City Of Angels

di sleepingwithghosts
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno. ***
Capitolo 2: *** Capitolo due. ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre. ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro. ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque. ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei. ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette. ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto. ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove. ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci. ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici. ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici. ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici. ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici. ***
Capitolo 15: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno. ***


«I miei genitori mi butteranno fuori di casa», mi lagno, sentendo la faccia contrarsi in una smorfia.

«Devo ricordarti che fra due mesi andrai all’università e che di conseguenza avrai comunque già cambiato casa?», mi dice Frances.

«E Paese, non scordiamoci che cambierà – cambieremo – anche Paese», aggiunge Rain.  

Sbuffò. «Ho appena speso tutti i soldi che avevo risparmiato in un anno per questo stupido volo. A Londra mi ciberò di erba rubata da Hyde Park e acqua del Tamigi»

«Tutti prodotti di ottima qualità inglese, mi sembra, o sbaglio?», ridacchia Rain.

Sorrido, non riuscendo a trattenermi. «Sono una persona morta».

«Ma tu», comincia Frances puntandomi addosso i suoi occhi azzurri «dove diavolo eri quando Dio distribuiva lo spirito d’avventura?»

«A lavarsi i denti, probabilmente», risponde Rain.

Alzo gli occhi al cielo. «Vi odio. E ho paura che questo stupidissimo aereo precipiti da un momento all’altro».

Paranoica? Sì. Petulante? Anche. L’ansia fa parte di Deborah, ne è la padrona, la domina. Le ansie di Deborah hanno l’ansia.

Deborah sono io e in questo momento sento che sto per avere un attacco di panico, uno di quelli che mi succhiano via tutto il respiro, e che morirò presto. Nessuno mi potrà salvare da qui su. Morirò su questo scomodo sedile di seconda classe, guardando i tuoni fuori dal finestrino e pensando che almeno non mi sono sfracellata al suolo. Potranno ancora portarmi i fiori al cimitero e tutto il resto.

«Non hai sentito una parola di quello che ho detto», constata Rain dopo un po’.

«Mh». Ops.

«Lo sapevo. Chi è che odia chi?», dice incrociando le braccia al petto.

«Sembri una bambina di due anni».

«Sembri una vecchia di cento anni», ribatte lei.

«Quest’aereo non si schianterà e hai solo un attacco di panico, non stai morendo d’infarto. Stai calma, Deb. E tu Rain, per favore, ti supplico, smettila di infierire», dice Frances prima con un tono dolce e poi con uno implorante.

«Okay», diciamo in coro io e Rain. Mi volto verso di lei che mi fa una linguaccia, e io le sorrido. I battibecchi come questo sono all’ordine del giorno, tra me e lei. Dopotutto siamo migliori amiche.

«Quindi», ricomincio, e le vedo irrigidirsi, preparandosi ad un’altra raffica di frasi fatte per alleviare il mio panico «dato che siete sicure che non precipiteremo e che non avrò un infarto fulminante, dato che siete così sicure che a Los Angeles  ci arriveremo vive, intatte, soprattutto (l’idea del veicolo che si schianta al suolo e me stessa divisa in mille pezzettini come Voldemort nell’ultima scena di Harry Potter e i doni della morte parte II non riesce ad abbandonarmi la mente) mi ripetete come, di preciso, riusciremo a scovare Jared, Shannon e Tomo?»

In un secondo si sciolgono e cominciano a sorridermi. Due sorrisi così malvagi da farmi accapponare la pelle. Quei sorrisi urlano “ma per chi ci hai preso, due deficienti?”. Gli stessi sorrisi di quando, per la prima volta, mi avevano esposto il loro piano. Non è che avessi avuto molta scelta, il giorno in cui si erano presentate a casa mia sostenendo che loro sapevano che avrei sicuramente detto di sì e che quindi i soldi del biglietto li avevano anticipati loro; ricordo di averle guardate confusa chiedendo di che biglietto stessero parlando, immaginandomi l’adrenalina prodotta da un nuovo concerto o la meraviglia davanti a un quadro che non avevo ancora visto, ma no, ovviamente non era così. Lo compresi quando Frances mi sventolò sotto il naso un cartoncino lungo e spesso: biglietto aereo last minute per la città degli angeli.  Devo proprio specificare il fatto che ci mancava poco ad un rovinoso svenimento?

Ora, con la tempesta che infuria fuori dal finestrino alle mie spalle, l’ansia annidata nello stomaco e le unghie ormai divorate, guardo Rain gonfiarsi soddisfatta. «Google sa tutto», dice «anche l’indirizzo esatto del The Hive»

 

 

 

 

È solo una malsana idea che mi è spuntata in testa dopo aver visto Artifact insieme a due amiche. Non so ancora bene che cosa ne uscirà, ma sono sicura che non sarà nulla di intelligente. Io vi avvertiti. Deb.

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Capitolo 2
*** Capitolo due. ***


Frances si chiama così perché sua mamma ama Dirty Dancing. Tutte le mamma amano Dirty Dancing (io lo amo, perdio) ma la sua lo amava così tanto da dare a sua figlia lo stesso nome della protagonista. Potrà sembrare una cosa folle, ma la madre della mia amica un po’ folle lo è sempre stata. Ascoltando i suoi racconti, seduta sul divano bianco di casa sua, mi ritrovo spesso a bramare fiori fra i capelli e vestiti hippie, e dieci secondi dopo a essere catapultata nell’era punk di Londra. E poi ti fa adorare Parigi, che conosce come le sue tasche, e i libri, e i film. Stai certo che quel libro a cui stai pensando lei l’ha letto, che quel film sconosciuto e meraviglioso che hai per caso trovato durante un attacco acuto di insonnia in un canale che non sapevi nemmeno esistesse nella tua televisione, lei l’ha visto.

Tutto questo per dire che Frances è come lei: una raffinata, intelligente, super-acculturata ragazza bionda. Ebbene sì, non tutte le bionde sono stupide ed insulse. E ve lo dico perché ero io quella che durante i compiti di filosofia dimenticava la parola chiave di tutto il discorso e la chiedeva lei, china sul foglio e nascosta dai lunghi capelli. Frances è una di quelle ragazze che vedi e dichiari da subito perfette. Per me, almeno, è stata perfetta fin dal primo giorno.

 

«Che c’è?», mi chiede notando che la fisso da minuti.

«Stai rileggendo Il Grande Gatsby. Non era il mio di libro preferito, quello?»

«Te l’ho fatto scoprire io, se non sbaglio»

«Giusto. Continua a parlare di proibizionismo?», la punzecchio.

«Oh, smettila!», risponde irritata, tradendo però un sorriso. «Ancora questa storia?»

«Non ti lascerà mai in pace per quella storia», s’intromette Rain.

Il succo di quella storia è che, quando quel libro l’avevamo studiato a scuola, Frances se ne era saltata fuori con il proibizionismo, dicendo che era sicuramente quello il punto centrale della narrazione, ricevendo, come di consueto, elogi dalla professoressa. Il fatto è che la storia d’amore fra Gatsby e Daisy è l’argomento centrale del libro, punto e basta. Poi tutto il resto è un bla bla bla di sfondo.

«Mai», confermo dandole una pacchetta sulla gamba. «I tuoi capelli sembrano più biondi del solito»

«Dici?»

«Dico. Sembri un angioletto». Sbatte le ciglia e assume un’espressione angelica.  Scoppio a ridere. «Come mai, comunque, non stai studiando cadaveri morti o cose del genere?». Non vi suonava ovvio il fatto che volesse diventare medico?

«Io non studio cadaveri morti!», mi dice indignata.

«Quello che è». Ho sempre odiato le scienze, non ci ho mai capito un’acca. In più sono ipocondriaca. Stadio terminale di ipocondria. Io salvare vite? Direi che sono già troppo impegnata a salvare me stessa dalla paranoia, l’ansia, la mancanza d’equilibrio… no, non fa per me.

«Siamo in vacanza», risponde alzando le spalle.

Sono sconvolta. «Mi stai dicendo che in valigia non hai nessun tomo?»

«In realtà conto di avercelo in valigia al ritorno, Tomo», ammicca.

Alzo gli occhi al cielo. Che, tecnicamente, è sotto di me. Affianco a me? Io sono dentro al cielo, in quest’istante. O no? Sempre detto che gli aerei sono macchine infernali. Mi mandano in confusione. «La valigia di Frances, a Natale nel cinema della tua città»

«Natale ovvero tre Settembre»

«Amen»

Rain ci guarda. «Che cazzo state dicendo?»

«L’altezza mi da la testa», dico mettendomi sugli occhi la mascherina che mi hanno dato nel kit di sopravvivenza alle infernali nove ore di volo che mi aspettano. «Forse dovrei dormire»

«Sia ringraziato il cielo. Dormi», esclama Rain. Alzo un angolo della mascherina e le lancio un’occhiata che potrebbe uccidere. «Sei insopportabile oggi, scusa»

«Sono in ansia, in-ansia»

«Tu sei sempre in-ansia»

«Capita»

«No, alle persone normali non capita»

«A quelle paranoiche sì»

«Okay»

«Okay»

«Fanno The amazing spiderman», dice Fances, il ritratto della calma, per nulla scalfita dai nostri battibecchi, infilandosi le cuffie nelle orecchie. «Dormite o tacete». Concisa e autoritaria.

Mi muovo sul sedile, in preda ad una strana eccitazione. Amo i supereroi quanto la pizza. E posso giurarvi che la amo alla follia. «La scena della biblioteca è fenomenale»

«Niente spoiler», dice Rain.

«Tu hai il mio dvd da tre mesi. Non l’hai ancora visto, in tre mesi?»

«No, non l’ho ancora visto. Ma lo sto per vedere, no?»

Mi manca l’aria. «Hai tenuto in ostaggio il mio dvd per tre mesi!»

«Sta bene, se ti può consolare»

«No, non mi consola per niente. Rivoglio il mio dvd»

«Quando torniamo a casa»

«Grazie», borbotto. Lei fa un gesto con la mano e mi zittisce.

 

Un paio d’ore dopo, a film terminato, una hostess minuta ci porta il pranzo. Ha un sorriso gentile e mi rilasso un po’, anche grazie al cibo, nettare degli dei, mio grande amore, mia fonte di gioia. Il cibo rende le mie giornate più felici, e non c’è nient’altro da aggiungere. Mangio il budino come se non avessi la possibilità di mangiarlo mai più, sebbene non sia per niente gustoso. Finito il pranzo, appoggio la testa al sedile, inforco la mia mascherina e mi addormento, anche grazie alla pancia piena.

Sarà un lungo, lunghissimo, terrificante, noioso viaggio. Ma dicono che ne valga la pena. Chi? I miei pensieri, che quando abbasso le palpebre mi mostrano due grossi occhi azzurri. E noi, quegli occhi, vogliamo trovarli, guardarli e perché no, farli sorridere. Siamo un trio simpatico, dopo tutto.

 

 

 

 

Non mi convince per niente, ma non mi convinceva neppure la versione che avevo scritto prima di questa, quindi mi arrendo alle mie non doti. Spero, comunque, di avervi strappato un sorriso anche questa volta. Deb.

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Capitolo 3
*** Capitolo tre. ***


La voce leggermente stridula di una hostess mi sveglia dal sonno tormentato in cui sono caduta, letteralmente, dato che ho sognato di precipitare dentro un buco, come Alice, ma senza coniglio bianco o porte minuscole; nel sogno mi limitavo a vegetare dentro quello che sembrava un pozzo molto fondo per il resto della mia vita, e non morivo cibandomi di strane rape blu che crescevano lì dentro. Non sono mai stata del tutto normale, in fatto di sogni. E no, non sono una consumatrice di LSD, se ve lo state chiedendo. Faccio solo sogni strani. Capita, è così che va la vita, alcune persone fanno sogni strani, altre li fanno nella norma, altre ancora non li fanno. Capita.

«Signorine, stiamo per atterrare, dovete allacciare le cinture», dice la hostess con la voce non poco irritante. Ancora intontita dal sonno, annuisco. devono farlo anche le mie amiche, perché lei ci avvolge con un sorriso rugoso – non sapevo che le hostess potessero avere più di trentacinque anni, sono contenta che la discriminazione non sia arrivata ancora a questi livelli – e se ne va ad avvertire qualche altro passeggero che come noi, durante il volo, si è addormentato.

«Quanto tempo abbiamo dormito?», chiedo alle altre.

«Tu sei crollata come un sasso finito il pranzo, con la pancia piena», risponde con un sorrisino Rain.

Non mi convince quel sorriso. «Perché sorridi?»

Tossichia. «Sei carina quando dormi»

«Non prendermi in giro», le dico puntandole un dito contro il petto. «Perché diavolo stai sorridendo in quel modo inquietante? Rispondi»

«Che maniere!», sbuffa. «Diciamo che, emh… ti ho aiutato a fare sogni tranquilli»

«Sono caduta dentro un fottuto buco buio a cibarmi di rape blu, nel mio sogno tranquillo». E in quel momento collego. È vero che faccio sogni strani, ma rape blu? «mi hai drogata?», boccheggio.

«Ti ho messo un tranquillante nell’acqua, giusto per farti addormentare. Frances, l’ha messo, per la precisione»

Guardo Frances che si stringe nelle spalle. «Mi spiace, ma noi abbiamo detto no agli attacchi di panico»

«Traditrice», sibilo guardandola in cagnesco.

Sento qualcuno che mi appoggia una mano sulla spalla e alzando gli occhi noto che è l’hostess di prima, un qualche sentimento negativo nei miei confronti mascherato da un sorriso in volto. «Sì, scusi», dico imbarazzata trafficando con la cintura e riuscendo, dopo svariati tentativi, ad allacciarla. Alzo la testa e le sorrido.

Sono quasi sicura di essermi meritata una maledizione da parte sua, quindi, sconsolata, mi accascio sul sedile, ancora con il torpore tipico del sonno in testa. Mi volto a guardare le mie amiche e le vedo molto prese a osservare qualcosa fuori dal finestrino. Da dove sono io, il sedile vicino al corridoio – condizione tassativamente imposta da me stessa in quanto 1) in caso di nausea posso correre in bagno, 2) meno vedo fuori dal finestrino meglio è, 3) alla mia sinistra non c’è nessuno, il che significa che rimane più ossigeno per la sottoscritta, 4) voglio essere la prima ad essere avvertita della propria imminente morte, in caso sia necessario – non riesco a vedere bene che cosa stiano indicando, ma non me ne curo (vedi punto 2 della soprastante lista) e invece chiudo gli occhi, sperando di sentire di meno tutti gli strani movimenti che l’aeroplano compie in fase di atterraggio, auto convincendomi che se non vedo allora andrà tutto bene.

E va tutto bene, effettivamente. Il problema è che qui, a New York, ci stiamo tre ore. Ci concediamo un caffè, una capatina al bagno a rinfrescarci la faccia che ha l’aspetto di un’esperienza post morte (la mia, almeno, Frances è perfetta come sempre) e poi un altro caffè, stavolta con la panna sopra, giusto perché tanto grazie all’ansia sono dimagrita di qualche chilo. E poi facciamo un altro check-in e ci imbarchiamo. Di nuovo.

Un’ora dopo mi ritrovo inevitabilmente a lamentarmi. È nella mia natura, non posso farci nulla. «Tutti questi aerei mi faranno venire i capelli bianchi», sbuffo.

«Mi spiace deluderti ma sono ancora deliziosamente fucsia», ribatte Frances.

«Non serve rimarcare il fatto che l’unica bionda, e quindi con qualche misera possibilità di far colpo su Jared, fra le tre, sei tu»

Sorride. «C’est la vie»

«Voi e il vostro francese del cavolo»

«Dovevi metterci più panna in quel caffè. Sai, magari ti addolciva», interviene Rain.

Bene, sono pure acida adesso. Sbuffo di nuovo, abbassandomi ad allacciare una scarpa. Casualmente, e i peli mi si rizzano sulle braccia, noto il tempo davvero poco carino fuori dal finestrino. «Di nuovo una tempesta? Io non ce la faccio!». Voglio morire prima che un lampo entri dentro questa macchina infernale e mi faccia diventare un mucchietto di cenere, è tanto da chiedere?

Rain alza gli occhi al cielo. «Non morirai»

«Tutti muoiono»

«Non morirai adesso»

Borbotto un «questo lo dici tu» che credo non senta, dato che non pervengo nessuna risposta scocciata. Con lo stomaco chiuso, comincio a grattarmi via lo smalto dalle unghie, tanto per passare il tempo. Infine sto andando a Los Angeles, non a farmi decapitare da un boia, un po’ di entusiasmo potrei ostentarlo, ogni tanto, no? Prendo un grosso respiro e decido che sì, la mia faccia potrebbe rilassarsi un pochino e che le probabilità che io muoia, in fine, non sono poi alte. Posso davvero calmare i nervi.

Posso eccome, ma l’aereo comincia a traballare, e lo stomaco mi finisce in gola. Vorrei urlare ma non ci riesco. «Che cazzo succede?», annaspo, chiedendolo a nessuno in particolare.

La voce di un’hostess esce dagli altoparlanti «Si avvisano i gentili passeggeri di mantenere la calma. Le turbolenze termineranno appena avremmo sorpassato la tempesta»

La voce di Hagrid che afferma “Arriva una tempesta Harry, proprio come l’ultima volta” mi rimbomba in testa. Moriremo tutti, e non per mano di Voldemort. Oh, quella sì, che sarebbe stata una morte degna. Moriremo tutti perché questo aereo perderà un ala, prenderà fuoco, e si schianterà al suolo. «Non ce la faccio»

Frances, al mio fianco, mi appoggia una mano sulla gamba. «Calmati. Sorpasseremo il temporale in fretta, vedrai»

Faccio dei grossi respiri, ma l’aria non vuole saperne di arrivare al polmoni. Ripeto l’operazione un paio di volte, prima di riuscire a sentire l’ossigeno arrivare al cervello di nuovo. E in quel momento, l’aereo si muove violentemente di nuovo. D’istinto, mi aggrappo a Frances. «Oh Dio»

«Calma»

«Vaffanculo. Come faccio a stare calma? Questo coso si muove!»

«Shh, abbassa la voce, stai urlando», mi intima Rain. Lei mi guarda e mi sorride. «Tesoro, calmati, ti prego. Va tutto bene»

Vorrei dire che me la sto facendo sotto dalla paura, non che non si capisca, ma il briciolo di dignità che mi rimane, mi sprona ad annuire. «Okay», è l’unica parola che riesco a sillabare.

Ritorno alla mia posizione originale, sebbene io sembri di più uno stoccafisso che un essere umano, e cerco di stabilizzare il mio respiro, focalizzando tutta l’attenzione sul battito del mio cuore e sull’alzarsi e l’abbassarsi del mio petto. Ce la puoi fare, mi ripeto. Va tutto bene, benissimo.

«Vedi? Le turbolenze sono finite», dice Frances con sorriso tenero in volto. Mi limito ad annuire.

Le turbolenze sono finite, ultime parole famose. Non so di preciso che cosa succeda, dato che accade tutto troppo velocemente, ma qualcosa, qualcuno, a causa dell’ennesimo assestamento del veicolo, ci piomba addosso. Finisce dritto disteso sulle nostre gambe e ci paralizza.  L’uomo – deduco sia di sesso maschile per l’altezza e per il modello di scarpe – rimane per qualche secondo in quella posizione imbarazzante, poi, agilmente si alza, borbotta qualche scusa, e se ne va.

 Mi volto verso Frances e Rain con espressione confusa. «Che cos’è appena successo?»

«Un tipo ci è caduto addosso», risponde Frances, corrucciata.

«Sbaglio o aveva una felpa, una giaccia e un’altra giacca legata alla vita?», dico.

«Sbaglio o era super muscoloso?», rincara Rain.

«Sbaglio o non l’ho visto in faccia perché aveva il cappuccio e degli occhiali da sole?», aggiunge Frances.

Tre giacche, quando la temperatura è decisamente gradevole. Occhiali da sole quando di sole non c’è neanche l’ombra. Cappuccio, quando non piove (per lo meno non dentro all’aereo). Muscoli. Il mio cervellino da criceto sta lavorando, e anche molto in fretta. «Voi non pensate sia…?»

Ci scambiamo uno sguardo d’intesa che dura un tempo infinito. «Nah, quello non può essere Jared», sentenzio alla fine, scuotendo la testa.

«No, non può essere», concorda Frances. «Questa cosa ci sta decisamente dando alla testa»

«Pazze per Jared Leto, chiamerò così la mia prima serie tv», affermo. L’ansia comincia a passarmi, anche grazie all’annuncio promulgato dagli altoparlanti il quale dice che la tempesta sembra essere passata.

Controllo l’ora sul telefono, calcolando circa mezz’ora all’atterraggio e mi collego prima a Twitter, ma non noto nessuna informazione interessante. Dunque passo a Tumblr, patria di noi lupi solitari e asociali. Delle foto mi saltano subito all’occhio. Delle foto di Terry Richardson. Delle foto di Jared Leto scattate da Terry.

«Si avvisano i gentili passeggeri di allacciare le cinture di sicurezza per l’atterraggio e di spegnere ogni apparecchio che potrebbe disturbare le linee».

 Allaccio quell'imbracatura e butto il telefono nel bagagli a mano, con  un gesto meccanico, poi mi volto verso le mie amiche.  «Terry ha recentemente scattato delle foto di Jared».

Mi guardano perplesse. «Quindi?», chiede Frances.

«Quindi lo studio di Terry è a New York»

«…quindi?», ribadisce Rain.

«Quindi Jared era a New York. Recentemente. Quindi quell’uomo che prima ci è caduto addosso potrebbe…»

«Oh mio Dio», dice Rain.

«Ohh», dice Frances.

L’atterraggio inizia e io rimango incollata al sedile. La saliva, inoltre, mi si è seccata in bocca e non riesco a deglutire bene. Barcollando scendo dall’aereo, guardandomi invano intorno cercando il ragazzo con la felpa nera e gli occhiali da sole e le due giacche, il presunto Jared Leto, ma di lui nessuna traccia. Noto come Rain e Frances stiano facendo la stessa cosa; noto dalle loro facce deluse che nemmeno loro l’abbiano individuato.

Aspettiamo davanti al nastro trasportatore le nostre valige, che tardano ad arrivare. Per un momento dimentico Jared, le foto di Terry e tutto il resto perché Frances sta avendo un vero e proprio attacco isterico. A quanto pare la sua valigia, a contrario di quella mia e di Rain, non è arrivata a destinazione.

«Io li denuncio. Dove cazzo è la mia valigia? Cosa devo fare, adesso?», dice, le mani fra i capelli.

«Andiamo a chiedere a qualcuno, okay?». Ora che i miei piedi sono ben piantati a terra, personifico la calma. Ci incamminiamo verso quello che ci sembra il posto più indicato, ascoltando i borbottii irritati e arrabbiati di Frances. Chiede all’uomo burbero dietro il bancone che cosa deve fare per ritrovare la sua valigia, e lui, di rimando, le dice di aspettare.

Sto per alzare gli occhi al cielo indispettita in quanto dovremmo sicuramente aspettare un’eternità, quando vedo di nuovo quel cappuccio, quelle scarpe, quei pantaloni.

«Ragazze»

«Cosa?», chiedono in coro.

«Eccolo», esclamo. «Eccolo, è lui»

Ricominciamo a camminare, dimenticando la questione valigia, e seguendolo a distanza per poi fermarci all’improvviso quando lui si alza una manica della felpa. Un tatuaggio che conosco molto bene mi si para davanti agli occhi. Il respiro mi si mozza in gola. «Porca puttana»

«Oh cazzo», esclama Rain.

«Merda», dice invece Frances.

Le guardo. «Quello è Jared. Jared Leto è caduto sulle nostre gambe. Jared Sesso Leto è davanti a noi. Che cosa facciamo?»

«Porca miseria», dice di nuovo Rain.

«Ragazze, concentrazione. Che-cosa-cazzo-facciamo?»

«Corriamo», «Corriamo?», «Corriamo»

Quando però, a voto unanime, decidiamo che l’unica cosa da fare è correre e raggiungerlo, lui è già sparito dalla nostra visuale. «Era così vicino», piagnucolo sedendomi su una sedia.

«Lo sarà di nuovo», dice determinata Frances.

«Promesso?», chiediamo contemporaneamente io e Rain.

«Promesso. Ritroveremo Jared Sesso Leto, prima o poi. Ci riusciremo»

 

Sfortunate? un pochino, in effetti. Ma abbiate fede, sono determinatissime a trovarli, in qualsiasi modo. Deb.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro. ***


«Rainie, cara, ti sei ricordata dell’ombrello?»

«Cosa cazzo ti eri fumata, mi chiedo io, quella volta»

«Come hai detto?»

«Ti sembra un nome da dare, Rain? Io odio la pioggia»

«Ti sembra il caso di dire parolacce?»

«Ho tredici anni, mamma. Io le parolacce le dico da un bel po’»

«Beh… non in questa casa!»

«Rimane il fatto che mi hai dato un nome di merda. Oh, ops»

A quel punto l’avevo trascinata via per un braccio perché mi sembrava scorgere del fumo uscire dalle narici di sua madre. In ogni caso quella era stata la prima delle tante – tantissime – volte in cui la mia amica aveva espresso il suo odio verso il suo nome di battesimo. Non che non fosse strano che una bambina avesse un nome inglese e per di più che significava pioggia, nel nostro paesino, bisogna ammetterlo. Epica, comunque, è la storia della sua nascita: sua madre, appena uscita dallo stadio, festeggiava tranquillamente la vittoria della sua squadra di calcio preferita, bagnata fradicia per la pioggia che non voleva smettere di scendere quella sera e per il sudore, stringendo la mano del marito felice. E in quel momento boom, le si erano rotte le acque. Vane erano state le corse all’ospedale, e la piccolina era nata in macchina, la pioggia che batteva fortissima sui finestrini. Da qui la decisione di chiamarla Rain. Strano, lo ammetto, ma del tutto azzeccato.

Mi ritrovo a ricordare questo quando, appena scese dal taxi che ci ha portate al nostro motel, Rain si sta lamentando. «A Los Angeles non piove mai, giusto? Perché scende acqua dal cielo, allora? Perché sta piovendo? È la mia sfiga che ci segue, ve lo dico io. Ci sarà una tempesta di pioggia solo perché io sono qui, io lo so». Effettivamente piove, e neppure poco, e noi non abbiamo nulla con cui ripararci.

Bagnate come pulcini entriamo nella hall con  le borse sopra la testa, usate per ripararci gli occhi e i capelli. Rain continua il suo monologo d’odio, allora le poggio una mano sulla schiena e le do una pacchetta rassicurante. «È solo pioggia».

«Vaffanculo». Alzo gli occhi al cielo. Anche perché io amo la pioggia. Sorrido: gli opposti si attraggono? Forse sì. Ci incamminiamo verso la reception e facciamo il check-in. Dormiremo in tre in una stanza per un tempo non ben definito, ergo non oso pensare a come sarà alla fine della nostra avventura. Non si prospetta nulla di buono. Saliamo le scale – spendiamo troppi pochi soldi a notte perché questo coso possa avere un ascensore – trascinandoci dietro i bagagli super pesanti. Arrivo in cima per prima, e apro la porta con la chiave non elettronica che ci hanno consegnato. Appoggiato ad una parete c’è un letto matrimoniale, le lenzuola rosa pallido che per qualche strana ragione sembrano gialline. Al suo fianco un divano, su cui immagino una di noi dovrà dormire e dall’altra parte un piccolo comodino rettangolare con sopra una lampada tonda color puffo. Una moquette marrone è stata applicata sul pavimento, e l’adorerei se non pensassi a tutti i germi che può contenere. C’è anche un armadio, una piccola scrivania con una sedia e una televisione di qualche era passata. Una porta che affianca l’armadio porta ad un piccolissimo, ma a quanto pare pulito, bagno.

«Fa abbastanza schifo, ma neanche troppo», mi pronuncio contraddicendomi e formulando una frase senza senso. Le lascio entrare e metto la valigia affianco all’armadio, con nessuna intenzione di svuotarla. Siamo a Los Angeles, piove, e abbiamo tempo. Penso. Spero. Mi contorco le mani in grembo. «Penso di aver bisogno di una doccia. Sapete, tutta quell’ansia mi ha sfinita».

Rain e Frances, sedute sul letto annuiscono, un sorriso sul volto. Capisco all’istante che sono stata declassata al divano e alzo gli occhi al cielo. «Il mio futuro mal di schiena vi ringrazia, bastarde che non siete altro».

 

Qualche era geologica dopo, che in realtà sono solo un paio di ore, abbiamo fatto la doccia tutte e tre, abbiamo svuotato le valige, preso confidenza con la stanza, ci siamo rivestite e infine, ci siamo risedute sul letto.

«Ora che siamo in questa città sconosciuta, che dormiremo per un tempo non definito dentro lenzuola nelle quali hanno dormito altre persone e che mangeremo pizze davvero cattive, volete, gentilmente, spiegarmi qual è il vostro piano per incontrarli?», chiedo.

Frances si dimena. «Allora».

«Sì, allora», concorda Rain. L’ho già detto che a volte mi spaventano?

«Allora, il piano è un piano davvero semplice: accamparsi fuori dal The Hive, in Melrose Avenue, e aspettarli fino a che non escono o non entrano, dato che solo Jared ci vive dentro».

Sbatto le ciglia. «State scherzando, vero?». Si guardano e scuotono la testa. Sono serie, serissime. «Come delle dannate stalker! Saremo delle stalker! Possono denunciarci!», sbotto, l’ansia che mi trabocca perfino dalle orecchie.

«Ma lo faremo in modo cauto, senza farci scoprire da nessuno», ribatte stizzita Rain. «Ho studiato la zona in google maps per bene, e nei pressi della casa c’è un bar. Possiamo piazzarci lì con un libro ed è fatta».

«Bene, diventerò pure caffeinomane», dico lasciandomi cadere all’indietro sul letto. Sento un silenzio di tomba attorno a me, nei secondi seguenti, quindi mi alzo sui gomiti e guardo le mie amiche: tengono le labbra strette e si guardano, lanciandomi occasionali occhiatine. «Cosa?», domando.

«Era un sì, quello?», mi chiede Frances.

«Quello cosa?»

«Diventerò pure caffeinomane», mi cita Rain. E allora capisco quello che intendono. Era un sì, il mio?

«Credo fosse un fottuto sì», dice con un sorriso sulle labbra. Un secondo dopo mi ritrovo stretta fra un abbraccio e mi sento bene.

Appena riesco a liberarmi delle loro braccia intorno al corpo propongo loro di uscire. «Siamo a Los Angeles, non possiamo stare qui dentro a guardare serie tv o a studiare, dobbiamo divertirci».

«Chi sei tu e che ne hai fatto di Deborah-la-rovina-feste?», ridacchia Rain.

Sbuffo. «Vogliamo andare oppure no?»

Ed è così che nelle successive ore ci ritroviamo a mangiare cibo cinese in un locale molto accogliente, a camminare per il centro della città, o quello che almeno pensiamo lo sia, dato che LA è davvero enorme; ci ritroviamo ad ammirare il tramonto, che è bellissimo, il tramonto più grande e bello che abbiamo mai visto in vita nostra; ci ritroviamo sulla spiaggia, il mare nero e le stelle in cielo e cantiamo, cantiamo, cantiamo.

«Lost in the city of angels, down in the comfort of strangers I found myself in the fire burnt hills, in the land of a billion lights» e le vediamo davvero le luci, vediamo le colline alle nostre spalle, vediamo la bellezza della città che ci sta ospitando e ci sentiamo a casa, finalmente.

 

 

 

Scusate il ritardo, la scuola mi sta massacrando. Ho già in mente i prossimi capitoli, non temete. Preparatevi a qualche vicenda veramente divertente. Come sempre spero vi sia piaciuto quello che ho scritto, fatevi sentire, che fa sempre piacere e niente, un bacino sul naso. Deb.

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque. ***


«Ho il culo quadrato», mi lamento. Cinque ore fa mi sono seduta su questa poltrona e non avuto ancora l’occasione di alzarmi per sgranchirmi le gambe. Ho davanti a me la quarta tazza di caffè americano, un giornale con le notizie internazionali e il libro di letteratura inglese sottolineato in modo disordinato. Sfrutto il tempo tra un’occhiata e l’altra fuori dalle vetrine del locale per prepararmi all’università che incombe su di me. Corso di scrittura creativa e video montaggio, a Londra, fra due mesi scarsi.

«Novità?», mi chiede Rain dall’altro capo del telefono.

«Nessuna, come ieri e come l’altro ieri», sbuffo. Ci siamo date dei turni per goderci la città e contemporaneamente tenere d’occhio la casa. Oggi il Grande Compito tocca a me, sola soletta. Credo che tra un po’ attaccherò bottone con qualcuno, un qualcuno a caso, perché l’unica parola che ho pronunciato da questa mattina è stata “thanks”, quattro volte, al cameriere. «Voi dove siete?»

«Stiamo arrivando», riaggancia.

Svuoto la tazza di caffè sotto lo sguardo divertito del cameriere che, velocemente, rispettando un tacito accordo che sembriamo aver stretto, cammina verso di me, e la riempie di nuovo. Gli sorriso grata, mi alzo, e mi dirigo verso il bagno. L’immagine che lo specchio sopra il lavandino mi rimanda è davvero, davvero, terribile. Il poco sonno, l’eccesso di caffeina in corpo e l’essermi dimenticata in camera gli occhiali, hanno fatto spuntare delle occhiaie mostruose sotto gli occhi. Per non parlare dei capelli, che non sembrano capelli ma un nido di vespe, e dei vestiti, stropicciati perché a quanto pare, nel motel, il ferro da stiro non è in dotazione della camera. Mi sciacquo il viso con dell’acqua fredda, sistemo il trucco sbavato e mi pizzico le guance per ridarci un colore sano e naturale. Torno in sala e un particolare mi salta all’occhio, quando, d’abitudine, guardo fuori dalle vetrate: il cancello elettrico del The Hive che si chiude con un tonfo.

Sbianco, e addio a tutta la fatica che ho fatto per ridarmi un po’di contegno. Sento proprio la vita che mi scivola via. È possibile che, negli unici cinque minuti che mi assento da quella poltrona blu che ormai è diventata la mia migliore amica, succeda qualcosa di così importante?

Mi avvio verso il bancone e con la voce alterata e l’inglese che diventa difficilissimo da parlare chiedo «Scusami», lancio un’occhiata al cartellino con il nome che il cameriere ha appuntato sulla camicia nera «scusa Joe, per caso è appena entrato o uscito qualcuno da quella casa?». Indico il The Hive con un dito e torno a guardarlo.

Non risponde subito, immagino si stia chiedendo perché io voglia saperlo, ma poi si stringe nelle spalle. «Sì, mi sembra di aver visto entrare una grossa moto».

«Merda!», esclamo in italiano. «Merda, Shannon! Quelle mi ammazzano, mi fanno a pezzetti minuscoli e mi spediscono con un pacco ad Hannibal. Il pranzo è servito dottore! Merda».

Dopo qualche secondo noto che Joe-il-cameriere mi sta guardando confuso, forse per l’italiano o forse per i movimenti convulsi e insensati che sto facendo, non lo so di preciso, e provo un po’di pena per lui. Si starà chiedendo che cosa ha fatto di male per avere una pazza nel suo locale. L’unica cosa che mi sento di dirgli è di lasciarmi perdere, poi mi scuso, sotto il suo sguardo incredulo, e chiamo Frances. Lei e non Rain perché spero in una morte meno dolorosa. Ma è quando sto cercando il nome in rubrica che le vedo varcare la soglia del bar. Sono morta e sepolta.

«Hi Darling, how are you?», chiede allegra Rain.

Deglutisco. Male male male. «Benissimo!», esclamo, la voce che sale di un numero indefinito di ottave, un sorriso fintissimo stampato in faccia. Mi guardano in modo sospettoso e il lascio che il sorriso-smorfia si allarghi ancora. «Caffè?», chiedo. Rain mi scruta un altro po’ e poi annuisce, Frances preferisce del thé. Faccio l’ordinazione a Joe, ancora convinto io sia pazza, che dopo poco ci porta tutto al tavolo, sorridendo fra sé. Sono diventata un fenomeno da baraccone.

«Vi siete date allo shopping, vedo», dico, cercando di portare la conversazione su altri lidi. Devo resistere e non dire nulla di Shannon, della sua grossa moto, del cancello che piano piano si chiude davanti ai miei occhi… questa notte farò gli incubi.

«Sono molto fiera dei miei acquisti», esclama soddisfatta Frances. Ama la moda. Come potrebbe non farlo, con una mamma che per un periodo di tempo ha fatto la stilista? «Ti abbiamo preso un regalo!».

Mi strozzo con il caffè e in testa mi si stampa la frase “sensi di colpa”, a caratteri cubitali. «Davvero?»

Rain prende qualcosa dalla borsa e me lo lancia contro. Riesco a srotolare la palla di stoffa che mi ha appena quasi colpito in piena faccia, e osservo il vestito blu notte che tengo fra le mani. «Ma è bellissimo! Lo metterò questa sera, quando staremo dentro quella stanza puzzolente a guardare la televisione». Ebbene sì, per qualche strana ragione le ultime due sere siamo finite, esauste, a rimanere distese tutte e tre nel letto matrimoniale a mangiare cereali e a fare maratone di telefilm. Le vite segrete di tre diciannovenni italiane a Los Angeles, prossimamente nel cinema della tua città.

«Usciremo prima o poi», dice imbarazzata Frances. Per qualche strana ragione è sempre la prima ad addormentarsi.

«Concordo», annuisce Rain.

Ridacchio. «Okay, grazie ragazze per avermi pensata».

«E tu, ci hai pensate o hai avuto tempo solo per Jane Austen o chiunque tu stia studiando?», domanda la mia migliore amica ilare. Sorridere e faccio per rispondere ma lei continua a parlare. «Pensavamo che è molto strano che non ci sia movimento nella casa, ma dal twitter di Jared sembra proprio sia in città. È possibile che ci sia sfuggito qualcosa?».

Penso che sì, ci è decisamente sfuggito qualcosa, qualcuno. Sospiro e so che la mia espressione si fa sofferente. «Devo dirvi una cosa». Entrambe alzano lo sguardo dalle loro bibite e mi guardano. «Shannon è passato qui davanti questa mattina».

«Cosa?!», esclamano all’unisono. Morta e sepolta dicevo.

«Ma io ero in bagno». Via il dente via il dolore.

«COSA?!», ripetono urlando. Mi volto verso Joe e lo vedo guardare verso di noi con fare divertito.

«Mi scappava la pipì» è tutto quello che riesco a dire. Mi guardano allibite e io mi sento di nuovo una bambina di quattro anni che viene sgridata dalla mamma. Di merda, in pratica. «Mi scappava tantissimo, sono andata in bagno e quando sono tornata il cancello si stava chiudendo e allora ho chiesto a Joe e lui mi ha detto che era arrivata una grossa moto e una grossa moto ce l’ha solo Shannon e poi siete arrivate voi e io non volevo dirvelo ma poi mi avete regalato il vestito e fatto tutto quel discorso e mi sono sentita in colpa e …» sono in assenza di ossigeno per aver detto un periodo di tale portare senza nessuna interruzione. Loro si limitano a continuare a guardarmi. La situazione è insostenibile. Ho bisogno di aria, di un salvagente, devo dire qualcosa che non sia “mi scappava la pipì”.

«I knew it, I knew it». Volto la testa verso destra dopo aver sentito una voce veramente vicina al mio orecchio e noto una signora molto bella sulla sessantina stare impettita vicino al nostro tavolo, un sorriso sulle labbra. Il mio salvagente, solo che ha i capelli bianchi e non galleggia.

«Scusi?», chiede Rain in inglese.

«Ammiro il vostro lavoro, era il mio sogno da piccola. In più sapete un’altra lingua e parlate con quella per non farvi scoprire! Italiano? Geniali, davvero!». Guardo le mie amiche. Non sto capendo. Non stanno capendo neanche loro.

«… cosa?», sussurro.

«Oh, lo so che non potete dire apertamente in giro che siete delle investigatrici private, è una specie di prima regola del Fight Club, lo so, ma io l’ho scoperto, non me lo avete detto voi, potete anche ammetterlo ora», ribatte lei, ammiccandoci.

Investigatrici private, noi? Strabuzzo gli occhi. «Mi dispiace deluderla ma…», comincio, ma vengo interrotta dalla voce di Rain. «Ci scusi, non volevamo essere maleducate, ma sa, è il protocollo, non possiamo proprio parlarne. Contiamo nella sua discrezione».

«Oh, ma certo, oh! Ma ditemi un po’, non è che potreste dirmi di che caso di tratta? Tradimento? Droga? Cosa?», domanda.

«Sa, non potremmo…», dice Rain.

«Tradimento», conclude per lei Frances.

«Decisamente tradimento», confermo.

Gli occhi dell’anziana si illuminano. «Quindi avete le prove! Che lavoro emozionante che fate, che ragazze fortunate!», esclama «ma oh, vi sto rubando tempo utile. Buona giornata ragazze, buon lavoro» e, detto questo, se ne va camminando fuori dal locale, accompagnata dal rumore dei tacchi sul pavimento. Ci scambiamo uno sguardo e poi scoppiamo a ridere.

«Da stalker a investigatrici privare in zero-due, mica male direi».

 

 

 

Punto uno: non pensavo fosse così difficile ambientare una storia in un paese linguisticamente diverso. Spero di essere chiara nei passaggi italiano/inglese eccetera, perché davvero non è semplice come sembra.
Punto due: lo so, sto sfiorando la demenza, perdonatemi.
Punto tre: grazie ai lettori silenziosi e alle ragazze che hanno recensito.
Solito bacino sul naso, Deb.

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Capitolo 6
*** Capitolo sei. ***


«Prima o poi dovranno uscire da quella casa. Ne sono sicura», dice Rain, le braccia incrociate al petto.

«Lo hai detto anche ieri. E il giorno prima», ribatto, sbadigliando e coprendomi la bocca con una mano. La noia da studio si sta impossessando di me. Questa mattina, quando ci siamo svegliate, abbiamo avuto la sensazione che oggi sarebbe stato un giorno fortunato, che sarebbe successo qualcosa, e quindi abbiamo deciso di abolire il sistema dei turni e di piazzarci tutte e tre fuori della casa. A quanto pare però il nostro sesto senso fa proprio schifo, perché non è accaduto niente. Nada, rien.

«Io propongo di tornare in motel», borbotta Frances. Annuisco, dandole corda. Sento che potrei addormentarmi in posizione eretta.

«E ci arrendiamo così?», domanda Rain.

«Non ci stiamo arrendendo, ci stiamo prendendo una meritata pausa da una missione impossibile», affermo. «Controlliamo Twitter per l’ultima volta, se continua a non esserci nessun segno di vita, ce ne andiamo, okay?»

Rain prende il telefono dalla borsa e io e Frances ce ne stiamo in religioso silenzio mentre lei fa scorrere gli occhi sullo schermo del Blackberry. «Niente».

Sospiro. «Maledetti».

«Andiamo a dormire», mi da spalla Frances.

 

Dormo malissimo. Il caldo umido di Los Angeles mi è ormai entrato sotto pelle, e quando tento invano di chiudere gli occhi e rilassarmi, sento le goccioline di sudore scendermi sulla schiena. Non faccio che rivoltarmi nel letto – divano, per la precisione, e pure duro come il cemento – e sbattere la testa sul cuscino. Impreco a bassa voce, dato che le altre, a contrario mio, dormono di gusto, e mi caccio sotto la doccia. L’acqua bollente mi scioglie i nervi e mi rilassa, come sempre. Mi asciugo i capelli e mi vesto, poi torno a sedermi su quel maledetto divano. Tamburello le dita sul bordo rigido, guardando le mie amiche abbracciate ai rispettivi cuscini. Sbuffo e prendo in mano il libro di Virginia Woolf che ho sul comodino, e ricomincio a leggerlo da dove mi sono fermata. Una decina di pagine dopo sento la gamba destra intorpidirsi, e mi accorgo di averla tenuta piegata sotto il peso del corpo per tutto il tempo. Mi maledico mentalmente e comincio a zampettare per la stanza, sperando passi in fretta. Quando sembro aver riacquistato le mie facoltà motorie, prendo il telefono dalla borsa e con esso mi lancio di peso sull'odiato divano. Twitter e Tumblr, miei unici salvatori.

È in quel momento, nel momento in cui un tweet dall’account dei Mars mi appare nella bacheca, che urlo. E non lo faccio in modo volontario, è un urlo che mi scappa dalla gola e che non riesco a controllare. «AAH».

Dei rumori gutturali provengono dal letto, e dopo poco riesco a vedere il busto e la testa di Frances alzarsi. «Perché non stai dormendo? Perché urli?»

«Sono vivi», dico.

«Ma chi?»

«Tomo, Shannon e Jared, hai presente? Loro, chi se no! Sono vivi, hanno scritto in twitter! Alzate quel culo!». I miei modo poco raffinati le fanno alzare e raggiungermi di corsa. Saranno poco raffinati, lo ammetto, ma sono efficienti e nessuno può negarlo.

«Che cosa dice?», ansima Rain.

«C’è allegato un link, sto cercando di aprirlo ma la connessione è terribile».

Dopo qualche secondo comincio ad innervosirmi, e il telefono deve percepirlo, perché il video parte. Ci sono tutti e tre, seduti sul divano del The Hive che ormai conosciamo. Jared ha in testa il suo amato cappello di paglia e sta mangiando dell'anguria, Shannon gli occhiali da sole addosso e Tomo la barba più lunga dell’ultima volta che si è visto in giro. Il mio cuoricino batte più forte e mi sento più felice anche solo a vederli.

Se solo se ne stessero zitti e muti. E invece parlano, e dicono una cosa che mi paralizza. Ci paralizza, perché non si sente un fiato neanche a video terminato.

«Ditemi che ho capito male l’inglese», annaspo.

«Ditemi che l’ho capito male anche io», aggiunge Rain.

«Non possiamo averlo capito male in tre», afferma Frances sedendosi sul letto.

«Quindi abbiamo capito tutte e tre che sono in ritiro mistico per incidere il nuovo album e che non usciranno più da quella casa per un tempo indefinito?», dico. Annuiscono. «Bene. Ma quanto sfigate siamo? Non è possibile. Deve esserci una congiura. Ci hanno fatto il malocchio. Sfiga sfiga sfiga per il resto della vita».

«Che vita di merda», esclama Rain.

«La speranza è l’ultima a morire un cazzo», borbotta fra sé Frances.

«Fanculo». Rimaniamo in silenzio per un tempo che sembra eterno, in simbolo del nostro lutto. Sono io a parlare per prima. «Un lato positivo c’è».

«Ovvero?», chiede Rain.

«Ovvero il nuovo album. The story goes on, girls».

Mi sorridono. «Hai ragione».

«Lo so. E so anche che c’è un altro lato positivo».

«E quale sarebbe?», chiede stavolta Frances.

«Possiamo ubriacarci come non abbiamo mai fatto perché tanto siamo depresse e tristi e abbiamo una giustificazione che ci autorizza a bere quanto vogliamo».

«In pratica vuoi annegare la sfiga nell’alcool», afferma Rain annuendo.

«Esattamente».

«Serata alcolica sia, allora», dice Frances prendendo dei vestiti dall’armadio e lanciandoceli.

 

«Possiamo andarcene? Mi manca l’aria qua dentro», dico alle mie amiche sporgendomi verso di loro e urlando per sovrastare il suono della musica che martella. Siamo finite in un locale pieno di gente, abbiamo bevuto, abbiamo ballato con sconosciuti e ci siamo divertite, ma adesso il posto comincia a starmi stretto ed ho bisogno di un po’ d’aria fresca per ritrovare un minimo di cervello. Cervello che ormai galleggia nella vodka, per intenderci. Rain e Frances sembrano essere d’accordo con me, perché mi annuiscono, e dopo poco siamo fuori dalla discoteca, immerse nell’aria umida di Los Angeles.

«Grazie al cielo, si moriva di caldo lì dentro», esclama Rain.

«Già. Dove andiamo adesso? Non voglio tornare a casa, non ho finito di divertirmi stasera, sono ancora troppo sobria e troppo depressa», dice Frances, anche se non mi sembra sia molto stabile sui tacchi.

Nemmeno io, comunque, voglio finire la mia serata così. Non ho mai creduto fosse giusto bere fino a star male, da persone responsabile e ancorata alla terra come sono, raramente mi lascio andare, ma quelle poche volte che lo faccio, pretendo di farlo bene. E non è che io non abbia avuto dispiacere più grandi di non esser riuscita a parlare con i miei musicisti preferiti, sia chiaro, non ho mai avuto una vita semplice; solo ho diciannove anni e qualche volta ho il diritto di fare errori, di ingigantire le cose, di prendere il contatto con la terra e con il mondo, ma, soprattutto con me. Staccare la spina per un po’, dalle delusioni, dai problemi mascherati da altri problemi più futili, dalle responsabilità. È mentre penso tutte queste cose – prova che sono ancora lucida – che vedo dall’altra parte della strada un negozio di alcolici. «Guardate lì», indico il piccolo negozio con il dito. «Soluzione trovata».

«Bisogna avere 21 anni per comprare alcolici in questo stupido paese», sbuffa Rain.

Mi guardo intorno alla ricerca di una soluzione e la trovo vicino alla porta del locale: un ragazzo che fuma una sigaretta. È giovane, ma di sicuro non giovane quanto noi. Il fatto che un po’ blilla lo sono mi da lo slancio per mettere in moto i piedi e avvicinarmi a lui. «Ciao, scusa, posso chiederti un favore?» Annuisce, continuando a fumarsi la sua sigaretta. «Io e le mie amiche siamo italiane. Li gli alcolici si possono comprare nei supermercati dai diciotto anni in su, ma qui abbiamo scoperto che non possiamo. Non è che se ti diamo i soldi puoi entrare in quel negozio a comprarci qualcosa?». Faccio gli occhi dolci e un sorriso, sperando di convincerlo.

Mi guarda criptico e poi sorride, schiacciando il mozzicone sotto il piede. «Solo se posso bere con voi dopo».

Ci penso su un secondo: è carino, sembra gentile, perché no? «Sì, certo, no problem». Mi porge una mano su cui deposita i soldi e da dove sono lo seguo con lo sguardo fino a che non entra nel negozio. A quel punto torno dalle mie amiche con un sorriso vittorioso in faccia. «Ecco fatto».

«Fatto cosa?», domanda Rain.

«Ci prende lui gli alcolici».

«Chi è?», continua.

«Ma chissene frega», esclama Frances. «Ci prende gli alcolici!»

«Ci prende gli alcolici!», ribadisco.

«Ci prende gli alcolici!», esulta lei. Ridiamo, e in quel momento il ragazzo ci raggiunge con in mano quattro bottiglie di non so cosa. Mi passa il resto che metto in borsa e poi, con davvero poco eleganza da parte di tutte e tre, cominciamo a tracannare dalle bottiglie come se non ci fosse un altro giorno per farlo.

 

Ci ritroviamo in spiaggia. Non so quale spiaggia, l’anatomia di questa città, dopo una settimana, non mi è ancora molto chiara. In più non mi è chiara nemmeno la vista. E non mi è nemmeno chiaro per quale motivo sto, stiamo, ridendo da più di un paio di minuti. Siamo legate una all’altra tenendoci a braccetto, e il ragazzo che ci ha preso da bere è dietro di noi. Ci segue, bevendo dalla sua bottiglia, e sorride quando una di noi gli parla, e ci aiuta a rialzarci quando una di noi perde l’equilibro e cade rovinosamente a terra. Insomma, sembra un tipo simpatico.

Volto la testa verso di lui. «Hei, tu!». Attacco di risa. «Mh, come hai detto che ti chiami?»

«Non l’ho detto. Paul, comunque».

«Ancora grazie per queste, Paul», dice Rain alzando la sua bottiglia, per poi portarla alla bocca e finirne il contenuto. «Uffi. È già finita. Ma che ore sono?»

«Sono le cinque di mattina», dice lui, guardando l’orologio.

«Uh, ma allora è ancora presto».

Continuiamo a camminare sulla sabbia, tenendo le scarpe in mano per evitare di cadere più di quello che non facciamo giù. Sotto i piedi, la sabbia è vellutata e fresca, ed è una sensazione bellissima. La luna è alta in cielo, e, anche se non è piena, irradia molta luce. In questo momento sento che potrei saltare e toccare il cielo. Come quando sono ad un concerto e sento la sua voce dire «Jump, jump, jump», e sono sfinita, senza energie, sudata, ma sono felice. Mi sento viva. E anche ora provo la stessa sensazione: sono con le amiche più care che ho, in un posto a cui sento di appartenere, con della sabbia sotto i piedi che mi accarezza e lo schifo del mondo che, al contrario, non mi sfiora nemmeno.

«Facciamo il bagno nudo», se ne esce Frances mentre io sproloquio con la mia mente.

La sua affermazione, infatti, mi desta dai miei pensieri. «Cosa?»

«Il bagno nudo, nei film americani lo fanno sempre. E con nudo intendo in mutande e reggiseno perché abbiamo Paul qua con noi», dice ammiccando verso il ragazzo. «Vieni anche tu?»

Lo vediamo scuotere la testa e alzare la bottiglia. «Io vi aspetto qui».

«Okay». Ci spogliamo e entriamo nell’acqua, che, ad essere sincera, non è nemmeno fredda come pensavo. «Guardate la luna quanto è bella. Quanto è bella Los Angeles? Davvero, ora li capisco quei tre».

«Questa città è casa», concorda Rain.

«Dobbiamo assolutamente riuscire a vedere l’alba questa notte», dico.

Cominciamo a cantare, come abbiamo già fatto qualche giorno fa, e tutto sembra perfetto. Non importa più se non siamo riusciti ad incontrare le persone che ci hanno salvato con la loro musica, non importa più se ci mancano i nostri amici a casa e le nostre famiglie, non importa più niente se non che siamo a Los Angeles, sotto a una luna meravigliosa, bagnate fradice e ubriache di alcol e di vita come non mai.

Quando notiamo che l’alba sta per sorgere decidiamo di uscire dall’acqua. Nel lasso di tempo in cui cantavamo, e ridevamo e tutto il resto, non ci eravamo accorte di un fatto, però: Paul. Paul non aveva fiatato, non era entrato in acqua con noi, non aveva cantato. Niente di niente. E il punto era che Paul non c’era proprio più su quella spiaggia.

«Dov’è andato?», chiedo, le braccia strette attorno al busto. Comincio a sentire freddo.

Rain alza le spalle. «Non è che mi interessi, non era il mio tipo». A me, invece, un po’ dispiaceva. Era stato gentile con noi.

«Ragazze», dice Frances alle mie spalle, così mi volte. «Non ci sono più i nostri vestiti. E le borse».

«Ma no dai, le avremmo messe da qualche altra parte», affermo, cominciando a guardarmi attorno. Ma non vedo nulla se non sabbia. «Cazzo. Dite che sia stato P…»

«Paul! Ovvio! Ci ha rubato tutto!», esclama Rain.

«Oddio», dice Frances, sedendosi. «Per fortuna non abbiamo portato con noi molti soldi»

«E i documenti li abbiamo lasciati a casa», aggiungo.

«Il mio Blackberry è andato», dice fra sé Rain, un tono tristissimo.

Mi avvicino a lei e la abbraccio goffamente. «Andremo dalla polizia, magari li ritrovano. Magari è un ladro conosciutissimo e aiuteremo a catturarlo».

«Non siamo in un fottuto episodio di CSI e venderà il mio telefono su Ebay!», sbotta lei.

Mi prendo la testa fra le mani e me ne sto in silenzio. Sento anche io la rabbia montarmi dentro, e non so se sia colpa dell’alcol o cosa, ma mi alzo in piedi e comincio a calciare la sabbia e ad imprecare a voce alta. Scoppio d’ira forse è il termine esatto. O rabbia repressa. O pazzia che comincia a dilagare. So solo che devo sembrare in preda a una crisi epilettica.

Ne ho la conferma quando sento una voce alle nostre spalle. «Tutto bene?». È una voce maschile. Quando la sabbia che ho alzato ritorna al suo posto spinta a terra dalla forza di gravità, posso infatti distinguere nel buio una figura: è un ragazzo, di cui ovviamente non riesco a capire l’età poiché il viso rimane in ombra, non troppo alto, ma ben piazzato; la cosa che mi salta subito all’occhio, comunque, sono le spalle muscolose e forti. Ora, se c’è una cosa che tutti quelli che mi conoscono sanno è che anche io un fetish. E non per i piedi o per il sadomaso o per la pizza pomodorini e brie (quest’ultima è più un’ossessione) ma quella per le schiene e spalle ad esse annesse. Se non hai una bella schiena per me non sei nessuno. E io posso vederlo, anche se in realtà non vedo proprio niente per il buio, per l’alcol e per la lente a contatto che è andata a farsi benedire, che lui ha una schiena perfetta.

«No», e la voce mi esce stridula. «Ci hanno derubate».

Lo vedo piegare la testa di lato, ma non muove nessun altro muscolo del corpo e non fa cenno di avvicinarsi. «Dei vestiti?»

Posso dirlo vero che mi ero dimenticata di essere in piedi davanti a un ragazzo dalle spalle perfette praticamente nuda? D’istinto mi stringo le braccia al petto. «Sì, anche. Vestiti, soldi, telefoni. Si è preso tutto».

«He tooks everything. Era un ragazzo?»

«Sì, sappiamo che si chiama Paul, niente di più».

«E sì è preso i vostri vestiti».

«Sì».

«Cosa se ne fa dei vostri vestiti, questo Paul?»

Comincio a spazientirmi. «Cosa cazzo ne so io di quello che ci vuole fare del mio vestito! So solo che in mutande a casa non ci posso tornare, cioè in motel… insomma, non posso girare in mutande per la città, ecco».

«Ah no?», ridacchia lui.

«Senti, se vuoi aiutarci bene, altrimenti puoi anche andartene a fanculo», sbotto.

C’è un momento di silenzio tombale in cui ho modo di smaltire la rabbia e poi il ragazzo comincia ad avvicinarsi. Cammina lento verso di noi, e per qualche ragione, forse, di nuovo, solo perché ha delle spalle fottutamente perfette e una voce che si può definire solo con la parola sensuale, un brivido mi scorre lungo il corpo. Come se dovessi aver capito qualcosa che in realtà non ho capito. Mi volto verso le mie amiche che stanno guardando lo sconosciuto avvicinarsi e noto che anche loro sono rigide, i corpi in attesa. Capisco che anche loro si sentono come me.

E poi mi rendo conto del perché. Il ragazzo ormai è davanti noi, e sebbene sia senza lenti a contatto, sebbene abbia la mente offuscata dall’alcol e dalla rabbia verso Paul, lo riconosco. Le gambe tremano un pochino quando il mio cervello fa due più due: voce sexy, spalle perfette, basso ma ben piazzato, occhiali da sole anche di notte. Quello che abbiamo davanti è Shannon Leto. E io gli ho appena detto di andarsene a fanculo.

 

 

E quindi sì, la sfiga nell’alcool non sono riuscite ad annegarla, come potete vedere, ma hanno Shannon e le sue perfette spalle davanti. Riusciranno a combinare qualcosa? Vedremo. 
Spero che come sempre il capitolo vi sia piaciuto (sì, è un invito a farmi sapere cosa ne pensate) e mi scuso per il ritardo, ma non esco di casa da giorni a causa della scuola – maledetta – e sarò piena di compiti anche tutta la prossima settimana. Per fortuna poi ci sono i Mars a Milano, che mi rigenereranno. Qualcuno di voi sarà al concerto? Intanto vi lascio un muffin a tutti e un bacio sul naso. Deb.

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Capitolo 7
*** Capitolo sette. ***


Deglutisco. Il cervello gira lentamente. Perché, di preciso, ho appena mandato a fanculo Shannon Leto? Una vocina dentro di me, che immagino sia la mia coscienza, mi suggerisce la risposta è “perché ha fatto ironia, e tu odi quando qualcuno fa ironia su di te”. Giusto.

«Io voglio aiutarvi», dice lui, quando si ritrova proprio davanti a me. Lo so che questo è il mio sogno, ma me l’ero immaginato un tantino diverso, il nostro primo incontro. Qualcosa come il tramonto sullo sfondo e lui che mi sorride mentre gli dico che mi ha salvato la vita eccetera. E invece no, ovviamente non sta andando così. Ma posso ancora riscattarmi.

«Davvero?», balbetto, non riuscendo ad incanalare abbastanza aria. Al diavolo ogni possibilità di riscatto, ho Shannon-scopami-qui-e-ora-Leto davanti, non posso pretendere troppo da me stessa.

Mi sorride. «No, in realtà. Bye». Mi gira le spalle e comincia a camminare nella direzione opposta a noi.

Mi volto verso le mie amiche, gli occhi sbarrati, annaspando aria che comunque non mi arriva al cervello. «Cosa… cosa devo…»

«Seguiamolo», dice Rain.

«Cosa?! L’ho mandato a fanculo!», esclamo iperventilando.

«Chissene frega», ribatte lei. «Hei, aspetta!». Rain si mette a correre – per quanto la sabbia gliela permetta – dietro a Shannon, che quando sente la sua voce si volta. «Scusa», dice raggiungendolo. «Ubriacatura rabbiosa. Io sono l’amica simpatica e pacifica».

«Sì?»

«Sì. Puoi portarci dei vestiti, per favore?».

Guardo Shannon e gli sorrido timidamente a mo’ di scuse e anche se non posso vedergli gli occhi a causa degli occhiali scuri, posso giurare di vedere alzarsi gli angoli della bocca. Apparentemente mi ha perdonata, quindi mi azzardo a parlare. «Per favore Shannon». E circa un millesimo di secondo dopo mi accorgo che ho fatto una cazzata colossale. Ora lo vedo il suo cervellino stanco mettersi in moto e chiedersi come diavolo io, perfetta sconosciuta che l’ha appena insultato, faccia a conoscere il suo nome. La risposta è semplicissima: lo so perché ho sogni erotici sulle sue spalle da quanto ho quindici anni, e perché mi addormento con la sua musica ogni sera, per poi risvegliarmi ore dopo sempre in sua compagnia. Ma lui non lo sa. Non specifico il fatto che sono di nuovo entrata in panico, che di nuovo sto iperventilando e che di nuovo mi sto insultando mentalmente. Io lo so che mi ritroverò a trent’anni con i capelli bianchi, altro che fucsia.

Si toglie gli occhiali puntando gli occhi su di me, e poi anche sulle altre, e io muoio un pochino dentro. Non so come ma mi contengo, anche se ormai  una dignità non ce l’ho più e l’unica cosa che potrebbe salvarmi sarebbe l’apocalisse. «Echelon?», chiede. Annuisco, e vedo le mie amiche fare lo stesso. «Mh. A questo punto sono costretto a trovarvi dei vestiti, aspettatemi qui», dice, e si incammina per poi sparire dietro a una collinetta.

«Porca puttana. Tagliatemi la lingua la prossima volta, vi prego», esclamo, buttandomi a terra e sbattendo il sedere. Loro si siedono accanto a me e sento Rain sospirare. Mi volto verso di lei e la vedo con un grosso sorriso sul viso. «Cosa?»

«Shannon Leto, ho parlato con Shannon Leto», dice in tono sognante. Non posso biasimarla, anche io sto per vomitare arcobaleni e tutto il resto, ma mi sto anche punendo per la figuraccia che ho appena fatto. Non era colpa mia, comunque, se non l’avevo riconosciuto e se lui si era comportato da strafottente.

Noto che Frances se ne sta muta affianco a me. «Va tutto bene?». Annuisce. «Sicura? A cosa pensi?»

«Penso che non sono riuscita a dire una parola e che mi viene da piangere».

«Tu, piangere?», dico incredula, per poi rendermi conto che forse è una frase da insensibile. Perché questo maledetto alcol non se ne va e mi fa tornare la solita Deborah che tace sempre? «Cioè, intendevo che tu non piangi spesso e… e sì, insomma, perché ti viene da piangere?».

Mi guarda e ha davvero gli occhi lucidi. Mi fa tenerezza. «Vorrei abbracciarlo».

«Quando torna con i vestiti chiediglielo, tu infine sei stata zitta e muta, non ti crede ancora decelebrata».

«Non so se ci riesco».

«Glielo chiedo io se vuoi, tanto non riesco a stare zitta». Astio verso me stessa è tutto quello che provo, al momento.

Scuote la testa. «Poi glielo chiedo».

«Brava». Le do una leggera botta sulla schiena e lei scoppia a ridere, i suoi ricordi eco dei miei. In quarta superiore, infatti, il nostro adorato professore di storia, ci aveva mostrato un film antiquato sulla Rivoluzione Francese, in cui, ad un certo punto, uno dei protagonisti principali esclamava pomposamente “buonanotte figlio mio” al neonato che teneva in braccio sua moglie, completando l’epica buonanotte con un pat-pat sulla schiena del piccolo. Da quel momento per me e Frances le pacche sulla spalla sono diventate oggetto di risate copiose.

«Cosa c’è di così divertente?». Il mio corpo comincia a tremare di nuovo, perché a parlare è stato Shannon.

«Ricordi del liceo», dice Frances, senza nessun segno di esitazione nella voce. È tornata sicura di sé, la fredda e diplomatica futura chirurga che conosco da anni.

«Ecco», dice Shannon passandoci dei vestiti. Ne prendo uno a caso di colore nero, e solo dopo averlo dispiegato mi accorgo che sì e no mi arriverà a metà coscia. Non oso commentare, ma so che ha notato la mia espressione perché gli si apre un sorriso in volto. “Bastardo” è tutto ciò che riesco a pensare.

Si volta per lasciarci vestire, e anche se il suo gesto non ha nessun senso, avendoci viste mezze nude fino a quel momento, apprezzo la galanteria. Mi infilo il microabito e i miei sospetti sono fondati: è davvero, davvero micro. In più la schiena è completamente scoperta. Posso notare con una nota di sollievo che anche i vestiti di Frances e Rain sono simili per indecenza al mio, ma un sbuffo mi esce involontariamente dalle labbra.

«Qualcosa non va?», dice Shannon voltandosi verso di noi.

«No», pigolo. Non ho nessuna intenzione di irritare lui – e me – di nuovo con affermazioni sbagliate. «Dove li hai, emh, trovati?»

Rimane un po’ a squadrarci (i peli mi si rizzano sulle braccia quando il suo sguardo si posa su di me e lascio immagine la fine che fanno le mie povere ovaie) e poi sorride. «Sembrava che quelle ragazze non ne avessero particolare bisogno». Mi strozzo con la saliva. Ho capito giusto? Credo di aver capito giusto. «Ma ditemi, non siete americane, giusto?»

Vorrei ribattere che neanche lui lo sembra, dato che non si capisce un’acca di quel che dice ma mi trattengo mordendomi la lingua. È Frances a prendere la parola questa volta. «Italiane»

«E cosa ci fate qui a Los Angeles?»

«Stiamo cercando il nostro sogno».

«Pensate lo troverete proprio in questa città?»

«Penso, in realtà, che l’abbiamo trovato questa sera, ma non voglio sbilanciarmi troppo», dice lei. Sorrido e mi viene da abbracciarla, ma non lo faccio, per non interrompere la conversazione.

«E quale sarebbe, posso saperlo?». Shannon sembra affascinato. Infine anche lui ha trovato la sua strada venendo in questa magnifica città.

«Non ancora».

Ci guarda tutte e tre di sottecchi. «Quanti anni avete?»

«Amh…», Frances tentenna un po’. Capisco il suo disagio: dire o non dire al tuo idolo quarantenne che tu nei hai solo diciannove e potresti essere sua figlia ma questo non ti impedisce di pensare cose di qualsiasi tipo su di lui? «Dicciannove», dice poi tutto d’un fiato.

«Ah ma quindi siete qui con i vostri genitori!», esclama lui.

Lo guardiamo sbalordite. «No», rispondo. «Certo che no! Abbiamo diciannove anni, mica due». Mi ha appena ferito nell’orgoglio.

«Non potete nemmeno comprarvi una birra».

«Infatti lo facciamo fare agli altri. Si da il caso che lo stesso Paul che ci ha rubato tutto ci avessi comprato da bere», affermo amareggiata. Spero che Zeus lo colpisca e lo riduca in cenere.

«Uh, delle ribelli…». Ci fa il verso e io sto quasi per rispondergli che lo facevo un pelo più maturo per la sua età, ma lui ricomincia a parlare. «Italiane a Los Angeles in cerca del proprio sogno, per di più Echelon, che quindi presubilmente conoscono anche l’indirizzo di casa mia oltre che alla marca di occhiali da sole che preferisco, che hanno l’immensa fortuna di incontrarmi ma l’ancora più grande sfortuna di aver perso il telefono e quindi di non potersi farsi una foto con me. Che cosa devo fare con voi?»

«Portaci alla festa con te», dice Rain secca.

«Come fai a sapere che ero a una festa?».

«Si sente della musica in lontananza. Ti stavi facendo un giretto perché hai bevuto e l’aria lì dentro era viziata e ti era venuto mal di testa. In più hai preso questi vestiti a tre ragazze che, come hai detto tu, sono impegnate a fare altro, qualcosa che non necessita di vestiti. Eri ad una festa».

Shannon sorride. «Siete anche sveglie. Venite con me, magari cambiate sogno questa sera», dice in tono malizioso. O sono io che lo percepisco in tono malizioso? Non so dirlo. So però che non ce lo facciamo ripetere due volte: lo seguiamo, i piedi nudi sulla sabbia morbida, i vestiti che ci salgono sulle cosce.

 

 

Amh, lo so che ho detto che avrei pubblicato settimana prossima, ma è uscito il video di City Of Angels (e la versione acustica della canzone per Dallas Buyers Club) e sono stata ispirata. E quindi sì, nuovo capitolo. Bacio sul naso. Deb.

PS: spero ti porti fortuna in fisica, F.

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Capitolo 8
*** Capitolo otto. ***


«The people that aren’t dreamers, the people that don’t try to walk the lesser beaten path, they don’t understand. But I do and I know what are you going through. And sometimes you just have to keep marching forward, even when you doubt. Even when you think it’s impossible, you keep doing the work, you keep showing up, you keep focusing, you keep doing and fighting for what you believe in. And that’s the most important thing. Stick around»

                                                                                                   Jared Leto.

 

 
Qualcosa di appuntito mi sta massacrando un fianco. Mi esce un lamento dalle labbra quando ancora ho gli occhi chiusi. Non ho nessuna voglia di svegliarmi, sento già il mal di testa che mi torturerà per le prossime ore. Ma anche quella maledetta cosa che mi schiaccia il fianco mi sta distruggendo. L’immagine che mi si para davanti alle palpebre scure è quella di Don Rodrigo tormentato nel sogno da un bubbone della peste. Sbuffo e sbarro gli occhi, poi mi volto verso destra per scoprire e uccidere la fonte del mio prematuro risveglio e noto che è il gomito di Frances. Impreco a bassa voce e mi sposto di qualche centimetro. Mi guardo in giro, anche se c’è troppa luce per i miei gusti, e noto solo un gran casino. Ci sono vestiti sparsi sul pavimento, tavoli pieni di cibo intatto, macchie di strani liquidi scuri sui tappeti e, particolare da non trascurare, persone che non ho mai visto in vita mia. Ad essere sincera solo in quel momento mi rendo conto che non ho la più pallida idea di dove sono, e mi alzo di scatto. Non dovevo farlo, ovviamente: le cervella mi sbattono sulla corteccia celebrale e mi sento tramortita, come se mi avessero tirato un pugno sul naso. Perfetto. Si prospetta una giornata splendida.

Mi strofino gli occhi con il dorso della mano e cerco di mettere in moto il cervello. Della caffeina mi sarebbe d’aiuto e anche un bagno, dato che sento la vescica che protesta, ma decido che se starò ferma e immobile riuscirò a resistere un altro po’. Molto lentamente comincio a ricomporre i pezzi della notte precedente: siamo state in una discoteca che abbiamo lasciato dopo nemmeno due ore a causa del caldo, e a quel punto eravamo già brille, ma non abbastanza, così ho intelligentemente chiesto a un ragazzo di comprarci dell’alcol e lui l’ha fatto, da brava persona; poi ci siamo spostate spiaggia, e c’era una luna bellissima. Qui comincia a diventare tutto offuscato, e qualcosa mi dice che sia a causa della bottiglia di vodka che mi sono fatta fuori.

«Shit», qualcuno impreca a bassa voce scavalcando i corpi che gli impediscono di andarsene. È una ragazza bionda, in reggiseno e pantaloncini di jeans. Quando si accorge che la guardo mi fa una smorfia che credo sia un tentativo di sorriso mattutino. «Sai dov’è la mia maglia?», mi chiede con un marcato accento americano che fatico a comprendere. Scuoto la testa. Non so neanche sicura di sapere come mi chiamo, al momento, figuriamoci se so dov’è finita la sua t-shirt in mezzo a tutta la confusione. «Well, nevermind. Bye», dice, e esce da una porta finestre dietro al divano su cui io sono distesa insieme a Rain e Frances, ancora perfettamente addormentate.

Luna bellissima. E poi? E poi quel Paul ci ha rubato i vestiti, e noi siamo rimaste fradice a camminare avanti e indietro sulla sabbia senza un telefono e un soldo. E poi? E poi… oh.

«Che cosa stai facendo?», borbotta Rain, gli occhi semichiusi.

«Ti sto svegliando. Abbiamo davvero incontrato Shannon questa notte o io mi sono fatta un sogno molto vivido?», chiedo, improvvisamente sveglissima.

«Ma che ore sono?»

«Non lo so».

«Dove siamo?»

«Non lo so. Puoi rispondere alla mia domanda, per favore?»

«Non lo so».

«Mi stai prendendo in giro?»

Ridacchia e si stropiccia gli occhi. «Com’è che mi chiamo? Ho un mal di testa terribile»

«Anche io, ma il tuo nome, a contrario di questa notte, me lo ricordo ancora. Rain».

«Giusto». Si mette a sedere. «Deborah».

«Sì, è ancora il mio nome», dico alzando gli occhi al cielo.

Sbuffa. «So che ti chiami Deborah, il mio era un “Deborah abbiamo incontrato Shannon Leto”»

Mi illumino. «Ah, è successo davvero, allora!». Guardo i corpi apparentemente senza vita sparsi per il pavimento ma del batterista non c’è traccia. «Tu lo vedi?»

Scuote la testa. «Se ne sarà andato».

«What the fuck are you two saying? What fucking language is that, latin or something?», esclama una voce maschile proveniente dal pavimento. Io e Rain rimaniamo mute, cercando di individuare la fonte parlante. Un ragazzo pallido si è alzato su un gomito e ci guarda con un’espressione addormentata e corrucciata. Noi continuiamo a non rispondere. «I don’t care, actually. Just shut the fuck up, I’m trying to sleep».

Guardo Rain e mi scappa una risatina. «Svegliamo Frances e andiamocene», sussurro.

Annuisce e poi da uno schiaffo leggero in faccia all’altra che, di colpo, si mette a sedere. «What?». Si guarda intorno e incontra le nostre facce divertite. «Cosa? Cosa succede?». Vorrei scoppiare a ridere, ma l’unica cosa che faccio è dirle di alzarsi e trascinarla fuori dalla stanza attraverso la stessa porta finestra da cui ho visto uscire la bionda spilungona, dato che non si regge in piedi. «Ma dove siamo?», chiede confusa.

Ci risiamo. «Bella domanda. Ti ricordo, in caso l’epidemia dei buchi neri della memoria avesse contagiato anche te, che siamo state derubate e non abbiamo nessuno dei nostri super tecnologici telefoni»

«Shannon», esala lei. «Abbiamo conosciuto Shannon!»

Annuisco. «Che è sparito, comunque». Sono irritata? Decisamente. Non è suo dovere aiutare delle povere echelon sperdute? La solita vocina mi dice che questa notte l’ha già fatto, più di una volta. Al più di una volta blocco i pensieri. Più di una volta? Frugo tra i ricordi annebbiati: Shannon che ci porta i vestiti, aiuto numero uno; Shannon che stacca Rain da un tizio che non ha buone intenzioni, aiuto due; Shannon che mi allunga una mano quando mentre ballando sono rovinosamente caduta a terra, aiuto tre.

«Sono caduta davanti a Shannon», sussurro più a me che altro, senza nessuna intenzione di essere sentita.

«Oh sì. Come sta il sedere?». Sussulto e mi giro verso la voce che ho appena sentito e che, ahimè, conosco. Shannon, i capelli spettinati e gli occhi gonfi, è proprio davanti a me. «Buongiorno», dice. Le mie guance si colorano di rosso. Datemi una badilata in testa e fatemi morire.

«Shannon Leto senza occhiali? Ma che cosa sta succedendo?», esclama Frances in italiano. Io e Rain scoppiamo a ridere davanti allo sguardo confuso di Shannon che ovviamente non ha capito.

«What?», domanda lui, un sorrisino sulle labbra.

«Nothing», risponde Rain. «Dormito bene?»

«Mh». Mh è la sua risposta. Che cosa diamine significa quel verso? Sorride. «Voi, dormito bene?»

Mi tornano in mente Don Rodrigo e il gomito di Frances e storgo il naso. «Da Dio», dico un tono ironico.

«Shannon, dove siamo?», chiede Frances che sembra essersi svegliata dal lungo letargo in cui era caduta.

«A casa di Antoine. Vi ricordate qualcosa della notte scorsa o avete annegato tutto nell’alcool?»

Una lampadina mi si illumina: il vero motivo di tutto il disastro in cui si era tramutata quella notte era il desiderio di annegare la sfiga collegata a non essere riuscite a incontrare i Mars, a causa del loro ritiro in cerca di ispirazione. «Ma tu non dovresti essere in ritiro spiritico o qualcosa del genere?», me ne esco io.

Lui mi guarda con un’espressione indecifrabile. «Ma tu qualche volta te ne stai un po’ zitta?»

Arrossisco. «Io…».

Fa un cenno con la mano. «Lascia perdere. Trovo la mia ispirazione nella gente, nel ritmo dei corpi che ballano tutti insieme, nei piedi che disordinatamente si pestano l’uno con l’altro, negli occhi che si cercano da un capo all’altro della stanza, nei bicchieri vuoti che cadono sul tappeto sordi. Ero alla ricerca di ispirazione ieri sera, ma poi mi siete capitate voi fra capo e collo e mi è toccato farvi da balia»

«Potevamo cavarcela da sole», dice Rain.

«Senza vestiti?», ribatte lui con un sorrisino.

Mi mordo il labbro. «Okay, hai vinto».

«Già», dice lui, pescando gli occhiali dal taschino della giacca.

«Già, ma visto che ti sei autoproclamato nostra balia è tuo dovere aiutarci», continuo. Tanto mi odia già, un tentativo vale la pena farlo.

«Cos’è che devo fare io?», dice bloccando il braccio a metà strada fra la tasca e il viso.

«Portarci a comprare dei telefoni nuovi. Per favore». Un po’ di gentilezza non guasta mai, in questi casi.

«Non se ne parla».

«Ti prego», dice Frances. Ha un’aria terribile, e Frances non ha mai un’aria terribile. Lei è quella perfetta. Mi chiedo quando di preciso abbia bevuto la notte scorsa, ma non so darmi una risposta. Purtroppo è molto probabile avessi in mano una tequila quando invece avrei dovuto fermare lei.

«Pensa se non chiamassi Constance per tre giorni. Impazzirebbe», rincara Rain. «Ci servono dei telefoni».

Shannon ci guarda tutte, rimanendo in silenzio per secondi che sembrano minuti e poi sbuffa. «Poi sparite dalla mia vita».

«Ti facevo più simpatico», mi lascio scappare ad alta voce, per fortuna in italiano. Mi becco un’occhiataccia dalle mia amiche. «Grazie», aggiungo in inglese, con un sorriso.

«Vi porto in motel». Detto questo ci da le spalle e si incammina.

«Da quanto parli così tanto?», mi chiede Frances.

Mi stringo nelle spalle. «Effetto Shannon Leto?»

«Effetto Vodka», ribatte Rain.

 

«”Ti facevo più simpatico”, ma come ti è uscita? Shannon è adorabile», dice Frances, gli occhi che le sbrilluccicano.

«Lo so che è adorabile. Ero sotto lo strascico dell’effetto della vodka e del sonno. Potete perdonarmi?», affermo esasperata. Shannon, come aveva promesso, era passato qualche ora più tardi a prenderci e ci aveva portato in un negozio di elettronica il cui proprietario era un suo caro amico che ci aveva fatto uno sconto esorbitante sull’acquisto dei nostri tre nuovi Iphone. Era stato difficile convincere Rain ad abbandonare il caro e vecchio Berry, ma poi ce l’avevo fatta.

«Per fortuna hai parlato in italiano», dice Rain.

Mi mordo il labbro. «Gli sto antipatica, vero? Sto antipatica al mio batterista preferito».

«Forse non siete compatibili», risponde Rain stringendosi nelle spalle.

Guardo Shannon camminare qualche passo davanti a me e divento un po’ triste. Forse non siamo compatibili, forse lui non mi sopporta, forse io me lo immaginavo diverso, ma non posso essergli grata per tutto quello che sta facendo per me, ancora una volta, come se con la sua musica non avesse già fatto abbastanza.

Accelero il passo e, quando gli sono accanto, lui si volta verso di me e alza un sopracciglio. «What?»

«Grazie».

«Per cosa?»

«Non lo so, di tutto. Per i vestiti questa notte, per i telefoni, per averci fatto da balia. Per tutto quanto. E lo so che non mi sopporti, ma un grazie rimane un grazie sincero anche quando a pronunciarlo è una persona che non ti piace», dico, torturandomi le mani, nervosa, e evitando per tutto il tempo il suo sguardo.

«Oh», lo sento dire, e quando mi volto a guardarlo si sta grattando la fronte. Si accorge che lo fisso e mi sorride. «Non è che non mi piaci, è che…».

«Non siamo compatibili», concludo io, più a me stessa che altro.

«Più o meno», sorride. Si avvicina e mi tocca la spalla con la sua. «Hai carattere, mi piaci».

Non mi vedo, ma so che il mio sorriso si  apre fino ad un rischio paralisi. «Anche tu mi piaci Shannon». Lui alza gli occhi al cielo e io mi sento una stupida e arrossisco all’istante, ma poi lo vedo ridacchiare e io ritorno dentro la mia bolla di felicità. Rimango al suo fianco fino a  quando svolta improvvisamente a destra entrando in un grande negozio di vestiti. «Devo prendermi un paio di jeans», dice avviandosi verso il bancone del negozio e cominciando a parlare con una giovane commessa che, immagino quando nota quanto sia bello l’uomo che ha davanti, comincia a parlare con un tono stridulo poco sopportabile. Alzo gli occhi al cielo: donne.

Giro per gli scaffali del negozio, mettendo gli occhi su diversi capi che in ogni caso non posso permettermi: non so che negozio sia questo, ma di sicuro non per delle diciannovenni squattrinate come me.

«Guardate questo vestito, è splendido», dice Frances, posandosi addosso un lungo abito rosso.

«Provalo», dice Shannon, spuntato affianco a me e Rain.

Frances rimane interdetta per un secondo e poi dice «Okay», avviandosi verso i camerini. Rimaniamo in silenzio religioso ad aspettare che scosti le tende e ci faccia vedere quanto perfetta sia in quel vestito. Quando finalmente lo fa, ci accorgiamo che l’abito le sta davvero da Dio. Se ne accorge sicuramente anche Shannon che, improvvisamente, raddrizza la schiena, come se gli avessero messo una scopa sul deretano.

«Le sta molto bene, non crede anche lei?», chiede la commessa, un sorriso in volto, rivolgendosi a Shannon. «Ma d'altronde è molto bella, proprio come il padre».

Silenzio di tomba.

E poi lo sento, lo sento salire, fino a che il primo singhiozzo mi esce dalle labbra contro la mia  volontà e non riesco più a trattenermi: scoppio a ridere. Rido così tanto che in pochi secondi sento affiorare le lacrime agli occhi e devo cominciare a camminare avanti e indietro per cercare di smettere. Anche le mie amiche ridono come me. La commessa, ha appena scambiato Shannon per il padre di Frances, questo l’abbiamo capito tutte a quanto pare. Shannon anche l’ha capito bene, ma, a contrario nostro, non ride, ma anzi si è fatto scuro in volto. «Io, suo padre? Sta scherzando, vero?»

«Beh, veramente no…», risponde lui, confusa. «Ma se mi sono sbagliata mi scuso, ovviamente».

«Sì, si è sbagliata», dice stizzito lui.

«Daddy, ci porti al Luna park questa sera?», domanda Rain tra un singhiozzo o l’altro. Shannon la guarda gelido e con un’uscita di scena degna della più grande diva di Hollywood – o di suo fratello Jared – lascia il negozio, una commessa sbalordita e noi con le lacrime agli occhi.

Appena Frances riesce a liberarsi dal vestito, e dopo esserci scusate con la gentile commessa, usciamo di corsa dal negozio, ma, guardandoci intorno, non vediamo tracce di Shannon. «Dov’è andato?», chiedo.

«Non lo so», risponde Rain.

Continuiamo a guardarci attorno ma di lui non c’è traccia, per cui, tristi, seguiamo la strada su cui ci ha abbandonato strascicando i piedi. Dopo qualche minuto, butto l’occhio dentro la vetrina di un negozio di strumenti musicali e fra le decine di chitarre appese al soffitto scorgo la testa di Shannon, gli occhiali sugli occhi, intento a picchiettare i piatti di una batteria con una bacchetta tenuta in una mano e con l’altra reggere un telefono vicino ad un orecchio. «Eccolo», dico indicandolo.

Entriamo nel negozio e ci avviciniamo. Quando ci scorge sbuffa sonoramente. «Jared, ti devo lasciare, le mie bambine mi hanno trovato», detto questo riattacca il telefono. «La smetterete mai di tormentarmi voi tre?»

«Siamo le tue bambine», ridacchio. Lui mi guarda in cagnesco e io mi ritrovo ad alzare le mani in segno di resa. «Okay okay».

«Shannon, potresti presentarcelo Jared, però», dice Frances.

«Volete conoscerlo?», chiede lui, alzando gli occhi dalla batteria che l’aveva distratto. Mi intenerisco: quante volte ha detto che Christine l’ha salvato da morte certa? Davvero tante, e ne ho appena avuta la prova.

«Pronto, Terra chiama Shannon, siamo delle echelon, è ovvio che vogliamo conoscere tuo fratello. E Tomo», risponde lei.

«Giusto», dice lui. «Va bene, ve lo presento».

«Davvero?!», domanda Rain. Come me si aspettava tutto tranne quello.

Annuisce. «Certo, ma prima voglio sapere qual è il vostro sogno», afferma con un sorrisino sulle labbra che non promette nulla di buono.

Ci guardiamo tutte e tre, sapendo che si riferisce alla frase che Frances aveva detto la sera prima, quella del “stiamo cercando il nostro sogno ma pensiamo di averlo trovato questa sera”, e non sappiamo che cosa rispondere. È da escludere dirgli che il nostro sogno era quello di conoscere lui, sarebbe troppo imbarazzante, anche se probabilmente lui ha già capito la verità ed è per quello che ce l’ha chiesto, è per quello che sorride in quel modo.

Quindi, dopo un lungo scambio di sguardi con le mie amiche mi volto verso di lui.  «Il mio sogno più grande è di diventare una scrittrice. Voglio raccontare la realtà, bella o brutta che sia, mettere su carta i pensieri che mi tormentano tutti i giorni, vivere vite diverse da quella che vivo qui, su questa terra, conoscermi meglio attraverso i personaggi dei miei racconti, reinventarmi, immaginarmi diversa. Voglio emozionare con le parole, far sentire le persone meno sole, voglio essere associata alla pioggia e a una tazza di tè. Voglio solo scrivere ed essere brava a farlo».

«Voglio vivere in una bella città, in una casa con delle vetrate in salotto, con una persona che amo, trovare un lavoro che mi renda soddisfatta di me stessa, che mi faccia arrivare a casa la sera stanca ma fiera di me. Voglio essere serena e capire chi sono davvero facendo un lungo viaggio, per rimanere meravigliata ancora una volta dalle persone, dai loro sbagli, dai loro pregi, da ciò che creano ogni giorno con la loro passione e da ciò che distruggono con lo stesso impeto. Voglio imparare a prendere delle decisioni per conto mio», dice Rain.

«Sogno di rendere le persone felici con quello che so fare meglio, quello per cui studierò e faticherò tanto. Sogno di salvare delle vite, che sia ricucendo loro un braccio, o tenendo la mano di una madre preoccupata per suo figlio per tutta la notte. Voglio che le persone abbiamo bisogno di me, e non per egoismo, non perché voglio essere al centro dell’attenzione, ma perché voglio essere utile, voglio poter dire che ho condiviso la mia vita con tante persone, persone a cui ho rubato un piccolo pezzo di anima e fatto mio, persone che ne hanno rubato tanti piccoli pezzi a me», dice invece Frances.

Shannon si toglie gli occhiali e ci guarda, una alla volta, e mi sembra che per la prima volta ci veda davvero per quello che siamo. Poi sorride. «Avete trovato queste cose in questa città?»

Mi mordo il labbro. «Abbiamo trovato te, che insieme a Jared e Tomo ci incoraggi ogni giorno a credere in noi, a credere che se il nostro sogno non ci spaventa, se il nostro sogno non è grande, apparentemente irragiungibile allora non è vero. Stay focused on the dreams, right?»

«Dai», dice facendo un cenno del capo. «Andiamo a prendere questo zucchero filato al Luna Park, ve lo siete meritato».

 

 

 

Questo capitolo parla di sogni, e ho voluto cominciarlo con una frase che Jared ha detto recentemente durante un VyRT Violet. Dietro tutte le risate, tutte le prese in giro, dietro a tutto quello che scrivo in questa fan fiction c’è l’amore e l’ammirazione che provo nei confronti di questi tre uomini, che il loro sogno lo stanno vivendo grazie a noi, ma che allo stesso tempo ci danno forza, ci spingono a fare quello in cui crediamo, ci aiutano a capire chi siamo. Sabato li ho visti in concerto per la seconda volta, a Milano, e mi sono resa conto veramente di quanto siano importanti per me. Quindi sì, un capitolo un po’ più serio nel finale ma che spero vi sia piaciuto lo stesso. A presto, Deb.

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Capitolo 9
*** Capitolo nove. ***


Sento un rumore strano, ma il sonno e l’annebbiamento che esso mi produce in testa, mi impediscono di capire di che cosa si tratta. Inconsciamente decido di ignorarlo, per cui mi rimetto comoda sulla mia parte di letto – sono riuscita a confinare Rain nel divano a suon di minacce – e mi faccio avvolgere di nuovo dal tepore di Morfeo. Per qualche motivo, comunque, il rumore si fa più fastidioso. Sprango la mia mente, impedendole di continuare ad udirlo, ma niente, quel suono mi si insinua fin dentro l’ultima cellula del cervello e lo riscuote incitandomi a svegliarmi una volta per tutte. Quando lo sto per fare, il rumore molesto viene sovrapposto da un «ma che cazzo è?» pronunciato da Frances. Mi volto verso di lei e apro gli occhi lentamente – io e la luce di mattina non siamo mai andate d’accordo.

«Non sapevo nemmeno ci fosse, un telefono, in questo schifo di posto», borbotta alzando la cornetta del telefono che, effettivamente, è sempre stato sul suo comodino. «Pronto?»

«O-okay, grazie», risponde qualche secondo dopo, prima di attaccare e voltarsi verso di me con la faccia corrucciata. «Era una della reception. A quanto pare abbiamo ospiti».

«In che senso?»

«Ha solo detto che qualcuno sarebbe salito nella nostra stanza, e poi ha chiuso».

«Non c’è nessuna possibilità che sia mia mamma, vero?», chiedo ironicamente, ma un po’ allarmata. Nell’istante in cui lo pronuncio, comunque, bussano alla porta. Frances e io ci guardiamo, poi lei si alza e va ad aprirla.

«Shannon?», esclama lei.

«Hi». Perché anche se non l’ho ancora visto i miei ormoni si sono risvegliati dal sonno profondo in cui li avevo costretti a rimanere? Basta la sua voce a farmi andare letteralmente su di giri? Evidentemente sì.

«Che cosa ci fai qua?»

«Se mi fai entrare te lo spiego».

Mi accorgo che sono in pigiama, che non mi sono ancora pettinata né lavata il viso e i denti e che Rain sta ancora dormendo. Mi allungo e le pizzico un braccio, poi acciuffo un elastico per i capelli e faccio una coda.

«Hei», dice Shannon facendo un cenno del capo verso di me. «Vi ho svegliate a quanto pare».

«Perché mi hai pizzicato un braccio, cretina?», abbaia Rain in italiano.

«Shannon», dico soltanto, sperando si accorga che è a pochi passi da lei.

«Cos’ha Shannon?»

«Morning», ridacchia lui.

La testa di Rain scatta verso la voce che l’ha appena salutata, e la sua faccia assume un’espressione indecifrabile. «Che cosa ci fai qua?», annaspa.

«Ve l’ho già detto un po’ mi fate paura? fate le stesse domande. Vivere in simbiosi non vi fa bene, ve lo dico io. Comunque ho portato del caffè», dice alzando dei contenitori che non mi ero accorta avesse in mano.

«Grazie al cielo!» Scatto sul letto, sentendo il richiamo della caffeina, e ne acciuffo uno.

«Grazie Shannon, casomai», dice lui.

«Grazie Shannon per avermi portato questo caffè, non ti risponderò più in modo sarcastico, non ti prenderò più in giro né manderò a fanculo».

«Dovrei crederti?»

«No».

«Lo sapevo», dice lui alzando gli occhi al cielo.

«Cosa diavolo ci fai qui?», chiedo. Infine sono l’unica che non ha ancora posto la domanda.

Shannon guarda l’orologio che tiene al polso e poi ci guarda. «Avete mezz’ora per preparare una valigia con dei vestiti, uno spazzolino da denti e del gel antibatterico che non si sa mai».

«Gel antibatterico? Ma che cosa stai dicendo?», domanda Rain che sembra appena essere uscita dall’oltretomba.

«Andiamo a New York».

«Cosa?», esclamiamo tutte e tre contemporaneamente.

«Ho promesso che vi avrei presentato Jared, e Jared in questo momento è a New York, ergo noi andiamo a New York».

«Stai scherzando», dico spaesata dopo un minuto buono.

«Tick tock, il tempo passa. Avete solo ventotto minuti».

 

Quando atterriamo all’aeroporto di New York, dopo ore e ore di volo in cui non sono riuscita a rilassarmi nemmeno un secondo (beh, forse quando Shannon ha accennato a un massaggio sulle mie spalle stufo delle mie continue lamentele e paranoie dicendomi «stai zitta un attimo» all’altezza e all’aereo sfracellato al suolo non ci ho poi pensato tanto) mi sento sfinita. Allo stesso tempo ho tanta di quella adrenalina in corpo che l’unica cosa che vorrei fare sarebbe urlare fino a che ho fiato in corpo e andare a farmi una corsetta, come a casa faccio spesso quando sono tesa per qualcosa. Sono euforica e sfinita, e le due cose nel mio corpo non vanno mai messe assieme, a meno che non si vogliano ottenere risultati disastrosi.

«Ho bisogno di caffè», dico quando siamo riusciti a recuperare i nostri bagagli.

«Concordo», annuisce Shannon, sorpassando però lo Starbucks.

Inchiodo, e le altre si schiantano su di me. Ignoro i loro insulti. «Perché hai superato questo bellissimo negozio che sprizza caffè da tutti i pori che non ha?»

Shannon guarda Frances e Rain con una faccia sconvolta. «Ma parla sempre così o l’enorme onore ce l’ho solo io?»

«Sempre così, e la conosco da dodici anni», scuote la testa Rain.

«Sono qui davanti a voi, se ve lo foste per caso dimenticati», sbotto. Mi stanno apertamente insultando, e anche se la cosa sicuramente apparirà comica, io sono una persona orgogliosa.

Lui alza gli occhi al cielo. «Conosco un posto migliore. Ti fidi di me? Quante volte ci sei stata in questo posto?» Ricordo improvvisamente l’altra volta in cui sono stata in questo posto: io, Frances e Rain alle calcagna di Jared. Ridacchio. «Stai ridendo da sola?». Ha un sopracciglio alzato e Dio solo sa quanto siano sexy le sue sopracciglia.

«Lasciala perdere. Caffè. Ora», interviene Rain salvandomi da imbarazzo certo.

Il posto in cui ci porta Shannon è un locale molto piccolo, incastrato fra un McDonald affollato e una farmacia. Non c’è tanta gente, solo un’altra coppia di anziani signori vestiti eleganti che si cibano di qualcosa che a questa distanza sembra riso nero con delle verdure, ma non ci metterei la mano sul fuoco. Ordiniamo tutti un caffè tranne Frances, a cui non piace e che opta per una bibita al cioccolato. Lo so che con i nervi tesi che mi ritrovo non dovrei, ma lo ordino nel formato più grande che hanno, perché voglio rimanere sveglia e vigile per tutta la giornata. Sto per incontrare Jared, non è una cosa che capita tutti i giorni nella vita.

«Decisamente più buono del caffè di Starbucks», convengo.

«Lo so», sorride lui soddisfatto.

«Non per sembrare invadente», si intromette Frances. «Ma dove lo troviamo Jared? Non ci fucilerà all’istante? Infine ha un momento per sé e tu piombi qui con tre fan…».

Shannon alza le spalle. «Che io sappia non ha mai ucciso nessuno».

«Rassicurante», dice Rain in tono ironico. «Che nessuno dica c’è sempre una prima volta, per favore. E con nessuno intendo te, Deborah», aggiunge.

Alzo gli occhi al mio caffè e assumo un’espressione offesa. «Ah-ah, simpatica».

«Lo so», dice lei muovendosi i capelli.

Un telefono comincia a squillare e interrompe il nostro botta e risposta. È quello di Shannon, che lo estrae dalla tasca del giubbotto di jeans che indossa e legge il nome sul display. «È Jared. Fatemi la cortesia di stare zitte per due secondi». Odio quando ci tratta come delle bambine di due anni, ma infine ha l’età di mia madre, su per giù, ed è una rock star. Che cosa ci si può aspettare da lui? «Hi bro». Comincia a parlare in un inglese troppo veloce perché io riesca a capire tutte le sue parole, per cui dopo qualche secondo ci rinuncio, cominciando ad esplorare i vari tipi di zucchero che ci sono nella ciottola in centro al tavolo. Ho sempre collezionato praticamente qualsiasi cosa, dalle cartoline, alle figurine, ai francobolli, e per un periodo anche bustine di zucchero. Quando ne trovo una davvero carina, dimenticandomi dell’avvertimento di Shannon, esclamo ad alta voce un «guardate questa quant’è caaaarina», alludendo alla mela sorridente ritratta, lui mi lancia un’occhiataccia. «Nothing, just wait a second», allontana il cellulare dall’orecchio. «I’m gonna kill you if you don’t shut up now».

«Do it or die, I get it», dico ridacchiando. Non so perché ma non mi mette più in soggezione. Non mi sembra più di avere davanti il batterista per cui ho sbavato per anni, pur avendone coscienza, ma un amico, con cui scherzare liberamente.

Shannon continua a parlare per diversi minuti, e poi riattacca. «Andiamo».

Salita in taxi mi limito a guardare fuori dal finestrino, ammirando la città nella quale ho sempre sognato di andare e perché no, vivere. Il caos, le luci, i concerti, l’albero di Trafalguar Square a Natale, la neve, il Moma, Central Park. Tutte cose che sogno da quando ho quindici anni e che forse avrò l’occasione di vedere, almeno in parte. C’è il sole, e i raggi si riflettono sul vetro dei grattaceli di cui spesso non riesco a vedere la cima. Tutto in questa città è affascinante, niente a che vedere con il posto in cui sono nata, niente a che vedere con le spiagge e i tramonti di Los Angeles.

Mi risveglio dal trance in cui ero caduta quando l’auto gialla si ferma davanti all’entrata di un hotel e quando sento l’autista scusarsi con Shannon per il traffico. Scendiamo e dei fattorini sono subito pronti a raccogliere i nostri bagagli. Sto per entrare in un hotel a cinque stelle, me lo sento.

«È qui che alloggia Jared?», chiedo entrando per la porta che un uomo alto di colore sta tenendo aperta per noi, dandoci il benvenuto. Tutto questo fa molto Gossip Girl e io non sono per niente eccitata, no.

«Così pare».

Quando arriviamo al bancone mi rendo conto che Shannon ha già prenotato due camere, una per noi tre e una singola per lui. Non specifica quante notti alloggeremo, e io mi faccio prendere dall’ansia per una cosa a cui prima non avevo pensato: chi pagherà tutto ciò? L’ansia aumenta quando, dopo trenta piani di ascensore, apriamo la porta della nostra camera e ci accorgiamo che è una suite. «Sto per dormire in una fottuta suite!», esclama Frances cominciando a saltellare in giro per la stanza. Stanza che assomiglia più a un mini appartamento, preciso.

«Io vado a cercare Jared, voi aspettatemi qui, okay? Dormire, mangiate, saltate sui letti e fate tutte quelle cose da diciannovenni ma non lasciate quest’hotel per nessuna ragione al mondo. Non ho voglia di venirvi a raccattare in prigione o che so io».

«Quanto sei pessimista», esclamo.

«Vi ho incontrato mezze nude in spiaggia, senza un soldo. In più vi ho visto ubriache, se vi ricordate», ribatte lui scoccandomi un’occhiataccia.

Gli faccio una linguaccia. «Okay papà». Se ne va alzando gli occhi al cielo.

«Oddio. Ma avete visto questo posto? Favoloso!», dice Francis euforica.

«Ragazze», comincio io. «Non vorrei davvero uccidere la vostra euforia, ma lo sapete che se dobbiamo pagare noi questo posto dobbiamo creare un mutuo o lavare i piatti per l’hotel per il resto della nostra vita, giusto?»

«Merda», dice Rain.

«Già».

«Avevo dato per scontato che pagasse Shannon, ma mi hai fatto venire l’ansia adesso».

«Benvenuta nel club», borbotto.

«Che facciamo quindi?», domanda Francis, le labbra all’ingiù.

Sto per rispondere quando bussano alla porta. Tre colpi secchi. «Cazzo. Quanto male sono presa?»

Gli occhi di entrambe le mie amiche si dilatano. «Porca troia».

Tutte e tre ci precipitiamo in bagno, sgomitando per appartarci un angolino di specchio. «Sono bruttissima», si lamenta Frances.

La guardo: è perfetta come sempre, in realtà. «Sei bionda e respiri. Hai più chance tu di io e Rain messe insieme, con Jared, fidati di me». Le mi tira una gomitata su un fianco e io scoppio a ridere. Sento di nuovo battere sulla porta, impazientemente. «Dobbiamo andare o buttano giù la porta. O peggio, chiamano l’FBI per ritrovarci. Andiamo». Le trascino fuori dal bagno – personalmente non sono mai stata una che perde le ore davanti allo specchio per prepararmi, il mio brutto aspetto rimane lo stesso anche se continuo a fissarlo per minuti – e mi fermo solo quando siamo davanti alla porta.

«Chi apre?», bisbiglio. Non voglio farmi sentire da loro due.

«Non so che cosa hai detto, ma so che sei li dietro Deborah. Apri questa dannata porta».

Come non detto. Impugno la maniglia con la mano che mi trema e spalanco la porta, forse con un po’ troppa forza, dato che, essendo ancorata ad essa con tutte le mie forze a causa dell’ansia, quasi vengo scaraventata addosso al muro dove la faccio sbattere. Arrossisco anche le orecchie probabilmente.

«Forse ho capito», dice Jared. Quasi mi sento morire quando il cervello comincia a girare di nuovo e lo vedo davanti a me, sento la sua voce. Lui continua a scrutarci, una alla volta, con uno sguardo che fa veramente decedere le mie ovaie. Poi si volta verso Shannon. «Andiamo».

E non so che cosa abbia capito, non riesco nemmeno a pensarci in questo momento, ma so che vado.

 

 

 

Non mi convince molto questo capitolo, sapete? Comunque enjoy it. Ah, a proposito: qualche frase l’ho lasciata scritta in inglese perché rendeva meglio. Sono sicura che tutti capirete, anche quelli che non capiscono un’acca di lingue straniere. Deb.

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Capitolo 10
*** Capitolo dieci. ***


«Cos’è che ha capito precisamente, secondo voi?», chiede Rain.

«Vai a saperlo», risponde Francis. «Com’è che dice sempre Shannon? Se non fosse stato un attore e un cantante adesso sarebbe in un centro di infermità mentale».

«Mi immagino già Bart che si dibatte arrabbiato dentro la sua testa», dico scuotendo la mia.

«What are you three saying?», s’intromette Jared, fissandoci dritte negli occhi. Noi ci ammutoliamo sul momento. È la prima volta che ci rivolge la parola direttamente, per tutto il tragitto in metro è rimasto in silenzio – come anche Shannon – con il cappuccio in testa e gli occhiali da sole.

«Amh…». Purtroppo è tutto quello che esce dalla mia bocca. Dove sono finite tutte le mie capacità linguistiche? E questo non è un problema di inglese, le parole sono proprio bloccate da qualche parte nel mio cervello e non hanno nessuna intenzione di uscire. Gli ultimi due neuroni sopravissuti all’incontro dei fratelli Leto probabilmente sono in letargo. Non posso biasimarli.

«Stavamo parlando della città», esclama Rain con una voce a dir poco stridula. La guardo e sgrano gli occhi. Mi chiedo che cosa abbia intenzione di inventarsi.

«E cosa dicevate?».

«Che siamo contente di vederla, che è molto bella».

«Tutto qui?». Ahi, Rain non poteva essersi dimenticata che New York era il suo posto preferito nel mondo, giusto? «Solo molto bella? Questa città è perfetta».

«Vorrei farti notare che la metro è al chiuso».

«E quindi?», è confuso e le sue sopracciglia si avvicinano tra loro. Adorabile.

«E quindi non posso dire molto dato che quello che visto fino ad ora sono solo delle mura. È la nostra prima volta, qui nella Grande Mela», dice Rain esasperata.

«Touché», sorride Jared.

«Francese, ti pareva», mi dice Francis all’orecchio.

«Fissato», confermo annuendo. Mi guardo intorno, e solo voltando il busto completamente vedo Shannon, alcuni passi dietro di noi. «Hei, vecchietto, non riesci a tenere il nostro passo?», scherzo. Mi diverto troppo a farlo innervosire facendo frecciatine riguardo alla sua non più tenera età, non ci posso fare niente. La risposta pronta e seccata che di solito mi riserva, però, tarda ad arrivare. Nel suo viso invece si tratteggia una smorfia. Guardo Francis: anche lei è confusa quanto me. Ci avviciniamo un po’.

«Va tutto bene, Shan?», chiede la mia amica.

Lui annuisce. «Tutto bene, non preoccupatevi». Fa qualche passo verso di noi, ma la sua camminata e strascicata. Potrei giurare che un po’ zoppica.

«Non vorrei contraddirti…», comincio, ma lui alza gli occhi al cielo e mi blocca.

«Come non fai mai, certo…».

Lo guardo con uno sguardo di sfida e lui ammutolisce. «Stavo per dire che non mi sembra vada tutto bene. Tu zoppichi, Shannon».

«Non è niente», ripete, il tono fermo.

Mi volto verso Francis. «Io non ci credo», le dico in italiano. «Ha qualcosa che non va».

Lei mi guarda qualche secondo e poi gli si avvicina. Non so con che coraggio ma, dopo averlo fissato per qualche secondo, si inginocchia davanti a lui e comincia a toccargli la gamba destra. Sul volto di Shannon si dipinge una maschera di sorpresa e incredulità che credo sia specchio della mia.

Lo so che probabilmente è tutto frutto della mia mente malata, o forse è solo l’aria di New York che mi fa pensare a queste cose, ma, in un primo momento, mi chiedo se Francis non voglia farlo stare meglio utilizzando qualche tecnica censurata in Hurricane che non sto qui a specificare. Tossicchio fra me: mi faccio spavento, quando penso a queste cose. In un secondo momento penso invece che stia sfoderando il suo lato da medico. E ne ho la conferma quando la sento chiedere: «Qui ti fa male?».

Shannon sussulta. «Jesus».

«Non ho ancora iniziato a studiare, se non consideriamo i tomi di biologia e chimica per il test d’ammissione all’università, ma il tuo ginocchio destro è gonfio. Devi farti visitare da un medico, uno di quelli veri si intende», dice Francis alzandosi e rassettandosi i pantaloni.

Shannon si porta una mano sugli occhi e rimane in quella posizione per un tempo che mi sembra infinito. Mi si stringe il cuore. Conosco molte cose su di loro, ogni giorno scopro qualcosa di nuovo attraverso un’intervista, un servizio fotografico, un semplice tweet. Eppure mai avrei pensato di poter vedere sul serio la loro sofferenza. A volte tendiamo a dimenticarcelo che anche loro, le persone che seguiamo come se fossero dei messia, come se fossero degli dei – i nostri dei – sono umani, e provano dolore. A volte tendiamo a dimenticarcelo che le canzoni che noi ascoltiamo la mattina andando a scuola seduti sul sellino gelido di un autobus, sono spesso frutto di quel dolore che li trafigge e che noi non possiamo conoscere. Ci è off limits. E invece ora ce l’ho proprio davanti agli occhi, il suo star male.

Francis gli si avvicina e, come se fosse la cosa più giusta da fare, lo abbraccia. In un primo momento vedo Shannon irrigidirsi. Poi, come se improvvisamente avesse capito che quello era esattamente quello di cui aveva bisogno, la stringe a sé. «Appena torniamo a casa ci vado», lo sento dire.

«Domani, devi andarci domani. Quel ginocchio ti serve».

Lui scioglie l’abbraccio e la guarda, e guarda anche me. Tace per qualche secondo, si sistema la custodia con la chitarra sulla spalla, poi prende un grosso respiro. «Ho paura. Come dici tu, quel fottuto ginocchio mi serve. Come diavolo suono Christine, altrimenti?». Una parte di me non ci crede, ma ho appena sentito dire a Shannon Leto che ha paura. L’ha detto a noi, delle ragazze che fondamentalmente lo tormentano da giorni.

Una forza che proviene da dentro mi spinge ad avvicinarmi a loro. «Lo so che fa paura, le novità spaventano sempre, ma tu devi andare dal medico. Possiamo venire con te, se vuoi. Sicuramente Jared lo farà, se gli spieghi la situazione».

«Che cos’è che deve spiegarmi?». La voce di Jared suona alle mie spalle, ed è proprio lì che lo trovo quando mi volto, intento ad osservare me, suo fratello e Francis. Dev’essere sicuramente stato attratto dall’abbraccio della mia amica, per aver abbandonato l’animata conversazione che stava facendo con Rain.

Guardo Shannon e gli sorrido. Se potessi gli stringerei la mano, per dirgli che io e i milioni di echelon ancora ignari del suo ginocchio, sono con lui, pronto a sostenerlo in qualsiasi momento. Lui annuisce a me e Francis e prende un respiro. «Sto diventando vecchio, Jared, ecco cosa c’è».

 

«No warning sign, no alibi, we’re fading faster than the speed of light». Jared canta con gli occhi chiusi, la chitarra posizionata stancamente sulla gamba. È seduto su una fontana al centro di una piccola piazza che, a giudicare del via vai di gente, deve essere abbastanza in centro. «Took our chance, crashed and burned, no we’ll never ever learn». Shannon affianco a lui lo accompagna, suonando delle note delicate che rendono la situazione irreale. Ci sono loro, io e le mie amiche, e un piccolo gruppo di persone alle nostre spalle. «I fell apart, but got back up again». Apro gli occhi nell’esatto istante in cui Jared e Shannon si guardano e poi, come se fossero chiusi in una bolla e non con decine di persone davanti, si sorridono. Mi scende una lacrima, e non solo perché quella canzone per me ha fatto tanto, perché mi ha insegnato a non arrendermi, a rialzarmi e andare avanti nonostante tutto, ma perché so che loro due ci saranno sempre: l’uno per l’altro, per me, per le persone alle mie spalle. So che saranno sempre sinceri, so che mi insegneranno ancora molto.

Sento che Francis alla mia destra mi stringe la mano, così mi volto a guardarla: piange anche lei. Le sorrido, la scavalco con lo sguardo, e faccio lo stesso con Rain. È un sogno?, lo so che lo stanno pensando anche loro, quindi scuoto la testa. «Non è un sogno. Siamo qui, stiamo ascoltando Alibi», dico a me stessa e a loro.

«…the battle is the only way we feel alive», continua Jared. Quanto abbiamo combattuto noi, nelle nostre vite? Quante battaglie abbiamo superato?, non senza cicatrici, certo, ma le abbiamo superate. Quante dovremmo combatterne, in futuro? Chi lo sa. Intanto ci rimangono i sogni, ci rimangono gli amici, ci rimane la speranza, ci rimane l’amore, ci rimane la fortuna, ci rimane quel desiderio di essere sempre migliori, di reinventarci, di cambiare e di amare, di essere amati, di scoprire e viaggiare e imparare.

Il mio sguardo incrocia quello di Jared, e non lo so perché lo faccio, non so nemmeno se quello che faccio abbia un senso, se lui lo capirà, ma sussurro un «Grazie» e lui alza gli angoli delle labbra. Magari quando saremo tornate a casa lui si sarò scordato dei nostri nomi, ma io non dimenticherò mai che cosa mi ha detto con quel sorriso. Mi ha detto che sì, posso farcela. Che sì, devo continuarci a crederci. Nei miei sogni, in me stessa, in lui. Perché sa cosa significa soffrire, sa cosa significa piangere di notte e farlo così tanto da non riuscirci più dopo un po’, sa cosa significa volere bene alle persone ma non riuscire a comunicarlo. Lui sa, sa chi si sono e che cosa provo, ma sì, mi ha detto che sì, non sono da sola.

Sorrido, ancora. Ringrazierò per sempre Dio, o chi per lui, per avermi fatto sentire le parole «sapevamo che avresti detto sì, quindi i soldi del biglietto li abbiamo anticipati noi», per avermi fatto accettare quel pazzo viaggio dall’altra parte del mondo.

 

 

È terribile, nel mio modesto parere. E sono pure in un ritardo imperdonabile. Ma voi perdonatemi lo stesso, vi prego. E lo so che questa è nata come una storia comica, ma la vita non lo è quindi sì, ogni tanto mi va di inserirci delle cose tristi/lacrimose, spero piacciano anche a voi. A presto, Deb.

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Capitolo 11
*** Capitolo undici. ***


«Dimmi che non stai facendo quello che sto pensando che tu stia facendo», dico, cercando di nascondere una risata. Jared mi guarda voltandosi appena, un sorriso furbo sulle labbra, e annuisce. Mi siedo sul bracciolo di uno dei tanti divani che troneggiano nel salone del quartiere generale della band, e mi godo la scena sorridendo.  Jared, il suo fedele Blackberry stretto fra le mani, si è posizionato davanti a un esemplare di Shannon addormentato con un impacco di argilla sul ginocchio e la testa a penzoloni con tutta l’intenzione di immortalare quel momento. Da qua non vedo bene, ma è probabile che Shannon abbia anche le bavette che gli escono dalla bocca. Dorme di gusto, lo si vede dalla pelle del volto distesa e rilassata, dalle labbra leggermente dischiuse. Quello che in questo momento non sa, perso fra le calde braccia di Morfeo, è che si sveglierà con un torcicollo del diavolo e con una foto decisamente compromettente nel telefono del suo adorabile fratellino. E non solo in quello.

«Ora la invio a Tomo», ridacchia Jared dopo averla scattata.

«A proposito di Tomo», dice Francis, «dov’è?»

Jared alza le spalle. «A casa sua, immagino».

In quell’esatto istante sentiamo bussare alla porta del The Hive e Jared, la faccia corrucciata, si fa strada fra la confusione generale che regna nella stanza, e va ad aprire la porta.

«Hola amigo!», esclama Tomo, un sorriso a trentadue denti che si fa spazio fra la folta barba nera. Sento che il cuore potrebbe esplodermi da un momento all’altro dall’emozione. Ancora sulla porta di casa lo vedo alzare il telefono con la foto del bell’addormentato sullo schermo. «Devo preoccuparmi?».

«Che cosa ci fa qui?», chiede Jared scansandosi per farlo entrare in casa.

Tomo alza le spalle. «Mi annoiavo. A casa ci sono i parenti di Vicky, quindi la chitarra è off limits, e direi che anche mia moglie lo è, troppo indaffarata a pulire casa, a portare tè e pasticcini a sua nonna e quant’altro. Sono semplicemente fuggito dall’inferno». Jared gli da delle pacche sulle spalle e lo spinge in avanti, ma Tomo si blocca all’istante quando ci vede appollaiate sul divano. «Amico, non è che devi spiegarmi qualcosa?», chiede inclinando la testa rivolto verso Jared.

«Potrebbe farlo Shannon». Pronunciando il nome del fratello alza il tono della voce a livelli che non sono sicura siano legali, e il povero malato alza la testa in un scatto, aprendo gli occhi come un pulcino appena uscito dall’uovo.

«Cosa? Cosa succede?», domanda, guardandosi attorno probabilmente alla ricerca di un incendio. Non riesco a trattenermi e scoppio a ridere, e in pochi secondi tutti, tranne Shannon ovviamente, mi seguono a ruota. Quando si accorge dalla presenza di Tomo, la sua faccia diventa definitivamente un punto di domanda. «Tomo? Ma che diavolo ci fai qui?».

«Si annoiava», risponde Rain e vedo il chitarrista annuire.

Shannon ci scruta per qualche secondo tutte e tre e poi sorride. «Avete conosciuto Tomo!». Non riesco a capire se si sia rincitrullito nel giro di un’ora, se i farmaci che sta assumendo per il ginocchio gli stiano facendo degli effetti strani o se sia ancora rintronato a causa del sonno. Qualunque cosa sia lo rende molto più divertente del solito. E buffo.

«In realtà non ho la più pallida idea di chi sono. Saresti così gentile da presentarmele, Shan?», dice Tomo.

Shannon si siede più comodo, imprecando quando muove il ginocchio per il dolore. «Fanculo», esclama passandosi una mano sulla fronte, per ritrovarsi poi cinque paia di occhi puntati addosso. «Sto bene». Nessuno di noi gli crede, ma non possiamo fare più di tanto. «Le ho trovate nude sulla spiaggia».

Sento la saliva raggrumarsi in gola e comincio a tossire per evitare di soffocarmi. «Non eravamo nude!», di difendo, tra un colpo di tosse e l’altro.

«Avevate solo la biancheria», puntualizza. Vorrei intervenire ma lui continua il suo racconto. «Quando mi hanno detto che sono delle Echelon mi sono sentito in dovere di aiutarle, per cui sono andato a cercare dei vestiti a casa di Antoine».

«Antoine?», chiede Tomo. Ho come l’impressione che il dj non gli piaccia molto. «Lo vedi ancora?».

«Qualche volta», risponde Shannon, non guardando in faccia l’amico. Mi volto verso Frances e Rain e hanno anche loro delle espressioni corrucciate a causa di quella celata schermaglia di opinioni. «In ogni caso, non potevo lasciarle sole senza un centesimo, per cui le ho portate alla festa con me».

«Perché eravate senza un centesimo?», chiede Tomo.

«Ci hanno derubate quella sera. Soldi, vestiti, cellulari, tutto», dice Rain.

«Un certo Paul», continua Francis. Quando pronuncia il suo nome sento le mani prudere, e sono costretta ad incrociare le braccia. Non sono mai stata una tipa violenta, che cosa mi sta succedendo?

«E poi?». Tomo rapito dal racconto del nostro incontro con Leto Senior mi fa tenerezza.

«E poi mi hanno ricattato», dice Shannon.

«Che cos’è che abbiamo fatto noi, scusa?», sbotto.

Shannon ridacchia. «Visto che ti sei autoproclamato nostra balia è tuo dovere aiutarci», mi scimmiotta, utilizzando le stesse parole che avevo usato io giorni prima, e sento anche le orecchie arrossire. «Quindi le ho portate a prendere dei cellulari nuovi e a fare un giro in centro».

«E al Luna park a prendere lo zucchero filato», aggiungo io.

«Come un bravo papà», ridacchia Tomo. Io, Rain e Francis ci guardiamo e scoppiamo a ridere. Shannon ci lancia un’occhiataccia che ci zittisce all’istante. “Quello che succede al Luna park, resta al Luna park”, ci aveva detto quel giorno e noi avevamo promesso.

«Il giorno dopo erano a New York per incontrare me», dice quindi Jared che fino a quel momento era rimasto in silenzio. «Ma a causa del ginocchio di Shan siamo dovuti tornare a casa, e ora sono qui a farci compagnia e a raccontarci un po’ di aneddoti echelon».

«Delle echelon al The Hive, è successo solo una volta ed è stato bellissimo», sorride Tomo. Solo in quel momento mi rendo veramente conto di chi ho davanti e mi aggrappo alla collana con la triad che porto al collo.

«Tomo», me ne esco io dopo un po’ interrompendo la sua chiacchierata con Shannon, «posso abbracciarti?». Lui scoppia a ridere e mi viene incontro. Lo abbraccio, e un secondo dopo sento che anche le mie amiche si sono strette intorno a noi, e mi viene da ridere e da piangere contemporaneamente.

«Che cosa succede qui?», chiede Jared che si era spostato in cucina a prepararsi qualcosa da mangiare. Quando vede il nostro abbraccio si fa spuntare un grosso sorriso sulla faccia e ci raggiunge con una piccola corsa, sbilanciandoci tutti e facendoci finire sul divano affianco a Shannon che, per fortuna dotato di riflessi pronti, si scansa prima di venire investito.

In  quel momento, con la risata di Tomo nelle orecchie e le braccia di Jared e Shannon che toccano le mie, sento che non potrei essere più felice di così, e sorrido, rido, piango, non so più nemmeno io che cosa faccio, ma mi sento viva, come quando li ho visti per la prima volta in concerto, e ho sentito il mondo scivolarmi addosso, come quando li ho visti la seconda volta, e loro erano già diventati degli amici da cui non riuscivo a separarmi, perché mi tenevano compagnia, mi consolavano, mi facevano ridere, stare bene. Quando ci sciogliamo dall’abbraccio, decidiamo che è tempo per noi di andarci a fare una lunga e meritata doccia, quindi salutiamo i ragazzi, come se davvero fossero i nostri più cari amici, e ci chiudiamo la porta del The Hive alle spalle.

«Non ci credo», dice Rain, un sorriso da ebete in faccia.

Annuisco. «I believe in nothing but the beating of our hearts». E i nostri cuori, in questo momento, stanno battendo veramente forte. Li sento, forti e chiari, e in loro credo, credo solo in loro. Sorrido. «Ce l’abbiamo fatta».

 

 

Per la milionesima volta: sono imperdonabile, lo so. But surprise!, il nuovo capitolo è qui. Finalmente le ragazze hanno incontrato Tomo e la sua fantastica risata. Non so se sono coincidenze o no, ma oggi sono passati due mesi dal concerto di Milano e io sono mezza depressa. In ogni caso finalmente è uscito il capitolo, quindi forse è proprio merito del ricordo di quel giorno super speciale.
Colgo l’occasione per dirvi altre due cose, prima: buon anno nuovo, che vi porti tante belle cose, eccetera eccetera, e, seconda: ho iniziato una nuova storia con protagonista Jared, Sleeping with ghosts, leggetela, se vi va.
MarsHug per tutte, Deb.

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Capitolo 12
*** Capitolo dodici. ***


«Io non vorrei dirvelo, ma siamo senza un centesimo», esordisco, il portafoglio vuoto fra le mani.

«Siamo senza soldi perché dovevamo rimanere due settimane al massimo e invece abbiamo già prolungato di dieci giorni. Che cosa ci dice il cervello?», chiede Frances.

«Il cervello ci dice che siamo diventate delle assidue frequentatrici di casa Leto e giustamente tornare a casa e affrontare la vita fa schifo», risponde ovvia Rain.

Mi butto di peso sul letto. «Io non ci voglio tornare alla vita reale», piagnucolo. Mi alzo sostenendomi con un gomito. «Non ci voglio tornare».

«La parola università vi fa accapponare la pelle come a me, vedo», dice Frances.

«Sempre detto che i corpi morti non erano una bella cosa da studiare».

«Deborah», mi apostrofa.

Mi alzo su un gomito per guardarla in faccia. «Devi accettare il fatto che prima o poi vedrai dei cadaveri, e in quel momento, oh come mi penserai in quel momento».

Fa un grosso sospiro. «Possiamo tornare a pensare a questioni più importanti, per favore?». Mi stringo nelle spalle. «Dobbiamo tornare a casa. Li abbiamo incontrati infine, ci siamo riuscite».

«Io ho ancora troppe cose da dire loro», dico, e mentre lo faccio so che è vero. Ho bisogno di sentirmi dire da Jared che un giorno riuscirò a scriverlo, il romanzo perfetto che ho in testa, ho bisogno di dirgli deve sposarsi e procreare perché non può lasciare che la perfezione dei suoi geni venga sprecata in questo modo, ho bisogno di far ridere Tomo per sentire ancora una volta la sua bellissima risata nelle orecchie, ho bisogno di dire a Shannon quanto sia brutto il suo pigiama a righe marroni, e continuare a prenderlo in giro e punzecchiarlo.

«Siamo Mars dipendenti», conclude Rain.

«Cristo», esclama Frances buttandosi affianco a me. «Cristo sì».

«Facendo due calcoli possiamo rimanere qui un’altra settimana e riuscire a sistemarci comunque prima dell’inizio delle lezioni», rifletto. «Non più di una settimana, però. Poi dobbiamo andarcene. O cambiare il nostro futuro rimanendo a Los Angeles per sempre».

«A fare che?», domanda Frances.

«Non so. Le barbone, visto che siamo senza un soldo?»

«Possiamo trovare un lavoro», dice Rain.

«E stare a Los Angeles per sempre?». Davanti agli occhi prende forma la mia vita: io che la mattina mi sveglio, i piedi doloranti, mi faccio una doccia, mangio dei cereali che hanno preso aria e quindi sono diventati molli, mi faccio strada fra le cianfrusaglie che trovo sul pavimento, esco di casa e vado al lavoro; lavoro in un ristorante e anche Frances e Rain, ma loro hanno il turno diverso del mio, per cui sono a casa a dormire (ho cercato infatti di fare meno rumore possibile, per non svegliarle), lavo bicchieri, piatti, pentole, le mani mi diventano molle, servo i clienti in sala e la camicia bianca mi fa stare scomoda per ore. So quello che si prova perché ho già fatto quel lavoro, lo abbiamo tutte e tre già fatto, e sebbene guadagnare dei soldi sia davvero gratificante, so che non è quello che mi aspetto da me stessa. Io voglio di più. Io posso fare di più. Tutte noi possiamo. Sospiro e scuoto la testa. «Io la cameriera per il resto della mia vita non voglio farla. Ho sudato per entrare in quell’università», concludo. «Come anche voi».

Rimaniamo in silenzio per un po’, a pensare ognuno alla propria vita, alle responsabilità, ai sogni, alle scelte, alle possibilità, al futuro. «Una settimana possiamo ancora permettercela. Poi torniamo a casa», conclude Frances. «Ci state?»

Non ho bisogno di pensare molto prima di dire «Ci sto. Anche perché non ho ancora raccontato a Jared perché l’assassino nel mio libro sia il personaggio più bello di sempre».

«Anche perché Tomo non mi ha ancora detto qual è il segreto per trovare l’amore della mia vita», esclama Rain.

«Anche perché il ginocchio di Shannon non è ancora guarito e potrebbe aver bisogno di me», dice Frances. «È  deciso allora». Io e Rain annuiamo, ed è in quel momento che un telefono comincia a suonare. La suoneria è Night of the hunter, quindi deduco che sia il mio. Di slancio mi alzo dal letto e seguo il suono con le orecchie per cercare di indovinare la posizione esatta del telefono, che trovo dopo qualche squillo sotto una pila infinita di vestiti. Mi dimentico di guardare lo schermo, e rispondo. «Pronto?»

«Deborah, is that you?». Stacco il telefono dall’orecchio e il nome Tomo è impresso sullo schermo.

«Yes, it’s me. Are you okay? It’s everything okay?».

«Shannon stamattina deve andare a fare quegli esami per il ginocchio, e vuole che Frances vada con lui perché dice che ne capisce di più di tutti noi messi insieme, ma lei continua a non rispondergli al telef…». Sento del trambusto dall’altra parte della cornetta e mi corruccio. «È stata rapita dagli alieni? Le hanno di nuovo rubato il cellulare?».

«Shannon?», riconosco la voce. «Che cosa diavolo stai blaterando?». Metto il vivavoce in modo che anche Rain e Frances, che si stringono attorno al telefono, possano sentire.

Lo sento sospirare. «Per favore, per favore», abbassa la voce, «potete venire qui?»

«Quando?»

«Adesso. E con delle ciambelle».

«Ciambelle?». Sono sempre più confusa.

«Devono far placare l’ira di Jared».

«Perché  Jared è arrabbiato?»

Sento il suo respiro che si strozza, come se da un momento all’altro stesse per scoppiare a ridere (o morire, ma l’opzione rantolo di morte la escludo visto che fino a un secondo fa mi stava parlando in modo abbastanza lucido) «È arrabbiato con me».

«Shannon, che hai combinato?», chiede Frances.

«Gli ho fatto notare che aveva un capello bianco. Aveva un capello bianco, gliel’ho detto e lui si è messo ad urlare come un ossesso dicendomi che era impossibile, che lui non è vecchio».

«Dov’è adesso?». Modulo la frase cercando di trattenere una risata. Credo di essere rossa in faccia per lo sforzo.

«In camera sua. Immagino sia davanti allo specchio a controllarsi capello per capello, ho provato a bussare ma non risponde, e a Tomo ha detto di andarsene al diavolo, lui possessore di un così bel colore di capelli».

«Arriviamo tra massimo mezz’ora con le ciambelle», dico, e attacco senza aspettare una risposta perché non ce la faccio più: scoppio a ridere così tanto che dopo alcuni minuti comincia a farmi male la pancia, seguita a ruota da Francis e Rain. Quando finalmente riusciamo a calmarci, a smettere di lacrimare e emettere strani rumori da trichechi in soffocamento, mi alzo dal letto. «Che la missione Benjamin Button abbia inizio: destinazione Il Mondo della ciambella».

 

Rain allunga una mano e bussa alla porta. «Il primo capello bianco di Jared: mi sento quasi onorata di

assistere ad un tale avvenimento. Per quanto possiamo andare avanti a sfotterlo, secondo voi?»

«Basta per tutta una vita», ridacchia Francis.

Tomo apre la porta e con una mano, da bravo gentiluomo, prende il vassoio con le ciambelle che reggevo io. «Grazie al cielo. Non potete capire, sembra sia scoppiata la terza guerra mondiale qui dentro. Avete presente quando due stati sono alleati, ma poi inizia la guerra e uno va contro l’altro lo stesso? Ecco. Qui c’è una faida tra fratelli e io non so come risolverla».

«Non sono ancora ricorsi alle armi, vero?», mi accerto. Quel discorso sulla guerra mi ha fatto un po’ preoccupare.

«Per ora c’è stata una specie di lotta con i cuscini, finita con la rovinosa caduta di Shannon sul divano, dato che li ginocchio non regge ancora bene tutto il suo peso», spiega lui.

«Dov’è adesso?», chiede Rain guardandosi intorno. «Sappiamo che la diva è chiusa in camera e non fa entrare nessuno».

Tomo scuote la testa. «Nemmeno me, ci credete? Comunque Shannon è seduto fuori camera di lui, non so bene a fare cosa. L’ultima volta che ho controllato stava sbattendo la testa contro il muro chiedendosi che cosa avesse fatto di male a meritarsi un fratello del genere».

Guardo le mie amiche, prendo possesso di nuovo delle ciambelle e a passo spedito comincio a salire le scale. Troviamo Shannon che al nostro arrivo si illumina. Fa per parlare ma lo zittisco, poi  busso alla porta di Jared. «Jared, sono Deborah, mi puoi per favore aprire? Ho una sorpresa per te. Abbiamo una sorpresa per te, con me ci sono anche Rain e Francis». Ci provo: se è un bambino bisogna trattarlo come tale e come fare se non ricattarlo con un regalo?

Niente, nessuna risposta. Ci riprovo. «Stai veramente lasciando queste povere ciambelle finire nella pancia del tuo perfido fratello? Perché è la fine che faranno se non aprirai questa dannata porta». Tratteniamo il respiro mentre i secondi passano, ed è proprio quando sto per cedere la parola a una delle mie amiche che si sentono dei rumori provenire dal’interno della stanza: un tonfo, un lamento, una sedia trascinata. Poi si sente la serratura della porta schioccare e Jared mette fuori la testa.

«Ciao Jared, come stai?», chiede Rain, prudente.

Lui ci squadra. Si sta chiedendo se si può fidare di noi, si sta chiedendo da che parte stiamo. Da che parte stiamo? Non lo so nemmeno io, in questo momento. Certo, stiamo facendo questa assurda scenetta per Shannon, ma posso capire il dramma di Jared: il primo capello bianco è la porta al primo pannolone, al primo dente caduto, alle prime rughe intono agli occhi… rabbrividisco. Povera piccola diva. «È la verità, vero?», chiede lui, un tono che si contiene ma che ha tutto del lamentoso.

«Che cosa?», domanda Francis cauta.

«Ho i capelli bianchi».

«Shannon ha detto che ne avevi solo uno, non facciamo di tutta l’erba un fascio», dico io.

Errore. Mi fissa, gli occhi più o meno iniettati di sangue. «È Shannon che vi ha mandato qui? Dite pure a quel nano malefico che io con lui non ci parlo».

Sbuffo, spazientita. «Siete due bambini. Tieni, queste sono ciambelle per te, mangiale, ingrassa come tutti i comuni mortali e poi esci da quella maledetta stanza. Quando ti sarai deciso a fare l’uomo – ebbene sì, Jared, hai quarantadue anni, ti avvicini ai quarantatre, è una cosa normale, è una cosa che si chiama vita – noi saremmo giù in cucina ad aspettarti con un sorriso rassicurandoti che sei ancora un figo da paura, anche se un capello bianco ha osato spuntarti in testa», dico tutto d’un fiato, concludendo la scenetta ficcandogli la scatola di ciambelle in mano e voltandomi per scendere le scale.

«Aspettate!», esclama, costringendoci a voltarci. «Quindi pensate ancora che io sia molto bello?», domanda lui.

Alzo gli occhi al cielo. Da quando ha bisogno di una dose di autostima? «Bellissimo», confermo.

«Anche se sto invecchiando e potrei avere i capelli bianchi molto presto», appare dubbioso.

«Esistono le tinte per capelli. Guarda Deborah, ce li ha fucsia, io ce li ho rossi, Francis biondo platino. Siamo tutte tinte, puoi farle anche tu, in caso ti servisse», lo rassicura Rain.

«Jared», dice Francis, faccendoni voltare tutti dalla sua parte. «Lo so che questo è un duro colpo per te – dopo aver interpretato Rayon poi, sei diventato una specie di checca isterica, devi ammetterlo, quella donna ti ha un po’ divorato il cervello, in senso buono, io la amo – ma se ti rassicura, e parlo a nome di loro due», indica me e Rain, «e di tutte le echelon del mondo, ho ancora voglia di scoparti sopra ogni superficie piana e non di questa casa».

Jared sfoggia un sorriso luminoso. «Ogni superficie?».

«Ogni superficie», rispondiamo in coro.

Lui scoppia in una risata cristallina e comincia a scartare le ciambelle, per poi bloccarsi quando sente la voce di Shannon dire: «Quindi sono perdonato?»

Lo fissa per qualche istante e poi mette su un sorrisino. «Tu sei più vecchio di me».

«Quale scoperta».

«Quindi i capelli bianchi ce li avrai presto anche tu e io sarò così gentile da fartelo notare ogni giorno fino a che non te li strapperai uno a uno», dice, il tono che sembra una minaccia.

Shannon alza le mani in segno di resa. «Come vuoi fratello. Ora dammi una ciambella».

«Deborah ha detto che sono per me».

«Sii generoso».

«Sono una egoista bastardo, ricordi?»

«Una sola, quella più piccola e con meno glassa», dice Shannon, il tono lamentoso e il labbro inferiore che quasi sporge.

Non ce la posso fare, davvero. Guardo Rain e Francis e le trovo allibite quanto me. «Cari miei, voi avete qualche serio problema. In questo momento provo molta pena per Tomo, colui che si merita quelle ciambelle per riuscire a sopportarvi tutti i santi giorni», dice la bionda, strappando la scatola con i dolciumi dalle mani di Jared e correndo giù dalle scale a suon di «Tomo, Tomo dove sei?»

«Le mie ciambelle», esala Jared, le braccia ancora in avanti, il peso del furto appena subito stampato in faccia. Si volta verso il fratello, la cui espressione è specchio della sua.

«Vi ha appena risparmiato di diventare grassi, oltre che vecchio, dovreste esserne felici», ridacchia Rain dandogli dei colpetti sulla spalla. Rido anche io e scendo le scale per addentare una meritata parte di paradiso con la glassa al cioccolato sopra, ma, quando siamo a metà della prima rampa, capiamo che dobbiamo darcela a gambe prima di essere uccise, perché sentiamo urlare «Io non sono vecchio!» e rabbrividisco, perché ad urlarlo non è stato solo Jared, ma anche Shannon.

Vedo Tomo davanti a me, la focaccina sospesa a mezz’aria e il terrore in volto. «Avete appena creato un arma di distruzione di massa, due fratelli uniti nello stesso fronte».

«To the left, to the right…», canticchia con la voce malferma Francis.

Tomo annuisce. «This is war. E ora come ora non so chi ne uscirà vivo».

 

 

 

Non ho mai scritto una cosa più demenziale di questa in vita mia, me per qualche strana ragione la pazzia e la ilarità si sono prese possesso di me da sabato mattino. Sospetto a causa delle due verifiche di matematica che dovrò affrontare la settimana prossima e la simulazione di terza prova che incombe su di me in meno di un mese. E poi, sul serio, quanti premi sta vincendo Jared? Io non sapevo nemmeno esistessero tutti quei premi prima che lui li vincesse tutti. Sto passando le notte sveglie per guardarmi in streaming red carpet di tutti i tipi, e ho più occhiaie io di un morto, ma ne vale la pena.

Ah, ho voluto inserire Rayon in questo capitolo perché, come spero abbiate capito, la storia è ambientata nel futuro, nell’estate 2014, più o meno ad agosto. Probabilmente non si saranno ancora fermati con il tour, ma quando ho iniziato a scrivere questa storia pensavo l’avessero finito da un pezzo, e invece continuano a inserire nuove date. Essendo che Dallas Buyers Club è già uscito – dieci esatti giorni da oggi e lo vedrò al cinema, non sto più nella pelle – mi sembrava carino inserirlo nel capitolo per sostenere la mia tesi che Jared non è altro che una diva. Non che in realtà ce ne sia bisogno.

Detto questo, grazie a tutte quelle che leggono, recensiscono, preferiscono, mi mandano messaggi eccetera, siete adorabili. Un abbraccio, Deb.

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Capitolo 13
*** Capitolo tredici. ***


«Oscar Wilde, di nuovo?». Alzo la testa dal libro e annuisco a Francis. Abbiamo perso il conto del numero di volte che ho letto Il Ritratto di Dorian Gray e le varie commedie teatrali di Wilde. E sì, so citare buona parte dei suoi aforismi a memoria. Non è ancora stato scientificamente spiegato il motivo, ho solo un amore incondizionato per quell’uomo e non credo ci sia nulla che potrà mai farmi cambiare idea. «Qualche nuova scoperta?»

«Direi di no: la parte in cui parla delle pietre è noiosa come sempre». Francis annuisce e torna a mangiucchiare la matita che sta usando per sottolineare le pagine di un grosso libro di anatomia. Cerco con lo sguardo Rain e la trovo intenta a disegnare qualcosa impugnando la matita talmente forte che potrebbe spezzarsi da un momento all’altro. Poso il libro e la raggiungo, senza che lei si accorga di nulla visto che sta ascoltando della musica con le cuffiette, mettendomi alle sue spalle: sta copiando un’immagine dei Shannon, Tomo e Jared, e lo sta facendo un modo assolutamente splendido. Le picchietto una spalla e quando si volta alzo il pollice in segno di approvazione e lei sorride togliendosi le cuffie. «Fa parte di un progetto che mi è venuto in mente, ma ve lo spiego dopo, altrimenti perdo l’ispirazione».

Confusa e curiosa come non mai, me ne ritorno al mio libro con tutta l’intenzione di finirlo. Qualche istante dopo – che si rivelano essere due ore – sento qualcosa vibrare vicino a me. Scocciata mi sposto un po’ sulla poltrona, come se quello potesse scacciare l’odiosa sensazione. Non se ne va, ovviamente. Sbuffo e solo in quel momento mi accorgo che è il mio telefono. Mi fiondo a rispondere senza nemmeno guardare chi stia chiamando per paura di mancare la chiamata. «Hi. Umh, pronto?»

«Che è, ti sei dimenticata l’italiano adesso?»

«Ma chi parla?»

Silenzio. «Potrei essermi offesa, non riconosci nemmeno la mia voce. Sono Elisa».

«Teeeesoro», esclamo, «scusa, scusa scusa, stavo leggendo e sai che non capisco più una ciospa quando leggo».

«Certo, certo. Allora, novità? Cosa farete oggi, andrete a conoscere mamma Constance?»

«Elisa…»

«Elisa un corno! Spunto robaccia verde, meglio conosciuta come invidia, da giorni. E voi, maledettissime che non siete altro, non mi raccontate mai nulla».

«Sai com’è, una chiamata in Italia costa un occhio della testa. A proposito, ma tu da che numero stai chiamando?». Stacco il telefono dall’orecchio ma appare solo una fila di numeri a me sconosciuti. Colgo l’occasione e metto in vivavoce, facendo segno alle altre di avvicinarsi.

«Quello del lavoro. Ma che cos’è questo casino?»

«Sei in vivavoce. E Rain si stava ammazzando su una delle mie scarpe. Ops».

«Ops sto par di palle», risponde lei fulminandomi con lo sguardo.

«Pace e amore, per favore», dice Francis. «Ciao Eli».

«Francis, luce dei miei occhi, amore della mia vita, sbaglio o dovevi raccontarmi qualcosa riguardo a un certo massaggio fatto a Shannon?»

Corruccio la fronte e volto lo sguardo in direzione di Francis. «Che massaggio?»

«Sì, quale massaggio?», rimarca Rain.

La faccia di Francis diventa di un indefinito colore rosso e improvvisamente sembra essere seduta su un letto di spine. «Ma niente, quando l’ho accompagnato a fare quegli esami, gli è preso una specie di crampo ad una gamba, per cui mi sono cimentata in uno di quei massaggi che mi hanno insegnato al corso di pronto soccorso. Niente di che».

«È perché sei arrossita?», chiede Rain.

«Sei arrossita?», domanda a sua volta la voce di Elisa dalla cornetta.

«Non sono arrossita! È solo questo maledetto caldo».

Sbuffo. «Sei arrossita».

«Smettetela. Hai finito i preparativi per la festa, Elisa?», domanda Francis per sviare il nostro attacco.

«Sì, ma voi non ci sarete», dice lei con un tono che mi fa sentire in colpa. Il caso – beh, non proprio il caso, dato che non avremmo già dovuto essere rientrate in Italia – ha voluto che abbia fissato la festa dei suoi diciannove anni circa una settimana prima del nostro ritorno.

«Sai che ci dispiace. Ti porteremo un sacco di regali», dice Rain.

«Ma a me basta che vi ficcate Shannon in valigia, come regalo è più che sufficiente».

«Non possiamo prometterti niente, ma faremo del nostro meglio», ridacchio.

«Sarà il caso, altrimenti me la lego al dito». C’è un momento di silenzio e poi sentiamo un suo sospiro. «Ma siete sicure sicure che non tornerete per il tredici ovvero tra quattro giorni? No, perché se non è vero e me lo state dicendo solo per farmi una sorpresa allora potete anche dirmelo. Farò finta di non averlo saputo. Farò la faccia stupita».

Guardo le altre e so che la loro espressione è specchio della mia. «No piccola, non ci saremo davvero. Abbiamo l’aereo già prenotato per il venti di agosto e prima non riusciamo a spostarlo», dice Francis in un tono che racchiude tutta la nostra tristezza.

Elisa rimane in silenzio per qualche secondo. «Va bene. Allora io aspetto Shannon eh».

Ridacchiamo con ancora però un peso sullo stomaco. «Tanto è nano, in valigia ci sta», scherza Rain.

«Pesa un po’ troppo per poterlo spedire come bagalio in stiva», ragiono.

«Troveremo un modo», conclude Francis, pragmatica come sempre.

«Ora devo andare, mi aspettano un mucchio di scartoffie inutili. Sappiate che se non mi chiamate voi la prossima volta io non vi parlo più. Lo giuro sulla mia chitarra».

«È una cosa seria, allora!», esclamo. Da quando abbiamo conosciuto Elisa in un gruppo di echelon su internet, scoperto che viveva in una città vicina alla nostra, è sempre stato chiaro che la sua chitarra, la sua musica, i testi delle sue canzoni e i suoi sogni legati a tutto ciò che riesce a produrre strimpellando delle corde di ferro, erano la cosa più importante per lei. All’inizio non ci credeva. In se stessa, nel suo sogno e nelle possibilità che questo un giorno avrebbe potuto realizzarsi. Una piccola parte di lei probabilmente non ci crede ancora adesso, come succede sempre a tutti. Era successo comunque, come succede alla maggior parte degli echelon, che un giorno lei avesse capito che vale sempre la pena lottare per ciò che ci fa stare bene. Glielo aveva suggerito una vecchia frase pronunciata da Shannon nella quale parlava di quel suo periodo nero, o quel video nel quale Tomo diceva che stava quasi per abbandonare la musica, fino a quando non è stato scelto, ed è stata la cosa migliore della sua vita. Ecco, io sono convinta che la cosa migliore della vita di Elisa sia la sua bellissima voce, il modo in cui il suo timbro accompagna alla perfezione le parole che ha buttato giù di suo pugno, su cui ci è stata pomeriggi interi. So che un giorno smetterà di sistemare documenti in quell’ufficio e verrà scelta anche lei. È per questo motivo che prendo le sue parole sul serio: se ci dimenticassimo di lei nel momento in cui noi stiamo vivendo il sogno che avrebbe voluto vivere anche lei, ne rimarrebbe molto ferita. «Mi metto un post-it sulla fronte. Anzi, lo metto su quella di Francis così ce l’ho sempre davanti e non me ne dimentico».

«Perché la mia fronte e non quella di Rain?»

«La tua è più spaziosa». Mi guarda in cagnesco e il alzo le spalle, accennando un sorriso.

«Parola di lupetto?», chiede Elisa.

«Parola di echelon», ribattiamo tutte e tre contemporaneamente. Dopo averla salutata con calore la salutiamo e chiudiamo la chiamata.

«Dobbiamo organizzare qualcosa», dice Francis.

«Sì», risponde Rain, «ma cosa?»

«Credo di avere un’idea, ma abbiamo bisogno di tre personcine a caso. Usciamo a prendere delle ciambelle?».

Alla mia affermazione un sorriso affiora sui volti delle mie amiche. «Ormai abbiamo scoperto il modo per corromperli, tanto vale approfittarne».

 

 

 

***

Quattro giorni dopo, tredici agosto, giorno del diciannovesimo compleanno di Elisa.

 

«Siete pronti?», chiede Rain.

«È  la millesima volta che ce lo chiedi. Non sarai mica una di quelle che se le cose non vanno come vuole lei allora succede l’apocalisse come Emma, vero?», dice Shannon, il tono una via di mezzo tra un lamento e  una supplica.

«Sono una di quelle che ci tiene molto a che i piani vengano rispettati. Non mi piacciono le brutte sorprese».

Shannon alza gli occhi al cielo. «Signore aiutaci tu».

Mi avvicino e gli metto una mano sul braccio per richiamare la sua attenzione. «Io non mi metterei contro di lei in questi momenti. Se davvero qualcosa andrà storto lei vi ucciderà. E no, “ma io sono Shannon Leto” non ti salverà questa volta, caro mio», dico a bassa voce in modo che Rain non possa sentirmi.

«Siamo pronti», dice Tomo. «Quando la video chiamata partirà noi dobbiamo parlare con la vostra amica e farle tanti auguri. Tutto questo perché non potrete essere presenti alla sua festa. A questo punto, nelle indicazioni che ci hai lasciato», e con un dito punta Rain, «c’era un NB molto grande che diceva che questa Elisa è follemente e nemmeno tanto segretamente innamorata di Shannon».

«E quindi tu, Shannon Leto, che cosa devi fare?»aQuan

, chiede Francis.

«Devo, punto uno, togliermi gli occhiali da sole, ma non subito, perché è risaputo che gli occhiali piacciono molto alle echelon perché mi rendono più misterioso e affascinante, e punto due farle dei calorosi auguri dispensandole sorrisi e faccini dolci ogni due per tre».

«Te lo sei imparato a memoria?», domando.

«Questa cosa che se i piani non vanno come devono andare Rain mi  farà a pezzettini non mi piace per niente, per cui sì, mi sono imparato a memoria tutto».

Gli do due pacchette sul braccio. «L’istinto di sopravvivenza è proprio una bella cosa».

«Jared?», chiede Rain.

Lui alza la testa dal suo Black berry e ci guarda spaesato. «Non era specificato che cosa devo fare perché sono un attore e posso benissimo improvvisare. Parole tue, Rain».

«E cosa improvviserai?», domanda lei smaniosa di sapere.

«Se è un improvvisazione non è programmata. Non so che cosa dirò alla vostra amica».

Sento i denti della mia amica digrignare. «Va bene, Jared, ma per favore, ti supplico, non fare la diva mestruata».

«La che?»

«Niente», dice Francis. «Siate solo voi stessi e Elisa avrà il miglior regalo di compleanno di sempre, okay?»

Rispondono con un ‘kay biascicato tutti e tre. «Shannon, tu starai vicino a me mentre farò partire la videochiamata dato che sei il vecchietto infermo della situazione», gli dico sedendomi accanto a lui nelle gradinate vicino alla pista da pattinaggio. La mia splendida idea è stata ricreare uno dei compleanni di Jared, dato che lui sembrava aver apprezzato molto, e sono quasi certa lo farà anche Elisa. Abbiamo quindi proposto ai ragazzi di trascorrere con noi la giornata in un pista da pattinaggio – non sul ghiaccio, nemmeno qui a Los Angeles ricreano delle piste ghiacciate interne nel pieno di agosto, immagino sarebbe troppo costoso – e con grande sorpresa hanno accettato dicendo “un po’ di allenamento ci farebbe proprio bene”. Shannon e il suo ginocchio si sono rifiutati di indossare quegli oggetti infernali conosciuti anche come pattini, e devo dire che nemmeno io smanio dalla voglia di imprigionare i miei piedi in quei cosi, per cui sto mantenendo un profilo basso sperando che le altre non si accorgano dei miei piani. Non sono mai stata una persona stabile nemmeno con addosso delle Converse, figuriamoci con delle rotelle sotto la pianta del piede. Rabbrividisco. No, pattinerò solo se portata di peso sulla pista. E con una pistola puntata alla testa. «You ready Shannimal?». Lui mi guarda storto e poi annuisce alzando gli occhi al cielo. «Voi», dico in tono più alto in modo che mi possano sentire dal centro della pista, «tutto okay?». Quattro pollici si alzano in segno affermativo e io premo il tasto verde sullo schermo per far partire la chiamata.

Quando vedo la faccia di Elisa comparire sullo schermo del telefono, mi apro in un grande sorriso. «Allora, vecchietta, rughe nuove? Sono più o meno sicura tu ne abbia, ma sai, con questa connessione non si vede tanto bene. Hai la faccia a quadratini».

«Oh, ciao anche a te Deborah, e grazie per gli auguri! Simpatica come una pigna nel culo come al solito. Le altre?»

«Sono uscite un po’ di tempo fa e non sono ancora rientrate».

«Uh».

«Senti, so che sei molto triste che non siamo lì con te, ma…» il telefono mi viene strappato via dalle mani.

«Hi Elisa, I’m Shannon, how are you? Mi hanno detto che oggi è il tuo compleanno, per cui tanti auguri». Allarme rosso: Shannon non sta rispettando i piani. Lo guardo interrogativa e lui alza le spalle, per poi continuare a parlare allo schermo. «Deborah ci stava mettendo troppo tempo. Immagino che ti abbiamo detto quanto gli dispiaccia migliaia di volte, Shannon che ti fa gli auguri capita solo una volta nella vita».

«Oh porca troia». Sono le esatte parole che passano attraverso i fili telefonici di tutto il mondo dopo alcuno secondi di totale mutismo da parte sua. La faccia di Elisa sembra improvvisamente di marmo. Ha avvicinato gli occhi allo schermo del telefono, presuppongo per accertarsi che quello che ha davanti sia davvero Shannon Leto.  Al secondo «cazzo» immagino si sia convinta che lo sia.

«What?», chiede Shannon, un sorrisino sulle labbra: sono sempre stata convinta che le imprecazioni siano internazionali. Forse non sai tradurle nella tua lingua, ma sai che quella è una parolaccia, lo sai e basta.

«Nothing. Omg, Shannon thank you!»

«Oh», si passa una mano fra i capelli di nuovo lunghi, «you’re welcome. So you’re nineteen now».

«Nineteen and looking for a man. Will you marry me?».

Shannon scoppia a ridere. «Maybe one day», e gli fa l’occhiolino. Non posso vedere bene l’espressione della mia amica, ma sembra quasi stia per soffocare.

Mi avvicino a Shannon per apparire nell’inquadratura. «Va bene anche se non l’abbiamo impachettato e spedito in valigia? È un rottame, si sarebbe sicuramente distrutto».

«Va benissimo», ridacchia Elisa. 

«Com’è il respiro, infarti in corso o puoi resistere ancora? Perché ci sarebbe un’altra sorpresina, se non sei troppo su di giri a causa dello scimmione…».

«Su di giri io? Ma che dici. Io amo le sorprese. Dimmi l’altra sorpresa».

«Okaaaaay». Volto il telefono e Tomo, Jared, Rain e Francis cominciano a pattinare verso me e Shannon cantando Happy birthday a squarciagola. Sento Elisa battere le mani e ridere come una pazza dall’altro capo del telefono. Una volta arrivati davanti a me cominciano uno alla volta a salutarla e farle gli auguri ognuno a modo proprio.

«Grazie grazie grazie, è il più bel regalo di sempre ragazze», dice lei, la felicità fatta persona. Parliamo con lei ancora qualche minuto ed è come se lei fosse li con noi, la sentiamo molto vicina e capiamo che la nostra sorpresa ha davvero funzionato. Quando termina la chiamata, con la promessa di vederci appena saremo tornate a casa, mentre appoggio il telefono sulla superficie affianco a me, sento qualcosa che mi picchietta la spalla. Alzo gli occhi ed è Jared con dei pattini in mano. Scuoto la testa. «Su quei cosi non ci salgo nemmeno se mi punti una pistola alla tempia e poi decidi che è una morte troppo veloce e cominci a torturarmi».

Sorride e mi porge la mano. «Non sali su quei cosi nemmeno se io ti tengo fino a che non impari bene come si fa? Giuro che non ti faccio cadere, sono molto bravo».

Nessun trasporto di peso sulla pista e nessuna pistola alla tempia: faccio un grosso sospiro e allungo il braccio per acciuffare gli oggetti infernali e, una volta infilati, alzo lo sguardo incrociando quelli di Jared. «E adesso?»

«E adesso alzi il culo da quella panchina».

«Facile come bere del caffè, mi dicono».

«Deborah».

«Sì, sì, è il mio nome, quale sorpresa!». Non so come, opto per qualche miracolo del cielo, riesco ad alzarmi e a non cadere rovinosamente al primo passo.

«Non fissarti i piedi, guarda me», dice lui, un sorriso di incoraggiamento sulla faccia. Scoppio a ridere fragorosamente. Forse non lo sa, ma la mia stabilità, se lui mi è vicino, è ancora più in pericolo. Figuriamoci se devo guardarlo dritto in volto. «Perché ridi?»

«Niente, niente. Quindi, cammino?»

Si posiziona davanti a me e mi porge entrambe le mani, che prontamente stringo con le mie. «Cammina. Al massimo mi curerò personalmente di raccogliere i tuoi brandelli dall’asfalto con un cucchiaio».

 

 

 

 

So che sono in tremendo ritardo, e vi chiedo scusa, ma sono stata travolta da un turbinio di cose. In ogni caso dedico questo capitolo ad Elisa, la mia nuova sister, da cui ho preso ispirazione per parlare del nuovo personaggio. Sono davvero contenta di averti conosciuta e so, anche se tu non lo sai o non ci credi, che ce la farai con la tua musica. Ne sono sicura.
Una ciambella di dunkin donuts (sono appena tornata da Berlino e il mio organismo ne è assuefatto, ma che ci volete fare, la mint donut è troppo buona, irresistibile), Deb.

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Capitolo 14
*** Capitolo quattordici. ***


«Io mi fido di voi, ragazze, ma tutta questa situazione mi sta spaventando, e non poco», dice Tomo.

«Non devo ricordarvi che sono ancora convalescente, giusto?», aggiunge Shannon.

Sbuffo. «Ma volete tacere? Non vi stiamo portando al patibolo, se la cosa vi può rassicurare», dico calcando un pochino la mano sulla schiena di Jared per guidarlo mentre cammina. Non vorrei mai che, bendato com’è, cadesse di faccia e si rovinasse il suo bel nasino. Anche perché probabilmente dovrei cambiare identità, dato che i soldi per pagare gli avvocati non li avrei. Rabbrividisco. «È una cosa che vi piacerà», aggiungo.

L’idea ce l’ha avuta Rain qualche giorno fa. Con l’aiuto di Emma siamo riuscite ad entrare in una delle stanze del The Hive inutilizzata (trovandoci al suo interno pile stipate di volantini, corde di chitarre abbandonate per terra, pantofole di colori improbabili, montagne di polvere e fogli con note musicali a me incomprensibili) e dopo averla sistemata e pulita da cima a fondo, l’abbiamo addobbata a modo nostro. Abbiamo deciso che non vogliamo che si dimentichino di noi.

«Ecco, ci siamo quasi», dice Francis aprendo la porta con una mano e spingendo Shannon in avanti con l’altra.

«Vernice fresca», borbotta Jared, «c’è odore da vernice fresca qua dentro».

«Io direi di pulito», ribatte Shannon.

«È vernice fresca, fidati di me. Io ne so di queste cose».

«Disse l’artista», borbotto fra me e me.

«Hai detto qualcosa, Deb?», domanda Jared.

Tossicchio. «Siete pronti?»

«Of couuurse», rispondono insieme.

Togliamo le bende alle nostre vittime e attendiamo in silenzio le loro reazioni. In un primo momento vedo la confusione dipingersi nei loro volti, poi la curiosità prevale, e tutti e tre si avvicinano ai muri della stanza. Non riesco a non farmi scappare un sorriso.

«Allora, vi piace?», chiede Rain.

Tomo si volta verso di noi. «Come avete fatto a racimolare tutte queste cose?»

«Da quant’è che stata a lavorando in segreto a questo progetto?», ci domanda invece Jared.

«È fantastico. Davvero fantastico», è tutto quello che dice Shannon.

«Quando siamo partite per Los Angeles», comincia Francis, «i nostri amici ci hanno chiesto di consegnarvi tutte le lettere e i disegni che vedete attaccate a queste pareti, se per caso un giorno saremmo davvero riuscite ad incontrarvi».

«Si erano aperte scommesse al riguardo. Non serve precisare il fatto che tutti tranne due avevano scommesso non vi avremmo visto nemmeno con il binocolo su un giornale di gossip, vero?»

«Ma sono tantissime», dice Jared.

«Abbiamo molti amici echelon», acconsento.

I tre si guardano per alcuni minuti intorno. Leggono, toccano disegni fatti a matita con le dita, sporcandosele, annusano, scrutano, percepiscono i sogni, l’amore, la speranza che tutti gli echelon che abbiamo conosciuto ci hanno affidato. Perché sì, noi siamo le loro portavoce, ma ora essi sono qui con noi, in questa stanza, e intorno a me vedo le facce di tutti i miei amici, delle persone con cui per mesi mi sono sentita per messaggio, magari dopo aver passato con loro ore in fila ad aspettare un concerto, al caldo, con i raggi del sole che ci battevano sulle teste e ci facevano cantare, anche se eravamo stonati, anche se magari le parole delle canzoni non le sapevamo proprio tutte, o bene, perché eravamo felici, di essere lì, di poter affermare che sì, quella era veramente una delle più belle giornate di tutto l’anno e chissà, magari anche di tutta una vita; posso sentire le loro voci, vedere i loro sorrisi, perché tre tra le persone più importanti della loro vita ora sanno che esistono, i loro tre eroi. Quelle tre persone che ogni giorni sono lì, con la loro musica, dentro alla loro testa, a ricordare loro che va bene lottare per un sogno, che è giusto provare e anche fallire, che va bene cadere ogni tanto, ma che bisogna poi rialzarsi, rimboccarsi le maniche, lavorare per arrivare in cima, e una volta arrivati, cercare un’altra vetta da scalare, perché la vita un secondo ti da tutto, e quello dopo è capace a togliertelo.

«E questa bandiera? Non riesco bene a capire che cosa c’è scritto», dice Tomo.

Mi avvicino a lui. «C’è scritto spritz».

«Cosa sarebbe, se posso chiedertelo?»

«È una bevanda tipica di una regione d’Italia, quella da cui tutte noi tre proveniamo. Diciamo che il sogno del nostro gruppo, della nostra division-non-ufficiale, è quello di presentarci ad un vostro meet and greet e di farvi ubriacare».

«Cosa?», chiede Jared con un tono sconvolto.

«Sto scherzando, capretta. Lo so che l’unica cosa che tu apprezzi è l’erbetta fresca».

«Sempre gentile, Deborah».

Sorrido. «Lo so».

Shannon si avvicina e ci guarda negli occhi una ad una. «Loro sanno del mio ginocchio, questi vostri amici?»

«Dovevamo dirglielo», dice Francis guardandosi i piedi. Shannon continua a fissarci, e non riesco a capire che cosa voglia dirci con il suo sguardo. «Però, aspetta, non arrabbiarti, prima ascolta questo». Estrae il telefono dalla tasca, pigia lo schermo e poi lo da in mano a Shan. «Clicca play quando sei pronto».

Un ultimo sguardo, un sospiro e poi fa partire la registrazione. Quello che esce è un coro di voci che canta City of Angels. Riconosco la voce di Gloria, Ilaria, Ludovica. Sento Arianna sbagliare qualche parola, perché si sa che a lei non piace l’inglese, e l’altra Arianna, invece, me la immagino cantare il quel sorriso che mi fa sempre tenerezza. Sento Sara, Riccardo, Alessia, Emma, Marta, sento Camilla e Ludovico ridere, sento Linda e Melissa sussurrare le parole, perché dicono sempre che sono stonate. Sento quelle persone che non vedo più da qualche mese, sento la loro mancanza, ma soprattutto sento che tutta quella forza che stanno facendo uscire dalle loro corde vocali è per Shannon, per il loro batterista preferito, che ha bisogno di loro anche se forse non lo sa.

Istintivamente comincio a canticchiare anche io, a voce bassa, e guardo Shannon, che ho la fortuna di avere davanti a me. Con un ginocchio dolorante, questo è vero, ma sta bene, ed è pronto a continuare a vivere il suo sogno, anche grazie a me, anche grazie a tutti noi. Quello di cui non mi accorgo subito è che i suoi occhi sono diventati lucidi, come se fosse sul punto di piangere. Prendo un sospiro e alzo la voce, cantando più forte, e anche Francis e Rain lo fanno. Cantiamo per lui, perché lui ci ha salvato tante volte e ora vogliamo salvarlo noi. Quando la canzoni finisce mi ritrovo a trattenere il fiato per alcuni secondi.

«È per me?», chiede lui.

Annuiamo. «È per te. Siamo una famiglia, no?», dice Rain.

«Non credo ci dimenticheremo facilmente di voi tre piccole rompiscatole», risponde lui, la voce che tradisce belle emozioni.

«Lo credo anche io», concorda Tomo. «E poi siete le uniche che comprendono il nostro amore per le ciambelle, sono sicuro che Emma non ce le porterà mai neanche se gliele chiediamo in ginocchio».

Scoppio a ridere. Non lo dico, ma anche io non mi dimenticherò presto di loro. Anzi, sono sicura che loro continueranno ad esserci nella mia vita per molto, molto tempo, perché senza di loro non sarei dove sono adesso, probabilmente non sarei nemmeno la stessa persona.

 

***

 

«Quindi ve ne andate davvero», sussurra Tomo.

Siamo seduti su delle sedie parecchio scomode all’interno dell’immenso aeroporto di Los Angeles, ad aspettare che negli schermi appaia il numero del terminal del nostro volo che ci riporterà in Italia. Gioco con un elastico per capelli che ho al polso, incapace di rispondere. Credo che chiunque vedendomi ora potrebbe scorgere la mia tristezza. Annuisco. «Già, pensavi fosse uno scherzo?»

«Vi avrei anche perdonato per avermi fatto svegliare alle sette di mattina», aggiunge lui, il tono lamentoso.

«Quale sacrificio», ridacchia Rain.

Shannon e Jared non hanno potuto accompagnarci in quanto dovevano essere presenti ad un importante meeting con la casa discografica, al quale Tomo poteva assentarsi non essendo un membro fondatore della band. Gli avevamo salutati – con gli occhi decisamente lucidi, per quanto mi riguarda – la sera precedente, dopo avere bevuto un vegan frappè a casa di Leto Junior. Vegan frappè da lui preparato. Avevamo scoperto con immenso stupore che almeno il frullatore lo sapeva utilizzare nel modo giusto. Fin che stava lontano dai fornelli, a quanto pare, andava tutto bene.

Mi ritrovo a pensare a quanto io sia stata fortunata nell’ultimo mese: ho ascoltato Alibi a pochi passi dalle chitarre che emettevano quella melodia che da anni mi cullava a letto quando qualcosa nella mia vita non andava come speravo, ho detto a Jared, Shannon e Tomo un numero spropositato di volte grazie, una parola che per me ha un grande valore, un grazie che racchiude tutto quello che loro mi hanno fatto superare, anche solo attraverso i fili delle cuffiette, i fili del computer, i fili elettrici delle casse che a pochi metri da me, quella prima volta che li avevo visti in concerto, mi avevano fatto ritrovare di nuovo me stessa.

Fili invisibili che in questo momento sento uscirmi dal petto, dalle punta delle dita, dalle labbra, da qualsiasi parte del mio corpo e collegarsi alle mie amiche, che come me cercano di non pensare al loro futuro, perché fa paura, perché non lo conosciamo e vogliamo vivercelo ma abbiamo paura di non riuscire a farlo nel modo giusto; collegarsi a Tomo, che ci guarda come se fossimo anche noi uno di quei gatti randagi che trova per strada e porta a casa, per volergli bene, sfamargli, giocare con loro, farli vivere. E infine sento che questi fili invisibili che mi escono dalle membra si legano a tutto ciò che mi circonda: alla coppia di anziani davanti a me, che con gli occhiali posati sul naso, leggono lo stesso libro, aspettandosi a vicenda per girare le pagine; a quella bambina dentro il passeggino che sorride alla propria giovane mamma ogni qual volta lei abbassa la testa per ammirarla, mettendola di buon umore; a quel ragazzo con un cappello calato sulla fronte, che ora mi sembra arrabbiato, forse con il padre, la ragazza, l’insegnante di scienze o il mondo intero, come è normale quando si ha la sua età. Come è normale anche quando si ha la mia età.

«I’m seventeen and looking for a fight…», sussurro.

«Cosa?», mi chiede Francis, seduta affianco a me.

Scuoto la testa. «Niente», le dico, e invece vorrei dirle che anche io, come quel ragazzo che ora si morde le unghie delle mani, strappandole come se con esse anche la rabbia potesse andare via, che anche io, come quel giovane Shannon logorato dalla droga che si era rifugiato nell’aiuto del fratello perché non voleva più soffrire, che anche io, come Jared quando aveva diciassette anni, mi sento confusa, arrabbiata, stanca di un mondo che spesso non mi da quello che voglio, desidero, sogno, ma allo stesso tempo vorrei dirle che sono così che contenta di essere qui, in questo esatto momento, a guardare le persone partire per mete lontane, per una nuova vita, per una nuova vacanze, per creare delle nuove parti di se stessi.

«Deborah?», mi volto verso Tomo e gli sorrido per incoraggiarlo a continuare la frase. «Chi è l’assassino, alla fine del libro?»

Alzo gli occhi al cielo. «Me l’hai chiesto mille volte, Tomislav. Che è, stai diventando sordo, forse?»

«Forse, dato che non ho mai sentito arrivare la tua risposta».

Mi stringo nelle spalle. «Non te lo dico».

«E come faccio a scoprirlo?»

«Quando lo leggerai, lo scoprirai».

«Ma è in italiano!», sbotta lui, un sorriso che però lo tradisce.

Ridacchio. «Lo sappiamo tutti che tu e google traduttore siete grandi amici».

«Ciao miei compagni pasta sgranocchiando pazzo popolo italiano!», esclama Francis, piegata in due dalle risate ricordando uno dei più celebri tweet del chitarrista.

«Fateci mangiare pasta insieme!», continua Rain, sotto lo sguardo altezzoso di Tomo.

«Volete spiegarmi, per favore, per quale motivo mi state apertamente prendendo in giro?»

«Chi sta prendendo in giro chi?», dice una voce alle nostre spalle che riconosco immediatamente come quella di Shannon. Quando mi volto, infatti, lui e Jared sono in piedi a guardarci curiosi, i sorrisi nascosti dalle lunghe barbe che ormai, temo, si siano impossessate dei loro volti. Vedendo i nostri sguardi inquisitori, alza le spalle. «Abbiamo finito in tempo e abbiamo pensato di fare un salto sperando non vi foste già imbarcate».

«How cute», esclamo. Quello che i sei occhi che mi fissano straniti per la mia uscita non sanno è che quell’affermazione pensavo di averla solo pensata. «Intendo, carino da parte vostra. Insomma, qua potrebbero riconoscervi tutti e …», comincio a gesticolare e ad impapinarmi in preda al nervosismo.

«Abbiamo capito», dice Jared e gli altri annuiscono. Alzo il pollice e sfodero un sorriso da “datemi una buca per sotterrarmi in questo mare di cemento” e faccio ridere tutti. «Chi prende in giro chi?», domanda lui evidentemente togliendomi dall’imbarazzo. «E per la cronaca», continua guardandomi dritta negli occhi, «a noi non interessa quando, dove e con chi ci vedono i paparazzi. È la nostra vita e non possiamo viverla barricati nel MarsLab, anche se è quello che principalmente facciamo quando non siamo in tour, quindi non preoccupatevi per noi».

Mi sento gli occhi brillare di lacrime e abbasso la testa per non farmi beccare. Questa situazione è troppo per il mio cuoricino romantico. Ho come l’impressione che da un momento all’altro ci lascerò le penne, a causa di tutte queste belle emozioni, accipicchia.

«Mi prendevano in giro riguardo ad un tweet che ho scritto, ma non ne capisco il motivo», riprende il filo Tomo, le braccia incrociate al petto con fare indignato.

«Hai scritto una cosa veramente senza senso secondo la grammatica italiana, che nel suo complesso fa molto, e ripeto, molto ridere. Molto».

«Molto?»

«Moltissimo».

«Quindi il mondo sa che uso google traduttore e non sono un poliglotta», afferma.

«Già», diciamo in coro. «Ma anche Leto qui non scherza», aggiunge Rain.

«Io?», dice Shannon puntandosi un dito contro.

«No, tu scrivi la stessa frase per ogni tappa del tour ormai. Però sbagli i nomi delle città, a volte, e anche quello è molto divertente», ridacchia Rain. «In ogni caso mi riferivo a Jared, che a suon di hastag bizzarri e xo ci fa sbellicare ogni volta».

«Veramente ha rotto le palle con quegli xo», borbotto io.

«E con la Francia», aggiunge Francis.

«E con le bionde», dice invece Rain.

«Avete finito?», ci chiede Jared, che come Tomo e Shannon ora ha assunto un’espressione offesa, incrociando le braccia sul torace.

«Ci sarebbero molte cose da dire ancora, ma sì, credo che abbiamo finito qui. Per il momento», sogghigna Francis.

«Ingrate», soffia Shannon ricevendo approvazione dagli altri due.

Mentre noi tre ragazze ci sbellichiamo dalle risate per la reazione dei tre “uomini” che abbiamo davanti, che in realtà assomigliano di più a gatti irritati, sentiamo annunciare che il nostro volo è stato assegnato al terminal numero 5, e che i passeggeri sono gentilmente invitati a recarsi al check-in.

«Immagino sia ora che voi ve ne andiate», dice Tomo.

«Finalmente!», esclama Shannon, con però un sorriso benevolo in faccia.

Mi sarei aspettata tutto tranne che i tre che si avvicinano a noi e ci abbracciano come un sol uomo, scompigliandoci i vestiti e i capelli. Un po’ come quando dei vecchi amici che ormai vivono in luoghi diversi, si salutano affianco ad un treno che a breve partirà, non sapendo quando si rivedranno, ma celando dentro di essi un sentimento che difficilmente può essere cancellato, nemmeno dalla distanza.

«Okay okay, basta o scoppio a piangere», dico tirando su col naso, perché qualche lacrima in realtà mi è già scesa.

«Giusto», dice Shannon, una voce roca. «Andate o ci tocca vedervi per ancora chissà quanti giorni, se perdete questo aereo».

«Sai cosa Shan? Vaffanculo», dico, e gli mando una linguaccia mentre raccolgo i miei bagagli.

Lui scoppia a ridere. «Sì, vaffanculo anche a te Deborah».

E lo so che questo è il loro modo per dirci addio, sperando che sia un arrivederci, che altro non è che un vediamoci presto, perché sappiamo che a breve sentiremo la vostra mancanza, voi che altro non siete che parte della nostra enorme famiglia chiamata Echelon.

 

 

 

 

 

 

Umh. Ora parto con la raffica di scuse, okay?

Esami di maturità che mi hanno tenuta incollata ai libri per un mese, più o meno. Per fortuna sono finiti e anche bene, un ostacolo in meno da superare.

Sul più bello che gli esami sono finiti, mi si è rotto di nuovo il computer. Qualcuno ci ha lanciato un malocchio sopra, secondo me, perché questo catorcio non smette di avere problemi.

È tornato e ho dovuto scrivere una cosa per il Campiello, perché credo di non averlo comunicato qui, ma sono *rullo di tamburi immaginario* una delle cinque finaliste del concorso Campiello Giovani. Sì, mi sento alla grande. Sì, è tutto fighissimo. Sì, sono emozionata. E sì, ho un’ansia allucinante.

Ultima ma non meno importante scusa è che la mia ispirazione era andata a farsi un viaggetto in qualche isola caraibica e non aveva più intenzione di tornare a casa.

Ma ora eccomi qui con quello che è l’ultimo capitolo. Quindi dobbiamo salutarci e io non sono brav…

No, non è vero, c’è ancora l’epilogo. Ergo a presto (spero), e (spero) che qualcuno leggerà questa schifezza e non verrà a sgozzarmi nel sonno ritenendola una non schifezza.

Bacini sul naso, Deborah.

 

 

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Capitolo 15
*** Epilogo ***


Un anno dopo

 

 

 

«Sembra morta».

«Sta solo dormendo».

«Guarda quanto è pallida».

«È sempre bianca come un lenzuolo, e di certo la luce di Londra non le fa migliorare il colorito».

«Sembra più un cadavere che un lenzuolo».

«Normale amministrazione».

Con non poca sofferenza apro un occhio, rimanendo accecata dalla luce bianchiccia che entra dalle finestre, e noto che a pochi centimetri dal mio volto due occhi scuri mi stanno fissando. «Come puoi vedere, James, non sono morta. Stavo dormendo, prima che voi mi svegliaste», dico spettinando i capelli del bambino che ancora mi guarda interessato, la voce impastata dal sonno.

«Peccato».

«Come?», chiedo alzandomi a sedere sul divano, con il cervello che si muove in maniera burrascosa all’interno della mia scatola cranica. Forse non ho più l’età per leggere fino alle sei del mattino.

«Sarebbe stato bello vedere un morto», esclama.

Alzo gli occhi al cielo. «Sappi che in questa casa non guarderai mai più la televisione, se ti fa questi effetti».

«È Rain la mia babysitter, non tu», ribatte lui.

«Sì», confermo, «ma questa è anche casa mia».

Sento James farmi il verso alle spalle, ma mi limito a camminare verso il bancone della cucina per prepararmi un caffè doppio. Decisamente devo smetterla di divorare libri al posto di dormire. Libri tristi, oltretutto. Che mi fanno piangere. E gonfiare gli occhi.

«Ti sentivo singhiozzare fino a camera mia», dice Rain appoggiata alla cucina sgranocchiando dei cracker. «Credo ti regalerò un libro di barzellette per Natale». Come non detto.

«Com’è andato l’esame? Hai letto il bigliettino che ti avevo lasciato?», svio io l’argomento.

Lei annuisce con un sorriso, estraendo il post-it che le avevo appiccicato sul frigorifero quella mattina, prima di addormentarmi accoccolata al cuscino del divano, il trucco rovinosamente colato sulle guance e l’aspetto di una donna in crisi di mezza età. Non credo di avere nessuna colpa se non quella di innamorarmi follemente e rovinosamente dei protagonisti dei libri. «Passato con il massimo».

Di slancio l’abbraccio, cogliendola di sorpresa. Non dispenso affetto tanto facilmente se non a libri, cuscini e al mio Ipod. «Sono fiera di te, avevi studiato tanto».

L’atmosfera viene rovinata completamente dall’urlo di James. «Deborah, il tuo telefono continua a vibrare».

Ipotizzando che sia mia madre, corro verso il telefono che il bambino mi sta porgendo, e rispondo senza guardare lo schermo. «Pronto?»

«Mh… are you sure is this the number, Tomo?». La voce femminile che parla dell’altra parte del telefono ha un forte accento americano, e non riesco a riconoscerla. Due cose, però, mi sono certe: non è mia mamma, e la donna ha detto Tomo. Allontano il cellulare dall’orecchio, ma ciò che appare è un numero che non è salvato in rubrica.

«Hello? Who’s there?», chiedo, gli occhi di Rain che mi guardano mentre probabilmente assumo strane espressioni facciali. Sento un grande trambusto, sembra perfino che cada qualcosa di molto vicino al microfono del telefono, e dopo alcune imprecazioni, cade il silenzio.

«Deborah?»

«Yes, I’m Deborah. The point is who are you?»

«I’m Tomo!»

«Quel Tomo?»

«Quanti Tomislav Milicevic conosci?»

«Uno, l’ultima volta che ho controllato», ridacchio. «Hai cambiato numero?»

«Ti chiamo con il telefono di Vicky, mia moglie».

«So chi è Vicky».

«Giusto».

«Giusto». Silenzio. «È successo qualcosa?», chiedo.

«Sì. Cioè, no. Voglio dire, niente di grave».

Mi corruccio. «Shannon e Jared stanno bene? Emma?»

«Stanno tutti bene. Fai avvicinare Rain al telefono».

«Chi ti dice che Rain sia con me?»

«Non vivete in simbiosi voi due?»

Alzo gli occhi al cielo e faccio avvicinare Rain che, da quel che sono riuscita a capire, è riuscita a convincere James ha mangiare uno yoghurt. Quando lei mi affianca, metto in vivavoce. «No, non viviamo in simbiosi. Ma sei fortunato, è appena rientrata».

«Hi Milicevic», saluta lei, un sorriso sulle labbra. «Sputa il rospo, qua a Londra la vita è frenetica, abbiamo da fare. Almeno io». Rain mi lancia un’occhiataccia. «Deborah non fa altro che leggere, e leggere, e scrivere e leggere».

Soffio. «È il mio lavoro». Di giorno studio per l’università, e di notte leggo libri per la casa editrice per cui lavoro. Nei momenti liberi, scrivo il mio di libro, nella speranza che un giorno qualche mio collega editor lo legga e decida di pubblicarlo.

«Pensa, ti pagano per piangere. Io chiederei un aumento, se fossi in te». Le do’ un pugnetto indispettito sulla spalla, e lei ridacchia. «Comunque dicci pure, Tomo».

«Siete libere la prossima settimana, ragazze in carriera?»

«Dipende», dice Rain.

«Da che cosa?»

«Per che cosa dovrei liberarmi?», continua lei.

«Sappiate che Francis ha detto sì», risponde lui. «Ed era assai, assai contenta».

«Parla, Tomislav», dico io.

«Beh, c’è questa cosa che vorremmo proporvi di fare… è stata un’idea di Jared».

Rain mi guarda. «Ora inizio ufficialmente ad aver paura».

 

**

 

Sono seduta sul divano rosso di casa mia, talmente stretta che faccio fatica a respirare. Mi ficco un altro pop-corn in bocca e annaspo. A fine giornata non ci arrivo viva.

«La vuoi smettere di agitarti?», chiede Rain, seduta al mio fianco, così vicina che il suo gomito è premuto contro le mie costole.

«Questo divano è un po’ troppo affollato, sai com’è».

«È il tuo modo carino per cacciarci?»

Mi volto verso la voce e stringo gli occhi. «Se alzi il tuo bellissimo sedere da quel cuscino ti lancio dietro l’enciclopedia in russo di Rain».

Shannon ride. «Questa sì che è una bella minaccia».

«Sto ampliando il mio repertorio».

«Noto».

«Felice che qualcuno apprezzi il mio lavoro».

Qualcuno tossicchia irritato. «Se non state zitti sarà il mio, di lavoro, a non essere apprezzato. Ho passato le notti in bianco davanti al computer per montare questo video». Jared Maniaco Del Controllo Leto.

Ingoio qualche altro pop-corn sperando vivamente di strozzarmi sul momento, così da non dover soffrire un secondo di più. «Tanto tu non dormi mai», bofonchio.

Una mano calda scivola nella mia. Mi volto verso Francis e le sorrido. È sempre bionda, anche se i capelli ora sono più corti e più chiari. I lineamenti del viso sono rimasti invariati, anche se giorno per giorno assomiglia sempre di più a sua madre. Rain, invece, è sempre la stessa, eterna ragazzina. Se non fosse per lo sguardo, non si direbbe che sia passato un giorno, da quel martedì di due anni fa, quando, con l’ansia che rischiava di farmi esplodere il cuore, vagavamo per l’aeroporto alla ricerca del luogo dove fare il check-in, destinazione Los Angeles. Ora ha lo sguardo più maturo, e forse più sereno, perché finalmente comincia a capire chi è veramente e chi un giorno vorrebbe essere.

«Mancano due minuti», dice Jared, controllando il telefono. Poi si volta nella mia direzione, un grosso sorriso sulle labbra. «Due minuti, ci credi?»

«Cerca di non metterti a fare il countdown», dico mordicchiandomi le unghie della mano libera.

«Dovrebbe essere un momento di felicità per tutti», afferma Jared. «Soprattutto per te».

«Sì, ma lei è la signorina che di nome fa Deborah e di cognome Ansia», ribatte Shannon.

«Tacete. Quanto manca?», chiedo.

«Un minuto», dice Jared.

«Trenta secondi», continua Tomo.

«Ci siamo», sussurro infine io, l’eccitazione che non mi stare seduta ferma sul posto.

 

Una signora al telefono, il naso appoggiato ad un vetro, la mano destra che si scuote in segno di saluto e un sorriso sul volto che sa già di malinconia.

Rain e Francis che parlottano fra loro con in mano una cartina che non capiscono perché rovescia.

Il cielo di Los Angeles visto dal tetto del motel che era stato casa nostra per qualche settimana. Poche stelle, molti sogni.

Joe, il cameriere che ci ha servito più bibite di quante sia pensabile servire e che ci ha sopportato nel suo locale per giorni interi, osservandoci silenziosamente per la maggior parte del tempo, che si copre la faccia con una tazza di caffè vuota perché non vuole essere ripreso.

Shannon e Jared che si guardano, mentre dalle loro chitarre escono le note che compongono The Story.

Tomo che addenta una ciambella alla vaniglia e si lecca i baffi nello stesso identico modo in cui lo farebbe uno dei suoi cani dopo aver mangiato dalla sua ciotola.

Francis che corre a piedi nudi sulla spiaggia intonando una canzone di cui non si capiscono le parole, i lunghi capelli che per l’aria non riescono a toccarle la schiena.

Jared che piroetta sui suoi pattini a rotelle, per poi sbilanciarsi e cadere rovinosamente a terra.

Io che, la testa a penzoloni, mi sono addormentata sul libro di James Joyce che fin dall’inizio ero stata indecisa se infilare in valigia oppure no, ma che aveva finito per diventare uno dei miei libri preferiti.

E poi ancora Shannon che si emoziona sentendo cantare per lui attraverso una registrazione su un telefono, Shannon che mangia lo zucchero filato impiastricciandosi le mani, Jared che ride, perché non vedeva il proprio fratello stare così bene da molto tempo.

Tomo che accarezza Ramsey dietro le orecchie.

Raccordo sul nero.

«Abbiamo preso un aereo per realizzare il nostro sogno, quello di incontrare delle persone molto importanti per noi», dice la mia voce. La me sullo schermo non ha più i capelli fucsia delle riprese precedenti, essi sono infatti tornati castani. Me li sfioro, abbandonando le pop-corn che continuo a tenere in grembo.

«Poi però, dopo una lunga notte passata pressoché insonne su un divano, ci siamo rese conto che incontrare loro non era il sogno più grande, ma che loro, con la loro musica, ci servivano tutti i giorni per continuare a crederci», aggiunge Francis.

«È stata un’avventura, siamo state su Marte per un po’, e ci è sembrato che tutto fosse bellissimo. Poi siamo tornate alla vita normale, ma niente era più come prima. Eravamo concentrate, determinate. In quel momento abbiamo cominciato a credere. A cosa? In noi stesse, credo. Abbiamo cominciato a credere che, se lo avessimo voluto davvero, avremmo potuto fare tutto, anche quello che fino ad allora ci era sembrato impossibile», dice Rain, con un sorriso.

«Non dico che ora non abbiamo paura del futuro, di quello che potrà succedere domani, di ciò che non possiamo controllare. Non dico nemmeno che ora sappiamo esattamente chi siamo, o chi vorremmo essere per tutto il resto della nostra vita, perché starei mentendo. Abbiamo vent’anni e vogliamo vivere e realizzarci, forse è tutto ciò che ora sappiamo, tutto ciò in cui crediamo», concludo io.

Raccordo sul nero, di nuovo.

«Don’t ever ask for permission to follow your dream. Follow them no matter fucking what. We have one life here. Everybody has this one life. And you are the author of your story. You are much more responsible for your dreams coming true, or not, than anyone else you’ll ever come into contact with. So dream big and work hard. And make it happen no matter what», dice Jared guardando dritto in camera.

Tutto diventa nero di nuovo, ed è finito. Il nostro viaggio è finito.

 

«Allora?», chiede Jared, dopo alcuni istanti in cui tutto è rimasto immobile nella stanza. «Che cosa ne dite?» Si volta verso di me, e io lo faccio verso di lui, guardandolo dritto negli occhi, sapendo che i miei sono lucidi.

Prendo un respiro. «Dico che non sono veramente in grado di fare delle riprese decenti. Tutte, e dico tutte quelle che ho fatto io sono mosse all’inverosimile. Come diavolo hai fatto a farle sembrare perfette, in quel video perfetto?».

Jared sorride. «Le tue riprese casuali sono state fondamentali, senza di quelle non saremo mai stati in grado di realizzare questo video dedicato a tutti gli echelon del mondo. Sia santificata la tua videocamera, la ricorderemo tutti per sempre con grande affetto». Telecamera che sfortunatamente è caduta dentro il Tamigi qualche mese fa. Posso solo dire che ha avuto una vita breve ma intensa.

«È bellissimo», dice Rain che al momento sta stringendo la mia mano veramente tanto. «Bellissimo. Siamo noi, e siete voi. È il nostro viaggio, dall’inizio alla fine. È tutto ciò che significa far parte di questa grande famiglia chiamata Echelon».

Annuisco. «Well done, guys». Nel momento in cui li guardo tutti e tre, i miei tre eroi, come aveva detto quel ragazzo nel video di Do or Die, sento una lacrima salata bagnarmi le labbra e scoppio a ridere. Il mio cervello mi comunica con un pensiero che mi sto di nuovo comportando in maniera strana. Ma ormai sa che succede ogni volta che mi sento bene, ogni volta che, anche solo ascoltando la musica di queste tre persone che ora ho la fortuna di avere accanto, volo su Marte. Come un disco rotto, ripeto quelle parole che troppe volte ho ripetuto loro: «Grazie». Non aggiungo altro, perché è una parola così potente da racchiudere tutto l’amore, il rispetto e l’ammirazione che ho nei loro confronti. Dei sentimenti che so non se ne andranno mai. Perché l’essere echelon è una cosa che capisci o che non capisci, non ci sono vie di mezzo, amore o odio. E io, noi, abbiamo scelto l’amore. Noi siamo gli echelon di tutto il mondo.  

 

 

 

 

 

 

Eccoci qui, alla fine.

Sto sadicamente sperando siate tutti scoppiati a piangere, muahahah. Vi ho fatto penare un po’ con questi aggiornamenti una volta ogni morte del papa, i know. Da quel che mi avete fatto capire, comunque, grazie alle recensioni e al numero di lettori silenziosi, o lettori che hanno messo la mia storia fra le ricordate/preferite/da seguire, mi perdonavate ogni volta.

Che altro dire: grazie, anche a voi, non solo ai Mars. Un ringraziamento speciale va a Francesca e a Roberta, ma anche a Veronica, che dice sempre che ho talento, Angelica e Chiara, le mie picciricci ed in fine ad Arianna, Gloria e tutte le altre mie spritzine (non so chi di voi legga la storia di preciso), siete sempre state di grande aiuto.

Vi saluto, ricordandovi che ho altre due storie in corso riguardanti soprattutto Jared, ovvero Sleeping with ghosts e Drink You Pretty, la new entry. Magari un giorno diventerò uno scrittrice costante e vi sparerò un capitolo a settimana – come no, credeteci.

Concludo con il dire che avevo provato a tradurre il discorso di Jared, che scommetto conoscete tutte quante, dato che l’ha detto in una recente intervista, ma secondo me perdeva quel non so che che Jared riesce sempre a dare ai suoi discorsi neanche fosse un prete durante la predica (e dopo la stola usata durante gli ultimi concerti comincio ad avere qualche dubbio sulla sua vera natura…) e quindi ho deciso di lasciarlo in lingua originale.

Spero che vi sia piaciuto il finale, fatevi sentire, mi farebbe molto piace.

Un abbraccio grande grande, Deborah.

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