Love is a losing game

di Helena Kanbara
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Don't you worry, child ***
Capitolo 2: *** I knew you were trouble ***
Capitolo 3: *** Human ***
Capitolo 4: *** By now ***
Capitolo 5: *** I believe ***
Capitolo 6: *** Alone again ***
Capitolo 7: *** The last ***
Capitolo 8: *** This is war ***
Capitolo 9: *** Unity Day ***
Capitolo 10: *** What have you done? ***
Capitolo 11: *** When you're gone ***
Capitolo 12: *** Love the way you lie ***
Capitolo 13: *** Light on ***



Capitolo 1
*** Don't you worry, child ***


1.    DON’T YOU WORRY, CHILD

 
There was a time, I used to look into my father’s eyes.
In a happy home I was a queen, I had a golden throne.
I still remember how it all changed.
My father said: “Don’t you worry, don’t you worry, child. The Heaven’s got a plan for you.”


Ha lunghi capelli rosso fuoco e mi sorride. È alta, ma non troppo. Proprio come me. È bellissima, è mia madre. Non l’ho mai vista prima d’ora ma so che è lei, me lo sento. Non ho bisogno di chiederle niente, non ci riesco, anche se le domande sono moltissime. Mi limito a starmene di fronte a lei con un sorriso sulle labbra e il vento che mi scompiglia i capelli rossi. Non sono più dispersa nello spazio, no. L’Arca non è più casa mia. Sono sulla Terra. Siamo qui.
 

La porta in ferro pesante si aprì con un rumore fastidioso e forte che mi fece sobbalzare. Ancora sdraiata sulla brandina nella spoglia cella d’isolamento che mi avevano affibbiato, scattai a sedere con gli occhi sgranati. Poi volsi lo sguardo alla porta. Dalla soglia mi fissavano due guardie, vestite con gli abiti neri tipici della legislazione dell’Arca. Non era mai difficile riconoscerle.
“Prigioniera 312, in piedi”, ordinò una di loro, avanzando nella mia direzione.
Feci subito come richiesto, tenendo a freno la lingua per evitare di sciorinare una delle mie solite esclamazioni da scaricatrice di porto. Quelle due guardie avevano interrotto il mio sogno. Ero con mia madre, almeno per una volta nella mia vita, e quella fantasia m’era stata strappata via ancora. Sospirai, aspettando che continuassero a parlarmi e a spiegarmi cosa stesse succedendo, ma al contrario le guardie si limitarono a porsi di fronte a me, in assoluto silenzio.
“Dammi il tuo braccio destro”, fu l’ennesimo ordine che ricevetti, l’ennesimo ordine al quale ubbidii senza fare storie.
Quando tuo padre è parte integrante del Consiglio dell’Arca – del sistema che da quasi cento anni riesce a tenere in vita gli ultimi stralci dell’umanità – vieni cresciuta con la sola regola di rispondere sempre agli ordini di chi è più importante di te. Non c’è altro nella tua testa, solo il sottomettersi e quell’idea costante di provare a fare di tutto per salvare la razza umana. 
Sono stata una bambina ubbidiente per ben sedici anni, poi ho smesso improvvisamente di eseguire gli ordini del “mondo” e mio padre ha cominciato a chiedersi dove avesse sbagliato con me. Ecco perché sono qui in isolamento, insieme ai delinquenti. Ecco perché passo le mie giornate sola in questa schifosissima cella ad aspettare il mio diciottesimo compleanno per essere giustiziata. Perché non ho voluto seguire gli ordini. Sapete cosa penso? La vita sull’Arca fa schifo. E preferirei di gran lunga la morte.
Allungai il mio braccio destro nella direzione della guardia di colore di fronte a me. Mi mossi lentamente: stavo cercando di guadagnare tempo per capire in che situazione mi trovassi esattamente. Non potevo fare domande, non avrei ottenuto risposte. Dunque avrei conservato il mio silenzio, altra cosa che mio padre mi aveva insegnato fin da quando ero in fasce. Tuttavia, nulla m’impediva di provare a capire cosa diavolo stesse succedendo.
La guardia pescò da una valigetta aperta quello che aveva tutta l’aria di essere un bracciale e lo aprì a metà, sempre in religioso silenzio – anche lui era stato educato dal “sistema”. Fu con orrore che vidi i piccoli aghi collocati all’interno di esso.
“No!”, urlai, indietreggiando il più lontano possibile da quell’aggeggio infernale. “Non mi metterete quell’affare al polso!”.
Lo svantaggio di passare i propri giorni in una cella minuscola è che quando vuoi scappare, non puoi. Nemmeno tutta l’agilità del mondo – e ne avevo da vendere – mi avrebbe salvata quella volta. Letteralmente con le spalle al muro, cercai di regolarizzare il respiro e fulminai la seconda guardia, già intenta a caricare le sue armi. Non c’era bisogno di alterarsi così.
“Prigioniera 312, avanza verso di me”.
Ancora un altro ordine, ancora che rispondevo. Camminai nella direzione della guardia di colore con la stessa felicità di una patibolare e osservai la scena come se non mi riguardasse, totalmente dall’esterno. Quando il braccialetto mi fu appuntato al polso, il prurito fastidioso degli aghi che mi pungevano la pelle fece sì che dovessi mordermi il labbro inferiore per non strillare qualcosa di poco carino.
“Cosa sta succedendo?”, mi azzardai a chiedere, solo quando la guardia si allontanò da me e prese la via della porta.
Quella che era sempre stata in silenzio mise via le armi e prima di uscire, si voltò a guardarmi. Si trattava di un ragazzo estremamente giovane e mi resi conto di non averlo mai visto prima d’allora nell’“esercito”. Una recluta, dunque. Interessante.
“Il Consiglio ha deciso di mandare voi delinquenti sulla terraferma”.
Tutti voi”, puntualizzò la guardia di colore.
Il mio sguardo stupito si spostò dal ragazzo a lei, e mentre cercavo di trovare qualcosa d’intelligente da domandare, i due continuarono a spiegarsi. Avevano entrambi la stessa espressione lievemente soddisfatta sul viso: erano felici. Mandando sulla Terra i cento prigionieri dell’Arca – i delinquenti – loro avrebbero guadagnato ossigeno e vita, mentre noi saremmo andati in contro a morte certa. Ci stavano trattando come carne da macello.
La mossa successiva fu improvvisamente chiara ai miei occhi. Presi quel poco di coraggio che bastava ad agire e poi mi catapultai fuori dalla cella d’isolamento, evitando le guardie con non pochi problemi. Riuscii a guadagnare l’esterno e mi ritrovai nei corridoi affollati degli Spalti del Cielo – i cento venivano portati a forza fuori dalle loro celle, proprio come stava per succedere a me – ma una delle guardie mi afferrò i capelli e il dolore mi spinse ad urlare con tutto il fiato che avevo in gola.
“Lasciatela andare!”.
E poi quella voce, come un fulmine a ciel sereno. Non la sentivo da così tanto tempo che mi stupii di riuscire ancora a riconoscerla senza nemmeno vedere il viso del suo possessore. La guardia di colore ubbidì immediatamente e sciolse le dita dai miei capelli, lasciandomi libera di avanzare. Mio padre era lì. Ma dubitavo fosse per me.
“Papà”, lo salutai, con la voce flebile e gli occhi pieni di lacrime provocate dal dolore.
Fluttuai letteralmente nella sua direzione, ignorando i rumori e le persone attorno a me. Non c’era più niente.
“Cosa sta succedendo?”, chiesi di nuovo, nella speranza che mi rassicurasse, dicendo che andava tutto bene e che quelle due guardie avevano semplicemente deciso di giocarmi un brutto scherzo.
L’Arca di cattive decisioni ne aveva prese, ma quella di sacrificare cento adolescenti per la sopravvivenza del popolo era davvero troppo. Da barbari. E mi rifiutavo di crederci.
“Andrai sulla Terra, Brayden. È il tuo destino”.
“Il mio destino?”, pigolai, incredula, deviando la mano dell’uomo di fronte a me prima che giungesse a chiudersi su una delle mie guance. “Il mio destino? Morire prima della maggiore età e non perché sono stata giustiziata dal Consiglio? Dici sul serio?”.
“No. Essere la prima diciassettenne a toccare la terraferma dopo novantasette anni. Questo è il tuo destino, Brayden”.
“Già, la terraferma. Che è piena di radiazioni dopo l’attacco nucleare di quasi un secolo fa”, borbottai, indurendo il tono di voce e lo sguardo. Strinsi i pugni lungo i fianchi. “Moriremo tutti. Come hai potuto permetterlo? La sopravvivenza del gruppo è davvero più importante di quella della tua unica figlia?”.
La mia voce tremò terribilmente senza che potessi impedirmelo e mi maledii per quell’improvvisa debolezza. Ero ad un passo dal pianto e non ci voleva, non in quel momento e non di fronte a quella persona. Non meritava neanche una delle mie lacrime. Mi stava uccidendo con le sue stesse mani. Sangue del mio sangue.
“Brayden, tu vivrai. Proprio come il resto di noi. Io lo so”, osservò mio padre, aprendosi in un lieve sorriso. “Sei mia figlia, sei una dura. Ce la farai. Farai grandi cose”.
“Avrei preferito essere lanciata nello spazio”, sputai, avanzando quel tanto che bastava per parlargli ad un palmo dal viso. 
Poi indietreggiai e sfiorando il polso stretto nella morsa di quel fastidioso bracciale, voltai le spalle all’uomo che mi aveva cresciuta per ritornare dalle due guardie che mi erano venute a far visita. Si erano riprese dalla colluttazione e mi aspettavano sulla soglia della mia cella, pronte a scortarmi chissà dove. Avanzai nella loro direzione a testa bassa, poi con un cenno le invitai a muoversi. Ero fuori dalla gabbia ma mi sentivo ancora una prigioniera.
Mentre i due uomini mi scortavano, tenendomi intrappolata fra i loro corpi, non mi voltai mai nemmeno una volta a guardare mio padre. Poco importava che quella fosse l’ultima volta che lo vedevo: meglio così.
“Le regole sono cambiate, Brayden! E farai meglio ad abituartici!”, lo sentii però urlarmi dietro, mentre nuove lacrime arrivavano ad inumidirmi gli occhi.
La guardia di colore di fronte a me ridacchiò appena, poi scosse la testa e si voltò brevemente a cercare i miei occhi chiari.
“Faresti meglio a dare ascolto al Consigliere Kane, Prigioniera 312”.
Sì, Marcus Kane era mio padre.  

 

Nella sala di controllo era scoppiato il caos e Callie se ne rese conto immediatamente non appena vi ci mise piede. Sinclair si muoveva nervoso da una postazione di comando all’altra, cercando di rimediare ad un errore che di certo non aveva commesso lui ma per il quale avrebbe pagato con la vita. Sull’Arca funzionava così: non solo veniva punito chi sbagliava, ma anche chi al contrario era innocente fino al midollo. Proprio come quei cento ragazzini che il Consiglio aveva tanto insistito per sacrificare, mascherando l’idea con quella che venissero mandati sulla Terra solo per misurarne la vivibilità. Lo sapevano tutti che non ce l’avrebbero fatta.
“Cosa sta succedendo qui?”, domandò in un sussurro, facendosi vicina a Marcus e Sinclair.
Il Consigliere la zittì con un cenno infastidito della mano mentre l’altro uomo aspettò di aver controllato questo e quell’altro marchingegno prima di risponderle. Callie attese in religioso silenzio, consapevole del fatto che sbraitare contro Kane o Sinclair non avrebbe risolto assolutamente nulla.
“Il sistema sta fallendo”, stabilì infine proprio Sinclair, con un tono di voce grave. “Interamente”.
Callie sondò il suo viso alla ricerca di una qualsiasi ombra di dubbio, e quando non ne trovò alcuna sospirò, portandosi una mano alla fronte. I Cento erano spacciati ancor prima di arrivare sulla Terra. E tra di loro c’era Brayden, niente di meno che la figlia di…
“Cos’altro sappiamo per certo?”.
Marcus parlò nel momento esatto in cui gli occhi scuri di Callie si posarono sulla sua figura.
“Quando abbiamo perso i contatti, la navicella era fuori rotta”.
“E cosa aspetti a ristabilirli?”, sbottò ancora, mentre Sinclair sgranava per un attimo gli occhi, sorpreso.
“Credi che se potessi non l’avrei già fatto?”, domandò poi, poco prima di riprendere a parlare. “Oltre alla telemetria dei bracciali non abbiamo nulla. Né audio né video né collegamenti computer”.
“Dovranno vedersela da soli”, furono le uniche parole che Callie pronunciò, poco prima di iniziare a pregare.

 

Alla fine non sono stata la prima diciassettenne a toccare la terraferma dopo novantasette anni. Octavia Blake mi ha preceduta. Mi dispiace, papà. L’ennesima delusione, eh?
Bellamy l’ha fatta uscire per prima dalla navicella, diceva che fosse giusto darle qualcosa per cui farsi ricordare che non fosse la sua vita nascosta sotto le assi del pavimento e tutti i gossip possibili ed immaginabili al riguardo. Da come se ne va in giro ancheggiando, però, oserei dire che qui sulla Terra – d’ora in poi – la ricorderanno per qualcosa di ancor più diverso.
La Terra è molto meglio di quanto mi aspettassi. A dire il vero è meravigliosa. Di gran lunga migliore della mia immaginazione, cosa che proprio non credevo possibile. E inoltre non sembra essere nociva. Al contrario, l’aria è pulita e profuma di libertà. Per la prima volta da un anno a questa parte non mi sento più una prigioniera dell’Arca. Sono convinta che ognuno dei Cento si senta esattamente come me.
Non so cosa farò quando l’inchiostro di questa penna sarà esaurito. Immagino dovrò pensare a trovare qualcuno con cui parlare e sfogarmi. Credo che evitando rischierei di impazzire. Ma per ora preferisco non pensarci. Le comunicazioni con l’Arca sono saltate più o meno a metà viaggio ma non mi sento affatto sola e abbandonata a me stessa: nessuno qui si sente così. Non mi manca nessuna delle persone che ho lasciato lassù nello spazio, forse solo Callie. È stata così cara ad esaudire il mio ultimo desiderio di portare con me un’agenda e una penna. Quella donna mi ha praticamente vista crescere e senza di lei magari mi sentirò un po’ vuota, ma ripeto che non è questo il momento adatto per pensarci.
Non sono più dispersa nello spazio, no. L’Arca non è più casa mia. Sono sulla Terra. Siamo qui.


 
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Ringraziamenti
Lory's Graphic per il meraviglioso banner.
A Amy Winehouse, per la bellissima 
Love is a losing game che dà il titolo a questa fanfiction che sì, avevo promesso di pubblicare più in là (ma lo sanno tutti che sono una persona cattiva, quindi here we are).
Agli Swedish House Mafia, perché 
Don't you worry, child fa da titolo/canzone citata in questo capitolo. Anche se io preferisco le cover di Avery e Beth.
A quella dolcettina rossa che è Leanne Lapp, la prestavolto di Brayden Kane.

Note

Helena Kanbara è il mio profilo fb e potete sentirvi liberi di aggiungermi se interessate a spoiler, informazioni varie o all'album dei prestavolto che (lo ggggiuro) pubblicherò presto.
Love is a losing game è inoltre il nome della playlist Spotify da me creata per raccogliere tutte le canzoni presenti nella colonna sonora di questa fanfiction.
Mi sembra evidente che la fanfiction sarà una John Murphy/Nuovo Personaggio (perché John Murphy è il mio personaggio preferito e i personaggi preferiti vanno sempre accoppiati con le mie OCs) e, credo si sia capito, Brayden è figlia di Marcus Kane (questo perché adoro anche Marcus Kane e volevo vederlo in veste di padre).
Okay, nient'altro. Grazie a chi leggerà, recensirà (vi pppprego, scrivetemi), seguirà, preferirà, ricorderà, schiferà e chi più ne ha più ne metta.
Aggiornerò non so quando. Bai.

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Capitolo 2
*** I knew you were trouble ***





2.    I KNEW YOU WERE TROUBLE 

 
I think part of me knew the second I saw him that this would happen.
It’s not really anything he said, or anything he did. It was the feeling that came along with it.
And crazy thing is, I don’t know if I’m ever going to feel that way again.
But I don’t know if I should.
 
 
L’intera sala di controllo dell’Arca era ancora in fermento quando Abigail Griffin ci rimise piede per l’ennesima volta in quella giornata. Le condizioni dei Cento erano ancora un’incognita ma perlomeno tutti sapevano che la navicella fosse atterrata sulla terraferma e ciò era servito a calmare almeno un po’ gli animi. Le comunicazioni, tuttavia, erano ancora totalmente fuori uso e il nervosismo di Marcus Kane non faceva altro che aumentare a dismisura.
Abby gli riservò un’occhiata giusto un attimo prima che il Consigliere prendesse a parlare, e allora si fermò per ascoltarlo, proprio come tutte le persone presenti in quella stanza.
“Non sappiamo quali siano le condizioni della Terra ma, grazie ai bracciali di Abby,”, affermò, chiamandola in causa e donandole a sua volta un’occhiata. “sappiamo come i corpi dei Cento sono influenzati da queste condizioni”. 
“La domanda è: cosa sappiamo esattamente?”, chiese uno dei tanti uomini nascosti in fondo alla sala, ed Abigail si voltò a guardarlo prima di rispondere.
Avanzò nella direzione della grande schermata principale sulla quale se ne stavano tanti badge elettronici, uno per ciascuno dei cento delinquenti mandati in precedenza sulla Terra. Da lì era possibile tenerli tutti d’occhio, osservare i loro valori primari e tante altre cose del genere. Tutto grazie ai bracciali che lei stessa aveva ideato e costruito, seppur solo parzialmente. Prima ancora che Marcus si complimentasse con lei, Abby si sentì davvero fiera di se stessa.
“Abbiamo due morti”, disse poi, donando lo sguardo al pavimento in segno di dispiacere. “e una teoria”.
La Dottoressa Griffin si ritrovò addosso diversi sguardi confusi e trattenne un sorriso. Non ci stavano capendo niente ma dopo l’accurata spiegazione del suo allievo, tutto sarebbe stato chiaro. A proposito, cercò lo sguardo del Dottor Jackson e gli intimò di parlare con un cenno del capo.
“I Cento sono sulla Terra da soli sette minuti”, esordì lui, con un tono di voce autoritario e deciso. Credeva a quell’ipotesi almeno tanto quanto Abby. “e per ora crediamo che i due ragazzi di colore non siano morti per via di possibili radiazioni ma per problemi precedenti l’atterraggio”.
“I loro braccialetti hanno smesso di funzionare nello stesso momento in cui abbiamo perso contatti con la navicella”.
“Dunque mentre erano ancora in volo”.
Abby annuì e questo diede la spinta a Kane affinché continuasse a parlare.
“Possiamo escludere la presenza di radiazioni dal momento che non vedo nessun aumento drastico di morti?”.
Quella domanda la prese in contropiede. L’aria sulla Terra non era nociva? Davvero troppo presto per dirlo. Quando glielo spiegò, Kane non si perse d’animo.
“Cosa sono tutti questi aloni rossi attorno ai badge?”, domandò, tenendone d’occhio solo uno in particolare.
“Indicano un aumento del segnale vitale. O i ragazzi sono rimasti feriti in seguito all’atterraggio o sono felici di essere lì”.
A quel punto, al Consigliere non restò altro da fare che pregare affinché Brayden facesse parte della seconda schiera – quella dei felici. Abigail dal canto suo non ne aveva bisogno: Clarke era sana e salva, lei lo sapeva.
 
 
“Ti dispiace?”.
Wells Jaha sapeva farsi valere. Fu questa l’unica cosa alla quale pensai, inginocchiata sulla terra umida e con la schiena poggiata contro una delle pareti della navicella. Eravamo dispersi in mezzo al nulla, lontani dal luogo pieno di provviste da noi indicatoci dal Cancelliere, e il nervosismo iniziava a farsi sentire. Senza muovere un muscolo, continuai a godermi la scena, curiosa di sapere fin dove quei ragazzi si sarebbero spinti.
“Giù le mani da lui, è con noi”.
Con noi? Iniziavano già a formarsi team? Ed io non ero stata invitata in nessuno di questi, che peccato. Sospirando, distolsi lo sguardo dalla scena e lo riportai sul foglio di carta immacolato di fronte ai miei occhi. Non sapevo più cosa scrivere ma tenere la mia agenda tra le dita riusciva a rendermi tranquilla. E a farmi sentire meno sola. Era un’ottima compagnia.
“Siamo sulla Terra. Non ti basta, Jaha?”.
Prima di allora non ero mai stata in compagnia di Bellamy Blake, non ne avevo mai nemmeno sentito parlare ma mi era bastato ritrovarmi con lui sulla navicella per capire che fosse esattamente come quello che si mostrava. Pieno di sé, di difetti e innamorato del suono della sua voce. Non stava un attimo zitto ma l’uniforme da guardia gli donava. Bellamy VS Brayden: 1 – 1, palla al centro.
“Dobbiamo trovare il monte Weather se vogliamo sopravvivere. Tutte le provviste sono lì”.
“E una foresta di radiazioni ci separa dal posto”.
Aggrottai immediatamente le sopracciglia. Cosa significava ciò che Clarke Griffin aveva appena detto? Con la voce incapace di nascondere una punta di paura, le posi la domanda della quale speravo la risposta non fosse quella che credevo.
“Ci hanno fatti atterrare nel posto sbagliato?”, pigolai, ancora seduta a terra, poco prima che almeno una ventina di sguardi mi si abbattessero contro.
Per quello preferivo rimanere nell’ombra e starmene sempre da sola. Nessuno mi osservava, nessuno parlava di me. Soprattutto nessuno faceva commenti tipo: “È Brayden Kane, la figlia del Consigliere” o “Un’altra privilegiata”. Li odiavo tutti.
“Sì”, sancì Clarke dopo qualche minuto di smarrimento, probabilmente dovuto all’avermi rivista dopo esattamente un anno.
Non eravamo mai state particolarmente legate – era raro che stringessi rapporti con qualcuno – ma lei era sempre stata intorno a me e parte integrante della mia vita, un po’ come un satellite che ruota senza mai fermarsi attorno ad un pianeta. La stessa cosa valeva per Wells e per pochi altri privilegiati, come ci definiva gran parte dei Cento. In quel momento mi ritrovai a pensare che non avessero poi così tanto torto.
“Dobbiamo raggiungere il monte Weather prima di morire di fame. Andiamo, sono solo 30km! Dobbiamo partire subito se vogliamo arrivare lì prima che faccia buio. Chi è con me?”.
Fu solo a quel punto che mi misi in piedi, lasciando da parte agenda e penna poco prima di spolverarmi gli skinny jeans dai residui di terra umida. Mi tirai i capelli indietro e poi avanzai verso Clarke, parte di una delle due fazioni che si erano venute a creare. Da una parte, infatti, se ne stavano lei, Wells e i ragazzi che avevo sentito parlare in precedenza. Di fronte, i fratelli Blake. Erano il nemico? Non potei fare a meno di chiedermelo.
“Hai detto che il bosco è pieno di radiazioni. Come lo sai?”, chiesi, infossando entrambe le mani nelle tasche dei jeans.
Altri sguardi su di me, altri sforzi per ignorarli tutti. Clarke scosse la testa, facendo ondeggiare i riccioli biondi.
“Non lo so, lo presumo”, mi spiegò poi, facendo spallucce.
“E ammettiamo che le tue presunzioni siano vere: moriremo. Non possiamo andare”.
Clarke continuò a fissarmi con una ben evidente aria d’indifferenza, poi mosse un passo indietro e si voltò a guardare Wells. Fin da quando avessi memoria, non c’era stata una volta in cui non li avessi visti insieme. Quei due erano inseparabili: non migliori amici, fratelli. Avevano un rapporto di quelli da invidiare. E lui pendeva letteralmente dalle sue labbra.
“Faremo questa fine comunque, Brayden”, disse poi Clarke, ritornando a guardarmi mentre faceva scivolare la lingua sulle consonanti nel mio nome. “Dobbiamo almeno provarci”.
Non aveva tutti i torti, lo capii subito. Non potei far altro che annuire.
“Sono con te”.
“Nessun altro si aggrega?”.
Neanche a dirlo, dalla folla si levò una moltitudine di: “No”. Delinquenti e anche codardi. Perfetto. A quanto pareva toccava a noi tre.
“Tocca a voi privilegiati”, confermò una voce in lontananza, e Bellamy Blake le diede subito ragione.
“Tocca a voi”, osservò, racchiudendo me, Clarke e Wells in un’occhiata divertita.
“No! Dobbiamo andare tutti”.
Wells Jaha non sapeva farsi valere. Oh Dio, poteva essere bravo con le parole ma alla fine non concludeva mai niente. Credo fosse il coraggio che gli mancava. Io me ne intendevo: il coraggio ce l’avevo nel nome.
“Guardate un po’! Il Cancelliere della Terra”, lo derise quello che ricordai subito come il capo di uno dei team formatisi, spintonando Wells con violenza.
“Credi che faccia ridere?”, gli domandò lui in risposta.
Capii subito che la situazione stesse per degenerare e ne ebbi la conferma nel momento in cui Wells fu trascinato a terra dallo sgambetto del suo avversario. Fu allora che decisi di intervenire, ignorante del fatto che il figlio del Cancelliere fosse già nuovamente in piedi – seppur a fatica – pronto a confrontarsi col ragazzo che aveva di fronte.
“Perché non la smetti di fare il cazzone?”, urlai proprio nella sua direzione, ponendomi tra i due affinché potessero evitare di saltarsi addosso come nient’altro che bestie feroci.
Lui di tutta risposta alzò le mani al cielo in segno di resa mentre ancora lo tenevo lontano da Wells con le mie mani puntate sul suo petto e poi mi sorrise appena, piegando lievemente le labbra all’insù in uno di quei mezzi sorrisini che col tempo avrei imparato ad odiare. Capelli medio-lunghi, occhi azzurri e faccia da culo. Avrei fatto meglio a stargli lontana.
“Calma, Ginger”, furono le prime parole che mi rivolse, e il solo sentire la sua voce fece sì che mi allontanassi dal suo corpo, come scottata. “Papino non ti ha insegnato le buone maniere? Non si mettono le mani addosso ad uno sconosciuto, a meno che lui non voglia”.
A quel punto nulla più mi fermò dall’agire. Bastava che nominassero mio padre per farmi perdere completamente la ragione? , mi dissi, mentre il mio pugno s’infrangeva contro il naso del ragazzo di fronte a me e avvertivo degli scricchiolii per niente piacevoli.
Era guerra aperta.
 
 
“Ehi”.
Con quel richiamo deciso, Clarke attirò nuovamente l’attenzione di tutti su di sé e si avvicinò a Finn tanto da afferrargli il polso destro. Lo strinse tra le dita senza violenza ed esaminò attentamente il braccialetto color argento al polso di Spacewalker. Io la imitai, curiosa.
“Hai cercato di toglierlo?”, la sentii domandargli, nell’attimo esatto in cui notai una lieve incrinatura nel materiale.
Istintivamente, nascosi il braccio destro dietro la schiena e mi tirai in piedi. A quanto pareva non ero stata l’unica a farsi venire in mente la felice idea di disfarsi di quell’aggeggio senza però riuscirci. La pelle martoriata e arrossata del mio polso ne era la ben evidente dimostrazione.
“Sì, e allora?”, mormorò Finn, liberandosi gentilmente dalla presa ferrea di Clarke.
“Questo braccialetto trasmette i tuoi segni vitali all’Arca. Toglilo e ti crederanno morto”.
Devo sbarazzarmene all’istante. Quale cosa migliore del far credere a mio padre che fossi deceduta? Quale vendetta più dolce?
Arretrai verso una zona lievemente più in ombra rispetto a quella nella quale ci trovavamo, guadagnandomi un’occhiata incuriosita da parte di Bellamy Blake, l’unico in disparte e l’unico ad avermi notata. Distolsi immediatamente lo sguardo dai suoi occhi scuri e lo portai tutt’intorno a me: a Wells inginocchiato sul terreno, a Finn e Clarke l’uno di fronte all’altra, a Jasper e Monty che avevano deciso – non di loro spontanea volontà – di unirsi a noi per la missione “recupero cibo”, e ad Octavia – l’ultima arrivata.
“Vuoi che i tuoi cari ti credano morto? Vuoi che vengano qui, tra due mesi? Perché non verranno se credono che stiamo morendo”.
La voce di Clarke mi riportò alla realtà e puntai lo sguardo sulla sua schiena rigida. Mi sentivo come se quelle domande fossero state poste direttamente a me e non a Finn, e seppur senza parlare, le donai delle risposte decise. Sì, volevo che i miei cari mi credessero morta. Volevo che mio padre lo credesse, giusto per fargli capire che mi avesse persa per sempre – e quella volta sul serio. No, non volevo che gli abitanti dell’Arca ci raggiungessero laggiù. Sentivo la Terra mia e la vedevo così meravigliosa da considerarla troppo per quella massa di gente ingrata.
Finn non parlò più ma scommisi tra me e me che le sue risposte fossero la copia esatta delle mie e non potei proprio fare a meno di trattenere un sorriso, tirando fuori il braccio che avevo tenuto nascosto per tutto quel tempo solo per poterlo coprire nuovamente – quella volta con la manica della mia giacca scura. Di sicuro qualcuno si sarebbe insospettito se avessi continuato a camminare con un braccio dietro la schiena, ma con quel metodo non potevo rischiare nulla. Peccato però che Bellamy Blake osservò tutta la scena e soprattutto il mio polso martoriato e il braccialetto mezzo distrutto, guadagnandosi ufficialmente il primo posto nella lista nera che avevo deciso di buttar giù.
Lo fulminai con lo sguardo e poi presi a muovermi il più lontano possibile da lui, raggiungendo i ragazzi che avrebbero partecipato insieme a me alla missione, felice di lasciarmelo indietro. Era indiscreto e mi avrebbe dato non pochi problemi: era senz’altro un bene che avesse deciso di restare al campo e non unirsi a noi per il recupero dei rifornimenti al monte Weather.
Mi sistemai una borsa con tutto l’occorrente in spalla, recuperai la mia agenda e la penna e mi preparai a partire insieme a tutti gli altri. Clarke controllò che fosse tutto a posto e quando fu sicura, fece un vago cenno di saluto nella direzione di Bellamy e poi ci squadrò tutti, uno per uno, alla ricerca di qualsiasi esitazione. Quando per lei fummo pronti, facemmo per avviarci ma una bruttissima voce fece sì che dovessimo fermarci immediatamente ed io non potei evitare di voltarmi a squadrarne il proprietario con occhi pieni d’astio.
“Non intenderete partire senza di me, spero”, osservò, con un vago senso di divertimento nella voce.
Mi bastò analizzarlo per pochi altri attimi e poi riportare lo sguardo su Bellamy, colpevole di aver attirato nuovamente la mia attenzione. Mi fu tutto subito chiaro. L’aveva mandato lì lui: quei due si erano coalizzati e si contendevano ufficialmente il primo posto nella mia lista nera.
John Murphy, però, sembrava essere il più papabile per la vittoria.
 
 
“D’accordo, Ginger. Sono curioso, lo ammetto. Perché ti trovi quaggiù insieme ai criminali?”.
Feci per arrestare improvvisamente la mia camminata, ma riuscii a desistere. Non dovevo mostrare emozioni, nemmeno un barlume di sorpresa o interesse. Non nei suoi confronti. Perciò continuai a marciare, tenendo gli occhi fissi sui cinque ragazzi di fronte a me. Eravamo gli unici rimasti indietro e in disparte e per quanto avessi provato a rimediare alla cosa, non c’era niente che potessi fare per scollarmi John Murphy di dosso. O per zittirlo un attimo.
“Non capisco il vostro modo di pensare, sai?”, mi ritrovai a chiedergli dopo qualche attimo di silenzio pacifico, stringendo ulteriormente le dita sulle spalline del mio zaino pur di resistere all’impulso di voltarmi a guardarlo.
Non anche quella soddisfazione.
“Trovo la convinzione che vi spinge a crederci impunibili a causa dei nostri genitori davvero assurda. Mi dispiace ma vi sbagliate. Commettiamo errori anche noi privilegiati, facciamo cazzate come qualsiasi adolescente che si rispetti e ci puniscono per questo, ancor più duramente a causa del cognome che portiamo. Perché dovremmo essere l’esempio ma non ci riusciamo. Ed è una vergogna”.
Completai la mia arringa con un tono di voce sempre più lieve e dispiaciuto, rendendomi conto di quanto poco stessi riuscendo a tener fede ai miei obiettivi. Niente emozioni? Certo, come no. Repressi l’impulso di mordermi la lingua per tutto quello che mi ero lasciata sfuggire e sbattei violentemente le palpebre nell’inutile tentativo di asciugare gli occhi dalle lacrime che vi si erano andate a formare.
“Tuo padre pensa tu sia una vergogna?”, fu ciò che Murphy mi chiese subito dopo, vagamente sorpreso mentre ancora mi camminava alle spalle.
“Cosa ti fa credere che non stessi parlando in generale?”, ricambiai, rinunciando all’ennesimo dei miei propositi prima di voltarmi a guardarlo.
Lui di tutta risposta mi donò un’occhiata alla “Ma chi pensi di prendere in giro?” ed io evitai prontamente il suo sguardo, riprendendo a marciare come se non ci fosse un domani. Quegli occhi azzurri puntati su di me riuscivano a mettermi paurosamente in soggezione e non potevo permettermi di mostrarmi così debole davanti al nemico. Peccato però che proprio colui che avrei dovuto odiare si stesse mostrando l’unico in grado di capire e ascoltare.
“Mio padre mi ha cresciuta praticamente da solo e ha fatto davvero un ottimo lavoro. Mi ha riempito fin da subito la testa con tutte quelle cazzate nelle quali crede tanto e mi ha trasformato in una bellissima bambina ubbidiente che però ha scelto di venire meno ai suoi obblighi non appena compiuti i sedici anni. È per questo che mi hanno messa in isolamento”, spiegai, arrendevole.
“Quanti anni hai ora?”.
“Diciassette”. Decisa, non avevo certo bisogno di pensare a quella risposta. “Io e Octavia siamo le più piccole”.
“Hai passato trecentosessantacinque giorni in isolamento? Tu?”.
Ancora quel tono sorpreso, ancora che alzavo spazientita gli occhi al cielo e distoglievo lo sguardo dalla piccola Blake che avevo tenuto sotto controllo per quasi tutto il tempo senza nessun motivo in particolare. Volsi nuovamente il capo alle mie spalle e arrestai addirittura la mia camminata nell’attesa che Murphy mi raggiungesse.
“Te l’ho detto che non ci risparmiano solo per il cognome che portiamo”, gli feci presente quando mi fu accanto, rendendomi conto forse un po’ troppo tardi della piega che assunsero le mie labbra senza che riuscissi ad impedirmelo.
Stavo sorridendo. Gli stavo sorridendo.
Smisi immediatamente di farlo ed imprecai a bassa voce, guadagnandomi un’occhiata divertita – l’ennesima – da parte di Murphy. Feci per accelerare nuovamente il passo e scappargli, ma lui previde subito le mie intenzioni e stette ben attento a non restare più indietro. Onde evitare ulteriori imbarazzi e scampare all’odioso silenzio che si era venuto a creare tra di noi, mi schiarii la gola e ripresi a parlare.
“Tu quanto tempo hai passato in isolamento?”.
“Due mesi”, rispose subito, tranquillo e facendo spallucce mentre a me ritornava automaticamente la voglia di dargli contro.
Privilegiato”, soffiai infatti, voltandomi a guardarlo di scatto.
“Spiritosa”.
Ci fu dell’altro silenzio e dell’altro imbarazzo. Distolsi i miei occhi verdi dai suoi e mi diedi della stupida per l’ennesima volta. Non dovevo dargli tutto quel potere né quella importanza, davvero. Era un ragazzo decisamente carino e si stava dimostrando meno fastidioso di quanto avessi creduto – decisamente non da primo posto nella mia lista nera – ma dovevo continuare a stargli alla larga e dare ascolto alle mie sensazioni. Tuttavia, fino a quel momento non sembravo star avendo successi.
“Perché sei venuto?”, domandai dopo qualche tempo, decidendo di dedicarmi a cose senz’altro più importanti.
“Per te”.
Alzai gli occhi al cielo. D’accordo, era carino e simpatico ma così non funzionava. Non con me, che non ero affatto una di quelle solite ragazzette tutte rossori e intelligenza sepolta chissà dove. Sapevo bene quando una cosa fosse detta con sincerità o solo per fare colpo, e quelle due paroline erano state utilizzate ovviamente per adempire al secondo obiettivo.
“Dico sul serio, Murphy”, mormorai, sempre evitando il suo sguardo e continuando a camminare con le dita strette attorno alle spalline rosse dello zaino.
“John”.
“Eh?”.
La confusione però fece sì che mi arrestassi ancora una volta e con le sopracciglia aggrottate, cercai il viso del mio compagno. Lo so, avrei potuto evitare di definirlo così ma come altro etichettarlo?
“John. Mi chiamo John”.
“Lo so”, sussurrai, riscossa improvvisamente dai miei continui e interni vaneggiamenti. “Io Brayden. Giusto in caso ti venisse voglia di chiamarmi Kane. Sappi che non gradirei”.
Ed era vero. Se solo avessi potuto, avrei cambiato cognome. Peccato però che da lì alla nascita di un municipio sulla Terra ne sarebbe dovuta passare, di acqua sotto i ponti.
“Preferisco chiamarti Ginger”, mi fece presente allora Murphy – no, non era il momento di chiamarlo John – sorridendo di sbieco.
Alzai nuovamente gli occhi al cielo. Poi, decisa, ritornai sull’argomento di importanza fondamentale.
“Perché sei venuto?”, domandai ancora, guadagnandomi un’occhiataccia seguita da una risposta.
Trattenni un sorriso.
“Me l’ha chiesto Bellamy. E sarebbe meraviglioso se la smettessi di fare la gnorri, perché ti trovo ancora più irritante del normale, sappilo”.
“Che cavaliere”, osservai, colpita.
“Sono sincero, perlomeno”.
“Questo è ancora tutto da vedere”. Poi tornai all’attacco, ancora non pienamente soddisfatta. “Perché sei venuto?”.
“Credevo di aver già risposto a questa domanda”.
Credevo mi avresti uccisa. Sì, mi rendevo conto di essere insopportabile, alle volte. Ma la tranquillità di Murphy tranquillizzò anche me, e prima di rispondergli mi limitai a fare spallucce.
“Non come volevo io”.
“Bellamy voleva tenervi d’occhio senza attirare attenzioni, ed eccomi qua”, fu la spiegazione che ricevetti, semplice e accurata abbastanza da soddisfarmi.
Le mie sensazioni erano giuste: Bellamy Blake era il nemico. Ed io dovevo solo scegliere se stare dalla sua parte o meno. Per allora, meglio non pensarci e continuare a punzecchiare Murphy. Non l’avrei mai ammesso ad alta voce ma la cosa riusciva a divertirmi più del lecito.
“Cos’è peggio: privilegiata o schiavo?”, gli domandai, voltandomi nuovamente a fronteggiarlo mentre lottavo contro me stessa per non scoppiare a ridergli in faccia.
“Non lavoro per Bellamy”, si giustificò prontamente lui, indurendo lo sguardo sulla mia figura. “Cioè, sì. Ma solo perché intendo ricavarci qualcosa. Non sono così stupido”.
Ripresi a camminare.
“Lo so”, annuii. “Ed è per questo che mi stupisco. Cosa potresti mai ottenere da Bellamy Blake? È in basso nella catena alimentare”.
Murphy ridacchiò, raggiungendomi ancora una volta con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni scuri.
“Forse sull’Arca, ma non quaggiù. Qui è tutto capovolto e mi sorprende che tu ancora non l’abbia capito”.
La Bocca della Verità. Non potei fare a meno di dargli ragione, seppur solo nella mia mente. Non avrei mai rischiato di soddisfarlo così tanto, ma ad ogni modo distolsi lo sguardo dal suo viso e lo puntai tutt’intorno a me, improvvisamente pensierosa.
“«Gli ultimi saranno i primi, e i primi ultimi»”, mormorai dopo qualche attimo, citando un famoso estratto dal Vangelo di Matteo che avevo avuto modo di leggere durante il mio anno di isolamento.
Fu forse con un po’ di ritardo che mi resi conto di essere intrappolata senza nessuna via di fuga tra il tronco di un albero e il corpo di Murphy. Il bastardo aveva deciso di approfittare senza remore della mia distrazione e in quel momento se ne stava di fronte a me con un sorrisino da perfetto stronzo in viso. Mi ritrovai per una delle poche volte in tutta la mia vita incapace di parlare e temetti che avrebbe fatto qualcosa che non volevo – o che al contrario volevo così tanto da preferire non ammetterlo: su quel punto ero ancora piuttosto indecisa e combattuta – ma per mio immediato sollievo si limitò semplicemente a darmi un leggero buffetto sul naso.
“Lo vedi che sei intelligente quando vuoi?”, mormorò, mentre io di conseguenza socchiudevo gli occhi e trattenevo a malapena l’impulso di ridere.
Quel gesto era stato di una… dolcezza unica. Dannazione.
“Sono intelligente sempre”, trovai chissà dove la forza di replicare, più per sgusciare via da quell’imbarazzante situazione che per la voglia di parlare.
Credetti che Murphy avrebbe aggiunto qualcos’altro ma quando fece per aprir bocca il tono di voce spazientito di Clarke attirò la nostra attenzione e mi ritrovai a sobbalzare senza riuscire ad impedirmelo.
“Ragazzi, tenete il passo, per favore!”, ci ammonì, mentre io pregavo fossero tutti lontani abbastanza da non riuscire a vederci in quella fraintendibile posizione dalla quale mi liberai in tutta velocità.
Fu solo allora che mi resi conto di quanto sarebbe stato facile farlo anche in precedenza e mi diedi della stupida, scuotendo piano la testa mentre riprendevo a camminare stando ben attenta a dove mettevo i piedi. Avrei potuto benissimo farmi lontana da Murphy ma avevo preferito non farlo. Era incredibile ma era la verità.
Quando ebbi camminato abbastanza da rendermi conto di essere sola, arrestai improvvisamente i miei passi e mi voltai alle mie spalle.
“Andiamo?”, chiesi proprio a Murphy, ancora fermo dietro di me, fingendo tranquillità.
Lui semplicemente annuì, poco prima di raggiungermi nuovamente.
“Andiamo”.


 
 
 _______________________________
 
Ringraziamenti
A Taylor Swift, per
 I knew you were trouble che è TUTTO e fa da titolo/canzone citata in questo capitolo.
A Axelle__, per la sua meravigliosa recensione.
A chi ha messo questa storia tra le sue seguite.


Note
Quando Brayden dice:
il coraggio ce l’avevo nel nome, lo intende sul serio. Difatti il significato del nome Brayden deriva dall'inglese brave: coraggiosa.
Potete trovarmi su fb, 
Helena Kanbara.
Spero che questo capitolo vi piaccia. Insomma, Ginger e Muffin (sì, ormai lo chiamo Muffin. Grazie, Migliore Amica. ♡) si sono già odiati/amati e a me piacerebbe proprio moltissimo sapere cosa ne pensate su questi due. Per ora posso dirvi solo che siamo appena appena all'inizio.

Grazie come al solito a chi leggerà, recensirà (?), seguirà, preferirà, ricorderà, schiferà e chi più ne ha più ne metta.
Aggiornerò tra un mese, e non sto scherzando. Bai.

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Capitolo 3
*** Human ***





3.    HUMAN 


I can fake a smile, I can force a laugh, I can dance and play the part.
I can do it, I can do it, I’ll get through it.
But I’m only human and I bleed when I fall down. I’m only human and I crash and I break down.
You build me up and then I fall apart, ‘cause I’m only human. Just a little human.


 
“Consigliere Kane”.
“Comandante Shumway”. Il tipico saluto di circostanza, la solita aria inespressiva. “Ci sono novità?”.
“Sissignore. Abbiamo identificato chi ha sparato al Cancelliere”.
A Marcus Kane bastò semplicemente osservare l’uomo asiatico di fronte a sé annuire ripetutamente perché la sua attenzione si risvegliasse. Aveva ordinato al suo sottoposto di tenerlo informato di ogni nuova scoperta e lui, ovviamente, aveva ubbidito.
Senza fretta, gli pose tra le mani un tablet ultratecnologico e navigò fino a mostrargli la foto di un ragazzo sulla ventina, coi capelli neri scompigliati e la pelle scura. Marcus aggrottò immediatamente le sopracciglia. Non lo ricordava. Poi:
“Di chi si tratta?”, chiese, confuso.
“Bellamy Blake. È l’unica persona mancante sull’Arca. Oltre ai Cento, ovviamente”.
“Non mi ricordo di lui”.
“Chiaro, è un semplice custode”, lo appoggiò immediatamente Shumway, poi riprese a trafficare col tablet che ancora reggeva. “È andato sulla Terra per sua sorella”.
Octavia Blake. Non gli servì nemmeno osservare la sua foto segnaletica accostata a quella di Bellamy: Marcus capì subito si trattasse di lei. Quale altra persona sull’Arca aveva la fortuna di possedere un fratello? Nessuno, ovviamente. Lei era l’unica eccezione.
“Di lei mi ricordo”, mormorò dopo qualche tempo, distogliendo lo sguardo dalla sua fotografia e restituendo il tablet al Comandante. “Ha la stessa età di Brayden”.
“Affermativo, signore. Diciassette anni”.
Anche Marcus annuì, poi aspettò in silenzio che il suo sottoposto lo lasciasse solo. Inutilmente.
A quanto pareva, la loro conversazione era ancora lontana dal suo termine.
“Cos’altro c’è, Shumway?”, decise dunque di domandargli, curioso e innervosito al tempo stesso.
“Possiamo cominciare”, esalò lui semplicemente, abbassando la voce di almeno due ottave. “Come Cancelliere pro tempore, può dare l’ordine di iniziare a ridurre la popolazione”.
Oh no. No che non poteva. Assolutamente no.
“Non è ancora il momento”.
Ed era vero. Bisognava aspettare perché tutto andasse secondo i suoi piani. Nulla doveva essere affidato al caso.
“Signore, stiamo solo perdendo tempo”, lo rimbeccò immediatamente il Comandante Shumway, non riuscendo a nascondere nemmeno un po’ tutta la sua agitazione. “Eliminando i Cento dalla popolazione abbiamo guadagnato solo un mese in più di vita e non ci basta. Né a noi né agli ingegneri dell’Arca. Credevo volesse salvarla”.
“Lo voglio ancora. Ma non adesso”. Come osava quell’uomo mettere in dubbio ciò in cui credeva da sempre? “Se dobbiamo uccidere centinaia di persone innocenti, lo faremo da manuale. È chiaro?”.
“Sissignore”.
Bastava alzare la voce con tipi come Shumway, Marcus Kane lo sapeva bene. Era stato nella sua stessa situazione per anni e aveva avuto persone ad urlargli in faccia per così tanto tempo da imparare a memoria la lezione. Il cammino verso il potere è lungo e pieno di ostacoli.
“Nel frattempo voglio sapere chi ha aiutato questo custode a salire sulla navicella. Non può aver fatto tutto da solo”.
Shumway si accigliò nuovamente.
“Pensate ci sia un traditore, signore?”, domandò poi, evidentemente sorpreso.
“Se anche fosse non è questo l’importante. Mia figlia è sulla Terra insieme ad un assassino. Questo mi preoccupa”.
 
 
Non mi bastava il polso destro martoriato e dolorante, no. Assolutamente no. Dovevo – come al solito – metterci il carico da novanta e rovinarmi anche la caviglia destra. Agilità VS Brayden: 1 – 0. Lo vedi, papà, cosa significa rinchiudermi in una cella d’isolamento per trecentosessantacinque giorni? I risultati degli allenamenti di sedici anni vanno a farsi fottere.
La caviglia mi fa un male cane e mi sento più inutile che mai. Non riesco a camminare, ragion per cui ho dovuto lasciare gli altri alle prese con la missione “recupero cibo” indietro per ritornare qui al campo. Ti starai chiedendo come ci sia arrivata, be’, non credo ti farebbe molto piacere saperlo dal momento che la cosa include John Murphy.
Come se non bastasse continuo ad essere nient’altro che un intralcio perché non riuscendo a reggermi in piedi, non posso nemmeno aiutare Wells ad accatastare tutta la legna raccolta in queste ultime ore. Posso solo starmene seduta qui a terra vicina a lui mentre consumo il preziosissimo inchiostro della penna di Callie e riempio ulteriori pagine di questa agenda
“Hai trovato dell’acqua?”.
Arrestai all’improvviso ogni movimento della mano sinistra e sollevai gli occhi dal foglio, senza preoccuparmi di lasciare la mia frase a metà. John Murphy era lì, ancora, ed io proprio non potei evitare di sentirmi in imbarazzo nel realizzare che fosse spuntato fuori giusto pochi secondi dopo aver scritto il suo nome sulla mia agenda. Karma, no?
“Non ancora. Ma vado a cercare di nuovo, siete i benvenuti”.
Spostai gli occhi su Wells poco dopo aver fatto scattare la penna e nascosto l’agenda in una delle tasche interne della mia giacca. Fu solo allora che realizzai cosa stesse per succedere e, lo ammetto, mi sentii un po’ stupida. Murphy non era lì per me, affatto, era tornato per Wells. Voleva pareggiare i conti: potevo leggerlo sul suo viso, su quello di Mbege e sulla frase sgrammaticata che uno dei due aveva inciso su una delle pareti della navicella.
“Sai, mio padre ha implorato pietà prima che il tuo lo uccidesse”.
Oh, e potevo leggerlo anche benissimo sul coltello dalla lama affilata col quale Murphy prese a giocare distrattamente. Avrei seriamente dovuto mettermi in piedi ma il solo pensiero faceva sì che nuove scariche di dolore partissero dal punto in cui mi ero ferita nella foresta. Avevo preso davvero una bella botta e sapevo che senza Clarke o qualcuno che se ne intendesse almeno un po’ di pronto soccorso, non avrei mai risolto nulla.
“Avete sbagliato a scrivere morire, geni”.
Wells si dileguò velocemente e fu solo allora che qualcosa – non ricordo esattamente cosa – mi spinse a fregarmene altamente del dolore e mettermi in piedi per anche solo provare a raggiungerlo. Murphy e Mbege si voltarono a seguirlo con lo sguardo ma non mi curai più di loro, pensai solo a nascondere la penna nella tasca dei miei skinny jeans e poi impegnarmi per alzarmi, facendo affidamento su alcuni massi appuntiti nelle vicinanze. Mi sarebbe bastato scivolare per infortunarmi ancora ma decisi bene di non pensarci e dopo evidenti sforzi, mi ritrovai in piedi. Fu tutto magnifico finché la mia caviglia destra non toccò il terreno e pensai di camminare col peso del corpo tutto poggiato sulla gamba sana, ma quando questa cominciò a cedere mi resi conto davvero dell’impossibilità della cosa e piano piano – a poco a poco – feci aderire la pianta del mio piede al suolo e bilanciai il peso del mio corpo su entrambe le gambe.
Inutile dire che un forte gemito mi abbandonò immediatamente le labbra e chiusi gli occhi per il dolore lancinante che, ancora una volta, mi ero procurata da sola. Feci per sollevare il piede destro da terra ma prima ancora che riuscissi a muovere un solo muscolo il dolore cessò e per un attimo fui tentata di tirare un sospiro di sollievo che però mi restò bloccato in gola nel momento in cui mi sentii sollevare da un paio di braccia ormai fin troppo familiari. Déjà vu.
“Quanto cavolo hai corso?”, non potei far altro che domandare a Murphy, passandogli le braccia attorno al collo per stare più comoda.
Lui fece spallucce e poi si voltò nuovamente verso Mbege, stringendomi le braccia dietro le schiena e nella piega delle ginocchia. Sospirai. Se solo fosse stata un’altra persona non mi sarei fatta problemi a farmi trasportare in lungo e in largo per tutto il campo. Ma era John Murphy il ragazzo che mi teneva tra le sue braccia, e bastava pronunciarne il nome perché brutte sensazioni mi salissero alla bocca dello stomaco.
Fece per rispondermi, comunque, ma prima che potesse anche solo provare ad aprir bocca, Bellamy Blake entrò nella nostra visuale e attirò – come al solito – l’attenzione di tutti su di sé. Lo vidi squadrarci a lungo e lessi sul suo volto l’indecisione: chiederci qualcosa o no? Fu solo quando mi sembrò aver fatto una scelta che volse il capo verso la navicella e lesse la frase intimidatoria scritta da Murphy e Mbege.
“Se volete uccidere qualcuno è meglio non annunciarlo”, si sentì dunque in dovere di dire, utilizzando un tono di voce grave che mi fece solo venir voglia di dirgli qualcosa di molto simile a: “Scendi dal tuo piedistallo, Bellamy Blake”.
Fortuna che evitai.
“Le guardie arriveranno presto, a meno che non le fermiamo. E quando saranno qui, torneremo a fare la vita di merda che avevamo sull’Arca. Non perdoneranno mai i vostri crimini. Ammesso e non concesso che ripuliscano la vostra fedina penale, sarete sempre guardati con un occhio diverso e sarete isolati. Mai più cittadini modello. Nemmeno tu, Kane. Nonostante tuo padre”.
Deglutii, assottigliando gli occhi e alzando il mento. Aveva ragione. Dannatamente ragione. Ma non gli dissi nulla: non volevo dargli soddisfazione e soprattutto, non ci tenevo ad esprimere giudizi senza prima aver capito dove diavolo volesse andare a parare.
“Dunque qual è il tuo piano?”, domandai, decisa ad arrivare subito al fulcro della questione.
“Voglio che vi sbarazziate di quei braccialetti che portate. L’Arca vi crederà morti e stabilirà che non è sicuro seguirci quaggiù. Problema risolto”.
Mi illuminai, letteralmente. La mia lista nera non aveva più motivo di esistere, anche e soprattutto perché il suo primo classificato aveva appena perso il suo posto. Bellamy Blake aveva, improvvisamente, tutte le carte in regola per diventare il mio alleato migliore. Neanche a farlo a posta, volevamo le stesse cose.
Forzai Murphy affinché mi lasciasse a terra e lui, seppur controvoglia, mi mise giù e mi lasciò libera di avanzare in direzione di Bellamy. Inutile dire che non mi mossi se non facendo affidamento sempre su John, che mi aiutò a non poggiare il piede destro a terra tenendomi contro il suo corpo. Un vero principe azzurro.
Con le sue mani attorno alla vita, cercai nuovamente gli occhi scuri di Bellamy e gli sorrisi appena prima di sollevare la manica destra della mia giacca quel tanto che bastava a scoprire il polso arrossato e il braccialetto mezzo distrutto. Gli occhi dei ragazzi attorno a me si sgranarono per la sorpresa e di conseguenza, il mio sorriso si allargò un po’ di più. Allungai il braccio nella direzione di Bellamy.
“Toglimelo”, ordinai, alludendo ovviamente al braccialetto. “Voglio essere la prima a morire”.
“Sai che non è possibile. Ne abbiamo già persi due”.
Giusto. Annuii, rendendomi conto di non essermi spiegata bene.
“Voglio essere la prima dei privilegiati a morire”, ritrattai, avanzando ancora un po’.
Solo a quel punto Bellamy ricambiò il mio sorriso, incurvando le labbra all’insù per un breve attimo, poco prima di piegarsi su di me, circa dieci centimetri più in basso di lui.
“Attenta a quello che dici. Qualcuno potrebbe anche decidere di accontentarti”.
Ma aveva capito benissimo cosa intendevo e me ne resi conto dall’ultimo sguardo che mi donò poco prima di andar via. Fino a quel momento, ogni cosa stava procedendo al meglio e sperai solo che una volta libera da quell’opprimente braccialetto, mio padre sarebbe stato il primo a sapere della mia dipartita. Che darei per godermi l’espressione sulla tua faccia di cazzo, Consigliere Kane.
 
 
Un leggero beep bastò affinché Abby sollevasse gli occhi stanchi dai suoi appunti per guardarsi intorno, curiosa. Non era solita lavorare nella sala di controllo dell’Arca ma da quando i Cento erano stati mandati sulla Terra, aveva passato più tempo lì a preoccuparsi di controllare i loro badge uno per uno che in qualsiasi altro luogo. Trasportare il lavoro della clinica in quella stanza le sembrava il minimo. Di tutto pur di sentirsi almeno un po’ più vicina a Clarke.
Lo strano beep si ripeté pochi istanti dopo ed Abby si mise in piedi, prendendo a muoversi verso il maxi-schermo nella stanza con un’espressione di sgomento specchio di quella di alcuni addetti al lavoro proprio in quel momento. Solo allora capì perché quel rumore le sembrasse così familiare: l’aveva già sentito quando i due ragazzi di colore erano deceduti e la telemetria dei loro bracciali era divenuta nulla. Chi altro li aveva lasciati quella volta?
“Non è possibile”.
Quelle furono le uniche parole che riuscì a pronunciare quando i valori azzerati di Brayden Kane e il badge che assumeva un colore grigio smorto le saltarono finalmente agli occhi. Sentì il cuore aumentare i suoi battiti mentre l’avviso COLLEGAMENTO PERSO riempiva a caratteri cubitali la zona badge di Brayden, e gli occhi le si inumidirono automaticamente. Non poteva crederci. Com’era potuto succedere?
“Oh, no. Il Consigliere mi ucciderà”, fu invece tutto ciò a cui riuscì a pensare un giovane tecnico, prendendo a digitare di qua e di là alla ricerca di qualsiasi possibile errore. Solo quando Abby si mosse per fronteggiarlo si rese conto davvero della gravità della situazione, e spaurito come un piccolo gattino bagnato si ritrovò a dire: “Giuro che non ho fatto niente, Dottoressa Griffin. Non è colpa mia. Brayden stava benissimo e l’attimo dopo… boom”.
“Lo so che non c’entri nulla”, lo rassicurò Abby immediatamente, cercando di essere quantomeno convincente. “Ma devi fare di tutto per scoprire cos’è successo. Non può essere morta”.
Quando ebbe finito di parlare, si accorse di essere intenta a sussurrare e capì subito perché. Le paure del nuovo arrivato in sala controllo non erano affatto infondate: se solo la sua unica figlia fosse sul serio morta, Marcus avrebbe ucciso lui e qualunque persona si fosse trovata sul suo cammino. Ecco perché preferiva mantenere la più completa discrezione, almeno finché non sarebbe stata sicura della dipartita di Brayden.
Tuttavia, Abby scoprì subito che il Destino avesse in serbo per lei piani ben differenti. Tutte le persone nella stanza si attivarono immediatamente nelle indagini da lei richieste e si entrò nel più attivo fermento: quando Callie tornò e fu informata della situazione, non le restò altro da fare che riprendere a pregare ancora una volta. Ma fino a quel punto non si presentarono gravi problemi. La situazione precipitò quando fu Marcus Kane a fare il suo ingresso.
“Cosa sta succedendo qui dentro?”, domandò, non appena ebbe notato come il silenzio fosse sceso, imbarazzante e strano, subito dopo la sua entrata in scena.
Tutto era diventato statico e prima ancora che una qualsiasi delle persone all’interno della sala di controllo potesse dirgli qualcosa per distrarlo – qualunque cosa – i suoi occhi scuri sfrecciarono in direzione del maxi-schermo illuminato e la piccola macchia grigia in mezzo a tutti quei colori vivi attirò subito la sua attenzione.
“No…”, mormorò, sperando che non fosse affatto come pensava e che quel badge ingrigito e morto non fosse proprio quello di sua figlia.
Magari semplicemente si ricordava male della sua posizione: okay, un altro dei Cento poteva essere deceduto ma non Brayden. Sfortunatamente, Marcus capì subito quanto le sue preghiere fossero inutili e un altro: “No” abbandonò le sue labbra nel momento in cui scoprì di non essersi sbagliato fin dall’inizio.
“COME PUÒ ESSERE SUCCESSO?”, non gli restò che chiedere, voltandosi di scatto a fronteggiare tutti i presenti nella sala di controllo con un tono di voce così elevato da non passare inosservato a nessuno.
E poi: perché non era stato avvisato? Cosa aspettavano? Prima che potesse continuare ad inveire inutilmente contro tutti e nessuno, Abigail Griffin gli si avvicinò con due grandi falcate e solo quando gli fu di fronte, pose gli occhi nei suoi e gli parlò.
“Adesso calmati”, ordinò, tranquilla così tanto da innervosirlo ancor di più. “Può darsi che il braccialetto di Brayden abbia semplicemente smesso di funzionare. Sono tutti al lavoro per scoprirlo”.
“Sarà meglio così! O lo giuro, ve la farò pag…”.
Marcus”. Riportò immediatamente gli occhi in quelli di lei, ubbidiente. “Se davvero Brayden è andata via, comportarti così non la riporterà indietro. Lei non vorrebbe mai vederti in certe condizioni”.
“Non importa quello che vorrebbe mia figlia. Non più”, soffiò, avanzando in direzione di Abby con aria minacciosa. “Conta ciò che voglio io. Ed è vendetta. Se davvero è morta e l’ha uccisa chi penso, niente e nessuno m’impedirà di agire secondo la legge di «Occhio per occhio, dente per dente»”.
“Appunto. Se. Non è detto che sia morta”.
“E se invece lo fosse?”, si ritrovò a chiedere, con la voce tremante. “Non posso perderla, Abby. Non di nuovo”.
“Non la perderai”, mormorò lei in risposta, sorridendogli mentre gli posava una mano sul braccio e stringeva lievemente le dita sulla stoffa della sua giacca scura. “Brayden sarà sempre con te, in un modo o nell’altro”.
Marcus realizzò solo allora di averla persa sul serio, e le lacrime che aveva trattenuto fino a quel momento scesero insolenti a rigargli le guance. Imbarazzato, distolse velocemente lo sguardo da Abby e lo puntò in una direzione indefinita. Ovunque pur di non guardare la donna di fronte a sé in viso e farsi vedere così da lei. C’erano molte altre persone insieme a lui in quella stanza ma non si curava di loro.
“È tutta colpa mia”, trovò la forza di dire dopo qualche attimo, facendosi lontano da Abby senza più guardarla, portandosi una mano sul viso. “Io stesso ho denunciato i suoi crimini un anno fa. Ho lasciato che mi portassero via la persona che più amavo al mondo e l’ho mandata sulla Terra a morire. Non posso prendermela con nessuno se non con me stesso”.
“Mi dispiace, Marcus”, si limitò a fargli presente Abby, poco prima di raggiungerlo nuovamente e stringere le braccia attorno al suo corpo.
Inizialmente il Consigliere rimase stupito da quel suo gesto ma poi il dolore cancellò tutto e poté sentirsi consolato dal calore che gli stava trasmettendo Abby. Gli era vicina sul serio, come mai prima d’allora. E sentì un po’ della sua tristezza e del suo rimorso scivolare via insieme a lei.
 
 
“Ehi, Murphy…”.
Nemmeno tutto il rumore del mondo sarebbe riuscito a coprire quel richiamo nient’affatto privo di malizia. Sollevai gli occhi lentamente, mettendo a fuoco mano a mano che il mio sguardo saliva la figura slanciata di una ragazza dai lunghi capelli neri e la pelle d’alabastro. La osservai agitare il polso destro in direzione di Murphy, facendogli capire che volesse liberarsi anche lei dal braccialetto che indossava. Poi gli sorrise mentre io, stanca, spostavo lo sguardo su di lui.
Si stava divertendo a sufficienza, il signorino. Bellamy aveva davvero fatto sì che potesse guadagnare qualcosa dalla loro collaborazione e gli aveva proposto di aiutarlo a dirigere il campo, come una sorta di re e principe del posto. Perciò mentre proprio Blake era intento ad incitare la massa affinché più persone possibili decidessero di imitarci, Murphy faceva il lavoro sporco. Avevo ormai perso il conto di quanti braccialetti fossero finiti nella morsa del fuoco scoppiettante di fronte ai miei occhi.
Quando la ragazzetta senza nome fu finalmente libera dal suo bracciale, un altro insieme di urli si levò dalla folla euforica e fu in quel momento di stallo, mentre Bellamy si chiedeva chi sarebbe stato il prossimo e Wells si ritrovava a contatto con quell’ambiente totalmente nuovo e diverso, che decisi di mettermi in piedi per raggiungerli entrambi.
“Dove credi di andare?”, sentii Murphy domandarmi, e bloccata dalla sua mano sul mio polso mi fu impossibile proseguire, perciò l’unica cosa che riuscii a fare fu voltarmi a guardarlo.
Ma mi limitai solo a quello, non pronunciando parola e liberandomi dalla sua presa con uno strattone nient’affatto gentile. Cos’avrei dovuto dirgli? Non gli dovevo spiegazioni e non stavo andando da nessuna parte, fine della questione. Zoppicando, raggiunsi Bellamy e Wells mentre cercavo di ignorare lo sguardo di Murphy puntato su di me.
“Vuoi per caso che moriamo tutti?”, fu la prima cosa che sentii dire al figlio del Cancelliere, quando fui vicina a loro abbastanza da ascoltare ciò che dicevano.
Avrei potuto raggiungerlo ma non lo feci. Al contrario me ne rimasi vicina a Bellamy, apparentemente annoiato dal sermone che mise su Wells poco dopo.
“Il sistema di comunicazione non funziona. Questi bracciali sono tutto ciò che abbiamo. Se li togliete, l’Arca penserà che stiamo morendo e non ci raggiungeranno mai quaggiù”.
“È proprio questo il piano, Cancelliere”.
“Non devi essere d’accordo, Wells. Non ti stiamo chiedendo di togliere il braccialetto”, spiegai, avanzando lentamente nella sua direzione. Ero sincera. “Puoi fare tutto quello che vuoi ma remarci contro non ti conviene. È una guerra inutile”.
“Sappiamo badare a noi stessi anche senza l’aiuto dei grandi, Jaha”, sottolineò ancora Bellamy, con una leggera nota di scherno nella voce.
“Ah sì? E come pensi che sopravvivremo senza agricoltori, dottori o ingegneri?”.
Deglutii.
“Ci inventeremo qualcosa. Bellamy ha ragione: possiamo cavarcela”.
Wells si limitò a scuotere la testa, stupito. Poi lo vidi indietreggiare appena e sollevare gli occhi al cielo poco prima di riprendere a parlare. Nel frattempo, tutto intorno a noi si era fermato: la cerimonia di liberazione dai braccialetti e il baccano ad essa collegato. Se ne stavano tutti in silenzio, concentrati sul nostro dibattito.
“Non ci credo. Come puoi non volere tuo padre qui? Tua nonna? Callie? Non ti manca la tua famiglia?”, sentii che Wells mi domandava, e nel momento in cui ebbe riportato tutte quelle persone alla mia mente potei sentire distintamente qualcosa dentro me incrinarsi.
Ma: “La mia famiglia sono i Cento” puntualizzai, facendo finta di nulla.
“Già. Non la gente lassù, capace di tenervi in isolamento per anni. Non è così che si comporta una famiglia”, mi appoggiò subito Bellamy. “Mia madre è stata uccisa perché ha avuto un’altra figlia. Tuo padre ne è responsabile”.
“Mio padre non ha scritto le leggi”.
“Le ha sempre fatte rispettare. Ma ora è finita. Qui non ci sono leggi”. Anarchia assoluta? Tutti apprezzarono subito il solo suono di quell’idea. “Qui facciamo quello che diavolo vogliamo, quando diavolo vogliamo”.
E lo schiamazzare della folla riprese, mentre i Cento ritornavano ad essere avvolti dalla solita patina di euforia positiva che Bellamy Blake si era rivelato in grado d’instillare dentro tutti. Io stessa sorrisi – seppur non molto convinta – mentre gocce d’acqua cominciavano a scendere dal cielo, bagnandomi completamente. Era pioggia – pioggia vera – ed era quanto di più bello avessi provato fino a quel momento.  
 
 
Il rumore di un ramoscello che si spezzava interrompendo il silenzio benefico nel quale mi ero immersa fece sì che sobbalzassi vistosamente, distogliendo lo sguardo dalla pagina d’agenda piena per metà della mia calligrafia. Stavo scrivendo ancora, bisognosa di sfogarmi nuovamente.
Con assoluta calma, partii con l’inquadrare un paio di anfibi neri e risalii con lo sguardo fino a ritrovare i miei occhi verdi riflessi in quelli di John Murphy. Non ci pensai su due volte e riposi lo sguardo sulla carta dell’agenda, stringendo un po’ di più la penna tra le dita.
“Hai intenzione di tenermi il broncio ancora a lungo?”, furono le prime parole che mi rivolse, non osando nemmeno lontanamente avanzare nella mia direzione ma limitandosi al contrario a poggiarsi di peso contro il tronco di un albero.
Anche se in silenzio, mi ritrovai a ringraziarlo.
“Non ti sto tenendo il broncio”, osservai poi, senza più alzare lo sguardo dal foglio e continuando a scrivere imperterrita.
Tuttavia, potei sentire anche senza guardarlo in viso tutto il suo scherno. Non mi credeva affatto e mi sarei dovuta impegnare sul serio per dimostrarglielo. Cercai il suo viso, donandogli un’occhiata decisa.
“Dico sul serio”.
Lui di tutta risposta si limitò a fare spallucce, poi allontanò la schiena dal tronco dell’albero contro il quale era stato poggiato per tutto quel tempo e mosse un passo nella mia direzione. Automaticamente, le mie gambe scattarono a coprirmi il petto.
“Sei scappata da Bellamy e Wells, prima. E non appena il vostro dibattito si è concluso, sei letteralmente sparita”, mi fece notare subito, leggermente risentito. “Se non sei incazzata con me, allora con chi?”.
Sospirai, chiudendo penna e agenda prima di metterle da parte. Murphy mi raggiunse, sedendosi accanto a me sul terreno fresco e appoggiando la schiena contro il tronco dello stesso albero che stavo usando io come sostegno. Poi cercò di nuovo i miei occhi, in attesa di una risposta.
“Non sono incazzata”, mormorai allora, tirandomi indietro i capelli e stringendoli tra le dita. “Solo turbata”.
“Per qualcosa che ho fatto io?”.
Sorrisi lievemente.
“No”, lo rassicurai, donandogli uno sguardo veloce. “Per le persone che ha riportato Wells alla mia mente”.
Come al solito, capì subito.
“Tuo padre?”, domandò infatti, con un tono di voce improvvisamente più che serio.
Mi limitai ad annuire, puntando gli occhi verso un punto morto. Ovunque pur di nascondere come d’un tratto fossero stati capaci di riempirsi di lacrime. Mi morsi le labbra, sperando che la voce non venisse fuori tremolante come mi aspettavo.
Ma il mio: “Mi manca, Murphy…” tradì perfettamente qualsiasi emozione stessi provando in quel momento e il rendermi conto di tutta la vulnerabilità che stessi mostrando mi strappò un gemito di frustrazione.
Mi portai una mano alle labbra, sconfitta.
“Dopo come ti ha trattata?”.
“È patetico, vero?”, fu tutto ciò che riuscii a domandare, voltandomi a cercare il viso di Murphy per donargli un mezzo sguardo da dietro la chioma rossa che aveva deciso di farmi da scudo. “Faccio e dico come se non m’importasse, ma sto già cedendo”.
“Non è patetico. È umano”.       
Umano. Era ciò che ero, no? Una povera umana che continuava a mentire a se stessa e agli altri per non mostrarsi debole al resto del mondo, che continuava a ripetersi che ce l’avrebbe fatta pur mentre falliva. Una piccola umana dotata di un cervello ma anche e soprattutto di un cuore: che batteva, sanguinava e cedeva sotto il peso di tutti i dolori della vita.
“Non voglio sentirmi così…”, gli feci presente al contrario, per nulla rincuorata dalla mia condizione.
Numerose altre lacrime scesero giù a rigarmi le guance e non mi sforzai più di trattenerle, limitandomi a chinare il capo affinché i miei capelli potessero nuovamente coprirmi il viso e vanificando perciò il gesto compiuto da Murphy per posizionarli ordinatamente dietro le mie orecchie.
Solo per un attimo mi chiesi come avrebbe reagito lui di fronte a quella scena, come si sarebbe comportato. Non m’importò poi molto di rovinare la mia reputazione di Regina dei Ghiacci senza cuore, mi domandai solo cos’avrebbe fatto. Se sarebbe rimasto o se al contrario avrebbe deciso di scappare via a gambe levate, lontano da quella scomoda quanto imbarazzante situazione. Ebbi la mia risposta relativamente presto.
“Ehi”, lo sentii infatti richiamarmi, mentre provava ancora inutilmente a scostarmi i capelli dal viso.
Singhiozzai ancor più violentemente, non potendo né volendo evitarlo. Ma quando sentii le braccia di Murphy avvolgersi attorno al mio corpo e spingermi contro il suo petto, i miei gemiti incontrollati si bloccarono – anche se solo per un attimo – e un vago senso di calore e protezione riuscì inaspettatamente a donarmi pace.
“G-Grazie”, fu dunque l’unica cosa che riuscii a dire, tirando su col naso ed asciugandomi le guance col dorso delle mani. Non ricevetti risposta, perciò mi limitai a godermi il calore di quell’inaspettato abbraccio finché la domanda che mi ballonzolava in testa da almeno un po’ non cominciò a pretendere di venir pronunciata. Allora mi arresi. “Chi sei veramente, John Murphy?”.
In risposta ricevetti solo silenzio. Improvvisamente tutto sembrava essersi fermato e anche dal campo non proveniva più alcun rumore, come se tutti nel raggio di metri fossero nell’attesa di quella risposta che – sapevo – non sarebbe arrivata. Non se non avessi insistito di più.
“Quando nessuno guarda ti trasformi, praticamente. Sei un’altra persona”, mormorai infatti, col viso schiacciato contro la calda giacca di Murphy. Ringraziavo che mi avesse stretta a sé non solo perché così sentivo meno il bisogno di piangere per tutto ciò che di sbagliato c’era nella mia vita, ma anche perché da quella posizione non ero costretta a guardargli il viso e il coraggio per continuare a parlargli non m’abbandonava. “Mi chiedo quale sia il tuo vero essere”.
“A te quale faccia della medaglia piace di più?”.
Sbuffai divertita, tirando nuovamente su col naso mentre i miei occhi chiari vagavano tutt’intorno a me.
“Che domanda stupida”, sussurrai, sorridendo debolmente.
“A me piaci di più quando fai venir fuori il tuo lato da ragazzaccia. Ti trovo piuttosto sexy”.
Roteai gli occhi.
“Tipico. Cerchiamo tutti qualcuno i cui demoni vadano d’accordo coi nostri”.
Sentii Murphy ridacchiare e per un solo attimo, qualcosa mi sussurrò di imitarlo. Nonostante tutto, per quanto sbagliato fosse, mi sentivo bene.
“I miei demoni sarebbero davvero felici di stringere amicizia coi tuoi, Ginger”, sentii che, dopo un po’, mi spiegava.
Fu solo quando smise di parlare che un’ultima lacrima rotolò giù lungo la mia guancia e subito la spazzai via con un gesto veloce della mano. Preferivo fingere che niente di tutto quello fosse successo e ripetermi che non avevo nessun valido motivo per piangere ancora: non in quel momento. Al contrario, tirai fuori un sorriso e sibilai divertita: “Scemo”.



 
_______________________________
 
Ringraziamenti
A Christina Perri per 
Human che è il titolo/canzone citata di questo terzo capitolo.
A
 bone4tuna, per la recensione che ho apprezzato moltissimo.
A chi ha messo questa storia tra le seguite.

Note
Nel fandom la mia storia viene evitata come la peste per un motivo a me ignoto e non vi nascondo che ciò mi aveva fatto prendere in seria considerazione l'idea di cancellarla. Tuttavia mi è bastato vedere la 2x01 per cambiare idea e rendermi conto che no, l'importante non è il seguito e assolutamente non cancellerò questa storia finché non sarò più in grado di scriverla (cosa che, grazie a Dio, non è ancora successa. Ho ancora troppe idee per la testa e non ci rinuncerò molto facilmente perché col tempo ho imparato a capire che devo scrivere per me e solo per me).
Dopo questo sfogo, per il quale vi chiedo scusa, passiamo al capitolo. Da come avrete visto, adesso sull'Arca credono che Brayden sia morta mentre la signorina sta benissimo (per ora... ç_ç) e comincia a vedere i suoi nuovi compagni sotto luci sempre diverse. Difatti ha riconsiderato la persona di Bellamy (solo perché i loro scopi sono affini, ci tengo a precisarlo) e vorrei dirvi dove andrà a finire il loro rapporto ma il problema è che NON LO SO. XD 
Inoltre Brayden e Murphy continuano a "legare" e in questo capitolo li vediamo ancora più vicini (cosa che, ve lo spoilero, credo degenererà nel prossimo). Mi piacerebbe sentire tutti i vostri pareri al riguardo perché non voglio che le cose vi sembrino affrettate, per me sarebbe una sconfitta. ç_ç Ci tengo inoltre a specificare che, dato che me l'hanno fatto notare, finora il rapporto tra i due (soprattutto il fatto che sia Murphy ad avvicinarsi a Brayden) è spinto solo e semplicemente dall'attrazione fisica in primis e dal fatto che per Murphy, Brayden è un soggetto interessante. Non c'è ancora assolutamente amore né niente del genere, è troppo presto per parlarne e lo so benissimo. :)



 

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Capitolo 4
*** By now ***


 
 
4.    BY NOW
 
 
I used to be somebody else. Until her.
Then everything changed.
Whatever she wanted, I wanted.
And nothing else mattered, because we were in love.
 

La mattina dopo aprii gli occhi nello stesso identico posto in cui mi ero isolata la sera prima, seguita da Murphy. Dire che avessi avuto un sonno disturbato sarebbe stato un eufemismo, ma non potevo incolpare nessuno per quella cosa: era stata scelta mia restarmene lì all’aperto finché le lacrime non mi avevano sfinita invece di rifugiarmi in tenda.
Lentamente mi misi seduta sul terreno umido, massaggiandomi il collo indolenzito e guardandomi intorno. Ero sola, ma non v’era traccia di malumore in me, nonostante tutto. Al contrario, il sole colpevole di avermi risvegliata quella mattina, mi metteva addosso una sensazione di benessere davvero inusuale. E, come se non bastasse, un caldo piacevole riempiva l’aria, tanto che mi sfilai la giacca più che volentieri.
Fu solo quando rimasi in canotta che pensai nuovamente al mio polso martoriato, osservandolo bene in tutti i suoi graffi e rossori. Decisi che l’avrei bagnato con un po’ d’acqua e mi incamminai di buon grado verso un piccolo torrente che avevo scovato il pomeriggio prima. Quando su una delle rive trovai inginocchiato Wells Jaha, la sorpresa prese possesso del mio corpo.
“Ehi, Wells!”, lo richiamai subito, alzando la voce affinché mi sentisse, dal momento che ancora non ero riuscita a raggiungerlo.
Dire che avessimo un bel rapporto sarebbe stato esagerato, ma la sua compagnia mi era sempre piaciuta, così come i sorrisi comprensivi e gli sguardi d’assenso che eravamo soliti scambiarci sull’Arca. I nostri genitori erano stati amici da sempre e anche noi, in un certo qual modo, avevamo imparato a costruire qualcosa.
Ma quella mattina non ci furono sorrisi né sguardi. Wells nemmeno si voltò a guardarmi, cosa che mi riempì di preoccupazione finché non lo raggiunsi, inginocchiandomi accanto a lui. Fissava il corso d’acqua con occhi persi e capii subito fosse successo qualcosa.
Ma: “Va tutto bene?”, domandai, cauta e decisa a procedere per gradi.
Posai una mano sulla spalla di Wells e lo sentii sobbalzare. Solo allora si voltò a guardarmi e mi sembrò sorpreso dal vedermi lì, proprio come se fino a quel momento non fosse riuscito ad accorgersi della mia presenza. Ma il peggio arrivò quando si scostò dal mio tocco, quasi schifato.
“Cosa diavolo vuoi?”, sputò anche, riservandomi un’occhiata astiosa.
A quel punto fui io a sobbalzare. Wells non mi si era mai rivolto in quel modo.
“Che ti prende?”.
“Che mi prende? Mio padre pensa che io sia morto: ecco che mi prende!”.
Quelle parole arrivarono come un fulmine a ciel sereno. Mi lasciarono tramortita, in preda a scongiuri silenziosi di aver capito male. Per quanto lo volessi, non trovai la forza di parlare. Mi limitai a scattare in piedi e boccheggiare, facendomi lontana da Wells, che speravo avrebbe continuato a spiegarsi. Cosa che in effetti fece.
“E sei proprio una stronza a comportarti come se niente fosse dopo ciò che i tuoi cari amici mi hanno fatto stanotte!”, aggiunse, dando una conferma a ciò che – in quel momento – temevo più di ogni altra cosa.
“No…”, fu tutto ciò che riuscii a mormorare, coprendomi le labbra con una mano. Rischiavo di rimettere. “Ti giuro che non ne sapevo niente, W-Wells”.
La voce mi tremò, inaspettatamente. Ma per quanto mi stessi impegnando, Jaha non colse la mia sincerità e continuò a guardarmi male. La sua espressione ferita fu ciò che mi colpì di più.
“Certo, come no”.
“Mi dispiace moltissimo”, mormorai semplicemente, incapace di dire e fare altro. “Bellamy non avrebbe dovuto”.
“Né lui né gli altri”, borbottò Wells, ma poi aggiunse, stupito dalla mia espressione sconvolta: “Che c’è? Non credevi mica che avesse agito da solo? È un buono a nulla, senza i suoi scagnozzi”.
Murphy ha contribuito. Fu questa la prima cosa che pensai e nuovi conati di vomito mi agitarono lo stomaco. Disgustata, distolsi lo sguardo da Wells.
“«Tutto quello che diavolo vogliamo». Come no”, sibilai, stringendomi le braccia al petto.
Parlavo tra me e me, tant’è che Wells nemmeno provò a rispondermi. Ma quando gli voltai le spalle e feci per andarmene, la sua voce mi bloccò ancora una volta.
“Brayden”, chiamò flebilmente, sollevando di poco lo sguardo sul mio viso. “sta’ lontana da quei tipi”.
Prima di andarmene annuii. Ma sapevo già che non avrei mantenuto la promessa. Almeno finché non l’avessi fatta pagare a tutti.
 
 
“Cosa ne è stato di: «Tutto quello che diavolo vogliamo»?”.
Dire che fossi infuriata non avrebbe reso il concetto nemmeno lontanamente. Subito dopo aver lasciato Wells al fiume avevo cominciato a correre a perdifiato verso nemmeno sapevo io dove. Volevo trovare Bellamy e riversargli addosso tutta la rabbia che avevo in corpo e che m’impediva di pensare lucidamente, ma scoprii ben presto che il Destino avesse in serbo per me piani ben differenti. Correndo senza lasciarmi distrarre da niente e nessuno, infatti, il viso di John Murphy fu l’unico che catturò la mia attenzione e allora lo raggiunsi velocemente, scaraventandogli addosso tutta la mia rabbia e frustrazione. Lo spinsi con entrambe le mani sul petto così forte che lui barcollò lievemente all’indietro, purtroppo non così tanto da cadere. Ma perlomeno il mio urlo disumano lo spaventò, perché lo vidi distintamente sobbalzare. Cosa che ovviamente cercò di nascondere, fingendo tranquillità.
“Buongiorno anche a te, Ginger”, disse infatti, provando anche a rifilarmi il solito mezzo sorriso che già odiavo non poco.
Mentre lui indietreggiava con nonchalance, allontanandosi da me e provando a non farmi capire quanto fosse in realtà spaventato, io mossi l’ennesimo passo nella sua direzione, senza lasciargli via di scampo. C’era gente attorno a noi: ragazzi coi quali non avevo avuto occasione di parlare ma che conoscevo di vista perché appartenenti, come me e tutti, agli Spalti del Cielo. Ma nessuno ci dava retta sul serio, forse perché era evidente che per nessun motivo al mondo avrei voluto essere disturbata.
“Wells non voleva togliere il bracciale!”, aggiunsi, urlando e spintonandolo ancora.
Ma quella volta fu lui a cogliermi di sorpresa, tanto che quando Murphy mi impedì ogni tipo di movimento afferrandomi i polsi così velocemente che a malapena me ne accorsi, inspirai bruscamente, spaventata. Non mi stringeva granché, ma il mio polso destro era ancora rosso e dolorante, tanto che non potei trattenere un gemito di dolore. Non appena Murphy capì mi lasciò libera, scoccandomi un’occhiatina dispiaciuta.
Mentre riprendeva a sparare cazzate come suo solito, mi feci lontana dalla sua figura.
“Mi piace che tu mi tocchi sempre un sacco”, osservò infatti, mentre mi massaggiavo lievemente il polso. Coglione. “È maleducato, certo, ma in fondo le cattive ragazze mi sono sempre piaciute”.
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso, e ancora una volta presi la rincorsa verso il suo corpo e feci per aggredirlo, evitando però di farlo – chissà perché – quando mi ritrovai col viso a pochi centimetri dal suo.
“Non hai idea dell’immensa voglia che ho di toccarti. Per ucciderti di botte!”, urlai con tutto il fiato che ancora avevo nei polmoni. “Proprio come avrai sicuramente fatto tu con Wells, stanotte”.
“D’accordo, Ginger, adesso frena. Non l’ho nemmeno sfiorato, l’amichetto tuo”.
Quella scoperta non mi tranquillizzò affatto.
“Ma gli hai tolto il bracciale! E questo perché? Perché Bellamy te l’ha ordinato e tu hai ubbidito subito, da bravo cagnolino scodinzolante!”, continuai ad urlare difatti, furiosa e amareggiata. “Mi fai schifo!”.
Provai ancora a spintonare Murphy, ma anche quella volta il mio tentativo andò a vuoto e provai l’immediato impulso di scoppiare a piangere. Sapevo che non avrei ceduto molto facilmente, anche se in quel momento quella mi sembrava l’unica cosa giusta da fare. Piangere e sfogarsi, abbandonandosi completamente alla tristezza data dalla consapevolezza di aver sperato che Murphy fosse una persona migliore di ciò che decideva di mostrare. Illusa.
“Bellamy ha le sue idee ed io le condivido. Proprio come mi era sembrato che facessi tu”, sentii che mi diceva e il modo che aveva di mantenere la calma assoluta, nonostante tutto, mi stupì ancor di più.
“Bellamy è solo un bugiardo”, sputai, sempre più vogliosa di lasciarmi andare alle lacrime, accasciarmi a terra e provare a superare la cosa così.
Ma la domanda che mi pose Murphy subito dopo catturò nuovamente tutta la mia attenzione e scacciò via almeno per un po’ quei pensieri deleteri, tanto che alla fine non seppi se avrei dovuto ringraziarlo o meno per quella cosa.
“E lui non ti fa schifo?”, volle sapere infatti, e mi resi conto di doverci pensare prima di poter rispondere.
Non così a lungo, però, tant’è che compresi subito ciò che sentivo.
“Non più di te”, mormorai, forse scoprendomi un po’ troppo perché era chiaro che di Bellamy e delle sue involuzioni varie non potesse fregarmene poi molto. Ma Murphy… “Che delusione”, soffiai, distogliendo dopo quelli che mi erano sembrati secoli lo sguardo dal suo viso.
E allora feci per scappare, ormai convinta del fatto che non ci fosse nient’altro da aggiungere. Non c’era niente che si potesse fare o dire per porre fine o rimedio a quella dolorosa situazione, perciò perché provarci ancora? Meglio allontanarsi e basta.
Ma ovviamente Murphy me lo impedì.
“Si può sapere dove vai?”, chiese, afferrandomi un polso – quello non ferito, per fortuna.
Stretta nella sua morsa poco gentile fui costretta a voltarmi di nuovo a fronteggiarlo e nel farlo sperai solamente di riuscire a nascondergli tutte le emozioni che stavo provando. Ma dubitavo che i miei occhioni verdi oramai pieni di lacrime potessero simulare qualcosa che non fosse profondo dolore.
“Via da qui. Mi lasci, per favore?”.
“Solo se mi dici perché ti comporti così”.
Gemetti. Perché? Voleva sapere perché?
Feci per rispondergli subito, ma un groppo in gola me lo impedì. Le lacrime spingevano per uscire sempre più forte, ma non le avrei lasciate vincere ancora una volta, perciò mi limitai a deglutire e distolsi lo sguardo dal viso di Murphy quel tanto che bastava a spazzare via dai miei occhi le lacrime in eccesso senza che lui se ne accorgesse. Sbattei le palpebre velocemente, cercando di riacquistare una vista più chiara e meno appannata.
Poi: “Wells non voleva”, sussurrai semplicemente, ritornando a fronteggiare gli occhi azzurri di Murphy.
Non appena ebbi finito di parlare fu lui ad esplodere, mostrando finalmente di avere sentimenti e provare emozioni proprio come me. Mentre mi lasciava andare il polso velocemente io mi limitai a fissarlo quasi sbalordita: pur sapendo che avrei dovuto approfittarne per scappare non lo feci, al contrario me ne rimasi – rapita – ad ascoltare ciò che urlò.
“Oh Dio! Wells, Wells, Wells! Sempre e solo lui! Non voleva? D’accordo! Però perché non pensi a cosa diavolo vuoi tu?”.
Sii egoista. Questo avrebbe voluto dirmi e lo sapevo benissimo. Ma non lo fece, proprio come io non provai a cercare una risposta alla sua domanda. Sapevo che per averne una avrei dovuto guardare a fondo dentro di me e sapevo cosa avrei trovato nascosto alla bell’e meglio sotto kili di spavalderia e menefreghismo se l’avessi fatto. Ma non c’era bisogno che lo sapesse anche Murphy.
Perciò mi limitai a deglutire, gli occhi ancora una volta pieni di lacrime. Quella volta avrei lasciato che vincessero loro, ancora, e la cosa mi fece sentire nuovamente sconfitta. Era assurdo come mi atteggiassi da ragazzina coraggiosa quando bastava una semplice domanda o solo un nome per farmi cedere.
“Non saprei nemmeno da dove incominciare”, sibilai quando sentii la prima di molte altre lacrime scendere giù a rigarmi una guancia.
Tutt’a un tratto c’eravamo solo io e Murphy: soli, l’uno di fronte all’altra, circondati dal silenzio più assoluto. In quell’ambiente, il mio sussurro si presentò alle orecchie di John come un urlo – una disperata richiesta d’aiuto alla quale lui non aveva idea di come dover rispondere.
Forse fu per questo che reagì nell’unico modo che mai mi sarei aspettata. Ancora non lo so, né volli pormi domande in quell’esatto momento.
Semplicemente me ne rimasi inerte di fronte a lui, col viso bagnato dalle lacrime, indifesa sotto il suo sguardo azzurro. Lo osservai colmare la distanza che ci divideva con un’unica e sola falcata, lo sentii stringermi il viso tra le mani prima ancora che me ne potessi rendere conto pienamente e infine sfiorarmi le labbra con le sue. Un bacio non era ciò che mi serviva in quel momento, eppure sulle prime non riuscii a rinunciare a quel piacevolissimo contatto.
Semplicemente mi lasciai trasportare, ancora inerme e come fuori dal mondo. Come se non fossi io quella che stava baciando un ragazzo che conosceva appena e dal quale – sapevo – avrei fatto meglio a stare alla larga.
Ma infine la situazione cambiò e qualcosa si smosse – a mio favore, oserei dire. Recepii semplicemente i polpastrelli di Murphy sfiorarmi le guance nel tentativo impacciato di asciugarle dalle mie lacrime poco prima che decidessi – con qualche sforzo, lo ammetto – di farmi lontana dalle sue labbra. Descrivere il “dopo” come qualcosa d’imbarazzante non renderebbe il concetto nemmeno minimamente.
Io e Murphy, sempre l’uno di fronte all’altra, coi respiri affannati e gli occhi incollati al terreno pur di non doverci affrontare a vicenda. Ridotti alla stregua di due ragazzini alla prese con la prima cotta. Io. Ridotta così. Per lui.
Era tutto così imbarazzante che non volli più pensare ad altro né farmi ulteriori domande. Semplicemente mi sfiorai le labbra in punta di dita un’ultima volta prima di scappare via – ahimè, piacevolmente sorpresa.
Quel bacio inaspettato mi era piaciuto più di quanto non volessi ammettere.

 
 
“Perché sei qui, Abby?”.
Quattro semplici parole e i gesti in apparenza rilassati e tranquilli di Abigail Griffin s’arrestarono immediatamente. La Dottoressa soffocò un singulto che l’avrebbe scoperta fin troppo, ma non si sforzò ulteriormente di fingere nonchalance. Thelonius ormai aveva capito tutto.
“Entrambi sappiamo che avresti potuto mandare un apprendista”, aggiunse infatti, confermando la sua tesi.
Abby sospirò, muovendo tanti passi nella sua direzione quanti gliene bastarono a sedergli di fronte. Recuperò un nuovo pezzo di garza e ne tagliò a sufficienza per la medicazione del Cancelliere. Lui la guardava muoversi come se nulla fosse, nell’attesa che Abby trovasse il coraggio di parlare. Cosa che successe di lì a poco.
“Kane sta organizzando una riunione segreta del Consiglio per votare sull’eliminazione”, spiegò, cominciando allo stesso tempo a lavorare sulla medicazione. Doveva trovare qualcosa con cui distrarsi dal viso colmo d’emozioni contrastanti di Thelonius, e lo sapevano bene entrambi. “Devo sapere da che parte stai”.
Era venuta per quello, quindi.
“Non ho diritto di voto, Abby”.
“Gli altri ti ascolteranno comunque”.
“Tu no”.
Abigail soffocò una risatina vagamente divertita. Era impossibile uscire vincitrice da uno scontro verbale con Thelonius Jaha e lei lo sapeva ormai fin troppo bene. Tuttavia, nulla le aveva mai impedito di provare ad avere sempre l’ultima parola.
“Ti ascolto quando sei d’accordo con me”, mormorò ironica e già alle prese con una nuova medicazione.
Quel mestiere le riusciva troppo bene, com’era giusto che fosse.
All’ennesimo faticoso respiro di quella giornata, il Cancelliere trattenne un gemito di dolore. Fino a quel momento la conversazione con Abby era stata anche piacevole, ma sapevano bene entrambi che la cosa non sarebbe durata a lungo. Inevitabilmente, il discorso si sarebbe fatto serio e i due avrebbero preso a discutere. Thelonius avrebbe preferito evitare la cosa, anche se sapeva di dover dire ad Abby la verità nuda e cruda perché lei decidesse – finalmente – di cominciare a vedere le cose per com’erano sul serio.
“I depuratori di CO2 si stanno già guastando. I sintomi di mancanza d’ossigeno si vedono ovunque. Soprattutto nei bambini, che moriranno per primi”.
“Non devi dirmelo”.
“Certo che devo!”, esclamò Thelonius, alzando la voce istintivamente. Doveva dirglielo perché Abby si rendesse davvero conto della cosa. “A meno che non agiamo per ridurre la popolazione, tutti gli abitanti dell’Arca moriranno nel giro di quattro mesi”.
A sua volta, Abby s’infuocò.
“Abbiamo già agito!”, urlò, mettendosi in piedi con uno scatto repentino. “Abbiamo mandato cento ragazzini sulla terraferma! Dobbiamo dare loro tempo”.
Settantasei ragazzini sulla terraferma, Abby”, l'interruppe Thelonius, visibilmente amareggiato. “Ventiquattro di loro
– inclusi mio figlio e Brayden Kane –  sono già morti”.
“Non credo…”.
“Io sì, invece! E anche Marcus, per quanto abbia provato ad avere la speranza dalla quale ti fai guidare tu”. Ancora una volta, e poi ancora, Abby venne interrotta. “Sfortunatamente, la speranza non è sufficiente. Non quando c’è in gioco la fine del genere umano”.
Forse aveva ragione lui, forse no. Thelonius non avrebbe saputo dirlo. Ma era comunque sicuro del fatto che Abby non sarebbe mai e poi mai stata d’accordo con lui.
Passarono interi minuti di silenzio teso e pesante prima che due tocchi leggeri sulla porta interrompessero quel fastidioso momento di stallo, introducendo in scena la figura curiosa di Marcus Kane. Fu allora che tutto riprese a scorrere ed Abby si mise in piedi, lisciando nervosamente pieghe invisibili sul calzone scuro.
“La speranza è tutto”, si limitò a dire, intenta a raccattare le sue cose prima di andar via. “E il Cancelliere per cui ho votato lo sapeva”.
 

“Wells!”.
Scollai gli occhi chiari dal terreno sotto i miei piedi solo dopo quell’urlo proveniente dalla mia sinistra, direzione nella quale diressi subito lo sguardo. Volevo scoprire chi avesse strillato il nome del figlio del Cancelliere Jaha con tanta foga e soprattutto perché. Non so ancora spiegarmi il motivo, ma nel trovarmi di fronte Clarke Griffin non rimasi stupita più di tanto.
Se solo non avessi capito il perché della sua agitazione probabilmente le avrei sorriso allegramente, felice del fatto che fosse tornata così presto – e soprattutto sana e salva – dalla missione “recupero cibo” che io invece avevo dovuto abbandonare a causa della mia goffaggine. Le cose comunque non andarono così: istintivamente seguii il suo sguardo e soprattutto i suoi passi affrettati finché non mi ritrovai di fronte una scena che davvero avrei preferito non vedere.
Mi ero aspettata che una cosa del genere succedesse fin dal primo momento, ma mai avrei immaginato che le cose potessero finire così proprio mentre io ero lontana dal campo e soprattutto, le mie difese erano completamente calate.
“Lascialo andare!”, ordinò Clarke quand’ebbe raggiunto il suo migliore amico, seguita da Finn, presenza confortante, sempre alle sue spalle.
Non mi resi conto di aver inseguito entrambi verso quella scena finché Wells non fece come gli era stato detto, liberando Murphy dalla sua presa con uno spintone. Capii di essergli vicina solo quando fui costretta a scansarmi affinché non mi colpisse – anche se sapevo che non l’avrebbe mai fatto; non volontariamente. Lui era consapevole del fatto che fossi lì: mi aveva scrutata a lungo nell’attesa di capire cosa mi stesse passando per la testa in quell’esatto momento e prima ancora che Wells lo liberasse mi aveva addirittura lanciato un sorrisino dei suoi. Come se niente stesse succedendo. Come se non avesse un coltello puntato alla gola e la vita in pericolo.
Non lo capivo, Murphy. La paradossale immagine della calma e della tranquillità. Solo con me, però.
A malapena riuscii a completare quel pensiero che Murphy lo confermò. Non attese nemmeno di rimettersi in piedi correttamente prima di scagliarsi nuovamente su Wells, con una foga che raramente gli avevo visto addosso. Voleva fargliela pagare – già da un bel po’ di tempo – e sapevo che non sarei riuscita a fermarlo, immobilizzata com’ero dal terrore che quella situazione stava facendo crescere in me.
Tuttavia provai a fare qualcosa, scattando nella sua direzione – forse un po’ troppo tardi, però. La velocità era una cosa che non riuscivo più a controllare, proprio come i miei riflessi. Comunque fortuna volle che non si potesse dire altrettanto di Bellamy Blake.
“Ehi!”, lo sentii urlare, mentre lo vedevo frapporsi fulmineamente tra Wells e Murphy e arrestare la corsa di quest’ultimo verso il suo nemico con entrambe le braccia. “Basta, Murphy”.
Non so ancora spiegarmi perché, ma lui ubbidì. Semplicemente smise di opporre resistenza e Bellamy lo lasciò andare per correre da Octavia, che si muoveva nella direzione di quella scena a dir poco surreale zoppicante proprio come lo ero stata anch’io.
A quel punto né Murphy né Wells sembravano intenzionati a combattersi ancora, ma l’aria era comunque così piena di tensione che all’improvviso mi sentii cogliere da una scintilla d’imbarazzo così forte che non seppi più dove avrei dovuto guardare – o chi.
Clarke? Coi suoi occhioni azzurri dall’aria indagatrice puntati su di me? Sembrava urlarmi: “Dov’eri per evitare che tutto questo succedesse?”. Non avevo la forza di provare a risponderle.
Wells? Con la sua solita aria da vittima degli eventi? Mi sentivo addosso il suo sguardo deluso – sapeva che ancora una volta non mi sarei schierata dalla sua parte – e mai e poi mai avrei voluto affrontarlo in quel momento.
Murphy? Col viso tumefatto e sanguinante capace – nonostante tutto – di riportarmi alla mente ricordi che, se non fossi stata così preoccupata per lui, mi avrebbero fatta arrossire come una ragazzina? No. Anche no.
Ecco perché spostai i miei occhi su Bellamy. Poi su Octavia, Monty, Finn e… E basta. Non c’era più nessuno.
All’improvviso, quella consapevolezza fece scattare dentro di me un preoccupante campanello d’allarme. Mancava qualcuno.
Per la missione “recupero cibo” eravamo partiti in sette. Wells e Bellamy erano rimasti al campo, posto nel quale io e Murphy li avevamo raggiunti piuttosto presto. Sette meno due: cinque. Cinque ragazzi. Clarke, Finn, Octavia e Monty. Quattro.
Mancava qualcuno. Arrivata a quel punto non si trattava più di un dubbio, ma di una certezza. Subito un istintivo moto di agitazione mi strinse lo stomaco in una morsa mentre – dopo aver radunato tutto il coraggio a disposizione – mi voltavo a cercare lo sguardo di Clarke, col respiro corto.
“Manca…”, sibilai a fatica, attirando con quella semplice parola gli sguardi di tutti su di me.
Avevo interrotto un discorso che nemmeno m’ero scomodata ad ascoltare, ma non me ne dispiacqui. Piuttosto provai a proseguire, salvo rendermi conto poi del fatto che non ricordassi il nome del ragazzo mancante. Né il suo viso, a dirla tutta.
“Manca qualcuno?”, conclusi quindi, ponendo quella che avevo pensato come un’affermazione con un tono invece così interrogativo che causò confusione in alcuni e nervosismo in altri.
Mi sembrò che passassero minuti interi di silenzio teso prima che qualcuno si decidesse a darmi una qualsiasi risposta, eppure fu questione di pochi secondi. Quando Finn Collins mi parlò, mi resi conto di aver trattenuto il fiato fino a poco prima che udissi il suono della sua voce.
“Jasper”, confermò, annuendo nella mia direzione mentre io mi sentivo sempre più addosso tutto il peso di quegli ultimi sviluppi.
Credetti che avrebbe continuato a spiegarmi la cosa, donandomi informazioni utili e salvandomi dalla morbosa voglia di sapere cos’era successo ad un altro dei miei compagni. Eppure Finn non proseguì oltre e a me non restò altro da fare che continuare a fissarlo inebetita finché Clarke non parlò al posto suo, attirando su di sé tutta la mia attenzione.
“È stato colpito”, raccontò, prendendo un grosso respiro prima di continuare dicendo: “Non siamo soli quaggiù”.
Inutile dirlo, il peso delle mie preoccupazioni aumentò ancor di più. Ormai lo sentivo schiacciarmi lo stomaco come un masso di pietra e ancora una volta avvertii il respiro venirmi meno. Forse Finn se ne rese conto, ecco perché riprese a parlare velocemente, nella speranza piuttosto vana di attirare la mia attenzione e distrarmi.
“Pare che l’ultimo uomo nato sulla Terra e morto sull’Arca non fosse poi… l’ultimo”, spiegò, e in seguito a quelle parole uno sbuffo divertito m’abbandonò inaspettatamente le labbra.
Era assurdo. Tutto. Davvero.
“Della gente è sopravvissuta quaggiù per quasi un secolo?”, domandai infatti, incredula a dir poco. Finn si limitò semplicemente ad annuire. “E adesso ci vuole morti?”.
Non c’era risposta valida che potesse darmi e lo sapevamo entrambi, ecco perché si limitò a muoversi impacciatamente sul posto mentre il silenzio scendeva a farci compagnia ancora una volta. Sapevo che avrei dovuto chiedere qualcos’altro o provare a fare qualcosa – qualsiasi cosa – eppure non ci riuscii: semplicemente me ne rimasi zitta finché Clarke non pose fine a quella strana situazione.
“Dov’è il tuo bracciale?”, la sentii chiedere a Wells, dopo che ebbe lanciato una veloce occhiata al suo polso.
Istintivamente, nascosi il mio dietro la schiena e mi morsi un labbro, colpevole.
“Chiedilo a lui”, mormorò Wells semplicemente, indicando Bellamy con un cenno del capo.
Clarke seguì la direzione del suo sguardo e spostò gli occhi azzurro cielo sulla figura imperturbabile di Bellamy. Nei secondi che precedettero la sua successiva battuta mi venne spontaneo trattenere il respiro: ero convinta del fatto che di lì a poco Clarke sarebbe esplosa e che nulla avrebbe potuto calmarla di nuovo.
Ma: “Quanti?”, si limitò a sibilare lei semplicemente, gli occhi ancora fissi sul viso di Bellamy e un’espressione delusa nascosta alla bell’e meglio.
Bellamy non rispose. Murphy sì.
“Ventiquattro, e stanno aumentando”, osservò tranquillissimo mentre avanzava nella mia direzione, guadagnandosi l’ennesima occhiata imbarazzata – e sulla difensiva – di quella giornata.
“Che idioti”, sputò Clarke all’improvviso, distogliendomi dai miei pensieri.
Stava per esplodere. C’avevo visto giusto. Ma mai avrei immaginato che ciò che avrebbe detto mi avrebbe fatta vacillare così tanto da chiedermi se avessi fatto bene a disfarmi del bracciale per nient’altro che un capriccio.
“Il supporto vitale sull’Arca sta terminando”, cominciò, spiazzandomi però del tutto con ciò che aggiunse di lì a poco. “Per questo ci hanno mandati quaggiù. Devono sapere che è di nuovo possibile vivere sulla terraferma per poterci raggiungere in futuro, e noi abbiamo bisogno del loro aiuto contro chi è qui! Se vi togliete i bracciali non ucciderete solo loro… Ucciderete anche noi”.


 
_______________________________
 
Ringraziamenti
Ai Marianas Trench che sono TUTTO e che ormai inserisco in tipo ogni cosa che scrivo. E, ovviamente, alla loro By now.
bone4tuna, Little Redbird e Marti Lestrange.
Io vado a nascondermi da qualche parte, addio.

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Capitolo 5
*** I believe ***





5.    I BELIEVE

 

I have died so many times, but I am still alive.
I believe that tomorrow is stronger than yesterday,
and I believe that your head is the only thing in your way.
I believe that today it’s okay to be not okay.

 

“Clarke”.
Pronunciai quel nome in un soffio appena udibile, provando inutilmente – ancora – a tenere il passo dietro la Griffin, diretta a passo spedito chissà dove. Non pareva aver intenzione di fermarsi ad ascoltarmi, ma le avrei fatto cambiare idea. Avevo un assoluto bisogno di parlare con qualcuno.
“Clarke, aspetta!”.
Alzai la voce nella speranza di attirare la sua attenzione mentre muovevo ulteriori passi nella sua direzione. Sapevo che mi sarebbe bastato impegnarmi solo un altro po’ per raggiungerla, eppure c’era qualcosa dentro me che mi spingeva a non farlo. Forse la paura di un confronto?
Non lo sapevo né volli pormi ulteriori domande. Ero stanca e preoccupata: vedevo la situazione sfuggirmi di mano sempre più e sapevo che nonostante tutto Clarke fosse l’unica persona sulla Terra con la quale potessi parlare ed essere ascoltata. Ecco perché chiamai un’altra volta il suo nome, raccogliendo quanto coraggio bastava a raggiungerla finalmente e arrestare la sua camminata con uno strattone che l’attirò a me di scatto.
“Scusami”, mormorò Clarke in un soffio trafelato, voltandosi a guardarmi – solo perché costretta dalla mia presa sul suo braccio. “Vado un po’ di fretta. Possiamo rimandare a dopo?”.
Sapevo che non intendesse sul serio parlarmi più tardi, eppure le permisi di liberarsi dalla mia stretta. Sapevo anche che non avrebbe ripreso a scappare perché non era nella sua indole farlo, e difatti l’osservai ricominciare a passeggiare lentamente con me alle calcagna. Fingeva una nonchalance che non aveva pur di non scoprire le sue carte.
“No”, sibilai all’improvviso, affiancandola mentre l’osservavo sobbalzare. “Voglio sapere di Jasper. L’hanno ucciso, non è vero?”.
“No!”.
Quell’urlo mi stupì e non poco, tanto che quella volta toccò a me vacillare distintamente. Era una negazione non molto convinta, qualcosa che – ne ero certa – avrebbe piuttosto voluto essere un: “Non è possibile che sia morto”. Lo sapevo io e lo sapeva Clarke, che tentò immediatamente di distogliere la mia attenzione da quella sua risposta non appena si rese conto della mia consapevolezza.
“Andremo a cercarlo e lo riporteremo qui. Sano e salvo”. Mi sorrise addirittura e la cosa mi rincuorò un po’.
Non aveva intenzione di abbandonare Jasper a se stesso, com’era giusto che fosse. Ero quasi sicura del fatto che in fondo si sentisse colpevole del suo rapimento almeno tanto quanto me che in realtà non avevo partecipato alla missione “recupero cibo” né potevo immaginare come poi essa si sarebbe conclusa.
Ma: “Quando partiamo?”, mi limitai a chiedere comunque, mossa da nient’altro che voglia di aiutare.
Non avevo avuto bisogno di pensare al da farsi nemmeno un po’. Volevo provare a salvare Jasper. Ma Clarke si dimostrò fin da subito in disaccordo.
“Tu non verrai, Brayden”, mi apostrofò, voltandosi a fissarmi con aria serissima solo quando fummo ormai nelle vicinanze della navicella.
“Per quale motivo?”, non potei impedirmi di sibilare, vagamente delusa da quel suo rifiuto. “Sappi che se è per la mia caviglia… Sto bene! Guarda”.
Ero confusa e non riuscivo a spiegarmi perché Clarke non mi volesse accanto a sé nella missione “recupero Jasper”. Certo, nella precedente avevo dato – magari – l’impressione di non essere molto utile, ma era stato un caso. Potevo aiutarla e volevo che se ne rendesse conto, così come volevo che capisse che stavo benissimo. Ecco perché mi esibii senza problemi in una specie di catwalk che in un’altra situazione avrei sicuramente reputato stupida.
“Bray”, mi richiamò Clarke all’improvviso, arrestando la mia camminata semplicemente ponendomi entrambe le mani sulle spalle. Da quella posizione fui costretta a guardarla di nuovo in viso e non mi persi affatto la sua espressione divertita.
“Non è per la caviglia”, rassicurò poi, lasciandomi andare lentamente. “Voglio che tu rimanga qui a guardia del campo. Ho intenzione di chiedere l’aiuto di Bellamy. Ce la caveremo”.
Non potei far altro che aggrottare le sopracciglia mentre avvertivo la delusione del rifiuto essere sostituita dall’imbarazzo e infine dalla confusione. Scettica, mossi un passo indietro e infine mi decisi a parlare, dopo aver concluso che fissare Clarke con un’espressione inebetita non mi avrebbe donato alcuna risposta.
“I-Io?”, pigolai perciò, indietreggiando ancora. Ero nuovamente spaventata. “A guardia del campo?”.
Clarke semplicemente annuì.
“Senza Bellamy, i Cento saranno più irrequieti del solito. Prova a domarli”, consigliò, ponendo un accento strano su quell’ultimo verbo che io – inevitabilmente – recepii in modo diverso. Avevo capito cosa voleva che facessi, ecco perché mi limitai ad annuire. “Quando torno parleremo”.
Sì. Ho un assoluto bisogno di parlare con qualcuno.
A malapena finii di formulare quei pensieri che mi tuffai letteralmente tra le braccia di Clarke, subito dopo aver quasi preso la rincorsa contro il suo corpo. In un’altra situazione non mi sarei mai concessa quel gesto d’affetto, eppure in quel momento stringermi a lei mi rese più tranquilla. Non eravamo mai state particolarmente legate, eppure quel giorno Clarke Griffin mi aveva dimostrato di fidarsi di me tanto da affidarmi la direzione del campo durante la sua assenza e quella di Bellamy. Io avrei fatto altrettanto, credendo in lei così ciecamente da sapere che in un modo o nell’altro avrebbe sul serio salvato Jasper.
“Sta’ attenta”, sussurrai, ancora stretta a lei che però ebbe bisogno di un po’ di tempo prima di ricambiare il mio abbraccio.
Quel gesto aveva stupito lei ancor più di me ed era chiaro quanto ne fosse sorpresa. Ma alla fine anche Clarke avvolse le braccia attorno a me e prima di andar via, mi salutò con un: “Anche tu” sussurrato tra i miei capelli e un ultimo sorriso.
 

 

“Una serie di valutazioni ci ha fatti giungere tutti alla conclusione che i ragazzi stiano mettendo via i bracciali di loro spontanea volontà. Ne sono pienamente convinta, e i dati raccolti mi danno manforte. I criminali più violenti sono quelli che, per la maggior parte, hanno mostrato un’interruzione del segnale”.
Abby Griffin non se l’era fatto ripetere due volte: Thelonius aveva aperto quella riunione improvvisa salutando tutti i membri componenti il Consiglio e poi le aveva ordinato di esporre i risultati delle sue analisi, al che la Dottoressa non c’aveva pensato su più di tanto prima di cominciare a sciorinare un numero imprecisato di se e ma. La sua teoria si reggeva tutta su quelli – su probabilità, e speranze – ma lei continuava comunque a crederci, e il tono deciso della sua voce aiutò anche alcuni degli altri membri presenti ad assecondarla. Ma solo alcuni degli altri membri. Non tutti.
“Allora come spieghi Wells?”. Non Marcus Kane.
Lui non le avrebbe creduto mai. Non le avrebbe dato manforte. Non si sarebbe schierato dalla sua parte. Non più. Non dopo Brayden.
Solo Abby sapeva quanto avrebbe voluto nominarla, quanto avrebbe voluto in realtà chiedere: “Come spieghi mia figlia?”. Ma non lo fece, e la Dottoressa capì immediatamente perché. Marcus in primis non vedeva poi così lontana l’idea di Brayden che toglieva il bracciale solo per fargli un dispetto. Inconsciamente sperava anche nella cosa. D’altronde, meglio infuriata che morta.
“Marcus ha ragione. Wells non si sarebbe mai tolto il bracciale volontariamente”, mormorò Thelonius all’improvviso, spezzando l’aria carica di tensione che aveva cominciato ad accumularsi in quella stanza.
Non sembrava aver avuto l’intento di peggiorare la situazione con quell’osservazione – tutt’altro – ma ad ogni modo, in seguito alle sue parole, il nervosismo nell’aria crebbe. Un po’ per tutti tranne che per Abby, che aveva una spiegazione anche per quello.
“I nostri figli hanno fatto cose che non ci saremmo mai immaginati. Tutti loro”.
Sottolineò quel “tutti” con vigore, rivolgendo un fugace sguardo a Marcus, seduto esattamente di fronte a lei. Voleva che capisse che parlava anche di Brayden. Che aveva ancora speranza. Che la credeva viva. E voleva che si convincesse della cosa anche lui.
“La teoria regge”, esalò però dopo qualche attimo di pesante silenzio, distogliendo le iridi da quelle scure e impenetrabili dell’uomo di fronte a sé. “I ragazzi hanno bisogno di più tempo”.
Solo quella frase innescò la tanto attesa reazione che la Dottoressa Griffin aveva aspettato con ansia. Marcus cambiò posizione sulla sedia in modo nervoso, poi espresse ancora una volta la propria opinione contrastante.
Noi abbiamo bisogno di più tempo, Abby. Agli ingegneri servono sei mesi per sistemare il supporto vitale. Finiremo tutto il nostro ossigeno entro quattro. Per ogni giorno che rimandiamo, dieci persone in più dovranno essere sacrificate. Oggi sono duecentonove, domani duecentodiciannove, dopodomani duecentoventinove…”. Non c’era bisogno di continuare ed infierire, il Consigliere se ne rese conto all’ennesima occhiataccia di Jaha. Si zittì all’improvviso e liberò un sospiro prima di aggiungere, cercando di mantenere la calma: “C’è bisogno di votare ora”.
“Sono d’accordo”.
“La mozione richiede quattro voti a favore per passare. Chi vota per escludere duecentonove cittadini dell’Arca dal rifornimento di scorte ed aumentare così il supporto vitale per i restanti fino a sei mesi?”.
Inutile dire a chi appartenesse la prima mano che si levò in aria.
Marcus Kane mormorò immediatamente: “Io”, seguito da altri due membri del Consiglio.
“Chi vota a sfavore?”.
“Io”, affermò Abby. Anche lei venne seguita da altre due persone.
Pareggio.
“Tre contro tre. Sarà il Cancelliere a decidere”.
A quelle parole, gli occhi di tutti volarono sulla figura tesa di Thelonius. Egli, sentendosi chiamato in causa, avvertì tutto il peso della scelta ricadere sulle proprie spalle e non poté fare a meno di liberare un sospiro stanco. Cosa avrebbe deciso? Bene o male? Giusto o sbagliato? Ancora non lo sapeva. Ma, almeno di una cosa, era sicuro.
“Non avrei mai voluto arrivare a tanto”, soffiò, facendo sì che i propri occhi evitassero di scontrarsi con quelli di chiunque all’interno della stanza. “La nostra doveva essere nient’altro che una generazione di passaggio, di modo che in futuro il genere umano potesse tornare a casa senza problemi. Ma è cambiato tutto, e noi o saremo la generazione che vedrà l’Arca tornare sulla Terra o quella che guarderà dall’alto la sua fine. Mio figlio è laggiù. Ce l’ho mandato io. E la verità è che non so se sia vivo o morto”.
A quelle parole, il Cancelliere si prese l’ennesima pausa e i suoi occhi scuri saettarono sulla figura di Marcus Kane. Quella volta fu proprio lui ad evitare di incrociare lo sguardo dell’amico, muovendosi a disagio sulla sedia che occupava dall’inizio di quella riunione. Thelonius non sapeva se Wells fosse vivo o meno, proprio come Marcus non poteva essere sicuro della morte di Brayden. Era quello che voleva fargli capire. Il Cancelliere ci credeva ancora.
“Non ho perso la mia speranza”, affermò difatti dopo qualche altro attimo.
Avrebbe voluto aggiungere: “E vorrei che fosse altrettanto per tutti voi”, ma non gli fu possibile. La folla esigeva un suo voto. Volevano che prendesse una posizione. Ma Jaha non avrebbe fatto nulla di tutto ciò.
“Non voto”.
Scoppiò il caos.
“Signore! Se lei si astiene, la votazione finirà in parità, il che significa doverla riaprire tra dieci giorni”.
“Dieci morti in più per ogni giorno”.
Una marea di vite. Lo sapeva Marcus e lo sapeva Thelonius. Ma la sua scelta non sarebbe comunque cambiata.
“Mi astengo dalla votazione”, ripeté.
Kane colpì rabbiosamente il tavolo, poi si mise in piedi e nel giro di pochissimo tempo abbandonò la stanza buia nella quale s’erano riuniti tutti. Il resto dei Consiglieri restò immobile e in silenzio, ancora intento a metabolizzare cosa sul serio fosse successo nel giro di pochi minuti. Poi il Cancelliere portò gli occhi sulla figura di Abby.
“Hai dieci giorni”.

 

 

Un improvviso spostamento d’aria, l’ombra di un oggetto contundente che quasi mi sfiorava il viso, il respiro che mi si mozzava in gola per la paura e una mano che correva al cuore. Ecco la situazione nella quale mi ritrovai quella mattina.
Nella confusione del momento non ebbi tempo per realizzare davvero cosa fosse successo, ma mi bastò regolarizzare il respiro e spostare poi lo sguardo tutt’intorno a me per capire.
Per poco non mi lasciavo sfregiare da un coltellino. Un coltellino lanciato da niente meno che John Murphy.
“Non pensavo volessi uccidermi”, osservai all’improvviso, avvertendo ancora il respiro corto mentre avanzavo titubante nella sua direzione, stringendo forte tra le dita la mia fedele agenda.
Forse non era stata una buona idea decidere di seguire il consiglio di Monty e prendersi una pausa dal lavoro al campo per isolarsi proprio in quel momento e soprattutto in quel posto. La situazione con Murphy era ancora… strana. Nonostante il fatto che già la sera prima avessimo intrattenuto una conversazione all’apparenza tranquilla e civile, avrei preferito evitare di stargli accanto quanto più possibile. Ma il Destino come al solito sembrava avere in serbo per noi piani ben diversi.
“Sei spuntata all’improvviso”, si giustificò Murphy, facendo spallucce come se nulla fosse mentre mi sorpassava per recuperare il coltellino dal terreno.
“Anche tu”, lo rimbeccai aspramente, chiedendomi subito però se non avessi dovuto dire: “Anche voi”.
Non lo feci, comunque, aspettando una replica da parte di Murphy che invece non arrivò. Di fronte a quel suo atteggiamento inspiegabilmente distaccato quasi provai un impeto di rabbia che però mi sforzai di trattenere, stringendo i pugni ed indietreggiando quando lo vidi posizionarsi nuovamente di fronte al tronco dell’albero che avevo affiancato fino a quel momento. Era quello il suo bersaglio. E subito mi chiesi perché.
“Cosa stai cercando di fare?”, domandai, consapevole del fatto che se non avessi posto quella domanda non avrei mai ottenuto una risposta.
“Questo”, Murphy mi mostrò il coltellino che aveva recuperato, prima di indicare con quest’ultimo l’albero di fronte a sé, “deve colpire quello”.
La rivelazione non mi sconvolse più di tanto. Forse avrei dovuto chiedermi perché Murphy volesse fare una cosa del genere, ma non lo feci. Semplicemente mi limitai a scrollare le spalle, per nulla impressionata.
“Non mi sembra così difficile”, mormorai, lasciando da parte l’agenda solo per potermi liberare le mani.
Incrociai le braccia dietro la schiena nell’attesa spasmodica di una risposta da parte di Murphy, risposta che arrivò, seguita da un risolino divertito.
“Dimostralo”, sfidò immediatamente, porgendomi il coltellino che reggeva tra le mani ma tirandosi indietro prima ancora che potessi afferrarlo. “Aspetta”, mi ammonì infatti, facendomi presente che avesse ancora qualcosa da aggiungere.
Aggrottai le sopracciglia.
“Che c’è?”.
“Se non riuscirai a colpirlo”, indicò nuovamente l’albero con la lama appuntita, “dovrai baciarmi. Tu”.
In un’altra situazione avrei strabuzzato gli occhi e preso a boccheggiare a metà tra l’imbarazzato e il furioso. Non poteva impormi una cosa del genere né tanto meno potevo io sentirmi così eccitata all’idea di ripetere quell’esperienza. Avrei senz’altro reagito così, se solo non avessi saputo.
Comunque non era quello il caso. Difatti, nella più assoluta calma, trascinai una ciocca fulva dietro l’orecchio prima di chiedere: “E se invece ci riuscissi?”.
Non battei ciglio. Non mostrai preoccupazione, eccitazione, interesse. Ero tranquilla. Così tanto da risultare quasi apatica. O peggio, da scoprire le mie carte.
Non volevo che una cosa del genere succedesse e per fortuna parve che i miei desideri venissero esauditi. Murphy, inconsapevole del guaio in cui si stava cacciando, si limitò a fare spallucce e poi concesse: “Farò tutto ciò che vorrai”.
Senza che potessi impedirmelo, uno sbuffo divertito m’abbandonò le labbra e gran parte dell’immensa soddisfazione che stavo provando in quel momento venne alla luce. Maledicendomi per l’essermi scoperta così tanto, avanzai nella direzione di Murphy e recuperai il coltellino dalle sue mani, continuando ad impedire che le labbra mi s’incurvassero ancor di più in un perfetto sorriso da Stregatto.
“Fatti da parte”, l’ammonii riacquistando un’aria seria e composta mentre, tuttavia, lo spingevo via scherzosamente.
Di fronte a quel mio gesto, Murphy finse d’indignarsi.
“Poi sarei io…”, provò a riprendermi difatti, ma le sue parole si arrestarono all’improvviso di fronte ai movimenti repentini del mio braccio e alla scena del coltellino che – al primo colpo – faceva centro, intaccando la corteccia dell’albero che avevamo di fronte.
A malapena se n’era reso conto e lo capii subito dalla sua espressione sconvolta. Trattenere una sonora risata fu difficilissimo.
“Cosa cazzo è successo?”, scoppiò poi all’improvviso, ancora non del tutto consapevole di quanto fosse appena successo.
Mise su un tono di voce così stridulo che, ancora una volta, non scoppiare a ridere mi fu difficilissimo. Ma riuscii comunque a mantenere un’aria posata, limitandomi a sorridere ampiamente soddisfatta.
Ho vinto”, ghignai infine, abbassando il tono di voce affinché quella constatazione fosse più d’impatto.
Ah, era vero. Avevo vinto. Avevo battuto John Murphy in una cosa che lui mai si sarebbe aspettato di vedermi saper fare ed era così bello e soddisfacente. L’avevo sorpreso.
“Fortuna del principiante”.
O forse no.
Il suo atteggiamento m’indispettì non poco, ma invece di agitarmi mi limitai ad incrociare le braccia al petto mentre osservavo Murphy sorpassarmi con una lieve spallata per raggiungere l’albero e recuperare il suo coltellino.
“Combattimento corpo a corpo, Livello I”, lo corressi, vagamente altezzosa. Inutile dire che la sorpresa che aveva tentato disperatamente di scacciare ritornò prepotentemente a fargli visita. Di fronte alla sua espressione nuovamente sbalordita, spiegai: “Volevo diventare una guardia”.
“Wow”, boccheggiò infine Murphy, avvicinandosi a me nuovamente. “Avrei detto Cancelliere, o qualcosa del genere”.
Sorrisi divertita. Ma il benessere fu solo momentaneo e all’improvviso pensiero di ciò che avrei detto in seguito, il sorriso svanì e al contrario misi su un’espressione vagamente abbattuta.
“Mia madre era una guardia”, deglutii, imbarazzata da quella confessione che nemmeno sapevo perché avessi fatto. “Non l’ho mai conosciuta. Callie mi ha parlato di lei”.
Non appena smisi di parlare, cadde un silenzio di tomba così teso e imbarazzato che istintivamente desiderai poter tornare indietro ed evitare di dire ciò che avevo detto.
Ma non potevo tornare indietro, il tempo scorreva sempre in maniera irreversibile e ancora una volta provai la cosa sulla mia pelle. Mentre distoglievo lo sguardo dal viso di Murphy mi chiesi nuovamente se per caso non avessi sbagliato a parlargli della mia defunta madre. Se non avessi fatto meglio a restare in silenzio, a tenermi tutto dentro come sempre.
“Volevi diventare una guardia”, ripeté Murphy all’improvviso, riacquistando tutta la mia attenzione. “Poi cos’è successo?”.
Sapevo benissimo perché si stesse comportando a quel modo, e per un attimo provai – di nuovo – l’impulso di sorridere. Provai ad impedirmelo, ma alla fine la soddisfazione provocatami da quel gesto di puro interesse l’ebbe vinta e le mie labbra s’incurvarono lievemente in un sorriso felice.
Sapevo Murphy fosse consapevole del fatto che forzare la mano e torchiarmi affinché gli parlassi ancora di mia madre non sarebbe servito a nulla. Lui sapeva di quanto non volessi più parlarne – di quanto in fondo già mi fossi pentita di averlo fatto – e mi stava offrendo su un piatto d’argento la possibilità di cambiare argomento, la possibilità di ritornare a parlare di mia madre solo nel momento in cui avessi di nuovo voluto farlo.
“Poi mi hanno arrestata”, soffiai infine, inginocchiandomi sul tappeto d’erba sotto i miei piedi.
Non appena mi fui seduta ed ebbi finito di parlare, altro silenzio scese a farci compagnia e subito ne approfittai per godermelo fino in fondo. Lasciai che la mente vagasse libera, anche tra pensieri cupi e capaci di ferirmi. Alla fine l’unica cosa che riuscii a fare fu stringermi le ginocchia al petto e nascondere la testa tra di esse, trattenendo i singhiozzi a malapena. Non potevo sperare di passare inosservata agli occhi di Murphy comportandomi così, e in fondo non credevo nemmeno di volere una cosa del genere. Ne ebbi la conferma quando lo sentii prendere posto di fianco a me e subito un senso di appagamento mi scaldò il cuore.
Non ero sola.
“A cosa stai pensando?”.
Non avevo bisogno di tempo per riflettere su cosa dire. Stranamente, non volevo indorare la pillola. Anche se sapevo che le parole che avrei pronunciato non sarebbero state poi così piacevoli.
“Non voglio avere sulla coscienza gli abitanti dell’Arca”, mormorai comunque, rinunciando al mio personale nascondiglio ma evitando tuttavia il viso di Murphy.
Non osavo immaginare cos’avrei potuto leggerci impresso. Ero un’egoista e glielo stavo dimostrando. Lui cosa ne avrebbe pensato? Me lo chiesi finché non provò a richiamare il mio nome.
“Bray”. Lo stoppai prima che potesse finire.
“Sapevo dei malfunzionamenti”, sbottai. “Quando ho scoperto che ci avrebbero spediti quaggiù a morire, ho creduto che fosse quello il loro modo di risolvere il problema. Cento ragazzini in meno uguale salvezza. Ma mi sbagliavo. La nostra eliminazione non ha cambiato nulla. Moriranno comunque. Mia nonna, Callie, mio padre…”. E altre innumerevoli persone da aggiungere alla lista.
Sarebbero tutte morte entro breve. Forse, anche a causa mia.
Quello era il problema più grande. Non volevo sentirmi un’assassina. Non volevo che il pensiero di aver sterminato – seppur indirettamente – i rimasugli della razza umana m’assalisse quando meno me l’aspettavo, mettendomi in ginocchio e impedendomi di continuare a vivere. Semplicemente non volevo credere di aver precluso agli abitanti dell’Arca qualcosa come uno spiraglio di salvezza, liberandomi del mio braccialetto e spingendo innumerevoli altri ragazzi a fare altrettanto. Non volevo.
“Non moriranno”, sussurrò Murphy all’improvviso, distogliendomi da quei pensieri deleteri così inaspettatamente che, colta dalla sorpresa, non potei far altro che voltare il capo nella sua direzione di scatto. Non mi aspettavo che avrebbe aggiunto qualcos’altro. “Li rivedrai presto. Te lo prometto”.
Sorrise, e a quel punto non potei far altro che ricambiarlo. Sembrarono passare minuti interi di semplici sguardi, ma infine riuscii a distogliere gli occhi dal suo viso e tirai su col naso mentre m’imponevo di riacquistare contegno.
“Vuoi che ti insegni?”, pigolai infine, cercando di fingere che niente fosse successo – nessuna confessione scomoda né pensierini inopportuni – indicando con un cenno del capo l’albero che, solo pochi minuti prima, ero riuscita a colpire senza problemi.
Allora Murphy non se lo fece ripetere due volte. Senza nemmeno aspettarmi, si mise in piedi velocemente e poi mi porse una mano per aiutarmi a fare altrettanto. Accettai volentieri il suo aiuto e lo raggiunsi in piedi, seguendolo poi di fronte al nostro obbiettivo. Murphy vi si parò senza esitazioni: sembrava davvero determinato ad imparare. Ed io lo imitai senza farmelo ripetere due volte.
Prima di iniziare ad allenarlo, però, c’era un’ultima cosa che dovevo assolutamente dirgli.
“Ricorda che dovrai fare tutto ciò che ti chiedo”, soffiai al suo orecchio quando sapevo che meno se lo aspettasse, combattendo poi per evitare che un ghigno malefico m’affiorasse sulle labbra.
Avevo vinto io ancora una volta e mentre sentivo distintamente Murphy irrigidirsi, ancora al mio fianco, mi permisi finalmente di sorridere e pensai che ogni cosa stesse tornando al suo posto.

 

 

“Finirai per consumare il pavimento”.
All'ennesima traversata di Kane, Abby sollevò quasi al rallentatore gli occhi nocciola dal giornale che stava esaminando senza troppa attenzione e li puntò sul Consigliere, colpevole di metterle addosso un'ansia non indifferente grazie al suo continuo traversare la sala d'attesa a grandi falcate. Era nervoso: non si era fermato un attimo da quand'era arrivato e stava facendo in modo che s'innervosisse anche lei. Abby non capiva perché. Non avrebbe dovuto, al contrario, essere felice? O quanto meno eccitato?
“È lì dentro da una vita”, lo sentì che si giustificava, finalmente fermo. “Ho bisogno di sapere che va tutto bene”.
“Hai bisogno di calmarti”, lo corresse lei, ancora con gli occhi puntati sulla sua figura. “Cosa vuoi che vada storto?”.
Dopo quella domanda, Marcus liberò un breve sospiro e poi ricominciò a muoversi. Per un attimo Abby temette che avrebbe ripreso a camminare nervosamente nella sala d'aspetto, invece il Consigliere si limitò semplicemente a raggiungerla. Prese posto di fianco a lei sulla scomoda sedia in plastica grigio topo, così velocemente che Abby ebbe appena appena il tempo di realizzare quanto fosse – all'improvviso – vicino.
“Troppe cose sono andate storte”, mormorò poi, e avrebbe davvero voluto aggiungere: “Quindi non mi spaventerei se anche stavolta finisse male”, ma non lo fece.
Rimase in silenzio ed Abby, improvvisamente a disagio, non poté far altro che deglutire a fondo.
“C'è sempre speranza”, trovò il coraggio di dire infine, ma la sue parole servirono a ben poco.
Sapeva che Marcus non fosse d'accordo. Non più. Davvero troppe cose erano andate male. Tuttavia, quella volta lui non si mostrò affatto infastidito dalla frase di rito della Dottoressa Griffin. Al contrario, distolse lo sguardo dal suo viso e lo puntò al pavimento, quasi a voler nascondere un mezzo sorriso che però Abby captò comunque benissimo.
“Lo ripeti in continuazione”, mormorò poi, risollevando gli occhi scuri su di lei.
Vorrei poterci credere. Avrebbe voluto aggiungere. Ma, proprio un attimo dopo l'aver immagazzinato fiato in abbondanza per continuare a parlare, la porta di fronte ai due scricchiolò rumorosamente e Marcus immediatamente distolse gli occhi dal viso abbronzato di Abby, portandoli sull'oggetto colpevole di aver attirato repentinamente tutta la sua attenzione. Dalla soglia, trovò a fissarlo di rimando un uomo sulla sessantina, che gli fece segno con due dita di raggiungerlo lì.
Marcus non se lo fece ripetere due volte. Senza riservare ulteriori sguardi alla Dottoressa Griffin, scattò in piedi e si avvicinò all'uomo anziano. Aveva la testa quasi del tutto calva e un'aria molto rassicurante: era la persona adatta alla quale affidarsi in caso di malattia, sperando di sentirsi rivolgere sempre parole di conforto.
“Come sta?”, gli chiese infatti – quasi senza rendersene conto, speranzoso.
Al suono di quella domanda, il Dottore si aprì in un largo sorriso. Prima di spingere lievemente il Consigliere all'interno dell'ufficio, salutò Abby con un cenno. Poi riportò tutta la sua attenzione su Marcus.
“Diventerete padre, Consigliere Kane”, sentenziò teneramente, con la gioia genuina che solo un uomo come lui poteva ancora mostrare senza dover fingere troppo.
Quella gioia non raggiunse mai il volto di Marcus, né tanto meno quello di Alida. Quando il Consigliere le donò un mezzo sguardo poco coraggioso, scorse la parte del suo viso che i lunghi capelli rossi lasciavano scoperta, imbrattata di lacrime amare. 

 

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Ringraziamenti
Alle tre meravigliose personcine che hanno recensito lo scorso capitolo, facendomi contenta con le loro bellissime parole. Ero preoccupatissima per la vostra reazione al bacio, e vedervi reagire bene è stata comunque fonte di gioia. Purtroppo non ho tempo per citarvi anche qui, ma va bene lo stesso, tanto voi sapete benissimo chi siete e sapete anche che vi voglio tanto bene.

Note
Chi non muore si rivede. Sì, so che lo starete pensando. E so anche di dovervi delle profondissime scuse dal momento che questa storiella senza pretese non vede un aggiornamento da novembre. Sono imperdonabile, lo so. Troppi fattori si accumulano insieme ed io mi perdo, ecco.
Titolo del capitolo e canzone citata sono ad opera di Christina Perri. La canzone s'intitola, per l'appunto, I believe.
Ritornando agli aggiornamenti, prometto che d'ora in poi proverò nuovamente a farvi avere un capitolo al mese. Spero di riuscirci, anche perché dal prossimo capitolo in poi dovrò affrontare "momenti difficili" della storia di Murphy e credo mi ci vorrà del tempo. Spero anche che questo capitolo possa piacervi almeno un po'.
Non posso far altro che darvi appuntamento alla prossima, si spera il dodici marzo.

 

 

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Capitolo 6
*** Alone again ***




6.   ALONE AGAIN

 
 
Can you stop the free fall? Can you be the reason I can see beyond the lies if I keep holding on?
I hear you. Can you stop the screaming? Did you stop believing I can feel you letting go? 
I can't be alone tonight. When you said I could move on and go, you said I'm weak and it shows.
I couldn't go on without you.


Lasciai che il vento freddo della prima mattina mi scompigliasse i capelli e mi sferzasse le guance senza fare nulla per impedirlo. Me ne rimasi semplicemente immobile ad osservare lo scenario nefasto di fronte ai miei occhi, nemmeno l'ombra di un'espressione sul mio viso candido. Non facevo nulla anche e soprattutto perché non sapevo cosa avrei dovuto fare. Non più.
Da quando eravamo arrivati sulla Terra la situazione non aveva fatto altro che peggiorare, per tutti. Non c'erano più distinzioni per nessuno, non c'erano più delinquenti e privilegiati. Eravamo tutti indistintamente in pericolo, accerchiati da un nemico che si nascondeva nel buio e aveva già mietuto vittime senza che potessimo fare nulla per impedirlo.
Spostai lo sguardo chiaro sull'improvvisata tomba di Wells. Un manto di foglie in rilievo la segnalava alla mia vista. Era lì, semplice e spoglia, accanto a quelle di Atom e dei due ragazzi morti prima dell'atterraggio della navicella. Non avevo conosciuto bene nessuno di loro, ad eccezione di Wells. E non avrei mai voluto che le cose finissero così, per lui. Che una vedetta potesse costargli la vita. Non avrei mai voluto nulla del genere per nessuno dei Cento. Ma c'era poco che potessimo fare per essere protetti.
Osservai con occhi annebbiati il mazzolino di fiori bianchi posto ai piedi del manto di foglie, luogo nel quale decisi di inginocchiarmi solo quando sentii le gambe cedere sotto il peso di emozioni che ancora non riuscivo bene a catalogare. Ero triste, immensamente triste, eppure dai miei occhi non venne fuori nemmeno una lacrima. Né un lamento o qualcosa del genere. Al contrario, presi a sentirmi ancor più apatica del solito mentre pensavo a Wells e ai pochi momenti – poco utili a far sì che legassimo sul serio – che avevamo passato insieme sull'Arca.
Lui c'era sempre stato fin dall'inizio, non tanto perché lo volessimo quanto più “per caso”. Lui c'era sempre stato ed io avevo imparato a farmelo andare bene, ad accettare la sua presenza costante. Insieme a Clarke si era sempre dimostrato l'unico in grado di capire e rispettare i miei silenzi, così come l'unico capace di farmi ridere di tanto in tanto e farmi sentire parte di qualcosa nei primi anni della mia vita – quando credevo fermamente che avrei vissuto per sempre da sola, oppressa dalla figura di una madre assente e dal segreto che la circondava.
Mi tornò alla mente senza che potessi impedirlo il bacio frettoloso che c'eravamo scambiati di fronte agli occhi di Clarke. Era stato il mio primo bacio e un ragazzo per il quale non provavo assolutamente nulla me l'aveva letteralmente rubato. Ricordai di come avessi perso completamente tutto quel poco di fiducia che avevo imparato a riporre in Wells. Finii a non parlargli per mesi, delusa e amareggiata da quel suo comportamento. Mi aveva usata solo perché Clarke potesse ingelosirsi e mi ci era voluto moltissimo tempo prima che assimilassi la cosa tanto da riuscire a guardarlo di nuovo in viso senza fulminarlo.
Ripensai a quella storia con l'accenno di un sorriso amaro sul volto, poi lasciai che pensieri simili mi affollassero la mente finché non sentii il sole battere sempre più caldo e decisi di ritornare al campo. Non avevo con me un orologio, ma presumetti fosse ormai giorno inoltrato. Avevo passato al cimitero moltissime ore, cullata dal silenzio pacifico della natura, e confrontandomi con la scena che mi ritrovai di fronte al campo desiderai immediatamente non aver mai abbandonato quel posto.
“Bellamy, non dirmi che credi a questa stronzata”.
Posai gli occhi su Murphy non appena sentii la sua voce. Non avevo idea di ciò che stesse succedendo, o meglio avevo un'idea ben precisa in mente ma mi rifiutavo categoricamente di accettarla. Non era possibile. Non aveva nessun senso.
Vidi John sorpassare Clarke intenta a fronteggiarlo per raggiungere Bellamy. Non mi aveva notata e sperai che le cose restassero così ancora per un po', almeno finché non avessi capito bene cosa stava succedendo. Lo vidi anche che aspettava una risposta da parte di Bellamy, una risposta che però non arrivò. Spinta dal silenzio raggelante che era caduto all'improvviso, Clarke riprese a parlare a gran voce.
“Hai minacciato di uccidere Wells, ti abbiamo sentito tutti! Lo odiavi”.
L'ennesima scintilla di consapevolezza s'accese dentro me. Stavano accusando lui della morte di Jaha ed istintivamente mi chiesi perché. Cos'era successo mentre non c'ero? Cosa avevano scoperto di così sconvolgente? Provai a capirlo mentre ascoltavo distrattamente la discussione proseguire, osservai tutto nei minimi particolari ed ebbi finalmente lo stralcio di una risposta nell'individuare la mano destra di Clarke stretta attorno al coltello di Murphy che solo pochi giorni prima avevo usato io stessa.
“Hai anche cercato di uccidere Jasper”, dichiarò Octavia all'improvviso, svelando al campo intero una dolorosa verità della quale eravamo a conoscenza solo io, lei e Monty.
Immediatamente i miei occhi volarono sulla sua figura e fu inevitabile per me lanciarle uno sguardo risentito. Perché si stavano comportando in quel modo? Come potevano giudicare qualcuno senza avere una visione completa dell'accaduto?
“Non l'ha ucciso”, mormorai allora, facendomi avanti con chissà quale coraggio. Octavia aveva completamente ignorato il mio sguardo, lasciandomi nell'ombra, posto nel quale non volevo più nascondermi. “E fino a prova contraria, non ha ucciso nemmeno Wells”.
Gli sguardi di tutti volarono sulla mia figura in men che non si dica, ma quella volta fui io ad ignorarli. Finsi che nessuno di questi esistesse, nessuno tranne uno. Osservai Murphy cercare il mio sguardo non appena sentì il suono della mia voce e fissarmi intensamente negli occhi finché non smisi di parlare. Non mi passò nemmeno per l'anticamera del cervello l'idea di distogliere lo sguardo dal suo e far finta che non esistesse. Volevo la verità, e sapevo di poterla avere solo da lui.
“Non sono stato io”, lo sentii sussurrare all'improvviso, sempre senza che mai distogliesse gli occhi azzurri dai miei.
Annuii impercettibilmente a quelle sue parole, deglutendo e rifilandogli quasi senza rendermene conto uno sguardo che avrei voluto fosse rassicurante almeno un po'. Volevo che capisse che avrei provato a risolvere le cose prima che queste degenerassero, ma ancora non so se riuscii nell'intento.
“È questo il genere di società che vogliamo? Ci uccidiamo a vicenda senza punizioni?”.
Clarke spezzò quel momentaneo sprazzo di tranquillità attirando su di sé l'attenzione di tutti, comprese le nostre. Io e Murphy distogliemmo gli sguardi l'uno da quello dell'altra per concentrarci proprio sulla Griffin, nella direzione della quale John si diresse subito a passo spedito. Sapevo che non avrei dovuto, ma gli credevo. Senza che riuscissi a spiegarmi perché ero convinta del fatto che non avesse ucciso lui Wells e sapevo quanto fosse amareggiato e infastidito dalle accuse che i Cento gli stavano riversando addosso. Ce l'aveva soprattutto con Clarke e sapevo che se solo non l'avessi fermato avrebbe finito per fare qualcosa di stupido – perché era nella sua natura – ecco perché mi affrettai affinché potessi precederlo tanto da impedirgli di farsi troppo vicino a Clarke. Proprio un attimo prima del momento di non ritorno mi voltai a guardarla con gli occhi inaspettatamente lucidi, pregandola affinché prendesse a guardare con obiettività alle cose.
“Il tuo è un giudizio affretta...”.
Ma la folla non mi lasciò il tempo di finire.
“Io dico di giustiziarlo!”. Fu l'inizio della fine.
Un coro d'assenso si levò immediatamente nell'aria, incendiando il campo e facendomi immediatamente provare l'impulso di scoppiare a piangere. Sapevo che non avrei avuto l'occasione di farlo ed è per questo che trattenni le lacrime a malapena, facendomi spazio tra le urla e gli spintoni dei Cento più scatenati.
“La vendetta non è giustizia!”, urlò Clarke con tutto il fiato che aveva in gola, ma ciò non bastò a fermare la cattiveria degli altri.
Nulla sarebbe bastato, nemmeno tutti i pugni e i calci che provai a sferrare per proteggermi dal mare di gente diretta a Murphy. Avrei voluto proteggere anche lui, ma capii subito di non poter fare più di così. Osservai con occhi annebbiati mentre lo colpivano senza ritegno, completamente impotente di fronte alla vista di lui che finiva impiccato quasi senza che me ne rendessi conto. Il peggio doveva ancora venire, comunque, e lo capii quando la folla cominciò ad urlare il nome di Bellamy. I Cento volevano che fosse lui a finire Murphy.
Mi sembrò il momento giusto per rimettermi in piedi. Traballai nella sua direzione il più velocemente possibile e mi aggrappai alla sua giacca, fregandomene delle mani completamente sporche di fango.
“Ti prego, ti prego”, cantilenai, tra le lacrime che non ero più riuscita a trattenere. “Falli s-smettere”.
Clarke mi diede subito manforte, raggiungendomi per parlare a Bellamy più liberamente.
“Ti ho visto nel bosco con Atom, so che non sei un assassino!”, urlò, sperando inutilmente di sovrastare la folla di voci e risolvere qualcosa.
Ma fu tutto inutile, comprese le mie preghiere silenziose e i tentativi che feci di fermare Bellamy prima che compisse uno dei pochi gesti che avevo paura di vedergli fare. Né io né Clarke riuscimmo a risolvere niente, e alla vista di Murphy che cominciava ad annaspare in cerca d'aria urlai ancora una volta il nome di Bellamy, tra le lacrime. Lui evitò il mio sguardo, proprio come aveva fatto sua sorella quelli che sembravano secoli prima. Io invece distolsi lo sguardo da Murphy, la cui vista era troppo perché riuscissi ad affrontarla senza sentirmi poco a poco morire insieme a lui.
Sentii a malapena Bellamy che urlava contro Clarke, ero troppo stremata dalle lacrime per riuscire a captare qualcosa di sensato. Mi limitai a piangere e ad urlare cose senza senso, questo finché un urlo non riuscì finalmente a prevalere sugli altri e riportò il silenzio sul campo impazzito.
“Non è stato Murphy ad uccidere Wells!”. Seguii immediatamente la direzione dalla quale era giunta quella voce sincera, ritrovandomi di fronte i contorni sfocati di una ragazzina tremante. “Sono stata io”.
Mi si mozzò il respiro in gola. Sapevo che Murphy non avesse ucciso Wells, ne ero convinta senza nessuna buona ragione, ma proprio non mi sarei mai aspettata che potesse essere stato comunque uno dei Cento a macchiarsi di tale crimine. Credere che fossero stati i Terrestri mi sembrava, chissà perché, più accettabile. Pensai a cosa avesse potuto spingere quella sconosciuta ragazzina ad uccidere il figlio del Cancelliere, ma capii subito di non essere minimamente interessata alle sue motivazioni. Volevo solo che soffrisse.
Ecco perché mi misi in piedi alla velocità della luce, correndo nella sua direzione almeno finché un paio di braccia non arrestarono la mia camminata. Alzai subito lo sguardo verso il colpevole, riscoprendo la figura di Finn. Quasi presi ad urlargli contro, accecata all'improvviso da una furia che non pensavo sarei riuscita a controllare. Scoprii però di sbagliarmi quando vidi Clarke liberare Murphy dalla trappola mortale nella quale i Cento l'avevano costretto. All'improvviso non ero più interessata alla vendetta e lo capì anche Finn, tanto che mi lasciò libera di andare senza nemmeno pensarci un po' su.
Corsi il più velocemente possibile nella direzione di Murphy, inciampando anche dal momento che le gambe proprio non volevano più saperne di fare il loro lavoro in modo adeguato. Mi sporcai di fango ancor di più, ma non m'interessava. John era vivo e quella era l'unica cosa che mi importasse sul serio. Recuperai un coltellino da chissà dove e lo liberai velocemente dalle corde ancora strette attorno al suo corpo, questo solo dopo avergli scoperto le labbra.
“Respira”, fu tutto ciò che riuscii a sussurrare dopo lunghissimi attimi, incontrando di nuovo i suoi occhi.

 

“Cosa ti prende?”.
Sollevai all'improvviso gli occhi dal terreno che mi ritrovavo a fronteggiare per l'ennesima volta nel giro di pochissime ore, cercando a stento la figura di Murphy di fronte a me. Mi resi conto subito però del fatto che non l'avrei trovata, non chiara e distinta come la volevo. Era ormai troppo buio perché potessi distinguere qualcosa di più dei contorni scuri e sfocati della notte, e nemmeno le fiaccole che avevamo portato insieme a noi si stavano dimostrando granché utili. Soprattutto quando chi le reggeva tra le mani decideva di continuare imperterrito a perlustrare i boschi, lasciandoci indietro.
“Sono stanca”, mormorai semplicemente, ancora seduta a terra e con nessuna voglia di rimettermi in piedi e riprendere a correre senza meta. “Fermiamoci”.
Non lo dissi molto convintamente, ma ci provai comunque. Perché era quello che volevo fare, fermarmi, e sperai per un attimo che a Murphy venisse voglia di assecondarmi. Che acconsentisse a lasciar perdere le sue inutili e malsane idee di vendetta. Uccidere Charlotte non sarebbe servito a nulla ed io l'avevo capito già da un po' di tempo. Ma dubitavo che sarei riuscita a farlo presente anche a lui.
“Non finché non avrò visto Charlotte morta”, dichiarò difatti, all'apparenza tranquillo mentre si dirigeva verso di me per aiutarmi a rimettermi in piedi.
Non accettai la mano che provò a porgermi, comunque, e lui si tirò indietro senza dire una parola. All'improvviso eravamo più distanti che mai.
“Volevo ucciderla”, confessai, evitando gli occhi chiari che – nonostante il buio della notte – sentivo ancora addosso, indagatori. “Quando ha confessato, volevo ucciderla. Penso che se Finn non mi avesse fermata ci avrei anche provato”.
“Ci saremmo risparmiati tutta questa fatica se l'avessi fatto”, osservò Murphy, ed io sollevai di nuovo gli occhi sulla sua figura solo nel momento in cui lo sentii muovere dei passi incerti sul terreno, terrorizzata dall'idea che andasse avanti anche senza di me – cosa che sapevo sarebbe stato in grado di fare.
“Non è la cosa giusta”, dissi quindi all'improvviso, sperando che il sentire la mia voce l'avrebbe fermato almeno per un po'. “Sei stato tu a farmelo capire”.
Riuscii nel mio intento solo a metà. Murphy arrestò sì la sua camminata, ma non fece nulla più di quello. Nemmeno si voltò a guardarmi ancora, tanto che quando riprese a parlare l'unica cosa che potei vedere era la sua schiena.
“Non dire cazzate. Se non vuoi vederla morire faresti meglio a tornare al campo”, lo sentii che sibilava, con la voce un po' più alta del solito, chiaro segno del fatto che le mie parole l'avessero infastidito e non poco. “Sempre che tu non voglia direttamente unirti al magico team di salvataggio e proteggere l'assassina per la quale io stavo morendo”.
Per poco non mi mancò il respiro. Come poteva credermi capace di una cosa del genere? Ero dalla sua parte e credevo di averglielo già ampiamente dimostrato. Volevo punire Charlotte, ma non rubandole la vita. Non mi sarei mai macchiata di un crimine del genere.
“Non voglio proteggerla”, soffiai, dopo attimi e attimi passati a boccheggiare inutilmente. Voglio proteggere te, avrei voluto aggiungere. Ma l'improvvisa rabbia che mi aveva colta mi impedì categoricamente di espormi così tanto.
“Voglio che paghi. Ma non così”.
“E come, allora?”.
Murphy si voltò a fronteggiarmi così velocemente che a malapena me ne accorsi, alzando la voce tanto che mi fu impossibile non sobbalzare. Non era in sé, non più, e nonostante quanto volessi aiutarlo mi resi conto di non poter fare nulla. Nemmeno trovare una punizione valida per Charlotte che ne escludesse però la morte.
“Non lo so...”, mormorai quindi ad occhi bassi e piena di vergogna.
Murphy trattenne a malapena uno sbuffo infastidito – l'ennesimo.
“Fa' quello che ti pare”, borbottò infine, gesticolando prima di darmi le spalle e riprendere a camminare lontano da me, sempre più ogni doloroso secondo che passava. “Io devo trovarla”.
Avevo bisogno di trattenerlo ancora una volta e dovevo farlo con le parole giuste, ma non riuscii a trovarne nemmeno allora. Ecco perché riportai a galla l'unica cosa alla quale non avrei più dovuto pensare, soprattutto non in quel momento.
“Avevi detto che avresti fatto tutto ciò che volevo”.
Era stupido aggrapparsi ancora a cose come quella e lo sapevo benissimo, tanto che sentii la vergogna aumentare dentro me ogni secondo che passava un po' di più. Avrei dovuto lasciare andar via quel bellissimo momento al quale ancora pensavo con gioia, arrendendomi all'evidenza che non ne avrei vissuti più di simili. Non insieme a Murphy, che si stava allontanando da me senza che potessi far nulla per impedirlo.
“Non stavolta, Ginger”, lo sentii mormorare, poco prima che sparisse nel buio del bosco senza nemmeno riservarmi un ultimo sguardo.
E fu allora che lo lasciai andar via sul serio, o perlomeno credetti che l'avrei fatto. Che sarei stata forte abbastanza da farlo, senza più provare inutilmente a salvare ciò che stavamo costruendo e che avrebbe potuto senz'altro migliorare, col tempo e stando insieme. Ma mi sbagliavo, e lo capii bene nel momento in cui sentii un urlo in lontananza capace di farmi all'improvviso riacquistare tutta la lucidità che avevo perso in precedenza. Non ero forte, nient'affatto, e mai come allora quella consapevolezza fu tanto gradita.
Ripresi a correre all'improvviso, tirandomi su così velocemente che quasi mi sentii tremare e vidi tutto intorno a me prendere a girare vorticosamente. Non avevo tempo per sentirmi male e me ne resi conto subito, riprendendo a muovermi verso chissà dove. Non sapevo dove fosse andato Murphy né nessuno degli altri ragazzi che avevamo portato con noi nel bosco; mi mossi semplicemente seguendo la voce di Charlotte, le cui urla chiamavano proprio il nome di Murphy. Era stanca anche lei. Non era l'unica.
Tirai un sospiro di sollievo solo quando avvertii un'altra voce, ancor più familiare e – anche se non avrei dovuto catalogarla come tale – rassicurante. Era la voce di Clarke, e ne ebbi la conferma solo nel momento in cui la vidi di nuovo di fronte a me, intenta a fronteggiare ancora una volta Murphy. Lì per lì non prestai alcuna attenzione a lui, né a Bellamy o Charlotte. Fissai solo Clarke, nella speranza che il suo consiglio – quello di risolvere tutto con una tranquilla chiacchierata – venisse accolto. Ma era solo un'utopia.
“Sono stanco di sentirti parlare”, sibilò Murphy all'improvviso, così velocemente che mi accorsi a malapena della sua figura che incombeva su Clarke e le puntava un coltello alla gola senza troppe remore.
“N-No”, balbettai allora, muovendomi nella loro direzione anche se mi sentivo i muscoli improvvisamente immobilizzati dalla paura raggelante che Murphy potesse compiere una pazzia e ferire Clarke.
Non potevo perdere anche lei.
“Non ti avvicinare”, mi ammonì velocemente lui, premendo la lama un po' di più sulla pelle della Griffin. E allora ubbidii, terrorizzata.
“Non farle del male”.
“Vieni con me, Charlotte, e la lascio andare”.
La piccola non ci pensò su due volte. Subito provò ad avanzare nella direzione di Murphy mentre io istintivamente le intimavo con un gesto delle braccia di fermarsi. Non ci riuscii, però, ero troppo lontana. E allora intervenne Bellamy.
“Lasciami!”, si ribellò subito Charlotte, dimenandosi inutilmente tra le braccia di Bellamy. “Non posso lasciare che vi facciate del male. Non per colpa mia. Non dopo quello che ho fatto”.
Dopo aver alzato la voce contro Bellamy, il suo timbro cominciò a scemare sempre più. Diventò di secondo in secondo più basso e flebile, finché non si perse in un sussurro che la notte cancellò nel giro di un battito di ciglia. Quel battito di ciglia che, fatale, mi fece perdere l'ennesima occasione di anche solo provare a salvare una vita. Un battito di ciglia che fece perdere quel tipo di occasione a tutti.
“NO!”, sentii che Clarke urlava, correndo – di nuovo libera – al limitare del dirupo dal quale Charlotte si era buttata, togliendosi la vita nella speranza che l'incubo finisse una volta per tutte.
Forse non avrei dovuto, forse sì. Fatto sta che sentii qualcosa dentro me incrinarsi e un urlo intrappolato in gola. Avrei voluto fare come Clarke, urlare e sfogarmi, ma me ne scoprii incapace. Ecco perché, col respiro mancante, presi a piangere in silenzio.
Ma anche quel momento di tranquillo dolore non durò granché. Quando Bellamy prese la rincorsa verso Murphy, catapultandoglisi addosso e prendendo a colpirlo senza sosta, tutto intorno a me diventò ancora più nero e offuscato di quanto già non fosse.
Non ci pensai su due volte, corsi subito verso i due e provai a far sì che Bellamy lasciasse andare Murphy. Perché ucciderlo cosa avrebbe risolto? Assolutamente nulla. 
E anche perché ero terrorizzata dall'idea di restare sola.
“Smettila!”, urlai tra le lacrime, aggrappandomi alla giacca di Bellamy nella speranza che lasciasse andare Murphy.
Una speranza vana, perché non ero forte abbastanza da fermarlo e da salvare Murphy, coinvolto in una situazione che non meritava affatto.
“S-Smettila”, continuai, illusa e alla ricerca di un aiuto che non sapevo nemmeno a chi avrei dovuto chiedere.
Non credevo potesse esserci qualcuno pronto ad aiutarmi, eppure capii di sbagliarmi quando Finn ci raggiunse e sollevò Bellamy di peso, senza troppi sforzi. Tirare un lungo sospiro di sollievo mi fu inevitabile, mentre gli dedicavo uno sguardo pieno di gratitudine e cercavo di fermare le lacrime. Non avevo bisogno di essere ancora così debole.
“Merita di morire!”.
No.
“No!”. Feci volare immediatamente gli occhi sulla figura di Clarke. “Non decidiamo noi chi vive e chi muore! Non quaggiù. Se vogliamo sopravvivere ci servono delle regole. Per ora, noi facciamo le regole”.
“Allora cosa vorresti fare? Portarlo indietro e fingere che non sia successo nulla?”.
“No!”. Strizzai gli occhi, trattenendo il respiro nell'attesa che Clarke esponesse la sua scelta. Non voleva uccidere Murphy, ma nemmeno riportarlo al campo. Quindi cosa avrebbe deciso? “Lo bandiamo”.
Mi si mozzò il respiro in gola mentre lasciavo correre il mio sguardo dalla figura di Clarke a quella di Bellamy, che subito dimostrò di apprezzare quell'idea dirigendosi nuovamente da Murphy, al quale donai l'ennesima occhiata solo quando Bellamy prese a trascinarlo con violenza verso il dirupo dal quale Charlotte si era gettata solo pochissimo tempo prima. Avrei voluto mettermi in piedi e fermarlo, terrorizzata dall'idea che potesse anche lui compiere una pazzia e fregarsene del piano di Clarke, ma le gambe non ne volevano più sapere di ubbidire ai comandi del mio cervello.
“Semmai ti dovessi beccare vicino al campo ci rivediamo qui”, mormorò Bellamy con aria minacciosa, mentre io mi limitavo semplicemente a ricoprire il ruolo di osservatrice impotente. L'ennesima lacrima mi bagnò le guance quando Bellamy finalmente lasciò andare Murphy. “Per quanto riguarda voialtri, potete seguirmi e tornare indietro oppure andare con lui e morire”.
Bellamy mi sorpassò senza degnarmi di uno sguardo, avviandosi nel profondo nero del bosco. Era stanco e voleva tornare al campo. Non era l'unico. Clarke e Finn si avviarono subito dietro di lui, seguiti dagli altri ragazzi che in un primo momento avevano appoggiato Murphy. Chissà perché, mi chiesi in un sussurro. Ma non trovai risposta, anche perché la voce di Bellamy mi impedì di pensare troppo alla cosa. Prima che sparisse nel buio fitto della vegetazione, infatti, lo osservai mentre si voltava a guardarmi un'ultima volta.
“Vale anche per te, Kane”, sibilò.
E sapevo che sarebbe andata così, che non ci sarebbero stati privilegi per me. Lo sapevo e non me ne stupii affatto: era tutto normale. Tuttavia non potei evitare di sentirmi mancare il respiro ancora una volta mentre vedevo i miei compagni sparire una volta per tutte e nel silenzio teso che era sceso all'improvviso, mi chiedevo quella volta cos'avrei scelto?

 

Respira. Non piangere. Raccogli quanta più roba possibile.
Respira. Non piangere. Raccogli quanta più roba possibile.
Ero così impegnata nella ripetizione di quel ritornello mentale – nell'insulso tentativo di tenermi tutta intera mettendo da parte quegli odiosi sentimenti che, avevo scoperto, mi rendevano debole come nulla prima d'allora – che quando Clarke mise piede nella mia tenda nemmeno me ne accorsi. La lasciai libera di avanzare nella mia direzione e di arrivarmi alle spalle, le permisi di vedere ciò che stavo facendo e di tirare le sue solite – e il più delle volte sbagliate – conclusioni. Non recepii nemmeno il suo: “Cosa fai?”; ero troppo concentrata su me stessa – sapevo che se avessi prestato attenzione ad un solo altro particolare sarei finita per scoppiare – ma quando posò la sua mano sulla mia spalla, per me scattare fu inevitabile.
“Stammi lontana”, intimai, la mia voce a metà tra un urlo ed un borbottio infastidito.
Clarke si difese come meglio poteva, alzando le mani in segno di resa ed indietreggiando subito, come da ordine.
“Brayden”, chiamò, provando cautamente ad avanzare di nuovo nella mia direzione. Cosa che ovviamente le impedii.
Ma Clarke non si arrese. Anzi, trattenne un sospiro e ne approfittò per parlarmi ancora: “Non vuoi farlo davvero”.
Mai come in quel momento avrei voluto che stesse zitta. Perché aveva ragione.
Ma non glielo dissi. Cercai solo di mandar giù il fastidioso groppo di lacrime che mi stringeva la gola in una morsa soffocante e mi inumidiva gli occhi stanchi. Ci provai, ma con scarso successo.
“N-Non posso restare q-qui”.
Vidi passare sul viso di Clarke un'ombra di comprensione. Ma non ci sarei cascata ancora una volta.
“Non puoi nemmeno andare”, mormorò, approfittando della mia momentanea distrazione per avvicinarsi di nuovo a me. “Sei il nostro ingegnere migliore. E sai combattere. Hai costruito delle armi utilissime, e potresti insegnare qualche mossa di autodifesa agli altri. Ho bisogno di te. Tutti hanno bisogno di te”.
Quando Clarke finì di parlare, era riuscita ad arrivarmi ad un passo dal naso. Me ne accorsi solo perché nel silenzio che era sceso all'improvviso potei scorgere distintamente le pagliuzze dorate all'interno dei suoi occhi blu. Deglutii, totalmente presa in contropiede. Poi però qualcosa mi spinse a pensare bene alle sue parole. Soprattutto alla sua ultima frase.
Tutti hanno bisogno di te. E qualcosa mi scattò dentro all'improvviso.
“Anche Murphy ha bisogno di me”, dichiarai, la voce di nuovo ferma e decisa come lo ero io. “Morirà, là fuori. Per un crimine che non ha commesso. Non posso lasciare che succeda”.
Afferrai lo zainetto rosso ricolmo di tutto ciò che di utile ero riuscita a raccogliere in quel breve lasso di tempo e me lo gettai sulle spalle in fretta e furia, già pronta a scappare. La mia farsa – la parte della dura che stava benissimo ed era pronta a combattere – stava funzionando alla grande, ma sapevo che non sarei riuscita a trattenere le mie lacrime ancora a lungo. Ecco perché scelsi con attenzione le ultime parole che avrei rivolto a Clarke prima di andar via, e le pronunciai con una nota ben evidente di irritazione nella voce mentre la sorpassavo con una forte spallata.
“Dovrete fare a meno della mia immensa bravura”.
“Non andare ora, ti prego”. Clarke mi afferrò un braccio, impedendomi di scappare. Avrei dovuto aspettarmelo. “Monty sta cercando di riprendere contatto con l'Arca. Non vuoi parlare con tuo padre?”.
La fulminai con lo sguardo, e solo allora lei decise di lasciarmi libera.
“È per questo che ti sei tolta il bracciale? Per riuscire di nuovo a parlare con mammina?”, sputai, voltandomi ancora una volta a fronteggiarla.
Sapevo che finché lei stessa non avrebbe reputato quella conversazione inutile come ormai finita, non mi avrebbe lasciata andare. Quindi avrei affrontato le cose a testa alta.
“Abbiamo bisogno del loro aiuto, Brayden. Che ti piaccia o no”.
“Smettila di chiamarmi per nome”, intimai. “Non mi conosci nemmeno un po'. Non me ne frega niente dell'Arca. E non me ne frega niente di voi. Potete anche morire in massa”.
Vidi distintamente il viso di Clarke contorcersi in una smorfia. Era la fine e lei se lo sentiva, aveva capito che non avrei cambiato idea mai. Nonostante tutte le belle parole che avrebbe potuto rivolgermi. I Cento mi avevano messa di fronte ad una scelta, ed era quello che avevo fatto: avevo scelto. Avevo scelto di abbandonarli. Avevo scelto Murphy. E non accettavo che me ne facessero una colpa.
“Non sopravvivrete ai Terrestri!”, sentii che Clarke mi urlava dietro quando già ero giunta all'entrata di quella che, da allora in poi, avrei dovuto considerare come la mia ex-tenda. 
“Non riuscirete a difendervi”, aggiunse poi in un sussurro.
Non aveva provato a raggiungermi di nuovo. Ed io, nonostante mi fossi ripromessa che non le avrei più detto nulla, mi voltai ancora a guardarla. E la vidi sobbalzare alla vista dell'ennesima lacrima che, solitaria ancora per poco, scendeva a bagnarmi il viso.
“È innanzitutto da voi che dobbiamo difenderci”.

 

Quando ritornai al posto in cui ore prima avevo lasciato Murphy, l'unica compagnia che trovai ad accogliermi fu quella dei deboli raggi del sole nascente. Non c'era più traccia di John.
Prima di ritornare al campo gli avevo detto di aspettarmi, gli avevo detto che sarei tornata per lui. Gli sarebbe semplicemente bastato pazientare un po', ma sapevo che non l'avrebbe fatto. Mi era piaciuto illudermi comunque.
Continuai ad avanzare verso il dirupo senza nessuna meta precisa, le gambe all'improvviso tremanti e la vista annebbiata. Cos'avrei fatto, a quel punto? Dove sarei andata? Continuai a chiedermelo finché capii di non poter andare oltre. Mi fermai ad un passo dal cadere e misi una fine anche ai miei pensieri. Un rumore improvviso risvegliò tutta la mia attenzione e subito mi voltai a guardare alle mie spalle, le difese di nuovo tutte al loro posto e pronte a difendermi da qualunque cosa ci fosse nascosto in quel poco di ombra che il sole ancora non era riuscito a spazzar via.
Scandagliai il paesaggio circostante con estrema attenzione, facendo correre gli occhi tra le file di alberi di fronte a me mentre piano mi avvicinavo a loro. Fu allora che me lo chiesi: avevo sul serio sentito un rumore? O era stato tutto frutto della mia mente messa a dura prova?
Non seppi darmi una risposta fino all'ultimo. Ma mi riscoprii più che certa di una cosa.
Ero di nuovo sola.



 
_______________________________
 
Ringraziamenti
Ad Alyssa Reid, perché la sua 
Alone again (pt.2) è meravigliosa, e non c'è canzone che descriva Ginger e Muffin meglio di questa.
A tutti i nuovi seguiti, siete tutte meravigliose e siamo quasi in venti, sinceramente stento ancora a crederci.
A chiunque su fb (
Hitomi Harmon), perché sopporta i miei scleri giornalieri su quel bellissimo raggio di Sole che è Muffin senza ancora avermi oscurata o peggio rimossa. Siete delle dolcettine adorabili.
MysteriousLabyrinth, che ha recensito TUTTI i capitoli di questa storiella senza pretese. Ti meriti un biscotto, ragazza!

Note
Ci sono così tante cose che dovrei dire su questo capitolo che so già finirò a non dirne mezza. Anyway. Vi dirò che scriverlo è stato molto più facile di quanto pensassi (forse perché mi piace sguazzare nell'angst? Mh) e che molto probabilmente se non fosse per la mia passione nel procrastinare e i mille impegni dell'ultimo minuto, l'avrei completato anche molto tempo prima. Cosa che ovviamente non è successa, dato che l'ho finito ieri e riesco a pubblicare solo ora, con un giorno di ritardo (srry).
E niente, abbiamo saputo ciò che c'era da sapere sul passato di Brayden e Wells (e non è detto che la parentesi sia chiusa qui) e abbiamo visto una Brayden "nuova", una Brayden che è spaventata sempre più e che soprattutto è egoista. Perché non vuole restare sola, perché ha già passato troppi anni della sua vita in questa condizione e non ci tiene a ritrovarsi allo square one ora che è riuscita a trovare delle persone a cui tiene (una persona a cui tiene *tosse*). Purtroppo però c'è poco che Brayden possa fare per cambiare il suo destino, difatti il capitolo si conclude con lei che è di nuovo sola. Non è detto però che la cosa duri a lungo.
Insomma, se ci tenete a scoprirlo tenetevi libere per il tredici di aprile, dico solo questo (ANSIA, pubblicherò il prossimo capitolo che avrò compiuto diciannove anni).

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Capitolo 7
*** The last ***




7.   THE LAST

 

I guess I’ve just lost my balance.
I think that the worst part of it all wasn’t losing him.
It was losing me.
I don’t know if you know who you are until you lose who you are.

 

Marcus abbandonò il letto in un fruscio di lenzuola appena percettibile, o perlomeno così sperava. Osservò Alida, ancora dormiente perché reduce dall'ennesima notte insonne – aveva chiuso gli occhi da pochissimo e con innumerevoli sforzi – e sperò ancora di non averla disturbata. Non voleva che si svegliasse, non dopo tutto ciò che aveva dovuto passare nelle ore precedenti. La nausea, i giramenti di testa, i dolori muscolari... Tutto senza che lui potesse far nulla per aiutarla.
Trattenendo a malapena un sospiro dispiaciuto, avanzò nel buio della camera da letto in direzione dell'armadio a parete, muovendosi a tentoni per non inciampare in uno qualsiasi degli ostacoli nella stanza. Alla fine riuscì chissà come a recuperare un cambio di abiti e solo allora si preparò ad abbandonare la camera, non prima però di aver donato un ultimo sguardo ad Alida. La trovò immobile come solo pochi minuti prima, il petto che piano si sollevava ad ogni flebile respiro e i capelli rossi intenti a coprirle il volto come al solito.
Non avrebbe voluto lasciarla sola, ma doveva presentarsi a lavoro anche quella mattina. Doveva rispondere ai suoi incarichi proprio come se nulla fosse successo, e per questo continuò a prepararsi senza fare rumore. Quando Alida sentì l'acqua della doccia prendere a scorrere, tirò un sospiro di sollievo. Era sveglia. Ancora. Ma l'importante era che Marcus la credesse addormentata. Tranquilla. Così che andasse via anche quel giorno e la lasciasse sola.
Aprì gli occhi verdi, ritrovandosi di fronte nient'altro che il buio pesto della camera in ombra. Si scoprì il viso dai capelli e cercò invano di far riacquistare sensibilità alle gambe intorpidite e doloranti. Sarebbe uscita non appena Marcus fosse andato via, era quello il piano. Doveva pazientare solo un altro po', poi sarebbe stata libera di fare ciò che voleva sul serio. Ma per quello le serviva che le gambe facessero il loro lavoro.
Ciò che ottenne appena due ore dopo era molto lontano dai risultati che si era prefissata di raggiungere, ma pur traballando tramortita si ripeté che sarebbe uscita e avrebbe fatto quello che andava fatto. Quella scomoda situazione andava avanti da poco più di sei mesi, decisamente troppo tempo perché potesse sopportare un tale incomodo solo un minuto di più. Aveva provato a fare certi discorsi con Marcus, ma lui l'aveva guardata trucemente ogni volta, impedendole di parlare e di sfogarsi. Lui non capiva, né avrebbe capito mai cosa significava vedersi in un corpo che non senti più tuo, vederlo cambiare senza che si possa fare nulla per impedirlo o ancora doverlo dividere con una creaturina che non si è voluta nemmeno per un attimo. Sentirsi impotenti e debilitati in ogni momento. Era un Inferno: lo era stato la prima volta e lo era ancora. Lo sarebbe stato sempre. Ma Marcus non capiva. Non poteva capire.
Alida sospirò, coprendosi il volto col cappuccio nero di una vecchia felpa che era appartenuta a chissà chi. L'aveva trovata nel fondo dell'appartamento che ormai da troppi anni divideva con Marcus e subito l'aveva indossata, nascondendo i capelli rossi alla bell'e meglio. Camminava con la testa china e il passo più veloce possibile, aveva evitato gli sguardi di tutti affinché nessuno potesse riconoscerla e farle domande. Era stata furba, aveva utilizzato anche delle strade secondarie e poco trafficate. Tutto per arrivare alla propria meta senza intoppi.
Di fronte all'ingresso dello studio medico, Alida si lasciò scappare un sorriso. Il Dottor Lahiri, suo medico di fiducia da sempre, l'accolse dopo che ebbe bussato solo un paio di volte alla sua porta. Dapprima la guardò incuriosito – non c'era nessuna visita in programma, per quel giorno, quindi perché Alida era lì? Si era per caso sentita male? Queste domande si pose il Dottore, complice anche il pallore poco rassicurante della donna che aveva di fronte – poi però le aveva riservato un sorriso, invitandola ad entrare con un cenno della mano.
Alida aveva ubbidito, e quando aveva sentito lo scricchiolare della porta e di conseguenza il rumore di quest'ultima che le si chiudeva alle spalle, aveva dovuto trattenere un sospiro soddisfatto. Ce l'aveva fatta. Era al sicuro. Sola con l'unica persona che – sperava – l'avrebbe capita. Senza fare troppe domande. Tranne una.
“Cosa ti porta qui, cara?”.
Prima di rispondere, Alida trattenne per un attimo il respiro. Era sul serio pronta a sputare quelle scomode parole che le si erano incastrate in gola da ormai mesi? Era pronta a liberarsi di quel groppo, accettandone però ogni conseguenza? , pensò.
Mosse un passo nella direzione del Dottore e poi a testa alta e quasi senza il minimo vacillo, confessò: “Voglio l'aborto”.
 

 

Da che avessi memoria, le orecchie non mi avevano mai fischiato così tanto. Non riuscivo a sentire né vedere nient'altro. Era tutto buio e assordante, tanto che per più di un momento sentii la paura raggelante di essere in grave pericolo farsi beffe di me e stringermi il cuore in una morsa dolorosa. Non riuscivo a muovere un muscolo, ma capii dopo qualche sforzo di essere sdraiata a terra. Le foglie cadute sfrigolavano sotto la mia schiena e mi sentivo una guancia completamente insozzata di fango. Trattenni a malapena un lamento.
Aprire gli occhi sarebbe stato l'ideale, ma erano così stanchi e pesanti. E facevano male: sentivo bruciarmi sulle palpebre i raggi del sole alto nel cielo e sapevo che se avessi aperto gli occhi come voleva una parte di me, sarei finita a ferirmi ancor di più. La testa poi mi doleva così tanto a causa di quell'assordante fischio nelle orecchie che proprio non riuscivo più a formulare un solo pensiero logico.
Quanti giorni erano passati da quando avevo lasciato il campo? E soprattutto: dov'ero finita? Ero ancora tutta intera, nonostante mi sembrasse proprio il contrario? Ricordavo poco e nulla, oltre al mio camminare e camminare per i boschi senza mai fermarmi – né per bere né per mangiare. Ero sola e spaventata, volevo riunirmi a qualcuno al più presto – a Murphy – e non avevo di certo tempo per pensare a me stessa. Pareva dunque che quel mio menefreghismo mi fosse costato carissimo.
Da sempre il dolore mi aveva affascinata. Checché se ne dica, tutti ci ritroviamo ad affrontarlo nella vita – più e più volte. Nessuno può dire di essere sempre e comunque stato felice – e nessuno lo fa, in effetti. Anzi, la gente in genere si lamenta anche quando non dovrebbe. Ma questo è un altro discorso.
Da che ho ricordo, il dolore è sempre stato una costante della mia breve vita. L'unico caro amico che avessi, sempre e comunque al mio fianco – anche nei momenti migliori, quando aveva la decenza di nascondersi in un angolino buio della mia mente e non infastidirmi, prima però di tornare all'attacco più violento che mai. Il dolore per una madre che non mi è stata mai concessa, per un padre che in realtà non mi ha davvero mai capita, una nonna che non è mai stata dalla mia parte e persone che pur professandosi mie amiche non mi hanno mai aiutata – non mi hanno mai coinvolta, non mi hanno mai trattata come una loro pari anche quando lo ero. Il dolore dei segreti, quelli che avevo provato a svelare da me guadagnandomi un viaggio di sola andata per gli Spalti del Cielo.
Ma più che il dolore, ciò che mi aveva sempre affascinata di più era come reagisse la gente messa di fronte a quest'ultimo. Oh, le reazioni della gente. Sono quanto di più interessante ci sia al mondo. Nei momenti felici, gli uomini ridono e festeggiano e stanno bene. Ma in quelli tristi... Nessuno reagisce mai allo stesso modo. Nessuno dà le stesse risposte al dolore. C'è chi – di fronte a quest'ultimo – sviluppa un'empatia che sinceramente, da brava egoista quale sono, non ho mai compreso appieno. E chi invece, come me, reagisce al dolore non sentendo più nulla – né il proprio malessere né tantomeno quello degli altri.
Proprio così mi sentivo in quel momento. Vuota. Libera da tutto e tutti. In ogni senso possibile. Mi resi conto subito però che al contrario avrei dovuto sentirmi piena, quasi a scoppiare. Piena di dispiacere, di immagini confuse – il verde dei boschi, sempre uguale in ogni punto; il colore metallico di una navicella: l'avevo vista sul serio? Qualcuno da lassù ci aveva raggiunti?; animali indefiniti che scorrazzavano tra gli alberi; me che confusa non riuscivo ad identificarli e finivo semplicemente per nascondermi, da tutto e tutti; la mia paura costante – e di domande senza risposta: i Cento erano riusciti a ristabilire i contatti con l'Arca?
Invece no. Vuota. Tutto nero. Nessuna luce.
Svenni di nuovo pochissimi attimi dopo.

 

 

Brayden”.
Ripresi conoscenza solo a quel suono improvviso ma familiare. Qualcuno stava chiamando il mio nome, per quanto dopo giorni e giorni di silenzio assoluto già non lo sentissi più così mio – per quanto già non mi sentissi poi così tanto Brayden. Qualcuno stava chiamando il mio nome e lo stava facendo ripetutamente, tra una breve pausa e l'altra, tirandomi fuori dall'abisso nero nel quale mi cullavo da ormai moltissimo tempo. All'improvviso c'era solo quella voce e null'altro, né il fischio onnipresente nelle mie orecchie né gli accecanti raggi del sole. Solo quella voce e una domanda nella mia testa: a chi appartiene?
Sapevo che non avrei avuto risposta se non aprendo gli occhi. Ed è proprio questo che feci, obbligai le mie palpebre a sollevarsi e seppur con immensi sforzi, alla fine la vittoria andò alla sottoscritta. Ciò che mi ritrovai di fronte – chi mi ritrovai di fronte – mi fece all'improvviso venir voglia di dimenarmi in preda ad un'emozione che non credevo avrei più sentito, urlare soddisfatta e anche sorridere. Ma non riuscii a fare nulla di tutto ciò. Lasciai solo che un gemito sorpreso mi abbandonasse le labbra, sentendolo venir fuori come qualcosa di molto più simile ad un'esclamazione di dolore. Poi richiusi gli occhi, stanca.
“Si può sapere cosa diavolo fai?”.
Murphy aveva smesso di chiamare il mio nome, decidendo bene di passare all'attacco.
“Per un attimo ho creduto che fossi morta, Cristo”.
Alzò la voce su quell'imprecazione vagamente preoccupata, poi sentii le sue mani spostarmi i capelli dal viso prima di muoversi dappertutto mentre mi chiedeva se fossi ferita. Non gli risposi, perché non lo sapevo. Non sapevo nulla, se non che fosse vivo. E che sembrava stare bene – meglio della sottoscritta, se non altro – e ciò mi bastava. Gli donai un altro sguardo per accertarmi della cosa e deglutii prima di provare a parlargli. Ma lui me lo impedì.
“Cosa ci fai qui?”, domandò quando si rese conto di avere almeno parte di tutta l'attenzione che in quello stato pietoso sarei riuscita a dargli.
Deglutii ancora, poi provai a mettermi seduta con infiniti sforzi. Ancora non ho idea di come ci riuscii, forse mi aiutò John o forse no. Sinceramente non lo ricordo. Fatto sta che non appena raggiunsi il mio obbiettivo mi fiondai tra le sue braccia il più velocemente possibile – questo lo ricordo vivamente. Lui non se l'aspettava però, tant'è che traballò lievemente all'indietro prima di riacquistare l'equilibrio perso e stringermi a sé. Per un solo breve attimo sentii che ogni piccola parte di me tornava al suo posto e che non ero più persa e vuota come credevo. Lo strinsi a me di rimando per accertarmi che fosse veramente lì e che non stessi semplicemente sognando, preda di un delirio provocatomi dall'eccessiva fame. D'altronde, era passata quasi un'eternità dall'ultimo pasto che avrei potuto definire tale.
“Tu sei tutta pazza”, mormorò Murphy allora, distogliendomi da quei pensieri futili. “Credevo fosse chiaro dalla mia dipartita che non ti volevo qui con me”.
Continuò a parlare anche se non gli rispondevo e stava cominciando a credere – potevo capirlo da quanto fossero tesi i muscoli delle sue braccia – che non gli stessi prestando la minima attenzione. Si sbagliava però, perché per quanto mi fosse difficile restare focalizzata sulle sue parole, ce la stavo mettendo tutta proprio per riuscirci. Non volevo perdermi più nulla, anche se c'era una piccola parte di me che ancora mi spingeva a chiedermi se fosse tutto vero o meno, distraendomi da ciò che davvero era importante.
“Devi per forza metterti nei guai, no? Altrimenti non ti diverti”.
Liberò un'altra imprecazione, credo, non ne sono sicura. A quel punto mi ero distratta davvero: le sue precedenti parole mi erano ritornate alla mente all'improvviso. Credevo fosse chiaro dalla mia dipartita che non ti volevo qui con me. Ecco perché se n'era andato. L'aveva fatto di proposito. Aveva capito che volevo lasciare il campo con lui e mi aveva sentita benissimo quando gli avevo detto di aspettarmi, perché sarei tornata. In preda a quella che identificai come rabbia – era così bello sentire di nuovo qualcosa, anche se non riuscivo ancora bene a capire cosa – mi feci lontana dal suo corpo e lo fulminai con lo sguardo. Poi provai a parlare, ma anche quella volta Murphy me lo impedì.
“Cosa avresti fatto se fossi stato un Terrestre?”, chiese in tono grave, e quella domanda mi fece istintivamente rabbrividire.
Non avevo idea di cosa avrei fatto, né tantomeno volevo pensarci. Ecco perché distolsi alla velocità della luce lo sguardo dal viso di John, cercando di scacciare via dalla mia mente simili quesiti senza risposta. All'improvviso mi sentivo piena di vergogna.
Avvertii la sua mano che correva sulla mia guancia – le dita fredde sullo zigomo dolorante – e non sobbalzare mi fu difficilissimo. Dovetti riportare i miei occhi nei suoi, costretta da una forza che non riuscivo ad identificare.
“Sei ferita”. Non sapevo se fosse una domanda o un'affermazione, nel dubbio me ne rimasi zitta – ancora. Murphy allontanò le dita dalla mia guancia ed io dovetti trattenere un sospiro sollevato.
“Di' qualcosa”, ordinò dopo qualche attimo, quando il silenzio cominciava a pesargli tanto da quasi implorarmi affinché gli parlassi.
Quel silenzio pesava tanto anche a me. E avrei davvero voluto parlare, ma mi riscoprii all'improvviso incapace di dire anche solo mezza sillaba. Boccheggiai alla ricerca di argomenti, ma cosa mai avrei potuto tirar fuori di sensato? Non avevo mica bisogno di parole.
“Bray–”. Murphy sì, però.
“Stai bene”, lo interruppi, così piano che mi chiesi se non avessi solo immaginato di aver parlato dopo interi giorni di silenzio.
Era davvero quella la mia voce? E lui mi aveva sentita?
Ebbi la risposta quando annuì.
“Sto bene”, confermò, prendendo tra le sue le mani che – senza nemmeno rendermene conto – avevo fatto correre al suo viso pieno di cicatrici. Non aveva ancora lavato via il sangue rappreso dei colpi di Bellamy, ma stava bene. O perlomeno così sembrava.
“Tu no, però. Da quant'è che non mangi?”. Ancora non risposi. Non avevo nulla da dire.
Mi limitai a guardarlo mentre cercava qualcosa disperatamente senza però trovarla. Ispezionò tutto intorno a noi in lungo e in largo, mentre la mia confusione cresceva sempre più. Solo alla fine della sua ricerca apparentemente infruttuosa ritornò con gli occhi sul mio viso.
“Devi tornare al campo. Subito”, stabilì – decise per me – e fece per mettersi in piedi, ma glielo impedii afferrandogli la giacca.
No, avrei voluto sibilare. Ma la voce di nuovo mi mancava. Ecco perché cercai di trasmettergli il mio messaggio attraverso l'espressione che misi su di lì a poco. Nel vederla, Murphy sbuffò.
“Non fare quella faccia”, ordinò, liberandosi dalla mia debole presa e mettendosi in piedi una volta per tutte. “Non ci daremo alla fuga romantica che sogni, Kane”.
Kane. Mi aveva chiamata Kane. Non Brayden né tantomeno Ginger. Kane. Stava – ancora una volta – cercando di prendere le distanze. Boccheggiai, ferita più di quanto non volessi mostrare. E lui se ne accorse, perché subito mi si inginocchiò di fronte e aggiunse – con voce molto meno dura: “Ascolta, non credere che non mi piacerebbe tenerti lontana dalle merde che ci sono al campo. Perché mi piacerebbe, e anche troppo. Ma non posso. Non posso proteggerti, e tu non puoi proteggere me. Lo sai. Sei più intelligente di così”.
Me ne rimasi in silenzio per qualche tempo. Ancora non so bene perché. Forse volevo recuperare un po' di forza per parlare, forse invece stavo semplicemente lasciando che la mente vagasse alla ricerca della domanda giusta da porre. C'erano così tante cose che avrei voluto chiedere che all'improvviso mi ritrovai indecisa nello scegliere quale fosse la più giusta.
Perché?”, pigolai infine, sollevando gli occhi sulla figura di Murphy che ancora mi sovrastava.
Lui semplicemente aggrottò le sopracciglia, confuso.
“Perché cosa?”.
“Perché non mi vuoi con te?”.
Quella volta toccò a John chiudersi in un inusuale silenzio. Distolse gli occhi dal mio viso alla velocità della luce, masticando un'imprecazione che non compresi mentre si mordeva le labbra e sbuffava vagamente infastidito. All'improvviso aveva perso la voglia di parlare, ma mi doveva una risposta e feci di tutto per farglielo capire. Tanto che alla fine si arrese.
“Perché ti voglio al sicuro”, pronunciò all'improvviso, così velocemente che subito mi chiesi se non avessi solo immaginato quelle parole che aveva buttato fuori con immensa fatica. “Sei contenta ora? L'ho detto. Soddisfatta?”.
Non risposi. Ancora.
“Non voglio saperti in pericolo. E con me lo saresti. Per un sacco di motivi”.
L'aveva detto sul serio. E l'aveva anche ribadito. Ci teneva a me. Se ne fossi stata in grado, penso che avrei sorriso. Se non mi fossi sentita così amareggiata, l'avrei fatto.
“Perciò preferisci affrontare tutto questo da solo”, mormorai, distogliendo nuovamente gli occhi dal viso di Murphy.
“È così che deve andare. Hanno punito me. Sono io quello che deve pagare”.
Il mio rifuggire il suo sguardo non durò tanto quanto avrei voluto.
“Per qualcosa che non hai fatto”.
Murphy sbuffò, vagamente divertito. Poi alzò gli occhi al cielo.
“Sai meglio di me che l'avrei fatto, se Charlotte non si fosse buttata giù da quel dirupo. Non credermi il santo che non sono, Brayden”, consigliò, cercando di sembrare tremendamente serio. Come se così facendo gli avrei davvero creduto. “Un po' me lo merito. Sono una persona...”.
Lo interruppi immediatamente.
“Non dirlo. Non. Dirlo”. Provai a mettermi in piedi con scarsi risultati. “Non sei una persona cattiva. Ti sono capitate delle cose cattive. È diverso”.
“Non puoi esserne sicura”.
Era vero. E lui lo capì.
“Ma lo sono”, mormorai comunque, annuendo per dare ancor più forza a quell'affermazione. “Ed è per questo che voglio stare con te”.
“Ti ho già detto che non puoi. Non insistere”. Cadde il silenzio ancora una volta, e subito provai ad ingegnarmi alla ricerca di un piano. Dovevo restare con lui a tutti i costi.
“Ce la fai a camminare?”, sentii a malapena che mi chiedeva qualche attimo più tardi, prendendo poi a parlare tra sé e sé.
Ovviamente non gli risposi. Né tantomeno provai ancora a mettermi in piedi come avevo fatto fino a quel momento. Al contrario mi
ancorai al terreno, ben decisa a non muovermi di nemmeno mezzo millimetro. Voleva che tornassi al campo? Avrebbe dovuto usare la–

Non feci in tempo a finire di formulare quel pensiero. Mi sentii sollevare in aria così velocemente e inaspettatamente che un urlo roco mi abbandonò le labbra, raschiandomi la gola. La vista mi si capovolse e prima ancora che potessi rendermene conto sul serio, ero sulle spalle di Murphy. Imprecai mentalmente più e più volte. Era troppo forte perché potessi farmi valere, lo capii dopo minuti interi passati a dimenarmi come un'anguilla fuor d'acqua affinché mi lasciasse libera di scendere.
Sconfitta, cominciai a pregare qualunque divinità conoscessi perché quella tortura finisse e lui cambiasse idea. Solo alla fine qualcuno lassù decise di aver pietà di me, perché il cielo fattosi scuro all'improvviso venne squarciato da un violento lampo che l'illuminò quasi a giorno. Lampo che fu seguito poi da un tuono assordante.
Stava arrivando una tempesta. Lo capii subito proprio come Murphy, che arrestò la sua camminata di botto.
“Per stanotte ti va di lusso, Ginger”, lo sentii che mormorava sconfitto, dopo aver soffocato un'imprecazione stupita.
Sapendo bene che non avrebbe potuto vedermi, lasciai che uno dei primi sorrisi che riuscivo a mettere su dopo giorni e giorni mi affiorasse sul volto.

 

 

La pioggerellina leggera e anche vagamente piacevole dei giorni succedenti all'arrivo dei Cento sulla Terra era ormai solo un pallido ricordo. Quello in corso era un acquazzone, un... uragano, avrebbe detto Clarke. Ma non era sicura di poterlo definire così: aveva letto quella parola su un manuale quelli che le sembravano secoli prima e non ne ricordava più bene il significato. Ecco perché se ne rimase in perfetto silenzio ad osservare lo scenario nefasto di fronte ai suoi occhi, senza muovere un muscolo se non per alternare occhiate da Raven – che guardò implorante, pregandola affinché riuscisse finalmente a ristabilire i contatti con l'Arca – a Finn svenuto sull'improvvisato tavolo operatorio all'interno della navicella.
Clarke osservò più del dovuto il pugnale che gli squarciava l'addome, tenendolo però – paradossalmente a dir poco – ancora in vita, per quanto non sembrasse. Ancora non aveva capito bene come fosse potuta succedere una cosa del genere né si era fatta più di tante domande. Non aveva bisogno né di quelle né di risposte futili. Doveva solo salvare il ragazzo che aveva capito di amare, per quanto male si fosse comportato con lei nascondendole l'esistenza di una ragazza che aveva rischiato la sua vita per raggiungerlo lì. Una ragazza che lo amava più di quanto non sembrasse e che stava provando con tutte le sue forze a riprendere i contatti con la Stazione Arca, richiamandone il nome più e più volte senza mai perdere la speranza. Solo allora Clarke riportò gli occhi azzurri sulla figura di Raven, facendolesi vicina di corsa non appena le sembrò di sentire una risposta proveniente dalla radio silenziosa.
La linea era a dir poco disturbata, ma la domanda: “Chi parla?” seguita dall'ordine: “Per favore, identificarsi” era stata posta sul serio. Clarke non l'aveva sognata.
“Sono Raven Reyes”, ubbidì proprio lei subito, senza farselo ripetere due volte. All'improvviso nella navicella era silenzio assoluto. “Vengo dalla Stazione Mecha, sto trasmettendo dalla Terra. I Cento sono vivi”.
Dalla radio si udì un brusio non ben identificato, un miscuglio di voci che – pur impegnandosi moltissimo – Clarke non riuscì ad identificare, almeno finché non sentì il Cancelliere Jaha dare l'ordine di individuare l'origine del segnale. Aveva bisogno di una conferma, e non era l'unico. Marcus Kane di fronte a lui ascoltava il tutto con un'espressione a dir poco stupita in volto.
“Proviene dalla Terra, signore”, confermò una voce che Clarke non collegò a nessuno, pur avendola già sentita in precedenza.
In fondo sapeva di conoscerla, ma non ebbe tempo di capire a chi sul serio appartenesse. La voce di sua madre – quella che dopo giorni credeva di aver già dimenticato – distolse subito la sua attenzione da pensieri tanto futili.
“Raven”, la sentì chiamare, seppur la voce arrivasse disturbata dalla tempesta e a tratti. “Sono io, sono Abby”.
Aveva finalmente risposto al richiamo disperato dei Cento, e Clarke non poté fare a meno di liberare un sospiro di sollievo. Strappò dalle mani di Raven il microfono che questa stringeva forte tra le dita, poi chiamò la madre in un sussurro. Dall'altra parte della linea ci furono interminabili minuti di silenzio, almeno finché Abby non pronunciò il nome di Clarke con un tono di voce che aveva tutta l'aria di essere rotto da un pianto imminente.
“Sono io”, confermò subito Clarke, liberando l'ennesimo sospiro. “Mi serve il tuo aiuto. Uno dei nostri è stato pugnalato da un Terrestre”.
Altro pesante silenzio seguì quella rivelazione. Poi una domanda – quella che tutti avrebbero voluto porre ma che nessuno aveva il coraggio di pronunciare ad alta voce – ruppe quella trance fastidiosa.
“Sulla Terra ci sono dei sopravvissuti?”. Era il Cancelliere Jaha a parlare.
E al suono di quella domanda Clarke annuì, anche se sapeva che lui non avrebbe potuto vederla. Ecco perché spiegò brevemente e ad alta voce la situazione, di modo che anche gli abitanti dell'Arca potessero comprendere la gravità del guaio in cui li avevano cacciati mandandoli lì. Riuscì nel suo intento, perché avvertì l'agitazione improvvisa della sala di controllo attraverso il microfono. Non c'era tempo per altre preoccupazioni però, e Clarke lo ricordò a tutti chiedendo nuovamente l'aiuto di Abby. Finn stava morendo e lei non poteva permettere che ciò succedesse.
“Clarke”. La voce di Thelonius interruppe Abby prima che potesse parlarle ancora, dando inizio all'operazione salvavita che Clarke non vedeva l'ora di mettere in atto. “C'è mio figlio lì?”.
La Griffin deglutì. Sapeva che quella domanda, prima o poi, sarebbe arrivata. Se lo sentiva. E anche se si trattava dell'ultima domanda che avrebbe voluto sentirsi porre, sapeva bene che meritasse una risposta. Trattenendo a stento le lacrime, Clarke tirò fuori delle scuse sentite.
“Wells...”, provò a mormorare poi, ma dire ad alta voce ciò che avrebbe dovuto dire si rivelò molto più difficile del previsto. “Wells è morto”.
Dirlo ad alta voce rendeva tutto così vero. Clarke pensò che avrebbe pianto, ma una domanda inaspettata la distolse da quei pensieri.
“Dov'è Brayden?”.
Non si era nemmeno presentato, Marcus Kane, perché sapeva benissimo che non ce ne fosse bisogno. E aveva ragione, perché Clarke lo riconobbe subito e non poté far altro che immobilizzarsi sotto il peso di quel quesito senza risposta. Dire qualcosa le costò una fatica immensa.
“Non lo so”, deglutì poi, cercando di tenere lontano dalla mente il ricordo di Brayden, che all'improvviso le pesava sullo stomaco ancor più di un macigno.
Non sapeva dove fosse, e la cosa faceva schifo. L'aveva lasciata andar via senza poter fare nulla per impedirlo.
“Cosa dovrebbe significar...”.
Marcus”. Abby fermò l'invettiva del Consigliere richiamando il suo nome col solito tono tranquillo di sempre, e lui – come suo solito – arrestò le sue urla e s'impose un contengo. “Non ora”.
Abby gli donò un'occhiata decisa. Avrebbe voluto dirgli che dopo avrebbero pensato a risolvere la situazione insieme, ma non poteva. Non ce n'era tempo: un altro ragazzino rischiava di morire.
Ecco perché provò a fargli capire tutto con un solo sguardo, mentre in sottofondo sentiva le scuse ridondanti di Clarke. Era dispiaciuta sinceramente, ma Marcus fece finta di non capirlo. Proprio come fece finta di non aver recepito il messaggio silenzioso di Abby.
Abbandonò la sala di controllo a grandi falcate, senza nemmeno preoccuparsi di nascondere tutta la sua rabbia.

 

 

Vera era diretta a casa quando le sembrò di vedere per la seconda volta nel giro dello stesso giorno la figura di suo figlio. Subito non poté far altro che arrestare la sua tranquilla camminata, incredula. Non le capitava da ormai moltissimo tempo di vedere Marcus così spesso e per un attimo proprio non poté fare a meno di chiedersi se l'uomo che vedeva di spalle – quello terribilmente somigliante al suo unico figlio – non fosse nient'altro che il frutto della propria mente stanca e provata da quella pesante giornata che oramai, finalmente, si apprestava a giungere al termine.
Gli si avvicinò lentamente e in punta di piedi, scoprendo di avere ragione solo quando guadagnò il suo fianco in perfetto silenzio. Non voleva disturbare la contemplazione assorta nella quale Marcus sembrava rinchiuso da moltissimo tempo, il capo chino e gli occhi fissi sull'Albero dell'Eden che piano piano sembrava rinascere.
Vera pensò che non avrebbe detto né fatto nulla almeno per un po' – si sarebbe semplicemente goduta il momento – ma lo scorgere una lacrima sul viso di Marcus le fece immediatamente cambiare idea.
“Ehi”, lo richiamò all'improvviso, cercando di attirarne l'attenzione sulla sua figura preoccupata a dir poco. “Cos'è successo, tesoro?”.
Finalmente, Marcus diede segno di essere consapevole della presenza della madre di fianco a sé. Distolse lo sguardo dal bonsai che aveva bagnato con dell'acqua solo pochi minuti prima e cercò velocemente il viso di Vera, ritenendo ormai inutile nasconderle le lacrime che stava versando in solitudine fino a poco prima che lei arrivasse. Oramai la madre era ben consapevole dello stato emotivo in cui versava Marcus, dunque perché fingere ancora?
“Non sanno dov'è Brayden”, comunicò lui dopo un po', mettendo anche la madre – la nonna di Brayden, l'unica che avesse – a conoscenza di quel particolare straziante. “Se è viva o meno”.
La voce gli si incrinò ancor di più su quel “meno” piazzato ad arte per sostituire ciò che in realtà avrebbe dovuto dire. Morta. Il solo pensare a quell'aggettivo lo faceva rabbrividire. Cosa che in effetti fece Vera, sobbalzando al fianco di Marcus senza che riuscisse ad impedirselo. Avrebbe voluto parlare e rassicurarlo in qualche modo, ma se ne riscoprì all'improvviso incapace. E allora fu Marcus ad occuparsi di spezzare il pesante silenzio sceso ad avvolgerli.
“E non lo so neanch'io”, aggiunse, ritornando a posare gli occhi sul bonsai mentre l'ennesima lacrima scendeva a bagnargli le guance.
“Non so più nulla. Nemmeno chi sono”.

Fece spallucce, sconfitto e amareggiato. Solo di fronte a quell'ennesima affermazione di Marcus, Vera ritrovò la forza di parlare che sembrava aver perso attimi prima.
“Sei mio figlio”, mormorò convinta, perché era vero. Marcus era suo figlio, e non c'era bisogno che sapesse nient'altro oltre a quello. O forse sì.
“E un padre meraviglioso”, aggiunse difatti pochi attimi dopo. Doveva ricordarglielo lei, perché Marcus molto spesso si dimostrava totalmente dimentico di quel particolare di vitale importanza.
“Non è vero. Non...”. S'interruppe all'improvviso, non sapendo come continuare – o forse stanco di ripetersi. “Ho fatto delle cose terribili”.
“E ne hai subite altrettante. Hai cresciuto Brayden da solo. E io l'ho vista, giorno dopo giorno, diventare sempre più forte. Come te”.
Marcus sospirò e socchiuse gli occhi in modo colpevole prima di riprendere a parlare, stavolta pieno di una rabbia che si sostituì alla rassegnazione nel giro di un momento.
“L'ho denunciata, mamma”, sputò. “L'ho fatta arrestare. L'ho condannata a morte. Solo perché ha provato a scoprire ciò che tutti le abbiamo sempre nascosto”.
Con quel “tutti”, Marcus intendeva proprio tutti. Compresa Vera, che sotto quella velata accusa sobbalzò ancora una volta. Era colpevole anche lei, ed era inutile negarlo. Ma anche quella volta non ebbe tempo di dire nulla.
“Quale genitore lo farebbe mai?”, domandò Marcus, interrompendola prima che potesse dire qualsiasi cosa, alzando la voce e mozzandole il respiro.
Allora Vera provò subito a tranquillizzarsi e partì alla ricerca di parole giuste, quelle che sapeva andassero pronunciate a tutti i costi.
“Volevi solo proteggerla”, dichiarò infine, soddisfatta almeno in parte del risultato. “E per questo Dio ti perdonerà, Marcus. Ma la vera domanda è: riuscirai tu a perdonarti?”.
Il Consigliere ci pensò su per qualche attimo. O perlomeno, finse di farlo. In effetti non ne aveva bisogno. Conosceva già benissimo la risposta a quel quesito. Tant'è che dopo soli pochi minuti, scosse la testa ripetutamente e diede a sua madre la risposta che questa attendeva quasi con ansia.
“Non se è morta”.
Morta. L'aveva detto. Aveva pronunciato l'aggettivo tabù. E la cosa lo fece istintivamente sentire come se un po' fosse morto anche lui. Vera lo capì immediatamente, perché lo strinse in un abbraccio senza farselo ripetere due volte. Marcus non se l'aspettava però, tant'è che inizialmente non accennò minimamente a voler ricambiare la stretta.
Ma dopo che Vera gli sussurrò in un orecchio: “Sono sicura che Brayden stia bene”, Marcus non poté far altro che stringere la madre a sé di rimando in un silenzioso: “Lo spero”.
 

 

Avevo sperato che la tempesta durasse per giorni, settimane, mesi. Avevo sperato che Murphy cambiasse idea e decidesse di tenermi con sé. Avevo sperato in un sacco di cose, inutilmente. Mi era piaciuto illudermi come al solito e credere che tutto si sarebbe risolto, alla fine, anche se ogni cosa sembrava suggerire l'esatto contrario.
Sapevo benissimo che non appena la pioggia – inaspettata e improvvisa ma non per questo poco gradita – avrebbe smesso di scendere sulla Terra, Murphy mi avrebbe costretta a tornare al campo – che lo volessi o meno. E le cose andarono proprio così.
Ci eravamo rimessi in cammino il mattino dopo, accompagnati da un sole che era tornato padrone del cielo quasi senza che nessuno se ne accorgesse e soprattutto come se nulla di devastante fosse successo. Cosa che era ben lontana dalla realtà, proprio da come capii ritrovandomi a fronteggiare uno scenario che mai mi sarei aspettata di dover vedere.
“Pare che la tempesta gli abbia dato problemi”, mormorò John all'improvviso, impedendomi di porgere la domanda confusa che avrei voluto fare a non sapevo nemmeno io chi.
Eravamo così vicini al campo che avrei dovuto essere spaventata, non solo perché di lì a poco avrei dovuto lasciarlo andar via – e quella volta sul serio – ma anche perché qualcuno avrebbe potuto vederlo lì dove gli avevano proibito categoricamente di tornare, e ciò avrebbe potuto far sì che quella situazione già di per sé spiacevole degenerasse in qualcosa di ancor più orrido.
Perciò mi nascosi più accuratamente dietro uno dei grandi alberi al limitare di quella che un tempo era stata la recinzione che separava il campo dal resto del bosco, spingendo poi Murphy a fare altrettanto. Non volevo che qualcuno lo vedesse – volevo ancora proteggerlo – e sapevo che sarebbe stato ancor più facile che una cosa del genere succedesse allora che la recinzione non esisteva più, spazzata via com'era stata dalla tempesta della notte precedente. I Cento avevano avuto sul serio problemi, e me lo confermarono non solo le condizioni critiche del campo ma anche il vederli muoversi velocemente da una parte all'altra per poter risolvere il problema nel modo più veloce possibile.
“È un disastro”, fu tutto ciò che riuscii a dire guardandomi ancora intorno in maniera furtiva e registrando con un po' di dispiacere le tende distrutte e gli alberi caduti che ora invadevano il campo.
Era così diverso da quando l'avevo lasciato che per un solo breve attimo sentii il cuore stretto in una morsa dolorosa.
“Un po' se lo sono meritato”, mi sussurrò Murphy all'orecchio, e quella sua osservazione mi distolse dai miei pensieri.
Per poco non annuii. Aveva ragione. Ma non lo dissi. Me ne rimasi in silenzio finché non sentii la sua mano a palmo aperto premuta sulla schiena.
“Va'”, ordinò, spingendomi fuori dal nostro nascondiglio. Ovviamente opposi resistenza. “Dai, Ginger. Non ce la fanno senza di te: guardali”.
Sapevo che non fosse vero – parlava così solo perché voleva farmi contenta – eppure obbedii al suo ordine e li guardai sul serio. Ridonando l'ennesimo sguardo al campo distrutto, mi ritrovai Bellamy e Clarke così vicini che non sobbalzare mi fu impossibile. Non erano solo vicini a me, erano vicini e basta. Tanto che le loro mani si sfioravano ed io mi ritrovai ad osservare quella stretta come ipnotizzata. All'improvviso il desiderio di sapere tutto ciò che era successo in mia assenza si dimostrò più forte di qualsiasi altra cosa. E anche John lo capì.
“Muoviti ad entrare”, ordinò ancora, spingendomi nuovamente la mano sulla schiena. Compresi subito che non avrei avuto più tempo per rimandare quel momento. Pur di riportarmi al campo, sarebbe stato capace di mettersi in grossissimi guai. E dovevo impedirlo a tutti i costi.
Prima di ubbidire, mi voltai a fronteggiarlo per quella che sapevo fosse l'ultima volta.
“Promettimi solo una cosa”, pregai, col tono di voce più basso che possedessi perché ero terrorizzata dall'idea che qualcuno potesse sentirci.
A quella mia richiesta, Murphy alzò gli occhi al cielo come se già sapesse cosa avrei detto di lì a poco. E in parte era così.
“Starò attento”, rassicurò infatti, anticipandomi. Poi mi spinse ancora una volta fuori dall'ombra nella quale ce ne stavamo nascosti da tempo.
“Un'altra cosa!”, esclamai prima che potesse espormi senza via di ritorno. Feci per parlare velocemente, ma me lo impedì.
“Così sono due le cose che devo prometterti”, osservò, fingendosi divertito anche se non lo era affatto. “No, graz–”.
Lo ignorai, interrompendolo.
Promettimi che tornerai”. Parlai così velocemente che per più di un attimo mi chiesi se mi avesse capita sul serio, complice anche l'espressione confusa che mise su proprio di fronte ai miei occhi.
Il silenzio che seguì quella mia richiesta si protrasse così a lungo che per un attimo credetti non avrebbe avuto fine. Ma poi Murphy parlò, proprio quando avevo già perso ogni più piccola speranza.
“Tornerò”, disse semplicemente, annuendo in modo quasi impercettibile.
Non avevo bisogno di sentire nient'altro, ecco perché liberai il mio ultimo sorriso prima di dargli finalmente le spalle ed avviarmi verso il campo rinascente. Ma non riuscii nell'intento nemmeno quella volta.
“Aspetta”, sussurrò John, stringendomi un polso tra le dita e costringendomi così a guardarlo nuovamente. Cosa che feci, piena di un'improvvisa – e inutile – speranza. Aveva forse cambiato idea? “Baciami”.
… no.
Non aveva cambiato idea. Non mi avrebbe tenuta con sé. Avrei dovuto essere triste, giusto? E allora perché mi sentivo all'improvviso così elettrizzata e su di giri? Preferii non partire alla ricerca di risposte che sapevo mi avrebbero spaventata a morte e semplicemente assecondai quella richiesta. Perché lo volevo io e perché lo voleva lui: cosa mai poteva esserci di più giusto? Quel nostro secondo bacio fu diverso da quello che l'aveva preceduto – quello arrivato quasi “a sorpresa” – proprio per questo motivo. E fu meraviglioso, tanto che tornai al campo rasserenata e speranzosa in una maniera che mai avrei creduto possibile.
All'improvviso sembrava che tutto andasse per il meglio e che le cose sarebbero continuate così per sempre. Perché Murphy ci teneva a me e me l'aveva dimostrato, perché io ci tenevo a lui e ne ero finalmente consapevole. E soprattutto, perché sapevo che sarebbe tornato. Perché quella promessa mi dava la certezza che quello non fosse stato il nostro ultimo bacio.

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Capitolo 8
*** This is war ***




8.   THIS IS WAR
 
To the right, to the left
we will fight to the death.
To the edge of the Earth
it's a brave new world, from the last to the first.

Ritornare al campo mi era servito a capire che fossi ridotta molto peggio di quanto non credessi. Oltre che visibilmente dimagrita e con un paio di occhiaie che avevano quasi fatto rabbrividire Monty e Jasper – i quali però avevano cercato di dissimulare, limitandosi ad accogliermi “a casa” con un sorriso grato – mi ero riscoperta infatti anche piena di graffi sanguinanti, non solo sul viso ma anche sulle mani martoriate. Clarke non se l'era fatto ripetere due volte e da brava crocerossina qual era si era affrettata a medicare e disinfettare il più possibile mentre parlava, parlava, parlava. Non l'avevo mai sentita parlare così tanto e immaginai che fosse tutto perché era contenta di vedermi respirare – così avrebbe avuto una morte in meno sulla coscienza – e perché voleva a tutti i costi che fossi aggiornata sui recenti sviluppi, così che tutti potessero fingere ben presto che non me ne fossi mai andata e che nulla di tanto spiacevole da spingermi ad abbandonare il campo fosse successo.
Avrei dovuto odiarli per quella loro codardia, ma me ne riscoprii incapace. Perché d'altronde, volevo anch'io fare finta di nulla. Volevo evitare l'argomento Murphy a tutti i costi. Ecco perché sviai ogni domanda allusiva di Clarke e non rivolsi la parola a Bellamy, evitando anche di stargli troppo vicina – a meno che non fosse strettamente necessario. Non volevo più avere contatti con nessuno del gruppo né tanto meno passare tutto il mio tempo al campo, ecco perché sgattaiolavo via ogni volta che potevo. Qualsiasi scusa per farlo mi andava bene, dall'uscire per recuperare acqua o noccioline o anche solo dire che andavo a fare un giro perché avevo bisogno di un po' d'aria. Clarke mi salutava ogni volta come se fosse l'ultima – aveva paura che scappassi di nuovo – ma mai m'impedì di lasciare il campo.
Durante la mia assenza i Cento avevano dovuto dire addio ad altri tre compagni, l'avevo scoperto in occasione di una delle mie tante uscite giornaliere, quando passando per il cimitero improvvisato avevo trovato cumuli di terra a segnalare la presenza di tombe nuove. Erano tutti ragazzi che non conoscevo quelli che i Terrestri avevano ucciso, ma mi sentii comunque in colpa per come le cose erano finite per loro. E parlando di Terrestri... Questi esistevano davvero, ed erano una minaccia. Una minaccia che era molto più vicina di quanto non sembrasse, tanto che addirittura uno di loro occupava il secondo piano della navicella che aveva scortato noi prigionieri sulla Terra – o meglio, nel posto infernale che però ancora ci ostinavamo a definire così.
I Cento – aveva ancora senso chiamarli in quel modo? – avevano dunque perso tre ragazzi, ma ne avevano guadagnata un'altra direttamente dall'Arca. Clarke mi aveva detto durante uno dei suoi monologhi – definirle chiacchierate non sarebbe stato giusto, giacché io mi limitavo semplicemente a fingermi attenta e sciorinare monosillabi solo se costretta – che il suo nome fosse Raven, ma più di questo non ero riuscita ad afferrare – anche perché la Griffin diventava magicamente indisposta al solo nominarla e puntualmente sviava l'argomento ch'era una bellezza. Io poi non avevo mai visto nessuna Raven in giro da quand'ero tornata al campo: pareva che quest'ultima si fosse trasferita in pianta stabile nella tenda di Finn e che non si scollasse da lì nemmeno a pagarla. Magari una vecchia fiamma?
Se avessi avuto la mente libera e leggera credo che avrei cercato una risposta sensata a tutte quelle domande, fatto sta che di leggero c'era ormai poco nella mia vita. Ergo, quesiti irrisolti a volontà. Non mi dispiaceva, però. Non ero interessata più ai gossip del campo, pensavo solo alla mia sopravvivenza e basta. Così giustificavo le numerose uscite alla ricerca di cibo: dovevamo prepararci all'inverno imminente e dovevamo farlo adeguatamente, raccogliendo quante più provviste possibile.
Ero appena tornata da un'altra delle mie escursioni quando Clarke mi corse in contro con un sorriso. Stava puntando a me e lo capii subito, tanto che trattenere uno sbuffo infastidito mi costò una fatica immensa.
“Ho parlato con tuo padre, poco fa”, raccontò non appena mi ebbe raggiunta – come se mi interessasse, poi – evitando qualsiasi tipo di convenevole.
Di tutta risposta mi limitai a scrollare le spalle, liberandomi della sacca che ero riuscita a riempire di bacche durante l'uscita di quel mattino stesso. Clarke capì subito che come al solito non le avrei dato corda e provò ben presto ad attirare la mia attenzione portando avanti la conversazione per conto suo. Ormai ci era abituata.
“Raven ha ristabilito i contatti con l'Arca. Te l'avevo già detto, no?”.
Annuii, senza mai cercare il suo viso illuminato dai raggi del sole. Avevo cose molto più importanti da fare che spettegolare con lei.
“C'è anche il collegamento video, è bellissimo poterli rivedere tutti”.
“Immagino”, borbottai, fallendo nel mio tentativo di mostrarmi tranquilla e rilassata. Per dissimulare, ripresi subito a sistemare le bacche in sacchettini appositi, preparati da chissà chi.
Dall'altro lato del campo, Jasper e Monty facevano altrettanto con delle noccioline. L'intero campo era in movimento.
“Sono stati organizzati dei turni cosicché tutti possano parlare coi propri genitori”, aggiunse ancora Clarke, perfettamente tranquilla a differenza della sottoscritta. “Mi pare che ora dentro ci sia Miller. Non so a chi tocca dopo, ma posso dirgli di aspettare. Così potrai parlare con tuo padre”.
Inutile dirlo ma rabbrividii, preda di sensazioni non ben identificate ma senz'altro negative. L'idea di parlare con mio padre non mi piaceva nemmeno un po'.
“Passo”, mormorai difatti, continuando imperterrita a svolgere il mio compito senza farmi distrarre.
Cosa che ovviamente Clarke mi rese impossibile.
“Ma come?”, trillò, con una vocetta stridula che mi innervosì e non poco. “Non vuoi sentirlo?”.
Feci spallucce, proprio come al solito.
“Non ho niente da dirgli”, annunciai spicciola. Ed era l'assoluta verità: non avevo niente da dire a Marcus Kane. “E non scavalcherò nessuno, grazie comunque”.
Non l'avrei fatto nemmeno se avessi voluto parlargli, in effetti. Ero stanca di tutti quei privilegi che mai avevo chiesto a nessuno di darmi. Io meritavo tanto quanto gli altri, e non c'era ragione per cui dovessi parlare con mio padre prima di qualsiasi altro mio compagno. Clarke sospirò, di già abbattuta. Ma non mollò la presa.
“Brayden, tu devi parlargli. È distrutto al pensiero di averti persa!”.
Ovviamente, quelle parole mi fecero sobbalzare sorpresa – per quanto avessi cercato di dissimulare come mio solito. Non appena Clarke finì di parlare dovetti smetterla per un attimo di sistemare le bacche che avevo raccolto solo poche ore prima: le mani mi tremavano così tanto che mi riscoprii all'improvviso incapace di lavorare. Sollevai lo sguardo chiaro sulla Griffin, riservandole un'occhiata a dir poco risentita.
“Tu che ne sai?”, sputai arrabbiata. Sapevo che mi stesse mentendo e la cosa non mi piaceva nemmeno un po'. Non c'era verso che mio padre mostrasse le sue emozioni a qualcuno, perciò Clarke non avrebbe mai potuto sapere di come veramente si sentisse al pensiero che fossi morta.
A quanto pareva mi sbagliavo.
“Mi ha chiesto di te quando ancora non eri tornata al campo. E ho dovuto dirgli che non sapevo dove fossi. È stato straziante”, raccontò Clarke, abbassando la voce un po' di più ad ogni parola, finché il suo timbro non sfumò in un sussurro che percepii a malapena.
Anche quelle parole mi colpirono e non poco, ma provai a nasconderlo e mi limitai a fare spallucce. Proprio come se niente fosse. Feci anche per dire qualcosa come “Non è un problema mio”, ma Clarke me lo impedì continuando a parlare.
“Ascolta”, ordinò in un sospiro sconfitto. “So che pensi abbia fatto un sacco di errori, e so anche che hai ragione a crederlo. Ma per quanto possa aver sbagliato... tuo padre non si merita di crederti morta. Non potrai punirlo all'infinito”.
Di nuovo cercai i suoi occhi azzurri nella luce accecante del sole mattutino. All'improvviso non avevo più paura di un confronto visivo.
“Mettimi alla prova”, quasi ringhiai, sperando di spaventarla.
Obbiettivo che però non raggiunsi.
“Dico sul serio, Brayden. Tra poco tempo tuo padre sarà qui. Per quanto ancora pensi di riuscire ad ingannarlo?”.
Non avevo una risposta per quella domanda e me ne resi conto a malincuore, rinchiudendomi in un silenzio inaspettato mentre mi limitavo a deglutire impercettibilmente e distogliere lo sguardo dal viso di Clarke. Probabilmente si accorse anche lei della mia resa, perché si limitò a sospirare quasi dispiaciuta.
“Ne riparliamo quando torno, va bene?”, propose poi dopo attimi di silenzio pacifico nei quali mi ero tranquillizzata tanto da essere di nuovo capace di mettermi a lavoro con la divisione delle bacche.
“Dove stai andando?”, le chiesi; non perché mi interessasse sul serio ma più che altro perché volevo sempre tenere d'occhio la situazione.
Non guardavo più Clarke in viso, ma la sentii comunque sorridere. Pensai che illusa com'era doveva essersi convinta del fatto che sul serio m'importasse qualcosa di lei.
“Tuo padre mi ha parlato di un bunker che potrebbe contenere risorse utili. Ho bisogno di andare lì a dare un'occhiata”.
“Da sola?”.
“Certo che no”. La sentii sorridere ancora, e reputandolo un fatto stranissimo anche per una come lei non potei fare a meno di guardarla nuovamente. Ciò che vidi alzando lo sguardo sulla sua figura mi lasciò a dir poco spiazzata. Clarke non sorrideva a me. Bensì – proprio da come scoprii seguendo la traiettoria del suo sguardo azzurro – a Bellamy, che se ne stava – totalmente inconsapevole dello sguardo di Clarke – fermo all'ingresso della navicella ancora occupata dal Terrestre.
Non potei far altro che aggrottare le sopracciglia. Cosa diavolo mi nascondevano quei due? L'ultima volta che avevo controllato, Bellamy voleva uccidere Clarke e lei faceva pensierini dello stesso genere su di lui. Tornando al campo li avevo trovati a sfiorarsi le mani, e ora tutto questo... C'era qualcosa di molto misterioso in quella situazione. Ma ancora una volta non chiesi nulla, e Clarke si occupò personalmente di porre una fine al mio solito silenzio.
“Ho bisogno che tu resti qui a monitorare la situazione. Aiuta Raven a medicare Finn, se necessario. Dà un'occhiata ad Octavia”.
Mi pareva tutto un grande e fastidioso déjà vu.
“Puoi farlo per me?”.
Feci spallucce. “Penso di sì”.
Clarke non ebbe bisogno di sentire nient'altro, semplicemente mi sorrise un'ultima volta e poi mi diede le spalle per dirigersi proprio da Bellamy. L'osservai per un po' nella sua camminata decisa, poi distolsi lo sguardo e ripresi a lavorare per conto mio. Ma il sentirla chiamare il mio nome ancora una volta mi distrasse nuovamente. Sollevai gli occhi sul suo viso, incitandola a parlare con un mugugno indefinito.
“Grazie per essere tornata”, si limitò a dire lei con un ultimo sorriso.
Poi mi voltò le spalle una volta per tutte e sparì nella folla che ci circondava, mentre io scacciavo via quella fastidiosa sensazione di spiazzamento arrivata a cogliermi. Al contrario infatti finsi che non fosse successo proprio nulla.
“Non l'ho fatto per te”, borbottai a bassa voce mentre chiudevo l'ennesimo sacchettino colmo di bacche e cercavo disperatamente di tenere la mia mente ben lontana dal pensiero di John Murphy.

 

Credevo che i Cento non avrebbero mai smesso di stupirmi, ma ebbi la conferma inconfutabile della cosa solo nel tornare al campo quel pomeriggio.
Dopo aver finito di sistemare accuratamente tutte le bacche, ero uscita di nuovo, quella volta per andare a cercare un po' d'acqua. Ogni scusa era buona per partire alla ricerca di sana solitudine.
La vista che mi ritrovai di fronte non appena rientrai al campo, comunque, mi fece rischiare di rendere vani tutti i miei sforzi. L'acqua che avevo raccolto con tanta fatica, infatti, rischiò di scivolarmi dalle mani nel momento in cui mi ritrovai di fronte gruppi di ragazzi intenti a combinarne di ogni senza nessun buon motivo.
C'era chi rideva a crepapelle tra sé e sé, chi volteggiava da ogni parte – talvolta piangendo – e chi si... spogliava? Realizzai la cosa con orrore, deviando all'ultimo la felpa rossa che un ragazzo sconosciuto aveva appena finito di sfilarsi, lanciandola nella mia direzione per liberarsene. Gesù, cosa stava succedendo a tutti quanti? Era uno sfacelo. Un'euforia generale che proprio non riuscivo a giustificare.
Inizialmente pensai che fossero ubriachi, ma realizzai ben presto che il whiskey magico di Monty non fosse abbastanza per stendere più di novanta ragazzini. Dunque, cosa avevano combinato quella volta? Cosa diavolo mi ero persa? Continuai a chiedermelo ripetutamente mentre facevo di tutto per salvare l'acqua e soprattutto per evitare ogni contatto con uno qualsiasi dei ragazzi. Erano tutti e all'improvviso così fastidiosamente espansivi – lo si capiva dalla grossa quantità di vestiti che volavano all'aria minuto dopo minuto – che subito cominciai a temere per la mia incolumità.
E purtroppo – giusto perché non c'era mai limite al peggio – scoprii guardandomi intorno che non ci fosse nessuno di cui mi fidassi abbastanza da chiederne l'aiuto. Clarke era quella che era – e ormai non c'erano più dubbi – ma sapevo bene che in una situazione del genere avrei potuto contare su di lei per uscirne. O su Bellamy. Peccato però che fossero assenti entrambi. Chi mi restava? Finn era moribondo nella sua tenda, Jasper una delle tante vittime di quello strano virus – lo osservai che piangeva a dirotto nascosto in un angolino e non osai avvicinarmi a lui – e Monty... dove diavolo era Monty?
Non ebbi tempo di chiedermelo a lungo, perché finalmente un viso conosciuto mi apparve dinanzi. Era Octavia Blake, e il vederla per poco non mi fece tirare fuori un lunghissimo sospiro sollevato. Sembrava essere lucida – almeno lei – ma non potevo esserne sicura. Ecco perché feci per chiederglielo, ma lei mi anticipò.
“Dimmi che non hai mangiato anche tu quella roba, ti prego!”, esclamò non appena mi ebbe raggiunta, gli occhi chiari sgranati e le braccia strette attorno ad un cumulo di vestiti che probabilmente doveva aver raccolto da terra.
Non ebbi tempo di chiederle perché li avesse lei: le sue parole mi distrassero troppo. Ero sicura di non aver mangiato nulla da un bel po' di tempo, dunque ero salva. Ma era stato sul serio qualche cibo a ridurre gli altri in quelle condizioni?
“Cos'hanno mangiato? Che sta succedendo?”, non potei fare a meno di chiedere, continuando a guardarmi intorno con espressione a dir poco preoccupata.
Octavia ci pensò su per un attimo, poi mi voltò le spalle e continuò a fare ciò stava facendo prima di vedermi – incetta di vestiti. Avevo supposto bene, quindi.
La seguii mentre le riservavo uno sguardo confuso e ancora aspettavo una risposta da parte sua.
“Sono state quelle dannate noccioline”, mormorò ad un certo punto, afferrando la felpa rossa che solo pochi minuti prima io ero riuscita a schivare. “Chiunque le abbia mangiate è completamente andato”.
Non che avessi bisogno di ulteriori conferme per capirlo, fatto sta che il vedere un ragazzo provare a liberarsi anche dei boxer – unico indumento sopravvissuto a quel suo spogliarello senza senso – mi fece rendere conto ancor di più della gravità della situazione.
Fermo!”, gli urlai contro senza potermelo impedire, redarguendolo con un gesto veloce.
Non ci tenevo mica ad assistere a certi spettacolini. La situazione era già piuttosto imbarazzante di per sé.
Octavia mi diede manforte e alla fine riuscimmo a convincere il ragazzo – Alan, si chiamava – a desistere. Peccato che fossimo solo all'inizio dell'opera.
“Ho bisogno del tuo aiuto”, ammise la piccola Blake in un sospiro rassegnato e stanco, voltandosi nuovamente a guardarmi. “Io torno subito, tu va' a cercare Raven. Dovrebbe stare bene anche lei”.
Di nuovo aggrottai le sopracciglia. E non per Raven – quello di chiederle aiuto mi sembrava un buon piano – ma perché avevo all'improvviso l'impressione che Octavia stesse provando a sgattaiolare via inosservata. Lo sapevo perché ormai ero un asso nel farlo. Ma non le chiesi niente, limitandomi ad annuire mentre l'osservavo dileguarsi velocemente con ancora i vestiti dei ragazzi stretti al petto. Se avesse voluto, me ne avrebbe parlato lei, pensai mentre mi dirigevo a grandi passi verso la tenda di Finn.
Era finalmente giunta l'ora di conoscere la famosa Raven, e me ne resi conto solo in quel momento. Scoprii però che mi ci sarebbe voluto un po' di tempo prima di arrivare a destinazione. A metà strada infatti mi sentii afferrare per un braccio e la mia camminata venne bruscamente interrotta.
“Brayden!”, urlò Jasper richiamando la mia attenzione. Mi voltai a guardarlo di scatto: aveva il viso ancora bagnato dalle lacrime e gli occhi spiritati. Per un attimo ebbi veramente paura. “Proteggimi dai Terrestri, ho perso il mio bastone!”.
Continuò ad urlare cose insensate, ma io nemmeno mi sforzai di comprendere cosa sul serio volesse dirmi. Semplicemente mi liberai della sua stretta tremante con uno strattone e presi – come se niente fosse successo – a muovermi nuovamente nella direzione della tenda di Finn. A Jasper ci avrei pensato dopo, mi ripromisi. Ma ancora una volta raggiungere la tenda non fu facile.
Ad un passo da quest'ultima infatti, un corpo impattò violentemente contro il mio e allora trattenere una delle mie solite colorite imprecazioni mi fu impossibile.
“Monty!”, strillai, non appena sollevando lo sguardo mi ritrovai di fronte il colpevole. “Perché non guardi dove cammini?”.
Il mio ovviamente era fiato sprecato, perché Monty nemmeno provò a darmi ascolto. Al contrario, non appena mi ebbe riconosciuta si limitò a sorridermi ampiamente prima di afferrarmi le spalle con una stretta tanto forte che non potei evitare di fulminarlo con lo sguardo.
“Brayden!”. Anche lui urlò il mio nome, improvvisamente eccitato da morire. Penso che se non fossi stata così scazzata da tutta quella situazione assurda, avrei anche riso. “Mia salvezza. Sono così contento che tu sia tornata. Sei brava in fisica, no? Allora cambiamo il verso della marea! Insieme!”.
Ma cosa diavolo stava dicendo? Non ebbi tempo di chiederglielo.
“Non ora, Monty”, redarguii semplicemente, liberandomi della sua stretta una volta per tutte e sorpassandolo per entrare – finalmente – nella stramaledetta tenda di Finn e Raven.
“Se non ora, QUANDO?”, sentii che Monty mi urlava dietro, ma anche quella volta lo ignorai.
Semplicemente m'intrufolai nella tenda tanto agognata come se non ci fosse un domani. E ciò che mi ritrovai di fronte lasciò davvero poco spazio alla mia immaginazione, tanto che riuscii a non arrossire per pochissimo.
Proprio a me doveva capitare il compito di disturbare la coppietta tubante? Gesù. Poteva quella situazione diventare più imbarazzante di così? Me lo chiesi mentre distoglievo alla velocità della luce lo sguardo da Finn – intento a coprirsi il più possibile con una delle poche coperte pesanti che l'Arca aveva messo a nostra disposizione – per puntarlo invece sulla ragazza che gli faceva compagnia, quella che supposi fosse proprio la fantomatica Raven.
Fu proprio lei a rompere il ghiaccio, raggiungendomi sulla soglia dopo essersi sistemata sui fianchi la leggera maglia azzurra che aveva indossato in tutta fretta.
“Cosa sta succedendo qui?”, domandò.
Prima di risponderle, l'anticipai all'esterno. Sapevo che non si sarebbe resa conto di ciò che le avrei detto finché non l'avesse visto coi suoi occhi. Parlai solo quando fummo fuori, difatti.
“Sono state le noccioline. Li hanno fusi”.
Raven trattenne a malapena un'imprecazione. Stette un po' in silenzio, guardandosi intorno con un'espressione che mi fece quasi venir voglia di ridere. Poi ridonò lo sguardo alla tenda che aveva abbandonato da pochissimo.
“Finn, in piedi!”.

 

“Mi uccideranno, Brayden”.
Avevo perso il conto delle volte in cui avevo sentito quella frase da quand'ero tornata al fianco di Jasper, pronta a badare a lui con tutta la buona volontà del mondo. Era passato un bel po' di tempo, eppure lui non aveva smesso un attimo di piagnucolare e lamentarsi dei Terrestri. Diceva che l'avrebbero fatto fuori e che gli serviva trovare il bastone perduto. Un mucchio di cose senza senso, insomma. Arrivati a quel punto nemmeno ci facevo più caso: mi limitavo semplicemente a bruciare qualsiasi sacchetto di noccioline catturasse la mia vista.
“Mi uccideranno, Bray”.
Jasper ripeté ancora una volta la sua frase di rito, peccato che allora non riuscì a completarla. Terrorizzata dal suo improvviso silenzio, diedi le spalle al fuoco caldo e scoppiettante per cercare il suo sguardo. L'effetto allucinogeno di quelle noccioline si stava dimostrando molto più duraturo del previsto ed era mio dovere impedire che Jasper – o chiunque altro – potesse farsi del male, giacché Octavia era ancora nascosta chissà dove.
“Brayden”, ripeté Jasper quando ebbe individuato i miei occhi, donandomi uno sguardo confuso a dir poco. “È questo il tuo nome?”.
Per poco non mi coprii il viso con le mani. Stavamo sfiorando livelli di demenza inauditi. E sebbene inizialmente avessi avuto paura di quella situazione e soprattutto delle brutte conseguenze alle quali avrebbe potuto portare, arrivati a quel punto ne ero più divertita che altro. Tanto che – ignorando Jasper come mio solito – ripresi a cercare noccioline superstiti – ancora per poco – mentre ridacchiavo di gusto.
“L'ultima volta che ho controllato si chiamava così, Jas”, intervenne Finn allora, divertito almeno tanto quanto la sottoscritta.
Stava visibilmente prendendo in giro Jasper, ma lui proprio non se ne rese conto.
“Non hai la faccia da Brayden”, mormorò difatti serissimo, continuando a squadrarmi mentre per me trattenere le risate stava diventando sempre più difficile. “Hai la faccia da... Maya. Posso chiamarti Maya?”.
Per un attimo aggrottai le sopracciglia. Pensai che gli avrei chiesto il perché di quella scelta, ma realizzai ben presto che sarebbe stato tutto fiato sprecato. Ecco perché mi arresi.
“Chiamami come ti pare, Jasper”, concessi, sorpassandolo per recuperare altre noccioline da buttar via.
Perlomeno non stava più frignando come un bimbetto.
“Mi uccideranno, Maya”. Ritiro tutto. “Sono vicini!”.
Presi un grosso respiro, cercando di non perdere le staffe. Ce l'avevo fatta fino a quel momento, non avrei mollato allora. Semplicemente lasciai perdere ciò che stavo facendo e mi diressi lentamente nella direzione di Jasper, senza mai fermarmi finché non gli finii di fronte. Cercai i suoi occhi nella luce scarsa del fuoco scoppiettante, poi gli posai le mani sulle braccia.
“Nessuno ti ucciderà, Jasper”, mormorai lentamente, come se stessi parlando ad un bambino piccolo. “Ti proteggerò io. Ti fidi di me?”.
Dovevo stare al suo gioco perché si calmasse una volta per tutte. O perlomeno, così speravo.
“Ovvio che mi fido di te”, rispose senza nemmeno pensarci su, e potei vederlo di già un po' più tranquillo.
Tanto che sorrisi, facendomi lontana da lui solo per tornare a lavorare vicina a Finn e Raven – che mi riservò un gesto di piena approvazione. Non la conoscevo per nulla, ma già mi stava simpatica. Il suo aiuto era stato prezioso proprio come quello di Finn.
Avevo creduto che Jasper si fosse finalmente calmato, eppure mi sbagliavo.
“Maya”, chiamò all'improvviso, comparendomi alle spalle proprio quando meno me l'aspettavo. Sobbalzai vistosamente: quando diavolo si era mosso? “Ho bisogno del mio bastone. Aiutami a cercare il mio bastone”.
Strinsi i pugni per evitare di combinare guai. Poi, pianissimo, mi voltai nuovamente a guardare Jasper.
Dio santo, Jasper”, soffiai, inviperita a dir poco. “Si può sapere cos'è questo bastone di cui parli tanto?”.
“Il bastone anti-Terrestri!”, spiegò, su di giri come non mai. “Me l'ha dato Octavia e io l'ho perso. Sono una delusione. Sono...”. La sua eccitazione svanì nel giro di mezzo secondo. Lo fermai prima che potesse ricominciare a piangere a fiumi senza nessun motivo valido.
“Ma no, no”, lo rassicurai – sforzandomi di sembrare dannatamente sincera, per quanto ce ne fosse in effetti poco bisogno – inginocchiandomi di fronte a lui che nel frattempo si era seduto a gambe incrociate sulla terra bagnata del campo.
Prima di riprendere a parlare incoraggiata dal suo improvviso silenzio, gli scompigliai i capelli mentre speravo ancora di essere riuscita a tranquillizzarlo almeno un po'.
“Andiamo a cercare un altro bastone, okay? Uno più bello ed efficace”, proposi. Poi ritornai dritta e gli posi una mano. “In piedi”.
Jasper fece subito come da ordine, e insieme ci incamminammo lontani dal baccano che ancora infestava il campo. L'effetto di quelle dannatissime noccioline durava un'eternità e ancora non avevo idea di quando sarebbe finito. Feci anche il pessimo errore di chiederlo a Jasper.
“Quando ti passerà?”, domandai, rivolgendogli un'occhiata stanca e abbattuta.
Inutile dire che lui non capì. Si limitò infatti a guardarmi sorpreso – come se fossi io la pazza della situazione – prima di ridacchiare, visibilmente divertito.
“C-Cosa?”.
“Lascia stare”.
Quasi non finii di parlare. Jasper mi mollò di botto la mano per correre nella direzione di ancora non sapevo cosa – o chi. Per poco non mi venne un infarto: in quello stato avrebbe potuto combinare di tutto e mettersi nei guai così facilmente che quasi rischiai di morire di paura.
“QUELLO!”, lo sentii che urlava indicando uno dei rami più sporgenti del primo albero che si ritrovò a fronteggiare. “Quello funzionerà bene!”.
… Il bastone anti-Terrestri era dunque un insulso rametto? E Jasper contava davvero di sentirsi protetto da tutto e tutti con un misero pezzettino di legno stretto tra le mani? Sbuffando incredula, lo raggiunsi e mi occupai personalmente di staccare il ramo tanto agognato da Jasper dall'albero a cui sarebbe stato attaccato ancora per poco.
“Ecco. Ora nessuno ti farà del male”, mormorai una volta raggiunto l'obbiettivo, voltandomi a fissare Jasper solo per consegnargli il tanto agognato talismano.
Lui lo accettò senza pensarci su due volte. Doveva essere proprio fuso per poter credere ciecamente ad una sciocchezza simile. Ma di che mi stupivo ancora?
“Sì, è vero”, asserì avviandosi senza che io gli dicessi niente verso il posto in cui avevamo lasciato Finn e Raven. “Grazie, Maya. Puoi smettere di proteggermi adesso”.
“Certo”, asserii, ma Jasper quasi non mi sentì.
Era troppo impegnato ad evitare di rovinare a terra – all'improvviso aveva assunto una preoccupante camminata traballante – per prestarmi ascolto. Preoccupata, gli corsi al fianco il più velocemente possibile.
“Ho un po' sonno”.
Pensa io. Non lo dissi ad alta voce, limitandomi ad annuire. Pareva che finalmente l'euforia datagli dalle noccioline stesse scemando, tanto che anche gli altri ragazzi al campo sembravano finalmente più tranquilli. Indicai a Jasper un posto vicino al fuoco, ordinandogli di sedersi.
“Aspettami qui, ti porto una coperta”.
Lui non se lo fece ripetere due volte e annuì soddisfatto da quella mia proposta, riservandomi l'ennesimo sorrisino soddisfatto mentre stringeva al petto il suo nuovo bastone anti-Terrestri.
“Sono al sicuro”.
Ridacchiai ancora, scompigliandogli i capelli un'ultima volta prima di ritornare in piedi.
“Sei al sic-”. Non ebbi tempo di finire la mia frase, perché un urlo appartenente a chissà chi m'interruppe all'improvviso.
“È SPARITO! Il Terrestre è sparito!”.
Sobbalzai immediatamente, spaventata. Tutta la storia delle noccioline aveva distolto la nostra attenzione dalla vera minaccia e me ne resi conto sul serio solo in quel momento.
“Siamo nei guai”, sussurrò una ragazzina di fianco a me, e dovetti trattenermi dall'annuire.
Sapevo che probabilmente il Terrestre sarebbe tornato al campo con dei rinforzi e allora sì che sarebbero stati problemi. Ma non volevo dire certe cose ad alta voce. Non volevo che si scatenasse il panico.
Cosa che ovviamente successe.
“E se quello torna con altri Terrestri per ucciderci tutti?”, urlò chissà chi, seguito subito da altre voci concitate e di già terrorizzate.
Pensai fosse il momento giusto per intervenire e sedare il panico prima che questo – come al solito – degenerasse. Ma quando feci per parlare una voce si sovrappose alla mia.
“Lasciate che vengano”. Era Bellamy. Era tornato. “Abbiamo vissuto nella paura troppo a lungo. E io sono stanco di avere paura”.
Si trattava di un altro dei suoi discorsi incoraggianti, vero? Non ebbi tempo di chiedermelo a lungo, perché Jasper balzò in piedi all'improvviso e attirò tutta la mia attenzione su di sé.
“Anch'io!”, urlò a squarciagola, guadagnandosi diverse occhiatine confuse mentre continuava – come se niente fosse – ad agitare il suo preziosissimo bastone anti-Terrestri.
Trattenni l'ennesima risata.
“Abbiamo trovato delle armi”.
Quando Clarke parlò, cercai subito la sua figura al fianco di Bellamy.
“Domani cominceremo ad allenarci. Semmai i Terrestri torneranno, saremo pronti a combattere”.
Era guerra aperta. E quella volta sul serio.

 

Quella sera toccò a me stare di vedetta, ma non mi dispiacque più di tanto. Stavo morendo di sonno, certo, ma sapevo già che pur volendolo moltissimo non sarei riuscita a chiudere occhio. Quindi meglio rendersi utili, no?
Non era programmato che tenessi d'occhio il campo da sola, ma erano tutti ancora un po' scossi dalle noccioline allucinogene oppure stanchi per una spedizione dell'ultimo minuto, dunque non si era riuscito a trovare nessuno da affiancarmi. Inutile dire che la cosa mi avesse fatto tremendamente piacere. Mi sentivo a mio agio nella solitudine.
Con la testa affollata da ogni tipo di pensiero, sospirai mentre mi stringevo le ginocchia al petto e poi vi ci posavo sopra il mento. Guardai dritto di fronte a me nel buio fitto della vegetazione, la mente che vagava libera. Ero tranquilla. C'era voluto un sacco di tempo, ma potevo finalmente dirlo. Ero tranquilla. Ero al sicuro. E non stavo bene – quello no – ma sopravvivevo. Andavo avanti. Perché quella era l'unica possibilità che avessi.
Continuai a torturarmi con altre migliaia di pensieri simili finché non sentii un rumore di passi alle mie spalle e allora tutto s'interruppe. Nella mia mente restò solo un lungo fischio d'allarme, sostituito poi da un sospiro sollevato quando voltandomi a controllare scorsi nient'altro che la figura di Finn. Sciolsi la presa sul coltello che già stringevo tra le dita – pronta a combattere – mentre sentivo i battiti del cuore tornare a poco a poco regolari.
“Dovresti essere a letto”, gli sussurrai, più per rompere il silenzio che ci avvolgeva – quello diventato all'improvviso di troppo – che per altro.
A dire il vero ero seriamente preoccupata per lui, ma non ero in grado di farglielo capire. Perciò mi limitai semplicemente ad attendere una risposta da parte sua, gli occhi fissi sul suo viso tranquillo. Finn fece spallucce prima di inginocchiarsi accanto a me.
“Non riesco a dormire”.
Benvenuto nel club. Evitai di dirlo. Spinsi a fondo quella frase deglutendo e distolsi lo sguardo da Finn. Prima di parlare nuovamente, assunsi la stessa posizione che avevo prima che arrivasse.
“Tutto a posto?”.
“Sì, sì”, mi rassicurò, imitando il mio tono di voce sussurrato. Non c'era nessuno che potessimo disturbare, eppure ci ostinavamo a parlare a bassa voce. “È solo che...”.
Dopo più di un minuto di silenzio, mi voltai nuovamente a guardare Finn. Gli donai uno sguardo confuso, con tanto di sopracciglia aggrottate.
“Che?”, chiesi, intimandolo a parlare.
“Promettimi di non dirlo a nessuno”.
Inutile dire che un po' mi preoccupai – anche se sapevo che sarebbe stato meglio non farlo. Finn era all'improvviso tremendamente serio, e nel promettergli che avrei tenuto la bocca chiusa mi ritrovai a temere più del previsto ciò che avrebbe potuto dirmi di lì a poco.
Raven russa”.
Ma poi Finn se ne uscì proprio con quella frase, e nonostante il fatto che una grossa parte di me volesse picchiarlo come se non ci fosse un domani, alla fine finii semplicemente a ridere di gusto. Risi come forse non avevo mai fatto da quand'ero sulla Terra – e come davvero poche volte avevo fatto sull'Arca – così forte che credetti di aver svegliato dal proprio sonno almeno metà campo.
“Ehi!”, mi rimbeccò subito Finn, riservandomi uno schiaffetto infastidito da quel comportamento. “È un segreto!”.
Avrei tanto voluto calmarmi, ma non ci riuscii che due o tre minuti dopo – quelli che a Finn dovettero sembrare davvero un'infinità di tempo. Alla fine comunque, lasciai che la risata scemasse e quando riuscii a sentirmi completamente calma, spazzai via con un dito alcune delle lacrime arrivate ad inumidirmi gli occhi.
“Non puoi essere serio”, mormorai, ancora divertita seppur di nuovo tranquilla.
Finn di nuovo fece spallucce. Poi vidi il suo viso attraversato dall'ombra di un sorriso.
“No, infatti. Volevo solo vederti ridere di nuovo”.
Inutile dire che mi congelai immediatamente sul mio posto. L'espressione divertita che avevo in viso si cristallizzò, e fui ad un passo dallo sgranare la bocca in modo davvero poco fine. Per fortuna Finn mi distrasse ancora con le sue chiacchiere.
“Raven ha un sacco di difetti, ma non russa quando dorme. Grazie a Dio”.
Non sapevo più come portare avanti quel discorso, né tantomeno volevo che l'attenzione restasse ancora focalizzata sulla mia persona come in realtà lo era. Ecco perché abilmente la spostai su Finn.
“Sei sicuro di sentirti bene? Penso di aver fatto il pieno di problemi, per oggi”.
“Tranquilla, è solo un taglietto”. Indicò l'addome con un gesto veloce. “Clarke l'ha ricucito per bene”.
Al nome della Griffin, non potei far altro che lasciarmi sfuggire uno sbuffo a metà tra il profondamente infastidito e il divertito.
“La nostra eroina”, mormorai, traboccante d'ironia.
“So che ce l'hai con lei”.
“Riesci a darmi torto?”.
“No! Ma non riesco a darne neanche a Clarke. Né a Bellamy”. Finn fece una breve pausa. “Murphy è pericoloso. Andava mandato via”.
Mi venne una gran voglia di aggredirlo – e non solo a parole. Ecco perché prima di dire cose delle quali avrei potuto pentirmi, inspirai profondamente e cercai di tranquillizzarmi.
“Voi l'avete reso pericoloso”, spiegai poi, stando il più calma possibile.
Non volevo che Finn si sentisse attaccato, ma capii di aver già fatto una gaffe con quel “voi”. Finn non aveva fatto nulla. Sospirai sconfitta.
“Ascolta”, ripresi, cercando sempre di restare calma. “so benissimo che John è un cazzone e che riesce a farsi odiare senza nemmeno provarci. Ma non puoi darmi torto quando dico che non avrebbe mai fatto seriamente del male a qualcuno. Non se non provocato”.
Finn rimase a lungo in silenzio, e io presi quella sua risposta come un'affermazione. Mi stava dando ragione, ed è inutile dire che la cosa mi fece profondamente piacere.
“Eri con lui in questi giorni, non è vero?”.
Annuii. “Sì”.
“Come sta?”.
Scrollai le spalle, non riuscendo a trattenere un sorriso non troppo convinto.
“Se la cava”, raccontai. “Non ha voluto tenermi con sé”.
Non sapevo perché gliel'avessi detto. Forse perché sentivo di poter parlare con Finn.
“Puoi dargli torto?”.
No. Ma non l'avrei mai ammesso.
“Non voglio parlarne”. Distolsi lo sguardo dal viso di Finn e deglutii a fondo. “Ma comunque, grazie per ciò che hai fatto. Sei stato l'unico ad aiutarci quando le cose sono degenerate”.
Sentii Finn sorridere, poi lo osservai che scuoteva la testa come se fosse stata una cosa da niente. Per me invece il suo aiuto era stato importantissimo.
“Non ho fatto nulla”.
“Non è vero”.
Cadde di nuovo il silenzio, ma quella volta nessuno dei due si preoccupò di porgli fine. Avevamo detto tutto ciò che c'era da dire: io mi ero sfogata quanto volessi e Finn mi aveva ascoltata, comprensivo. Ritornai col mento sulle ginocchia e poi me le strinsi al petto, tranquilla.
“Brayden?”. Solo a quel richiamo, cercai nuovamente gli occhi di Finn.
“Mh?”.
“So che non vorresti essere qui, ma sono felice che tu sia tornata. E sono convinto che ne è felice anche Murphy. Qui sei al sicuro”.
Non lo disse, ma sono convinta che avrebbe voluto dire qualcosa come puoi contare su di me. Non lo fece comunque, lasciando che quelle parole restassero sospese in aria e che potessi recepirle solo io. E fu proprio questo il punto: capii cosa voleva dirmi, e non sorridergli grata – ancora una volta – mi fu impossibile.


 

_______________________________
 

Ringraziamenti
Ai Thirty Second to Mars, la canzone che dà il titolo a questo capitolo è loro (come anche i versi citati all'inizio, come quasi sempre).
Alle persone che hanno recensito e che leggono/inseriscono nei preferiti/ricordati. Vi adoro tutte.

Note
Non ho molto da dire su questo capitolo, credo sia tutto piuttosto chiaro (in caso contrario potete scrivermi su efp o fb, sono sempre disponibile) dunque evito di dilungarmi tanto più che sono come al solito malaticcia e non vedo l'ora di mettermi a letto. çç
Anyway questo è forse il capitolo più leggero dell'intera storia, quindi godetevelo. Nel prossimo ci sarà un'ulteriore flashback sul passato di Alida (credo di averlo già detto).
A proposito del capitolo 9, aggiornerò tra due settimane (ovvero il 25). D'ora in poi gli aggiornamenti andranno avanti così, non posso più postare un capitolo al mese: ci metterei troppo tempo e ad essere sincera ci sono altri progetti che necessitano della mia attenzione. :)
Detto questo, spero che il capitolo possa piacervi e ci sentiamo presto.

P.S.
Risponderò alle recensioni dello scorso capitolo domani. Scusatemi.

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Capitolo 9
*** Unity Day ***


9.   UNITY DAY

 
We were children
thrust into war
and once it ends
what will we become?


 
Gli allenamenti con le armi erano cominciati già da un po' quando arrivò il mio turno. Proprio come da programma, Bellamy e qualche altro ragazzo – c'erano più di novanta delinquenti lì sulla Terra, ma scoprii con immensa sorpresa che solo in due o tre fossero capaci di usare un fucile – si stavano occupando di insegnare a tutti, nessuno escluso, come comportarsi in caso di pericolo. Volevano che chiunque fosse in grado di difendersi non appena ce ne fosse stata la necessità. E io ovviamente non costituivo un'eccezione.
Avevo pregato a lungo che non mi capitasse proprio Bellamy come insegnante, ma non è che ci fossero poi tutte queste alternative. Da solita fortunella qual ero, mi era stato imposto di passare molto più tempo di quanto potessi sopportare insieme all'unico ragazzo che proprio non riuscivo più a digerire.
Era pazzesco come gli equilibri potessero cambiare, come bastasse un singolo gesto per far mutare completamente l'opinione che avevo avuto su di una persona. Bellamy non mi era andato a genio fin da subito, ma imparando a conoscerlo mi ero trovata d'accordo con lui più volte. Fino a poco prima dell'episodio di John, quasi quasi l'avevo rivalutato. Ma poi...
Non sapevo se ce l'avevo con lui – non più, perlomeno – fatto stava che la sua presenza m'infastidiva molto più di quella di Clarke, sebbene fosse lei – o per meglio dire la sua boccaccia che mai stava chiusa – la vera colpevole. Bellamy comunque si dimostrava altrettanto freddo nei miei confronti: mai una volta aveva sfiorato il discorso Murphy né mi aveva dato più corda di quanto non fosse necessario. Era troppo orgoglioso per farsi avanti per primo. E io lo ero ancor più di lui.
“Tira indietro il mento”, lo sentii che, all'improvviso, mi ammoniva; e immediatamente misi uno stop al flusso incessante di pensieri che m'affollava la mente.
Sistemai la posizione rilassata che avevo assunto involontariamente e ubbidii, raddrizzando il fucile sulla spalla destra.
“Stringi di più le braccia sul fucile”.
Cercai di non indispettirmi. Stavo facendo del mio meglio, perché mai non la smetteva di riprendermi? Strinsi le braccia sul fucile più forte che potei, cercando di soddisfarlo. Bellamy stava solo cercando di aiutarmi. Perché allora mi sentivo così agitata?
“Non...”, ricominciò dopo qualche minuto, e lo sentii arrancare alla ricerca di parole giuste mentre mi si faceva pericolosamente più vicino. Mi irrigidii. “Non tirare indietro i fianchi”, mormorò infine, così velocemente che a malapena lo intesi, indicandomi i fianchi con un gesto appena percettibile.
Capii subito che non volesse toccarmi – aveva paura di invadere il mio spazio, e faceva bene – ma che non c'era altro modo perché potesse spiegarsi meglio. Era a disagio anche lui.
Sbuffai, cercando di sistemare i fianchi come li voleva lui. Non so se feci la mossa giusta, fatto sta che lasciò perdere.
“Mantieni la posizione”, ordinò, di nuovo apparentemente tranquillo. “Mira”.
Ancora feci come mi chiedeva. Puntai col fucile alla lattina che avrei dovuto colpire e quando ebbi una visuale sull'oggetto, mi venne quasi spontaneo tremare. Penso che se fossi stata sola l'avrei fatto. Era tutto così serio. E io ero così poco pronta.
Fin da bambina avevo desiderato essere parte delle Guardie dell'Arca. Mia madre era stata una di loro, e sebbene non l'avessi mai conosciuta né sapessi che tipo di persona fosse, io avevo saputo fin da subito di voler diventare come lei. Ecco perché mi ero iscritta all'Accademia non appena ne avevo avuto occasione, seguendo i corsi con diligenza e riscoprendomi giorno dopo giorno più convinta del mio progetto. Il mio era un desiderio che però, a causa della mia condanna, non aveva mai trovato realizzazione. La mia frequentazione dei corsi per diventare Guardia si era interrotta al Livello Accademico I, quello destinato alle lezioni di combattimento corpo a corpo e agli insegnamenti di Ingegneria Meccanica, Gestionale e Fisica Applicata.
Perché mi fosse permesso di stringere tra le mani un'arma da fuoco ne sarebbe dovuto passare di tempo. Avrei dovuto quanto minimo compiere la maggiore età. Questo sull'Arca, però. Non sulla Terra, dove una guerra stava fiorendo. Proprio quando io ero meno pronta per affrontarla.
Ero ancora così piccola. Lo eravamo tutti.
“Brayden?”. Ancora una volta, Bellamy interruppe il flusso dei miei pensieri.
Sobbalzando vistosamente, mi affrettai a guardarlo. Non so cosa di preciso lesse nei miei occhi, fatto sta che assunse un'espressione che mi sembrò vagamente preoccupata.
“Se non te la senti possiamo rimandare”.
Deglutii, distogliendo velocemente lo sguardo dal suo viso. Aveva capito. Che imbarazzo.
“I Terrestri non rimanderanno”, mormorai, fingendo – come al solito – che non fosse nulla. “Voglio sapermi difendere”.
Non ci fu bisogno di aggiungere nient'altro: ritornai in posizione e Bellamy non ebbe da ridire. Stavo facendo tutto per il meglio, tanto che semplicemente si limitò ad incoraggiarmi un'ultima volta prima che agissi.
“Spara”, disse, ed io feci come mi chiedeva.
Con l'arma puntata sulla lattina che intendevo colpire, premetti il dito sul grilletto e osservai il proiettile fare centro quasi col cuore in gola. Non appena vidi la lattina capitombolare al suolo, provai l'improvvisa voglia di urlare. C'ero riuscita. Era andata molto meglio di quanto mi aspettassi. Tanto che sorrisi ampiamente, sentendomi scorrere nelle vene una forza del tutto nuova e piacevole. Lo stringere un'arma tra le mani si stava rivelando molto meglio di quanto credessi. All'improvviso mi sentivo invincibile.
Quando tornai a guardare Bellamy, lo trovai intento a ricambiare il mio largo sorriso.

 
 
Il primo ottobre di ogni anno l'Arca intera si riunisce per festeggiare il Giorno dell'Unità, o meglio il giorno in cui le dodici Nazioni hanno finalmente messo da parte l'orgoglio e l'egoismo per riunirsi e cercare di sopravvivere tutti insieme, formando così l'Arca – il posto dove sono nata. Il posto dove sono nati tutti, qui.
Penso che se ancora quel giorno non avessimo avuto contatti con la Stazione, non ci sarebbe stato alcun tipo di festeggiamento. Penso che a malapena ci saremmo resi conto del fatto che fosse il primo ottobre.
Ma i contatti con l'Arca c'erano, la voce del Cancelliere risuonava forte e chiara attraverso i microfoni – sebbene le immagini fossero di pessima qualità – e i Cento non se l'erano fatto ripetere due volte: era il Giorno dell'Unità sull'Arca e sarebbe stato il Giorno dell'Unità anche sulla Terra.
Non che credessi così tanto in quella ricorrenza: tutta la storia di Shenzhen e Mir che decidono all'improvviso di essere grandi amiche e si vedono poi invidiate dalle altre dieci Nazioni non mi aveva mai convinta. Aveva un che di distorto che mi aveva sempre insospettita. Ma alla fine – che ci credessi o meno – il Giorno dell'Unità era comunque un giorno di festa, e chi ero io per dire di no ad un po' di baldoria? Me ne sarei stata zitta, purché le cose non fossero – come al solito – degenerate. Ero stanca di risolvere i problemi degli altri.
“Ai nostri figli e figlie sulla Terra che stanno ascoltando questo messaggio: ci vedremo presto”.
Quell'annuncio improvviso bloccò la mia camminata con violenza inaudita. Stavo gironzolando per il campo senza nessuna meta precisa e senza prestare attenzione al discorso di Jaha: da che ricordassi, nel Giorno dell'Unità non faceva altro che sciorinare frasette false e senza senso, un mucchio di cose alle quali non prestavo mai attenzione. Ma quell'anno era diverso, era tutto diverso.
“La prima navicella d'Esodo verrà lanciata fra meno di sessanta ore e vi porterà i rinforzi di cui avete bisogno. Perciò tenete duro. Gli aiuti stanno arrivando”.
Sapevo che parte dell'Arca sarebbe arrivata presto, ma non mi aspettavo così presto. Sessanta ore, poco meno di tre giorni. Pochissimo tempo. Soprattutto per me che non ero ancora pronta a rivedere Callie né Vera né... mio padre, pensai col cuore stretto in una morsa, realizzando con immensa sorpresa di come lui fosse apparso sullo sfondo di quelle riprese disturbate proprio nel momento in cui il mio pensiero l'aveva sfiorato.
Non era cambiato per nulla, constatai mentre mi prendevo del tempo per osservarlo meglio. Nonostante non lo vedessi da quelli che mi sembravano secoli, lui era sempre lo stesso. Era lì sull'Arca, partecipava al Giorno dell'Unità – come me – e in poco meno di tre giorni sarebbe stato al mio fianco. Pronto a darmi un aiuto che non ero sicura di volere.
Rimasi preda di pensieri simili per non so quanto tempo, senza muovere un muscolo nemmeno quando mio padre sparì dalla mia visuale. Anche se inconsapevolmente, speravo che riapparisse. Ecco perché me ne rimasi lì a guardare tutto e tutti con un'attenzione nuova e inaspettata, almeno finché non sentii qualcuno sfiorarmi la spalla e la bolla si ruppe all'improvviso.
“Sembri avere disperato bisogno di un drink”.
Era stato Jasper ad avvicinarmi, l'unico abbastanza coraggioso da farlo – da interrompere la mia contemplazione assorta della cerimonia. Lo osservai per un po' confusa, poi – evitando di sembrargli ancor di più una pazza esagitata – cercai di tornare vigile e accettai il bicchiere che mi porgeva. Era colmo di una brodaglia alcolica che tutti definivano come il whiskey magico di Monty. Buttai giù tutto d'un sorso senza farmelo ripetere due volte. A quella mia reazione, Jasper mi sorrise soddisfatto e poi mi rifilò un occhiolino prima di sparire chissà dove.
Per un po' ero riuscita ad ignorare il Giorno dell'Unità come avrei dovuto e voluto, ma allora – di nuovo sola e senza nemmeno un goccio d'alcool – la mia mente fu attratta nuovamente dalla cerimonia in atto sull'Arca, così come i miei occhi chiari che subito corsero al piccolo schermo sul quale intravidi una bambina recitare la storia del Giorno dell'Unità. Il corteo era iniziato.
“Quando tutte le Nazioni furono unite, decisero di chiamarsi...”.
Sapevo già come quella recita sarebbe finita, ma non ebbi occasione di sentirlo. Non quell'anno.
All'improvviso era tutto nero.

 

 
Circondata da una pozza scarlatta del proprio sangue, i capelli rossi che si confondevano col liquido denso che lei stessa aveva versato, sparsi disordinatamente tutt'intorno alla testa. Così Marcus aveva trovato Alida pochissimi giorni dopo il parto: così l'aveva ridotta. Era stata tutta colpa sua. Tutta colpa sua. Se l'era ripetuto a lungo, fino a crederci, fino a quasi impazzire. Poi aveva capito di non poter perdere la ragione – non anche lui – e la recita era cambiata. Aveva preso a dirsi: “Mi hai costretto tu. Non volevo arrivare a tanto. Non volevo vederti così”. E si era sentito meglio, col tempo. Colpevole – quello sempre – ma non più fuori di sé. Aveva agito per amore, e tanto bastava a fargli sentire la coscienza un po' più leggera – quant'era necessario per andare avanti senza dare di matto a sua volta. Alida aveva tentato di uccidere sua figlia – il frutto del loro amore, la piccoletta dagli occhi lucidi che solo raramente decideva di palesare la sua presenza con versetti e gemiti, preferendo di solito lo sgambettare silenzioso nella culla – e Marcus aveva dovuto denunciarla, aveva dovuto. Andava fatto. Andava fatto. Se l'era ripetuto così tante volte da arrivare ad odiare quei due verbi. Non poteva smettere di pronunciarli, però. Perché quella era la verità. Aveva denunciato Alida per tentato omicidio e non aveva fatto nulla per impedire che la tenessero in isolamento fino al momento del parto. Non voleva che la lanciassero, ma voleva che soffrisse almeno la metà di quanto avrebbe sofferto Brayden se Alida l'avesse privata della vita prima ancora che questa potesse farne esperienza. Voleva punirla e c'era riuscito. I mesi di isolamento erano stati una tortura per Alida. Ma lei era rimasta irremovibile: continuava a chiedere l'aborto ogni volta che poteva, ripeteva che non avrebbe mai accettato la bambina che portava in grembo. Non era fatta per fare la madre, voleva solo servire l'Arca come aveva sempre fatto, e una gravidanza gliel'avrebbe impedito. Era già successo, d'altronde. Era rimasta incinta per la prima volta nel fiore della sua carriera da Guardia e aveva perso il bambino in servizio, in seguito ad un'accesa colluttazione con uno dei tanti criminali dell'Arca. Allora l'aveva capito: avere figli non era per lei. O lavoro o famiglia. Da allora Alida e Marcus non avevano più provato a concepire. Poi però era arrivata Brayden, come nient'altro che un fulmine a ciel sereno, e Alida era crollata nuovamente.
La morte di Vera aveva riportato alla mente di Marcus l'immagine atroce della donna che aveva amato con tutto se stesso durante i suoi ultimi istanti di vita, quando gli aveva detto – prima di esalare il suo ultimo respiro: “Dovrai crescerla da solo”. Parlava di Brayden. Marcus credeva di aver rimosso quel ricordo, di averlo spinto con non troppa fatica nel famoso oblio da difesa che per tanti anni l'aveva fatto tirare avanti quasi come se nulla fosse successo. Ma la morte di sua madre – improvvisa, inaspettata, dolorosa – riportò tutto a galla, mentre l'osservava immobile nella stessa posizione in cui aveva trovato Alida, circondata da una pozza del proprio sangue e coi capelli scompigliati. Le situazioni erano diverse, ma il risultato uguale. Aveva perso un'altra delle donne più importanti della sua vita. Chi gli rimaneva ora che Callie era sparita, Alida morta come Vera e forse anche Brayden?
Marcus distolse gli occhi dalla figura di sua madre solo quando avvertì un fruscio di vestiti accanto a sé. Guardò alla sua destra e vi trovò Abby; si era inginocchiata accanto a lui e premeva una mano sul collo di Vera. Ingenuamente, sperava di poterla salvare. Era fatta così, lei. Doveva sempre aiutare tutti. Ma quella volta non avrebbe potuto far niente, e cercò di comunicare a Marcus ciò che lui in realtà già sapeva. Lo guardò a lungo con occhi dispiaciuti e un paio di scuse che faticavano a venir fuori, e lui semplicemente ricambiò il suo sguardo mentre realizzava all’improvviso che Abby Griffin era probabilmente l’unica donna che gli era rimasta.
 

 
“Questi ci stracciano”.
Nel baccano di quel pomeriggio, Jasper nemmeno si preoccupò di tenere bassa la voce per nascondere la sua preoccupazione ai nostri avversari. Non si poteva certo dire che i delinquenti non sapessero come divertirsi: avevano tutti e subito saputo approfittare bene del Giorno dell’Unità per darsi alla pazzia gioia con l’alcool e giochi annessi e connessi. Anche Jasper e Monty si erano fatti coinvolgere, e avevano incluso anche me nella loro sfida: si erano formate due squadre da tre per un torneo di birra pong, e chi avrebbe perso tra i due avrebbe dovuto pagare pegno. Io ero finita in squadra con Jasper e Nathan Miller – col quale ricordavo di aver avuto alcuni corsi in comune all’Accademia per diventare Guardia, sull’Arca – mentre Monty era tra i nostri avversari, affiancato da Harper e Monroe. Finché Miller non aveva deciso di abbandonare me e Jasper – traditore – le cose erano andate benino, ma da quando eravamo rimasti in minoranza la situazione stava degenerando. Io non me ne preoccupavo, comunque, pensavo solo a divertirmi e ne approfittavo per buttare giù quanto più alcool potessi. Speravo ingenuamente che questo sarebbe riuscito a farmi dimenticare.
Jasper d’altro canto era ormai sul vertice di un crollo nervoso. Per lui perdere significava dover pagare pegno, e capii da quant’era teso al mio fianco che temeva quella possibilità con tutto se stesso. Conoscendo Monty, non gliel’avrebbe fatta passare liscia tanto facilmente.
“Che vuoi fare?”, gli chiesi quindi, approfittando della momentanea distrazione dei miei avversari per donare un’occhiata anche fin troppo seria a Jasper.
Lui ci pensò su per un po’, stringendosi il labbro inferiore tra i denti con aria pensierosa.
“Ci servono rinforzi”, proclamò infine, cominciando già a farsi lontano dalla superficie in legno che stavamo usando come tavolo improvvisato. “So già a chi chiedere”.
Mi parlò mentre ancora si allontanava dal posto della sfida, lasciandomi sola e confusa a guardarlo mentre si dirigeva chissà dove. Avrebbe abbandonato la partita così, senza dire nulla? Prima che potessi chiederglielo, Harper mi precedette.
“Vi state già arrendendo?”, mormorò, con una punta di malizia che però Jasper non colse.
“Ovviamente no. Ci serve solo un breve time out”. Jasper cercò gli occhi di Monty in attesa della sua approvazione. “Siamo sotto di un giocatore, e pensavo volessi una competizione equa”.
A quella velata frecciatina, Monty non poté far altro che trattenere uno sbuffo infastidito. Alla fine comunque acconsentì, annuendo nella direzione di Jasper che subito riprese a dirigersi ancora non sapevo dove. Ero troppo curiosa di scoprirlo, però, ecco perché lo seguii.
“Scegliete bene il vostro alleato!”, sentii che Monty ci urlava da dietro, trattenendo a stento una risata mentre Monroe e Harper lo imitavano.
Erano convinti di avere la vittoria in pugno, e ridacchiai divertita da quel loro comportamento infantile, ma soprattutto dai continui borbottii che sciorinò Jasper mentre riempiva due bicchieri improvvisati del magico liquore di Monty. Aggrottai le sopracciglia. Voleva bere, quindi? Che ne era del nostro alleato?
Capii che avrei avuto la risposta al mio quesito quando lo vidi continuare a muoversi in direzione di una tenda piuttosto grande, senza però toccare nemmeno un goccio dell’alcool che si era versato. Confusa, continuai a seguirlo. Quando vidi la schiena di Raven dall’interno della tenda, capii subito. Jasper voleva corromperla portandole da bere. Ci mancò poco che non mi coprissi il viso con le mani dall’imbarazzo.
“Ehi! Eccoti qua!”, sentii che trillava nella direzione della Reyes, porgendole da bere. “Ascolta, io e Bray stiamo giocando a birra pong contro Monty e company. So che voi meccanici avete questa coordinazione mano-occhio da paura, perciò…”.
Lo sguardo di Raven si fece sempre più confuso, mentre ascoltava Jasper blaterare cose senza senso e non osava toccare alcool. Allora decisi di intervenire.
“Jasper ti sta praticamente implorando di salvargli il culo. Ha scommesso non so che di imbarazzante con Monty, e non vuole rischiare di perdere in modo vergognoso come già stiamo facendo”.
“Ehi!”, mi rimbeccò Jasper, voltandosi a guardarmi per riservarmi un colpetto sul braccio. “Se stiamo perdendo è anche colpa tua”.
“Stronzo”, bofonchiai, massaggiandomi piano il braccio che mi aveva colpito.
Ci andava giù pesante.
Prima che potessimo finire a litigare, comunque, Raven spezzò la tensione rimettendosi a lavoro come se niente fosse.
“Non posso venire a giocare con voi”, mormorò, prendendo a maneggiare alcuni proiettili mentre io cercavo di capire cosa stava facendo. “Sto controllando la polvere da sparo, così se i Terrestri decideranno di ucciderci tutti, magari prima ne faremo fuori qualcuno noi”.
Non potei che restare colpita da quella sua frase. Ormai tutto ruotava intorno a quello. Si stava preparando una guerra nella quale tutti ci eravamo ritrovati gettati senza nemmeno poterlo decidere. E noi saremmo stati pronti a combatterla? Ne dubitavo.
Il flusso dei miei pensieri negativi fu interrotto da uno schiocco violento che mi fece sobbalzare, subito seguito dall’urlo di Jasper che osservai farsi vicino a Raven.
“Sicura di non volere aiuto nemmeno ora che sei quasi saltata in aria?”.
Fissai Raven in viso, osservando attentamente la sua espressione a metà tra l’afflitto e l’infastidito. Poi la vidi posare sul tavolo da lavoro un proiettile distrutto. Oddio. Era stato quello ad esplodere?
“Sei il migliore meccanico del mondo, okay? Ma qui ci vuole un chimico”, disse Jasper, alzando le mani al cielo per assumere un’aria inoffensiva. Raven gli dedicò un’occhiata scettica. “Come andavi in chimica? Io benissimo”.
Io no, invece. Ero bravissima in fisica e me la cavavo in ingegneria grazie ai miei studi all’Accademia delle Guardie, ma la chimica non ero mai riuscita ad assimilarla bene – per quanto mi piacesse. Tanto che del discorso che mise su Jasper di lì a poco faticai a comprendere anche solo il minimo indispensabile. E a giudicare dall’espressione confusa che si dipinse sul viso di Raven, lei era sulla mia stessa barca. Prima che Jasper potesse rendersene conto, comunque, Bellamy interruppe quel momento che si stava facendo a dir poco imbarazzante.
“Ehi, vieni con me”.
Entrò nella tenda a gran velocità, avvicinandosi a Jasper quanto bastava a consegnargli un fucile. Subito partii sulla difensiva. Cosa stava succedendo? Dove erano diretti? Perché avevano bisogno di armi? E di proiettili, realizzai, osservando Bellamy che faceva per prenderne una buona manciata dal tavolo, senza troppe cerimonie.
“Cosa succede?”, gli domandò però Raven, fermando la sua incetta.
Bellamy nemmeno pensò di mentirle.
“Il tuo ragazzo si comporta da idiota”, disse, guardandola fisso negli occhi.
Poi però si fece lontano da lei, prendendo senza remore i proiettili che Raven gli porgeva, prima di voltarsi a guardarmi.
“Vieni anche tu”, ordinò, con un tono di voce che in un’altra situazione me l’avrebbe fatto odiare e non poco.
Era perentorio e sapeva che non gli avrei detto di no. Non ci provai nemmeno, semplicemente annuii flebilmente e distolsi gli occhi da Bellamy solo quando sentii Raven dire che si univa a noi. Per andare dove, ancora non mi era dato saperlo. Cosa aveva combinato Finn? Sperai niente di irrisolvibile. O pericoloso.
“Procuriamoci delle armi”, proclamò Bellamy, accettando che Raven ci seguisse mentre già si dirigeva all’uscita della tenda.
L’ennesima domanda di Jasper lo lasciò però interdetto sull’uscio.
“Non dovremmo chiamare anche Clarke?”.
Calò subito un silenzio imbarazzato che mi confuse non poco. Aggrottai le sopracciglia, ricambiando lo sguardo perso di Jasper, il quale mi aveva rivolto un silenzioso: “Che ho detto di male, ora?” al quale non seppi rispondere. Toccò a Raven scongelare la situazione.
“Clarke è con Finn”, concluse, dando modo a Bellamy di scappare prima di seguirlo.
Alla fine nella grande tenda rimanemmo solo io e Jasper a fissarci, ancor più confusi di prima. C’eravamo persi qualcosa, ma capimmo subito che non fosse il momento di farsi troppe domande. Era giunta già l’ora di scendere in guerra. Lo realizzai solo allora, accettando senza farmelo ripetere due volte il bicchiere di alcool che mi porgeva Jasper. Ingurgitammo il forte liquido tutto in un sorso, e nell’uscire dalla tenda per raggiungere nuovamente Bellamy e Raven, pregai di nuovo dopo non so quanto tempo affinché tutto andasse bene.
 

 
Quando finalmente ci fermammo, ormai giunti all’alba del mattino dopo, avevo le gambe così dolenti che per poco non mi misi a piangere dalla gioia. C’era poco da essere felici, comunque, ecco perché comunque evitai e mi diedi subito da fare per analizzare la situazione con occhio critico. Non potevo fare a meno di essere nervosa, avevo i nervi a fior di pelle per la paura costante di un attacco inaspettato da parte dei Terrestri e di certo la camminata nei boschi bui alla quale c’eravamo dati con Bellamy, Raven e Jasper non aveva aiutato. Nemmeno stringere il fucile tra le dita riusciva a tranquillizzarmi. E come se non bastasse, a circondarci c’era un’aria tesa e imbarazzata come poche. Ma ovviamente le cose sarebbero peggiorate. Stupidamente ingenua, non avevo tenuto conto del fatto che se qualcosa può andar male, andrà male.
“Oddio”.
Puntai gli occhi su Jasper non appena lo sentii parlare, interrompere quel pesante silenzio che da troppo tempo tutti ci portavamo dietro, pesante come un macigno. Nemmeno c’avevamo provato ad instaurare una conversazione, perché cosa dire mai di adatto in una situazione del genere? Bastavano chiacchiere morte a riempire silenzi mentre si andava in guerra? Immaginavo di no.
Trovai gli occhi nocciola di Jasper fissi su un punto indefinito, e mi venne automatico seguire con bruciante curiosità la traiettoria del suo sguardo. Cosa – o chi – l’aveva agitato tanto da aprire bocca con quella esclamazione trafelata? Non vedevo l’ora di scoprirlo.
Ma ciò che vidi risultò difficile da mandar giù.
“È Octavia, quella?”, soffiai incredula, affilando lo sguardo il più possibile nella speranza che mi stessi sbagliando.
Istintivamente mossi un passo nella sua direzione: volevo guardarla meglio, accertarmi che fosse lei. Ma una mano mi afferrò la spalla e mi sospinse nuovamente indietro, nel posto riparato dagli alberi che c’eravamo guadagnati tutti. Era Bellamy. Lo fissai a lungo nell’attesa che dicesse o facesse qualcosa per giustificare quel suo gesto, ma non arrivò nulla. Se non una piccola sfumatura di delusione sul suo volto spruzzato di lentiggini.
Non era deluso da me. Non mi guardava più, all’improvviso ero invisibile. Bellamy teneva gli occhi puntati su Octavia, e la guardai anch’io mentre… abbracciava il Terrestre fuggitivo? Come, prego?
“Oh…”, mugolò Jasper con un’improvvisa aria da cagnolino bastonato.
La sua reazione mi diede la spiacevole conferma del fatto che no, ancora una volta non stavo avendo delle allucinazioni. Era tutto vero. Dolorosamente vero.
“Ora si spiega come ha fatto a scappare”, scherzò Raven, ma la sua ilarità durò poco.
Vidi anche la sua espressione indurirsi all’improvviso e poi incrinarsi, macchiata da un’ombra di dispiacere impossibile da nascondere. Rivolsi di nuovo lo sguardo alla scena che mi si presentava al di là del ponte, ed ebbi la risposta alle mie domande nell’osservare le mani di Finn e Clarke strette l’una nell’altra.
Un altro importante tassello si aggiunse al puzzle. Prima che me ne potessi rendere conto, ero circondata da cuori infranti. E io…
Uno spostamento d’aria improvviso mi salvò dal baratro di pensieri dolorosi nel quale ero già pronta a cadere. Era stato Bellamy. Aveva assunto una posizione di difesa e puntato il fucile contro Lincoln.
“Bellamy”. Non potei che richiamare il suo nome con voce già strozzata dalla paura che potesse fare una cazzata.
Per fortuna Raven mi venne in aiuto. Non credevo che da sola sarei riuscita a tranquillizzarlo.
“Guarda là”, ordinò, indicandogli il ponte.
Ci diedi subito un’occhiata anch’io, e dopo qualche secondo tre figure a cavallo si palesarono di fronte ai miei occhi sgranati. Erano completamente vestiti di nero; due uomini ed una donna. Ed erano…
Armati”, finii quel pensiero a voce alta, quasi senza rendermene conto, quasi ringhiando.
Solo Bellamy mi sentì.
“Lo siamo anche noi”, mi tranquillizzò, voltandosi brevemente a guardarmi prima di spostare la mira sui nuovi arrivati.
Lo imitai senza farmelo ripetere due volte. Ma allora, sebbene fossi convinta del fatto che qualcosa sarebbe successo di lì a poco, la situazione si congelò tanto che mi sentii ancor più tesa di prima.
Grazie al mirino del fucile riuscivo a tenere bene d’occhio la situazione: Clarke era di fronte alla donna scesa da cavallo e sembravano intente a parlare, con aria seria e distaccata. L’espressione della donna non era cambiata di una virgola da quando Clarke l’aveva raggiunta, e il tempo mi sembrò all’improvviso non passare più.
“Quanto ci mettono?”, sussurrai, ponendo quella domanda a nemmeno sapevo io chi.
Raven – forse preoccupata dal mio tono spazientito – imitò me e Bellamy e si servì del mirino per osservare meglio la situazione.
“La principessa dei Terrestri sembra incazzata”, disse infine, guardandosi intorno.
Bellamy non le restituì lo sguardo, gli occhi ancora fissi su Clarke.
“È l’effetto che fa la nostra principessa”.
Non ebbi tempo di stupirmi per quella frase. Jasper scattò subito sulla difensiva e attirò l’attenzione di tutti su di sé.
“Così non va bene”, borbottò, la mira puntata nel fitto degli alberi opposti al ponte occupato dai nostri compagni e dai Terrestri.
“Cosa succede?”.
Ci sono dei Terrestri tra gli alberi.
Rabbrividii, mentre il terrore prendeva possesso di Bellamy e Raven – che provarono però a nascondere la cosa con scarsi risultati – e passava a fare visita anche a me, che subito cercai una conferma alle parole di Jasper controllando gli alberi alla ricerca di presenze nemiche. Che però non riuscii a trovare. E paradossalmente, la cosa non mi tranquillizzò. Anzi.
“Stanno per sparare! Clarke, scappa!”.
Fu il finimondo.
Jasper uscì fuori dal nascondiglio all’improvviso, sparando il primo di una lunga serie di colpi mentre ancora urlava a Clarke di scappare. Diventò tutto un insieme confuso di rumori e mi persi un momento, chiedendomi a chi avrei dovuto prestare attenzione. Chi avrei dovuto difendere? Per chi dovevo combattere?
Quando vidi Bellamy proteggere Clarke ebbi la risposta. Mi feci forza quanto bastava per riprendere in mano il fucile con presa salda e lo puntai negli alberi, contro i Terrestri che ora si palesavano senza più alcuna remora. Ne colpii un bel po’ mentre pregavo come mai avevo fatto prima di non uscirne ferita; avevo paura, e mai come allora mi sentii attaccata alla vita che sull’Arca avevo sempre denigrato. Non volevo morire. Non volevo che nessuno dei miei compagni morisse. Dovevo fare di tutto per proteggerli. Ma prima ancora che me ne potessi sul serio rendere conto, avevo finito le munizioni. Ero semplicemente una pedina immobile nel campo di guerra, inerme di fronte ai colpi degli avversari. E cosa potevo fare per salvarmi se non scappare? Non fui l’unica a battere in ritirata: quella alla quale ci eravamo avviati all’improvviso era una guerra che ancora non eravamo pronti a combattere. Lo capii pienamente mentre correvo a perdifiato tra i boschi, cercando di non inciampare fatalmente in qualunque ostacolo che mi avrebbe allontanata ulteriormente dalla meta – il campo. Avrei voluto pensare a quest’ultimo come a casa mia, come ad un luogo dove mi sarei sentita protetta da tutto e tutti. Ma non ci riuscii. Sapevo che mai più, in nessun luogo e con nessuno dei Cento, sarei stata al sicuro.
Io, John, Finn, Jasper… Ci eravamo tutti sbagliati. Non c’era più salvezza
.


 

_______________________________
 

Ringraziamenti
A trashprincess, che trova sempre un po' di tempo per recensire i miei capitoli.

P.S.
Adoro il tuo nuovo nickname.

Note
La citazione ad inizio capitolo non so di chi sia, l'ho trovata in un fanvid su Agents of S.H.I.E.L.D. e ho pensato che ci fosse davvero poco di più azzeccato di questo. Come non inserirla?
... posso dirlo che questo capitolo mi piace? No, perché lo dico. Mi piace davvero. Ci sono Bellamy e Brayden che mi fanno letteralmente sciogliere il cuore (e che stanno facendo pace a poco a poco, amorini), Jasper che è un dolcino assoluto e i Kabby che volente o nolente s'infilano nei capitoli anche quando non vorrei. Boh, spero possa piacere anche a voi leggere di questo alternativo Giorno dell'Unità.
Poi. Per il fatto delle Guardie e dell'Accademia mi sono ispirata ancora una volta a Kass Morgan e al libro di The 100; sebbene quest'ultima non nomini mai una vera e propria accademia, a me è piaciuto pensare che sull'Arca ce ne fosse comunque una, divisa in livelli di apprendimento e quant'altro. Brayden è ancora piccola, ecco perché ho immaginato che i suoi studi fossero stati interrotti al livello I. Anyway. Quando parla di Guardie, Kass Morgan accenna ad una élite di queste ultime composta da guardie che sono specializzate anche in Ingegneria e che dunque sono capaci anche di occuparsi di molte delle riparazioni dell'Arca. Ho preso in prestito questo dettaglio, da come avrete potuto capire, rivelandovi gli studi che Brayden ha compiuto di Ingegneria Gestionale e Meccanica (inoltre: la Morgan non parla di Fisica, ma come potevo io non inserirla? Passatemi quest'ennesima licenza).

Infine. se qualcosa può andar male, andrà male è riportata in corsivo perché è il primo assioma della Legge di Murphy che... potevo mai NON inserire?
... ora credo di aver detto proprio tutto. Spero di essermi spiegata bene; comunque per qualsiasi cosa potete scrivermi (i miei contatti sono ovunque, ormai lo sapete). Al prossimo capitolo, che arriverà TRA DUE SETTIMANE (il 10 giugno), come già sapete. Spero di riuscire ad uscirne viva, è il capitolo in cui torna Murphy ed io non sono pronta. Nemmeno Brayden lo è.

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Capitolo 10
*** What have you done? ***




10.   WHAT HAVE YOU DONE?
 
 
I have been waiting for someone like you, but now you are slipping away.
Why does Fate make us suffer?
There’s a curse between us: between me and you.
What have you done?
 
Non stava succedendo davvero. No. Non a me. Perché, poi? Ciò che le mie iridi assonnate registravano non aveva un briciolo di senso. Era tutto frutto della mia fantasia distorta. Un sogno. Un incubo. Non di certo la realtà.
John Murphy non era lì di fronte a me – per quanto la cosa, in fondo, mi sarebbe piaciuta. Non aveva il viso incrostato dal sangue di ferite che non sapevo chi gli avesse inferto, le braccia tumefatte e la maglia ridotta a brandelli. No. Era fuori nel bosco, lì da qualche parte, lontano da me ma comunque al sicuro. Se la sarebbe cavata. Sapevo che ne fosse in grado.
Mi aveva promesso che sarebbe tornato, ma non in quelle condizioni. Non faceva parte del patto. Non… Non ero pronta ad una cosa del genere. E non lo sarei dovuta essere, mi ripetei, perché tanto era tutto frutto di un bruttissimo sogno dal quale mi sarei svegliata di lì a breve.
Ma i minuti passavano e nulla cambiava, me ne resi conto dopo davvero troppo tempo, quando le gambe già cominciavano a dolermi per aver mantenuto la stessa posizione troppo a lungo. Non mi ero ancora svegliata. E non mi sarei svegliata. Perché sveglia lo ero già. E stavo vivendo il mio incubo peggiore.
Cercando – quasi inutilmente – di trattenere un forte gemito, mi coprii le labbra con le mani e cercai in tutti i modi di ricacciare indietro le lacrime. Piangere in quel momento non sarebbe servito a nulla. Mi avrebbe solo resa ancor più stanca e stremata, e quella era l’ultima cosa della quale avessi bisogno in quel momento. Al contrario, mi servivano forza e coraggio a volontà. E subito feci di tutto per cercarne dentro di me almeno un pochino. Alla fine, il massimo che riuscii a fare fu muovere dei passi traballanti nella direzione di Murphy. Gli ero più vicina sempre più, e fu solo quando me ne resi conto che qualcosa si accese dentro me in via definitiva. Percorsi i pochi metri che ancora ci separavano quasi correndo, risparmiandomi una caduta penosa solo perché finii a scivolare sul pavimento della navicella nella quale avevano portato John.
L’avevano trovato quella sera stessa fuori dal recinto e la voce s’era sparsa subito: sebbene nessuno si fosse preoccupato di avvisarmi, avevo saputo tutto velocemente e – incredula – avevo dovuto correre a controllare. Quando mi ritrovai col viso ad una spanna da quello di John, quasi sentii un moto di rimpianto accendersi dentro me. Avrei dato qualunque cosa per non dover vivere quella scena.
“Cosa”, pigolai, la voce ridotta ad un singulto, incapace di procedere oltre se non dopo infiniti sforzi. “Cosa ti hanno fatto?”.
Dopo aver posto quella domanda mi sentii infinitamente stupida. Ciò che gli avevano fatto era evidente, dunque perché me n’ero uscita con quella domanda scontata? Perché non ero in grado di dire nient’altro? Sembrò chiederselo anche Murphy, mentre in silenzio mi riservava nient’altro che un’occhiata inespressiva. Non aveva intenzione di rispondermi, e lo capii solo quando dopo diversi minuti – dopo diverse mie domande – mi resi conto del fatto che nulla, assolutamente nulla, fosse cambiato.
“John”, lo chiamai allora, nella voce una nota di dolore e disperazione tanto forte che per un attimo sussultai, imitata da John che si ritrasse velocemente dal mio tocco sul suo braccio. Cercai di non prendermela. “Devi parlarmi”.
Ma a niente servirono le mie preghiere, silenziose e non. Non mi avrebbe detto nulla. Non si sarebbe lasciato toccare, nemmeno da me. E in fondo non potevo dargli torto. Aveva bisogno del suo spazio. E fui pronta a lasciarglielo, almeno finché Bellamy non ci raggiunse a passo spedito, seguito da Clarke e Finn.
“Tutti, tranne Derek e Connor, fuori”, sibilò, raggiungendo me e Murphy nel fondo della stanza. Tutti ubbidirono senza farselo ripetere due volte. Tranne me. Bellamy mi notò solo quando il mio corpo gli impedì di avvicinarsi a John in modo pericoloso. “Fuori”.
Indurii la mascella, sostenendo il suo sguardo scuro e infastidito. Se credeva di impaurirmi così si sbagliava di grosso. Quasi non battei ciglio, incrociando le braccia al petto prima di alzarmi a fronteggiarlo. Non avevo paura.
“Non ci penso proprio”.
“Kane”. Bellamy mosse l’ennesimo passo nella mia direzione.
“Lasciala stare”. Ma Clarke lo fermò prima che fosse troppo tardi, afferrandogli un braccio e riportandolo indietro, più vicino a sé.
“Dice di essere stato coi Terrestri”.
Derek, uno dei ragazzi che insieme ad Octavia aveva trovato Murphy, mise fine a quel momento di imbarazzo e tensione rompendo il silenzio pesante che era calato a farci compagnia. Indicò John col fucile che stringeva tra le mani ed io ritornai ad inginocchiarmi di fronte a lui com’ero stata finché non era arrivato Bellamy, salvo scoprire poi che evitasse il mio sguardo come la peste.
“L’abbiamo visto mentre cercava di intrufolarsi nel campo”. Quella volta fu Connor a parlare.
Ma secondo John non stava dicendo la verità. Tanto che lo vidi e lo sentii muoversi impercettibilmente nel suo angolino, respirando a fatica prima che dicesse: “Non mi stavo intrufolando. Stavo scappando dai Terrestri” sempre senza mai guardarmi, nemmeno per sbaglio.
A quella rivelazione, comunque, Bellamy si sentì in dovere di riprendere parola.
“Qualcuno ha visto dei Terrestri?”.
Sia Connor che Derek scossero la testa in sincrono.
“Be’, allora…”. Non gli lasciai il tempo di completare la sua frase.
Mi voltai a fronteggiarlo più velocemente della luce, rimettendomi in piedi seppur con molti sforzi, di modo che ci fosse il mio corpo nella traiettoria del suo fucile prima ancora di quello di Murphy. Non gli avrei permesso di ucciderlo. Non così e non in quel momento. Né mai.
“Bellamy, fermo!”. Ancora una volta ci fu bisogno dell’intervento di Clarke, spaventata dal vedere che Bellamy non sembrava intenzionato – di nuovo – a tirarsi indietro. Nemmeno se questo avrebbe significato doversi scontrare con me.
“Oh, andiamo”, borbottò Bellamy, togliendomi il fucile di dosso solo di fronte al richiamo di Clarke. Si voltò a guardarla con aria spazientita, mentre io cercavo inutilmente di trattenere un sospiro di sollievo. Per un attimo avevo temuto che mi sparasse. E conoscendolo, non me ne sarei stupita più di tanto. “Avevamo deciso che se fosse tornato l’avremmo ucciso!”.
“Pensaci bene”, prese parola Finn, interrompendolo. “Se davvero è stato coi Terrestri potrebbe sapere cose utili”.
Ma Bellamy si dimostrò ancora una volta irremovibile.
“Non ci servono le sue informazioni. Lo abbiamo impiccato, esiliato… e ora lo uccidiamo”, borbottò, deciso a non farsi indietro. Io e Finn eravamo dello stesso avviso, però, e Bellamy lo scoprì a sue spese. “Levatevi di mezzo”.
“No, Finn ha ragione”, mormorò Clarke, sorpassandoci tutti velocemente prima di inginocchiarsi di fronte a John.
La guardai col cuore in gola mentre lo esaminava, temendo il peggio anche se non avrei voluto.
“Col cazzo che ha ragione, Clarke! Pensa a Charlotte!”.
Quel nome urlato le fece girare di scatto la testa nella direzione di Bellamy, che subito si zittì, come se avesse visto nel suo sguardo azzurro un segnale troppo forte da ignorare.
“Ci sto pensando”, soffiò amareggiata, prima di voltarsi a guardare John. “Ma ciò che le è successo è tanto colpa sua quanto nostra”.
Quell’ultima frase mi fece sobbalzare, enormemente colpita anche se non avrei voluto. Clarke stava – finalmente – ammettendo le sue colpe? Non riuscivo a crederci, tanto che per più di un attimo mi mancò il respiro. Ma la mia mente fu subito distolta da quei pensieri quando la Griffin riprese parola.
“Non sta mentendo. Gli hanno staccato le unghie”, mormorò con aria quasi assorta, mentre un groppo di lacrime mi opprimeva la gola e cercavo invano di trattenerle mordendomi a sangue le labbra. “Lo hanno torturato”.
Mi scappò un gemito e Finn lo sentì distintamente, tanto che bloccò a metà la battuta cattiva che stava riservando a Bellamy. Piena di vergogna, mi coprii le labbra con le mani e poi spazzai via tutte le lacrime sfuggite al mio controllo quasi di ferro.
“Cosa hai detto di noi ai Terrestri?”.
Quella domanda mi distrasse tanto dai miei piagnistei che per poco non mi riscoprii grata a Bellamy per averla posta. Non gli riservai nemmeno mezzo sguardo, comunque, cercando nuovamente la figura di Murphy mentre già smaniavo per una sua risposta. Sapevo che dalle sue parole dipendesse il destino di noi tutti. E sapevo anche che ciò che avrei sentito non mi sarebbe piaciuto affatto; lo capii quando, dopo quelli che mi erano sembrati secoli, gli occhi azzurri di Murphy cercarono nuovamente i miei.
“Tutto…”, lo sentii che sussurrava a fatica, mentre mi pareva che il mondo stesse per crollarmi addosso.
 
Would you mind if I hurt you?
Understand that I need to.
Wish that I had other choices
than to harm the one I love.
 
“Dovresti…”.
Voltai di scatto la testa nella direzione di Murphy, reattivissima di fronte alle prime parole che mi rivolgeva dopo millenni. Da quando aveva rivelato di averci venduti ai Terrestri non avevo più provato a parlargli né a toccarlo, ma gli ero comunque rimasta vicina, incapace di fare altro. Mi sentivo minuto dopo minuto più stanca e impotente; sebbene lo volessi moltissimo non c’era nulla che potessi fare per aiutare John. Nemmeno cominciare a medicare alla bell’e meglio le sue ferite.
Potevo solo starmene accanto a lui a nascondergli i miei brividi di paura all’idea di un ennesimo attacco – un’altra vendetta – da parte dei Terrestri. Ancora una volta mi dicevo coraggiosa ma non lo ero affatto.
“Dovresti andartene”, completò Murphy dopo un po’, con immensi sforzi e il respiro spezzato.
Non appena finì di parlare mi girai completamente nella sua direzione, portandomi le ginocchia al petto nella speranza di sentirmi almeno un po’ più protetta. Da cosa non lo sapevo ancora.
“Non mi muovo da qui”, mormorai comunque, la voce flebile e la testa che all’improvviso mi girava in un modo che proprio non riuscivo a spiegarmi.
Confusa, mi portai una mano tra i capelli, reggendomi la testa che di colpo mi sentivo pesantissima. Presi un paio di grossi respiri mentre cercavo di dissimulare, chiudendo gli occhi alla ricerca di una calma che stavo perdendo mano a mano mentre mi tiravo i capelli ramati dietro le orecchie.
Un improvviso sussulto mi fece sobbalzare e riaprii gli occhi spaventata, ritrovandomi di fronte lo sguardo sorpreso e quasi… spaventato? di Murphy. Cercai di chiedergli cosa stesse succedendo, mentre lo osservavo allungare una mano nella mia direzione e sentivo l’ansia crescermi dentro sempre più.
“Ti ho detto–”, parlò, anticipandomi, ma prima che potesse completare la sua frase e sfiorarmi la guancia come avrebbe voluto, dovette interrompersi e farsi lontano da me.
Finì a sputare così tanto sangue e così all’improvviso che non potei far altro che sobbalzare, facendomi lontana dal suo corpo alla velocità della luce, anche se ero incapace di camminare e semplicemente mi ridussi a scivolare via, gli occhi inumiditi e le guance già bagnate. Quelle che versai erano però lacrime strane, troppo… dense. Istintivamente mi asciugai le guance con le dita e nel riportarle di fronte ai miei occhi mi venne naturale liberare un urlo spaventato.
Avevo le mani insanguinate. C’era sangue sulle mie mani. Oddio. Stavo piangendo sangue? Perché? Incredula – e speranzosa che fosse tutto un sogno, un’illusione, un’allucinazione – spazzai nuovamente via quelle lacrime strane dalle mie guance. Ma il risultato fu lo stesso, e quando mi sentii sul punto di aprirmi in una lunga sequela di singhiozzi mi riscoprii incapace di fare anche quello. Il mio singulto fu infatti bloccato bruscamente da un groppo in gola che mi fece mancare il respiro finché finalmente non riuscii a liberarmene, rabbrividendo disgustata da tutto il sangue che anch’io finii a sputare sul pavimento metallico della navicella.
“Oh mio Dio”, piagnucolai allora, osservandomi ricoperta di sangue senza che nemmeno sapessi cosa diavolo stesse succedendo.
Non sapevo né quello né cosa avrei dovuto fare di preciso allora, tanto che finii a perdermi completamente finché un paio di passi non mi distrassero dai miei infiniti piagnistei. Era Clarke, e lo scoprii quando i miei occhi appannati inquadrarono la figura di una ragazza dai lunghi capelli biondi e l’aria terrorizzata. Aveva occhi azzurri contornati di rosso e mi si fece vicina mentre tratteneva tremiti. Pensai che mi avrebbe parlato – a me che non sapevo cosa dirle – ma capii che non l’avrebbe fatto quando Murphy attirò la sua attenzione, tossendo violentemente e sputando altro sangue. Mentre Clarke lo raggiungeva per inginocchiarglisi al fianco, gli riservai l’ennesima occhiata dispiaciuta. Non c’era nulla che potessi fare per aiutarlo, e come se non bastasse mi sentivo morire anch’io.
“Murphy, guardami! Devi dirmi esattamente come sei scappato dai Terrestri. Cos’è successo?”.
Di fronte a quell’ordine strillato, John cercò con infiniti sforzi di prendere respiro. Poi provò a parlare, deglutendo lentamente e cercando appoggio su una delle pareti della navicella.
“Non lo so”, cominciò, a voce bassissima, gli occhi socchiusi per la troppa stanchezza. “Mi sono svegliato e si erano scordati di chiudere la mia gabbia. Non c’era nessuno, così sono scappato”.
Sentii scendere l’ennesima lacrima e tirai su col naso, preda di un’improvvisa quanto dolorosa consapevolezza.
“Ti hanno lasciato andare”.
Era evidente, ormai. L’unico a non averlo capito era proprio il diretto interessato. Feci per dire qualcosa, ma l’ennesimo rumore di passi mi interruppe. Clarke distolse lo sguardo dal viso di Murphy e si voltò alle sue spalle.
“Bellamy, sta’ indietro!”, strillò, alzando l’indice nella direzione dell’appena arrivato Blake.
Comprendendo che ci fosse lui alle mie spalle, mi voltai a guardarlo. Non mi resi conto però che così facendo avrei potuto scandalizzarlo: lo capii solo dallo sguardo a metà tra l’inorridito e l’incazzato che mise su nel vedermi ricoperta di sangue in viso e sulle mani. Ero all’improvviso irriconoscibile tanto quanto Murphy – forse anche più. E Bellamy non aveva idea di come fosse potuto succedere.
“COSA HAI FATTO?”, urlò, mentre lo vedevo distogliere lo sguardo dalla mia figura per portarlo su Murphy, sul quale scaraventò tutta la sua rabbia – oltre che la mira del fucile.
Avrei voluto fermarlo, ma non ne avevo la forza. Mentre Clarke saltava in piedi per fronteggiarlo al posto mio, tentai di sciorinare una preghiera, ma inutilmente.
“Bellamy!”. Alla fine, mi limitai a strisciare nuovamente in direzione di Murphy. Mi fermai solo quando non riuscii a coprirlo quasi interamente col mio corpo, inginocchiata esattamente di fronte a lui. Se non potevo proteggerlo a parole allora ci avrebbero pensato i miei fatti. Anche se moribonda, non avrei permesso a Bellamy di fargli del male.
E lui lo capì, perché sotto lo sguardo furibondo di Clarke mise da parte il fucile e la guardò a sua volta, sempre arrabbiato ma già più tranquillo.
“Mi spieghi cosa diavolo succede?”.
Prima di rispondergli, Clarke si limitò a prendere un lungo respiro.
“Sapevamo che i Terrestri si sarebbero vendicati dopo l’attacco del ponte. È Murphy la loro arma”.
Un’arma biologica, realizzai, mentre mi voltavo a guardarlo ancora una volta.
 

“Clarke!”.
Al suono di quella voce, distolsi subito gli occhi dal viso di Murphy per seguire la direzione dalla quale era provenuta. Voltandomi alle mie spalle, l’aria ancora smorta e le dita che stringevano forte la pezza che stavo usando per medicare John alla bell’e meglio mentre Clarke e Bellamy lo tartassavano di domande, vidi proprio chi mi ero aspettata di trovare.
“Finn”, sospirò Clarke, mettendosi in piedi con aria abbattuta per raggiungerlo sulla soglia della navicella. “Non dovresti essere qui”.
“Ho sentito che stavi male”.
Deglutii, con aria quasi colpevole. Non sapevo perché mi sentissi così tutt’a un tratto, fatto sta che sotto lo sguardo scuro e preoccupato di Finn quella scomoda sensazione non fece altro che aumentare. Era in pensiero per me – era evidente – e non avrei mai voluto che succedesse una cosa del genere. Non volevo che mi vedesse ridotta in quello stato pietoso.
“Che cos’è questa roba?”, lo sentii domandare, mentre distoglieva lo sguardo da me per ricercare gli occhi stanchi di Clarke.
“Non lo so. Una specie di febbre emorragica. Dobbiamo solo cercare di non farla diffondere, prima che…”.
Ma quella sua spiegazione incerta venne interrotta dall’improvviso attacco di tosse dal quale fu colpito Derek, tanto forte da fargli avere quasi le convulsioni. Col respiro spezzato lo osservai mentre si dimenava sul pavimento della navicella alla ricerca di un respiro che gli sfuggiva, mentre Clarke gli correva accanto nella speranza di poter fare qualcosa per aiutarlo. Una speranza vana, perché Derek si accasciò definitivamente al suolo dopo un ultimo colpo di tosse che gli fece sputare sangue. E capii subito che per lui fosse finita.
Gli occhi sbarrati e il cuore che mi batteva fortissimo dalla paura, le dita lasciarono scivolare la pezza insanguinata mentre tutto il corpo si tendeva il più lontano possibile da Murphy. Ero in preda alla paura più pura: ero malata anch’io di quella strana febbre, l’avevo vista colpirmi senza poter far nulla per impedirlo e mietere di già una vittima. Fino a quel momento non avevo mai pensato però di poterne morire. Non volevo morire.
“È…”. Bellamy interruppe quel silenzio pesante, muovendo un passo incerto nella direzione di Derek, totalmente incapace di porre la domanda che avrebbe voluto fare.
Prima di rispondergli, Clarke sfiorò con le dita il collo di Derek.
È morto”, annunciò infine, la voce spezzata da un forte singhiozzo.
Non potei far altro che seguirla a ruota, il viso bagnato da lacrime che proprio non ero in grado di fermare mentre traballando mi mettevo in piedi e correvo verso chissà dove. Non m’importava più di nulla, volevo solo stare lontana da quello scenario nefasto. Come se allontanarmi da quella navicella maledetta avrebbe sul serio potuto salvarmi dalla morte.
 
 
“Oh mio Dio!”.
A quelle parole pronunciate da Clarke con un tono di voce a metà tra un’esclamazione colorita e un urlo terrorizzato, sobbalzai vistosamente mentre alla bell’e meglio mi ripulivo il viso dalle lacrime che ormai l’avevano reso un completo disastro. Non so nemmeno perché lo feci – nascondere le mie lacrime, intendo – so solo che non volevo che anche lei mi vedesse così, nonostante fosse una cosa piuttosto normale il pensare che mi disperassi, dato che di lì a poco sarei morta.
“Che ci fai qui?”, mi domandò Clarke quando si fu tranquillizzata un po’, facendomisi vicina con aria incerta.
Non avevo idea di come avesse fatto a trovarmi: credevo di essermi nascosta bene in quell’anfratto isolato della navicella, ma evidentemente mi sbagliavo. Volevo stare lontana da tutto e tutti, ecco perché ero scappata a nascondermi. Volevo passare i miei ultimi attimi di vita a disperarmi per conto mio mentre pensavo – per l’ultima volta – alle cose più disparate. Ero patetica.
“Non voglio morire”.
Non so nemmeno perché glielo dissi, così a cuor leggero. Probabilmente era il pensiero della morte imminente a rendermi così impulsiva: oramai, cos’altro avevo da perdere? Parlai dopo aver riservato a Clarke un lungo sguardo pensieroso, dopo aver osservato la sua figura dal profondo dei miei occhi verdi appannati dalle troppe lacrime. Col tempo avevo smesso di perdere sangue o di sputarne a più non posso, ma continuavo a sentirmi ancora malissimo. E non solo psicologicamente.
Anche Clarke lo capì, perché finalmente mise da parte ogni minima reticenza e mi raggiunse una volta per tutte, inginocchiandosi di fronte a me e allungando una mano nella direzione delle mie guance. Spazzò via con entrambe le mani le lacrime che di nuovo le avevano bagnate completamente senza che potessi impedirlo, cercando di infondermi una sicurezza che ormai non possedevo più solo attraverso un lungo sguardo un po’ dispiaciuto.
“Non morirai, Brayden”, mormorò poi, per niente convincente per quanto lo volesse. La sua voce tremolò ancor più della mia, e tanto bastò a farmi capire che per quanto lo volesse, non era sicura di quanto mi stava dicendo.
Sebbene dopo Derek non fosse morto nessun altro dei Cento, non poteva dire con certezza che le cose sarebbero rimaste immutate ancora a lungo. Non poteva dire che non sarei morta. E cercai subito di dirglielo, ma Clarke me lo impedì.
“Non permetterò che tu muoia senza prima aver fatto di tutto per aiutarti”, quasi borbottò, la voce all’improvviso decisa e lo sguardo convinto come non mai. “Ma per farlo mi serve che tu esca da qui, così posso visitarti”.
Non so ancora come né perché, ma alla fine mi feci convincere. La seguii verso chissà dove e quasi sospirai di sollievo nel vedere che dove mi aveva portata non ci fosse traccia di John. Ancora non ero pronta a stargli accanto, anche se non sapevo spiegarmi perché. Non in quel momento.
Il controllo di Clarke servì a ben poco, ovviamente. Dato che non sapeva di che malattia stessimo soffrendo, per lei c’era poco da curare o da rassicurare. Ma provò comunque a farmi stare un po’ meglio e lo apprezzai moltissimo. Era stata la mia forza, in un certo senso, ed era servita anche agli altri. Li aveva rassicurati nonostante tutto, nonostante si sentisse anche lei male quanto noi e forse pure di più.
Ma alla fine anche Clarke dovette piegarsi a quello strano virus letale, lo capii quando Finn entrò di corsa nella parte di navicella dove mi ero spostata da pochissimo. L’osservai mentre se ne stava svenuta tra le sue braccia, completamente abbandonata a se stessa anche se Octavia tentava in tutti i modi di reggerle la testa. A quel punto la navicella era tanto stipata di ragazzi malaticci che per più di un attimo Finn si guardò intorno alla ricerca di un posto per Clarke. Non sapeva dove avrebbe dovuto lasciarla, e a fornirgli la soluzione a quel quesito fu una delle ultime persone dalle quali avrebbe mai immaginato di ricevere aiuto.
“Può prendere il mio posto”, mormorò Murphy infatti, cedendo la sua brandina senza farselo ripetere due volte.
Finn accettò il suo aiuto senza battere ciglio e Octavia lo seguì a ruota; io invece rimasi a dir poco stupita da quel gesto così carino e così inaspettato, che nell’osservare Murphy farmisi molto più vicino di quant’ero pronta a sopportare in quel momento, mi sentii quasi andare a fuoco. Da che lo conoscessi, mai una volta l’avevo visto comportarsi tanto bene con qualcuno che non fossi io, e quella cosa mi colpì così tanto che addirittura il diretto interessato se ne rese conto. Prima che distogliessi lo sguardo dal suo viso con un diavolo per capello e uno sbuffo infastidito trattenuto a malapena, lo vidi riservarmi un sorrisetto compiaciuto dei suoi. Mi venne subito voglia di prenderlo a schiaffi. Sapeva di avermi stupita e ne era soddisfatto, ma come poteva in un momento del genere fare finta di nulla?
“Devono restare idratati”. La flebile protesta di Clarke mi distolse dai miei pensieri, salvandomi dal baratro di rabbia cieca nel quale stavo per cadere senza via di scampo. “Ti prego, Octavia”.
La piccola Blake riservò a Clarke uno sguardo confuso, almeno finché questa non la pregò ancora una volta di prendersi cura dei malati al posto suo. Di fronte agli occhi imploranti della Griffin, Octavia non poté far altro che cedere.
“D’accordo, ci penso io. Tu però riposa”.
“Ti aiuto”.
Come?
Riportai ancora una volta gli occhi sulla figura di John, solo per ritrovarlo che – come se niente fosse – si metteva in piedi, intenzionato come diceva a dare una mano ad Octavia. Okay. Cosa stava succedendo? Quella malattia l’aveva improvvisamente cambiato? Così, a random? Non che la cosa mi dispiacesse – anzi – ma era così… strano.
Continuai a fare pensieri simili per moltissimo tempo, le ginocchia strette al petto nella speranza di essere e sentirmi più sicura e lo sguardo basso sul pavimento della navicella. Uscii fuori da quella mia trance fitta di pensieri solo quando nella mia visuale entrarono un paio di anfibi che conoscevo fin troppo bene. Trattenendo a stento un sobbalzo sorpreso, sollevai gli occhi per ritrovarmi di fronte proprio Murphy.
Lo vidi porgermi un bicchiere colmo d’acqua, che però non avevo intenzione di accettare. Senza dire una parola, mi limitai a scuotere la testa mentre mi stringevo ancor di più le ginocchia al petto.
“Devi restare idratata”, mormorò John dopo un po’, vagamente spazientito da quel mio rifiuto.
Non capiva ancora le mie ragioni, ma avrei provveduto di lì a breve. Cominciando col ricercare nuovamente i suoi occhi chiarissimi.
“Sto morendo, Murphy”, dissi, e quella frase mi venne fuori molto meno duramente di quanto avessi previsto. Ma in fondo, che senso aveva ormai arrabbiarsi? “Non mi serve acqua. Mi serve un miracolo”.
Il senso di vergogna per ciò che avevo detto arrivò solo dopo, quando smisi di parlare e un silenzio pesante e imbarazzato scese ad avvolgerci. Avevo parlato velocemente, senza pensare ancora una volta e senza mettere un filtro alle mie parole. E di nuovo mi ero resa ridicola, tanto che – piena di vergogna – all’improvviso mi ritrovai incapace di sostenere ancora lo sguardo di John e semplicemente mi limitai ad evitarlo, abbassando la testa con aria sconfitta.
Non potevo vedere il viso di Murphy, ma lo vidi comunque mentre lasciava da parte l’acqua e muoveva l’ennesimo passo nella mia direzione. Eravamo vicinissimi, e lo realizzai pienamente solo quando le sue dita raggiunsero il mio mento per sollevarlo e costringermi a reggere ancora il suo sguardo chiaro.
“Non morirai”, mormorò allora, guardandomi fisso negli occhi. “Non a causa mia”.
Per poco non alzai gli occhi al cielo. Come poteva anche solo pensare che credessi fosse colpa sua?
“Non è colpa tua”, quasi piagnucolai difatti, cercando ancora una volta – inutilmente – di sfuggire al suo sguardo. “Morirò a causa dei Terrestri”.
“No!”.
Non era stato Murphy a contraddirmi. Ma… Octavia, realizzai, voltandomi alla mia destra solo per scoprirla lì vicina a noi. Chissà da quanto.
“La malattia non dura a lungo”, spiegò, raggiungendoci definitivamente e inginocchiandomisi al fianco prima di continuare a parlare. “Non permetterò a nessun altro di morire, mi hai sentita?”.
Di fronte a quella sua domanda decisa non potei far altro che boccheggiare, confusa di fronte agli occhi chiarissimi di Octavia che mi stavano fissando fin quasi nel profondo. Alla fine non potei far altro che arrendermi e distogliere lo sguardo dal suo viso, ritornando però a guardare Murphy. Lo vidi sorridermi, e allora qualcosa si smosse dentro me senza che potessi far nulla per impedirlo.
“È vero. Mi sento già meglio”, confermò, sperando di riuscire a tranquillizzarmi. “Starai bene anche tu”.
Anche se non avrei dovuto, gli credetti. E feci per sorridergli a mia volta – già più sollevata – ma la voce di Octavia me lo impedì.
“Purtroppo non siamo ancora salvi. I Terrestri stanno arrivando”, raccontò, infrangendo il sogno che già – solo un attimo prima – mi era sembrato di vivere. “C’è bisogno che li rallentiamo”.
 
 
Dopo un’intera notte passata ad occuparsi dei tanti malati stipati nella navicella che ci aveva portati sulla Terra, Octavia decise di prendersi – solo dopo il mio averla implorata fino allo sfinimento – una strameritata pausa. Era andata via già da un paio d’ore quando le prime luci dell’alba cominciarono a filtrare all’interno della navicella, illuminando lievemente le figure dei Cento che si dividevano tra chi stava già un po’ meglio e chi si era ammalato da pochissimo – come Bellamy.
Dal mio canto, potevo finalmente dirmi guarita, non del tutto ma comunque tanto da sentirmi non più di già con un piede nella fossa. Ero ancora pallidissima e smorta, mi sentivo stanca e infreddolita, ma sapevo che a poco a poco quelle sensazioni orribili mi avrebbero abbandonata come già avevano fatto le perdite di sangue da bocca, naso, occhi e orecchie.
Proprio perché mi sentivo meglio avevo deciso di dare una mano a chiunque ne avesse bisogno, come aveva fatto Octavia fino a poco prima e anche – con mia grande sorpresa – John. Mentre mi facevo vicina a Bellamy, spinta da ancora non so quale impeto preciso, lo osservai di sottecchi, chiedendomi ancora cosa gli fosse successo per cambiarlo tanto. Che il sentirsi vicino alla morte fosse servito da azione scatenante? Non me ne sarei stupita. E nemmeno avevo intenzione di lamentarmi della cosa.
“Ehi”, mormorai all’improvviso, distogliendo la mia attenzione da quei pensieri capaci di distrarmi fin troppo.
Mi feci definitivamente vicina a Bellamy, percorrendo la poca distanza che ancora ci separava a grandi falcate. Si era svegliato da poco da un lungo sonno disturbato, e aveva ancora l’aria di stare parecchio male. Non ne ero sicura però, ecco perché gli chiesi conferma.
“Come stai?”, domandai, inginocchiandomi proprio di fronte a lui.
A quel mio quesito, inizialmente Bellamy rispose con una semplice scrollata di spalle.
“Da schifo”, aggiunse poi, la voce molto più bassa e spezzata del solito.
Non potei far altro che mordermi l’interno guancia, non sapendo di preciso cos’altro avrei dovuto dire. Capivo benissimo come si sentisse in quel momento, ma sapevo bene che lui ne fosse ben consapevole.
“Vedrai che tra poco starai meglio”, dissi dunque dopo un po’, scrollando le spalle mentre cercavo di riservargli un sorriso colmo di nonchalance.
Ovviamente la cosa non mi riuscì bene come avevo sperato. Ero tesa, proprio come sempre quand’ero in compagnia di Bellamy, ma quella volta non potevo evitare di stargli accanto. Con Octavia sparita come Clarke e Murphy che ne sapeva tanto quanto me, Bellamy era l’unico al quale potessi chiedere cosa stesse succedendo. Come ci saremmo preparati all’attacco dei Terrestri? Avevo bisogno di saperlo.
“Allora…”, cominciai quindi, distogliendo lo sguardo dal suo viso pallido, vagamente imbarazzata mentre facevo di tutto per prendere ancora un po’ di tempo. “qual è il piano?”.
Anche se non credevo fosse possibile, Bellamy capì subito a cosa mi riferivo. E non perse tempo a darmi le risposte che cercavo.
“Raven ha costruito una bomba, Finn la piazzerà sul ponte dove Clarke ha incontrato la principessa dei Terrestri e Jasper la farà saltare in aria, cosicché possiamo ritardare il loro arrivo”.
Oh.
Evitai di farmi domande sulla provenienza della bomba e di preoccuparmi troppo di Finn e Jasper. Sapevo potessero farcela, sebbene il compito che era stato assegnato loro fosse tutt’altro che facile. Cercai di mantenere un’espressione neutra e di nascondere la mia preoccupazione a Bellamy mentre annuivo per fargli capire che avessi compreso ciò che mi aveva appena detto, ma nel guardarlo in viso scorsi nella sua espressione qualcosa che avrei preferito non ci fosse. Dubbio.
“Credi che non ce la faranno?”. Aspettai una risposta a quel quesito con la paura che mi attanagliava le viscere.
“Diciamo che non credo ce la faranno”, mormorò alla fine, ma quelle sue parole mi lasciarono così confusa che se ne rese conto anche lui. E subito tentò di spiegarmi cosa intendesse sul serio. “Insomma, c’è la possibilità che falliscano. E dico che non possiamo rischiare di perdere tutti quelli là fuori incapaci di combattere”.
“Quindi che faremo?”.
Bellamy sospirò, distogliendo brevemente lo sguardo dal mio viso pallido e ancora un po’ macchiato di sangue.
“Li facciamo entrare tutti dentro. Se siamo fortunati, i Terrestri crederanno che non siamo qui e decideranno di ritirarsi”.
Convenni tra me e me che non fosse un’idea poi così malvagia. Magari vagamente utopistica, ma potevamo provarci comunque. D’altronde, cos’altro avevamo da perdere?
“Malati è meglio che morti”. Anche se molti potrebbero morire comunque a causa del virus.
Ma preferii non pensarci troppo a lungo.
“Già”, annuì Bellamy.
Non c’era nient’altro da aggiungere, lo compresi subito. Semplicemente lo imitai un’ultima volta prima di mettermi in piedi. Contro ogni aspettativa, prima di andar via gli porsi una mano. Non l’avevo preventivato, e nemmeno Bellamy si aspettava una cosa del genere, tanto che prese a guardarmi come se avesse appena visto un fantasma. Dovetti sforzarmi tantissimo per trattenere una sonora risata.
“Andiamo?”, gli chiesi semplicemente, restando seria come lo richiedeva quella situazione delicata.
Dovevamo portare tutti dentro, no? Bellamy lo capì subito. Accettò la mano che gli porgevo e insieme aiutammo Clarke a mettere in salvo – se così potevamo definire quell’azione – tutti gli altri Cento.
 
 
Nessuno l’avrebbe mai creduto possibile, ma Jasper ce l’ha fatta. Finn ce l’ha fatta. Raven ce l’ha fatta. Ne sono usciti tutti vincenti. Be’, tranne i quattordici ragazzi stroncati dal virus che Murphy ha condotto qui al campo. Ma forse è meglio non pensare a loro. Non c’è nulla che io possa fare per riportarli indietro: nemmeno struggersi di dolore per loro aiuterà. Semplicemente mi farà stare male, e non voglio. Non più.
Jasper ce l’ha fatta grazie all’aiuto di Monty. Li ho visti tornare insieme al campo con l’aria di due che si sentivano i padroni del mondo – e a ragione – e mi sono sentita fiera di loro, oltre che stupidamente invidiosa dell’amicizia che li lega. Adesso comunque è tutto abbastanza tranquillo: siamo salvi dai Terrestri almeno per un altro po’ e chi stava ancora male a causa del virus sta cominciando a riprendersi pian piano, proprio come Raven. Clarke l’ha visitata poco fa e mi ha riferito solo buone notizie. Grazie a Dio.
L’ho vista sorridere a Finn con una nota d’amarezza che avrebbe preferito nascondergli, ho visto lui ricambiarla prima di riportare la sua attenzione ad un’esausta Raven e ancora ho visto Clarke sorridere a Murphy. Lui è stato meraviglioso. Da quando ha preso a sentirsi meglio non si è fermato un attimo e ha fatto di tutto per aiutare chiunque, me compresa. Me per prima. Ancora non so come la cosa dovrebbe farmi sentire esattamente, e sinceramente sono troppo stanca per pensarci. Ho solo bisogno di dormi
Ehi”.
Chiusi l’agenda con uno scatto, senza preoccuparmi della penna che vi rimase incastrata nel mezzo. Oddio, che spavento. Il cuore mi batteva a mille nella cassa toracica mentre cercavo di riprendermi un po’ prima di voltare il capo a destra, direzione dalla quale era provenuta quella voce che conoscevo già fin troppo bene.
“Come stai?”.
Completamente tranquillo – proprio come se non avesse appena rischiato di farmi morire d’infarto – John mi si sedette al fianco, mentre io tentavo in tutti i modi di non chiedermi se avesse sbirciato il mio diario. Preferivo non saperlo, davvero. Il solo pensiero mi faceva arrossire fino alla punta dei capelli.
“Sto bene. Anche se sono stanchissima”, risposi, cercando in tutti i modi di distrarmi.
“Dovresti dormire un po’”.
Annuii.
“Anche tu”.
Cadde il silenzio, e finii semplicemente per posare la testa sulla spalla di Murphy. Ero stanchissima, sì, ma anche tranquilla. Avremmo superato anche quel giorno e lo stavo realizzando a pieno solo in quel momento.
“Siamo sopravvissuti”, mormorai con ancora un pizzico di incredulità nella voce, traducendo quel mio pensiero a voce alta.
Sentii John sorridere, poi annuire e infine lasciarmi un bacio tra i capelli. Istintivamente chiusi gli occhi, rilassata come quasi mai prima d’allora.
“Già”.
La sua voce è l’ultima cosa che ricordo di aver sentito prima di sprofondare in un tranquillo sonno senza sogni. 


 

_______________________________
 

Ringraziamenti
Alle due nuove lettrici 
CarolineF e ange, che hanno speso un po' del loro tempo per recensire la mia storiella senza pretese. E a MysteriousLabyrinth che mi sostiene sempre. 

Note
Lo so che avevo detto che avrei aggiornato il 10, ma ho finito il capitolo molto prima e mi sono chiesta: "Perché farvi aspettare?". Prima finisco questa storia e meglio è, non so se si è capito. Insomma, ho la Maturità di mezzo e le bambine di danza alle quali faccio da babysitter, e la tesina da preparare, i programmi da ripetere, un'altra storia alla quale dare attenzioni... Sono incasinatissima! E ho paura di non poter aggiornare LIALG regolarmente come vorrei. Indi per cui, ogni volta che ci saranno capitoli pronti li posterò. L'undicesimo dovrebbe arrivare il 17 giugno, ma farò di tutto per finirlo e postarlo prima (il 17 è il giorno della prima prova, per chi non lo sapesse, e non vi assicuro che in quel periodo sarò tranquilla e spensierata come lo sono ora - che riesco a conciliare scrittura, ripetizioni e "lavoro" come se niente fosse). Quindi nulla, non vi prometto niente se non capitoli ogni volta che posso (ho ripetuto lo stesso concetto un miliardo di volte, sto impazzendo. Scusatemi).
Poi niente, spero che questo possa piacervi tanto da lasciarmi un commentino-ino-ino e ci vediamo al prossimo. Posso dirvi solo: brace yourselves, the worst is yet to come.

P.S.
Nel prossimo capitolo saprete finalmente perché è stata incarcerata Brayden.

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Capitolo 11
*** When you're gone ***


11.   WHEN YOU’RE GONE
 
 If we
don’t end war,
war will end
us.
 
Di radio ne avevo viste tante, sull’Arca. Ma mai avevo provato a toccarne una. Smanettare con quegli aggeggi non faceva per me: sebbene stessi seguendo il corso di Ingegneria all’Accademia, avevo ben altri obbiettivi, molto diversi dall’occuparmi della sala di controllo e dei collegamenti radio tanto importanti per le comunicazioni tra le varie stazioni. Non avrei mai immaginato di potermene pentire tanto.
Erano passati due giorni dallo scoppio della bomba preparata da Raven e dalla conseguente distruzione del ponte a cui quest’ultima aveva portato. Immaginavamo tutti che i Terrestri fossero stati colpiti dal nostro attacco e sapevamo che prima o poi avrebbero risposto con una vendetta dieci volte più violenta, ma fino a quel momento non si era vista l’ombra di nemici. E anche se questo avrebbe dovuto tranquillizzarci, al contrario eravamo tutti tesi come corde di violino. Non potevamo certo dire di adorare l’effetto sorpresa tanto quanto sembravano farlo i Terrestri.
“Stazione Alpha, mi ricevete?”, domandai all’improvviso, ponendo per l’ennesima volta quell’inutile domanda.
Sapevo già che sarebbe rimasta senza alcuna risposta, che la mia voce flebile si sarebbe persa nell’infinità dello spazio. Dal Giorno dell’Unità avevamo perso qualsiasi tipo di collegamento con l’Arca, e non c’era stato assolutamente niente che né Raven né Monty potessero fare per risolvere quel problema. La radio era andata. Ma io ancora non avevo intenzione di arrendermi. Non proprio quel giorno.
Mi riappropriai del panno improvvisato che avevo trovato nella tenda di Raven, spolverando un’altra volta ancora la radio fuori uso. Districai i fili già in perfetto ordine e controllai l’auricolare asciutto. Erano ore che mi scervellavo su quell’aggeggio infernale: l’avevo ripulito da cima a fondo – asciugando l’acqua che, grazie ad una infiltrazione della tenda, aveva inzuppato l’auricolare – districando i fili e assicurandomi che tutto fosse, almeno all’apparenza, a posto. Ma nulla era servito a riportare in vita quell’ammasso di ferraglia.
“Stazione Alpha. Se mi sentite, cercate di stabilire un contatto”, parlai ancora, decidendo che quella sarebbe stata l’ultima volta.
Misi da parte l’auricolare con fin troppa forza, mettendomi in piedi così bruscamente che quasi vidi Raven e Monty – insieme a me lì nella tenda – sobbalzare dallo spavento. Non osai cercare i loro occhi, intimidita. Avevo provato a rendermi utile con quella maledetta radio, ma avevo fallito. E sapere che loro ne fossero consapevoli mi fece all’improvviso sentire piena di vergogna.
“Brayden”, provò a richiamarmi Monty, ma non lo degnai di uno sguardo mentre correvo velocemente fuori da quella tenda, lontana da loro.
Non potevo aiutarli, sebbene lo volessi con tutta me stessa. Ero brava a costruire armi e avevo imparato a sparare, ma non ero in grado di rimettere in sesto la radio, pur avendo frequentato per anni lezioni di Ingegneria Meccanica. Penoso, no?
Continuai a correre via da quei problemi ancora per molto, senza guardare bene dove andavo almeno finché la mia fuga non fu bruscamente interrotta da un corpo che impattava violentemente contro il mio. Quell’ostacolo improvviso mi fece quasi ringhiare infastidita, mentre istintivamente portavo le mani di fronte a me per proteggermi.
“Ehilà, Ginger”.
No. Non poteva essere. Non…
Sollevai alla velocità della luce gli occhi chiari su quelli di John Murphy. Ma certo. Tra tutte le persone sulle quali sarei potuta fatalmente inciampare, chi volevate che mi capitasse? Allontanai le mani dal suo petto all’improvviso, come se mi fossi scottata, indietreggiando tanto da far sì che le mani di John fossero a distanza di sicurezza dai miei fianchi. Poi, ancora in assoluto silenzio, gli riservai un’occhiata inespressiva. Ma lui capì tutto comunque.
“Giornata storta?”, domandò, tuttavia senza insistere, cosa che – ahimè – apprezzai moltissimo.
Sospirai, distendendo le spalle per sciogliere un po’ della tensione che mi trascinavo addosso, poi distolsi lo sguardo dal viso di Murphy per incamminarmi verso ancora non sapevo bene dove. Lui mi seguì senza farselo ripetere due volte, anche se aveva un’aria stanchissima – Bellamy l’aveva messo a lavorare nell’affumicatoio, e non c’era stato nulla che John potesse fare per rinunciare a quell’ingrato compito.
“Oggi sarebbe stato il compleanno di mia madre”.
Non so ancora perché lo dissi. Semplicemente aspettai di trovarmi con John lontana dal campo e dalla folla di ragazzi che lo riempiva quanto bastava a sentire un silenzio confortante circondarci. Un silenzio nel quale il mio sussurro si presentò quasi come un urlo disperato. Non osai guardarlo in viso, sentendomi addosso tutto l’imbarazzo che avevo provato la prima volta che avevamo affrontato quel doloroso argomento. Per quanto avessi imparato a conoscere e apprezzare John, non pensavo sarei mai riuscita a parlargli di mia madre in modo tranquillo. Non c’ero mai riuscita con nessuno.
“Mi hai detto di non averla mai conosciuta”, mormorò lui dopo qualche attimo di assoluto silenzio, facendosi più vicino a me ma lasciandomi comunque lo spazio di cui avevo bisogno.
Nella sua voce non c’era traccia di accusa, era solo confuso e anche un po’ curioso, sebbene stesse cercando di frenarsi per non risultare invadente. Voleva solo conoscermi, e si ricordava ancora di quanto gli avessi detto quelli che sembravano secoli prima. Dovetti con immensi sforzi trattenere un sorriso intenerito.
“Infatti. Ho letto la sua data di nascita nel suo fascicolo”, osservai, utilizzando con immensa gratitudine un albero come appoggio.
Il peso di quella confessione che mai avevo fatto a nessuno – nemmeno a mio padre – rischiava di farmi capitombolare a terra, totalmente priva di forze. Murphy probabilmente se ne rese conto, perché non aggiunse nient’altro. Semplicemente si limitò ad avanzare ancora un po’ nella mia direzione, riservandomi un’occhiata vagamente preoccupata. Io dal mio canto cercai di regolarizzare il respiro prima di riprendere a parlare. Sapevo che ciò che avrei detto di lì a poco avrebbe cambiato tutto.
“È per questo che mi hanno incarcerata”.

 
∞ 
 
Brayden sedeva a gambe incrociate sul pavimento, le lunghe trecce rosse ad adornarle il viso piccolo e dalla carnagione chiarissima. Stringeva tra le dita una Barbie nuova di zecca – un regalo che la nonna le aveva procurato direttamente dal mercato degli scambi – sorridendo felice mentre giocava insieme ad un suo nuovo amico. Marcus spostò lo sguardo dalla sua primogenita al bambino che le sedeva di fronte con aria imbronciata: il suo nome era Kyle Wick ed era, almeno da quanto aveva capito, poco più grande di Bray. I due si erano conosciuti diverso tempo prima all’Accademia: frequentavano gli stessi corsi e Brayden era riuscita subito a legare con lui, proponendogli addirittura di accompagnarla a casa quel pomeriggio.
Marcus le riservò l’ennesima occhiata, non riuscendo a trattenere un sorriso. Brayden era una bambina particolare: non le piaceva vedersi circondata da gente e al contrario, sembrava fare sempre di tutto per evitare il contatto umano che tanto la innervosiva. Era cresciuta sola, ma non pareva esserne disturbata. Al contrario, amava la propria solitudine più di ogni altra cosa. Non aveva mai avvicinato nessuno dei suoi coetanei, escluso Kyle. Guardandolo ancora una volta, Marcus capì che doveva proprio aver fatto colpo perché Brayden gli permettesse di starle accanto.
“Uffa, vuoi giocare sì o no?”, la sentì sbuffare qualche minuto dopo, e subito ritornò ad adocchiare la situazione – pur senza farsi notare.
Vide Brayden che stringeva più forte la bambola tra le dita, mentre il ragazzino che aveva di fronte la fissava con aria annoiata e le braccia incrociate sul petto.
“No”, le rispose dopo un po’, e Marcus subito aggrottò le sopracciglia. Avevano discusso, per caso? Cosa c’era che non andava? “Non sono una femminuccia, te l’ho detto”.
Bastarono quelle parole a farglielo capire. Il Consigliere trattenne una risatina divertita, fingendosi nuovamente alle prese con delle pulizie delle quali non avrebbe dovuto sul serio preoccuparsi. Era lì solo per tenere d’occhio i bambini, e aveva ormai capito bene cosa stesse succedendo. Brayden, da ragazzina qual era, avrebbe semplicemente voluto giocare con le Barbie e divertirsi con Kyle, ma lui – giustamente – non si stava rivelando granché soddisfatto da quel progetto. Tuttavia aveva preferito non dirglielo fino all’ultimo, forse per non farla indispettire. Cosa che comunque successe.
“Sei una scocciatura”, borbottò Brayden infatti, gonfiando le guance con aria stizzita mentre metteva da parte la sua preziosa bambola. “Cosa vuoi fare allora?”.
Kyle sembrò pensarci un po’ su, poi balzò in piedi e disse: “Devo andare a casa”.
Marcus lo guardò con la coda dell’occhio mentre si dirigeva verso la porta d’ingresso, cercando di restare tranquillo anche di fronte all’urlo agitato che tirò fuori Brayden.
No!”, lo ammonì difatti, mettendosi in piedi per raggiungerlo. Riuscì subito nel suo intento, perché Kyle si fermò nell'ingresso e riprese a guardare la sua piccola amica. “Cioè”, continuò Brayden dopo un po', ben consapevole del fatto che Kyle non aspettasse nient'altro che una spiegazione da parte sua. “non essere arrabbiato con me. Possiamo cambiare gioco”.
Marcus attese la risposta di Kyle con – forse – ancora più ansia di quanta ne avesse Brayden. Sempre fingendosi disattento e disinteressato, si fece più vicino all’ingresso e continuò a tenere d’occhio la situazione. Quando vide Kyle dedicare alla sua primogenita un ampio sorriso, quasi sospirò di sollievo.
“Non sono arrabbiato con te”, la rassicurò, facendosile vicino per scompigliarle giocosamente i capelli rossi. “Però devo tornare a casa: mia madre mi aspetta”.
Brayden gonfiò nuovamente le guance e provò a sistemare l’acconciatura che lei stessa aveva fatto quella mattina con infiniti sforzi. Ma ormai Kyle gliel’aveva rovinata totalmente – era sempre il solito – e Brayden decise di arrendersi con un ultimo sospiro sconfitto.
“E non puoi dirle di aspettare ancora un po’?”, domandò all’amico, stranamente poco incline all’idea di lasciarlo andar via.
Che non volesse più stare sola?
Di fronte a quella proposta ingenua, Kyle sgranò gli occhi.
“Stai scherzando? Va su tutte le furie quando faccio ritardo!”, esclamò. Poi si avviò nuovamente in direzione della porta, ma allora Brayden non ebbe bisogno di fermarlo. Kyle, prima di uscire, si voltò a guardarla di sua spontanea volontà. “Anche se tu non puoi capirlo, credo. Dal momento che una mamma non ce l’hai”.
A Marcus sembrò di sentire distintamente il rumore di qualcosa che si spezzava dentro Brayden. Probabilmente un pezzetto di cuore. O ancora, l’argine che lui con tanta fatica le aveva costruito attorno perché potesse vivere bene pur con la mancanza costante di una figura femminile. Marcus quel rumore non se l’era immaginato: aveva sentito tutto benissimo, non solo dentro Brayden ma anche dentro di sé.
A quel punto fu costretto a distogliere lo sguardo dalla sua bambina, da quella piccoletta che amava più di ogni altra cosa e che gli ricordava – anche se era dolorosissimo pensarlo – Alida, in ogni minima cosa che facesse. Marcus non vide i suoi occhi verdi velarsi di lacrime, né tantomeno le sue guance gonfiarsi dal disappunto e i pugni stringersi lungo i fianchi.
Ma: “Certo che ho una mamma!” la sentì strillare contro Kyle, e allora trattenere un gemito gli risultò molto più difficile di quanto si sarebbe aspettato.
“E allora dov’è?”, le domandò Kyle semplicemente, la mano ancora calcata sulla maniglia e l’aria di chi non le credeva assolutamente.
Di fronte a quella domanda difficile – molto più difficile degli esercizi di matematica della signora Holland – Brayden non poté far altro che boccheggiare come un pesce fuor d’acqua.
“I-Io…”, balbettò, poco prima di ritornare inaspettatamente all’attacco. “Be’, non lo so! Da qualche parte”.
Ma sul finale la voce le si affievolì nuovamente. Era consapevole di non poter parlare per certo. Non poteva rispondere a Kyle per le rime e tappargli quella boccaccia insolente una volta per tutte. Perché non sapeva. Non sapeva dove fosse sua madre, né tantomeno se ne avesse sul serio una. Non sapeva, Brayden.
“Come vuoi tu”. Kyle fece spallucce, poi aprì la porta d’ingresso e si catapultò fuori dall’appartamento in un batter d’occhio.
Non si rese mai conto di cosa davvero aveva fatto, di chi aveva risvegliato con quella sua osservazione smaliziata. Salutò Brayden prima di andare via, osservandola mentre se ne stava ferma sulla soglia a trattenere delle lacrime che non avrebbe mai pensato di poter versare proprio quel giorno. La lasciò completamente sola con quei demoni spaventosi arrivati all’improvviso a farle compagnia e la sola consapevolezza che l’unico modo per sapere davvero di sua madre fosse quello di porre a Marcus tutte le domande delle quali desiderava già poter conoscere le risposte.
 
 
“Ti hanno arrestata perché hai letto un fascicolo riguardante la tua stessa madre?”.
La voce di Murphy trasudava pura confusione, così come la sua espressione allibita. Potevo capire che fosse incredulo: la mia frase enigmatica poteva facilmente essere fraintesa. Dicendo che mi avessero arrestata per aver letto un fascicolo, sembrava quasi che non avessi fatto niente di che. Ma non era esattamente così.
“Era un file riservato. Lo tenevano nella Sezione Proibita della biblioteca”, spiegai difatti, ben consapevole di dover aggiungere quei particolari alla storia per far sì che John capisse sul serio di quale crimine mi ero macchiata per meritare di essere una dei Cento.
Non era così semplice come lui credeva. Sull’Arca davano sul serio punizioni esagerate, ma io mi ero meritata di essere rinchiusa negli Spalti del Cielo – o perlomeno, così dicevano sempre tutti. Io non credevo affatto di essermi meritata un anno di isolamento solo perché avevo provato a conoscere mia madre, ma cosa contava la mia parola – o peggio ancora quella di Murphy, che vidi intento a nascondere un’espressione infastidita – contro le autorità dell’Arca?
“Come hai fatto a scoprire del fascicolo?”, mi domandò lui dopo un po’ di tempo, evidentemente ancora confuso.
Di fronte a quell’ennesima domanda feci spallucce, rifuggendo all’improvviso il suo sguardo chiaro mentre mi fingevo interessatissima alla vegetazione fitta che ci circondava.
“Non vuoi saperlo sul serio”.
Sapevo di stare mentendo, ma dovevo provare quel contorto metodo di psicologia inversa perché speravo davvero con tutta me stessa che infine John avrebbe fatto come volevo, dandomi corda e ragione, dicendo che sul serio non volesse sapere come fossi finita in quel guaio né conoscermi. Ma Murphy al contrario voleva conoscermi, voleva sapere. E non c’era niente che potessi fare, ormai, per sottrarmi a quella confessione che già mi ero pentita amaramente di aver fatto.
“Certo che voglio saperlo, Brayden. Non sarei qui sennò”, mi disse infatti, facendo sì che dovessi trattenere a malapena un’imprecazione.
Mi ero messa in trappola con le mie stesse mani. E non potevo più scappare. Mi toccava dirgli la verità.
Passarono diversi minuti prima che riuscissi a raccogliere tutto il coraggio di cui mi riscoprii all’improvviso bisognosa, ma alla fine riuscii chissà come a cominciare col mio racconto e stranamente, le parole mi vennero fuori tutte insieme, molto più facilmente di quanto mi sarei mai aspettata. Tanto che alla fine per me fu difficile il contrario: fermarle.
“Per i primi sette anni della mia vita, circa, non ho mai pensato una volta a mia madre. Mai. Ero una bimbetta sola, cresciuta circondata da nient’altro che l’affetto di suo padre e della nonna migliore del mondo. Vedevo i miei coetanei correre dalle loro mamme, confidarsi con loro e volergli un gran bene. Sapevo di essere diversa, ma non me ne sono mai preoccupata granché. Ero felice così: avevo mio padre e mia nonna, cos’altro avrei potuto desiderare di più? Le cose mi andavano bene. Non sentivo di dover avere anch’io una madre. Almeno finché un giorno un mio… amico…”.
Solo a quel punto mi fermai, anche se già pensavo fosse impossibile che una cosa del genere potesse capitare proprio a me. Nonostante l’iniziale titubanza, difatti, una volta cominciato a parlare mi ero sentita finalmente in pace con me stessa così tanto da pensare che non avrei mai più smesso di farlo – non se mi faceva poi stare così dannatamente bene.
Tuttavia, la voce mi venne a mancare quasi del tutto quando l’immagine di un Kyle Wick bambino mi ritornò alla mente, colpendola con la violenza di un pugno nello stomaco. Dovetti per forza di cose fermarmi a riprendere fiato, tirando fuori quell’“amico” con non pochi sforzi.
Murphy mi aveva, fino a quel momento, ascoltata con estrema attenzione e in perfetto silenzio. Non aveva mosso mezzo passo nella mia direzione, lasciandomi i miei spazi e non osando interrompermi nemmeno per scherzo. L’avevo apprezzato moltissimo, proprio come mi era piaciuto da morire il vedere completamente assente sul suo viso qualsiasi traccia di compassione. Non provava pietà per me, solo del semplice e puro interesse. Ed era una cosa bellissima.
Ma di fronte a quella mia improvvisa titubanza lo vidi muoversi a disagio sul posto, mentre la sua espressione cambiava, diventando un po’ più preoccupata ad ogni secondo silenzioso che lasciavo scorrere. Terrorizzata all’idea di sentirlo porgermi qualche domanda, ripresi subito a parlare.
“Ecco, un giorno lui se ne uscì fuori con un «tu la mamma non ce l’hai». Così, all’improvviso. E io credo di averlo realizzato solo in quel momento, che sul serio una mamma non ce l’avevo. O perlomeno, così sembrava che fosse”, conclusi, la voce che mi si affievoliva sul finale e gli occhi di nuovo ben lontani dalla figura di John.
Non riuscivo a guardarlo – non mentre liberavo quelle confessioni così intime – ma lo sentii comunque mentre cambiava posizione con aria nervosa ancora una volta e capii che allora nulla avrebbe potuto salvarmi da ciò che avrebbe detto. Sapevo stesse per parlare, e temevo più di ogni altra cosa le parole che avrebbe potuto rivolgermi. Era una paura insensata, la mia, perché non avevo idea di cosa avrebbe potuto dire – quindi perché temere? – ma comunque non riuscii a scacciarla. Almeno finché Murphy non parlò sul serio.
“Si può sapere chi è questo deficiente?”, chiese, una nota ben evidente di irritazione nella voce.
Con quella sua domanda molte delle mie paure volarono via, e liberai un agognato sospiro di sollievo prima di rispondergli.
“Kyle era solo un bambino. Molto più sveglio di me, dato che si era reso conto da subito di ciò che io invece avevo sempre ignorato, per buona pace di mio padre e nonna Vera”. Difesi il mio amico, perché era giusto così. Sapevo che John difficilmente sarebbe stato d’accordo con me, ma dovevo perlomeno provarci – anche se non era quello il punto. Non era Kyle il problema. “Marcus non ha mai voluto che sapessi di mia madre. Non appena ho cominciato a fare domande, la vita per lui è diventata un incubo vero e proprio. Si è sempre rifiutato di rispondere a qualsiasi mio quesito, e come lui anche mia nonna e Callie – sebbene quest’ultima fosse più permissiva, con me. Non ho mai capito perché mi volessero all’oscuro”.
Ma anche quella era una bugia, e Murphy lo capì forse anche prima di me. Trovai chissà dove il coraggio di cercare ancora una volta i suoi occhi coi miei, e lo vidi riservarmi uno sguardo che diceva molto di più di quanto riuscissi a decifrare. Aveva ancora una volta capito tutto – o perlomeno, quanto bastava a mettermi con le spalle al muro.
Sconfitta, sospirai lievemente e distolsi lo sguardo dalla sua figura, fingendomi nuovamente interessatissima alla vegetazione che ci circondava. Sapevo che, di nuovo, ciò che avrei detto di lì a poco avrebbe cambiato tutto. Perciò avevo bisogno di una grande scorta di coraggio prima di poter parlare ancora.
“Forse erano tutti convinti del fatto che sarei crollata di fronte alla consapevolezza che mia madre era un’assassina”.
Sapevo che sarebbe arrivato il silenzio pesante che seguì quella mia rivelazione, eppure non potei che sentirmene un po’ sorpresa. Forse nel profondo mi ero stupidamente illusa che Murphy avrebbe avuto una reazione diversa da quella che mi aspettavo. Ma ciò non successe – com’era giusto che fosse – ed io semplicemente me ne rimasi di fronte a lui, piena di vergogna, mentre lo osservavo boccheggiare alla ricerca infruttuosa di parole giuste da dire. Allora era lui quello incapace di guardarmi.
“U-Un…”, balbettò, trovando impossibile il proseguire. “Cosa?”.
Feci spallucce come se nulla fosse. Dopo aver confessato tanto, nulla più mi spaventava. Come se tutto il resto contasse niente. E in effetti era proprio così.
“Ho letto anche questo nel suo fascicolo”, mormorai, apparentemente tranquilla, poco prima di recitare a memoria quelle parole oscene che da ormai troppo tempo avevo impresse a fuoco nella mente. “«Alida O’Neil. 10 ottobre 1967. Guardia Ingegneristica dell’Arca. Accusata di tentato omicidio. Morta suicida». Vorrei dirti di più, ma non so altro. Sono riuscita a leggere solo queste poche righe prima che l’allarme scattasse. Ricordo che il Comandante Shumway fu un fulmine: accorse in biblioteca e mi beccò con le mani nel sacco. Mi portò da mio padre e lo obbligò a denunciarmi. Infine eccomi qua”.
Cadde tra di noi dell’altro silenzio, ma quella volta non me ne dispiacqui granché. Dopo quell’infinita confessione avevo bisogno di un po’ di pace, di starmene tranquilla e per conto mio anche se non ero sola – e sinceramente, andava bene così. Seppur fosse difficilissimo per me ammetterlo, avere John accanto in quel momento mi piacque molto più del lecito. Con quelle scomode rivelazioni l’avevo messo in una situazione imbarazzante, eppure lui non scappò via a gambe levate come avrebbe fatto – credo – chiunque. Al contrario rimase lì di fronte a me, alla continua ricerca di qualcosa di adatto da dire. Una ricerca che dopo diversi minuti risultò più che infruttuosa.
“Non so nemmeno cosa dovrei dire”, mormorò difatti Murphy, con un’aria vagamente sconfitta che quasi mi intenerì. “Penso che un mi dispiace sia troppo banale, ma… Davvero, Ginger, mi dispiace”.
Liberai un debole sorriso, scrollando le spalle mentre muovevo un passo nella sua direzione.
“Non è colpa tua”, dissi, consapevole di stare dicendo nient’altro che la verità. “A proposito. Tu perché sei finito dentro? Non me l’hai mai detto”.
Quella volta toccò a Murphy fingere che non fosse nulla.
“Non vuoi saperlo sul serio”, sussurrò, cercando di dissimulare.
E anche se non era vero per niente, non riuscii proprio a negare quella che a John sembrava nient’altro che l’evidenza.
 
 
“Quello lì dentro era tutto il cibo che avevamo!”.
Lo strillo innervosito di Octavia Blake contribuì e non poco a rendere ancor più grave la situazione che si profilava di fronte ai nostri occhi, la scena surreale dell’affumicatoio colmo di carne cacciata con immensi sforzi che andava letteralmente a fuoco. In quella stanzetta di legno c’era tutto il cibo che avessimo a disposizione per sopravvivere, ed io lo guardai diventare inutilizzabile senza che potessi far nulla per impedirlo.
Bellamy, ovviamente agitato, chiese subito spiegazioni – voleva assolutamente sapere come fosse potuta succedere una cosa del genere – ma io mi persi le successive parole di Murphy, troppo concentrata com’ero ad osservare il più attentamente possibile il suo viso incrostato di sporco e sangue. Non sapevo spiegare cosa fosse esattamente, ma quell’incendio sembrava aver risvegliato all’improvviso dentro me una consapevolezza del tutto nuova. C’era qualcosa che non andava. Ma non ebbi tempo di pensarci granché – per buona pace di quel poco di sanità mentale che ancora m’era rimasta – perché sia Bellamy che Clarke decisero di comune accordo che saremmo andati a caccia per recuperare almeno un po’ del cibo che avevamo perso, ed io mi ripresi dalla mia trance fitta di dubbi appena in tempo per capire che si stessero organizzando dei team per quell’uscita improvvisata nei boschi.
“Dove stai andando?”.
La camminata spedita che stavo portando avanti in direzione della navicella venne subito arrestata da un paio di dita che si strinsero in modo nient’affatto doloroso intorno al mio polso. Anche se non l’avessi sentito parlare, avrei riconosciuto il tocco di John Murphy tra mille.
Mi voltai a fronteggiarlo quasi con un diavolo per capello – all’improvviso la sua presenza mi rendeva stranamente nervosa – infastidita dal suo volermi rallentare mentre già quasi tutti gli altri tiratori si erano offerti di aiutare con la caccia. Sebbene fossimo più di novanta ragazzi, lì sulla Terra, solo in venti avevano imparato a sparare e – per fortuna o meno ancora non avrei saputo dirlo – io ero tra questi. Grazie agli allenamenti con Bellamy ero anche diventata piuttosto brava, quindi perché non aiutare?
“Lo sai dove sto andando”, borbottai qualche minuto dopo, trovandomi – ahimè – ancora irrimediabilmente bloccata tra il corpo di John ed una delle pareti della navicella che credevo non avrei mai raggiunto – non se andavamo di questo passo. “Bisogna che usciamo a caccia se non vogliamo morire di fame”.
Non avevo nient’altro da aggiungere e andavo visibilmente di fretta, perciò non appena finii di parlare feci per divincolarmi e scappare, ma ancora una volta John me lo impedì. Prima che potessi farmi lontana dal suo corpo, lui compì un altro passo nella mia direzione e me lo ritrovai così vicino – così all’improvviso – che per me non sollevare gli occhi verdi nei suoi con aria vagamente spaventata fu impossibile. Non ero più abituata ad averlo così tanto intorno. Non reggevo più quel contatto fisico.
“Non andare”, pregò Murphy, e solo la sua voce mi distolse da quell’imbarazzo arrivato a fare di me la sua preda così all’improvviso.
Non ero comunque tranquilla – impossibile per me esserlo con lui così vicino a me, tanto che quando parlò nuovamente il suo fiato caldo si scontrò direttamente con le mie labbra screpolate – ma l’irritazione genuina di cui mi riempii di lì a poco fece sì che riuscissi ad accantonare almeno per un attimo qualsiasi pensierino fuori luogo per potergli rispondere a tono, proprio come si meritava.
“E restare qui con te a fare cosa, esattamente?”.
Ahimè, capii ben presto che quello fosse proprio il genere di domanda che John si aspettava gli ponessi. Ormai mi conosceva molto meglio di quanto mi sarebbe piaciuto ammettere. Lo vidi tirare fuori il suo solito odioso mezzo sorriso mentre azzerava completamente la distanza che ci divideva, posandomi le mani sui fianchi.
“Io ho in mente un paio di idee interessanti”, sussurrò, ad un passo dalle mie labbra.
Quella volta toccò a me ghignare divertita. Se pensava che fosse così facile si sbagliava di grosso.
“Grazie, ma no”, declinai, trattenendo a stento una risata mentre facevo pressione sul suo petto per far sì che mi lasciasse lo spazio personale che tanto anelavo. Alla fine, chissà come, riuscii ad ottenere ciò che volevo e mi liberai dalla sua presa piacevolmente soffocante con un ultimo: “Ci vediamo più tardi”.
Ma non la scampai nemmeno quella volta, proprio come avrei dovuto immaginare. Murphy infatti non se lo fece ripetere due volte prima di ri-attirarmi a sé, quella volta facendo pressione su una delle maniche della mia giacca pesante. Allora però non ebbi occasione né tempo di lamentarmi o provare di nuovo a scappare, perché prima ancora che potessi sul serio rendermene conto, John mi strinse il viso tra le mani e le sue labbra si posarono sulle mie alla velocità della luce.
Successe tutto in un battito di ciglia, tanto che mi resi conto di cosa stavo facendo con decisamente troppo ritardo. Sgranai gli occhi all’improvviso, rendendomi conto ahimè di non avere nemmeno metà di tutta la forza che mi sarebbe servita per respingerlo. Non riuscii ad allontanarlo, perché non volevo. Non sapevo ancora se potevo fidarmi di John: anche se sembrava essere cambiato un sacco, ero piena di dubbi su di lui, e non era giusto che un cumulo enorme di attrazione fisica oscurasse la mia razionalità. Ma in quei momenti non riuscii a pensarci sul serio, non mentre lui mi baciava nuovamente e in modo così diverso dalle altre volte. Sembrava cauto – come se fosse pienamente consapevole del fatto che avrei potuto respingerlo, se solo avessi voluto – e mi stava baciando in maniera così lenta e dolce che non potei far altro che rilassarmi sotto il suo tocco, spegnendo finalmente il cervello e godendomi il momento fino in fondo.
O meglio, almeno finché la tranquillità che ero riuscita a guadagnarmi con infiniti sforzi non fu bruscamente interrotta dalle mani di John, che sentii distintamente attraversarmi la schiena con delle carezze che si lasciarono dietro non pochi brividi prima che ne raggiungessero la base, pronte a scendere sempre più giù a meno che non l’avessi fermato io stessa. Il che fu proprio ciò che feci.
“Ti piacerebbe”, sorrisi sulle sue labbra, afferrando le mani di Murphy proprio un momento prima che queste potessero chiudersi sulle mie natiche, come lui sperava – ci avrei scommesso.
Mi feci lontana dalle sue labbra con un ultimo bacio a stampo, ridacchiando divertita da nemmeno sapevo cosa esattamente. Ero all’improvviso euforica: ogni volta mi lasciava in quello stato.
John probabilmente se ne rese conto, perché mi sorrise soddisfatto, per nulla offeso dal mio averlo stoppato. Quella volta sembrava molto più che intenzionato ad andare oltre, ma io ancora non ero pronta a concedergli tanto.
“Mi piacerebbe da morire, in effetti”, lo sentii sussurrarmi all’orecchio, poco prima che – inaspettatamente – si facesse lontano da me per lasciarmi lo spazio di cui avevo disperatamente bisogno.
Non potei far altro che alzare gli occhi al cielo con aria fintamente infastidita. In realtà mi stavo trattenendo da morire per non scoppiargli a ridere in faccia.
“Mia nonna diceva sempre che la pazienza è la virtù dei forti. Magari col tempo otterrai ciò che vuoi”, gli dissi dopo un po’, incamminandomi finalmente verso la navicella nella quale sapevo avrei trovato un’arma da poter utilizzare per la caccia.
Murphy, inaspettatamente, mi seguì subito.
“Lo sto già ottenendo, Ginger”, mormorò all’improvviso, con un tono allusivo che di nuovo mi riempì di dubbi.
Arrestai la mia camminata, voltandomi a fronteggiarlo così velocemente che per poco non gli finii nuovamente addosso.
“Si può sapere cosa mi nascondi?”. Incrociai le braccia al petto con aria vagamente infastidita e vidi subito dipingersi sul viso di John un’ombra di finta incredulità che mi indispettì ancor di più.
Io?”, pigolò anche, fingendosi l'innocentino che non era affatto.
“Sì, tu. Da quando sei tornato ti comporti in modo strano. Alle volte stento a riconoscerti”. Interruppi quella mia confessione piena di dubbi prima che potesse trasformarsi in qualcosa di molto più grave. All’improvviso piena di vergogna, distolsi lo sguardo dal viso di Murphy, perdendomi perciò l’espressione mortalmente seria che mise su di lì a poco.
“Non sto combinando niente, Brayden”, annunciò, obbligandomi a fissarlo negli occhi ed evitando nomignoli e cose varie.
Era serissimo, o almeno così voleva farmi credere. Ma ancora non sapevo se potevo fidarmi. Almeno non totalmente.
Avrei voluto aggiungere qualcos’altro – qualunque cosa – ma la voce di Raven interruppe quel momento di fastidioso stallo, e subito risposi alla sua chiamata facendomi lontana da John. L’avrei affrontato in un altro momento. O perlomeno così speravo.
Contenta di potermi distrarre almeno per un po’ da quei miei fastidiosi dubbi, corsi dalla Reyes e ascoltai la sua richiesta. Voleva che aiutassi lei e Monty a costruire dei walkie-talkie da utilizzare per agevolare le comunicazioni tra noi delinquenti. Li avremmo costruiti dalle rimanenze della radio fuori uso. Fu proprio quando Raven nominò quest’ultima che mi rabbuiai, al ricordo di come avevo fallito nel farla funzionare nuovamente.
“Non credo di potervi essere molto utile. Hai visto che disastro ho combinato prima. Non sono riuscita a riparare la radio”, osservai infatti, con voce sempre più flebile ad ogni parola.
Intimidita, rifuggii lo sguardo scuro di Raven, aspettandomi che lei mi desse ragione e decidesse – per il suo bene – di fare a meno del mio aiuto. Ma nulla di tutto ciò successe. Al contrario Raven rimase lì di fronte a me, determinata come solo lei sapeva essere, disposta a tutto per convincermi a collaborare con lei e Monty.
“Certo che non ci sei riuscita”, stabilì, come se nulla fosse. “perché il tuo compito non è quello di aggiustare. A quello ci penso io, Brayden. Tu devi creare. Sei un’ingegnera, d’altronde. Con le armi hai fatto un ottimo lavoro. So che te la caverai alla grande anche coi walkie-talkie. Ti prego. Io e Monty abbiamo bisogno di te”.
Quelle ultime parole quasi mi commossero. Non conoscevo Raven così bene, ma non aveva esattamente l’aria di qualcuno ben disposto ad implorare per ricevere aiuto da una ragazzina che conosceva pochissimo. Doveva avere proprio bisogno di me, e quella consapevolezza mi fece sentire all’improvviso così utile – nel posto giusto al momento giusto, finalmente – che proprio non riuscii a trattenere un sorriso felice mentre annuivo nella direzione di Raven.
“Spiegami come intendete procedere”.
 
 
“Sono tornati tutti dalla battuta di caccia, tranne Clarke e Finn”.
Sollevai velocemente gli occhi sulla figura affannata di Octavia. L’avevo sentita distintamente correre nella tenda che occupavamo io, Raven e Monty, ancora tutti e tre concentratissimi sulla costruzione di quei maledetti walkie-talkie. La cosa si era rivelata molto più difficile del previsto, ma alla fine sembravamo esserne usciti vincitori. Gli apparecchi nuovi se ne stavano di fronte ai nostri occhi – e a quelli di Bellamy, che per tutto il tempo ci aveva osservati in assoluto silenzio – e avevano tutta l’aria, o perlomeno così speravo, di essere funzionanti.
Ma dai”, borbottò Raven dopo un po', distogliendo lo sguardo dalla piccola Blake con uno sbuffo infastidito.
Io continuai ad osservarla ancora con aria confusa. Non potevo credere che avesse corso fin lì solo per prendersi gioco di Raven, dandole l’ennesima conferma del fatto che ormai la relazione tra Clarke ed il suo ex-ragazzo procedesse a gonfie vele, tanto che questi avevano preferito appartarsi piuttosto che tornare subito al campo con del cibo che ci sarebbe stato più che utile. Doveva esserci qualcosa di più, sotto.
“Con loro c’era anche Myles”, affermò difatti Octavia di lì a poco, il fiato ancora corto e l’aria serissima.
Sapevo non stesse semplicemente scherzando, e se ne resero conto tutti di fronte a quell’ultima frase. Tre dei nostri compagni erano spariti nel nulla e all’improvviso ci ritrovammo tutti ad essere più che preoccupati. Bellamy fu l’unico che, tuttavia, riuscì a formulare una domanda.
“Non è tornato neanche lui?”, chiese alla sorella minore, speranzoso probabilmente di sentirsi rispondere di sì.
Ma Octavia si limitò a scuotere la testa. Anche Myles era disperso.
Non ebbi bisogno di pensarci due volte. Mi misi in piedi velocemente e, dopo aver fissato tutti i ragazzi nella stanza uno ad uno, riportai gli occhi verdi sui trasmettitori che avevamo costruito con tanta fatica.
“Credo sia giunta l’ora di mettere alla prova questi walkie-talkie”, annunciai, e subito tutti capirono cosa avessi in mente.
Nessuno si tirò indietro – com’era giusto che fosse – e nemmeno trenta minuti dopo già avevamo organizzato l’uscita nei boschi più veloce di sempre. Dovevamo trovare Clarke, Finn e Myles prima che fosse troppo tardi: non c’era tempo da perdere.
“Io vado a Sud”, proclamai quando sentii Raven e Monty discutere delle zone che avrebbero perlustrato.
Avevamo perso tempo ad armarci fino al collo, ma sembravamo finalmente pronti a partire. Restava solo da decidere chi avrebbe perlustrato cosa.
“A me rimane la zona Est, quindi”, mormorò Monty, con un’aria quasi abbattuta che per poco non mi fece sorridere intenerita.
L’idea di gironzolare da solo per i boschi in piena notte non lo affascinava granché, ma era pronto a mettersi in pericolo per i propri amici. Era un tesoro.
“Sei sicura di voler andare da sola?”.
Quella domanda mi riscosse all’improvviso, e distolsi velocemente gli occhi dalla figura di Monty per posarli su Bellamy. Era stato lui a parlarmi.
“Posso farcela”, lo rassicurai, vagamente sollevata all’idea che – almeno qualcuno – si preoccupasse per me. “E tu, Monty?”.
Il ragazzo annuì nella mia direzione, poi mi sorrise.
“Me la caverò”.
Non c’era nient’altro da aggiungere e lo capimmo tutti, separandoci pochissimo tempo dopo. Ognuno andò nella sua direzione, il fucile sempre pronto a sparare contro qualunque nemico e i walkie-talkie – funzionanti, per fortuna – utilissimi a comunicare tra di noi, anche se eravamo ognuno agli estremi opposti di quell’imponente foresta.
“Qualcuno sente questo segnale?”.
La voce di Monty mi distrasse all’improvviso dalla perlustrazione attenta che stavo portando avanti da non molto: mi era sembrato di sentire un rumore, nel fitto della vegetazione, ma nonostante quanto aguzzassi la vista non riuscivo ad individuare nessuno. Né un Terrestre né Clarke né Finn né Myles o nessun altro dei miei amici.
“Tieni gli occhi aperti, Monty”, borbottò Raven attraverso il walkie-talkie, e potei immaginarla mentre alzava gli occhi al cielo con aria infastidita.
Ma Monty non le diede ascolto.
“Penso sia lo stesso della scatola nera”, continuò, facendo agitare anche Bellamy.
“Dannazione, Monty. Fa’ attenzione. E dimmi cosa vedi”.
Anche se non potevo vedere gli altri, immaginai fossero tutti in attesa di una risposta da parte di Monty. Una risposta che però non arrivò. L’unico rumore a riempirmi le orecchie nel silenzio assoluto della foresta buia fu infatti quello di una sottospecie di interferenza fastidiosa che mi preoccupò non poco. Spaventata all’idea che in qualche modo la linea di comunicazioni fosse stata interrotta, recuperai velocemente il walkie-talkie dalla cintura e me lo portai alle labbra.
“Monty?”, chiamai, preoccupata, ma quel nome si perse nell’agitazione dell’annuncio di Raven.
“C’è qualcuno nei cespugli”, mormorò, cauta, ed io non me lo feci ripetere due volte: mollai tutto e corsi il più velocemente possibile verso Nord, dove sapevo avrei trovato Raven e Octavia.
Speravo non fosse un nemico a nascondersi a pochi passi da loro: speravo di poterle aiutare. Ma scoprii di essere troppo lenta quando, una volta che le raggiunsi, vidi Bellamy già lì insieme a loro, entrambe alle prese con quello che – avvicinandomi lentamente – riscoprii essere Myles. A Raven e Octavia era andata bene. Non osavo immaginare cosa avrei fatto se si fosse trattato di un Terrestre.
Sentii Myles parlare a malapena e subito cercai la sua figura ferita e sporca di fango.
“Clarke e Finn”, esalò, il respiro corto e l’aria esausta, “li hanno presi i Terrestri”.
Nessuno si scompose, nemmeno io. Semplicemente sentii gli occhi riempirmisi di lacrime amare, ma me ne rimasi in silenzio di fianco ai miei compagni. Stavo per crollare, anche se non si sarebbe detto.
“Dobbiamo portarlo al campo e curarlo”, disse Bellamy all’improvviso, il primo a riprendersi dalla fastidiosa trance nella quale eravamo caduti tutti.
Octavia per poco non strillò dall’incredulità. Semplicemente voltò di scatto il capo nella direzione del fratello maggiore, riservandogli un’occhiata stizzita.
“E Clarke e Finn?”, gli domandò aspramente.
Ma non c’era risposta che Bellamy potesse o volesse darle. Perciò ci pensai io a parlare.
“Sono andati”, sussurrai, la voce che mi si spezzava – sebbene non lo volessi – su quell’atroce aggettivo.
Stentavo a credere che fossero morti – era troppo da accettare – ma se erano stati rapiti dai Terrestri quante possibilità c’erano che tornassero da noi sani e salvi? Pressoché zero.
Raven sembrò realizzarlo pienamente solo in quel momento: la osservai mettersi in piedi di scatto e farsi lontana da noi – provare a scappare. Io non riuscii a fermarla, ma Bellamy sì.
“Raven, mi dispiace”, affermò, ma lei come al solito fece finta di nulla, dileguandosi con una pessima scusa.
Bellamy sospirò abbattuto. Poi riafferrò il walkie-talkie e parlò direttamente a Monty, l’unico ancora assente. Anche lui.
“Monty, stiamo andando a casa. Mi ricevi? Monty, dove diavolo sei? Fai rapporto!”.
Dopo minuti interi di silenzio capimmo tutti cosa volesse significare tutto quello, ma nessuno ebbe il coraggio di dirlo ad alta voce. Tranne Octavia.
“È andato anche lui”, mormorò, prima di mettersi in piedi e sparire, diretta chissà dove.
Impotente e distrutta, cercai gli occhi scuri di Bellamy. Monty non se l’era cavata affatto.


 

_______________________________
 

Ringraziamenti
Ad Avril Lavigne, perché con la sua 
When you're gone mi ha salvata dall'ingrato compito di dover scegliere un titolo per questo capitolo.
Chiedo scusa, ma proprio non ricordo da dove provenga la citazione pre-capitolo. Probabilmente l'avrà detta qualcuno dei Cento, ma dato che proprio non riesco a ricordarmi da dove diavolo l'ho tirata fuori, eviterò di fornire fonti.
CarolineF, ange e  MysteriousLabyrinth, che ormai sono tipo le mie recensitrici di fiducia. Vi adoro, girlz. 

Note
Be', finalmente sapete perché Brayden è stata incarcerata. Non sappiamo ancora niente di Muffin (né lo sapremo mai, suppongo), ma vbb. Ormai ci avviciniamo sempre più alla fine e comincia un po' tutto a "quadrare".
La seconda scena è, in caso non l'avesse capito, un flashback. E insomma, avete anche scoperto dell'amicizia che fin dalla più tenera età ha legato Kyle e Brayden. Scommetto che non l'avreste mai immaginato AHAHAH anche se devo dire che avevo lasciato qualche indizio qua e là. u.u
E a proposito di indizi... Ce ne sono anche in questo capitolo (ce ne sono sempre). Tipo il fatto che Brayden comincia all'improvviso a sentirsi piena di dubbi. Dubbi che, ahimè, si riveleranno fondati nel prossimo capitolo. Che tra l'altro, è il penultimo. La storia, ripeto, avrà tredici capitoli e poi adieu. Fine.
Ho pensato a lungo alla questione "scrivere un sequel o no", ma alla fine ho deciso che non ci sarà un continuo. Portare troppo alla lunga le vicende di Ginger e Muffin trovo non avrebbe troppo senso. Quindi nulla, ancora due capitoli e poi chiudo con questo fandom (almeno per ora). Tuttavia, ciò non esclude che ritorni con qualche shot qua e là: pensavo di scriverne sicuramente una riguardo l'incontro tra Brayden e papi Kane sulla Terra, ma c'è sempre da fare i conti con la mia ispirazione stronzetta. Preferisco quindi non farvi promesse inutili, ma vi assicuro che tornerò a scrivere di questi due bimbi: ho già abbozzato tre/quattro capitoli di una modern!AU col resto della banda (
) e aspetto solo di avere un po' di tempo in più per potermi dedicare alla werewolf!AU della quale sono già pazzamente innamorata (ci sarà Brayden anche lì, non disperate).
Be', per ora non posso far altro che dileguarmi. Spero che questa cosa possa piacervi tanto da spingervi a lasciarmi un parere piccino piccino.
Alla prossima (spero presto).

 

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Capitolo 12
*** Love the way you lie ***




12. LOVE THE WAY YOU LIE

 
On the first page of our story, the future seemed so bright.
Then this thing turned out so evil, I don't know why I'm still surprised.
Even angels have their wicked schemes and you take that to new extremes. 
But you'll always be my hero, even though you've lost your mind. 
 
“Abbiamo eseguito tutte le simulazioni. Abbiamo apportato tutte le modifiche possibili al sistema. La nuda e cruda verità è che tra cinquantuno ore, vivere sull’Arca non sarà più possibile. Personalmente mi consolo con un dato di fatto eccezionale. I membri sopravvissuti dei Cento hanno dimostrato di essere più forti di quanto avremmo mai potuto immaginare. La nostra eredità verrà portata avanti. E di questo non solo sono riconoscente, ma anche fiero”.
Marcus Kane sedeva di fronte al Cancelliere, le braccia abbandonate sulle gambe e un’espressione che tradiva insofferenza sul volto. Da quando Thelonius aveva convocato quella riunione dell’ultimo minuto, il Consigliere non aveva fatto altro che dedicargli occhiatine infastidite del genere. Ma Jaha non gli aveva dato corda, com’era prevedibile che fosse. Si era limitato invece a sproloquiare come suo solito, riversando sulla folla di membri del Consiglio parole vuote che Marcus avrebbe davvero tanto voluto non dover ascoltare.
“Che cosa dovremmo dire ai nostri elettori?”. Mariah fu l’unica in quella stanza a preoccuparsi di rompere il silenzio sceso verso la fine del discorso di Jaha, muovendo un passo nella sua direzione sotto lo sguardo – ancora infastidito – di Marcus.
Avrebbe preferito che rimanesse zitta anche lei, proprio come tutti nella sala riunioni. Avrebbe preferito che il silenzio fosse imperituro: non voleva più ascoltare niente né nessuno.
Ma Mariah aveva bisogno di conferme, e Jaha era lì per dargliele.
“Cosa facciamo adesso?”, Marcus la sentì che chiedeva al Cancelliere, con un vago tono implorante.
Voleva da Jaha una soluzione per lei impossibile da raggiungere. E lui, sotto lo sguardo offeso di Marcus Kane, non se lo fece ripetere due volte. Offrì ai membri del Consiglio le parole di incoraggiamento che sapeva bene questi anelassero più di ogni altra cosa, spingendoli a godersi le loro ultime ore di vita prima che l’Arca perisse per sempre. Il Cancelliere si era arreso.
Codardo, pensò Marcus, continuando a fissarlo, perdendosi un altro dei suoi inutili sermoni strappalacrime.
“Darò tutte le risorse disponibili ai cittadini sopravvissuti dell’Arca. Non verrà più effettuato alcun razionamento. Ciò che abbiamo appartiene a tutti noi”.
Stupido.
Marcus dovette trattenersi con tutte le sue forze per non urlargli quell’insulto contro. Non poteva credere che quello che aveva di fronte fosse sul serio il Thelonius Jaha che conosceva da una vita. Quello che non si arrendeva mai. Sapere che sarebbe morto di lì a poco l’aveva sul serio cambiato così tanto? L’aveva davvero paralizzato nella paura assoluta, impedendogli di combattere fino all’ultimo alla ricerca di uno spiraglio di salvezza?
“Tutto bene, Abby?”.
Solo quando sentì quel nome abbandonare le labbra di Jaha, Marcus si riscosse finalmente dal suo torpore e distolse molto più velocemente di quanto si sarebbe aspettato, gli occhi dalla pelle scura del suo amico di sempre. Voltò il capo a destra, dove sapeva che avrebbe trovato Abigail Griffin. Fin dall’inizio di quella riunione lei era stata lì – come sempre – il muro a sostenerla e un’espressione indecifrabile sul viso. Marcus la guardò ancora una volta e i loro sguardi si fusero per un attimo brevissimo, prima che lei stessa riportasse la propria attenzione a Jaha, pronta a dargli la risposta che quest’ultimo cercava affannosamente.
“Sto bene”, annuì, non osando più donare a Marcus la minima attenzione.
Lui recepì subito l’antifona, perché distolse lo sguardo dal viso della Dottoressa e puntò nuovamente gli occhi in quelli scurissimi del Cancelliere. Si finse disattento a ciò che disse in seguito Abby, ma in realtà sentì tutto benissimo: l’incrinarsi del suo tono, il sospiro sconfitto che liberò poco dopo e infine il rumore dei suoi passi concitati verso la porta. Stava scappando, Abby, e Marcus la seguì con lo sguardo finché non fu del tutto sparita dalla sua visuale – di nuovo. Poi riportò gli occhi sul codardo.
“Signore”, cominciò, forzando un tono rispettoso che ormai secondo lui non aveva più troppo senso utilizzare. “è saggio da parte nostra sprecare razioni utili quando ancora non siamo del tutto sicuri di ciò che ci aspetta?”.
Al suono di quella domanda, Jaha gli riservò un sorrisino enigmatico dei suoi. Se fosse perché aveva capito quanto fosse costata a Marcus quella domanda o perché semplicemente provasse pena per lui, il Consigliere non riuscì a capirlo mai.
“Ma noi siamo del tutto sicuri”, pronunciò, con la sua solita aria disfattista che Marcus ormai proprio non riusciva più a reggere.
“Be’, io non riesco a… starmene qui seduto a far niente”, sbottò, alzandosi in piedi molto più velocemente di quanto avrebbe creduto possibile. “Devo trovare una soluzione”.
Devo salvare l’Arca. Devo salvare me. Non posso semplicemente accettare l’idea che non rivedrò Brayden mai più. Non morirò tra poco più di due giorni. Non prima di aver salvato anche mia figlia.
Marcus avrebbe voluto aggiungere tutto quello, ma evitò. Si tenne quelle parole per sé mentre fissava Jaha con aria confusa. Vide il Cancelliere seguirlo in piedi alla velocità della luce e posizionarsi di fronte a lui, in modo che Kane si ritrovò all’improvviso privo della possibilità di scappare.
“Ehi”, lo richiamò, prima che questo potesse provarci ancora. “So che è dura accettarlo, ma se ti va di trascorrere il poco tempo che ti rimane da vivere eseguendo simulazioni, puoi farlo senza problemi. Io invece lo trascorrerò con la mia famiglia e una bottiglia di scotch invecchiato di novantasette anni”.
Quale famiglia?, avrebbe voluto chiedergli Marcus. Ma contro ogni aspettativa se ne rimase in silenzio, mentre il suo amico di vecchia data – uno dei Cancellieri migliori che l’Arca avesse mai visto, nonostante tutto – gli batteva una mano sulla spalla e poi lo abbandonava coi suoi opprimenti pensieri. Thelonius non ce l’aveva una famiglia, ma Marcus non se l’era sentita di pronunciare l’ovvio ad alta voce come in realtà avrebbe voluto. Jaha non aveva una famiglia, proprio come non ce l’aveva Marcus – non più – e non c’era certo bisogno di rendere ancor più penosa la situazione di quanto già non lo fosse. Ecco perché se ne rimase zitto, lasciando per un attimo soltanto che i suoi pensieri corressero a Brayden, ai ricordi che ancora custodiva gelosamente nel fondo del suo cuore. Pensò ai suoi rossi capelli lunghi, che si rifiutava sempre di tagliare; alle innumerevoli t-shirt nere che Marcus aveva sempre odiato, ma delle quali invece la sua primogenita proprio non riusciva a fare a meno; e ai suoi sorrisi genuini, sempre così poco frequenti ma non per questo meno sinceri. L’ultima cosa che Marcus pensò prima di scuotere la testa via da quegli atroci ricordi fu che, se non avesse fatto nulla per impedirlo, probabilmente non avrebbe mai più visto Brayden sorridergli nel modo che lui amava tanto. Ritornò consapevole all’improvviso di doversi rimettere a lavoro per cercare di risolvere quell’ennesimo problema e salvarsi la pelle.
Per far sì che ciò succedesse, di certo non poteva passare il resto del suo tempo a rimuginare, oppure a bere scotch con una famiglia che non aveva più, come si sarebbe concesso di fare Thelonius Jaha.
 
 
“Forza, queste buche non si scaveranno da sole”.
Quasi ringhiai in risposta al tono infastidito di Bellamy. Dio, quanto mi irritava alle volte. Non faceva altro che fissare tutti dall’alto del suo piedistallo mentre borbottava ordini, ma mai una volta l’avevo visto darci l’aiuto del quale tutti avevamo bisogno – seppur nessuno avesse veramente voglia di ammetterlo.
“Ti ci seppellirò, in una di queste buche”, soffiai, quando Bellamy fu lontano da me abbastanza da non potermi sentire.
Strappai una risata divertita a Jasper, che mi guardò mentre scuoteva la testa, come a dire: “Lascialo perdere”. Non gli dissi nulla – cosa diavolo avrei potuto o dovuto dire? – semplicemente ripresi a scavare dopo aver riservato sia a lui che a Raven una breve occhiata. Sentivo le braccia dolermi come non mai, ma non mi sarei fermata. Non volevo guadagnarmi i continui rimproveri di Bellamy, il quale sembrava essersi trasformato all’improvviso in una donna mestruata. Se non l’avessi conosciuto tanto bene da capire che quello fosse il suo modo di nascondere quanto male stesse in realtà – ora che Clarke, Finn e Monty erano praticamente spariti nel nulla – l’avrei sul serio sepolto vivo nella buca alla quale stavo lavorando da davvero troppo tempo.
“Spera che le tue mine funzionino, Reyes. Con tutta la polvere da sparo che stiamo sprecando per lasciartele costruire, potremmo fare delle altre granate”.
Ed ecco che lo stronzetto torna all’attacco. Strinsi un po’ più forte le dita sulla vanga, riservando a Bellamy un’occhiata di fuoco delle mie. Un’occhiata che lui, ovviamente, ignorò. Fortuna che almeno Raven riuscì a dargli ciò che si meritava.
“Vuoi venire qui a provarne una?”, la sentii chiedergli, e non potei fare a meno di mettere su un sorrisino soddisfatto.
Ormai volevo a Raven Reyes molto più bene di quanto mi sarebbe piaciuto ammettere.
Capivo che Bellamy fosse in crisi – lo eravamo tutti, d’altronde – ma ciò non lo autorizzava a trattarci come suoi schiavi. Non l’avrei accettato. E nemmeno Raven, evidentemente.
“Mi serve che questa sezione sia completamente minata entro domattina. Poi passerete subito a Sud”.
Detto questo, Bellamy fece per andar via, ma Raven lo fermò. Si alzò in fretta e furia dalla buca fangosa nella quale era stata immersa fino ad allora – concentratissima nel suo lavoro come sempre – e raggiunse Bellamy, arrestando la sua camminata con un semplice strattone alla sua giacca.
“Ti ho detto che domani andiamo a cercare Finn, Clarke e Monty”.
“E io ti ho detto che nessuno può lasciare questo campo”.
Bellamy fece di nuovo per andarsene – voleva chiudere la scomoda questione al più presto – ed io osservai Raven rincorrerlo ancora, determinata ad impedirglielo, col cuore salitomi all’improvviso in gola. Erano passati di già fin troppi giorni dalla sparizione di Clarke, Finn e Monty. E ancora non c’era stato niente che potessimo fare per riportarli al campo. Il pensiero che fossero morti mi uccideva letteralmente, ma per quanto meschino fosse, ero d’accordo con Bellamy. Insomma, c’avevo pensato a lungo e a cosa sarebbe servito abbandonare quel campo e morire mentre cercavamo di salvare tre ragazzi che nemmeno sapevamo fossero vivi sul serio? A nulla.
Continuai a fare pensieri simili almeno finché il rimbombo di un proiettile non mi riportò bruscamente alla realtà, una realtà nella quale Raven ancora fronteggiava Bellamy e sembrava ben intenzionata ad ucciderlo a mani nude. Già all’erta, scattai in piedi, le dita ben strette sull’impugnatura del pugnale improvvisato che portavo legato alla coscia, stretto da una vecchia bandana che avevo ritrovato nella tenda di Finn. Non che un pugnale sarebbe potuto servirmi granché contro un’arma da fuoco, ma era sempre meglio di niente.
Quando vidi Bellamy correre in direzione di un ragazzino del quale non ero mai riuscita ad afferrare il nome, realizzai ciò che fino a quel momento – paralizzata dalla paura – non mi era ancora saltato alla mente, per quanto semplice e scontato fosse. I Terrestri non avevano fucili. Noi delinquenti sì.
“Che diavolo ti è preso?”, urlò Bellamy nella direzione del ragazzino di vedetta, il quale gli riservò nient’altro che uno sguardo mortificato mentre si stringeva forte al petto il fucile.
“Mi dispiace, mi sono addormentato un attimo e…”. Si interruppe, terrorizzato dallo sguardo infuocato di Bellamy. “È tutto il giorno che sono sveglio”, continuò dopo un po’, sperando ingenuamente di poter risolvere la situazione con quel suo vittimismo spicciolo.
Quella scusa fece invece – com’era prevedibile che fosse – infuriare Bellamy ancor di più. Lo osservai mentre afferrava il ragazzino per la giacca, costringendolo contro l’albero alle sue spalle con uno spintone violento che subito mi spinse a richiamare Bellamy, preoccupata. Non era proprio il momento giusto per cominciare ad ammazzarci l’un l’altro.
Siamo tutti in piedi da tutto il giorno”, sibilò Bellamy contro il suo viso, ignorandomi totalmente. “Quel proiettile significa un Terrestre vivo in più”.
“Bell. Octavia richiamò l’attenzione del fratello prima che questo cominciasse a dare totalmente i numeri. “Li stai spaventando”, disse, cercando di mantenere un tono cauto anche se lei in primis era terrorizzata.
Lo eravamo tutti, lì al campo. Così all’improvviso che quasi stentavamo a crederci. Raramente avevo visto Bellamy in quelle condizioni, raramente l’avevo visto così agitato e preoccupato. Sembrava ad un passo dal crollo, e realizzai il perché solo quando lo sentii parlare di nuovo. Desiderai immediatamente che non l’avesse mai fatto.
“Dovrebbero avere paura!”, urlò, guardando Octavia solo per pochi secondi prima che tornasse a fronteggiare tutti noi.
Anche se non me lo sarei mai aspettato, tremai sotto l’intensità del suo sguardo lucido. Bellamy Blake era distrutto. E mi sentii andare a pezzi anch’io mentre lo sentivo parlare e il respiro accelerava da morire e gli occhi mi si riempivano di lacrime e la gola di singhiozzi.
“La bomba sul ponte ci ha dato del tempo per prepararci, ma quel tempo è scaduto! I Terrestri sono là fuori proprio adesso. Aspettano che lasciamo il campo per eliminarci uno ad uno. Clarke, Finn e Monty sono andati. Probabilmente sono morti. E se volete essere i prossimi, io non posso fermarvi. Ma nessun’arma lascerà il campo! Questo posto è l’unica cosa che ci tiene in vita!”.
E dopo essersi esposto così tanto – come mai prima d’allora – cosa volevate che facesse Bellamy? Semplice: scappò. Scappò proprio come mi aspettavo che sarebbe successo, mentre realizzavo con un singulto trattenuto a malapena di quanto avesse – ancora una volta – maledettamente ragione, purtroppo. Immobilizzata, lo osservai mentre correva via fingendo che non fosse successo niente di che, e all’improvviso rividi in lui la Brayden in cui mi ero trasformata durante l’assenza di Murphy. Capii che stessimo provando lo stesso esatto dolore, un dolore dal quale io mi ero ripresa abbastanza bene ma che Bellamy al contrario non aveva idea di come avrebbe dovuto affrontare – non completamente da solo com’era. O meglio, come credeva di essere.
 
 
Jasper Jordan guardò il contenitore di polvere da sparo con un brillio sospettoso negli occhi. Gli era appena balzata in mente un’idea geniale – una delle sue – ma nessuno se ne rese conto, dal momento che era solo. Dopo la sfuriata di Bellamy, Jasper aveva preferito farsi lontano dalla sezione Nord e rinunciare al lavoro che gli era stato imposto senza che potesse sperare di avere una ricompensa. Che senso aveva spaccarsi la schiena a scavare se poi Bellamy non voleva nemmeno provare a cercare Monty? Ce l’aveva con lui e non poco. Ma non c’era spazio per i litigi, in quel momento, doveva semplicemente mettere in atto il suo piano e cercare di salvare i suoi compagni. Perché era giusto così.
Ecco perché afferrò subito la polvere da sparo, stringendola tra le mani come se fosse la sua unica fonte di salvezza – e forse era proprio così. Infilò la scaletta che sapeva l’avrebbe portato al piano di sotto della navicella, quello che sperò fosse ancora vuoto come l’aveva lasciato. In quel momento, Jasper desiderava essere solo come quasi mai prima d’allora. L’unica presenza che avrebbe accettato al suo fianco sarebbe stata quella di Monty, ma il suo migliore amico era là fuori chissà dove e…
Prima che il dolore diventasse nuovamente troppo da digerire – per fortuna o meno, Jasper fatica ancora adesso a dirlo – un rumore alle sue spalle lo distolse da quei pensieri deleteri, e subito il ragazzo si voltò a spiare dietro di sé per scoprire che solo non lo era affatto.
Al primo piano della navicella vi era infatti John Murphy, piegato sulla figura di un Myles dall’aria ancora malaticcia. Jasper non ebbe tempo di chiedersi cosa diavolo ci facesse proprio Murphy lì, perché lo vide allontanarsi di scatto dal corpo di Myles mentre nascondeva alla bell’e meglio una busta di plastica nera e all’improvviso gli fu tutto dolorosamente chiaro.
“Ha smesso di respirare. Stavo…”. Murphy comunque tentò – ancora – di salvarsi in calcio d’angolo, fingendosi preoccupato e soprattutto sincero.
Jasper realizzò all’improvviso che se fosse sceso solo un secondo più tardi, perdendosi così la busta che Murphy ancora stringeva tra le mani – l’arma del delitto – molto probabilmente avrebbe creduto alle sue parole senza nemmeno pensarci un po’ su. Quel bastardo era un asso nella recitazione. Roba da Nobel.
“Cercavo di aiutarlo”.
Jasper non poté far altro che annuire, stringendo forte le dita sul vasetto di polvere da sparo nella speranza che questo potesse trasformarsi all’improvviso nel collo di John Murphy. L’avrebbe ammazzato, se solo avesse potuto. Ma ricordò subito di essere disarmato: solo pochi minuti prima, per fare dispetto a Bellamy, aveva lasciato il proprio fucile esattamente a pochi metri dalla figura di Murphy. Quando si voltò brevemente a guardare l’arma, la trovò ancora lì dove l’aveva abbandonata, quasi a sorridergli beffarda.
Murphy era molto più sveglio di quanto non sembrasse e Jasper peccò di stupidità nel non capirlo subito. Seguì infatti gli occhi di Jordan sul fucile e non se lo fece ripetere due volte prima di afferrarlo e puntarglielo contro, dimostrando a quest’ultimo di essere almeno cinque passi davanti a lui. Ancora una volta.
Sotto la mira del fucile di Murphy, Jasper imprecò mentalmente e realizzò che questo avesse anticipato le sue mosse troppo facilmente perché potesse provare a metter su uno qualsiasi dei suoi trucchetti. Trattenendo un tremito imbarazzante, Jasper posò la polvere da sparo da parte, senza mai distogliere gli occhi dal viso di Murphy. Non c’era via d’uscita, per lui. A meno che…
“Murphy. Metti giù il fucile”, quasi lo pregò, pensando che magari valeva la pena di provare anche quella via.
Non era sicuro che tenerselo buono sarebbe servito granché a calmare Murphy, ma doveva comunque provarci. Quando il braccio che quest’ultimo aveva fino a quel momento stretto spasmodicamente contro il fucile si rilassò lungo i fianchi, Jasper per poco non sospirò di sollievo.
Murphy si voltò alle sue spalle per donare un’ennesima occhiata al corpo morto di Myles e Jasper pensò immediatamente che in quel momento, distratto com’era, avrebbe potuto facilmente metterlo KO. Ma si rese conto anche del fatto che i muscoli non fossero ormai più in grado di rispondere ai comandi del cervello, paralizzati com’erano dalla paura del momento.
“Ha cercato di uccidermi”, osservò Murphy all’improvviso, ritornando a cercare la figura di Jasper con gli occhi chiari inaspettatamente pieni di lacrime.
Al ragazzo sembrò anche che gli tremasse la voce, ma non si sarebbe fatto fregare da quell’ennesima recita. Murphy era un ottimo attore e Jasper ne aveva avuto la conferma solo pochissimi minuti prima.
Senza che riuscisse ad impedirselo – e per quanto stupido fosse – cominciò a muovere dei minuscoli passetti all’indietro, un po’ più vicino all’uscita ogni millisecondo che passava. Ma lo sguardo attento di Murphy non lasciò correre nemmeno quel particolare.
“Ehi!”, Jasper lo sentì che gli urlava contro, mentre subito il fucile tornava al suo posto, puntato contro il petto di Jasper, “Non muoverti”.
Il ragazzo si immobilizzò immediatamente.
“Okay. O-Okay”, balbettò, alzando le mani al cielo in segno di resa. “È tutto a posto”.
Mentì, perché non era niente “tutto a posto”, ma in quel momento una bugia era tutto ciò che potesse riservare a Murphy. E quest’ultimo le bugie era bravissimo a raccontarle, ma non a crederci.
“No, non lo è”.
 
 
Dannazione”.
Sollevai gli occhi dalla carta fine della mia agenda solo al suono di quell’imprecazione, pronunciata a voce molto più alta – ci avrei scommesso – di quanto Bellamy in realtà avesse voluto.
Gli riservai un’occhiata timida, sperando che non mi vedesse almeno finché non avessi deciso cosa fare. Avvicinarlo o no? Alla fine a convincermi fu il vederlo chinarsi per raccogliere il bicchiere di latta che aveva fatto cadere, sprecando dell’acqua. Era ancora agitatissimo.
“Ehi”, mormorai nella sua direzione, liberandomi in fretta e furia delle mie cose prima di raggiungerlo finalmente. Indicai con un cenno il poco d’acqua che c’era rimasta. “Non ne abbiamo da sprecare, Capo”.
Stavo scherzando, ovviamente, ma Bellamy non colse affatto l’ironia.
“Mi dispiace”, si scusò, rifuggendo il mio sguardo smeraldino.
Non potei fare a meno di sgranare gli occhi. Lui che si scusava? Con me?
“Stavo scherzando, Bellamy”.
Mi sentii in dovere di dirglielo, perché all’improvviso mi sembrava di essere stata una stronza tremenda con lui che non se lo meritava affatto. Non in quel momento.
Ma Bellamy non mi rispose. Si limitò a muovere le mani in direzione della riserva d’acqua, provando inutilmente e più volte a riempire il contenitore di latta. Prima che potesse nuovamente lasciarselo sfuggire glielo tolsi, sfiorandogli inavvertitamente le mani e realizzando con un sobbalzo improvviso quanto diavolo stessero tremando.
Trattenni un singulto, rifuggendo lo sguardo scuro di Bellamy mentre gli riempivo d’acqua il bicchiere. Ero consapevole del fatto che se mi avesse ancora guardata in viso, avrebbe capito che sapevo e non volevo che una cosa del genere succedesse. Sapevo che Bellamy non avrebbe retto. Non quella volta.
“Tieni”, mi limitai a dire perciò dopo qualche secondo, porgendogli il contenitore colmo d’acqua.
Evitavo ancora di guardare il viso di Bellamy, ma dovetti rinunciare quando lo sentii rifiutare la mia offerta.
“Non è per me”, mormorò, scansando la mia mano e stupendomi non poco. “Myles non sta bene”.
Oh.
C’era solo una cosa che potessi dire a quel punto.
“Vuoi che me ne occupi io?”. Bellamy non mi stava più guardando in viso da ormai un po’ di tempo, ma glielo chiesi comunque. Gli offrii il mio aiuto perché sapevo quanto in fondo ne avesse bisogno.
E allora se ne rese conto anche lui, perché immediatamente riportò gli occhi nei miei e lo vidi riservarmi una delle occhiate più grate che mai gli avessi visto metter su da quando lo conoscevo. Bellamy annuì, facendo per rispondermi. Ma prima che potesse riuscirci, sfortunatamente una voce a me fin troppo conosciuta interruppe quello strano momento, cambiando tutto ancora una volta.
Sai cosa mi succederà se lo dici a Bellamy”.
Solo nel sentirsi chiamato in causa, quest’ultimo sembrò riacquistare finalmente tutta la lucidità che sembrava proprio aver perso. Mentre i miei occhi si sgranavano sulla sua figura confusa, lo vidi sobbalzare vistosamente prima che capisse da dove era provenuta quella voce improvvisa. Bellamy mise mano al walkie-talkie, e prima ancora che me ne potessi rendere conto sul serio, stava parlando ad ancora non sapeva bene chi.
“Dire a Bellamy cosa?”, domandò, confuso, prendendo a camminare verso chissà dove.
Gli fui subito dietro, afferrandogli un braccio affinché rallentasse. C’era una cosa che dovevo chiedergli a tutti i costi, per quanto pronunciare le parole che avessi in mente sarebbe stato doloroso.
“Era John, quello?”, pigolai alla fine, il demone di una bruttissima sensazione che già si nutriva delle mie paure.
Sapevo di aver ragione e lo sapeva pure Bellamy, in fondo, anche se preferì non dirmi nulla mentre attendevamo una risposta.
Murphy ha un fucile, ha ucciso Myle–”.
Jasper. Riuscii a pensare solo a quello mentre Bellamy imprecava nel ricevitore ed io gli stavo dietro, nonostante quanto fosse difficile per me.
Murphy aveva ucciso Myles. Si era dimostrato finalmente per ciò che sapevo non fosse affatto, rovinando tutto. In fondo avevo sempre saputo che una cosa del genere sarebbe successa: c’erano fin da tempo parecchi dettagli preoccupanti che però avevo preferito ignorare, credendo ingenuamente che tutto andasse bene e non ci fossero più problemi – non ora che John era tornato al campo e sembrava così diverso. Avevo creduto fosse cambiato, e lo era sul serio – in peggio, però.
“MURPHY! Apri la cazzo di porta!”.
Le urla di Bellamy mi riscossero dal mio torpore, e mi accorsi solo in quel momento di essergli ancora al fianco – nonostante tutto. Osservai con occhi inespressivi il portellone della navicella che si chiudeva di fronte a noi, lasciandoci nessuna possibilità di provare a salvare Jasper. Per quanto bene avesse finto di non avercela più con nessuno dei Cento, Murphy non aveva perdonato. No, lui non era il tipo da “lasciar correre” e tutt’a un tratto mi sentii una stupida terribile per non essermene resa conto prima.
“Se provi a fare l’eroe, Jasper muore!”. Lo sentii urlare nella direzione di Bellamy, e il suono della sua voce mi fece salire alla gola un gemito che proprio non riuscii a trattenere.
Bellamy si voltò subito a guardarmi, allarmato, ma io finsi che non fosse successo nulla. Liberai le labbra dalla mano con la quale le avevo coperte e mi imposi che mai – per nessuno motivo al mondo – sarei dovuta scoppiare a piangere in quel momento. Poco importava quanto lo volessi.
Mi schiarii la gola con aria determinata e poi riportai gli occhi in quelli di Bellamy. Sapevo cosa dovevo fare.
“Fammici parlare”, ordinai, allungando una mano nella sua direzione.
Pretendevo che mi lasciasse il suo walkie-talkie e non avrei assolutamente accettato un no come risposta.
“Non credo che…”.
“Bellamy”, lo interruppi, avvicinandomi a lui ancor di più.
Alla fine fu costretto a cedere. Lasciò la radio nelle mie mani ed io la strinsi subito tra le dita, come se fosse un appiglio della massima importanza in quel momento. Non avevo un discorso pronto né intendevo prepararne uno: avrei detto a Murphy quanto serviva a salvare Jasper. O almeno così speravo.
Bellamy non accennò a lasciarmi sola e nonostante tutto lo apprezzai, sebbene il suo sguardo scuro su di me che prendevo respiri profondi prima di “andare in azione” mi stesse innervosendo e non poco.
“Murphy”, soffiai infine, già stanca come se stessi parlando da ore.
Lasciai andare il walkie-talkie al rallentatore, preda di emozioni contrastanti che mai avrei creduto di poter provare. Da una parte desideravo non ascoltare mai più la voce di Murphy, dall’altra volevo che mi parlasse immediatamente e mettesse fine a quel supplizio.
“Ehi, Ginger!”, lo sentii trillare all’improvviso, e al suo tono leggero – parlava come se nulla fosse – non potei far altro che sobbalzare vistosamente. “Sono un po’ occupato, al momento. Ci sentiamo più tardi”.
Occupato. Era occupato. A tentare di uccidere Jasper.
Trattenni un singhiozzo con non so quanti sforzi.
“Murphy, ascoltami”, ordinai, la voce che mi si spezzava nonostante quanto mi impegnassi per mostrarmi poco colpita da tutto quell’orrore. “Cosa diavolo stai facendo?”.
Dall’altro capo della linea mi giunse una risatina divertita.
“Non è ovvio? Sto facendo giustizia”.
Giustizia?”. Sgranai gli occhi, incredula. Non... Non poteva essere.
“Non dirmi che ancora non ci sei arrivata”.
Avrei voluto che fosse così. Invece, sotto lo sguardo vagamente confuso di Bellamy, liberai un sospiro sconfitto e premetti di nuovo il pulsante.
“Cosa aveva fatto Myles di male?”.
“Oltre a legare il cappio col quale mi hanno impiccato, intendi? Immagino nulla”.
Serrai gli occhi all’improvviso, una tremenda ondata di bile che subito mi risaliva alla gola. Deglutii a fondo, stringendo il walkie-talkie tra le dita così forte da credere che l’avrei rotto. Scacciai dalla mia mente le dolorose immagini di quella giornata: dovevo pensare al presente, senza rimuginare su un passato che ancora – proprio come Murphy, a quanto pareva – non ero riuscita a superare, per quanto provassi a convincermi del contrario.
“Dimmi che non è vero, Murphy”, quasi implorai, riaprendo gli occhi su uno scenario immutato.
La navicella aveva ancora il portellone serrato, e dall’altra parte del muro Jasper stava – probabilmente – già soffrendo le pene dell’Inferno. Mi morsi un labbro a sangue, spaventata a morte dalla mia impotenza totale.
“Non puoi essere serio”, continuai dopo un po’, la voce che mi si spezzava ancora e gli occhi colmi di lacrime.
“Non immagini nemmeno quanto sono serio, Ginger”.
L’ennesima pugnalata. L’ennesima ferita. Mai come allora avevo sofferto tanto. John Murphy mi stava distruggendo. Ma non gli avrei permesso di averla vinta, avrei continuato a rialzarmi finché non avesse cambiato idea. Dovevo farlo ragionare. O perlomeno provarci.
“La tua non è giustizia. Non puoi… Non puoi andartene in giro ad uccidere gente!”.
“Certo che è giustizia. Loro volevano uccidere me. Io sto semplicemente ricambiando il favore. Ho già ucciso Connor, e ora anche Myles è fuori dai giochi. Immagino di poter eliminare dalla lista anche Charlotte e Clarke–”.
Lo interruppi prima che potesse continuare, premendo le dita sul pulsante malridotto alla velocità della luce. Di nuovo chiusi gli occhi di scatto mentre sentivo il fiotto di bile risalirmi in gola. Quella volta non sarei riuscita a mandarlo giù. Il disgusto che provavo era davvero troppo perché potessi digerirlo di nuovo.
“Dalla lista?”, dovetti chiedergli però, masochista come pochi. O forse semplicemente illusa. Ancora speravo fosse tutto uno scherzo. Magari avevo solo frainteso. Magari…
“Oh, sì. Ne ho stilata una, sai? C’è sopra anche il nome di Bellamy. Scommetto che è lì vicino a te”.
Il singhiozzo che liberai abbandonò le mie labbra in una maniera molto più violenta di quanto mi sarei mai aspettata. Non riuscii proprio a nasconderlo. E nemmeno ci provai, sinceramente. A che pro fingersi ancora forti e invincibili? John Murphy, il ragazzo che credevo un amico… Lui aveva ucciso due dei nostri compagni. E non si sarebbe fermato lì. No. Le sue mani erano macchiate di sangue. E con quelle mani aveva toccato me, come se niente fosse. Come se…
Prima che potessi crollare – e quella volta sul serio – Bellamy mi si avvicinò, tentando inutilmente di togliermi il walkie-talkie di mano. Avrebbe voluto intervenire, sentendosi chiamato in causa, ma io avevo bisogno di un altro po’ di tempo prima di mollare.
Mi fai schifo”, soffiai semplicemente, incapace di dire cosa più vera di quella.
“E dai, Ginger. L’abbiamo già avuta questa scena. Non fare la santarellina con me. Tu stessa avresti voluto uccidere Charlotte. Me l’hai confessato, ricordi?”.
Sobbalzai nuovamente al suono di quelle parole, cercando subito gli occhi di Bellamy anche se ero terrorizzata all’idea di ciò che avrei potuto trovarci. Mi sentivo all’improvviso colpevole, e lo sguardo inespressivo del ragazzo che ancora mi stava al fianco non mi aiutò per nulla.
“Ero in preda alla rabbia”, dissi, parlando sia a Murphy che a Bellamy, dato che non avevo ancora osato interrompere il nostro contatto visivo.
“E credi che io non sia arrabbiato? Cazzo, se sono arrabbiato”.
“No, tu sei fuori di testa”, lo corressi, sentendo – finalmente – qualcosa di molto simile ad una rabbia cieca prendere a montarmi dentro. Non poteva giustificarsi così, non con me. “Lascia andare Jasper o giuro che…”.
Quella volta fui io ad essere interrotta.
“Che cosa?”, ridacchiò Murphy, un’aria divertita nella voce che mi disgustò ancor di più. “Cosa potresti mai fare?”.
Nulla.
Lo realizzai immediatamente, ma evitai di dirglielo. Non avrebbe avuto ancora altre soddisfazioni.
“Questo non è ciò che sei”.
“Ti sbagli, Ginger. Questo è esattamente ciò che sono”.
 
How long have we been spinning out of control?
You lose yourself to a dream.
And then one day you can’t tell where the dream ends and real life begins.
But either way you know: it’s going to end.
 
“Murphy, so che puoi sentirmi. Tutto il cibo che abbiamo e le munizioni sono nella navicella: lo sai. Così siamo vulnerabili di fronte ad un possibile attacco. Ed io non posso permetterlo”.
Ritornai pienamente cosciente solo di fronte a quelle parole improvvise, che abbandonarono le labbra di Bellamy proprio nel momento in cui me le aspettavo di meno. Dopo il mio fallimento piuttosto scontato – sebbene mi fosse piaciuto fino all’ultimo illudermi all’idea di avere almeno un po’ di potere su John Murphy – non avevo potuto far altro che chiudermi in un mutismo esagerato, guardando cosa mi succedeva intorno senza vederlo davvero. Octavia Blake era tornata da chissà dove solo pochi minuti prima, prendendo ad inveire contro tutto e tutti come compresi avrei dovuto fare io, ma anche lei si era persa nel mio stato di trance, proprio come tutto il resto. Tranne che per Bellamy, il quale si stava rivolgendo di nuovo a Murphy.
“Nel caso non l’avessi notato, non sei proprio nella posizione di dare ordini”, lo sentii dire dopo un po’, il solito tono astioso e piccato che raramente gli avevo sentito utilizzare – soprattutto con me.
Ma quello non era più il Murphy che avevo conosciuto, o che comunque avevo creduto di conoscere. Solo che rendersene conto era ancora troppo difficile perché potessi riuscirci.
“Andiamo, Murphy. Non vuoi fare del male a Jasper: vuoi fare del male a me. Quindi che ne dici di uno scambio?”.
Non appena sentii quell’ultima spaventosa parola, non potei far altro che sgranare gli occhi sulla figura all’apparenza tranquilla di Bellamy. Quando l’avevo sentito richiamare l’attenzione di Murphy, non avevo idea di dove volesse andare a parare, ma a partire da quel momento cominciarono a profilarsi nella mia mente gli scenari più nefasti – sapevo benissimo e all’improvviso cosa avesse Bellamy in mente, e sapevo che sarebbe finita male. Non potei far altro che continuare ad ascoltare la loro conversazione, comunque, ancora totalmente impotente mentre Octavia sussultava e cercava di dissuadere inutilmente il fratello.
“Dovrai soltanto lasciare andare Jasper ed io prenderò il suo posto”, propose a Murphy, che prima di rispondere ponderò bene l’entità di quella offerta, come mi suggerì l’intenso silenzio che calò.
“Come?”.
Prima che Bellamy potesse rispondergli, Octavia gli si parò contro, cercando di farlo desistere. Ancora una volta sentii che avrei dovuto fare come lei, ma ne ero totalmente incapace.
“Se lo fai davvero, Murphy ti ucciderà”, mormorò la piccola Blake, e in quelle parole c’era così tanta verità che all’improvviso sussultai.
“Se non lo faccio, ucciderà Jasper”.
L’ennesima stoccata, un altro sobbalzo. Avevano ragione entrambi. Uno tra Jasper o Bellamy rischiava di morire. E c’era solo una cosa che potessi fare a quel punto.
“Non se lo uccido io per prima”, mormorai di colpo, muovendo un passo deciso nella direzione dei fratelli Blake.
Nonostante tutto, la voce non mi tremò nemmeno per un attimo e suonai alle mie orecchie decisa tanto quanto dovetti sembrare a loro. O perlomeno ad Octavia, la quale mi riservò un’occhiata terrorizzata delle sue. Bellamy invece non parve granché colpito dalla mia presa di posizione – non credeva che avrei ucciso Murphy? Non era convinto del fatto che ne fossi capace? – perché ci ignorò totalmente e riprese a parlare con John.
“È semplice, Murphy. Tu apri la porta, io entro, lui esce”.
Calò nuovamente il silenzio, uno ancora più pesante di quelli che l’avevano preceduto. Infine comunque, per quanto stentassi a crederci, l’imponente portellone della navicella cominciò ad aprirsi di fronte ai nostri occhi sbarrati e ci fu poco che potessi fare per convincermi del fatto che tutto quello stesse succedendo sul serio. Non riuscivo ad accettarlo.
Mentre sentivo Murphy che dall’interno urlava a Bellamy di entrare solo e disarmato, avvertii l’improvviso bisogno di catapultarmi lì. Non avevo armi né idea di cosa avrei fatto: sapevo solo di voler entrare a tutti i costi in quella navicella, volevo guardare John Murphy in viso ancora un’ultima volta e sentire cosa mi avrebbe provocato quella situazione. Volevo avvicinarmi a lui anche se sapevo che sarebbe stato capace di uccidermi.
Ma Octavia mi fermò subito, stringendomi un braccio tra le dita mentre mi chiedeva se non fossi impazzita in un borbottio agitato. Per salvare me dovette lasciare andare Bellamy, che sparì dietro il tendone della navicella, lasciandosi dietro un Jasper sconvolto. Octavia gli corse subito in contro, mentre l’immenso portellone si chiudeva di nuovo di fronte a noi ed era libera di lasciarmi in pace perché sapeva che non avrei avuto più occasione di entrare lì dentro.
Ancora una volta mi richiusi in un lungo mutismo, valutando attentamente – per quanto potessi esserlo in quel momento, dato che mi sentivo ancora piuttosto scossa – le possibilità che mi si paravano di fronte. Era vero: avevo perso la mia occasione per affrontare Murphy vis à vis, ma potevo ancora farlo fuori come avevo annunciato solo poco tempo prima ai fratelli Blake. Mi bastava solo raggiungere Raven.
Feci per muovermi non appena realizzai quella cosa. Non ero ancora del tutto consapevole di ciò a cui i miei gesti avrebbero portato sul serio, sapevo solo di dover fare ciò che andava fatto. Ma quando vidi Jasper anticipare i miei movimenti, qualsiasi pensiero venne spazzato via dalla mia mente e presi a fissarlo con le sopracciglia aggrottate finché non riuscii a fermare la sua camminata.
“Dove stai andando?”, gli chiesi, confusa e non poco.
Fino a due secondi prima annaspava e sembrava in punto di morte: cosa gli era preso?
“Mi sembra ovvio. C’è un bastardo da fare fuori”.
No”. Quella parola mi venne fuori in un soffio che Jasper subito fraintese. “Devo farlo io”.
Ma non ero convinta, non lo ero mai stata – e come avrei potuto? – e Jasper lo capì subito, tanto che mi salutò con un sorriso amaro prima di andar via, non dopo però di avermi riservato la stoccata finale.
“Sappiamo entrambi che non ne saresti mai capace”.
L’amore è un gioco, no? Ed io ne ero appena uscita sconfitta.
 
 
Bellamy continuò a seguire gli ordini di Murphy, incapace di fare altro con quest’ultimo che gli puntava il fucile contro in ogni momento ed era più che pronto a sparare colpi minacciosi a destra e a manca. Non riusciva a credere che tutto quello stesse succedendo sul serio, gli sembrava incredibile. Ma era la realtà: una realtà dalla quale non poteva scappare. Non finché Raven non avesse trovato una soluzione.
“Cosa vuoi che ti dica, Murphy? Vuoi che mi scusi? Mi dispiace”.
E a Bellamy dispiaceva davvero, nonostante il tono all’apparenza derisorio col quale pronunciò quelle ultime due parole. Era dispiaciuto anche se sapeva di sbagliare, ma aveva riconosciuto i suoi errori ed era pronto ad ammetterlo.
“Non hai capito niente, Bellamy”, mormorò Murphy allora, ridacchiando sul finale con un’improvvisa aria divertita che sconvolse Bellamy ancor di più. “Non voglio che tu dica nulla: voglio che tu senta ciò che ho sentito io, e poi… E poi voglio che tu muoia”.
Se l’aspettava, Bellamy, ecco perché non sobbalzò di fronte a quelle parole. Semplicemente continuò a fare ciò che gli diceva Murphy – annoda il cappio, sali sullo sgabello, stringi il cappio attorno al collo – mentre pregava a bassa voce che Raven si desse una mossa e che qualcuno arrivasse ad aiutarlo. Aveva bisogno di aiuto, Bellamy, per quanto difficile da ammettere fosse.
“Tutto questo è assurdo”, si lamentò, dall’alto dello sgabello sul quale Murphy l’aveva costretto.
Ma le sue parole vennero interrotte sul nascere.
“Mettiti il cappio attorno al collo”, ordinò Murphy, puntandogli ancora il fucile contro.
A quell’ordine Bellamy non aveva ancora ubbidito, ma a quel punto non poté più scappare. Infilò la testa nel misero cerchio di stoffa rossa, sentendosi già soffocare. Era tutto così orribile che stentava quasi a crederci.
“Contento, adesso?”, chiese a Murphy, fingendo strafottenza.
Quest’ultimo gli riservò una lunga occhiata dal basso, accompagnata da un sorriso divertito che si accentuò ancor di più quando tirando verso di sé la corda che già premeva contro la gola di Bellamy, lo vide annaspare alla ricerca d’aria.
Adesso sì che sono contento, pensò, non accennando a voler allentare la stretta mentre si godeva quella visione paradisiaca. Bellamy stava soffrendo, e John avrebbe fatto di tutto perché quella tortura durasse il più a lungo possibile. Erano solo all’inizio.
“Sei così coraggioso, Bellamy. Voglio dire: sei venuto qui dentro convinto di poter ribaltare la situazione, credendo di essere più forte di me oppure che qualcuno dei tuoi amici sarebbe corso ad aiutarti. Be’… Adesso cosa pensi, Bellamy?”.
Nessuno l’avrebbe aiutato, non quella volta. Murphy lo sapeva e, ancor più soddisfatto, tirò la corda un po’ di più, aumentando il dolore e la sofferenza di Bellamy, che provava a dimenarsi senza buoni risultati. Ed era all’improvviso incapace di dare aria alla bocca.
Prima di riprendere a parlare, Murphy si godette a lungo quel silenzio quasi magico.
“Sai, devo ammetterlo. Li hai ingannati tutti. Ti rispettano quasi quanto rispettano Clarke”. Lo vide chiaramente sussultare a quel nome, e se ne compiacque ancor di più. “Ma noi due sappiamo la verità, no? Sei un codardo, Bellamy. L’ho imparato il giorno in cui hai tolto lo sgabello da sotto i miei piedi. Ma d’altronde stavi solo dando alla gente quello che voleva, no?”.
Così aveva detto. Così si era giustificato. Codardo come pochi.
“Avrei dovuto fermarli”. Non cambiava mai.
Murphy soffocò una risata amara, poi ritornò a cercare gli occhi di Bellamy.
“Ora è un po’ tardi per questo”, mormorò.
“Non capisco cosa credi di fare. Sei convinto del fatto che dopo avermi ucciso, gli altri ti faranno uscire da qui come se niente fosse?”.
Murphy scrollò le spalle, le mani ancora strette sulla cintura rossa.
“Io credo che la principessa sia morta”. Un altro sussulto da parte di Bellamy. La verità fa male. “E so per certo che il re sta per morire. Quindi chi guiderà queste persone se non me?”.
Inaspettatamente, quella volta fu Bellamy a dover soffocare una risatina divertita. Murphy lo fissò a lungo nell’attesa di sapere cosa lo facesse tanto ridere, indispettendosi sempre più ad ogni secondo di silenzio che passava.
“Sei solo un povero illuso se credi che si faranno guidare da te”, annunciò Bellamy infine, fingendo una sicurezza che già non gli apparteneva più da diverso tempo. “Nel momento in cui metterai piede fuori di qui, i delinquenti ti uccideranno. Brayden per prima”.
Quella volta toccò a Murphy sussultare. Lo fece al suono di quel nome, al ricordo della ragazza che… aveva distrutto totalmente. Aveva distrutto tutto.
“Non lo farebbe mai”, si risolse a dire infine, riappropriandosi della cintura che nel frattempo – per la troppa sorpresa – gli era sfuggita di mano.
Punì Bellamy, perché aveva fatto il suo nome – il re non era l’unico ad avere una debolezza, per quanto la sua fosse molto meno evidente – e perché aveva tentato di scappare, perché l’aveva quasi fatto uccidere… Lo punì tirando la corda sempre più, finché non lo vide annaspare disperatamente alla ricerca d’aria e non si sentì quasi pienamente soddisfatto.
“È troppo pura”, continuò a spiegare poi, ad un Bellamy che credeva nemmeno l’avesse sentito.
Ma Bellamy non si era perso una parola di quel discorso, e non appena Murphy chiuse bocca riportò gli occhi nei suoi, riscoprendoli sorprendentemente lucidi. Parlò col respiro corto e facendo fatica, ma non stette zitto. Al contrario, snocciolò una delle più grandi verità di sempre.
“Tu la sottovaluti. E non la meriti”.
Quella volta Murphy non replicò. Perché, sorprendentemente, lui e Bellamy Blake erano di nuovo d’accordo su qualcosa.
 
Why do I wish I never played?
Oh, what a mess we made.
And now the final frame:
love is a losing game.



 

_______________________________
 

Note
Sono così sfinita da non essere nemmeno in grado di fare un Angolo autrice decente, quindi soffritemi gli eventuali deliri. 
Niente, scrivere questo capitolo non è stato semplice. Scrivere questa storia non è stato semplice. Muffin è il mio personaggio preferito (ormai lo sapete) e guardando la serie non mi sono trovata in disaccordo con lui MAI. Ho sempre appoggiato le sue azioni, ho sempre appoggiato lui. Non sono mai riuscita a dargli contro, perché per l'appunto è il mio preferito e perché non riesco quindi ad essere obiettiva (e poi, diciamocelo, i Cento l'hanno trattato da cani ed io sono per "occhio per occhio, dente per dente").
Detto questo. Io sono io, ma Brayden non è me. Io sono riuscita a perdonare di tutto a Murphy (e continuerò a perdonargli di tutto) e ho gioito della sua "redenzione" perché sapevo che ci fosse molto buono, dentro il mio bimbo... Ma per Brayden è diverso. Lei stava cominciando a provare qualcosa di forte per John, si fidava di lui e credeva sul serio che potesse essere cambiato, che avesse messo una pietra sopra al dolore e perdonato i suoi "amici". Credeva che si fosse risolto tutto e che da lì in poi avrebbero ripreso semplicemente a vivere insieme, non felici ma perlomeno l'uno al fianco dell'altra. Ma era tutto un sogno, e i sogni prima o poi finiscono così come le fanfiction senza capo né coda. Quindi no, non credo di aver toppato con questo finale, anche se immagino che molte di voi non lo condivideranno. Il fatto è che conosco Brayden e conosco il suo dolore (l'ho provato insieme a lei mentre scrivevo) e so che la sua delusione, almeno per ora, è così tanta che per lei pensare ad un happy ending con Murphy ora è impossibile. L'happy ending non sempre c'è. E per ora, non credo ne avrete un assaggio. Sarebbe così nonsense che il solo pensiero mi fa arricciare il naso.
Poi però chissà, c'è sempre l'epilogo...




 

Alla prossima. E grazie.

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Capitolo 13
*** Light on ***





13. LIGHT ON
 
Sometimes, when your eyes see something that your heart can’t explain, your mind makes up a new history to make sense of it all.
You make a new story. One with the fairytale ending that you deserve.
Sit back, and you say to yourself:
“Once upon a time, I awoke… in a strange place.”
 
Ripresi conoscenza all’improvviso e capii subito ci fosse qualcosa che non andava: non avevo certo bisogno di chissà quali prove per capirlo, quella sensazione di pericolo ormai mi faceva compagnia sin dal mio primo momento sulla Terra e allora mi sembrò più opprimente che mai, come se avessi un pesante macigno posato proprio sul cuore che mi impediva di respirare regolarmente. Cercai di cambiare posizione, come se volessi scrollarmi di dosso quel peso, ma capii subito di non potermi muovere. Mi sentivo così debole e frastornata che subito non esclusi la possibilità di essere ferita e capii che l’unico modo per averne conferma fosse quello di aprire finalmente gli occhi e cercare di capire cosa diavolo stesse succedendo.
Mi sentivo le palpebre collose e pesanti, ma dopo qualche sforzo riuscii finalmente nel mio intento e subito le mie iridi verdissime si scontrarono con uno sfondo così tanto bianco da farle bruciare e lacrimare. Non ero mai stata in un posto tanto strano e capii subito fosse tutto frutto della mia mente stanca e danneggiata. Mi misi a sedere con non poca fatica, capendo sul serio cosa stesse succedendo nel momento in cui mia madre mi spuntò di fronte. Era tutto nella mia mente.
E lei era bella come sempre, coi lunghi capelli rossi che le svolazzavano intorno al viso pallidissimo dalle labbra rosee incurvate in un caldo sorriso. Mi presi tutto il tempo di cui avevo bisogno per osservarla da cima a fondo, sperando che – almeno quella volta – non ci avrebbero divise di nuovo. Non l’avevo mai vista sul serio, ma qualsiasi cosa di lei mi sembrava così familiare da non farmi avere il minimo dubbio: quella donna era mia madre. Quella donna era Alida O’Neil. Guardia dell’Arca, morta suicida, assassina.
Quell’ultimo aggettivo mi colpì la mente con una fitta fortissima, tanto che fui obbligata a chiudere gli occhi per il dolore mentre mi stringevo i capelli rossi tra le dita. Scoprii presto quanto mi sarei pentita di tutto quello: quando riaprii gli occhi, difatti, mia madre non era più di fronte a me. Ero di nuovo sola. Ma non ebbi tempo per rattristarmene, perché un paio di braccia forti mi strinsero contro un corpo che – nonostante tutto – conoscevo a memoria, e all’improvviso mi sentii come se quello fosse il mio posto. Ero di nuovo a casa.
“Papà”, boccheggiai quando capii sul serio, aggrappandomi alla sua solita giacca scura, quella che aveva indosso anche il giorno in cui mi ha lasciata andare per spedirmi qui sulla Terra.
Mi passò all’improvviso per la mente il pensiero che fossi morta. Come? Quando? Non ebbi il coraggio di chiederglielo. Non ce la feci a rovinare quel momento paradisiaco.
“Mi dispiace così tanto, bambina mia”, lo sentii dirmi, mentre si faceva lontano da me per cercare il mio viso.
Mi strinse le mani sulle guance che, inaspettatamente, avevo bagnato di lacrime sincere e in seguito a quelle sue parole non potei far altro che chiedermi cosa intendesse sul serio, mentre distoglievo gli occhi dai suoi e capivo di non aver il coraggio di chiedergli anche quello. Ma una domanda dovevo fargliela per forza.
“Era la mamma, quella?”, domandai, glissando ancora le sue iridi color nocciola per guardargli alle spalle, dove fino a pochi secondi prima se ne stava la figura quasi eterea di Alida.
Vidi Marcus annuire, poi riportai la mia attenzione sul suo viso.
“Parlami di lei”. Un sussurro, una preghiera. E la consapevolezza che stavolta non mi dirà di no. Non può, perché questo è il mio sogno. E nei sogni si sa, tutto è concesso.
“Si chiamava Alida, ma questo lo sai già. L’ho conosciuta durante i miei primi mesi nel Consiglio. Ero il membro più giovane, subentrato subito dopo la morte di mio padre. E Alida era la più piccola delle guardie, la migliore del proprio corso. Mi ha colpito fin da subito. E ho cominciato a corteggiarla”.
Mi sentii una bambina nell’avvertire la smorfia che mi piegò il volto, ma mio padre non se ne fece un problema. Continuò a raccontare tranquillo, scostandomi i capelli lunghi dietro le orecchie e nascondendo un sorriso intenerito.
“Ci volevamo un sacco di bene, tesoro. Ma lei teneva alla sua carriera molto più che alla famiglia. E non ci sarebbe molto di male in questo, se non fosse che ha finito per rovinare tutto. Quand’è rimasta incinta per la prima volta era sconvolta, non riusciva ad accettarlo. Non ho mai visto una donna tanto infelice durante la propria gravidanza. Ma Alida era diversa. Lei si sentiva diversa. Non aveva più il controllo del proprio corpo e lo vedeva cambiare – crescere – senza che potesse far nulla per impedirlo. Andare al lavoro stava diventando impossibile, nonché difficilissimo. Ma fino all’ultimo giorno non rinunciò mai alla sua carica di Guardia. Era da poco entrata nel quinto mese quando venne coinvolta in una rissa con un delinquente. Cose che a quel tempo sull’Arca succedevano spesso. Rimase colpita gravemente dalla colluttazione e finì per perdere il bambino. Non riuscì mai a perdonarsi per questo. Era convinta che quella fosse l’ennesima dimostrazione del fatto che non era stata creata per essere una madre né per avere una famiglia. Doveva essere sempre e solo una Guardia. Perché era l’unica cosa nella quale fosse brava sul serio”.
Mi si mozzò il respiro in gola, a quella confessione. E sentii di nuovo un peso sul cuore all’improvvisa consapevolezza del fatto che, se le cose fossero state diverse – se Alida fosse stata diversa – avrei potuto avere un fratello maggiore, o magari una sorella. Non sarei stata figlia unica. E magari avrei sofferto di meno la dannata solitudine che, durante tutta la vita, mi aveva fatta stare male da morire.
“E poi sei arrivata tu. Sei arrivata quando ormai non ci speravamo più ed io mi sono illuso stupidamente che avresti cambiato tutto, compresa Alida. Ma lei – anche se a distanza di anni – era sempre la stessa. L’ho vista ricadere nel vortice di depressione acuta che aveva affrontato durante la sua prima gravidanza, l’ho vista afflitta e disperata. L’ho vista chiedere l’aborto senza consultarmi. E ho dovuto agire impulsivamente, lo capisci? Dovevo proteggerti. È questo che ho sempre fatto, fin dall’inizio. È per questo che non ti ho mai parlato di lei. Non volevo che tu sapessi. Non volevo che tu soffrissi. Ma ho capito presto quanto difficile sia essere un padre ordinario di una figlia tanto straordinaria”.
Quelle parole mi strapparono inaspettatamente un sorriso amaro. Le accolsi con gioia, anche se sapevo che fossero lì solo come un lenitivo alla mia sofferenza. Una sofferenza che, nonostante quanto Marcus non lo volesse, stavo sentendo più forte che mai. Mia madre non mi aveva mai voluta. Aveva richiesto l’aborto. Lo realizzai con gli occhi già lucidi e un groppo alla gola che m’impedì di parlare, almeno finché non riuscii a rispedirlo a fondo nel mio stomaco sottosopra e ricercai gli occhi scuri di mio padre.
“Che cosa hai fatto?”, gli chiesi in un soffio, con la voce ridotta quasi ad un incomprensibile lamento.
Stavo provando sulla mia pelle quanto alle volte la verità potesse far male, ma non potevo biasimare nessuno per quello: avevo voluto sapere tutto e dovevo affrontare le responsabilità di quella mia testardaggine.
“L’ho fatta mettere in isolamento, finché non è stata l’ora del parto. Vederla lì in cella mi uccideva, e finì per uccidere anche lei. Ma non avevo altra scelta, Brayden. Dovevo salvarti. Tu eri la mia vita! Pochi giorni dopo la tua nascita trovai Alida immersa in una pozza del proprio sangue; si era suicidata. Io l’ho uccisa”.
Scossi subito la testa violentemente, più e più volte, mentre strizzavo gli occhi nella speranza che quella visione e quelle parole orribili potessero sparire per sempre dalla mia mente. Ma quella volta i miei desideri non sarebbero stati esauditi: lo capii quando, riaprendo gli occhi, scoprii di come fosse sempre tutto uguale. Mio padre era ancora lì davanti a me, in quella stanza di un accecante bianco, ed io ancora soffrivo e piangevo tra le sue braccia, schiacciata sotto il peso di una verità che all’improvviso avrei preferito non sapere mai.
“Io l’ho uccisa”, lo corressi, con la voce ridotta ad un sussurro. Non era giusto che si accusasse di un omicidio che non aveva compiuto. “Ho ucciso mia madre”.
 
 
Ritornai alla realtà – e sapevo bene che allora si trattasse proprio di nient’altro che quella – con un sussulto, un urlo che mi rimase incastrato in gola quando un’intensa puzza di bruciato mi riempì le narici, lasciandomi senza respiro e con gli occhi lucidi. Tossii, portandomi una mano insanguinata alle labbra e cercando di riacquistare almeno metà di tutto l’ossigeno perso, ma non era facile. Mi sentivo ancora come se avessi un peso sul petto che mi impediva di respirare regolarmente e capii subito all’improvviso di dovermene liberare.
Mi guardai attorno, nella speranza di capire finalmente cosa diavolo stesse succedendo. Il verde della foresta attorno a me era sempre lo stesso, solo che era tutto troppo silenzioso perché potessi convincermi del fatto che andasse tutto bene. Sapevo che non fosse affatto così.
Ma lo capii solo quando, buttando un’occhiata al mio corpo, vidi una cosa che proprio avrei preferito non vedere. C’era qualcuno lì insieme a me. Un corpo – all’apparenza morto – che non conoscevo, che con la sua imponente stazza mi bloccava sul serio il respiro. Accecata da una paura improvvisa, mi misi a sedere sul terreno fangoso e mi scrollai quell’uomo di dosso, rivoltandolo sulla schiena perché volevo assolutamente poterne vedere il viso. E mi bastò nient’altro che quello per ricordare tutto, all’improvviso.
Osservai la pelle bruciata del Terrestre e la consapevolezza mista a ricordo mi colpì allo stomaco con la violenza di un pugno. Cominciai a vedermi scorrere davanti agli occhi lucidi tutti gli avvenimenti della giornata precedente, come se si trattasse della pellicola di un film che avrei preferito non esistesse. Ero ancora tramortita dalla fuga di Murphy, quando Bellamy mi aveva ordinato di unirmi alla trincea di tiratori per proteggere il campo dai Terrestri. Avevo guardato John mentre andava via – scappava – senza poter far nulla per fermarlo. Bellamy aveva detto che se ne sarebbero occupati i Terrestri, ed io ci avevo creduto. Non mi era stato dato tempo per urlare dalla rabbia o piangere dal dolore: c’era una guerra da combattere e l’avevo capito subito.
Bellamy mi era stato accanto fin quasi alla fine, o meglio… fino all’inizio della fine. Da quando i Terrestri avevano scavalcato le nostre difese, infatti, avevo completamente perso le sue tracce, troppo presa a sferrare colpi a destra e a manca nella speranza di sopravvivere. Le munizioni del mio fucile mi avevano abbandonata fin troppo presto ed ero stata obbligata ad usare il machete: davvero pochi Terrestri erano morti per mano mia, ma ne avevo feriti un sacco.
Arrestai il mio cammino nei pressi del campo, trattenendo un urlo per il dolore lancinante che mi colpì la spalla incrostata di sangue. La guardai e vidi la ferita che un Terrestre mi aveva inflitto con una freccia: era sanguinante e bruttissima da vedere, non avrei escluso che fosse avvelenata o comunque infetta. Ma ancora una volta non avevo tempo di pensarci. Continuai a zoppicare finché non raggiunsi la navicella, sentendo il cuore cedere ad ogni passo che muovevo sul terreno bruciato dall’esplosione. Alla fine i Cento ce l’avevano fatta sul serio: l’esplosione c’era stata e aveva portato tutto via con sé. Avrei dovuto mettermi a cercare i miei amici, ma non sapevo nemmeno da dove avrei dovuto cominciare. Non c’era nessuno lì. Erano spariti tutti. E l’improvviso pensiero che non li avrei rivisti mai più mi strappò l’ennesimo gemito.
Continuai ad avanzare verso la navicella come capii avrei dovuto fare la sera prima, quando Clarke aveva urlato il mio nome affinché la raggiungessi lì dentro e mi mettessi al sicuro. Aveva fatto altrettanto sia con Finn che con Bellamy, ma nessuno di noi l’aveva raggiunta. L’avevamo lasciata sola. Avevamo abbandonato i delinquenti.
Mi ritornò subito alla mente il perché di quella mia scelta. Avevo preferito fingere allora che fosse per via delle mie ferite, che il dolore non mi permettesse più di camminare e che fosse colpa di un Terrestre che mi aveva trattenuta lì fuori fino all’ultimo momento, tirandomi i capelli così forte da farmi urlare di dolore. In realtà avevo deciso spontaneamente di non unirmi ai Cento. Ancora una volta non erano stati loro la mia scelta. Né lo era stata John Murphy. Piuttosto avevo scelto me stessa. E capito all’improvviso, nell’impeto della guerra, di come il mio posto non fosse lì. Perciò avevo tentato di andar via – ancora non sapevo dove, ma contavo di scoprirlo presto – poco prima che tutto diventasse fuoco e luce e poi buio, giusto un attimo dopo l’esplosione dalla quale ero uscita indenne chissà come. Credevo di essere l’unica.
Ma scoprii ben presto di sbagliarmi. Qualcosa di pesante e appuntito s’infranse contro la mia testa e il dolore mi rimbombò fortissimo nel cervello, mentre trattenevo uno strillo e cadevo al suolo, priva di forze. Prima che potessi perdere completamente conoscenza, comunque, un paio di mani grandi mi furono addosso e mi sollevarono prima che cadessi svenuta. Vidi la mia visuale roteare vorticosamente e avvertii un violento conato di vomito scuotermi nel momento in cui mi resi conto di essere sulle spalle di qualcuno. Non ero sola.
Mi sforzai per restare cosciente quanto bastava a capire cosa stesse succedendo sul serio e realizzai che un Terrestre mi avesse presa nel riconoscere gli abiti tipici del clan, fatti di pelliccia e rigorosamente scuri. Provai l’improvviso impulso di piangere mentre lo sentivo dirmi: “Tu vieni con me” e realizzavo si trattasse dello stesso uomo che la sera prima mi aveva fermata prima che potessi raggiungere Clarke. Era anche lo stesso che mi ero ritrovata addosso quella mattina stessa.
Realizzai tutto mentre provavo a dimenarmi e a combattere come al solito, fallendo però miseramente. Ero debole e sentivo la ferita alla testa sanguinare copiosamente: avrei voluto solo chiudere gli occhi e dormire per sempre, scappare da quella realtà così tanto diversa dal sogno che fino a pochi giorni prima mi era sembrato di vivere. Un sogno nel quale io ero una ragazzina tradita da tutte le persone alle quali voleva bene, che riusciva però a trovare qualcuno di così importante da farle dimenticare tutto il dolore del passato. Almeno finché anche questo qualcuno non la tradiva.
Prima che potessi perdere del tutto conoscenza, il mio pensiero corse a John. Ancora una volta. Rividi nella mia mente tutti i momenti che ci avevano legati, belli o brutti che fossero. E capii che non avremmo avuto altre occasioni per essere insieme, per chiarire, per continuare a costruire ciò che avevamo cominciato. Insieme. Riflettei su quanto male mi aveva fatto e capii che, nonostante tutto, non ce l’avrei mai avuta con lui sul serio.
Ma scacciai quell’improvviso pensiero con vergogna, passando a mio padre. Poi a mia nonna. A Callie. Ai Cento. E a tutti coloro che, lo sapevo già, non avrei rivisto mai più.
 
The saddest word in the whole wide world is the word “almost”.
She was almost in love. He was almost good for her.
She almost stopped him. He almost waited.
They almost made it.



 

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Ringraziamenti
A Josh Ramsay, che è tipo t u t t o e mi ispira sempre un sacco sia con le sue canzoni che coi suoi monologhi. Quello citato ad inizio capitolo è proprio uno di questi e lo potete trovare nel video ufficiale di 
By now.
A tutte le persone che, dall'inizio fino alla fine, mi hanno supportata nella stesura di questa cosa. A chi c'è stato fin dall'inizio, a chi è arrivato a metà, a chi ha fatto solo una capatina e poi è sparito... A tutti GRAZIE allo stesso modo. Se oggi riesco a mettere fine alla mia seconda long su EFP è anche per merito vostro.
Le parole a fine capitolo sono tristi as fuck e penso proprio che non ci fosse niente di più azzeccato da inserire, quindi ecco qua. Ginger e Muffin sono proprio il perfetto almost. Non conosco l'autore, ergo non posso rilasciare i crediti dovuti. Pazienza.

Note
Spero non mi odierete poi troppo per questo "finale aperto", anche se ne dubito (LOL). Il punto è che sapevo che Love is a losing game sarebbe finita così fin dal primo capitolo e, da come avrete capito, non sono per il fanservice. Non credete che non mi sarebbe piaciuto cambiare idea e dare ai miei due bimbi belli l'happy ending che tutte volevate, ma sarebbe stata una cosa così assurda e schifosamente romantica che mi sarebbe sembrato quasi di fare un torto ai personaggi. Dopo tutto ciò che hanno passato, dopo tutto il male che si sono fatti a vicenda, non hanno "diritto" ad un happy ending (Murphy soprattutto). Almeno per ora. Ne dovrà passare di tempo prima che le cose tra questi due si risolvano, semmai una cosa del genere succederà, ma per adesso il finale è questo. Murphy è disperso chissà dove insieme al resto dei Cento e Brayden, che finisce "rapita" da un Terrestre, pensa che non rivedrà mai più nessuno di loro (né la gente dell'Arca). Ho voluto a tutti i costi questo finale aperto anche per darvi l'opportunità di immaginare il continuo come più vi piace: potete pensare a Brayden insieme ai Terrestri, oppure insieme a suo padre o (come credo piacerà un po' a tutte) insieme a Murphy, in un futuro in cui hanno chiarito e sono felici, insieme, come penso vogliano entrambi (anche se ammetterlo è durissimo). In caso non si fosse capito, amo i finali aperti proprio per questo. Il potere è tutto vostro, ppl.
Come già detto, non scriverò un sequel. Ma sto lavorando ad un'AU a tema high school sempre con Ginger e Muffin (i miei bimbi non li abbandono!) e prima o poi mi rivedrete qui a rompere le balls, che sia con questa oppure con la werewolf!AU alla quale conto di iniziare a lavorare il più presto possibile. Insomma, non vi libererete della sottoscritta né tantomeno di Brayden.
Ora non posso far altro che darvi appuntamento alla prossima, spero presto. 

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