A ricordarsi di te non ci vuole poi molto

di Jazzmary
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Collegio estivo ***
Capitolo 2: *** Niente è come sembra ***
Capitolo 3: *** Percy Jackson ***



Capitolo 1
*** Collegio estivo ***


                                                                                                                                                                                                    "Tutto bene?"

    "No."

    "Ti stai comportando come una bambina."

    "Parla il genitore che manda sua figlia in un collegio."

    "Ingrata." 

    "..."

    "Arriveremo lì per le otto,  Annabeth."

    "Non vedo l'ora." Dissi io, sarcastica.

 

 

 

    

 

 

   Una stanza luminosa, il pavimento in parquet, il soffitto ricoperto da una carta da parati stellata, il letto sgualcito ancora da rifare e una libreria piena per metà.

Questo era il mio mondo.

Piccolo ma soddisfacente.

Ed io avevo solo il pensiero di non dover restare troppo tempo fuori da questa bolla troppo profumata. 

Mi rifugiavo sempre lì. Finché alla mia "matrigna" non venne la splendida idea di mandarmi in un collegio. 

 

 

 

"Dobbiamo proprio farlo?" 

"Sii ragionevole, tesoro. Quella ragazzina non fa altro che starsene rinchiusa lì. Non è di alcuna utilità. Magari se la mandassimo in un collegio estivo si farebbe qualche amico e nel frattempo potrebbe imparare qualcosa di nuovo. Ha troppi grilli per la testa e non me la sento di farla crescere in questo modo. Magari un riformatorio sarebbe l'ideale per..."

"No."

"Pensaci un po'. Pensa a cosa avrebbe fatto la tua vecchia moglie non sapendo gestire una situazione del genere."

"Mia moglie non l'avrebbe mandata neanche dallo psicologo."

"Te lo ripeto. Pensaci. È anche a scopo educativo."

 

 

 

A scopo di smaltimento umano, piuttosto. Quella donna voleva solo liberarsi di me.

Era il rimpiazzo di mia madre. Mi chiedo ancora perché papà avrebbe dovuto sposare una vipera così. Lo psicologo ce l'ha di bisogno lei, mi sa. 

Ma comunque siano andate le cose, la mia matrigna era decisa a buttarmi fuori di casa e in seguito ad una scenata, mio padre si lasciò convincere. Pericolosa? Andiamo! Si sarebbe al massimo informata sul collegio più severo e puzzolente degli Stati Uniti e mi ci avrebbe mandato senza neanche storcere il naso: niente di che. 

La mamma è morta pochi anni fa di cancro, quando avevo solo undici anni. Papà non si è più ripreso ed è cambiato. E' uno scrittore irlandese che si è trasferito in Gran Bretagna dopo essersi incantato davanti alla bellissima campagna di Reading, nel Berkshire. Ci siamo sistemati in periferia, in una casa medio-grande che si affaccia sul verde. 

Ma il problema nella mia esistenza non è solo la mia matrigna, sembra che il problema sia proprio io. Papà aveva perso tutto il suo interesse nei miei confronti, io avevo quasi perso del tutto la stima nei suoi, di confronti. Passavo le giornate a suonare al pianoforte qualcosa che dubitavo a chiamare musica, a leggere e a fare lunghe passeggiate solitarie. Ma intanto io ero "un peso", come se non ci fossero vuoti. "Di nessuna utilità", come se fossi inutile o dovessi darmi da fare (per che cosa?).

Tutto quadrava, ma io volevo tornare ad essere la principessa di papà, non una figlia senza amici, solitaria e quasi del tutto priva di attenzioni.

Vivevo da me stessa, contavo solo su me stessa, e non mi accorgevo che andavo in cattività. Com'è che si dice? A malore, a male, al macello. E al macello ci andavo davvero. 

La lontananza era assicurata. 

Il viaggio proseguiva silenzioso e forse era meglio per me, dato che il solo parlare mi rendeva nervosa e faceva scaturire liti. Papà non era venuto.

"Ti troverai benissimo, vedrai." Disse la vipera.

"Ne sono sicura. Una topaia con un topo in più, cosa vuoi che sia?" dissi sarcastica, dai sedili posteriori.

"Senti signorina, adesso ne ho abbastanza! Cerca di allacciare meglio quei capelli, sembri una forsennata e quegli occhi sono orribili, hai le occhiaie!" Sbottò.

"Oh, signorina" dissi, facendo il verso "ma hai mai visto che razza di gatto peloso e spelacchiato ti sta in testa? Quel biondo cacca fa venire la nausea. Con tutto il rispetto per le cacche e i gatti."

Frenò.

"Sono pronta a scendere e a picchiarti, piccola mocciosa."

"Fai pure." La sfidai.

Ma lei non scese neppure dalla macchina, non slacciò neanche la cintura. Si girò solo dalla mia parte e disse: "Sei orfana di madre. Cerca di avere quanto meno rispetto per chi sta cercando di prendere il suo posto."

La guardai. Un odio profondo mi pervase fino a farmi stringere i pugni dalla rabbia. Un sorriso malefico le comparse in viso. Avrei voluto sputarle in faccia e gridarle l'odio che avevo dentro.

"E' inutile che mi guardi in quel modo." Si girò e mise in moto.

Il resto del viaggio fu trascorso ascoltando la radio trasmettitrice delle 19:07. 

Arrivammo per le 19:53. Sette minuti prima di quanto avessi sperato. 

Non volevo scendere. Mi sentivo una nota stonata in un contesto invisibile. Le gambe erano come cemento, sentivo le farfalle nello stomaco, la testa prendeva a girarmi... Avrei voluto viaggiare per sempre e non arrivare mai. 

Mi fece scendere a forza. Prima parlando gentilmente. Poi le minacce.

Osservai il mio riflesso sul finestrino dell'auto: occhi grigi sonnolenti, capelli per gli affari loro... Sembravo una forsennata da rinchiudere in manicomio. Per un secondo, mi chiesi se quello che avevo dietro fosse davvero un manicomio.

 

 

Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere 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Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere minacciata Odio essere 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Le diciassette pagine scritte sul mio diario. Interessante.

 

La vipera imprecò per la quarta volta. 

Odio le imprecazioni. 

 

 

Mi accompagnò fino alla porta. Nonostante fosse estate faceva freddo, il clima era diverso lì.

 'Siamo negli Stati Uniti, non più in Gran Bretagna, Annabeth' mi ripetei per la quarta volta. 

Alzai gli occhi: il cielo si preparava ad un temporale.

Quel posto è lugubre. Il cancello ferrato che si affaccia sul cortile enorme è pieno di polvere e ruggine. La vipera arricciò il naso.

Spinsi il cancello e osservai meglio il cortile: c'erano panchine in legno, qualche gnomo da giardino, tavoli rotondi in marmo con sedie di ferro accostate vicinoun giardiniere annaffiava il prato, o meglio, i filetti d'erba sparsi qui e là, in certi punti gialli, in altri verde. Notai qualche lampione spento e una stradina di polvere che conduceva alla villa. La villa era un edificio alto cinque piani. La porta era in ferro battuto, con quadri di vetro che lasciavano intravedere l'ingresso. C'erano tante finestre, il muro dell'edificio era bianco e pienamente fatto in pietra. 

Salii i cinque scalini che mi dividevano dal battente. Bussai tre volte, sbattendo con rabbia il cerchio di ferro. 

Aprì la porta una donna ossuta, alta, con gli zigomi alti, i capelli neri legati su una crocchia, e gli occhi grigi. Si rivolse a noi con un ghigno, e prima che potesse proferire parola, la mia matrigna disse "Oh, ecco Annabeth Chase, signorina...?" 

"Non ha importanza" rispose asciutta la donna "porterò la signorina Chase dritto dritto dal direttore".

"Allora, ehm, suppongo che non ci sia più bisogno di me" si rivolse verso di me "ti troverai bene, Annabeth. Non aver paura".

'e chi ha paura?' pensai, ma non dissi niente, osservai solo la sagoma della mia matrigna scomparire dentro la macchina, finché svoltò l'angolo, e allora guardai la signora davanti a me.

"entra, Annabeth" mi disse.

I corridoi del mio nuovo collegio erano puliti, sulla tonalità irrevocabile di un bianco perla, dal pavimento al soffitto. Mi portò dinanzi a una porta, con su scritto 'DIREZIONE', in maiuscolo. Bussò, e da dentro si sentì un "avanti" stanco. Un uomo grassoccio, dalle iridi vicino al porpora, sulla settantina d'anni, mi fece cenno di entrare e di accomodarmi su una sedia. Mi guardai intorno: c'erano molti quadri che ritraevano paesaggi, appesi alla parete. C'era una grande e sostanziosa libreria in mogano, una grande finestra alle spalle dell'uomo, una grande scrivania sulla quale era accostata una sedia da ufficio, un divano nero con un tavolino in vetro abbinato, e due sedie in pelle nera. Su una di esse c'ero io. E il resto attorno a me.

Il preside schioccò la lingua e si rivolse a me con un ghigno "bene bene bene. Devi essere Annabelle Blunt".

"No, signore. Sono Annabeth Chase. Vengo dalla Gran Bretagna" dissi con una punta di fastidio nella voce.

"Oh, sì! Ora ricordo" esclamò il preside alzandosi da dietro la scrivania "io sono il preside Dioniso, ma preferirei venire chiamato Signor D. Questo, signorina Annabelle..."

"Annabeth" lo corressi per la seconda volta in meno di un minuto. Il direttore continuò come se niente fosse, rivolgendomi fugaci occhiate e parlando con quel tono trascinato e monotono, come se avesse imparato tutto a memoria.

"...è un collegio di rigide regole per quanto riguarda la libertà di voi ragazzi. Non si può uscire senza il permesso del preside e del genitore. Il coprifuoco è alle undici nei giorni feriali, mentre sabato e domenica è accordato per mezzanotte. Chi trasgredisce queste regole verrà severamente punito" mi guardò a lungo come per vedere la mia reazione e poi continuò "si fa sport ogni giovedì e ogni lunedì alle quattro. Si studia. Oh si" aggiunse quando vide la mia espressione sorpresa. Mi aspettavo di tutto tranne studiare in un collegio estivo. "le lezioni" continuò "si terranno nei giorni feriali a partire dalle undici di mattina fino alle due. Oltre a studiare, nel pomeriggio ci saranno dei corsi creativi come ceramica, pittura, disegno, cucito e molto altro. Sono sicuro che si troverà bene per il resto dell'anno". "Cos..." iniziai. Era un'estate. Doveva esserlo per forza. Non ebbi modo di parlare. "La sua stanza è la numero 5. L'unica rimasta vuota, a quanto vedo" e osservò una lista scorrendo su di essa con l'indice destro "ha i documenti?" domandò all'improvviso. "quali documenti?" replicai, ma subito dopo la signora che mi aveva aperto la porta disse "tutto apposto". Non mi ero neanche accorta che fosse lì.

Il signor D sospirò. "Porta questa ragazza nella sua stanza e lascia che posi i bagagli. La cena è ancora in corso, potrà raggiungere gli altri aiutandosi con la cartina. La colazione è dalle sei alle dieci e trenta. Non faccia tardi o ne subirà le conseguenze. Arrivederci" e con questo si congedò, girandosi verso la finestra e dandomi le spalle. Mi alzai titubante dalla sedia e la signora-non-importa-come-si-chiama disse "seguimi", e io obbedii, felice di lasciare quell'ufficio. La signora-non-importa-come-si-chiama mi lasciò davanti ad una porta porgendomi le chiavi. E con questo disse "ci vediamo a cena" e andò via.

Aprii la stanza e rimasi lì tutta la sera. Non avevo fame e non avevo voglia di vedere qualcuno.

Piuttosto mi sentivo tradita dal mio stesso padre.

 

Erano le dieci e mezzo quando mi accorsi di aver dimenticato la giacca nell'ufficio del preside. Avevo mezz'ora per recuperarla e per orientarmi meglio nel collegio. Quando arrivai - fortunatamente senza perdermi e incontrare qualcuno - feci un respiro profondo e vidi un ragazzo dietro la scrivania. Ci guardammo.

Era alto. Poco più alto di me, credo. Aveva le iridi di un verde profondo, capelli neri e disordinati. Indossava una felpa grigia e per pantalone una tuta dello stesso colore. Scalzo.

Mi sentii strana sotto quello sguardo indagatore. 

"Lei è un professore?" ruppi quel silenzio imbarazzante. Lui sorrise e mi sentii sciogliere.

"Be', ehm, si. Io..." disse lui un po' a disagio, mi sembrò.

"Mi scusi, professore. Ho soltanto dimenticato la giacca. Torno in stanza" e con questo mi congedai quando quello strano - e anche molto giovane - professore mi chiese "in che stanza sei?" amavo quella voce.

"La numero cinque" dissi, per poi tornare indietro.

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Capitolo 2
*** Niente è come sembra ***


Niente è come sembra


Iniziò tutto da lì, lo giuro.

Perché niente è come sembra.

 

Tornai in stanza di corsa, ma quando fui davanti alla porta sentii dei rumori disgustosi. Mi girai piano, con un brutto presentimento.

E li vidi.

Una ragazza e un ragazzo che si baciavano approfondendo... be', le cose.

 

Se c'erano cose che non tolleravo una di queste era quella di osservare una coppietta in pieno ardore erotico.

Mi caddero le chiavi.

 

Diamine.

 

Si girarono di scatto verso di me.

 

La ragazza aveva un trucco pienamente formattato sul nero, gli occhi di un blu elettrico straordinario, i capelli lunghi e neri e il vestiario anch'esso in nero.

Ecco, lei era nero e bianco. 

Era come se la sua vera essenza si presentasse davanti a me.

Nero.

Doveva dimostrare a tutti di essere forte, di essere la dura.

Bianco.

Era la sua essenza.

Niente è come sembra.

Il ragazzo aveva la carnagione olivastra, due occhi neri ben piazzati ed era magro, bello e atletico. I neri capelli spettinati gli cadevano un po' sotto le orecchie e indossava una tuta da ginnastica grigia, le converse bianche slacciate ai piedi.

Mi osservarono. E io osservai loro.

La tensione era palpabile, la si poteva affettare con un coltello.

Il rossore sui loro volti sarebbe stato visibile da almeno cento metri di distanza.

 

"Ehm" sillabò piano la ragazza. 

Si avvicinò barcollando, lasciandomi il tempo di farmi un'idea su di sé.

 

Era bella. Caspita se era bella. 

Era bellissima.

 

"Mi spiace se..." fece un sospiro come per calmarsi "...tu abbia dovuto assistere a questo. Io e Nico..." e accennò indietro con la mano verso il ragazzo "Io e Talia siamo fidanzati" disse quello che doveva chiamarsi Nico, interrompendo la sua ragazza. Lei lo guardò come per dire "cosa?!" e si voltò verso di me, ancora più rossa. Decisi di presentarmi, nonostante non sapessi di che colorazione ero per colpa di quell'evento imbarazzante.
"Sono Annabeth, Annabeth Chase" tesi la mano.

"Oh. Non ti ho mai vista, ma il signor D aveva accennato a delle nuove arrivate. Sei quella nuova, vero?" disse Talia tutto ad un fiato, sorprendendomi per quanto potesse parlare veloce.

Sì, ma okay ragazzi, calmiamoci tutti. Sono quella nuova, ed essere presentata per "quella nuova" è tutta un'altra storia dall'essere presentati come 'Annabeth Chase'.

"Ehm, a quanto pare si" dissi titubante, trasportando il peso da un piede all'altro. Abbassai la mano, la cui stretta non era stata soddisfatta.

"So come ti senti," disse Nico "ci sentiamo un po' tutti fuori posto all'inizio, ma qui starai una favola. Basta solo che non ti fai beccare quando trasgredisci qualche regola e il gioco è fatto".

"Oh" dissi, non trovando niente da dire "bene".

Pessima figura.

"Comunque è meglio che torni in camera! Sono quasi le undici. A domani, piccola" e con questo, Nico diede un sonoro bacio sulla guancia a Talia, prima di svignarsela dentro una delle stanze del corridoio.

Talia era più rossa di un peperone. 

No, forse di più.

Prendete la cosa più rosso acceso che conoscete e immaginatevi una persona truccata di nero con quella tonalità temporanea di pelle. Ho reso l'idea? 

"Formate una bella coppia!" esclamai sincera. Lei distolse lo sguardo dalla porta in cui Nico era appena sparito, e mi guardò incredula, con quegli occhi blu da far paura.

Non tutto è quello che sembra.

Può darsi che era lei ad aver paura.

Mi stavo confondendo? Aveva un'espressione così insolita che ne rimasi sorpresa. Gli occhi spalancati. La bocca a metà tra una "o" e un sorriso.

"G-grazie" mormorò sommessamente, per poi sorridere.

"Quindi?" domandò all'improvviso, con un'altra tonalità di voce.

Non capivo a cosa si riferisse, e lei, alla mia occhiata smarrita mi disse: "oh, lascia stare. Sono quasi le undici. È meglio che vada" la seguii con lo sguardo fino alla porta.

"Annabeth?" la sentii ancora che mi chiamava.
"Si?" mi voltai.
"Domattina alle sette. Fai colazione insieme a noi! Ti presenterò agli altri" mi fece l'occhiolino prima di chiudersi la porta alle spalle, senza lasciarmi il tempo di rispondere al suo "invito", se così lo si può chiamare.

 

Inserii la chiave nella toppa.

Mi infilai dentro la mia stanza e mi chiusi la porta alle spalle, poggiando la schiena contro quella superficie di legno bianco, sprofondando e sedendomi sul pavimento.

Sentii dei passi che attraversarono il corridoio.

Qualcuno si era soffermato sulla mia porta, lo sapevo.

 

Una figura dagli occhi verdi e i capelli neri mi baluginava nella mente.

 

 

 

 

                                               ***

 

Mi svegliai di soprassalto, svegliata da un tuono.
Quella mattina ero cosciente del fatto che pioveva a dirotto, che il cielo era come se mostrasse quello che non mostravo, ossia la mia ardua tenacia del non sprofondare nella solitudine e nello sconforto. 
Alle sei e mezzo ero già vestita e in febbricitazione permanente. Non riuscivo a togliermi l'ansia di dosso, ma per quanto fossi nervosa e in iperattività, pensavo a dei certi occhi verdi. 

Chissà quando lo rivedrò...

 

In quella mattina tempestosa, dopo la doccia indossai un maglioncino di lana bianca leggero, un paio di leggings neri e le Vans bianche della scuola. Acconciai i capelli in una treccia francese laterale, dicendomi "okay, la prima impressione è la più importante. Sii te stessa" quando sentii bussare alla porta.

"Annabeth? Sei dentro?" una voce femminile. Doveva essere Talia.

Aprii immediatamente.

Ma non era Talia. Davanti a me c'era un'altra bellissima ragazza dagli occhi blu, i capelli neri lunghi e un completo casual dalla gonna e le scarpe firmate. 

"Chi...?" 

"Sono Silena Beauregard. Sapevo che eri nuova, così sono passata a prenderti per portarti in sala. Sono la compagna di stanza di Talia" sorrise. Era davvero bellissima. 

"Ti ringrazio per il pensiero, Silena" sorrisi anch'io.

"Figurati! Ho saputo da Talia che dovevi fare colazione insieme a noi, ma come al solito si è svegliata tardi, perciò ha chiesto a me di accompagnarti. Sei già pronta?".

"Si, possiamo andare".

Quando arrivammo avevo già imparato la strada e conosciuto almeno un po' più di Silena Beauregard. Era di origine francese e suo padre portava avanti una cioccolateria. Non mi parlò di sua madre, né di fratelli o sorelle. Mi parlò invece dei ragazzi del collegio e di come fossero rompiscatole e intrattabili. Sentii qualcosa di diverso in quel clima. Il modo in cui ne parlava suonava forzatamente brusco e prezioso alle mie orecchie. Era come se sotto quelle critiche, sotto quelle piccole e flebili prese in giro si nascondesse un affetto intenso e reciproco. 

"La famiglia" pensai.

Ad un tratto mi ricordai di quegli occhi verdi. Caspita quanto ci pensavo. E in quello stesso momento feci una pazzia.

"Silena?".
"Mh?".
"Come si chiama quel professore dagli occhi verdi e i capelli neri?" domandai e mi domandai cosa caspita mi veniva da chiedere. Ma mi sorprese ancor più l'espressione interrogativa di Silena, che aggrottò le sopracciglia e si accarezzò il mento, dando l'impressione inequivocabile di pensare a qualcosa di importante.

"Sarà che mi sfugge, ma Annabeth, qui non ci sono professori dagli occhi verdi. Forse se me lo descrivessi meglio..." lasciò la frase in sospeso e mi fece strada. La sala colazione-pranzo-spuntino e cena si stagliava luminosa davanti ai miei occhi.
C'erano due lunghi tavoli in mogano apparecchiati ciascuno con una tovaglia rossa patchwork, bicchieri in vetro, piatti in vetro, posate in ferro e tovaglioli di carta, usa e getta. Tutt'intorno, ai muri, c'erano tantissimi banconi con lavandini, utensili, elettrodomestici, brocche e c'era anche una porta con il vetro sulla parte superiore, coperto per metà da una tendina color panna. Il pavimento era in mattoni, bianco, immacolato e privo della più sottile polvere. Le mura erano di un leggerissimo giallo, così leggero che lo credetti sbiadito.
"Per la colazione cuciniamo da soli" disse Silena "se vuoi possiamo farlo insieme se non sai cucinare!" esclamò, porgendomi un grembiule verde che aveva preso da un armadietto. Guardai oltre la porta semicoperta dalla tendina.

"Lì dietro c'è l'orto" sentii dire da una voce maschile. Silena sobbalzò.
Non mi accorsi sùbito della presenza di quel ragazzo. Era alto e muscoloso, con la fisionomia di un afroamericano. 

"Piacere" mi tese la mano "sono Charles Beckendorf, ma la gente mi chiama solo Beckendorf. Tu sei...?".

"Annabeth Chase" gli strinsi la mano. 

Fino a poco fa, Beckendorf, chino su un bancone, stava distribuendo su un piatto del porridge, la consueta zuppa d'avena. Poco più in là vidi un ragazzo dai riccioli e gli occhi castani che stava schiacciando le patate, nella speranza di preparare un purè commestibile. Accidentalmente, gli cadde la ciotola dalle mani e quel poco di purè che era riuscito a fare, si riversò fuori dal piatto.
"Lui è Grover" disse Charles.

Grover divenne rosso e mi rivolse un'occhiata imbarazzata.
"Piacere di conoscerti, Grover. Sono Annabeth".
"Ciao, Annabeth!" disse Grover, usando una voce molto più squillante di quella che mi aspettavo. Aveva tutta l'aria di essere sollevato: non lo avevo preso in giro. E diciamoci la verità: chi non ha mai fatto cadere un piatto a terra?

Si sentirono delle urla e ad un tratto due ragazzi si precipitarono in cucina, cadendo a terra, sfiancati.

Una ragazza robusta e corpulenta, dai capelli come spaghetti, castani, e gli occhi color ruggine entrò in cucina, carica di rabbia. Gridò impetuosa: "Connor! Travis! Tutto qui quello che sapete fare!?".

I due ragazzi che dovevano essere Connor e Travis tremarono quasi dalla paura, e una profonda stima mi si riversò nei confronti di quella ragazza. Le ragazze toste sono i miei esempi migliori. Le stimerei a vita.
Comunque sia, quei due ragazzi dalle zazzere castano chiaro chiedevano perdono.

"Lei è Clarisse" mi sussurrò Silena "e quei due sono Travis - a sinistra - e Connor - a destra - Stoll. Tutti li credono gemelli, ma in realtà non lo sono".

Suo malgrado, Clarisse li lasciò vivere e si avvicinò al frigorifero in cerca di qualcosa da cucinare per colazione. I fratelli Stoll si stavano rialzando da terra, sfiancati dalla corsa, a differenza di Clarisse che sembrava non aver bisogno di respirare dopo una caccia ai criminali.

Mi chiesi cosa fosse successo.

Poi entrò lui

"Buongiorno, professore!" esclamai, un po' con troppo entusiasmo.

Portava una felpa con il cappuccio, pantaloni a bassa vita e una maglietta rossa, dalla quale si intravedevano i pettorali. Sembrava un ragazzo normale, non un professore. Ripensandoci, era troppo giovane per essere un professore. 

Persi un battito.

Mi guardavano tutti male. Tranne lui

Se avessi detto qualcosa come "sono nata prima di mia madre" o "a cinque anni facevo il bagno nella vasca dei pesci"... be', molto probabilmente avrei ottenuto lo stesso risultato. Lui mi guardava come io guardo i capolavori di architettura (s'intende: voglio diventare architetto), gli altri come se fossi impazzita. 

Travis e Connor risero. 

E risero così tanto da cadere di nuovo a terra.

Risero così tanto che iniziarono a piangere, tenendosi la pancia.

Solo le loro risate. Nessun altro parlava o rideva.

 

Travis cercò più volte di dire qualcosa. Quando ci riuscì, tra le lacrime farfugliò "lui non è un professore! Lui è PERCY!" e continuò a ridere. 

Più forte di prima.

Guardai Percy negli occhi. 

Arrivarono Talia e Nico. 

Travis e Connor ridevano.

Arrivò un'altra ragazza, sorella di Nico.

E io mi sentii più che mai presa in giro. 

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Capitolo 3
*** Percy Jackson ***


Percy Jackson



Non era tanto il fatto di aver creduto per un momento che quello stupido ragazzo fosse un professore, ma fu il modo in cui lo scoprii, che mi fece male. 

Ero stata stupida, diamine. Troppo stupida.

Era troppo giovane, e la stupida Annabeth Chase aveva creduto alle sue parole.
Aspettate. Parole?
Mi resi conto solo adesso che ciò che Percy disse non erano parole, ma stupidi monosillabi sotto pressione.

"Be',ehm, si. Io..." 

Diamine. Diamine. Diamine!
Era in imbarazzo! Ho sbagliato io!? Sì, ho sbagliato io. E adesso da quella situazione imbarazzante chi mi ci aveva tolto? Talia! Eh si. Proprio Talia Grace. I discorsi che faccio alla mia mente sono un po' troppo isterici, eh? 
No, non importa. Sono in una fase psicologica importante e dovrei raccontarvi del mio angelo custode Talia, che si prese il permesso di far come se tutto quello che era successo, non fosse mai successo. Capite?

Tra le risate di quegli idioti dei gemelli Stoll, tra le occhiate di Percy e degli altri individui perplessi, tra Nico e sua sorella Bianca, tra tutto quello schifo, ecco che lei si avvicina a me, mi mette una mano sulla spalla e dice: "ragazzi, questa è Annabeth Chase". E, come se avesse chiamato quei due idioti "ehi, tu!", i due signorini dalle zazzere castano si alzarono, smettendo di ridere e avvicinandosi a me. 

Li osservai meglio e constatai che avevano la tipica faccia da schiaffi che i professori amano rimproverare. Quel sorriso beffardo e quelle sopracciglia arcuate conferivano ai due un'aria furba ed espansiva, come se ti potessero incatenare e cogliere di sorpresa in ogni singolo istante. Sembrava che sorridessero sempre, tali erano i tratti del viso.

"Piacere di conoscerti, Annabeth" dissero all'unisono.
"Una curiosità" iniziò Travis "perché pensavi che Percy fosse un professore?" soffocò una risata.

Respinsi quella vocina malefica che mi diceva "uccidilo, uccidilo!" e ascoltai quella buona che diceva "resta ferma e controllati". Purtroppo.

"Cos..." Talia guardò prima me, poi Percy, poi i fratelli Stoll. 
"Sono felice di conoscerti, Annabeth Chase" si avvicinò una ragazza "io sono Bianca Di Angelo, sorella di Nico. Per la colazione dobbiamo darci da fare noi, quindi se vuoi una mano..." guardò il grembiule da cuoco che avevo ancora in mano. 
"Oh, no, grazie. So già cucinare da sola" sorrisi. Anche Bianca mi aveva salvato da quell'inferno.
Era una ragazza non molto alta e aveva gli stessi capelli e gli stessi occhi neri del fratello Nico.

La folla attorno a me si disperse e non mi risparmiai di rivolgere un'occhiata a Percy. Lui si era già voltato e distribuiva i grembiuli, tirandoli come se fosse la cosa più figa da fare.

E così cucinai dei pancake. 

Quando mi sedetti dinanzi ad uno dei tavoli, alla mia sinistra prese posto proprio Percy. 
Una punta di fastidio si insinuò sotto la mia pelle. 
Con che faccia tosta si sedeva accanto a me?

"Piacere, Percy Jackson" mi tese la mano e io in tutta risposta lo guardai male, senza dire nulla.

Probabilmente aveva già capito le mie intenzioni omicide.

"Sei Annabeth".
"Sono Annabeth" confermai.
"Allora parli!".

Avevo già scritto il suo nome sul libro nero. Bastava un altro po' e sarei scoppiata.

"Parlo" confermai. Mi guardò divertito e io iniziai a mangiare i miei pancake, lui la sua insalata.
"Sei vegetariano?" domandai.
"Sei californiana?" domandò lui.
"Sei vegetariano?" domandai di nuovo.
"Sei californiana?" domandò di nuovo lui.

Strinsi i pugni.

"Risponderò alla tua domanda solo se tu rispondi alla mia" disse.
"Lo stesso vale per me" ribattei.

Roteò gli occhi con fare divertito.

"No, non sono vegetariano. Mi piace la lattuga".
"Vada per Testa d'Alghe" mormorai.
"Cosa?".
"Vada per Testa d'Alghe, ho detto!" dissi più forte.
"E cos'è, un servizio terme?" chiese Percy, un po' beffardo.
"È il tuo soprannome, idiota!" disse un ragazzo di fronte a noi, godendosi la scena, divertito. 
"Piantala, Luke!" gridò Percy, rivolgendosi al ragazzo che aveva parlato.

Questo si avvicinò e si sedette di fronte a noi.
Aveva i capelli biondi, gli occhi chiari e una cicatrice lunga che andava dal sopracciglio fin sotto lo zigomo destro. Nonostante questo, era molto bello.

"Mi spiace disturbare, ma non potevo non presentarmi" sorrise "mi chiamo Luke Castellan. Tu dovresti essere Annabeth Chase, giusto?".
Annuii. "Si, Annabeth" tesi la mano, che lui strinse. 

Luke inziò a mangiare la sua fetta di carne al sangue.

"Non mi hai ancora risposto, Chase" fece Percy, infastidito dalla presenza di Luke che adesso cercava di attirare la nostra attenzione facendo rumore.
"A cosa dovrei rispondere, Testa d'Alghe?" dissi, mettendo in bocca un pezzo di pancake.
"Ehi!" protestò lui. 
"Te l'avevo detto, amico!" disse divertito Luke, scuotendo lievemente la testa.

Percy sbuffò. Quel nome non gli piaceva affatto. Mi compiacqui.

"Sei californiana?". 
"Si, giusto. Sei californiana?" si intromise di nuovo Luke.
"Vengo dalla Gran Bretagna" dissi. 
"Ah. E che facevi lì?" chiese Luke.
"Studiavo" risposi.
"Divertente" commentò Percy, ironico.
"Che studiavi?" domandò Luke.
"Le solite cose che si studiano a scuola più qualcosina di architettura".
"Architettura? Davvero?" chiese Luke, palesemente interessato.

In tutta risposta annuii. Luke fischiò piano.

"È la prima volta che mi capita di incontrare una bella ragazza come te che cerca di diventare architetto" disse. Mi guardava fisso negli occhi. 

Accanto a me si sedette Talia. 

"Meno l'interessato, Luke" disse lei.
Lui rise. "Sei gelosa, Tals?".
"Sono fidanzata" ribatté con orgoglio.
"Con chi?!" fece Percy sorpreso. 
"Nico" rispose lei.
"Finalmente! Era ora che vi deste una mossa!" disse Bianca, lì vicino, sedendosi accanto a Talia e addentando il suo sandwich agli arachidi. 

Luke guardava Talia sbalordito. 

"Ci hai dato dentro!" sorrise.
"Fatti un po' gli affari tuoi, Castellan!" ribatté ancora lei.

Finii i miei pancake e andai verso la mia stanza.
Mi lavai i denti, afferrando un buon libro e iniziando a leggerlo dal sesto capitolo.

 

Dopo un po' di tempo qualcuno bussò alla mia porta. 
Aprii, uscii nel corridoio, mi guardai intorno ma non vidi nessuno. 
Mi girai per tornare indietro, ma davanti a me, sulla soglia della porta, c'era un Percy Jackson che sorrideva.

"Cosa vuoi, Percy?" domandai seccata.
"Metterti in guardia da Luke. Ci prova con tutte" disse.
"Non sono affari tuoi" alzò le mani in segno di difesa. 
"Non dire che non ti avevo avvertita".
"Io e te abbiamo da dirci qualcosa" constatai, incrociando le braccia.
"Ahi ahi ahi, ti stai arrabbiando, eh?" fece lui.
"Da cosa l'hai capito?".
"Le tue braccia non presagiscono niente di buono".

Lo spinsi dentro la stanza, chiudendo la porta.

"Cosa ci facevi nell'ufficio del preside, ieri sera? Sembravi un po' in imbarazzo quando hai "detto"" e sottolineai 'detto' facendo virgolette immaginarie con le dita "che eri un professore!".
"Non sono affari tuoi, Chase" disse piano.
"C'è qualcosa. E sta' sicuro che capirò di cosa si tratta".
"Ti metti in guai seri, sono cose più grandi di te, Annabeth! Smettila di stressarmi e lascia stare questa storia!" gridò.

Vide la mia espressione ferita e disse "senti, scusa, ma tutto ciò è più serio di quanto tu pensi".

Bussarono di nuovo alla porta.

Aprii. Era Talia.

"Annabeth, c'è lezione di matematica tra dieci minuti. Ti aiuto con la strada?" disse, guardando poi Percy.

"Si, vengo subito" risposi. 

Uscimmo dalla stanza. Ci guardammo un'altra volta.

 

"Tieniti pronto, Testa d'Alghe". 

 

E partii alla volta verso la mia materia preferita.

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