come tu una volta”.
“Già,
e avrei tanto preferito rimanere nell’ignoranza”
mormorai,
fissandolo.
Fece
una pausa. “Scusa se ti ho coinvolto nel mio mondo. Volevo
solamente conoscerti, non ho mai pensato di farti del male”.
Questa
volta fui io a guardarlo passivamente, alzando le sopracciglia.
“Ah
sì? E farmi entrare nel tuo mondo, mi avrebbe fatto del
bene?”
“Mi
dispiace. Forse non avrei dovuto incontrarti”.
“Già,
forse avresti dovuto lasciarci in balia di Liam.
Sarebbe stato
tutto più facile, nonostante ci avrebbe potuto
sbranare”.
“Non
l’avrebbe fatto nemmeno”.
Lo
guardai storto.
“Ti
avrebbe guardata e si sarebbe comunque innamorato di te”.
Mandai
giù. “Scusa, come hai detto? Lui non”
“è
innamorato di te, Chey. Vedo che su questo punto non hai fatto
ricerche”.
Mi
azzittii. “Scusami se ho avuto dubbi su di voi, che dovevo
controllare. Magari erano veri”.
“Ed
è andata a finire che lo sono. È colpa mia, per
caso?”
“Non
ti do la colpa, però potevi…”
“Potevo?
Tenerti lontana?”
“Mi
dici che cosa c’entra la mia famiglia?”
ricominciai, sussurrando.
Quasi, mi stavo mettendo a piangere.
“Io
ti voglio bene Chey, e mi dispiace per tutto quello che è
successo”
mi si avvicinò, ed ebbi paura “Mer non sa nulla,
parla di quello
che vuole. E comunque per qualsiasi cosa tu mi voglia chiedere,
questo non è il posto adatto”.
Feci
un cenno con la testa, come per far qualcosa che mi potesse
allontanare da lui.
Invece,
mi venne ancora più vicino. Non seppi più dove
guardare, mi
abbracciò. Durò un secondo.
“Loud,
ho bisogno che tu venga di qua a pulire, è successo un
casino”
esclamò un professore, quasi entrando sul vano della porta.
Loud si
slacciò da me più in fretta possibile,
lanciandomi un’occhiata.
Lo
vidi uscire, e abbassai lo sguardo sulle scope e gli attrezzi che
tenevano lì dentro. Poi mi avviai anch’io.
“Anne,
sono tornata” annunciai, per farle capire che non ce
l’avevo con
lei, e che potevo anche salutarla.
“Ciao,
tesoro. Hai fame?” mi guardò con quei suoi occhi
grandi e gentili.
Scossi
la testa, sorridendole. “A dir la verità, non
molta. Ti dispiace
se mangio dopo?”
“No, non c’è problema. È
successo
qualcosa?” mi venne vicina, mettendomi una mano sulla spalla.
Scossi
di nuovo la testa. “Niente che ti farebbe
preoccupare” sorrisi,
assieme a lei. “A dopo”.
Mi
infilai in camera, e più nessuno mi disturbò.
Poi,
mi ricordai improvvisamente delle lettere e del posto in cui le avevo
rimesse in salotto. Scavalcai le coperte e scesi dal letto, poi feci
le scale. Tornai nel posto in cui le avevo nascoste, e le aprii di
nuovo.
Me
le rilessi un’altra volta e poi andai in cucina.
“Anne, abbiamo
altre cose da sistemare nel seminterrato?”
La
vidi imburrare un toast, e guardarmi con espressione indecifrabile.
“Ti riferisci a tutte quelle scartoffie varie?”
Annuii.
“Mm…
dunque, penso ce ne siano altre”.
“Ah…
se vuoi posso mettere in ordine. Cerco qualcosa di utile da
fare”.
I
suoi occhi si illuminarono, sorridendo. “Ma certo”
“Grazie”
mi voltai, dandole le spalle e uscii dalla cucina. Poi mi diressi nel
seminterrato e mi richiusi la porta alle spalle. E io che credevo di
averle già lette tutte.
Cominciai
a cercare altri resti di quello strano passato, e finchè non
ne
avessi trovati, sarei rimasta lì.
Mi
accovacciai in tutti gli angoli possibili, dove vedevo lettere e
scartoffie da sistemare. Non ne erano rimaste molte. In una pila,
tirai fuori un sacco di lettere. Ma la maggior parte non erano
firmate. Provai a leggerne qualcuna, ma erano indubbiamente scritte
da un’amica di mamma, e non parlavano certo di argomenti che
potessero interessare con la vicenda di Loud.
Improvvisamente,
mi ricordai che avevo fatto un errore. Ce n’era una che non
era
stata aperta, e per non intromettermi nella privacy di mia madre,
l’avevo rimessa a posto tra altre. Forse c’entrava
qualcosa.
Lì
in soffitta non c’era nient’altro. Erano tutte
lettere di amiche
e altre cose varie. Forse era proprio quella. Salii le scale e
ritornai in cucina. “Anne, scusa. Ti ricordi per caso dove
hai
messo la pila di lettere che riordinavi l’altra
volta?”
Anne
mi guardò assorta, e un po’ confusa.
“Perché ti servono?”
Annuii.
“Solo per controllarle di nuovo…”
“Sono nello sportello in
basso, nel mobile della televisione”.
“Grazie
mille” riuscii e andai a controllare sotto al mobile. Trovai
la
lettera ancora imbustata, in mezzo ad altre che parevano lettere di
convocamento, e bollette. La fissai un secondo, era vecchia e
sigillata. Poi, la aprii.
“So…
chi è. So che hai avuto una figlia, so che esiste. Potevi
anche
dirmelo, potevi anche dirmi che hai procreato con Leo, prima che lui
divenisse vampiro. Morrìs non ha sbagliato del tutto a
vampirizzarlo, se mi consenti di dirlo. In fin dei conti, hai visto
che fine ha fatto Leo… è scappato, lasciandoti
con una figlia
piccola da mantenere lavorando in un collegio… tutto quello
che
avevi sognato per essere felice, eh?
Cara
Lillian, quello che ho provato per te a quel tempo, non lo
dimenticherò mai. Nonostante la nostra relazione non
è andata
troppo avanti, sentivo che era tutto vero. Ti ho voluto bene
più di
un fratello, spero questo te lo ricordi.
Conoscerò
tua figlia, un giorno. Con amore, Loud”
Credetti
che il mio cuore si fosse arrestato. Mi parve di sentirlo mancare
alcuni battiti. Presi un lungo sospiro, prima di ricollegare il
cervello ai miei pensieri. Poi, cominciai a piangere,
inaspettatamente. In realtà, cominciai a lacrimare.
Che
diavolo voleva dire tutto quello? E perché Loud mi aveva
mentito?
No, non lo potevo sopportare. Questo era troppo. Voleva dire che loro
erano stati insieme. Loro. Cioè mia
madre e Loud.
No
non poteva essere vero. Io non potevo accettarlo. O forse sì?
Dopotutto,
era una storia passata… ma mia madre? Proprio mia madre? E
io…
quindi io, ero stata solamente una pedina in tutto questo? Mi aveva
voluta incontrare solo per vedere se assomigliavo a lei, solo per
vedermi… perché lui era innamorato di lei. O lo
è anche ora?
E
Leo? Chi era Leo? O forse non parlavano di me?
Non
ci capivo più niente. La testa mi andò in palla,
piena di quei
ragionamenti. Presi la lettera con me, e anche le altre e le portai
di sopra, in camera mia. Le misi nel cassetto della scrivania, e mi
misi a sedere, con la testa tra le mani, pensando.
“Ho
sentito un rumore” biascicò Loud. Poi, si
voltò lentamente e mi
vide.
“Loud…”
piansi, molto ingenuamente.
Lui
mi guardò, aggrottando le sopracciglia.
“Chey… che c’è?”
“So
tutto” dissi, cercando di trattenere le lacrime.
“Tu…”
“Sai
cosa?” lui si fece più serio, rivolto col corpo
completamente
verso di me.
“Tutto.
Di te e mia madre, delle lettere che le hai inviato, di
tutto”.
Per
un estraneo, poteva sembrare che Loud era rimasto lo stesso anche
dopo la mia rivelazione, che non aveva cambiato posizione, che non si
era sorpreso. Per un estraneo. Ma io, da tempo a questa parte, non lo
ero per lui. Lo conoscevo. E ora mi guardava con più
interesse,
pensando dentro di sé che avevo scoperto troppo. Proprio
come mi
aveva guardata quando gli avevo chiesto se era un vampiro.
“Perdonami,
Chey. Mi dispiace di non avertelo detto prima. Ma tu… sei
così
uguale a lei. Mi sembrava di vederla. Le assomigli
molto. Il
modo in cui tu mi guardi, quando rimani sorpresa, era quello in cui
mi guardava lei. Mi dispiace che tu l’abbia scoperto
così. Non
immaginavo, che sarebbe mai giunto alla luce. Non immaginavo che
Lillian avesse tenuto le mie lettere”.
“L’ultima…
quella in cui parlavi di me, non era stata aperta. Quelli che a te
non piacciono di me, i miei dubbi, sono quelli che alla fine mi
porteranno alla luce di tutta questa faccenda. Sono quelli che mi
aiutano, quando tu non lo fai”. Inghiottii.
“Scusami”.
“Perché
mi hai mentito? Che motivo c’era?” lo guardai
fisso, serrando gli
occhi per trattenere le lacrime.
“Ascoltami”.
“A
che servirebbe? Io odio le bugie. Odio tutte le tue bugie. Non ti
sopporto più” sputai, ansimando. Non ero riuscita
a calmarmi come
volevo.
Mi
si avvicinò, prendendomi per un braccio.
“Lasciami” mormorai, a
denti stretti. La sua presa era forte.
“Io
ti voglio bene, lo sai” mormorò.
Lo
guardai negli occhi, mentre mi tratteneva contro di sé.
“E invece
mia madre l’amavi”.
Mi
guardò contrariato, scuotendo la testa. “Non
è diverso. Provo
qualcosa per te”.
“E
quando volevi dirmelo?” mormorai, spazientita.
“Quando
se ne sarebbe presentata l’occasione”.
“Cioè,
mai” ribattei, ferita.
Mi
fissò più di prima, e non potei fare a meno di
immergermi e nuotare
nei suoi occhi azzurri. “So che cosa provi, ma vorrei che
capissi
anche il mio punto di vista. Conoscerti non è stato facile.
Sono
stato respinto da Lillian tanto tempo fa, lei mi ha preferito ad uno
che si chiamava Leo. La cosa mi ha ferito profondamente. Non voglio
che pensi che per me non sia contato nulla incontrarti, neanche per
un secondo”.
Aprii
la bocca, così vicina alla sua, e mi arrestai, incapace di
parlare.
“Io
ci tengo veramente a te, Chey. Ti prego di crederlo. E se non vuoi
credermi, sappi almeno quali sono i miei sentimenti verso di te. La
prima volta che mi sono innamorato è stato di tua madre,
quando lei
aveva ventotto anni, nell’Ottanta. Io ero già un
vampiro. Ma lei
si innamorò di un nostro compagno di avventure, che ancora
non era
un vampiro come noi, Leo. Ma la prima volta che mi sono innamorato e
sentito ricambiato è stato di te, Chey. Quando mi hai
abbracciato,
ho sentito che ricambiavi quello che provavo, con la stessa
intensità. In quell’attimo, ho provato qualcosa di
nuovo. Tua
madre non mi ha mai ricambiato a quel modo”.
Mi
bagnai le labbra, mordicchiandomele. Continuai a nuotare nei suoi
occhi. “Chi è Leo, Loud?”
“è
tuo padre”.
Lo
fissai, incerta. No, Leo non era mio padre, perché mio padre
non si
chiamava… “Non può essere. Mio padre si
chiamava Bert. Ne sono
sicura” mormorai.
“Si
chiamava Bert, sì. Come nome di battesimo. Ma come nome
comune, per
tutti era Leo. Tua madre amava usare sempre il suo
soprannome”.
Ansimai,
roteando gli occhi di lato. “Non ci posso credere. Tu sapevi
tutta
la storia. Tu e Lillian siete bugiardi. Mi avete mentito. Tu hai
avuto una relazione con mia madre, oltretutto”.
“Non
siamo andati oltre il bacio. È stata una cosa platonica, io
verso di
lei soprattutto”.
“Perché
mia mamma?”
Lui
ritrasse la mano dal mio polso, e se la infilò in tasca,
come un
gesto automatico.
“Rispondi”.
“Perché
era lei, semplicemente. Bella, dolce e sarcastica come te”.
Gli
lanciai un’occhiata torva.
“Che
vuoi che ti dica?”
“Perché
me? ”
Lui
attese un istante, in silenzio. “Perché sei
tu”.
“No,
vorrai dire perché sono sua figlia”.
Lui
scosse la testa. “No, voglio dire perché sei
tu”.
“Di
nuovo bugiardo”.
“Bella,
dolce e sarcastica” ripetè. “Non farti
una cattiva idea di me,
Chey. Non sono così cattivo come pensi”.
“E
questa è una battuta?” ansimai ancora,
rabbrividendo alla vista
del suo sguardo penetrante.
Scosse
la testa, come prima, ma più lievemente. “Ho
dimenticato timida”.
Lo
fissai attonita, perdendomi ancora una volta in quegli occhi color
del mare, brillanti.
“È
una qualità che adoro” proseguì, quasi
non avendo visto la mia
espressione.
“Timida?”
ripetei, in tono assurdo.
Annuì.
“Non lo nascondere”.
Dopo
aver mangiato qualcosa, uscii nella fresca brezza. Il tempo era
migliorato, ma ancora non si poteva dire granchè. Presi il
cellulare
e chiamai Jen.
“Pronto?”
fece lei, mezza insonnolita.
“Ciao
Jen, ti ho disturbato?”
“No…
dimmi pure. Che è successo?” la sua voce non era
solare come al
solito, probabilmente aveva davvero sonno.
“Ho
parlato con Mer e con Loud. Puoi venire qui da me, così ti
racconto
tutto per bene, e nei dettagli?”
Lei
fece un mugugno d’assenso. “Certo, vengo
subito”.
“Grazie,
ti aspetto qui fuori”.
Appena
chiusi lo sportellino del cellulare, e me lo rimisi in tasca,
avvertii una presenza non molto distante da me.
“Mer” biascicai.
“Sì,
rieccoci qua. Hai parlato con Loud?”
“Sì,
perché? T’interessa?”
“In
realtà, sì. Forse non ti ha raccontato tutta la
storia. Sono
tornata per dirtela”.
Sbuffai.
Questo era davvero troppo. C’era anche dell’altro.
“La storia?”
“Che
ti ha detto lui?” mi fissò con gli occhi
luccicanti e avidi,
facendosi vicina. Io ero appoggiata al muretto, poco distante da casa
mia.
Mugugnai
qualcosa, poi mi accorsi che dovevo alzare la voce. “Mi ha
parlato
di lui e… scusa ma non capisco come possano essere affari
tuoi”.
“Tra
me e Loud non ci sono segreti” affilò lo sguardo
su di me.
“Pure
tu hai avuto una relazione platonica con
lui?”. Pareva tutto
una giostra di menzogne. Mi strinsi nella felpa, infilandomi le mani
in tasca.
Mer
quasi rise. “Non io. Seyla, te la ricordi? Io sono la sua
insegnante, Seyla la sua supplente. Con lei ha avuto una specie di
relazione, poco duratura è vero, ma Seyla era parecchio
presa. Ti
volevo solamente far sapere questo”.
“Ah,
wow. Che bel conforto… devo dire che voi vampiri in quanto a
prede
e relazioni varie non perdete proprio tempo”.
“In
realtà, loro si conoscono da prima… da prima che
lui incontrasse
te. Poi hanno cominciato a conoscersi meglio, mentre lui stava ancora
conoscendo te. Insomma, non credo lui abbia tradito i tuoi
sentimenti. Questo, per il semplice fatto, che ha voluto smettere di
vederla appena le cose si sono fatte più serie con te. Il
motivo,
poi, per cui Seyla non ti vedeva di buon occhio quando ci siamo
incontrate nel nostro giardino”.
“Molto
interessante” sbottai, controvoglia. “Ora
è finita questa
deliziosa storia, o c’è pure
dell’altro?”
“Seyla
non ti adora. Credo tu questo l’abbia capito. E comunque,
dovresti
ringraziarmi. Almeno io ti ho raccontato tutta la
verità”.
“Oh
sì, grazie infinite Mer” dissi tutto
d’un fiato. Lei non sembrò
accettare di buon grado le mie parole, si avvicinò come un
felino e
mi avvinghiò contro al muretto.
“Fai
attenzione a come ti rivolgi a me e a noi. Sappiamo
essere
veri vampiri, quando si presenta l’occasione. Fai in modo che
non
si presenti mai” mi disse contro al mio naso. “Sei
troppo dolce
per poterti far del male, comunque. Questa deve essere la ragione per
cui Loud ti ha risparmiato sin da subito”.
“Loud
mi ha salvato. È diverso. E se tu non lo sapessi, questa non
è
l’unica ragione”.
Vidi
il luccichio sulle sue labbra, forse aveva da poco mangiato.
“Come
sei tenera, Cheyzanne. Ma io non ti odio, né lo
farò mai. In un
certo senso, provo ammirazione per te. E poi mi piaci, sei discreta e
risoluta”.
“D’accordo,
ma tu non sei il mio tipo. Te lo ricordo”.
Mer
rise. “Vedi? Non ci odiamo. Questo mi piace” si
avvicinò
cautamente, dandomi un bacio sulla guancia. “Buona
fortuna”.
“Anche
a te” mormorai, lasciando che si allontanasse da me.
Sparì
con la sua lunga e magra figura.
“Chey,
scusa il ritardo” ansimò Jen “ma ho
preso qualcosa perchè… ho
mal di testa. Spero solo di non ammalarmi… o forse ho il
sintomo
che faceva sempre dormire te”.
Sorrisi,
vedendola arrivare a piedi. “Potevi prendere la
bici”.
“No…
dopo sudo di più” anche lei sorrise, facendosi
più vicina.
“E
comunque non sei in ritardo. Non ci hai messo molto, al massimo
cinque minuti” la guardai compiaciuta, alzandomi dal muretto
e
camminandole incontro. Poi ci abbracciammo, molto dolcemente.
“Mi
sei mancata” sussurrai.
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Capitolo 30 *** -29- ***
VENTINOVESIMO
CAPITOLO –
Andai
da Loud, perché non ero contenta di come aveva risolto le
cose con
me. C’erano altre questioni non risolte. Ne ero sicura.
Ma
non volevo incontrarlo assieme a tutti gli altri, ne avevo abbastanza
di risolvere i problemi in famiglia.
Gli
feci uno squillo sul cellulare: era acceso. Gli inviai un messaggio
con scritto che lo aspettavo fuori dalla sua mega villa, lì
accanto.
Mi
rispose che arrivava, dopo neanche un minuto. Lo attesi, ma non
molto. Arrivò come se fosse una strana presenza. Lo salutai.
“Volevi
parlarmi?” mi disse lui.
Annuii.
“Per dirla tutta, volevo la verità”.
Si
accigliò. “Di che parli? Ti ho già
detto la verità”
“Sai,
questa volta non sono stati i miei dubbi a farmi far luce, ma
Mer…
mi ha detto di te e Seyla, che peraltro ricordavo poco”.
Lui
quasi rise. “Di Seyla non m’importa”.
“Wow.
Fai così con le tue amanti?”
“Non
ho amanti, e non generalizzare. Non sono certo il tipo che ha tremila
donne”.
“Ah,
no? Eppure nel giro di poco, sono venuta a sapere di tue due
relazioni. Ma pensa te”.
“Seyla
è una mia supplente e io posso esserle piaciuto…
ma non era nulla
d’importante. Ho smesso di vederla quando ho capito cosa
provavo
per te”.
“Loud
non mentirmi di nuovo. Il nostro non è amore”.
“Perché
deve ancora sbocciare, Chey” mormorò, con un
sussurro lieve,
avvicinandosi a me. Mi pareva un cavaliere con l’armatura se
non
era per il sorriso beffardo. “C’è altro
che devi dirmi?”
“Non
basta questo? Tu fai come se nulla fosse. Invece io scopro su di te,
scheletri su scheletri nell’armadio”.
“Non
ho armadi del genere, Chey. Però ormai l’hai
capito che tengo a
te, così come tu tieni a me”.
“E
questo è amore?” bofonchiai, quasi tirandomi
indietro.
Lui
mi prese il viso tra le sue gelide dita. “Può
svilupparsi nel più
bell’amore, sì”.
Sospirai,
tremolando. “Non hai sempre ragione tu, Loud. E comunque
voglio
tutta la verità. Cosa manca al puzzle?”
Sembrò
spazientirsi, perché lasciò andare il mio viso e
fece un passo
indietro. Si rimboccò le maniche e poi parlò.
“D’accordo,
vediamo… di Lillian lo hai saputo, di Seyla pure…
di noi che
veniamo dalla Francia… ah…! Se vuoi ti illumino
su ogni passo che
abbiamo fatto”.
Sbuffai,
abbassando la testa. “Non c’è bisogno
che ora fai il sarcastico,
solamente perché ti spazientisci”.
“Allora…
dunque, siamo giunti qui in Inghilterra, vediamo… nel 1990,
sì.
Io, Antoine, Pearl, Andrè, Seb, Morrìs, Mer,
Seyla e Amie.
Abitavamo a Toulouse. Frequentavamo tutti il collegio ed eravamo
amici. Tua madre era un’insegnante nel nostro collegio.
C’era
pure tuo padre con noi. Avevamo fatto amicizia, ma a quei tempi non
era ancora un vampiro. Così ci pensò
Morrìs, il più grande di
noi, ad introdurlo nel branco. Ma tua madre era già incinta,
quando
Leo fu trasformato in un vampiro. Leo portò Lillian a Parigi
con
lui, a lavorare in collegio. Tu nascesti là. Ma tuo padre
non era
entusiasta di questa vita, non aveva mai davvero voluto essere un
vampiro, e trovava tutto ciò molto limitante, anche con tua
madre,
che desiderava una vita normale.
Così
Leo se ne andò, si dice in giro per la Francia, ma non lo
sappiamo
con certezza. Tua madre tornò con te in Inghilterra, dove
abitava
tua zia.
Per
un po’ abitarono insieme, visto che tua madre non sapeva bene
dove
andare. Era un periodo difficile per lei. Poi trovò un
collegio che
le offriva anche una sistemazione e come sai, lavorò
lì, proprio
dove lavora ora, a un ora da qui se non sbaglio”.
Lo
guardai interdetta.
“Questo
me lo riferì Mer, perché ha sentito tutto dagli
abitanti del paese.
Si vede che tua zia ne ha parlato con qualcuno… e come sai
le voci
girano” riprese.
“Lillian
però, non volle più incontrarmi. Sapeva che
abitavamo in
Inghilterra, ma non mi ha più cercato. E non ha risposto
alle mie
lettere. Solo ora ho saputo che l’ultima non l’ha
letta e le
teneva con sé. Credevo le avesse buttate. Ma tua madre adora
i
ricordi, a quanto pare”.
“Sapevo
solamente di essere nata a Parigi, e davo la derivazione del mio nome
a questo fatto. Non sapevo nient’altro…”
dissi.
Lui
annuì. “Quando quella sera, ti ho
visto… eri in pericolo, vi
seguiva Liam. Jen non la conoscevo, ma tu avevi un viso familiare. Vi
ho osservato, finchè non ho capito a chi assomigliavi.
Correvate
nella mia direzione, dove dormivo io. La mia piccola tana
segreta…
ah, mi manca.
Comunque,
finalmente era la mia occasione per incontrarti e conoscerti. E non
me la sono fatta scappare”.
“Non
ti fa schifo che sia figlia di Leo, colui che ti ha rubato
l’amante?”
chiesi, stupita.
Scosse
la testa, lievemente. “Ho scoperto in te un nuovo modo di
amare ed
essere ricambiato, come ti ho detto. Come può farmi schifo
pensare a
te?”
Sospirai.
Non sapevo se stesse dicendo tutte cose vere, ma lo ascoltai fino
alla fine. “Sei ancora arrabbiato con me?”
“Per
cosa?” scherzò lui.
“Ma
non farmi ridere… per il modo in cui ti ho costretto ad
ammettere
che sei un vampiro”.
“E
tu sei ancora arrabbiata con me? Per il modo in cui hai saputo la
verità e per il fatto che non te l’ho
detta?”
Sorrisi.
“Se tu non sei arrabbiato, non lo sono nemmeno io. E siamo
pari”.
“Non
siamo mica in battaglia, Chey. Ricordatelo”.
“Dico
sempre che era meglio prima che vi conoscessi. Ma in realtà,
lo so
che dentro di me, mi fa piacere averti conosciuto”.
“Ne
ero certo” mi sorrise, avvicinandosi.
“Se
non altro ora so cosa intendevano con malati mentali”.
Lui
fece finta di ridere. “Smettiamola con le battute, non le
capisco”.
Questa
volta me la risi io.
Il
giorno seguente, ripresi la mia vita normale di studente liceale.
Arrivata a scuola, lasciai la mia bici col lucchetto, seguii Jen
nell’atrio e prendemmo posto in aula. Mi sembrò
tutto così
naturale, dopo tutto il tempo perso in vicende sovrannaturali.
Sì,
lo so… non era tempo perso. Qualcosa ho imparato: non
parlare con
gli estranei, non correre in posti isolati, non far amicizia con
strani individui… e bè non innamorarmi del primo
che capita.
Ma
ero certa che tutto non era finito lì.
“Facciamo
una pausa?” mi chiese Jen, quando la campanella era suonata.
La
guardai divertita. “Che genere di pausa?”
“Andiamo
a far un giro per i corridoi, non voglio entrare subito nella
prossima aula”.
“Trasgressiva”
mormorai, uscendo con lei. “Ti raggiungo, vado solo un attimo
in
bagno”.
Lei
mi sorrise. Sviai l’angolo e mi introdussi in bagno. Ascoltai
le
chiacchiere di qualche ragazza ansiosa e qualche altra
insopportabile, poi mi guardai allo specchio e mi lavai la faccia e
le mani.
Uscii
e guardai dov’era Jen. Mi aspettava in fondo al corridoio,
probabilmente.
“Ho
bisogno di parlarti”. Mi presi uno spavento, quando la voce
di Liam
mi soffiò vicino all’orecchio. Per poco non mi
venne un colpo.
“Dico,
ma sei pazzo?”
“Scusa
il modo, ma è tanto che non ti vedo. Come stai?”
“Ci
siam visti alla festa” dissi, risolutiva.
“Lo
so, ma per me è tanto. Non mi hai risposto”.
“Tu
come stai?” la mia domanda era posta solo per sviare
l’argomento.
I
suoi occhi parvero illuminarsi. “So che non
t’interessa in realtà
come sto, ma sto bene”.
“Bene,
anch’io. Ora posso andare?”
“Non
mi sopporti proprio?” mi disse, con i suoi grandi occhi
castani ad
un passo dai miei.
“No,
è che ho saputo che tu sei innamorato di me, e non voglio
complicazioni”.
Sembrò
farsi immobile di colpo, sul posto. “Chi te l’ha
detto?”
“Indovina
un po’? Loud… siete amici, voi, per
caso?”
“Devi
ammettere che la nostra storia è stata
strana, quando
comunque divertente. Forse dettata dal destino”.
Sbuffai
dal ridere. “Intendi il fatto che tu volevi aggredirci quella
sera
di tanto tempo fa, e tutto quello che è successo dopo,
compreso il
tuo continuo rompermi le scatole anche a casa mia?”
Sembrò
essersi offeso.
“Ti
devo pur chiedere scusa, per il modo in cui ti parlo?”
mormorai,
cercando di reintrodurlo nella conversazione. “Dai, non
volevo
offenderti”.
“Pensavo
di piacerti un minimo. Invece ti piace lui”.
“Sai
qual è il punto? È che non sono nemmeno sicura di
lui, figuriamoci
di te. Tutta la faccenda per me è strana. Guarda che il mio
cuore
non ha aperto le sue porte a nessuno di voi, nel caso non
l’aveste
capito”.
“Vi
ho visti assieme. Ti piace, e non so a che punto tu ne sia
attratta”.
“Bene,
perché nemmeno io lo so. Senti Liam, non so cosa ti aspetti
che ti
dica, ma vorrei venire a capo… di tutta questa storia. La
facciamo
finita?”
“Quindi
non ti posso nemmeno più parlare?”
“Ti
ricordo che dovresti ancora cancellare il mio numero, nel caso
l’avessi tenuto”.
Quasi
sorrise. “Amici?”
“Con
un licantropo?” lo dissi quasi schifata.
Mi
guardò torvo.
“Scherzavo.
Ma voi creature, non li capite mica gli scherzi, eh?”
Ora
mi sorrise anche lui.
“Comunque,
ci devo pensare. Perché tu mi vuoi essere amico?”
gli chiesi.
“Perché
non posso essere nient’altro” indugiò
sui miei occhi troppo a
lungo.
“Conoscenti,
direi che è meglio. Accontentiamoci. E cancella il mio
numero,
quando ti ricordi. Penso che non ti sarà difficile
trovarmi”.
“Posso
darti un bacio?”
“Certo,
e io posso ottenere tutto quello che desidero?”
Sbuffò.
Mi si avvicinò e mi baciò lentamente sulle
labbra. “Intendevo
solo questo”.
“Ah”
mormorai sarcastica, mentre mi strinse un secondo contro di
sé.
“Sei
molto carina oggi”.
Lo
guardai molto male.
“Battuta”
biascicò, sfiorandomi le orecchie col suo fiato.
“Ora meglio che
vada, ci vediamo in giro” levò una mano a
salutarmi.
“Sì,
ci vediamo in giro”.
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Capitolo 31 *** -30- ***
TRENTESIMO
CAPITOLO –
Ero
nel mio letto, quel pomeriggio. Rimuginavo e rimuginavo, come ero
solita fare. Mia zia Anne aveva smesso di preoccuparsi per me, da
quando tornavo a casa col sorriso. Me lo stampavo in faccia, quando
dovevo salutarla, e a lei andava bene così. Sarebbe stato
tutto più
facile se anche le altre cose della mia vita si sarebbero potute
risolvere così.
Ma
niente era mai facile mentre si viveva.
Guardai
lo sportellino del mio cellulare, e lo aprii. Sul display lessi le
ultime chiamate perse. C’era quella di mia madre. La
richiamai
all’istante; era un po’ che non la sentivo e ne
avevo proprio
voglia.
“Pronto?”
disse lei, dopo qualche secondo, quando rispose alla chiamata.
“Pronto
mamma, ciao come stai?” esclamai, entusiasta di sentire la
sua
voce.
“Bene,
tesoro. E tu?”
“Ho
visto la tua chiamata avevi bisogno? “
Sentii
un mugugno dall’altra parte. “Volevo chiamarti, per
sentire come
stavi e se andava tutto bene. Se aspetto che ogni volta mi chiami tu,
passano trent’anni e divento troppo vecchia. Dopo non posso
più
risponderti che va tutto perfettamente”.
Risi.
Poi, improvvisamente, le sue labbra, così simili alle mie,
mi
passarono nella mente, mentre sfioravano con dolcezza e passione
quelle di Loud. Cercai di scacciarle via, ma non se ne volevano
andare. Continuavano a morder le sue con avidità. Poi mi
spensi in
quell’illusione oscura. Chiusi gli occhi e presi un respiro.
Dovevo
smetterla di pensare a certe cose che ormai erano andate. Erano
passate.
“Allora,
che hai detto questa volta ai tuoi alunni?” ripresi, cercando
di
far finta di niente.
“Gli
ho ancora una volta raccontato la tua storia” sorrise alla
cornetta, l’avvertii molto chiaramente. Il suo fiato fece
tremolare
la linea.
“Che
storia?” mormorai, confusamente.
Rise.
“La mia dolce bambina quando nacque, quando crebbe e quando
diventò
grande”.
“E
come sono da grande nella storia?”
“Come
lo sei ora. Sempre la mia dolce bambina, che rimane continuamente
quella che trova sempre la soluzione per risolvere tutto”
rise.
“Mm…
non ne sono così sicura” mormorai.
Ci
fu una pausa. “Ma che dici, tesoro? C’è
qualcosa che non va?”
Sospirai.
“In realtà, sì” la sentii
farsi acuta ad ascoltarmi. Poi,
decisi cosa dovevo fare.
“Allora?”
mi incitò, stando in ascolto.
“No,
nulla. Non c’è nulla che non va, stai
tranquilla” sorrisi.
“Potresti passare a trovarmi appena puoi?”
“Certo.
Sono libera domani. Ci vediamo domattina, okay?”
“D’accordo.
Ti voglio bene, a presto” chiusi la chiamata, con un sorriso.
L’indomani
e l’avrei vista.
Qualcuno
bussò alla porta. Mi trastullai nel sonno. Forse avevo
sentito male.
“Tesoro,
ci sei?” esclamò la voce di mia zia.
Mi
alzai di malavoglia e andai ad aprire la porta di camera mia.
“Sì?”
Anne
mi fissò compiaciuta. “No, volevo solamente
controllare che fosse
tutto a posto”.
“Anne,
ti dico sempre che non ti devi preoccupare, perché invece
continui a
farlo?”
“Lillian
mi ha detto così e me lo dice sempre, ogni volta che mi
telefona”.
“Voi
vi sentite di nascosto?” la scrutai.
Scosse
la testa. “Non è di nascosto. Ci sentiamo e basta,
proprio come
fate tu e lei”.
“Credevo
non foste così amiche”.
“Una
volta sembravamo davvero sorelle” sorrise “poi
tutti i tempi
passano, e ora ci sentiamo quando possiamo. Ma rimane mia sorella a
tutti gli effetti” mi guardò, aspettando che
dicessi qualcosa “e
le voglio bene”.
“Pensi
che un giorno tornerà per rimanere?”
“Penso
che ti vorrà con lei, ben presto”.
La
guardai, fisso. “Vuoi dire che vuole che faccia i
bagagli?”
Fece
cenno di no. “Solamente se tu vorrai seguirla, te lo
consiglierà.
Altrimenti, puoi rimanere qui”.
Feci
un sospiro. “Ah, ho capito. Quindi avevate anche un secondo
piano”.
“No,
me l’ha detto da poco. Ormai sei grande. E dopo aver finito
la
scuola te ne puoi andare da lei. È a un ora da
qui”.
Annuii.
“O per le vacanze”.
“Esatto”
mi sorrise. “Dormivi? Ti ho disturbato?”
Scossi
la testa. “Non ti preoccupare, ho notato che sono solamente
le
nove. Meglio che mi metta a studiare. Domani arriva Lillian,
finalmente” la guardai, nascondendo un sorriso.
“Davvero?”
le si illuminarono gli occhi per un istante. “Sai, questa
volta ho
proprio voglia di vederla”.
“Anch’io”.
Mi
svegliai completamente tranquilla quella mattina. La prima volta in
tanto tempo che ero calma e rilassata. Mi parve di essere in
un’altra
dimensione. Presi un lungo respiro. Cercai di tornare nella mia
realtà, anche se per la verità preferivo rimanere
là. In quella
strana terra isolata, fatta di dolcezza e quiete.
Ma
aprendo bene gli occhi, presi coscienza del fatto che dovevo
affrontare anche quella giornata, per uscirne vincitrice di tutte le
mie paure.
Entrai
in cucina e ci trovai Jen a fissarmi, accanto ad Anne. Rimasi
sorpresa. “Che ci fai qui?”
“Volevo
andare insieme a scuola, ma è tutto ieri che non mi rispondi
agli
squilli. E non sapevo se saresti venuta, così sono passata
di qui…
un po’ presto in effetti. Bè, come stai?”
“Bene”
risposi. “Senti, vieni fuori con me, un attimo?”
Lei
annuì e si alzò dalla sedia, facendo un cenno ad
Anne.
“Ci
vediamo dopo, Anne” dissi io.
Quando
fummo fuori, la guardai negli occhi. “Allora, ti manca
l’ultima
parte della storia…”
Lei
annuì, un po’ confusa.
“Perché c’è
dell’altro?”
“Quello
che pensavo io… troppe cose in questa storia, eh? Comunque,
adesso
ti racconto… Piuttosto, hai visto più
Antoine?”
Scosse la
testa. “Entrerà nel mio libro delle acque passate,
quelle che non
si riferiscono né alle piccole né alle grandi
relazioni. Che ci
vuoi fare, c’est la vie”.
Sorrisi.
“Allora… lo sapevi che mio padre si faceva
chiamare Leo?”
Lei
mi guardò sorpresa, sorridendo e scuotendo la testa allo
stesso
momento. Le raccontai tutto.
Avevo
già deciso che non sarei andata a scuola quella mattina, ma
sarei
rimasta a casa a parlare con mia madre. In fondo, aveva finalmente un
giorno libero, ed era stata probabilmente sostituita. E avevo tanto
bisogno di parlare con lei.
Salutai
Jen, che si avviava con la sua bici verso la scuola. Mi aveva detto
che ora stava meglio. E il suo commento a tutta la vicenda era simile
alla mia espressione quando a mano a mano avevo scoperto tutto.
Raggiunsi
la collina, prima che Loud se ne fosse andato a scuola. Lasciai la
mia bici nel cortile fuori dalla grande villa.
Poi
quando uscì, dopo Antoine, levai una mano per salutarlo.
Lui
mi fece un cenno, sorridendomi. Mi venne incontro e gli sorrisi
lievemente di rimando. Vidi Antoine, Pearl e tutti gli altri alle sue
spalle. Le uniche che mancavano erano le insegnanti.
“Ciao”
dissi, cercando qualcosa che cominciare il discorso. Intanto il
cellulare mi vibrò.
Sarò
lì tra poco, mamma.
Scostai
gli occhi dal display e guardai Loud, mentre gli altri si avviarono a
piedi.
“Ciao”
mi rispose lui. “Tutto okay?”
“Sono
venuta per dirti una cosa. Anzi forse è più di
una. Quest’estate
andrò con mia madre ad abitare. Tornerò il
prossimo anno per la
scuola, ma per me sarà questo l’ultimo,
ufficialmente”.
“L’ultimo?”
si corrugò, guardandomi.
“Esattamente.
Non credo che questa storia debba andare ancora avanti. Il tuo amico,
ehm nemico Liam, mi ha detto che io provo qualcosa per te, quando ci
ha visti. E forse è vero. Ma non credo che questo possa
cambiare,
ora, le cose. Ormai è stato tutto deciso. Già da
quando ci siamo
incontrati, probabilmente la storia aveva già la sua fine.
Credo che
sia stato bello, ma che dovremmo salutarci qui. Come ogni cosa che ha
contato, mi mancherà il tuo sorriso. Soprattutto le tue
battute.
Forse mi mancherai più tu, tutto intero” feci una
pausa, notando i
suoi occhi che affondavano nei miei, come se volesse pescarci
qualcosa.
“Ma
è così che deve andare, me lo sento. Ti voglio
bene lo stesso,
Loud” l’abbracciai forte, sentendo che le sue mani
premevano
sulla mia schiena. Chiusi gli occhi, respirando il suo profumo di
fiori.
“Non vuoi nemmeno parlarne?” lo sentii dire, contro
il
mio collo.
“Ne
abbiamo già parlato” mi scostai da lui. La
lunghezza
dell’abbraccio bastava così.
“Lo
sai che anche a me mancherai, ma non sono d’accordo sul non
vederci
più”
Lo
guardai. “Riprenderai ad uscire con Seyla?”
Lui
non si scompose. “Non dire assurdità. Se per altri
anni penserò
ancora a te”.
“Smettila”
sbuffai, scuotendo la testa. Cercai di riprendere un respiro
regolare, sentendo che il cuore mi martellava sempre più
forte nel
petto. Ma sapevo che stavo facendo la cosa giusta.
“Mi
ricorderò per sempre di te”
“Anch’io,
purtroppo” dissi.
“Come,
purtroppo?” si accigliò, nuotando con i suoi occhi
azzurri nei
miei.
Sospirai.
“Sarà difficile scordarti. E ricordarti tutti i
giorni, non lo
voglio fare. Troppo doloroso. Magari ogni tanto”.
“Una
volta all’anno” scherzò lui, rimanendo
comunque serio.
“Ma
no. Purtroppo, passerai nella mia mente molte
più volte”.
“Purtroppo
non avremmo mai quell’amore”
mormorò, sussurrandomi
nell’orecchio.
“Quale,
quello bello e felice? Perché, esiste?” dissi,
ironica.
Sbuffò
lui questa volta, scuotendo di poco la testa. “Ti ho detto
basta
con le battute” mi si avvicinò, e mi
baciò sulle labbra, molto
dolcemente, ma trattenendomi sotto le sue dita.
“Ciao,
Chey”
“Addio”
gli mormorai, soffiandogli contro.
“Addio”.
Lo
lasciai lì in piedi, e ripresi la mia bici. Mentre pedalavo,
mi
arrivò un altro trillo nel cellulare.
Arrivai
davanti al cancelletto e trovai mia madre. Le buttai le braccia al
collo.
“Mamma,
finalmente!” esclamai. Ero davvero esausta. Ed era solo
mattina.
Ero esausta di fini, e cose così. Volevo solamente
rilassarmi. E per
fortuna non mancava molto alle vacanze.
“Chey,
mi sei mancata” disse lei, accarezzandomi i capelli e
appoggiando
la testa sopra la mia spalla.
La
sentii fremere per un secondo e non capii il perché. Mi
scostai
appena dalla sua spalla, e di lato, vidi Loud passare davanti alla
nostra casa.
Vidi
Lillian che lo guardò per un secondo, e forse quello fu il
tempo in
cui i loro occhi si incontrarono di nuovo.
“Purtroppo,
non posso stare zitta” dissi, scostandomi
dall’abbraccio, quando
la figura di Loud fu ormai sparita dalla nostra vista.
Lei
si accigliò. “Che vuoi dire?”
“Che
so tutto. Ho conosciuto lui, Loud. E ho scoperto
tutto, anche
di Leo e di te e Loud. Volevo solamente dirtelo, volevo che tu lo
sapessi. E volevo anche dirti che non ce l’ho con te. Quello
che
hai fatto tu tanto tempo fa, l’ho rifatto io fino ad oggi.
Credo,
ne sono convinta, che lui fosse solo uno di passaggio per me,
nonostante io provi qualcosa di forte per lui. Ma non tutto
è fatto
per avere un lieto fine, no? A volte, serve tanta strada per
arrivarci. E non ci sono ancora vicina” sorrisi “Ma
grazie per
essere venuta”.
“Allora
l’hai conosciuto” disse lei,
mentre la sua voce si fece
più cupa.
“Ho
letto la lettera che tu non hai mai aperto, è in casa. Hai
un idea
di dove sia Leo?”
Lei
scosse la testa. “Non ti ho mai detto che tuo padre sarebbe
mai
tornato, perché è quello che ho sempre saputo
anch’io. Dentro di
me, sapevo che quella era la verità, e che dovevo andare
avanti da
sola con te. Sentivo che era la cosa giusta da fare, proprio come tu
ora senti che la cosa giusta da fare sia allontanarti da lui e dalla
sua famiglia. E ti appoggio in questo. Ricordati sempre cosa hai
imparato, e fai tesoro dei bei momenti. Mentre tutto il resto, i
pianti e i momenti più dolorosi, ti hanno già
aiutato a diventare
quella che sei ora davanti a me. E io ti voglio bene per
questo” mi
sorrise, baciandomi tra i capelli. “Sei sempre la mia
Cheyzanne”.
Continuai
ad abbracciarla, finchè non fummo entrate in casa.
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