Aquamarine.

di Il Pavone e la Piantana
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV ***
Capitolo 16: *** Capitolo XVI ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVII ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVIII ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***






I.




Sospiro, avvicinandomi al divano nel quale è seduta.
«Stanno arrivando». Prendo la sua mano nella la mia, osservando gli occhi spenti di mia madre guardarmi, senza vedermi davvero. E continuo a guardare quell'espressione vacua esaminare un punto fisso della stanza.
«Johanna?» La sua voce esce debole, il suo sguardo mi accarezza, per un secondo, poi torna sulla rete da pesca affissa al muro, poi di nuovo su di me.
«È andata a prenderli alla stazione». Rispondo, in un sussurro. Continua a guardare la rete da pesca, quella stessa rete che da piccolo mi aveva attirato, facendomi desiderare di imparare a fare i nodi. Ci aveva provato, mia madre. Ma le sue mani tremavano troppo per far sì che riuscisse ad essere la mia insegnante. *
«Mamma?» La richiamo, stringendole il polso al fine di attirare la sua attenzione. Non mi ascolta, mai, non mi sente, tanto quanto non mi vede.
«Lo stesso colore... Junior. Hai il suo stesso colore». Borbotta, senza allontanare la sua mano dalla mia, facendosi stringere senza far niente per scappare da quella costrizione. Bofonchia pensando ad altri occhi, ad un'altra persona. A mio padre, ucciso dagli ibridi a Capitol City, durante la rivoluzione. Ho il suo stesso colore, forse ho la sua stessa voce; forse sarebbe stato meglio se mio padre fosse rimasto ed io non fossi mai nato.
«Dovresti tirarti su, mamma. Stanno arrivando». La tiro verso di me come se fosse una bambola. Mia madre ha tentato, ma lei è morta con Finnick, quel padre che non avrò mai la possibilità di conoscere.
«Fai come ti pare». La lascio ricadere sul divano a peso morto. Osservo il movimento delle sue braccia, i suoi palmi chiudersi intorno alle orecchie, le palpebre serrate. È nel suo mondo e non intendo aiutarla ad uscirne. Che rimanesse lì, se proprio vuole.
«Annegherò. Non starmi davanti».
Serro la mandibola, deglutendo, serrando i pugni, posizionandomi meglio davanti a lei. «Stanno arrivando, tirati su». Dico, scuotendole una spalla, cercando il contatto con i suoi occhi. Non ci riesco, io. Non riesco mai a riportarla in superficie. Così, come ho fatto prima, la lascio andare, avvicinandomi poi alla finestra. Sento il suo respiro, i suoi ansimi e i mugolii dietro alle mie spalle. Ignora. Mi dico. Presto sarebbe tornata zia Johanna e ci avrebbe pensato lei a farla reagire.
«Junior, invece di spiarci dalla finestra vieni ad aiutarmi con queste cazzo di valigie!»
Sorrido, abbassando lo sguardo e muovendomi ad aprire la porta. «Arrivo».
Saluto la zia, prima di prendere il suo bagaglio tra le mani. Mi sorride, accarezzandomi una guancia con la mano libera e riabbassa subito lo sguardo verso il moccioso che tiene tra le braccia, prende la mano di sua figlia tra la sua, dirigendosi verso casa nostra. Ha gli occhi stanchi, zia Katniss.
«Ciao, Junior».
«Peeta...» Faccio un cenno con il capo, prima di seguire le zie e quando rientro mia madre è in piedi, stretta tra le braccia di Katniss. Abbraccia pure il marito di Katniss, mia madre. Lo tiene stretto, alzandosi in punta di piedi per raggiungere le sue spalle e cingergli il collo. Persino i bimbi non vengono dimenticati e spunta un sorriso sul suo viso, quando la bambina la saluta con energia.
«La cena di stasera sarà una squisitezza, tesoro». Johanna infilza una mia costola con la punta del suo gomito, cercando la mia attenzione. Mi sento bene, quando c'è lei.
«Tonno?»
«Oh, no! Il nostro fornaio ci delizierà con qualche sua leccornia, ma soprattutto con una montagna di dolci, vero, idiota?»
Peeta si gira verso Johanna e le sorride. «Qualsiasi cosa tu voglia, Johanna». Risponde, ignorando l'appellativo che gli calza a pennello. Non capirò mai cosa abbia trovato in lui la zia. Ha un sorriso languido e la voce accondiscendente.
«Cagnolino...» Sussurro, senza farmi sentire da nessuno se non dalla zia, che è ancora vicina a me.
«Sempre detto, tesoro. E vedi, ama annusare il culo di Katniss che è il suo alfa».
«Johanna!» La zia si volta, accarezzando i capelli del biondino che stringe contro il suo petto, senza lasciarlo mai cadere. «Non dire queste cose davanti ai miei figli!»
La guardo mentre accarezza in un movimento continuo i riccioli del figlio, concentrata nell'essere sua madre, il suo punto di riferimento. Abbasso lo sguardo, raggiungendo le scale. Devo andare via da qui.
«Woof!»
«Fanculo, zia». Salgo i primi gradini, ma la mano di Johanna si serra intorno al mio braccio, forzandomi ad interrompere la mia salita.
«Finnick Junior Odair, non ti ho insegnato ad essere così maleducato, soprattutto con me». Ha la voce dura, ora, lo sguardo severo.
Sogghigno, senza rispondere.
«Mia madre non mi ha mai insegnato ad essere educato». È un sospiro e soltanto lei, quella zia forte e burbera che mi ha insegnato tutto quello che so, riesce a sentire la mia voce.
«Non me ne frega un cazzo, chiedimi scusa».
Deglutisco. «Scusa». Volto lo sguardo, incontrando quelli azzurri della figlia di zia Katniss. La sua bocca è semi aperta e mi guarda curiosa. Non appena si accorge di me, si gira cercando qualcos'altro a cui dare attenzione. È simile a lei, quella bambina, se non fossero per quegli occhi azzurri che stonano sul suo viso. «Che hai da guardare, tu?» Scendo le scale, facendo il percorso inverso, senza distogliere lo sguardo da quegli occhi identici alla bimba, prima di dargli le spalle per entrare in cucina.
Sento mia madre bofonchiare delle scuse per il mio comportamento, mi giro camminando ancora. Mi fa bene, muovere le gambe. Se potessi – ma zia Johanna mi fermerebbe – andrei in spiaggia a farmi una nuotata, allontanandomi dalla riva, cercando di creare sempre più distanza da questa casa. E ritrovo quegli occhi azzurri su di me che, veloci, finiscono sulla figura del padre.
Ti incuriosisco così tanto, mocciosa?
Rimango in silenzio, a guardarmi intorno. Estranei, mi sembrano tutti degli estranei, a cominciare dai bambini che giocano tra di loro, vicino al divano ed alle gambe di zia Katniss, suo marito che si è trasferito subito in cucina, rendendosi ridicolo nell’indossare l’unico grembiule che zia Johanna gli ha fatto trovare. L’ha acquistato un po’ di giorni fa, senza che ne comprendessi il motivo. Ora lo so. Vuole deriderlo, farlo sembrare stupido. E ci riesce. Lo è con quel grembiule con scritto “Sono la migliora cuoca e moglie del mondo”, ma Peeta non sembra dar peso a nulla, cucina, asciugandosi le mani sulla propria pancia. Lava le pietanze da utilizzare, tante e troppe. Tutti i gas sono accesi e lui va avanti e indietro per la cucina – la mia – come se fosse di casa, come se stesse lì da sempre.
«Vuoi aiutarmi, Junior?» Mi guarda, con il sorriso sulle labbra ad illuminargli il viso. Sta fingendo, come ha sempre fatto. Recita, Peeta, parla e dice cose che non sono vere. Non sarebbe la prima volta. Mi dispiace per la zia che continua a voler stare con lui che non fa altro che stringerla troppo forte, sino a farle male.
«No». Rispondo, lapidario. Non dovrebbe cucinare, Peeta. Ci sono io, o Johanna. Dovrebbe andarsene da qui, con i bambini e lasciare zia Katniss con me, i suoi occhi spenti si risolleverebbero lontano da lui.
«Potrei insegnarti qualcosa…» Ci riprova, senza smettere di sorridere mentre gira la salsa dentro il padellino.
«Non mi interessa». Controllo i suoi movimenti con gli occhi abili di chi segue il pesce che ha adocchiato di pescare. Se gli lanciassi un amo, abboccherebbe, accondiscendente come è.
«Come vuoi… se cambiassi idea sono qui».
«Lo so che sei qui. Ti vedo». Come noto i suoi movimenti veloci, il vino che cade dentro il sugo. Sarà un buffone, ma ci sa fare ai fornelli, proprio come la migliore cuoca del mondo. Appoggio le spalle al muro, continuando a non perderlo di vista. Avrebbe potuto far venire qui solo la zia, invece l'ha seguita, come se fosse veramente un cagnolino, soltanto per farla andare via di nuovo, domani.
Johanna mi ha detto che sarebbe rimasta soltanto la mocciosa, la femmina. Volto lo sguardo, sentendo la sua risata sovrapporsi alle voci delle zie. Katniss le accarezza i capelli scuri, uguale ai suoi. Peeta continua a cucinare, alzando ed abbassando le fiammelle del gas ed io rimango immobile a guardarli. Incutono timore, alle persone. A me fanno soltanto ridere, soprattutto Peeta. Le zie meritavano di vincere, lui no. È soltanto grazie a zia Katniss se ora mescola il sugo e sorride, accondiscendente.
«Tutto bene, Junior?» La mano di zia Katniss è sulla mia spalla ora e sussulto, non aspettandomi il suo arrivo.
Le sorrido, con lei mi viene naturale, forse perché è stata una persona importante durante la mia infanzia, mi vuole bene e mi cerca, sempre. Mi chiama per scambiare due parole con me, quando è nel 12, quando non può venire. Non è una persona di molte parole, Katniss, ma ha un buon cuore e so che sono importante per lei. Glielo chiesi, quando ero ancora piccolo, quando la mocciosa ha preso il mio posto.
«Ora hai lei. Non mi vuoi più bene». Abbasso lo sguardo, trattenendo le lacrime. La bambina ha pochi mesi e con la mamma e zia Johanna siamo venuti nel 12 a trovarli, darle il benvenuto. Zia Kitkat mi abbraccia, stretto, accarezzandomi i capelli e depositandomi un bacio sulla fronte. «Ti vorrò sempre bene, Junior». Sorride ed io con lei, perché se mi assicura di volermi sempre bene posso stare tranquillo. Lei non dice mai bugie.
«Sto bene, zia». Rispondo, incontrando il grigio dei suoi occhi. Si alza in punta di piedi, ormai sono più alto di lei, e mi abbraccia, accarezzandomi i capelli nell'identico modo in cui lo faceva quando ero piccolo, come lo faceva prima con la figlia. Stringo le sue spalle e la sento piccola, ora, stretta tra le mie braccia.
«Mi sei mancato, Junior. Sono così contenta di vederti bene». Si scosta da me, appoggiando il palmo della sua mano sulla mia guancia. Sorride, ancora. «Tuo padre sarebbe fiero di te, di come sei cresciuto». Sussurra, abbassando lo sguardo. Mi ricorda mia madre, quando parla di lui. Vorrei che non lo nominassero nemmeno. Odio che vedano mio padre in me.
«E avrebbe fatto battute su come tutte le donne lo avrebbero voluto con loro». Katniss ride alla battuta del marito, stanno parlando di una persona che non conosco e che non voglio conoscere. Alzo le spalle, scostandomi dalla zia e incrociando le braccia al petto. Rimango in silenzio, sperando che il discorso sfoci da qualche altre parte, ma continuano a raccontare di come Finnick si sarebbe comportato in determinate circostanze. Del suo sorriso, così simile al mio.
«Vado a farmi un doccia». Dico, lasciandoli da soli, senza attendere una risposta. Che parlassero di mio padre quando non ci sono.
Mi butto sotto la doccia, cercando di concentrarmi sulle gocce d'acqua che cadono sulla mia testa, bagnandomi il corpo. Mi lavo, immaginando di essere immerso sotto la superficie dell'acqua del mare, nuotando verso il largo.
Non so bene quanto tempo rimango sotto la doccia, ma l'acqua calda lascia il posto a quella gelata, ma non mi importa, continuo a rimanere sotto il getto finché la testa non mi duole, costringendomi ad uscire. Potrei uscire dalla finestra e non presentarmi alla cena.
«Stai pensando di fuggire, tesoro?»
Mi volto, incontrando lo sguardo di Johanna divertito, con una spalla appoggiata all'uscio della porta della mia stanza.
«Non ti ha insegnato nessuno a bussare?»
«Una volta lo facevo, per cause di forza maggiore. Ancora devo cancellare quelle immagini dalla mia mente». Si mette dritta, venendomi incontro. «Allora? Volevi fuggire in spiaggia come tuo solito?»
«Il mare è l'unico luogo dove non mi rincorri». Faccio una pausa, ricordando quella sera che, dopo una crisi di mia madre, corsi fuori casa correndo verso oceano, decidendone di tornare più.
«Junior! Accidenti a te! Junior torna a riva!» La zia mi ha inseguito, ma rimane sulla riva, con i piedi che scappano dalla spuma di mare generata dalle onde. «Junior!»
Non voglio che venga, che mi riporti a casa. Voglio rimanere qui. È meglio se resto qui.
Prendo un respiro profondo, immergendo anche la testa. Apro gli occhi, che bruciano per il sale, osservando il buio davanti a me. Quando riemergo, di zia Johanna non ce n'è più traccia.
«Zia!» Urlo, senza ricevere risposta. Continuo a chiamarla, a cercarla e alla fine vedo l'acqua muoversi e le sue braccia tendersi verso di me. Mi stringe, cercando di nuotare alla meno peggio – non è brava quanto me – verso la riva, riportandomi sul bagnasciuga. Ha freddo, la zia. Si stringe le braccia al petto, tremando.
«Non farlo più, ragazzino. Non farlo mai più».

Avevo dodici anni e soltanto due anni più tardi avrei scoperto il metodo di tortura utilizzato da Capitol City, quando la zia venne tenuta prigioniera. Ci ho messo due anni per chiederle scusa.
«Non puoi saltare la cena. Katniss andrà via domani ed è così contenta di vederti...» Mi sorride, languida, accarezzandomi i capelli ancora bagnati. «Non vuoi rendere triste la zia che non ti vede mai, no?!»
«C'è troppa gente in questa casa». Rispondo, togliendo l'asciugamano per infilare i vestiti. «Ho voglia di stare da solo».
«Be', sai quante cose vorrei io che non posso avere? Non fare il bambino piagnucolone, alza il culo, scendi le scale e cena con tutti noi. Fine della storia». Non attende nessuna risposta, esce soltanto da camera mia e sbatte la porta, come suo solito. Ed io so che farò come dice lei. Non sono un bambino, non più e posso resistere una sera in compagnia di mia madre e del marito della zia. Devo, per cercare di cancellare quegli occhi stanchi dal viso di zia Katniss.
Lascio i capelli umidi e scendo al piano inferiore unendomi a tutti gli altri. Zia Katniss è seduta vicino al moccioso, ed ha lasciato la sedia vuota al suo fianco. Peeta è seduto poco distante e alla sua destra c'è la bambina che mi guarda incuriosita, prima di cercare di accennare un sorriso in mia direzione. Comincia la festa. Mi dico, prima di sedermi vicino alle zie.
«Sono contenta che sei venuto». Sussurra, Katniss, guardando il proprio piatto ancora vuoto. E so di aver fatto la scelta giusta. Devo esserci, per lei, finché è qui. Non so tra quanto tempo la rivedrò.
«Potresti fermarti di più, mi vedresti più spesso». Katniss mi guarda, poi abbassa lo sguardo, senza rispondere. Vorrebbe rimanere, lei. Lo leggo nei suoi occhi preoccupati.
«Non possiamo. Abbiamo da fare al 12 e purtroppo domani dobbiamo ripartire». Ha la voce ferma, questa volta. Parla guardandomi negli occhi, scappando da quelli della zia. Sembra severo, in qualche modo, come se volesse sgridare Katniss, o me.
«Dobbiamo? Potresti tornare tu al 12 e far rimanere la zia. Non è la tua ombra, sai?» Non riesco a trattenermi, ricevendo un calcio sullo stinco da Johanna, pronta a farmi capire quando sarebbe il caso di rimanere in silenzio. Ma non ce la faccio, non quando la zia vorrebbe rimanere ed il marito la costringe a lasciarmi, a lasciare la figlia qui, da sola, con noi. Non è giusto. Né per lei, né per me, né per nessun altro. Johanna non può farsi carico di un'altra persona, la madre dovrebbe continuare a star vicino ai figli. Non dovrebbe abbandonarli in altri Distretti e so che la zia non lascerebbe mai la sua bambina qui, se qualcuno non la forzasse.
La zia scuote la testa. «No, Junior. Ha ragione Peeta. Vorrei poter rimanere qui... con tutti voi, ma proprio non possiamo». La preoccupazione emerge dalla sua voce, la bambina mi guarda, ha gli occhi lucidi, osservando la mamma così agitata.
«Voglio tornare anche io nel 12, allora». Afferma, lasciando la forchetta che cade a terra. «Voglio stare con voi».
L'aria intorno a questa tavola si è fatta pesante e ho dato il via io. Le lacrime della bimba cadono lungo le sue guance e sembra quasi di avere davanti la zia in miniatura. Non piangere. Vorrei quasi raggiungerla, per abbracciarla, esattamente come farei con la zia se la vedessi giù di corda. La bambina si butta tra le braccia del padre che la stringe a sé, accarezzandole i capelli. Non dice nulla, ma le bacia la nuca e le ripete che non è successo nulla, che non succederà nulla.
«Quanto siete tutti melodrammatici, gente!» Johanna sbuffa, spostandosi i capelli dietro le spalle. «Willow, ci sono io, la zia più fantastica del mondo. Non fare i capricci che ormai sei una donna fatta e finita e vedrai come ti divertirai con noi. Stare lontano da questi due... dai tuoi genitori... ti farà solo bene. Ti fidi di me, no?» Allunga il braccio, alzandosi dalla sedia per raggiungere il suo braccio. Sposta tutti i piatti per farlo e cerca il suo miglior sorriso. Credo che Johanna sia l'unica persona di cui mi fido con tutto me stesso. La bambina tira su con il naso e annuisce, asciugandosi le lacrime.
«Non si piange». Dice, guardando verso la madre che accenna un sorriso, cercando di trattenere lei il pianto.
Rimango in silenzio per tutto il resto della cena, ascoltando i discorsi senza senso che intavolano. Katniss non parla molto, osservando il suo piatto e facendosi fuori tre bicchieri di vino, Peeta ride e scherza con la figlia, e zia Johanna ride, facendo battute stupide per far ridere la piccola. Tutta l'attenzione è su di lei che domani rimarrà qui, da sola, senza il padre e la madre. Una settimana senza di loro. Prevedo pianti e la zia che cercherà in tutti i modi di farla calmare, di farle ritrovare il sorriso, quello così simile al padre, sulla pelle di zia Katniss.
«Anche se al 12 non abbiamo il mare, io so nuotare! Vero o falso, mamma?» Dice la bambina, con la voce trillante.
Katniss annuisce, sorridendo. Sembra stare meglio, ora. «Vero. Abbiamo un lago, nel bosco. La porto lì e nuotiamo insieme».
«È divertentissimo! Voglio andare al mare, è diverso?» Mi guarda, attendendo una risposta da me.
«Sì. L'acqua è salata. I laghi hanno l'acqua dolce».
«Lo so. Ma non c'è tutta questa differenza, allora».
«C'è, invece. Non puoi berla, l'acqua del mare. Ed il sale ti aiuta a stare a galla. Nuotare nell'acqua salata è diverso che nuotare in quella dolce. Vedrai...»
«E poi?» Sorride adesso, focalizzando tutta l'attenzione su di me. Ed io vorrei soltanto sparire. Persino mia madre mi osserva, accennando un sorriso sul suo volto. Vedi me o vedi mio padre?
«E poi... a volte ci sono le onde ed è persino più divertente. Ti butti dentro e ti lasci trasportare».
La bambina dilata gli occhi, immaginando l'acqua alzarsi, produrre la schiuma, con tutta probabilità. «Voglio tuffarmi tra le onde!»
«No!» Esclama Katniss, allarmata, buttandosi addosso qualche schizzo di vino. «È pericoloso e...»
«Zia, non è pericoloso. Davvero. È divertente. E se sa nuotare non ci sono problemi, se le onde non sono troppo alte». La blocco, stringendole una mano. La zia guarda il marito per un istante poi annuisce, portandosi il bicchiere alla bocca.



* La rete si trova nella fan fiction di _eco: Tento qualcosa.




Note di fine capitolo:
Buongiorno!
Siamo emozionatissime oggi che pubblichiamo il primo capitolo. Questa fanfic è per noi davvero molto importante.
Aquamarine fa parte di Colors, quindi, sebbene sia fruibile da chiunque abbia completato la lettura de Il canto della rivolta si consiglia caldamente la lettura di Red., Blue., Yellow. e Rainbow. per cogliere a un livello più profondo e consapevole alcune delle tematiche trattate, che vengono ampliamente accennate in Aqua e che rendono più chiaro il rapporto di JJ e Will con Katniss e Peeta e alcune sfumature della genitorialità Everlark.
È una storia diversa, dove non ci soffermiamo su personaggi principali della saga, ma cerchiamo di approfondire la psicologia di personaggi che hanno come genitori i vincitori degli Hunger Games. E ci sono entrati dentro, mettendo le radici dentro di noi. ♥
In questo primo capitolo conosciamo meglio Finnick Junior, chiamato soltanto Junior dai tempi di Blue. e soprannominato da noi JJ.
Vediamo come stia male, sebbene non voglia darlo a vedere, per il rapporto che ha con la madre, un rapporto non sano visti i problemi di Annie che non riesce a vederlo, ed a JJ pesa tanto il distacco che ha la madre nei suoi confronti, che lo vede come Finnick e non come Junior.
Come vediamo l’attaccamento che ha verso la zia Johanna, figura importantissima nella sua vita da quando è bambino, la vera adulta di casa, la vera mamma. Colei che gli ha insegnato tutto quello che sa. E vediamo, in questo capitolo, come sia affezionato anche a Katniss. Anche di questo rapporto ne abbiamo avuto un anticipo in Blue e Yellow come possiamo notare il modo in cui sia restio nei confronti di Peeta.
JJ è stato cresciuto da due donne, non ha avuto mai figure maschili di riferimento, e Peeta gli ha portato viazia Kitkat quando era un bambino.
All'inizio della storia la primogenita di casa Mellark ha sette anni, dieci esatti in meno del diciassettenne Junior, e appare chiaro come Katniss non avrebbe alcuna intenzione di mollarla alle amorevoli cure della zia più fantastica di sempre.
La piccola Will ha parecchi problemi, alcuni dei quali diverranno palesi più avanti, e per ora vi basti sapere che è nel quattro per ordine dello psicologo, che, a causa della sua tremenda ansia da separazione, le ha prescritto una vacanza forzata, lontana da mammina e papino.
Al prossimo capitolo!
La Pavy, la Pianty, JJ e Will che saluta con la manina!


Ringraziamenti:
Come per ogni nostra fanfiction, non possiamo esimerci dal ringraziare tutte le persone che ci sono state vicine nella stesura della storia, quelle persone che, in qualche modo, hanno contribuito a rendere Aqua la storia che è, quindi i nostri ringraziamenti più sentiti vanno a:
radioactive che non solo ha creato per noi questo fantastico banner – e non ci stancheremo mai di dire che è una grafica nata – ma che ci ha promptate, aiutate, ispirate e che è la persona che più ci ha aiutate e spronate a scrivere Aqua. Questa fanfiction è anche sua;
_eco che ci ha fatto immaginare un incontro tra JJ e Will;
gabryweasley che ci ha seguite sin dall’inizio, amando Aqua tanto quanto noi. Che ci chiedeva di passarle i pezzi e li leggeva dicendoci sempre cosa ne pensasse.
Se amiamo tanto Aquamarine è anche merito loro ♥ Grazie per tutto, vi amiamo! ♥


Veniteh a fare le bolleh d'Assenzioh con noi nel gruppoh Facebook gestito dalla nostra meravigliosah famiglia disfunzionale ♥ A Panda piace fare le bolle d'assenzio [EFPfanfic]
Abbiamo apertoh anche una pagina Facebook dedicatah a questa serie, doveh potreteh farci qualsiasi domanda su questa raccoltah, seguire tutti gli aggiornamentih, salutareh Finnickinoh che ballah nella p0rn Narnia e devolvere zolletteh alla sua causah ♥ Vi aspettiamoh numerosih ♥ Colors.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***





II.




La zia la stringe forte al petto, la figlia. «Non si piange, mamma!» La rimprovera, asciugandole le lacrime. Ma lei, imperterrita, continua a versarne, senza volerla lasciare andare.
È normale. È la sua bambina e non vuole abbandonarla qui, lontano da lei.
«Lo so». Risponde, accarezzandole i capelli e cercando di sorridere. «Ci vediamo tra una settimana, okay? Stai attenta, fa quello che ti dice zia Johanna».
La bambina annuisce, chiudendo gli occhi. Quando li riapre sono lucidi ed il suo labbro inferiore trema, cercando di trattenere il pianto che vorrebbe versare. E succede, quando il padre si unisce all'abbraccio. Lui non si trattiene e non si vergogna delle lacrime che gli rigano il volto. Le asciuga più volte, accarezzandole la guancia e baciandole la fronte.
«Ti divertirai con Johanna e Junior». Dice, stringendola forte tra le braccia. «Ti divertirai così tanto che quando torneremo ci dirai: di già?» Sorride tra le lacrime, il marito della zia, e mi domando perché, se anche lui sta così male nel lasciarla qui, debbano andarsene. Potremmo stare tutti insieme, potremmo divertirci tutti insieme. Io, le zie e perché no? Anche quella bambina che vorrebbe tuffarsi tra le onde del mare.
Quando i genitori si allontanano, la piccola strepita, rincorrendoli. «Non lasciatemi qui!» Implora ed è come se stessi annegando, ora. Come se avessi un masso legato alle caviglie che mi spinge sotto l'acqua ed io ho finito l'aria. Volto lo sguardo, scappando da quella scena patetica. So che zia Johanna mi sta guardando, quindi rientro in casa, facendo i gradini del portico due a due.
Dovrei salutare la zia, però. Non posso andarmene così, senza dirle nemmeno un ciao, senza abbracciarla.
«La prossima volta sarai tu a stare da noi. Non c'è molto nel 12, lo sai, ma potrei portarti al lago e nel bosco. Potrei insegnarti a cacciare...» Mi giro verso di lei e vorrei dirle di non andarsene, di rimanere qui. Con me. Che mi è mancata, la mia zia, una delle poche persone sane della mia vita, che mi vede per quello che sono.
«L'ultima volta che hai cercato di insegnarmi a tirare con l'arco non ti è andata bene». Lo ricordo bene, odiavo tendere quella corda e scoccare la freccia. Non riuscivo a centrare nemmeno il tronco di un albero.
«Ora sei più grande». Mi abbraccia lei, alzandosi in punta di piedi. «Ci vediamo tra una settimana, Junior... Willow... insomma... proteggila, okay?»
Annuisco. Non c'è nessuno da proteggere, non qui. È al sicuro con Johanna, ma se la fa stare meglio, posso dirle che lo farò.
«Fai buon viaggio e torna presto». Stringe ancora una volta la figlia, facendole altre raccomandazioni. Il marito ha gli occhi gonfi e rossi, che stonano nella sua carnagione chiara, ma sembra non interessarsene. La zia gli stringe una mano, intrecciando le loro dita. Si volta indietro, più volte ad osservare la sua bambina, tenuta per mano da Johanna. Urla, la piccola, li saluta, li chiama e più volte Katniss si ferma con la paura negli occhi. Guarda il marito, cercando un modo per rimanere, ma ogni volta, lui nega con la testa. Dice qualcosa che non capisco e passa il piccolo tra le braccia di zia, per asciugarsi il pianto. Ti senti in colpa, ora che la stai definitivamente abbandonando?
«Voglio papà». Sussurra, alzando lo sguardo verso zia Johanna.
Se potessi, la riporterei nel 12 io stesso, pur di farla contenta. Anche io, alla sua età, avrei sempre avuto bisogno di mia madre. Anche io avrei voluto che mio padre fosse rimasto, invece di lasciarmi da solo, avrei voluto conoscerlo, parlarci e chiedergli perché. Avevo e ho zia Johanna, però. Non è mio padre, né mia madre, ma è la migliore persona che abbia mai avuto modo di conoscere.
«C'è zia Johanna». Dico, abbassando lo sguardo verso di lei. Sembra calmarsi, stringendo con più forza la mano della zia. «Andate al mare?» Chiedo, poi, ricordandomi della sera precedente, di come lei volesse notare le differenze tra lago e oceano.
«Andiamo al mare». Risponde Johanna, salendo i gradini del portico. «Tutti a mettere il costume, compreso te, Junior».
Sospiro, abbassando lo sguardo. Non ho voglia di trascorrere il mio tempo il loro compagnia, di vedere la mocciosa ridere e divertirsi, dimenticando quanto abbia pianto sino ad ora.

L'acqua è fresca e rigenerante. Mi immergo sotto la sua superficie, aprendo gli occhi ed osservando il fondale, nuoto finché i polmoni non mi richiedono ossigeno. Nuoto, allontanandomi dalla riva. Dalla zia, dalla bimba e da mia madre che, oggi, non mi perde mai di vista. Non vengo spesso al mare con lei, ed ogni volta mi guarda immergermi, nuotare e sbracciare vedendo l'uomo che amava e che ora non c'è più. Ma oggi anche altri occhi puntati su di me, vigili e attenti. Mi studiano e si impressionano. Portano le mani davanti alla bocca, poi un braccio si allunga e dice qualcosa alla zia, indicandomi. Johanna ride, e nega con la testa.
Mi allontano ancora, raggiungendo lo scoglio, mi arrampico, sedendomi sopra la roccia per asciugarmi al sole. Guardo la riva e la vedo, la bambina, saltellare indicandomi ancora. Questa volta la capisco, vorrebbe venire anche lei qui. Mia madre si alza, prendendole la mano, accompagnandole nell'acqua. Rimangono ferme sulla riva, mentre la mocciosa muove le braccia e le gambe, cercando di seguire il ritmo che mia madre le fa vedere.
Le sta insegnando a nuotare, le sta facendo da madre.
Mi tuffo, nuotato sul dorso. Torno dagli altri, distendendomi nell'asciugamano vicino a alla zia. Guardo mia madre istruire la bambina ed il suo viso concentrato mentre annuisce e cerca di eseguire ogni ordine. È testarda e continua a sbracciare finché mamma non le dice di aver fatto un ottimo lavoro. Allora sorride e cerca di continuare ad allenarsi.
«Non aveva detto che sapeva nuotare?» Domando, girandomi verso zia che alza le spalle.
«Katniss l'ha portata al lago, ma questo non significa che l'abbia fatta diventare una nuotatrice provetta». Risponde, guardando l'orizzonte. «Voleva raggiungerti allo scoglio».
«Se non sa nuotare non vedo come. E poi è solo uno stupido scoglio».
«Per questo tua madre le sta insegnando...» Mi porge secchiello e paletta, sorridendomi. «Su, regalale un castello!»
«Perché mai dovrei?»
«Sono troppo vecchia per mettermi a giocare con la sabbia, tesoro. Falla divertire, io continuo a prendere il sole». Appoggia i gomiti a terra, prima di chiamare la mocciosa, urlandole di venire a giocare con me.
«Ti odio». Sussurro, alzandomi per raggiungere la sabbia bagnata dall'acqua.
«Lo sai che non è vero! Sei innamorato di me, tesoro!» Sento la sua risata ed il movimento del suo corpo che fa attrito sull'asciugamano.
La bambina mi raggiunge veloce, prende i lunghi capelli scuri tra le mani, strizzandoli per eliminare l'acqua in eccesso. «Cosa facciamo?» Mi domanda, guardandomi divertita. È tutto nuovo per lei, tutto bello e divertente. Ma di tanto in tanto, vedo i suoi occhi azzurri abbassarsi per osservarsi le mani, la sua bocca si incurva verso il basso pensando, con tutta probabilità, ai genitori che l'hanno lasciata qui.
Ci mettiamo al lavoro, lavorando la sabbia bagnata con le mani e la paletta. È brava, la bambina, ha una buona manualità e senso estetico. Con una piccola conchiglia ha disegnato la porta d'entrata, ed ha scavato, creando un fossato. «Ora dobbiamo fare il ponte, Junior». Dice, riempiendo la buca con la sabbia, riprendendo subito dopo a scavare. Non faccio più nulla, ora. Le varie torri sono state fatte e manca soltanto il ponte. È concentrata e non mi guarda più, presa nello scavare con le sue piccole manine la sabbia umida. Non le interessano i capelli sporchi di granelli, anzi, li sposta senza preoccuparsene, impiastricciandoli pure di più. Le sue ciocche nere si sono schiarite, un po', a forza di spostarle.
«Finito!» Esclama, sorridendo ed alzandosi in piedi per allontanarsi e vedere il lavoro finito nella sua completezza. Mi guarda, adesso, e mi tende la mano. «Andiamo a fare il bagno, Junior e togliamoci tutta questa sabbia di dosso».
Non rispondo, seguendola però nei riflessi acquamarina dell'oceano. La bambina prende un respiro profondo, immergendosi sotto la superficie dal mare, la guardo frizionarsi i capelli, cercando di togliersi dalle ciocche la sabbia e la imito tuffandomi e nuotando quanto più mi è possibile in parallelo al fondale. Siamo vicino alla riva e vorrei continuare ad avanzare, allontanandomi, cercando più profondità, ma ho promesso di proteggerla e non sa nuotare così bene come diceva.
Torno a galla, riprendendo fiato e trovando i suoi occhi azzurri su di me. Ha un'espressione seria e pensierosa, e muove le braccia per raggiungermi.
«Che c'è?» Le chiedo, proseguendo a muovermi sotto l'acqua sentendo il corpo leggero.
«Mi porti allo scoglio?» Non distoglie mai il suo sguardo dal mio. È determinata, la bimba, e con tutta probabilità continuerebbe a chiedermelo anche se le dicessi di no.
«Bisogna nuotare tanto».
«So nuotare».
«Ti stancheresti prima di arrivare».
«Non è vero!» Esclama, battendo le mani sul filo dell'acqua, schizzandone un po' contro di noi.
«Io conosco l'oceano, bambina. Tu no. Non riusciresti nemmeno ad arrivare a metà strada».
Scuote la testa. «Mi chiamo Willow, non bambina e posso arrivarci!» Più trascorro il tempo con lei, e più noto quanto sia simile a zia Katniss. Anche lei, anni fa, si era buttata per raggiungere quel medesimo scoglio. Ci eravamo andati insieme e ci eravamo riposati al sole, mentre la zia mi accarezzava i capelli bagnati, canticchiando una canzone.
«Affogheresti prima, mocciosa!» Rispondo, tornando verso la riva.
«Non sono una mocciosa, Junior! Voglio andare allo scoglio!» Mi segue, muovendo i suoi piedi sul fondale del mare. Mi distendo vicino a zia Johanna che continua a prendere il sole. «Zia! Diglielo che posso arrivare allo scoglio! E che non sono una bambina».
La zia apre un occhio, guardandoci. «È già finito l'amore? Junior, non la portare allo scoglio, Katniss ci ucciderebbe». Dice, annoiata, appoggiando la testa sulle proprie braccia. «Ora zitti, stavo dormendo».
«Dovreste badare voi alla mocciosetta qui, non io». Mi alzo in piedi, camminando lungo la spiaggia. «Mi sono stancato, vado a casa». La zia mi fa cenno con la mano, come se non le interessasse quello che faccio, quando so bene che sia così tranquilla proprio perché le ho riferito dove vado. La bambina invece mi guarda, cercando di non farsi notare, facendo guizzare le iridi veloci da una parte all'altra, senza uno scopo ben preciso.
Quando capisco che mia madre non dirà nulla e la zia mi ha liquidato con un cenno della mano, mi volto, riprendendo la strada verso casa. Alla fine, non mi vedono. Se ci sono o non ci sono non fa alcuna differenza. L'importante è che la bambina non abbia problemi, che sia protetta, che non le succeda nulla. Di me non importa, non è mai importato un granché perché non sono mio padre.




Ringraziamenti:
Come per ogni nostra fanfiction, non possiamo esimerci dal ringraziare tutte le persone che ci sono state vicine nella stesura della storia, quelle persone che, in qualche modo, hanno contribuito a rendere Aqua la storia che è, quindi i nostri ringraziamenti più sentiti vanno a:
radioactive che non solo ha creato per noi questo fantastico banner – e non ci stancheremo mai di dire che è una grafica nata – ma che ci ha promptate, aiutate, ispirate e che è la persona che più ci ha aiutate e spronate a scrivere Aqua. Questa fanfiction è anche sua;
_eco che ci ha fatto immaginare un incontro tra JJ e Will;
gabryweasley che ci ha seguite sin dall’inizio, amando Aqua tanto quanto noi. Che ci chiedeva di passarle i pezzi e li leggeva dicendoci sempre cosa ne pensasse.
Se amiamo tanto Aquamarine è anche merito loro ♥ Grazie per tutto, vi amiamo! ♥


Veniteh a fare le bolleh d'Assenzioh con noi nel gruppoh Facebook gestito dalla nostra meravigliosah famiglia disfunzionale ♥ A Panda piace fare le bolle d'assenzio [EFPfanfic]
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Capitolo 3
*** Capitolo III ***





III.




Sento urlare il mio nome, in lontananza. Voce di bambina, che ormai conosco bene. Mi fermo, voltandomi indietro. I capelli scuri, sciolti ed ancora bagnati, sbattono sulla sua schiena mentre corre in mia direzione.
«Che vuoi?» Chiedo, burbero. Non capisco perché debba venirmi dietro così, sto soltanto andando a casa, dovrebbe rimanere con zia Johanna invece di corrermi dietro per motivi a me sconosciuti.
Riprende fiato, guardandosi intorno, preoccupata. Si mordicchia il labbro inferiore, poi torna a guardarmi, fiera e sicura.
«Ti ho offeso in qualche modo?» Sgrano gli occhi, sorpreso da quella domanda. Non so nemmeno cosa risponderle perché la bimba non ha fatto nulla che potesse essere scambiata per un'offesa. «No... perché altrimenti chiederò scusa, ma lo farò soltanto se mi chiederai scusa tu». Smette di parlare, aspettandosi che cominci a parlare io, ma sbuffo, dandole le spalle. «Non sono una mocciosa, io. Sono Willow». Riprendo a camminare, ignorandola, ma mi raggiunge, mettendosi al mio fianco. Non riesco a nascondere un sorriso, pensando a come le assomigli. Ma zia Katniss ha cresciuto un po' anche me, e so essere testardo anche io, forse lo sono proprio perché l'ho vista in lei e continuo a camminare, a passo veloce, soltanto per cercare di darle fastidio visto che deve aumentare il passo per reggere il mio.
«Non ti chiederò scusa se non lo fai prima tu». Dice, ancora, smorzando il silenzio che si era andato creando.
«Quindi? Dovrebbe interessarmi?»
Si volta verso di me e inarca le sopracciglia. «Papà mi ha detto che è importante scusarsi se si è in torto o se si fa qualcosa di male. E se ho fatto qualcosa di male a te, allora sì. Dovrebbero interessarti le mie scuse, come a me interessano le tue perché mi hai offeso con quel mocciosa». Spiega, gesticolando animatamente con le mani senza un vero motivo.
«Tuo padre è stupido».
«Mio papà è il migliore del mondo!» Quasi urla, offesa per davvero dalle mie parole. «E non puoi parlare di mio papà. Chiedi scusa! Mio papà è perfetto e mi vuole bene e tu non puoi capire perché non hai un papà, ma non puoi offendere il mio. Papà non ha fatto niente!» Mi sono fermato anche io, quando l'ha fatto lei. Osservo i suoi occhi lucidi, le mani strette in pugno e mi rendo conto che tra poco, con tutta probabilità, si metterà a piangere. Mocciosa. Piangere perché ho soltanto detto la verità riguardo il marito della zia. Mi ha portato via Katniss, ecco cosa ha fatto. Ha fatto sì che mi lasciasse, nello stesso modo in cui mi ha lasciato mia madre, quando ho cominciato ad assomigliare troppo a lui, al mio di padre. Quello che non ho, che non ho mai avuto.
Serro la mandibola, sentendo i denti entrare in contatto gli uni con gli altri, stringo i pugni e riprendo la mia via verso casa.
Mio padre è morto. Mi ha abbandonato ancora prima che io nascessi. È stata una sua scelta, la decisione di andare in guerra, abbandonando mia madre da sola, facendola stare male, così male che le sue scelte si ripercuoto su di me. Ed anche il marito di zia ha fatto soffrire Katniss. L'ha fatta piangere, l'ha ferita, proprio come mio padre ha ferito mia madre.
«Sei cattivo, Junior».
Mi raggiunge ancora, alzando il braccio per stringermi la mano, senza che ne capisca il motivo. Tiene la mia stretta forte tra la sua mentre continuiamo ad avanzare verso casa, ma la lascio fare, perché con la mano libera si asciuga le lacrime, perché sono stata io a farla piangere, come il biondino aveva fatto piangere la zia, come mio padre continua tuttora a far piangere la mamma. Non chiederò scusa, perché ho detto la verità.
La sento tirare su con il naso, guardare davanti a lei con sguardo severo ed alcuni occhi estranei ci fissano, domandandosi chi sia quella bambina che il figlio Odair sta tenendo per mano. «La mamma dice che è importante che mi tenga per mano con un adulto, altrimenti non lo farei, perché sei cattivo». Mi spiega, senza alzare lo sguardo e ripenso al giorno precedente, a quella stessa mattina. Quando è fuori casa, la bimba stringe sempre la mano di qualcuno. Del padre o della madre, il giorno prima. Oggi quella di Johanna.
«Non ti chiederò scusa». Rispondo, ignorando ciò che ha appena detto.
«Allora non lo farò nemmeno io».
Ascolto i nostri stessi passi, la bambina lo ha leggero, simile a quello di zia Katniss. Da cacciatrice, mi ha detto una volta, perché deve essere silenziosa nel bosco per non far scappare le prede.
Non parla più, lei, ha le sopracciglia inarcate verso il basso, non piange più e continua a stringermi la mano, senza guardarmi e ignorandomi. Se non mi avesse seguito, o se ci fosse stata zia Johanna, non sarebbe al mio fianco, ma stringerebbe la mano della zia che è più adulta della mia. Ma non sono più un bambino e sebbene la zia mi veda ancora come un ragazzino permaloso, la bambina mi vede per quel che sono. Un adulto che cerca soltanto di avanzare in questo mare senza fine. Mi spingerò così al largo che nessuno potrà più prendermi la mano e sarò da solo, con la certezza di essere abbastanza forte di non avere il bisogno di nessuno, tanto meno di una madre che mi osserva senza riconoscermi.
«E comunque non sono cattivo». Dico, sciogliendo il nodo di quel silenzio. Forse mi sono abituata a sentire la sua voce squillante nelle mie orecchie.
«Sì che lo sei». Fa spallucce, senza alzare lo sguardo verso di me. Mi dà fastidio.
«E allora tu sei una mocciosa». Rispondo, scocciato. Le hanno detto che ci si deve scusare, che deve tenere la mano di un adulto, ma non le hanno mai insegnato che quando si parla si dovrebbe guardare negli occhi l'altra persona?
Alza lo sguardo, questa volta, senza alcuna paura e con gli occhi seri di una bambina che sa il fatto suo. «Vedi?»
Mi innervosisce, questa bimba. Lo fa apposta, ad innervosirmi. «Cosa dovrei vedere?»
«Che sei cattivo, Junior. Con me. Sai che mi dà fastidio essere chiamata mocciosa, ma continui a farlo. Quindi io continuerò a dire che sei cattivo». Parla senza distogliere i suoi occhi dai miei, guardandomi dal basso, le sue dita corrono veloci, giocando senza volerlo davvero con le mie unghie, ma la lascio fare, ricordando come lo facesse anche zia Katniss, quand'ero bambino, quando mi stringeva la mano, portandomi verso la spiaggia. Cosa vedi?
Non appena saliamo nel portico, la bambina si allontana da me. Non siamo più per strada, non ha bisogno di stringere alcuna mano. Mi ero abituato a sentire le sue dita giocherellare con le mie cuticole.
«Vai a fare a doccia». Le ordino, buttandomi a peso morto sul divano. «Così ti levi il sale dalla pelle».
La bambina mi guarda con la bocca socchiusa. «Da sola?»
Sbatto le palpebre, più volte. Io alla sua età mi lavavo da solo senza problemi. «Non hai mai fatto la doccia da sola?» Chiedo, sorpreso. Come vive questa bambina? Comincio a capire perché il marito della zia fosse così determinato a lasciarla qui. Ha bisogno di supporto, la mocciosa. Ha bisogno di qualcuno che stia con lei, sempre.
Nega con la testa. «La mamma lava a me e Rye. La facciamo insieme, Junior?» Sembra quasi una preghiera, chiede di non lasciarla da sola, ma non posso fare la doccia con lei. Non voglio lavarla, né farle da babysitter.
«No. Io alla tua età la facevo da solo e nessuno mi costringe a farti da tutore. Sei grande, ormai». Spiego, abbassando lo sguardo. Quando lo disse a me, zia Johanna, ci rimasi male.
«Sei grande, ormai, Junior. Smettila di piagnucolare che vuoi la mamma. La mamma sta male e devi capirla. Smettila di fare il bambino e sii forte, come un vero uomo». La zia mi mette le mani sulle spalle, guardandomi negli occhi. Fa la faccia severa, cercando di incutermi timore. Sono una bambino grande. Sono un uomo. Devo capire la mamma. La mamma sta male.
«Vado in camera mia». Dico, scostandomi da lei e cominciando a salire le scale. Sono un bambino grande, non ho più bisogno della mamma.

«Allora aspetto zia Johanna». Sussurra, la bambina, prima di sedersi al mio fianco e circondando le ginocchia con le braccia.
«Vai a fare la doccia». Ripeto ancora, dandole una leggera spinta, per smuoverla.
«No. Aspetto zia, ho detto». Non mi guarda, nasconde il suo viso sotto i capelli ancora umidi.
«La doccia non ti mangia. Hai per caso paura, mocciosa?»
Alza di scatto la testa, trovando i miei occhi, le sue guance sono diventate rosse e scuote il viso con energia. «Non ho paura di niente, io! Ma... ho deciso di aspettare la zia, e basta. Non rompere, cattivo!» Le ho toccato un nervo scoperto che intendo continuare a stuzzicare. Non ha paura di niente, dice, eppure non riesce a stare da sola. Persino ora che siamo arrivati a casa, non si allontana da me, perché sono l'unica persona presente.
«Sei una mocciosa fifona, ecco cosa».
I suoi pugni incontrano il mio bicipite, più volte. È abbastanza forte per essere una bambina della sua età. «Sei cattivo, Junior! Sei cattivo! Sei cattivo!» Mi urla, continuando a lanciare pugni contro il mio corpo. La lascio fare per un po', fin quando mi annoio e le prendo i polsi tra le mie dita, bloccando i suoi movimenti. Singhiozza, la bambina, versando copiose lacrime lungo le guance. «Sei cattivo!» Lo sento, ora. Forse ho esagerato. «Non piangere, dai». Le dico, lasciandola andare. Le accarezzo i capelli con un palmo, proprio come zia Katniss faceva con me, quando ero piccolo e piangevo per qualcosa. «Aspettiamo zia Johanna, okay?»
Singhiozza ancora ed annuisce, chiudendosi in se stessa e nascondendo il viso tra le ginocchia. Ricordo che la zia, sulla spiaggia stava spesso in questa posizione. «La mamma dice che se ci appoggi l'orecchio senti il rumore del mare. Mamma lo fa sempre». Mi alzo, prendendo la conchiglia di mia madre dalla mensola, sento lo sguardo della bambina puntato su di me, che studia i miei movimenti e chiede che non mi allontani troppo. Torno indietro, porgendole la conchiglia.
«Portala all'orecchio». Ordino, e lei lo fa. «Lo senti il mare?» Chiedo, dopo un po'.
La bimba sgrana gli occhi annuendo. «Non è possibile!» Esclama, meravigliata. Ed io sorrido, senza nemmeno accorgermene, appoggiando una mano sulla sua testa.
«Invece è così. Si sente il rumore delle onde se porti una conchiglia all'orecchio». Affermo, facendole continuare ad ascoltare il rumore del mare.
«È bellissimo! Grazie, Junior». Sorride anche lei, ora, tra le lacrime, tenendo la conchiglia ben salda sull'orecchio. Ed io penso che sia sua e di nessun altro.
«Tienila, te la regalo». Non ci penso nemmeno, perché è davvero sua, quella conchiglia.
«Cosa? Ma è tua!» Me la porge, veloce, ma invece di prenderla, le stringo le dita.
«Ora non più».
«Sei sicuro?»
Sbuffo. «Quante volte devo dirtelo che è tua, mocciosa?» Ed invece di vedere il suo broncio per il solito soprannome, le sue labbra si schiudono e, alzandosi in piedi sul divano, mi cinge il collo, appoggiando il suo mento sulla mia spalla.
«Grazie! Grazie, Junior! La terrò con cura!» Trilla nel mio orecchio. E non mi muovo, troppo scosso da questo suo slancio di affetto dovuto ad uno stupido regalo, fatto tanto per.
«Va bene, ora staccati, mocciosa». Annuisce, allontanandosi. Si siede di nuovo e continua ad ascoltare il mare, dentro quella conchiglia, chiudendo gli occhi e lasciandosi trasportare dalle onde. Stai andando al largo, bambina?
Appoggio la conchiglia sul tavolino poco distante, quando mi accorgo del suo respiro regolare, dopo essermi fatto una doccia veloce. La teneva sopra il petto, stringendola con tutte e due le mani, forse per paura di romperla o di farla cadere. Anche se è caldo, la copro con il lenzuolo che di solito utilizza mia madre la sera e la lascio continuare a sonnecchiare. Avrei voglia di fare una passeggiata fuori, andare al sole, ma so che se si dovesse svegliare senza nessuno in casa verrebbe presa dal panico. In casa mia c'è una bambina che non sa cosa significa stare da soli. Io lo so sin troppo bene, invece. Sospiro, alzando la cornetta al primo squillo, per paura che si possa svegliare.
«Junior?»
«Zia, ciao». Sorrido, sentendo la sua voce chiamarmi, come se mi potesse vedere.
«Mi passi Willow, Junior?» È preoccupata, la zia. In ansia per la sua bambina che è lontana, da sola, che non può essere lavata da lei.
«Zia, sta dormendo sul divano. Siamo stati al mare. Come è andato il viaggio?» Cerco di cambiare discorso, senza risultato.
«Senti, Junior... ora devo andare. Il viaggio è andato bene, grazie. Salutala quando si sveglia, da parte mia».
Appoggio il telefono, rendendomi conto di quanto sia stata strana durante la breve telefonata. Non sembrava nemmeno zia Katniss, se non il tono della voce che non poteva essere d'altri. Non le dirò che la madre ha chiamato non appena ha messo piede dentro casa sua, al Distretto 12. Non lo farò.
Quando la zia e mia madre tornano a casa, la bambina è ancora addormentata. «Non ha voluto fare la doccia da sola, quindi ti tocca, zia». Le dico, non appena mette piede in casa. «Ha chiamato anche zia Katniss...»
«Le hai passato Willow?» Mi domanda, appoggiando gli asciugamani nello schienale di una sedia.
«No. Dormiva».
Johanna sospira. «Bene». Mi sorride scompigliandomi i capelli. «Ora svegliamo Peeta in miniatura e facciamole la doccia. Cosa ho fatto di male per essere la balia di tutti i bambini di questo mondo?» Parla più con se stessa che con me, ma non posso fare a meno di soffermarmi a pensare al modo in cui l'ha chiamata.
«A me sembra assomigli più alla zia».
Johanna si volta, sorridendo. «Non hai mai voluto conoscere Peeta, tesoro. Willow è tutta suo padre, se non per qualche tratto della madre. Come Peeta, potrebbe vendere un pettine ai calvi».
Alzo le spalle, ignorandola. Continuo a pensare che assomigli a Katniss, se non per gli occhi azzurri del padre. Incrocio lo sguardo di mia madre, che mi osserva. «Anche tu sei tutto tuo padre, Junior». Sospira, portandosi le mani alle orecchie, perdendosi nel suo mondo.
«Che culo». E come sono entrato in cucina, esco, portandomi in giardino.
Mi siedo sull'erba del prato, osservando il cielo che comincia ad imbrunire, regalando schizzi di colori caldi contrapposti a quelli freddi dall'oceano.
«Mi piace il tramonto. Al lago mi piace tanto. Il sole colora l'acqua. Papà mi ha detto che sono i riflessi del sole e che un giorno mi insegnerà come disegnarli». La bambina si siede al mio fianco, continuando a guardare l'orizzonte.
«Hai fatto la doccia, mocciosa?»
Annuisce, abbassando di poco lo sguardo. «Con zia Johanna». Struscia i piedi sull'erba, strappandone dei ciuffi e rimaniamo in silenzio, continuando a guardare il sole scomparire all'orizzonte. La sua pancia brontola quando ci arriva al naso l'odore della cena che sta cucinando zia Johanna. «Uccellino in salsa!» Urla, correndo dentro casa ed io mi alzo, seguendola senza averne davvero la necessità.
«Non pesce?» Domando, guardando la pentola da dietro la spalla della zia.
«Peeta ci ha lasciato una prelibatezza prima di andarsene».
«È così bravo?»
«È la migliore cuoca del mondo, non l'hai letto?» Mi fa l'occhiolino, girando gli uccellini per continuarne la cottura. «Tra poco è pronto, Willow, non fare tua madre con quella pancia!»
«Ma ho fame!» Risponde lei, già seduta a tavola.
Apparecchio la tavola sedendomi vicino alla bambina, il mio solito posto, e poco dopo ci raggiunge mia madre che si siede davanti a me. Mi guarda fisso, come sempre, e scosto lo sguardo sulla zia che impreca qualcosa sul fuoco e su come Peeta ne sia un mago, al contrario di lei.
Cominciamo a mangiare, mentre la bambina continua a guardare il suo piatto, in attesa. «Mangia». Le dico, dandole una gomitata.
«Non è tagliata la carne».
«Be'? Prendi il coltello e tagliala, Willow». La zia nega con la testa, guardandola. La bambina abbassa lo sguardo, guardandosi le mani.
«Io da sola? Posso?» E continuo a pensare che se sia qui, con Johanna, con colei che mi ha fatto davvero da madre, che mi ha insegnato ad essere forte e autonomo, è perché c'è qualcosa che non va con la zia Katniss. Qualcosa che non capisco del tutto, ma che so che abbia a che fare con il suo passato.
«Certo che puoi. Forza, prendi il coltello con la destra e la forchetta con la sinistra». Le ordina. La mano della bimba trema, ma esegue. Guarda il coltello, senza sapere davvero che farne. «Ora tieni ferma la carne con la forchetta e taglia quella stupida carne. Guarda me». Zia ne taglia un pezzo dal suo piatto, per farle vedere, e la bambina prova ad imitarla, senza grande successo. Ci prova, ancora ed ancora, con gli occhi concentrati simili a quelli della madre. Ci riuscirà. Imparerà, con il tempo. «Stai andando benissimo, Willow». Afferma la zia, proseguendo a mangiare, come se nulla fosse. Il mio stomaco è invece chiuso, ormai, comprendendo davvero quali problemi si celino dietro a quella bambina così solare.
Noto i suoi occhi diventare lucidi, dopo l'ennesimo taglio fatto male. Alza lo sguardo, a volte, guardando la zia utilizzare le posate con naturalezza e cerca me, nascondendosi subito dopo dietro ai capelli sciolti. «È difficile...» Mugugna, continuando a provare.
«Hai fame, allora tagliati quella carne, altrimenti non mangi, Willow». Johanna è severa, lo è stata anche con me, quando dovevo imparare ad essere un vero uomo.
«Ma...»
«Niente ma». La blocca, fermandosi per guardarla. «Qualcuno taglia la carne a Junior o a zia Annie o a me? No. Come noi tagliamo la carne da soli, devi farlo pure tu. Quindi continua, l'uccellino è già morto, non scappa. Stiamo a tavola finché non hai tagliato tutta la carne e non avrai pulito il piatto». Fa una pausa, riprendendo in mano le posate. «La stessa cosa vale per te, Junior. Mangia tutto, invece di guardarlo, il piatto».
Annuisco, lasciandomi rimproverare come se fosse giusto. Ho diciassette anni, se volessi potrei dovrei avere la possibilità di saltare la cena, nello stesso modo in cui decido di uscire la sera, per passeggiare lungo la riva del mare.
Alla fine, la bambina riesce a tagliare l'uccellino, finendolo. Stiamo a tavola per più tempo del solito, ma nessuno di noi ha mai accennato a volersi alzare, se non per cambiare la bottiglia dell'acqua. La mocciosa si è sporcata la maglia e la salsa è arrivato sino a me, ma non me ne sono lamentato, anche perché non appena lo schizzo mi ha raggiunto, la zia ha appoggiato il suo piede sopra il mio come velata minaccia che, se avessi detto soltanto una a di troppo, mi avrebbe fatto molto più male.
Mia madre va a letto quasi subito dopo la conclusione della cena. Sparecchio la tavola, mettendo tutto dentro al lavabo, prima di venire a conoscenza che avremmo continuato la serata con un gioco da tavolo. «Sono stanco, vado a dormire». Dico, allora, sentendo soltanto la presa sul mio braccio.
«Tu gioca a... non so cosa con Willow, mentre lavo i piatti, poi tutti a letto». Mi arrendo, sedendomi davanti alla bambina con un sospiro. È taciturna, ora, e fa tutto ciò che le si dice. Credo che ci sia rimasta male, prima, quando Johanna l'ha costretta ad imparare ad usare il coltello. È per il tuo bene.
Fortunatamente la zia non ci mette tanto e la piccola viene portata nella camera negli ospiti. Quando Johanna scende, mi domanda perché fossi ancora in piedi visto che ero stanco, prima.
«Stavo pensando». Rispondo, chiudendo dentro la scatola il gioco che abbiamo fatto prima.
«Bravo, ogni tanto fa bene».
La ignoro, come ormai ho imparato a fare, continuando a domandarmi se dovrei porle quella domanda o meno.
«Spara, Junior». La zia mi capisce. È sempre stato così, ha sempre saputo se c'era qualcosa che mi turbasse, prima ancora che ne parlassi.
«Perché la bambina è qui?» Sussurro, appoggiando i gomiti sul tavolo, senza guardarla negli occhi. Perché lo so, l'ho capito, ma voglio avere la conferma, esserne sicuro al cento per cento.
«Secondo te? Credevo fossi più intelligente». Si siede davanti a me, imitando la mia postura, stringendo le dita le une con le altre.
«So che c'è qualcosa che non va».
La zia sogghigna, facendo ruotare gli occhi. «Complimenti per la deduzione, tesoro». Porta un braccio dietro la spalliera, continuando ad osservarmi, aspettando che prosegua e le parole escono da sole. Non mi ero mai soffermato a guardarla, quando venivano nel mio Distretto o quando io andavo nel 12. Non mi ero mai accorto di nulla, troppo preso da me stesso e dalla rabbia che provavo nei confronti del mondo, nei confronti di mia madre e di mio padre.
«Credevo fosse normale...» Dico, in un sussurro. Mi sembra brutto dirlo a voce troppo alta, come se lo rendesse più reale.
«Ma è normale. Esattamente come te». Risponde, fredda, con un'espressione seria sul viso. Perché io sono come lei, sono il figlio di eroi di guerra che portano sulle loro spalle i dolori del passato, rendendo le nostre vite più difficili di quelle di chiunque altro. Perché ci avete messo al mondo?
La bambina si discosta da me, essendo cresciuta in maniera differente. La zia mi ha detto di dover essere un vero uomo, di essere indipendente, perché la mamma sta male; la bimba è protetta, così tanto da risultare esagerato. Lei è normale, proprio come lo sono io.




Ringraziamenti:
Come per ogni nostra fanfiction, non possiamo esimerci dal ringraziare tutte le persone che ci sono state vicine nella stesura della storia, quelle persone che, in qualche modo, hanno contribuito a rendere Aqua la storia che è, quindi i nostri ringraziamenti più sentiti vanno a:
radioactive che non solo ha creato per noi questo fantastico banner – e non ci stancheremo mai di dire che è una grafica nata – ma che ci ha promptate, aiutate, ispirate e che è la persona che più ci ha aiutate e spronate a scrivere Aqua. Questa fanfiction è anche sua;
_eco che ci ha fatto immaginare un incontro tra JJ e Will;
gabryweasley che ci ha seguite sin dall’inizio, amando Aqua tanto quanto noi. Che ci chiedeva di passarle i pezzi e li leggeva dicendoci sempre cosa ne pensasse.
Se amiamo tanto Aquamarine è anche merito loro ♥ Grazie per tutto, vi amiamo! ♥


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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***





IV.




Apro gli occhi quando sento la porta della mia camera cigolare. Aspetto che entri zia Johanna per svegliarmi, ma mi accorgo che la camera è al buio più totale. È ancora notte, quindi. Cerco di abituarmi all'oscurità, mettendo a fuoco i contorni degli spigoli e la vedo, la bambina. Ancora sulla soglia della porta a studiare l'ambiente. Muove i primi passi, raggiungendo il letto a tentoni.
«Mocciosa?» Sobbalza, sentendo la mia voce rauca dal sonno.
«Ci ho provato, ma non riesco a dormire». Dice, scostando le coperte ed entrando nel mio letto, come se niente fosse. Si accoccola contro il mio petto, e credo che abbia chiuso gli occhi, con l'intenzione di dormire con me.
Sono ancora troppo addormentato, non sono riuscito a fermarla in tempo. Sbatto la palpebre più volte, cercando di svegliarmi. Sbadiglio, prima si scuoterla per le spalle. «Scendi da qui e torna in camera tua, mocciosa». La libero dalle coperte, ascoltando il suo lamento.
«Per favore! Fammi dormire qui con te!»
«Assolutamente no! Io non dormo con una mocciosa nel letto! Ora vai a dormire in camera tua!» Esclamo, alzandomi e scendendo. «Ti devo spingere, per caso?» So il perché di tutto questo, ora. Perché mi abbia cercato. Lei mi vede. Non vede mio padre, o mia madre, vede me: Finnick Junior Odair, figlio di due vincitori, proprio come lei. Con una madre assente e silenziosa, con i suoi problemi. Sa come mi possa essere sentito io, forse. Crede che io possa capirla. E lo faccio, la comprendo, più di quanto vorrei davvero. Ma non può dormire nella mia stanza, non può dormire con me. Deve imparare a cavarsela da sola, non ci sono mamma e papà, ora. Ed è giusto così, il padre ha fatto bene a lasciarla qui, se non riesce ad educarla, a renderla un po' più indipendente, come ero io alla sua età.
«Sono piccola, io. Non ti darò fastidio, non ti accorgerai nemmeno che sono qui!» Trilla, appoggiando le ginocchia sul materasso, stringendomi i polsi. «Per favore». Sento la paura nella sua voce, ma non posso farlo. Non la voglio qui, con me, non voglio proteggerla da qualcosa che non è reale. Deve staccarsi dalle persone, dal padre, dalla madre. Deve imparare a fare le cose da sola, per lei.
«Sei una mocciosa fifona che ha pure paura del buio?»
«Non ho paura del buio, sono venuta qui al buio!» Risponde, scuotendo la testa. «Dormo sempre con mamma e papà, non riesco... non riesco a dormire da sola!»
«Impari. Come hai imparato a tagliare con il coltello. Torna a letto tuo». La prendo per le spalle, tirandola verso di me, per farla scendere. Lei strepita un po', cercando di farmi cambiare idea. Sembra così adulta, delle volte, che vederla ora in questa circostanza, mentre piange e mi implora di farla rimanere, mi sembra assurdo. Sembra davvero una mocciosa che non riesce a comprendere quanto sia sbagliata. Ma è normale. Esattamente come te.
Deve crescere, la bambina, e maturare. La sua lontananza dai genitori non può far altro se non farla stare meglio.
«Voglio rimanere con te, cattivo!»
«Non puoi. Non ti voglio qui, non sono tuo padre, né il tuo babysitter, mocciosa». Si divincola dalla mia presa, offesa.
«D'accordo! Fai come ti pare. Vado via». Esclama, con voce da rimprovero come se quello che si è appena comportato male sia io. Che andasse a dormire sul divano, per quanto me ne possa fregare.
L'osservo uscire dalla mia camera, nello stesso modo in cui è entrata e mi ributto sotto le coperte, attendendo il suo ritorno. Mi giro e rigiro nel letto, stando bene attento ad ascoltare qualsiasi rumore proveniente da fuori. La voce di Johanna si fa sentire, mentre sgrida la bambina, nello stesso modo in cui ho fatto io, spiegandole che deve imparare a dormire da sola. «Sei una donna, ormai. Non puoi correre nei letti degli adulti in questa maniera. A letto. Nel tuo letto!» La sento sbuffare e camminare lungo il corridoio con il suo passo pesante. La tiene sicuramente per un braccio, tirandola dietro di sé mentre mugugna delle scuse, o cerca di farle cambiare idea. Sospiro, chiudendo gli occhi. È come me, lei. Deve soltanto imparare a camminare sulle sue gambe come io, da bambino, avevo invece soltanto bisogno di mia madre, che invece preferiva chiudersi in se stessa che stare vicino a me.
La mattina successiva, quando scendo per fare colazione, trovo mia madre ai fornelli, mentre prepara pancake per tutti. «Willow, sei tu?» Il suo sorriso si spegne, per ritornare poco dopo, non appena mi vede. «Junior, buongiorno!» Sembra quasi felice, questa mattina. Lascia il fornello acceso, e si avvicina a me per stampami un bacio sulla guancia, accarezzandola subito dopo. «Spero tu abbia dormito bene».
«Johanna?»
«È con Willow». Risponde, girando l'impasto nella padella. «Credo che scenderanno tra poco». Quando le vedo sulle scale, capisco cosa sia accaduto. Sia io che Johanna, questa notte, l'abbiamo cacciata, dicendo che deve dormire nel suo letto, mia madre no. Lei l'ha accolta, aprendo le braccia per stringerla nel suo abbraccio. Lo faceva anche con me quando ero ancora un bambino, quando la somiglianza con mio padre non le pesava, non così tanto.
«Junior, oggi io ed Annie non possiamo venire al mare...» Johanna guarda mia madre, scuotendo la testa. «La porterai tu, trattala bene e non lasciarla affogare, non portarla allo scoglio, e sii paziente, non fare il cattivo».
Sbuffo, stufo di questa situazione. Mancano soltanto cinque giorni e poi i genitori torneranno a prenderla. Soltanto cinque giorni per imparare ad essere un po' più autonoma. La porterò al mare, come mi ha chiesto la zia, perché tanto so di non poter fare altrimenti, l'ha deciso e non posso lasciarla del tutto da sola. Non ora che so quanto abbia paura di non stringere alcuna mano se cammina per il Distretto.
Non appena mettiamo piede sulla spiaggia, i suoi occhi vengono catturati dai resti del castello che abbiamo costruito ieri.
«Non c'è più, è crollato...» Dice, trascinandomi verso quell'informe castello, si inginocchia a terra, toccando la sabbia con le dita, sporcandosi.
«C'è stata l'alta marea, l'acqua ha portato via parte delle torri». Mi chino al suo fianco, chiedendomi perché debba essere così dispiaciuta per uno stupido castello di sabbia.
«Una volta mamma l'ha detto». Parla, continuando a giocare con la sabbia umida. «Ha detto che tutto quello che si tocca si distrugge, qualcosa di simile, e che la colpa è sua». Fa una pausa, premendo la mano su quel poco di castello che è rimasto, lasciandone il segno. «Junior, l'ho distrutto io il castello? Perché l'ho lasciato andare? L'abbiamo fatto e poi ce ne siamo andati...»
«Cazzate!» Esclamo, irritato. Mi chiedo quanto conosca mia zia, ora. Con me non si è mai comportata così, era normale. Era come zia Johanna, tranquilla, sorridente, amorevole. «I castelli di sabbia sono così, mocciosa. Li fai, ti diverti, il giorno dopo torni e non ci sono più. L'acqua li porta via perché la sabbia fa parte dell'oceano ed il mare la viene a riprendere, riportandola al suo posto». Spiego, senza capire nemmeno io cosa mi sia uscito dalla bocca, ma voglio farla stare bene. Voglio farle dimenticare ciò che ha sentito dalla zia.
La bambina alza lo sguardo, accennando un sorriso.
«Allora è giusto che non ci sia più il nostro castello, se la sabbia appartiene al mare». Si alza, portando le braccia verso l'alto, stiracchiandosi. «Andiamo a fare il bagno, Junior? Voglio andare allo scoglio dove stavi ieri». Indica la roccia in mezzo al mare, quel sasso che assomiglia alla vela di una nave, che sa di libertà. Si sta bene lì, da soli, lontani da tutti, a prendere il sole e tuffarsi in acqua, dalla sua punta. È lontano e non sa nuotare bene, ma lo so fare io, per tutti e due. Posso portarla, se si stanca di nuotare. Deve conoscere cos'è la vera libertà, la bellezza di non stringere alcuna mano, di fare le cose da soli. Ed è solo l'inizio, se arrivasse alla vela, solo il principio. Ed allora capirà che niente di quello che fa può distruggere, può soltanto evolversi, in bene o in male. Deve crescere, la bimba e non può farlo se non rischia.
«Andiamo, allora». Rispondo, stringendole la mano di mia spontanea volontà, questa volta. «Se ti stanchi dimmelo, che ti porto io, non fare la testarda perché poi se bevi l'acqua del mare affoghi e muori e non voglio che mi rompano perché ho fatto morire la figlia di zia Katniss, chiaro?»
«Davvero andiamo lì?» Mi domanda, seguendomi dentro l'acqua. «Davvero, davvero?»
«Soltanto se non lo dici a nessuno».
«Non lo dirò a nessuno, Junior». Sorrido, divertito, osservando il suo viso, felice ed emozionato. Con il tempo, scoprirà cosa sia la libertà.
Ci immergiamo nell'acqua, rimanendo un po' a mollo per rinfrescarci. Nuoto piano, verso la vela, dandole la possibilità di seguirmi. Non se la cava male, per essere una bambina che ha nuotato solo nel lago del Distretto 12 e ieri. Ci allontaniamo sempre di più dalla riva e l'aspetto, senza la possibilità di stringerle la mano. Stai andando bene e nessuno ti sta tenendo. Osservo la sua faccia concentrata, la bocca chiusa, che si apre di tanto in tanto per riprendere fiato. Può respirare, fintanto che non si immerge, ma non sembra volerlo capire, nonostante gliel'abbia fatto presente.
Siamo a più di metà strada quando la sento arrancare, sospingendo l'acqua intorno a lei. Si ferma, continuando a muovere sia le braccia che le gambe. «Te l'avevo detto che non saresti riuscita ad arrivarci, alla vela». Dico, muovendomi verso di lei. «Aggrappati alle mie spalle che ti porto io».
La bambina nega con la testa, cocciuta. «No. Non voglio pesarti».
«Non lo fai, non pesi. L'acqua ti renderà leggera come una piuma, e poi non posso lasciarti qui ad affogare, no?! Non fare la bambina testarda e aggrappati a me, ora».
«Bisogna imparare a conoscere i propri limiti, Junior». Mi dice, zia Johanna, accarezzandomi i capelli. «Non c'è niente di male se ti fai portare allo scoglio da tua madre. Sei piccolo... vedrai che con il giusto allenamento, in futuro, ci arriverai come se nulla fosse».
La bambina si avvicina alla mia schiena, cingendo le mie spalle. Sento il suo respiro sul mio collo, mentre riprendo a nuotare verso lo scoglio. Vado piano, muovendo le braccia per cercare di non farle arrivare alcuno schizzo. Ricordo il modo in cui mia madre mi trainava là, come mi stringevo sulla sua schiena, nello stesso modo delle bambina, ora.
La faccio allontanare da me, aiutandola ad aggrapparsi sulla roccia. La guarda, meravigliata. «Dalla riva sembrava più piccola». Accarezza lo scoglio, sporcandosi le mani bagnate di bianco.
«Era più lontana». Rispondo, facendo leva sui polsi e dandomi la spinta necessaria a salire sul masso. Le tendo le mani, issandola al mio fianco. Rimane in silenzio, camminando su quella superficie liscia della base; guarda la riva, l'orizzonte, ed il resto dello scoglio che si erge sopra di noi, frastagliato.
«È bellissimo!» Esclama, continuando a far vagare gli occhi in ogni direzione. «Papà dovrebbe dipingerlo, questo scoglio».
Mi metto seduto, con una gamba immersa nell'acqua l'azzurra, un palmo appoggiato a terra, guardandola camminare piano ed incerta – come se potesse cadere – intorno a me.
«Grazie, Junior. Per avermi portata qui». Mi sorride, chinandosi verso di me, con le braccia aperte. Mi cinge, stringendomi in un abbraccio. «Grazie». Continua, prima di sedersi al mio fianco ed imitare la mia postura. «Non sei cattivo, Junior. Sei buono. Sei come il mio papà». Muove le gambe, facendo arrivare degli schizzi su di noi ed io rimango in silenzio, perché non c'è niente da dire, perché è felice, di essere sullo scoglio. Perché sta conoscendo cosa significa essere liberi, lontano dal mondo. Da soli.
Rimaniamo in silenzio tutti e due per un po', con i raggi caldi del sole che ci colpiscono la pelle. Le sue mani si immergono nell'acqua, di tanto in tanto, osservando i pesci nuotare intorno alla vela. Mi tuffo, schizzandola d'acqua, quando il calore del sole diventa troppo alto.
«Buttati, mocciosa!» Le urlo, emergendo nuovamente in superficie. La bambina scuote la testa, guardando le rocce sotto di sé. «Datti lo slancio e buttati, è divertente!» La raggiungo, salendo di nuovo sullo scoglio.
«Non è pericoloso?» Chiede, guardando di nuovo il fondale, preoccupata.
«Guarda me». Mi tuffo ancora una volta, prendendo una piccola rincorsa sulla superficie così da finire più lontano. Stringo le ginocchia al petto, mentre sono in volo, prima di toccare l'acqua e sentirmi trascinato verso il basso. Questa è la vera libertà. Volare, lanciandosi dalla vela con il respiro trattenuto nei polmoni, l'acqua salata che bagna il corpo, rinfrescando e pulendo ogni piccola macchia. «Allora?»
Nega ancora una volta, impaurita.
«Sei una mocciosa fifona, ecco cosa!» Le urlo, prendendola in giro, più per divertimento che per altro, perché non è una fifona, la piccola. Ha avuto la tenacia di arrivare fino alla vela, sebbene l'abbia portata io per l'ultimo tratto di nuoto. Deve soltanto imparare a lasciarsi andare, a sentire il vento tra i capelli, l'aria sulla pelle, senza dover stringere la mano di nessuno.
«Non sono una fifona!»
«Se non ti butti come ho fatto io lo sei, invece!»
Mi guarda, inarcando le sopracciglia, facendo sì che un piccolo broncio si dipinga sulle sue labbra, identico a quello della zia. Osserva ancora l'acqua e poi di nuovo me. «Va bene». La sento dire, vedendola annuire. «Rimani lì, tu, okay?» Annuisco, spostando l'acqua intorno a me, vedendola indietreggiare per prendere la rincorsa.
Prende un respiro profondo, prima di correre e gettarsi in acqua. Stai volando. Non appena tocca l'acqua, la raggiungo con un paio di bracciate, stringendole i fianchi per mantenerla a galla vista la sua agitazione iniziale. «Calmati, rilassati». Le dico, vedendola prendere grandi boccate d'ossigeno. Forse ho fatto male a farla lanciare, forse era ancora troppo presto.
«Ancora!» Trilla, invece, così forte da darmi fastidio all'orecchio. «Voglio tuffarmi ancora!» Si scosta da me, nuotando verso lo scoglio. Da sola, senza alcuna paura. Sorrido, raggiungendola per aiutarla ad issarsi, ma non cerca il mio aiuto, e mi anticipa, mettendosi già in posizione. «Prima vai tu, Junior, poi io ti raggiungo».
Annuisco, senza riuscirle a dire di no e cominciamo questo nuovo gioco, lanciandoci dalla vela, per immergerci nell'acqua trasparente del mio Distretto. Ed alla fine, è lei la prima a lanciarsi, per aspettare me in acqua e ridere, quando gli schizzi provocati dal mio corpo, le bagnano il viso. La sua risata rimbomba contro la parete rocciosa dello scoglio, producendo il proprio eco, e rido con lei, continuando a volare ed arrampicarmi.




Ringraziamenti:
Come per ogni nostra fanfiction, non possiamo esimerci dal ringraziare tutte le persone che ci sono state vicine nella stesura della storia, quelle persone che, in qualche modo, hanno contribuito a rendere Aqua la storia che è, quindi i nostri ringraziamenti più sentiti vanno a:
radioactive che non solo ha creato per noi questo fantastico banner – e non ci stancheremo mai di dire che è una grafica nata – ma che ci ha promptate, aiutate, ispirate e che è la persona che più ci ha aiutate e spronate a scrivere Aqua. Questa fanfiction è anche sua;
_eco che ci ha fatto immaginare un incontro tra JJ e Will;
gabryweasley che ci ha seguite sin dall’inizio, amando Aqua tanto quanto noi. Che ci chiedeva di passarle i pezzi e li leggeva dicendoci sempre cosa ne pensasse.
Se amiamo tanto Aquamarine è anche merito loro ♥ Grazie per tutto, vi amiamo! ♥


Veniteh a fare le bolleh d'Assenzioh con noi nel gruppoh Facebook gestito dalla nostra meravigliosah famiglia disfunzionale ♥ A Panda piace fare le bolle d'assenzio [EFPfanfic]
Abbiamo apertoh anche una pagina Facebook dedicatah a questa serie, doveh potreteh farci qualsiasi domanda su questa raccoltah, seguire tutti gli aggiornamentih, salutareh Finnickinoh che ballah nella p0rn Narnia e devolvere zolletteh alla sua causah ♥ Vi aspettiamoh numerosih ♥ Colors.

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***





V.




Mi distendo sulla superficie dello scoglio, la bambina è vicino a me, girata su un fianco che mi osserva. Chiudo gli occhi, lasciandomi riscaldare dai raggi del sole.
«Junior?» Apro un occhio, incontrando i suoi, brillanti ed azzurri come il cielo. «Tua mamma... a volte si spegne?»
Inarco le sopracciglia, mettendomi seduto. Non voglio parlare di mia madre, non sulla vela. Sono libero, qui, libero da qualsiasi pensiero su come mia madre mi abbia cresciuto.
«Mia mamma lo fa, sai? Ci sono dei giorni che non si vuole alzare dal letto e guarda il soffitto. Anche la zia Annie mi sembra che lo fa». Continua, abbassando lo sguardo sulle proprie gambe. E ripenso agli anni passati, alla zia Katniss ed a come stesse, in mia compagnia. Non ricordo che avesse dei momenti come mia madre. Sei normale quanto me, bambina.
Annuisco, aprendo e chiudendo la bocca, senza riuscire a parlare. Deglutisco e mi faccio forza. Lei ha volato, quest'oggi, io posso riuscire a parlare. «Sì, sta male, mia madre». Dico, osservando la riva lontana da noi, la mia casa, dove vorrei poter non tornare più, quando sono qui sopra.
La piccola scuote la testa. «Mi dispiace». Afferma, gattonando verso di me, cingendomi le spalle ed appoggiando la sua guancia sulla mia. «Quando succede a mia mamma, papà sorride, si distende vicino a lei e l'abbraccia forte. Ed io con lui». Appoggio un palmo sulla schiena, chiudendo gli occhi.
Mi sta consolando una bambina di sette anni. Sta comprendendo il modo in cui mi sento, quando mia madre si chiude e non mi vede. Quando non esiste Junior, ma soltanto Finnick. Mi domando come sarebbe stato se mio padre non fosse morto. Le sarebbe stata vicino. E forse mi avrebbero visto tutti e due per quello che sono: loro figlio. Solo questo. Non sono un sosia, una persona del passato e se mio padre fosse ancora vivo, forse, le cose sarebbero andate meglio. Sento gli occhi bruciare, ma ricaccio indietro le lacrime. Non ha senso piangere o pensare ad un'altra vita che non esisterà mai. Mio padre non esiste, non è mai esistito, per me. È morto prima che venissi al mondo, anche volendolo con tutte le mie forze, non avrò mai la possibilità di conoscerlo davvero.
La sua bocca sfiora la mia guancia in un piccolo bacio, mi stringe ancora una volta prima di lasciarmi andare e penso che l'abbia visto fare dal padre per tirare su il morale di zia Katniss. La guardo sedersi vicino a me, con la sua spalla che sfiora il mio braccio, senza allontanarsi, come se volesse farmi sentire la sua presenza. Mi sono lasciato prendere per mano io, oggi. E per un momento ho pensato che fosse giusto avere qualcuno al tuo fianco, pronto a mantenerti in piedi, a capirti. Lei lo fa. Lei è come me, forse è l'unica persona che possa davvero capire come mi sia sentito in passato, come continuo a sentirmi ora.
Porto una mano tra i capelli, passando le dita in mezzo alle ciocche, districando dei piccoli nodi che si sono formati, guardo le mie gambe, mentre pronuncio quella domanda soltanto a colei che può capirmi, che può aiutarmi. Una curiosità che non mi sono mai tolto, troppo preso dalla mia rabbia e dal suo abbandono. Non avevo bisogno di lui, avevo mia madre. «Com'è... com'è avere un papà?»* Chiedo, all'età di diciassette anni per la prima volta, immaginando mio padre prendermi in braccio quando ero solo un bambino, immaginando il suo sorriso, simile al mio, il suo viso, simile al mio, perché io sono tutto mio padre.
La bambina mi accarezza la spalla con la mano, prima di cominciare a parlare. Non so perché lo faccia, ma non ha importanza. Non mi muovo, immobile ad osservare le mie ginocchia, aspettando di sentir parlare di padri e di come sia una vita con la loro presenza. Sarebbe stato un buon padre, il mio? «Papà è il migliore». Afferma, stringendo le ginocchia al petto. «Mi protegge, a me e la mamma. Mi coccola, ride, sorride, e mi vuole bene. È il migliore, il mio papà è il migliore papà del mondo». Fa una pausa, alzando lo sguardo ed osservando l'orizzonte. Le brillano gli occhi e immagino mio padre, vivo, che ride e gioca con me. Che mi stringe, dicendo quanto bravo e forte io sia. «E mi insegna tante cose». Si volta verso di me, sorridente, mentre la terra si sta sgretolando sotto di me, facendomi sprofondare nell'acqua dell'oceano. Solo, per sempre solo.
Deglutisco, distogliendo lo sguardo dagli occhi di quella bambina che mi narra cosa significhi avere un padre. Avrei fatto meglio a non chiederlo, continuando a pensare che fosse meglio così, senza di lui. Ora vorrei soltanto aver avuto la possibilità di conoscerlo davvero, perché il marito della zia è il miglior padre del mondo anche se io sono sempre stato restio nei suoi confronti, perché mio padre forse non sarebbe stato così male come invece ho sempre creduto.
«Papà dice che finché ci sarà lui non potrà mai succedermi niente, perché mamma e papà e zia Johanna e zio Haymitch... e il tuo papà hanno cambiato il mondo per noi». Giro il collo in sua direzione. Lo so, l'ho studiato. Hanno abolito di Hunger Games, hanno liberato di Distretti, hanno sofferto, ma hanno vinto. Sono tutti eroi di guerra e noi due siamo il loro seguito. «Il tuo papà, Junior, sarebbe stato il miglior papà del mondo insieme al mio». Mi sorride, la bambina, prendendo la mia mano nella sua. Tienimi la mano per un po'. Non c'è niente di male. «Mamma e papà hanno un libro, sai? È pieno di foto e disegni di papà . Sono bellissimi, anche se alcuni sono tristi. C'è anche una tua foto, di quando eri piccolo come Rye. E tanti disegni del tuo papà». Riprende a parlare, stringendo la mia mano più forte. Mi sta trainando lei, ora, sicura e senza paura. Libera ed indipendente, parlando di padri e di come il mio abbia fatto la differenza, in passato. Non sarebbe stata un padre cattivo, l'avrei amato, se soltanto fosse sopravvissuto.
«Vorrei vederlo... il libro». Sussurro, senza alzare lo sguardo dalla sua piccola mano che non riesce nemmeno a coprire del tutto la mia.
«Lo vedrai. Quando verrai nel 12 da me. Lo sfoglieremo insieme, Junior». Annuisco, trovandomi davanti il suo sorriso. Conoscerò mio padre un po' di più, quando terrò quel libro tra le mie mani. Lo vedrò, e forse comprenderò quanto fosse davvero un eroe. Mi terrai la mano anche allora, Willow?
Chiudo gli occhi, appoggiando la testa sulla roccia, senza lasciare la presa dalla mano della bimba. «Junior? Voglio tuffarmi». La sento, dopo qualche minuto, mentre mi pungola il bicipite con l'indice. Alzo lo sguardo verso il cielo. È tardi. Abbiamo fatto tardi, mi sono lasciato prendere la mano. La zia ci aspettava per l'ora di pranzo.
«Sì, un ultimo tuffo, poi torniamo a casa. Siamo in ritardo. La zia mi ucciderà». Dico, alzandomi in piedi.
«Tuffiamoci insieme, Junior». Stringe la presa sulla mia mano, alzando lo sguardo per guardarmi in viso. Non faccio altro che annuirle, oggi.
Intreccio le mie dita con le sue. «Al mio tre?»
«Uno... Due...» Comincia a contare, prima di prendere un respiro profondo e prepararsi al tuffo.
«Tre!» Esclamo, pochi attimi prima di gettarci nell'acqua fredda. Sento i nostri corpi andare a fondo e la guardo, aprendo gli occhi sotto la superficie dell'acqua. Tiene gli occhi serrati e le guance piene d'aria. Mi do una spinta, portandoci tutti e due a galla, stringendola contro il mio petto, per paura che non riesca a stare a galla.
«È fredda!» Urla, riprendendo fiato.
«Aggrappati che andiamo a riva». Rispondo, voltandomi di spalle. Lei non dice niente, questa volta, cinge il mio collo, appoggiando la testa su una mia spalla. È stanca, la bambina, dopo tutti i tuffi e le nuotate che si è fatta. Ma posso stringerle la mano, ora, ed aiutarla a tornare a riva. Bisogna saper riconoscere i propri limiti e questa nuotata è ancora troppo faticosa per lei, ma un giorno riuscirà a farcela da sola, proprio come ho fatto io.
Le porgo l'asciugamano che si arrotola lungo il corpo, mentre camminiamo per le vie del Distretto, con estranei che ci guardano e bisbigliano tra loro. La bambina cammina al mio fianco, con le braccia incrociate al petto, senza tenermi la mano, senza sentirne il bisogno. Anche se fosse necessario, se succedesse qualcosa sono a poca distanza da lei. Intreccia le sue dita con le mie, però, quando Shelley mi saluta, sbracciando da lontano. Corre, per raggiungerci, e Willow la guarda curiosa.
«Ciao! Sono Willow!» Le porge la mano libera, con il sorriso sulle labbra. Ha gli occhi un po' stanchi, la bambina, forse per le troppe ore passate sotto il sole.
«Shelley». Mi guarda, tirando un sorriso, a disagio. Mi chiudo nelle spalle continuando ad osservarla. Shelley è una brava ragazza, non giudica, vede con i propri occhi senza i fantasmi del passato. Mi piace, Shelley. È una buona amica.
«Shell, siamo in ritardo, la zia mi ucciderà se non porto la bambina a casa». Spingo Willow, e saluto Shelley con un cenno del capo.
«Sì, scusa. Ci vediamo presto, okay?» Annuisco, riprendendo a camminare, cercando di mantenere un passo lento e regolare. Non so il motivo, ma non volevo fermarmi, non volevo che mi vedesse con lei.
«Ti vergogni di me?» Alza lo sguardo, senza lasciarmi la mano.
«Perché dovrei?» Rispondo, osservando le case del Villaggio dei Vincitori. «Siamo in ritardo, mocciosa, poi la devo sentire io la ramanzina della zia, non tu». Continuo come giustificazione, che non è del tutto una bugia. Già la vedo, ad attenderci nel portico, una gamba che batte sul legno, impaziente, le braccia incrociate al petto.
«Bentornati, eh?!» Ci saluta subito, guardandomi storto.
«Abbiamo incontrato Shelley, zia. È un'amica di Junior...»
«Quella che ti corre dietro con la bava alla bocca?» Johanna accarezza i capelli di Willow prima di spingerla dentro casa.
«Non mi corre dietro... è soltanto una mia compagna di scuola».
«Sei stato troppo in compagnia di Katniss, tu. Sei un tardone come lei». Ride, Johanna, prendendomi in giro. Ma almeno, grazie alle parole di Willow, mi sono scampato una sgridata. Non avevo voglia di sentirla, non dopo questa giornata. Sono stanco anche io, non soltanto la bambina.
«Che significa che gli corre dietro con la bava?» Mi guarda, severa, senza che ne sappia il motivo. Non capisco perché ora dovrebbe essere arrabbiata per la battuta della zia.
«Zia?» La chiamo, attirando la sua attenzione. «Hai parlato tu, spieghi tu».
«Qui sono sempre io quella che deve spiegare le cose. Insegna a Katniss quello, sgrida Peeta per quell'altro, spiega a Willow, ad Annie, a Junior. Ma dove cazzo sareste senza di me, mi chiedo?» La bambina prende in mano le posate, cominciando a tagliare la fettina che le ha preparato Johanna. «Significa che Shelley è innamorata di Junior».
«Non può essere innamorata di Junior, perché non va bene per lui». Afferma, veloce e seria, portandosi il pezzo di carne alla bocca. Non capisco il motivo per il quale una bambina di sette anni dovrebbe decidere e dire chi va bene per me o meno, come se poi avessi davvero bisogno di qualche ragazza.
La zia sogghigna, appoggiando i gomiti sul tavolino e sporgendosi verso la bambina. «Ah, sì? E secondo te chi andrebbe bene per il nostro Junior?»
Sospiro, cominciando a mangiare. Johanna dovrebbe smetterla di divertirsi così. «Ovviamente io. Io vado bene per Junior».
Johanna si tiene la pancia per quanto ride, mentre tossisco, cercando di liberare la gola dall'ostruzione che quella mocciosa mi ha causato. Non può dire certe cose, in questa maniera, come se niente fosse. È una bambina che non capisce di avere a che fare con un adulto. «Sei spacciato...» Sento, ma ignoro tutto. Oggi è stata bene, l'ho fatta divertire, facendole sfidare le parole della zia che ci aveva proibito di andare alla vela. Siamo complici, adesso. Abbiamo un segreto in comune, si sente forte e libera, grazie a me. Lo dice solo per questo, è una bambina che mi vede come colui che l'ha aiutata, tutto qui. Tossisco ancora un po', liberandomi la bocca, continuando ad ascoltare la risata divertita della zia che mi prende in giro.
«Allora ti sei divertita, oggi, Willow».
La bimba annuisce, voltandosi verso di me. Distolgo veloce lo sguardo, tagliando un altro pezzo di carne, sperando, questa volta, di non strozzarmi. «Sì, zia. Voglio andare sempre al mare solo con Junior!»
E Johanna riprende a ridere, camminando per la cucina e borbottando che il marito di zia Katniss la ucciderà, ma ne sarà valsa la pena viste le risate che si è fatta. «Tale e quale al padre...» Sussurra, uscendo dalla stanza, lasciandomi di nuovo solo con lei, che continua ad esercitarsi a tagliare con il coltello, concentrata.
Non appena finiamo di mangiare, Willow si butta sul divano, vicino alla zia. Ha preso tanto sole sulla vela e Johanna non si esime dal farmi una ramanzina quando, sentendole la fronte, dice che le sia venuta la febbre.
«Junior, sei intelligente, mi sai dire perché non l'hai portata un po' all'ombra?» Non le posso dire che siamo stati allo scoglio, che l'ombra non c'era in quel versante, avendo il sole proprio dritto davanti a noi. Mi sono lasciato andare, mi sono fatto prendere la mano dai suoi racconti, dai tuffi e dalle sue risa, senza pensare che il sole così diretto potesse farle male. La zia sospira. «Domani state a casa, tutti e due». Annuisco, sentendomi in colpa. «E non nascondermi le cose, lo so che l'hai portata alla vela».
«Come lo sai?» Alzo lo sguardo, incontrando i suoi occhi. Sono sorpreso, dubbioso, che sia venuta a spiarci, ad un certo momento?
«Conosco i miei polli, Junior». Risponde, invece, scompigliandomi i capelli come è solita fare. «Ora vai a farti una doccia che puzzi di pesce». Si porta le dita sugli occhi massaggiandoli.
Salgo le scale, vedendola dormire con la bocca semiaperta, coperta dal lenzuolo. La conchiglia che le ho regalato è ancora sul tavolino basso, davanti a lei. Avrei dovuto stare più attento, essere più responsabile, questa mattina.
«Come ti senti?» Chiedo, sedendomi nella poltrona vicino al divano, appoggiando i gomiti sulle cosce.
Willow mi sorride, prima di sbadigliare. «Bene. Non sono mai stata meglio». Risponde, con la voce rauca e gli occhi stanchi.
«La zia me l'ha detto che hai la febbre, quindi non dire le bugie, mocciosa». Ridacchia, prima di negare con la testa.
«Ma sto bene, Junior. E poi non è colpa tua, sono io che volevo andare sullo scoglio, capito?» Chiude gli occhi, spostando la testa sul bracciolo del divano. «Non sentirti in colpa, non tutto succede per colpa tua». Sussurra, prima di piombare nel sonno e mi sembra quasi che la zia Katniss sia di nuovo qui, che dorme sul mio divano, serena e senza alcun pensiero. Le scosto una ciocca di capelli davanti al viso, sentendole mugugnare un «Papà». Deve amarlo davvero tanto, il padre. Non posso capire quanto sia affezionata a lui vista la mia situazione, ma questa bambina mi ha aiutato, questa stessa mattina, mi ha fatto capire, aprire gli occhi su quella figura che, fino a ieri, credevo fosse cattiva, sempre e comunque. Ed io non ho fatto altro che farla star male, senza pensare al fatto che non è abituata quanto me a stare sotto al sole.
«Mi dispiace, Willow». Sussurro, prima di portarmi in cucina per sgranocchiare qualcosa. Anche se lei ha cercato di confortarmi, io so di essere nel torto. Sono adulto, ormai. Avrei dovuto pensare che il sole, così caldo come oggi, potesse far male ad una bambina di sette anni.
Rimango tutto il pomeriggio fuori casa, senza dirigermi in spiaggia. Non posso andarci, non quando per colpa mia la bambina sta male. Sospiro, portando le braccia sotto la testa per osservare il cielo terso dalle nuvole, brillante, come gli occhi di Willow. Chiudo gli occhi, pensando che tra qualche giorno se ne andrà, zia Katniss tornerà a prenderla, ma avrà imparato ad essere più autonoma, grazie al nostro aiuto.
Rientro soltanto all'ora di cena, Willow continua a chiudere gli occhi, stanca ed assonata. Johanna le pulisce il pesce dalla pelle e dalle spine, senza chiederle di tagliare nulla e mi guarda, per una frazione secondo, la bambina, prima di giustificarsi. «La zia ha detto che visto che ho un po' di febbre, questa sera taglia lei». La voce e bassa ed ha perso la grinta che la distingueva questa mattina ed io cerco di accennare un sorriso, pulendo il mio pesce.
Poco prima di concludere la cena, il telefono squilla. «Sono mamma e papà, Willow». Si anima, la piccola, scendendo con un balzo dalla sedia e correndo verso il telefono.
«Papà?» Lo cerca subito e la sua espressione si rabbuia quando invece trova al telefono qualcun altro. «Ciao...» Sbuffa, prima di continuare a parlare. «È una cosa veloce? Perché mi deve chiamare il mio papà quindi il telefono deve essere libero, Shelley».
Johanna si porta una mano davanti alla bocca per non ridere e farsi sentire da tutti, io deglutisco l'acqua che stavo bevendo e raggiungo la bambina. «Passamela». Ordino, prendendo la cornetta tra le mani e portandomela all'orecchio. Non chiama mai, Shelley, eppure ha deciso di farlo oggi. Willow mi dà una piccola spinta, che non riesce nemmeno a spostarmi, prima di tornare a tavola con la faccia imbronciata.
«Shell, dimmi». Le dico, rimanendo in attesa.
«Volevo scambiare due parole, ma credo di aver beccato un brutto momento. Richiamerò, o ci vedremo, d'accordo?»
«Certo. Allora a presto». Chiudo la chiamata senza ascoltare la risposta, tornando a tavola soltanto per essere fulminato da quell'espressione così simile a quella di zia Katniss. Johanna ride sotto i baffi, scuotendo la testa.
«Ne vedremo delle belle. Oh, sì». Dice, sparecchiando.
Mia madre sorride alla piccola, accarezzandole il dorso della mano. «Junior, caro, devi trattare bene la piccola Willow, d'accordo? È fragile, lei».
Annuisco, più per farla contenta che altro, alzandomi in piedi. «Stasera dormi in camera tua, chiaro, Willow? Annie sa bene che non deve farti entrare».
«Mi dispiace, Willow...» Dice mia madre, alzandosi in piedi per dirigersi in camera sua.
Il labbro inferiore della bambina trema, ed il suo respiro si fa più pesante. «Non chiamano». Sussurra, chiudendo gli occhi. «Si sono dimenticati di me?» Alza lo sguardo per incontrare i miei occhi. Ti hanno abbandonata come mio padre ha fatto con me.
«No. Forse hanno trovato occupato. Richiameranno tra poco. Vero, zia?»
«Ma ti pare che tuo padre e tua madre non ti chiamino?» Parla, continuando a lavare i piatti. «Hanno trovato occupato o tuo fratello sta facendo i capricci e quindi tardano a chiamare. Stai tranquilla, Willow».
«Mi mancano. Voglio mamma e papà. Voglio che papà mi abbracci». Le lacrime cominciano a scendere lungo le sue guance, anche se aveva cercato di trattenerle il più a lungo possibile, singhiozzando. Le asciuga, lesta. «Non si piange».
Mi alzo in piedi, raggiungendo ancora una volta il telefono. «Che fai, Junior?»
«Possiamo anche chiamare, oltre che ricevere». Rispondo, componendo il numero di casa di zia Katniss. «Peeta? C'è tua figlia che aspetta la tua chiamata, quanto vorresti farla aspettare? Sta piangendo... e vuole parlarti». Lo attacco, senza nemmeno dargli il tempo di giustificarsi in qualche modo.
«Grazie, Junior. Passami Willow». La sua voce è calma, come se non fosse successo niente. Mi domando se l'abbia dimenticata davvero. In sottofondo sento la voce di zia Katniss pronunciare il nome della figlia, preoccupata ed un «Perché hanno chiamato loro?»
La bambina, di già al mio fianco, tende il braccio in alto per prendere la cornetta e piange, senza riuscire a trattenersi, quando sente la voce del padre dall'altro lato. «Mi manchi papà! Quanto torni? Voglio il mio papà!»
Johanna mi guarda camminare verso di lei, divertita da ciò che ho appena fatto. «I Mellark... riescono sempre a far sciogliere tutti». Alza le spalle, riprendendo ad asciugare la pentola.
«Sono stata al mare, papà. Mi sono divertita tanto, il castello che ho fatto ieri, oggi non c'era più. Mi è dispiaciuto, ma Junior mi ha detto che la sabbia appartiene al mare, quindi le onde l'hanno riportata a casa e poi siamo andati sullo scoglio. È stato bellissimo, ho fatto i tuffi e... papà? Devi dipingerla, la vela. È bellissima!» Gli parla, e addio segreto. Spero soltanto che non se la prenda con lei, il padre. «No. Mi ha portato Junior, sullo scoglio e a riva. Sei arrabbiato? Ah! Bene. Sì, io mi sono divertita tantissimo, ma mi manchi, papà. Ti voglio bene anche io. Sei il papà migliore del mondo!»
«Quindi la sabbia appartiene al mare, eh?!» La zia ride, oggi non fa altro. Scuoto la testa, sospirando. Non vedo l'ora di andare a dormire, forse anche io ho preso un'insolazione, in qualche modo.
Willow si intrattiene al telefono anche con la madre, senza accennare alla vela, o alla febbre. Si apre di più con il padre, la bambina, è più legata a Peeta, la figura che la protegge e la consiglia. Mi ritornano alla mente le parole di questa mattina, quando mi ha parlato del significato di avere un padre. Si è già ripresa, lei, e ride con la mamma, chiedendole di zio Haymitch, e delle oche.
Quando chiude il telefono, corre di nuovo in cucina, buttandomi le braccia intorno al collo. Si sta prendendo un po' troppe libertà, la mocciosa. «Grazie, Junior, per avermi fatto sentire papà».
È disarmante. Più rimango in sua compagnia, più questa bambina mi disarma. Non è per niente come la zia.
Johanna le prova la febbre, che si è abbassata da oggi pomeriggio, e poi la porta a dormire. «E dormi qui, chiaro?» La bambina annuisce, ma non ci mette troppo e dopo neanche un'ora sta già aprendo la porta della mia camera.
«Non dovevi dormire in camera tua?» Mi volto verso di lei, incontrando il suo sorriso.
Guarda i suoi piedi scalzi, per essere più silenziosa nei movimenti e chiude la porta alle sue spalle, cercando di non farsi sentire da nessuno. «Sarà un nostro segreto, Junior».
«Come se riuscissi a tenere la bocca chiusa, a tuo padre sei subito andata a dire dello scoglio, oggi».
Rotea gli occhi, la mocciosa, sbuffando. «Ma io e mio papà ci diciamo tutto tutto. Non abbiamo segreti, noi due». Risponde, salendo sul letto, senza scostare le coperte.
«Non puoi stare qui, mocciosa. Come non ti ho voluta ieri, non ti voglio oggi». Affermo, dandole una piccola spinta, per farla scendere.
«Ma ieri non era oggi. Ed oggi siamo stati tanto insieme, Junior. Io voglio dormire con te». Sorride, languida, con gli occhi di una bambina che cerca di fare compassione. Mi ha spiazzato, anche questa volta con questa sua capacità di dire tutto ciò che le passa per la testa.
«Io no». Rispondo, alzandomi in piedi, stringendole il polso. Non ti sto stringendo la mano per un motivo. Apro la porta, riportandola nella camera degli ospiti.
«Sei cattivo!» Esclama, prendendo le coperte e buttandole a terra, con irritazione. «Non voglio dormire da sola! Non voglio! Voglio papà che mi abbraccia!»
«Mocciosa, non fare la bambina frignona, abbraccia un cuscino se proprio vuoi abbracciare qualcosa».
«No!» Batte un piede a terra, nervosa, mettendo su il broncio della madre, dicendo così addio agli occhi dolci ed al sorriso che aveva cercato di fare prima. Sospiro, pensando alla febbre che le è venuta per colpa mia, alla sua pelle bruciata per essere stato così stupido da mantenerla sotto il sole per troppo tempo.
Sospiro ancora una volta, prima di parlare. «D'accordo...» Mi arrendo, mettendomi a fare quel letto ormai distrutto.
«Resti con me?» Il suo viso si illumina, sgusciando sotto le coperte appena messe.
«Resto finché non ti addormenti, d'accordo?» È colpa mia se sta male e se posso aiutarla, un pochino, a sentirsi meglio, credo che debba poterlo fare. Non mi sto facendo comandare da una mocciosa, sto soltanto ripagando il male che le ho fatto.
«Meglio di niente...» Sussurra, scostando le coperte per farmi posto e battendo il palmo sul materasso.
Sbuffo, distendendomi al suo fianco. Allungo un braccio che Willow utilizza come cuscino e guida la mia altra mano lungo il fianco, appoggia la fronte contro il mio petto, chiudendo gli occhi. «Non hai l'odore buono di papà, ma mi piace lo stesso. Sai di mare». Si sposta un po', cercando una posizione comoda, e si lascia andare al sonno. I capelli le ricadono davanti al viso, incorniciandole il naso, apre un po' le labbra, quando si addormenta, bagnandomi la maglia del pigiama. Osservo il suo torace alzarsi ed abbassarsi, respirando in modo regolare. La mia mano si sposta, lasciando il luogo dove ha voluto che si posasse, per spostarle i capelli scuri, portandoli dietro alla spalla. Sai di mare.. Continuo a guardarla dormire per un po' – per essere sicuro che sia davvero addormentata – prima di sgusciare fuori dal letto, tornando nella mia stanza. E tu sai di Willow. Penso, coprendomi con il lenzuolo. Non ha un vero odore, la bambina, sa di lei e basta.



* Ringraziamo radioactive che ci ha promptate, chiedendoci di scrivere di JJ che chiede come sia avere un papà.




Note di fine capitolo:
Buonsalveh! ♥
Siamo arrivati al quinto capitolo della nostra adoVatah Aquamarine ♥
Queste sono delle note un po' speciali, atte a comunicarvi che abbiamo aperto un nostro archivio, dedicato alle fanfiction della serie Colors. \o/ *squilli di trombe* Su Colors Fanfic troverete tutte le storie che appartengono a questa serie, nonché - surprise - l'anteprima dei capitoli di Aquamarine.
Aggiorneremo sempre prima l'archivio e poi Efp, quindi, se siete delle/degli instancabili curiosi :'D clickate, clickate, clickate!
Ringraziamo come sempre chi ci segue, leggendo, commentando, seguendo, ricordando e preferendo le nostre storie... siete cuorih! ♥


Ringraziamenti:
Come per ogni nostra fanfiction, non possiamo esimerci dal ringraziare tutte le persone che ci sono state vicine nella stesura della storia, quelle persone che, in qualche modo, hanno contribuito a rendere Aqua la storia che è, quindi i nostri ringraziamenti più sentiti vanno a:
radioactive che non solo ha creato per noi questo fantastico banner – e non ci stancheremo mai di dire che è una grafica nata – ma che ci ha promptate, aiutate, ispirate e che è la persona che più ci ha aiutate e spronate a scrivere Aqua. Questa fanfiction è anche sua;
_eco che ci ha fatto immaginare un incontro tra JJ e Will;
gabryweasley che ci ha seguite sin dall’inizio, amando Aqua tanto quanto noi. Che ci chiedeva di passarle i pezzi e li leggeva dicendoci sempre cosa ne pensasse.
Se amiamo tanto Aquamarine è anche merito loro ♥ Grazie per tutto, vi amiamo! ♥


Veniteh a fare le bolleh d'Assenzioh con noi nel gruppoh Facebook gestito dalla nostra meravigliosah famiglia disfunzionale ♥ A Panda piace fare le bolle d'assenzio [EFPfanfic]
Abbiamo apertoh anche una pagina Facebook dedicatah a questa serie, doveh potreteh farci qualsiasi domanda su questa raccoltah, seguire tutti gli aggiornamentih, salutareh Finnickinoh che ballah nella p0rn Narnia e devolvere zolletteh alla sua causah ♥ Vi aspettiamoh numerosih ♥ Colors.

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***





VI.




I giorni si susseguono simili, Willow ha imparato ad utilizzare bene il coltello ed andiamo al mare con la zia e mia madre. Non stringe più nessuna mano, camminando per le vie del Distretto, ed ha smesso di fare i capricci per dormire con qualcuno di noi. Dice che quando arriverà il padre, però, dormirà stretta a lui, sentendone di nuovo l'odore ed il profumo delle tempere e lo porterà alla vela. È migliorata anche con il nuoto, non riesce ancora ad arrivare allo scoglio, stancandosi prima, ma si sta avvicinando sempre di più.
«Prima di tornare a casa, Junior, voglio riuscire ad arrivare da sola allo scoglio». Mi dice, togliendosi le scarpe ed osservando il masso davanti a lei. La sta cercando da sola, ora, la libertà.
«Allora buttati, mocciosa». Rispondo, anticipandola per tuffarmi nell'oceano. Da quando è qui non ho più sentito il bisogno di fuggire. Lo farò prima o poi, andrò al largo, scomparendo oltre l'orizzonte, da solo. Ma non adesso, adesso c'è qualcuno che ha bisogno di me, per non annegare, per cercare la propria indipendenza
.
Oggi è l'ultimo giorno. I suoi genitori arriveranno con il treno del pomeriggio e non appena mette i piedi sulla sabbia, scappa verso l'acqua, tuffandosi senza paura. Non mi aspetta, non più. Non cerca la mia mano o la mia schiena. Si butta, e muove veloce le gambe per darsi la giusta spinta. Ha soltanto oggi per riuscire ad arrivare alla vela da sola e, testarda com'è, ci riuscirà senza problemi.
«Mocciosa! Aspettami!» Urlo, sebbene non senta. Mi tuffo, inseguendola e ride, quando la raggiungo, prendendomi in giro su quanto io sia lento.
La zia scandisce il tempo, sbracciando dalla riva quando dobbiamo tornare per farla riposare un po' al sole. La vela era il mio posto, dove venivo a pensare, da solo, eppure non mi dà fastidio la presenza della bambina, con le sue risa ed i suoi racconti su qualche oca strampalata di nome Katniss. «C'è sempre un'oca che si chiama come la mamma. Sempre». Mi dice, prima di tuffarsi nel mare per tornare a riva.
Torniamo a casa per l'ora di pranzo e la bambina non fa altro se non giocare in giardino, correndo avanti ed indietro, in attesa. Ha le guance arrossate per la corsa, quando si siede al mio fianco, osservando la strada che porta al Villaggio dei Vincitori. Sospira ogni volta che vede passare qualcuno che non siano i suoi genitori.
«Papà!» Urla, sfrecciando in piedi e correndo quanto più veloce possibile, aprendo le braccia quando gli arriva davanti, per farsi sollevare dal padre. Lo stringe forte, prima di allungarsi verso zia Katniss e scoccarle un bacio sulla guancia. Si fa portare in braccio sino a casa, senza riuscire a staccarsi da lui.
«Ciao, Junior». Mi saluta la zia, più rilassata dell'ultima volta che l'ho vista. Mi alzo in piedi, abbracciandola e salutando anche il moccioso tra le sue braccia.
«Sono stata bravissima! Vero o falso, Junior?» Mi guarda, la piccola ed annuisco. Tralasciando di dire che all'inizio faceva un po' troppi capricci per i miei gusti, ma che, in fondo, è una brava mocciosa. Ora che ho davanti sua padre, noto con maggior facilità le loro similitudini. A parte il colore degli occhi, hanno lo stesso sorriso e la stessa fronte. Peeta le bacia la fronte, prima di lasciarla a terra.
Li accompagno dentro casa, aiutando il marito della zia a portare al piano superiore i bagagli, non parlo molto. Guardo il movimento delle sue gambe, di cui una artificiale, e le cicatrici sui polsi che non tenta nemmeno di coprire.
«Ne ho tante altre di cicatrici, Junior».
Alzo lo sguardo verso di lui, preso in contropiede. Annuisco, senza sapere bene cosa dire. Mio padre è morto, zia Katniss è stata presa dal fuoco delle bombe, le stesse che hanno ucciso la sorella, e lui è stato torturato insieme a Johanna, modificandogli persino i ricordi. Depistaggio, c'era scritto nel libro di testo. Ho studiato tutti loro, ed ora sono tutti a casa mia. Non mi soffermo mai a pensare che vengono considerati davvero eroi di guerra. «Papà dice che finché ci sarà lui non potrà mai succedermi niente, perché mamma e papà e zia Johanna e zio Haymitch... e il tuo papà hanno cambiato il mondo per noi» Hanno lottato per la libertà, ed ora Peeta sta combattendo per farla raggiungere anche alla figlia.
«Questa mattina, tua figlia è arrivata alla vela da sola. Vorrebbe portartici, oggi pomeriggio». Dico, chiudendo la porta alle mie spalle e seguendolo al piano inferiore.
«Non credo di essere così in gamba per riuscirci ad arrivare».
«Per la gamba artificiale?»
«No. Perché non sono bravo a nuotare. Ho imparato, ma non mi trovo a mio agio nell'acqua». Risponde sorridendo e senza distogliere lo sguardo dal mio. «Tuo padre mi ha salvato, quando ancora non sapevo nuotare, lo sapevi?»
Nego con la testa, abbassando lo sguardo. Io non so niente di mio padre, non ho mai voluto sapere nulla e, persino ora, mi dà fastidio che si parli di lui.
«Willow mi ha detto che ti ha parlato del libro, prima della fine delle vacanze estive verrai nel 12 e lo potrai leggere». Raggiungiamo gli altri, sedendoci sul divano. La bambina si accoccola subito sulle gambe del padre, appoggiando la testa al suo petto. La zia è lì a fianco, e non appena Peeta appoggia la schiena, la sua guancia trova la spalla del marito, continuando ad accarezzare i riccioli biondi del moccioso che dovrebbe chiamarsi Rye.
Zia Katniss non perde mai la cognizione con il mondo circostante, come invece è già successo più volte a mia madre, e mi domando se sia dato dal fatto che si stringe al marito che sorride e l'accarezza, la bacia, di tanto in tanto, con uno sguardo che non ho mai visto addosso a nessuno. Né a zia Jo, né a mia madre. Anche mio padre guardava la mamma così?
Trascorriamo il resto del pomeriggio ad ascoltare Willow parlare della sua permanenza qui nel 4, dei giochi, e dei castelli con i fossati che vengono portati via durante la notte perché il loro posto è il mare. La bambina mi guarda spesso, cercando di farmi parlare.
«Vi assicuro che parla di più, di solito». Ridono tutti, persino mia madre, tranne me, che rimango chiuso nella mia bolla, ad osservare come sia davvero una famiglia composta da veri genitori.
«Mi aiuti a cucinare, Junior?» Alzo lo sguardo, quando Peeta comincia a dirigersi verso la cucina, vedo Willow con la coda dell'occhio – ora seduta al fianco della madre – che annuisce, guardandomi.
«Arrivo». Sconfitto, seguo il marito della zia. Comincia subito a darmi ordini, dicendo come debba montare le uova per fare un tipo di dolce che piace tanto alla bambina e che piacerà sicuramente anche a me.
Rimaniamo da soli, parlando all'inizio del più e del meno. È simpatico, Peeta. O almeno così sembra. Sorride sempre accondiscendente, ma credo lo faccia perché è nel suo carattere e non per prendere in giro.
«Bisogna trovare il bello nelle piccole cose, Junior. Io l'ho fatto. Ho Katniss ed i miei bambini e ci proteggiamo a vicenda». Afferma, ad un certo punto, mettendo quella che sarà la base del dolce nel forno. «Divertirsi nel costruire castelli di sabbia, tuffarsi da uno scoglio, parlare e stare in compagnia». Fa una pausa, voltandosi verso di me. «Non è sempre semplice, ma a volte è importante avere la forza di appoggiarsi a qualcuno. Questo è un discorso che avrebbe potuto farti tuo padre, se fosse ancora qui. Lui lo faceva, trovava il bello in ogni cosa, persino in una zolletta di zucchero da dare ai cavalli». Ricomincia a girare il sugo, versandoci del vino e rimango in silenzio, senza riuscire a muovere un muscolo. Non mi aspettavo un discorso del genere, non da lui. Non ora. «Ora prepariamo la glassa, Junior».
Annuisco, prendendo la frusta tra le mani, ignorando tutte le parole precedenti. Seguo i suoi movimenti, cercando di imitarlo.
Almeno uno di noi ha un padre.
Continuo a seguire le sue istruzioni, aiutandolo a muoversi per la cucina. Non parliamo più molto, ma non ne sento la mancanza. Peeta ha il potere di disarmarmi, proprio come sua figlia. E capisco il commento di zia Johanna, quando disse che Willow fosse tutto suo padre. Hanno lo stesso modo di porsi e di parlare, spiazzando tutti.
«Cosa cucini, papà?» La bambina sale sulla sedia, appoggiando i gomiti sul tavolo per cercare di vedere i fornelli del gas.
«Sugo di pesce ed il tuo dolce preferito».
«Mettici tanta cioccolata!» Esclama, felice.
«Metterò solo cioccolata, va bene?» Si volta, per sorriderle e raggiungerla per darle un bacio sulla guancia.
«Me lo chiedi? Più cioccolata c'è e meglio è!» Fa una pausa, sedendosi sulla sedia in modo composto, questa volta. «Papà, farai la torta tutta di cioccolato anche al mio matrimonio con Junior? Ho deciso che quando sarò grande, lo sposerò, come tu sei sposato con mamma».
Chiudo gli occhi, scuotendo la testa, sperando che il marito della zia non mi uccida seduta stante. Potrebbe farlo, da come ne parla zia Johanna.
«L'ho portata allo scogl-»
«Non ti conviene parlare ora, Junior». Mi blocca, continuando a sorridere, calmo, stringendo forte la spalliera della sedia davanti a lui. Ha le nocche completamente bianche e le unghie conficcate nel legno.
Annuisco, rimanendo in silenzio, sentendo il sugo cominciare a bollire ed il respiro di Peeta pesante. «Willow, tesoro, Junior è troppo grande per te, non credi?» Domanda, ad un certo punto, spegnendo il gas dietro di lui e facendomi assistere a quella insana discussione. Come se io potessi davvero interessarmi ad una mocciosa come lei e lei dicesse per davvero. È soltanto una bambina che ha preso una cotta infantile verso la persona che ha dovuto farle da tutore, che l'ha portata allo scoglio anche se non avrebbe dovuto.
La bimba sembra pensarci un attimo, poi scuote la testa, sorridente. «No. Non è troppo grande, la sua risata è come l'oceano ed io sono la sua sabbia».
Tossisco, imbarazzato per tutto ciò che si sta dicendo. Peeta sembra davvero in ansia per le confessioni che la piccola sta facendo. Lo guarda con i suoi occhi azzurri, aspettandosi una risposta seria da parte sua, quando niente lo può essere davvero. È soltanto una bambina di sette anni che non comprende quello che sta dicendo.
«Se mai ti sposerai, farò qualsiasi torta tu desideri, tesoro». Le risponde, infine, accennando un sorriso.
«Te l'ho detto, mi sposerò con Junior, se tu mi dai il permesso, perché io vado bene per lui». Sorride ancora una volta, prima di scappare in sala, dalla madre e dalle zie, lasciandomi da solo con una padre che è bravo ad uccidere.
Schiocca la lingua sul palato, Peeta, prima di voltarsi e gettare la pasta dentro l'acqua bollente.
«È una bambina...» Dico, a mo' di giustificazione, dando il giusto peso a quelle parole al vento.
«Già, è solo una bambina, ancora...» Risponde lui, senza guardarmi, senza alcun sorriso accondiscendente sul volto.
Quando ci mettiamo a tavola, l'aria sembra un po' più leggera. Non si parla più di futuri matrimoni che non succederanno mai, di pensieri di una bambina che ha trascorso una settimana divertente, imparando ad essere più indipendente.
«Mamma, guardami!» Esclama, Willow, prendendo il coltello tra le mani e tagliando gli spaghetti del suo piatto. «Ora non c'è più bisogno che tu o papà mi tagliate la carne!»
«Sei bravissima, Will». Sorride, zia Katniss, accarezzandole una guancia, ma è spenta. Sembra quasi il sorriso di mia madre, quando immagina mio padre vicino a lei, forse, o qualcosa del genere. Un sorriso che sembra lontano, forzato, e fantasma. «Però stai attenta a non farti male, okay?»
La bambina ride. «No, è semplice. Tranquilla, mamma». Le schiocca un bacio sulla fronte, prima di rimettersi a mangiare. «E poi Junior mi ha insegnato a nuotare bene. Sono diventata bravissima, vero o falso, Junior?»
«Vero». Rispondo, senza riuscire a comprendere del tutto il gioco che fa ogni volta che i suoi genitori sono presenti. Sento lo sguardo di Peeta su di me, poi su sua figlia. Mi guarda, la piccola, convinta ancora delle parole che ha detto poco prima di cena. Non so come si comporterebbe un padre in una situazione del genere, forse come Peeta, forse in modo differente, ma trovo esagerata tutta questa preoccupazione. Quando tornerà nel 12, Willow conoscerà un bambino della sua età e dirà le medesime parole.
«Buonanotte, Junior. Stasera dormo con papà!» Mi saluta, felice, seguendo il padre dentro la stanza.
«Notte, Junior». Mi sorride, ora, prima di richiudere la porta della stanza degli ospiti, scomparendo alla vista.
Mi distendo nel letto, rigirandomi più volte. Ho preso l'abitudine di cercare di non dormire subito, attendendo la bambina che mi chiede di dormire nel mio letto, ed il mio rifiuto già pronto sulle labbra, ma questa sera è diverso, questa notte ha suo padre e può dormire abbracciata a lui, come voleva da quando è arrivata.
«Buongiorno». Dico, entrando in cucina, mentre mi stiracchio la schiena. Non sono abituato ad avere la casa così piena di gente, tante voce e risa.
Willow sta tagliando i suoi pancake, con zia Katniss che controlla che non si faccia male, Peeta è ancora ai fornelli con il grembiule che la zia gli ha acquistato. Mi siedo, poco prima di vedere il piatto stracolmo di cibo, preparato dal marito della zia. «Grazie».
«Buongiorno, Junior caro». Guardo la bambina, prima di sospirare. Continua con quel gioco che ha messo in piedi ieri sera, ma sono ancora troppo assonnato per dire o fare qualcosa. Non mi interessa nulla, vorrei soltanto tornare a dormire.
«Sono ottimi, Peeta». Affermo, portandomi alla bocca un altro boccone. «Non duri e croccanti come quelli di zia Johanna».
«Ehy! Ringrazia il cielo che qualcuno ti prepari la colazione, la mattina. Saresti capace di non mangiare nulla, se non ci fossi io ad imboccarti! Ma guarda te quanto sono ingrati».
Guardo la zia, cominciando a ridere. «Non credevo fossi così permalosa, zia. Ti dà fastidio essere battuta da un uomo?»
«Come se potesse fregarmene qualcosa». Risponde, con la bocca ancora piena. «E comunque abbiamo deciso... ho deciso... che parti per il 12 tra tre settimane, e starai lì... tre settimane. Almeno me la godo un po' senza mocciosi tra i piedi». Mi punta la forchetta contro, con sguardo assassino.
«Che bello! Junior, andremo nel bosco e ti porterò al lago. Non ci sono vele, ma possiamo continuare a nuotare insieme!» Sorride sorniona, Willow. «Farò il programma... vedrai che ci divertiremo tantissimo!»
«Willow, sei pronta? Abbiamo il treno tra un'ora». Peeta si alza, cominciando a sparecchiare. «Prendi tutte le tue cose».
«Devo solo prendere la conchiglia che mi ha regalato Junior. Lo sapevi che se ti porti una conchiglia all'orecchio senti il rumore del mare?» La bambina scende dalla sedia con un balzo, correndo in sala per prendere il mio regalo, fatto soltanto per farle smettere di piangere, così da porgerlo al padre. «È il regalo più bello di sempre...» Afferma, facendomi quasi strozzare con l'ultimo boccone di colazione, dopo aver intercettato lo sguardo del padre.
Zia Johanna li accompagnerà alla stazione, aiutando Peeta a portare i bagagli. Zia Katniss continua a stringere il moccioso tra le sue braccia, deponendogli baci sul viso, di tanto in tanto, ed il bimbo la cerca, dipendente, stringendole il collo o giocando con la treccia.
Anche tu cercherai la libertà. Penso, guardando quel quadretto che, a distanza di una settimana, vedo con altri occhi. Siamo tutti normali, qui. Esattamente come me.
Abbraccio zia Katniss, dandole un bacio sulla guancia, dicendole quanto le voglia bene. È vero, è la più assoluta verità. Posso vedere la paura nei suoi occhi, ora, ma continuerò a volerle bene sempre e comunque, come non riesco a chiudere fuori mia madre, sperando sempre che una mattina apra gli occhi e veda me.
Stringo la mano di Peeta ed incontro il sorriso che è tornato sul suo viso. Mi sento più tranquillo, ora che non è più inquieto, come ieri, come durante la colazione. «Ci vediamo tra tre settimane, allora, Junior». Il suo sorriso si allarga ed io annuisco, come un automa.
Oggi pomeriggio andrò al mare, nuoterò verso il largo, senza nessuno che mi stringa la mano in nessuno scoglio, tuffandomi senza attendere alcun tre. Solo e libero, senza alcun bisogno di ascoltare come ci si sente nell'avere un padre che ti abbraccia e consiglia. Senza la mocciosa sulle spalle, che stringe il mio collo ed influenza con la sua risata cristallina.
Non stringetela troppo forte, le fareste male.
Mi allontano, salendo i gradini del portico per entrare in casa, ma la sua voce bassa mi chiama. «Junior?» I suoi occhi sono lucidi ed il labbro inferiore trema. In questa settimana ho avuto modo di conoscerla e so che preso le lacrime le bagneranno le guance, che asciugherà lesta in un movimenti involontari, nascondendo la sua debolezza.
«Che vuoi, mocciosa?»
Le sue spalle tremano, prima di correre verso di me, salendo i gradini a due a due. «Junior!» Esclama, cingendo la mia vita in un abbraccio. È bassa, la mocciosa, non riuscirebbe mai ad abbracciarmi davvero se non sono seduto o chinato alla sua altezza. «Junior, mi piaci, ti voglio bene». Singhiozza, aumentando la presa sul mio corpo. «Grazie per avermi fatta divertire tanto». Continua e mi sento uno stupido che non sa come comportarsi. Le do alcune pacche delicate sulla testa, sperando che si scosti da me, senza risultato. Ci stanno osservando tutti: mia madre, le zie, Peeta, il cui sorriso è scomparso di nuovo.
«Willow, dobbiamo andare».
Annuisce, sentendo la voce del padre, dura. Si passa il dorso delle mano sul viso, prima di scostarsi da me. «Voglio darti un bacio, ma sei ancora troppo alto per me. Vedrai, Junior, crescerò e riuscirò a darti un bacio». Ritorna a stringermi la vita, e rimango spiazzato dalle sue parole, dette con la sua solita semplicità. E mi rendo conto che per tre settimane, la casa sarà assente dal suo chiacchierare, dal modo in cui cercava sempre di alleggerire qualsiasi situazione. Ricominceranno le cene in silenzio, con la mamma che si perde nel suo mondo ed io che penso ad un modo per scappare.
«Ci rivedremo, mocciosa». Dico, prima di vederla correre vicino al padre.
Cammina all'indietro, salutandoci e persino mia madre ha il sorriso sulle labbra, muovendo la sua mano nell'aria. Il padre le accarezza i capelli, dicendole qualcosa. Ci guarda ancora una volta, urlando un ciao e si gira, continuando a camminare tra il padre e la madre, con le braccia lungo i fianchi, senza sentire la necessità di stringere nessuna mano.




Note di fine capitolo:
Buonsalveh! ♥
Ricordiamo che su Colors Fanfic troverete tutte le storie che appartengono a questa serie, nonché il settimo capitolo in anteprima di Aquamarine.
Ringraziamo come sempre chi ci segue, leggendo, commentando, seguendo, ricordando e preferendo le nostre storie... siete cuorih! ♥


Ringraziamenti:
Come per ogni nostra fanfiction, non possiamo esimerci dal ringraziare tutte le persone che ci sono state vicine nella stesura della storia, quelle persone che, in qualche modo, hanno contribuito a rendere Aqua la storia che è, quindi i nostri ringraziamenti più sentiti vanno a:
radioactive che non solo ha creato per noi questo fantastico banner – e non ci stancheremo mai di dire che è una grafica nata – ma che ci ha promptate, aiutate, ispirate e che è la persona che più ci ha aiutate e spronate a scrivere Aqua. Questa fanfiction è anche sua;
_eco che ci ha fatto immaginare un incontro tra JJ e Will;
gabryweasley che ci ha seguite sin dall’inizio, amando Aqua tanto quanto noi. Che ci chiedeva di passarle i pezzi e li leggeva dicendoci sempre cosa ne pensasse.
Se amiamo tanto Aquamarine è anche merito loro ♥ Grazie per tutto, vi amiamo! ♥


Veniteh a fare le bolleh d'Assenzioh con noi nel gruppoh Facebook gestito dalla nostra meravigliosah famiglia disfunzionale ♥ A Panda piace fare le bolle d'assenzio [EFPfanfic]
Abbiamo apertoh anche una pagina Facebook dedicatah a questa serie, doveh potreteh farci qualsiasi domanda su questa raccoltah, seguire tutti gli aggiornamentih, salutareh Finnickinoh che ballah nella p0rn Narnia e devolvere zolletteh alla sua causah ♥ Vi aspettiamoh numerosih ♥ Colors.

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***





VII.




Non c'è il mare qui nel Distretto 12. Mi sveglio, la mattina, in un letto che non mi appartiene, con l'odore di carbone che aleggia nell'aria, così diverso da quello della salsedine di casa mia. Non c'è sabbia, tra le assi del pavimento di questa casa.
È strano stare qui da più di una settimana, svegliarsi senza la voce di zia Johanna e gli occhi vitrei di mia madre, persa nel suo mondo. Con una bambina che corre, non appena sente che il mio piede batte a terra, per salutarmi. E non appena mi siedo sulla sedia, in quella cucina più ampia, la piccola si sporge.
«Buongiorno, Junior».
Peeta, davanti a me, socchiude gli occhi, osservando Willow sorridere, con le labbra sulla mia guancia.
«Buongiorno, Junior!» Esclama, seduta sulle proprie ginocchia, sopra il letto che mi ospiterà per queste tre settimane.
Sospiro, stiracchiandomi la schiena. «'Giorno...» Vorrei potermi svegliare in pace.
Continua a sorridere, facendo scorrere quegli occhi azzurro cielo sul mio viso. «Sai... il papà saluta sempre la mamma la mattina». Dice, appoggiando i palmi sulle mie gambe, avvicinandosi.
Inarco un sopracciglio, ancora troppo assonnato per riuscire a trovare una risposta, che sarebbe soltanto un: «Quindi?»
Gattona sul mio letto, e schiudo gli occhi sentendo le labbra della bambina sulla mia guancia. «Che fai, mocciosa?» È diventata la mia domanda di routine. Ogni cosa che fa ha sempre il potere di lasciarmi senza fiato con quell'innocenza che la contraddistingue.
«Ti do il buongiorno come papà fa con la mamma, perché ti voglio bene e quando si vuole bene a qualcuno si fa così».

Non sono mai riuscito a farla smettere. I miei rifiuti, su come non voglio essere baciato da una mocciosa come lei, non sono serviti a nulla, né gli sguardi torvi di Peeta. Più diretti a me, che non alla sua bambina. Come se io c'entrassi qualcosa.
«Non dovresti, Willow». Dice, zia Katniss tagliando il pancake del moccioso.
«Perché no? Io gli do il bacio del buongiorno a papà! Ed anche tu».
«Ma papà è papà... Junior è...» Si blocca, guardandomi. «Non dovresti e basta».
Willow fa girare la forchetta tra le dita, pensierosa. Alza le spalle, stringendo il coltello tra le dita cominciando a tagliare la sua colazione. «Allora nemmeno tu, papà, dovresti dare il bacio del buongiorno a mamma».
Rimango in silenzio, sentendomi un estraneo in questa casa. Più tardi andrò a farmi una passeggiata nel bosco, tuffandomi nel lago. Non c'è nessuno scoglio, in mezzo all'acqua, non c'è la sabbia che si insidia tra le mie dita e non c'è la bambina che mi chiede di voler raggiungere la vela da sola. Persino i riflessi sono diversi da quelli del 4, più verdi, rubando il colore degli alberi intorno che si riflettono sulla superficie.
«Questa mattina non devo andare al Palazzo di giustizia, Katniss». Ignora il discorso precedente, Peeta, cercando di spostare l'attenzione altrove.
«Andrò a caccia, allora».
«Junior, mi porti al lago?» Domanda, la bambina, prendendo la mia mano tra la sua.
La scosto, veloce, stringendo le posate.
Non rispondo, cercando lo sguardo di Peeta per sapere cosa debba fare. Non avrei problemi a portarla con me, io. Sarebbe come portarla al mare del Distretto 4. «Ci andremo tutti insieme, allora». Sorride, il padre, allungandosi lungo il tavolo per accarezzare i capelli della bimba. Lei annuisce, felice. E sembra quasi che lei abbia il potere di modificare l'umore delle persone. Non c'è più alcun alone grigio intorno a questo tavolo, nessun rimprovero per baci dati e non voluti. C'è soltanto una famiglia che sorride, osservando il viso di una bambina dai capelli scuri e gli occhi chiari.
«Junior e papà insieme!»
«Junior e papà insieme». Ripete il moccioso con voce greve, guardandomi truce e sembra quasi che sia una sorta di minaccia. Sono ospite in casa Mellark da più di una settimana e a volte sembra quasi che me ne dimentichi quando trascorro la sera sul divano con la zia, o quando Peeta mi ha insegnato a giocare a scacchi, affermando che alla mia età già ne fosse in grado.
«Non sai giocare a scacchi?» Domanda, posizionando la scacchiera sul tavolo. «Vieni qui che ti insegno».
Katniss ci guarda per un momento. Me e Peeta, uno seduto davanti all'altro, mentre rigiro tra le mani la regina nera. Scuote la testa, voltandoci le spalle, prima di correre nell'altra stanza.
«Che ha?» Domando, imitando i suoi movimenti per sistemare tutti i pedoni.
«Vecchi ricordi che tornano all'improvviso». Risponde, chiudendo gli occhi.
«Di voi che giocate a scacchi?»
Accenna un sorriso che è soltanto l'ombra di quello che di solito regala ai suoi bambini. «Forse. Non ricordo che abbia mai giocato a scacchi con lei». Chiude gli occhi, stringendo il pezzo di legno che ha in mano per qualche istante e mi chiedo cosa stia pensando. È diverso da lei, ma sembra come se fosse in un mondo tutto suo, come quando stringeva la spalliera della sedia, quella sera a casa mia. «Forza... cominciamo».

Katniss tiene tra le braccia il moccioso, mentre stringe la mano del marito. La bambina cammina vicino al padre, senza tenergli la mano e stando bene attenta a dove metta i piedi. Cammino poco più indietro, osservando quel quadretto familiare alle loro spalle, domandandomi se l'odore di mare sia sparito da me. So di boschi, ora?
Si volta a guardarmi, Willow, con il sorriso sempre sulle labbra, fermando il suo passo per far sì che la raggiunga. «Lo vedi, Junior? Il lago!»
Lo vedo stagliarsi tra le fronde degli alberi pieni di foglie verdi, alcune più spente di altre. Gli aghi di pino si spezzano sotto i nostri piedi, continuando ad avanzare ed avvicinarsi verso quello sprazzo di acqua dolce che riflette il cielo terso ed il verde di quel luogo, così diverso dal Distretto 4 dove ogni cosa è acqua.
«Lo vedo». Rispondo, lasciando che mi stringa la mano, anticipando il mio passo così da potermi tirare. È euforica la bambina, oggi. Ride, credendo di riuscire a far sì che io mi muova ed io la seguo, continuando a farglielo credere.
Pranzeremo qui, oggi. Vicino al lago c'è un edificio di legno che Peeta può utilizzare per cuocere la selvaggina che prenderà Katniss. Mi guardo un attimo intorno, spaesato. Questa non è casa mia, non è il mio mare, non c'è la mia vela dove poter scappare. C'è soltanto una lastra d'acqua che sembra quasi immobile, quando l'acqua è movimento e leggerezza. Non è il mio oceano e l'odore di salsedine è del tutto assente.
La bambina si tuffa subito in acqua, chiamando il mio nome. Mi chiede di seguirla, cercandomi con lo sguardo, allargando le braccia come se volesse un abbraccio. Rimango fermo lì, invece, seduto sulla riva a guardarla immergersi ed emergere. Sputare l'acqua dalle labbra e gridare di essere un delfino, uno di quelli che ha visto dalla vela, ed in televisione.
Peeta si siede al mio fianco, il moccioso tra le sue gambe, e sorride guardando Willow continuare a nuotare come se non avesse mai fatto altro.
«Stavo pensando...» Non stacca mai gli occhi di dosso dalla sua bambina. «... che ne dici se insegniamo a nuotare anche a questo ometto qui?»
Il moccioso mi lancia un'occhiata in tralice, incurvando le labbra verso il basso. Credo che io gli piaccia tanto quanto lui a me.
«Non credo voglia». Rispondo, indicando il suo viso con l'indice che tenta di addentare.
«Ehy, non si mangiano le dita delle persone». Ride, il padre, accarezzandogli i riccioli biondi. È la sua copia, se non fossero quegli occhi grigi, così simili alla zia, e quell'espressione lugubre sul viso che adora utilizzare ogni volta che il suo sguardo si posa su me. «Lo fai un sorriso a Junior, Rye?» Nega con la testa, nascondendosi nel petto del padre. «Ha deciso di no».
«A quanto pare. Si nasconde, il moccioso».
Peeta alza lo sguardo, incontrando i miei occhi, ridacchiando. «Quando ci siamo incontrati per la prima volta, ti sei nascosto dietro le gambe di Katniss».
«Finnick Junior Odair!» Ci voltiamo verso la bambina che urla dall'acqua, facendo echeggiare la sua voce acuta in tutto il lago. Credo stia cercando di imitare zia Johanna. «Non ignorami, Junior! E vieni a fare il bagno con me!»
E se non volessi, mocciosa?
Sospiro, portandomi una mano tra i capelli. Il padre mi squadra, aspettando di vedere cosa faccia. Ogni volta che la bambina mi parla, lui mi osserva e non mi piace. Vorrei scappare a nuoto, ora. Andare lontano ed allontanarmi dalle iridi azzurre di quell'uomo che mi ha insegnato a giocare a scacchi. Cambia con la stessa velocità del vento, Peeta. Un minuto prima è sereno e sorride, e quello dopo mi studia, chiedendosi forse se sia giusto uccidermi o meno.
«Non è molto paziente, Willow». Dice, infine, alzandosi in piedi. E so che mi ha dato il permesso di raggiungerla, ora. Di far sì di esaudire il suo volere. Chiama me, la bambina, e Peeta non può far altro che lasciarmi avvicinare.
«Che vuoi, mocciosa?» L'acqua è fredda a contatto con il mio corpo, mi rinfresca ogni parte e mi sento un po' più a casa, un po' meno estraneo. La bambina sbraccia a ridosso del pelo dell'acqua.
«Voglio fare i tuffi, Junior!» Salta, appoggiando i piedi sul fondale di fango. «Fammi fare i tuffi, sarai la mia vela!» Alza le braccia verso di me, aspettando la stringa e le dia la spinta.
«Che cosa stupida». Affermo, muovendo le braccia sotto l'acqua, sentendola scivolare su di me.
Willow incrocia le braccia al petto, cercando di imitare la faccia truce del moccioso, riuscendoci. Mi domando se dovrei preoccuparmi di una mia eventuale perdita di dita, o di vita, se il padre non la smette di fissarmi come se volesse incenerirmi con lo sguardo.
«Hai detto che pure mio papà è stupido, però ora passi più tempo con lui che con me». Si imbroncia ancora, facendo guizzare lo sguardo verso la riva, cercando Peeta.
Gli stai chiedendo di venirmi ad uccidere perché non ti faccio contenta, mocciosa?
«D'accordo. D'accordo, mocciosa, hai vinto. Vieni qui». Intreccio le dita delle mani, in modo tale da creare una sorta di scaletta. L'acqua non è altissima, ma non si farà male di certo.
«No!» Inarco un sopracciglio, stanco.
«Ma-»
«Prima devi dire che non è stupido. Mio papà non è stupido e nemmeno i tuffi!».
Sbuffo, massaggiandomi gli occhi con le dita. Questa bambina mi farà diventare pazzo, non so ancora bene in che modo, ma ci riuscirà. Ci sta riuscendo. E con i genitori presenti, pronti a proteggerla a qualsiasi folata di minimo pericolo, non ho scampo. «Peeta non è stupido, è il padre più bravo del mondo, okay? E i tuffi sono divertenti, non sono stupidi. Va bene, così?»
Le labbra della bambina si aprono in sorriso, prima di ignorare qualsiasi scaletta io abbia fatto per farla tuffare, per potermi circondare la vita con le sue braccia. «Va bene, così».
«Ora staccati». Peeta continua a guardarmi come se dovesse perforarmi il petto, Rye tra le sue braccia che scuote la testa, dicendo qualcosa e scalciando, di tanto in tanto.
«No. Mi piace abbracciarti». Sussurra, muovendo la testa. «Papà e mamma si abbracciano sempre ed io e te siamo come papà e mamma. E loro abbracciano pure me. È bello abbracciare le persone che si vogliono bene, quindi perché non mi abbracci?»
Sposto le braccia, allontanandole dal mio corpo, e dal suo. Sospiro ancora una volta davanti alle sue parole perché non posso fare altro. Mi vuole bene, la bambina. Non ho fatto niente per cercare il suo affetto, ma dice di volermi bene, cerca di dimostrarmelo quando, ogni volta, dalla mia bocca escono soltanto rifiuti.
«Posso dormire con te ora che sei a casa mia?» Mi dice, salendo nel letto senza aspettare alcuna risposta.
«No che non puoi!» Rispondo, dandole una spinta. Le sue labbra incurvate verso il basso ne sono la ricompensa.
«Resti con me, in camera mia, finché non mi addormento?» Ritenta, camminando silenziosa sino alla porta.
«Buonanotte, mocciosa».

«Perché non ti voglio bene, io». Le parole escono da sole dalla mia gola, riempiendo quel silenzio fatto di abbracci non ricambiati, da braccia immobili lungo i miei fianchi. «Sei soltanto una mocciosa che dovrebbe stare con mamma e papà, non certo con me». Non riesco a frenarmi, mentre gli occhi azzurri di Peeta continuano a tenermi sotto controllo. La bambina mi vuole bene, forse non mi vuole bene mia madre, sebbene zia Johanna dice quanto mi ami, ma lei sì e la sto allontanando, senza riuscirmi a frenare.
L'acqua è fredda, ora, nei punti che Willow mi stringeva, ed i suoi occhi colmi di lacrime sono soltanto altro freddo che si va ad aggiungere a quello che sto provando. Lei mi vuole bene ed io le ho fatto male.
Si porta le mani al visto, lesta. Le sue spalle tremano ed un singhiozzo esce dalla sua gola. Non mi guarda più, non chiama e non mi cerca. Non chiede di farle fare alcun tuffo. Si sposta, camminando verso la riva, mettendo un piede davanti all'altro nel fango. Stringo un pugno sotto la superficie dell'acqua, sentendo lo sguardo di Peeta su di me. Mi ucciderà. L'ho fatta piangere. Non potevo fare altrimenti, però. Non volevo abbracciarla, non voglio fomentare la sua ossessione infantile nei miei confronti. Sono colui che l'ha resa un po' più libera e crede che questo sia il modo per ringraziarmi: volendomi bene.
La seguo, rimanendo dietro di lei di qualche passo. Peeta tiene il moccioso su una spalla, quando apre il braccio per stringerla in un abbraccio. «Va tutto bene, tesoro». Le dice, accarezzandole i capelli e baciandole la nuca. «Va tutto bene». Non mi guarda più ora, Peeta, cercando di calmare il pianto di quella bambina.
«Devi imparare a camminare sulle tue gambe, Junior. Io sono sempre qui, se hai bisogno di me, ma anche tua mamma ha bisogno di me». Johanna porta le gambe al petto, prima di accarezzarmi una guancia.
«Ma la mamma è grande ed io sono piccolo».
«Ci sono volte in cui essere grandi o piccoli non cambia nulla. A volte ci sono adulti che hanno più bisogno di essere accuditi dei bambini e tu sei un bambino bravo». Indica mia madre, nel prato davanti a noi. È seduta sull'erba, con un sorriso sulle labbra e le lacrime incastrate tra le ciglia. «Annie!» La chiama, la zia, senza ricevere alcuna risposta. Mi accarezza ancora, continuando a guardare la mamma, appoggiando il mento tra le ginocchia. «Vedi? Lei ha bisogno di noi per rimanere a galla. Non vuoi farla affogare, vero, Junior?»

Non farla annegare, Peeta.
Esco dall'acqua, sedendomi nell'erba per osservare l'orizzonte, il lago piatto davanti a me. Chiudo gli occhi, sentendo i singhiozzi di Willow attutirsi con il passare dei minuti, con la voce del padre che le dice che va tutto bene.
«Ma Junior ha detto... ha detto... che non mi vuole bene». Cerco di isolarmi, immaginando la vela davanti a me ed io mi muovo nell'acqua, veloce, per scappare da tutto ciò.
«Junior, voglio arrivare alla vela da sola, ma tu rimani con me, okay?»
«Okay».
«Non mi lasci?» Si tuffa nell'acqua, emergendo poco dopo. «Non mi lasci?»
«Non ti lascio». La seguo, guardando il suo sorriso e le gocce d'acqua salata scivolare lungo la fronte.

Il sole è alto sulla mia testa quando riapro gli occhi, sono asciutto e mi ritrovo da solo, tra i ciuffi d'erba verde, fiori gialli e viola. Mi stiracchio, prima di mettermi seduto. Nemmeno nei sogni riesce a lasciarmi in pace.
La cerco con lo sguardo, con la paura di vederla piangere ancora e sospiro, rilassato, quando noto la sua assenza.
«Sta dormendo, ora. Era stanca». La voce di Peeta, alle mie spalle è fredda. Si siede al mio fianco mentre, veloce, pianto lo sguardo a terra, tra le mie gambe.
«Peeta, io-»
«Non dire nulla». Mi blocca, scuotendo la testa. Non c'è il moccioso con lui, forse dorme con la sorella, forse zia è tornata dalla caccia. Allunga le gambe sul terreno, Peeta, appoggiando i palmi delle mani a terra, stringendo i fili d'erba. «È abituata ad essere coccolata da tutti, Willow. Non capisce la vostra differenza d'età. Il tuo disagio è... normale». Fa una pausa per voltarsi verso di me.
«Le voglio bene». E diventa tutto un po' più vero. Le voglio bene, a quella bambina dagli occhi azzurri che ho ignorato per tanti anni e che poi è arrivata a passo di carica, facendo sì che la portassi ovunque lei volesse. È impossibile dirle di no, con le sue motivazioni che spiazzano, con i suoi modi di fare. E capisco un po' di più il motivo per il quale i genitori non riescano mai a dirle di no. I suoi occhi speranzosi, la sua voce, fanno sì che chiunque sia nei paraggi faccia tutto ciò che vuole.
«Si vede». Sorride, ora. «Ma lei vede me e Katniss e pensa che sia quello l'affetto che deve mostrare anche a te. E ti ha messo in scacco, perché tieni a lei».
«Devi proteggere il re, non devi farlo cadere. La regina è uno dei pezzi più importanti, può mettere in scacco il re, può mangiare qualsiasi pedina e si muove in verticale, orizzontale e diagonale».
Deglutisco, strappando l'erba sotto le mie dita, ritrovando quell'abbraccio nella mia mente. «È bello abbracciare le persone che si vogliono bene». Ma io non posso.
Mamma è seduta sul divano, guarda la rete sulla mensola, quella che mi fece toccare un po' di anni fa. Guarda quella rete intrecciata e sospira e piange. «Mamma?»
Non mi vede. Non mi vede mai. «Mamma?» Mi avvicino di un passo, di due. «Mamma?»
«Finnick...» Sospira, incontrando i miei occhi. Le lacrime le rigano il volto. «Sei tu?» Allunga la mano che prendo, veloce, cingendole il collo con le braccia.
«Mamma...»
«No». Scuote la testa. «No. Finnick è morto».

Deglutisco, ancora una volta, alzandomi in piedi. «Vado a farmi una nuotata, Peeta». Dico, avanzando verso la riva a piedi scalzi, sentendo la terra e poi quella fanghiglia abbracciarmi i palmi e l'acqua fresca, che sembra così gelata da raffreddarmi le ossa. Mi tuffo, con i brividi che mi percorrono tutto il corpo, troppo caldo dal sole.
Non so per quanto tempo nuoti, ma quando rimetto piede sulla riva, quegli occhi azzurri a cui ho fatto male mi guardano, senza accennare il minimo sorriso. Stringe le gambe al petto, la bambina, senza nascondere il suo broncio, tutto rivolto a me.
«Dovresti volermi bene come io voglio bene a te». Afferma, sicura. Non c'è rimprovero nella voce, non più. «Sei cattivo». Lo dice seria, senza scostare lo sguardo dal mio, senza quel riflesso luminoso che contagia chiunque sia nei paraggi.
Lo sono davvero.
I miei occhi guizzano lungo l'erba, e mi chino, strappando uno di quei pochi fiori viola che crescono poco lontano dalla riva. Mi avvicino a lei, piano, sedendomi al suo fianco. Non mi guarda, immobile nella sua posizione. «Sei cattivo». Ripete, prima di stringere lo stelo tra le dita, portandolo al naso. «Ma ti voglio bene lo stesso». Sorride, accarezzando con l'indice i petali, uno ad uno.
Il pomeriggio trascorre tranquillo, tra i calci e i tentati morsi da parte del moccioso che cerca sempre la compagnia delle braccia della madre, a Willow che trascorre più tempo con il padre che con me con il fiore ben posizionato tra i capelli scuri.
Mi perdo a guardare l'orizzonte, seduto fuori l'abitazione di legno. Il tramonto crea sfumature rossastre sulla superficie dell'acqua che vanno ad intrecciarsi con quelle verdi degli alberi.
«È bello, non è vero?» Sussulto, sentendo la voce di Peeta alle mie spalle.
«Abbastanza». Alzo le spalle, come se non mi interessasse niente di quello che dice. Non è vero nemmeno questo. In questa settimana non c'è stata volta che non abbia apprezzato la sua compagnia e mi domando perché fossi tanto chiuso nei suoi confronti.
«Quando andiamo a casa, voglio farti conoscere una persona». Afferma, prima di scomparire di nuovo dentro, chiamato a gran voce da Willow.

Credo di non aver mai sentito la casa così silenziosa da quando sono qui. I bambini dormono, tutti e due, e la voce squillante di Willow non mi trafora i timpani, dicendomi quanto mi vuole bene, di giocare con lei, di correrle dietro cercando di prenderla. C'è soltanto Katniss con in mano un bicchiere di vino che sospira, di tanto in tanto, osservando l'uscio della cucina e Peeta in soggiorno a riordinare il casino lasciato dai mocciosi.
Vedo la zia schiudere gli occhi, scuotendo la testa. Prende un'altra grande sorsata dalla coppa, svuotandola, mentre Peeta appoggia davanti a me un libro rilegato a mano. Un tomo grande senza nessun titolo sopra la copertina.
«Mamma e papà hanno un libro, sai? È pieno di foto e disegni di papà . Sono bellissimi, anche se alcuni sono tristi. C'è anche una tua foto, di quando eri piccolo come Rye. E tanti disegni del tuo papà».
Peeta si siede al mio fianco, aprendo il libro e cercando una pagina ben precisa. «Non è il massimo, ma qui... be'... puoi conoscere un po' di più tuo padre». La voce gli si incrina per un momento, guardando il disegno che lui stesso ha fatto. Foto e disegni di papà. Finnick Odair, tributo, vincitore, ancora tributo, soldato. Eroe.
La zia svuota un altro bicchiere mentre leggo in silenzio le pagine dedicate a mio padre. Più vado avanti, più guardo i suoi disegni e leggo di lui, più i miei occhi bruciano mentre cerco di trattenere le lacrime.
«Rimettere insieme i pezzi richiede dieci volte il tempo che serve per crollare».
Stava male per Annie, Finnick, eppure mi prestò la sua corda per farmi distrarre. Per non pensare a Peeta perché faceva male, troppo male; tanto quanto il pensiero di Annie tenuta prigioniera lo faceva svegliare dagli incubi della notte, senza che non ci fosse alcun sollievo. Quella stessa corda che diede a Peeta, tempo dopo, quando eravamo a Capitol City come la Squadra delle Stelle, per farlo scappare dai suoi episodi.

«La prima cosa che mi ha detto, tuo padre, quando ci siamo conosciuti, è stata...» Deglutisce, la zia, prima di portare un braccio davanti al suo corpo, verso di me. «Vuoi una zolletta? Dovrebbero essere per i cavalli, ma chissenefrega. Hanno un sacco di anni per mangiare tutto lo zucchero che vogliono, mentre io e te... be', se vediamo qualcosa di dolce sarà meglio che lo prendiamo al volo». Si porta il dorso della mano sopra gli occhi, nascondendoli alla vista. Peeta le è subito a fianco, stringendola in un abbraccio. «Era la persona più odiosa sulla faccia della terra. Lui e Johanna adoravano prendermi in giro, lo sai? Ma era un buon amico, era Finnick. Era buono. Vero, Peeta?» Lui non le nasconde le sue lacrime, annuendo. «Mi ha salvato la vita tante volte». Sussurra, stringendo la zia più forte. «Non potrei mai ringraziarlo abbastanza».
Li guardo, senza sapere cosa dire e cosa fare. Conoscevo mio padre dai libri di scuola, avevo già letto di lui, ma non avevo mai compreso davvero quanto si fosse tenuto a galla, mentre aveva massi legati alle caviglie al fine di farlo sprofondare. Ha salvato la vita agli zii, a mia madre, in modi che io non posso nemmeno immaginare. Vorrei conoscerti, salva anche me e la mamma.
Deglutisco, cercando di slegare il nodo nel petto, sempre più stretto. Mi toglie il fiato, annodandosi intorno alla mia gola.
Mi è stato vicino, Finnick. Era una delle persone che mi capivano meglio, come era una persona che soffriva ed aveva sofferto per quasi tutta la vita. Se io avrò un futuro, lo devo a lui.
Singhiozzo, senza riuscire a trattenermi. Non dovevo leggere, non dovevo sapere. Non dovevo provare il desiderio di conoscerlo. Non posso. Non potrò più farlo. Singhiozzo ancora, appoggiando la fronte sulla spalla della zia che mi stringe a sé, accarezzandomi i capelli come fa con i suoi stessi figli. Abbracciami, zia. Allargo le braccia, circondando la sua schiena, lasciandomi cullare dalle carezze leggere di Katniss, colei che deve la vita a mio padre che ha perso la sua di vita, regalandomene una senza la paura della morte.
Non so per quanto tempo la zia mi abbia tenuto tra le sue braccia, ma stringo il libro al petto, salendo le scale che mi portano nella mia stanza. Voglio rileggere, e conoscerlo di più, voglio vedere le sue foto ed i suoi disegni, con quegli occhi e quel sorriso così simili ai miei. Sei tutto tuo padre.
«Junior...» Peeta mi chiama, sull'uscio della mia porta. Ha gli occhi cerchiati di rosso dalle lacrime. Mi ha abbracciato pure lui, prima. E l'ho lasciato fare, pensando a come quell'uomo fosse lì per merito di mio padre. Gli ha salvato la vita tante volte per far sì che rimanesse al fianco della zia. Si siede al lato del mio letto, stringendomi una mano come mia madre, un tempo, faceva con me. «Non sono tuo padre, non potrò mai esserlo, né lo voglio. Tuo padre è inimitabile e avresti dovuto avere la possibilità di avere lui vicino». Fa una pausa schiarendosi la gola e mi sembra di ritornare bambino, un moccioso che non è in grado di pensare con la propria testa. «Abbiamo perso tanto, tutti noi. Come ogni anno ventitré genitori perdevano i propri figli. Finnick sarebbe stato orgoglioso di avere un figlio come te. Sei buono anche tu, come lo era lui. E sono orgoglioso anche io di te, come lo è Katniss. E siamo qui, tutti e due. Sempre. Non sono tuo padre, ma per qualsiasi cosa, io sono qui». Mi accarezza il dorso della mano con il pollice. «Appoggiati a qualcuno, ogni tanto. Sei forte, ma tutti noi abbiamo bisogno di qualcuno al nostro fianco, di tanto in tanto. Non chiuderti tutto dentro, Junior». Il materasso di alza e le sue labbra sono sulla mia fronte.
Rimango in silenzio, guardando la sua schiena avanzare. «Grazie». Sussurro, sentendomi troppo piccolo in confronto a lui per poter dire di più. E mi sorride, chiudendo la porta.
Accarezzo la copertina del libro, prima di aprirlo e cercare i miei stessi occhi.
Sono forte come mio padre.




Note di fine capitolo:
Buonsalveh! ♥
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Ringraziamo come sempre chi ci segue, leggendo, commentando, seguendo, ricordando e preferendo le nostre storie... siete cuorih! ♥


Ringraziamenti:
Come per ogni nostra fanfiction, non possiamo esimerci dal ringraziare tutte le persone che ci sono state vicine nella stesura della storia, quelle persone che, in qualche modo, hanno contribuito a rendere Aqua la storia che è, quindi i nostri ringraziamenti più sentiti vanno a:
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Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***






VIII.




«Quanto manca? Mamma, quanto manca?» la vocetta petulante di Mallow mi perfora il timpano sinistro, riscuotendomi dal mio dormiveglia.
«Cinque minuti in meno rispetto all’ultima volta che me l’hai chiesto, Mallow…» mia madre sospira, il capo reclinato sulla spalla di mio padre, la mano intrecciata alla sua.
«Mamma, sono Lily!» ribatte Mallow, piazzandosi davanti al mio finestrino con un salto, pestandomi entrambi i piedi. Entrambe le mie scarpe nuove, per l’esattezza.
«Mallow!»
«Willow!» mi fa impunemente il verso, la mocciosa, schiacciando il naso contro il vetro. Mio padre mi sorride e so che mi sta implorando di avere pazienza.
Io non volevo neanche venirci, qui. Sarei potuta rimanere con zio Haymitch, come l’estate scorsa e quella prima ancora. Sarebbe stato solo per una notte, infondo.
«Per favore, papà. Ti prego, non farmi questo.» sto implorando, trattenendo le lacrime, stretta nell’abbraccio di mio padre.
«Will, tesoro, dobbiamo farlo per la mamma.» papà mi accarezza i capelli, la bocca contorta in una smorfia di dolore «Sai com’è fatta, e come sono fatte le gemelle.» mi allontana con delicatezza per guardarmi negli occhi, entrambi i palmi posati sulle mie spalle, sporcandomi la maglietta nera di tempera verde «Sei il nostro adulto responsabile, dolcezza.»

«Rye, hai intenzione di stare in silenzio tutta la settimana?» pungolo con l’indice il bicipite di mio fratello, seduto al mio fianco con Lily assopita fra le braccia.
Rye mi fulmina con la sua famosa espressione truce, stringendosi Lily al petto con fare protettivo. «Non rompere Will, Lily dorme.» ribatte, ruvido come al solito, accarezzando i riccioli scuri della gemellina «Papà, hai messo vestiti diversi nelle valigie delle gemelle? Non voglio passare la settimana a spiegare alla zia Annie chi è Lily e chi è Mallow…»
«Rye Mellark!» la voce di mamma tuona nel vagone, ridestando Lily, che inizia immediatamente a frignare «Non ti permetto di fare lo spiritoso in questo modo! Vergognati!»
«Guarda che non mi metti paura come la zia Jo, neanche se parli come lei!» Rye la sbeffeggia, sostenendo la sua occhiataccia. «Zia Johanna ha un’ascia.» rincara la dose, togliendosi Lily dalle ginocchia.
«E io ho un arco.» risponde la mamma, tentando di suonare minacciosa.
Cerco lo sguardo di papà, nella bolla di isolamento che ci costruiamo durante l’infinita ed estenuante guerra di nervi che sta rendendo casa nostra un luogo più o meno inospitale da due anni a questa parte.
«Respira, Willow. Respira a fondo.» la voce di mio padre, i suoi occhi mi traghettano dalle onde a quello scoglio a forma di vela, sotto il sole cocente e sopra l’acqua cristallina «Respira e guarda me. Ci sono io, va tutto bene.» gli occhi di papà sono trasparenti, azzurri come il cielo riflesso sull’oceano, tersi.
«Papà…» la voce mi si strozza in gola, soffocata dall’affanno «Posso stringere una sedia anch’io, papà?»

Non trovo i suoi occhi, stavolta. Papà si copre il viso con una mano, massaggiandosi le palpebre. Qualche filo grigio è iniziato a spuntare nel mare di grano dei suoi riccioli. Dice che le gemelle e l’adolescenza di Rye lo faranno invecchiare in fretta, e in questo momento non stento a crederlo. «Ti da fastidio la protesi, papà?» il mio sussurro spezza il silenzio. Quattro paia di occhi mi fissano, raggelandomi, in trappola in quel vagone soffocante, e mi pento immediatamente della mia domanda.
Era il nostro segreto. Non avrei dovuto chiederlo. Perdonami, papà. Non sono mai stata brava a tenere i segreti.
La cazzata dell’adulto responsabile serviva a questo, a coprire i problemi che negli ultimi sei mesi gli hanno reso sempre più difficile mantenere una posizione statica per più di mezz’ora. Alla terza caduta, in pubblico, durante un’assemblea del consiglio distrettuale, la mamma non ha voluto sentire ragioni, minacciando di portarlo trascinandolo per i capelli, se avesse rimandato ancora.
E quindi, volenti o nolenti – nel mio caso assolutamente nolenti – siamo stati trascinati alla fantastica prima settimana dell’indipendenzadelle mostriciattole, la terapia d’urto in stile zia Jo per sgrossarci da qualcuna delle tare che la nostra disfunzionale e iperprotettiva madre ci ha regalato.
Un hurrà per gli eroi di guerra di Panem, aggiungerei.
«Tua madre ti vuole bene, mocciosa. Anzi, ti ama. La zia Katniss ti ama tantissimo.» Junior si immerge senza uno spruzzo, sparendo sotto il pelo dell’acqua.
«Mia madre mi soffoca!» urlo, sbattendo i talloni sulla roccia scaldata dal sole, sperando che le mie urla lo raggiungano sott’acqua. Riemerge alle mie spalle, scrollandosi l’acqua dai capelli color rame.
«Tua madre almeno non ti confonde con un fantasma, mocciosa. Non dimenticarlo, questo.»

E si era tuffato, allontanandosi dallo scoglio con lunghe bracciate.
È l’ultimo ricordo che ho di Junior. Una schifezza di saluto, a dirla tutta.
Era andato via così, lasciandomi impalata ad aspettarlo sotto il sole cocente, con la sensazione di avergli fatto un qualche torto irreparabile.
Ma era lui. Era colpa sua. Lui che passava le giornate a sbaciucchiarsi con quella Sandy o Mandy o Shelley o vattelappesca, o al telefono con qualche amico dell’Accademia o sui fondali a largo a cercare qualche interessantissima specie di plancton, invece di stare con me. «Vaffanculo, Junior. Tienimi lontana come chiunque altro!»
Lo avevo urlato, rivolta all’orizzonte, calciando una roccia. Un gabbiano aveva gracchiato in risposta al mio urlo di dolore.
Avevo guadagnato due falangi fratturate e un’insolazione micidiale, con contorno di epistassi e febbre alta. Al mio rientro, rossa come un peperone, furiosa e zoppicante, Junior era già andato via. Soffoco.
Perché nessuno si accorge che in questo scompartimento l’ossigeno è finito?
Scatto in piedi, trattenendo il fiato, e non mi concedo di respirare finché la porta del vagone non si chiude con uno scatto dietro le mie spalle.
Il freddo del metallo attraversa il tessuto leggero del mio abitino senza incontrare resistenza e mi brucia il petto per lo sforzo di imprigionare l'ossigeno nei polmoni, ma il silenzio, interrotto dallo scalpiccio leggero dei miei passi sul linoleum azzurro, è la mia ricompensa.
Quando giungo nel vagone di coda le voci trillanti delle gemelle, il broncio di Rye, identico a quello di mia madre, e gli occhi stanchi di papà mi sembrano così distanti da farmi sentire estranea alla mia stessa vita.
«Mi spingerò così al largo che nessuno potrà più prendermi la mano e sarò da solo.» Siamo quasi arrivati. Il colore del cielo è diverso, qui.
Il cielo di casa ha una sfumatura di celeste che ricorda gli occhi di mio padre e, dicono, i miei. La volta del quattro, invece, a furia di specchiarsi nell’oceano ne ha assorbito la sfumatura acquamarina, giusto un pelo più azzurra degli occhi di Junior, che sono della stessa esatta tonalità delle onde.
La porta metallica si apre con uno scatto dietro di me, facendomi sobbalzare.
«Giuro solennemente che non avevo intenzione di saltare giù dal treno.» sospiro, preparandomi all’ennesima strigliata da maniaca del controllo di mia madre.
«Anche perché sarebbe molto scortese non portare tuo padre con te.» mi volto di scatto, trovando il sorriso tirato di papà. Gli faccio cenno di avvicinarsi e sedersi al mio fianco, notando con preoccupazione quanto si sforzi di non zoppicare.
«Credevo fosse la mamma.» bisbiglio quando si lascia cadere pesantemente sul sedile. Lui scoppia a ridere, anche se non ne capisco bene il motivo.
Attendo paziente che l’eco delle sue risa si disperda nella brezza leggera dei finestrini aperti, fissando le impronte lasciate dai piedini di Mallow sulle mie scarpe nuove.
«Cosa c'è di così divertente, papà?» Bisbiglio senza irritazione, strofinando i palmi sudati sul pizzo etereo della gonna. Una cretina agghindata a festa, ecco cosa sembro. Zia Jo mi delizierà certamente con qualche battuta su come mi sia fatta bella per Junior, e a me verrà da vomitarmi sulle scarpe. «Tanti anni fa, tesoro, quando avevo la tua età, ero su un treno simile a questo, con nient'altro che delle stupide scuse fra le mani per provare a ricucire una frattura che il mio orgoglio aveva procurato.» Fa una lunga pausa, seguendo il volo di un gabbiano con un lieve movimento del capo "Anche allora tua madre mi scambiò per qualcun altro.»
Sospiro piano, posando la testa sulla sua spalla, come fa sempre la mamma. Papà accarezza meccanicamente i miei capelli, facendo volare leggere le dita fra le ciocche. Credo lo faccia per una sorta di automatismo, perché i miei capelli sono identici a quelli di mamma, ma è così rassicurante che potrei lasciarlo continuare per ore.
«Papà, non credo di farcela.» Gemo, chiudendo gli occhi. Non riesco più a sopportare la vista di quel cielo acquamarina, dello spicchio di oceano che si affaccia oltre lo strapiombo di rocce bianche che costeggiano le rotaie.
«Junior, come si chiama questo fiore?» Ho strappato una manciata di petali gialli incastrati fra i massi, piantando il pugno chiuso sotto il suo naso.
«È una ginestra, mocciosa.» Junior sorride, allungandosi oltre lo strapiombo per coglierne un ramo «Un fiore che cresce dalle rocce.» Continua, ancora disteso fra la ferrovia e il vuoto, intrecciando velocemente gli steli tra loro.
«Come noi?» Junior mi fissa a bocca aperta, interdetto, e io mostro la lingua in una piccola riverenza.
«Come noi,» si solleva sulle ginocchia, lasciandone una a contatto con le rocce per portarsi all'altezza dei miei occhi, e con il viso contratto in una smorfia concentrata mi deposita una corona di petali gialli fra i capelli «perfetti per le mocciose dalla lingua lunga».

«Anche stavolta non ho che delle stupide scuse, Will.» Il timbro mortificato di papà mi strizza il cuore in una morsa. Non smette per un istante di accarezzarmi i capelli, accomodando meglio la mia testa sulla sua spalla. «È colpa mia se ora sei su questo treno.» La sua voce si spezza in un sussurro. Rimaniamo per qualche istante immobili, vicini, a disegnare con lo sguardo le rotte dei gabbiani che volteggiano verso il sole. «Non vorrei mai vederti infelice, tesoro. Vorrei poterti proteggere da qualsiasi delusione, da qualsiasi sofferenza.» Prende un respiro profondo, portandosi l'altra mano sul viso «Te l'ho promesso e l'ho promesso a tua madre. Ma non posso. Me ne sto rendendo conto solo ora, Will, e ti chiedo scusa.» Papà reclina la testa sulla mia, posando un bacio evanescente sulla mia fronte «Scusa se non posso tenere fede alla mia promessa.»

«Zia Annie!» Il trillo acuto di Rye buca il silenzio – e il timpano che Mallow mi aveva risparmiato – mentre si precipita verso il portico incrostato di conchiglie, dritto fra le braccia ossute di Annie. La zia lo stringe al petto in una morsa di costole e nervi, socchiudendo gli occhi. Ha più spigoli ogni estate, zia Annie, e inizio a credere che un giorno scomparirà, come un castello di sabbia abbandonato, richiamato a sé dal mare.
Zia Johanna, immobile al suo fianco, si afferra il caschetto d'argento fra le mani, alzando gli occhi al cielo.
Mamma sospira rumorosamente, stringendo più forte le mani delle gemelle.
Sembriamo una perfetta, normale famigliola felice, impettita nel vestito della festa, pronta a sorridere per la foto di famiglia lungo il vialetto della casa delle vacanze.
L'aria salmastra mi riempie i polmoni, rendendo più assordante il rumore di quel posto vuoto in questo quadretto imperfetto.
Non ero pronta ad affrontare la sua presenza, non avevo considerato quanto potesse essere doloroso sopportarne l'assenza.
«Allora?» Zia Jo ha un'espressione annoiata, ma il suo tono sarcastico è meno tagliente di quanto ricordassi «Entriamo, belle statuine? O vogliamo aspettare il tramonto tutti insieme appassionatamente?» Trascina Annie, ancora allacciata a Rye, per un gomito, sospingendola oltre la soglia.
La luce mattutina e la brezza marina filtrano nell'ingresso attraverso le persiane socchiuse. Sembra tutto così identico a sé stesso – ogni singola conchiglia, foto, cornice – e tragicamente diverso da darmi il capogiro.
Barcollo leggermente, instabile sulle gambe, sabbia troppo asciutta per resistere alla marea, e so che potrei cadere, se il tocco della mano di mio padre sulla spalla non mi sostenesse.
«Respira, Willow. Respira.» È un sussurro, destinato unicamente a me.
Non credo di ricordare come si fa, papà.
Zia Johanna blatera qualcosa sui mocciosi che si moltiplicano ogni anno e la mamma, appollaiata in un angolo del divano, si stringe nelle spalle, saldamente ancorata alle manine delle gemelle. So che non vorrebbe lasciarle, come non avrebbe voluto lasciare me, né Rye. Se dipendesse da lei nessuno di noi dovrebbe avere il diritto di lasciarle la mano, né di allontanarsi più di due passi dalle sue sottane.
«Giuro che se ne scodellate un altro vado in sciopero, per sempre!» Zia Jo punta la forchetta in direzione di papà, fissandolo minacciosa «Voi vi beccate la parte divertente e a me tocca fare la zia con l'accetta!»
Mio padre ride, allacciandosi il nuovo grembiule che zia Jo gli ha messo fra le mani qualche minuto fa. Quest'anno è la cuoca più sexy di Panem , non più la migliore cuoca al mondo. Mamma alza gli occhi al cielo, stringendo i denti. Si farebbe crescere una quinta mano per tenere papà al guinzaglio, se potesse.
«Chi ha voglia di aiutarmi a cucinare?» Papà sorride, guardando speranzoso Rye. Sta cercando di conquistare mio fratello da quando ne ho memoria, ma lui si limita ad accordargli un sorrisetto condiscendente ogni sei o sette occhiate truci.
«Vengo io, papà.» Sussurro, precedendolo in cucina.
Cucinare mi rilassa. Inizio ad affettare i pomodori, con il gomito che sfiora quello di papà nello spazio angusto della cucina.
«La nostra cucina è più grande.» Commento, tenendo gli occhi fissi sul tagliere. Guido il coltello contro la plastica verde, concentrandomi sul taglio di identiche, sottilissime fettine rosse, tentando di soffocare l'eco dello scricchiolio del passo di Junior sull'asse allentata del parquet del soggiorno.
È un suono che riconoscerei fra milioni.
Potrei distinguerlo esattamente in una moltitudine di passi identici: un fruscio delicato di sabbia bagnata e conchiglie spezzate e petali di ginestra e pagine ingiallite, il rumore sordo di una conchiglia vuota portata al largo dalla marea, e si ripete e si ripete nella mia testa, come un ritornello che ad ogni strofa mi trascina più a fondo, più a largo, più distante.
«Mi spingerò così al largo che nessuno potrà più prendermi la mano e sarò da solo.» Lo sguardo di Junior, rivolto all'orizzonte, ha un velo di tristezza che mi ricorda quello di sua madre, quando si siede di fronte a quella rete, gli occhi persi nel vuoto.
Ci siamo solo noi, la nostra vela e l'oceano, ma lui è altrove, e io sento freddo senza le sue dita tra le mie.
«Perché dici così?» Gli afferro la mano, intrecciando le dita alle sue. La mia mano è ancora piccola, ma non sembra più perdersi nella sua «Vedi? Io non ti lascio.»

«Ti sei tagliata?» La voce di papà mi fa sobbalzare, facendomi sfuggire il coltello di mano. La lama tocca terra con un tonfo metallico.
Sto piangendo. I miei stupidi occhi stanno piangendo. Sento le lacrime rigarmi tiepide il viso e mi affretto a nasconderle con i palmi, scuotendo la testa.
È solo il mio cuore che sanguina, papà, tranquillo. Niente ospedale stavolta.
«Willow, ti sei fatta male?» La mamma attraversa la soglia come una furia, afferrandomi i polsi per accertarsi che non mi sia affettata un dito. Mentre scandaglia ogni singola falange io fisso lei, l'espressione di autentico terrore che le deforma i tratti.
«Katniss, va tutto bene.» Papà sussurra, rassicurante, sciogliendo delicatamente la stretta delle dita gelide di mamma intorno ai miei polsi «L'ho distratta e le è caduto di mano il coltello.» Sfiora le braccia di entrambe, sorridendo «Va tutto bene.»
«Non va bene!» Mamma nega con la testa, decisa. La treccia le rimbalza sulla spalla come una frusta. «Sta piangendo, Peeta, non dirmi che va tutto bene!»
Grazie mille, è bellissimo quando parlate di me come se non ci fossi. Sono qui davanti, per la cronaca.
«Sto bene, mamma.» Gracchio, sforzandomi di suonare rassicurante.
«No che non stai bene!» Mia madre mi sfiora un gomito, ritraendosi subito. La voce rassicurante mi viene uno schifo, a quanto pare. «So che preferisci parlare con papà ma...» la sua voce si incrina, mutilando la frase. Le parole rimangono sospese a mezz'aria, grondanti sangue e rimprovero. Mi sembra di vederle penzolare sotto il naso di mio padre.
«Tua madre ti vuole bene, mocciosa.»
«Mamma,» sospiro, perché ogni parola pesa come un macigno contro il mio palato e mia madre mi sembra così ottusa, a volte, così presa dal tenere ogni cosa sotto controllo, da lasciarsi sfuggire qualsiasi cosa accada appena un palmo oltre il suo naso «è per Junior.»
La bocca di mia madre disegna una perfetta, circolarissima "o". Mi fa quasi sorridere, il misto di sorpresa e disappunto che si alternano sul suo viso.
Quasi.
«Non che non lo sapessi...» si affretta a giustificarsi.
«Non voglio parlarne.»
La blocco subito. Non ho nessuna intenzione di ascoltare i consigli in materia sentimentale di una donna che zia Jo definisce tardona ogni volta che il suo nome viene casualmente accostato a quello di papà.
Torna dalle gemelline, avanti. Potrebbero tagliarsi con le forbici dalla punta arrotondata. La sua bocca si piega in una smorfia triste, riuscendo a farmi sentire un essere orribile.
«Come vuoi.» Sospira, chiudendosi nelle spalle. La guardo allontanarsi in silenzio, abbracciata a sé stessa, a testa bassa. Vorrei dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma ogni giustificazione mi muore in gola. Con mia madre non riesco ad essere la bambina che chiedeva perdono per prima per ogni minimo, potenziale torto commesso.
«È tua madre, Willow.» Papà mi guarda, duro, lasciandosi ricadere pesantemente su una delle sedie disposte intorno al piccolo tavolo «Sei ingiusta con lei. Darebbe la vita per te e tu non fai che sbatterle porte in faccia.»
«Ma papà...»
«Niente ma, ragazzina.» Interrompe seccamente qualsiasi tentativo di addolcirlo, fissandomi dritta negli occhi «Parli tanto di aiutare il prossimo, occuparti della salute mentale delle persone... E non riesci a vedere quanto fai soffrire tua madre? Quanto questo faccia soffrire me?»
La delusione negli occhi di mio padre mi stende con la forza di un pugno nello stomaco. Non riesco ad affrontare questo sguardo, non riesco a resistere, a trattenere le lacrime, con quella domanda sospesa fra di noi.
Mi allontano barcollando mentre papà continua a fissarmi, immobile, le iridi tinte di una sfumatura di azzurro più cupa, la stessa che hanno quando dipinge.
Vorrei che mi fermasse, che mi tendesse una mano, come fa sempre con mia madre, per gettare un ponte in questa crepa di dolore.
Non lo fa.
Io non voglio che mio padre soffra, vorrei che nessuno soffrisse per causa mia, ma le mie mani sono troppo molli, impacciate, inadatte a modellare questo precario equilibrio fatto di lacrime e sabbia.
Attraverso il salone a passi incerti, evitando l'asse allentata che solo il passo di Junior fa scricchiolare nel modo giusto. Zia Johanna fa qualche commento sulle turbe adolescenziali al mio passaggio.
Neanche la mamma prova a fermarmi, né Rye, né Annie.
«Mi spingerò così al largo che nessuno potrà più prendermi la mano e sarò da solo.»
L'erba umida del giardino mi pizzica le gambe e il sole di mezzogiorno mi scotta il naso, ma va bene.
Mi allungo nell'erba, strofinando lente le braccia lungo i fianchi, fingendo di essere di nuovo una bambina che disegna con il proprio calore una ghiandaia nella neve fresca.
Ma non c'è neve da raccogliere, qui. Solo cocci, gusci vuoti di conchiglie e un listello di legno che ormai suona solo note stonate.
Resto a lungo immobile, svuotando la mente dall'immagine di uno scoglio bianco a forma di vela e di una mano troppo grande da stringere, a faccia in su contro questo cielo acquamarina, a fissare il sole finché gli occhi non bruciano tanto da aver voglia di strapparli e le macchie violacee dietro le palpebre oscurano l'azzurro dell'acqua e l'oro della spiaggia.
Il pizzo delicato del mio vestito si macchierà di verde, ma non mi importa.
Dopotutto mia madre ha ragione: si distrugge tutto ciò che si tocca.

«Si è addormentata in giardino.»
«Non mi avevi detto che in questi due anni fosse diventata così simile a te.»
Due voci femminili si fanno lentamente strada nel mondo dei miei sogni. Mi sento gli arti intorpiditi e il viso dolorante, sfatto dal pianto.
«Buongiorno, bella addormentata.» Zia Johanna mi da un calcetto delicato sul fianco, continuando a pungolarmi col piede finché non mi tiro faticosamente a sedere. «Hai saltato il pranzo.» Mi strofino le palpebre chiuse, stentando a mettere a fuoco l'ambiente circostante. Macchie brunastre ostruiscono il mio campo visivo e devo strizzare più volte gli occhi per distinguere i sandali di Johanna dall'erba del prato. «Io ti avrei fatto saltare anche la cena, ma tua madre non vuole vederti denutrita.»
Mi schiarisco la gola, rimanendo curva, la testa fra le ginocchia.
«Grazie.» Le parole mi graffiano la gola. «Mi alzo subito.»
Sfrego i palmi sul tessuto della gonna, grattando con le unghie una delle macchioline di verde e rugiada. La pelle del mio naso e le ginocchia scottano, arrossate dal sole, ormai sceso oltre la linea dell'orizzonte.
Il cielo ha perso la sua sfumatura acquatica: è di un grigio azzurro saturo, che avrei voglia di dipingere.
Aggiungerei delle stelle, però. Una costellazione a forma di vela, o di conchiglia. «Papà, sai che anche qui a casa c'è il rumore del mare?»
Papà ride, sollevandomi fra le braccia. Mi fa volare, alta, altissima, oltre le stelle. Mamma lo guarda preoccupata, bisbigliando di mettermi giù.
«E dove sarebbe questo mare, Willow?»
«Nella conchiglia di Junior!» Esclamo, come se fosse assolutamente ovvio «Vuoi sentire?»
La presa sul pomello sfugge alle mie dita sudate e la porta sbatte in un tintinnio di vetri.
«Stavo morendo di fame!» Rye si stiracchia sulla sua sedia, guardandomi torvo.
«Mi dispiace.» Mormoro, sconfitta, prendendo posto nell'unica sedia vuota intorno alla tavola apparecchiata, tra zia Annie e mio fratello.
Papà non alza neanche lo sguardo: tiene gli occhi fissi sul piatto vuoto e una mano poggiata sullo schienale della seduta di Mallow, l'altra probabilmente stringe quella della mamma sotto il tavolo. Mi fa male. È un dolore fisico, una morsa di ghiaccio tra lo stomaco e il petto, l'indifferenza di mio padre.
Preferirei che mi picchiasse, quasi, come fa il padre di Evan, con quel sorriso viscido e lo scapaccione facile. Una guancia che brucia passa in fretta.
«Hai intenzione di cenare in quello stato?» Zia Jo mi fissa, stagliata con una teglia in mano nello specchio della porta, indicando con un mestolo – e una palese aria di disapprovazione – il vestito sporco di terra e i fili d'erba intrappolati fra le mie ciocche.
Io non volevo proprio venirci, qui, zia. E ora affettami pure perché non mi lavo le mani prima di mangiare. Chissenefrega.
«Lasciala stare, Johanna.» Mia madre interviene, cupa, senza guardarmi in viso.
Cala un silenzioso denso, granuloso, spezzato solo dal tintinnio assordante delle posate. Perfino le gemelle, che di solito mangiano con le mani, lanciandosi il cibo da una parte all'altra del tavolo, mirando ai ricci biondi di Rye, siedono stranamente composte.
Zia Annie sorride tra sé, chiusa nel suo mondo, senza toccare cibo.
Sembra che tutti trattengano il fiato, come sott'acqua, e io avrei voglia di scomparire, inghiottita dal rumore del mare.
Faccio fatica a deglutire. Il pesce mi graffia la gola come se ogni singola spina fosse ancora al suo posto e il rumore dei miei stessi denti mi fa fischiare le orecchie.
È tutto incolore, inodore, insapore. E punge e mi brucia fin dietro la radice del naso.
Sono io. Io che ho rovinato tutto, io che ho deluso mio padre, io che faccio soffrire mia madre, io che ho allontanato Junior, io che rovino sempre tutto. Io che dovrei essere matura, e mi comporto da mocciosa egoista.
Mi dispiace, mamma.
L'immagine del filetto piluccato mi trema davanti agli occhi prima di serrarli nello sforzo di impedire alla lacrime di sfuggirmi dalle ciglia.
«Scusate, non mi sento molto bene.» La mia voce trema incontrollabilmente, ma mi obbligo a rimanere incollata alla sedia, in attesa di essere congedata.
«Che hai? Hai preso freddo?» Mia madre mi guarda, finalmente, allungando la mano verso la mia, dall'altra parte del tavolo. Papà scuote la testa, piano, e la mano di mamma si blocca a mezz'aria. Rimane sospesa così per un po', finché, nello stesso silenzio opprimente, papà le sfiora le dita, riportandole intorno alle sue oltre la caduta della tovaglia.
Mi dispiace.
Abbasso la testa, incapace di sostenere la preoccupazione dipinta sul viso di mamma, facendo un breve segno di diniego.
«Che ne dite, lo facciamo alzare o no, l'uccello del malaugurio?» Johanna sbuffa, visibilmente disturbata dalla mia presenza. Non riesco a biasimarla. «Così magari noialtri riusciamo a non farci andare il boccone di traverso.»
«Johanna...» Papà scrolla la testa, sospirando.
«Fuori dalle palle, Willow.» Mi ingiunge la zia, indicandomi la porta «Te lo chiedo come favore personale.»
«Johanna!» Mamma e papà lo gracchiano in un perfetto, sincronizzato coro d'indignazione. Mi alzo di scatto, facendo vibrare i bicchieri pieni d'acqua.
Il tovagliolo scivola dalle mie gambe al pavimento senza un suono.
«Ha ragione.» Rimetto lentamente la sedia al suo posto, afferrando il piatto pasticciato con le mani che mi tremano «Chiedo scusa a tutti per la pessima compagnia. Vado a dormire.»
Butto il piatto nel lavandino con troppa foga, spaccandolo in due identiche mezzalune di ceramica. Rivoli di sugo di pesce sgocciolano dalla spaccatura e un filo d'acqua porta via i frammenti più piccoli, risucchiandoli nello scarico.
Più a lungo rimango a fissare i cocci, più mi paiono le due metà di un cuore spezzato.
Come le mani intrecciate dei miei genitori, che hanno bisogno di cercarsi l'un altra per restare integre nella loro stretta, irrimediabilmente carenti l'una senza l'altra e assolutamente complete nella loro unione.
E finalmente riesco a dare un nome alla sensazione che mi tormenta, che mi tiene sveglia di notte, a rigirarmi nelle lenzuola che profumano di bucato e dei boschi del dodici, troppo grande per correre nel letto di mamma e papà, troppo grande per infilarmi di soppiatto in quello di Junior fingendo di farlo con fanciullesca innocenza.
Incompletezza.
Ecco cosa sono: un mollusco privato del suo guscio, un pesce senza branchie, un arco senza frecce, una tela senza colori.
Incompleta.
L'acqua scorre tiepida tra le mie dita, ripulendo la ceramica spaccata dai resti della cena e la mia testa dalla massa ingarbugliata di inquietudine e senso di colpa.
«Bisogna avere la forza di riconoscere i propri limiti. Non è sbagliato appoggiarsi a qualcuno, ogni tanto.»
Diventa tutto chiaro, come se mi avessero acceso una lampadina nella mente, diradando la foschia. Salgo le scale a due a due, ignorando il borbottio di Johanna, e mi fiondo sotto la doccia senza spogliarmi.
L'acqua scorre gelida, impregnando il pizzo ormai rovinato.
Il vestito si incolla alla mia schiena e alle gambe, facendomi rabbrividire, e la lampadina nel mio cervello diventa sempre più incandescente.
Ho sempre bisogno di tempo per riflettere sulle cose.
Non riesco mai a vedere le cose dalla giusta prospettiva, all'inizio.
Devo elaborarle almeno un po', digerirle. Posso metterci anni, passati a cuocere nel mio brodo e ribollire sotto la superficie, calcolando i pro e i contro di azioni e reazioni. Dicono che in questo somigli a mia madre, a quando aveva la mia età e scappava per ore nei boschi a riflettere.
Io non mi allontano mai troppo, e forse per questo, a volte, impiego più tempo.
Domani chiamerò Junior.
Il pensiero prende forma nella mia mente, cristallino, limpido come gli occhi di mio padre quando sorride, come l'acqua che lambisce le rocce bianche della vela.
Lascio che il getto della doccia lavi via la terra e le foglioline dai miei capelli. Quando anche l'ultimo stelo scivola nello scarico cerco a tentoni un flacone di shampoo.
Domani chiamerò Junior.
La schiuma sotto i miei polpastrelli è soffice come la migliore crema al cioccolato di mio padre e profuma di pesca.
Vorrei che fosse mio padre a lavarmi i capelli, come faceva fino a qualche tempo fa, strecciandone i nodi con il suo tocco delicato. La mamma non ne ha mai avuto la pazienza: aggrediva le ciocche con la spazzola come conigli nel bosco. Piangevo sempre, quando era lei a pettinarmi.
«Ci sono tante cose nella vita per le quali non bisogna avere fretta, tesoro.» La voce di papà sorride insieme alle sue labbra mentre mi sfila dalle mani la coperta che copre la ciotola traboccante di impasto.
«Come i biscotti?» I miei piedini penzolano dalla sedia. Cerco ancora di sbirciare sotto gli scacchi bianchi e rossi, ma la sua risata mi ferma.
«Come i biscotti, la felicità, il pane...» si gratta un sopracciglio, baciandomi la fronte «Hanno tutti bisogno di lievitare, alcuni più a lungo di altri. Le cose per le quali bisogna avere pazienza sono sempre le migliori, perché vuol dire che vale la pena aspettarle.»

Mi sfilo il vestito e la biancheria fradicia, che si stacca dalla pelle con un risucchio, lanciandoli oltre il box. Emettono un ributtante cic-ciac umidiccio a contatto con le piastrelle, schizzando il muro d'acqua saponata e terra.
Zia Johanna mi ucciderà.
Esco dalla doccia solo quando ho le punte delle dita rinsecchite e il vapore si condensa in piccole gocce luccicanti sui vetri satinati del box.
Cammino sgocciolando sul tappeto morbido, pulendo lo specchio dalla condensa con gli avambracci. I fili soffici mi avvolgono le piante, solleticandomi le dita.
Vicino alla specchiera, tra una ciotola piena di saponette azzurre e l'asciugamani rosso di zia Johanna, appeso ad un gancio azzurro a forma di conchiglia, c'è un enorme accappatoio da uomo di un verde sbiadito.
Affondo il naso nella spugna lisa, cercando una traccia del suo odore di salsedine misto a quello di bagnoschiuma.
Inspiro profondamente, socchiudendo gli occhi.
Dopo qualche istante il fantasma di quel profumo giunge fino al centro del mio petto.
Non è solo nelle mie narici: è nella mia testa, nello stomaco, nella fibra dei miei muscoli.
Formicola nelle piante dei miei piedi, nei bulbi dei capelli, nelle ginocchia che sento improvvisamente molli.
Una sensazione di calore mi infiamma il petto, da qualche parte a sinistra dello sterno, e si diffonde nelle membra, bruciando ogni cosa al suo passaggio.
Lo stacco dal suo gancio usando solo due dita, sfiorandolo piano.
La spugna mi avvolge come un abbraccio, inglobando le gocce d'acqua che grondano dai capelli sciolti su una spalla, ed è come il sole che incontra l'oceano nella stretta del tramonto, quando le fiamme affondano tra i flutti, tingendo le onde di riflessi fiammeggianti: toglie il fiato.
È caldo e freddo e intenso e assoluto, e io sento di non avere più bisogno di ossigeno.
Mi siedo a gambe incrociate sul tappeto, accarezzando le maniche troppo grandi per le mie braccia sottili.
Immagino il suo corpo in questo accappatoio, grande abbastanza per ospitare me e le gemelle, imperlato dalle stesse gocce che imperlano il mio, i capelli profumati dallo stesso shampoo che sa di pesca e dei dolci di papà.
Junior adolescente, con un costume giallo troppo piccolo per lui. Junior con la muta e uno dei suoi rari sorrisi, pronto per la sua prima immersione come biologo.
Junior chino sul dirupo, intento a intrecciare corone di fiori.
Lui e le conchiglie, la vela, l'oceano, le ginestre. Le sue lenzuola profumate di mare e di bucato, le sue mute di neoprene, le reti, i delfini in lontananza.
Odori, suoni e colori scorrono veloci dietro i miei occhi, come pagine ingiallite sfogliate troppo in fretta.
Ogni tanto respiro a fondo, strizzando le palpebre per intrappolarne uno fra le ciglia, mentre il vapore si condensa in gocce sempre più pesanti che rigano ogni superficie.
Il bagno sembra piangere, silenzioso, mentre il freddo del pavimento si fa strada fino alle mie ossa. Mi avvicino carponi alla porta, appendendomi alla maniglia con la punta delle dita.
Il corridoio è infinito. Un po' arranco e un po' mi trascino, buttandomi sul primo letto che incontro nel tragitto.
L'accappatoio bagnato lascia un lieve alone di umidità sulle lenzuola stinte, ma non ho nessuna intenzione di sfilarlo.
Non vorrei dormire con nient'altro addosso.




Note di fine capitolo:
Buonsalveh! Eccoci giuntih all'ottavo capitolo! *0* Abbiamo un bel salto temporale in avanti, infatti non solo è cambiato il punto di vista narrante, ma sono trascorsi 10 anni nei quali la nostra Willina è cresciuta... JJ sarà maturato? Chilosa.
Conosciamo più a fondo i sentimenti che nutre verso il nostro JJ che, a differenza di quanto supponeva lui, non sono mai stati una cotta infantile.
Questo è appunto il secondo "blocco" di Aquamarine. Molti dettagli verranno narrati tramite flashback, quindi, per avere un'idea di cosa sia successo in questi dieci anni...non vi resta che continuare a seguirci ♥
Ricordiamo che su Colors Fanfic troverete tutte le storie che appartengono a questa serie, nonché il nono capitolo in anteprima di Aquamarine.
Grazie come sempre a tutti coloro che ci seguono e ci supportano...siete cuorih ♥


Ringraziamenti:
Come per ogni nostra fanfiction, non possiamo esimerci dal ringraziare tutte le persone che ci sono state vicine nella stesura della storia, quelle persone che, in qualche modo, hanno contribuito a rendere Aqua la storia che è, quindi i nostri ringraziamenti più sentiti vanno a:
radioactive che non solo ha creato per noi questo fantastico banner – e non ci stancheremo mai di dire che è una grafica nata – ma che ci ha promptate, aiutate, ispirate e che è la persona che più ci ha aiutate e spronate a scrivere Aqua. Questa fanfiction è anche sua;
_eco che ci ha fatto immaginare un incontro tra JJ e Will;
gabryweasley che ci ha seguite sin dall’inizio, amando Aqua tanto quanto noi. Che ci chiedeva di passarle i pezzi e li leggeva dicendoci sempre cosa ne pensasse.
Se amiamo tanto Aquamarine è anche merito loro ♥ Grazie per tutto, vi amiamo! ♥


Veniteh a fare le bolleh d'Assenzioh con noi nel gruppoh Facebook gestito dalla nostra meravigliosah famiglia disfunzionale ♥ A Panda piace fare le bolle d'assenzio [EFPfanfic]
Abbiamo apertoh anche una pagina Facebook dedicatah a questa serie, doveh potreteh farci qualsiasi domanda su questa raccoltah, seguire tutti gli aggiornamentih, salutareh Finnickinoh che ballah nella p0rn Narnia e devolvere zolletteh alla sua causah ♥ Vi aspettiamoh numerosih ♥ Colors.

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Capitolo 9
*** Capitolo IX ***





IX.




Ho freddo.
Un freddo micidiale, che mi fa battere i denti fino a farmi dolere le gengive.
Un cerchio di ferro e ghiaccio mi stringe le tempie in una morsa.
Sbatto le palpebre, provando a mettere a fuoco i contorni nella penombra.
Non è la mia camera, questa. Non c'è il grande quadro pieno di impronte colorate che sormonta la testiera del mio letto e l'odore della federa inzuppata non è quello giusto.
Cerco a tentoni qualcosa che mi dica dove mi trovo. Sul comodino le mie dita incontrano un fagottino di stoffa, con qualcosa di pungente che spunta dal tessuto.
Ops.
Schizzo fuori dalle lenzuola, cercando di fare meno rumore possibile.
Non ho mai voluto imparare a cacciare - non potrei mai sopportare l'agonia negli occhi di un cerbiatto - e la mamma se n'è sempre rammaricata.
Ho il passo giusto, dice.
Le mie dita scivolano lungo il corrimano. Scendo mezzo gradino per volta, cauta, tastandone l'altezza con la punta dei piedi prima di ogni passo.
«Ma lo strizzacervelli cosa ne pensa?»
La voce di zia Johanna è poco più di un sussurro, ma basta a bloccarmi a metà di un passo, con il piede sospeso a pochi centimetri dall'ultimo scalino.
Qualcuno mugola qualcosa in risposta, soffocando un singhiozzo.
«Sarà come dici, ma a me sembra una grossa stronzata.» Il tono della zia è irritato, più alto di un'ottava.
Avanzo verso la cucina, trattenendo il fiato. Chiunque sia l'interlocutore di zia Jo, quello di cui stanno parlando non è affare mio.
«Non sta bene origliare, mocciosa.»
Devo solo prendere qualcosa per il mal di testa. Poi sparirò come se non fossi mai scesa dal letto. «Anche Peeta dice un sacco di stronzate.» Zia ride, sparlando di mio padre «Solo che dette da lui sembrano sempre verità incontrovertibili.»
Papà non dice stronzate.
«Papà non dice stronzate!» Mi porto entrambe le mani davanti alla bocca, tentando di soffocare la mia stupida linguaccia.
Troppo tardi. La mia voce esplode nel silenzio dell'ingresso e due ombre si stagliano, nette, dietro la porta d'ingresso.
«Willow?» Mia madre singhiozza piano, schiudendo la porta. Barcolla, instabile sulle ginocchia. Ha le guance arrossate, lo sguardo vitreo.
Nella penombra del portico le sue iridi galleggiano sul viso stravolto, trasparenti e incolori come vetro.
«Mamma...» muovo un paio di passi verso di lei, stringendomi nell'accappatoio «Mamma, sei ubriaca?»
Mia madre arretra incespicando e soffia aria fra i denti, scuotendo la testa. Inciampa in sé stessa, ricadendo seduta sul piccolo dondolo che occupa un angolo del portico, atterrando sul ginocchio flesso di Johanna, che ride.
Lei ride. Mia madre è ubriaca e lei ride.
«Avanti, mocciosa» mi apostrofa, tendendomi una bottiglia mezza vuota, nella quale ondeggia un liquido ambrato «Non fare quella faccia. Di Peeta ne abbiamo già uno, ci basta e ci avanza.» Ride ancora, divertita dal movimento del liquore sul fondo della bottiglia. Mamma le blocca il braccio, scuotendo la testa. Tutto quell'ondeggiare le da la nausea, ne sono certa. Si scambiano una lunga occhiata, indecifrabile, prima di fissare me.
A lungo.
Troppo a lungo.
Quando gli occhi di zia Johanna scendono oltre il mio collo, tento, in un vago tentativo di dissimulazione, di portarmi le braccia al petto, nascondendo il mio abbigliamento alla meno peggio. «Ti prego, dimmi che non hai addosso quello che credo io.» L'espressione di zia è un misto bizzarro di sarcasmo e tristezza. Il suo viso è inquieto, indeciso come una giornata di marzo, mentre mi tende con più vigore la bottiglia «Fidati, mocciosa. Hai bisogno di un goccio anche tu.»
«No!» La protesta di mamma mi suona quasi puerile, accostata alla determinazione di Johanna, che mi afferra per un braccio, trascinandomi a sedere fra il suo ginocchio e il fianco della mamma. «Tu alla sua età eri sopravvissuta a due arene, Katniss. Più o meno.»
Più o meno.
«Mamma...» sospiro, lasciandomi accarezzare i capelli ancora umidi. Fa un po' meno freddo qui, stretta fra le gambe della zia e le braccia di mia madre. Il movimento delle sue dita, che scorrono leggere lungo la linea delle punte, è la migliore medicina che potessi trovare. Non è solo il loro tepore, a scaldarmi.
«Mi dispiace, tesoro mio.» Una lacrima scivola tiepida lungo la mia spalla, perdendosi nella spugna «Mi dispiace per tutto.»
Mi ritrovo a singhiozzare, il viso premuto sulla spalla di mia madre, ritrovando una scheggia della bambina che piangeva perché non era in grado di tagliare da sola il suo cibo, senza i suoi genitori a farlo per lei.
E vorrei che queste lacrime cancellassero gli ultimi tre anni, lavando via tutti i torti commessi e subiti, le porte sbattute, i musi lunghi, le recriminazioni, i sensi di colpa.
Vorrei che avessero il potere di rimettere a posto i pezzi, come la marea che riporta al suo posto la sabbia rubata al suo mare. E vorrei avere la forza, le parole giuste per dire tutto questo a mia madre. Vorrei che fosse vero, ciò che tutti dicono sulla mia somiglianza con papà, per esprimere il groviglio di amore e dolore che si intrecciano come rami di ginestra sul fondo del mio palato, asciutto come pietra.
Ma non ci riesco. Riesco solo a stringerle più forte le braccia intorno alle spalle, sperando che basti, sperando che capisca, dalla disperazione con cui mi aggrappo a lei, tutto ciò che non sono abbastanza profonda, abbastanza forte, abbastanza matura per dirle.
Zia Johanna si schiarisce rumorosamente la gola, tirando su con il naso.
Si è allontanata in silenzio, accoccolandosi sui gradini del portico, abbracciata alle sue ginocchia. Alla luce della luna il suo caschetto ha la stessa trasparenza argentea degli occhi della mamma. «Finito con le smancerie da famigliola disagiata ma felice?» Chiede, senza voltarsi. «È mai possibile che debba farvi anche da consulente familiare?» Sospira, giocherellando con il collo della bottiglia.
Per quanto possa sembrare la più rumorosa, irruenta donna al mondo, solo ora mi rendo conto di quanto Johanna sia brava a sparire. Una vita intera in bilico, estranea e padrona in una casa piena di fantasmi, sempre pronta a farsi da parte, eclissandosi nell'ombra, come se non appartenesse davvero a nessun posto.
«Vieni qui, zia.» Le faccio cenno di avvicinarsi, sciogliendo un braccio dalla stretta sulla spalla della mamma «Hai bisogno di un abbraccio Mellark anche tu.»
«Oh, ma fatemi il piacere!» Sbuffa, aggrappandosi al corrimano per rimettersi in piedi «E se questa cosa dall'abbracciare fosse contagiosa?» Rotea gli occhi scuri, esagerando un'espressione disgustata. Non si ribella, però, quando mi sollevo dal dondolo per abbracciarla davvero.
Mi ricambia, impacciata, trattenendo il fiato.
Devo così tanto - troppo - a questa donna per lasciarmi ingannare da qualche stupidaggine da donna che non deve chiedere mai.
«Ora puoi lasciarmi il mio letto, mocciosa, prima che decida di affilare la mia accetta sulle tue lunghe chiome?» Sguscia delicatamente dalla mia stretta, fissandomi con un sopracciglio alzato. Mormoro delle scuse, dissimulando la frase «ti ho inzuppato le lenzuola» con qualche colpo di tosse.
Zia Jo alza gli occhi al cielo, afferrandosi la testa fra le mani. «Ma quando crescerete, tutti?» Domanda, rivolta alla mamma. Lei sorride fra le lacrime, prendendomi per mano per ricondurmi al suo fianco sul dondolo.
Mi lascio abbracciare a lungo, mentre mamma continua a singhiozzare sommessamente fra i miei capelli.
Parliamo poco, lasciandoci cullare dal vento dell'oceano, le teste vicine.
«Mamma?» Chiedo, ad un tratto, quando sento estinguersi anche l'ultimo singhiozzo «Ti andrebbe di farmi la treccia?»
La sento annuire piano. Non riesco a vederla in viso, ma sono certa che stia sorridendo.
«Me la ricordi tanto, Willow.» Sospira, accomodandosi meglio alle mie spalle per pettinarmi le ciocche con le dita. Si ferma per un istante, immobile. Non la sento neppure respirare, e so che si sta sforzando di non piangere. Come so che sta parlando della zia che non ho mai conosciuto, spazzata via dalle stesse fiamme che hanno devastato pelle di mia madre. Da piccola la schiena della mamma mi spaventava. Credevo che quei pezzi di pelli diverse, rattoppati fra loro con mano incerta, si sarebbero allargati come un'infezione, cancellando il viso di mia madre.
Non facevo che sognarlo, e mi svegliavo di soprassalto, a notte fonda, per controllare che la sua faccia fosse ancora al suo posto.
«Non devi avere paura delle nostre cicatrici, Will.» Papà mi accarezza la fronte, scostandone le ciocche appiccicate dal sudore. Il lettone mi sembra enorme. Mi raggomitolo fra le lenzuola aggrovigliate, stretta contro il petto di mio padre «Ci raccontano chi siamo e ci permettono di ricordare ciò che abbiamo perso.» Mi indica il punto in cui il moncone della sua gamba incontra la protesi «Vedi?» Guida la mia mano, piccolissima nella sua, fino alla gamba artificiale. Il freddo contatto con la plastica mi fa rabbrividire «Come farei a ricordarmi di avere una gamba sola, se non avessi questa?»
La mamma sorride. È un sorriso triste, che papà cancella con un bacio.

Crescendo ho imparato a riconoscere le cicatrici dei miei genitori. Ne hanno tante, troppe: schiene martoriate, gambe mutilate, polsi solcati da linee orizzontali e verticali, bruciature sul petto, alla radice dei capelli. Non mi fanno più paura.
Sono le ustioni più profonde, le cicatrici che marchiano la loro mente e il loro cuore, quelle che mi spaventano davvero.
«Hai i suoi stessi occhi. Lo stesso sorriso, la stessa risata.» Ad ogni parola fa una breve pausa. Le mani le tremano tanto che deve smettere di intrecciare. Vorrei tornare ad abbracciarla. Deve essere difficile per lei: lo sento nel suo lieve affanno, in come cambia nervosamente posizione, incapace di trovarne una comoda.
Nel nostro libro ci sono tanti ritratti di quella bambina dagli occhi azzurri, tratteggiati dalla mano leggera di papà. Mamma piange spesso, quando capita nelle pagine che parlano di lei.
«Quando sei nata, Willow, avevo paura.» Sospira, riprendendo ad armeggiare con i miei capelli. «Ho passato mesi a vegliare la tua culla, terrorizzata dall'idea che, se solo mi fossi distratta per un attimo, ti avrebbero portata via da me.»
«Mamma...» tento di interromperla con un filo di voce. Non occorre che mi dica tutto questo, non occorre che soffra tanto.
«No,» risponde, risoluta «lasciami finire.» Afferra tre piccole ciocche dalla cima della mia testa, separandole gentilmente con i polpastrelli «Avevo paura. Tanta da non riuscire più a mangiare né a dormire, se non ti avevo sotto controllo. Avevo tuo padre, che ogni notte giurava che ti avrebbe protetto, che non avrebbe mai più permesso che qualcuno ci facesse del male, ma...» esita, tirando su col naso, e a me sembra di vederla, china sulla culla di legno bianco costruita da papà, pronta a proteggerci dalle ombre e dagli incubi a costo della sua stessa vita. «Non bastava, Willow. Quando hai così paura, niente basta mai. Eri una bambina difficile, tesoro. Piangevi continuamente, non dormivi, non mangiavi. Avevo il terrore che fossi malata, che potessi soffocare nel sonno, che morissi di fame.» Deve fermarsi di nuovo. Le sue mani tremano così tanto da sbattere lievi sulla mia nuca tra una frase e l'altra. «Eri come tuo padre, sei come tuo padre: soffrivi perché percepivi la mia ansia. Sono stata così male, quando il dottor Aurelius me l'ha detto, da non scendere dal letto per giorni. Ti stavo uccidendo, anziché proteggerti.» Porto le mani davanti alla bocca, straziata dal dolore nelle parole della mamma. Le lacrime si fanno strada tra le mie dita, bagnandomi i palmi. «Allora ho provato a fidarmi di Peeta, ad affidarti un po' più a lui. E con tuo padre tu sei sbocciata, amore mio. Hai cominciato a dormire, a mangiare regolarmente, perfino a parlare. Ero così gelosa di come lui riuscisse laddove io fallivo, così infelice, che credevo ne sarei morta.»
Mia madre parla lentamente, la bocca impastata e la lingua sciolta dal liquore.
Mi racconta di come mio padre mi abbia insegnato a camminare, parlare, ballare, disegnare, leggere e in seguito a scrivere. Di come ogni anno, ad ogni passo, canzone, sorriso vedesse in me un pezzo di Primrose in più.
«E mi sono detta che tu potevi essere la mia redenzione.» Espira, sciogliendo un piccolo nodo sulla nuca «Che con te potevo riuscire dove con Prim avevo fallito. Darti una vita sicura, protetta dal mondo. Una vita in cui nessuno avrebbe potuto ferirti né portarti via da me.»
È come una lunga, profonda coltellata nel petto. Il metallo delle sue parole affonda nella mia carne, implacabile. Immagino il dolore devastante di vedere Rye morire sotto i miei occhi, cancellato dal fuoco.
Una piccola bara vuota, neanche una lapide su cui piangere.
Le piccole dita gelate di una bambina insepolta mi stringono la gola.
Gli occhi verdi del padre di Junior, quelli vitrei di sua madre, quelli azzurri di Primrose, quelli grigi dei bambini perduti di zio Haymitch...mi fissano tutti, allineati in un urlo muto.
«Come ci riesci?» Mormoro, voltandomi verso di lei «Come riesci a vivere con tutto questo?»
Mamma mi fissa a lungo, aprendo e chiudendo la bocca un paio di volte, cercando le parole giuste.
Distende le gambe, facendo ondeggiare il dondolo, e si stringe le braccia al petto.
«Non ci riesco, Willow.» Abbassa lo sguardo, facendoci dondolare ancora. «Ovviamente non ci riesco, se ho avuto bisogno che vi allontanassero da me perché imparaste a dormire da soli, lavarvi, usare le posate.» Una lacrima scintilla sulla sua guancia, illuminata dalla luna. «Però continuo a provarci. Ancora e ancora. A cercare un modo per fare sì che ciò che noi abbiamo vissuto vi renda più forti, a trovare un motivo per alzarmi dal letto ogni mattina. Provo a conquistarmi il vostro amore, il vostro rispetto, nonostante tutto il male che ho fatto, sperando che non mi odiate per tutte le mie paure.» Mi regala uno dei suoi sorrisi tristi, uno di quelli che papà fa sempre sparire con un bacio. «E fallisco spesso, come vedi.»
«No.» Nego, scuotendo la testa con decisione.
E la abbraccio forte, più forte che posso. Per la prima volta mi sembra così fragile, tra le mie piccole braccia, che capisco quanto papà abbia bisogno di stringerla, per tenerla insieme.
«Scusa, mamma.» Lo singhiozzo fra i suoi capelli, che stanno perdendo il solito odore di bosco, assorbendo quello del mare «Stavo così male, mamma. Così male...» Tremo, premendo il viso nell'incavo della sua spalla. «Per Junior e gli attacchi di panico e Rye che cresce e le gemelle che mi danno il tormento... E tu che non vuoi permettermi di andare a studiare psicologia a Capitol e papà che ti difende sempre e Junior che non vuole più parlarmi...» la mia voce diventa una massa confusa di singhiozzi e giustificazioni. Le parole incespicano e si accavallano le une sulle altre. Mamma aspetta, paziente, accarezzandomi la testa «Mi sentivo così sola, mamma. Perché tu hai papà e papà ha te e io non ho nessuno...»
«Mi spingerò così al largo che nessuno potrà più prendermi la mano e sarò da solo.»
«Ma io ti voglio bene, mamma. Tanto.» Singhiozzo più forte, lasciandomi accarezzare. Il naso mi gocciola e devo avere un aspetto orribile, ma non importa. Posso piangere, posso sistemare le cose. «E mi dispiace, mi dispiace tanto.»
Mamma mi stringe, posando il mento sulla cima della mia testa. Sospira, lasciandomi il tempo di calmarmi prima di parlare.
Riprendo lentamente il controllo del mio respiro, sentendomi leggera, leggera come una piuma lasciata a galleggiare nell'acqua salata dell'oceano.
«Non sei sola, Willow, mai.» Lo ripete più volte, con voce sempre più flebile. «L'amore non è sempre la risposta, tesoro. Alla tua età è facile credere che sia così, ma non lo è.»
«Questa l'hai rubata a papà?» Chiedo, nel fiacco tentativo di fare dell'ironia.
Le orecchie di mamma diventano scarlatte, così come le sue guance. «Sì,» mugugna «però non dirglielo.»
Rido, sciogliendomi dalla sua stretta per posarle la testa sulla spalla.
Do una piccola spinta al dondolo, che cigola sui tiranti, e lascio che mia madre giochi per ore con i miei capelli, guidando la mia testa sul grembo.
Scivolo nel sonno in punta di piedi, con i capelli ormai asciutti, allargati a ventaglio sulle gambe di mia madre, e una vecchia ninna nanna nella testa, mentre il cielo si colora di rosa e d'argento.

La luce filtra attraverso la tenda azzurra. La brezza che arriva dalla spiaggia la smuove, leggera, dando l'impressione che il motivo di conchiglie sul mio lenzuolo ondeggi, come veri gusci sul fondale dorato.
È tutto azzurro qui, come sul fondo dell'oceano, ma posso guardare gli angoli di ogni cosa senza che il sale mi pizzichi gli occhi.
Le mie dita risalgono la spalliera, cercando il bordo di tela ruvida.
«Così, quando non ci sarò, potrai tenermi comunque la mano.» Junior immerge le dita nella pittura turchese, imprimendo la forma del suo palmo sulla tela bianca.
Annuisco, seria, scegliendo il barattolo dorato.
Oro come la sabbia, turchese come il mare. Mi sembra che siano perfetti, insieme.

Mi stiracchio, distendendo il collo e la schiena.
Qualcuno - la mamma? - deve avermi portata nel mio letto. Rotolo per l'ultima volta tra le lenzuola profumate, saltando goffamente giù dal letto.
Chiunque mi abbia trasportata qui mi ha lasciato addosso l'accappatoio di Junior. Affondo il naso nell'incavo del gomito, sperando di ritrovare intatta la traccia del profumo che vi ho sentito ieri notte.
È ancora qui.
Sento un largo sorriso sbocciare sulle mie labbra.
Oggi lo chiamerò.
Scendo le scale a due a due, praticamente saltando, con il profumo di pancake che mi riempie le narici.
Il mio stomaco borbotta in modo indecente. Salto gli ultimi tre gradini, piroettando intorno al pomello che conclude la balaustra.
Zia Johanna, seduta in soggiorno, sminuzza una montagna di pancake con l'aria di un gatto che ha appena cacciato una grossa preda.
«Passata la sindrome premestruale?» Chiede, con un grosso sorriso sardonico stampato in faccia. Le soffio un bacio oltre il tavolo e annuisco con vigore, precipitandomi verso la scia deliziosa di burro e cannella che proviene dalla cucina.
Il mio stomaco ha inserito il pilota automatico e conosce un unico comando: pancake alla cannella.
Telefonare? Junior? Quale Junior?
«Buongiorno, pa-»
Boom.
Mi esplode tutto in faccia, scaraventandomi all'indietro.
Il quale Junior siede con entrambi i gomiti piantati sul tavolo, davanti a una gigantesca torre di pancake.
Con i quali deve essersi appena strozzato, a giudicare dal suo colorito violaceo.
Junior è qui. Continua a tossire pancake, ma è qui.
E io sono in pigiama.
Peggio, ho solo il suo accappatoio addosso.
«Sorpresa!» zia Jo lo urla dal soggiorno, in tono di assoluto giubilo.
Tento di recuperare i brandelli di me stessa, carponi sul pavimento.
Non li trovo.
Passo al soffitto, con scarsi risultati.
«Stai cercando le ovaie?» Zia mi arriva alle spalle, facendomi quasi morire d'infarto.
Sento distintamente il suono della mano di papà che si scontra contro la sua fronte, coperto dalla tosse di Junior.
No, solo la mia dignità.
Mi stringo nell'accappatoio, sperando che Junior sia troppo preso dal suo principio di soffocamento per notare ciò che indosso.
Io noto tutto, invece.
I capelli più corti e più biondi, schiariti dal sole e dalla salsedine.
Gli donano.
Da morire.
La linea sottilissima che gli solca la fronte, segno indelebile del suo broncio quasi perenne.
Le minuscole efelidi sulle sue braccia, le spalle più ampie, l'abbronzatura di un tono più scura sul viso e sulle mani.
È cambiato.
È un pensiero doloroso, che mi colpisce nella sua accecante evidenza: ho perso tre anni di Junior.
Non so cosa mi aspettassi. Forse di ritrovarlo identico a sé stesso, come tutto in questo posto, che il tempo si fosse congelato in mia attesa, bloccando le cose esattamente come le avevo lasciate.
Ma ora che è qui, dall'altra parte di questa cucina dove allungando un braccio puoi toccare quasi ogni cosa, il pensiero che nella vita non esista il tasto pausa mi colpisce con la solidità di qualcosa di tangibile.
Ci sono tre anni al centro del tavolo che ci separa, ingombranti e appariscenti quanto un elefante vestito di rosa, e, nonostante questo, io non vedo che i suoi occhi, dello stesso verde mutevole del mare, immutabili nella loro bellezza.
«Ciao mocciosa.» Mi sorridono, i suoi occhi, e io decido di fregarmene dell'elefante, dell'asciugamano, dei pancake e dei capelli più corti.
Divoro i due passi che ci separano per volargli in braccio.
Esplode tutto, di nuovo, mentre atterro sulle sue gambe, stringendo le braccia dietro la sua nuca. Le sue braccia sono calde e solide e credo che, se mi stringesse abbastanza, potrei sparire per sempre in questo abbraccio.
Inspiro, affondando il naso nel piccolo triangolo tra il collo e la clavicola, provando a rubare ogni dettaglio.
L'odore di sale e di mare e di pulito e di e buono e di Junior mi scuote fino alle ossa.
Ho perso tre anni di lui, ma il suo abbraccio e il suo odore e i suoi occhi non sono cambiati di un giorno.
E questo mi basta.
«Mi sei mancato.» Gli sussurro all'orecchio, sfiorandolo piano con le labbra. Quel breve contatto mi provoca uno strano formicolio, che dalle labbra raggiunge il mio collo e le spalle. Di nuovo quella sensazione di caldo e freddo e intensità e finitezza. Mi da alla testa, come il liquore ambrato sul fondo della bottiglia di zia Johanna. «E non osare mai più piantarmi su uno scoglio.»
Lo sento divincolarsi dalla mia stretta, il colorito di una nuova sfumatura di viola sotto l'abbronzatura.
«Mamma!» La voce di Mallow è una doccia gelata «Junior e Willow stanno facendo un bambino! Vieni a vedere!»
Junior arretra, strisciando rumorosamente la sedia sulle assi del pavimento. Mi stacca di peso, deglutendo, cercando di toccarmi il meno possibile.
Zia Johanna si tiene la pancia, piegata in due dal ridere, alla vista dell'espressione scandalizzata e furibonda di mia madre.
Mio padre, in un angolo, apre e chiude i pugni, sforzandosi di respirare.
Mugugna una sequela di parole sconclusionate, tra le quali riesco a distinguere solo ricaduta, depistaggio, Odairicidio, la mia bambina e vado a prendere una boccata d'aria, prima di eclissarsi in giardino.
Junior mi fissa per un istante. Le sue iridi seguono la schiena di mio padre e poi tornano di nuovo su di me.
Sbatte le palpebre un paio di volte e si alza di scatto, girandomi intorno senza neppure guardarmi, per correre dietro a mio padre.
Non ci posso credere!
L'ha fatto di nuovo!
Mi ha di nuovo deliberatamente piantata in asso, lasciandomi come una cretina interdetta all'uso della parola.
«Finnick Junior Odair!» L'acqua del lago è fredda e più pesante di quella del mare. Papà mi guarda dalla riva, sorridendo, e se c'è papà con me non può succedermi niente di male. Piroetto nell'acqua torbida, facendo cenno a Junior di seguirmi. Il fondo fangoso mi trascina giù i piedini, ma io sono un delfino, e un delfino non può annegare. «Non ignorarmi!»
Rye si affaccia sulla soglia, trascinando i piedi.
«Io sto ancora aspettando i miei pancake.» Commenta, lugubre, incrociando le braccia al petto. «Puoi mangiare quelli di Junior,» zia Johanna ridacchia, ancora con una mano sul ventre «non c'è rischio che abbia ancora fame.»
Mio fratello sbuffa, allungandosi verso il piatto con aria di sufficienza. Sembra dire devo mangiare gli avanzi di quello?, ma il suo enorme stomaco senza fondo - come sempre - ha la meglio sul suo orgoglio.
«Niente bambino?» Chiede Mallow, imbronciata, alla mamma, attaccata al bordo della sua maglietta.
«Niente bambino.» Rispondo io, secca.
Mamma sorride pianissimo, quasi se ne vergognasse. È un sorriso quasi invisibile, che le fa vibrare giusto gli angoli della bocca.
«Fai colazione, Will.» Mi sfiora la testa, indicandomi la sedia con l'altra mano.
«Non è stata una grande idea dire alle gemelle che i bambini si fanno abbracciandosi forte, eh.» Commenta Johanna, rivolta a mamma, appoggiando un'anca allo spigolo del tavolo «Cos'è, avevate finito le idee? O le pigne, le ghiandaie col fasciatoio e il carbone sono passati di moda?»
«Mamma...» Mallow la fissa a bocca aperta, interdetta «Servono anche pigne e carbone, per fare un bambino?»
Basta!
Vorrei urlarlo a pieni polmoni, facendo esplodere ogni vetro in questa casa, sollevando la sabbia nascosta fra le assi del pavimento, buttando giù i muri, i sonagli fatti di conchiglie legate tra loro, la rete di Annie, il dondolo sul portico.
State zitti, tutti!
Mi butto pesantemente sulla sedia, affettando il pancake come se volessi ucciderlo.
Lo sciroppo schizza ovunque, sangue ambrato, macchiandomi le mani.
«Ti va di aiutarmi a fare le valigie, tesoro?» Mia madre mi posa delicatamente una mano sulla spalla. Alzo la testa per incontrare il suo sguardo. Sorride, accarezzando i capelli di Mallow. E sta tentando di salvarmi, di nuovo.
«Lo faccio io.» Borbotta Rye, sollevandosi Mallow sulle ginocchia.
«L'ho chiesto a tua sorella.» Precisa la mamma, dolce ma ferma, e io ho una gran voglia di abbracciarla.
Rye sbuffa, mettendo il muso, e si avvolge uno dei riccioli scuri di Mallow attorno al dito. «Come ti pare.» Mi guarda in tralice, strizzando gli occhi in due fessure «Tanto rovinerà tutto come al solito.»
Rimpiango amaramente di aver insistito perché imparasse a nuotare: avrei potuto inscenare un incidente in mare.
Ora il suo annegamento nel lavandino, fra i piatti e le stoviglie, suonerebbe un tantino sospetto. Seguo la mamma per le scale, un passo dietro di lei. Sul primo gradino è seduta Lily, intenta a rigirarsi un fazzoletto color lavanda fra le piccole dita.
«Zia Annie mi ha detto che posso fare un nodo per mamma e uno per papà, » si giustifica, mostrando il fazzoletto annodato alla mamma «per ricordarmi che tornerete a prendermi.» Mamma la solleva fra le braccia, stringendosela al petto.
«Torneremo prestissimo, tesoro.» Le lascia piccoli baci su tutto il viso. Lo faceva anche con me e Rye, quando eravamo piccoli. Era bello. Faceva un po' il solletico, ma ricordo quanto mi facesse sentire amata. Lily ride, afferrando la treccia di mamma. «Non ti accorgerai neanche della nostra assenza. Torneremo prima che possiate sentire la nostra mancanza.»
Lily scuote la testa con decisione, spalancando gli occhi. Il suo labbro inferiore trema.
«È vero, mocciosetta.» Le scompiglio i riccioli, posando il mento sulla spalla di mamma per accostare il naso al suo «Ti divertirai così tanto che il tempo volerà. Ci sono io e Rye e Mallow e le zie e Junior.» La mia voce si incrina un po' sull'ultimo nome, ma Lily è troppo concentrata sulle parole per accorgersene. «Ti insegnerò a nuotare come un delfino,» come lui l'ha insegnato a me «a costruire castelli di sabbia e tuffarti dagli scogli.» La mamma mi guarda preoccupata, ma annuisce «Sarà bellissimo, vedrai.»
E so che lo sarà davvero.
Proverò ad essere per le mie sorelle quello che Junior è stato per me: quella vela al largo, fra l'acqua salata e il calore del sole, che ha lo stesso esatto odore della libertà. E forse impareranno a volare, come Junior l'ha insegnato a me.
Il labbro inferiore di Lily non trema più e la mamma ci abbraccia entrambe, baciando alternativamente le nostre teste.
«Mamma! Mi fai solletico!» La bimba scalcia per essere messa giù. Mamma la accontenta, conducendola per mano fino alla camera degli ospiti, un braccio ancora intorno alla mia spalla. Pieghiamo i vestiti in silenzio, le braccia che ogni tanto si sfiorano nello spostare una delle camice di papà o lo spazzolino da denti di mamma.
Alla fine del processo dobbiamo far sedere Lily sulla valigia, per riuscire chiudere la zip.
Per qualche motivo succede sempre: quando arriva il momento di ripartire, le stesse cose che avevi messo in valigia al principio non sembrano trovare un loro spazio.
Credo sia una metafora di quanto ogni passo che facciamo fuori dal nido ci cambi profondamente, e siamo noi, forse, a non ritrovarci nei nostri panni, quando è ora di andare via.
Lo dico alla mamma, tra una raccomandazione sulle gemelle e l'altra, e i suoi occhi grigi si velano di lacrime.
«Non si piange, mamma!» La ammonisce Lily, evidentemente già passata per la lezione sul frignare della zia Johanna.
«No,» sorride, asciugandosi gli occhi «non si piange.»




Note di fine capitolo:
Buonsalveh!br> Ricordiamo che su Colors Fanfic troverete tutte le storie che appartengono a questa serie, nonché il decimo capitolo in anteprima di Aquamarine.
Grazie come sempre a tutti coloro che ci seguono e ci supportano...siete cuorih ♥


Ringraziamenti:
Come per ogni nostra fanfiction, non possiamo esimerci dal ringraziare tutte le persone che ci sono state vicine nella stesura della storia, quelle persone che, in qualche modo, hanno contribuito a rendere Aqua la storia che è, quindi i nostri ringraziamenti più sentiti vanno a:
radioactive che non solo ha creato per noi questo fantastico banner – e non ci stancheremo mai di dire che è una grafica nata – ma che ci ha promptate, aiutate, ispirate e che è la persona che più ci ha aiutate e spronate a scrivere Aqua. Questa fanfiction è anche sua;
_eco che ci ha fatto immaginare un incontro tra JJ e Will;
gabryweasley che ci ha seguite sin dall’inizio, amando Aqua tanto quanto noi. Che ci chiedeva di passarle i pezzi e li leggeva dicendoci sempre cosa ne pensasse.
Se amiamo tanto Aquamarine è anche merito loro ♥ Grazie per tutto, vi amiamo! ♥


Veniteh a fare le bolleh d'Assenzioh con noi nel gruppoh Facebook gestito dalla nostra meravigliosah famiglia disfunzionale ♥ A Panda piace fare le bolle d'assenzio [EFPfanfic]
Abbiamo apertoh anche una pagina Facebook dedicatah a questa serie, doveh potreteh farci qualsiasi domanda su questa raccoltah, seguire tutti gli aggiornamentih, salutareh Finnickinoh che ballah nella p0rn Narnia e devolvere zolletteh alla sua causah ♥ Vi aspettiamoh numerosih ♥ Colors.

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Capitolo 10
*** Capitolo X ***





X.




«Ho capito, ho capito!» Johanna sbuffa, abbracciando brevemente la mamma «Mallow è quella insopportabile, Lily quella che morde... no, ho sbagliato, quello è Rye.»
Rye la fulmina con lo sguardo, spuntando dall'abbraccio di papà.
Mamma alza gli occhi al cielo, chinandosi per abbracciare entrambe le gemelle. Sussurra qualcosa all'orecchio di Lily, che annuisce mostrandole il fazzoletto annodato.
Papà abbraccia tutti, stringendo un momento più a lungo le braccia di zia Annie.
Anche loro si scambiano qualche parola che non capisco.
Abbraccia tutti, tranne Junior.
«Ci vediamo tra una settimana.» Dice, semplicemente, e Junior si fissa le scarpe senza ribattere.
Tengono me per ultima.
Li stringo entrambi, il mento fra le loro spalle vicine, dove il bosco incontra la cannella.
«Fatemi sapere subito cosa dicono i dottori, okay?»
Papà annuisce, baciandomi la fronte.
«Tieni d'occhio le bambine, soprattutto Mallow.» La mamma lo ribadisce per la milionesima volta, a scanso di equivoci.
Mormoro una promessa, baciandole la guancia.
Sollevo Lily fra le braccia mentre si allontanano, le spalle che si sfiorano e le mani saldamente intrecciate, guidando la sua manina in un saluto in lontananza.
La schiena di mamma trema, ma papà la sostiene. La treccia di mia madre sembra un prolungamento della camicia azzurra di papà.
I capelli scuri guizzano per l'ultima volta sul blu, prima di sparire verso la stazione.
«Io sono vecchia e ho i postumi.» Esordisce Johanna «Quindi badate voi alle marmocchie.» Indica me e Junior, sbadigliando, e rientra in casa senza troppi complimenti.
Junior continua a fissarsi i piedi, congelato dalle parole di mio padre.
Il sole luccica sul bronzo dei suoi capelli. Ha una nuova cicatrice sul gomito, a forma di mezzaluna, e mi chiedo come se la sia procurata.
Si sarà ferito durante un'immersione?
Ci sono tante cose che non so, di questo uomo adulto che ho di fronte. Cose che ho perso, che ho dimenticato, che non mi ha mai detto.
Siamo diventati estranei, Junior?
Però ho ancora il suo accappatoio addosso, cosa che non fa che rendere tutto ancora più strano.
«Hai trovato un fossile?» Mallow si butta ai suoi piedi, cercando l'oggetto di tanto interesse.
«Eh?» Junior si guarda intorno, smarrito, facendo mezzo passo indietro. Circa un metro e mezzo, con quelle gambe da giraffa che si ritrova.
«Allora un dolce!» Mia sorella batte le mani fra loro, estasiata, invitando Lily a unirsi alla caccia al tesoro.
Dopo neanche un minuto le gemelle si stanno rotolando indegnamente sui piedi di Junior, dimentiche di qualsiasi cosa stesse fissando nell'erba.
Il suono della porta sbattuta ci comunica che Rye ha deciso che odia la caccia al tesoro, i fossili, i dolci, l'erba e - ovviamente - tutti noi.
«Quando è diventato così?» Mi chiede Junior, alzando un sopracciglio «Era un bambino tanto...» fa una breve pausa, scartando per evitare l'ennesimo impatto di Mallow contro i suoi stinchi «No, a pensarci bene è sempre stato così.»
«Mordace?» Rido, indicando il segno dei denti da latte di Rye sul suo mignolo destro.
Mallow mi travolge, mandandomi a gambe all'aria nel prato.
«Guardami, Willow! Sono una valanga!» Trilla, imbrattata di terra ed erba fino alla punta dei capelli.
Sarà una lunga, lunghissima settimana.
Lascio che entrambe le gemelle mi saltino addosso, ignorando le loro urla su come siano due guerriere all'attacco del mostruoso gigante del prato.
Ouch.
I gomiti ossuti di Lily fanno un male cane, infilzati nel mio sterno.
Cerco l'aiuto di Junior con occhi imploranti.
Incrocio il suo sguardo, sorprendendolo a sorridere.
È di una bellezza abbagliante, quando sorride.
La stessa bellezza dell'ultimo minuto di un sogno, della prima alba aspettata alzati, della fioritura del bosco in primavera, della scoperta di una perla in una conchiglia abbandonata.
Sono certa che l'amore stesso, con gli occhi verdi e i capelli spettinati, abbia il suo sorriso.
E smette subito, come se l'avessi sorpreso a fare qualcosa di sbagliato, ma io continuo a sentirmi così felice e triste e stordita e annullata, tutto insieme, che potrei sciogliermi in questo prato fino a diventare rugiada.
Sporgo un po' il labbro inferiore, sillabando un grido d'aiuto col solo labiale.
Junior rotea gli occhi in un sospiro, ma gli angoli della sua bocca tremano impercettibilmente nel fantasma di una risata.
Lo amo.
Disperatamente, come il mare ama la sabbia.
Devo trattenere il fiato e chiudere le palpebre per un istante per assorbire l'onda d'urto della mareggiata. L'impatto di quelle due parole mi trascina alla deriva, sbattendomi contro gli scogli in un turbinio di schiuma.
Ti amo.
E il mondo fuori ha il rumore del vento e delle onde e delle risate delle gemelle e dei lamenti della zia Annie, ma dentro la mia testa, in assoluta, subacquea assenza di rumore, galleggia, nel silenzio delle conchiglie e dei delfini, la risata di Junior.
«Mocciosette...» una mano mi scuote piano per una spalla «Credo l'abbiate uccisa davvero.» Sbatto le ciglia di scatto, trovando la punta del naso di Junior a una spanna dalle mie labbra. I suoi respiri sono brevi e irregolari. Vedo il suo petto alzarsi e abbassarsi, veloce. Il pomo d'adamo scivola su è giù lungo la sua gola punteggiata di efelidi.
A portata di bacio.
È un pensiero fugace: mi esplode nelle orecchie, paralizzandomi, come se fosse stato lui a pronunciarlo.
«Guarda bene ora, se stiamo zitte forse si rimettono a fare un bambino.»
Mi tiro su di soprassalto, centrando il naso di Junior con la fronte.
Doppio ouch.
Io non ho bisogno di una cintura di castità: io ho Mallow e il suo tempismo da manuale.
Hurrà per la mia infelice vita sentimentale!
Junior si lascia cadere seduto nell'erba, tenendosi il naso con entrambe le mani.
«Sapevo che avevi la testa dura, mocciosa, ma non credevo così tanto...» Ride gorgogliando e lamentandosi, gli occhi lucidi di lacrime.
Il panico mi sorprende come uno schizzo d'acqua gelata in pieno viso: e se glielo avessi rotto?
Il suo bellissimo naso all'insù...
E se non tornasse a posto?
Il cuore mi martella furioso nel petto e la spugna, ormai lercia, mi si attacca alla schiena.
Scivolo carponi tra le sue ginocchia flesse.
«Fammi vedere.» Mi sforzo di sembrare autoritaria, sicura, ma la voce e le mani mi tremano così tanto che devo fare due tentativi prima di riuscire a scostargli le sue, chiuse a coppa intorno alla radice del naso, dal viso.
Junior mi lascia fare, guardandomi con un'espressione indecifrabile.
Deglutisce.
Più volte.
Non c'è sangue, né niente di irrimediabilmente guastato. Le mie dita percorrono il dorso lentigginoso con tutta la delicatezza di cui sono in grado, come per disegnare nuvole pallide su una tela bianca.
Mi sembra tutto al suo posto, non capisco perché continui a deglutire in questo modo.
Il naso è ancora lì, dove è sempre stato, al centro esatto del suo viso, con la sua linea dritta e la punta che guarda appena all'insù.
«Non mi sembra ci sia niente di rotto.» Lo rassicuro, inclinando la testa sulla spalla. «Non volevo farti male, Junior, scusa.»
Si limita ad annuire, deglutendo di nuovo, ancora più rumorosamente.
« cosa, Junior?» Sta iniziando a farmi preoccupare sul serio. Forse l'ho colpito anche alla testa e ora non vuole parlarmi. «Sì ti scuso o sì, mi fa un male cane e ti odierò per sempre?» Gli mostro tre dita, dondolandole piano sotto i suoi occhi «Quante sono queste?»
«La seconda.» Borbotta, puntando un ginocchio a terra per alzarsi «E tre.»
«Perché non ti voglio bene, io.»
Nel suo broncio vedo riflesso il diciassettenne che mi ha insegnato a volare. Conserva un'aria infantile, come se questi dieci anni avessero scalfito ogni cosa tranne quell'espressione, esattamente in bilico tra tristezza, solitudine e presa in giro, con quella faccia da schiaffi che mi riserva da sempre.
«Sei cattivo come al solito, Finnick Junior Odair.» Lo spintono piano all'altezza delle cosce, attendendo che mi porga la mano per aiutarmi a tirarmi sù «Ti chiedo scusa, sul serio.» Afferro le mani che mi tende senza neanche riflettere.
La scossa elettrica che risale dai miei palmi, a contatto con i suoi, mi ferma il battito cardiaco.
«Non importa, sul serio.» Si allontana bruscamente, scuotendo la testa. Lo strappo, dalla presenza all'assenza, è così brusco che ho bisogno di controllarmi i palmi per essere sicura che non sanguinino. «Entriamo in casa, valorose guerriere, i vostri brutti musi sono già troppo rossi per i miei gusti.»
Ha ragione: la carnagione chiarissima delle gemelle sta assumendo una preoccupante luminescenza purpurea.
E io sono praticamente morta, se si sono scottate davvero. La mamma potrebbe decidere di rivestirle con la mia pelle, durante la guarigione.
Le trascino in casa, un braccio per ogni mano, sorda ai loro capricci. Sono costretta a caricarmi una Mallow imbizzarrita in spalla per farle attraversare la porta.
Mi colpisce furiosamente a calci e pugni, aggrappandosi direttamente allo specchio della porta, sotto lo sguardo atterrito di Lily.
«Ti odio!"» Urla come un'ossessa, strappandomi i capelli «Sei brutta, cattiva e antipatica! Ti odio!»
Junior la fissa a bocca aperta, interdetto.
«Ma fa sempre così?» Domanda, mentre la ignoro beatamente, lasciandomi insultare e tirare i capelli.
«Anche peggio.» Devo urlare, per farmi sentire. Salgo le scale a due a due, continuando a trasportare anche Lily, ammutolita e terrorizzata «Ero così anch'io, alla sua età?» Grido, esasperata, scollandomela di dosso.
E se continui così, cara sorellina, ti affogo nella doccia, mamma o non mamma.
«Anche peggio.» Junior sorride, alla base della scala, tenendo le mani in tasca, e vorrei essere abbastanza alta, in piedi sul penultimo gradino, e abbastanza vicina per poterlo baciare.
Spingo entrambe le gemelle sotto la doccia, tentando di ripulirle dall'erba e dalla terra.
L'acqua diventa fango, sparendo torbida nello scarico.
Mi inzuppano dalla testa ai piedi, schizzando bolle che profumano di pesca.
Quando il getto che scivola via diventa più limpido mi libero dell'accappatoio, chinandomi sulle loro teste per insaponare i loro identici capelli ricci.
Mallow, avvolta in un asciugamani rosa, ulula mentre cerco di pettinarla e Lily si arrampica sulla tazza del water, coprendosi le orecchie con le mani a coppa.
Le dita del pettine di inceppano in ogni nodo, per quanto mi sforzi di essere gentile, e la mocciosa strepita, diventando paonazza. Ma io non la sento.
Sto fluttuando in un posto silenzioso, in una bolla che ospita il sorriso di Junior, le sue lentiggini, la sua voce, la nuova cicatrice a forma di mezzaluna sul gomito.
«Ti voglio bene lo stesso, anche se stai con quella.» L'estate dei miei tredici anni sta scorrendo lenta, senza la compagnia di Junior. Dice che sembro un pulcino goffo, tutta occhi e braccia e gambe e pelle e ossa.
Lo schizzo con un po' acqua salata, agitando il piede oltre il bordo ruvido dello scoglio.
Le pietre mi graffiano le gambe, ma è troppo divertente perché riesca a smettere.
«Si chiama Shelley, non quella.» Non mi guarda, facendo leva sulle braccia per issarsi di nuovo al mio fianco «E smettila di fare la mocciosa prepotente, ne abbiamo già parlato.»
Junior si distende al sole con un braccio sul viso.
Non mi guarda perché sono un pulcino goffo, mentre quella non fa che ancheggiare e scuotere i capelli biondi.
La odio.
Non va bene per lui.
«Non va bene per te.» Grido, stizzita, lanciandomi dalla vela nel modo più scomposto possibile. Spero che la schiuma gli tolga quel sorrisetto dalla faccia.
«E chi lo dice?»
Rimane immobile, degnandomi solo del suo tono di sufficienza, indifferente agli spruzzi, «Io lo dico!»

«Cazzo!» Johanna entra con tanta irruenza da sradicare quasi la porta dai cardini. Il pettine mi vola dalle mani e la maniglia sbatte violentemente contro un armadietto, facendone vibrare il contenuto. Una conchiglia azzurra cade con un tintinnio argentino, rotolando fino ai miei piedi. «Ma mal di testa da dopo sbronza non vi dice niente, fottute mocciose?» Mi punta all'indice, rossa in volto «State tutte zitte, subito, prima che decida di usarvi per lucidare i pavimenti!»
«Cos'è una sbronza?» Chiede Lily, pianissimo, staccando lentamente le mani dalla testa.
Mi porto un indice alle labbra, implorandola di tacere.
Zia Johanna sbatte la testa contro il muro, sconfitta, urlando maledizioni confuse.
Tutte rivolte a mamma e papà, potrei giurarci.
Riprendiamo a respirare solo quando la sentiamo armeggiare con inusitata furia con le pentole in cucina.
Siamo tutte vestite più o meno - molto meno che più - dignitosamente, quando Junior viene a chiamarci per il pranzo.
«Perché una delle mostriciattole ha la maglietta a rovescio?» Sogghigna, il deficiente, indicando l'abbigliamento di Mallow.
«Non chiedere.»
Ho la fortissima tentazione di farla rotolare per le scale, ponendo fine alla nostre sofferenze, ma l'espressione tetra di Rye mi suggerisce come possa essere una pessima idea.
Johanna è furiosa, a giudicare da quanto violentemente sbatte i piatti pieni sul tavolo.
Uno schizzo di sugo raggiunge l'occhio di Junior, che non ha neanche il coraggio di imprecare. Le gemelle, al contrario di noi, hanno la memoria corta e, appena il cucchiaio di zia Annie sfiora timidamente la zuppa, decidono di dedicarsi al loro gioco preferito: il lancio di cibo sui capelli di Rye.
Mio fratello ne è ovviamente estasiato, così tanto che decido di allungarmi sul tavolo per sequestrargli il coltello come misura cautelare.
«Davvero?» Junior mi sorride, dall'altra parte del tavolo. Un cucchiaio di sugo attraversa in slow motion il mio campo visivo. Potrebbero rovesciarsi l'intero quattro in testa, in questo momento, per quanto mi riguarda.
Risponde la segreteria telefonica di Willow. Willow è assente ma...oh, chissenefrega.
«Peggio di così?» Mi accorgo, quando la nuvoletta rosa di estatica contemplazione che avvolge la testa di Junior si snebbia leggermente, che, più che un sorriso, mi sta destinando un ghigno.
Deliberatamente irrisorio, con un bel timbro mocciosa stampigliato in rosso.
«Sì,» carico il cucchiaio di zuppa, sorridendo «molto peggio.»
Il contenuto del mio piatto lo centra esattamente in mezzo agli occhi.
Splash.
La zuppa cola lenta fra le sue sopracciglia, imbrattandogli le palpebre e gli zigomi. Strabuzza gli occhi, cercando a tentoni il tovagliolo.
Rye, in un attimo di raro giubilo, mi porge il cinque, complimentandosi per la mira micidiale. Urla «Boom, baby!» Ballando sulla sedia come un disperato e levando il pugno al cielo in segno di vittoria.
Mi fa paura, mio fratello. Tanta.
Il tavolo vibra in un tintinnio di posate quando Junior scatta in piedi, in tutta la sua altezza, mormorando un «Mocciosi» carico di sdegno.
Okay, forse - ma solo forse - ho un tantino esagerato.
Sento il suo incedere pesante su ogni scalino, sentendomi talmente in colpa che ogni passo mi rimbomba nella testa come se camminasse sulle mie ossa.
Il bisogno, impellente, bruciante come il sole a picco riflesso sul mare, di scusarmi muove le mie gambe fino alla porta del bagno.
Rye protesta, in lontananza, per la defezione di un tale valoroso guerriero fra le urla esasperate di Johanna.
Mi dispiace, Junior. Scusami. Sono una mocciosa, hai ragione.
Tamburello i piedi, poggiando una spalla allo stipite della porta. Mi sudano le mani e il mio respiro diventa più corto e affannoso.
Mi concentro sul rumore dell'acqua che proviene da dietro la porta, immaginando le sue mani che scivolano intorno alla saponetta, poi sul suo viso e di nuovo nell'acqua.
Acqua che scorre e divento acqua io stessa. Mare, oceano, lago.
Mi coloro di ogni sfumatura di verde, di ogni tonalità di bianco, del rosso del tramonto e dell'oro del bagnasciuga.
Acqua come Junior, che è una creatura del mare, e quando è nel luogo che gli appartiene, fra le rocce e i flutti, diventa delfino, stella marina, scoglio, onda, spuma e tramonto.
«Vieni a vedere una cosa, mocciosa.» Mi invita a raggiungerlo con un cenno della mano, senza distogliere l'attenzione dal fondale.
La sua fronte è accartocciata in un'espressione concentrata.
L'acqua è calda in superficie e fredda sul fondo. Mi abbraccia la vita, solleticandomi la pancia, mentre nuoto piano verso di lui.
«Guarda.» Indica qualcosa sul fondo, oltre l'acqua limpida come vetro.
È una stella, dorata come la sabbia baciata dal sole.
«Me la regali?» Sporgo il labbro inferiore, attaccandomi al suo braccio.
«Morirebbe.» Sospira, allungando la mano verso la stella senza toccarla «È una cosa viva, mocciosa, e appartiene al mare.» I suoi occhi mi sfiorano per un istante prima di tornare sulla stella «Non è un fiore che puoi cogliere o una conchiglia vuota portata dalla marea. È una cosa viva, esattamente come me e te. Solo che lei non può difendersi.»

La porta si schiude dolcemente.
«Junior...» la mia voce è un pigolio sottile, affannoso.
Mi dispiace, Junior. Per gli ultimi tre anni. Mi dispiace di essere una mocciosa. Ti voglio bene. Anzi, ti amo. Mi dispiace.
Lo vedo impallidire, facendo un passo indietro.
Deglutisce, come stamattina.
«Volevo chiederti scusa.» Sussurro, abbassando lo sguardo. «Per la testata, per la zuppa, per essere una mocciosa.» Mi fa male il petto e gli occhi mi bruciano per lo sforzo di trattenere le lacrime. Non ho il coraggio di incontrare il suo sguardo, giudicherebbe il mio pianto come una debolezza. Lo è. Non riesco ad essere come lui e zia Johanna vorrebbero che fossi, non ci sono mai riuscita. Patetica. L'ennesima patetica sceneggiata di una patetica mocciosa. «Mi dispiace per tre anni fa e per questi tre anni.» La mia voce si incrina, vetro fra i chiodi, graffiandomi il palato. «Mi dispiace per tutto.»
Ed è come la spinta della corrente che infuria contro le rocce. Il vento e le onde mi spingono e mi respingono e mi sommergono e mi fanno riemergere, spingendomi al largo, a fondo, premuta contro il suo petto.
Divento schiuma, spazzata contro le rocce, che ribolle e si lamenta e si espande, mentre lo abbraccio, aggrappandomi a lui come se stessi annegando e lui potesse tenermi in superficie.
Ed è salvezza ed è sole e mare e completezza e libertà e amore. Perché le mie ali senza di lui sono spezzate e non posso volare se non lo vedo, se non mi parla, se non sento il calore del suo corpo contro il mio. E precipito e annego e bevo l'acqua del mare che è salata e brucia nelle gola e nel petto.
Sono pesante, legata dalle rocce e dalla lacrime al fondo e non riesco a risalire.
Lui è la mia vela, le mie ali, il mio mare, e non importa se non mi abbraccia, se lo sento deglutire e trattenere il fiato perché non vuole che io lo stringa, io lo abbraccio lo stesso.
«Vuoi scusarti anche del fatto che respiri?»
È uno schiaffo, la sua domanda.
Mi fa barcollare indietro, senza fiato, e brucia sul viso come l'impronta delle dita di mia madre sulla mia guancia.
Dovrei?
Lascio ricadere lentamente le braccia, pesanti come piombo, arretrando fino alla balaustra.
Sei cattivo, Junior.
Ha un'espressione strana, indecifrabile. Mi fissa, con i pugni piantati nelle tasche, come faceva prima, ai piedi della scala, distogliendo subito lo sguardo.
È una cosa nuova, non ricordo di averglielo mai visto fare così spesso, negli anni precedenti. Quante cose sono cambiate in tre anni, Junior?
«Perché non abbracci i tuoi coetanei?»
Anche la sua voce è strana. È roca e stizzita e turbata. Calcia piano l'angolo della porta, senza guardarmi.
«Che significa?» Lo sussurro, ma avrei voglia di urlarlo, sbattergli in faccia quanto le sue stupide domande mi scavino dentro, lasciandomi vuota e in frantumi, un mollusco svuotato in balia della corrente.
«Significa quello che ti ho chiesto, mocciosa.»
Esasperante.
Lo è sempre stato, e il tempo non gli ha giovato.
Era un diciassettenne esperante, ora è un ventisettenne più esasperante.
Faccio leva sui polsi, issandomi piano sul corrimano di legno.
Restiamo per un po' immobili, il fiato sospeso, io appollaiata come un gabbiano su uno scoglio, lui che farà un buco nel battiscopa, se non smette di colpirlo con sfiancante ostinazione.
«L'ho fatto.» Sospiro.
L'ho fatto. Sono uscita con altri ragazzi, ho abbracciato altri ragazzi. Alcuni li ho anche baciati.
«Dovresti dare una possibilità a mio fratello.» Daisy si liscia la gonna, pettinando una bambola con stopposi capelli biondi, identici ai suoi. Ha le guance e le mani paffute, che la fanno somigliare a un porcellino. Papà si è arrabbiato quando mi ha sentito dirlo alla mamma: mi hanno fatto una lunghissima predica sull'essere superficiali e su quanto certi commenti possano ferire le ragazze della nostra età. Mamma poi mi ha detto all'orecchio che anche la mamma di Daisy era così, alla sua età, e crescendo è diventata bella. A me piace, Daisy, ma sembra comunque un maialino. Uno di quelli carini, però. «È cotto di te da sempre.»
Annuisco, sovrappensiero, continuando a disegnare sul mio blocco gabbiani con gli occhi verdi e ginestre bagnate d'acqua salata.
Daisy lo prende per un sì.
Il giorno dopo Warren bussa alla nostra porta di ingresso con un enorme mazzo di margherite stretto nervosamente tra le mani, in una camicia dello stesso celeste stinto dei suoi occhi.

«Chi?» Chiede, secco, colpendo più forte il legno.
«Evan e Dylan e Conor.» Conto sulle dita della mano, aggrottando le sopracciglia «Evan, soprattutto.» Mi stringo nelle spalle, pensando agli occhi nocciola di Evan e ai suoi terribili genitori. Lo sguardo glaciale di sua madre mi ha perseguitato per giorni, quando papà mi ha detto che, se i suoi fratelli non fossero entrambi rimasti uccisi nei bombardamenti, quella donna spaventosa sarebbe potuta essere mia zia. Evan era dolce. Troppo dolce. Dipendente, quasi. Terrorizzato dal rumore delle foglie come uno scoiattolo predato da un gatto. E mi stava sempre appiccicato. Qualsiasi cosa potesse esserci è finita prima di cominciare. «E Warren, ma lui è più grande, quindi non vale.»
E Warren è uno di quelli che ho baciato, aggiungo mentalmente, omettendo perfino a me stessa il fatto che l'unico motivo per cui non ha funzionato, tra me e lui, è che Warren somigliava troppo a mio padre, con gli stessi ricci color grano e la medesima, disarmante dolcezza, e troppo poco a Junior.
«Chi ha detto che mi interessavano i dettagli?» Il piede urta ancora la porta, facendo tremare l'armadietto. Le conchiglie nei portaoggetti vibrano e cozzano fra loro, tintinnando.
«Mi hai chiesto perché non abbracci i miei coetanei.» Spiego, parlando lentamente. Sembra che abbia bisogno dei sottotitoli, quindi gli darò i sottotitoli. Lascio dondolare le gambe, sfiorando il legno con i piedi nudi. «E io ti sto dicendo che l'ho fatto.» Solleva finalmente lo sguardo, giusto il tempo di lanciarmi un'occhiataccia. Vuole spiegazioni, poi non le vuole più. Mi confonde.
«E...?» Il suo tono sottintende un chissenefrega grande come una casa. Dalla posizione rigida del collo intuisco che sta serrando i denti.
Tum. Tum. Tum.
Lascerà un solco nel legno, se non la pianta. Come quelli delle unghie di papà sugli schienali delle sedie del soggiorno.
«E mi piace comunque di più abbracciare te, Junior, anche se tu non mi abbracci mai.» Lo dico come se fosse ovvio, perché lo è, per me. È ovvio che sia il suo corpo quello che voglio sentire fra le mie braccia, i suoi occhi persi nei miei, i suoi capelli schiariti dal sole fra le mie dita, le sue labbra sulle mie, le sue dita abbronzate intrecciate alle mie mani. Ovvio, limpido come l'oceano al mattino, con la bassa marea.
Lui, invece, mi guarda come se avessi detto che il cielo è lilla e nella foresta le giraffe spuntano come germogli. Tossicchia - evidentemente ha sviluppato l'abilità di strozzarsi anche senza cibo nei paraggi - e non ribatte.
Attendo a lungo che dica qualcosa, mentre impallidisce sotto l'abbronzatura e smette di calciare lo stipite. Graffio il legno con le unghie, cercando il dolore delle schegge sotto le dita per riempire il buco che si allarga nel mio petto.
Non basta.
È ovvio che io voglia abbracciare lui, come è ovvio che lui non voglia stringere fra le braccia una mocciosa.
Ovvio.
Ci sono lunghi capelli biondi che sculettano, ad aspettarlo da qualche parte.
«Forse è vero che non mi vuoi bene.» Lo sussurro, inspirando ed espirando.
Non ribatte.
Sta lì, chiuso e distante, i pugni serrati e le labbra cucite, senza dire una sola parola.
Dimmi che mi sbaglio.
E io mi sento male, così male che potrei decidere di volare giù dal parapetto per frantumarmi come una conchiglia schiaffeggiata dalla corrente.
Non l'ho scelto io, Junior. Non l'ho scelto.
Scendo con un piccolo salto dal mio trespolo, prendendomi ancora un lungo istante di speranza. Non succede niente.
«Scusami se ti ho messo a disagio.»
Gli volto le spalle, combattendo con le mie ginocchia liquefatte per mettere più distanza possibile fra di noi.
Non c'è assolutamente nulla che possa fare. Non ho il potere di accelerare le lancette del mio orologio, accartocciando questi anni semplicemente stringendoli fra le dita.
Posso solo lasciarmi andare, seccarmi al sole, indifesa quanto una stella marina strappata alla sua casa di onde e sabbia.

Il silenzio si dilata nella mia testa come una mareggiata.
Mi entra nelle orecchie, nel naso, nella bocca, bruciante e amaro come acqua salata.
C'è il mare, nella stanza di Annie.
Ogni cosa è conchiglia o nodo o rete o corallo.
Sembra di essere in un gigantesco acquario dai bordi sigillati, e i miei polmoni hanno finito l'ossigeno.
Mi sono chiusa qui, in assenza di rumore e di aria, perché so che è l'unica stanza dove nessuno, tranne la sottile, appassita zia Annie, entra mai.
È una stanza di fantasmi, questa.
«La stanza di Finnick. Dove aspetto che torni a prendermi.» Annie sussurra, stretta nelle sue spalle ossute, rigirandosi un fazzoletto annodato fra le dita nodose. «Tornerà, sai?» Parla rivolta a tutti e a nessuno. Guarda l'orizzonte, in ogni angolo e in nessun luogo, con gli occhi vuoti come vetri bruciati. «È come la marea, e la marea torna sempre.»
È sul punto di rompersi, Annie. È un asse di legno lasciato in balia della corrente, troppo gonfio d'acqua e putrescente per ribellarsi ai flutti.
Junior trema al mio fianco, stringendomi le dita fra le sue fino a farmi male.
Le giunture fra i polpastrelli scricchiolano, ma non lo lascio.
Io non lo lascio mai.

Sfioro con dita leggere la trama di nodi piatti sulle lenzuola slavate. Il tessuto granuloso mi fa vibrare i polpastrelli.
Sembra che sussurrino canzoni di conchiglie e nodi e mareggiate e cuori infranti e menti spezzate. C'è un lamento sottile, in questa stanza, una vibrazione di brezza che persiste anche con le finestre chiuse.
La stanza di Finnick.
Sento ogni pelo sul mio corpo rizzarsi e non sono più certa di voler rimanere in questa camera, dove le lenzuola cantano e le tende ondeggiano anche con le finestre chiuse.
È come la marea. E la marea torna sempre.
Urlo, quando la porta ruota sui cardini.
«Paura dei fantasmi, mocciosa?»
Lo sento, prima di vederlo.
Perché - e me ne vergogno - ho entrambi i pugni serrati sugli occhi, per proteggerli dalla gloriosa apparizione del fantasma di Finnick.
«Deficiente!» Afferro un cuscino alla cieca, scagliandolo verso la direzione dalla quale sento provenire la sua risata, con gli occhi ancora ostinatamente chiusi.
Cretino!
«Mi hai spaventata a morte!» La mia voce ha una coloritura isterica imbarazzante.
Sbatto le palpebre un paio di volte, scacciando con un lieve movimento della testa le macchie brunastre che le mie nocche hanno impresso sulle retine.
Metto a fuoco la sagoma di Junior, impalato fuori dalla porta, e per un attimo il verde delle sue iridi si sovrappone a quello che ho visto tante volte fra le pagine del libro di mamma e papà.
«Hai gli stessi occhi, Junior. Lo stesso sorriso.» La voce di zia Annie è veleno e cura. Stringe i polsi di Junior come se volesse strapparli per tenerli con sé. «Perché non torni a prendermi? L'avevi promesso.»
Annie lo lascia di scatto. Impronte violacee luccicano sui suoi avambracci abbronzati.
E per la prima volta ho paura che sarà Junior, a spezzarsi.

La somiglianza è straordinaria, credo di realizzarne la portata effettiva solo in questo istante.
Ora deve avere la stessa età di quello sconosciuto sorridente dipinto dalla mano abile di papà, e temo che Annie non sia l'unica a vedere un fantasma, ogni volta che posa lo sguardo su di lui.
«La marea torna sempre.»
Identici. Come gocce d'acqua.
Identica la forma della mascella, la linea del naso, identico il taglio degli occhi, il colore delle iridi. Non ho difficoltà a immaginare Junior con il medesimo sguardo fiero, l'uniforme militare e il tridente in pugno.
La marea torna sempre.
È un puzzle distorto, mostruoso. Mi liquefà ogni vertebra e mi lega gli intestini con la stessa violenza del pensiero di Rye cancellato dal fuoco.
È terribile.
Una goccia gelata di sudore scivola fra le mie scapole.
«Ficcavi il naso?»
E poi apre bocca, con il suo tono ombroso, ed è così assolutamente, inequivocabilmente identico a sé stesso che mi sfugge una risatina isterica.
Le tessere del puzzle si smembrano in una moltitudine di coriandoli ingialliti, inzuppati di sabbia e di acqua salata, e Junior torna ad essere solo Junior - il mio Junior -, con la sua solita espressione scontrosa e la singolare costellazione di lentiggini sul dorso del naso.
Io vedo te.
«Non entri?» Distendo meglio le gambe, poggiando la schiena contro il bordo del letto. Lui esita, giocherellando con un braccialetto di cordino nero che finora non avevo notato.
È un regalo di Shelley?
In questa stanza c'è talmente tanta sabbia, dimenticata in ogni fessura e intercapedine, che tutto scricchiola al minimo tocco.
Quando si siede al mio fianco, incrociando le gambe, il pavimento sembra sul punto di aprirsi, scaraventandoci sul fondo dell'oceano.
«Non mi piace stare qui.» Commenta, secco, posandosi il mento su un palmo, il gomito piantato su un ginocchio.
«Ci sono venuta apposta.»
Silenzio.
Siamo entrambi così immobili che mi sembra di percepire il movimento di ogni singolo granello di sabbia da qui alla spiaggia.
Il silenzio è assordante.
Tengo gli occhi fissi sulla porta finché non mi bruciano tanto che devo sbattere le palpebre. Sento il frastuono delle mie ciglia che si scontrano fra loro, più alto del martellare del mio cuore nella gola. Altra sabbia che scricchiola.
Non sei costretto a stare qui insieme a me, se non vuoi.
«Cosa mi regalerai, stavolta?» La lingua batte sul palato indipendentemente dalla mia volontà. Junior mi guarda con un'espressione talmente ferita che avrei voglia di amputarmela, ma la stronza non si ferma. «Un fiore? Un'impronta di pittura? O qualcuna delle tue perle di saggezza?» Non riconosco neppure la mia voce, tanto gronda risentimento, e le parole hanno appena lambito l'aria sopra le nostre teste che già vorrei rimangiarmele.
Non ne ho il diritto.
Nessuno ha il diritto di pretendere che l'amore venga ricambiato.
Non si può controllare, come non si possono controllare il tempo e le onde e i tramonti e le albe e le mareggiate, ed è ugualmente implacabile.
«È un fenomeno naturale, tesoro, come il tramonto e i temporali.» Papà si massaggia il moncone, sforzandosi di non lasciar trasparire il dolore. «Invecchiare, innamorarsi, nascere, vivere: sono cose che non possiamo controllare.» Mi aggrappo al suo braccio, facendogli perdere la presa sul pennello. Sulla tela resta un lungo sfregio azzurro. «Ci succedono e basta.» Mi accarezza la testa, incurante del paesaggio rovinato. Lo abbraccio forte, scusandomi per il quadro.
Mi dice di non preoccuparmi.
Ieri è caduto di nuovo, e sono terrorizzata dall'idea che lui sia malato, che possa invecchiare, che possa morire.
Non lo accetto.

«Non è vero che non ti voglio bene, Willow.»
Boom.
La sua voce fa un tale rumore, nella testa, che i miei timpani di sgretolano, spazzando via i fantasmi, i nodi e le conchiglie nell'onda d'urto.
Mi fa un buco nel petto e nella mente e nello stomaco che si allarga e si allarga e cancella tutto.
Sono una sabbia mobile che fagocita sé stessa, un gorgo d'acqua e fango che sparisce nel nulla assoluto, senza lasciare traccia di sé
Ed esplode tutto, di nuovo, come quando l'ho visto stamattina, intento a strozzarsi con i pancake.
Lo sento aggirarsi nella stanza, le assi che stridono sotto il suo passo, ma è solo rumore di sottofondo. Viene inghiottito dal suono della sua voce, che ruota follemente tra le mie orecchie, sempre uguale e diverso e ancora uguale.
Il ronzio non smette, però.
Spalanco gli occhi, seguendo la sua lunga ombra stagliata in tutto questo azzurro.
«Che fai?»
Si blocca, una mano a mezz'aria, smettendo di aprire scatole e frugare cassetti.
Mi sembra che arrossisca, ma potrebbe essere un effetto della luce subacquea della stanza.
«Cerco qualcosa da regalarti, mocciosa prepotente.» Non mi guarda. Ha di nuovo quella voce strana. Si gratta la fronte, riprendendo ad aprire e chiudere cassetti, senza darmi il tempo di ribattere.
Mi ha presa in parola, il cretino.
Sento un piccolo guizzo nel petto all'idea che stia cercando qualcosa per me in una stanza che detesta, immerso fino ai polsi nei fantasmi e nel dolore.
Gli angoli della bocca mi tremano in una vibrazione delicata quanto il tocco di una piuma. Ecco, ora starò sorridendo come una deficiente. Lo sapevo.
Fa un altro giro della stanza prima di lasciarsi cadere a terra, sconsolato, incrociando nuovamente le gambe.
«Non devi regalarmi niente, Junior.» Gattono verso di lui, posandogli la mano sulla spalla. Si volta a guardarmi, dispiaciuto. «Non dicevo sul serio.» Ribadisco, continuando a sorridere come una perfetta idiota.
Ho un problema di umore. Devo farmi controllare.
Mi fa sorridere, quella faccia da cucciolo pentito.
È come se la sua maschera di strafottenza si sgretolasse, alzando il velo sul vero Junior.
E io riesco a intravedere un po' del suo cuore, in quelle schegge di oceano, per quanto si affanni a nasconderlo.
Io vedo te. Temo che mi rotoli fuori dai denti, tanto mi esplode dentro.
E temo di averlo bisbigliato, dell'intensità con cui mi guarda le labbra.
«Non ho detto niente, vero?» Chiedo, preoccupata, posando il mento sulla sua spalla.
Lo sento trattenere il fiato, espirando rumorosamente. La sua schiena è percorsa da un brivido, ma non si sposta.
Nega piano con la testa, ricominciando a frugare, stavolta sotto il letto.
Io resto immobile, col seno premuto contro la sua schiena e il naso vicino alla sua nuca, a lasciarmi solleticare dal movimento delle sue spalle.
I suoi capelli hanno un profumo diverso - niente pesca - ma il sottofondo di sale mare è quello dei miei ricordi infantili.
Non lo abbraccio, ben consapevole di tutti i punti in cui i nostri corpi si toccano, per paura che fugga come un cerbiatto spaventato per l'ennesima volta.
Una sensazione di calore si irradia dal mio mento, ancora posato sulla sua spalla, dal petto, premuto sui muscoli della sua schiena, dalla guancia e dalla tempia, sfiorate dai suoi capelli.
È fuoco che brucia senza distruggere, un calore piacevole che ne pretende altro.
Mi lascio divorare dalle fiamme, dalla loro danza ipnotica, senza desiderare altro che più calore, più contatto, più vicinanza.
Inebriante.
Così tanto che mi gira la testa e devo smettere di respirare, per non andare a fuoco io stessa.
«Quello cos'è?» Tento disperatamente di distrarmi, prendendo giusto l'aria indispensabile per parlare, indicando da sopra la sua spalla l'angolo di un cofanetto incrostato di conchiglie che spunta dal bordo del copriletto.
Il punto in cui il mio braccio sfiora il suo brucia.
Le spalle di Junior si alzano e si abbassano in un respiro profondo, in perfetta sincronia con le mie. Si tende verso il cofanetto, sfiorandolo con la punta delle dita per farlo emergere completamente da sotto il letto.
«Mi pesi.» Commenta, in un filo di voce.
«Come, scusa?»
La sua testa scatta di lato. Si porta una mano a coppa sull'orecchio, sibilando.
«Ma vuoi farmi diventare sordo?» Si allontana di mezzo passo, stizzito, facendo leva sulle mani per scivolare al mio fianco.
Nei punti in cui i nostri corpi si sfioravano c'è una voragine gelata.
«Non serve offendersi,» mi irride, armeggiando per aprire la scatolina «sei ingrassata, mocciosa, e pesi.»
Le sue lunghe mani punteggiate di efelidi giocherellano con il cofanetto. Rimango ipnotizzata dal rumore della piccola placca metallica del suo braccialetto contro il legno sottile.
Cling. Cling. Cling.
Sembra il boccheggio di una piccola barca, sulla quale potrei addormentarmi fra le sue braccia.
«Non sono ingrassata!» mi ricordo di protestare, con un po' troppo ritardo «Sono solo cresciuta.»
Mi lancia un'occhiata perplessa. Ma è solo un'interferenza.
Dura un battito d'ali.
«Come ti pare, mocciosa ingrassata.»
Gli prendo il cofanetto dalle mani, sentendo immediatamente i piccoli cardini sotto le dita.
«Se io sono grassa tu sei vecchio.» Sorrido, innocente, facendo scattare l'apertura «Un vecchio rincretinito e cattivo.»
Mostro la lingua, mentre un fiume di conchiglie precipita tintinnando tra le mie gambe incrociate.
Junior non le guarda nemmeno. Abbassa la testa, fissandosi le mani abbandonate sulle cosce, scivolando un palmo più lontano da me.
Ma non ci posso credere! Mi dice che sono grassa e poi ha il coraggio di offendersi?
Sbuffo, distendendo le gambe per esaminare il mio tesoro.
La moltitudine di forme e colori mi fa prudere le mani, preda di un intenso desiderio di precipitarmi a prendere blocco e carboncino.
Sfioro con le dita i bordi diversi di ogni guscio: smussati, zigrinati, irregolari, sferici, taglienti, ruvidi, porosi.
C'è una conchiglia di una sfumatura di rosso così intensa da farla sembrare strappata dalle fiamme.
Alcune, tinte di bianco opalescente, oro e platino, riflettono la luce azzurrina come pietre preziose.
Una perla, perfetta nell'irregolarità delle sue striature, ammicca fra un frammento di corallo e la conchiglia baciata dal fuoco.
La sollevo fra le dita per esaminarla da vicino e altre, in un caleidoscopio di bianco abbagliante e grigio chiarissimo, la seguono.
«È una collana...» mormoro, avvolgendomi le perle intorno alle dita.
Una bellissima collana di perle imperfette. Studio una gemma alla volta: nessuna, nel giro, ha un doppione.
Sono tutte uniche, uguali unicamente a sé stesse.
«Sono tutte collane.» Lo sguardo verde di Junior sfiora le mie dita. «Alcuni sono bracciali, in realtà. Li ha fatti mio padre, per mia madre. Tanto tempo fa.» Cerca nel mucchio di conchiglie un preciso frammento. Ha la fronte aggrottata dalla concentrazione e gli occhi velati. Mormora qualcosa, quando lo estrae dal mucchio. È una scheggia di un azzurro intenso, con una filigrana d'oro sottile intrappolata all'interno. Un filo sottilissimo la lega a minuscole conchiglie color sabbia. La chiusura è un raggio rubato a una stella marina.
È la cosa più bella che abbia mai visto.
«Puoi tenere questa, se vuoi.» Lo dice quasi con sufficienza, tendendomi la collana senza guardarmi.
Quasi.
Sento la sua voce incrinarsi e spegnersi in un'eco evanescente.
Le mie dita cercano le sue oltre le conchiglie sottili. Mi stringe la mano senza esitazioni.
Non ti lascio, Junior. Non ti lascerò andare a largo.
«Deve averla amata molto.» Commento, stringendogli più forte la mano.
Guardo le collane, senza più il coraggio di rigirarmele fra le dita, sentendomi così piccola e stupida e fragile, al cospetto di un amore come quello.
Un amore che resiste alla morte, indissolubile.
La marea torna sempre.
Immagino il padre di Finnick, accovacciato sul bagnasciuga, le spalle curve e il sole riflesso sui capelli, alla ricerca di perle imperfette quanto la donna che amava, nessuna uguale ad un altra, da intrecciare a un filo sottile per farne un pegno d'amore.
Deve averci messo ore, forse settimane.
«Ne vorrei una anch'io.» Sospiro, socchiudendo gli occhi.
«Dicevo sul serio, Will.» Copre le nostre mani intrecciate con la sua destra, stringendo la presa sulle conchiglie. «Puoi prenderla, se ti piace.»
Scuoto la testa con decisione, sgranando gli occhi.
«Non potrei mai.» Continuo a negare, lasciando andare la collana nel suo pugno e ritraendomi dalla sua stretta. «Il valore non è nelle perle o nelle conchiglie, Junior, ma nel fatto che tuo padre le abbia fatte con le sue mani.» Mi stringo le ginocchia al petto, usandole da giaciglio per una delle mie guance. «Scegliendole una ad una, bucandole una per una.» Junior guarda verso la porta, annuendo. Posa delicatamente la collana sulle altre. Il frammento di stella marina profonda in una spirale di gusci rosati. «Quando dico che ne vorrei una, Junior, intendo che vorrei che qualcuno mi amasse così tanto da fare una cosa del genere per me.»
«Bucare conchiglie?» I suoi occhi vagano dalle collane alla porta ai miei occhi, senza sosta. Io lo farei per te.
Annuisco piano, affondando la testa fra le ginocchia.
Bucherei conchiglie fino a farmi sanguinare le mani, cercherei forme che non ho mai visto, colori che sembrano rubati al fuoco e alle stelle.
Lo farei, per lui, e sorriderei sulle mie mani piagate, perché sarebbe giusto.
Perché avrebbe un segno che gli ricordi che io so amarlo come nessuno al mondo, che posso distinguerlo senza esitazione in una distesa di identiche gocce d'acqua.
Che ci apparteniamo, come la sabbia appartiene al mare.




Note di fine capitolo:
Buonsalveh!br> Ricordiamo che su Colors Fanfic troverete tutte le storie che appartengono a questa serie, nonché l’undicesimo capitolo in anteprima di Aquamarine.
Grazie come sempre a tutti coloro che ci seguono e ci supportano...siete cuorih ♥


Ringraziamenti:
Come per ogni nostra fanfiction, non possiamo esimerci dal ringraziare tutte le persone che ci sono state vicine nella stesura della storia, quelle persone che, in qualche modo, hanno contribuito a rendere Aqua la storia che è, quindi i nostri ringraziamenti più sentiti vanno a:
radioactive che non solo ha creato per noi questo fantastico banner – e non ci stancheremo mai di dire che è una grafica nata – ma che ci ha promptate, aiutate, ispirate e che è la persona che più ci ha aiutate e spronate a scrivere Aqua. Questa fanfiction è anche sua;
_eco che ci ha fatto immaginare un incontro tra JJ e Will;
gabryweasley che ci ha seguite sin dall’inizio, amando Aqua tanto quanto noi. Che ci chiedeva di passarle i pezzi e li leggeva dicendoci sempre cosa ne pensasse.
Se amiamo tanto Aquamarine è anche merito loro ♥ Grazie per tutto, vi amiamo! ♥


Veniteh a fare le bolleh d'Assenzioh con noi nel gruppoh Facebook gestito dalla nostra meravigliosah famiglia disfunzionale ♥ A Panda piace fare le bolle d'assenzio [EFPfanfic]
Abbiamo apertoh anche una pagina Facebook dedicatah a questa serie, doveh potreteh farci qualsiasi domanda su questa raccoltah, seguire tutti gli aggiornamentih, salutareh Finnickinoh che ballah nella p0rn Narnia e devolvere zolletteh alla sua causah ♥ Vi aspettiamoh numerosih ♥ Colors.

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Capitolo 11
*** Capitolo XI ***





XI.




La cena scorre in un'inusuale calma piatta.
La tavola è un mare senza onde, dove i patti boccheggiano lenti.
I piccoli mostri dormono di sopra, sfinite dalla lotta nel prato e con la zuppa.
Rye siede, cupo come un temporale in agosto, al fianco di zia Annie, fissando le sue posate, quasi volesse imboccarla.
O ucciderci tutti armato di forchetta, quando si tratta di mio fratello non si può mai sapere.
«Junior?» Zia Johanna lo chiede a me, tra un boccone di carne e l'altro.
Per quanto ne so potrebbe essere annegato. O a fare chissà cosa con una bionda che sculetta.
Preferisco quasi la tesi dell'annegamento.
«Ha detto che aveva da fare.»
La mia carne mi guarda dal piatto con occhi imploranti. Troppo imploranti.
Mi sembra di vederla saltare e correre felice nei prati.
L'esofago mi si annoda stretto, trascinando la gola con sé.
L'immagine del mio piatto che muggisce, con tanto di parrucca bionda, disperde nel vento gli ultimi residui del mio appetito.
«Sarà con Shelley.»
Sono fiera della nonchalance con cui lo dico, scostando la mia Shelley alla piastra verso il centro del tavolo.
«Shelley è sparita all'orizzonte due anni fa, se può interessarti.» Zia Jo sogghigna, addentando con gusto pezzi di carne anche dal mio piatto.
Chi? A me? No, è ovvio che non mi interessa.
Cerco con lo sguardo una corda, un laccio, un rotolo di nastro adesivo. Va bene qualsiasi cosa, basta che mi trattenga ancorata alla sedia, impedendomi di esibirmi in una patetica danza della gioia.
Non farti illusioni. Il mare è pieno di bionde prosperose. Cioè pesci, volevo dire pesci.
«Ce ne sarà un'altra.» Pilucco l'insalata, scartando i pomodori. Poi i cetrioli. Poi l'insalata stessa. «Ce n'è sempre un'altra.»
Me ne rendevo conto perfino da bambina, di come le ragazze gli stessero attorno, appiccicose e svenevoli.
Mosche sul miele, attirate dalla fama del padre, dai suoi occhi, dalla linea delle spalle. Avrei dovuto sguinzagliare i denti di Rye, qualche volta.
Zia Johanna si stringe nelle spalle, masticando un altro pezzo dei miei avanzi.
«Ma nessuna va bene per lui, mocciosa.» Lo dice con una tale sicurezza, indicandomi con i rebbi sporchi di sangue, che sono tentata di crederle.
Sì, ho decisamente un problema d'umore.
«Se non somigliasse così tanto a Peeta,» sposta la forchetta verso Rye, che sta sbranando la sua bistecca senza tagliarla «direi che è figlio di qualcun altro.»
Mio fratello stringe gli occhi in un due fessure, torvo, mostrandole i denti, e io tossisco acqua e cetrioli, strozzandomi dal ridere.
Perché ha ragione. La zia Johanna ha - quasi - sempre ragione.
Sparecchiamo ridacchiando, e la zia sembra così di buon umore che mi chiedo se non abbia fatto un altro giro con la bottiglia.
Dovrà farsi trapiantare il fegato come lo zio Haymitch, se continua così.
«Katniss ha telefonato, prima.» Insapona i piatti velocemente, schizzandomi di detersivo.
«Perché non me l'hai passata?» Asciugo le stoviglie con un canovaccio bucherellato, urtando il suo gomito. Zia Jo si stringe nelle spalle.
«Non volevo disturbare i piccioncini.» Ghigna, con la solita aria da gatto che ha mangiato la foglia, iniziando a sciacquare le posate.
Eh?
«Quando ti ci metti sei più tarda di tua madre, mocciosa.» Alza gli occhi al cielo, scostandosi una ciocca di capelli dal viso con l'avambraccio.
Io non sono tarda!
Faccio scontrare un po' troppo rumorosamente due bicchieri fra loro, fregando un piede sul pavimento della cucina.
«E comunque voleva solo dire che sono arrivati, la visita di Peeta è prevista per domani.» Mi dà un colpo con l'anca, strizzando un occhio «Quindi non mettermi il broncio. Non attacca, con meAh-ah.
No, non è divertente.

«È lui che mi tratta male, non sono io che metto il broncio.» Borbotto, impilando i piatti spaiati.
Vengono tutti da servizi diversi e sono tutti irrimediabilmente sbeccati, come se fossero stati troppo a lungo sepolti nella sabbia.
C'è un solo modo giusto, di incastrarli, e io non ricordo mai qual è.
Il giallo sopra il rosso che va sul blu. No, il rosso sotto il giallo, poi il blu e il verde. No, il beige sotto l'azzurro e il rosso.
È un rompicapo scheggiato e rumoroso, sul quale potrei trascorrere giorni.
Johanna mi sposta di peso, sbuffando, e ristabilisce l'ordine corretto - rosso, blu, giallo, arcobaleno, acquamarina, beige e infine viola - senza neppure badare ai colori.
Siede con i gomiti sul tavolo, studiandomi asciugare le forchette e farle scivolare nel cassetto.
«Credi davvero che Junior ti tratti male, Willow?» Mi domanda all'improvviso, seria, incrociando le braccia al petto e reclinando la schiena sulla spalliera.
Ho bisogno di riflettere per qualche istante, prima di rispondere.
Nego piano, sedendomi di fronte a lei.
Non lo fa, non sul serio.
Però mi respinge, questo sì.
Mi tiene a distanza, chiuso nel suo cerchio tracciato nella sabbia, impedendomi di avvicinarmi quanto vorrei.
Zia Johanna annuisce, sovrappensiero, ascoltando la mia risposta.
Si guarda un attimo alle spalle, prima di riprendere a parlare.
«Quando si è abituati a essere soli, mocciosa, non è facile lasciar entrare qualcuno.» Tamburella le unghie sul legno e non mi guarda. Deglutisce. Non capisco se parli di sé stessa, di Junior o di entrambi, ma si sente da come respira, quanto questo discorso debba costarle caro. «Io ce l'ho messa tutta. Come tuo padre e tua madre e Annie. Ma alcune cose, bambina, alcuni segni...» Respira profondamente, premendo i palmi sul tavolo per frenarne il tremito. Qualcosa nel mio petto si dibatte come un pesce preso all'amo, sbattendo la coda e le pinne contro il mio sterno. È doloroso, e fa venire voglia di piangere. «Non è come sembra, d'accordo? Spesso non vediamo quello che abbiamo sotto gli occhi, Will.» Deve fermarsi per schiarirsi la voce arrochita, prima che si spezzi, collassando su sé stessa. «Lo capirai quando sarai più grande.»
Credo di non sapere fino in fondo cosa abbia voluto dirmi, ma il pesce nel mio petto continua a combattere furiosamente contro la lenza.
«Posso abbracciati, zia?»
Le chiedo il permesso, timidamente, anche se non lo faccio mai. Ho l'impressione di camminare su una sottile lastra di ghiaccio, in precario equilibrio, dove le parole di Johanna hanno gettato una manciata di sale.
Devo essere leggera, delicata come ali di farfalla, per far sì che non si incrini, facendoci precipitare nell'acqua gelata.
Lei si stringe nelle spalle, come se non le importasse, e io la stringo pianissimo, perché anche Johanna, in questo momento, è legno gonfio d'acqua, esposto troppo a lungo alle intemperie. E non è un posto adatto al legno, questo. L'acqua salata lo gonfia e lo fa marcire, la sabbia lo corrode, privandolo dei suoi colori.
«Hai preso il meglio di tuo padre e il peggio da tua madre, mocciosa.» Risolleva le testa, sfuggendo alle mie braccia «Sono contenta di averti insegnato ad usare le posate.»
So che vorrebbe sogghignare. Ma i suoi occhi scuri sorridono così tanto che non sarebbe credibile, in nessun caso.

La luce del mattino, già alta, tende le sue dita luminose negli strati lanuginosi che separano il sonno dalla veglia.
Mi aggrappo all'ultimo lembo di illusione, inseguendo per mare un delfino dagli occhi verdi e dal dorso dorato.
Spalanco gli occhi sul nuovo giorno con il sapore di sale sulle labbra e una sensazione di liquida felicità che mi scorre lungo i nervi.
Johanna canticchia, friggendo minuscole uova pallide, e sembra che sorrida perfino Annie, pettinando fra le dita i riccioli dorati di Rye.
«Dove sono le gemelle?» Zia Johanna ride del mio tono preoccupato, spingendomi un piatto colmo di uova sotto il naso.
«Le ho legate ad un'incudine e le ho gettate in mare.»
Magari.
Non devo avere un'espressione sufficientemente affranta, perché Rye borbotta qualcosa sulle sorelle maggiori incoscienti e Johanna mi comunica con tono piatto che le ha spedite a infilarsi il costume, quindi a breve torneranno ad appestarci con la loro graziosa presenza.
«Oggi le portate al mare.» Delibera, mettendo di forza una forchetta fra le dita di Rye, sporco di rosso d'uovo fino agli slip.
«Io e quale esercito?» Johanna mi guarda in tralice, continuando a combattere con la forchetta di Rye, che precipita casualmente sul pavimento a intervalli di un minuto. «No, sul serio zia. Chi vuoi che mi aiuti? La zia Annie?» Mi volto verso la diretta interessata, scusandomi con gli occhi. Non da segni di avermi sentito.
Pettina i capelli di Rye, lasciandosi sporcare di rosso d'uovo, lanciando occhiate furtive alla finestra. Zia Annie aspetta sempre qualcuno.
Finnick, Junior, la marea.
Mi chiedo se riesca a distinguerli o se siano solo un flusso confuso, legato da un filo contorto, che scorre e si avvolge su sé stesso nell'infinità sempre identica della sua interminabile attesa.
Annie aspetta e l'attesa la consuma, dall'interno e in superficie.
Sembra sgretolata, come un mucchio di conchiglie calpestate, confuse tra i granelli di sabbia.
«Il tuo caro Junior, se ci degnasse della sua presenza.»
Mi esibisco nella mia migliore imitazione dello sguardo truce di mia madre e zia Johanna ridacchia, blaterando di genetica e della storia che si ripete sempre.
La marea torna sempre.
Le gemelle si spintonano per le scale, ridendo.
«Ci porti a nuotare, Willow? Ci porti?» Mallow mi atterra sui piedi - quando mai - afferrandomi i capelli fra le manine appiccicose.
E ora dovrò rilavarli, grande!
«Aspettiamo Junior?» La sollevo fra le braccia, caricandomela sulle ginocchia.
Le sue ossa da uccellino mi bucano i femori, però la cosa sembra calmarla.
«Prendi anche me, Will?» Lily spalanca le braccia, guardandomi implorante.
È un passerotto implume, in bilico sul ciglio del nido, pronto a spiegare le ali.
Sospiro, sistemandone una su ogni ginocchio.
Giocano con i miei capelli e con i loro, premendo le testoline sulle mie clavicole.
Sono così tenere e silenziose, nel loro profumo infantile, che vorrei fermare il tempo, congelandole in questa posizione.
Non sembrano neanche loro, da quanto stanno buone.
Bacio le loro teste, una alla volta, sorridendo del solletico dei loro capelli ricci sulle mie labbra.
Lily mi sussurra un «ti voglio bene» all'orecchio, con l'aria di chi sta confessando un grande segreto, e Mallow le fa la linguaccia.
Aspettiamo Junior per un tempo che sembra infinito. Lily si addormenta fra i miei capelli, lasciandomi una larga macchia umida sulla maglietta, e Mallow da segni di impazienza tanto a lungo che zia Jo propone di sedarla.
«Non vuoi chiamarlo?» La butto lì, con noncuranza, pensando a quanto a lungo dovrò insaponarmi i capelli per ripulirli dall'uovo e dalla bava di Lily.
«Già fatto.» Johanna si infila un prendisole con lo stesso entusiasmo di un condannato, guardando il telefono «Non risponde, lo stronzo.» Piega furiosamente teli da mare, scaraventandoli sul fondo di una borsa di paglia intrecciata. «Muoviamo il culo, mi sono rotta le palle di aspettare sua maestà.»
Johanna snocciola maledizioni per tutto il tragitto fino alla spiaggia, sgranandole come perle lungo un filo.
Ha un repertorio coloritissimo, che spazia da «dovevo affogarlo da piccolo» a «sia maledetto il giorno in cui ho promesso di tenerli d'occhio» a improperi così volgari da essere irripetibili perfino dalla bocca mordace di Rye.
Mi affanno a coprire le orecchie innocenti delle gemelle meglio che posso, ma ovviamente Mallow ha un radar per le parolacce e «cazzo, cazzo, cazzo!» diventa il suo nuovo ritornello preferito. Lo ripete in ogni sfumatura vocale, arrivando perfino a cantarlo.
Annie ridacchia, una risata opaca, strozzata, cosa che non fa che darle ulteriormente corda.
Quando propongo di andare a fare una nuotata è perché ho seriamente intenzione di simulare un incidente in mare.
"Non ce la posso fare." Sospiro, esasperata, quando le gemelle tentano l'ennesimo attacco alle mie gambe, facendomi sbattere l'osso sacro sul fondale.
Il dolore si fa strada fino alla base del collo, percorrendomi la spina dorsale come una scossa elettrica.
Trattengo il fiato e stringo i denti, aspettando che passi.
Non lo fa.
È il panico: Lily mi getta le braccia al collo, scusandosi fra le lacrime; Mallow urla alternativamente «Non sono stata io!» e «Cazzo, cazzo, cazzo!» al volume del segnalatore di una nave in fase d'attracco.
Io rimango immobile, cercando di non piangere per il dolore e sforzandomi di rassicurarle.
Alla fine arriva addirittura Rye in mio soccorso. Sbuffando e grugnendo, ma arriva.
Trascina le gemelle fuori dall'acqua - non prima di aver promesso solennemente che non morirò - e torna addirittura indietro, provando stoicamente a ricondurmi in braccio fino alla spiaggia.
Fa un po' troppi commenti su quanto sia pesante, ma la sua premura è commovente.
Ed esilarante.
Morirei dal ridere, se il sedere non mi facesse così male.
A metà del tragitto, però, mi sento in forma abbastanza da camminare sulle mie gambe.
Rye commenta con un «Mi stava venendo un'ernia.» e inizio davvero a chiedermi se non stia diventando un maialino come Daisy.
Sul mio sedere si allarga un poetico ematoma gigante, viola scuro, che sancisce il grande patto di non bagno, che le gemelle, rose dal senso di colpa, accettano senza battere ciglio.
Rientriamo per pranzo tardissimo e le gemelle dondolano le teste sui piatti, faticando a tenere gli occhi aperti.
Zia Johanna mi solleva dall'ingrato compito di lavarle e riesco addirittura a convincere Rye ad aiutarmi a preparare la cena, lamentando fitte al fondoschiena.
Recito in modo patetico ma, credo più per non ascoltare le mie sceneggiate, si presta alle mie direttive: riesce a condire il sugo con lo zucchero e la frutta col sale. La sua espressione mortificata, quando gli dico che la sua cucina somiglia a quella della mamma, sarebbe da immortalare per i posteri.
«Che c'è zia Annie? Vuoi qualcosa da mangiare?» Il tono turbato di Rye mi spinge a voltarmi.
Annie è immobile, sulla soglia della cucina. Fuori posto, uno sfregio azzurro su un paesaggio innevato.
Si guarda intorno, sperduta, aspettando che i muri la riassorbano, nascondendola fra le maglie allentate della sua rete.
«L'hanno preso.» Sussurra, rivolta alla porta «Aspetto che torni a prendermi, ma la marea non arriva mai.»
Un brivido risale dal mio ombelico fino al viso, paralizzandomi. Rye mi stringe un gomito fino a farmi male.
«Va tutto bene, Annie.» Zia Johanna le mette un braccio intorno alle spalle, senza poggiarlo davvero intorno alle sue ossa di vetro. «Andiamo ad aspettare Finnick vicino alla porta.»
Annie nega così forte che devo aggrapparmi al lavabo per non cadere.
L'intero mondo si scuote e aspetto di vederla sbriciolarsi e crollare.
«Aveva promesso, aveva promesso di tornarmi a prendere.» Le dita di Rye aprono crepe sul mio braccio. Dalle crepe filtrano ombre oscure.
Ci inghiottiranno. Il mare ci inghiottirà tutti.
«Anche Finnick aveva promesso.» Zia Annie mi fissa con i suoi occhi sfocati, e io mi sento precipitare dentro me stessa. Non parlava del suo amore perduto, ammesso che riesca ancora a riconoscere la differenza.
Parlava di Junior.
Parla di Junior.
«La marea torna sempre.»
Lo strofinaccio scivola dalle mie dita, toccando il pavimento alle mie spalle.
Mi precipito fuori dalla cucina, scartando la zia Johanna per non travolgerla.
Lo spettro delle dita di Rye sul mio braccio viene coperto dalla mano, reale e ghiacciata, di Johanna.
Apre e chiude la bocca. E mi lascia andare.
«L'hanno preso.»
No.
Le mie gambe mi guidano, veloci, con i piedi che a stento toccano il suolo.
I polmoni mi ardono nel petto e il cuore galoppa contro i miei timpani.
«La marea torna sempre.»
No. Io so dov'è.
Non vedo le mie ginocchia tanto i miei occhi faticano ad adattarsi al buio, ma le piante dei miei piedi conoscono ogni granello di sabbia, masso, fosso ed erbaccia.
So dov'è.
Il mio cuore lo conosce esattamente come i miei piedi conoscono la strada per arrivarci.
Io vedo te.
Abbandono le scarpe incespicando e saltellando per sfilarle senza fermarmi.
I granelli tiepidi accolgono le mie piante, infilandosi fra le dita.
E lo vedo, più vicino di quanto mi aspettassi.
Io vedo te.
Lo vedo, chino sulla sabbia, con la luna riflessa fra i capelli, battere qualcosa sul bagnasciuga.
Cling. Cling. Cling.
Lo vedo e devo fermarmi.
Devo bloccarmi e sbattere le palpebre un paio di volte, mentre una folata di vento gonfia la mia gonna e spettina i miei capelli, perché, col cuore che mi balza dritto in gola per poi precipitare nella sabbia, intuisco cosa stia facendo.
Sta bucando conchiglie.




Note di fine capitolo:
Buonsalveh!
Ricordiamo che su Colors Fanfic troverete tutte le storie che appartengono a questa serie, nonché il dodicesimo capitolo in anteprima di Aquamarine.
Grazie come sempre a tutti coloro che ci seguono e ci supportano...siete cuorih ♥


Ringraziamenti:
Come per ogni nostra fanfiction, non possiamo esimerci dal ringraziare tutte le persone che ci sono state vicine nella stesura della storia, quelle persone che, in qualche modo, hanno contribuito a rendere Aqua la storia che è, quindi i nostri ringraziamenti più sentiti vanno a:
radioactive che non solo ha creato per noi questo fantastico banner – e non ci stancheremo mai di dire che è una grafica nata – ma che ci ha promptate, aiutate, ispirate e che è la persona che più ci ha aiutate e spronate a scrivere Aqua. Questa fanfiction è anche sua;
_eco che ci ha fatto immaginare un incontro tra JJ e Will;
gabryweasley che ci ha seguite sin dall’inizio, amando Aqua tanto quanto noi. Che ci chiedeva di passarle i pezzi e li leggeva dicendoci sempre cosa ne pensasse.
Se amiamo tanto Aquamarine è anche merito loro ♥ Grazie per tutto, vi amiamo! ♥


Veniteh a fare le bolleh d'Assenzioh con noi nel gruppoh Facebook gestito dalla nostra meravigliosah famiglia disfunzionale ♥ A Panda piace fare le bolle d'assenzio [EFPfanfic]
Abbiamo apertoh anche una pagina Facebook dedicatah a questa serie, doveh potreteh farci qualsiasi domanda su questa raccoltah, seguire tutti gli aggiornamentih, salutareh Finnickinoh che ballah nella p0rn Narnia e devolvere zolletteh alla sua causah ♥ Vi aspettiamoh numerosih ♥ Colors.

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Capitolo 12
*** Capitolo XII ***





XII.




La cena scorre in un'inusuale calma piatta.
È l'immagine più bella che potessi immaginare.
La luce pallida della luna si specchia sui suoi capelli, sulla sabbia, sulla sua nuca e sull'acqua increspata in modo così perfetto da non poter essere riportato su tela neanche dalla più abile delle mani.
Se dovessi scegliere un'unica visione da contemplare per l'intero resto della mia esistenza, sceglierei esattamente questo istante.
Si sovrappone, in un fragile gioco di specchi, con l'immagine di grandioso, indissolubile amore che la mia immaginazione aveva dipinto e non ho cuore neanche di respirare, per paura di spezzare l'incantesimo.
C'è un'altra donna, in questa vita, che è amata di quella stessa forma d'amore, più forte della marea e della morte.
La marea torna sempre.
Quell'amore che piaga le mani, svuota la mente e riempie l'esistenza, come un'onda cancella lo spazio vuoto tra la sabbia e il suo mare.
Maneggia frammenti diversi come stelle identiche, perché credo abbia capito quanto alcune cose vadano osservate da vicino, per coglierne l'unicità.
Io vedo te.
Poi si volta, cercando un'altra gemma dimenticata dal mare, e l'incanto si rompe.
Mi guarda.
Qualcosa gli sfugge dalle dita, rotolando sulla riva.
Affondo nella sabbia argentata, trascinata da zavorre di piombo.
Continua a osservarmi, le mani sospese a mezz'aria.
Sanguinano. Piccole gocce scarlatte tingono il bagnasciuga.
E il mio cuore precipita, polverizzato, senza la forza di ritornare a scalciarmi in gola.
Non ne hai il diritto.
Una donna bionda sfoggerà un monile macchiato di sangue e sale, senza capire l'indelebile promessa intrecciata al suo filo.
«Tua madre era preoccupata.» Le parole mi impastano i denti, velenose. «E anche Johanna.»
Abbassa la testa, guardandosi le mani.
Annuisce piano, spostando lo sguardo verso il boccheggiare lento delle onde.
Aspetto che la marea cancelli la stretta di cemento che mi trascina nella sabbia, riconducendomi al mio posto fra le onde.
Non accade.
Non succede assolutamente niente, se non qualche occhiata furtiva e il rumore del vento e dell'acqua.
Si vergogna tanto della sua oca da non avere il coraggio di guardarmi?
Ti voglio bene lo stesso.
«Riferirò che stai bene.» Mi giro sui tacchi, chiudendo le palpebre sul ricordo della luce d'argento sulle sue ciocche, prima che iniziasse a bruciare come un coltello rigirato in ogni arto.
Devo andare a largo, così a largo che nessuno potrà prendermi la mano e sarò sola, perché se gli permetti di toccarti ti strappano i polsi e il cuore per tenerli con sé e a te non resta niente.
Sei solo un guscio vuoto, in attesa che qualcuno ti raccolga e, se non finisci in mani troppo distratte per riuscire a bucarti senza romperti, potrai ambire, nella migliore delle prospettive, a finire intorno al collo di una donna che ti tratterà come uno stupido pezzo di mollusco morto, che neanche il mare vuole più.
«Will...»
Il vento mi porta la sua voce.
Ora mi volterò, e mi dirà che sono solo la sua cuginetta mocciosa. Mi dirà che non posso pretendere che le cose vadano sempre come voglio, per quanto prepotentemente batta i piedi sulla sabbia.
Mi volterò e avrò perso anche quest'ultima immagine di bellezza, corrotta e putrefatta dal nome di un'altra.
Mi volto.
E lo trovo in piedi, vicino, ad un passo da me.
Mi volto e ha un'aria così triste e sconfitta che vorrei comunque abbracciarlo, per dargli la possibilità di ridere di me e della mia mania degli abbracci.
«Io...» esita, prendendo fiato «Era per te, Will. Lo stavo facendo per te.»
Tutto l'ossigeno del mondo viene risucchiato con un rumore terribile.
Il boato precede il nulla.
Silenzio.
Non sento niente oltre alle mie orecchie che ronzano, furibonde.
Hanno premuto il tasto muto/pausa e il telecomando della mia vita è rimasto inceppato.
«Ne vorrei una anch'io...»
E la bobina si sblocca, srotolandosi in uno schiocco che fa male. È il mio cuore che si ferma e riparte e si inceppa e si blocca e riparte ancora. E il sangue mi ribolle nelle vene e nelle tempie e mi uccide e mi consuma e vorrei solo sparire, confondendomi con la spuma che sbatte sugli scogli.
«Non puoi.» La voce mi graffia il palato. Lo spintono, premendo i pugni sul suo petto. «Non puoi fare una cosa del genere solo perché ho messo il broncio. Perché io ti amo da quando avevo cinque anni.» Parole e lacrime sgomitano per riaffiorare in superficie, incontrollate, mentre lo colpisco sempre più piano. Non cede di un millimetro. I suoi occhi sono profondi e tristi come la luce invernale riflessa sul lago, ma non mi basta. La marea si è alzata e non può essere arrestata, in nessun caso. «Ti ho sentito ridere e la tua risata era il mare. E poi mi hai insegnato a volare e a scalare e a non piangere e a dormire da sola. E non ci posso fare niente se sono una mocciosa, perché ti amo lo stesso.»
L'ho detto.
La consapevolezza mi abbaglia per un istante, rischiarando il colore delle sue iridi oltre la coltre di lacrime che vela le mie.
Lascio ricadere i pugni, sconfitta.
L'ho detto.
Junior ha di nuovo quell'espressione intensa, profonda. Mi fissa le labbra come se non le avesse mai viste.
Poi gli occhi.
E di nuovo le labbra.
Le sue mani si chiudono sulle mie spalle.
È così vicino che mi sembra di poterlo toccare davvero, per la prima volta.
Il velo sui suoi occhi si strappa e il mondo sanguina.
Io vedo te.
È il suo cuore: verde, esposto, limpido come acqua.
Ti amo lo stesso. Ti amerei in ogni caso.
Trattiene il fiato, trattengo il fiato.
Mi guarda le labbra, un'ultima volta, prima chinarsi, così lentamente che potrei contare i secondi, se ricordassi come si fa, socchiudendo gli occhi.
E mi bacia.
Le sue labbra si posano sulle mie, delicate. Sanno di mare e di sabbia e di vaniglia e di menta e non avrei mai potuto immaginare che fossero così morbide, così dolci e perfette.
Perfette, come questo bacio. Come le sue mani fra i miei capelli e sulla pelle del collo e sui miei fianchi e sulla schiena, come il calore che divampa dalla sua pelle a contatto con la mia.
È perfetto. Tutto perfetto.
Tu sei perfetto.
Ha il sapore di tutti gli abbracci negati, dei baci del buongiorno non ricambiati, dell'abbagliante illusione della solitudine, camuffata da libertà.
Il bacio diventa più profondo e riempie ogni fessura, ogni mancanza, ogni assenza.
Come sabbia, come acqua, riempie ogni spazio, ogni vuoto, ogni no.
Mi alzo sulle punte più che posso, per fargli scivolare le braccia dietro il collo, ma le mie gambe sono melma e sabbia troppo umida.
Cadrei, se le sue braccia, la sua mano stretta intorno al mio fianco e l'altra intorno alle spalle, non mi sorreggessero.
E mi aggrappo troppo forte, perché non sono incompleta se lui mi stringe e mi bacia e intreccia per me corone di fiori e collane di conchiglie che sanno di lacrime e promesse, e non sono sola con le sue dita strette alle mie.
Cadiamo inginocchiati nella sabbia umida, ma non smetto di baciarlo, anche se mi gira la testa e il cuore mi esplode e il corpo va a fuoco e non ricordo più come fare e respirare, perché è quello che voglio fare.
Baciare Junior per il resto della vita.
Mi sembra un piano perfetto.
«Voglio baciarti per il resto della vita.» Lo mugugno a labbra serrate, coperte dalle sue, cercando di riprendere fiato.
Lui si stacca dalla mia bocca per ridere e mi stringe più forte.
E mi bacia ancora.
E ancora.
E ogni bacio è infinito e troppo breve, e sono così felice che potrei volare, volare davvero, sfiorando il sole con le mie ali da gabbiano.
E mi esplode dentro, il desiderio di farlo davvero, tanto che ho bisogno, un bisogno viscerale di dirglielo.
«Voliamo.»
E lui annuisce piano, facendo scorrere le dita fra i miei capelli, sulla mia schiena, sui miei fianchi.
E io lo accarezzo, scivolando su ogni efelide, su ogni cicatrice, implorando ognuna di tenermi ancorata fra le sue braccia, impedendomi di volare via.
Il mio vestito bianco si confonde fra le conchiglie, allacciato alla sua maglietta.
Junior mi sorride, baciandomi le palpebre e poi di nuovo le labbra, e mi guida nell'oceano tenendomi per mano, come quando ero bambina.
Nessuno di noi ne ha più bisogno da tempo, ma ora lo sceglie.
Sceglie di avere bisogno di me, come io scelgo di avere bisogno di lui.
Mi stai lasciando entrare.
L'acqua tiepida ci lambisce le gambe. Siamo le divinità di questo mare, sole e luna, creature che hanno sconfitto la notte per il privilegio di sfiorare le stelle senza lasciarsi la mano.
E sono tutte qui, identiche e diverse, incastonate nell'acqua scura come la volta celeste.
Mi sento invincibile, quando Junior mi solleva fra le braccia, traghettandomi fra le minuscole onde premuta contro il suo petto.
«È perché sei una mocciosa lenta a nuotare, Will.» Borbotta, in risposta alle mie sopracciglia aggrottate.
Alzo gli occhi al cielo, baciandogli piano l'angolo della bocca, dove una goccia di mare scivola per perdersi fra le sue clavicole.
Mi lascio cullare dal suo abbraccio, sfiorando il pelo dell'acqua con le dita, accarezzandone le increspature.
Il sapore dei suoi baci è ancora più dolce, in tutto questo sale, come se le sue labbra fossero fatte solo per questo.
Voglio baciarti per sempre.
La nostra vela è lontana dalla riva e ci fermiamo così tante volte per baciarci ancora che sbircio al di sopra della sua spalla, di tanto in tanto, controllando che l'alba non sorga prima che riusciamo ad arrivarci.
Mi issa sulle rocce sollevandomi per i fianchi. Lo scoglio è freddo, senza il riflesso del sole sull'acqua, e più liscio di quanto ricordassi.
Junior fa leva sulle braccia, ai lati delle mie gambe, sollevandosi dall'acqua con il torso fra le mie ginocchia.
Sembra una splendida creatura marina, metà uomo metà oceano, che solo io e le onde abbiamo il privilegio di toccare.
Le mie gambe abbracciano la sua vita e le mie mani giocano con i suoi capelli, scuriti dall'acqua. Mi bacia ancora, a lungo, e ogni bacio è più lungo e profondo ed esigente, e allaccio più strette le mie caviglie e le mie braccia intorno alla sua vita sottile, alla nuca abbronzata, per rivivere la stessa sensazione di sconfinatezza provata sulla riva, dimenticando per sempre quali braccia, gambe, ossa, pelle, occhi e labbra appartengano a ognuno di noi.
«Non dovremmo tuffarci?» Chiedo, con il fiato corto, quando, senza smettere di baciarmi, emerge completamente dall'acqua, facendomi reclinare la schiena sulla roccia fredda.
È il re del mare.
Gocce d'acqua brillano sul suo torace come perle e mi guarda in modo così intenso da farmi dimenticare il nome di ogni cosa che non sia lui.
Mi sono sempre sbagliata sul fuoco: non è rosso, né arancio.
È verde, dello stesso esatto verde dei suoi occhi.
«Si sta meglio qui.» Sussurra, sfiorandomi il collo con le labbra e il naso.
La sua voce è roca e affannata.
Irresistibile.
Poggia i gomiti ai lati della mia testa, spostando i miei capelli bagnati, incollati alla roccia. I nostri corpi si sfiorano appena.
È sospeso su di me, evanescente come il confine tra l'ultima immagine di un sogno e la veglia, e dovrei sentirmi in trappola, fra i suoi avambracci e le sue ginocchia e il sapore dei suoi baci e le stille l'acqua che scivolano dai suoi capelli, ma mi sento così libera e leggera e felice, di nuovo, che so di non appartenere a nessun altro e a nessun altro luogo, in nessun altro tempo.
«Sei il mio mare.» Seguo i contorni del suo viso con i polpastrelli e le mie labbra li imitano in una scia di piccoli baci.
Trema, quando lo abbraccio, facendo aderire i nostri corpi. Mi sento sospesa fra due mondi, premuta tra il freddo della vela e il calore di Junior.
La biancheria bagnata mi si attacca alla pelle e ridiamo come bambini nervosi mentre prova a sfilarmela una, due, tre volte.
Le sue mani tremano tanto che devo stringerle forte tra le mie, per farle fermare.
Conosco le sue mani. Ogni lentiggine, segno, solco, venatura e callo. La forma esatta delle cuticole, il modo in cui si ripiegano sulle unghie, come l'ostrica sulla sua perla. Ne conosco il tocco, la dimensione, l'odore e il colore. Il modo in cui hanno stretto le mie braccia di bambina per traghettarmi fino alla vela, la loro impronta sulla tela sulla testiera del mio letto, il modo maldestro di scolpire castelli di sabbia, la delicatezza nell'intrecciare fiori senza sgualcirne un petalo.
Sfiorano la mia pelle con la stessa cura, giocando con le mie spalle, con le labbra, con i capelli. E le labbra, gonfie di baci, le seguono, mordicchiando ogni goccia d'oceano che mi bagna.
La luna disegna ombre di stelle marine e petali di cristallo sulle sue spalle. I disegni mutano ad ogni movimento della sua schiena, onde dipinte dal vento, diventando più chiari e più confusi ad ogni contatto fra i nostri corpi.
Esita ancora un istante, incatenando gli occhi ai miei.
«Ti amo.» Lo mormoro fra un bacio e l'altro, senza la necessità di chiudere gli occhi per imprigionare nelle retine la nuova immagine che contemplerei all'infinito, se dovessi sceglierne una. Il sorriso tremante di Junior, i brividi provocati dall'attrito fra i nostri corpi, mentre il suo abbraccio nasconde il mio corpo nudo agli occhi della notte e alla morsa del freddo.
Il suo sguardo mi scioglie, acqua che brucia, risalendo la corrente per ricoprire il mio corpo, fra le rocce, il mare e lunghe ombre argentate.
Mi stringe, affondando il viso nell'incavo della mia spalla, e l'ultimo confine tra le nostre esistenze si sgretola, sabbia che scompare nel vento.
E ogni bacio, ogni sospiro, è un'onda sempre più lunga, che mi trascina più lontana, fuori e dentro il mio corpo, tanto che non sono più certa di dove finisca Willow e inizi Junior, e forse non ha nessuna importanza, perché ad ogni sospiro che tocca la mia pelle io perdo un altro pezzo di me stessa, cancellato dai brividi che i suoi tocchi mi provocano, per donarlo a lui.
Fa male, ogni tanto, del dolore dolce dell'appartenenza, del mutamento, dell'acqua che incontra per la prima volta il fuoco, ma lo accolgo senza riserve, amandolo, come ho sempre fatto con ogni spigolo e crepa dell'uomo che amo.
«Io vedo te.»
E tremo e Junior trema più forte, baciandomi le guance, le labbra, la pelle sottile dove la linea del collo incontra le orecchie.
E divento acqua, fra le sue mani, sotto il suo corpo, sulla sua lingua, liquida e inarrestabile.
«Sei la mia sabbia.»
E come acqua, che cambia forma a seconda di ciò che la contiene, non riesco più ad adattarmi unicamente al mio corpo. Sono io e lui e noi, allacciati insieme, implacabili come la corrente.
Divento roccia, luna, scoglio, goccia salata che scorre lungo il dorso del suo naso, e non smetto di mutare, fluida e incontenibile, neanche quando tutto si ferma.
Junior mi guarda, trattenendo il fiato, e nei suoi occhi ci sono lacrime e delfini e fiamme, collane di conchiglie e infinità e stelle marine, ginestre e scogli e finitezza.
C'è tutto il mio mondo, in quel verde.
Divento la dea luna, che l'acqua bacia, adorante, ogni volta che la degna del suo riflesso, con le sue labbra che depositano scie di baci lungo tutto il mio corpo, dalle caviglie all'incavo dei gomiti, dai polpastrelli alle clavicole.
Ogni bacio è una conchiglia, una perla, un frammento di corallo, e io sono la spiaggia stessa, custode di segreti dimenticati in attesa che il mare torni a prenderli.
Si distende al mio fianco, puntando la testa su un gomito per continuare a inseguirmi con gli occhi, e l'altra mano cerca la mia per intrecciare le nostre dita.
Mi sento eterna, invincibile e completa, con i nostri palmi premuti l'uno sull'altro e le dita saldamente allacciate alle sue nocche.
Bacio ogni taglio, ogni fessura aperta dalle conchiglie spezzate sulla pelle ruvida delle sue mani, amandone ognuno per ciò che rappresenta.
Ti amo.
L'alba sorge sulle sue scuse, gorgogliate fra i miei capelli.
Arretro di qualche centimetro, chiedendogli di ripetere.
Devo essere diventata sorda o folle per la troppa felicità.
Oppure ho solo troppa acqua nelle orecchie.
«Mi dispiace, Will.» Bisbiglia, resistendo alla mia mano che cerca di sottrarsi alla sua presa. Non sono io ad essere impazzita, dunque. È lui. «Tutti quei discorsi sui ragazzi e gli abbracci e...» la sua voce si spegne, diventando un sussurro sottilissimo.
Credeva che non fossi...
Oh.
È questo il problema: il fatto di essere stato il primo a fare l'amore con me.
Oh.
Strattono con più decisione, liberandomi dalla sua stretta. Mi copro il seno con un braccio, tirandomi a sedere.
«Ho detto di averli abbracciati, non di essere andata a letto con tutti!» Strepito, cercando la mia biancheria della penombra rosata. «Io non sono te, Junior.» Lo dico e me ne pento. È un uomo adulto, non potevo aspettarmi che non avesse avuto altre donne. Ma non è così, per me. Non ho mai amato nessuno, a parte lui, né desiderato fare l'amore con altri. Ieri, oggi, domani; su una spiaggia, in un letto, sullo scoglio dal quale ho imparato a tuffarmi. Non fa differenza. Anzi, è stato così assolutamente perfetto che l'idea che lui se ne penta mi fa venire voglia di dargli un pugno sul naso. «Non avrei voluto nessun altro, mai.»
Mi rivesto, gli slip che si incollano alle ginocchia e alle cosce, facendo resistenza, con il suo sguardo da cane bastonato puntato fra le scapole. Mi lascio scivolare senza rumore oltre il bordo di roccia. La pietra mi graffia le gambe, ma l'acqua mi accoglie senza spruzzi.
«Aspetta, Will.» La sua voce mi segue nell'oceano. «Scusami, io non intendevo...» impreca sottovoce, tuffandosi per raggiungermi. Mi agguanta per la vita dopo un paio di bracciate. «Avrei dovuto aspettarti?» Me lo chiede, serio, facendomi voltare per incrociare i suoi occhi. Non sta scherzando. Affatto. «Sei...» stringe i denti, mordendosi la lingua «Eri una ragazzina, Will. Ti rendi conto di come mi sentissi, quando entravi nel mio letto?»
No.
Ricordo i suoi rifiuti, il modo affannato e frettoloso con cui mi ha spinta fuori dal suo letto, nascondendosi sotto le lenzuola.
L'odore della sua federa, l'alzarsi e abbassarsi del suo petto contro le mie labbra.
Ricordo come faceva sentire me, da bambina e poi da ragazzina, dormire con le sue mani fra i miei capelli, le sue braccia intorno al corpo, l'odore delle lenzuola nel naso e nella testa.
Protetta, prima. Amata, al sicuro.
Poi, quando ho iniziato a capire che se un uomo e una donna dormono insieme non è unicamente per sconfiggere la paura del buio, calda e strana. E a casa, come se i miei sogni non appartenessero a nessun luogo che non fosse il suo abbraccio.
Junior aspetta, mordendosi le labbra.
Sanguineranno come i tagli sulle dita, se non smette.
«Prova a spiegarmi.» Sospiro, arrendendomi alla stretta delle sue mani intorno alla mia vita. Mi tiene a galla, come se temesse che l'oceano e l'alba possano portarmi via da lui.
Tornerei, amore. La sabbia si sposta, ma la corrente la riporta sempre al suo posto.
Nega, piano, facendo scorrere le mie braccia intorno alla sua nuca, stringendomi nell'acqua gelata.
«Abbracciami e basta.» Lo sbuffa sul mio collo, baciandolo delicatamente.
Mi tiene stretta, facendo scorrere le dita su ogni vertebra, ogni costola, ogni lembo di pelle raffreddato dall'acqua.
Sembra che voglia memorizzare la forma e la disposizione di ogni osso e muscolo e nervo del mio corpo, quasi ogni abbraccio che mi abbia negato ne avesse lavato via un pezzo e avesse bisogno di ricordarsi che ci sono, che non lascio la sua mano.
Mi riporta a riva allacciata alle sue spalle come uno zainetto, come faceva quando ero bambina, e il mio stomaco gorgoglia e borbotta contro la base dei suoi reni.
Ride, sotto il cielo che diventa di quell'azzurro in bilico tra le sue iridi e le mie, baciando gli incavi dei miei gomiti.
«Hai fame, mocciosa?»
Ridacchio come una sciocca, dando un colpetto al suo fianco col ginocchio.
«Tu che dici? Non ho cenato, per venirti a cercare!»
E Junior ride, con quella risata che contiene l'oceano, promettendomi dei pancake buoni come quelli di mia madre - ovvero orribili - o come la zuppa di pesce di zia Jo - buona solo per essere lanciata fra i capelli di Rye.
E poi arriva, mentre siamo sulla riva a ridere dei nostri vestiti bagnati e della sabbia umida che si intrufola ovunque, appiccicosa, graffiandoci la pelle, la consapevolezza di quanto siamo stati irresponsabili, troppo presi dal mare e dall'amore e dai baci e dalle carezze per ricordarci del perché sono scappata da casa delle zie con il cuore in gola.
«Johanna ci ucciderà.» Mi batto il palmo sulla fronte, cercando le mie scarpe nella sabbia.
«No.» Junior si inginocchia per infilarmele lui stesso, baciandomi le caviglie sporche di sabbia. Ogni volta che le sue labbra sfiorano la mia pelle un brivido scorre lungo le mie gambe come una scossa elettrica. Qualche granello rimane attaccato al suo mento e alla punta del suo naso.
È bello da togliere il fiato.
«Ucciderà me.» Mi accarezza le ginocchia, baciandole.
E io penso che Johanna non potrà uccidermi. Sarà lui a farlo, se non smette di baciarmi e sfiorarmi e guardarmi dal basso in quel modo.
«Mi userà per fare il filo alla sua ascia. Ha troppa paura di tuo padre per rovinare il tuo bel faccino da mocciosa.» Continua, rimettendosi in piedi. Mi prende per mano, accarezzando ogni nocca, e qualsiasi cosa dica diventa rumore di sottofondo.
Nella mia testa scorrono all'infinito le immagini del suo corpo illuminato dalla luna, dei suoi baci sulla mia pelle, dell'acqua scura punteggiata di stelle, dei tagli sulle sue mani, della sua voce sussurrata fra i miei capelli.
«Sei la mia sabbia.»




Note di fine capitolo:
Buonsalveh!
Ricordiamo che su Colors Fanfic troverete tutte le storie che appartengono a questa serie, nonché il tredicesimo capitolo in anteprima di Aquamarine.
Grazie come sempre a tutti coloro che ci seguono e ci supportano...siete cuorih ♥


Ringraziamenti:
Come per ogni nostra fanfiction, non possiamo esimerci dal ringraziare tutte le persone che ci sono state vicine nella stesura della storia, quelle persone che, in qualche modo, hanno contribuito a rendere Aqua la storia che è, quindi i nostri ringraziamenti più sentiti vanno a:
radioactive che non solo ha creato per noi questo fantastico banner – e non ci stancheremo mai di dire che è una grafica nata – ma che ci ha promptate, aiutate, ispirate e che è la persona che più ci ha aiutate e spronate a scrivere Aqua. Questa fanfiction è anche sua;
_eco che ci ha fatto immaginare un incontro tra JJ e Will;
gabryweasley che ci ha seguite sin dall’inizio, amando Aqua tanto quanto noi. Che ci chiedeva di passarle i pezzi e li leggeva dicendoci sempre cosa ne pensasse.
Se amiamo tanto Aquamarine è anche merito loro ♥ Grazie per tutto, vi amiamo! ♥


Veniteh a fare le bolleh d'Assenzioh con noi nel gruppoh Facebook gestito dalla nostra meravigliosah famiglia disfunzionale ♥ A Panda piace fare le bolle d'assenzio [EFPfanfic]
Abbiamo apertoh anche una pagina Facebook dedicatah a questa serie, doveh potreteh farci qualsiasi domanda su questa raccoltah, seguire tutti gli aggiornamentih, salutareh Finnickinoh che ballah nella p0rn Narnia e devolvere zolletteh alla sua causah ♥ Vi aspettiamoh numerosih ♥ Colors.

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Capitolo 13
*** Capitolo XIII ***





XIII.




Johanna ha l'aria di non chiudere occhio da anni. Ci guarda arrivare, immobile sul dondolo, e, sotto le sue occhiaie, ruota un furibondo caleidoscopio di emozioni contrastanti.
Junior mi lascia immediatamente la mano, infilandosela in tasca con aria colpevole.
Mi sta chiedendo a gran voce di prenderlo a pugni sul naso.
Potrei accontentarlo, ma mi limito a sospirare e scuotere la testa.
Zia Johanna apre bocca, rigirandosi la sua bottiglia fra le mani, e Junior la inonda con una valanga di fantasiose storie, alle quali non crederebbero neanche le gemelle, nelle quali manca solo un delfino alato, per aggiungere verosimiglianza.
«E così vi siete addormentati, eh?» Johanna ghigna, tamburellando le unghie sul vetro «In acqua?» Punta all'indice le parti in cui il mio vestito bianco aderisce alla biancheria bagnata, rendendo assurda qualsiasi teoria di Junior sulla nostra assenza.
Lui arrossisce e balbetta e arrossisce ancora, così tanto che dalle sue orecchie scarlatte inizia ad alzarsi un sottile filo di fumo.
«Scusa, zia.» Intervengo, magnanima, abbassando il capo. «Mi dispiace avervi fatti preoccupare, sono stata incosciente.» Zia annuisce, battendosi i palmi sulle cosce. «So che sei responsabile per me, sono mortificata.»
Tengo la testa bassa per nascondere il mio sorrisetto inebetito dalla felicità, esibendomi nella mia recita strappalacrime.
Non sono mortificata per niente, anche se mi spiace davvero averla fatta stare in pensiero.
«Come ha detto lei.» Junior mi indica, impacciato, senza il coraggio di guardare me o Johanna.
«Lo spero per te, razza di deficiente!» Abbaia in direzione di Junior. «Annie è stata così male che ho dovuto darle lo sciroppo per farla dormire! Sei un cazzo di adulto! Io stavo crescendo te, alla tua età! Dopo due arene e una cazzo di rivoluzione!» Respira a fondo, modulando la voce, forse per paura di svegliare le bambine. O Annie. Lancia a Junior un'occhiata di autentico furore, prima di concentrarsi su di me «Hanno di nuovo chiamato i tuoi, mocciosa.» Si massaggia le palpebre, nascondendo un sorrisetto con il palmo «Ho dovuto inventare una balla, e io odio mentire, soprattutto ai tuoi genitori.» Annuisco piano, avanzando verso la porta «Chiamali, il numero è sul frigorifero, e poi dritta a dormire, che so che non l'avete fatto. Da sola!» ribadisce, come se il concetto che veglierà la mia porta armata di ascia non fosse abbastanza chiaro. «Tu dove credi di andare? Non ho finito con te!» Blocca qualsiasi tentativo di Junior di defilarsi, trattenendolo per un braccio, e ho quasi la tentazione di rimanere a controllare che non decida di amputargli qualche arto.
Poi ripenso all'espressione colpevole con cui ha lasciato ricadere la mia mano lungo il mio fianco e decido che zia Johanna può prenderlo a pugni sul quel suo bellissimo grugno anche da parte mia.
Il numero del loro alloggio a Capitol è sul frigo, come aveva detto Johanna, e lo compongo con mano tremante.
Squilla a lungo. Temo di aver sbagliato qualche cifra o che siano troppo arrabbiati per rispondermi.
Quando la voce di papà riempie la cornetta sono così felice e mortificata che mi viene voglia di piangere.
«Scusa, papà, mi dispiace.» Mi sento come deve essersi sentito Junior di fronte alla rabbia di Johanna.
Papà non dice nulla, però. Mi saluta con il suo solito tono gentile e rassicurante.
Dice che gli manchiamo molto - e alla mamma anche di più - che le visite sono andate bene ed è in attesa di una protesi nuova. Mi fa perfino ridere, dicendo di averla chiesta di un bel rosso fiammante, modello ragazza di fuoco. La mamma non deve aver gradito, a giudicare da quello che sibila in sottofondo.
Mi chiede del mare, delle gemelle, delle zie, della fissazione mordace di Rye e mi sembra di vedere anche il suo sorriso, attraverso il filo del telefono.
«Papà,» interrompo il primo istante di silenzio, tremando dalla testa ai piedi «ho dormito con Junior.»
C'è un lunghissimo, innaturale silenzio, all'altro capo del telefono. Così lungo che mi chiedo se sia caduta la linea.
Poi sento trascinare qualcosa sul pavimento e mamma chiamare mio padre in sottofondo.
«Papà?»
Lo sento deglutire un paio di volte.
«Ci sono.»
«Papà, mi dispiace.»
E poi non so più cosa dico. Vomito un fiume di scuse e richieste di rassicurazioni e giustificazioni su quanto lo ami e quanto tutto fosse giusto e perfetto.
E lo è.
«Allora hai fatto la cosa giusta, tesoro.» La voce di papà è fioca e stridula, ma dice la cosa giusta per rimettere in ordine tutte le tessere sparpagliate del mio puzzle, come sempre. «Sei comunque la mia bambina, Willow, anche se stai diventando grande.» Deglutisce di nuovo. «Io voglio solo la tua felicità, tesoro, e non c'è niente che tu possa fare per farti smettere di amare da me e tua madre.»
«Però non dirlo alla mamma.» Pigolo, infantile, giocando con la cornetta.
«Non lo farò, se non vuoi.» Sospira, schiarendosi la voce. «Sarebbe felice di saperlo da te, però.» Scuoto disperatamente la testa, come se potesse vedermi. «Stai negando al telefono?»
Annuisco.
Lo sento ridere, e all'improvviso so che è tutto okay, che papà non smetterà di amarmi se smetto di essere una bambina.
Che mi vorrà bene comunque e sarà felice per me, se sono felice con l'uomo che amo.
Mi passa la mamma, che mi inonda di domande e raccomandazioni.
Scoppia a piangere al telefono, quando le dico che mi manca.
«Ti voglio bene, tesoro. Stai attenta.» Tira su con il naso e immagino la stretta di mio padre intorno alle sue dita, la sua treccia sulla spalla di papà, quasi fosse un cordone che li tiene uniti.
«Ti voglio bene anch'io.» Sussurro, al click che segna la fine della comunicazione.
Riappoggio la cornetta con cautela, bloccando di nuovo il foglietto con il numero sotto una calamita a forma ippocampo.
Addento un pancake gelato, direttamente dal frigorifero, e lo mastico a grossi bocconi salendo le scale.
Vedo zia e Junior continuare a discutere, gesticolando, attraverso le tende di cotone sottile.
Avrei voluto un altro bacio, quello del buongiorno, ma proverò a farmi bastare quelli di stanotte.
Mi tiro le lenzuola fin sopra il mento e distendo le gambe, assaporando il formicolio che risale dalle mie caviglie alle vertebre del collo.
Il letto scricchiola di sabbia e profuma di mare e di Junior.
Ho il suo odore addosso, sulla pelle e fra i capelli, indelebile come una traccia, a ricordarmi quanto profondamente ci apparteniamo, adesso, prima e sempre.
Mi sento sommergere dalla stessa liquida, inarrestabile felicità che mi aveva raggiunta sullo scoglio, sommergendomi come un'onda, stretta fra la roccia e le sue braccia.
È così che ci si sente, dunque.
La maniglia si abbassa lentamente e serro gli occhi, nel disperato tentativo di sfuggire alla lezione in stile zia Jo sul sesso sicuro e le gravidanze indesiderate.
Le assi cigolano un paio di volte e qualcuno scosta il lenzuolo. Schiudo le palpebre, trovando il verde delle iridi di Junior che indugiano sul mio corpo scoperto.
«Mi mancavi.» Sussurra semplicemente, sollevando del tutto la coperta per distendersi al mio fianco.
Lo guardo e vedo l'amore riflesso sul suo viso, mentre mi sposta i capelli dietro la spalla, e il mio cuore precipita e mi torna in gola come una molla, mozzandomi il respiro.
Non c'è niente che possa dire.
E sono felice.
E lo amo.
E morirò presto, se il mio cuore non torna al suo posto, da brava parte anatomica fatta per stare al centro del torace, non in gola e nella testa e nelle gambe e nei suoi occhi e fra le sua braccia e sulle sue labbra.
Gli faccio spazio, riprendendo a respirare, premendo le labbra sul suo petto, la testa posata sul braccio che mi offre per farmi da cuscino.
Senza esitazione, senza l'ombra di un dubbio.
Le mie labbra sulla sua pelle, il suo braccio intorno alla mia vita, la guancia sul suo bicipite abbronzato.
È tutto così semplice, naturale come se fossimo nati per dormire l'uno fra le braccia dell'altra. E forse lo siamo.
Io vado bene per te. Perché ti vedo, e ti amo, per tutto ciò che sei.
Ogni tessera torna al suo posto nel mosaico, ogni remo alla sua barca, ogni stella alla sua costellazione, ogni notte alla sua alba, ogni castello alla sua marea.
Io vado bene per te.

La luce pomeridiana illumina il sorriso di Junior, due file di perfetti denti di madreperla, al mio risveglio.
«Buongiorno, mocciosa.» Lo mormora pianissimo sulle mie labbra, prima di baciarmi, e le sue labbra sanno ancora di sale «Ti dovevo un bacio del buongiorno.»
Sorride di nuovo, facendo scorrere le dita fra i miei capelli.
I pensieri galleggiano nella mia testa piena d'acqua, faticando ad assumere forme che non somiglino ad un'esplosione di palpitanti cuoricini rosa.
Si può impazzire per la troppa felicità?
«Secondo i miei calcoli me ne devi molti di più.» Mugugno, la bocca impastata dalla gioia e dal sonno, prima di baciarlo ancora.
E ancora e ancora.
Così tante volte che decidiamo che: voglio svegliarmi così ogni mattina per ogni mattina che mi resta; è meglio non scendere da questo letto, perché nulla che non sia in questa stanza merita la nostra attenzione.
Abbiamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno, fra queste lenzuola ruvide di sabbia e sature d'amore. Io ho lui e lui ha me, ed è bellissimo e appagante come mangiare tonnellate di torta al cioccolato dopo un lungo digiuno.
Finché il mio stomaco, sdegnato, non brontola così forte, per ricordarci che non si vive di solo amore, da farci saltare per lo spavento,
Junior - il simpaticone - sbuca nudo dalle coperte, cercando una qualche bestia randagia per la camera, per poi commentare «No, era solo il tuo stomaco. Ringhia come tuo fratello, credevo fosse lui.»
«Ah-ah. E ora portami i miei pancake, schiavo!» Mimo lo schioccare di una frusta e devo rotolare fuori dal letto, trattenendolo per una gamba, per impedirgli di schizzare nudo in cucina per procacciarmi la colazione.
Che idiota.
Lo amo.
«Vorrei ricordarti,» lo ammonisco, baciando lo spazio fra le sue scapole «che tu dovresti essere l'adulto responsabile. E gli adulti responsabili non corrono nudi in una casa dove ci sono dei bambini.» Ride e riesce ad abbracciarmi anche da questa posizione, accarezzandomi le reni. E ogni abbraccio cancella uno dei suoi rifiuti, colmando l'ombra con la luce.
Ne sarò inondata.
Diventerò una creatura di luce, tanto abbagliante che nessuno potrà più vedermi davvero.
Faccio scivolare le braccia intorno alla sua vita, posando la fronte sulle sue vertebre.
La peluria ramata intorno al suo ombelico mi solletica le dita.
Lascio che la luce entri dentro di me, beandomi del suo calore.
«Gli adulti responsabili non si innamorano delle mocciose.»
La sua voce trema appena e il sole sorge, in questa stanza, rendendomi cieca.
Stringo un astro fra le braccia e non lo lascerei andare neanche se bruciasse davvero.
«Una mocciosa che morirà di fame, se non usciamo da questa stanza.» Scioglie la stretta delle mie mani intorno al suo ventre, rivestendosi come niente fosse.
Così, come se non avesse appena detto di essere innamorato di me.
«Devo sedermi.» Sono così fuori di me da pensarlo ad alta voce, dirigendomi a lunghi passi di gelatina verso il materasso.
Mi accascio, pesante e scomposta come una valanga, e le molle cigolano e si lamentano sotto il mio peso.
«Ecco, hai un calo di zuccheri, lo sapevo.»
Ride.
Lui ride.
Io qui muoio, stroncata da infarto alla tenera età di diciassette anni, e lui ride.
Spalanco la bocca.
La chiudo.
E poi la spalanco di nuovo.
Ogni tanto, ma solo ogni tanto, mi ricordo di prendere una boccata di ossigeno.
Willow Mellark, figlia di Katniss Everdeen e Peeta Mellark, eroi di Panem, muore per cause naturali alla giovane età di diciassette anni, sotto gli occhi divertiti di Finnick Junior Odair.
Nuda.
I cari ne piangono la scomparsa.

«Will?» Junior si avvicina, preoccupato, chinandosi alla mia altezza «Tutto okay?»
No. Cioè sì. È troppo okay. Okay non rende l'idea, neanche in un milione di anni.
Le mie mani sono fra i suoi capelli e le mie labbra sulle sue, perché ho bisogno di essere svegliata con un bacio, ancora, o solo di accorgermi di essere sveglia.
«Adesso va molto meglio.» Mugolo, sorridendo, ma non smetto di assaggiare le sue labbra.
Non credo di poterne mai avere abbastanza. Sono così buone che potrei decidere di mangiarle per colazione, pranzo e cena, se me lo permettesse.
«Non mordermi, mocciosa.» Sussurra, mordicchiandomi una spalla «Solo io posso.»
Solo tu puoi tutto, amore.
Ridere e piangere, stringermi la mano fino a farmi male alle dita e mordermi e baciarmi, avermi e farmi ridere, accarezzarmi e prendermi in giro.
Tutto.
E la fame può aspettare perché tutto può aspettare se le nostre mani e le nostre bocche e i nostri corpi e i nostri occhi si rincorrono e si trovano e si perdono e si cercano ancora, perché se lui mi ama come io lo amo io non ho più bisogno di niente, non voglio più niente. E non mi serve neanche l'ossigeno, perché voglio baciarlo di baci infiniti e fingere di essere nella nostra casa subacquea, invincibili come dei e indifesi come stelle marine, amandolo dell'amore eterno e incantevole dei sogni.
Mi tremano tanto forte le gambe, dopo, che vorrei che si prendesse cura di me, insaponandomi i capelli e le braccia, infilandomi nell'accappatoio che conserva un fantasma del suo profumo, come se questi anni fossero passati invano.
«Mi porti in braccio, Junior?» Rotolo su un fianco, godendo della visione della luce del tramonto riflessa sulla sua schiena dorata.
È bello sotto ogni luce, Junior. Il giorno e la notte, all'alba e al tramonto, dipinto dalla luna e sotto il bacio d'oro del sole.
Mi accarezza le gambe, concentrato, disegnando arabeschi e collane di conchiglie sulle caviglie, sulle ginocchia, sulle cosce.
E mi riveste, inerte come una bambola, sospirando.
«Non posso portarti, Willow.» Mi rimette in piedi, delicatamente, chinandosi per portarmi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Perché se poi mi cadi rotoliamo giù dalle scale e ti rompi il collo e muori. E poi mi rompono perché ho fatto morire la figlia della zia Katniss.»
Io rido, abbracciandolo così forte da farmi male alle braccia, e mi trascina fuori dalla stanza allacciata alla sua vita.
«Ma peso poco!» Insisto, implorante, e ogni speranza di essere discreti va in fumo mentre scendiamo i gradini, le mie braccia ancora strette alla sua vita, un po' spingendoci e un po' strattonandoci.
Lily mi corre incontro, travolgendo le gambe di Junior.
«Zia Johanna ha detto che stavi male e Junior ti curava.» Mi tira per la gonna, affannata, posando lo sguardo su Junior, prima di tornare a guardarmi. «Adesso stai bene, vero?»
Le fantasiose menzogne di zia Johanna. Neanche troppo distanti dalla verità, per essere onesti.
La cerco con lo sguardo, per ringraziarla silenziosamente per non essersi fatta strada a colpi di ascia nella mia stanza, puntando alla virilità di Junior, giusto in tempo per vederla sputare le sue uova dal naso, ridendo dietro il fazzoletto.
Poi sembra ricordarsi che ora ci odia a morte, e fulmina Junior con lo sguardo.
Junior è la persona più odiata della casa, da qualche minuto a questa parte: Johanna infilza il piatto con aria apertamente minacciosa e Mallow mostra i denti, imitando Rye, soffiando come un gatto. Sorride solo zia Annie, di un sorriso sfocato, veleggiando verso i polsi di Junior.
«Sei tornato?» Sussurra, stringendo così forte le sue ossa che ho sempre paura che possa romperlo, con le sue mani di lacrime e nervi e tempeste.
«Sì, mamma.» Junior risponde in un filo di voce, lasciandosi ferire dalla mani di sua madre.
La mia felicità cade a pezzi e si frantuma e le mie ossa scricchiolano nel dolore di questa stretta.
«Hai trovato una perla?» Le mani di Annie diventano bassa marea e conchiglie e lo lasciano andare, accarezzando i segni rossi sui suoi polsi, i tagli sulle sue mani.
Junior mi guarda per un lungo istante.
Poi annuisce.
«Sì.»
E zia Annie ride, di una risata che è il vento e la spiaggia e il canto delle sirene, e Junior la abbraccia, sussurrandole qualcosa all'orecchio.
Non l'avevo mai sentita ridere davvero.
Trattengono tutti il fiato, aspettando che madre e figlio aprano una breccia nel loro linguaggio segreto.
O sono solo stupiti dalla rara risata di Annie, singolare come una perla.
«Mangerete prima o poi o vi nutrirete solo del vostro amore?» Zia Jo guarda Junior, torva, indicandomi «La mocciosa sta diventando trasparente come tua madre. È così che pensi alle conseguenze?»
Lui barcolla, colpito e affondato, facendo un passo indietro.
«So badare a me stessa.»
Non è vero, ovviamente - e ringrazierò sempre la mia soffocante madre per questo - ma protesto comunque, sedendomi a tavola come se volessi sfondare la sedia.
«Lo dirò a mamma.» Rye guarda le sue posate, poi Junior, poi di nuovo il coltello.
Ci ucciderà tutti.
«Non ho sette anni, io.» Ribadisce, fissando intensamente coltello e forchetta.
Non intendo intavolare una discussione su quanto siano profondamente fattacci miei e su quanto sia una cosa naturale stare con la persona che si ama, esattamente come fanno mamma e papà e qualunque altra coppia al mondo.
Quindi lo guardo male, infilzando le mie uova senza tagliarle.
«Io vado a casa.» Junior buca il silenzio alle mie spalle.
«No.» Zia Johanna continua a mangiare, serafica, senza neanche guardarlo. «Tu ora ti siedi e mangi da bravo demente. E controlli anche che la mocciosa e tua madre non muoiano di stenti.»
Junior snocciola una lista di parolacce e improperi più colorita di quella di Johanna - che Mallow prontamente ripete, giuliva - ma si siede.
Nell'angolo della tavola più lontano dal mio.
Vicino a Rye.
Zia Johanna ha ragione: è un demente.
Un demente senza la percezione del pericolo, tra le tante.
Nel silenzio denso come melma le bocche che masticano fanno un baccano mostruoso.
Sto per tirare un calcio a Mallow sotto il tavolo, tanto per spezzare la monotonia, quando Lily si alza, risoluta, andando a bussare sulla spalla di Junior.
«Junior, ho mal di pancia. Puoi curare anche me?» Il boccone mi va di traverso, incastrandosi fra il naso, la bocca e la trachea.
Sperimento l'intensa emozione del soffocamento, tossendo fino a farmi schizzare gli occhi dalle orbite per liberarmi la gola ostruita.
Poi guardo Junior, dall'altra parte del tavolo, col viso in fiamme e gli occhi strabuzzati, e soffoco di nuovo, stavolta dal ridere.
«È una medicina solo per i grandi, mocciosa.» Commenta zia Johanna, asciugandosi le lacrime col fazzoletto e ridendo tanto forte da far tremare i bicchieri.
Continua a tenersi la pancia mentre sparecchia e non smette di sghignazzare neanche lavando i piatti
. Siamo la nuova barzelletta del distretto, a quanto pare, della quale non riesco a impedirmi di ridere anch'io.
Junior non è dello stesso avviso.
Si lascia trascinare sul dondolo dalle braccia di vetro di Annie, dopo cena, mentre pettino le gemelle - tra urla che infrangono la barriera del suono e calci negli stinchi - e rimbocco le lenzuola sui loro pigiamini identici.
«Sembri così adulta, a volte, che si tende a dimenticare che in realtà sei ancora una mocciosa.» Johanna sussurra nell'ombra, appoggiata allo stipite della porta delle gemelle.«Non sono tua madre, Willow, non voglio farti la predica.» Alza i palmi aperti, prima di continuare. Willow. Non sarà una predica, ma ne ha tutta l'aria. La sento crepitare, elettrica e intrisa di pioggia, come prima di una tempesta.
«Ma...?» La raggiungo sulla soglia, superandola per socchiudere il battente.
«Ma mi sembra che nessuno di voi due idioti stia pensando seriamente alle conseguenze di ciò che state combinando sotto il mio tetto.» Sospira, passandosi una mano fra i capelli.
Le conseguenze.
Le mie ossa diventano liquide, sciolte come la prima neve, e il battito del mio cuore accelera.
Le conseguenze.
«Tra qualche giorno Peeta e Katniss verranno a prenderti, Willow. Tornerai a casa.» Mi afferra il gomito con una mano, impedendomi di vacillare lungo le scale. «Come farete allora, bambina? Ci avete pensato, a questo, prima di rotolarvi al chiaro di luna?»
No.
Non ho pensato a niente, con le sue labbra sulle mie e la luna e il mare e l'amore e le mie mani sulle sue spalle, fra i suoi capelli.
Non riesco a pensare a niente, con Junior, perché la sua presenza è sole che si infiltra da ogni punto vuoto nella trama di una tenda, sabbia che scivola nel solco fra le assi del pavimento, acqua che cancella castelli di sabbia e lacrime e sogni infantili.
Mi riempie completamente, lasciandomi annullata, piena di sole e sabbia e acqua, una conchiglia vuota sulla riva del mare.
«No, te lo dico io.» Johanna mi guida fino al divano, posando le mani sulle mie spalle per mettermi seduta. «Non avete pensato a niente se non al fatto che siete giovani e stupidi e innamorati.» Si lascia cadere pesantemente al mio fianco, massaggiandosi le palpebre con le dita. «Ho visto tuo padre senza tua madre, Willow, e tua madre senza tuo padre. E Annie, che non ha più nulla. Non voglio questo per voi.»
Provo a immaginare me stessa, seduta con gli occhi sfocati, in attesa del ritorno della marea.
Non io.
Partirò, ma sarò dove sono sempre stata. E Junior sarà dov'è sempre stato, fra le strade del distretto, sulla spiaggia, nel suo mare con la muta blu che disegna ogni muscolo del suo corpo.
A portata di treno, di bacio, di telefono, di voce.
«Non accadrà, zia.» Le poso una mano sulle sue, sfiorandole una nocca «Troveremo un modo, troverò un modo.» Chiudo gli occhi, sospirando. «Non gli lascerò la mano.»
«Papà...» busso piano alla porta dello studio. Sta dipingendo un enorme campo di denti di leone. Alcuni sono nella fase del soffione e l'aria, nel quadro, è satura di piccolissimi stami evanescenti.
Ci ha portati via, perché la mamma mi ha schiaffeggiato.
È impazzito.
Abbiamo avuto paura, tanta che Rye si è fatto la pipì addosso e avrei voluto anch'io, se non fossi stata troppo grande per farlo.
Ci ha presi in braccio entrambi, con quegli occhi neri come pozzi di carbone, e ci ha portati dallo zio Haymitch.
I mostri non sono sotto il letto, sono negli occhi di papà.
Le urla di mamma arrivano fino ai vetri della soffitta, graffiandomi i timpani.
Vorrei correre da lei, anche se mi ha colpita, perché sembra che si stia strappando il cuore a mani nude e non posso lasciar morire la mia mamma.
E bussa e urla e batte i pugni contro il legno finché tutta la casa dello zio non trema fino alle fondamenta.
E Rye non fa che piangere e lui non fa che dipingere e zio Haymitch beve e bestemmia e io non so come farli smettere tutti.
«Papà!» E urlo anch'io, anche se papà mi fa paura e nei suoi occhi c'è il mostro dell'armadio, perché il mio corpo è troppo piccolo per contenere tutta questa paura e urla e dolore e lacrime.
Papà si volta e sta piangendo.
I suoi occhi sono azzurri e rossi di lacrime e stravolti.
E mi fa ancora più male delle urla e delle bestemmie e dei pugni sul legno, tanto male che piango anch'io, seduta sotto i denti di leone.
Papà mi chiede scusa, abbracciandomi, ma io ho troppa paura che i suoi occhi diventino di nuovo del colore della morte e della notte e dei mostri e tremo e scappo e non mi lascio toccare.
Mi nascondo dietro le gambe di zio Haymitch finché la mia vescica non ce la fa più e mi faccio la pipì sulle scarpe anche se sono una bambina grande e le bambine grandi non piangono e non si fanno la pipì addosso. Zio Haymitch bestemmia più forte e pulisce il pavimento e le mie gambe.
Io piango perché voglio andare a casa, ma lui dice che non si può.
Mi mette il telefono tra le mani.
E io faccio il numero di una stanza a Capitol.
La stanza di Junior all'Accademia.
E la voce di Junior, nella cornetta, mi salva.




Note di fine capitolo:
Buonsalveh!
Ricordiamo che su Colors Fanfic troverete tutte le storie che appartengono a questa serie, nonché il quattordicesimo capitolo in anteprima di Aquamarine.
Grazie come sempre a tutti coloro che ci seguono e ci supportano...siete cuorih ♥


Ringraziamenti:
Come per ogni nostra fanfiction, non possiamo esimerci dal ringraziare tutte le persone che ci sono state vicine nella stesura della storia, quelle persone che, in qualche modo, hanno contribuito a rendere Aqua la storia che è, quindi i nostri ringraziamenti più sentiti vanno a:
radioactive che non solo ha creato per noi questo fantastico banner – e non ci stancheremo mai di dire che è una grafica nata – ma che ci ha promptate, aiutate, ispirate e che è la persona che più ci ha aiutate e spronate a scrivere Aqua. Questa fanfiction è anche sua;
_eco che ci ha fatto immaginare un incontro tra JJ e Will;
gabryweasley che ci ha seguite sin dall’inizio, amando Aqua tanto quanto noi. Che ci chiedeva di passarle i pezzi e li leggeva dicendoci sempre cosa ne pensasse.
Se amiamo tanto Aquamarine è anche merito loro ♥ Grazie per tutto, vi amiamo! ♥


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Capitolo 14
*** Capitolo XIV ***





XIV.




La zia mi lascia singhiozzare per un po', finché non sono così stanca e triste e affranta che mi addormento con la testa sulle sue gambe.
Sogno fiori di dente di leone strappati e mostri nascosti sotto le coperte e cuori strappati e bimbi che piangono perché vogliono la mamma.
«Lei sembra avere più sale in zucca di te, demente.» La voce della zia mi solleva dalle ombre, strappando le mie braccia al tentativo di rattoppare il petto squarciato di mia madre.
«Che cazzo le hai detto?» Hanno rubato tutto il mare e il sole alla voce di Junior e tremo all'idea che tutto questo faccia ancora parte del mio incubo.
«Quello che ho detto a te, solo che lei ascolta.»
«La porto a letto.» Taglia corto, staccando le mani di Johanna dai miei capelli. Zia Jo dice qualcosa che non afferro e sospira.
Nei miei incubi, però, non c'è Junior a sollevarmi tra le sue braccia, un braccio sotto l'incavo le ginocchia e uno intorno alle mie spalle. Posso aprire gli occhi, sbattendo le palpebre sulla mascella contratta di Junior, per accertarmi di essere sveglia. «Buongiorno, Will.» Mi bacia ma non sorride. Non mi mette giù, anche se sono sveglia, come se avesse paura di lasciarmi cadere.
«Mettimi giù, so camminare.»
Non so perché lo dico.
Do fiato alla bocca senza riflettere - come al solito - e le labbra di Junior guizzano in una smorfia di disappunto.
I piedi toccano il pavimento della mia stanza.
Mi dispiace.
«Junior, aspetta.» Lo blocco sulla porta per un braccio.
Dove crede di andare?
«Non voglio che tu pianga per me, Will.» Trema tanto che, se non lo conoscessi, direi che è sul punto di piangere.
«Non si piange, mocciosa.» La sua voce, nella cornetta, è una carezza così delicata da far male.
«Mi manchi, Junior.» Rye continua a piangere fino a bucarmi le orecchie e la testa e il cuore. Voglio la mamma e Junior e zia Johanna e che tutto smetta e torni come prima. «Vieni a prendermi.»
«Vengo domani.» Sospira e il suo sospiro mi scompiglia i capelli lungo il filo del telefono «Ma tu devi promettermi di smettere di piangere.»
Annuisco, senza pensare al fatto che lui non possa vedermi.
«Promesso.»

Mi passo il dorso della mano sulle guance, stizzita.
Non hai capito niente.
«Vuoi sapere cosa ho detto a Johanna?» Stringo forte il suo gomito. Sento l'articolazione sotto le mie dita, il gelo della sua pelle.
Scuote la testa, guardando lontano. «Non ignorarmi, Finnick Junior Odair!» Lo scuoto, spingendolo a girarsi. «Non puoi scappare per sempre. Quindi sturati bene le orecchie.» Annuisce, sbuffando. Prendo un respiro profondo, scendendo lungo il suo braccio con le dita. Trovano la sua mano. La stringo forte, accarezzandone i tagli. «Le ho detto che non ti lascio.»
«Perché dici così?» Le sue dita strette intorno alle mie «Vedi? Io non ti lascio.»
«Non ti lascio andare in ogni caso, Junior. Neanche se mi cacci e mi respingi e smetti di volermi. Non ti lascio mai, non l'ho mai fatto.»
Ed è vero.
Continuerei a stringere la sua mano, impedendogli di andare a largo.
E non ho bisogno della sua costanza, di tenerlo chiuso in una gabbia o ancorato al fondale per impedirgli di volare via.
Mi basterebbe una conchiglia, un frammento di stella, una goccia di mare, per ritrovare la sue dita e intrecciarle alle mie, attraverso qualsiasi distanza.
Junior deglutisce un paio di volte e poi mi abbraccia stretta, lasciando piccoli baci fra i miei capelli.
E poi mi bacia, sollevandomi il mento con due dita, chinandosi per arrivare alla mia altezza.
Sono baci nuovi, che sanno di disperazione e di paura del futuro e di realtà, ma non sono meno belli di quelli che ci siamo scambiati sulla spiaggia o in questo letto.
Sono veri e tristi e travolgenti. E c'è un pezzo di Junior in ognuno di loro.
Ogni bacio contiene domande e risposte, dubbi e certezze, l'ultimo saluto prima di lasciarsi e il primo quando ci si ritrova.
Sussurra buongiorno, buonanotte, arrivederci, addio e bentornato, ed è tutti i saluti e le lacrime e le risate del mondo.
È un bacio rubato al mattino, una carezza regalata al risveglio, l'ultimo sospiro prima di scivolare nel sonno. È la prima onda, il primo tuffo, l'impatto shockante con l'acqua gelata e il primo sorso d'acqua salata, che brucia e pizzica fino ai polmoni.
Il braccio di Junior è il più comodo dei cuscini.
Sorrido, lasciando che le sue mani mi cullino, giocando con i miei capelli, le labbra, la linea del mio fianco.
Ogni tanto le labbra prendono il posto per le dita per un piccolo bacio, un soffio, un morsetto. Il suo naso e i suoi denti mi fanno il solletico, ma vorrei che non smettesse. Mai.
«Quando mio padre e mia madre vivevano in questa casa,» mormora sulla mia pelle, senza smettere di baciarla, «mio padre aveva riempito ogni stanza di uccelli, perché mia madre potesse svegliarsi con il loro canto. Aveva intagliato gabbie di legno e aveva insegnato a ognuno di loro a cantare solo per la mamma.» Sospira fra i miei capelli, chiudendo le palpebre. «Si occupava di loro, perché anche se mia madre amava il loro canto si dimenticava di nutrirli.» Un altro bacio, un altro sospiro. «Lui faceva queste cose, per lei. Per farla felice. E si occupava anche di lei, quando si dimenticava di sé stessa.» Li sento quasi cantare, in questa casa piena di ombre e di spettri, e li vedo agitare le loro ali variopinte nelle gabbie di legno rubato al mare e nodi, sui loro piccoli trespoli di corallo e conchiglie, illuminate dalla luce del mattino.
C'è una tale tristezza nella sua voce che non sono più certa di voler conoscere la fine della storia, ma glielo domando comunque, perché so che me lo dirà in ogni caso.
«Cosa è successo agli uccelli, Junior?»
Mi guarda negli occhi, a lungo, con quell'intensità di fuoco verde e mare, e brucia tanto che potrei quasi toccare le fiamme, allungando le dita.
«Mio padre non è più tornato.» Accomoda la mia testa sulla sua spalla, sospirando. «E sono morti tutti.»
Rimaniamo a lungo in silenzio, nel canto fantasma degli uccellini dimenticati, condannati a morire di fame e solitudine nelle loro gabbie modellate dall'amore, ognuno in lotta con i suoi mostri nell'armadio.
«Quando due persone si amano e dormono insieme, abbracciate, non hanno più paura del buio.»
«Troveremo un modo, Junior.» Lo sussurro sul suo petto, disegnando fiori e ali colorate sul suo stomaco. «Il mare lo trova sempre.»

I tre giorni seguenti scorrono veloci e inarrestabili come acqua.
Portiamo un recalcitrante Rye e delle entusiaste - anche troppo - gemelle al mare.
All'ennesimo tentativo di insegnargli a tuffarsi in un modo che non preannunci la sua morte certa - con tanto di pezzi di cranio sfracellati sulle rocce - mio fratello morde il mignolo destro di Junior così forte da farlo sanguinare.
«Questo è per mia sorella.» Sibila, tuffandosi con la grazia di una slavina a due centimetri esatti da un masso appuntito a pelo d'acqua.
Junior impreca e calcia lo scoglio, imprecando più forte.
E io lo bacio, sulle labbra e sul mignolo e di nuovo sulle labbra, promettendogli di curare ogni ferita con i miei baci.
E lo faccio, ogni notte.
Io curo le sue ferite e lui cura le mie, con baci infiniti e carezze e sussurri e bisbigli. Imparo a conoscere il suo corpo, e le sue labbra imparano a memoria ogni sentiero che riescono a tracciare sul mio.
Mi sveglio ogni mattina con Junior nel naso, nella bocca, negli occhi e nel cuore, e ogni notte lui si infila tra le mie lenzuola, come nei miei sogni, facendomi disimparare a dormire su qualsiasi cosa non sia il suo petto, la sua spalla, le sue braccia.
L'ultimo giorno sta scorrendo troppo in fretta e non riesco a fermare il tempo, trattenendolo fra le mie mani chiuse a coppa. Continua a scivolare via, acqua fra le mie dita.
Facciamo il bagno con le gemelle, incrociando le braccia per costruire un trampolino dal quale possano tuffarsi.
Mi tira a sé per la vita, quando sono distratte, per rubarmi minuscoli baci a fior di labbra.
«Mi sposerai, quando non sarai più una mocciosa?» Ride sulle mie labbra, baciandone gli angoli.
Sono ubriaca. Di Junior, d'amore, di felicità. Gli salto al collo, dimentica della gemelle, del mondo, del mare e della sabbia, baciandolo senza bisogno di respirare, e lui si sottrae, sfuggendo in acqua per nascondere le sue orecchie paonazze.
«Sarò sempre una mocciosa!» Lo inseguo, tuffandomi per riacciuffarlo. Junior mi schizza e ride e arrossisce e credo di non essere mai stata più felice di così.
Poi il significato delle mie parole raggiunge il suo cervello pieno d'acqua. Si blocca, sospeso nell'atto di schizzarmi acqua salata con i palmi aperti, e assume quell'espressione alla Willow è cattiva e mi ha fatto la bua!.
Lo fa perché sa che non riesco a resistere al bambino ferito che si sovrappone all'adulto esasperante.
Maledetto.
Infilo gli indici nel bordo del suo costume, tirandolo verso di me. Si lascia trasportare dalle mie dita e dall'acqua senza opporre resistenza.
«Ma ti sposerò lo stesso, un giorno, anche se sei cattivo.» Gli sorrido tanto che mi fa male la faccia e la faccia deve fare male anche a lui, a furia di risate e sorrisi e baci.
«Willow, non in pubblico!» Sguscia via dalle mie braccia, dalle mie labbra, distendendosi al sole.
«Perché no?» Metto il broncio, tamburellando il piede sulla sabbia.
«Perché lo dico io.» Rotola sulla pancia, voltandomi la schiena. «E io sono più grande quindi ho sempre ragione.»
E poi capisco perché no.
Lunghi capelli biondi che ondeggiano in lontananza sopra lunghissime gambe, prosperosi fianchi abbronzati e un ancor più prosperoso seno, strizzato in un minuscolo costumino rosso che lascia pochissimo all'immaginazione. Giusto il tono dei peli pubici e la tinta esatta dei capezzoli.
Una delle bionde di Junior.
E io, nel mio prendisole bianco, sembro una patetica, bassa bambina rachitica, accostata a quei pezzettini di tessuto sul punto di esplodere.
«Ciao Finn!» Esclama, giuliva, e vorrei vederla annegare, strozzata dal suo costume da sgualdrina.
Provo una malsana gioia nell'immaginarla diventare prima rossa, poi cianotica e infine bluastra, soffocata dalle sue grazie.
Dovrebbe essere illegale, andare in giro conciati in questo modo.
Si inginocchia nella sabbia, posando una mano sulla spalla di Junior, e il costume nella mia immaginazione si trasforma lentamente nelle mie mani da bambina rachitica, chiuse ad artiglio intorno al suo collo biondo.
«Ciao, Sandy.» Junior resta immobile, lasciandosi toccare da quelle mani laccate di rosso.
Sandy? Che razza di nome è Sandy?
La stretta intorno al collo di Sandy si stringe e si stringe, strozzando anche Junior.
«Non sei venuto mercoledì, Finn.» Le unghie laccate si muovono, lente, sfiorando il disegno di lentiggini sulla sua spalla.
La odio.
Bucava conchiglie per me, mercoledì. Stronza.
Io non posso baciarlo, ma Sandy la stronza può toccare le sue lentiggini come fossero sue.
«Ciao!» La voce mi esce fuori più stridula di quello che vorrei. Da patetica, rachitica mocciosa. Contento, Junior?
Anzi no,
Finn.
Contento, Finn?
Le tendo la mano, sperando che la accetti per spezzarle ogni singola falange. «Io sono Willow, la sua-»
La sua cosa?
La voce rimane sospesa a mezz'aria come la mia mano, nell'attesa della stretta di Sandy-la-stronza.
La sua cosa? La sua pseudo cuginetta con la cotta con cui lui ha magnanimamente deciso di fare l'amore e passare la sua settimana di ferie in simpatia?
Quella che domani riparte, così può tornare a divertirsi sul serio con le bionde tettone?

Il cuore mi cade nei talloni e il mio mondo si riempie di crepe e frana, inghiottendomi.
Sandy-la-stronza alza un sopracciglio.
«Niente, solo Willow che ora deve scappare. Addio.» Mi giro sui tacchi, di corsa, terrorizzata all'idea che Sandy-la-stronza possa vedermi piangere.
Diventa tutto appannato e la sabbia mi rallenta, ma continuo a correre.
Sono così furiosa che divento fuoco e tempesta e voragine, che distrugge tutto, spazzandolo via.
Tutto. Tutto distrutto.
Mi bruciano le piante dei piedi e i polmoni e gli occhi e il cuore.
Soprattutto il cuore.
E vaffanculo le collane di conchiglie e gli uccellini morti di solitudine e le promesse e i baci e le torte al cioccolato e le carezze e gli scogli e la sabbia che appartiene al mare e i fiori e le ali colorate e i delfini e tutto. Ma soprattutto vaffanculo tu, Junior.
No, scusa,
Finn.
Vaffanculo tu, Finn.

«Willow!» Una mano mi agguanta un braccio, costringendomi a voltarmi. «Ma si può sapere cosa ti prende?» Junior mi guarda, ansante e stravolto dal fiatone, chinandosi sulle ginocchia senza lasciarmi andare.
È così dispiaciuto e sfatto - la famosa espressione Will è cattiva e mi ha fatto la bua! - che sono quasi tentata di scusarmi.
Quasi.
Poi ripenso alle unghie laccate di Sandy-la-stronza sulle sue efelidi e la colazione mi risale l'esofago.
«Ti rendi conto che mi hai mollato tuo fratello e le gemelle?»
Ah.
Allora è questo, il punto.
Non ha tempo di badare ai mocciosi, con Sandy-la-stronza nei paraggi.
Mi sembra giusto, Finn.
«Scusa.» Ribatto, scrollandomelo di dosso con uno strappo secco «Per fortuna da domani nessuno di noi ti disturberà più.»
Apre e chiude la bocca un paio di volte. Mi afferra per le spalle e boccheggia, un pesce fuor d'acqua, mentre la fronte gli si imperla di sudore.
«Sei impazzita?» Ha gli occhi tanto sgranati che tendo le mani per raccoglierli, nel caso dovessero scivolargli fuori dalle orbite, rotolando in strada.
Scuoto con decisione la testa. Non me ne frega niente della sua sceneggiata. Tornasse a farsi toccare dal costumino di Sandy-la-stronza.
«Ancora qui, Finn? Non torni da Sandy?» Junior impallidisce sotto l'abbronzatura fino a diventare verdastro.
E si sbatte con violenza i palmi sul viso.
Più volte.
Slap!
«Smettila di picchiarti, scemo!» L'istinto ha la meglio sulla rabbia. Gli prendo i polsi fra le mani, scostandoli dal suo viso.
Ha le guance arrossate ed è ancora più sudato.
Ed è sempre bellissimo, accidenti a lui.
«La sua ragazza! Ecco cosa volevi dire!» Ride e tenta di abbracciarmi, indifferente agli schiaffi che tiro alle sue braccia nel tentativo di liberarmi.
«Non mi toccare!» Strepito, continuando a cercare di staccarmelo di dosso.
È come colpire un gigantesco muro di gomma: inutile.
«Sei gelosa! La mia mocciosa è gelosa!»
Mi bacia i capelli e io sospiro, rassegnata.
Stiamo rasentando la follia. Spero se ne accorga.
Continua a vaneggiare cose senza senso per un po'. Lo lascio fare, paziente, finché la pazienza non si esaurisce.
«Abbiamo finito?» «No!» Il cretino gongola, continuando a sudarmi freddo addosso. «Ti sto abbracciando in pubblico, mocciosa prepotente, non ignorarmi.»
Oh.
Il mio cuore striscia lentamente dai talloni al suo posto nel petto, ridacchiando nella scalata.
Ero così furiosa da non essermene neppure resa conto.
«Non potrei neanche volendo,» borbotto, appoggiando il viso sul suo petto «mi stai sudando addosso, Finn
Resto immobile per un po', ascoltando il battito del suo cuore.
La tempesta passa, veloce come era arrivata, e le nuvole nere si disperdono, scoprendo frammenti del nostro cielo color acquamarina.
«Ti dà tanto fastidio?» Domanda, chinandosi per baciarmi la fronte.
«Chi? Sandy-la-stronza?»
Sì, da morire. Per caso si nota? Ricomincia a sghignazzare, scompigliandomi i capelli.
«Si chiama solo Sandy. È una collega, siamo nella stessa squadra.»
Bene! Ora sì che parto tranquilla!
«Ed è felicemente fidanzata.» Lo sento ridere, mentre mi accarezza la schiena. La sua risata mi gorgoglia nel petto, irresistibile. «Con una bella ragazza di nome Wave.»
Ride e io mi sento ufficialmente la mocciosa più demente di Panem.
Sandy e Wave.
E io sono un'idiota.
«E non farebbe differenza in ogni caso, Will. Io vedo solo te.»
Io vedo te.
Il cuore mi schizza violento fra le orecchie, lasciandomi stordita.
Alzo lo sguardo, cercando la sua espressione di questo momento per imprimerla esattamente nella memoria e portarla via con me, domani, come una foto o una conchiglia da stringere fra le dita quando sentirò la sua mancanza e non avrò le sue braccia a farmi da giaciglio.
«Mi riferivo al mio nome, comunque. Ti dà tanto fastidio?»
Scuoto la testa, ancora troppo inebetita per parlare. Perché dovrebbe?
«No. Junior mi piace.» Balbetto, sfiorandogli il mento con le dita.
«Ma io mi chiamo Finnick, mocciosa. E ho quasi trent'anni, è normale che nessuno mi chiami più così.» Mi scosta una ciocca di capelli dietro l'orecchio con un sorriso dispiaciuto.
«No.» Mi imbroncio, cocciuta, puntando la fronte contro il suo petto. «Tu sei il mio Junior.»
«Come Sua bassezza reale desidera.» Ride ancora, dandomi un ultimo, piccolissimo bacio sulla fronte, e mi scioglie dal suo abbraccio per prendermi per mano per un lungo istante, prima di ricominciare a camminare, senza sfiorarmi, verso la spiaggia.
Cammino in silenzio, seguendo il ritmo dei suoi piedi sulla sabbia. Vorrei stringergli la mano, non riesco a capire il perché di questo suo rifiuto per le effusioni in pubblico.
Mi ferisce, quasi si vergognasse di me. Glielo domando, piano, quando vediamo le gemelle, affidate a Sandy-che-non-è-una-stronza, ricoprire la povera malcapitata di sabbia.
«Ti vergogni di me?» Vedo la sua schiena paralizzarsi. I muscoli si tendono, sotto le lentiggini, per tornare a rilassarsi. Non si volta.
«Non dirlo mai più, Will.» È il suo tono senza sole e riesce a toglierlo anche a me. Non c'è luce, quando Junior non sorride. «Se la cosa è così importante per te lo farò, ma non credevo che avessi bisogno di attaccarci un'etichetta sulla fronte.»
Lo è.
Ma lui lo è di più. Con le sue luci e le sue ombre e le curve e gli angoli.
Io vedo te.
E non voglio, non vorrei mai mettere le sue ali in una gabbia per un capriccio infantile, lasciandolo morire di fame e solitudine.
«Non ti voglio cambiare, Junior.» Lo supero di qualche passo, sfiorandogli un gomito nel passargli accanto. «Vorrei solo capire.»
Lo sento borbottare e lamentarsi - che non c'è niente da capire, che sono una mocciosa viziata e ficcanaso e bla bla bla - ma le sue parole si perdono nel vento che gonfia il mio vestito, accarezzandomi le gambe.
Mi avvicino a Sandy - ormai sepolta dalla sabbia fino alle orecchie - con la coda fra le gambe e le mani in mano, strofinando i piedi nella sabbia.
«Ciao, io sono Willow Mellark.» I suoi occhi nocciola - scommetto che non è davvero bionda - si illuminano in un lampo di comprensione, udendo il mio cognome. Sorride, agitando l'unico dito lasciato scoperto dalla sabbia. «E sono una deficiente, scusami per prima.»
«Non ti preoccupare.» Sorride ancora, tentando di liberarsi «Ho capito cosa era successo quando Finn mi ha portato questi piccoli mostri supplicando di non lasciarli uccidere nessuno mentre ti correva dietro.»
Ha una bella voce, Sandy-che-non-è-una-stronza. E sembra anche simpatica.
Ma decido comunque di non aiutarla ad uscire dalla sua trappola di sabbia, perché nessuno tocca il mio Junior con quelle unghie laccate di rosso.
«Non la aiutiamo?» Chiede Junior, dopo un po', sedendosi al mio fianco nella sabbia
«Nah.» Sorrido con la mia espressione più innocente, strizzando gli occhi per proteggerli dal sole. «Ha l'aria di divertirsi così tanto...»
Lui mi fissa a bocca aperta, sollevando le sopracciglia. Guarda Sandy - il granello umano - e poi di nuovo il mio sorriso innocente.
Il sole gli bacia la punta del naso in modo irresistibile.
Voglio baciarti.
«A me non sembra.»
«Le gemelle si divertono, però.» Mi stringo nelle spalle, spostando il peso indietro sulle braccia.
«Allora Sandy è spacciata. Mai interrompere una mocciosa che si diverte.» Commenta, distendendosi con la testa su una delle mie gambe.
Ha una testa pesantissima, ma non mi sposterei neanche se il mare si rovesciasse su di noi in questo istante.
Chiude gli occhi, torcendo il naso in una piccola smorfia. Vedo le sue iridi muoversi appena sotto il reticolo di vene sottili delle palpebre. Gli accarezzo i capelli, lasciando annegare le mie dita in questo mare di onde d'oro e rame e bronzo, e lui sospira.
È bellissimo.
«Dicevo sul serio, prima.» Avvicino la fronte alla sua, richiudendomi come un'ostrica sulla sua perla.
«Cosa? Che sono grande, forte e saggio e ho sempre ragione?» Mugugna, tenendo gli occhi serrati.
«No, che sei cattivo. E brutto.» Collego le lentiggini sul dorso del suo naso disegnando stami di denti di leone con i polpastrelli. «Ma sono una mocciosa altruista, quindi ti sopporto comunque.»
Rotea gli occhi dietro le palpebre chiuse, sbuffando.
«Sul serio?»
«Sì, sul serio.» Le mie dita trovano il contorno della sua bocca. Sfioro il minuscolo neo color caffè latte sul suo labbro inferiore, un granello di spiaggia che porta sempre sul viso. «Sono fissata con i casi umani. Anzi, potrei presentarti come progetto personale in Accademia.» Spalanca gli occhi, trattenendo il fiato.
«Sì?» «Sì!» Sorrido, entusiasta, baciandogli la tempia «Papà è andato a vedere la struttura, ieri. Dice che è diversa da Biologia.» Cerco di ricordare tutti i dettagli che mio padre mi ha comunicato per telefono dopo la visita all'Accademia di Psicologia. Era così entusiasta che voleva farne degli schizzi da portarmi domani. «Gli alloggi sono esterni, perché è tutto in vetro, dai pavimenti ai soffitti alle pareti. Dicono che è perché tra la mente umana e uno psicologo non devono esserci segreti, e vogliono farci abituare all'idea. E poi c'è un giardino con le farfalle e delle lucciole che brillano anche di giorno e...»
Ma Junior non mi ascolta più. Si tira a sedere, rigido e meccanico, e il sangue torna a circolare lungo la mia coscia. Si scrolla la sabbia di dosso, senza guardarmi, e si rimette in piedi.
«Junior?» Lo tiro per il bordo del costume, perplessa.
«Non voglio parlarne.» Dice, risoluto, continuando a scuotersi invisibili granelli dalle gambe.
«Di cosa?» Rimango immobile, una mano sugli occhi per schermarli dal sole, lo sguardo sul suo collo irrigidito.
«Di tutto.» Inizia a scrollarsi anche i capelli, metodico e teso come una lenza. «Non ci voglio pensare e basta.»
«Okay.» Incrocio le braccia al petto, stizzita. «Facciamo finta che io non stia per partire.» Le mie stesse parole mi tornano in faccia, violenta risacca, impastandomi la bocca come un pugno di sabbia. «Tu non vuoi pensarci, Junior, e io invece non penso ad altro.» Nascondo il viso fra le ginocchia, abbracciando le mie gambe. È un tarlo che mi consuma. Sono impotente: non posso bloccare la lancetta del nostro orologio, né riesco più a fingere che la mia casa siano sempre state le sue braccia e il nostro mare. La mia testa non fa che girare e girare, inceppandosi sulle immagini di treni e rotaie e appuntamenti telefonici e permessi al lavoro.
Lui invece scappa, fuggendo dalla realtà come fa da ogni cosa che potrebbe farlo soffrire.
Ma non c'è più tempo neanche per fuggire. I minuti si inseguono e si sgretolano come sabbia, anche se abbiamo ancora troppe cose da fare e da dirci, baci da dare e da ricevere.
«Non abbiamo più tempo per prenderci in giro.» Sospiro, cullando la fronte fra le mie ginocchia. Guardo le dita dei miei piedi perdersi nella sabbia tiepida. Poi le sue. È immobile, continua a darmi le spalle, incerto sulla direzione da prendere per scappare dalla realtà. «Dovremmo parlare di cose come il futuro. E la realtà, tipo cosa farai lunedì, cosa farò martedì e cosa faremo ogni giorno della settimana, per ogni settimana in cui saremo divisi.»
«Adesso?»
La marea della mia rabbia risale, lenta, spumeggiando fra le mie tempie.
Inspira e espira. Espira e inspira. Ricordati che lo ami, non vuoi strozzarlo davvero. Inspira e espira.
«Sì, Junior. Adesso.» La mia irritazione ribolle nel mio tono acido. «O domani, se preferisci, seduti intorno a un tavolo con i miei genitori che fanno colazione. Oppure lunedì, per telefono.» Calcio una manciata di sabbia, immaginando di ficcargliela dritta in gola. «Come ti pare, Finn
Anche i suoi piedi se la prendono con la sabbia.
«Bene.» Trasuda nervosismo, riuscendo a stizzirmi ancora di più.
Bene, cosa? Non va bene niente, razza di demente! Bene un corno!
«Hai detto come ti pare,» sento lo scricchiolare dei granelli fra le sue dita mentre disegna due enormi virgolette nell’aria “e a me pare che non voglio parlarne.”
«Bene.»
Strozzati, deficiente.
«Bene.» Ripete, superandomi per andare a salvare Sandy-chissenefrega-se-è-stronza-o-no dalle grinfie delle gemelle.
Raccatto i teli con studiata – dalle mie mani che prudono dalla voglia di schiaffeggiarlo – lentezza, per poi scagliarli con violenza sul fondo delle borse. La paglia trema e geme sotto la mia stretta.
Lui scappa.
Dai problemi, dalle conseguenze, dalle responsabilità.
Lo vedo scherzare con la bionda tettona, aiutandola a ripulirsi dalla sabbia, dimenticandosi qualsiasi cosa io abbia potuto dirgli. Rincorre le gemelle con una tale noncuranza che avrei voglia di urlare fino a farmi esplodere i timpani.
Batto i denti tanto forte da schiacciarmi la lingua, e lui corre e saluta e prende le mie sorelle per le braccia, come se non esistessi.
Non vuole affrontare il discorso perché, per quanto forte mi stringa ogni notte, evidentemente per lui non c’è alcun discorso da affrontare.
Sono io la stupida adolescente innamorata che continua, cocciuta e ostinata, a costruire castelli di sabbia, dimenticando che ogni notte la marea li spazzerà via, riportandoli al suo posto.
Domani torneremo al nostro posto anche noi, io sulla terra, precipitando dalla mia nuvoletta rosa, e lui nel suo mare, e di noi non resterà che un’impronta sulla battigia.
La marea torna sempre, davvero, distruggendo qualsiasi cosa al suo passaggio.




Note di fine capitolo:
Buonsalveh!
Ricordiamo che su Colors Fanfic troverete tutte le storie che appartengono a questa serie, nonché il quindicesimo capitolo in anteprima di Aquamarine.
Grazie come sempre a tutti coloro che ci seguono e ci supportano...siete cuorih ♥


Ringraziamenti:
Come per ogni nostra fanfiction, non possiamo esimerci dal ringraziare tutte le persone che ci sono state vicine nella stesura della storia, quelle persone che, in qualche modo, hanno contribuito a rendere Aqua la storia che è, quindi i nostri ringraziamenti più sentiti vanno a:
radioactive che non solo ha creato per noi questo fantastico banner – e non ci stancheremo mai di dire che è una grafica nata – ma che ci ha promptate, aiutate, ispirate e che è la persona che più ci ha aiutate e spronate a scrivere Aqua. Questa fanfiction è anche sua;
_eco che ci ha fatto immaginare un incontro tra JJ e Will;
gabryweasley che ci ha seguite sin dall’inizio, amando Aqua tanto quanto noi. Che ci chiedeva di passarle i pezzi e li leggeva dicendoci sempre cosa ne pensasse.
Se amiamo tanto Aquamarine è anche merito loro ♥ Grazie per tutto, vi amiamo! ♥


Veniteh a fare le bolleh d'Assenzioh con noi nel gruppoh Facebook gestito dalla nostra meravigliosah famiglia disfunzionale ♥ A Panda piace fare le bolle d'assenzio [EFPfanfic]
Abbiamo apertoh anche una pagina Facebook dedicatah a questa serie, doveh potreteh farci qualsiasi domanda su questa raccoltah, seguire tutti gli aggiornamentih, salutareh Finnickinoh che ballah nella p0rn Narnia e devolvere zolletteh alla sua causah ♥ Vi aspettiamoh numerosih ♥ Colors.

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Capitolo 15
*** Capitolo XV ***





XV.




«Devo ucciderlo per te?» Rye guarda Junior trascinare le gemelle scalcianti fino al portico, strizzando gli occhi in due fessure.
La determinazione con cui lo sibila fa così paura che se fossi in Junior cambierei immediatamente nome e indirizzo, ma la sua premura mi commuove.
«Facciamo la prossima volta,» sorrido, scompigliandogli i ricci biondi «ma grazie per il pensiero.»
Rye si stringe nelle spalle, mortificato dall’omicidio sfumato sotto i suoi denti, precedendomi in casa.
Junior resta impalato sulla soglia. Ha ricominciato a sudare freddo e si studia i piedi.
Evidentemente non trova neanche il coraggio di dirmi ciò che ho – finalmente – capito da sola.
Ho la forte tentazione di richiamare Rye per dirgli che ucciderlo forse no, ma ferirlo gravemente sì può fare.
«Non entri?» mi sforzo di suonare neutra, posando la mano sulla maniglia per nasconderne il tremito.
«Devo passare a casa.» Incrocia le braccia al petto, cupo, senza smettere di fissarsi le scarpe con fastidioso interesse.
«Allora ciao.» Sbatto la porta così violentemente che mi aspetto di vederla cadere dai cardini. I vetri e i sonagli di conchiglie tintinnano e vibrano per un tempo che sembra infinito.
Spero di avertela data sugli alluci.
Mi strofino col bagnoschiuma finché la pelle non mi tira, bruciata dallo sfregamento. Sotto le unghie mi rimane un sottile strato di sangue e epitelio, che gratto via fino a farle sanguinare di più. I mie vestiti diventano cartavetrata, sfregiandomi le gambe e le spalle ad ogni movimento.
Per rendere ancora più memorabile questa bellissima giornata, l’espressione di zia Johanna, durante il pranzo, sottintende un enorme cartello retroilluminato con su scritto, a caratteri cubitali: io ve lo avevo detto, dementi.
Fortunatamente ha pietà della mia faccia da cucciolo abbandonato e non si pronuncia, lasciando parlare i suoi eloquenti occhi scuri.
Avrei solo voglia di raggomitolarmi nella profondità degli abissi e sparire per sempre, ma non posso: ci sono i piatti da lavare e le gemelle da tenere impegnate e Rye da staccare dall’affila coltelli e la mia vita, che mi fa improvvisamente schifo.
Sono così furiosa con me stessa da sbattere lentamente, ripetutamente la testa contro la parete, sperando di svenirne, primo o poi.
O almeno diventare un po’ meno illusa e deficiente, nel frattempo.
Tump. Tump. Tump.
«Non funziona.» Le mani ruvide di zia Jo mi staccano dal muro per le spalle, conducendomi seduta sul divano «Sono ventisette anni che ci provo. Parlo per esperienza.» Mi scosta i capelli dalla fronte, ghignando. La testa, senza il contatto ritmico col muro, mi pulsa e mi batte come se bussassero alla mia scatola cranica. «E se vuoi rompertela davvero devi sbattere più forte. Cosa sono quelle testatine da pappamolle?»
Ho la visione del mio cervello spiaccicato sotto le maglie della rete di zia Annie, insieme a pezzi del mio cuore e della mia dignità, e per qualche insano motivo lo trovo divertente.
Tanto da sorriderne. In modo così ebete che sento gli angoli della mia bocca incastrarsi ai padiglioni auricolari.
«Ma se lo fai per diventare demente funziona,» Johanna alza gli occhi al cielo, esasperata «peccato che per quello arrivi tardi.» Faccio per alzarmi, ma i suoi palmi bloccano le mie spalle. I suoi calli mi bruciano la pelle ustionata dalla spugna. «Stai con Annie, porto io i mostri al mare. Sei così idiota da tuffarti di testa da uno scoglio, tu. Ridendo.»
Impreca su come io sia – testuali parole – “peggio di quella tardona della madre” fino alla soglia, combattendo per strappare le mani di Rye dai cardini.
Tanto per ribadire il concetto che a lui il mare fa schifo, se qualcuno avesse dubbi in proposito.
Il problema è che a mio fratello fa schifo più o meno tutto. Tranne il suo arco, mia madre – solo nei giorni buoni, in quelli brutti anche lei – e i suoi canini, possibilmente stretti intorno alle dita di qualcuno. Se quel qualcuno è Junior anche meglio.
Riesco perfino a far sorridere la zia Annie, con questo riassunto delle passioni di Rye il sanguinario, raggomitolata sul dondolo ad annodare fazzoletti.
«Sei bella, bambina.» Lascio che le sue mani di lacrime e tempesta mi pettinino i capelli. Chiede se può intrecciarli e la lascio fare, seduta sul legno del portico, perché la cosa sembra renderla felice, e la sua felicità è rara come neve, qui. «Non mi sorprende che ti ami.»
Non ribatto. Non ho il coraggio di cogliere questa neve appena posata per lasciarla sciogliere e sgocciolare via, acqua sporca e inutile, fra le mie dita maldestre.
Non posso dirle che andrò via, presto, e qualsiasi cosa mi fossi illusa di avere tornerà al suo posto nel mare.
Le dita di vetro di Annie giocano fra le mie ciocche, combattendo per incastrarvi nastri e conchiglie. Sono il suo uccellino d’oro, adesso, e aspetto che si lasci distrarre dal mio canto.
«Io non ero bella come te, alla tua età.» Sospira, carezzandomi una spalla «La notte mi rubava gli occhi e la lingua e i miei capelli erano fuoco, impossibili da intrecciare di conchiglie. Ma ero una sirena, bambina, e il dio del mare mi amava e cantava per me come cantano gli uccelli.»
«Cosa è successo agli uccelli, Junior?»
«Mio padre non è più tornato.» Accomoda la mia testa sulla sua spalla in un sospiro. «E sono morti tutti.»

«Che fai ai capelli di Willow, mamma?» I polsi di zia Annie si tendono e io scatto al suono della sua voce.
È immobile, impalato a qualche passo da noi, intento a giocare coi polsini risvoltati della camicia. Il tessuto sottile gli fascia le spalle e la vita stretta, ed è così bello che fa male, il pensiero di essermi illusa che potesse essere mio.
Ed è stranamente elegante, senza le sue magliette mangiate dal sale.
Dovrà uscire con qualche bionda.
Gli dei del mare amano le sirene. E io sono solo una mocciosa.
L’idea mi torce le budella e mi riempie la bocca e i polmoni d’acqua salata.
Annego in quest’acquario di dolore, cercando una bolla d’aria per non farmi esplodere i polmoni.
Zia Annie mormora il nome del suo dio del mare, senza lasciare i miei capelli, e siamo tutti così rotti e rigidi e pieni di crepe e screpolature, che mi domando quanto a lungo i nostri cocci rimarranno insieme.
«Sono solo Junior, mamma.» Sospira, e un’altra delle luci che aveva acceso si spegne. «Sono venuto a prendere Willow.»
Mi lascio prendere per mano senza la forza di protestare, ansiosa di sfuggire all’aura di appiccicosa infelicità che ha ricoperto perfino il cielo di una trappola di putrescenti alghe verdi.
Realizzo solo dopo qualche metro, percorso in una sorta di trance lungo il viale del villaggio dei vincitori, la presenza delle dita fredde di Junior intorno alle mie.
Che mi tiene per mano in pubblico.
Che mi trascina per mano in pubblico.
Punto i piedi, cercando di rimettere ordine nel marasma della mia testa.
Dopo qualche passo Junior si rende conto che la sua bambola di pezza si è animata e si decide a fermarsi. E voltarsi.
Mi guarda, interrogativo, facendo scorrere l’indice tra il pomo d’Adamo e il colletto.
Deve odiarla, quella camicia.
E ha ricominciato a sudare freddo.
«Ti sei messo elegante per lasciarmi?» La voce mi viene fuori più lamentosa di come vorrei.
In una certa ottica la cosa dovrebbe lusingarmi. Forse.
Peccato che abbia solo voglia di piangere.
Junior mette in scena il solito copione: sguardo da cane bastonato, spalle curve, occhi allacciati alle scarpe. Credo di poter prevedere la sequenza senza neppure guardarlo, ormai.
«Volevo portarti a cena…» Mormora, senza smettere di torturarsi il colletto.
Riformulo la domanda, accucciandomi con le mani sulle orecchie per proteggermi dalla detonazione.
«Volevi portarmi a cena per lasciarmi?» Il mio belato si frantuma in un piccolo singhiozzo, ferendomi il palato.
Stringo forte le palpebre e i denti, sperando di resistere all’onda d’urto.
«No.» Lo strazio palpabile nella sua voce mi spinge ad aprire un occhio, lentamente. Poi l’altro. È più verdognolo di stamattina e una goccia di sudore scivola dalle sue sopracciglia al dorso del suo naso. Non ha l’aria di sentirsi bene. Affatto.
«Junior…» gli tocco la fronte. È freddo e gelido insieme. E suda. «Ti senti bene?»
«No.» Scosta delicatamente il mio palmo per asciugarsi la fronte. «No. Non sto bene per niente.» Cerca di nuovo la mia mano e io stringo la sua d’istinto. Intreccia le dita alle mie tanto disperatamente da farmi male. Il mio cuore perde un battito.
Due.
Dita di ghiaccio mi avvolgono la nuca nel tepore serale. Rabbrividisco, terrorizzata all’idea che abbia qualcosa di serio che non va.
«Possiamo parlarne a casa?» Mi implora, e non ho più il coraggio di obiettare.
Mi lascio trascinare, il cuore pesante e le gambe di burro, immaginando scenari catastrofici che terminano inevitabilmente con me che poso fiori e conchiglie sulla sua lapide.
È orribile.
Mi rimangio tutto. Può anche lasciarmi, basta che stia bene.
Arriviamo su un portico identico a quello della casa delle zie e il rumore dei miei denti che sbattono fra loro copre quello dei nostri passi sulle scale.
Junior armeggia con le chiavi e io non resisto più.
Esplodo, tremando e sudando più di lui, attaccata al suo braccio.
«Vuoi lasciarmi perché sei malato?» Junior mi guarda dall’alto, sgranando gli occhi. Sento il rumore della sua mascella che precipita sul legno.
Richiude lentamente le labbra.
E ride.
A crepapelle. Continua a ridere, fino alle lacrime, tanto che si lascia cadere seduto sul portico, poggiando la schiena alle porta. Le chiavi tintinnano quando le sfiora con i capelli.
«Sono seria, cretino!» lo colpisco a un braccio, tentando di farlo rialzare. «Sei pallido e sudi e sei strano e mi dici ne parliamo a casa, cosa cavolo dovrei pensare?»
La mia rabbia ha l’effetto di farlo ridere più forte.
Mi siedo sul primo gradino, offesa, aspettando che la pianti.
Junior termina la sua sporta di risate a spese mie con tutta calma, poi si avvicina, gattoni, posando la sua pesantissima testa piena d’acqua sulla mia spalla.
«Credevo volessi lasciarmi tu, Will.» Posa un bacio leggero fra i miei capelli carichi di nastri e conchiglie «Perché sono un’idiota terrorizzato dall’idea che tu parta.» Sospira, piano, e il suo fiato mi solletica l’orecchio. Ecco perché era così strano, quindi. «E sono così in ansia all’idea che sono stato male di stomaco tutto il giorno.» Ed ecco il perché dei sudori freddi e del colorito verdognolo. Che deficiente. E io che credevo che fosse sul letto di morte. Ridacchio, lasciandomi accarezzare la nuca dalle sue labbra. «Volevo portarti a cena fuori, ma il mio intestino non era d’accordo.» Un sorriso mi si dipinge lentamente sul viso, mentre mi racconta delle due pentole che ha bruciato, nel tentativo di prepararmi la cena.
«Ma come fai a sopravvivere senza saper cucinare neanche un uovo sodo?» Reclino il capo sul suo, allungando le gambe.
E il sole tramonta, arancione e magnifico, sulla mia rabbia che si disperde nel vento in una moltitudine di soffioni.
«Esistono le scatolette.» Sbuffa, mordicchiandomi il collo. «E il cibo d’asporto e i ristoranti e l’orribile cucina di zia Johanna…» elenca all’infinito le anime pie che gli consentono di non morire di fame. Ad ogni nome mi deposita un piccolo bacio sulla pelle. Quando arriva al collo mugola qualcosa che non afferro e sento il suo sorriso allargarsi sulla mia clavicola. «Mi sono comportato da demente, oggi. Perdonami.»
Annuisco piano, glissando sul fatto che il perdono sia arrivato da un pezzo, da qualche parte tra la clavicola e la nuca.
«Possiamo entrare in casa, ora?» Chiede, sorridendo sulla mia pelle, tra un bacio e l’altro. Annuisco di nuovo, porgendogli le mani per farmi aiutare a issarmi in piedi. Riemergo e mi sembra di riuscire a respirare davvero, di nuovo, quando il mio corpo incontra il suo per la forza della spinta che mi sono data per tirarmi su. Urto contro il suo petto, abbracciandolo immediatamente, come se, lontana dal suo abbraccio, mi mancasse una pezzo di cuore o le braccia o i polmoni e tornassi intera solo stringendolo.
Lui non vacilla. Mi stringe, inspirando e mormorando qualcosa tra un nastro e una conchiglia, e divento spuma che impatta contro la vela, perdendo qualsiasi consistenza a contatto della sua pelle.
«Hai fame?» Mormora, abbassandosi per baciarmi, armeggiando con le chiavi. Che io faccio cadere continuamente, catturando le sue labbra e il suo viso ogni volta che si allontano da me. «Perché io non ce l’ho.» Alzo gli occhi al cielo, senza smettere di baciarlo neanche per lasciarlo ridere della mia espressione buffa.
Voglio baciarti per sempre.
La serratura cede con un piccolo schiocco secco da qualche parte tra la destra del mio fianco e le mani di Junior sulla mia pelle.
Lo scricchiolio sotto le mie scarpe mi sussurra che casa di Junior sarà esattamente identica a casa delle zie – stesso ingresso, stesso portico, stesso numero di stanze, stessa cucina angusta – e profondamente diversa, ma non vedo niente, né il colore dei soffitti, del pavimento e delle pareti.
Tutto ciò che vedo, e devo sbattere gli occhi per essere certa di non avere un’allucinazione, è il tremolare fioco di minuscole fiammelle.
Candele.
Ovunque.
Fioriscono nelle loro corolle di fiamme dall’angolo delle scale, sul tavolo del soggiorno, sui davanzali delle finestre, danzando e bruciando nei loro letti di cera e corallo e conchiglie.
Bagnano ogni cosa di una tremolante luce dorata, identica alla luce del tramonto che bacia la schiena di Junior attraverso le tende della mia camera.
Le mani di Junior scivolano intorno alla mia vita e il suo mento vicino al mio orecchio.
«Ti piace?» Il suo respiro mi accarezza il collo, caldo, e riesce a liquefare ogni osso del mio corpo.
«Cerco qualcosa da regalarti, mocciosa prepotente…»
È un’altra corona di fiori, un’impronta sulla tela, un fiore strappato sulla riva del lago. Junior apre squarci dentro di me e cerca di rattopparli con cose che crede che io voglia, sperando di cancellare le lacrime con un sorriso dedicato a qualcos’altro.
Sguscio dalla sua stretta, muovendo qualche passo traballante.
Non è scappando, né facendo l’amore, né con le offerte di pace che voglio che riempia i buchi che lascia. Perché la sabbia continua a filtrare dalle ferite e non ci sono candele né fiori che possano fermarla.
«È per me?» La mia voce trema dello stesso baluginio delle fiammelle e lui non mi guarda negli occhi, abbassando lo sguardo. Armeggia con il colletto della camicia, slacciando il primo bottone.
Non aveva nessuna intenzione di parlare del futuro, non ce l’ha tuttora.
«Certo che è per te, Will.» Biascica «Volevo fare qualcosa di bello per te, perché è…» esita, iniziando a torturare i polsini.
Qualcosa si rompe, dentro il mio petto, e io mi sento improvvisamente disgregata in minuscoli frammenti che faticano a restare insieme.
E fa un caldo mostruoso, con tutte queste candele accese.
Il fuoco divampa da qualche parte tra lo stomaco e i polmoni, rendendomi difficile respirare.
«Perché è l’ultima sera, Junior.» Mi stringo le braccia al petto finché non sento le costole premere contro i miei avambracci. Lui fa un passo indietro, sbilanciato dalle mie parole. Le sue mani scattano verso l’alto, tremanti, mentre solleva lo sguardo, per un battito d’ali, per sgranare i suoi occhi di mare verso di me. «Ecco perché. E perché sono andata via pensando che volessi lasciarmi.» Qualcosa mi bagna il viso, ma brucio troppo per preoccuparmene. Il mare evaporerà, diventando pioggia, e per allora sarò un guscio vuoto, incapace di tenere insieme la moltitudine dei miei squarci. «E perché continui a non voler affrontare il problema, e credi che cose come questa…» smetto di schiacciarmi le costole per fare un ampio gesto che abbracci le fiamme e le conchiglie «…lo risolvano per te.»
Junior mi fissa a bocca aperta per un lungo istante, scattando indietro come se l’avessi schiaffeggiato. La delusione nei suoi occhi mi pugnala, ripetutamente, e sparge sale nelle ferite aperte.
Fa il giro del tavolo, spegnendo ogni candela. E il buio infetta ogni cosa, dentro e fuori di me, scoprendo i suoi mostri, spaventosi, che ci inghiottiranno, fagocitando qualsiasi alba i suoi occhi possano aver fatto sorgere in me.
«La notte mi rubava gli occhi e la lingua e i miei capelli erano fuoco.»
«Non hai capito niente, Willow.» Dice, piano, e io potrei spegnere ogni fiamma con le mie lacrime, se me ne desse la possibilità. Gira a passi sempre più lunghi e nervosi per l’ingresso, senza guardarmi. Mi sento così male che vorrei scappare, ma le mie gambe sono fuse al pavimento. Junior sparisce in cucina, di tanto in tanto. Sento l’acqua scorrere, sovrastata dal rumore di cocci che cozzano contro il metallo e vetri che si spaccano, seminando frammenti taglienti sul piano cottura.
Crack. Cling.
I vetri mi tagliano i timpani e la gola, impedendomi di parlare. Boccheggio, i polmoni pieni di sangue e sale, combattendo contro le mie gambe che non vogliono collaborare.
«C'è qualcosa che ti sta bene?» Lo urla, dalla cucina, mentre vado in pezzi in un grumo di terraglie annerite e cera molle. «Qualsiasi cosa faccia non va bene, vero?» La sua voce si crepa, vetro rotto su altro vetro, ridotta in schegge di dolore sotto le mie unghie, i denti, dietro le palpebre. Mi mordo l’interno delle guance finché il sapore del sangue mi invade la bocca, spazzando via quello delle lacrime. E io perdo tutte le parole: scuse, rimproveri, giustificazioni. Ci sono solo frantumi e cera e il dolore nella sua voce, che mi strappa gli occhi e le mani e il cuore, lasciandomi immobile e impotente a sanguinare e piangere e soffocare. «Allora dimmi tu come mi vuoi.»
Allora dimmi tu come mi vuoi, perché evidentemente non mi vedi. E non mi accetti per ciò che sono.
Tutto si rompe e appassisce e muore, ripiegato in brandelli su sé stesso.
L’ossigeno prende fuoco nella mia gola, la mia pelle crepita e si spacca, coprendosi di bolle.
E io non sono più niente.




Note di fine capitolo:
Buonsalveh!
Ricordiamo che su Colors Fanfic troverete tutte le storie che appartengono a questa serie, nonché il sedicesimo capitolo in anteprima di Aquamarine.
Grazie come sempre a tutti coloro che ci seguono e ci supportano...siete cuorih ♥


Ringraziamenti:
Come per ogni nostra fanfiction, non possiamo esimerci dal ringraziare tutte le persone che ci sono state vicine nella stesura della storia, quelle persone che, in qualche modo, hanno contribuito a rendere Aqua la storia che è, quindi i nostri ringraziamenti più sentiti vanno a:
radioactive che non solo ha creato per noi questo fantastico banner – e non ci stancheremo mai di dire che è una grafica nata – ma che ci ha promptate, aiutate, ispirate e che è la persona che più ci ha aiutate e spronate a scrivere Aqua. Questa fanfiction è anche sua;
_eco che ci ha fatto immaginare un incontro tra JJ e Will;
gabryweasley che ci ha seguite sin dall’inizio, amando Aqua tanto quanto noi. Che ci chiedeva di passarle i pezzi e li leggeva dicendoci sempre cosa ne pensasse.
Se amiamo tanto Aquamarine è anche merito loro ♥ Grazie per tutto, vi amiamo! ♥


Veniteh a fare le bolleh d'Assenzioh con noi nel gruppoh Facebook gestito dalla nostra meravigliosah famiglia disfunzionale ♥ A Panda piace fare le bolle d'assenzio [EFPfanfic]
Abbiamo apertoh anche una pagina Facebook dedicatah a questa serie, doveh potreteh farci qualsiasi domanda su questa raccoltah, seguire tutti gli aggiornamentih, salutareh Finnickinoh che ballah nella p0rn Narnia e devolvere zolletteh alla sua causah ♥ Vi aspettiamoh numerosih ♥ Colors.

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Capitolo 16
*** Capitolo XVI ***





XVI.




«Allora dimmi tu come mi vuoi.»
La sua voce rotta continua a girare nel frammento di me che resta, dopo le fiamme, come un ritornello.
Tremo, battendo i denti, troppo inebetita e addolorata perfino per sedermi.
Crack. Cling. Crack.
I vetri continuano a rimbalzare sul metallo, ma la mia pelle è troppo carbonizzata perché riescano a ferirmi.
Non sento nulla se non la sua voce, che gira e gira e uccide un pezzo di me in più ad ogni passaggio.
Si distrugge tutto ciò che si tocca.
L’ho fatto. Ho distrutto tutto.
Me stessa e Junior e la felicità e le candele e le conchiglie.
Non sono state le mani di Junior, ma le mie. E la mia voce petulante e le mie pretese e i dubbi e la paura del futuro.
Cling. Crack. Cling.
È il suono del futuro che avremmo potuto avere che va in frantumi, schegge troppo piccole anche per occhi che non annegano nelle proprie lacrime.
Perché non mi vorrà più, avendomi vista per quella che sono davvero: una mocciosa egoista e disattenta, incapace di tenere una conchiglia fra le mani senza frantumarla.
Poi i rumori si fermano.
Ne avverto l’assenza più della presenza, con questi timpani arsi e devastati.
E ne inizia un altro. È sommesso e disarticolato, e talmente estraneo e fuori posto che non riesco a capire cosa sia.
So che fa male, però. Sono aghi negli occhi, fuoco sotto la pelle, sale su una piaga. Brucia e mi strazia, ma non riesco a non avvicinarmi alla sua fonte.
Combatto contro le gambe di piombo, il pavimento diventato paludoso, le ginocchia liquide e le mani che tremano. Avanzo, le unghie conficcate nei palmi fino a farli sanguinare, la bocca piena di sangue e gli occhi annebbiati dalle lacrime, svoltando l’angolo della cucina.
È lì, ripiegato su sé stesso ai piedi del lavabo, con la testa fra le mani.
Sembra piccolissimo, rannicchiato con i capelli fra le ginocchia. E piange.
Trema, coprendosi gli occhi con i palmi, e i suoi singhiozzi si ripercuotono su di me, aprendomi una voragine nel petto.
Non si piange, Junior.
Il mare stesso annega, nei suoi occhi. Il suo dolore è una cosa solida, notte vischiosa che mi soffoca, uccidendomi. Riempie tutta la stanza, ogni ricordo, ogni speranza. Diventa tutto nero, fra le sue dita piene di perle.
«Non si piange, mocciosa.»
Ogni lacrima, ogni singhiozzo, ridefinisce nel mio cuore un nuovo concetto di dolore.
E io credo di non essermi più sentita più inetta e fragile e inutile e stupida di così.
«Vattene!» Singhiozza, e la sua voce non è più sua. È diventata notte e oscurità e buio, e io non riesco a fare altro che piangere più forte, sperando che i miei lamenti scaccino i mostri, riportandoli al loro posto fra le ombre, sotto la caduta della coperta o dietro l’anta di un armadio. Ma non funziona, perché non funziona mai. Quando hai così paura, niente basta mai. «Vattene, cazzo!» Junior continua a piangere e il buio mi strangola, rubandomi gli occhi e il cuore.
«Non ti lascio andare in ogni caso, Junior. Neanche se mi cacci e mi respingi e smetti di volermi. Non ti lascio mai, non l'ho mai fatto.»
«Non ti lascio.» Il mio sussurro si infrange contro il muro di sofferenza che ha innalzato, ma sono io il muro di gomma, adesso.
I mostri non sono sotto il letto, sono negli occhi di papà.
Ho paura. Paura che vada a largo, lasciandomi la mano; paura che si faccia del male; paura del mio stesso dolore,dei mostri della mia infanzia, delle urla che grattano il legno, delle sue lacrime, di averlo spezzato, di essermi spezzata.
Ho paura, tanta da non riuscire a muovermi, paralizzata al centro della cucina, ma non lascio che vada via da me. E il mio corpo è ancora troppo piccolo per contenere tutta questa angoscia e questo terrore, e so che non sarà mai grande abbastanza, ma stavolta, stavolta è troppo importante.
Sono al cospetto del suo cuore, esposto dal suo costato aperto, e non posso permettermi di fuggire dietro le gambe di qualcuno, aspettando che la tempesta passi.
Il mio posto è qui, fra le lacrime e la paura e i tagli sulle sue mani e la sua camicia macchiata di sangue, non importa quanto male faccia.
«Io resto.» Ripeto, sedendomi sul pavimento a gambe incrociate, a qualche passo da lui.
Junior alza un attimo lo sguardo. Le lacrime aprono crepe di dolore sulla bellezza del suo viso e nel mio cuore, ma non cedo. Resto a lasciarmi ferire dal suono dei suoi singhiozzi, dal rossore del suo viso, dalla disperazione con cui si passa le dita fra i capelli, tirandoseli.
Continua a piangere e a chiedermi, sempre più debolmente, di andarmene, e io continuo a non cedere, sforzandomi di rimanere insieme per essere la sua vela in questo mare gonfio di tempesta.
Le lenzuola bianche frusciano sotto i piccolissimi pugni di Rye. Gattona fra di noi e ogni tanto mi colpisce in testa col suo sonaglio. Mi fa male alla fronte, ma lo lascio fare perché la cosa lo fa ridere. E se Rye ride sorride anche la mamma.
Mamma è rimasta a letto, oggi. Io dovevo andare a scuola, ma non ha lasciato che nessuno di noi uscisse di casa.
Ha pianto tanto da convincere papà, stringendomi al petto tanto stretta da farmi male.
«Non lasciare che me la portino via.» Ha detto, aggrappata a papà e a me e a Rye come se avesse paura di vederci sparire, e papà le ha scostato i capelli dal viso con un’espressione tristissima e ha annuito, allungandosi nel letto insieme a noi, anche se si era già vestito.
Papà si è disteso sulle lenzuola, vicino alla mamma, abbracciandoci tutti. È una cosa strana, perché noi siamo tutti vestiti e mamma ha la vestaglia, e mi è anche venuta voglia di piangere, anche se non so bene perché.
Forse perché la mamma continua a piangere in quel modo che fa tanta paura, con gli occhi persi e stringendoci forte, e vedo che vorrebbe piangere anche papà.
«Stiamo tutti bene, Katniss… Siamo tutti qui.» Papà lo dice piano piano all’orecchio della mamma, ma sembra il gioco del silenzio, e io lo sento lo stesso, nonostante il sonaglio di Rye. E mi sento ancora più triste, perché papà la consola, ma la mamma non smette. E allora piango anch’io, ma la mamma continua ad abbracciarmi e non mi guarda, e papà mi accarezza i capelli e mi chiede scusa, ma non so per cosa.
«Fai smettere la mamma, papà.» Lo singhiozzo, troppo triste per sopportare altre lacrime. «Per favore, falla smettere.» Papà annuisce piano, accarezzandomi la testa.
Bacia i capelli di mamma, sospirando, e le mormora qualcosa all’orecchio. Non lo sento, stavolta, perché papà non è bravo a nascondino come mamma, che riesce ad arrivare in ogni stanza senza fare rumore, ma è bravissimo a parlare sottovoce, quando non vuole che noi lo sentiamo.
Mamma scuote la testa, aggrappandosi forte alla sua mano, e io ho paura che gli faccia male, perché la mano di papà e tutta bianca e rossa ma lui non dice niente.
Poi succede una cosa: papà si stacca dalla mamma, liberandosi dalla sua stretta con l’altra mano, ed esce dalla stanza. Sento il suo passo pesante per le scale e ho paura che vada via, lasciandoci soli con la mamma che piange e mi abbraccia fino a soffocarmi.
Deve aver dimenticato qualcosa, perché sento di nuovo la gamba artificiale che pesta il legno. La porta cigola piano e il cielo torna a brillare nella stanza.
Papà ha un sorriso triste e ha in mano il libro suo e della mamma. Si avvicina più piano che può, ritrovando il suo spazio sulle lenzuola aggrovigliate. Accarezza i capelli della mamma con una mano, e con l’altra sfoglia il libro. È così concentrato, mentre sfoglia, che la mamma inizia a singhiozzare più piano, forse per non disturbarlo.
Quando trova la pagina, posandola delicatamente sul grembo della mamma, vicino al mio fianco, mamma sbatte le palpebre un paio di volte, trattenendo il fiato.
E come se si svegliasse davvero, non come stamattina, e le sue braccia mi stringono un po’ meno forte.
«Ti va di cantare per Willow, amore?» Papà non smette di accarezzarle i capelli arruffati, sorridendo «Lo farei io, ma non voglio farla piangere ancora…» mi strizza un occhio e il suo sorriso è un po’ meno triste, ora che la mamma ci guarda come se ci vedesse davvero, battendo le palpebre per liberare le ciglia dalle lacrime. Si trascina a sedere contro la spalliera e i suoi capelli scuri si aprono come foglie su un ramo contro il legno chiaro. Si schiarisce la gola un paio di volte, deglutendo, e guarda papà, che annuisce piano.

Deep in the meadow, under the willow
A bed of grass, a soft green pillow
Lay down your head, and close your sleepy eyes
And when again they open, the sun will rise.
La sua voce, trema, all’inizio, ma ad ogni nota è come se il cielo si aprisse, nascondendo le sue nuvole. Si asciuga le guance col dorso della mano, posando la testa sulla spalla di papà, e la sua morsa diventa una carezza delicata ai miei capelli.
La voce della mamma è così bella che non ho il coraggio neanche di respirare. Trattengo il fiato, ascoltando il silenzio degli uccelli, fuori dalla finestra.

Deep in the meadow, under the willow
A bed of grass, a soft green pillow
Lay down your head, and close your sleepy eyes
And when again they open, the sun will rise.
Here it's safe, here it's warm
Here the daisies guard you from every harm
Here your dreams are sweet and tomorrow brings them true
Here is the place where I love you.
Tacciono tutti.
È come diceva papà: quando la mamma canta le ghiandaie non hanno il coraggio di disturbare la melodia col loro canto.
È una magia.
Papà ride della mia espressione meravigliata e sulle labbra della mamma fiorisce, lento, un sorriso.

È un ricordo triste, ma mi suggerisce cosa fare.
Lancio un ultimo sguardo alle spalle di Junior, scosse dai singhiozzi, e faccio leva sulle braccia per alzarmi dal pavimento.
«Il libro serve a questo, tesoro.» Papà sorride, facendo saltare un pancake nella piccola padella «Per non dimenticare. Coloro che non ci sono più, come il papà di Junior, e le cose buone che hanno fatto per noi.» La frittella scivola nel mio piatto e papà mi bacia i capelli mentre afferro coltello e forchetta per mostrargli quanto sono diventata brava a tagliare da sola la mia colazione. «E per ricordare che dopo ogni nuvola, per quanto pioggia porti, c’è sempre un raggio di sole.»
Mi muovo a fatica nella penombra, cercando a tentoni l'interruttore. Le mie dita non trovano ostacoli. I muri sono lisci e freddi. Dove a casa delle zie ci sono reti e conchiglie e stelle marine e foto, c'è il vuoto bianco e onnicomprensivo dell'intonaco.
Click.
La lampadina illumina gli spazi vuoti: il soffitto bianco, il tavolo sgombro, le sedie senza cuscini accostate alle estremità del tavolo, una cassettiera di legno chiaro. Faccio scivolare i polpastrelli sulla superficie grezza, cercando un granello di polvere, una sbavatura.
Niente. Solo il metallo delle chiavi, abbandonate in un angolo.
È tutto così essenziale e asettico da dare l'impressione di una casa giocattolo, in attesa delle sue bambole vestite di pizzi per riempire la voragine delle sedie vuote.
Il vuoto è immanente e solido, una presenza tangibile nella stanza quanto il ripiano di legno della cassettiera e gli schienali delle sedie, e mi opprime, schiacciandomi il petto.
A casa mia, nel dodici, non c'è una stanza che non abbia una foto fuori posto, una maglietta nascosta sotto un lenzuolo, qualche moneta perduta nell'imbottitura del divano, una macchia di tempera su una parete o su un mobile.
«Non puoi passare la vita a pulire i segni del fatto che viviamo qui, Katniss.» Papà mi sporca la punta del naso di tempera rossa, sorridendo. E poi fa lo stesso con la mamma, con il verde. E sulla fronte di Rye, con il giallo, che addenta il suo indice con i dentini da latte.
La mamma si accarezza la pancia e ride, dimenticando lo straccio, e disegna un piccolo cuore sulla guancia di papà.
Ho i capelli sporchi di bianco e le mani imbrattate di rosa, ma non è importante. Papà ride e la mamma canta e io dipingo stelle marine e delfini. E non è più importante quanto io e papà riusciamo a sporcare, perché ci sarà tempo per pulire, e se non ci sarà le macchie di tempera diverranno un ricordo felice, la foto di una giornata di maggio in cui abbiamo disegnato e mangiato fragole che sapevano di colori a olio e cantato e papà ha baciato la mamma e l'ha fatto in quel modo speciale che ha, quando succede qualcosa di bello, stringendola come ogni bacio fosse un segreto fra loro.
Siamo felici.

Una casa felice è una casa che porta i segni di coloro che la abitano: ci sono i segni delle unghie di mio padre, su schienali come questi, mentre qui sembra non essersi mai seduto nessuno; sul nostro tavolo da pranzo c'è l'impronta dei denti da latte di Rye e i muri sono ingombri di cornici, tele e fotografie. Casa di Junior, invece, cancella i segni della sua presenza come un'onda cancella orme nella sabbia.
Non c'è il profumo di cannella, che aleggia leggero nella cucina di papà, né quello di mare e shampoo alla frutta e uova bruciacchiate di casa delle zie.
Non ha odore, né colori.
C'è solo assenza, qui. E tristezza, solitudine, fuga. Questi muri bianchi sono lo specchio di una vita che non vuole essere vissuta.
Quante cose non so di te, Junior?
Le mie dita cercano frenetiche il contatto ruvido della carta fra le dita.
Un foglio, un quaderno, una penna. Qualsiasi cosa mi permetta di lasciare un segno, in questo baratro, che ricordi che Junior esiste. E vive qui.
E non è solo, perché io lo vedo.
Apro ogni cassetto del mobile, trovandolo pieno di cose inutili: ricevute, promemoria, mappe marine, rose dei venti, cartografie. Le mie mani si scontrano contro il vuoto, di nuovo, e la frustrazione, buttando all'aria tutte le cartine, calciandole sotto il tavolo.
Non ti lascio la mano, neanche dopo averti visto crollare.
Giro in tondo per la stanza, scostando le sedie e scambiando l'ordine dei cuscini del divano, delusa dalla mia stessa cecità.
L'amore non è l'unica risposta.
Credevo di essere incompleta, autocommiserandomi per l'amore non corrisposto di Junior, e non ho mai capito fino in fondo quanto fosse lui, quello irrisolto.
Mi sono lasciata inondare dalla luce, calpestando le sue ombre.
Non vedi a un palmo dal tuo naso, stupida mocciosa.
Ho preteso e preteso e preteso ancora, senza riuscire a vedere realmente quanto mi stesse dando, lasciando che riempissi un po' dei suoi punti ciechi, mentre credevo che lui stesse colmando i miei.
In questa stanza vuota, con l'eco del suo pianto, l'ordine asettico riesce a mettere in fila anche i miei pensieri aggrovigliati, schiacciandomi nella sua limpida evidenza: non sono io, quella che ha bisogno che la sabbia si infiltri fra le crepe per non afflosciarsi come un sacco vuoto.
È Junior.

Vago per l'ingresso finché i miei piedi non imparano a memoria la consistenza di ognuna delle assi del pavimento.
Trascino i mobili finché la milza e le braccia non mi fanno tanto male che controllo che non stiano per staccarsi, sperando che i piedi lascino piccoli solchi sul legno dei listelli.
La cassettiera dev'essere inchiodata. La spingo fino a farmi lacrimare gli occhi dallo sforzo, ma non si smuove di un millimetro. Nello spazio fra il legno e il muro, però, sbuca un angolo di sughero sottile.
È leggero e flessibile nella mia stretta, e un sottile velo di polvere si deposita sui miei polpastrelli, dopo averlo toccato.
Mi piace, qualsiasi cosa sia.
Le mie mani indolenzite combattono contro il bordo della cassettiera per tirarlo fuori.
È più grande di ciò che sembrava: il mobile è largo e supera di un paio di spanne la mia vita, e riusciva a nasconderlo appena.
Lo appoggio con cautela al muro, cercando di capire se è qualcosa che posso disegnare, o dipingere.
«Cos'è questo?» Daisy mi guarda, pettinando una delle sue bambole. La sua camera ne è tanto piena da darmi il capogiro e così rosa da disturbarmi lo stomaco e gli occhi.
È esploso un porcellino di pizzo rosa, in questa casa, ma nessuno pare accorgersene tranne me.
«È un muro di sughero.» Mi guarda, annoiata, perché evidentemente le ho fatto la domanda più stupida del mondo. «Ma l'ha regalato Warren. Dice che serve per attaccarci cose.» Sbuffa, tornando a concentrarsi sulla sua bambola.
«Cose tipo?» Sfioro il sughero, saggiandone i buchi e la ruvidezza con le dita.
«Cose tipo ricordi. Foto, cose così.» Si stringe nelle spalle «È un regalo stupido, per me.»

Ed è così geniale e perfetto che vorrei baciare Daisy e la sua bambola sulla fronte, pizzicandole le guance da maialino fino a farle lacrimare gli occhi.
Rido e piango, poggiando la fronte al sughero sottile, dandomi grosse pacche sul viso.
Le guance mi bruciano, quando mi accorgo che effettivamente non ho nulla da attaccarci.
Merda.
«Che fai?» La voce di Junior mi fa sobbalzare e la mia fronte sbatte contro il sughero.
Mi volto, carponi sulle ginocchia, forzando il collo in una posizione innaturale per vedere qualcosa oltre alle macchie di sangue sul tessuto bianco della camicia.
I suoi occhi sono cerchiati di rosso e le guance segnate dalle lacrime.
È stravolto.
Sembra dieci anni più vecchio e venti più giovane, insieme. E nei suoi occhi gonfi e arrossati traspare un'espressione sorpresa.
Dove ti aspettavi che fossi, Junior?
Credeva che fossi andata via, ecco perché sembra tanto sorpreso di vedermi.
Il dolore - il vederlo spettinato e sconvolto e sfatto dal pianto, la consapevolezza di quanto poco creda che io tenga a lui, per lasciarlo in lacrime accasciato sotto un lavandino - divampa tutto tra la radice del mio naso e il fondo degli occhi.
Stringo i denti, provando a trattenere le lacrime, ma sento la vista annebbiarsi quasi subito.
Provo ad alzarmi, il petto sconquassato dai singhiozzi, ma ricado due volte sulle ginocchia, che picchiano dolorosamente contro il pavimento, prima di riuscire ad alzarmi.
Junior continua a fissarmi, immobile sulle sue scarpe. I suoi occhi verdi mi bucano da parte a parte, aprendo voragini di tenebra e senso di colpa al centro del mio petto.
Le lacrime mi bagnano il collo, impigliandosi nel bordo del mio vestito.
Vorrei che le mie lacrime asciugassero le sue, perché fa troppo male vederlo così, e fa ancora più male esserne la causa.
«Smettila di piangere, mocciosa.» Si massaggia le palpebre con le dita, smettendo di trapassarmi con quegli occhi cerchiati di dolore. La sua voce è roca e trema ancora. «Ti riporto a casa.»
No!
Esplode dietro le mie palpebre in un fuoco d'artificio di terrore e determinazione. Mi scaglia lontana, staccando le mie ginocchia dal legno.
Se uscissi da qui, ora, chiuderei per sempre la porta su Junior.
Mi sfuggirebbe fra le dita come sabbia scaldata dal sole, e di noi non rimarrebbe niente.
E io questo non posso permetterlo.
Non ti lascio la mano.
Mi lancio contro il suo petto, stringendo più forte che posso le mie fragili, stupide e maldestre braccia intorno alla sua vita.
Lui trema, reprimendo altri singhiozzi, perché Junior è una conchiglia che le mie mani non sono state in grado di bucare conservandone l'integrità.
Si è spezzato fra le mie dita, come i cocci di cuori e piatti spezzati nel lavandino delle zie.
Lascia che ti abbracci, posso provare a rimetterti insieme.
Lui non mi stringe, ma io non lo lascio. Faccio quello che ho visto fare a mio padre, con mia madre, per ogni mattina buia, ogni sera senza luna, ogni notte piena di mostri: stringo Junior, senza permettere alle mie mani indolenzite di fermarmi, e mi scuso, tanto e a lungo, innaffiando di lacrime ognuna delle mie richieste di perdono, e tento con tutta me stessa di essere la colla che tiene insieme ogni scheggia di luce, costruendo ponti d'amore tra tutti i suoi spazi vuoti.
«Staccati.» La sua voce si incrina in un singulto, ma non fa nulla per sciogliersi dalla mia stretta. Non lo lascio, qualsiasi cosa dica, fino a quando non sono le sue mani, delicate come petali e tremanti, a disgiungere le mie, strette fra loro per cingere la sua vita.
E solo allora un fiume di parole mi travolge, sgomitando per fluire fra i miei denti.
Tiro su col naso e singhiozzo, asciugandomi le guance con i palmi «Mi dispiace, Junior. Moltissimo.» Cerco di nuovo di abbracciarlo ma lui mi respinge, posandomi le mani sulle spalle. Trema e si morde il labbro inferiore, mentre lo fa, ma non mi lascia tornare a posare la guancia contro il suo cuore. «Non ho capito niente, hai ragione. Sono una mocciosa egoista e stupida e prepotente... ma mi dispiace, mi dispiace così tanto.» Devo fermarmi per tossire, mentre le lacrime mi legano la lingua e i singhiozzi mi riempiono i polmoni di fuoco. Junior non mi guarda. Si copre il viso con i palmi, deglutendo. Non ti lascio. «E volevo fare qualcosa, qualcosa di bello. Lasciarti qualche ricordo, qualche segno di colore che dica che vivi qui. Perché la tua casa è così vuota e triste e io ti ho rubato tutta la luce, perché sono una mocciosa egoista che pretende la luna e tu mi stavi già dando tutto...» Junior sospira e le sue spalle si scuotono. So che ha ripreso a piangere, per quanto provi a nasconderlo. «Ho ficcato il naso ovunque ma non ho trovato niente. Poi ho trovato questo», indico il muro di sughero con l'indice che trema così forte da puntare l'intera casa, prima di fermarsi sull'oggetto, «e ho pensato che avrei potuto metterci qualcosa, come sul libro dei miei, per ridarti un po' della luce che ti ho rubato, e conoscere un po' più le tue ombre.» Espiro, stringendomi le braccia al petto. Sento freddo e caldo e mi sento svenire, ma niente è importante se Junior continua a tremare e ad affondarsi le dita fra i capelli tanto forte da strapparli. «Voglio conoscere anche quelle, Junior. Voglio vedere anche le tue ombre, non solo la luce.»
Lascia che ti veda, ti prego.
Junior si schiarisce la gola, strofinandosi le palpebre con i polsi. «Non serve a niente.» Borbotta, tentando di fermare i singhiozzi.
«Serve, invece!» Ribatto, testarda.
Non gli permetterò di chiudermi fuori, non gli permetterò di ripiegarsi su sé stesso, nascondendosi nelle sue ombre.
Mi fa male lo stomaco e la testa e gli occhi e le braccia, e mi sento così in colpa e stupida e meschina che credo che, se non riuscissi a non lasciarlo scivolare a largo, non riuscirei più a guardare la mia immagine riflessa in uno specchio.
Non importa se non mi vuoi, io non me ne vado lo stesso.
«Allora tornaci da sola a casa, mocciosa testarda.» I suoi passi pesanti per le scale mi martellano i timpani, aprendo voragini gelate che mi trascinano a fondo.
È così, dunque.
È tutto finito, per lui. Perché distruggo tutto ciò che tocco, anche lui. Ho aperto una breccia nella sua armatura e, invece che amore e luce e perle, l'ho riempita di sale e sangue e oscurità. Resto a guardare la sua schiena tendersi ad ogni gradino, troppo provata per impedire al pavimento di risucchiarmi. «O guarda nel sottoscala.» Sussurra, senza voltarsi. «Fai come ti pare, mocciosa. Come hai sempre fatto.»
Una porta al piano di sopra sbatte, violenta, svegliandomi con la forza di uno schiaffo.
Mi sta lasciando una scelta.
«Per ricordare che dopo ogni nuvola, per quanta pioggia porti, c’è sempre un raggio di sole.»
Non c'è nulla da decidere. Non esiste esitazione, nella mia testa che scoppia e nelle mie dita che, frenetiche, cercano un punto d'accesso tra i listelli di legno sottile.
Ho deciso troppo tempo fa per farmi inibire dall'orgoglio o dalla mia inettitudine. Una porta a scomparsa scatta sotto la pressione dei miei polpastrelli, schiudendosi in uno sbuffo.
Ignoro come possa Junior, con le sue infinite gambe da giraffa, infilarsi in questo pertugio buio. La mia nuca sbatte contro lo stipite e una conchiglia cade, spezzata, rimbalzando sulla punta della mia scarpa sinistra. Cerco a tentoni un interruttore finché il mio polso non incontra una cordicella.
La tiro senza esitazione, lasciando che le catenelle metalliche mi graffino il palmo, e la luce si accende, fioca e dorata, sul cuore di Junior.
È qui, pulsa fra le mie mani maldestre e riluce in ogni foto e scheggia di conchiglia e petalo essiccato, e posso scegliere se lasciarmelo alle spalle, schiacciandolo sotto i talloni delle mie scarpe di vernice, o lasciare che le sue ombre diventino luce nella mia oscurità.
Trattengo il fiato, congelata sull'uscio. Lo spazio è così stipato di oggetti accatastati da lasciarmi pochissimo margine di movimento e ho troppa paura di far franare uno dei cumuli in precario equilibro per riuscire a toccare qualcosa.
Accarezzo con lo sguardo una gabbietta di legno gonfio d'acqua salata e rete. Ha una piccola targhetta con intagliata la parola Perla e il trespolo di corallo.
«Hai trovato una perla?»
Porto le mani al petto per frenare l'ascesa del mio cuore verso le mie orecchie, continuando a sfiorare ogni oggetto con gli occhi.
In cima a una pila alla mia destra svetta un plico di fotografie. Devo alzarmi sulle punte per arrivare a sfiorarle.
Le mie unghie trovano i bordi di carta lucida, graffiando per tentare di tirarle giù senza rovesciarle.
Ovviamente non ci riesco.
Vengo travolta da un fiume di immagini, così tante che devo sedermi per non esserne sopraffatta.
Una giovanissima e radiosa zia Annie volteggia in un vestito verde e la stoffa sottile si gonfia e ondeggia, diventando onda e spuma tra le braccia del padre di Junior. Il suo sorriso è più aperto di quanto quello di Junior sia mai stato e brilla di autentica felicità.
Doveva amarla moltissimo, dovevano essere felici.
Ci sono io, a undici anni, con una corona di ginestre nei capelli e le braccia spalancate, con la lingua fuori dalle labbra e un'espressione dispettosa che non credevo mi appartenesse.
Zia Johanna ammicca dal dondolo, le mani perse tra le pagine di un libro, e zia Annie guarda l'orizzonte, annodando fazzoletti. E di nuovo io, a otto, nove anni, che gattono nella sabbia verso Junior per farmi scostare i capelli pieni di sabbia dal viso. Io a quindici anni, nella cucina di casa mia, con il mento di mio padre appoggiato sulla spalla e il blocco da disegno fra le mani.
Un minuscolo Junior mi guarda imbronciato, sotto i capelli arancioni e arruffati, con uno zainetto sulle spalle.
E poi ancora io, nell'acqua gelida e salmastra del lago; con un'espressione buffa e il naso sporco d'impasto di pancake, con un vestitino rosa che mi prudeva le gambe, china su me stessa per studiarmi le cosce arrossate; all'ombra di un albero con un fiore viola dietro l'orecchio; sulla riva del mare con una gamba sollevata per schizzare Junior, che tenta di fermarmi e contemporaneamente sfuggire all'obiettivo di zia Johanna.
«Hai sempre pensato che soltanto tu stessi male.» La voce di Junior sovrasta il suono sordo della mia testa vuota che si scontra contro il soffitto spiovente. Deve essersi andato a sciacquare il viso: gli occhi sono ancora rossi, e sembrano ancora più verdi, in questa luce dorata, ma il suo viso è meno congestionato. Si è tolto la camicia sporca di sangue e le sue lunghe mani sono piene di cerotti. È bellissimo, più bello di come l'abbia mai visto. Ha la bellezza delle cose dimenticate, dei ramoscelli spezzati, dei fiori colti, dei baci negati, degli uccellini feriti. Ora, con i suoi occhi stravolti dal pianto fissi nei miei, stretti in questo spazio angusto, so di amarlo davvero, non solo per la superficie senza increspature, ma per i segreti e gli oggetti spezzati che nasconde nei suoi abissi. «Non hai mai avuto idea di quanto tu sia importante per me.»
Scuoto la testa, piano, abbassando lo sguardo, incapace di impedire al vortice di amore e dolore che mi traboccano nel petto di paralizzarmi la lingua e prosciugarmi il palato.
Stringo fra le dita i bordi di una foto, le nostre gambe in bilico sul bordo del lago nella luce verde del bosco, e le mie mani tremano e i miei occhi si riempiono ancora di lacrime.
«Ho capito.» Mormora, cercando con le dita la cordicella della lampadina per far scendere per sempre la tenebra sul contenuto del suo cuore.
Trovo la forza di sollevare un braccio, piombo per le mie spalle incurvate, bloccando la sua mano a mezz'aria.
Devo deglutire quattro volte - le conto, per esserne certa - prima di sciogliere la mia lingua annodata «Cosa hai capito, Junior?»
Sbatte le palpebre, bloccato dalla mia stretta sul suo avambraccio «Che non sono...» deglutisce, socchiudendo le palpebre «Che non sono come ti aspettavi e...» china il capo, lasciando ricadere il braccio lungo il fianco «Non voglio costringerti a stare con me, Will, se non mi ami. Non è per questo, che volevo vedessi.»
Io vedo te.
Le sue parole riescono a spezzarmi. Cado sulle ginocchia, cozzando col pavimento duro, boccheggiando in cerca di ossigeno.
La gabbietta rotola al mio fianco. Il legno marcio fruscia nella corsa.
Si ferma vicino alle mie caviglie. La accarezzo piano, singhiozzando.
È questo, che crede.
Che mi stia costringendo, che mi faccia pena.
Sono stata carente. E cieca. E ottusa. E sono così arrabbiata con me stessa da graffiarmi le braccia, affondando le unghie nella carne delle mie spalle.
Il mio cuore si dilania in brandelli, sanguinando fra le mie dita.
«Non hai capito nulla, allora.» Batto i denti, ferendomi la lingua, e smetto di artigliarmi le braccia, sporcandomi le palpebre con quello che resta sotto le unghie del mio sangue della mia pelle scottata dal sole e dalla doccia troppo vigorosa. «Sono stata stupida, Junior. E cieca.» Si china di fronte a me. Le nostre ginocchia si sfiorano e le sue mani scostando le mie dai miei occhi, cercando il mio sguardo. Devo sembrargli così fragile e distrutta che non mi sorprenderei se fosse lui, a non volermi più. «Ma non ti permetto di dire che non ti amo, o che sto con te per pietà.» Sussulta, stringendomi i polsi, ma non si muove. Si lascia investire dalle mie lacrime, impedendomi di farmi del male. «E ora non importa se ho rovinato tutto e non mi vuoi più, Junior, perché io continuo a vederti e a volerti, anche se non riesci sempre a tenerti tutto dentro.» Piango senza ritegno, posando la testa sulle sue cosce flesse. Lui mi lascia i polsi per accarezzarmi delicatamente la testa. Chi è che fa davvero pena fra noi due, Junior? «Non me ne frega niente se non riesci a perdonarmi,» sussurro sulla stoffa dei suoi pantaloni, sporcandola di lacrime e sangue e saliva «perché io ti amo lo stesso.»
Si ripiega su di me, posando la fronte sulla mia colonna vertebrale scossa dai tremiti. Siamo diventati una perla, come tutte le cose del mare, e i nostri corpi intrecciati e le nostre fragilità sono la nostra ostrica.
Mi lascia piangere per un tempo che sembra infinito, depositando piccoli baci sulla mia schiena attraverso il tessuto sottile.
«Per cosa dovrei perdonarti, mocciosa?» Il suo sospiro trapassa il suo vestito, scaldandomi la pelle.
Per non averti visto.
Non ho la forza di dirlo davvero, però. Scuoto la testa, asciugandomi una lacrima sui suoi pantaloni.
«Ti ho già perdonato per le candele, Will.» Mi bacia lo spazio fra le scapole, posando di nuovo la guancia sulla mia schiena «Non parliamone più.»
Annuisco, sgusciando dalla nostra posizione innaturale per riuscire ad abbracciarlo.
Il suo petto mi accoglie e le sue braccia trovano la strada dei mie fianchi. Appoggio il mento sulla sua spalla, ispirando il profumo dei suoi capelli mischiato al sapore delle lacrime sulle mie labbra.
«Ho paura, Junior.» Sospiro, immobile, il volto affondato nel suo collo e le gambe sulle sue.
Lui mi accarezza, leggero, le reni, giocherellando con la trama del mio vestito.
«Io no.» La sua voce è un mare senza onde. Riesce a cullarmi, calma e risoluta, normalizzando il battito del mio cuore e il ritmo del mio respiro. «Io accetto tutto, Will. La lontananza, le difficoltà, i musi lunghi, i capricci. So soltanto di essere innamorato di te e se vorrai dividere la mia vita con me io ne sarò felicissimo, quali che siano gli ostacoli.»
È così serio e sicuro e sereno, mentre lo dice, che non posso fare altro che fidarmi, tendendogli la mano per attraversare il mare in burrasca.




Note di fine capitolo:
Buonsalveh!
Ricordiamo che su Colors Fanfic troverete tutte le storie che appartengono a questa serie, nonché il diciassettesimo capitolo in anteprima di Aquamarine.
Grazie come sempre a tutti coloro che ci seguono e ci supportano...siete cuorih ♥


Ringraziamenti:
Come per ogni nostra fanfiction, non possiamo esimerci dal ringraziare tutte le persone che ci sono state vicine nella stesura della storia, quelle persone che, in qualche modo, hanno contribuito a rendere Aqua la storia che è, quindi i nostri ringraziamenti più sentiti vanno a:
radioactive che non solo ha creato per noi questo fantastico banner – e non ci stancheremo mai di dire che è una grafica nata – ma che ci ha promptate, aiutate, ispirate e che è la persona che più ci ha aiutate e spronate a scrivere Aqua. Questa fanfiction è anche sua;
_eco che ci ha fatto immaginare un incontro tra JJ e Will;
gabryweasley che ci ha seguite sin dall’inizio, amando Aqua tanto quanto noi. Che ci chiedeva di passarle i pezzi e li leggeva dicendoci sempre cosa ne pensasse.
Se amiamo tanto Aquamarine è anche merito loro ♥ Grazie per tutto, vi amiamo! ♥


Veniteh a fare le bolleh d'Assenzioh con noi nel gruppoh Facebook gestito dalla nostra meravigliosah famiglia disfunzionale ♥ A Panda piace fare le bolle d'assenzio [EFPfanfic]
Abbiamo apertoh anche una pagina Facebook dedicatah a questa serie, doveh potreteh farci qualsiasi domanda su questa raccoltah, seguire tutti gli aggiornamentih, salutareh Finnickinoh che ballah nella p0rn Narnia e devolvere zolletteh alla sua causah ♥ Vi aspettiamoh numerosih ♥ Colors.

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Capitolo 17
*** Capitolo XVII ***





XVII.




È stata come una tempesta che ha infuriato, rendendo la navigazione difficoltosa, ma è trascorsa, lasciando che i raggi del sole si infiltrassero attraverso le nuvole. Era passata, lontana, ora. Sembrava quasi fosse accaduta mesi prima, quando non sono passate altro se non poche ore.
Deglutisco, scavando il viso sul cuscino. Il mal di testa di ieri sera mi cerchia ancora il capo. Mi ritrovo a pensare quanto avrei voluto renderla felice e nel farlo, io abbia rovinato tutto. L’ho vista piangere, come non aveva mai fatto.
«Hai pensato alle conseguenze?» Ci sarebbero comunque state, che noi avessimo parlato o meno. Partirà ugualmente, lasciandomi qui ed io non la rincorrerò. O precludiamo il nostro ipotetico futuro, oppure cerchiamo di viverlo. Lontani. Non ci sarebbero comunque state conseguenze, se non forse il rimpianto di non averci nemmeno provato. E voglio farlo. Voglio davvero cercare di andare avanti e superare qualsiasi tempesta che potrebbe travolgerci. La lontananza, il distacco, la noia, forse.
Allungo il braccio, cercando di abbracciare la sua pelle, soltanto per trovare quella parte del materasso fredda e vuota, senza di lei. Alzo lo sguardo, scontrandolo contro lo specchio, sporco di pennarello rosso. No, non l’ha sporcato.
Sono andata a casa, mamma e papà tornano presto!
Ci vediamo là.
Ti amo,
Will.
p.s. Scusami se ti ho sporcato lo specchio. A dopo. Ti amo

Lo leggo più volte, sospirando. «Accidenti a te, mocciosa». Sorrido, nel dirlo, continuando a guardare quella faccina sorridente vicino al suo nome e quel cuore, vicino al ti amo.
Ed addio a qualsiasi saluto più intimo ci potesse essere, addio colazione preparata da lei, addio abbracci o baci, perché in compagnia di Peeta o della zia non ho modo di potermi avvicinare troppo a lei. E soprattutto mi domando per quale motivo abbia dovuto scrivermi su quel cazzo di specchio con un pennarello indelebile. Ci metterò mesi a pulirlo. O almeno a cancellare la prima riga.
«Come faremo, Junior?» Si accoccola sul mio petto, affossando il viso. Sento il suo respiro sulla mia pelle, la voce tremante con la quale si esprime. Ha paura.
«C’è il telefono». Rispondo, accarezzandole i capelli, con voce calma e quanto più rilassata. Ora che l’ho trovata, che è con me, vorrei poter far in modo di non farla allontanare mai, ma non ho paura. Credevo di averne, invece, per la prima volta, mi sento più sicuro che mai.
«E poi?» Sussurra, stringendo i miei fianchi.
«Verrò nel 12 ogni volta che mi è possibile, a Capitol City quando ti trasferirai e ovunque tu vada. Verrò sempre da te». Le bacio la nuca, senza smettere di accarezzarle la pelle. Sono davvero pronto a tutto. A stare con lei, a piangere con lei e per lei, a fare l’adulto quando la paura si impossessa di Willow. Sono pronto a tutto, per Willow.

Sospiro, alzandomi dal letto.
«Fanculo!»
Tocco di nuovo il materasso, scrollando il piede per far volare via la conchiglia. «Fanculo».
Le bacio gli zigomi, catturando sulla mia lingua il sapore salato delle sue lacrime. Scendo lungo la mandibola ed il collo, le palpebre. Vorrei cancellare qualsiasi cosa sia successa prima, farle capire quanto davvero sia importante per me, che sia l’unica che mi ha sempre visto davvero. Vorrei poterla stringere sempre e amarla, senza dover aver il dubbio che non mi capisca.
Ma è colpa mia, di tutti i miei rifiuti, di tutte quelle parole atta a farla allontanare, in passato. È colpa mia.
Le accarezzo i capelli, intrecciando le dita tra le ciocche ben annodate dalle mani di mia madre, togliendole con assoluta lentezza dai capelli e gettandole ai piedi del letto. Ogni conchiglia è un bacio dato e uno ricevuto.
Credevo non avrei mai più avuto modo di baciare le sue labbra.

Raccolgo tutte le conchiglie dal pavimento, appoggiandole sul comodino. Accarezzandone il dorso una ad una.
«Ho paura, Junior». Sospira nel mio collo e non posso fare altro se non accarezzarle i fianchi. Ha paura. Paura di quello che sarà, come io ho sempre avuto il terrore di avvicinarmi troppo a lei, come se non fossi abbastanza, come se non andassi bene. Ma non è una decisione che spettava a me, non potevo decidere io per lei, come non possiamo far sì che sia la lontananza o la paura a decidere per noi.
Io non ho paura.
Non posso averne, ora. Non quando l’unica soluzione alternativa sarebbe perderla e non voglio. Io non ho paura.
«Io no». La mia voce esce rauca, ma con una fermezza tale da sorprendere persino me. Io non ho paura, non quando c’è Willow vicino a me. Con lei non c’è distanza, non ce n’è mai stata nemmeno in passato. Possono trascorrere anni, mesi, ma ogni volta che mi era di fronte era come se non fosse passato un minuto. E dopo tre anni nei quali ho cercato di scappare da lei, siamo arrivati qui, nel sottoscala di casa mia, stretti l’uno nell’altro.
Non hai idea di quanto tu sia importante per me. «Io accetto tutto, Will. La lontananza, le difficoltà, i musi lunghi, i capricci. So soltanto di essere innamorato di te e se vorrai dividere la mia vita con me io ne sarò felicissimo, quali che siano gli ostacoli». Io accetto tutto. Accetto te, in qualsiasi modo. Quando mi abbracciavi senza che te lo chiedessi o potessi contraccambiare, quando mi metti il muso perché dico o faccio qualcosa per farti innervosire. Io accetto tutto. Devo, anche se vorrei poter trascorrere tutti i giorni, i minuti ed i secondi con lei tra le mie braccia. «Io accetto tutto». La bacio tra i capelli raccolti nelle conchiglie, una, due, tre volte. «Qualsiasi cosa». Sussurro ancora, tra i suoi capelli. Più per me che per lei. Più per prepararmi alla sua decisione, perché mi stringe e piange, ma potrebbe decidere di porre fine a tutto. Potrebbe decidere che non ne vale la pena, sgombrando ogni piano da qualsiasi candela.
Alza il viso verso di me, annuendo. Allunga la mano, intrecciando le dita con le mie - piene di cerotti - e singhiozza ancora una volta. «Voglio stare con te». Dice, come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Non voglio nessun altro, non ho mai voluto nessun altro. Solo te».
E mi sembra di tornare ragazzino, un bambino che non riesce a trattenere il pianto e che piange perché è triste, perché è felice, per qualsiasi cosa gli accada. E Willow sorride, tra le lacrime, asciugando le mie guance.

Ero così convinto che avrei potuto stringerla questa mattina che non posso fare a meno di sentire la sua mancanza. Saresti dovuta rimanere, svegliarmi e darmi il bacio del buongiorno. Sorrido, immaginandola in piedi che mi guarda dormire. Vedo le sue ginocchia sul letto ed il suo viso avvicinarsi al mio. Con tutta probabilità l’ha persino sussurrato quel «Buongiorno, Junior» senza che io avessi la possibilità di ascoltarlo.
Mi costringo ad alzarmi, stando bene attento di non calpestare conchiglie dimenticate, e impreco quando noto l’ora. Mi dirigo al piano di sotto per bermi almeno un caffè, quando il pennarello rosso cattura di nuovo la mia attenzione. «Hai imbrattato tutti gli specchi, mocciosa?» Dico ad alta voce, anche se non c’è nessuno che può rispondermi.
A proposito, ti ho preparato i pancake! Non voglio certo che vieni a stomaco vuoto o che bruci casa!
Ti amo.
Ah!
Buongiorno, Junior!
Will

Non avrò più modo di guardare il mio riflesso allo specchio. Spero che almeno quello del bagno di sia salvato dalla sua mano piena di sorrisi e cuori e parole. Buongiorno, Will.
Non riesco a nascondere il sorriso, scendendo le scale e persino il cerchio alla testa sembra essere sparito. Sul tavolo troneggia una torre di pancake, ha persino disegnato con lo sciroppo, la mia mocciosa. E mi sento solo a mangiare in questa cucina ora sgombra da cocci di conchiglie e candele, senza lei che mi sorrida, mi dia fastidio o mi accarezzi.
Dormono ancora tutti ed abbiamo la cucina tutta per noi.
La colazione di mezzanotte, l’ha chiamata Willow. E mangiamo, riempiendoci lo stomaco.
«Ti piacciono, Junior?» Domanda, trovando il mio sguardo e voltandosi con il corpo verso di me, portando a contatto le nostre ginocchia.
Annuisco, continuando a masticare. Il mio pollice finisce sull’angolo delle sue labbra, sporche di sciroppo e subito dopo tra le mie, per assaporare la salsa ed il suo sapore. E Willow arrossisce appena, prima di stringere le sue braccia intorno al mio collo e sentire la sua bocca sulla mia guancia.
«E questo?»
«Il bacio di mezzanotte?» Sorride, baciandomi ancora una volta lo zigomo.
«Non va bene». Rispondo, serio, osservando i suoi occhi dilatarsi e la sua espressione rabbuiarsi.
«Perché non va bene? È il bacio di mezzanotte!»
Le accarezzo i capelli quando la sento scostarsi da me, per sciogliere l’abbraccio. Non ha capito niente, come al solito.
«Questo è quello giusto, mocciosa». Sussurro nell’incavo del suo collo, prima di far incontrare le nostre bocche che sanno di sciroppo d’acero e di lei.

Mi preparo più in fretta che posso, così da potermi avviare a casa di mia madre e la consapevolezza che questo è l’ultimo giorno, che questo pomeriggio prenderà il treno, tornando al Distretto 12, fa sì che il mio palato di secchi ed il cuore aumenti i propri battiti. Non voglio che se ne vada, che si allontani, senza sapere quando avrò modo di stringerla ancora, come ho fatto durante queste notti. Vorrei che rimanesse con me, che mi preparasse i pancake ogni mattina, che mi baciasse ogni qualvolta le vada. È durato troppo poco. Non sono davvero pronto a lasciarla andare via.
Accetto tutto. Mi ripeto nella testa, come un mantra. Non posso fare altro se non continuare a dirlo. La rivedrò e sarà come se non fosse passato un sol giorno. Accetto tutto. Eppure già mi manca.
Salgo le scale del portico due a due, entrando in casa come se non l’avessi mai abbandonata. Sento la sua risata e la voce del padre e la zia che parla con Johanna, stringendo al petto le gemelle.
«Junior». Mi chiama, zia Katniss, quando mi vede. Si alza in piedi sciogliendo l’abbraccio con le figlie. Deglutisco, osservando il suo sguardo serio mentre si avvicina a me; Johanna che, dietro di lei, ride sotto i baffi; Peeta, con il suo passo pesante, camminare, forse per venire ad uccidermi.
«Zia».
«Sono stati una notte fuori casa e il tipo ha dormito sempre in camera di Willow». Ghigna il moccioso, diretto alla madre. «Posso ucciderlo per te, padre».
Peeta scuote la testa ed invece di trovarmi a terra, pronto per essere ucciso dalla zia, sento le sue braccia stringermi in un abbraccio e lo sbuffo del moccioso che attendeva trepidante ben altro. «Non ti perdonerò mai, se la farai stare male». Sussurra al mio orecchio, lasciando la presa, soltanto per essere circondato da altre braccia, più familiari.
«Mi sei mancato, Junior!» Deglutisco. «Abbracciami, Junior! Io non ti sono mancata?» Mi sorride, alzandosi in punta di piedi per baciarmi una guancia. E zia Johanna continua a ridere, senza più nascondersi, dando gomitate tra il costato di zio.
«Vuoi una sedia?»
«Lascia perdere, Johanna». Stringe i pugni, senza distogliere lo sguardo da me e Willow. Ed io non so cosa fare. L’abbraccerei, la bacerei, la porterei in camera sua e ci chiuderei dentro, se soltanto non ci fossero i suoi genitori.
«Sì». Dico, scostandomi da lei. Mi sono mancate le tue labbra, le tue braccia, i tuoi ti amo. E mi mancheranno stasera e domani. Mi mancherà come l'aria sotto l'acqua, ma accetto tutto e non appena ne avrò la possibilità la stringerò ancora tra le mie braccia al Distretto 12. Accetto tutto, anche rimanere in apnea fino a che non la vedrò di nuovo; quando le legherò intorno al collo tutte le conchiglie che hanno assistito all'inizio del nostro futuro. Mi sei mancata, mi manchi, mi mancherai.
E non posso fare a meno di osservarla camminare lungo la stanza, raggiungendo il padre, la madre e persino la mia, stringendoli uno ad uno in un abbraccio.
«Grazie zia Annie per avermi acconciato i capelli». Dice, ancora tra le sue braccia, salde e senza tremori ora.
«Junior ha trovato una perla rara e la custodirà sempre dentro di sé, proteggendola da ogni male, proprio come ha sempre fatto Finnick, lo sai? Non succederà mai nulla a questa perla perché è la cosa più importante del mondo».
Deglutisco, osservando il sorriso di mia madre e le sue mani sulle guance di Willow, annuisce, guardandola dritta negli occhi. «E non è importante la distanza, la perla è sempre dentro l’ostrica anche se è lontana e la marea li ricongiungerà perché-»
«La marea torna sempre». Conclude Willow, per lei, stringendola ancora tra le sue braccia, asciugandosi lesta le lacrime. «Hai ragione, zia. La marea torna sempre».
Sorride, mia madre, prima di lasciarla andare e mi ritrovo circondato da quelle braccia minute, sentendo i suoi singhiozzi. Ed ha ragione, mia madre. La marea torna sempre. Ogni giorno, ogni mese ed ogni anno, la marea si alza e si abbassa. Ed io andrò da Willow ogni volta che ne avrò la possibilità e non ci sono guerre, ora. Non c’è l’ignoto di non sapere se si farà ritorno. Tornerò sempre e questa è davvero una promessa.
Vedo gli occhi di tutti puntati su di noi e guardo il sorriso di mia madre, le mani che si chiudono davanti alla bocca e le sue lacrime scendere lungo le guance. «Mamma...» Sussulto, scostandomi da Willow per raggiungerla, ma lei nega con la testa e si fa abbracciare dalla zia Katniss.
E rimaniamo così, con la zia che stringe mia madre ed io che abbraccio Willow, davanti a tutti. Perché sta singhiozzando e piangendo e non posso fare niente per cancellare ogni lacrima che versa. Non posso fermarla, né bloccarla qui con me.
Dite qualcosa. Sospiro, accarezzandole i capelli. «Vieni». Le stringo una mano, sotto gli occhi attenti del padre, del moccioso e delle gemelle.
«Voglio anche io un Junior!» Esclama Lily, riuscendo a strappare una piccola risata dalle labbra di Willow e da quelle di Johanna.
«Non ti conviene, mocciosa. È un demente».
«Ma sembra così bello e dolce! Voglio un Junior, papà!» Sento in lontananza, continuando a guidare Wilow sino alla sua stanza. Niente e nessuno è importante in questo momento, se non Willow. Non esiste nessun altro.
«Junior, io-»
Crede che ce l’abbia con lei, che abbia fatto qualcosa di male, che forse mi sono isolato per poterle dire che non ci si comporta così, che non si piange, non dopo la nostra decisione, che dobbiamo essere forti e camminare a testa alta. Ma non sono qui per questo e non la lascio concludere nemmeno la frase che le mie labbra sono sulla sua bocca e sulle sue palpebre, seguendo la via delle lacrime. Non piangere. L’abbraccio, sentendo la sua guancia contro il mio petto. «Avresti dovuto svegliarmi questa mattina, mi sei mancata». Dico, prima di riprendere a baciarla. «Buongiorno, Will».
Singhiozza, stringendo le mie braccia. Sento le unghie sulla stoffa della mia maglia e nella mia carne e non so che fare. Voglio andare con lei, stare con lei. Non voglio più lasciarla andare via. L’ultima volta sono passati tre anni nei quali non l’ho vista, perché l’ho lasciata, cercando di mettere quanta più distanza mi era possibile. Ma ora non è così, ora è diverso. Ora ci siamo dentro insieme, in tutto e per tutto.
«Aspettami qui, Will». La bacio ancora una volta, e un’altra ancora, prima di scostarmi da lei. «Torno subito». Annuisce, allontanando le sue dita da me. Le sorrido, o almeno ci provo, prima di chiudere la porta alle mie spalle, correndo verso camera di mia madre.
Prendo subito tra le mani il portagioie con le collane, cercando quella che volevo darle l’ultima volta che siamo stati qui. Non è abbastanza, per lei, ma è qualcosa per il momento.
Mi porto dietro le sue spalle quando rientro nella stanza, portandole la collana intorno al collo. «Non è la mia, è quella di mio padre». Ammetto, baciandole l’angolo che congiunge il collo alla mandibola. Non sono stato capace di fartene una con le mie mani, ancora, ma lo farò.
«Junior...» Mi ammonisce, cercando di voltarsi verso di me, con le dite intrecciate tra le conchiglie.
«Lo so». Rispondo, chiudendo la collana intorno al suo collo, accarezzandole poi le spalle scoperte. «Non ho fatto in tempo a fare nulla. Tu mi hai regalato un muro, Willow. Voglio che tu abbia qualcosa che ti ricordi me».
Scuote la testa, stringendo i miei polsi. «Non ho bisogno di avere qualcosa per ricordarmi di te. Sei sempre nella mia mente».
Mi chino su Willow, sfiorando la pelle del suo collo con le labbra. Vorrei far scendere le mani, per stringerla e non farla partire. «Ma voglio che la tenga tu, Will. La prossima volta sarà fatta delle tue stesse conchiglie». Sussurro, vendendo la pelle d’oca sul suo corpo. «È un pegno. Quando ti farò indossare la collana giusta, porterò questa al suo posto».
Le bacio la guancia, sentendola tirare in un sorriso. «Le mie stesse conchiglie?»
«Quelle con cui mi sono bucato i piedi stamattina, quelle che ti ho tolto, ieri sera». Le accarezzo la vita, circondando il suo corpo e sentendo la sua schiena contro il mio petto. «Questa volta la finirò, non rimarrà incompleta».
Willow si gira del tutto, piantando le labbra sulle mie. «Non è incompleta!» Esclama, stringendo i miei bicipiti. «È perfetta, l’abbiamo completata noi, quella sera».
«Ma non puoi indossarla».
«Non importa». Scuote la testa, stringendo le mie reni così forte da mozzarmi il fiato per un momento. «È giusto che quella collana sia incompleta. Non bisogna indossarla, è… il nostro primo bacio. La nostra prima notte, ed è un bene che non sia finita perché se lo fosse significherebbe che non ci sia stato nessun bacio e carezza. E non voglio». Parla a raffica, baciandomi di tanto in tanto e mi sento come se fossi alla deriva. Sto scivolando sempre più al largo, in un mare che non conosco, ma che voglio studiare ed imparare ad amare.
«Non la finirò, quella. È completa così». Rispondo dandole un bacio tra i capelli, accarezzandone la punta. Non voglio che parta e continuo a pensare di doverla nascondere da qualche parte per poterla mantenere insieme a me, qui. E mi sembra tutto così assurdo, ora. Il doverci separare, vivere in due Distretti diversi, mi sembrano così lontani i pensieri di come non andassi bene per lei, che avrebbe dovuto abbracciare qualcuno della sua età. Perché non c’è niente di migliore di me e lei. «Non abbracciare nessun altro». Dico, issandola sul letto, prima di chiuderla nel mio abbraccio.
«Cosa?» Ride e mi bacia e mi accarezza il viso.
«Non abbracciare più nessuno. Puoi abbracciare solo me».
«Nemmeno la mia famiglia?» Ride ancora, baciandomi le labbra.
«Okay, ti concedo di poter abbracciare la tua famiglia, ma non abbracciare Warren, né Evan, né nessun altro». Mugugno, sopra la sua pelle, vergognandomi di me stesso. Perché mi fido di lei, so che non farebbe mai nulla per ferirmi, ma soltanto l’idea che qualcun altro possa appoggiare le sue mani su Willow, quando io non posso, mi fa uscire di testa. «E nemmeno baciare sulla guancia. Puoi baciare ed abbracciare solo me».
Ed anche se mi sento stupido a fare tutte queste raccomandazioni inutili, la sua risata è la ricompensa migliore che potessi ricevere.
E se non ti liberassi più? Non lo dico, questo. Perché sarebbe soltanto la debolezza di un ragazzo innamorato che non vuole separarsi dalla propria ragazza ed io accetto tutto. Accetto anche la lontananza. Ci rivedremo, ci ritroveremo e, prima o poi, saremo insieme ogni giorno. Perché non vedo altro futuro se non con Willow.
Scendere è stato difficile, ma l’abbiamo dovuto fare. Non chiedo della valigia, sebbene sappia che è pronta, da qualche parte e che non rimarrà niente di lei, se non il muro, gli specchi con la sua grafia, con i suoi disegni e la sua forza.
«Le prossime ferie le ho tra un mese, Will». Le sussurro all’orecchio, prima di baciarle una tempia. «Verrò nel 12».
Dilata gli occhi, circondandomi il collo con le sue braccia. «Conterò i giorni, i minuti ed i secondi».
«Willow, mi aiuti con la valigia delle gemelle?» La zia ci interrompe, facendomi scansare l’uno dall’altra.
«E tu puoi aiutare me con il pranzo, vero, Junior?» Il sorriso accondiscendente dello zio mi mette i brividi, e guardo la schiena di Willow raggiungere la madre e urlare quanto Mallow sia stata pestifera, e Rye che ha tentato in tutti i modi di farmi fuori le dita. Sembra già lontana, ora e c’è una paura di fondo che mi fa domandare se, un giorno di questi, potrebbe dimenticarmi.
«Junior, mi ascolti?»
No. «Dicevi, scusami, io...»
Si schiarisce la voce, stringendo la spalliera della sedia davanti a sé, senza utilizzare le unghie. «Sono… contento per te e Willow».
«Non la farò star male...» Lo anticipo, credendo che il discorso possa finire lì. «Sarà lei… farò quello che vuole lei». Mi giustifico. Accetto tutto.
«Non è più una bambina, per davvero, lei. Ed è innamorata di te, e tu di lei. Non posso fare niente per tenerla sempre con me». Parla, scostando la sedia per sedersi. «E so cosa significa stare con la persona che si ama da tutta una vita. Non nego che, secondo me, la differenza di età è uno scoglio che esisterà sempre tra di voi, e la distanza, ma ogni coppia ha le proprie difficoltà». Fa una pausa, cercando i miei occhi. «E voglio solo che Willow sia felice, Junior. Se tu la farai felice, allora lo sarò anche io».
«Papà ha detto che da Capitol City porterà i contraccettivi». Mi dice, stringendosi al mio petto e intrecciando le nostre gambe.
«Tuo padre ha detto che cosa?» Scatto seduto, allontanandomi da lei.
«Che ti porta i contraccettivi di Capitol City. Dice che sono troppo piccola per dormire con un ragazzo e che devo stare attenta e che devi stare attento anche tu, non vuole diventare nonno». Mi sorride, accarezzandomi il viso. «Vedi che mio padre è il più bravo del mondo?»
«Gli hai parlato del fatto che… noi…» Ho gli occhi dilatati dallo stupore. Mi ucciderà. La prossima volta che mi vedrà, mi ucciderà.
«Anche mamma e papà fanno l’amore. Quando si ama è normale, no?! Io voglio fare l’amore con te, Junior». Mi bacia la guancia sino a raggiungere l’angolo della bocca.
«Ma potrebbe anche non saperlo ogni persona della tua famiglia».
«Perché dovrei nasconderlo? È una cosa bella, ed io sono felice quando facciamo l’amore e non nascondo niente a mio papà». Mi bacia ancora, ed ancora, accarezzando l’addome, il petto, il ventre e mi dimentico di tutto, di segreti, di possibili morti, di contraccettivi e di qualsiasi altra cosa. È disarmante, Willow, persino quando si stringe a me. Ogni cosa che fa è guidata dalla spontaneità. «Ti amo».

«Voglio stare con Willow». Dico, sedendomi davanti a lui. «Non voglio sentirmi sbagliato per questo. Lo so che sono… che abbiamo un’età differente, ma voglio stare con lei».
«Non sei sbagliato, Junior e nessuno di noi lo pensa. Non hai mai fatto niente di male nei confronti di Willow, l’hai allontanata quando hai creduto che fosse opportuno, ma non si possono comandare i sentimenti, Junior. Ci sono passato e Willow ti ama, da sempre». Mi guarda negli occhi, senza paura o rabbia, soltanto con la preoccupazione che credo sia parte di ogni padre nei confronti della figlia. «E credo che possa trovare la felicità soltanto con te». Sussurra, abbassando lo sguardo. «Ma devi seguire i suoi tempi, Junior. È ancora una ragazzina, sotto certi aspetti e tu hai quasi trent’anni».
«L’aspetterò, Peeta, l’aspetterò sempre». Non ho fatto altro in tutta la mia vita. Non ho problemi ad attendere. Ho atteso paziente il ritorno di mia madre, quando se ne è andata perché assomigliavo troppo a mio padre, ho aspettato che i miei sentimenti per Willow scomparissero, senza vederli mai sfiorire. Non posso fare altro, io, se non aspettare.
Lo sento sospirare, accarezzando la superficie del tavolo e comprendo che non ha finito, che ha qualcosa da aggiungere, che ciò che ho detto non basta a convincerlo. «Non recitare, non con lei». Ed anche se non l’ho fatto, se ho smesso di chiudermi, decidendo di seguire il suo consiglio, di non allontanarla, non più, non sembra voler accettarlo.
«Ora». Pronuncia, cercando di miei occhi. «Ora aspetti, poi ti stancherai di farlo. E non dico che tu debba allontanarti, ma succederà, Junior, e per quando accadrà non so se Willow sarà effettivamente pronta». Inarco un sopracciglio, senza riuscire a seguirlo. «Anche io ho aspettato tanto, e poi ho semplicemente smesso di farlo, perché non si può aspettare per l’eternità».
Sospiro, massaggiandomi le palpebre con le dita. «Ma io e Willow non siamo te e la zia, Peeta. Non contrapporre il vostro rapporto a quello che ho ora con lei». Rispondo, esasperato. Una volta, i suoi racconti su come amasse Katniss, su come fosse stato difficile avvicinarsi a lei, potevano essermi d’aiuto, ma non siamo loro e non lo saremo mai. Non ci siamo conosciuti in un arena, non combattiamo contro la morte come hanno fatto loro e Willow non è la zia, come io non sono Peeta. «Aspetterò anche dieci anni, la aspetterò il tempo necessario». Continuo, alzandomi in piedi e dandogli la schiena. Non siamo te e Katniss.
«Lo so, ma-» Mi fermo sull’uscio della porta, bloccando qualsiasi frase voglia dire.
«Io sono Junior, lei è Willow e l’aspetterò, sempre». Perché ora non posso fare altrimenti, perché è una decisione che ho preso non appena l’ho baciata, su quella spiaggia, decidendo di non recitare più, di non allontanarla più, perché mi ama ed io sono innamorato della mia mocciosa e non voglio perderla.
Credo che voglia aggiungere qualcos’altro, ma non lo fa. Rimane in silenzio ad osservarmi la schiena, con tutta probabilità, e faccio un passo verso l’altra stanza, stanco delle sue paternali. «Sono suo padre, voglio solo che non soffra». Lo sento sospirare, soprattutto a se stesso che non a me.
«Junior, fai una collana di conchiglie anche a me? Ne voglio una come quella di Willow». Abbasso lo sguardo sulla mocciosa di nome Lily, mi sorride affabile, stringendo la stoffa dei miei pantaloni.
«Non posso». Rispondo, accovacciandomi per raggiungere la sua altezza. «Sono soltanto per Willow».
«Perché le vuoi bene? E a me no?»
Rimango in silenzio, guardandola. «Perché la amo, come tuo padre ama tua madre». Rispondo in sussurro, sentendo le spalle più pesanti e delle labbra sulla mia guancia.
«Ti amo anche io, però più di come papà ama mamma. Molto di più, Junior». Mi bacia ancora una volta, con il corpo sulla mia schiena, cosicché non mi possa alzare. Dannata mocciosa, staccati. Penso, sentendo i gridolini di Lily, euforici e divertiti su come stiamo appiccicati.
«Me lo dai un bacio, Junior?» Mi accarezza il mento, facendo sì che sposti il viso.
Nego. Non qui, non con una bambina davanti a noi che ci guarda e ci spia e sorride attendendo trepidante.
«Sei cattivo! Ma non importa, ti bacio io». Mi scosto, con uno scatto, quando sento la voce del moccioso vicino a noi.
«Mi fate schifo, lo sapete?» Scuote la testa, prima di mostrare i denti e ha ragione, questa volta. Willow non può comportarsi così, baciarmi davanti a mocciose che non capiscono nemmeno quello che stanno guardando.
«Rye, non rompere! Non capisci nulla, tu». Lo rimprovera, la sorella, mentre cerco di ritrovare una respirazione regolare e cercare di non strozzarmi con la saliva.
«Mi dai un bacio anche a me, Junior?» Lily mi sorride, dall’alto. Le mie mani sono appoggiate al pavimento, ormai seduto e sospiro. Ecco perché non volevo mi baciasse, Willow.
«Junior può baciare solo me, Lily!»
Comincia a farle il solletico, riempiendo il soggiorno delle loro risa e dei ringhi di Rye. Ed io rimango a terra, a guardarle rincorrersi e giocare insieme.
Aspetterò per tutto il tempo necessario, poi anche noi avremo questa felicità.




Ringraziamenti:
Come per ogni nostra fanfiction, non possiamo esimerci dal ringraziare tutte le persone che ci sono state vicine nella stesura della storia, quelle persone che, in qualche modo, hanno contribuito a rendere Aqua la storia che è, quindi i nostri ringraziamenti più sentiti vanno a:
radioactive che non solo ha creato per noi questo fantastico banner – e non ci stancheremo mai di dire che è una grafica nata – ma che ci ha promptate, aiutate, ispirate e che è la persona che più ci ha aiutate e spronate a scrivere Aqua. Questa fanfiction è anche sua;
_eco che ci ha fatto immaginare un incontro tra JJ e Will;
gabryweasley che ci ha seguite sin dall’inizio, amando Aqua tanto quanto noi. Che ci chiedeva di passarle i pezzi e li leggeva dicendoci sempre cosa ne pensasse.
Se amiamo tanto Aquamarine è anche merito loro ♥ Grazie per tutto, vi amiamo! ♥


Veniteh a fare le bolleh d'Assenzioh con noi nel gruppoh Facebook gestito dalla nostra meravigliosah famiglia disfunzionale ♥ A Panda piace fare le bolle d'assenzio [EFPfanfic]
Abbiamo apertoh anche una pagina Facebook dedicatah a questa serie, doveh potreteh farci qualsiasi domanda su questa raccoltah, seguire tutti gli aggiornamentih, salutareh Finnickinoh che ballah nella p0rn Narnia e devolvere zolletteh alla sua causah ♥ Vi aspettiamoh numerosih ♥ Colors.

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Capitolo 18
*** Capitolo XVIII ***





XVIII.




Mi stringe la mano, Willow, camminando per le vie del Distretto, diretti alla stazione. Rimango in silenzio, lasciando che le nostre dita si intreccino le une con le altre. Non voglio interrompere questo contatto, non ora, non dopo.
La stazione è gremita di gente in attesa della propria spedizione, ci sono i negozianti che sono venuti a prendere le provviste, animali da macello, ingredienti. E ci guardano, sussurrando parole che non riesco a sentire. Nessuno sembra accorgersene, se non io. Ma è più semplice osservarmi intorno che soffermarmi sul broncio dipinto nel viso di Willow.
«Will». Alza lo sguardo, quando la chiamo, ed incontro i suoi occhi lucidi, il labbro tremolante. Deglutisco, chinandomi verso di lei - con tutte le persone che continuano a guardarci - per stringerla in un abbraccio. «Ci vediamo tra un mese». Le sussurro all’orecchio, prima di baciarla e sentire per l’ultima volta il sapore della sua bocca. Non posso fare nulla per trattenerla qui, con me. Deve tornare a casa con la propria famiglia, non posso fare nulla, se non aspettare un mese prima di poterla rivedere.
Le accarezzo i capelli, baciandole l’angolo delle labbra. «Ti amo». Appoggio la mia fronte sulla sua, vedendo nascere un sorriso. «Ti amo, Will. Verrò da te, okay?» Sussurro, appoggiando il palmo della mano sulla sua guancia. «Non scomparirò, e tornerò».
«Lo so, Junior. E ti amo anche io. Tanto». Porta la sua mano sulle mie ciglia, catturando l’unica lacrima incastrata in esse. La stringo con più forza, affondando il viso nell’incavo del suo collo. Non esiste più nessuno, soltanto lei e la forza che dovrò impiegare per riuscire a staccarmene. Ti amo. E ritorno ad essere un ragazzino alla sua prima cotta, troppo impaurito per riuscire a parlare ed esprimere i miei sentimenti. L’amo e siamo insieme, l’amo e l’aspetterò.
«Willow, dobbiamo andare». Peeta si avvicina, appoggiando una mano sulla mia spalla. Lasciala andare, sembra quasi voler dire. Devo lasciarla tornare a casa.
Le accarezzo un’ultima volta la guancia, baciandola a fior di labbra. Continuano a guardarci e continuo ad ignorarli, catturando sulla bocca ogni sua lacrima. Che parlassero e dicessero qualcosa. Va tutto bene, non sono sbagliato. Sono soltanto innamorato della mia mocciosa.
«A presto, mocciosa». Sorrido, intrecciando le mie dita con le sue. Ti terrò la mano anche quando sarai lontana.
«La finite di rompere il cazzo? Fatevi gli affari vostri o vi ficco nel cranio un’ascia!» Urla, guardando chiunque non sia noi in cagnesco.
«Non importa, zia. Che parlino pure». Volto le spalle al treno, non appena Willow non è più nella mia portata vicina. Non aspetterò di vederla partire, non ho la forza anche per questo.
Mi avvio verso casa, facendo finta di non sentire la voce della zia chiamarmi, chiedendomi di aspettarla. Non voglio farlo, voglio soltanto andare a casa, ora. Ero pronto per questo saluto, ma non credevo avrebbe fatto comunque così male. Mi manca, mi manca da impazzire. E cadrà tutto nel silenzio, come sotto la superficie dell’acqua. Non ci sarà più la sua voce a darmi il buongiorno, o a chiedermi se voglio baciarla o che mi dica che sono cattivo. Non ci sarà più la sua risata, divertita, quando le mordo l’incavo del collo, prima di spostarmi sulle sue labbra ed accarezzarle la schiena. E mi sembra di affogare in un oceano troppo vasto. La marea torna sempre. E mentre aspetto, è rimasto soltanto il vuoto. Una fossa di sabbia senza la sua acqua.
Appoggio le chiavi nel mobile a fianco l’entrata, il muro spicca davanti a me, catturando la mia attenzione. È comunque qui, Willow. È qui con me, nel muro, nel cuore, nella mente. Non siamo davvero lontani, non lo siamo, non possiamo esserlo.
Mi avvicino, sfiorando la collana di conchiglie incompleta, la sua foto, le nostre, al mare. È qui, lei. Nel mio soggiorno, mentre si aggira per la casa, prendendo ogni cosa che l’attiri dal sottoscala.
Willow accarezza la mia spalla. «Questa foto la mettiamo qui». Dice, asciugandosi ancora una volta le lacrime.
«La collana». Le conchiglie tintinnano l’una contro le altre, catturando la sua attenzione.
«Credevo fosse rimasta in spiaggia». La prende tra le sue mani, portandola vicino al viso.
«Non l’avrei mai fatto, ogni cosa che mi ricorda te… Non posso lasciare indietro niente che mi ricordi te, Will». Il labbro le trema, prima di cingermi con le sue braccia. E mi sento completo, quando è stretta a me, quando posso inspirare il suo odore, contraccambiando il suo abbraccio. Perché non la rifiuto, mai.

I cuori, le faccine, le conchiglie, il suo “Sei cattivo” ed il mio “Mocciosa”. È tutto qui sopra, indelebile in questa parete di sughero. Dove è iniziato tutto, qui nel Distretto 4, quando mi ha stretto la mano la prima volta, mentre tornavamo a casa dal mare, con la sua logica che mi diceva di chiederle scusa; le sue lacrime ed il rumore del mare che le ho regalato. Non ho bisogno di nessuna conchiglia per sentire la tua voce. C’è tutto e forse anche di più. Ci sono i ricordi, le parole, le immagini. C’è il suo amore ed il mio. I suoi sorrisi tra le lacrime, i nostri baci.
«Ti amo, Junior e non cambierà mai. Ti amo da tutta la vita. Non importa se non mi abbracciavi, io ti amavo lo stesso. Ti amo sempre». Mi bacia, senza attendere nessuna risposta, passando il pollice lungo la mia guancia come per cancellare lacrime fantasma, il ricordo di tutte quelle che ho versato, questa sera.
«Will...» La chiamo, stringendo il suo polso, portandomi alle labbra le sue dita e baciandole una per una.
«Sei il mio mare, Junior».
«Ti amo, Will». Sospiro, senza distogliere lo sguardo. «Amo il tuo broncio, i tuoi baci. Ti amo e basta. Ti ho sempre amato anche io, credo». Faccio una pausa, per baciare il suo pianto. Per stringerla con più forza al mio petto. «Non ho mai resistito alle tue lacrime. Non volevo piangessi, mai». Continuo, chiudendo gli occhi per scappare dai suoi. E sento il suo singhiozzo, e la sua fronte appoggiata alla mia spalla.
«Sono felice, Junior». Balbetta, contro la mia pelle, senza riuscire a fermare il pianto. E le alzo il viso, asciugando ogni lacrima. Le sorrido, prima di baciarla quante più volte mi sia possibile, prima di accarezzarle le gambe e perdermi tra queste lenzuola, nuotando in un mare calmo e senza onde
.
Sospiro, continuando a far vagare gli occhi, e la mente, lungo questa parete. «Come mia madre e mio padre hanno il libro, noi abbiamo il nostro muro». E rimarrà sempre a ricordarmi qualsiasi momento passato con lei, qualsiasi paura che è stata cancellata. Tutto, sarà tutto quello di cui ho bisogno.
Il mio sguardo cattura un foglio che non ricordavo di aver attaccato. È ripiegato in quattro e nella parte visibile c’è il suo cuore, come quelli sugli specchi, come quelli che mi disegnava sul corpo, mentre parlava e mi baciava.
Buongiorno, Junior.
Ora stai dormendo, e sei così bello che sembri un po' un moccioso anche tu.
Quando ti sveglierai, domani e dopodomani e il giorno dopo ancora, non potrò darti il bacio del buongiorno… mi mancheranno, i tuoi baci, in ogni secondo.
E io li conterò tutti, come granelli di sabbia, aspettando di poterti augurare di nuovo il buongiorno. Ma anche se sarò triste per la tua assenza la mia mano sarà stretta nella tua, ovunque sarai. Perché noi ci apparteniamo, come la sabbia appartiene al suo mare.
E io ti amo, anche se sei cattivo... Anzi, ti amo sempre.
Will

Ed è pieno di cuori anche dentro, sopra ogni i, negli angoli, dentro le o e le g. È come se mi volesse regalare il suo cuore o farmi comprendere quanto mi ami, ma lo so già, non ce n’è più bisogno, eppure non riesco a staccare gli occhi, ormai appannati, dalla sua grafia e da ogni frase che mi ha dedicato. E vorrei correre nel 12, soltanto per non lasciarla più andare. Singhiozzo, leggendo ancora una volta, prima di appuntare il foglio spiegato sul sughero. La leggerò tutti i giorni. Accarezzo la carta, come se fosse possibile toccare colei che ha riempito il foglio di lettere. Mi manchi. E sono così fuori di me, così distrutto che stento a riconoscermi. Ma Willow è la mia sabbia e, senza la sua sabbia, il mare non è niente.




Ringraziamenti:
Come per ogni nostra fanfiction, non possiamo esimerci dal ringraziare tutte le persone che ci sono state vicine nella stesura della storia, quelle persone che, in qualche modo, hanno contribuito a rendere Aqua la storia che è, quindi i nostri ringraziamenti più sentiti vanno a:
radioactive che non solo ha creato per noi questo fantastico banner – e non ci stancheremo mai di dire che è una grafica nata – ma che ci ha promptate, aiutate, ispirate e che è la persona che più ci ha aiutate e spronate a scrivere Aqua. Questa fanfiction è anche sua;
_eco che ci ha fatto immaginare un incontro tra JJ e Will;
gabryweasley che ci ha seguite sin dall’inizio, amando Aqua tanto quanto noi. Che ci chiedeva di passarle i pezzi e li leggeva dicendoci sempre cosa ne pensasse.
Se amiamo tanto Aquamarine è anche merito loro ♥ Grazie per tutto, vi amiamo! ♥


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