Baboons

di GreedFan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** α. ***
Capitolo 2: *** β. ***
Capitolo 3: *** γ. ***
Capitolo 4: *** δ. ***
Capitolo 5: *** ε. ***
Capitolo 6: *** ζ. ***
Capitolo 7: *** η. ***
Capitolo 8: *** θ. ***



Capitolo 1
*** α. ***


α.


La luce che pioveva dalle finestre spalancate della biblioteca era calda, un torrente dorato in cui turbinavano, oziosi, vortici impalpabili di pulviscolo. Camminando pacatamente sotto la finestra più grande, i tacchi a scandire un ritmo lento e cadenzato sul piano di una costosa scrivania di legno scuro, il professor Lienhard Heisenhover leggeva.

«No rest without love, no sleep without dreams of love». Aveva una voce roca e musicale, un timbro denso e vibrante che accarezzava ogni sillaba con l’emozione incontentabile di un attore di teatro ‒ la poesia sulle sue labbra diventava materia vivente, tangibile, passione infusa in parole e trasformata in arte: «Be mad, or chill, obsessed with angels or machines, the final wish is love».

La biblioteca aveva un’acustica perfetta, e a quell’ora ‒ le due del pomeriggio ‒ non c’erano altri suoni a turbarne il silenzio assoluto. Gli studenti sedevano dove capitava, sui davanzali delle finestre e sui tavoli, sui tappeti lisi stesi tra una scrivania e l’altra, e tutti guardavano con il fiato sospeso la figura del professore, il piccolo miracolo che la sua voce e i suoi occhi e la sua energia stavano compiendo. C’era tensione, e aspettativa, un’atmosfera raccolta e vagamente stupefatta, quasi Heisenhover stesse officiando il rituale di una misteriosa religione tribale.

«… the hand moves to the center of the flesh, the skin trembles in happiness and the soul comes joyful to the eye». Creava un armonia bizzarra, Heisenhover, con l’arredamento severo della libreria: sullo sfondo di scaffali scuri alti fino al soffitto, zeppi di volumi dalle rilegature pesanti e impolverate, la sua giacca color ruggine sembrava quasi mimetizzarsi, sparire. Aveva poco più di trent’anni, ma il completo dal taglio antiquato e la cravatta ‒ un autentico pezzo da museo ‒ lo facevano sembrare molto più vecchio, così come gli occhiali da lettura in bilico sul naso affilato.

L’uso di indossare lenti correttive invece di sottoporsi alla correzione chirurgica della presbiopia era completamente scomparso da almeno quattro secoli.

«Yes, yes… that’s what I wanted, I always wanted, I always wanted ‒ to return to the body where I was born». Concluse la poesia con un sussurro pieno di dolcezza e chiuse il libro, lasciando che il silenzio facesse da eco alle sue ultime parole. Passò qualche istante prima che, sedutosi sul bordo della scrivania con le gambe penzoloni, ricominciasse a parlare.

«Allen Ginsberg». Scandì, agitando il libro per richiamare l’attenzione di qualche alunno che, conclusa la lettura, aveva lasciato vagare lo sguardo distratto fuori da una finestra «Uno dei migliori poeti arcaici, secondo la mia modesta opinione. Che ne pensate? Lo conoscevate già?».

Non ci fu nessun cenno d’assenso, ma il professore non si aspettava nulla di diverso. Sorrise ‒ aveva occhi scuri e sottili, intelligenti ‒ e scosse piano la testa. Alla domanda seguì un certo scompiglio ‒ una trentina di studenti giovani e lievemente intontiti che lottavano per sfilarsi gli istan-traduttori dalle orecchie e riporli nelle apposite custodie ‒ e poi, di nuovo, silenzio imbarazzato.

«Ok, del resto la Federazione non si preoccupa troppo di mandare in onda programmi culturali. Allora, vediamo…» tentennò, lasciando vagare lo sguardo tra gli studenti «… Cooper».

Un ragazzo magro, con gli occhi sporgenti e il viso coperto di efelidi, sollevò la testa di scatto e arrossì fino alle orecchie. Non doveva avere più di diciotto anni.

«Il tema portante della poesia è l’amore. Secondo te qual è la visione che i poeta ha dell’amore?».

«Di sicuro... be’, una visione positiva. Perché anche se l’amore è un… fardello, come dice il poeta, è anche alla base delle passioni positive, è una specie di forza creatrice. Lo descrive come la sua essenza, in qualche modo». Parlò in modo affrettato, il viso paonazzo, e puntò lo sguardo dritto a terra. Se anche Heisenhover non avesse imparato a memoria le generalità di ciascuno degli iscritti al suo corso, non sarebbe stato difficile capire che David Cooper era un omega.

«“Il peso dell’amore”… sono parole scritte parecchi secoli fa, eppure quanto ci riguardano?». Enfatico, si tirò nuovamente in piedi e squadrò gli alunni dall’alto del suo palco improvvisato «In che modo, esattamente, l’amore può essere un peso per noi? E perché continuiamo a cercarlo ‒ perché continua a renderci così felici ‒ se è tanto difficile da sopportare?».

Una ragazza in prima fila, con il naso all’insù e corti capelli spettinati, alzò la mano.

«Marie Shaw, giusto?». Beta, aggiunse tra sé e sé. Aveva cercato in tutti i modi di togliersi quel vizio, ma ogni volta che si trovava a parlare con qualcuno non poteva fare a meno di classificarlo in base al sesso biologico. Riusciva a percepire l’odore della ragazza, una fragranza scialba e poco attraente, anche se lei era a quasi tre metri di distanza in linea d’aria.

«Sì. Allen Ginsberg era un omega, giusto?».

«Mh, come mai questa domanda?».

Marie Shaw scrollò le spalle e gli lanciò un’occhiata vagamente imbarazzata, forse temendo di aver detto qualcosa di stupido. «Boh,» aggiunse, giocherellando con l’orlo della maglietta «questo fatto di desiderare disperatamente l’amore, ma allo stesso tempo di vederlo come qualcosa di gravoso. Un alfa non parlerebbe così… per loro non è mai stato un peso».

Qualcuno protestò ‒ sicuramente un alfa punto sul vivo ‒ e Marie Shaw esclamò una risposta che, se ne avesse avuto il tempo, Heisenhover avrebbe sicuramente rimproverato. Il suo richiamo, però, fu coperto dal rumore di una porta che sbatteva. Trenta teste si voltarono simultaneamente verso il portone della biblioteca, qualcuno emise un gridolino di sorpresa ‒ il professore per un attimo pensò, stizzito, che qualche collaboratore scolastico avesse infranto il divieto tassativo di disturbare le sue lezioni.

Si ritrovò, invece, a fissare il nuovo arrivato con le sopracciglia decisamente inarcate e la bocca piegata in una linea sottile e rigida: nella biblioteca, inguainato dalla testa ai piedi in un’uniforme completa di mostrine, era appena entrato un soldato.

Era alto, con i capelli neri pettinati all’indietro e una fisionomia curiosamente delicata ‒ non aveva la struttura possente tipica dei militari, e il suo viso un po’ lungo era tutto un susseguirsi di linee graziose. Rivolse un cenno di saluto impettito alla sala piena di gente e batté i tacchi a terra (gli anfibi di cuoio fecero un rumore infernale sul pavimento di parquet), poi lanciò un’occhiata incuriosita ad Heisenhover, ancora in piedi sulla cattedra. Non portava armi.

Lienhard era quasi sul punto di trovarlo simpatico, quando il soldato decise di aprire bocca e spezzare impietosamente l’incantesimo.

«Sono qui per conto dell’Amministratore del quinto distretto di Fegith» annunciò, le braccia lungo i fianchi «affinché venga posto un freno a questa attività illegale».

Heisenhover emise un mezzo verso di sorpresa e spalancò le braccia. Notò, con la coda dell’occhio, che alcuni studenti stavano radunando in fretta le proprie cose.

«Attività illegale? Con tutto il rispetto, non c’è nulla di illegale in quello che‒».

«La legge vieta agli omega non reclamati di frequentare corsi scolastici, a meno che non siano in possesso di un lasciapassare dell’Amministratore. Ci è stata segnalata la presenza di numerosi» storse il naso «omega non reclamati all’interno di questo corso. Certamente saprà, professor Lienhard Heisenhover, che è assolutamente vietato e passibile di arresto favorire un simile comportamento. È difficile credere che non si sia mai accorto della loro presenza».

Lienhard sogghignò, senza accennare a scendere dalla cattedra.

«Vedo che conosce il mio nome, maggiore. Gradirei avere la stessa fortuna». Gli era bastata un’occhiata veloce per riconoscere il grado delle mostrine: in quanto sostenitore di numerosi movimenti studenteschi, spesso immischiati in rivolte e manifestazioni turbolente, aveva avuto modo di familiarizzare con le forze dell’ordine. Il soldato corrugò le sopracciglia, irritato, ma non poteva evitare di rispondergli.

«Maggiore Joseph Redthorn». A quel nome, Lienhard assottigliò lo sguardo e si fece più attento «Ora, tutti gli omega non reclamati sono pregati di seguirmi fuori da questa stanza fino alla centrale del quinto distretto, dove risponderanno delle loro azioni. Non verrà tollerata alcuna resistenza».

Qualcosa si mosse, al di là della porta, e il professore scorse alcuni militari appostati silenziosamente vicino allo stipite. Erano una decina, forse più, e, a differenza di Joseph Redthorn, alla cintura portavano le armi d’ordinanza.

«Signore!». Alzò la voce, mentre gli studenti cominciavano a radunarsi contro la parete della biblioteca opposta rispetto alla porta, rispetto ai soldati «La legge si pronuncia in termini di istruzione pubblica, ma il mio non è che un club di lettura che si riunisce ogni venerdì pomeriggio nella biblioteca dell’Universitas. Non svolgiamo nessuna attività riconosciuta, e il governo non bandisce la libera associazione a fini culturali».

«Questo verrà appurato in centrale». Redthorn non fece una piega; a parte qualche rara smorfia di fastidio, il suo viso marmoreo sembrava freddo e inespressivo.

Maledizione.” Lienhard percepì un’ondata di senso di colpa, amaro e inevitabile, e capì che per nulla al mondo avrebbe permesso che i suoi studenti venissero arrestati davanti a lui. “Ci deve pur essere un modo…”

Scese con un balzo fluido e si avvicinò in pochi passi al maggiore, cercando di mantenere un’apparenza imperturbabile nonostante la morsa di paura avviluppata allo stomaco. Avvertì il suo odore, quello sì, un afrore denso e soffocante di alfa ‒ per un attimo gli girò la testa, tanto era puro.

«Ascolti, sono disposto a dichiarare che li ho obbligati contro la loro volontà. Sono omega, la loro natura gli impedisce di opporsi agli ordini di un alfa…» era piuttosto consapevole delle idiozie che gli stava dicendo, ma finché quelle stesse idiozie collimavano con la coscienza comune di cosa fosse esattamente il rapporto alfa/omega andavano benissimo «Ha capito? Mi costituisco, è stata una mia idea. Non è la prima volta che succede».

«Lo so». Redthorn abbassò la voce, la appiattì in un sussurro irato «Il suo cognome l’ha salvata già più di una volta, Heisenhover. In fede, credo che lei sappia che anche questa volta non sarà diverso».

Ah, ma allora anche tu sei un essere umano”. Ghignò, inclinando la testa di lato.

«Non mi sarei mai aspettato che un Redthorn facesse un discorso del genere. Vuole arrestarmi, maggiore, o preferisce che io le dia modo di accusarmi anche di oltraggio a pubblico ufficiale?».

Joseph Redthorn emise un sospiro appena percettibile, carico di frustrazione, e fece un cenno annoiato agli altri soldati. «Lienhard Heisenhover, la dichiaro in stato di fermo con l’accusa di imposizione. Ha il diritto di rimanere in silenzio».

Si definiva “imposizione” il reato per cui un alfa obbligava un omega non reclamato a compiere una qualsiasi azione contro la sua volontà; la convinzione comune ‒ coadiuvata da studi che Lienhard, in quanto ricercatore genetista dell’Universitas, riteneva paradossali ‒ era che un omega, specialmente se vicino al calore, non potesse rifiutarsi di obbedire agli ordini di un alfa. Le motivazioni, piuttosto fumose, andavano ricercate nella biochimica e nel complesso linguaggio ormonale che legava i due sessi. In ogni caso, plausibile o meno, il reato di Imposizione era così grave e malvisto che poteva portare all’ergastolo.

Le manette magnetiche scattarono ai polsi di Lienhard, che fu scortato con insolita gentilezza fino alla vettura della polizia. Levitava a qualche centimetro da terra, già pronta ad inserirsi nel traffico sempre in movimento delle piste magnetiche, una sorta di uovo gigante con un lato schiacciato e un guscio di leghe polimeriche praticamente indistruttibile. L’abitacolo, protetto da una cupola di vetro antisfondamento, ospitava la cabina del pilota; tutta la parte posteriore del veicolo era adibita a container, e si aprì come le ali di un coleottero per permettere a Lienhard e a una mezza dozzina di soldati di prendere posto sulle panche di ferro incassate nel pavimento. Joseph Redthorn, seduto davanti ad Heisenhover, sollevò leggermente la manica della divisa e sfiorò in punta di dita quella che sembrava una fascia di lattice nero, avvolta intorno al polso; il bracciale si illuminò, strie fosforescenti che si avvolgevano e si disfacevano sulla superficie liscia senza assumere nessuna forma concreta, e il maggiore cominciò a muovere le dita davanti al suo viso come se stesse toccando una superficie invisibile. “O-screen,” Lienhard si sporse in avanti, incuriosito “chissà che cosa sta leggendo”.

Sapeva che, se si fosse seduto accanto al Maggiore, avrebbe visto comparire, come per magia, uno schermo piatto sospeso a mezz’aria, completo di sensori touch e grafica full HD. Non era mai stato un amante della tecnologia ‒ il che, nel mondo iper-tecnologico un cui viveva, gli aveva causato non pochi problemi ‒ e pensava che ci fosse del ridicolo nel gesticolare di Redthorn, ma in quel momento avrebbe voluto un o-screen personale per avvertire suo padre della situazione.

Tanto lo saprà comunque”, si disse “se non dovessero avvertirlo, ci penserà la sua intelligence personale”.

«La sua fedina penale è terrificante». Redthorn spezzò il silenzio con un tono casuale, annoiato, mentre la vettura scivolava silenziosamente nel traffico «Ha commesso tanti crimini antigovernativi che verrebbe da chiedersi come possa essere ancora in libertà. Quantomeno dovrebbero assegnarle una pattuglia di sorveglianza in pianta stabile, ma immagino che il Ministro Heisenhover non sarebbe d'accordo con una cosa del genere. Sbaglio?».

«Mi sta autorizzando a parlare, Maggiore?». Nella domanda di Lienhard, più simile alle fusa di un gatto, era in agguato una mezza risata «Vuole che aggravi la mia situazione?».

Redthorn gli lanciò uno sguardo affilato − era incredibile, pensò Heisenhover, come spiccassero le pupille nell'azzurro lattiginoso delle iridi. L'intensità di quegli occhi era quasi fisica.

«Se intende tirare di nuovo in ballo il mio cognome, la prego di non farlo».

«E perché? È un cognome illustre, lo stesso del Gerarca. Non vedo alcun motivo di vergognarsene». Lienhard scoppiò a ridere, e un lieve rossore affiorò sulle guance del soldato.

«A differenza di quanto lei crede, non mi sono mai fatto scudo del mio cognome». Sibilò, e il suo sguardo era diventato una freccia sul punto di essere scoccata «Non ne ho mai avuto bisogno».

"Oh, ecco l'orgoglio alfa che torna. Ma allora siete veramente tutti uguali".

«Dev'essere la pecora nera di famiglia».

«Non del tutto, Heisenhover. Non quanto potrebbe esserlo un primogenito beta in una famiglia di alfa». La frecciata era evidentemente rivolta a lui, e Lienhard sentì che, per quanto cercasse di frenarlo, un ghigno involontario gli si andava allargando sul viso.

«Beta? Sta parlando di me, Maggiore?». Fece schioccare la lingua contro il palato, scuotendo la testa «No, no, no. Rilegga con più attenzione la mia fedina penale... sono sicuro che c'è un documento d'identità allegato».

Heisenhover toccò un paio di volte lo schermo dell'o-screen e arrossì di nuovo, le labbra contratte.

«Mi sono ingannato, la credevo un beta. Ha un odore inusuale per un alfa».

«Copro il mio odore con dei prodotti specifici. Nella facoltà di genetica dell'Universitas lavorano diversi omega reclamati e persino qualche non-reclamato fornito di permesso... da parte mia sarebbe piuttosto indelicato lasciare che i miei ferormoni diventino una distrazione».

Joseph lo guardò a lungo in silenzio, incuriosito. Lienhard poteva quasi leggere il pensiero che scorreva nella mente del soldato, e sorrise.

Non sembri affatto una persona delicata, Heisenhover.

"Non sai nemmeno quanto hai ragione".


α٠β٠ω


Le pareti della cella erano spoglie ma pulite, coperte da un rivestimento di lattice grigio spesso una decina di centimetri. Quella stanza veniva utilizzata soltanto per permanenze brevi, in particolare per gli alfa (se beta e omega riuscivano, in genere, a sostare nella stessa cella senza farsi a pezzi, gli alfa necessitavano di totale isolamento) e non presentava nessun tipo di mobilio. A gambe incrociate sul pavimento morbido, lo sguardo fisso sulla lastra di plexiglas spesso trenta centimetri che lo separava da un corridoio su cui si affacciavano altre diciannove stanze identiche alle sua, Lienhard attendeva l'inevitabile conclusione di quella giornata.

Se la situazione era rimasta invariata, il giorno successivo avrebbe dovuto sostenere un processo.

Se, invece, il vecchio Heisenhover aveva mantenuto intatto tutto il suo smalto, le accuse contro di lui sarebbero cadute − e poco importava che la sua fosse una confessione spontanea, il denaro esisteva per un motivo − e, con tanto di cauzione pagata, gli avrebbero affibbiato due giorni di sospensione lavorativa e un'ammonizione firmata dal Procuratore.

Lienhard si slegò i capelli − lisci, biondi, gli arrivavano fino alle spalle − e, dopo un tentativo non propriamente riuscito di pettinarli con le dita, li sistemò nella consueta coda bassa.

"Ho bisogno di tornarmene a casa e farmi una doccia". Espirò, abbandonando la testa contro la parete "Maledetto Joseph Redthorn. Tu e la tua sorveglianza inutile del cazzo".

Ci fu un momento, dopo ore di attesa, in cui pensò che non sarebbe venuto nessuno e l'avrebbero lasciato lì a morire di noia. Quando la sagoma nera di un soldato si profilò dall'altra parte della parete di plexiglas, Lienhard si tirò in piedi in fretta e furia e per poco non gli andò incontro sorridendo.

Il soldato portava pesanti guanti neri, di pelle. Sfilò il destro e appoggiò il palmo della mano al plexiglas; dai tutti i punti in cui la pelle toccava la superficie trasparente si diramarono delle linee geometriche e angolose, di un bianco abbacinante, che costruirono in pochi secondi un disegno complicato e molto simile ad un labirinto. La guardia, ad una velocità impressionante, toccò alcune di quelle righe e le spostò da una parte all'altra della parete, cambiando completamente la struttura del labirinto. Quand'ebbe finito fece un passo indietro e la parete scivolò da una parte senza emettere il minimo suono.

"Wow," Lienhard era rimasto a bocca aperta "quando mi hanno fatto entrare qui dentro non è servito tutto questo casino. D'altra parte è prevedibile che per aprire una cella vuota ci siano misure di sicurezza diverse rispetto a quelle che servono per una occupata".

«L'accusa di imposizione che le era stata rivolta è caduta». Lo informò il soldato, scortandolo lungo il corridoio «Quella di oltraggio a pubblico ufficiale no. Il Ministro Thomas Heisenhover ha pagato la cauzione e la sta aspettando qui fuori».

«Ci saranno conseguenze dopo quanto accaduto oggi?».

Quando il soldato annuì Lienhard ebbe un tuffo al cuore, ma si sforzò di rimanere impassibile.

«Il Procuratore, per evitare che possano ripetersi episodi spiacevoli, le ha assegnato una scorta facente parte delle Forze Armate che presiederà ai suoi incontri pomeridiani all'Universitas».

«Quindi li hanno riconosciuti come attività legittime?».

«Sì. Potrà continuare a tenerli».

Lienhard represse a stento un'esclamazione di gioia.

Il soldato lo scortò attraverso una serie di corridoi e sale d'attesa, solcate da un viavai di impiegati statali e militari in uniforme, fino ad una sala d'aspetto arredata molto semplicemente. Non c'erano altro che sedie di metallo, disposte in file ordinate sulla moquette azzurrognola, e teleschermi appesi alle pareti.

Suo padre, come sempre impeccabile in un completo di alta sartoria, lo accolse con un mezzo sorriso.

«Mi chiedo quando la smetterai di farmi dilapidare il patrimonio di famiglia in cauzioni, Lienhard».

«Il nostro non è un patrimonio facile da dilapidare, devi ammetterlo».

Thomas Eisenhover, Ministro della Salute in carica, aveva più di cinquant'anni e ne dimostrava una decina in meno. Somigliava in modo incredibile al figlio, con lo stesso viso dai tratti spigolosi e l'espressione intelligente, ma aveva la pelle molto più chiara e gli occhi grigi come l'acciaio; i capelli, che tingeva regolarmente a seconda della moda, erano di un castano scuro appena venato d'argento, pettinati all'indietro.

«La ringrazio». Il Ministro indirizzò un cenno di saluto al soldato, che si defilò silenziosamente, e appoggiò una mano su una spalla di Lienhard «Usciamo di qui. Non è un buon posto per parlare».

Il ragazzo annuì, passandosi una mano sugli occhi.

«Sono stanco e stufo». Annunciò, seguendo il padre nei corridoi asettici della Centrale di Polizia del quinto distretto «Che ore sono?».

«Le dieci e mezza». Nell’androne sostava qualche gruppetto di impiegati in procinto di tornare a casa, e dalle grandi porte a vetri Lienhard poteva vedere l’oscurità della notte e il chiarore azzurrognolo dei lampioni. In altro, in un cielo privo di nubi, sembravano rincorrersi le due lune di Nenya.

Thomas Eisenhover cominciò a parlare davvero, con la voce più bassa e gli occhi scintillanti, solo quando si furono allontanati di diversi metri. La serata era piacevolmente tiepida, e spirava una brezza decisa che, se mai ce ne fossero stati, avrebbe sabotato tutti i microfoni nascosti.

«Tua madre stava letteralmente impazzendo». Sibilò, irato, afferrando il figlio per un braccio «Se potessi brucerei le loro aule di tribunale, maledetti schifosi. Tu come stai? Ti hanno fatto qualcosa? Analisi?».

«Nah». Lienhard fece spallucce «Sono il figlio di un ministro, per quante volte finisca nelle loro carceri mi trattano sempre con i guanti bianchi. La mamma come va?».

«Bene, ma si avvicina il calore e ne risente gli effetti».

«Si ostina a non prendere soppressanti». Suonava come una constatazione priva di sentimento, ma chi conoscesse bene Lienhard avrebbe potuto avvertire una scintilla di rabbia sotto la scorza di indifferenza «Dov’è, adesso?».

«Fuori città, in una delle proprietà di campagna». Negli occhi del Ministro il dolore era così intenso che il ragazzo sbuffò, alzando gli occhi al cielo.

«Ma guardati. Questo è il motivo per cui io non smetterò mai di prendere soppressanti».

«Non dirlo nemmeno per scherzo. Se qualcosa dovesse trapelare verrei condannato all’ergastolo o all’esilio su qualche pianeta ostile dall’altra parte dell’Universo». Scivolarono in un vicolo laterale, dove, nascosta nell’ombra, stava una sottile vettura biposto dall’aria costosa «Sul navigatore sono già impostate le coordinate della casa. Appena uscirai dalla città sarà meglio attivare gli scudi anti-rilevamento, c’è sempre il rischio che ti stiano sorvegliando dopo l’incidente di oggi».

«Tu non vieni?». Lienhard si sistemò al posto di guida e allacciò le cinture di sicurezza «Ah, tanto conosco già la risposta: devi lavorare».

«Gestire una carriera ministeriale e un traffico illecito di farmaci richiede tempo, Lienhard». Thomas fece l’occhiolino al figlio e gli diede una pacca sulla spalla «Salutami tua madre e vedi di rimanere un po’ con lei. Ho fatto in modo che ti assegnassero un paio di giorni di ferie extra al lavoro».

Lienhard scoppiò a ridere, per niente colpito. Suo padre non sarebbe mai cambiato.


α٠β٠ω


Il viaggio durò quasi tre ore.

Fuori da Fegith, imponente con la sua skyline di grattacieli dalle forme affusolate, si snodavano i complessi tracciati delle piste di campagna; intorno alla città gli appezzamenti di terreno somigliavano quasi ad una vecchia coperta fatta con scampoli di tessuto quanto mai eterogenei, dall’azzurro pallido delle colture di erbe medicinali al verde opaco dei papaveri da oppio. I campi venivano gestiti e protetti con attenzione scrupolosa, e drappelli di guardie armate passeggiavano oziosamente lungo i vari perimetri.

Impostato il pilota automatico, Lienhard incrociò le braccia dietro la testa e si rilassò come poteva nell’abitacolo della vettura. Aveva sempre amato i viaggi, il moto incessante del paesaggio che scorre sotto gli occhi come l’acqua vorticosa di un torrente, e lasciò vagare lo sguardo nelle campagne appena rischiarate dalle due lune di Nenya fin quasi ad addormentarsi. Conosceva quelle zone a menadito: non era raro che da ragazzo, appena acquistata la sua prima vettura, fuggisse dal caos cittadino per respirare un po' d'aria pulita tra le dune calcaree dell'outland.

La proprietà di campagna si trovava in mezzo ai campi di papaveri. Una villa di pietra biancastra, costruita secondo uno stile semplice e lineare che ne sottolineava le dimensioni imponenti, spiccava con eleganza al centro di un parco alberato. Sul lato frontale si aprivano tre ordini di grosse finestre squadrate, e al centro esatto della facciata faceva bella mostra di sé un portale di legno dall’aria antica a cui si accedeva tramite una doppia scalinata dai bracci ricurvi; il resto della costruzione, parzialmente celato dagli alberi, si divideva in due ali che abbracciavano un cortile interno ‒ era un gusto antico, quello, che il padre di Lienhard aveva scelto senza curarsi delle mode correnti.

Sceso dalla vettura, Lienhard macinò velocemente la distanza che lo separava dall'ingresso; prima che potesse suonare il campanello il portone si spalancò senza un fruscio, e sua madre gli gettò le braccia al collo con un grido di gioia.

«Ciao, ma'». Ridacchiò, accarezzandole delicatamente la schiena e inspirando il suo profumo, più forte del consueto per l'avvicinarsi del calore «Su, mi hanno già arrestato altre volte».

«Imbecille». Dietmut Heisenhover ridacchiò, appoggiando la fronte sul petto del figlio «Imbecille e spericolato come quell’altro matto di tuo padre. Vieni, beviamo qualcosa mentre mi racconti le ultime novità».

Si voltò, e Lienhard guardò i suoi capelli − neri e folti, una cascata di riccioli dai riflessi azzurrognoli che scendeva ben oltre le scapole − con un moto di profonda tenerezza.

Lo precedette lungo i corridoi immacolati della villa, pavimenti d’acciaio e pareti che celavano meccanismi pronti ad azionarsi al minimo tocco; Lienhard aveva sempre pensato che l’arredamento ultramoderno scelto da sua madre fosse un po’ troppo minimalista, freddo e impersonale, ma quando si trovò con una tazza di tè caldo in mano e la schiena appoggiata al divano del salotto rivalutò tutto l’insieme. Anche quel mix di vetro e acciaio poteva essere accogliente, in determinate circostanze.

«Allora, non ti sono mancata nemmeno un po’?». Nonostante il fisico minuto e sottile e il viso dai lineamenti dolci, Dietmut era una donna energica e volitiva ‒ in molti si chiedevano perché proprio a lei, così forte, fosse capitato di nascere omega ‒ capace di tenere testa ad un marito che, da scapolo, era stato il terrore dei salotti di Fegith. «Tutta sola, ad annoiarmi in questa specie di tomba ad alta tecnologia…». Sistemò l’orlo del vestito che indossava, una morbida onda di seta azzurro ghiaccio, e accavallò le gambe. «Tu come vai con la scuola? So che gli iscritti ai tuoi corsi extra di letteratura creano qualche problema».

«Non sono gli iscritti il problema…» Lienhard bevve una sorsata di tè e guardò per un po’ le fiamme sorprendentemente realistiche di una proiezione olografica che, sulla parete davanti al divano, riproduceva un camino acceso «… ma suppongo che tu lo sappia già. Se potessi ficcare una bomba sotto il culo del Gerarca lo farei volentieri».

Dietmut scosse la testa con tristezza.

«E per cosa? Il mondo è pieno di gente come lui».

«Lo so». Sul viso di Lienhard si allargò un sorriso sghembo «Ma non sarebbe male togliersi una soddisfazione ogni tanto».

«Su questo potrei essere d'accordo. Tuo padre mi ha detto che ti hanno assegnato una scorta in pianta stabile... stavolta li hai fatti arrabbiare». Arricciò le labbra in un ghigno che chiunque avrebbe definito orgoglioso e bevve un sorso di té, socchiudendo leggermente gli occhi; aveva la mimica facciale di un felino, una gatta pigra e sorniona che non vedeva l'ora di tirare fuori gli artigli.

«Non me ne preoccupo più di tanto. L'importante è continuare a tenere i corsi».

«E se dovessero cercare di ficcare il naso nei tuoi programmi? Da quello che mi racconti ci sono alcune parti del corso che trattano temi leggermente anticostituzionali».

«Ficcare il naso?». Lienhard rovesciò il capo all'indietro e rise di gusto «Mamma, andiamo. Sono anni che ho a che fare con quegli imbecilli, è matematicamente impossibile che mi faccia dire da loro come impostare i miei corsi».

«Parli così perché sei fortunato, hai tuo padre che ti copre le spalle».

«Forse. In ogni caso non vedo perché sprecare questa splendida opportunità».

Continuarono a parlare per quasi due ore di fila, con il tè che si raffreddava nelle tazze e la notte sempre più chiara fuori dalle finestre della villa. Lienhard raccontò alla madre le ultime novità − arresto a parte, stava conducendo una ricerca sull'ereditarietà del caratteri sessuali primari che prometteva risultati interessanti − e scoprì che una lontana cugina di Seylaf, la seconda città di Nenya per importanza, aveva appena partorito un maschio beta in perfetta salute.

«Brindiamo alla salute di questa nuova ape operaia, allora!». Lienhard sollevò la tazza, di una porcellana così fine da risultare, in alcuni punti, semitrasparente, e accolse con un ghigno l'occhiata ammonitrice di Dietmut «Com'è che si chiama il poveretto? Vita triste, quella dei beta».

«Friedlieb, si chiama Friedlieb». La donna sospirò, riavviandosi i capelli con un gesto stanco «Forse è ora che tu vada a dormire, Leny. Vorrei evitare certi pensieri a quest'ora».

«Friedlieb... cognome?». Proseguì Lienhard, ignorandola «Non che gli serva, il cognome, visto che probabilmente lo costringeranno a rimanere celibe per evitare di dover lasciare parte dell'eredità ad un ramo secco».

«Schultz. Sono una famiglia importante, non so se ti ricordi, il marito di Isolde commercia in−»

«Papaveri da oppio, me lo ricordo. Fagli le mie congratulazioni e digli se me ne manda un mezzo quintale, eh». Si alzò in piedi, poggiando la tazza su un tavolino da caffè a poca distanza dal divano, e fece l'atto di stiracchiarsi «Avevi ragione, ho sonno e voglio farmi una doccia. Oggi sono successi decisamente troppi casini».

Dietmut annuì, lo abbracciò prima che uscisse dalla stanza.

«Il Progestal è in bagno». Sussurrò, il viso appoggiato sulla spalla del figlio «Riposati, hai tre giorni per dimenticare tutti questi problemi».

La smorfia che si dipinse sul viso di Lienhard era triste, amara.

«Non penso che bastino tre giorni, ma'. Non basta nemmeno tutta una vita».




















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Sono mesi che non mi faccio viva su questo sito. Un po' perché ho portato avanti vari progetti autonomi (questo è uno dei tanti) un po' perché la scuola si è trasformata in una bestia affamata pronta a divorare tutto il mio tempo... insomma, Greedfan è diventata una lavativa ancora peggiore di quanto già non fosse.

Quella che vi trovate davanti è una longfiction (credo verrà lunga una decina di capitoli al massimo) che ho progettato per lungo tempo e già in parte scritta. In pratica è il riassunto di tutto ciò che vorrei vedere io nella sezione "Fantascienza": Omegaverse (se non sapete cosa sia vi propongo questo link, che contiene una spiegazione abbastanza dettagliata), slash e un po' di citazionismo selvaggio da "I Canti di Hyperion" di Dan Simmons :3

Naturalmente non pretendo di aver scritto un'opera particolarmente interessante o originale, ma mi auguro che questa storia vi appassioni e vi diverta almeno quanto mi sono divertita io a scriverla. Fatemi sapere cosa ne pensate, è il mio primo esperimento in campo fantascientifico... per non parlare del fatto che non ho scritto molte "Originali" :P

Al prossimo aggiornamento,

Greedfan


ps. Il banner è tutto quello che sono riuscita a realizzare con le mie scarse doti di grafico. Perdonatemi.

pps. Se avete domande sull'ambientazione risponderò molto volentieri!

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Capitolo 2
*** β. ***



β.


Trascorse i tre giorni di fermo nel parco della proprietà.

Era una cosa che si portava dentro fin da piccolo, quell'amore bizzarro per il verde e la natura in genere: gli piaceva rotolarsi nell'erba fresca che profumava di pulito, di vita, guardare le nuvole che sfilavano pigramente nel cielo e cercare di riconoscere il canto degli uccelli annidati nei grandi alberi che ombreggiavano i viali. Non c'era niente di più rilassante, niente che lo facesse sentire così sano e puro − sempre che potesse considerarsi ancora puro, con una vita di sotterfugi alle spalle e la sgradevole sensazione di aver sprecato il proprio tempo a rodergli il cervello.

Quando camminava sotto le fronde cariche di foglie poteva illudersi di essere ancora un bambino, e come tale libero; non c'era nessuna spada di Damocle sospesa sulla sua testa, nessuna scorta di progesterone da nascondere per evitare di venire arrestato − c'era solo Lienhard, il Lienhard inconsapevole del significato delle parole alfa e omega che giocava a nascondino dietro i tronchi bruniti dal tempo e si sbucciava continuamente le ginocchia. L'immagine di quel bambino sembrava lontana e irraggiungibile, sbiadita dagli anni come un sogno antico, e Lienhard la accarezzava quasi con pudore: se vi si fosse soffermato troppo, gli sembrava, avrebbe finito per stancarsene, e quei ricordi avevano un valore troppo grande per essere lasciati da parte.

La vacanza obbligata, quindi, passò anche troppo in fretta. Un'altra persona avrebbe smaniato per riavvicinarsi a Fegith, al cuore pulsante e dinamico della civiltà, mentre Lienhard aveva chiesto a sua madre di avvertirlo nel caso fosse successo qualcosa di grave e si era rinchiuso in un volontario isolamento. Leggeva − la casa ospitava una piccola biblioteca di sua creazione, fornita di una quarantina di antichi tomi cartacei − vagava per i campi senza fine e si teneva ben lontano da ogni canale d'informazione.

I pasti, consumati in compagnia di Dietmut e di qualche membro della servitù − quasi tutti omega, in barba alla tradizione che voleva i beta deputati a quel tipo di lavori umili − erano rari momenti di gioia domestica. L'affetto privo di ripensamenti che provava per sua madre era del tutto diverso dal sentimento di profonda ammirazione che lo legava al padre − tanto lui era freddo e scaltro come una faina, tanto lei si lasciava andare ad improvvisi accessi di allegria e non provava alcuna vergogna nel ridere ad alta voce. Crescere sotto l'ala protettrice di due personalità tanto diverse non era stato semplice, per certi versi.

La mattina della partenza fecero colazione insieme, seduti attorno ad un tavolino di vimini nel cortile interno della villa. Dietmut aveva il viso stanco, le occhiaie profonde e le guance arrossate, il suo odore era diventato intenso e dolciastro: segni inequivocabili del calore.

Lienhard, che non aveva mai vissuto con completa serenità nemmeno i propri calori, si ritrovò a fissare la madre in silenzio, imbarazzato. Lei non sembrava far caso all'atmosfera tesa e, ogni volta che si muoveva per mescolare il caffé o prendere un biscotto dalla scatola di latta al centro del tavolo, una zaffata di profumo zuccherino si abbatteva sulle sinapsi del figlio come una martellata. Lo trovava sgradevole, nauseante (un alfa al posto suo sarebbe impazzito dal desiderio, e anche quello era un pensiero su cui cercava di concentrarsi il meno possibile), al punto che si affrettò a concludere il pasto per potersene andare.

«Ti senti molto male?». Era una domanda di circostanza, a ben guardare anche piuttosto stupida, a cui sua madre replicò con una sola, lunga occhiataccia.

«Come se non sapessi cosa si prova, Leny. Quando riprenderai all'Universitas?».

«Dopodomani c'è un incontro del corso. Per le ricerche penso che farò una capatina oggi pomeriggio, se Gosween è ancora in facoltà».

Rudolf Gosween era una specie di amico, una specie di collega, una specie di compagno di bevute − occasionalmente tutte e tre le cose insieme. A detta sua si era iscritto alla facoltà Bioingegneria Genetica Sperimentale perché fierissimo dei propri capelli rossi naturali (un tratto fenotipico così raro che alcuni manuali lo riportavano già come estinto) e desideroso di scoprire come mai proprio lui avesse ereditato quel tratto; nella sua famiglia, infatti, era il primo a vantare una zazzera fulva da più di quindici generazioni. Divenuto ricercatore e scrittore di numerosi trattati di una certa importanza, ammetteva con grande candore di non essere ancora riuscito a penetrare quel mistero.

Lienhard lo apprezzava non solo per la sua naturale capacità di mostrarsi autoironico e dissacrante nei confronti di tutto e tutti, nonostante fosse una delle persone più mature e intelligenti che avesse mai conosciuto, ma anche per il fatto che era un alfa e non lo si sarebbe mai detto. Camuffava scrupolosamente il proprio odore e, oltre a trattare gli studenti con grande rispetto, era del tutto privo dell'aria tronfia e arrogante da maschio dominante/capobranco/prendimi a pugni.

«Rudi, una bella persona».Quelle quattro parole, pronunciate da Dietmut con il tono di un'apatica constatazione, caddero tra di loro come macigni «A volte penso come sarebbe se−»

«Non dirlo nemmeno, ma'». La interruppe, perentorio «Non sarebbe possibile per me, e questo lo sai bene».

Dietmut chiuse gli occhi, vene come ricami azzurrini sulle palpebre tremolanti, e le sue labbra si strinsero in una linea dura. Quello, lo sapevano entrambi, era un argomento tabù.

«Sai che non lo faccio perché voglio dei nipoti, Leny». Sussurrò «Vorrei soltanto vederti felice. Nessuno può passare la vita da solo».

«Se anche trovassi qualcuno di mio gradimento non potrei comunque fare niente. Il mondo pensa che io sia un alfa, e per ovvie ragioni raccontare a qualcuno che non è esattamente così mi metterebbe in una situazione di merda». Strinse la base del naso tra pollice e indice, inspirando a fondo «Ma tu questo lo sai già. È proprio che ti piace illuderti».

«Scusami».

Lienhard scosse la testa e buttò giù un sorso di caffé.

"È decisamente ora di andare".


α٠β٠ω


La caserma del quinto distretto puzzava di disinfettante in un modo insopportabile.

Aveva sempre avuto il naso fino, Joseph − una caratteristica tipica degli alfa, in lui ancora più accentuata − e ricordava come, i primi giorni di servizio, quel lezzo penetrante gli fosse stato causa di tremendi mal di testa. Col tempo si era quasi abituato, ma la sensazione di fastidio non era mai sparita del tutto.

Si passò una mano sotto il naso, come per scacciare l'odore chimico, e schiarì la voce con un colpo secco di tosse.

Stava seduto davanti ad una scrivania bianca, su una sedia bianca, in una stanza bianca. Era il colore dominante, lì dentro, e le divise nere dei soldati spiccavano sulle pareti candide come cornacchie contro un cielo lattiginoso.

«Oggi, come saprà, termina il periodo di fermo imposto a Lienhard Heisenhover». Il colonnello Garett Mitchell, ufficiale di grado più alto all'interno della centrale, intrecciò le mani sul piano della scrivania e lanciò a Joseph un'occhiata eloquente; era un bell'uomo, sulla cinquantina, capelli brizzolati e baffi portati lunghi a coprire le labbra un po' troppo sottili, e veniva stimato dai suoi sottoposti per l'estrema professionalità con cui svolgeva il proprio ruolo.

Redthorn annuì silenziosamente, senza lasciarsi sfuggire che quella mattina non si era parlato d'altro. Nel quinto distretto, quartiere universitario frequentato in prevalenza da studenti alfa e beta di buona famiglia, non capitavano spesso disordini o avvenimenti che potessero smuovere la vita tranquilla dei soldati; sembrava che le bravate di Lienhard Heisenhover, facinoroso di maggior spicco nell'intera comunità, venissero accolte quasi con tenerezza e riconoscenza.

«Immagino saprà anche che avremo al più presto bisogno di una scorta. Vista la particolarità dell'incarico, non mi sento di assegnare a questa missione più di un uomo, forse due. Lei cosa ne dice?». Joseph sapeva che quel modo di fare − quel consultarsi, chiedere pareri a soldati di grado inferiore − era più una formalità dettata da un'innata delicatezza che una vera e propria richiesta di consigli.

«Ritengo sia... appropriato». Si sentiva sempre sotto pressione quando doveva comunicare opinioni personali ad un superiore. Non sapeva mai cosa dire per incontrare l'approvazione dell'interlocutore, si stressava e finiva spesso per risultare brusco. «Lienhard Heisenhover è un uomo intelligente e prova piacere nel violare la legge, ma non è pericoloso. Il suo è soltanto un club di lettura».

«Sono d'accordo. Tuttavia non sarebbe corretto sottovalutare il rischio... è pur sempre un alfa, e di un tipo particolarmente bravo a manipolare. Ho deciso di incaricare un soldato di discreta esperienza per la sua sorveglianza».

La gola di Joseph si strinse in una morsa spiacevole; non era la prima volta che veniva convocato nell'ufficio di Mitchell, sapeva come sarebbe andata a finire. Per un attimo lo attraversò un moto di ribellione − profonda e viscerale, la natura di alfa sanguigno che ribolliva sotto la crosta di disciplina e sottomissione forzata − che si concretizzò in un rossore improvviso sulla pelle chiara di viso e orecchie. Recuperò immediatamente il controllo, appellandosi alla sua ferrea disciplina.

«Avrà capito perché l'ho convocata, maggiore».

Annuì come se le vertebre del collo si fossero inceppate, frammenti di osso che scivolavano gli uni sugli altri in un cozzare di superfici porose. Si sentiva preso in giro, beffato dalla sorte: di tutte le persone che potevano venir assegnate a quella missione, avevano scelto lui − lui, che avrebbe preferito un mese di sorveglianza alle cave di tungsteno a sud di Fegith piuttosto che rivedere quel pallone gonfiato di Lienhard Heisenhover. Già provava malessere, una forte sensazione di insofferenza, ma non si lamentò.

Un alfa degno di questo nome non si lagnava mai di fronte ad un compito ingrato.

«Dovrò controllarlo solo durante le lezioni del corso, non è così?».

Un ghigno sottile si disegnò sotto i baffi folti di Mitchell.

«Certo. Ogni settimana consegnerà un rapporto in cui annoterà brevemente le tematiche oggetto di discussione all'interno del corso e il numero di studenti presenti... mi raccomando, ricordi di indicare le Categorie. Se ci dovessero essere problemi avrà a sua disposizione una piccola squadra operativa, ma auspichiamo uno svolgimento tranquillo dell'incarico. Capisce cosa intendo?».

La domanda era carica di sottintesi. Joseph, quando ne intuì il significato, si sentì rimescolare da un'ondata di rabbia.

«Veramente no, signore». Se dalle sue parole non trapelava nemmeno una stilla di nervosismo, gli occhi caliginosi traboccavano di una rabbia che Mitchell registrò con un'alzata di spalle.

«So che da un punto di vista etico è sbagliato, maggiore, ma abbiamo a che fare con il figlio del Ministro della Salute in carica. Se ci occupassimo di sentimenti potrei anche accettare il suo malcontento−»

«Io non intendevo manifestare−»

«Non mi interrompa. Le stavo appunto dicendo che, per quanto la rabbia sia comprensibile in una situazione simile − non creda che io non ne provi − quello che noi proteggiamo è l'equilibrio di questa città. E per proteggere questo equilibrio a volte è necessario scendere a patti». Joseph accolse quella dichiarazione con uno sbuffo irato e abbassò lo sguardo; si sentiva umiliato, non aveva la minima intenzione di accettare compromessi con Thomas Heisenhover e la sua famiglia di vermi. «Lienhard Heisenhover, che rimanga tra noi, è un uomo disprezzabile, ma le conseguenze di un eventuale diverbio tra suo padre e l'Amministratore del quinto distretto lo sarebbero ancora di più. Lei è giovane, ma imparerà che nella vita, a volte, è fondamentale saper chiudere un occhio».

Joseph considerò a lungo quelle parole, in silenzio.

«Non credo di volerlo imparare, signore». Disse, poi, e nel gelo di quelle parole c'era così tanta furia che la voce di Joseph sembrò riverberare nel piccolo ufficio e riempirlo, roca e fumosa come il ringhio di una pantera. «È una qualità che non apprezzo».

Mitchell inarcò le sopracciglia e scosse la testa; non sembrava che quell'alzata di testa lo avesse turbato troppo.

«Può andare, Redthorn».

Joseph si alzò frettolosamente e infilò la porta dopo un congedo formale e brusco.


α٠β٠ω


L'Universitas gli aveva assegnato uno degli alloggi per docenti attrezzati all'interno del campus, e, nonostante la famiglia Heisenhover possedesse numerosi palazzi vicini alla facoltà, Lienhard si era adattato alla quiete del suo piccolo appartamento e non l'aveva più abbandonato. Non raggiungeva nemmeno il centinaio di metri quadri − uno scherzo, avrebbe detto suo padre, una tana di topi − ed era così pieno di libri e riviste scientifiche di ogni forma e dimensione che al visitatore sprovveduto sarebbe parso di entrare in una biblioteca molto caotica.

Il profumo della carta lo colpì appena aprì la porta, familiare come l'abbraccio di una madre. Rimase per qualche secondo in corridoio, inspirando quell'odore secco e accogliente, poi si diresse senza esitazione in bagno; anche quello piccolo senza essere angusto, con una vasca da bagno incassata nel pavimento di legno − in perfetta armonia con lo stile un po' rustico dei dormitori della facoltà − e una serie di chincaglierie per la cura del corpo a cui Lienhard non aveva mai dedicato la benché minima attenzione.

Si spogliò senza fretta, assaporando la sensazione di quotidianità che gli trasmetteva l'essere di nuovo a casa. Prima di immergersi nella polla di acqua calda frugò nelle tasche dei pantaloni e tirò fuori un barattolo di plastica trasparente con il tappo a vite, che appoggiò sul ripiano del lavandino di ceramica.

All'interno del contenitore, rosse e traslucide come gelatine alla frutta, stavano una manciata di capsule piuttosto grosse, dalla forma allungata. Calcolò con un'occhiata che sarebbero bastate per altre due settimane − c'era ancora tempo, tanto tempo prima di doversi preoccupare del rifornimento personale. Per lui, fortunatamente, non era mai stato difficile procurarsi il Progestal.

Non appena ritenne di essere presentabile uscì di casa, diretto alla facoltà di Bioingegneria Genetica. L'edificio, dall'aria antiquata come tutto il resto del campus, celava in realtà alcuni tra i laboratori migliori del pianeta; per entrare era necessario un codice alfanumerico a quattordici cifre che veniva rilasciato soltanto ai ricercatori autorizzati ed era diverso per ciascuno di loro, e alcune sezioni erano protette da sistemi di sicurezza muniti di scanner retinici e sensori per il rilevamento delle impronte digitali.

Varcate una decina di porte a tenuta stagna e affrontate le dovute procedure di decontaminazione, Lienhard entrò in uno dei laboratori secondari; l’ambiente, una stanza nel seminterrato che da sola doveva essere più vasta del suo appartamento, era semibuio, occupato da file e file di tavoli ingombri di attrezzature. Solo uno era illuminato, e uno scienziato in tuta di lattice stava armeggiando  con una serie di radioscanner che, giudicò Lienhard con un’occhiata, sembravano aver bisogno di una taratura.

I capelli del ricercatore erano di una tonalità assurdamente accesa di rosso aranciato.

«Ehilà, Rudi! Non mi hai visto?».

«Hai fatto un baccano d’Inferno e io non sono ancora sordo, Lienhard». Gosween non sollevò nemmeno gli occhi dal proprio lavoro «Anche se ho una probabilità del quarantacinque percento di diventarlo entro gli ottant’anni, sempre che non mi sottoponga ad uno di quei meravigliosi interventi di chirurgia correttiva che adesso vanno tanto di moda».

Continuò a lavorare ancora per un po’, con Lienhard che lo guardava senza parlare.

«Allora,» disse, dopo aver tarato e spento l’ultimo radioscanner  «so perché sei qui. Sappi che per poco non ho dovuto vendere il culo ad un collega dell’Archivio Antropologico per farmi dare quello che hai chiesto».

«Non è vero».

«Come?».

«Non è vero. Sei troppo brutto, nessuno scambierebbe qualcosa per il tuo culo». Lienhard godé in tutta tranquillità dell’espressione finto-offesa di Rudolf.

«Da quand’è che fai questi discorsi da puttana arrivista?».

«Non sai mai con chi hai a che fare, Rudi».

Gosween scosse la testa con fare teatrale, sconsolato.

«Lasciamo perdere. Comunque ce l’ho, anche se è un campione molto piccolo».

«Mi serve il DNA, Rudi. Non importa se te ne hanno dato solo un pezzettino». Rise, un suono pieno di gioia ed esaltazione «Dio, finalmente! Non credevo che ce l’avremmo mai fatta a prendere quel campione».

«Non vorrei guastare i tuoi sogni di gloria, ma questa era la parte più facile». Rudolf aveva gli occhi azzurri, sottili e acuti; ogni volta Lienhard si stupiva dell’intensità di quello sguardo. «Adesso ci servono campioni biologici presi da un Puro… sfortunatamente, non ne troverai su questo pianeta».

«E il nostro amato Gerarca fa in modo che non si possano raggiungere le Nazioni Oltremondo». Lienhard si mordicchiò il labbro «Troverò un modo. Ho i mezzi per farlo, l’unica difficoltà sarà evitare che i campioni vengano contaminati».

«Buona fortuna». In pieno contrasto con il tono pieno di ironia, il viso di Gosween era mortalmente serio «Heisenhover, se anche questa cosa dovesse funzionare ci si inculerebbero. Lo sai, vero?».

«Le mie teorie sono corrette».

«So che sono corrette, ed è proprio questo il punto. Il Gerarca non vorrà essere sputtanato davanti ad un intero pianeta, non credi?».

«Non me ne frega un‒»

«Ok, ok. Abbiamo già fatto questo discorso, so come va a finire, quindi perché mi ostino a parlartene? Andiamo a bere qualcosa». Rudolf si sfilò i guanti di lattice con un gesto secco e li buttò sul bancone «Non vedo l’ora di togliermi questa tuta appiccicosa, e poi devo ancora offrirti qualcosa per festeggiare il tuo… quinto arresto? O è il sesto? Almeno tu ti ricordi a che numero stai?».

«Sono le quattro del pomeriggio». Fu la placida osservazione di Lienhard, che si era già avvicinato alla porta «Non è un po’ presto?».

«Non è mai un po’ presto per bere, Leny».

Lo seguì con un sospiro, cercando di ignorare il modo ridicolo con cui la tuta di lattice si incollava alla pelle dello scienziato nei punti meno opportuni.


α٠β٠ω


All’una e mezza di pomeriggio del giorno successivo, con uno zaino pieno di libri voluminosi in spalla e una morsa di nervosismo alla bocca dello stomaco, Lienhard si presentò alla biblioteca del campus. Fu una bella sorpresa trovare la piccola folla dei suoi studenti già ad attenderlo, seduti sui gradini davanti al portone d’ingresso; la sua allegria si smorzò rapidamente quando notò una figura longilinea appoggiata con apparente noncuranza accanto allo stipite.

«Tu». Quella che voleva essere una constatazione un po’ stupita risultò praticamente un ringhio animalesco «Che cosa stai facendo qui?».

Joseph Redthorn lo squadrò per un secondo infinito, e la rabbia di Lienhard sfumò come neve al sole quando si accorse che nell’espressione contratta del suo viso c’era più amarezza che altro. Gli studenti tacevano, fissandoli come se si aspettassero una scazzottata o qualcosa di simile, e per un attimo il professore desiderò che se ne andassero tutti al diavolo e li lasciassero soli ‒ non fu che un pensiero fulmineo, subito svanito.

«Mi hanno selezionato come sua scorta personale». Ringhiò «Ma non pensi che sia stato io a richiedere questo incarico».

La prima domanda che balenò nella mente di Lienhard fu: “per quanto tempo?”.

Per quanto tempo sarebbe stato costretto a condividere il proprio spazio vitale con quell’idiota arrogante? A nessuno dei due andava a genio l’idea, quindi era prevedibile che si sarebbero vicendevolmente impegnati nel rendersi la vita impossibile… settimane, forse mesi di convivenza forzata.

Ditemi che è uno scherzo, ditemi che è tutto un maledetto scherzo che non fa ridere per niente”.

«Di chi è stata l’idea?».

«I miei superiori hanno ritenuto che, vista la natura del soggetto da sorvegliare, si rendesse necessario affidare l’incarico a qualcuno con una certa esperienza. C'è da sentirsi onorati, Heisenhover».

"Però, ha anche un'idea vaga del concetto di ironia. Questo tipo non finirà mai di stupirmi".

«Il soggetto da sorvegliare non ha voce in capitolo, immagino».

«Ovviamente no».

«Ok». Lienhard non riuscì a controllare il lieve tremito nervoso della voce «Ok. Ragazzi, a casa. La lezione su Dostoevskij è rinviata alla prossima settimana... nel frattempo vedete se riuscite a leggervi qualcosa, mi aspetto un bel dibattito costruttivo».

Joseph sbarrò gli occhi, spiazzato, mentre gli studenti − i più lamentandosi e sussurrando imprecazioni antigovernative, qualcuno guardando con una sorta di timore reverenziale il professore e il soldato − raccoglievano baracca e burattini e si allontanavano dalla biblioteca. Quando furono rimasti soli, tra loro soltanto un silenzio teso interrotto dal frinire delle cicale, Lienhard esalò un lungo sospiro stanco e gli fece cenno di seguirlo.

«Andiamo, su. Dobbiamo necessariamente parlare di questa cosa».

Il tono era del tutto casuale − una proposta educata, forse persino amichevole − ma Joseph non poteva fare a meno di trovare qualcosa di insinuante nel sorriso morbido di Heisenhover, nei suoi occhi scuri velati dalle ciglia bionde. Era un bell'uomo, inutile negarlo, peccato fosse un alfa e dotato di un carattere ben al di là della soglia dell'insopportabilità.

«Andiamo dove? E di cosa dovremmo parlare, esattamente?».

«Del mio corso, del tuo lavoro, del tempo. Ci sono tante cose di cui parlare. Per quanto riguarda il "dove" ho in mente un posto tranquillo, scommetto che non ci sei mai stato». L'espressione di Joseph rimaneva dubbiosa.

«Non sono sicuro che questo rientri nei miei compiti».

«Oh, andiamo. Come altro vuoi passare il pomeriggio, a firmare scartoffie in centrale? Ti pagano pure, che diamine!». Gli lanciò un'occhiata aperta, sincera, e Joseph fu tentato di accettare; Lienhard Heisenhover era una creatura strana, imprevedibile, ed era curioso di sapere cosa avesse architettato per convincerlo a patteggiare con lui.

«Ti ricordo che sono in orario lavorativo. Qualsiasi affermazione compromettente verrà riportata a chi di dovere».

La reazione di Lienhard fu quanto di più imprevisto: fece spallucce e si aprì in un sorriso spontaneo, quasi radioso − sembrava davvero che, nonostante tutto, non gli importasse. Joseph si chiese se, nella stessa situazione, si sarebbe comportato in quel modo.

"No, non l'avrei fatto. Ha un bell'autocontrollo o un bel po' di menefreghismo".

«Sei un osso duro, eh?». Celiò il professore, senza smettere di sorridere come un ragazzino «Se non fossi uno stronzo totale mi staresti quasi simpatico».

«Quando parlavo di affermazioni compromettenti mi riferivo esattamente a quest−»

«Tanto la denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale ce l'ho già. Come vedi, minacciarmi è molto difficile».

Il soldato scosse la testa e scese i gradini che lo separavano da Lienhard, sempre mantenendosi ad una distanza di sicurezza di almeno un metro. La vicinanza con quell'uomo acuto e sarcastico, che usava armi del tutto diverse da quelle a cui era abituato, lo faceva sentire ridicolmente esposto; non riusciva a difendersi adeguatamente, era un dato di fatto.

«Non ho tutto il giorno,» lo informò «farai bene a sbrigarti».


α٠β٠ω


Lo aveva accompagnato in un locale del centro storico, un piccolo caffè a cui si accedeva tramite una rampa di scale che scendeva ben al di sotto del livello della strada. All’interno non c’erano finestre, e l’illuminazione era garantita da una quantità di piccoli globi luminescenti che volteggiavano per tutto l’ambiente e cambiavano colore in continuazione; non assumevano mai tinte violente, attraversavano una gamma di sfumature pastello che Joseph trovava molto piacevoli.

I tavolini erano separati gli uni dagli altri da lastre di plexiglas deformato che occultavano parzialmente le sembianze degli avventori; l’arredamento era ultramoderno, pareti di polimermarmo così lisce da sembrare specchi e suppellettili di acciaio cromato dalle forme bizzarre.

«Posto carino, vero?». I vestiti antiquati di Lienhard erano incredibilmente fuori contesto, ma Joseph non lo disse. Si limitò ad annuire, mentre il professore infilava una sottile tessere magnetica in una fessura sul piano del tavolo e ne sfiorava la superficie con gesti esperti; su quello che sembrava semplice acciaio comparve all’improvviso un menù completo di foto. «Vedi, è self-service». Spiegò, indicando un vasto assordimento di milkshake e cocktail di tutte le forme e i colori «Basta toccarlo e ti arriva direttamente al tavolo. Prendi quello che ti pare, offro io».

Joseph inarcò le sopracciglia.

«Sembra un posto abbastanza costoso». Osservò, scorrendo velocemente la lista dei prezzi «Sei sicuro? Non vorrei dovermi sdebitare».

«Stai scherzando?». Lienhard rise e selezionò per sé un paio di cocktail dall’aria piuttosto alcoolica «Poi il proprietario è amico di mio padre, tranquillo».

Joseph ricordò a se stesso che tecnicamente era in servizio e optò per un frullato di obstgrün, una bacca endemica del pianeta che, una volta maturata, assumeva un bel colore rosa brillante. Il soldato ricordava un periodo della sua infanzia in cui ne aveva mangiate tantissime, perché la villa in cui trascorreva le vacanze con suo padre era circondata da piantagioni di bacche ‒ ondeggiavano al vento, i rami violacei delle piante un tempo aliene, e spandevano nell’aria un profumo fresco che il tempo aveva marchiato a fuoco nella sua memoria.

Il tavolo vibrò per qualche secondo e poi il piano d’acciaio si divise in due metà perfette, che scivolarono di lato senza il minimo rumore; il vuoto che si era formato al centro fu presto riempito da una piattaforma di metallo verniciata di nero, su cui troneggiavano le ordinazioni e un piattino omaggio di semi da sgranocchiare.

«Eh?». Fece Heinsenhover, palesemente orgoglioso «Adoro il self-service. Mi permette di ordinare quello che mi pare senza rompere le palle a dei beta».

Joseph bevve un sorso del frullato ‒ era ottimo, freddo e rinfrescante al punto giusto ‒ e annuì.

«Sei un Egualitario, vero? Mi riferisco alla questione delle Categorie».

Lienhard fece spallucce. «Non mi inscrivo in un movimento politico preciso. Penso semplicemente che una società gerarchica come la nostra sia non solo debole, ma oppressiva nei confronti di beta e omega. Lo fanno passare per un ordine naturale, io credo che si tratti di semplice barbarie».

«Una convinzione onorevole per un alfa». Osservò Joseph, senza alcun sarcasmo. Aveva sempre pensato che fosse quasi scontato che beta e omega combattessero per conquistare una maggiore indipendenza, mentre gli alfa impegnati in quel tipo di lotte sociali erano rari. Perché avrebbero dovuto propugnare l’abolizione di un regime che era tutto a loro vantaggio? Solo qualcuno che credesse profondamente nei propri ideali poteva avere la forza di fare una cosa del genere.

«Lo pensi sul serio?». Lienhard sorrise, le guance scaldate dall’alcool ‒ aveva bevuto metà del primo cocktail in una sola sorsata, e il soldato annotò mentalmente quel particolare. «Non mi sembri molto d’accordo con il Movimento Egualitario, no?».

«Apprezzo la forza di chi combatte con coraggio battaglie non proprie». Joseph increspò le labbra in un ghigno di superiorità «Anche quando questo comporta conseguenze legali che mi costringono ad intervenire».

«Oh, scommetto che ti dispiace». L’impudenza del professore riaccese la miccia dell’antipatia. Era così, con Heisenhover: i lati positivi e negativi del suo carattere si mostravano in una specie di alternanza lunatica, snervante, e Joseph si trovava continuamente nell’impossibilità di formulare un giudizio definito su di lui. «Comunque non siamo qui per prenderci per il culo a vicenda. Non che l’attività mi dispiaccia, sia chiaro». Scolò quello che restava del primo cocktail in un’altra sorsata e si schiarì la voce «Allora. Ti pagano per intrometterti nei miei corsi e a me questa cosa non va a genio».

«Credevo che fosse chiaro ad entrambi».

«Il punto che invece non è chiaro è quanto hai intenzione di intrometterti. Voglio approfondire questo aspetto». Si appoggiò del tutto allo schienale della sedia e allacciò le braccia attorno al busto, scrutandolo con una lunga occhiata inquisitoria; prima di rispondere Joseph si soffermò sui suoi capelli biondi, sul modo con qui gli sfioravano il viso e le spalle come una cortina di oro filato. Era una pettinatura inconsueta, fuori moda, e forse proprio per questo gli stava tanto bene. Aveva come la sensazione che Heisenhover sarebbe parso ridicolo con un taglio “normale”.

«Tra gli argomenti da evitare tassativamente ci sono la ribellione, sempre che questa venga giustificata, e tutto ciò che è inerente a fatti di cronaca politica. Le idee antinazionaliste sono vietate, così come spiegazioni incentrate sulle teorie evoluzionistiche e i viaggi interplanetari».

«Teorie evoluzionistiche?». Lienhard inarcò un sopracciglio, facendosi più attento «Come mai?».

«Non lo so. Non sono stato io a scegliere gli argomenti tabù, Heisenhover, me li hanno soltanto comunicati».

Quindi nemmeno tu ne sei a conoscenza. Cosa mi aspettavo?”. Simulando noncuranza, il professore fece una smorfia come per dire che non riusciva proprio a comprendere le strane manie dell’Amministratore Distrettuale.

«Be’, tutto sommato non è troppa roba».

Lienhard si trattenne dallo sbottare a ridere quando, per l’ennesima volta, Joseph Redthorn sgranò gli occhi davanti ad una reazione che non si aspettava. Cosa pensava, che si sarebbe messo a sbattere i piedi per avere quello che voleva?

«Non sono gli argomenti che tratti tipicamente nel tuo corso?».

«E perché mai dovrebbero esserlo? Ho così tanto l’aria del facinoroso?». Sbuffò, divertito «Ne tratto talmente tanti, di argomenti… la lezione che hai avuto la buona grazia di interrompere verteva sull’amore, per esempio. Un argomento coinvolgente, non trovi?». Fu studiatamente melliflua, la sua domanda, e Redthorn contrasse il viso in una maschera di disagio e imbarazzo.

«Che cosa vuoi dimostrare, Heisenhover?».

«Io? Ma niente! Perché sei sempre così‒»

«Non credo che dovremmo darci del tu». Sibilò, scostandosi bruscamente dal tavolo «Il nostro è un rapporto strettamente professionale, e sappi che non ho la minima intenzione di simpatizzare con un pallone gonfiato che vive all’ombra di suo padre».

«Se pensi che darò del lei o del voi ad uno più giovane di me, maggiore Joseph Redthorn, ti sbagli. Comunque si vede che sei il tipico imbecille antiegualitario,» era perfettamente calmo, quasi scherzoso, e proprio per questo le sue parole risultavano taglienti «non sai perdere. Non sai nemmeno gestire un dialogo degno di questo nome».

«Tu non puoi permetterti‒»

«Quanti libri hai letto in vita tua, tanto per capire? Il Manuale del Perfetto Soldatino non conta, eh».

Ed era meraviglioso ‒ oh, se lo era!, vedere il viso delicato di Joseph Redthorn attraversato da chiazze rosse d’irritazione, ascoltare il suo respiro accelerato e la sua voce incrinata dalla rabbia. Aveva sempre amato quella sensazione, Lienhard, il momento perfetto in cui si è consapevoli di avere il controllo su un’altra persona e lo si sfrutta per distruggerla e ridicolizzarla.

Joseph Redthorn, pur con tutta la sua forza e il suo spiccato orgoglio alfa, non poteva vincere. La sua mente era troppo infantile, sviluppatasi all’interno di architetture predefinite che non lasciavano spazio al senso critico, perché riuscisse a tenergli testa a lungo.

«Non potrà continuare così a lungo». Ringhiò, infatti, nell’ultimo anelito vitale della bestia che si vede sottratta la libertà e tenta di mordere la mano che la uccide «Prima o poi pagherà le conseguenze della sua irriverenza».

Toh, era persino tornato alla terza persona singolare.

Lienhard non ebbe nemmeno il tempo di rispondere a tono: il maggiore si voltò, con una rigidità che aveva del sovrumano, e uscì dal locale senza guardarsi indietro.

La sua somigliava curiosamente ad una fuga.











_______________ _ _ _

Reduce da una settimana incasinatissima, accendo il pc solo per pubblicare questo capitolo!

Ringrazio chi ha recensito e chi ha inserito la storia nelle seguite, mi auguro che il proseguire dell'intreccio non tradisca la fiducia che avete dimostrato... mi sto impegnando per rendere la storia più coerente possibile ;)

Fatemi sapere che ne pensate, a domenica prossima!

Saluti,

Greedfan

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Capitolo 3
*** γ. ***



γ.

Scappa.

Fa male, fa tutto male. Il respiro, la testa ‒ quel bruciore insistente, la bestia aggrappata alle sue viscere che implora di venire soddisfatta. È una puttana lasciva che smania e geme, sussurra il suo nome e quasi gli impone di fermarsi ‒ lascia che accada quel che deve accadere, lascia che ti prenda, lascia che ti prenda…

Lienhard ringhia e si aggrappa al primo sostengo che incontra, ferro freddo di lampione tra le dita e grani scabri di mattone sotto le unghie. Gli sembra di essere cieco, il mondo è immerso in una nebbiolina lattiginosa che sfoca e confonde i contorni delle cose; le fitte al bassoventre ci sono sempre, simili a carezze bollenti che salgono dall’inguine e si trasformano in brividi di aspettativa ‒ non capisce più nulla, annientato, e dalla bocca premuta contro il muro di mattoni sfugge un gemito basso e lamentoso. Il bisogno urgente che gli attanaglia le viscere è turpe, disgustoso, arrossisce e vorrebbe piangere quando sente qualcosa di caldo e umido scivolare tra le gambe dischiuse.

Sei una bestia,” si dice “una schifosa cagna in calore”.

Si tappa il naso e inspira dalla bocca, snebbiando per qualche secondo i pensieri affannati. Quando riesce a staccarsi dal muro, ricominciando a correre nell’intrico di vicoli che è la parte bassa di Fegith, i passi pesanti dell’alfa sono dietro di lui.

Può sentire i suoi ansiti rochi, le mezze bestemmie che sussurra mentre cerca di raggiungerlo.

Può immaginare le pupille dilatate, le labbra contratte a scoprire i denti, il testosterone che circola come benzina nei muscoli spinti al limite. Il solo pensiero della pelle sudata dell’alfa basta a farlo tentennare per un secondo, ma la parte razionale di sé è ancora più forte e gli impone di continuare a correre.

Se ti Reclamasse non saresti più libero. Farà di te quello che vuole”.

Sa che sottrarsi al profumo intossicante di un alfa nel bel mezzo del calore non è cosa da poco. Lui probabilmente può percepire la sua paura, la inspira ad ampie boccate insieme ai ferormoni, e non fa nemmeno un tentativo per fermarsi: non appena l’ha visto ha cominciato a dargli la caccia come una belva feroce, gli occhi folli nel viso sfigurato dall’indigenza, e Lienhard sa di avere a che fare con la peggior feccia dell’intera Fegith.

Però lui è un alfa,” vorrebbe potersi fermare e rompergli il naso a furia di calci “lui è nato per essere superiore a me”.

L’intera situazione è poco meno che grottesca.

L’alfa, sicuramente non in perfetta salute, dopo un po’ comincia a rallentare. Senza voltarsi Lienhard percepisce i suoi passi più lenti, l’intervallo tra un tonfo sul lastricato umido e l’altro via via più lungo; si gira giusto un secondo, e l’uomo è per terra, in ginocchio, un braccio puntato verso di lui.

«Vaffanculo!». Grida, gli occhi fuori dalle orbite «Vaffanculo, schifosa puttana!».

Al ragazzo viene quasi dal ridere; il relitto umano è troppo lontano perché possa percepirne l’odore, e vederlo accasciato come un mucchio di stracci sulla pavimentazione dissestata riempie Lienhard di gioia. «Non è roba per te, pezzo di merda!». Grida, concedendosi un po’ di sbruffoneria dopo lo spavento «Vai a scopare una di quelle troie impestate che stanno nella Via delle Lanter‒»

Il colpo alla schiena arriva senza rumore. Una stilettata di dolore così acuto che Lienhard non riesce nemmeno a gridare, e si accascia sul lastricato rotolando da una parte.

Solleva appena lo sguardo ‒ la nausea è l’unica percezione sensata dopo il dolore, prima che un nuovo odore alfa gli riempia le narici e ottenebri quello che resta del suo autocontrollo. Stavolta è ancora più intenso e l’uomo da cui proviene, un tipo alto quasi due metri con la struttura possente e muscolare di un minatore, si china su Lienhard con un ghigno soddisfatto.

«Ma guarda un po’ cosa ci ha portato il vento della Città Alta». Ringhia, e la parte di Lienhard che non si è sciolta in una pozza di eccitazione sfrenata cerca disperatamente di farlo alzare in piedi «Quanti anni hai, ragazzino? Quattordici? Gli omega non dovrebbero andarsene in giro nel periodo dei primi calori, no?».

«Ehi, Nyles!». Bercia l’altro alfa, ancora seduto per terra «Quando hai fatto lasciamene un po’, eh».

«Solo se chiudi quella boccaccia di merda, Gene».

Lienhard si sente afferrare per i capelli ‒ il dolore si concentra sulla nuca, adesso, e gli sfugge un gemito che è solo per metà di sofferenza. L’attimo successivo, il respiro fetido dell’alfa di nome Nyles è sul suo viso.

 

Si svegliò in un bagno di sudore, le lenzuola attorcigliate in un cumulo ai piedi del letto.

Ansimava, il petto scosso da tremiti, la fronte scottava come se avesse la febbre.

«Era un sogno». Mormorò, così piano che le sue parole si persero in un sussurro disarticolato «Soltanto un sogno»

La sveglia segnava le tre e mezzo del mattino, un orario in cui era impensabile alzarsi per fare qualsiasi cosa; si sdraiò di nuovo sul materasso, cercando come meglio poteva di controllare il respiro accelerato. Non riuscì a impedirsi di passare una mano sul cavallo dei pantaloni per sentire se c’era dell’umido. Era asciutto, per fortuna.

Evidentemente il suo ciclo ormonale stava subendo degli squilibri. L’aver passato del tempo a stretto contatto con un alfa come Joseph Redthorn ‒ che, per quanto limitato da un punto di vista intellettivo, aveva un profumo per cui parecchi omega di sua conoscenza avrebbero fatto follie ‒ doveva aver in qualche modo stimolato la produzione di ormoni estrogeni. E con il passare del tempo, Lienhard lo sapeva, sarebbe soltanto peggiorata.

Allungò una mano verso il barattolo di Progestal, appoggiato sul comodino accanto al letto, e buttò giù un paio di capsule. Aumentare ulteriormente la dose giornaliera era una scelta rischiosa, visto che non si conoscevano con esattezza gli effetti a lungo termine che grandi quantità di ormoni potevano produrre sul corpo di un omega, ma si trattava dell’unica via praticabile. Ricordava con terrore l’intensità sconvolgente dei suoi primi calori, e non osava immaginare come sarebbe stato dopo più di quindici anni di blackout.

Probabilmente se ne accorgerebbero in un raggio di due chilometri”. Ingoiò un’altra capsula e si schiarì la voce, immobile nel buio dell’appartamento vuoto.

A volte si chiedeva come sarebbe stato avere un Legame con qualcuno. Non avrebbe dovuto imporre al proprio corpo costrizioni che non gli appartenevano o intossicarsi con ormoni sintetici provenienti da chissà dove; aveva sacrificato la sua libertà in nome della libertà, e quando guardava alla vita da recluso che si era tanto faticosamente guadagnato si sentiva invadere da una profonda tristezza. “Se mi fossi fatto ingravidare dal primo nobilotto di Fegith,” pensava “a quest’ora me ne starei a casa mia, circondato da una famiglia. Magari mi sarebbe capitato uno di quegli idioti che si fanno comandare a bacchetta e mi sarei potuto iscrivere comunque all’Universitas”.

Immaginava la vita domestica, l’amore, il sesso ‒ le poche esperienze che aveva avuto erano state sempre e solo con prostitute beta, onde evitare Legami indesiderati e fughe di notizie che potessero danneggiare irreparabilmente la sua immagine. Sapeva che un rapporto sessuale tra alfa e omega era di gran lunga la cosa più intensa di cui la Natura avesse fatto dono all’uomo, ed era altrettanto consapevole del fatto che non l’avrebbe mai sperimentato di persona.

Non poteva buttare via la sua vita. Accettare la natura omega e vivere come una qualsiasi mogliettina felice era un prospettiva avvilente per lui, che era sempre stato il migliore del suo corso universitario e una delle personalità di spicco della facoltà di Bioingegneria. Ridursi ad un’incubatrice per le cucciolate di un alfa proveniente da chissà quale casata di imbecilli spocchiosi era il suicidio, lo spreco più grande che si potesse fare delle sue capacità ‒ questo Lienhard se lo ripeteva spesso, quando la tentazione di mandare tutto all’aria diventava insostenibile.

Sospirò, passandosi una mano tra i capelli sudati.

"Devo smetterla di piangermi addosso".


α٠β٠ω


La settimana trascorse all'insegna del nervosismo.

Lienhard si accorgeva di diventare ogni giorno più intrattabile e non riusciva in nessun modo a contenersi; l'unica cosa che poteva fare − e in cui si impegnò parecchio − era rimanere in casa il più a lungo possibile, leggendo o rivedendo vecchie copie dei suoi studi. In condizioni normali avrebbe raggiunto Rudi ai laboratori, ma aveva paura di disturbarlo con i ferormoni: lasciando la dose di Progestal così com'era, il suo odore denso e speziato era diventato molto più forte. Non troppo, non tanto da spingerlo a prendere soppressanti anche quando passava la giornata nell'appartamento, ma comunque abbastanza intenso perché un alfa giovane come Gosween lo fiutasse.

Il giorno del corso ingerì quasi mezzo flacone di Progestal. Joseph Heisenhover era un alfa con un profumo decisamente forte, il che faceva pensare ad un'attività sessuale ridotta o del tutto assente; quel tipo di soggetti in genere risentivano di un iper-funzionamento dell'organo vomeronasale e riuscivano a percepire i ferormoni con una precisione mostruosa (Lienhard ricordava ancora come il suo insegnante di anatomia li avesse paragonati a degli squali, capaci di captare una molecola di sangue su un miliardo di molecole d'acqua).

La Natura si ingegnava in ogni modo per favorire la prosecuzione della specie. Grazie, Natura.

Uscì di casa con lo stomaco contratto per il nervosismo e una mezza dozzina di capsule supplementari nella tasca interna della giacca − un gesto arrischiato, ma anche solo sapere che erano lì lo rassicurava. E il sudore da nervosismo era quanto di meno auspicabile, visto che rilasciava una quantità enorme di ferormoni.

Gli studenti stavano di nuovo davanti alla porta della biblioteca, lo aspettavano chiacchierando come se nulla fosse cambiato. Joseph Redthorn era già lì, anche se di primo acchito Lienhard non lo vide: questo perché non portava l'uniforme, ma un paio di pantaloni neri e un maglione azzurro che gli davano un'aria più dimessa del solito, e se ne stava in disparte con le mani affondate nelle tasche. Lienhard percepì l'odore dell'alfa a due metri di distanza, e il suo corpo reagì con una fitta al bassoventre che non aveva proprio niente di piacevole.

«Ma non mi dire». Commentò, una volta che gli si fu avvicinato «In borghese».

Redthorn annuì in modo strano, quasi imbarazzato, e borbottò: «Ho il permesso di farlo, e mi è sembrato di creare una minore interferenza con il corso. Del resto l'Universitas non vede di buon occhio la presenza di militari all'interno delle strutture, e−»

«Grazie». Lienhard lo interruppe con un gesto svolazzante della mano, inspirando una boccata soffocante di ferormoni «Apprezzo il gesto». E, strano a dirsi, lo pensava davvero.

"Basta che tu ti sieda in fondo all'aula e lo apprezzerò ancora di più".

Entrarono nella biblioteca, Lienhard che camminava ad un ritmo più veloce del consueto per sfuggire al profumo dell'alfa e Joseph che gli teneva dietro senza fatica, lui e i suoi implacabili ferormoni. Il professore si sistemò sulla solita scrivania e cominciò a scartabellare tra i vari libri che aveva portato con sé; si interruppe, teso, quando gli arrivò una zaffata di odore così forte da fargli girare la testa.

«Non potresti...» si schiarì nervosamente la voce e lanciò un'occhiata al soldato, in piedi poco dietro di lui «... ecco, sederti insieme agli studenti? Odio essere fissato da qualcuno che non posso vedere».

«Hai qualcosa da nascondere?».

"Nah, un traffico illegale di progesterone e qualche altra robetta".

«Tutti hanno qualcosa da nascondere». Ribatté, stizzito «Anche se nel mio caso non si tratta del tipo di cose che potrebbero interessare ad un poliziotto».

Joseph lo guardò per qualche secondo, assorto − "Vaffanculo tu e i tuoi occhi chiari del cazzo".

«Sicuro di star bene, Heisenhover? Sei... pallido».

«Da quando ti preoccupi per la mia salute, Redthorn? Su, siediti. Hanno aspettato una settimana per questa lezione, non vorrei posticipare ancora». Gli indicò una sedia vuota e il soldato, sorprendentemente, la raggiunse senza protestare.

«Allora». Si tirò in piedi sulla scrivania, un libro aperto nella mano destra «Direi che possiamo cominciare. Oggi si parlerà di uno dei più grandi autori dell'era arcaica, Fëdor Dostoevskij. Per caso qualcuno di voi ha letto una delle sue opere per oggi?».

Una decina di mani si sollevarono piuttosto timidamente; sola tra tutte, quella di David Cooper scattò in aria con decisione inusitata.

«Cooper, che cos'hai letto per oggi?».

Il ragazzo indicò il libro che il professore teneva in mano e sorrise con evidente soddisfazione.

«Lo stesso che ha lei».

«Delitto e Castigo. Be', non è sicuramente un romanzo semplice da approcciare... complimenti, David».

Lo studente arrossì, e Lienhard represse un'esclamazione infastidita quando Joseph gli scoccò un'occhiata di sufficienza che avrebbe congelato il nocciolo di una centrale nucleare; più tardi, si disse, avrebbe discusso quell'aspetto con il soldato.

«Sfortunatamente gran parte delle opere di Dostoevskij è andata persa o distrutta con il passare del tempo. Gli unici due romanzi completi giunti fino a noi sono "L'Idiota" e, appunto, "Delitto e Castigo". Per il resto possediamo una grande quantità di frammenti e citazioni indirette da critici coevi o leggermente successivi come George Steiner, più un corpus spurio che però non mi sento di consigliarvi. Prima di parlare della vita dello scrittore avevo pensato di leggere un passaggio del suo romanzo più famoso, proprio per capire di che genere di artista stiamo parlando... che ne dite?».

Gli studenti annuirono e cominciarono a frugare nelle borse alla ricerca degli instan-traduttori. Joseph si guardò intorno, spaesato, poi lanciò a Lienhardi un'occhiata che poteva significare più o meno: "Ma non dovrei averne uno anch'io?".

Sospirando, il professore tirò fuori il proprio istan-traduttore dalla tasca dei pantaloni − somigliava ad una delicata conchiglia spiraliforme di metallo, così leggero che a mala pena ne avvertiva il peso − e lo lanciò al soldato. «Infilatelo,» disse «o non capirai una parola. Sono un grande sostenitore delle letture in lingua originale».

«Grazie».

Lienhard si schiarì la voce, cercando di ignorare lo sguardo azzurro di Joseph, e cominciò a leggere.


Non pensava fosse possibile.

Joseph Redthorn fu travolto dallo sgomento, un'ondata che lo paralizzò e per un momento annullò qualsiasi percezione che non fosse quella della voce calda e modulata di Heisenhover, della sua bocca che cesellava parole con la grazia di un'artista intento a plasmare la creta. Era una lingua che sapeva razionalmente di non conoscere, un insieme di suoni cupi e scivolosi che portavano con sé un ricordo antico di gelo e di nebbia, eppure capiva: davanti ai suoi occhi si dipanava la scena brutale di un omicidio, la testa spaccata di due donne e una pozza di sangue che si spandeva su un vecchio pavimento di assi scheggiate. Lienhard accarezzava quel passaggio con un vigore particolare, accenti brutali a ornare quelle frasi quasi vischiose, agitava una mano nell'aria e con l'altra stringeva il libro ingiallito fino a far sbiancare le nocche; per un attimo alla sua immagine si sovrappose quella dell'assassino, chino sulla vecchia usuraia con il cappotto sdrucito a pendere attorno ai fianchi come le ali inerti di un pipistrello, gli occhi fuori dalle orbite nell'impeto del furore omicida, e Joseph sobbalzò. Poteva percepire gli odori, i colori e gli oggetti danzavano sulle retine come se fossero davvero lì, ed era incredibile pensare che un simile incantesimo fosse frutto di qualche riga stampata e della voce potente e carezzevole di un uomo.

"In questo sei davvero bravo, Heisenhover". Pensò, e si ritrovò ad ammirarlo senza nemmeno rendersene conto. Non sarebbe mai stato in grado di fare una cosa del genere, di infondere vita nella statica geometria delle parole, mentre il professore compiva quel prodigio con una naturalezza disarmante. Per la prima volta lo vedeva nel suo elemento, con le difese completamente abbassate, e poteva capire perché i suoi alunni lo stimassero tanto.

Doveva essere uno degli ultimi uomini, Heisenhover, a conoscere quell'arte antica e dimenticata; i teleschermi e gli o-screen avevano soppiantato da secoli la lettura, e Joseph era cresciuto con la convinzione che i libri − digitali o di carta stampata, c'era poca differenza − non fossero altro che precursori obsoleti del filmato. In quel momento si rese conto di aver sempre commesso un errore grossolano.

«Ok». Il professore chiuse il libro, e Joseph si ritrovò a provare una strana sensazione di vuoto e abbandono − avrebbe voluto che continuasse, anche se non osò esprimere quel pensiero ad alta voce. «Come più o meno tutti saprete, Delitto e Castigo racconta la storia di uno studente, Raskol'nikov, che uccide una vecchia usuraia. La prima parte del romanzo è incentrata sulla preparazione dell'omicidio e sulle motivazioni che spingono il protagonista a compierlo, la seconda metà parla di come Porfirij Petrovič, un giudice istruttore, riesce a far confessare il crimine a Raskol'nikov. Ovviamente non vi dirò come finisce perché pretendo che lo leggiate».

Dalla platea si levò qualche risatina.

«Cooper, illuminaci». Il tono di Lienhard era scherzoso, ma il ragazzo arrossì e si abbassò la testa, in imbarazzo «Perché Raskol'nikov uccide la vecchia usuraia?».

«Be', non c'è un solo motivo». Ad un cenno d'assenso del professore, lo sguardo di Cooper si fece più sicuro «Raskol'nikov, ad una lettura superficiale del romanzo, uccide l'usuraia perché non può pagare il debito che ha con lei. In realtà lo scrittore impiega le prime duecento a spiegarci che non è proprio così... le motivazioni che spingono il protagonista all'omicidio sono molto più ideologiche. Vuole dimostrare a se stesso di essere grande diventando una sorta di legislatore per qualcun altro, e in questo si paragona ai grandi uomini della sua epoca. Si pone dei limiti etici che oltrepassa per dimostrare la propria superiorità, per provarsi che è in grado di sopportare anche il peso morale di un omicidio... ed è in quello che si rivela tutta la sua debolezza. Non riesce a sopportarlo, quel peso».

«Perfetto, David». Gli occhi di Lienhard brillavano d'ammirazione, guardandoli Joseph percepì il pungolìo di un sentimento simile alla rabbia «Quindi possiamo dire che alla fine il protagonista fallisca nel suo tentativo di raggiungere la grandezza?».

Cooper annuì: «C'è una grandezza anche nel male, questo è vero, ma Raskol'nikov non appare mai come un personaggio forte o sicuro delle proprie azioni. È sempre così... meschino, in un certo senso».

«Gli altri che ne pensano? Il protagonista vi è piaciuto?».

«Non sono d’accordo con quello che ha detto David». Joseph lanciò un’occhiata pigra al ragazzo che aveva parlato ‒ beta, viso leggermente irregolare, vestiario trasandato. I capelli erano lunghi come quelli del professore, forse con il preciso intento di imitarlo, ma non avevano nulla dell’eleganza rilassata di Lienhard.

«Perché, Jan?».

Ricorda a memoria tutti i nomi e dà loro del tu”. Joseph si chiese da quanto tempo andassero avanti quei corsi pomeridiani e perché fossero nati; si ripromise di chiederglielo, prima o poi.

Di sicuro il professore era portato per l'attività extracurricolare: lo guardò scherzare con i suoi alunni come se fossero amici, ascoltare i loro interventi e risolvere le perplessità senza mai abbandonare il sorriso accogliente − non avrebbe saputo definirlo altrimenti − che gli increspava le labbra. Emanava una sensazione di calore e tranquillità difficile da far combaciare con il Lienhard Heisenhover che finiva dietro le sbarre ad ogni manifestazione anti-governativa, e Joseph non ci mise molto a capire cosa ci fosse dietro lo sguardo adorante che molti dei suoi alunni gli rivolgevano.

"Per loro sei un padre e un fratello," pensò "li sostieni e li guidi senza importi con la disciplina. Non è facile trovare persone così negli ambienti formali".

La discussione tra studente e professore degenerò ben presto in un dibattito acceso che verteva sulla possibilità o meno di diventare uomini più grandi trascendendo i limiti della morale comune. C'erano studenti che sembravano pronti a picchiarsi − Joseph inarcò le sopracciglia, impressionato, quando un omega basso e mingherlino cercò di afferrare un beta più grosso di lui e fu prontamente fermato − e altri che strepitavano come se ne andasse della loro vita su argomenti che il soldato riteneva quasi privi di interesse. Mentre Lienhard si sbracciava per mantenere la situazione nei limiti del socialmente accettabile − una rissa nella biblioteca dell'Universitas avrebbe fatto notizia − Joseph rimuginò pigramente sull'argomento in discussione. Per lui, in realtà, la questione era molto semplice: il protagonista del romanzo era un assassino e come tale andava considerato. Le motivazioni dietro quel gesto potevano essere le più varie, ma Raskol'nikov si era trasformato consapevolmente in un criminale − un omuncolo abietto ed egoista, così piccolo che veniva da chiedersi come si potesse scrivere un romanzo con un protagonista del genere. Joseph credeva fermamente nell'esistenza di una morale etica sviluppatasi insieme all'uomo stesso, e si affidava a quelle regole non scritte senza remore. Tutta la sua vita, del resto, era stata un continuo educarsi a rispettare le leggi.

Sentir risuonare il suo nome lo riportò bruscamente alla realtà. Alzò lo sguardo a incontrare gli occhi scuri di Heisenhover, che lo aveva appena chiamato, e inclinò la testa da un lato con fare confuso.

«Scusa?». Gli diede del tu senza nemmeno rendersene conto, gli sguardi degli studenti che bruciavano un po' sulla pelle.

«Mi sembrava interessante fornire ai ragazzi un parere più adulto, no?». Aveva come la sensazione che nelle parole di Lienhard ci fosse una punta di scherno «Tu che ne pensi, Joseph? Oltrepasseresti mai la morale per dimostrare a te stesso che sei abbastanza forte?».

Lo aveva chiamato per nome − quelle due sillabe colpirono Joseph con la forza di una martellata, così intime che per poco non si sentì insultato. Rimase in silenzio per qualche secondo, preso in contropiede dalla domanda fin troppo confidenziale e dal cipiglio incoraggiante del professore, finché un lampo di intuizione non schiarì i suoi pensieri. Gli stava facendo una cortesia, realizzò. Forse pensava che si sentisse a disagio, silenzioso in mezzo a tutto quel caos, o forse voleva semplicemente offrirgli un giro sulla sua giostra personale... in ogni caso, era un tentativo di coinvolgerlo che nell'ottica dell'insegnante doveva somigliare al grazioso inchino di una cortigiana.

"Pensi che ne abbia bisogno, e ti sbagli".

«No. La morale è uno dei pilastri della civiltà e andrebbe rispettata. Non si può pensare di abbatterla soltanto per soddisfare la propria ambizione».

«Non si tratta di semplice ambizione, ma di un atto di auto-affermazione». Lienhard rispose con molta cortesia « Quello di Raskol'nikov è il gesto di un uomo schiacciato da un sistema in cui non si riconosce, che vuole definire a tutti i costi il suo io».

"Ah, ecco dove vuoi andare a parare". Fiutò la provocazione, Joseph, e il pericolo nascosto nei discorsi tortuosi del professore − del resto, il salto da morale comune a ordine precostituito era breve, e da lì la strada per le tesi antigovernative era praticamente spianata.

«Il sistema,» soffiò, sapendo che la conversazione era ancora troppo vaga per presentare un'annotazione disciplinare all'Amministratore «così come la morale, è stato stabilito dall'uomo per proteggere se stesso. Chi si rivolta non capisce la portata della propria pazzia».

Il professore sorrise con aria soddisfatta e fece spallucce, con gran scorno di Joseph.

«Un'opinione rispettabile». Commentò «Soprattutto, politicamente corretta».

Il soldato ignorò con garbo le occhiate di fuoco lanciategli da qualche ragazzo più spavaldo degli altri − dissidenti, nient'altro che marmocchi incapaci di adattarsi alla realtà − e tornò a seguire il dibattito con la sensazione di aver appena concluso con successo la prima di una serie di battaglie.


α٠β٠ω


A metà della lezione c'era sempre una pausa di venti minuti, per permettere agli studenti di far riposare un po' il cervello e al professore di riconsiderare attentamente la propria vocazione all'insegnamento.

Lienhard, come al solito, raggiunse l'ampia terrazza sul tetto dell'Universitas e si appoggiò al parapetto che la delimitava per fumare un po'. Possedeva una crio-pipa, un vecchio regalo di Rudi, che utilizzava solo in situazioni di stress particolarmente acuto − la vicinanza di Joseph Redthorn, che non lo perdeva mai di vista, rischiava di trascinarlo sulla soglia del collasso nervoso.

Accese la pipa spingendo un pulsante sul fornello, un globo di plastica termostabile dall'allegro colore azzurrino, e assaggiò il vapore caldo che immediatamente gli riempi la bocca; per come la vedeva lui, era il modo migliore di fumare senza farsi troppo del male.

Joseph, educatamente fermo ad un paio di metri da lui, lo guardò di sottecchi, chiaramente intenzionato a porgli qualche domanda.

«Dai, che c'è?».

Inspirò una boccata di vapore dal cannello della crio-pipa e lo sputò fuori, rabbrividendo per il sollievo. In realtà il contenuto del fornello non era propriamente a norma di legge − una mistura leggerissima di sostanze stimolanti e cannabinoidi mescolati con cura − ma tirava un vento leggero e il soldato era troppo lontano per percepire alcunché. Fumare sostanze illegali in presenza di un maggiore, comunque, era un gesto che molti avrebbero definito folle.

«Hai intenzione di stare lì impalato a fissarmi ancora a lungo o pensi che recupererai la facoltà di parlare? Sei andato piuttosto bene, prima».

Il soldato si contorse sul posto per una manciata di secondi, forse imbarazzato da quella che riteneva una mezza violazione del codice non scritto che regolava i suoi rapporti con il professore. Avrebbe fatto meglio ad abituarsi, perché quel codice era destinato ad essere infranto in tutti i modi possibili.

Lienhard sorrise, beffardo: era sempre stato un feroce avversario di ogni forma di disciplina (rendeva le persone ingessate, ottuse), e il comportamento di Joseph non faceva che confermare quella sua convinzione.

«Quante...» il soldato tossicchiò «... quante lingue parli?».

Era ovvio che fosse rimasto colpito dalla lettura in Arkesoviet, considerato che non doveva aver mai letto un libro intero in vita sua.

«Parecchie. In prevalenza cadute in disuso». All'occhiata interrogativa di Joseph, Lienhard fece spallucce «Sono molto utili quando si tratta di imparare gli idiomi correnti. Da dove pensi che derivi la tua lingua, da un gruppo di cervelloni che si sono seduti intorno a un tavolo e hanno deciso di darti la possibilità di articolare stronzate ad alta voce?».

Il turpiloquio non era strettamente necessario, ma produceva un effetto esilarante sul soldato: si irrigidiva, come colpito da un fulmine, e fissava Lienhard con uno sguardo carico di disapprovazione. Fortunatamente non era abbastanza scandalizzato da perdere la curiosità.

«Quindi quella lingua che hai usato oggi... quella che somiglia alla parlata di un ubriaco,» il professore alzò gli occhi al cielo, invocando un ipotetico soccorso divino «ti permette di usare meglio la lingua moderna? Potresti capire uno degli ambasciatori delle Nazioni Oltremondo?».

«Per un buon settantacinque percento sì... non che serva a qualcosa, visto che gli ambasciatori parlano solo con il Gerarca e i suoi collaboratori più stretti. Le lingue antiche, però, facilitano l'accesso all'enorme valore culturale dei libri dell'antica Gea».

Sembrava sorpreso. Nonostante il palese sforzo che faceva per contenersi lo stava guardando con un'ammirazione quasi comica, e Lienhard non poté fare a meno di ammorbidire un po' il suo giudizio sul soldato. Poi si ricordò chi aveva davanti e soprattutto che cosa rappresentava − andava bene farlo sentire a suo agio e trattarlo con un minimo di umanità, ma da lì ad apprezzare la sua compagnia correva una strada piuttosto lunga.

Il professore si appoggiò alla ringhiera, concentrandosi sul campus universitario nel tentativo di prestare la minor attenzione possibile a Joseph; con l'odore del fumo a coprire quello dell'alfa si sentiva un po' meglio, ma non sapeva se lo snervasse di più quella sorveglianza forzata o l'ottusità quasi infantile della sua guardia del corpo. Era così deconcentrato che quasi non se ne accorse, quando Joseph ricominciò a parlare.

«Io conosco soltanto il dialetto di Nenya». Sussurrò, con una malinconia imprevedibile «Non mi è mai servito altro».

L'ultima parte suonava come un tentativo di giustificazione, ma la prima era senza dubbio un'ammissione di colpa, forse persino di inferiorità − e che un alfa, perdipiù ufficiale dell'esercito, facesse un discorso del genere, era un gesto di notevole umiltà. Lienhard, stupito, all'improvviso non seppe più cosa pensare.

«Non vi mandano mai fuori di qui, vero?». Spense la crio-pipa con un gesto distratto, osservando la scia di vapore che fuggiva verso il cielo azzurro «Pensavo che la vita di un soldato fosse un po' più avventurosa».

«Anch'io».

Forse odiarlo sarebbe stato un po' più difficile del previsto.










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Sono in ritardo, lo so, ma ho avuto un mucchio di cose da fare (scolasticamente parlando) e questo capitolo non è stato semplicissimo da scrivere :P

Spero che anche questo vi piaccia e avverto anticipatamente che con tutta probabilità non riuscirò ad aggiornare per tempo domenica prossima.

See you soon,

Greed

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Capitolo 4
*** δ. ***


δ.


Nelle vie maleodoranti della parte bassa di Fegith poteva nascondersi senza che nessuno notasse il suo odore. Lienhard era ben consapevole de fatto che ‒ in barba alla dose ormai triplicata di progesterone ‒ nelle ultime quattro settimane la situazione non aveva fatto altro che peggiorare; se fosse stato un po' più saggio avrebbe scelto un tranquillo periodo di reclusione domestica, ma il solo pensiero di starsene chiuso in casa fino alla fine del calore gli faceva venire la nausea.

Inspirò a fondo l'aria putrida, che sapeva di cibo stantio e gas di scarico. Nei quartieri popolari gli omega non potevano sempre permettersi di arginare l'estro con i farmaci, venduti illegalmente a prezzi altissimi, ed era normale sentire il pizzicore dei ferormoni sulla lingua. Un profumo debole come quello di Lienhard sarebbe passato inosservato in quel marasma di stimoli olfattivi.

Diversamente, nel distretto universitario tutti avevano diritto ad una fornitura statale di medicine e spray atti a mascherare l'odore. Lienhard non poteva richiedere prodotti specifici per omega − per quanto distratti, gli impiegati della piccola farmacia del campus si sarebbero fatti delle domande − e sarebbe stato l'unico dell'intera Universitas a lasciare una scia facilmente individuabile.

"Ma quando arriva?". Insinuò le dita negli interstizi di un muro scurito dal fumo, grattando via un po' di malta umidiccia. In quella zona della città usavano ancora tecniche costruttive antiche, perché più economiche, e non c'era un palazzo che superasse i cinque piani d'altezza.

L'orologio appeso all'insegna sudicia di un negozio di vestiti, poco distante, segnava le undici e tre quarti. Una sensazione di fame nervosa pungeva lo stomaco di Lienhard, che, irritato, si girava in continuazione a destra e a sinistra scrutando nella folla miserabile del distretto; a prima vista poteva sembrare una distesa di fango, un vortice di stracci grigi e marroni che si agitavano sotto la spinta di correnti invisibili. Guardando con più attenzione si scorgevano le facce butterate e velate di nerofumo di chi lavorava nelle fabbriche, le loro mani coperte di escoriazioni che trattenevano i baveri delle giacche per riparare il collo dal vento. Non importava quanto caldo facesse d'estate, nei quartieri popolari di Fegith spirava sempre una brezza fredda e umida che sembrava provenire da sottoterra − melliflua, puzzolente come il respiro di un cadavere.

Le uniche donne presenti erano prostitute, appena coperte da vestiti rattoppati che arrivavano poco sotto l'inguine. Avevano volti pallidi come la luna, malaticci, occhi e bocche dipinti a colori così vivaci da disgustare − sorridevano, mostrando la dentatura corrosa dalle droghe, e strattonavano le scollature dei vestiti a mostrare il petto smagrito. Quelle loro pantomime attiravano ben pochi clienti − era troppo presto, la maggior parte degli abitanti del distretto era troppo impegnata a guadagnarsi da mangiare per cedere ai richiami della carne − e Lienhard non poteva fare a meno di provare compassione per loro, ammassate nell'ombra dei vicoli come bambole di pezza consumate dal troppo uso.

Arrivò il mezzogiorno, e con esso un odore penetrante di brodo rancido e fritto invase le strade. Lienhard stava considerando l'idea di fermarsi in una bettola qualsiasi a mangiare (aveva scoperto che le pietanze dei quartieri bassi, per quanto poco gradevoli, erano eccezionalmente nutrienti) quando un'ombra più scura delle altre sgusciò fuori da una traversa vicina e avanzò nella sua direzione. Sospirò dal sollievo, pulendosi le dita sporche di malta sui pantaloni, e accennò un saluto.

«Pensavo che non venissi».

L'altro sghignazzò, appoggiandosi al muro accanto a lui con uno sbuffo. Aveva una figura longilinea, magra, il cappuccio di una felpa tirato sul viso; dalla stoffa nerastra sfuggiva qualche ciocca di un candore lattescente che sembrava quasi privo di consistenza.

Gli occhi che si posarono su Lienhard erano grandi, languidi, l'iride rossastra come quella dei topi da laboratorio. Parevano sospesi in un vuoto tutto loro, a metà tra il piano delle percezioni fisiche e una dimensione preclusa al resto del mondo, sfere di tormalina purpurea appena velate dalle ciglia bianchissime. Erano belli di una bellezza assassina, pericolosa.

Lienhard non ci provò nemmeno, a resistere alla loro malia.

«Non ti fidi più di me, Leny». Il sorriso dell'albino sembrava sbozzato nel cristallo opaco della pelle cerea. «Perché? Ti ho deluso in qualcosa?».

«Tutt'altro». Un drappello di operai passò a meno di un metro di distanza e Lienhard schiacciò le scapole contro il muro, abbassando il viso fin quasi a toccarsi il petto con il mento. «Ma questo non è un bel posto per me, lo sai».

L'albino inarcò un sopracciglio, seguendo con lo sguardo gli operai che si allontanavano nell'intrico di vie fangose. «Hanno un buon odore, eh?». Disse, poi, torcendosi spasmodicamente le dita affusolate «Lo sento anche io. Che schifo, essere costretti a sbavare dietro un branco di bestie puzzolenti».

«Ricordati che non siamo quelli che se la passano peggio». Il borbottio di Lienhard rischiò di perdersi tra le grida sgraziate di un paio di donnacce intente a litigare, ma l'altro lo sentì benissimo. Contrasse la mascella con uno schiocco secco e ringhiò, le guance immediatamente chiazzate di rosso: «Parla per te. Io non sono il figlio di un ministro».

«Tu non sei nemmeno una fattrice in un vivaio». Il professore rispose con la solita ironia, senza la minima traccia di acredine. Sembrò sortire l'effetto desiderato: l'albino scrollò le spalle e assentì un paio di volte, poi ficcò entrambi le mani nelle tasche dei pantaloni. Lienhard lo conosceva abbastanza da sapere che non si trattava di un gesto casuale.

«Vuoi ancora quello che mi hai chiesto?».

«Perché non dovrei?». In fondo a quelle tasche, protetta da uno strato di stoffa sottile, c'era la sua salvezza.

«Perché significa che stai messo male. Te l'ho già spiegato che questa roba è instabile, Leny... non è come quella che tuo padre si fa arrivare dalle Nazioni Oltremondo. Questa la preparano dei dottori del cazzo nei loro laboratori clandestini, e quella è gente da cui non mi farei sistemare nemmeno una carie».

«Però è più forte». Lienhard si umettò le labbra, la bocca secca, e ripeté quella frase come se potesse servire a renderne meno tremendo il significato: «Però è più forte. Lo sai che non posso permettermi di farmi scoprire, e il Progestal non fa più effetto. Le molecole sintetiche sono solo una soluzione temporanea».

«Ma com'è possibile?». L'albino si grattò una guancia, scavando percorsi arrossati sulla pelle «Una cosa del genere non l'ho mai sentita. Ti sei fatto dare una controllata da tuo padre? Per queste cose è una specie di genio, no?».

«Ultimamente ho...» Il professore si schiarì la voce con un colpo di tosse «... passato molto tempo con un alfa non reclamato che non si preoccupa minimamente di coprire il suo odore. Il mio organismo ha reagito». La situazione era un po' più complessa di così, ma pretendere che qualcuno con la preparazione scientifica dell'albino capisse concetti di biologia avanzata era una barzelletta bella e buona. Del resto nemmeno Lienhard voleva soffermarsi troppo sulle dinamiche del suo organismo disfunzionale.

«Be', stai attento». Le dita, bianche come le dune calcaree dell'outland, emersero dalla tasca stringendo un pacchettino di carta stagnola dall'aria rigonfia. Lienhard lasciò che la tensione dilagasse in ogni muscolo del corpo, i tendini tesi come tiranti d'acciaio, e non smise di guardare l'involto nemmeno quando l'albino gli rivolse di nuovo la parola. Se non si fosse trattato di un amico, avrebbe già tentato di prendere quelle medicine con la forza.

Ne aveva bisogno, un bisogno disperato.

«Al massimo quattro al giorno, non una di più. Vorrei poterti dire che so esattamente cosa c'è dentro, ma probabilmente un quarto della roba con cui imbottiscono le capsule è tossica. Usano quello che possono, come filler». Intrecciò le dita alle sue − il gelo della pietra incontrò in quell'istante il tepore del velluto − e lasciò scivolare il pacchetto di carta stagnola nel palmo di Lienhard, prolungando quel contatto per un tempo appena più lungo del necessario. «Fratello mio,» disse poi, un sussurro della levità del vento, accarezzandogli il polso in punta di dita «solo le Stelle sanno quanto vorrei che non fossimo due Omega».

Heisenhover esalò un sospiro stanco e appoggiò la nuca alla parete di mattoni. La sua natura gli impediva di provare la benché minima attrazione per l'albino, relegandolo nel grigio pantano di un sodalizio che non era né amore né amicizia − eppure la bellezza di quegli occhi purpurei era struggente, il loro incantesimo inevitabile.

"Quanto ti odio". Pensò, sottraendosi al tocco con una mossa repentina. In un altro Universo l'avrebbe Reclamato anche solo per il gusto di possedere quella bellezza aliena, gli avrebbe regalato la sua vita e la sua fedeltà. Su Nenya non poteva far altro che guardarlo e maledire silenziosamente il suo destino.

L'altro lo fissò in silenzio per qualche istante, con uno sguardo così carico di sofferenza che Lienhard non provò nemmeno a sostenerlo.

«Come...» inghiottì a vuoto, una morsa di senso di colpa all'altezza del diaframma «... come va con le vendite? La prossima fornitura dovrebbe arrivare tra tre mesi».

«Uh, vende come il pane». L'albino, per dimostrare la veridicità dell'affermazione, tirò fuori un flacone di Progestal dalla tasca frontale della felpa «Il periodo dei debutti si avvicina. Un sacco di omega sui quattordici anni stanno già avendo i primi calori, a volte se ne sente l'odore a decine di metri di distanza. Tenerli nascosti è una gran fatica».

«Quanto ve n'è rimasto?».

«Due tonnellate, forse un po' di più. L'ultima consegna è stata parecchio abbondante, dovremmo farcela senza problemi».

Rimasero zitti per un po', a guardare il fiume umano che scorreva pigramente davanti ai loro occhi. Di tanto in tanto l’albino si sfregava gli occhi arrossati e li teneva chiusi per un po’ ‒ più delicati di quelli di un uomo normale, non sopportavano l’esposizione prolungata al vento o al Sole. Lienhard era tentato di congedarsi e andare via (da una parte era ben consapevole che la sua presenza lì rappresentava un notevole incomodo) ma non riusciva a decidersi; fortunatamente fu l’altro a spezzare quel momento di impasse.

«Mi è capitata una cosa strana». Mormorò, sovrappensiero «L’altro giorno avevo un appuntamento con un tizio che non conoscevo».

Lienhard strinse involontariamente i pugni. L’albino, come molti omega dei quartieri bassi, arrotondava i proventi dello spaccio di Progesterone lavorando in una casa di tolleranza d’alto bordo; era abbastanza bello da permetterselo, e nonostante lo stesso Thomas Heisenhover gli avesse proposto più volte di lasciare i settori-ghetto per lavorare da lui, nei primi distretti, non aveva mai voluto abbandonare quello stile di vita. “Mi piace la mia libertà,” diceva “sono un freelance. La dignità l’ho persa da tanto tempo, ormai, non servirebbe a niente tentare di riguadagnarmela così”.

«E allora?».

«Quando si è presentato alla porta della stanza ho capito subito che c'era qualcosa che non andava. Mi dava una sensazione strana». L'albino abbassò la voce fino a ridurla ad un sussurro «Poi me ne sono reso conto. Leny, so che quello che sto per dire può sembrare completamente assurdo, ma... non aveva odore».

Per Lienhard fu come se una scarica elettrica da quindicimila volt gli avesse attraversato il corpo.

Pensò che non sarebbe riuscito a rispondere. Rimase immobile, le orecchie piene di un ronzio che i battiti accelerati del cuore riuscivano a stento a coprire, e assisté in silenzio al dispiegarsi dell'infinito ventaglio di possibilità che le parole dell'albino sottintendevano; solo dopo elaborò l'informazione, e scoprì di avere il respiro corto e le mani tremanti e sudate.

«Come un beta?». Le sillabe si accalcarono le une sulle altre, troppo lente per la velocità febbricitante dei suoi pensieri «In che senso non aveva odore?».

«Be',» l'altro lo guardò per un secondo di troppo, confuso dalla reazione «no. Pensi che non abbia mai avuto clienti beta? Loro ce l'hanno, un odore. Piatto e poco attraente, ma ce l'hanno. Questo tizio sembrava... non lo so, finto. Di plastica. La sua pelle non sapeva di niente, come se il suo organismo non producesse nessun tipo di ferormoni».

Lienhard trattenne a stento un grido. Poteva esserci una sola spiegazione per un fenomeno del genere, e si fidava abbastanza dell'albino per credere a priori che non avesse preso un abbaglio. Non cercò nemmeno di mascherare il tremito delle mani quando lo afferrò per le spalle, scuotendolo leggermente.

«Stai dicendo sul serio? Ne sei assolutamente certo?».

«Come sono certo del mio nome, Leny». Senza minimamente scomporsi, l'albino appoggiò la fronte alla sua e ghignò «E vuoi sapere un'altra cosa? Aveva un accento strano, ma quello l'ho riconosciuto. Una volta sono stato con un vecchio di quasi ottant'anni, uno che per poco mi crepa sul più bello. Be', quel tipo aveva fatto il militare all'epoca in cui i viaggi oltremondani non erano ancora vietati, e mi raccontò di aver trascorso un paio d'anni su un pianeta vicino al nostro. Arcesi, si chiamava».

«Non dirmi che−»

«Mi ricordo ancora l'accento bizzarro di quel vecchio. E, per le due lune di Nenya, era quasi uguale a quello del tizio di ieri sera... solo che questo aveva al massimo una trentina d'anni».

Heisenhover sentì che il cuore stava per esplodergli. Controllò il respiro meglio che poteva e annuì freneticamente, gli occhi fissi in quelli dell'albino. Sudore freddo tra le scapole, sulla nuca.

«Ti ha detto come si chiamava? Forse posso trovare qualche informazione su di lui».

«Immagino che tu non intenda raccontarmi il perché di tutta questa eccitazione, vero?». Il tono del ragazzo era svagato, ma Lienhard colse una stilla di irritazione nella vibrazione di fondo delle sue parole «Le mie informazioni potrebbero avere un prezzo».

«Ti metterei soltanto in pericolo». Quasi supplicò, rafforzando la presa sulle sue spalle «Non servirebbe a niente. Ti prego, non ti rendi conto di quanto sia importante un'informazione del genere».

L'altro tacque, corrugando le sopracciglia quasi trasparenti. Il professore si sentì morire quando esitò, il suo viso una maschera penosa di dubbio e rassegnazione; poi, sotto lo sguardo implorante di Heisenhover, capitolò.

«Ibrahim». L'irritazione stavolta era più che tangibile. Lienhard sapeva che l'albino non avrebbe mai forzato la mano su una questione del genere, ma nel profondo doveva sentirsi offeso da quella che reputava una sua mancanza di fiducia. «Non mi ha detto il cognome, ovviamente».

«Pensi che tornerà?».

Fece una smorfia come a dire che non lo sapeva.

«Non mi ha promesso niente, ma in linea di massima credo di sì. In genere tornano».

«Kaïre,» il suo nome gli sfuggì in un sospiro, dolce come il miele sulle labbra «devi promettermi che mi avvertirai, se e quando verrà. E devi promettermi che farai quello che ti chiederò, anche se ti sembrerà una pazzia».

«Perché?». Sembrava frastornato. Lienhard non lo chiamava quasi mai per nome − ne amava così tanto il suono che gli sembrava di commettere un peccato osceno, pronunciandolo nell'oscurità umidiccia dei vicoli in cui usavano incontrarsi − e fu subito evidente come quello strappo alla regola gli facesse piacere. «Leny, dimmi che non è l'ennesimo casino potenzialmente mortale».

«Non lo sarà se tu mi aiuti».

Kaïre alzò gli occhi al cielo, ma la sua espressione seccata si sciolse ben presto in un sorriso sghembo che sapeva di divertimento e rassegnazione.

«Se dovesse succederti qualcosa e tu riuscissi comunque a cavartela, Leny,» gli baciò la fronte, un contatto appena accennato che stritolò il cuore di Lienhard «sappi che non sopravvivrai a me».

«Che minacce prive di consistenza, Kaïre». Celiò, sostenendo lo sguardo intenso dell'albino «Per una volta fidati di me».

«Vorrei tanto essere pazzo abbastanza per poterlo fare».


◦○◦


Di suo padre ricordava la punta lucida degli stivali di cuoio.

Era un cugino carnale del Gerarca, insignito del grado di generale di brigata all’età prodigiosa di ventun’anni e considerato da molti un genio della strategia militare. Freddo, distante, dedito soltanto al lavoro ‒ i suoi occhi erano lame di bronzo,  la piega rigida della sua bocca una spaccatura incisa nel fianco di un monte.

Joseph aveva passato i primi dodici anni della sua vita a fissare gli anfibi militari di suo padre, impeccabilmente puliti e ordinati (come la divisa, del resto, che non toglieva neanche quando stava a casa con il figlio). Gli sembrava di sentire ancora i rimproveri e le parole di biasimo piovere come un acquazzone gelido sulla sua testa abbassata.

Augustus Redthorn si era procurato un erede per motivi prettamente utilitaristici, per una questione di etichetta.

Un alfa di ceto medio-alto poteva scegliere due mezzi per procreare. Il primo, di anno in anno sempre più raro nell’alta società, consisteva nel trovare uno o più partner omega con cui creare una famiglia stabile: questi omega, con cui si contraeva un vincolo di unione civile inscindibile, vivevano a carico dell’alfa fino alla morte ‒ così come, ovviamente, i figli, che in nessun caso potevano venire allontanati o privati dei mezzi necessari alla sopravvivenza.

Il secondo mezzo era di gran lunga il più in voga, soprattutto nella working-class danarosa che aveva poco tempo da dedicare alle relazioni interpersonali. Fuori da Fegith, giganteschi capannoni che sembravano emersi spontaneamente dalle dune gessose, c’erano i vivai.

All’interno, sorvegliati a vista da corpi speciali dell’esercito, vivevano le eccellenze genetiche della casta omega: il loro DNA era stato sondato e rivoltato fin nella più piccola catena proteica, e l’unico compito di quegli individui, chiamati fattrici, era quello di fornire una discendenza agli alfa che erano troppo pigri ‒ o troppo libertini ‒ per affibbiarsi un consorte a cui badare. Generalmente si poteva scegliere la fattrice da un ampio listino, a seconda dei genotipi che si volevano conservare; più un cliente era ricco, migliori erano gli omega a cui aveva accesso.

L’inseminazione avveniva artificialmente, e una singola fattrice poteva dare alla luce diverse decine di figli prima di morire per consunzione. Nessuno entrava nei vivai da volontario, nessuno ne usciva se non cadavere.

Gli stessi neonati, in presenza di malformazioni o, più semplicemente, di caratteristiche sgradite al compratore, venivano espulsi dal vivaio e smaltiti. Solo in caso di corredi genetici superlativi gli scartati acquisivano il diritto alla vita, all’allevamento, e non appena raggiunta l’età puberale ‒ di solito attorno ai tredici anni ‒ cominciavano a loro volta una promettente carriera di fattrici.

Augustus Redthorn aveva staccato un assegno corposo per Joseph. Gli era stata garantita l’eccellenza, cromosomi che grazie ad una durissima selezione si presentavano epurati da ogni tara genetica; quando prese tra le braccia il neonato, quella fragile creatura di qualche settimana appena che avrebbe incarnato una delle linee di sangue più prestigiose della nazione, si limitò ad annuire con una punta di soddisfazione. Quello fu tutto il suo giubilo per la nascita del suo primo e unico figlio.

Nell’infanzia di Joseph c’era stata una schiera di balie, vecchie facce imbellettate e crani rasati e profumo di omega ormai sterile. Ricordava le loro voci calde e gracchianti, la sensazione delle carezze tra i capelli, la felicità ingenua di quegli anni in cui suo padre si era limitato a fargli visita una o due volte a settimana. Ogni volta si tratteneva per pochi minuti, e Joseph fissava quella figura alta con gli stivali neri senza spiccicare parola: si studiavano a lungo, in silenzio, l’adulto corroso da una vita di lavoro e il bambino già gravato da un peso troppo grande per lui. Quando Augustus se ne andava, il ritmo imperioso dei suoi passi a riecheggiare per gli appartamenti di Joseph, il bambino tirava un sospiro di sollievo.

«Che fai?». Gli diceva, a volte, la voce un rombo baritonale «Sta’ su, non fissarmi con quella faccia da gufo. Sei un alfa di stirpe nobile e ti comporti come un omega del ghetto».

Rabbrividiva, Joseph, si faceva ancora più minuto. A volte avrebbe voluto diventare piccolo come una formica, oppure invisibile: tutto, pur di sfuggire allo sguardo glaciale di suo padre.

Imparò molto presto che per farsi apprezzare da Augustus Redthorn doveva fingere di essere più grande degli altri, anche quando l’evidenza di quella menzogna gli faceva venire la nausea. Non era mai abbastanza per le sconfinate ambizioni di suo padre.

«Sei un Redthorn,» risuonava, terribile, la voce nelle sue orecchie «sei un alfa».

E Joseph, in un modo che chiunque avrebbe definito insultorio per un vero alfa, si piegò.

Frequentò le scuole scelte dalla sua famiglia, si inserì nei circoli più altolocati della città e intraprese la carriera militare grazie all’appoggio di suo padre. Purtroppo non dimostrava il suo talento, né l’interesse per le complicate strategie di guerra: si accontentò di fare l’ufficiale in un distretto tranquillo, recuperando ragazzi scappati di casa e rastrellando sistematicamente i depositi sotterranei alla ricerca di omega non autorizzati. Si nascondevano nei posti più impensabili per sfuggire alla condanna dei vivai.

Suo padre avrebbe avuto da ridire, ma morì anni prima che Joseph venisse stanziato nel distretto: se lo portò via un infarto, e la famiglia Redthorn rimase molto colpita da quella perdita. Joseph, che col tempo aveva imparato a detestare quel gravame sulla sua vita, l’autorità incontestabile e opprimente di un vecchio svuotato dal tempo, si sentì come se un incubo durato anni ed anni si fosse interrotto.

Pensò, erroneamente, di essere libero dalle catene di suo padre. Soltanto dopo si rese conto che una ragnatela continua ad esistere anche dopo la morte del ragno che l’ha costruita.


◦○◦


La testa di Lienhard continuava a girare.

Aveva cercato in tutti i modi di non dare a vedere le ondate di nausea che quasi lo sopraffacevano, ma il fastidio non era diminuito. Sperava soltanto che le lenti degli occhiali celassero agli studenti il suo sguardo fisso nel vuoto ‒ il contatto visivo con un qualsiasi essere umano era interdetto, visto che il mondo roteava come le pale di un mulino al minimo tentativo di concentrazione.

Ad aggiungere la beffa al danno, il libro del giorno era un tomo particolarmente complesso. Il Nome della Rosa, si chiamava, scritto da un autore ignoto al tramonto del primo millennio dell’era comune; Lienhard l’aveva letto più volte con piacere, ma gli studenti non riuscivano a cogliere la bellezza di un libro che le traduzioni avevano rovinato.

«So che è complesso». La sua vecchia copia, miracolosamente rilegata in pelle e miracolosamente in lingua originale, era qualcosa di cui amava vantarsi ai party accademici «So che racconta la storia di un periodo così lontano che per molti versi non riusciamo a capirlo. Ma a noi interessano i messaggi, gli spunti che ci può lasciare».

Lanciò un’occhiata a Joseph, seduto tranquillamente in fondo alla biblioteca. Ormai aveva perso il conto delle lezioni trascorse insieme, e con il passare del tempo il comportamento del soldato si era notevolmente ammorbidito: lasciati da parte gli sguardi sospettosi, si era rivelato un buon conversatore e un eccellente compagno di bevute (nel rispetto degli orari lavorativi, sempre meno rigidi). Per Heisenhover trovare il suo sguardo di ghiaccio tra gli studenti sonnacchiosi era un gioco più piacevole di quanto fosse lecito.

Nel complesso poteva dirsi soddisfatto della piega presa dalla situazione.

«Ad esempio,» continuò, ignorando un’improvvisa vertigine «Shaw. Una scena che ti ha particolarmente colpito?».

La ragazza ci pensò su, corrugando le sopracciglia.

«Quella della biblioteca, quando i due protagonisti incontrano il frate cieco». Esitò, arrotolando una ciocca di capelli sull’indice «Cioè… è molto bello il pezzo in cui il frate critica le illustrazioni grottesche dei codici perché pensa che siano blasfeme, e tutto il discorso sul fatto che ridere è una cosa da scimmie, sbagliata. Ti fa pensare a… be’, a un mucchio di cose».

A Lienhard non sfuggì il moto appena percettibile di Marie Shaw, uno scatto della testa nella direzione in cui stava Joseph. Non voleva che le possibilità espressive dei suoi alunni venissero limitate, nemmeno se c’era in gioco un arresto.

«Non preoccuparti, Shaw. Qualsiasi cosa tu dica, la responsabilità sarà solo mia». La posa di Joseph divenne istantaneamente meno rilassata, ma il soldato non disse nulla.

«Be’, ecco… il fatto è che per me la risata ha un valore che andrebbe privilegiato. Le persone che ridono tanto vengono sempre considerate un po’ sceme, ma se ridessimo di più delle cose veramente importanti forse la nostra società sarebbe un po’ migliore». Le orecchie della ragazza erano rosse, i suoi occhi più grandi del solito «Qualche giorno fa un tipo che aveva pubblicato delle vignette satiriche sul Gerarca è stato arrestato. Questo perché chi sta al governo lo sa, che il riso è importante… che ti aiuta a rimettere le cose nella giusta prospettiva, a sdrammatizzare, ad avere meno paura. E loro non vogliono che noi abbiamo meno paura, che sappiamo mettere in discussione l’autorità. Solo chi protegge gli assolutismi, come la religione ortodossa del frate cieco, è nemico dell’allegria. Potremmo dire che la risata è alla base del libero pensiero».

Lienhard non aveva abbandonato lo sguardo di Joseph nemmeno per un secondo, in allerta. Le parole di Shaw violavano il regolamento imposto a partire dal primo giorno di sorveglianza, ma sorprendentemente il soldato non reagì. Rimase fermo, rilassò di nuovo la postura e accennò una scrollata di spalle.

Ne parliamo dopo”, sembrò dire. Lienhard replicò con un breve cenno d’assenso.

«Una riflessione stupenda. Adesso leggeremo insieme un pass‒» un capogiro più forte degli altri lo costrinse al silenzio. Si appoggiò con una mano al bordo della cattedra ‒ grazie al cielo aveva deciso di non salirci sopra ‒ e inspirò a fondo più volte, mentre un sudore gelido gli imperlava la schiena sotto la camicia. La nausea gli pizzicò il fondo della gola con veemenza, e per un attimo Lienhard fu sul punto di abbandonarsi ai conati di vomito nel bel mezzo della biblioteca.

«Prof, tutto bene?». Cercò di ignorare l’allarme nella voce dello studente e annuì, passandosi una mano sul viso.

«Sì, è solo un po’ di…» Kaïre, vaffanculo tu e i tuoi ormoni di merda «… stanchezza. Adesso, se volete tirare fuori gli istan-tradutt…»

Un attimo prima il pavimento era sotto i suoi piedi, un attimo dopo si trovava alla ragguardevole distanza di cinque centimetri dal suo naso. Come in un sogno, il professore sentì il tonfo del suo corpo che colpiva il pavimento e le esclamazioni inorridite degli studenti, prima che tutti e cinque i sensi venissero sostituiti da una nausea così impellente da mozzargli il fiato.

Vomitò su un tappeto che doveva valere cinque o sei mesi del suo stipendio.

Era ancora abbastanza in sé per preoccuparsi di cosa potesse esserci in quel vomito ‒ fa che le pillole si siano sciolte, fa che le pillole si siano sciolte ‒ e cercò di trattenersi più che poteva, invano. Si sdraiò su un fianco, affondando le dita nel pelo folto del tappeto, e mugugnò una sequela ininterrotta di imprecazioni. 

Gli studenti, in preda al panico, si lanciarono su di lui come un sol uomo. Qualcuno lo sollevò da dietro per evitare che si soffocasse con il contenuto del proprio stomaco, lo addossò alla scrivania e cominciò a sventolargli il viso mentre una cricca di studenti vociava sullo sfondo. Con il campo visivo scombinato e un dolore atroce a trapanargli le tempie, Lienhard riconobbe comunque l’odore inconfondibile del qualcuno che si stava prodigando in simili delicatezze.

«Joseph» biascicò, un sapore acre sulla lingua «non provare a portarmi in ospedale, capito?».

Colse un lampo di occhi azzurri sgranati e uno sbuffo di sorpresa. «Sei impazzito, Heisenhover?».

«Vaffanculo». Il fatto che qualche studente potesse sentirlo non lo toccò minimamente «Ho l’influenza. Sto bene. Tornerò nella mia stanza e mi metterò a letto».

E una volta che mi sarò ripreso andrò a trovare quell’imbecille di Kaïre e lo farò sparire dalla circolazione.

Gli ormoni homemade dell’albino ci avevano messo poco, poco più di una settimana, ad intossicarlo. Contenevano più robaccia di quanto entrambi si aspettassero, anche se, come promesso, l’odore omega era completamente sparito (a volte lo stesso Lienhard si scopriva ad annusarsi i polsi sulla scia di una traccia ormonale che si sentiva appena, sedata com’era dal Progestal). Era pronto agli effetti collaterali, ma non si aspettava quello.

«E come ci arrivi alla tua stanza? Non hai l’aria di uno che riesce a camminare».

Per un momento vomitare addosso a Joseph Redthorn gli apparve come una prospettiva felice.

Sbatté la testa contro la scrivania e gemette piano, inspirando l’aria polverosa ad ampie boccate.

«Ho capito, ti ci porto io».

Non fece in tempo a esprimere tramite mugugni tutto il suo diniego, che Joseph gli passò un braccio sotto le scapole e lo tirò in piedi come se non pesasse niente. Attraverso la stoffa della giacca poteva percepire i rilievi perfettamente delineati dei muscoli, il calore del suo corpo ‒ era una sensazione strana, protettiva, come se bastasse abbandonarsi contro quel sostegno per risolvere ogni problema.

Si sta così bene”, inebriato dall’odore dell’alfa, Lienhard lottò confusamente per mantenere un minimo di autocontrollo “ha un odore così buono…”

«Devi spiegarmi dove abiti». Mormorò Joseph, vicinissimo al suo orecchio «Capisci quello che ti dico?».

«Non sto ridotto così male». Gli sembrava che la nausea riverberasse in ogni sillaba. Inspirò a fondo il profumo di Joseph e cercò di calmarsi, mentre la sensazione di calore da ormoni in subbuglio si sovrapponeva gradualmente al capogiro. Delle due preferiva la seconda.

«Intanto usciamo fuori da questo posto, non respiro». In realtà non respirava per ben altri motivi, ma era sempre stato un mago nel mentire a se stesso e agli altri «Poi ti spiego».

Joseph imprecò sonoramente ‒ ormai nessuno faceva più caso all’etichetta ‒ e zoppicò insieme a lui finché non ebbero raggiunto l’esterno e l’ombra corroborante di un grosso albero. Da lì una brezza provvidenziale permise a Lienhard di ossigenare il sangue, ignorare l’odore di Redthorn e camminare un po’ meglio fino alla porta della sua stanza.

«Apri la porta, su».

«Tu non mi accompagni dentro, scordatelo».

Joseph non provò nemmeno ad insistere: semplicemente allentò la presa sulla schiena di Lienhard e lasciò che questi si abbattesse sul pavimento del corridoio come un sacco di patate. Gli regalò un sorrisetto sornione, uno di quelli che facevano assomigliare i suoi occhi a schegge di vetro azzurro.

Quello che uscì dalla bocca di Lienhard causò probabilmente la caduta di una religione nel sistema di Alfa Centauri. Dopo che ebbe accuratamente ingiuriato ogni divinità di sua conoscenza si aggrappò allo stipite e, con le gambe tremanti, aprì la porta dell’appartamento; le braccia di Joseph tornarono subito a sostenerlo.

Stava ridendo, il bastardo, rideva di cuore. Lienhard era troppo stordito per accorgersi che quella era la prima volta che lo vedeva così felice.

«Heisenhover, smettila di fare l’insegnante e datti allo spettacolo». Singhiozzò, in un modo che non si addiceva affatto alla sua voce cupa «Credimi, hai una carriera davanti a te».

«Muori».

Una volta dentro l’appartamento non fu difficile raggiungere la camera da letto. Fortunatamente Lienhard nascondeva il Progesterone prima di uscire di casa (in vista di eventuali controlli) e di primo acchito l’appartamento era sommerso dalla consueta baraonda di libri.

Joseph lo adagiò sul letto sfatto e gli drappeggiò attorno le coperte, storcendo il naso quando gli capitarono tra le mani un paio di camice spiegazzate. «Perdona il disordine».

«Non fatico a credere che tu ti sia beccato l’influenza…» il soldato si guardò intorno con fare costernato «… o qualsiasi altra malattia. Questo posto ha l’aria di non essere stato pulito per anni».

«Già che ci sei potresti infilarti un grembiule e sistemare un po’ in giro». Lienhard si guadagnò un’occhiata torva «Non puoi interrompere la catena di buone azioni di questa giornata, soldatino».

Si irrigidì istintivamente quando Joseph sbuffò e si sedette sul bordo del letto. Il suo cervello impazzito continuava a concentrarsi su cose poco edificanti come lenzuola, alfa, oh ma guarda che ciglia lunghe che ha, mentre lo stomaco sembrava sul punto di cominciare la sua personale edizione della Quarta Guerra Interplanetaria.

Sii civile.

«Comunque…» tossicchiò «… grazie. Sul serio, nessuno ti costringeva a farlo».

«Sono io che ringrazio te». Joseph sorrise appena, inclinando la testa da un lato «Quello che ha detto la ragazza oggi pomeriggio è stato molto bello».

«Bello? Non pericoloso o sovversivo? Che ti è preso, Redthorn?».

«Non so». Fece spallucce «Forse mi sto abituando al tuo circo itinerante. A parte il fatto che siete inoffensivi e che le vostre rimarranno solo parole». Aggiunse, con l’ennesimo sorrisetto.

«Perché, abbiamo mai avuto l’aria dei terroristi?».

«Ma non è solo questo». Joseph ignorò elegantemente la sua domanda «Immagino che condividere con uno come te queste informazioni violi buona parte del protocollo, ma sono cresciuto in una famiglia in cui “autorità” era la parola chiave. Mio padre, in particolare, non credo di averlo mai visto ridere». Sospirò, affondando le dita affusolate nel materasso «Mi sono reso conto troppo tardi ‒ come è successo per tante altre cose ‒ che forse avrei fatto meglio a ridere un po’ io. Di lui, in particolare».

Lienhard avrebbe voluto abbracciarlo, ma non si mosse. In silenzio, le palpebre a mezz’asta sugli occhi stanchi, ispezionò le fattezze di Joseph con una cura meticolosa, come se il suo animo non se ne potesse mai stancare. Lo guardò come si guarda un fiore che sboccia.

La dolce intensità di quell’attimo sospeso lo rapì.

«Io, eh…» imbarazzato, e solo le stelle sapevano quanto poco spesso gli capitasse di provare quella sensazione, Lienhard si agitò sotto le coperte «… prego. Vorrei dirti che ti capisco, ma mio padre è sempre stato un tipo a posto».

Già, un tipo così a posto da lasciargli senza remore la patata bollente di un business illegale milionario. Quantomeno il vecchio pazzo aveva sempre avuto un senso dell’umorismo invidiabile.

«Conosco molto superficialmente Thomas Heisenhover, e pur non approvando la sua condotta devo riconoscere che è un ottimo padre». Ghignò «Soprattutto quando sborsa cifre astronomiche per tirarti fuori di galera, Lienhard».

Avrebbe potuto sfoderare una delle tante battute salaci del suo repertorio, ma non lo fece. Abbandonò la testa sul cuscino, si lasciò invadere da una sensazione di leggerezza quasi insostenibile.

«Ehi,» sussurrò, dopo qualche istante di silenzio «mi hai appena chiamato per nome».

Joseph distolse lo sguardo.

















_____________________ _ _ _

Yep, ritardo improponibile. Chiedo perdono, ma la scuola mi ha uccisa e in più mi sono presa un po’ di tempo per riorganizzare la trama di questa… ehm cosa. Il capitolo, in compenso, è il più lungo che abbia mai scritto; ho anche modificato la formattazione perché questa, più essenziale e senza i banner (che sono una grandissima rottura) mi piace molto di più ;)

Come sempre vi ringrazio per le recensioni e per aver messo la storia tra le preferite/seguite.

Al prossimo aggiornamento,

Greedfan


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Capitolo 5
*** ε. ***


ε.


Lo studio personale di suo padre, nella residenza cittadina degli Heisenhover, era la sintesi perfetta tra un ambulatorio polifunzionale e una pinacoteca. Thomas amava i quadri, in particolare quelli antichi e preziosi: le pareti della stanza, considerevolmente spaziosa per ospitare i numerosi macchinari di cui il Ministro si serviva, erano tappezzate da tele a olio e arazzi antichissimi, tondi di ceramica finemente dipinta e ritratti così realistici da sfondare la bidimensionalità del disegno.

Osservando il faccione rubicondo di un suo trisavolo, catturato dalla mano abile del pittore mentre piluccava delle bacche di obstgrün, Lienhard lasciò che suo padre gli picchiettasse la schiena in punta di dita e saggiasse il funzionamento di cuore e polmoni con una dermosonda ‒ quel marchingegno, all’apparenza un semplice disco di metallo opaco collegato ad uno schermo, poteva rilevare malfunzionamenti fisiologici anche minimi nello spazio di pochi secondi.

«Non capisco perché non mi hai detto niente». La voce di Thomas tremava di rabbia, ma le sue mani erano ferme «Avrei potuto provare qualcos’altro. Ho accesso a delle risorse praticamente infinite, e tu invece‒»

«Non volevo angosciarti con questa storia inutile». Borbottò Lienhard, a disagio «E pensavo che Kaïre fosse un po’ più affidabile».

Al sentire il nome di Kaïre, l’espressione di Thomas Heisenhover divenne improvvisamente triste.

«Come sta?». Scostò i capelli biondi dal collo del figlio e passò la dermosonda sopra la carotide, poi sulla tiroide «Sono settimane che non riesco a rintracciarlo».

Perché non vuole farsi rintracciare da te, vecchio”.

«Se la passa bene. Lo sai che è vivo, no? Finché ci arrivano i guadagni dello spaccio... ».

«Non riesco ancora a credere che preferisca vendere progesterone per strada, piuttosto che controllare i carichi importati dalle Nazioni Oltremondo. Dev'essere l'unico membro non ambizioso della nostra famiglia». Il Ministro si scostò dal figlio e accese il proprio o-Screen, un modello ben più avanzato di quello in possesso di Joseph Redthorn; scartabellò tra centinaia di file per qualche secondo, e dalle sue labbra sfuggì un lungo sospiro.

«Il tuo organismo è in sofferenza». Annunciò, accigliato «Le sostanze tossiche presenti in quelle capsule hanno rischiato, scusa l'espressione poco professionale, di fotterti il fegato. La tiroide è posto, ma non so per quanto se vai avanti così».

«Quindi?». Lienhard, per nulla toccato, scrollò le spalle «Si torna al caro vecchio Progestal?».

«Non esattamente». Il professore universitario era arrivato ad un tale livello di scoramento da accettare passivamente qualsiasi cosa gli venisse detta: l'episodio patetico di cui era stato protagonista l'aveva convinto ad affidarsi ai consigli di suo padre, per quanto sgraditi.

«Vediamo se riesco a indovinare cosa si cela dietro le tue risposte criptiche». Esalò, strofinandosi gli occhi stanchi «Mi infilo una gonnellina di foglie e ballo in cerchio finché la situazione del cazzo non si risolve da sola?».

Thomas sorrise. Quell'espressione, pensò Lienhard, rendeva il suo viso affilato ancora più simile a quello di un uccello rapace.

«Più o meno. In realtà la mia soluzione è meno drastica: ritirati in una delle case di campagna per qualche giorno e fai sfogare naturalmente il calore». Fece comparire dal nulla − o, almeno, così sembrò a Lienhard − un flacone di Progestal dal colorito anomalo, un rosso scurissimo che tendeva quasi al nero. «Nel frattempo,» continuò «perché immagino che non partirai subito, prendi questo. È un concentrato e ti sconsiglio vivamente di abusarne, ma sempre meglio di quello schifo fatto in casa».

«Sei sicuro che funzionerà? Se lascio che si sfoghi, intendo. Sai che io...» Lienhard puntò lo sguardo a terra, a disagio «... sai che non mi piace».

«Questo disastro sta succedendo, in parte, proprio perché non lasci libero il tuo corpo da troppi anni. Sei giovane, Lienhard, e prima o poi ne pagherai le conseguenze». Nello sguardo di Thomas Heisenhover c'era molto più che rimprovero, una nube di cupo rammarico e compassione che infiammò le guance del figlio. Lienhard sapeva che, per quanto il padre potesse amarlo, non avrebbe mai smesso di desiderare un erede alfa, qualcuno capace di badare a se stesso; chi, potendo scegliere, si sarebbe sobbarcato un onere come il segreto che il Ministro era stato costretto a proteggere per anni? Chi avrebbe rischiato la vita per la salvaguardia di un intoccabile?

Ogni volta che guardava il padre negli occhi scorgeva l'eco di quelle domande tormentose, i sibili inferociti di una coscienza che per anni non aveva fatto altro che accontentarsi, e si vergognava. Poteva quasi sentirli, i sussurri velenosi dei suoi sensi di colpa.

Accontentati del tuo figlio omega, Thomas, che non potrà mai accedere a nessuna professione che richieda una visita medica di controllo e tremerà dalla paura davanti alle porte vetrate degli ospedali, accontentati della nullità sempre svantaggiata, sempre mai abbastanza, di un cervello troppo brillante per trovare la felicità in una vita come la sua. Accontentati di un erede a cui non puoi dare niente se non un'esistenza di fughe continue, e guardalo mentre annaspa per ottenere la tua approvazione e colmare quell'abisso di riconoscenza che vi separa.

E adesso prova a raccontarmi che hai appeso il fiocco azzurro alla porta con un sorriso, Thomas Heisenhover.


◦○◦


Mancava un giorno alla successiva lezione in biblioteca, e decise di partire soltanto dopo averla tenuta. Non abbandonò la presa sul flacone di Progestal finché non fu tornato al campus dell’Universitas, con l’erba verde che crocchiava sotto i piedi e il profumo fresco degli alberi a tenergli compagnia; la prospettiva di far sfogare il calore lo inorridiva, ma se era l’unico modo di sistemare le cose l’avrebbe fatto. In genere durava poco meno di una settimana e poi svaniva così com’era venuto, per ripresentarsi dopo due o tre mesi; Lienhard aveva bloccato i suoi calori per quindici anni, dopo un’adolescenza costellata di assenze scolastiche dalle giustificazioni poco credibili e crisi di pianto isterico. Tremava di paura al solo pensiero di provare nuovamente quelle sensazioni.

Il flusso poco allegro dei suoi pensieri fu interrotto da un’incontro inaspettato.

Si fermò nel bel mezzo del corridoio che portava al suo alloggio, la mano ancora nella tasca dove teneva il Progestal, e spalancò la bocca come faceva da bambino davanti agli scheletri del Museo Zoologico di Fegith. Non c’era fossile capace di eguagliare il fascino incongruo della visione che gli si parò davanti.

«Kaïre?!». Annaspò, inghiottendo un bolo di saliva troppo grande per il suo esofago «Come hai fatto ad entrare? C’è un portiere nell’edifi‒»

L’albino troncò l’arringa con un gesto elegante della mano e inarcò le sopracciglia, palesemente compiaciuto. Indossava il suo peggiore assortimento di pantaloni in poliestere sgualcito e felpa extralarge di un colore tra il verde melma e il grigio fango ‒ l’unico accenno di colore in tutta la sua figura era il porpora delle iridi, che si perdevano quasi nel bianco arrossato della sclera. Sembrava reduce da una lunga notte insonne.

«Ti prego, Leny. Non più di sette ore fa stavo trafugando scatolame da un magazzino sorvegliato, pensi che mi riesca difficile entrare qua dentro?». Si staccò dal muro su cui stava appoggiato, e il movimento un po’ malfermo tradì tutta la sua stanchezza «Comunque il vostro portiere dorme. Non esattamente a prova di scasso».

«Come mai sei qui?». Lienhard, che non si era ancora del tutto ripreso dall’imprevisto, aprì la porta della stanza e si precipitò dentro «Vieni, vieni. C’è il solito casino, se mi avessi avvertito‒»

«Avresti lasciato tutto come prima e ti saresti prodigato in scuse ancora più patetiche». Kaïre pescò a caso un volume da una delle tante pile di libri e diede un’occhiata alla copertina, ridacchiando: «Il disagio della civiltà. Sembra una gran rottura di palle».

«L’autore è stato uno dei più grandi geni dell’epoca arcaica, uno che ha gettato le basi per‒»

«Leny, non sono interessato all’ennesima menata su un autore scomparso di cui non frega un cazzo a nessuno. Voglio sapere come stai tu». Rimise il libro al suo posto con uno scatto rabbioso e lo fissò a lungo, un cocktail di emozioni indefinibili intrappolate tra le ciglia candide «Non più di quattro al giorno, avevo detto. Quante ne hai prese in realtà, eh? Razza d’idiota».

No, adesso anche tu”.

Le grida di suo padre, quando aveva scoperto in che stato lo avevano ridotto quelle capsule, gli erano bastate. Avrebbe voluto far presente a Kaïre che era un uomo adulto, e come tale poteva scegliere liberamente in che modo spappolarsi il fegato, ma un pensiero fulmineo bloccò quella replica sul nascere.

«Ehi, aspetta un attimo. Chi te l’ha detto? Come hai fatto a sapere che era successo?».

Le sopracciglia dell’albino si sollevarono fin quasi a toccare l’attaccatura dei capelli.

«Davvero? Davvero, uno dei cervelli migliori dell’Universitas si riduce a farmi queste domande idiote?». Cacciò le mani in tasca e assunse una posa quasi ingobbita, nervoso. Nessuno dei due si preoccupò di chiudere la porta dell’appartamento, rimasta socchiusa. «Sei un omega che vive in un posto pieno di alfa nobili, per le due lune di Nenya! Pensi davvero che potrei dormire la notte se non avessi i miei mezzi per essere certo che stai bene?».

Sapere che Kaïre aveva i suoi agganci all’interno del campus non lo sorprese. L’attività di contrabbando l’aveva portato a possedere una rete capillare di conoscenze sparse per tutta Fegith, dai bureau esclusivi della politica ai vicoli fetidi in cui dimoravano soltanto prostitute e ladri; col tempo aveva anche acquisito una fama discreta, la nomea del ragno bianco che manovrava fili di seta con le lunghe zampe sottili, nascosto nell’ombra. Ogni filo era una cellula che si occupava dello spaccio locale di Progestal, nella capitale ce n’erano a centinaia; questo, naturalmente, faceva dell’albino il più prezioso luogotenente di Thomas Redthorn. Lienhard non aveva mai smesso di invidiarlo, per quello.

«Be’,» sbottò, irritato «adesso hai visto che sto bene». Se c’era mai stato il desiderio di abbracciare Kaïre e rimanere un po’ così, con le sue braccia a fargli scudo dal mondo, evaporò in un tempo infinitesimale. «Hai qualche altra domanda, visto che a quanto pare non ho diritto a starmene per i cazzi miei nemmeno a trent’anni suonati?».

Si sarebbe aspettato una reazione ugualmente irritata ‒ lui e Kaïre avevano litigato infinite volte, non disdegnando nemmeno il venire alle mani ‒ ma l’altro lo stupì socchiudendo le palpebre e producendosi nella sua migliore faccia da schiaffi. Frugò tra i suoi tratti morbidi, Lienhard, alla ricerca dei lineamenti scheggiati del padre ‒ li trovò nell’arco schietto delle sopracciglia, nel naso dritto e sottile, ma non nella bellezza cupa degli occhi. Fu la loro espressione di divertimento sincero a placarlo, come le principesse che, nelle favole della sua infanzia, ammansivano le bestie con la sola grazia eterea del volto.

«La voglia di darti dell’idiota non è l’unico motivo che mi porta qui, fratellino». Chiocciò, avvolgendolo in un abbraccio da cui non fu in grado di sottrarsi «Forse ho quello che volevi. Ibrahim mi ha chiesto un altro incontro».

La gola di Lienhard si strinse per la tensione.

«È…» inspirò «… è meraviglioso. Non pensavo che succedesse così presto, e mi devo anche allontanare per qualche giorno da Fegith, ma nel frattempo puoi comunque darmi una mano».

«Oh, ma come». Il tono finto-dispiaciuto di Kaïre si smorzò tra i suoi capelli, dove l’albino aveva affondato il viso «Adesso non ti va più di stare per i cazzi tuoi, mh?».

Lienhard inspirò, sforzandosi di non tremare. Di non tremare troppo.

«Non potremmo continuare questa conversazione come persone normali?». La risposta di Kaïre fu un verso lento e vibrante come le fusa di un gatto «Guardandoci in faccia, intendo».

«No». Gli affondò deliberatamente le dita in un fianco, ghignando «Che cosa vuoi che faccia per te, fratello mio? Riuscirai a convincermi molto meglio, così».

«Capelli». Esalò, lottando per tenere le braccia lungo i fianchi e non ricambiare l’abbraccio opprimente dell’albino «Mi serve il suo DNA. Qualche capello andrà benissimo».

La risata roca di Kaïre, un basso eh-eh-eh che sapeva solo parzialmente di allegria, era così simile a quella di Thomas Heisenhover che Lienhard si sentì stringere il cuore. “Io non sono il figlio di un ministro”, aveva detto, l’albino, quando si erano incontrati qualche giorno prima; quelle parole, lo sapevano entrambi, non erano altro che fragili bugie ‒ o, a voler essere fiscali, descrivevano un aspetto estremamente parziale della realtà.

«Poi mi spiegherai perché ti serve questo DNA, anche se dubito di poterne capire qualcosa». Le dita di Kaïre si agganciarono ai passanti dei suoi pantaloni «Nel frattempo potremmo‒»

«Siamo due omega». Esalò, in un sussurro appena udibile «È matematicamente impossibile che tu provi della vera attrazione sessuale per me. Il tuo organismo sta traslando l’affetto, o l’amore, o qualsiasi altro sentimento in qualcosa che somiglia all’eccitazione, ma non lo è». Si aggrappò alla felpa di poliestere, in barba ad ogni buon proposito «Siamo come cariche di segno uguale, ci respingiamo».

Lienhard sapeva che quel modo di fare era, per Kaïre, la manifestazione più ovvia dell’affetto che provava nei suoi confronti. Lo sapeva anche l’albino, e nonostante tutto non accennava a lasciarlo.

«Potresti comunque toglierti questi». Celiò, dando un leggero strattone ai pantaloni «Tanto per provare la veridicità delle tue teorie scientifiche. Ti ho già detto che adoro il voyeurismo?».

«Kaïre, ti prego, potresti comportarti da persona seria per cinque minuti nella tua vit‒»

«Lienhard».

Arrivò tutto insieme.

Sorpresa, paura, imbarazzo. Riconoscimento.

Spinse via Kaïre con una forza tale da mandarlo a sbattere contro una pila di libri e si voltò verso la porta, gli occhi spalancati. Il cervello in tilt. Perché la voce che gli aveva frustato i timpani, grezza e acre come il sale sulle ferite aperte, non era sicuramente quella dell’albino.

«Joseph». Afono, il nome del soldato gli sfuggì senza che se ne rendesse conto. Lo guardava con una rabbia tale, la mano stretta sullo stipite della porta fino a far sbiancare le nocche, che l’idea iniziale di edulcorare la situazione con una battuta delle sue svanì sul nascere. Negli occhi azzurri si addensavano nubi temporalesche, la bocca era una fenditura nell’acciaio.

«Leny, e questo chi è?». Non che l’espressione di Kaïre fosse più amichevole, ci mancava solo che scoprisse i denti e si mettesse a ringhiare. Lienhard maledisse silenziosamente se stesso per non aver chiuso la porta dell’appartamento e poi analizzò la situazione, raggranellando una calma di fatto inesistente.

Cosa doveva aver pensato Joseph, affacciandosi sulla soglia? Anche troppo semplice. Era convinto che Lienhard fosse un alfa, e, visto che Kaïre usava soppressanti solo in vista del calore, il suo profumo omega si svolgeva nell’aria come un invisibile filo di Arianna. Lienhard realizzò che sarebbe stato del tutto inutile accampare delle scuse, per quanto veritiere.

Si schiarì la gola e rispose alla domanda dell’albino, appesa nel silenzio immoto.

«Joseph Redthorn, un amico». Non gli sfuggì la contrazione nervosa sul viso del soldato «E la mia scorta personale, quella che mi ha assegnato il governo dopo l’arresto».

Kaïre arricciò il naso nell’epitome del disprezzo e ringhiò: «Skvien-shwasz um’ta. Salve, Redthorn. Sembra che non si possa andare da nessuna parte in questa città senza incontrare un membro della vostra famiglia». Lienhard sperò che Joseph non conoscesse il dialetto popolare di Fegith, o, in alternativa, che l’essere chiamato “lurido porco schifoso” non lo offendesse.

Per fortuna il soldato si limitò ad un’occhiata carica di superiorità e ad una replica che sembrava scolpita nel ghiaccio.

«Così come è difficile non incontrare immondizia della tua risma, omega». Nelle ultime tre sillabe infuse un disprezzo lacerante, senza sconti; Lienhard avvertì un dolore fisico, da qualche parte nel petto, subito sostituito da un’ondata di rancore.

Kaïre scoprì i denti in un ghigno quasi bestiale.

«Se non fosse perché potrei combinare qualche casino a Leny,» lo informò, serafico «ti spezzerei l’osso del collo senza pensarci due volte. Ci si vede, skvien-shwasz um’ta».

Posò un bacio sulla guancia di Lienhard, delicato come una piuma ‒ non si preoccupò nemmeno di staccare lo sguardo da quello di Redthorn, nel frattempo ‒ e sfrecciò fuori dalla porta prima che gli altri due se ne rendessero conto. Ci fu un attimo di impasse, dopo, in cui il professore riorganizzò velocemente i pensieri (benedicendo, tra l’altro, la saggezza dell’albino) e il viso del soldato divenne di una curiosa tonalità di prugna-bordeaux.

«Avrebbe potuto farlo davvero». Disse, poi, la rabbia una vibrazione di fondo nella voce «Spezzarti il collo. Kaïre è l’omega più forte che abbia mai conosciuto».

Joseph raddrizzò la schiena e gli lanciò un’occhiata di sfida: «Non vedo come avrebbe potuto. Stiamo parlando pur sempre di un omega, un debole‒»

Solo a quel punto, probabilmente, Redthorn si ricordò con chi stava parlando e chiuse la bocca.

«Allora?». Lienhard spalancò le braccia «Che diritto hai di venire qui a fare lo stronzo? Sei l’ultimo di una lunga serie, sappilo. Se non hai niente da dire puoi anche andartene».

Punto sul vivo, Redthorn sibilò: «Non pensavo che ti mescolassi con la feccia del ghetto, Heisenhover». Un angolo nascosto della coscienza di Lienhard suggeriva che l’improvviso malumore di Joseph avesse una causa tutto sommato scontata, che le sue fossero soltanto parole a vanvera. Ignorò quella voce, lasciando che il nervosismo e l’orgoglio ferito prendessero il sopravvento.

«Oh, sei tornato al cognome. Non vorrai mica che pianga, vero?». Fece un passo verso Joseph, ricordandosi improvvisamente di avere un flacone pieno di Progestal nella tasca della giacca. No, non poteva cominciare un match di pugilato senza venire scoperto. Quando parlò, nella sua voce c’era una freddezza mai sperimentata prima: «Senti, vattene».

Per un attimo fu come se sul contegno del soldato si fosse disegnata una crepa. Il suo viso si contorse in preda ad un dolore che dilagò nelle iridi azzurre, l’avvisaglia di un crollo a cui Lienhard sapeva di non poter assistere senza capitolare.

«Vattene». Ripeté, un tremito appena percettibile nella voce «Non ho voglia di starti a sentire».

Joseph aprì e chiuse la bocca come un pesce tirato fuori dall’acqua e lasciato a morire sulla riva di uno stagno, ma non indietreggiò. Era evidente che non si aspettava di venir cacciato in quel modo – il Lienhard che conosceva avrebbe cercato ogni modo per prolungare quanto più possibile il battibecco, amante com’era degli alterchi.

«Giusto perché tu capisca quello che hai appena fatto,» il pugno di Heisenhover si abbatté contro lo stipite, a pochi centimetri dalla mano di Joseph «e il peso delle tue parole». Gli occhi scuri ribollivano di rabbia, il lento stillicidio della sua voce fece sobbalzare il soldato: «Quello che hai definito feccia del ghetto è il mio fratellastro. La mia famiglia. Se ti ritieni troppo in alto per avere a che fare con lui, allora non rivolgere mai più la parola neanche a me».

Gli chiuse la porta in faccia con uno scatto talmente repentino e violento che Joseph ebbe appena il tempo di ritrarre la mano. Se non ci fosse riuscito, glie l’avrebbe spappolata.

«Inutile aspettarsi qualcosa di buono da un alfa». Mormorò, svuotato da ogni forza «Sempre la stessa merda, non importa quanto sembri diversa all’inizio».


◦○◦


Le labbra dell’alfa di nome Nyles non fanno in tempo a sfiorarlo.

Un grido squarcia l’aria, rauco e bestiale, e la presa sul collo di Lienhard svanisce di colpo; cade a terra, l’omega, e schizza all’indietro sulla pavimentazione umida ‒ le dita che cercano, che brancolano alla ricerca di un appiglio lì dove tutto è viscido e scivoloso.

Non capisce, all’inizio. È tutto confuso, assurdamente veloce nella sua mente frastornata, e quando un gruppo di figure incappucciate assale i due alfa e li trascina nel buio di un vicolo cieco Lienhard è troppo sorpreso persino per spaventarsi. Qualcuno si inginocchia davanti a lui e gli parla, la voce un’eco attutita dei suoi battiti cardiaci.

«Ehi, mi senti? Stai bene?». Gli appoggia una mano sulla spalla, stringendo affettuosamente «Lienhard, stai bene?».

Come fa a conoscere il mio nome?

«Chi…» ci vuole uno sforzo sovrumano per muovere la lingua, per separare le labbra «… chi sei?».

Lo sconosciuto ha i capelli bianchi, spioventi attorno al viso bellissimo, e gli occhi come cabochon di tormalina. Non sembra neanche vero, un angelo coperto di stracci luridi.

«Sono Kaïre». Sorride, come se questo servisse a chiarire qualcosa «Andiamo, Lienhard. Non puoi rimanere troppo tempo qua fuori, eh?».

«Sai chi sono». Balbetta, mentre Kaïre lo aiuta a tirarsi in piedi e lo conduce verso una scala di nylon appoggiata alla parete di una catapecchia «Tu, come…»

«Non è un buon momento per le domande. Fidati di me, sali».

Ci mette più tempo del dovuto, rischiando di scivolare sulle fibre lisce e resistenti della scala; l’albino lo segue in un attimo. Il tetto di lamiere sovrapposte su cui si trovano sembra un isolotto nell’arcipelago di baracche e palazzoni diroccati che compone la zona degli slums, caotica e pestilenziale come un girone dell’Inferno. Le altre figure incappucciate si arrampicano sulla scala come scimmie, i visi smagriti nascosti dietro sciarpe sbrindellate e mascherine di carta, e Lienhard inspira una ventata di odori omega che si mescolano in un’armonia dolce e gradevole, rassicurante.

Non c’è nemmeno un alfa, tra loro.

«Perché hai deciso di venire in questo quartiere, Leny?». L’albino si avvicina al limite delle lamiere e salta sul tetto della catapecchia successiva, ad una distanza di forse un metro e mezzo. «Dovrebbero averti insegnato che è meglio starsene chiusi in casa quando si avvicina il periodo dei primi calori. Sei fortunato ad avere qualcuno che si prende cura di te». Parla con malcelata ironia.

«Dove vuoi portarmi?». Il fatto che siano tutti omega lo tranquillizza, ma non si può dire lo stesso delle loro facce. Gli occhi di quegli individui sconosciuti si portano dentro una luce crudele che non presagisce niente di buono, sembrano un branco di cani smagriti alle dipendenze del lupo albino.

«In un posto sicuro, poco lontano da qui. Abbiamo già avvertito chi di dovere, tra poco ti verranno a prendere». Si spostano lungo un percorso che sembra battuto già molte volte, tra tetti bassi e vicini fra loro, fino a fermarsi sull’ampio terrazzo di una casetta intonacata di bianco. «So che hai paura,» dice Kaïre, spalancando una botola di ferro nel bel mezzo del pavimento polveroso «ma non c’è niente da temere: sappiamo chi sei e non vogliamo rapirti o chiedere un riscatto. Forse capirai perché. Piuttosto, non hai ancora dato una risposta alla mia domanda».

Se anche Lienhard volesse scappare sa che non ci riuscirebbe mai. L’agilità del gruppetto di uomini è fenomenale, sembrano ginnasti o artisti circensi ‒ per calarsi nella botola saltano senza esitazione, mentre Heisenhover si aggrappa ad una serie di pioli di ferro smussato conficcati nel muro e scende lentamente, tremando. Stare calmo, pensa, è l’unica cosa che puoi fare adesso.

«Ero…» inspira «ero scappato».

«Questo lo sapevo già. Ma perché? E perché hai scelto proprio il posto peggiore per nasconderti?».

L’interno della casa è semibuio, si sente un odore accogliente di legno stagionato e detersivo; l’inquietudine di Lienhard si spegne a mano a mano che attraversa una serie di stanzette arredate modestamente, fino ad un salone dal soffitto basso dove il gruppo si ferma. Travi di legno scuro sporgono dall’intonaco giallastro, e sul pavimento di mattonelle ci sono dei tappeti spelacchiati e un tavolo con quattro sedie. In un angolo fa bella mostra di sé un cucinino minuscolo e antiquato, a poca distanza da una porta che deve dare sulla strada.

«Sapevo che si stava avvicinando il momento anche per me». Si siede e incrocia le braccia sul tavolo traballante, rendendosi conto di avere fame «E ho avuto paura. Non so davvero perché l’ho fatto, ma appena ho sentito che il mio odore stava diventando più forte sono salito sul primo magnebus».

Kaïre inarca un sopracciglio come per dirgli che non l’ha bevuta fino in fondo. La situazione è un po’ più complessa di così, in effetti, e ha a che fare con il profondo senso di vergogna che Lienhard prova ogni volta che suo padre lo sottopone ad una visita medica di controllo. Il solo pensiero che Thomas Heisenhover possa percepire il suo odore omega, possa vederlo mentre suda e geme in preda al calore come la creatura impotente che è, lo riempie di un ribrezzo così forte che vorrebbe sparire. Non ha il coraggio nemmeno di chiedergli perdono per avergli insozzato la vita con la sua presenza.

«Strano che tu sia riuscito ad arrivare fin qui incolume». L’albino inspira a fondo e distende il viso in un’espressione quasi estatica «Hai un odore attraente anche per me che sono un omega, Leny. Una benedizione e una maledizione insieme… alfa nobili e potenti, molto diversi dalla feccia che hai evitato per un pelo poco fa, si ammazzerebbero per te».

Lienhard è preda di un brivido gelido, sgradevole. «Io,» sbotta, stringendo i pugni «io non diventerò mai la proprietà di un alfa!».

«Se parli così è piuttosto strano che tu te ne vada in giro a sbandierare in questo modo il tuo odore». Kaïre incrocia le braccia, sotto la pelle eburnea guizzano muscoli insolitamente tonici per un omega «Pensa a quello che sarebbe successo se qualcuno ti avesse riconosciuto, Leny. Pensa alla fine che avrebbe fatto la tua copertura».

Lienhard è cresciuto con la consapevolezza di essere un omega e di dover mantenere quel segreto ad ogni costo. Sapeva che prima o poi i calori sarebbero arrivati, e ha atteso quel momento angoscioso con una fermezza ammirevole per un ragazzo così giovane. Alla fine, però, la paura e l’insicurezza hanno avuto la meglio.

«Sono un imbecille». Ammette, stringendo la stoffa dei pantaloni fin quasi a strapparla «Non è una sorpresa, comunque. Sarebbe meglio se non fossi mai nato».

«Questa è una cosa molto brutta da dire». La voce dell’albino è quasi carezzevole, come se stesse parlando ad un bambino «Solo perché il mondo in cui vivi ti ha insegnato a pensare che gli omega non valgano nulla, questo non significa che sia vero. Il mio gruppo, per esempio, è composto di soli omega… sai? Nessuno ci ha mai battuto in una rissa che sia una». Ridacchia, si siede con un movimento aggraziato «Gli alfa sono più forti solo se noi glie lo permettiamo, Leny. So che a scuola sei il migliore della tua classe e in generale uno degli ragazzi più brillanti della città, come puoi pensare di essere inferiore a qualcun altro per un fatto puramente biologico?».

Non devono separarli che tre o quattro anni, eppure Kaïre sembra molto più vecchio. Ha indovinato il corso dei suoi pensieri con una lucidità impressionante, e il ragazzo, di fronte ai suoi modi schietti e comprensivi, decide di fidarsi.

«Riuscite davvero a tenere testa agli alfa?».

«Ne abbiamo appena uccisi due, Leny. Che altre prove ti servono?». Sorride, come se il fatto di aver ammazzato delle persone a sangue freddo fosse una cosa da niente. Ammirevole, in un modo del tutto malsano. «Il tuo mondo è troppo pieno di buone maniere e guardie del corpo – tutte beta, se ci fai caso – perché qualcuno realizzi questa semplice verità. Gli alfa sono feroci nel ribadire il proprio dominio, gli omega nel difendere la loro libertà».

La porta si spalanca di botto, impattando contro il muro. Sulla soglia compare una figura alta e distinta che Lienhard potrebbe distinguere tra mille, e che lo getta nel più completo terrore.

«Pa… papà». Balbetta, accennando un timido gesto di saluto. Thomas Heisenhover appare furibondo.

«Ti ringrazio, Kaïre». Spiccio, il Ministro ignora suo figlio e abbraccia l’albino con quello che sembra profondo affetto «Sei impeccabile come sempre».

La risposta di Kaïre è destinata a marchiarsi a fuoco nella memoria di Lienhard.

«Non c’è di che, papino».


Solo in seguito Lienhard venne a conoscenza della storia del suo fratellastro.

Kaïre, scoprì, era il primo figlio di Thomas Heisenhover, regolarmente acquistato in un vivaio poco prima che il Ministro conoscesse Dietmut. Strano ma vero, i medici non si erano accorti dell’albinismo del piccolo finché non era nato, e questo aveva portato ad una situazione poco piacevole sia per i responsabili del vivaio che per Heisenhover; la procedura voleva che il bambino venisse ucciso (la sua non era una malformazione grave, ma un funzionario d’alto rango non poteva certo accollarsi una simile storpiatura) e Thomas si era ferocemente opposto a quella soluzione. Aveva falsificato un bel po’ di documenti, corrotto dei notai, e si era portato via il neonato deforme che per legge non avrebbe potuto avere. Tenerlo con sé in una delle tante residenze cittadine, con tutta l’attenzione mediatica che la sua elezione aveva suscitato, era fuori discussione: era stata la sua neo-promessa sposa, Dietmut Schroder-Heisenhover, ad insistere perché Kaïre venisse allevato dagli uomini più fidati di Thomas. Era cresciuto nel ghetto, l’albino, protetto e addestrato per diventare un giorno il fulcro di quel contrabbando che aveva ingrossato enormemente le casse del Ministro, per essere il suo pezzo da novanta nello spaccio di progesterone.

Il perfetto paradigma del bambino-soldato.


◦○◦


Aprì la porta, pronto a tenere l’ultima lezione prima del ritiro forzato, e per terra trovò un O-screen.

Qualcuno ‒ e non ci volle molta fantasia per indovinarne l’identità – l’aveva poggiato a terra con cura, equidistante dagli stipiti e dalle pareti del corridoio. Quella manifestazione di precisione meticolosa fece sorridere Lienhard.

«Redthorn,» sbuffò «mi conosci così male da regalarmi una cosa del genere?».

Nonostante tutto, però, lo raccolse. Evidentemente Joseph si era presentato alla porta dell’appartamento per darglielo, e aveva ricevuto un’accoglienza inaspettata; quel pensiero pungolò la sua coscienza in un modo che non gli piacque per niente.

Non posso sentirmi in colpa. Che ne sapevo io? Poteva anche evitare di tirare fuori i peggiori luoghi comuni del suo repertorio”.

Se lo allacciò al polso, faticando con la complicata chiusura regolabile che faceva aderire il lattice alla pelle come un guanto; era un modello diverso da quello che aveva visto addosso a Joseph, sembrava più moderno e più costoso: grigio perla anziché nero, la superficie lucida come uno specchio era solcata da venature color oro pallido. Bello, forse persino prezioso.

Pare che sarò costretto a rivolgerti la parola, Redthorn.


«Per che si ha a notare che gli uomini si debbono o vezzeggiare o spegnere, perché si vendicano delle leggieri offese, delle gravi non possono; si che la offesa che si fa all’uomo debbe essere in modo che la non tema la vendetta”». David Cooper annuì vigorosamente e prese qualche appunto su un tablet che doveva aver visto tempi migliori. Lienhard non si aspettava tanto entusiasmo per un trattato di politica vetusto come Il Principe di Machiavelli, ma i ragazzi della sua classe lo guardavano con interesse e non la finivano di scribacchiare e scambiarsi commenti a bassa voce.

Terminò la lettura del capitolo, inciampando un paio di volte nella sintassi complicata del Neolatino Medievale.

«Bene, non pensavo che vi piacesse».

«Invece è interessante. È bello vedere come certi problemi non cambino mai, anche a distanza di millenni». Ul’aan Sedaf, ragazza alfa dallo sguardo fiero, si ravviò una ciocca di capelli dietro l’orecchio «Quando l’autore critica la politica del suo tempo, la corruzione… sembra incredibile che sia stato scritto nel sedicesimo secolo dell’Era Comune».

Joseph Redthorn, in fondo alla biblioteca, sembrava rinchiuso in una tale coltre di imbarazzo che, probabilmente, nemmeno alzandosi e insultando a gran voce il Gerarca si sarebbe riusciti a smuoverlo. Ogni volta che l’O-screen strusciava sul suo polso, Lienhard non riusciva a impedirsi di guardarlo; era assolutamente certo che anche Joseph si fosse accorto del bracciale argentato, e si chiese più vote cosa stesse pensando.

«E cosa ne pensi della proposta di Machiavelli? Della sua idea di principe?».

«È molto primitiva, ma ci sono delle cose giuste. Quando Machiavelli parla di “principe” non si riferisce all’immagine che ne abbiamo noi oggi, di un uomo gretto ed egoista, ma all’idea di un leader capace di riunire il potere nelle sue mani e fare il bene del popolo. Ho letto un compendio,» aggiunse, arrossendo un po’ per l’imbarazzo «e una metà del libro descrive le caratteristiche ideali del governante. Penso che su quello abbia ragione».

«E allora come giustifichi il motto “il fine giustifica i mezzi”?».

«Credo sia una visione molto riduttiva, e data a posteriori, del pensiero di questo autore». Era evidente che Machiavelli rientrava tra le preferenze di Ul’aan, e Lienhard le sorrise «Esiste un limite, anche per lui. E il fine, in ogni caso, non può mai essere qualcosa di strettamente egoistico, ma è sempre volto al bene dei cittadini… questo pone degli argini abbastanza stretti ai “mezzi” di cui si può disporre. Se i politici che governano questo mondo dovessero compiere azioni moralmente discutibili per il bene del popolo, non credo che potrei condannarli. Ma sappiamo che non è quello il problema».

Joseph si schiarì rumorosamente la voce e Lienhard dirottò la conversazione sul tema della vendetta e dell’annientamento senza mezzi termini del nemico. Alcune delle teorie esposte dagli studenti lo turbarono profondamente per la loro crudezza, ma riuscì a concludere la lezione senza incidenti.

Quando li lasciò alcuni di loro stavano ancora discutendo su cosa fosse più legittimo da un punto di vista ontologico, se lo smembramento o la decapitazione; lo stesso Joseph, appoggiato con aria casuale alla porta della biblioteca, seguiva il diverbio con uno sguardo vagamente scandalizzato.

«A volte mi chiedo se sia lecito limitare la loro libertà espressiva». Si fermò davanti al soldato, senza far caso alla sua indifferenza posticcia «Mi rispondo sempre di no. A cosa devo questo regalo, Joseph?».

Scosse leggermente il polso e l’O-screen luccicò.

«Non avevi detto di non volermi più parlare?». Gli occhi di Joseph erano dolorosamente belli ‒ Lienhard non riusciva a smettere di pensarlo, anche quando sarebbe dovuto essere arrabbiato e offeso e tutto il resto. Scrollò le spalle, godendosi la diffidenza appena venata di speranza del soldato.

«Eri fuori di te e io ho reagito male. Senti, so che Kaïre non ha esattamente un aspetto molto raccomandabile». Inspirò a fondo, mentre smontava il suo contegno pezzo per pezzo «Forse al posto tuo avrei reagito allo stesso modo. O forse no, insomma, non sono così irascibile e non combino casini del genere per la gelos‒» Lienhard si interruppe, desiderò una pala per scavare una buca e sotterrarsi.

«Heisenhover, tu‒»

«Cazzo, scusa. Non ho il diritto di dire certe cose».

Joseph sembrò irrigidirsi, arrivò addirittura a cacciare le mani in tasca ‒ un gesto insolitamente scomposto rispetto al suo solito portamento aggraziato.

«No. Il punto è che hai ragione, Lienhard». Quando lo guardò, sorridendo appena, il professore dovette trattenersi dall’annullare la distanza che li separava e abbracciarlo. Fu un momento frastornante.

«In che sens‒»

«Ti porgo le mie scuse, il mio è stato un comportamento inaccettabile e volgare. In realtà l’O-screen faceva da contraltare ad una mia richiesta, ma immagino che adesso questo non sia più possibile».

«Stronzate». Il sorriso di Lienhard si allargò come uno squarcio di cielo terso dopo il temporale «Avrei un bel leggere libri e comportarmi da professorino, se tenessi il broncio per una cosa del genere. Dev’essere una richiesta notevole, se in cambio mi hai dato questo».

«Vorrei che tu mi prestassi un libro».

Lienhard si impose di non spalancare la bocca troppo a lungo.

«E come… come mai questo cambio di vedute?».

«Ti ho ascoltato». Joseph sorrise «Durante le tue lezioni hai detto molte cose con cui non sono assolutamente d’accordo, e tante altre molto intelligenti. Quando avete parlato di Dostoevskij hai detto che il motivo per cui ami la lettura è che ti permette di vedere il mondo in modo più complessa, attraverso l’analisi di numerosi punti di vista. È vero». Si staccò dal muro e gli si avvicinò «Ma è vera anche un’altra cosa. La tecnologia, Lienhard, fa parte del nostro mondo esattamente quanto la tua letteratura. Per questo mi sembrava uno scambio equo».

«Uno scambio di prospettive». Lienhard annuì, compiaciuto «Perfetto, Joseph. Mi è già venuta in mente una cosa che potrei prestarti».








_______________________ _ _ _

Bon, capitolo che avrei potuto anche intitolare “family business” :D

Come avrete capito adoro gli Heisenhover e i loro scheletri nell’armadio. Adoro anche Lienhard e Joseph, ma questo è profondamente scontato ♥

Il capitolo batte di poco il precedente in quanto a lunghezza, e non sono riuscita a metterci dentro tutto quello che, da scaletta, ci doveva essere. Ergo prevedo che anche il prossimo sarà bello denso di informazioni :3

Se avete tempo lasciatemi un commentino, che mi fanno piacere e mi spronano a scrivere meglio ;)

Ci vediamo al prossimo aggiornamento,

Greedfan


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Capitolo 6
*** ζ. ***


ζ.


Faceva un effetto strano vedere la copertina ruvida de Le Notti Bianche tra le dita sottili del soldato, i complessi decori color oro sotto polpastrelli abituati a maneggiare armi e marchingegni ad alta tecnologia. Era un'edizione molto antica, rilegata con la pelle di qualche animale la cui specie era andata estinta decenni addietro, e sulla carta ingiallita fiorivano numerose macchie di muffa.

«La traduzione è molto buona». Lienhard trascinò la valigia di titanio anti-urto fuori dalla porta e sbuffò per la fatica «Niente a che vedere con l'originale in Arkesoviet, ovviamente, ma per quello avrai tempo».

Si era portato dietro libri sufficienti per l'intera durata del soggiorno e forse qualcosa in più. Era un vizio che non riusciva proprio a togliersi, quello di sovraccaricare le valige con quantità immani di carta e lasciare uno spazio minuscolo per tutto il resto. Il risultato era che non riusciva nemmeno a sollevare l'involucro leggerissimo di titanio e sarebbe stato probabilmente costretto a indossare più di una volta le stesse magliette.

Non c'è niente che non va con le mie priorità”.

«Serve una mano?». Joseph corrugò le sopracciglia, non senza divertimento, e lo guardò trascinare la valigia per tutto il corridoio tra sbuffi e imprecazioni «Ma cosa ci hai messo, lì dentro?».

«Armi di distruzione di massa».

«Non fatico a crederlo».

La vettura sportiva di suo padre era parcheggiata fuori dal campus, a pochi metri dal cancello principale. Lienhard ringraziò la perizia del vecchio Heisenhover quando, avvicinatosi all'abitacolo, notò la sagoma di una valigetta incastrata tra il sedile e la pulsantiera del cruscotto.

"Lo sapevo. Grazie, papà".

Issò la valigia nel bagagliaio con un gesto che gli provocò una fitta lancinante a livello lombare. Gli ci volle qualche secondo per riprendere fiato e trovare le chiavi, incagliate nel fondo delle tasche sfilacciate dei pantaloni.

«Quanto starai via?». Joseph si rigirava il libro tra le dita come se fosse un oggetto preziosissimo o incredibilmente fragile; non la smetteva di fissare Lienhard con un'inquietudine palpabile, e il professore, ben più smaliziato di quanto non volesse dare a vedere, aspettava solo che si decidesse a parlare.

"Andiamo, Redthorn. Sappiamo perfettamente tutti e due quello che stai per dire".

«Dipende». Cincischiò con le chiavi, una serie di cilindretti di diversi metalli che andavano inseriti secondo un certo ordine nel fianco dell'abitacolo «Più o meno una settimana, ma non so dire per certo. Devo sistemare alcune cose in una proprietà di campagna, e credimi se ti dico che vorrei limitare la rottura di palle quanto più possibile».

«Roba noiosa?».

«Oh, non lo immagini». Rimase zitto, in attesa. Joseph giocherellò ancora un po’ con il libro, lo aprì un paio di volte e insinuò le dita tra le pagine, si schiarì la voce e arrossì. Nevrosi, pensò Lienhard, sta accumulando pulsioni irrisolte come un reattore al deuterio prossimo all’esplosione.

«Io…» quando si decise a parlare, non prima di aver raddrizzato la schiena con il consueto gesto un po’ affettato, il professore avvertì un brivido teso lungo la schiena «… mi chiedevo se quando torni dalla tua vacanza potremmo andare da qualche parte».

Mai richiesta di appuntamento fu più malposta, ma Lienhard sfoggiò un sorriso abbagliante e annuì.

«Joseph, siamo due alfa… scientificamente parlando questo è‒»

«Non mi interessa». Lo sguardo del soldato bruciava «Non mi interessa, davvero. Se è scientificamente impossibile, allora tu e i tuoi amici del dipartimento di anatomia dovrete riscrivere un paio di teorie».

L’istinto arrivava laddove la mente si vedeva sbarrato il passo dalle false convinzioni. Joseph non sapeva che il suo comportamento stava rispondendo agli imperativi della fisiologia in un modo quasi paradigmatico.

Lienhard inclinò il capo, inspirando a fondo. Se si concentrava poteva catturare il profumo di Joseph, trasportato dai refoli di vento caldo, e il suo corpo non riusciva più ad ignorarlo ‒ nemmeno la sua mente, per dirla tutta, voleva ignorarlo. Quello che stava per fare era una follia, e se solo suo padre avesse potuto dare un’occhiata ai progetti che turbinavano nella sua testa lo avrebbe rinchiuso in un carcere di alta sicurezza per poi buttare via la chiave.

Tu pensi di potermi amare soltanto perché ai tuoi occhi sono un alfa. Cosa faresti se scoprissi la verità?”. Non era sicuro di voler conoscere la risposta.

«Va bene, Joseph». Allargò le braccia «A volte le teorie scientifiche vengono riscritte».

Un sole accecante pioveva sull’Universitas, indorando gli alberi e riempiendo di riflessi azzurrognoli i capelli di Joseph. «Hai gli occhi quasi trasparenti». Quel commento sfuggì a Lienhard in un sussurro senza peso «Ma il tuo sguardo è pieno. Non ne ho mai visti di così belli».

Joseph incrociò le braccia sul busto e si guardò intorno, cercando di mascherare una traccia di rossore sugli zigomi. Non si sarebbe avvicinato più di così, non valeva la pena forzare la mano.

«Ti ringrazio». Asciutto, ridicolmente professionale.

«Non devi». Lo salutò con un cenno del capo «Arrivederci, Joseph. Nel frattempo proverò a capire come si usa l’O-screen che mi hai regalato… ma tu devi promettermi che finirai il libro».


◦○◦


La scatola di acciaio inossidabile aveva profili aguzzi e incastri perfetti. Ospitava un letto di sintolattice morbidissimo, in cui era stato sagomato un incavo a forma di punta di freccia.

Nell’incavo, opalescente alla luce bianchissima del laboratorio, c’era un osso.

Si trattava di una struttura cava e delicatissima, fatta di strati lamellari così sottili da risultare trasparenti; aderiva perfettamente al sintolattice, con le tre cuspidi più pronunciate a sfiorare appena la superficie liscia, ed era di un colore tra l’azzurro e il glicine chiaro. Una vertebra aliena perfettamente conservata.

Rudolf Gosween trattenne il respiro e non osò toccarla. Il valore di quel minuscolo ossicino era esorbitante al punto da costituire un rischio per chiunque lo possedesse.

«La reliquia di un Miraggio». Sussurrò, selezionando un bisturi sottilissimo tra i vari attrezzi che aveva disposto sul tavolo. Il Governo aveva distrutto quasi tutte le prove tangibili dell’esistenza dei Miraggi, ma per fortuna qualche collezionista privato era riuscito a procurarsi – e a conservare – reperti inestimabili come quello. Gosween aveva dovuto faticare parecchio per convincere un collega a procurargli la vertebra, arrivando a scomodare la sicurezza planetaria e il bene di un intero gruppo sociale.

Con il bisturi praticò un’incisione quasi impercettibile in un punto nascosto, asportando una scaglia d’osso. Le sostanze che componevano lo scheletro dei Miraggi, aveva scoperto, erano in alcuni casi simili a quelle umane: eccezione fatta per dei minerali endemici di Nenya – quali il caliadnio, ad esempio, che donava ai tessuti il colore azzurrino – contenevano una quantità incredibile di collagene e un pizzico di fosfato di calcio e idrossiapatite. La differenza fondamentale stava nella consistenza: la vertebra su cui stava lavorando era elastica e flessibile, quasi molle; era probabile che i Miraggi prediligessero un ambiente acquatico e fossero dotati di una struttura fisica leggera.

Se solo avessi più materiale, quante cose potrei scoprire”.

Prelevò la scaglia con un paio di pinze sterili e la lasciò cadere in una provetta piena di gel. Il macchinario per l’analisi del DNA mitocondriale, poco discosto, accolse la provetta in uno dei numerosi alveoli che ne decoravano la superficie globosa.

In teoria offriva una scansione quasi immediata del DNA, ma Gosween aveva come la sensazione che con quel frammento alieno ci sarebbero stati dei problemi. Incrociò le caviglie e si mordicchiò l’unghia del pollice, attendendo il responso.


◦○◦


La proprietà in campagna non era che un bungalow circondato da un giardino incolto, a parecchi chilometri da Fegith. Lienhard, indolenzito dalle troppe ore di viaggio, abbandonò la vettura sull’unica piazzola magnetica di posteggio (dubitava, del resto, che nelle vicinanze vivessero altre creature senzienti) e riuscì a farsi largo tra le erbacce fronzute nonostante avesse le mani occupate da bagaglio e valigetta. Gli sembrava di essere finito in uno dei libri della sua infanzia, che parlavano di esploratori coraggiosi su pianeti lontani milioni di anni luce – la distribuzione di quel genere letterario era stata vietata dal Gerarca per le sue chiare inclinazioni esterofile, e Thomas Heisenhover l’aveva diligentemente somministrata al figlio appena undicenne.

A volte Lienhard si scopriva ad apprezzare davvero la vecchia faina.

Il bungalow era piccolo e giallo, una palafitta dalle linee pulite a cui si accedeva tramite una scaletta di legno. Sulla veranda, un grazioso esempio di incuria su cui qualcuno aveva ammassato rotoli di corda marcia, si era abbarbicata una pianta di edera carnivora dai fiori rossi, profumatissima e bella; Lienhard, spalancando la porta con un calcio, si disse che l’avrebbe lasciata dov’era.

L’interno era polveroso e ordinato, come se nessuno mettesse piede nel bungalow da anni. La camera da letto e il bagno erano gli unici due ambienti separati: il resto dello spazio era occupato da un salotto-cucina a pareti vetrate, da cui si poteva ammirare l’intrico di erbacce che spadroneggiavano nel giardino e degli alberi alieni dai colori bizzarri. Lienhard appoggiò la valigia sul letto, un futon a due piazze che sembrava quasi chiamarlo, e si sciacquò la faccia nel lavandino di ceramica turchese; per curiosità aprì l’armadietto dei medicinali, e quando vide cosa conteneva sorrise senza rendersene conto. Su un ripiano qualcuno aveva dimenticato delle p’vorot, forcelle nasali autoreggenti che, una volta fissate alle narici, filtravano l’aria ripulendola dai ferormoni; erano oggetti di uso comune tra i dottori, e suo padre ne lasciava sempre qualcuna in giro ‒ succedeva spesso che ospitasse gruppi profughi alfa e omega nelle sue proprietà, e le p’vorot avevano evitato più di un incidente.

L’arredamento era tutto nei toni del verdazzurro, dalla cucina al tavolo da pranzo con le sue quattro sedie, dal lampadario al divano di tela stinta. Accogliente, un porto sicuro in cui passare quei cinque giorni d’Inferno.

Lienhard si rese conto di aver avuto un bisogno disperato di quella solitudine rilassata, del profumo familiare della polvere. Doveva sfruttare quel tempo per riordinare le idee e stabilire un piano d’azione sia per quanto riguardava Joseph Redthorn, che per la reliquia di Rudi e il non tanto misterioso uomo senza odore di Kaïre. Se avesse trascurato anche solo uno degli aspetti del quadro generale, gli altri sarebbero finiti in pezzi.

Prima, però, c’era un’altra cosa da fare.

La valigetta che suo padre aveva lasciato nella vettura si sbloccava tramite il riconoscimento delle impronte digitali. Poco sopra la cerniera c’era un quadrato di materiale sensibile, su cui Lienhard premé l’indice e il medio; con un sibilo e uno sbuffò di vapore freddo, la valigetta si spalancò rivelando il suo contenuto.

Una siringa sottile, piena di liquido trasparente, era ancorata al fondo con due fascette di gomma; subito a fianco la mano previdente di Thomas Heisenhover aveva disposto un pacchettino di ovatta e una fiala di alcool denaturato. Lienhard poteva immaginare quale fosse il contenuto della siringa: il Prostaglandin PGF-2α di solito veniva usato per riattivare il ciclo ormonale degli omega che facevano uso di soppressanti. A differenza del Progestal era una sostanza legale, e un medico come Thomas Heisenhover aveva accesso ad una fornitura praticamente infinita di PGF-2α.

Lienhard disinfettò la pelle poco al di sotto della spalla con il cotone imbevuto di ovatta e praticò un'iniezione intramuscolare, osservando come rapito la punta sottile dell'ago che spariva nella sua carne. Analizzò con attenzione quasi scientifica il bruciore che lo punse quando abbassò lo stantuffo, il colore vivace della goccia di sangue che sbocciò sulla pelle e la sensazione di attesa, di smarrimento, di paura. Erano passati troppi anni dall'ultimo calore e l'ansia lo inghiottì.

Si stese sul futon, cercando di normalizzare il respiro. Sapeva che ci sarebbero volute delle ore prima che il Prostaglandin facesse effetto, e non intendeva trascorrere quel tempo nei marosi dell'angoscia; infilò una mano in una delle tasche laterali della valigia da viaggio e tirò fuori un volume tascabile, tutto sgualcito, la cui copertina recitava: "Shakespeare Sonnets − The Oxford Critical Edition".

Lasciandosi avvolgere dal caldo umido che permeava il bungalow, Lienhard cominciò a leggere.


◦○◦


Seppe che si trattava di Ibrahim non appena udì i colpi.

Aveva un modo tutto suo di bussare, l'uomo senza odore, una specie di codice morse che lo avvertiva della sua presenza. L'aveva usato la prima volta, tre colpi veloci e uno più deciso a distanza di pochi secondi, e la memoria di Kaïre non ci aveva messo niente ad assimilare quella sequenza. Era a abituato a ricordare tutto, dai codici cifrati ai dettagli più inutili dei posti che frequentava ogni giorno: con il tempo aveva imparato che una conoscenza accurata delle inezie migliora sensibilmente il controllo che si ha del quadro generale, e lui amava il controllo.

Quella sera la sua maîtresse gli aveva detto di prepararsi bene, per un cliente ricco. Si era messo il suo unico completo elegante, aveva sistemato il buco di stanza che gli avevano assegnato e, nell'attesa, si era seduto accanto all'unica finestra per godersi un po' il panorama della Via delle Lanterne. Era una strada magnifica, forse la più bella del ghetto: filari e filari di lanterne di carta scarlatta, a cui doveva il suo nome, ondeggiavano nella brezza della sera su fili sospesi da una facciata all'altra, e vetrine di bordelli e locali a luci rosse si affacciavano sui marciapiedi affollati come portali di chiese in un luogo di venerazione. Le insegne al neon dei night-club si affastellavano le une sulle altre in un caos di colori squillanti che dava quasi alla testa, mentre impianti di filodiffusione risalenti a una trentina d'anni prima vomitavano musica elettronica a tutto volume − la cacofonia era tale che la maggior parte delle case di tolleranza, compresa quella in cui Kaïre lavorava, si riservavano il privilegio di aumentare i prezzi se dotate di finestre insonorizzate.

Si percepiva il pulsare potente e frenetico di esistenze artificiali, di corpi che si dimenavano sotto lo stimolo del sangue corroso dalle droghe e da una vita dove l'unico piacere disponibile era quello sporco, corrotto, il sesso a pagamento in qualche cubicolo di un settore malfamato. Ogni volta che i suoi occhi si posavano sulla folla Kaïre avvertiva un senso di vuoto, di commiserazione; anche lui era stato più volte sull'orlo di abbandonarsi alle facili lusinghe della Via, prima di capire che certe cose valeva la pena viverle soltanto dietro le quinte, dove il rischio di coinvolgimento era pressoché nullo.

«Vediamo se indovino...» esclamò, alzando la voce quel tanto che bastava perché l'uomo al di là della porta lo sentisse «... chi è venuto a trovarmi oggi».

Non era una persona socievole o accomodante, Kaïre, ma la vita di strada gli aveva insegnato che le maniere gentili erano il modo più semplice per intortare chiunque − soprattutto i nobili, che tendevano a scambiare i sorrisi della gente del ghetto per manifestazioni di ammirazione e riconoscenza. Si sforzò di stirare le labbra in una smorfia che somigliasse il meno possibile a quella di un cane rabbioso e aprì la porta, appoggiandosi con grazia allo stipite.

Ibrahim, una fiore dal lungo stelo tra le dita, lo salutò con un mezzo inchino.

«Mi sei mancato». Gli occhi del nobile erano dolci ed espressivi, di un verde straordinario «È un vero peccato che per trovarti sia costretto ad attraversare questa palude».

«Ogni cosa ha il suo prezzo». Accettò il fiore con un sorriso e se lo rigirò fra le dita, dedicandogli un'occhiata solo apparentemente distratta. Era di una specie rara e molto costosa, con grandi petali di un viola intenso che si coprivano di riflessi metallizzati se esposti ad una luce forte. «Vedo che me ne attribuisci uno piuttosto alto».

«Mai troppo alto, Helorì». Lavorava con uno pseudonimo, ovviamente: non si era mai abbastanza prudenti, visti i frequenti rastrellamenti nella Via delle Lanterne.

«Ti ringrazio, accomodati».

Ibrahim si avvicinò al letto − legno lucido fino a brillare, due piazze di materasso di piume e coperte di seta sintetica − e incrociò le braccia, esitante. Aveva un bel viso dai tratti decisi, con gli occhi a mandorla truccati di nero e i capelli corvini raccolti in una treccia che arrivava fino a metà schiena; la pelle era dello stesso colore dell'ambra, così liscia che Kaïre fremeva al pensiero di toccarla.

Come al solito, al di là del profumo di colonia costosa, l'albino non percepì nessun odore.

«Ti sta bene». Ibrahim accennò con il capo al completo, un collage di sete in diverse gradazioni di grigio chiaro che poco si accordavano con il bianco accecante della sua pelle. «Sembri... diverso».

«Sembro uno degli omega che si portano dietro i ricchi. Sei mai stato al palazzo del Gerarca, Ibrahim?». Si sfilò la giacca e la buttò a terra senza alcun riguardo. L'uomo privo di odore abbassò lo sguardo e si produsse in un «no» incerto che era un chiaro come il Sole.

«No? Peccato, mi piacerebbe così tanto parlare con qualcuno che c'è stato...»

La maglia seguì la stessa sorte della giacca, poi Kaïre si stiracchiò con fare provocatorio. Sapeva di avere un corpo dalle proporzioni aggraziate, insolitamente muscoloso per un omega, appena intaccato dalle cicatrici; lo sguardo di Ibrahim si accese, lento e sensuale mentre gli si avvicinava a passi misurati. Accarezzò in punta di dita la clavicola sottile, un contatto che Kaïre accolse con un brivido compiaciuto, poi appoggiò il palmo sul suo petto, sopra il cuore, e rimase assorto ad osservarlo.

«Tu non provi niente». Mormorò, spostando la mano sul collo «Come una macchina. Mi sono sempre chiesto come facciate ad essere così tranquilli, se dovessi farlo io−»

«Non è una vita per tutti». Prese il polso del nobile tra le dita e lo staccò da sé con delicatezza, facendo un passo avanti «Ma mi accontenterò dell'onore di far sentire un nobile fortunato, almeno per una notte».

Tutte stronzate, solo stronzate. Potendo avrebbe sgozzato Ibrahim per poi vendere il suo cadavere ad un trafficante di organi, l'avrebbe guardato dibattersi sul pavimento con le mani ad arginare i fiotti di sangue e la sua risata nelle orecchie. Fegith doveva la sua miseria ai nobili, alle loro brame ingorde, e Kaïre aveva pagato personalmente il fio della società costruita da quei viscidi bastardi. Non erano che bestie insensate e brutali.

Mentre allacciava le braccia attorno al collo di Ibrahim e avvicinava il viso al suo, sulla pelle il calore intossicante di quel corpo quasi sconosciuto, pensò a come sarebbe stato riempirlo di calci e ascoltare le sue grida di dolore, le sue suppliche disperate. Immaginò di tenergli la testa sott'acqua, i suoi capelli nerissimi come un'aureola di nastri d'inchiostro, finché non fosse annegato.

Si accorse di avere un'erezione soltanto dopo, con la bocca premuta contro quella del nobile e le sue mani forti tra i capelli, frenetiche, e poi sulle spalle e sulla schiena e suoi fianchi, a slacciare i pantaloni troppo stretti. Sostituire l'immagine di Lienhard a quella di Ibrahim fu il passo successivo, e ben presto si ritrovò ad accarezzare le spalle forti del professore − era chiara, la sua pelle, coperta di lentiggini − a baciarne gli zigomi alti e le labbra che sapevano di caffé e fumo. Il suo amore dispiegava i petali come un fiore di sangue e gli consumava la carne e il cervello, carbonizzava tutto il suo essere con una ferocia totalizzante. Non aveva pietà di lui, quel sentimento.

"Mi brucerò," pensava, lasciandosi stendere sul letto "e la colpa sarà soltanto tua, fratellino".


◦○◦


Era ormai buio quando Lienhard mise da parte il libro e decise di dare un'occhiata all'O-screen.

Lo toccò con tutte e cinque le dita e rimase fermo finché il bracciale non cominciò a scaldarsi sensibilmente. Interdetto, aggrottò le sopracciglia e scosse il polso nel tentativo di suscitare qualche reazione più interessante ‒ magari aveva sbloccato la funzione “stufa portatile” o qualcosa del genere, visto che la temperatura dell’O-screen non accennava a diminuire.

Una frazione di secondo dopo lo schermo olografico si materializzò nell’aria, in un lampo accecante bianco e azzurro. A pochi centimetri dal braccio di Lienhard fluttuavano due riquadri celesti: il primo riportava “ATTIVAZIONE MODALITÁ MANUALE”, il secondo “ATTIVAZIONE TUTOR VIRTUALE”.

Toccò il secondo senza esitazione. Le particelle di luce azzurrina si rimescolarono fino a creare una sagoma vagamente umanoide, una specie di bambolina che fluttuava a mezz’aria ondeggiando la testa e le braccia sottili come lacci di scarpe.

«Attivato tutor virtuale». L’avevano dotato di una voce preimpostata metallica e impersonale, ma Lienhard era sicuro che quel modello permettesse di scegliere il timbro e l’intonazione più gradevoli per il proprietario. Suo padre ne possedeva uno simile, e l’A.I. aveva una voce bassa e modulata che ricordava da vicino quella di Dietmut.

«Vorrei… attiva la funzione esplora risorse». Provò, sperando che le sue parole fossero abbastanza chiare.

«Funzione attivata. L’O-screen Kosmos-Evo X3100 offre una grande varietà di programmi per la ricerca di dati all’interno dello SpazioLog, per la messaggistica, per le transazioni bancarie, per…»

Lo ascoltò in silenzio per un quarto d’ora circa, scorrendo di volta in volta le varie icone che comparivano sull’oloschermo ed esaminandone le caratteristiche; proprio mentre stava controllando le potenzialità della funzione di fotografia 3D, un trillo interruppe l’operazione e l’A.I. si immobilizzò.

«È in arrivo un messaggio da parte di un dispositivo sconosciuto. Apro il programma di messaggistica?».

«Vai». Lienhard sorrise, sapendo già chi poteva averlo contattato a quell’ora «Non hai informazioni sul contatto del dispositivo?».

«Il suo ID è Joseph Redthorn. Avvio la conversazione?».

«Sì».

«Deve scegliere un ID che verrà visualizzato dall’altro O-screen».

«Lienhard Heisenhover». Scandì, senza preoccuparsi minimamente della mancanza di fantasia.

«Gradisce utilizzare la funzione video aggiuntiva?».

Lienhard ghignò: «No. Niente funzione video, vanno benissimo i messaggi».

Una stringa di lettere di un bianco abbacinante si dipanò nell’aria, come se Joseph le stesse battendo in quel preciso istante.

Ti stai annoiando? Pensavo che a quest’ora già dormissi.

Dettò la risposta all’A.I. senza abbandonare il sorriso.

Non sono esattamente il tipo che va a dormire presto. Tu, invece?

Sono appena uscito dalla caserma. Oggi ci hanno trattenuto più del solito… sembra quasi che si siano trovati qualcosa da fare anche quando tu non combini cazzate, Lienhard.

Aggrottò le sopracciglia: il quinto distretto era un posto tranquillo fino alla noia, e la caserma annoverava una media di arresti tra le più basse di Fegith. Era strano che ci fosse del movimento, lì.

Ti prego, dimmi che abbiamo un serial killer. O uno stupratore, magari. Potremmo farne il nostro vanto.

Che pessimo gusto.

Mi fai la paternale, Joseph? Potrei ritrattare la risposta che ti ho dato non più tardi di stamattina.

Ci fu qualche secondo di immobilità, poi un torrente di lettere inondò l’oloschermo.

Vorrei ricordarti che ho il tuo libro in ostaggio. Bello, a proposito… sono ancora all’inizio, ma la descrizione della città è particolarmente suggestiva.

Vorrei ricordarti che qualsiasi danno a quel libro equivarrà ad una mutilazione sul tuo corpo. E comunque stiamo parlando di Dostoevskij, ci mancherebbe che fosse brutto.

La seconda pausa fu più lunga della precedente, e Lienhard si chiese se saltare il turno di Joseph e inviare un altro messaggio costituisse una violazione dell’etichetta. Poi, finalmente, il suo interlocutore manifestò la propria presenza.

Volevo chiederti una cosa, ma dubito che mi risponderai.

Se mi dici una cosa del genere è chiaro che muori dalla voglia di farmi questa domanda. Tutt’al più farò finta di non aver letto nulla.

Quell’uomo che ho incontrato a casa tua era veramente il tuo fratellastro?

Lienhard incamerò un lungo sospiro e fu quasi tentato di chiudere la conversazione. Se saper usare l’O-screen significava esporsi a quelle conversazioni sgradevoli, avrebbe disimparato quanto prima.

Sì.

Non sapevo che Thomas Heisenhover avesse altri figli, a parte te.

Dal punto di vista giuridico Kaïre non figura come figlio di mio padre. Non porta il suo cognome e non potrà ereditare nulla alla sua morte. Nessuno ai piani alti si cura del bastardo deforme di un ministro, ce ne sono talmente tanti…

Scommetto che sua madre vive (o viveva) in un vivaio.

Sorpreso, per un attimo non seppe cosa rispondere.

Come fai a saperlo?

Perché se fosse stato figlio della prima e unica moglie di Thomas Heisenhover, tua madre Dietmut, quasi sicuramente lei l’avrebbe tenuto con sé nonostante l’albinismo. I bambini nati nei vivai, al contrario, sono trattati come esseri umani di serie B.

Quel messaggio lo stizzì ‒ come, del resto, qualsiasi affermazione poco urbana rivolta al suo fratellastro, anche se in quel caso non si trattava affatto di un insulto. Dettò la replica due o tre volte, prima di decidersi a inviare quella definitiva.

Mio padre non tratta nessuno come un essere umano di serie B, e mio fratello Kaïre ha scelto spontaneamente quella vita.

Non c’è bisogno che ti giustifichi, Lienhard. Io so com’è. Mia madre era una Fattrice.

«Oh, cazz‒» l’idea era quella di lanciarsi in una risposta piena di scuse (come sempre, lui e Joseph riuscivano a trattarsi in maniera indelicata anche quando la conversazione partiva da premesse ottime), ma, prima che potesse dettarla al’A.I., quello gli comunicò l’ultimo messaggio che avrebbe voluto sentire.

«L’ID Joseph Redthorn si è disconnesso. Desidera inviare messaggi all’utente offline o continuare con la funzione esplora risorse?».

Lienhard abbandonò la testa sul cuscino e sbuffò, masticando una mezza imprecazione.

«Continua con la funzione esplora risorse. Tanto, peggio di così non può andare».

«Funzione riattivata. L’O-screen Kosmos-Evo X3100 offre una grande varietà di programmi per la locazione tramite ID e codice apparecchio, per il rilevamento delle radiazioni ambientali, per la scansione veloce e la trasmissione di documenti cartacei…»


◦○◦


Joseph si passò una mano sul viso e bevve una lunga sorsata di liquore. Era molto raro che bevesse e nel suo appartamento spoglio non c’era che un’unica bottiglia il cui contenuto potesse definirsi alcoolico, ma il pensiero di Lienhard Heisenhover lontano chilometri da Fegith e della conversazione appena avuta gli torceva le viscere.

Sono un’imbecille irresponsabile”. Si disse. Se i suoi superiori avessero saputo a che livello di coinvolgimento emotivo era arrivato, lo avrebbero immediatamente rimosso dall’incarico ‒ non del tutto a torto, peraltro. In quello stato non sapeva dire se sarebbe riuscito ad arrestare Lienhard Heisenhover, se anche si fosse messo a propagandare contro il Gerarca e la sua intera famiglia.

Maledizione”.

Quando e come era cominciata?

Non lo so, non lo so, non lo so…”

Di sicuro vedere quel maledetto albino nell’appartamento di Lienhard gli aveva schiarito le idee. Non era mai stato così furioso con qualcuno, la sua parte alfa aveva ringhiato e scalpitato per prendere il sopravvento e avventarsi su quello che aveva classificato immediatamente come un rivale. Si era reso conto che la sua parte istintiva era ben più forte di quanto pensasse.

E tuttavia quello non era che il culmine di un processo molto più lento, cominciato ‒ almeno così credeva ‒ quando aveva ascoltato la lettura di Delitto e Castigo in Arkesoviet, quando aveva sperimentato le magie che Lienhard sapeva fare con quella sua voce stupenda. Forse l’aveva colpito perché era una persona diversa sotto ogni punto di vista: non aveva mai conosciuto nessuno che somigliasse a Lienhard Heisenhover, che fosse altrettanto sicuro di sé. straniato dal mondo e autoreferenziale.

Un alfa nel senso più puro del termine, che si sentiva tanto superiore agli altri da poterne ignorare il giudizio. Arrogante e degno d’ammirazione allo stesso tempo.

Se chiudeva gli occhi vedeva i suoi occhi scuri, la piega decisa delle labbra sottili. Vedeva la pelle chiara, le mani lunghe e un po’ goffe, i capelli che incorniciavano il collo con le loro ondulazioni dorate. I pensieri che la sua mente gli suggeriva erano così mortificanti che preferiva relegarli in un angolo e continuare a concentrarsi sui quei dettagli in sé privi di peso, piuttosto che figurarsi il corpo nudo di Lienhard e le sue gambe distese tra le lenzuola di un letto ruvido, da caserma.

Ricordati che è un alfa”.

L’attrazione sessuale tra due appartenenti alla stessa Classe – alfa e alfa, omega e omega, beta e beta – era un evento rarissimo e sempre molto blando, che generalmente si verificava in condizioni particolari: Joseph aveva sentito racconti di amori brevi e fugaci nati tra i ranghi dell’esercito, composto da soli alfa, nelle guerre interplanetarie che costringevano interi contingenti ad accamparsi in zone isolate per mesi e mesi. La dinamica tra lui e Heisenhover era completamente diversa.

Sentiva che qualcosa non stava andando per il verso giusto, ma non capiva cosa. Non era sicuro di voler aspettare ancora per avere le sue risposte.


◦○◦


Cominciò con il languore.

Il mattino successivo alla conversazione con Joseph Lienhard si svegliò in preda ad una sensazione strana, come una pressione irrisolta all’altezza del bassoventre. Non aveva voglia di alzarsi dal letto.

Dopo un paio d’ore al disagio si sostituì la smania. Era come una fame, un bisogno pressante che partiva dal bassoventre e serpeggiava per tutto il colpo, annullando qualsiasi altra necessità. Il solo pensiero di mangiare lo disgustava, l’unica arsura che sentiva era quella, insopportabile, dalla cintola in giù, e senza che se ne accorgesse una sostanza umida cominciò a colargli tra le gambe ‒ avvisaglia del calore imminente, del suo corpo che si preparava con trepidazione.

L’odore dei ferormoni divenne gradualmente più forte, una nube zuccherina che impregnò le lenzuola e la stanza fino a nausearlo. Era così denso e opprimente, mescolato con l’aria umida dell’estate, che parecchie volte pensò di soffocare. Gli girava la testa, si sentiva male.

Quella notte non riuscì a dormire; si tolse tutto quello che aveva addosso e cambiò le lenzuola, ammucchiando quelle sporche nella vasca da bagno. Mandavano un profumo disgustosamente dolciastro, erano umide e stropicciate dai suoi movimenti incessanti.

All’alba già gemeva, cercando di soffocare la voce con la faccia affondata nei cuscini. Ogni sforzo di trattenersi risultava vano: sentiva, con una precisione disarmante, che se in quel momento fosse passato un alfa davanti al bungalow gli si sarebbe buttato addosso senza remore, chiunque fosse.

Non per forza Joseph, no ‒ il solo pensiero del suo odore lo faceva quasi gridare ‒ sarebbe andato bene chiunque. Ed era qualcosa di cui si vergognava, una debolezza inammissibile.

Aveva provato a spicciarsela da solo, ma non bastava. Il suo corpo aveva una fame incredibile, accresciuta da più di un decennio di stasi, e le pulsioni mortificate chiedevano a gran voce soddisfazione.

Voglio morire,” si disse, dopo quella che gli sembrò un’eternità “questo tormento non finirà mai”.

Fu così che, quando sentì il rumore di una vettura che si fermava davanti al bungalow, inizialmente pensò ad un’allucinazione.

Il Sole stava scivolando oltre l’orizzonte, un disco d’oro rosso nel cielo infiammato, e la concentrazione di ferormoni nell’aria della stanza era ben oltre la soglia dell’insopportabile. “Sto impazzendo,” pensò “sto davvero impazzendo”.

Poi avvertì i passi ‒ affrettati, pesanti, irregolari.

Un secondo ancora, e qualcuno cominciò a prendere a spallate la porta.

Lienhard scattò a sedere come una molla, gli occhi sgranati nella penombra, e ascoltò gli schianti secchi di un corpo che si abbatteva violentemente contro il legno sottile; capì subito cosa stava succedendo. Lo capì anche prima che l’odore pungente di un alfa gli raggiungesse le narici, percuotendo il suo corpo con un’intensità che lo lasciò senza fiato.

La parte più brutta fu realizzare che non si trattava di un alfa qualsiasi.

«No, no, cazzo, no…»

Fece appena in tempo a tapparsi il naso che la porta si spalancò con uno schianto e il viso alterato di Joseph Redthorn, contratto in una smorfia irriconoscibile, si stagliò contro il cielo scuro.













____________________ _ _ _

Non so se questo capitolo si possa definire “di passaggio” oppure “baraonda indefibile”. IMHO la seconda definizione è più accurata :D

Ci sono parecchi personaggi e parecchie situazioni diverse, la storia comincia a stratificarsi e siamo arrivati ad un punto di svolta importante. Cosa succederà adesso? Abbiate fiducia in me, molto probabilmente il prossimo capitolo sarà molto diverso da come ve lo aspettate ;)

Grazie a chi ha messo la storia tra le ricordate/seguite/preferite e a chi recensisce [i vostri commenti sono il bene]. Fatemi sapere se il procedere della storia vi appassiona o se, a vostro gusto, c’è qualcosa da migliorare… i consigli sono il pane quotidiano di noi poveri scrittori amatoriali ;3

Al prossimo capitolo,

Greedfan


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Capitolo 7
*** η. ***


η.


Il tempo aveva insegnato a Thomas Heisenhover che la pazienza era una delle doti principali di un buon leader. A volte, però, mantenere la maschera di indifferenza e giovialità per cui il Ministro era noto si rivelava particolarmente difficile.

«Che vuol dire, Beatrisa?». La sua voce vibrava di rabbia.

Nell’ufficio spoglio e semibuio c’erano soltanto il Ministro, seduto dietro una scrivania con le dita intrecciate sulle ginocchia, e una donna. A guardarla distrattamente la si sarebbe detta piuttosto un uomo basso e tarchiato, con le spalle larghe e una muscolatura pronunciata sotto la pelle cotta dal sole; portava i capelli cortissimi, a spazzola, e il vestiario militare ‒ canottiera di tessuto termo-resistente, pantaloni di feltro e anfibi ‒ trasmetteva un’impressione di durezza confermata dallo sguardo deciso dei suoi occhi neri. Beatrisa Zajitzeva era un soldato semplice nel dipartimento anti-contrabbando dell’esercito di Fegith e uno dei luogotenenti più spietati di Thomas Heisenhover.

«Abbiamo scoperto una spia nell’organizzazione». La sua postura era rigida, i pugni stretti «Il suo nome è Weike Sommer, un pesce piuttosto piccolo. Al dipartimento non mi occupo della sezione spionaggio, ma mi è bastato fare un controllo approfondito nei database protetti della centrale per scoprire l’identità della nostra talpa. Vendeva informazioni all’esercito in cambio di soldi, evidentemente quello che guadagnava con noi non gli bastava».

«Porco ingordo». Thomas serrò le dita sul bordo della scrivania «Dov’è adesso? Sappiamo esattamente quante informazioni ha passato all’esercito?».

Beatrisa annuì.

«È ancora vivo, ma abbiamo usato gli psicodroni per accertarci che non si inventasse niente. Lo teniamo in un magazzino fuori città, in attesa dell’ordine di esecuzione».

Gli psicodroni erano insieme un’infallibile macchina della verità e un’arma di tortura spaventosa. Venivano introdotti nel cervello attraverso le orecchie, il naso o i bulbi oculari, e potevano tradurre i segnali elettrici inviati dai neuroni in informazioni leggibili che scorrevano su uno schermo come un film: il dolore, per chi subiva quel genere di interrogatorio, era atroce, i danni al cervello irreversibili. Il loro uso era severamente vietato a meno che non si incorresse in circostanze limite ‒ la minaccia di un gruppo terroristico ai danni dell’intera città, per esempio ‒ ma l’organizzazione di Thomas Redthorn era solita ignorare ogni tipo di regolamento.

Il Ministro sorrise: chiunque fosse stato Weike Sommer, in quel momento non doveva essere molto più che un vegetale.

«Quindi? Cosa sappiamo?».

«Non ha avuto tempo di passare informazioni rilevanti. Come ho già detto, lavorava ai piani bassi: ha causato un paio di arresti tra quelli che smerciavano Progestal per strada, tutto qui. Da quello che ho potuto vedere nel database, era l’unica talpa a disposizione del dipartimento».

«Meraviglioso. Sarebbe davvero molto sgradevole occuparsi dell’eliminazione di altre spie a due mesi dalla prossima consegna. In ogni caso voglio che vengano intensificati i controlli, siate più cauti… e fate in modo che nessuno ritrovi il corpo di quel Wieke Sommer».

Beatrisa annuì di nuovo, senza smuovere di una virgola i muscoli mimici.

«Il carico sul satellite Amaterasu è quasi pronto. Arriverà a destinazione senza intoppi».


◦○◦


Sapeva di non avere tempo per pensare.

Con le dita strette sul naso fino a far scricchiolare la cartilagine saltò di lato una frazione di secondo prima che, annullata in un battito di ciglia la distanza che li separava, Joseph piombasse sul futon. Ringhiando, ringhiando come un cane rabbioso.

«Joseph−» provò, indietreggiando verso la porta che collegava la camera da letto alla zona giorno «Joseph, sono io. Sono Lienhard. Tu non ti rendi conto di quello che stai facendo». Nella sua voce c'era una nota isterica. I ferormoni del soldato erano capaci di attrarlo anche se respirava soltanto con la bocca − organo vomeronasale di merda e adesso che cazzo mi invento non posso usare un braccio sono nudo come un verme - e sapeva che se avesse trascorso troppo tempo in sua compagnia non avrebbe più potuto fare affidamento sulla parte razionale del suo cervello. Il profumo dell'alfa era intossicante, irresistibile.

In quel momento si ricordò delle p'vorot.

Joseph emise un verso che si collocava a metà tra un gemito di frustrazione e un basso brontolio, poi artigliò con la mandritta la federa del cuscino e la stracciò in un gesto che gettò Lienhard in un vortice di terrore gelido. Il soldato era più vicino di lui alla porta del bagno, era più forte e più veloce. Non sarebbe mai riuscito a raggiungere le p'vorot e a chiudersi dentro prima che l'altro lo raggiungesse, e comunque sarebbe servito a poco: nel bagno c'era un'unica finestrella, troppo piccola per permettergli di scappare, e la porta era sottile.

«Vieni qui, Leny». Quando Joseph parlò la sua voce era quasi irriconoscibile, un gorgoglio cupo e velenoso come il ringhio di una iena «Ti prego, ti prego. Stai solo rendendo le cose più difficili, puttana bugiarda». La schiena tesa sotto il tessuto di una maglietta chiazzata di sudore, l'espressione a metà tra la ferocia incontrollata e un disappunto che scavò nelle viscere di Lienhard con il dolore metodico del senso di colpa. Non sarebbe servito a niente, ma provò lo stesso a giustificarsi.

«Non potevo dirtelo». Un passo indietro, poi un altro; il tavolo della cucina non troppo lontano, qualcosa dietro cui nascondersi. «Mi avresti denunciato. Per quelli come me c'è la condanna a morte». Deglutì, mentre Joseph si voltava lentamente − ancora in ginocchio sul letto sfatto − e i suoi occhi brillavano, fiamme fredde nell'oscurità. «E anche perché non mi avresti mai dato una possibilità, da omega. Mi avresti etichettato... come una cosa inferiore. E io non volevo».

Redthorn scoprì i denti e fece un passo avanti, lo sguardo appannato. Le pupille dilatate sembravano voler inghiottire l’iride.

«E perché non volevi?». Un passo avanti, i muscoli del collo tesi fino a scoppiare «E perché, Lienhard? Per evitare questo?».

Si lanciò in avanti, abbrancando l’aria. Di nuovo lo evitò, con una mezza piroetta che lo mandò a sbattere con il fianco contro il tavolo ‒ «Ah, cazzo!». ‒ mentre Joseph scivolava sul pavimento e si aggrappava allo schienale di una sedia per non cadere. Si ritrovarono a poco più di un metro di distanza, a fissarsi dai lati opposti del tavolo. Joseph ansimava pesantemente, chiazze rosse sulla guance e sulla fronte, mentre Lienhard cercava di controllare il tremito delle gambe e inghiottiva un rantolo terrorizzato dopo l’altro.

È più forte, non riuscirai a scappare. E dopo, quando si sarà ripreso e sarete Legati, ti odierà al punto da ammazzarti.

«Non sei in te». Esalò, stringendo una sedia con la mano libera «Joseph, te ne pentirai. Non devi farlo. Trattieni il respiro per qualche secondo, io sono sicuro che‒»

«Stai zitto». Si chinò in avanti, uno spostamento lento e millimetrico «Se solo potessi sentire il tuo odore, Leny… è come se mi stesse chiamando». Socchiuse gli occhi e inspirò a fondo, con un viso che era quello Joseph e al tempo stesso non lo era «Pensavo di essere strano, malato. E invece… invece mi ero soltanto fatto fregare dalle tue cazzate».

Il connubio tra massicce dosi di testosterone e rabbia non era migliore di quello tra fiammiferi accesi e nitroglicerina. Gli alfa, per natura aggressivi, diventavano completamente incapaci di controllarsi.

«Tu…» non riusciva a concentrarsi, l’odore pungente di Joseph lo riempiva di brividi e sudore «… tu mi avresti trattato allo stesso modo se mi fossi presentato come un omega?».

No, certo che no. Non gli interessava la risposta in sé, ma gli istanti di tempo prezioso che gli avrebbe fatto guadagnare: Joseph corrugò le sopracciglia, il suo sguardo si fece per un attimo più lucido in un impeto di concentrazione, e Lienhard ebbe il tempo di elaborare un’idea. Un’idea folle, quasi impraticabile per il suo corpo distrutto, ma che rappresentava l’unica alternativa.

«Io avr‒» Liberò il naso, trattenne il respiro e agganciò il bordo del tavolo con entrambe le mani. Lo rovesciò addosso a Joseph prima che avesse il tempo di finire la frase o di rendersi conto di quello che stava succedendo, un grido galvanizzato tra le labbra arricciate. Il soldato cadde a terra, intrappolato tra il bordo del mobile ‒ era pesante, di legno pieno ‒ e la sedia a cui si era aggrappato, vomitando imprecazioni. A quel punto Lienhard prese l'unica sedia rimasta in piedi e assestò un colpo non troppo forte  sulla schiena di Joseph− se anche si fosse impegnato dubitava di poter fare davvero del male all'alfa, che emise un grido di dolore e poi rimase immobile, boccheggiando, sul pavimento di assi. L'aria nei polmoni cominciava a scarseggiare.

Barcollò fino al bagno, urtando ogni spigolo possibile, e spalancò l'armadietto dei medicinali con una forza che per poco non fracassò l'anta. Infilò una p'vorot con gesti affrettati, incamerando una boccata d'aria che sapeva − grazie alle due lune di Nenya - di niente, e, afferrata la seconda forcella, si precipitò su Joseph. Non poteva permettersi di esitare, ma le sue mani tremavano come fuscelli mentre sollevava il viso del soldato − «Maledetto bastardo, maledetta puttana bugiarda...» − e posizionava la p'vorot. Il corpo del soldato sembrò sgonfiarsi, rilasciare in un colpo solo tutta la tensione accumulata.

Dopo ci fu un attimo di quiete, in cui Lienhard crollò a terra ed emise un lamento − l'eco della disperazione, forse, o della paura. Il suo corpo appariva miseramente magro nella luce azzurrognola che lo inondava dalle pareti vetrate, rivoli umidi tra le cosce e chiazze arrossate dove il bacino aveva colpito il legno. Si sentì svuotato, debole.

Joseph tossicchiò, facendolo sobbalzare.

Un attimo dopo la sua voce − ed era veramente sua, stavolta, morbida e roca al tempo stesso − emerse dall'intrico di legno e stoffa e rabbia malamente imbrigliata. Come un riverbero stanco, scheggiato.

«Quindi è questo che si prova,» mormorò, abulico, le labbra a sfiorare appena il pavimento «ad essere una bestia senza controllo». Ogni parola strappava via un pezzo di carne dal cuore di Lienhard, lo divorava a poco a poco.

«Joseph, perdonami, non vole−»

«Per tutta la vita ho cercato di controllarmi, Lienhard. Di bloccare questi impulsi disgustosi che sono la parte più vile dell'essere un alfa». Il professore vide il luccichio indistinto di quella che sembrava una lacrima sulle ciglia nere del soldato «E per colpa delle tue bugie ho tirato fuori il peggio di me».

Si coprì il viso con le mani, Lienhard, per non guardare il corpo sconfitto di Joseph e la luce incantevole delle lune, per non guardare il tavolo rovesciato e il groviglio di coperte sul pavimento della camera da letto. Stavolta non c'era nessuno a salvarlo dalle conseguenze dei suoi errori, a ricucire le ferite da cui fiottava sangue amaro di senso di colpa.

Rimasero entrambi immobili, respirando piano, senza sapere esattamente cosa stessero aspettando.

 

Fu Joseph, quasi un'ora di silenzio più tardi, a parlare.

«Quando hai scoperto di essere un omega?». Chiese, il tono soffice, senza accennare a togliersi di dosso le sedie. Le ombre cadevano sul suo viso, nascondendolo, e Lienhard ne cercò a lungo i lineamenti prima di rispondere − straniato, le braccia avvolte intorno alle ginocchia in una posa che poco si addiceva ad un uomo adulto. Camminava sul limite estremo di un baratro, barcollando, a pochi metri dalla persona che avrebbe potuto ferirlo più di tutte le altre e a cui rischiava di fare del male con ogni parola. Era come lucidare un vaso di cristallo con la lana d'acciaio.

«Avevo... undici anni, credo. Me lo disse mio padre». Si tenne sul vago, ma una risposta come quella non avrebbe mai soddisfatto la curiosità di Joseph.

«Com'è stato?». Sentì un fruscio, immaginò il corpo dell'alfa disteso in una posa inerme sotto l'intrico di legno.

«Prova a pensare di essere un bambino di undici anni come tutti gli altri, in una classe piena di alfa che non fanno altro che sognare la loro futura carriera militare e raccontare di quanti omega possiederanno quando saranno adulti». La voce di Lienhard, incerta fin dall'inizio, si incrinò: «Prova ad immaginare di fare come uno di quei bambini, con la testa piena di favole sulla forza degli alfa e l'intelligenza degli alfa e il potere degli alfa. Poi, un giorno, tuo padre ti tira in disparte e ti dice senza troppi preamboli che quei sogni li puoi anche buttare nel cesso». Joseph si mosse, un frullare lieve di ombre. «Che sarai proprio quella persona debole e meschina che ti hanno insegnato a disprezzare fino a ieri. Che, non so, tutte i tuoi amici un giorno ti vedranno come qualcosa di non molto diverso da un'incubatrice sforna-alfa, che diventerai un oggetto sessuale e nient'altro. Che qualsiasi cosa tu dica la tua opinione avrà poco o nessun valore, perché le tue saranno le parole di un omega».

Il soldato si schiarì la voce e fece per dire qualcosa, poi rimase in silenzio.

«Non riesci ad immaginare com'è, vero?». La domanda sfumò nella tenebra, Lienhard sospirò: «Hai tutte le ragioni per odiarmi, Joseph. Ti ho preso in giro fingendo di essere qualcosa che non sono. Questo è un crimine punibile con la pena di morte o l'ergastolo, e io non−»

«Una parte di me,» Joseph lo interruppe, spezzando il flusso concitato delle sue parole senza il minimo riguardo «vorrebbe chiamare la centrale e farti arrestare in questo preciso istante. Un'altra parte vorrebbe strapparsi questo dannato affare dal naso e finire quello che avevo cominciato, e solo le Stelle sanno quanto sia dolce il tuo odore, Lienhard». Inspirò, una sedia cadde da una parte con un tonfo secco «Ma l'ultima parte, quella che ho intenzione di ascoltare, sa che nei tuoi panni avrei fatto la stessa cosa. Tu sei... più intelligente di me, più consapevole. È come se capissi le cose più a fondo di quanto fanno tutti gli altri. Lo pensavo quando credevo che fossi un alfa e lo penso anche adesso». Si alzò in piedi, e le due lune improvvisamente illuminarono il suo sguardo deciso. «Se mi trovassi in pericolo e dovessi scegliere qualcuno da cui farmi guardare le spalle, quello saresti tu. Non c'è nessun alfa che sceglierei prima di te».

Il professore trattenne il respiro, attonito. Il complimento si scavò un posto nel suo cuore e mise radici lì, in un angolo da cui poteva guardare speranzosamente il mondo e sperare di venire irradiato da un po' di luce, ma la paura rimaneva ad assediare quella minuscola oasi di calore. Cercò di deglutire, ma la bocca secca glie lo impedì.

«Però c'è una cosa che voglio sapere. Quando hai detto che ti sei preso gioco di me, intendevi anche...» Joseph si guardò intorno, come se l'arredamento spoglio del bungalow potesse suggerirgli le parole giuste. E Lienhard capì cosa voleva chiedergli anche solo da quello, dalla tensione delle spalle e dall'imbarazzo malcelato delle mani contratte.

«No». Sicuro, per la prima volta da quando era iniziata quella conversazione «No, Joseph».

Il soldato non sorrise − erano successe troppe cose − ma annuì bruscamente e il suo viso si rilassò.

«Non potresti rivestirti?». Aggiunse «Non riesco a parlarti come si deve, altrimenti».

Mentre correva in camera da letto, una confusione febbrile nel cervello, a Lienhard arrivò un'ultima frase, come trasportata dall'oscurità.

«Mi chiedo se riuscirai mai a perdonarmi».


◦○◦


Appostato in una traversa poco lontano dalla Via delle Lanterne, Kaïre si rigirava una capsula di Progestal tra le dita e attendeva l'arrivo di qualche compratore. Ogni tanto facevano capolino nel vicolo, controllavano che non ci fossero militari in vista e si avvicinavano con i soldi già in mano: lo scambio avveniva in pochi istanti silenziosi, tanto che a volte l'albino non riusciva nemmeno a guardare in faccia i suoi clienti − conosceva le loro dita, quelle sì, la sensazione di sfregamento sudaticcio e fastidiosamente umano dei polpastrelli. I ragazzi giovani e benestanti avevano mani di velluto, affusolate e gentili mentre ghermivano le capsule, mentre i calli della classe operaia grattavano la pelle come carta vetrata.

Puoi anche riempirti la faccia di trucco per mascherare chi sei veramente, pensava l'albino, vendita dopo vendita, ma le tue mani racconteranno sempre la verità.

Non abbassava mai la guardia. La minima distrazione sarebbe risultata fatale in un lavoro come il suo, dove non erano infrequenti gli incontri con disperati disposti a tutto per un paio di capsule di progesterone.

Dal fondo del vicolo spuntò un uomo alto e magro, sulla trentina, con i capelli cortissimi e una camminata rigida che dava piuttosto nell'occhio. Kaïre tese ogni muscolo del corpo e si staccò dal muro con un mezzo passo, veloce, immergendosi più profondamente nell'ombra tesa del palazzi neri; cacciò una mano tra le pieghe della felpa, le dita strette sul fusto sottile di uno storditore antisommossa, e attese con il fiato sospeso.

«Due». Il viso dell'uomo era parzialmente nascosto dall'oscurità, ma i suoi occhi castani perforavano la cortina di tenebra. «Quant'è?».

Kaïre inspirò a fondo e non trovò nessun odore omega. Piuttosto una scia sottile, abilmente nascosta ma impossibile da celare al suo naso allenato, gravida di testosterone − attivò lo storditore con una pressione lieve delle dita e frugò nella tasca della felpa con l'altra mano, per dare l'impressione di star cercando il Progestal. Tendini tesi sotto la pelle, respiro corto.

«Trenta». Lo storditore era ricoperto da un rivestimento opaco, color carne, che non catturò la luce della luna mentre l'albino allungava la mano verso il compratore sospetto. Ci fu un momento di trambusto quando l'alfa gli strinse le dita in una morsa d'acciaio e lo strattonò verso di sé, flettendo il braccio libero nell'anticipazione di un pugno da manuale. In quel preciso istante lo storditore entrò in azione, sfrigolando contro la pelle dell'alfa, e quello si afflosciò a terra come un sacco vuoto.

Kaïre, minimamente scosso, assestò un calcio nel ventre dell'uomo − non che lui potesse percepire alcunché, con il sistema nervoso in blackout per almeno un quarto d'ora − e si chinò a frugargli nelle tasche. Ne emerse una piastrina O-screen di un blu cobalto difficile da fraintendere.

"Un soldato semplice". Aggrottò le sopracciglia, preda di un fremito di disprezzo. "Da quando l'esercito si immischia nei nostri affari?".

Piastrine O-screen come quella venivano distribuite ai soldati troppo poveri per permettersi di acquistare un dispositivo più avanzato. L'albino ne aveva già viste diverse, considerato che sottrarle alle reclute più sprovvedute e rivenderle per pochi soldi sul mercato nero era una specie di sport nazionale, nel ghetto; c'era chi le collezionava e se le appendeva al collo per dimostrare quanti soldati era riuscito a fregare.

Nella piastrina, dunque, nulla di insolito. Il problema stava nel fatto che un soldato, evidentemente alfa ed evidentemente malintenzionato, l'aveva avvicinato con l'intenzione di aggredirlo − voleva arrestarlo, forse? Ma perché? C'era sempre stato un accordo tacito, tra militari e abitanti della Via delle Lanterne, per cui i primi ricevevano sconti sulla droga e sulle case di tolleranza e i secondi non venivano infastiditi.

"Nessuno spezzerebbe quell'equilibrio". Rivoltò le altre tasche del soldato, ma non ne uscì nulla. "Questo è folle".

Sgattaiolò fuori dal vicolo, e via di corsa nelle strade deserte del ghetto. Doveva avvertire gli altri prima che quella situazione inquietante rivelasse delle pieghe ancora peggiori di quanto sospettava.

◦○◦


«Voglio farti vedere una cosa». Zoppicando, affaticato, Lienhard si appoggiò alla porta del bungalow e abbassò la maniglia «Andiamo».

Joseph non se l'aspettava. Aveva sistemato le sedie attorno al tavolo della sala da pranzo e si era seduto, la testa tra le mani, senza sapere cosa fare; gli sembrava di incespicare su una crosta di vetro sottilissimo, prossima a spezzarsi e ferirlo al minimo passo falso, e per quanto si sforzasse non riusciva a guardare il viso di Lienhard senza precipitare in uno stato di profondo malessere.

"Mi ha mentito," emergeva, ogni tanto, nella baraonda dei suoi pensieri "e io per poco... io per poco non l'ho..."

Arricciava le labbra, cercando di concentrarsi su qualcos'altro. Joseph era sempre stato abituato a vedere il mondo sotto un filtro perenne di bianchi di neri, di colpevoli e innocenti: in quella circostanza, però, trovare qualcuno che fosse colpevole e allo stesso tempo non lo fosse era impossibile. Poteva incolpare Lienhard per aver violato la legge, per avergli mentito, ma ogni volta che pensava alla sua voce mentre leggeva e al suo sguardo − alfa tra gli alfa − gli sembrava che quello fosse giusto, che quello fosse naturale. Non poteva immaginarlo in un vivaio, con il camice bianco delle fattrici e il cranio rasato − il chip impiantato poco sotto l'orecchio destro, i tentacoli biomeccanici a sporgere dalla pelle sottile − senza provare raccapriccio. Ricordava gli omega che componevano gli harem dei suoi cugini, la casata regnante dei Redthorn, con le loro divise sfarzose e i collari a elettroshock e le teste chinate e gli occhi pieni di rassegnazione, docili: Lienhard Heisenhover non era e non sarebbe mai potuto essere nulla di tutto ciò.

"Puoi davvero accusarlo perché si è ribellato?".

Affondò le dita tra i capelli, squassato da quel conflitto invisibile. Non si meritava la pace, ma in quel momento la desiderava più di ogni altra cosa − "Se solo tu non esistessi, se solo non ti avessi mai incontrato..."

Ed era vero, anche quello, fino ad un certo punto. Non sapeva più cosa pensare.

«Andiamo».

Lienhard si era infilato una tuta di ultraneoprene e sopra i pantaloni e una camicia aperta. Era strano vederlo con qualcosa di così moderno, con la luminescenza dei polimeri sintetici ad accarezzargli il collo fin sotto la mandibola, e Joseph si disse che la tuta doveva avere a che fare con il calore.

«Dove?». Si tirò in piedi come se qualcuno gli avesse attaccato delle zavorre pesantissime alle spalle, a fatica «Forse sarebbe meglio se me ne andassi».

«Non credo». Lienhard si sistemò uno zainetto sulle spalle, cinghie di cuoio consumato e stoffa crivellata di buchi «E perché, poi? Per rinchiuderti da qualche parte e avvelenarti il sangue?».

«È così sbagliato avvelenarsi il sangue per una cosa del genere?». Joseph alzò la voce «Lienhard, adesso non puoi fare finta che sia tutto−»

«Stop». Aprì la porta, rivelando uno scorcio di campagna immersa nel chiarore lunare «Stop alle conclusioni affrettate. Andiamo, Joseph, ormai ti ho fatto tutto quello che potevo farti. Questo non sarà peggio di una sediata».

Un sorriso appena accennato si dipinse sul viso del soldato, che sussurrò: «Non ne sono così sicuro».

Lo seguì, alla fine, fuori dal bungalow e attraverso una boscaglia di felci alte e fronzute che nascondevano l'orizzonte. Il terreno era morbido, coperto da un'erbetta violacea che ricordava la mucillagine, e Lienhard si muoveva come se stesse seguendo un sentiero preciso in quel sottobosco privo di riferimenti.

«Dove stiamo andando?».

«C'è un frutteto». Il professore si abbassò sotto le fronde di una felce particolarmente grossa e sparì in una macchia di oscurità nera come lo spazio profondo «Öbstgrun, file di alberi a perdita d'occhio. Ci andavo da piccolo».

«E perché dovremmo andare proprio lì?». A malincuore, Joseph ricordò un bambino con lo sguardo troppo severo che sedeva tra i tronchi alti degli öbstgrun, tremando mentre i richiami irati di suo padre echeggiavano nella lontananza.

«Perché quel frutteto è mio». Si stavano spostando sul limitare di un campo di papaveri, che Lienhard indicò con un gesto ampio «Li vedi quelli? Sono controllati da unità volanti che si spostano in sciami lungo i perimetri e sentinelle armate. Se provi a staccare un solo bocciolo sono autorizzati a disgregarti, e non sarebbe saggio accamparsi lì in mezzo».

«Accamparsi?». Joseph aggrottò le sopracciglia e si rese conto, con un certo sollievo, che quella camminata in campagna lo stava effettivamente distraendo «E perché mai hai un frutteto? Non mi sembri un amante dell'agricoltura».

«Era di un vecchio che mi lasciava sempre stare lì, purché non gli rovinassi le piante e cose così. Mi sdraiavo sotto gli alberi e potevo mangiare tutte le bacche che volevo. Poi il vecchio è morto e ho comprato il frutteto per evitare che qualche compagnia interplanetaria lo trasformasse nell'ennesimo campo di papaveri da oppio». Lienhard fece spallucce, un accenno di nostalgia nella piega delle labbra «Di quelli ce ne sono già abbastanza».

Gli alberi di öbstgrun comparvero come una macchia scura sul cielo buio, un merletto dai bordi irregolari che si estendeva per metà dell'orizzonte e spandeva il suo profumo zuccherino a decine di metri di distanza. Gli alberi erano piantati secondo uno schema regolare, una griglia di tronchi lisci da cui pendevano grappoli di fiori bianchi − chiusi, sembravano punte di lancia intagliate nell'osso − e bacche bioluminescenti, rosa pallido.

Lienhard si fermò in uno spiazzo tra quattro alberi e radunò alcuni sassi, con cui formò un piccolo recinto approssimativamente circolare. Joseph si sedette a pochi centimetri dal circolo di pietre, osservando le danze di qualche insetto notturno che depredava i grappoli di bacche e spariva ronzando nell'intrico di fronde − a quanto pareva, il proprietario del frutteto non si era mai preoccupato di potare gli alberi, i cui rami lasciavano vedere appena qualche squarcio di cielo stellato.

Corrugò le sopracciglia quando Lienhard si chinò a raccogliere qualche ramo secco e sistemò una piccola pira al centro del recinto, per poi armeggiare con uno strano arnese di metallo che aveva tirato fuori dallo zaino. «Che stai facendo?». Chiese, mentre il professore usava l'aggeggio per vaporizzare chissà quale sostanza sui rametti «È una trappola per insetti?».

«Immagino che tu non abbia mai acceso il fuoco». Lienhard ridacchiò «Non nella maniera antica, almeno».

«Fuoco?». Stupito, Joseph si protese verso i ramoscelli una frazione di secondo prima che una scintilla scaturita dall'attrezzo metallico facesse scaturire una vampata di fiamme; sobbalzò, colto alla sprovvista, mentre strie di fuoco arancione si avviluppavano come serpenti sul legno secco e rischiaravano lo spazio scuro tra gli alberi. «Non è legale accendere del fuoco vero, soprattutto in un posto pieno di materiale infiammabile come−»

«Lo so, lo so... ma guarda quant'è bello». Lienhard appoggiò il mento sulle ginocchia e si accostò al falò, una mano protesa per scaldarsi «È vivo, a differenza degli ologrammi. Senti che caldo».

Joseph inarcò le sopracciglia, trattenendosi dall'imitare il gesto del professore, e sbottò: «Sì, è bello, ma che senso ha tutto questo?».

«Shhh...» l'omega socchiuse gli occhi «... prova a non pensare, Joseph. In questo momento è una facoltà più dannosa che utile».

«Vorrei avere la tua calma». Ringhiò, in risposta «E la capacità di ignorare i problemi come se non−»

«Shhh». Lo interruppe di nuovo, aggiungendo un ciocco più robusto al fuoco ormai avviato «Abbi pazienza».

Le stelle crebbero, disegnando i loro archi bizzarri nella volta celeste, mentre  lo sguardo di Joseph si faceva assente, perso nei guizzi sinuosi delle fiamme. Lienhard riavviò il fuoco con qualche ramo secco e si sdraiò su un fianco, giocherellando con i fiocchi di cenere che cominciavano ad accumularsi ai margini del falò improvvisato.

«Il fuoco insegna parecchio». Sussurrò, gli occhi di Joseph nei suoi. «Se non te prendi cura si spegne. Se non lo controlli ti scotta non appena abbassi la guardia. Ma il bello è che a volte si spegne o ti brucia lo stesso, anche quando ci hai messo tutto l'impegno possibile».

«Mi ricorda qualcuno».

«Dovrebbe. Quella di essere imprevedibili è una prerogativa di tutti gli uomini».

«Di alcuni più che di altri». Asciutto, Joseph spezzò distrattamente un ramoscello e lo buttò nel fuoco «Mi hai portato qui per impartirmi una lezioncina filosofica? Funziona meglio nella tua biblioteca, credimi».

Lienhard ridacchiò senza nemmeno darsi la pena di aprire bocca, riflessi arancioni e bagliori metallici nei capelli biondi. «Trovo che il modo migliore per riportare una situazione alla normalità sia ristabilire le consuetudini». Tra le sue mani comparve, come per magia, un libretto sottile «Le mie lezioni ti sono mancate, Joseph?».

L'espressione sul viso del soldato non poteva definirsi altrimenti che sconvolta.

«Lienhard, non mi sembra il momento».

«È sempre il momento per i sonetti di Shakespeare». Aprì il volume con un gesto distratto, voltando velocemente le pagine «Non ci sono istan-traduttori, quindi ascolta e goditi il suono. Si narra che Shakespeare abbia scritto opere di pregio ben maggiore, ma sfortunatamente ci sono rimasti solo frammenti delle sue opere teatrali. A me personalmente i sonetti piacciono molto».

«Di che parlano?». Joseph decise di assecondare le stramberie del professore − l'alternativa, alzarsi e cercare di ritrovare la strada in quei campi sterminati e bui, non era praticabile. Lienhard, realizzò, l'aveva confinato in quel boschetto oscuro senza possibilità di fuga.

«Amore». Il modo in cui lo disse inviò una serie di scariche elettriche lungo la schiena del soldato «Amore per un uomo ricco e dalla bellezza favolosa. Torniamo all'argomento della prima lezione, ricordi?».

Joseph ripensò al Lienhard Heisenhover di quei giorni, al suo sorriso sfrontato e allo sguardo luccicante dietro le lenti degli occhiali. Era tutto incredibilmente lontano, quasi irreale, come la danza dei granuli di polvere nella luce dorata del sole e il lento serpeggiare delle fiamme.

La voce di Lienhard, però, non era cambiata − il suo incantesimo non aveva perso di efficacia.

«Devouring time, blunt thou the lion paws, and make the earth devour her own sweet brood». Con il mento appoggiato tra le braccia conserte e una vaga sensazione di vacuità nell'animo, Joseph ascoltò senza fiatare parole di una lingua che non capiva, inintelligibili dichiarazioni d'amore fatte da un uomo la cui memoria era stata divorata dal tempo. In qualche modo gli sembrò che il senso profondo della poesia penetrasse comunque in lui, così come lo colpiva la bellezza delle stelle senza che ne conoscesse i nomi o il vero aspetto − così come l'aveva colpito la bellezza di Lienhard anche quando non sapeva chi fosse realmente. A volte, si disse, la vera essenza del mondo trapela anche quando si fa del tutto per nasconderla, e solo dopo capì di trovarsi uno di quei momenti in cui ogni cosa trova miracolosamente il suo posto e si ha quasi paura di muoversi per non infrangerne la perfezione.

Inspirò l'odore forte di legna bruciata, chiuse gli occhi, e ascoltò la voce di Lienhard fino allo spuntare dell'alba.

«Yet, do thy worst, old Time: despite thy wrong, my love shall in my verse ever live young».












________________________ _ _ _

Questo capitolo ha vari difetti, il primo dei quali è quello di essere arrivato *appena* in ritardo. Poi c'è il fatto della smielatezza molesta, che mi auguro non risulti eccessiva (in genere non sono una persona zuccherosa, ma con questi due devo trattenermi per evitare di sfornare la brutta copia omegaverse di Tre Metri Sopra il Cielo).

Vi faccio i soliti ringraziamenti per recensioni/seguite/ricordate/preferite e spero di trovarvi ancora qui per il prossimo capitolo. I cestini con le uova marce sono alla vostra sinistra.

Lovvovi,

Greedfan


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Capitolo 8
*** θ. ***


θ.


Joseph se ne andò qualche ora dopo l’alba, ancora assonnato per la notte in bianco. Lo salutò con un’alzata di spalle e un cenno forzato, buttandosi nell’abitacolo di un veicolo che slittò via senza rumore.

Lienhard non riusciva a scacciare la sensazione che gli sviluppi sarebbero stati tutt'altro che rosei, ma sapeva di non poterci fare niente. Rientrò nel bungalow con un senso di pesantezza nell'animo, una speranza disperata che si agitava da qualche parte tra il nervosismo e il senso di colpa − ti prego, ti prego, ti prego non odiarmi − e si sdraiò sul futon sfatto. Gli effetti del calore si facevano di ora in ora più labili e ben presto non avrebbe avuto più scuse per non tornare alla vita reale, al mondo di bugie che lo aspettava dentro le mura di Fegith.


Una volta aperta la porta dell’appartamento, Lienhard capì che i suoi progetti di riposo e meditazione sarebbero andati in fumo. Lo sguardo gli cadde immediatamente su un foglio di metallo dai contorni arrotondati, che qualcuno aveva fatto scivolare sotto la porta e che era rimasto a prendere polvere sul pavimento per almeno un paio di giorni. Impossibile fraintenderne l’apparenza, i ghirigori sottili sulla superficie lucida: era un Invito.

Piegarsi sulle ginocchia e raccoglierlo fu più faticoso di quanto pensasse. Entrata a contatto con le sue dita, la lamina di metallo si prese un paio di secondi per la scansione delle impronte digitali e poi s’illuminò, contorcendosi a mezz’aria come una foglia trasportata dal vento autunnale.

Che Lienhard ricordasse, nessuno dei suoi parenti compiva gli anni in quel periodo e non c’erano party accademici in vista. Rimanevano poche altre opzioni, visto che la sua fama di facinoroso lo rendeva inviso alla maggior parte dei salotti eleganti di Fegith.

Irrigidendosi nella forma aggraziata di una rosa avvolta da una corona di spine, il biglietto dissipò ogni dubbio. “Redthorn,” pensò Lienhard, contenendo a malapena il disprezzo, “perché mai i Redthorn mi mandano un Invito?”.

«Lienhard Heisenhover» la voce computerizzata si dipanò dai petali della rosa come una ninnananna «sei ufficialmente invitato alla presentazione in società di Elenoire Redthorn, che si terrà il…»

Ascoltò le indicazioni con lo sguardo fisso e la bocca semiaperta, incapace di riscuotersi dal torpore che l’aveva colto di fronte ad un evento tanto inatteso. Se il Gerarca – o chi per lui – aveva deciso di invitare anche gli Heisenhover alla cerimonia di presentazione in società della sua figlia più giovane, alla festa sarebbero stati presenti tutti i nobili e i personaggi politici più abbienti di Fegith. Non riusciva a spiegarsi, altrimenti, perché i Redthorn avrebbero dovuto accogliere in casa loro una famiglia con la quale i rapporti – per usare un eufemismo – non erano mai stati particolarmente intimi.

Conosceva la ragazza, Elenoire, solo di vista: doveva avere sedici anni, ormai, i tratti slavati del ramo principale dei Redthorn e quegli occhi alieni, tra il celeste chiarissimo e il violetto, che assomigliavano a pietre senza vita. Lei e Maryanne, l’unica altra femmina nella nidiata del Gerarca, erano entrambe alfa. Si trattava di estranee per lui – e di un tipo non particolarmente gradito, tra l’altro – ma disertare un invito formale senza validi motivi era un gesto che la sua posizione precaria non gli consentiva. Suo padre, che aveva basato una carriera sui rapporti diplomatici, non glie l’avrebbe mai permesso.


◦○◦

Kaïre era riuscito a mobilitare gli altri prima di quanto pensasse, complice la psicosi collettiva ingenerata dal tradimento di Wieke Sommer. L’organizzazione di Thomas Heisenhover aveva, come presupposto fondamentale, la fiducia assoluta che i membri nutrivano gli uni per gli altri: erano stati scelti perché affidabili, devoti alla causa, e scoprire l’esistenza di una falla in un tessuto che credevano privo di strappi era stato un brutto colpo, per tutti.

Il magazzino periferico che avevano scelto per incontrarsi ospitava una vasta selezione di ricambi per vetture a trazione magnetica, impilati in scatole di ultraneoprene imbottito che raggiungevano il soffitto. Era un posto ideale per discutere di faccende private, con le pareti di cemento spesse un paio di metri e un complesso sistema di schermatura a onde radio che lo proteggeva da microspie e microfoni nascosti; apparteneva ad una delle tante società fantocce di Thomas Heisenhover, gestita da uno dei luogotenenti che presiedevano all’incontro.

Saleem Chandra, questo il suo nome, era un ometto così basso che, seduto su uno scatolone, non arrivava a sfiorare il pavimento con la punta delle scarpe. Magro, la pelle scura e il volto cadente, rugoso, aveva uno sguardo acuto che sembrava scandagliare gli oggetti e le persone su cui si posava; in contrasto con la moda corrente, sul suo naso adunco ballonzolavano un paio di occhiali dalle lenti rotonde, e le mani macchiate mostravano i segni della vecchiaia.

«Se quello che Kaïre ci ha raccontato corrisponde a verità, la situazione potrebbe rivelarsi peggiore di quanto immaginassimo». Gracchiò «La Via delle Lanterne è sempre stata una zona franca per la vendita di Progestal, e non possiamo permetterci di perdere i traffici in quel quartiere. Oltretutto l’aggressione ai danni di Kaïre era molto diversa dalla procedura di un regolare arresto: perché usare un soldato in borghese, quando basterebbe inviare una pattuglia in qualsiasi punto del quartiere per arrestare decine di venditori?».

«Magari non volevano che la notizia arrivasse fino a noi». Beatrisa Zajitzeva grattò il pavimento con un piede, innervosita, e sbuffò «Forse pensavano di catturare Kaïre e farlo sparire dalla circolazione senza divulgare la notizia dell’arresto, per non metterci subito in allarme. Quello che mi chiedo è se il soldato puntasse direttamente a Kaïre o stesse cercando uno spacciatore come un altro nella Via».

«Ecco, questa è una questione su cui mi soffermerei un po’ di più». L’uomo che aveva parlato, alto e segaligno come cero, stava appoggiato alla stessa pila di cassette su cui sedeva Kaïre. Robert Ianisov, unico altro omega tra i luogotenenti del Ministro, trattava l’albino con una cortesia untuosa che somigliava alla solidarietà, e riservava ai suoi colleghi niente più che fredda indifferenza. «Non so se cogliete,» continuò «l’enormità del problema, nel caso in cui la prima opzione fosse quella vera. Basterebbe un test del DNA come quello che viene fatto in caso di arresto per rintracciare parentele che nessuno di noi vorrebbe venissero alla luce».

«E se cercano me significa che già sospettano qualcosa».

«È assurdo». Beatrisa fece schioccare la lingua contro il palato «Gli unici a sapere del coinvolgimento di Heisenhover siamo noi, e la nostra fedeltà è stata messa alla prova più volte. A meno che…»

«Che cosa vorresti insinuare?». Una beta bassa e grassottella, le forme generose strizzate in una tuta di lattice contenitivo, si mise le mani sui fianchi e squadrò Beatrisa con astio «Non puoi mettere in dubbio l’onestà di chi ha lavorato una vita per Thomas Heisenhover».

«Ti senti chiamata in causa, Deehar?».

«Non esagerate». La voce profonda di Mikahel Ribic, un uomo alto e ben piazzato che se ne stava discosto dagli altri, con le mani in tasca, interruppe il litigio sul nascere. Mikahel aveva un passato turbolento alle spalle, costellato di pene detentive nelle carceri speciali di Fegith e risse tra i viottoli dei quartieri bassi, ma non era uno stupido e tantomeno un uomo da prendere sottogamba. Alto quasi un metro e novanta, con la costituzione di un lottatore e la pelle devastata dalle cicatrici – si era sempre rifiutato di farsele rimuovere – si occupava di evitare che il traffico di Progestal a Fegith venisse controllato da altri gruppi criminali. Con che mezzi, Kaïre non era mai stato ansioso di saperlo.

«Che cosa proporresti di fare, Ribic?». Chandra si aggiustò gli occhiali sul naso con un sorrisetto ironico.

«Beatrisa,» Mikahel si rivolse direttamente alla donna «la tua posizione non ti permette di investigare?».

«Ho già rischiato parecchio per identificare Wieke Sommer, e in quel caso sapevo esattamente dove e cosa cercare. Sono un soldato semplice, accedere ad informazioni riservate richiede moltissimo tempo per me. Una soluzione più semplice sarebbe intensificare i controlli e la protezione ai venditori della Via – per questo potrebbero farci comodo i tuoi uomini, Mikahel – ed evitare che Kaïre si faccia vivo per un po’».

«È un rattoppo temporaneo,» la risposta di Robert Ianisov provocò uno squittio d’assenso in Dehaar Klauss «ma forse per qualche giorno andrà bene».

Chandra si schiarì la voce e disse: «Dovrà andar bene. Purtroppo temo che questa non sia altro che la punta dell’iceberg».

«Che intendi?». Chiese Kaïre.

«I soldati non cambierebbero mai la loro politica senza un buon motivo. Se lo fanno c’è una ragione, e dobbiamo aspettarci la messa in pratica di una strategia precisa… non qualche colpo di testa privo di significato».


◦○◦


Il giorno prima della festa, una settimana e mezza dopo il suo ritorno dalla campagna, Thomas Heisenhover gli fece visita.

Lienhard aveva trascorso quel breve periodo di quiete in solitudine, leggendo e riflettendo sulla situazione presente. Il pensiero correva sempre a Joseph, ma sapeva che contattarlo e cercare di risolvere tutto parlando sarebbe stato uno sbaglio: erano insufficienti, le parole, quando si trattava di esprimere concetti e sensazioni che nemmeno lui riusciva ad afferrare del tutto. Senza guardarlo negli occhi e avvertire il suo respiro, il calore della sua pelle e le scariche elettriche che formicolavano appena sotto quello strato di porcellana sottile, non avrebbe mai potuto comunicare davvero con Joseph.

Aveva cercato di contattare Kaïre per sapere come andava con la ricerca del campione di cui aveva bisogno, ma ogni tentativo era stato vano: con suo fratello l'unica strada possibile era pazientare e attendere che si facesse vedere, impegnato com'era in chissà quali traffici nelle zone più remote di Fegith. Lienhard sperava solo che fosse riuscito a procurarsi quel dannato campione.

Occupazioni temporanee atte a distrarlo dal maggiore Redthorn erano state la ricerca di un abito adatto alla festa - i suoi completi dal taglio antiquato avrebbero provocato il raccapriccio generale - e l'imbastire un discorso per mettere suo padre al corrente degli ultimi sviluppi. Se completare il primo obiettivo non gli era costato granché (esclusa una somma non proprio trascurabile accreditata ad una delle più importanti boutique di Fegith) il secondo era rimasto insoluto, una nube di preoccupazione che si incupì ancora di più quando Thomas Heisenhover bussò alla porta dell'appartamento.

Lienhard lo accolse con un sorriso incerto, consapevole della tempesta che stava per abbattersi sulla sua vita. Lasciò che si accomodasse, che posasse il cappotto - tutto sembrava immerso in una calma irreale, la quiete prima dello scatenarsi dei fulmini - poi, stranamente tranquillo, saltò a piè pari i convenevoli e disse: «In campagna è successa una cosa che non doveva succedere».

La voce tremò un po', e Thomas se ne accorse. Allarmato, scoccò un'occhiata penetrante al figlio e gli fece cenno di continuare.

"Deve saperlo. Non è un segreto che posso mantenere, per il mio e per il suo bene".  

Prese fiato e gli raccontò in breve quello che era successo. Impersonale, come se narrasse di cose che non lo riguardavano − che importava della reazione di suo padre, in fondo, se tutti quei ricordi rischiavano di non significare più niente? − ripercorse le ultime settimane, le conversazioni piene di sottintesi, le spirali di polvere nell'aria ferma della biblioteca, le sfumature liquide degli occhi di Joseph alla luce del falò e la sua voce spezzata sotto il chiaro di Luna. Si sforzò di trasformarle in immagini prive di sentimento.

Chiese perdono alla sacralità di quei ricordi mentre lo sguardo di suo padre si riempiva di stupore, e rabbia, e commiserazione, mentre le orecchie rapaci del vecchio disossavano le trame fatate della realtà e ne assimilavano il midollo freddo, colonne di dati e cifre e previsioni e come hai potuto.

Come hai potuto, dita fredde sul bavero della giacca e l'impatto violento contro una libreria, come hai potuto, narici frementi e occhi iniettati di sangue e grida inarticolate e rabbia che era motivata solo in parte, rabbia fomentata dall'incomprensione. La accolse senza ribellarsi, incassò l'impatto di un pugno sullo zigomo che gli fece male in un modo del tutto allucinatorio − percezioni marginali, dolore che non riusciva a intaccare lo strato più superficiale della sua anima − si lasciò sballottare come una marionetta.

Hai messo tutto a repentaglio, gli arrivò, come attraverso le acque profonde di una palude.

"Non volevo. Non riuscivo e non riesco e non riuscirò a rendermi conto di quello che ho fatto".

«Se lo racconterà a qualcuno moriremo entrambi, lo capisci questo?!».

«Sì». Non aveva mai pensato a suo padre come ad un uomo violento, non lo pensò nemmeno quando fu scaraventato a terra e urtò una pila di libri con la spalla sinistra.

«In che rapporti sei con questo Joseph Redthorn? Ti fidi di lui?». Ansimando, un pugno stretto attorno alla falda semistrappata della sua giacca, la testa china su di lui in uno scintillio corale di occhi e zanne snudate, Thomas Redthorn sembrava l'orco di una fiaba antica «Dimmi che non sei impazzito del tutto, Lienhard».

«Mi fido di lui». Inghiottì un bolo di sangue e saliva «Non mi denuncerà, ne sono assolutamente certo». Non era del tutto vero, ma suo padre aveva bisogno di quella bugia come lui aveva bisogno di alzarsi e respirare un po' d'aria fresca.

«Gli hai parlato di me, per caso?».

«No. Non sa niente di te o dell'organizzazione».

Glissò sul fatto che Joseph aveva visto Kaïre e conosceva il loro legame di parentela, pur non sapendo quali e quante attività illecite gestisse l'albino. Suo padre avrebbe potuto ucciderlo per una cosa del genere.

Thomas deglutì con quello che sembrava sollievo, lasciando la presa sulla giacca del figlio.

«Immagino che domani sarà presente anche lui».

Quella frase attraversò Lienhard come una freccia, conficcandosi nel punto più nascosto e doloroso della sua anima. Si diede dello sciocco mille volte per non averci pensato prima: pur facendo parte del ramo cadetto di una famiglia enorme, sicuramente anche Joseph sarebbe stato invitato alla festa di presentazione della cugina.

"Domani potrebbe essere la resa dei conti".

«Che cosa...» si asciugò un rivolo di bava rosata dall'angolo della bocca e si tirò in piedi, cercando di ridefinire i margini di un rapporto padre-figlio che il pugno aveva momentaneamente spazzato via «... che cosa vuoi che faccia, papà?».

In quel momento Thomas Heisenhover non era più suo padre, non era nemmeno un amico. Era il generale di un'armata pronta a sopraffare il nemico, e lui rappresentava l'ufficiale pusillanime che aveva rischiato di mandare a monte un intero piano peccando di negligenza. Il Ministro non era mai tenero, con quelli che rovinavano i suoi progetti.

«Non lo so». Uno bagliore di rabbia fredda negli occhi del padre lo avvertì di stare attento, nei minuti successivi, alla scelta delle parole «Se questo Joseph è sentimentalmente coinvolto, cosa in cui a malincuore mi tocca sperare,» contrasse il viso in una smorfia di puro disgusto «allora siamo sicuri che non ci tradirà. Potrebbe addirittura rivelarsi una pedina utile, visto il suo incarico».

Ed eccola, la faina, pronta a ricavare vantaggio da tutto e da tutti a spregio dei sentimenti. La prospettiva di coinvolgere Joseph nei piani di suo padre travolse Lienhard come un'ondata di nausea, ma non ebbe il coraggio di obiettare: aveva dato inizio lui a quella valanga, stava a lui arginarne le conseguenze. A mente fredda, quando suo padre si fosse calmato, avrebbero potuto discutere seriamente della cosa.

«Che aiuto potrebbe darti? Non è coinvolto nel reparto anti-contrabbando, non−»

«Stiamo avendo alcune... fughe di dati, ultimamente». L'espressione di Thomas si appianò in una maschera di rabbia serafica, spietata «Beatrisa Zajitzeva ha giustiziato una talpa, e la speranza è che non ce ne siano delle altre. Joseph Redthorn non sarà un ufficiale di grado alto, ma il suo cognome apre molte porte in certi ambienti». Sogghignò, come se con quella frase la spiegazione apparisse perfettamente esauriente.

«Non sperare che cerchi di convincerlo, non domani».

«Non l'ho mai sperato, sarebbe prematuro. Prima dobbiamo aspettare che la situazione si stabilizzi, e mi auguro che tu sia abbastanza intelligente per capire da solo cosa fare. Da parte mia farò in modo di non perdere d'occhio quel soldato». Lienhard annuì, mentre suo padre afferrava il cappotto e l'infilava frettolosamente.

«Sai che non l'ho fatto per danneggiarti». Tentò, accorgendosi che le mani gli tremavano «È stato più forte di me».

"È stata la mia natura di omega", avrebbe voluto aggiungere, ma si vergognò soltanto per averlo pensato. Non poteva cercare giustificazioni tanto meschine davanti a qualcuno che lo aveva sempre amato per quello che era.

«In alcuni frangenti anche gli uomini più svegli si comportano da imbecilli». Thomas aprì la porta e sostò un attimo sulla soglia, guardando suo figlio con rabbia e rammarico «Mi dispiace, Lienhard. Non posso perdonare quello che hai fatto, anche se vorrei con tutto me stesso».

«Perdonami». Abbassò lo sguardo, le guance in fiamme.

«Dovrai guadagnarti il perdono. Domani fatti trovare pronto per le otto e mezza».

Lienhard rimase solo, con la sensazione di avere una vita in frantumi da ricomporre e nessuna idea su come farlo.


◦○◦


La porta dell'ufficio di Garett Mitchell appariva, per qualche strano motivo, più spoglia e severa del solito. Joseph la contemplò in silenzio per una decina di secondi, poi deglutì.

Il corridoio era vuoto, bianco e freddo e orribilmente monotono. La calma impersonalità della centrale faceva a pugni con la confusione rabbiosa che gli corrodeva il cervello, lo destabilizzava; se quell'edificio − e la gente che lo abitava, più precisamente − avesse avuto un'aria anche solo vagamente accogliente, amichevole, di casa, Joseph non avrebbe avuto dubbi nella scelta.

Così, invece, era tutto più difficile.

In campagna, con il viso di Lienhard negli occhi e la sua voce nelle orecchie, per un momento i dubbi avevano smesso di torturarlo e Joseph si era detto che no, non avrebbe mai potuto denunciarlo alle autorità cittadine. Tornato a casa, però, con giorni interi a sbiadire quei ricordi e il lavorio incessante di una routine che l'aveva inghiottito subito, l'alfa aveva riconsiderato la situazione più e più volte; il rischio che qualcun altro scoprisse tutto e lo accusasse di complicità lo terrorizzava: sarebbe scoppiato uno scandalo, la famiglia l'avrebbe ripudiato.

Se suo padre avesse saputo che cosa stava facendo l'avrebbe ammazzato con le proprie mani.

Lienhard era un criminale. Criminale.

Per quante volte se lo ripetesse quelle parole continuavano a suonargli false e vere allo stesso tempo. La testa gli scoppiava.

Lienhard era inaffidabile, gli aveva mentito. Probabilmente lo aveva preso in giro su tutto − un bugiardo così abile aveva forse problemi nel fingere sentimenti? − e stava solo cercando di tenerselo buono per evitare complicazioni. Eppure, eppure...

"Non riesco a crederci davvero. Io ho visto qualcosa nei suoi occhi".

Si rendeva conto di comportarsi come una ragazzina irresponsabile, ma i processi razionali della sua mente sembravano decisi a non funzionare mai più. Gli sarebbe bastato bussare e raccontare tutto al colonnello Mitchell per risolvere il problema, fare il suo dovere di cittadino e recare un servizio notevole al casato − gli odiati Heisenhover avrebbero ricevuto un colpo da cui era impossibile riprendersi − ma tutto questo aveva un prezzo. Lienhard.

Gli sarebbe bastato rinunciare alla pretesa egoistica di quell'amore assurdo, sbagliato, eppure non poteva. Non voleva.

Stava per voltare i tacchi e andarsene, quando la porta dell'ufficio si spalancò e Garett Mitchell in persona fece per uscire. Si bloccò, sorpreso, lo sguardo scintillante sotto le sopracciglia folte, ed esclamò: «Maggiore Redthorn, che sorpresa! È qui per una questione urgente?».

Joseph si sentì soffocare. Eccola lì, la speranza di redenzione che gli si offriva spontaneamente, e lui non doveva far altro che accettare.

«Io...» raddrizzò inconsciamente la schiena, come faceva sempre davanti ai superiori «... no, nulla».

Stava facendo la figura dell'idiota. Ciondolare davanti alla porta di un superiore senza alcuno scopo non era un comportamento ammissibile per un militare di grado, e Mitchell aggrottò le sopracciglia.

«La custodia di quel Lienhard Heisenhover l'ha forse trasformato in un originale, maggiore? Torni al suo posto, questa caserma ospita lavativi a sufficienza... non c'è bisogno che anche gli ufficiali comincino a bighellonare in giro. Con la confusione che ci sarà tra un po' di giorni, poi...»

«Cosa intende dire, signore?».

«Eh,» Mitchell strizzò un occhio con aria complice e diede una pacca sulla schiena a Joseph «pare che finalmente la nostra centrale verrà coinvolta in qualcosa di utile. Tutte lo saranno, a dire il vero».

«Si prepara un'azione corale? Dev'esserci in ballo qualcosa di grosso». Mitchell doveva essere davvero di ottimo umore per comportarsi con tutta quella confidenza, e Joseph decise di cogliere la palla al balzo.

«Al momento si tratta solo di indiscrezioni, ma pare che entro la fine del mese intercetteremo un grosso carico di progesterone proveniente dalle nazioni oltremondo e destinato al traffico illegale qui, a Fegith. Prenderemo all'amo un pesce grosso, un trafficante di spicco». Il sorriso di Garett Mitchell contagiò anche Joseph, che seppellì il senso di colpa in un angolo e si lasciò invadere dal sollievo per quella bella notizia.

«Ho una telefonata importante da fare, Redthorn. Intende bloccare il corridoio tutto il giorno?».

«Signore». Joseph si produsse in un cenno di saluto sbrigativo e si affrettò ad abbandonare il corridoio, covando vergogna e senso di colpa. Non aveva denunciato il professore, ma avrebbe avuto presto occasione di riscattarsi con un'azione ben più importante.

Sperò almeno che Lienhard valesse tanto da giustificare tutte quelle bugie.


◦○◦


Suo padre fu puntuale.

L'accolse nella vettura con un'occhiata fredda, seduto con compostezza su un sedile che sembrava fatto di autentica pelle bovina − una rarità preziosa fino allo sperpero − mentre l'autista ruotava dolcemente la limousine lunga quasi nove metri, acquistata per l'occasione, e abbandonava il campus dell'Universitas.

«Cos'è quel coso?». Thomas indirizzò un'occhiata dubbiosa al vestito di Lienhard e aggiustò con noncuranza le falde di un completo di sinto-seta dal taglio classico e, apparentemente, molto costoso.

«La moda è una forma di bruttezza così insopportabile che si è costretti a cambiarla ogni sei mesi». Lienhard snocciolò la citazione senza aspettarsi che suo padre la capisse e puntò lo sguardo fuori dai finestrini oscurati, le luci di Fegith che scorrevano sotto i suoi occhi come un tappeto di stelle fisse «Non sei contento che per una volta abbia smesso i miei − cito testualmente − orribili completi da uomo delle caverne?».

Thomas accennò una risata.

«A volte è difficile scegliere il male minore, Leny».

«Fottiti».

Il vestito di Lienhard, in pieno accordo con la moda corrente, era una tuta attillata di ultra-neoprene color argento vivo (le tinte metallizzate erano tornate in auge quell'anno) su cui scivolava una tunica di seta semitrasparente, fatta di innumerevoli veli sovrapposti che riflettevano la luce come gocce d'acqua. Il cappuccio della tunica si portava tirato su, a coprire i capelli sciolti, e le maniche lunghissime strusciavano a terra come i paraventi dei sacerdoti che decoravano le ultime chiese cristiane del satellite. L'unico ornamento era una cintura d'oro bianco, che si intrecciava intorno alla vita come se fosse fatta di rami vivi e foglie intrappolate nell'immobilità del metallo.

«Ricordo mode meno femminee». Rincarò la dose, Thomas, mentre trafficava con il suo O-Screen di ultima generazione «A proposito, tua madre stasera non verrà».

«Come mai?».

«Non ne aveva voglia. Non ama le occasioni mondane, lo sai. Come mai ti sei tolto gli occhiali?».

Lienhard si stropicciò gli occhi, sperando che le nanomacchine correggi-miopia ad effetto temporaneo facessero il loro lavoro fino alla fine della serata.

«C'entravano poco con l'ultraneoprene. E comunque l'anno scorso mi sarebbe andata peggio... era tornata di moda la pelle nera, giusto?».

«E le piastre metalliche. Fegith sembrava piena di cavalieri medioevali».

Il viaggio non durò che un quarto d'ora, al termine del quale la vettura accostò con dolcezza accanto alla residenza dei Redthorn. Lienhard si prese un po' di tempo per ammirarla silenziosamente, attonito.

La chiamavano Babilonia, e a ragione.

L'autista sostò davanti agli imponenti campi di forza che proteggevano la residenza cittadina dei Redthorn come un guscio iridescente. Il palazzo che si scorgeva dietro gli schermi, deformato leggermente dalle onde elettromagnetiche cromatizzate (si voleva evitare che qualche non-autorizzato sfiorasse quelle barriere letali per sbaglio) somigliava ad una piramide di cristallo nero dagli spigoli acutissimi, che si proiettava verso il cielo in un susseguirsi di gradoni e pareti vetrate.

Ciascun gradone ospitava file e file di serre protette da cupole sottili come tele di ragno, un'esplosione di piante aliene che spandevano profumi soffocanti nell'aria calda della sera; solo le piante autoctone di Nenya venivano lasciate crescere senza alcuna protezione, e debordavano dai cornicioni in cascate di verdi rampicanti. L'effetto complessivo era un'esplosione di vita e ricchezza strabiliante, l'opulenza grandiosa che i Redthorn amavano ostentare.

Per quella sera, il giardino che circondava la piramide era illuminato da globi luminescenti che danzavano a mezz'aria come fuochi fatui. Lienhard e suo padre attraversarono il campo di forza senza alcun intoppo − riconosciuto il DNA del ministro grazie ad una serie di nanomacchine che gravitavano al suo interno, la barriera si aprì come il lembo di una tenda − e, mossi alcuni passi sul prato perfettamente curato, furono intercettati da un cameriere beta in livrea.

L'abito che indossava era fatto di una materia plastica particolare, lo shape-shifting silicon (spesso abbreviato in 3S) o silicone mutaforma, che aleggiava intorno al suo corpo come una nuvola di sferette connesse da sottili filamenti di gelatina. Le microsfere si spostavano autonomamente, ricombinandosi in forme spettacolari: quando li accolse, il cameriere era avvolto da una pelliccia di leone che rifletteva la luce come argento fuso, le fauci della belva avvolte attorno al capo in un ultimo bacio mortifero. Dopo pochi minuti il 3S riprodusse con realismo incredibile due enormi ali di cigno, che ondeggiavano sulle spalle del beta come se fossero dotate di vita propria.

"Ne hanno spesi, di soldi".

«Lord Fabian vi attende». Cinguettò, i grandi occhi verdi truccati di bianco e argento. Non sembrava nemmeno un essere umano, piuttosto un'apparizione fugace emersa dai raggi di luna.

«Il Gerarca è ancora malato? Porgetegli i nostri ossequi». Thomas chinò il capo con affettazione, mentre il cameriere li conduceva attraverso il giardino; qui e là, su piedistalli di pietra chiara e opaca, statue a tema mitologico scolpite nella magnetite ornavano il giardino. Lienhard riconobbe Jormungandr, il serpente che in miti antichissimi circondava la Vecchia Terra con il suo intero corpo, e la figura aggraziata di Leda, la donna che si fece sedurre da un Dio mutato in cigno. Si fermò, incuriosito, davanti ad una statua più elaborata delle altre: raffigurava un uomo nell'atto di cadere da quella che sembrava una grande altezza, con due enormi ali posticce assicurate alla schiena da un'imbracatura di corde. Interi ciuffi di piume si erano staccati e fluttuavano nell'aria, scolpiti con tanta abilità da essere semitrasparenti, sottili come capelli, e il volto dell'uomo appariva deformato dall'orrore in una maschera bestiale.

«Chi è?». Chiese al cameriere «Non conosco questo mito».

Il beta fece spallucce, un'ombra di imbarazzo negli occhi limpidi: «Non lo so, signore. Quello che posso dirle è che queste statue sono state commissionate da Lord Fabian Redthorn in occasione della festa, e sono ispirate a numerose leggende di origine antichissima. Lord Fabian ama particolarmente il folklore della Vecchia Terra, e nella sua biblioteca privata conserva molti volumi di storie dell'antica Gea».

Fabian, alfa di trentacinque anni già inserito nella politica di Fegith e magnate nel commercio dell'oppio, era una delle creature più tronfie e arroganti che Lienhard avesse mai avuto occasione di incontrare − da lontano e per poche volte, fortunatamente. L'idea di porgere i suoi ossequi ad un simile pallone gonfiato − colpevole, tra l'altro, di possedere una biblioteca privata che gli faceva gola − gli torse lo stomaco in uno spasmo doloroso. Mise su il sorriso di repertorio più convincente che possedeva e iniziò ad inerpicarsi sulla scalinata d'ingresso, una monumentale scultura di quarzo fumé illuminata da migliaia di lampade fluttuanti.

Prima di entrare nell'atrio della piramide lanciò una breve occhiata alle sue spalle, scoprendosi a frugare tra la folla con una certa ansia.

"Dove sei, Joseph?".















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Dov'eri, Greedfan? E perché ti dai alla macchia invece di aggiornare?

Scusate, ragazzi, scusate davvero. Negli ultimi mesi me ne sono successe di tutti i colori (cose estremamente positive e altre negative) e la mia vita si è riempita a tal punto che per un po' non ho avuto tempo di scrivere e, soprattutto, non ho saputo trovare la motivazione necessaria.
Adesso diciamo che ho scoperto una nuova vena d'ispirazione e che sono pronta a chiudere questa storia (siamo già oltre la metà, non manca poi così tanto alla fine).

Mi auguro che l'assenza prolungata non abbia spento i vostri animi, fatemi sapere se l'evolversi della vicenda vi piace e lasciatemi qualche commentino :3

Alla prossima,

GreedFan


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