Diversi.

di drawandwrite
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Kyla Ward. ***
Capitolo 2: *** Dubbi e sospetti. ***
Capitolo 3: *** Aggressione al buio. ***
Capitolo 4: *** Domande e misteri. ***
Capitolo 5: *** Vampiri. ***
Capitolo 6: *** La domanda più importante. ***
Capitolo 7: *** Voraci. ***
Capitolo 8: *** Cosa dovrei pensare? ***
Capitolo 9: *** Conoscenza. ***
Capitolo 10: *** Decisione. ***
Capitolo 11: *** Al tavolo dei Voraci. ***
Capitolo 12: *** Felix. ***
Capitolo 13: *** Lacrime. ***
Capitolo 14: *** Alzare il sipario. ***
Capitolo 15: *** Tentazione. ***
Capitolo 16: *** La guerra è cominciata. ***
Capitolo 17: *** Il ragno e la mosca. ***
Capitolo 18: *** Toccare il fondo. ***
Capitolo 19: *** Mamma. ***



Capitolo 1
*** Kyla Ward. ***


Prima settimana alla Toussand.
Getto un’occhiata a ciò che è offerto sul bancone della mensa, tentando di decifrare i nomi delle pietanze sofisticate che mi guardano dal lato opposto del vetro. Non sono mai stata un’esperta di cucina, nemmeno di quella semplice e quotidiana di mia madre, che in confronto a ciò che mi sta offrendo la donna dietro il bancone potrebbe impallidire nettamente.
Nemmeno i nomi sulle targhette mi suggeriscono minimamente di che cibo si tratti. Dovrò farci l’abitudine, poco male.
Con mezzo sospirò spazientito, appoggio il vassoio sul vetro curvato.  –Mi dia quello che le pare, mi basta che non contenga fragole, sono allergica.-
La donna pare stizzirsi per un attimo, quasi indignarsi, ma sembra che alla fine abbia intenzione di passare sopra la mia inconsapevole insolenza, forse convincendosi inutilmente che, in fondo, quella era solo la mia prima settimana di soggiorno in quella scuola, con il passare del tempo avrei decifrato le pietanza in offerta, decidendomi a capire che fossero di alta e ricca qualità. E così, prima o poi, avrei ordinato consapevolmente un piatto dalle offerte della mensa.
Ma non oggi.
Afferro il vassoio, ringrazio con un mugugno e mi siedo all’unica cosa che sia già diventata usuale in quella breve settimana: il tavolo piccolo e isolato all’angolo della sala.
Non me la prendo per il fatto che nessuno sfiori lontanamente l’idea di sedersi accanto a me: sapevo che sarebbe finita così, sin dal momento in cui superai a pieni voti quel test scolastico.
Proprio così: io, Kyla Ward, sono entrata a far parte di una delle scuole più prestigiose superando un test, un semplice test di cui i miei precedenti compagni faticavano persino a decifrare le domande.
Fu prorpio quello stacco così netto fra me e gli altri alunni, una crepa profonda che stava allungando le sue ramificazioni, che accese l’idea in quel cervello frenetico del mio professore di matematica.
Harold Brown, così si chiamava. Mi adorava. No, peggio: mi osannava.
Riuscivo a superare senza difficoltà test, prove scritte e interrogazioni, uscendone costantemente a pieni voti e portandolo a toccare il cielo con le dita, dal momento che ero la sola ed unica soddisfazione della sua triste vita da insegnante.
Ad ogni modo, quando la terza superiore stava tramontando per tuffarsi nella pausa estiva, Harold ci ha sorprese tutti con uno dei test più difficili che ci avesse mai proposto. O almeno così disse, io non lo trovai così complicato, in fondo.
Fui l’unica a riuscire a superarlo e il giorno dopo il preside mi richiamò nel suo ufficio. C’era anche l’insegnante Brown che mi osservava con occhi luccicanti di orgoglio e ammirazione.
Mi dissero che il test proposto dall’insegnate era di pari difficoltà al test di ammissione della Toussand, una scuola ricca e prestigiosa, da cui, si diceva, fossero usciti geni e uomini di successo.
Io lo avevo superato a pieni voti e senza difficoltà.
Dissero che c’era la possibilità di farmi entrare a far parte di quella scuola, che i miei risultato interessavano particolarmente agli insegnanti della Toussand, disposti a dimezzare il costo della mia ammissione alla scuola.
Costo che, anche da dimezzato, mi parve decisamente eccessivo.
Risposi che ci avrei pensato.
A dire il vero, non mi interessava particolarmente, sono intelligente, studiare non mi dispiace, ma non si può certo dire che sia la mia più grande passione.
Studiavo perché dovevo farlo.
Avevo già una mezza idea di rifiutare la proposta, il costo di ammissione era mostruoso. Ma, come arrivai a casa, i miei genitori furono talmente entusiasti della notizia che si dissero disposti a pagare il necessario. Mi spronarono ad accettare, a non sprecare quell’incredibile opportunità che mi veniva offerta.
Non volevo deludere i miei genitori.
Accettai.
Accettai anche se avevo già intuito che non mi sarei mai trovata con i mie i futuri compagni.
La Toussand è una scuola prestigiosa e autorevole, la gran parte degli studenti sono dei geni, ma soprattutto dei geni ricchi che derivano da famiglie importanti. Sono raffinati, educati, contegnosi e dal vestiario impeccabile.
Io derivo da una modesta famiglia, sono intelligente, ma non si può certo dire che sia la persona più composta ed educata. Ho un carattere piuttosto freddo, noncurante e decisamente acido, che irrita il più delle persone che si aggirano in questa scuola. Odio il fatto che nessuno, qui dentro, si lasci mai andare, odio il fatto che sembrino tutti delle dannate fotocopie, nei modi di fare, nell’esprimersi e nell’abbigliamento.
L’abbigliamento. Un altro dei punti a mio sfavore.
Ho sempre avuto uno stile piuttosto personale, particolare … colori tendenti al nero, spesso attraversati da ricami di rosso acceso, cuciture evidenti, spille frequenti sui tessuti stretti. La gente definirebbe il mio stile qualcosa di “gotico”, ma io lo vedo come uno stile personale, un amalgama di ricami, bracciali di cuoio e strati su strati di tessuto scuro.
E, a causa di questo mio stile, sono come una macchia scura che risalta sullo sfondo monocromo della normalità. Spicco, in mezzo alla folla, e con il tempo gli altri alunni hanno preso ad evitarmi o a gettarmi sguardi critici.
Situazioni del genere dovrebbero turbare un’adolescente, in teoria. Ma la cosa non mi sfiora minimamente. Nemmeno nella scuola precedente avevo legato e , ad essere del tutto sincera, non ci tengo affatto. Studio e mi alleno in palestra, non ho bisogno di altro.
Alzo lo sguardo dal mio vassoio e mi scontro con due occhi verdi e fugaci, due occhi soliti offrirmi la propria attenzione per qualche secondo, senza alcun timore né imbarazzo. Sono occhi che mi studiano spesso, ogni volta che mi trovo nella loro traiettoria.
Abbasso leggermente le palpebre, mentre ricambio lo sguardo di uno dei sette ragazzi seduti al tavolo poco distante dal mio. Quattro ragazzi e tre ragazze che sembrano avere il mi stesso stampo: derivano da famiglie ricche, lo posso dedurre dalla ottima fattura delle loro vesti, ma sono diversi dagli altri, mangiano in silenzio senza offrire la propria attenzione a nessun’altro.
Ogni tanto li ho incrociati, si muovono assieme, come animali in un branco, e incutono soggezione agli altri studenti.
Non ci ho mai parlato, con nessuno dei sette, ma ogni volta che ci sediamo in mensa qualcuno di loro mi getta un’occhiata rapida e interessata, come se mi stessero studiando, esaminando. I primi giorni non ci ho fatto caso, ma alla fine della settimana ho persino cominciato a ricambiare l’attenzione, e spesso mi ritrovo a fissare con fare indagatore gli occhi verdi del ragazzo biondo seduto esattamente di fronte a me.
Sembra ridicolo, ma la cosa non mi infastidisce affatto.
Non sono sguardi critici, di disappunto, sono sguardi enigmatici e interessati. Per questo motivo, mi sento quasi legata a loro con un pizzico di complicità.
Suona la campanella. Abbasso lo sguardo sul mio piatto: non ho mangiato praticamente nulla. Con una mezza smorfia, raccolgo il tutto e lo getto via.
Con la coda dell’occhio, noto i sette ragazzi passarmi accanto, hanno un profumo particolare, che non saprei identificare, ma non è sgradevole. Una delle ragazze volta il profilo nella mia direzione e mi studia con i suoi occhi grigi.
Poi le loro schiene scompaiono nel corridoio.


NOTE: avviso chi voglia seguire questa storia che non garantisco di pubblicare rapidamente i capitoli, ma lo farò non appena avrò tempo :) In ogni caso sono tranquillamente aperta a critiche di ogni genere e spero di trovare qualche recensione, grazie!
al prossimo capitolo!
Drawandwrite. 

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Capitolo 2
*** Dubbi e sospetti. ***


Seconda settimana alla Toussand.
Ho affrontato quattro prove scritte e due interrogazioni orali. Il livello è più alto rispetto alla scuola che frequentavo prima, ma me la sono cavata egregiamente, tanto da sorprendere gli insegnanti. Probabilmente non si aspettavano che una persona così fuori dalla norma potesse esser persino intelligente. I risultato sono stati appesi sulle bacheche di ebano nei corridoi.
Credo che il fatto che, al momento, io abbia la media più alta della classe nonostante non avessi una preparazione alle spalle pari agli altri studenti, non debba avermi messa in una luce più positiva rispetto a prima.
Poco male, come ho già detto i contatti sociali non mi interessano.
La campanella suona e, impazienti, gli studenti si alzano, e ordinatamente escono dalla classe per dirigersi in mensa, chiacchierando con classe e conoscenze culinarie a proposito di cosa avrebbero messo sotto i denti di lì a poco.
Io sbuffo. Che noia. Che incredibile noia. Perlomeno nella scuola precedente era possibile che qualcuno inciampasse maldestramente, o rimanesse impigliato nelle maniglie delle porte, cose del genere …
Qui invece sembra tutto così regolare e perfetto da darmi la nausea.
Il professore mi squadra da sopra i sottili occhiali –Ward, non vai a pranzare?- mi chiede, lisciandosi le pieghe della camicia professionale.
Io mi riscuoto. Annuisco sbrigativamente e mi affretto ad uscire dalla classe.
L’ora successiva mi aspetta un test scritto di fisica, ripasso mentalmente i concetti basilari e un vortice di formule mi invade la mente. Non ho mai fatto fatica a studiare, mi è sempre bastato dare una lettura rapida perché la mia memoria registrasse il tutto senza più lasciarselo scappare. Forse è anche per questo che la mia classe mi detesta tanto.
i corridoi sono vuoti; devono già essere tutti in mensa, puntuali ed impeccabili come solo gli studenti della Toussand possono essere.
Mi dirigo con passo pigro verso la sala da mensa ma, ad un tratto, dall’angolo a destra sbucano sette sagome slanciate, quattro ragazzi e tre ragazze, vestiti di bianco, simili fra loro, con la stessa aria enigmatica e lo stesso fare impassibile.
Io rallento l’andatura fin quasi fermarmi.
Una delle ragazze, i lunghi capelli biondo cenere che le si srotolano sulla schiena in volute eleganti, mi rivolge la sua completa attenzione, seguita a ruota dal ragazzo biondo che è solito fissarmi.
Ci fermiamo davanti alla porta della mensa. Segue un attimo di silenzio teso e fermo, l’aria sembra frizzante quando loro sono nei dintorni, si riempie improvvisamente di elettricità.
Alzo il capo e incrocio il mio sguardo con il loro. Non dico nulla, non faccio nulla.
Il più alto dei sette, l’unico a non aver mai avuto il minimo interesse nei miei confronti, serra il libro che stava leggendo e punta i suoi occhi neri come la notte su di me.
D’improvviso, una strana sensazione.
Paura? Soggezione?
Mi sento totalmente sottomessa davanti a quei due buchi profondi ed ignoti come pozzi. E non ne capisco il motivo. È la prima volta che guardo quei ragazzi così da vicino, hanno qualcosa di diverso rispetto agli altri, anche se non riesco ancora a capire cosa.
Ho il respiro ingabbiato nei polmoni, ma sono conscia del fatto che, esternamente, il mio viso sia una maschera immota e fredda.
Sento l’aria che scoppietta attorno a me, una tensione che quasi mi stringe in una morsa. Non è una sensazione sgradevole. È gradevole? Non ne sono sicura.
Senza una parola, il ragazzo mi fa segno di entrare per prima in mensa, dandomi la precedenza.
Non fiato. Sbatto le palpebre e ubbidisco, voltando loro le spalle come un automa.
 
Hortense bussa cauta alla porta scura. Dall’interno non trapela il minimo rumore, solo il respiro fermo e regolare di Elijah.
Alle sue spalle Derek si liscia le pieghe della camicia in un gesto sovrappensiero, gli occhi verdi fermi e attenti.
La ragazza trae un mezzo respiro e fa per bussare nuovamente ma ,come appoggia le nocche sul legno, la porta si allenta e, cigolando, si apre di pochi centimetri, lasciando che una fioca lama di luce scivoli nella penombra dei corridoi.
Scambia un’occhiata con Derek ed entra nella sala. La luce è debole, come se in quella realtà il sole fosse stato avvolto da un drappo opaco che ne soffoca il chiarore irruente. 
E là, nell’ordine vuoto e scuro della stanza, lui regna composto, gli occhi scuri fra le pagine di un libro e l’espressione totalmente priva di calore.
Hortense si schiarisce la gola.
 -Elijah- esordisce in tono rispettoso –Possiamo avere qualche minuto del tuo tempo?-
Lui inclina il capo e li guarda da sopra la spalla. Senza una parola, indica ai due di sedersi sul divano morbido e ricamato, di fronte alla poltrona su cui è seduto.
-Qual è il problema?- li incoraggia, riponendo il libro.
-Derek crede … - inizia Hortense.
-Lo pensi anche tu- la interrompe lui, gli occhi verdi che la accusano.
La ragazza sospira –Pensiamo di averne individuato un altro-
Elijah si fa attento. –Di chi si tratta?-
-Di Ward- risponde Derek, prontamente.
Un sopracciglio sottile di Elijah si inarca, ma non sembra molto sorpreso.
Hortense abbassa lo sguardo, già pentita di aver appoggiato Derek. Elijah sa quello che fa molto più di loro. Ha una vasta esperienza, un acume sottile ed è il migliore fra di loro. Se ne fosse uscito allo scoperto un altro, lui ne sarebbe stato sicuramente già al corrente.
-Nutrite un particolare interesse per quella ragazza, vero?- deduce Elijah con voce pacata –Vi sbagliate sul suo conto-
-Il fatto è che … - ribatte Derek, mentre la sua iniziale determinazione comincia ad incrinarsi –Mostra tutti i segni, tutti i comportamenti soliti di … -
-Kyla Ward non è una di noi- taglia corto lui, calmo ma fermo –E nemmeno una di loro. È diversa, è vero, ma non come lo siamo noi. È fuori dal nostro mondo, è una semplice e pura umana.-
Hortense china il capo, ma Derek ancora non sembra convinto. La ragazza spera ardentemente che non osi andare oltre e contraddire Elijah, spera che abbia il buonsenso di rispettare lui e le sue decisioni.
-È tutto?- chiede infine, composto e impassibile.
-È tutto- conclude Hortense, afferrando Derek per un polso e uscendo dalla stanza.   

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Capitolo 3
*** Aggressione al buio. ***


Terza settimana alla Toussand.
Ormai è quasi un mese che frequento questa scuola. Ancora nessuno ha racimolato coraggio per venire a scambiare qualche parola con me, ma i miei compagni di classe stanno cominciando ad abituarsi alla mia presenza fuori dalla norma e non mi lanciano più sguardi obliqui.
Tanto meglio, la cosa non mi toccava prima e non mi tocca ora.
Esco dalla stanza dei dormitori dove alloggio e passo in rassegna le piccole caselle della posta appese al muro. C’è una lettera per me.
È di mia madre. Ha sempre amato questo tipo di cose, nonostante l’invenzione dei cellulari o di mezzi di comunicazione veloci e comodi, insiste nel scrivermi lettere. Dice che è più personale, che con la sua calligrafia e con eventuali allegati riesce a distinguersi da un banale messaggio al cellulare.
Poco male, comunque: i cellulari sono decisamente vietati nella Toussand, si possono solo usare nei dormitori o al di fuori della scuola, ma spesso sono occupata a studiare e lascio il cellulare a marcire in una tasca.
La lettera è lunga ed elegante. Mi chiede come mi trovo a scuola, mi chiede di raccontarle com’è la vita in un edificio di lusso e di mandarle i risultati delle varie prove, anche se lei e mio padre sono sicuri che non troverò nessuna difficoltà.
Be’, hanno ragione. Finora è filato tutto liscio e sono ancora a capo della mia classe, in quanto risultati. Ma sono seconda in classifica generale e la cosa mi irrita non poco. Rientro nella mia stanza e appoggio la lettera al comodino sobrio che ho accanto al letto. Risponderò quando avrò tempo, per il momento mi limiterò a scendere al piano terra, per studiare in un luogo tranquillo come la biblioteca. Qualcuno mi ha informata del fatto che esista una sala finalizzata allo studio, nella Toussand, che utilizzano tutti gli studenti. Ma è prorpio per questo motivo che cerco di evitarla: entrare in un luogo zeppo di quelle persone perfette e contegnose mi dà la nausea.
La biblioteca è un luogo ampio e maestoso, ma è l’unico angolo della Toussand che mostri un filo di polvere e grandi scaffali privi di fronzoli arzigogolati. Insomma, un luogo più umano degli altri.
Come entro, l’aria pesante mi invade le narici, il profumo della carta e il pizzicore della polvere mi danno l’impressione di essere uscita da quel mondo ordinato e regolare per tornare a casa, quando sgattaiolavo nella biblioteca della scuola per intascarmi qualche libro interessante.
Le vetrate della biblioteca sono enormi, ma il vetro è opaco e la luce che riesce a trapelare è offuscata. Una penombra accogliente che preferisco alla luce ampia e stordente delle sale della Toussand.
Avanzo di qualche passo e mi dirigo con decisione al tavolo incastrato nell’angolo, quello scaldato fiocamente dalla luce che combatte per filtrare attraverso la spessa vetrata, il luogo ideale per studiare.
Ma questa volta mi fermo.
Il tavolo è occupato.
Rimango impalata per qualche secondo, la tracolla colma di libri che mi preme ad un fianco.
Due occhi neri come la pece si alzano dalle pagine e si appuntano su di me, placidi e abissali. È davvero assurdo come io riesca sempre a trovarmi fra i piedi di qualcuno dei sette misteriosi individui della mensa.
Solitamente non c’è mai nessuno alla biblioteca, sono sempre tutti nella sala studio o nei dormitori, ma questa volta, invece, mi sono ritrovata in compagnia.
Mi riscuoto, mentre quello sguardo così acuto sprofonda nel mio cranio come se fosse di burro. Mi volto e, senza una sola parola, mi trovo un altro tavolo, e mi curo di sedermi dietro uno scaffale, perché sento quello sguardo che mi brucia fra le scapole e avverto l’anonimo bisogno di sfuggirgli.
 
L’occhio mi cade sull’antico orologio appoggiato alla parete. Sono qui da tre ore a studiare ininterrottamente, credo che possa bastare.
Mi alzo e non riesco ad evitarmi di scoccare una rapida occhiata al ragazzo seduto all’angolo; sembra che non sia passato un secondo da quando sono entrata. Non si è mosso di un centimetro, l’unico cambiamento è la pila di libri al suo fianco che è aumentata.
Lo sguardo non mi viene ricambiato, e io esco il più silenziosamente possibile.
Raggiungo frettolosamente l’atrio della Toussand e mi avvicino alla segreteria, dove una donna alta e severa siede, compilando documenti.
Le mostro il permesso di uscita dalla scuola e lei non fa altro che annuire con distacco, permettendomi di varcare le soglie della scuola.
Finalmente il mondo sembra mostrare i piccoli difetti che lo definiscono tale, il movimento confusionario del traffico e le insegne a luci al neon dei bar che mancano di qualche lettera.
Ingoio una gran boccata d’aria fresca, sorrido e corro in palestra.
Ad accogliermi è Felix, una persona che da quando mi sono trasferita alla Toussand potrei definire qualcosa di vicino ad un amico. Ha il volto completamente spruzzato di lentiggini ma ha dei bei lineamenti e capelli rossi sono sempre disordinati in una zazzera scomposta, forse è anche per questo che mi piace come persona: il disordine è il suo regno.
Mi fa un cenno di saluto con il capo, mentre mi dirigo agli spogliatoi.
Mi avvolgo rapidamente le nocche in una fascia bianca e in pochi minuti sono pronta, il sacco pesante appeso alla parete e i bastoni lunghi appoggiati in un angolo; se qualcuno della Toussand sapesse che mi cimento nelle arti marziali miste potrebbe svenire ed espellermi non appena si fosse ripreso.
 
Con un sospiro di sollievo entro sotto il getto caldo della doccia, lasciando che lavi via sudore e fatica, rilassando i muscoli tirati. È così che riesco a sopravvivere alle pressioni della Toussand, la palestra è l’unico mezzo che conosco per sfogare la mia energia. È come una via secondaria e segreta verso cui incanalo malesseri, e che mi garantisce una calma fredda e una lucidità ferma.
Mi asciugo rudemente i lunghissimi capelli color del platino e li raccolgo in un coda allentata. Mi sento bene, fresca e rinata come sotto una pioggerella rigenerante.
Ringrazio Felix e lo saluto con un sorriso, mentre esco all’aria fredda della città. Il tramonto arrossisce dietro i palazzi e la sera comincia ad allungare le sue braccia avide sul cielo, portando con sé il baluginio delle prime stelle.
C’è sempre qualcuno che fa turno in segreteria, quindi rientrare alla Toussand non sarà un problema, ma so che non rallegrerò la segretaria rientrando così tardi, gli studenti ordinari vanno a letto alle dieci in punto.
Vedo la scuola in lontananza, sono quasi arrivata, ma un fruscio sospetto attira la mia attenzione.
Mi volto.
Una sagoma caracollante si staglia sul cielo serale, avvicinandosi.
È un ragazzo, sembra giovane, ma qualcosa nel suo viso è sbagliato, trasfigurato, come folle. Un sorriso sghembo gli si taglia sul volto e gli occhi lampeggiano di una luce maligna.
Non sembra affatto avere buone intenzioni. 
-Cosa ci fa qui una bella ragazza tutta sola?- chiede, la voce è fremente e il corpo nervoso.
Ecco. La classica battuta da aggressore di turno.
-Non ci faccio nulla. Gira al largo- rispondo, asciutta. E mi sorprendo della calma glaciale che ostenta la mia voce, perché avverto l’agitazione che comincia a circolare in me.
Il sorriso dell’altro si allarga ancora, e la sua bocca sembra smisurata sotto quel ghigno. Noto con disgusto un rivolo di bava che fa capolino dalle sue labbra e … Mi sembra di scorgere qualcosa. Un luccichio pallido e affilato fra le sue labbra. Ma non riesco a vedere oltre, l’aggressore mi si avventa contro con una velocità disumana.
Il tempo sembra rallentare, come se tutto fosse immerso in un mare di melassa. L’urlo del ragazzo mi rimbomba feroce e acuto fra le tempie, mentre le sue braccia si protendono ingorde verso di me.
Reagisco senza pensarci. Il mio cervello non ha ancora formulato nessun pensiero, che il mio corpo già sta agendo, nervoso e scattante.
Gli anni di allenamento riaffiorano in me, precisi e chiari come istruzioni. Una rapida torsione, un guizzo di muscoli.
Il mio gomito affonda rapido nel corpo dell’altro, tappandogli la bocca dello stomaco con violenza.
Il tempo riprende a scorrere, la consapevolezza mi afferra mentre il corpo del giovane si accascia sul mio braccio e il suo urlo gli muore fra le labbra. 
Improvvisamente, un gemito soppresso e lo scalpiccio rapido di una rincorsa alle mie spalle.
Mi volto mentre già la mia gamba descrive un istintivo arco nell’aria, un perfetto calcio circolare.
Lo stinco si scontra con il corpo freddo di una ragazzina, il volto trasfigurato in una smorfia iraconda e gli occhi rossi come il sangue. Ha la bocca spalancata, la mascella tirata.
Canini.
Ha due canini lunghi e mostruosi.
Per un attimo, il sangue mi si gela nelle vene. È una vista raccapricciante; il volto angelico di una ragazzina smarrita e feroce come un animale. 
Voglio allontanarla, non la voglio vicina, mi terrorizza.
Imprimo più forza alla mia gamba e il calcio la spedisce lontana di qualche metro, mentre io stessa balzo indietro per riprendere le distanze.
Che succede?
Che diavolo succede?
Non sto nemmeno ansimando. Solo ora mi accorgo quanto gli allenamenti mi abbiano trasformata in una perfetta macchina da guerra. La mia coscienza è rinchiusa in un angolino della mente, il predominio è del corpo, dei muscoli e dei nervi.
Il primo dei due aggressori si rialza, una mano che ancora stringe l’addome. Faccio un passo indietro. Avverto il sangue pompare frenetico nelle mie vene. Mi sento fredda, glaciale, le mie gambe sono piantate nel terreno come due sbarre di ferro, la mia mente è attenta e lucida, pronta a carpire il minimo movimento.
In un lampo, il ragazzo si lancia su di me.
Scarto di lato, lo schivo, ho tutto il tempo di vedere le grinze folli sul suo volto, quegli agghiaccianti canini che si protendono bramosi, la piega disumana della mascella.
Sono rapida, l’aria mi scivola addosso e mi sento un’anguilla. Io stessa mi sorprendo della velocità con cui mi muovo.
L’aggressore si frena, è potente, come una molla rimbalza a ritroso allungando le dita nodose e senza il tempo di un respiro mi è addosso.
Sguscio ai suoi tentativi di afferrarmi, tenta di stringermi in una morsa, il collo scatta di continuo e i denti sibilano minacciosi.
Comincio ad avere paura. Ma ancora non è abbastanza per fermare il mio corpo.
Reagisco, lo afferro di spalle, il mio braccio si stringe attorno al collo come un serpente letale, lo stringo con forza, lo immobilizzo mentre lui si ribella, si agita, urla.
Con il ginocchio colpisco l’incavo della sua gamba una, due, tre volte, finché non mi assicuro che il nervo sia danneggiato quel tanto che basta perché non regga il peso del ragazzo. Lo sento crollare sotto la mia presa.
Un movimento taglia l’aria a destra, mi slaccio dalla mia vittima in tempo per evitare che la ragazza mi morda selvaggiamente la carne.
Queste persone hanno qualcosa di sbagliato. Sono selvagge, fameliche.
Disumane.
Batto le palpebre, è una frazione di secondo, ma basta perché la ragazzina mi sia addosso con una forza inaudita, mi abbatte, il contraccolpo mi strappa il respiro per qualche istante, batto la testa e mi sento stordita.
Un dolore mai provato prima, vivido e pulsante.
Un fondo di nausea, la vista si offusca.
Ora ho paura.
Gli occhi accesi come braci mi fissano, folli di desiderio, il corpo della ragazza freme su di me, le zanne sono lì, pronte per affondare in me. È una visione orripilante, di quelle che rimescolano le viscere e ghiacciano il sangue nelle vene. Ha una tale follia, una tale irrazionalità nello sguardo che, per un attimo, me ne sento sopraffatta.
Il respiro mi traspira dai polmoni, I capelli mori dell’assalitrice si confondono in un groviglio scuro, con un guizzo rapido si spinge avanti, mira al mio collo, i canini nudi e acuminati. Snuda le zanne come un animale.
È un istante, un colpo di reni, mi ribello con la forza della paura e della disperazione.
Prima che possa serrare le mandibole, le sferro un pugno sul volto, violento, brutale, uso  tutta la forza che il mio corpo ha da offrire.
Un colpo terribile, sento un crepitio sotto le nocche, il capo della ragazza viene sbalzato di lato, rotola per qualche metro e giace immobile sul ciglio della strada.
Sono impietrita.
Ora che tutto è finito, quello che ho fatto prende consistenza. La paura trova una via nel gelo della mia violenza, mi afferra e mi sottomette.
Sento le lacrime salate lambire i miei occhi, fissi alle stelle che mi guardano, fredde e distanti, quasi beffarde.
Un rantolo mi costringe alla realtà, il bastardo sta strisciando con la forza delle braccia nella mia direzione, la bava che corre sul mento, lo sguardo folle e bramoso.
Devo riprendermi.
Devo alzarmi.
Devo reagire.
Mi fa male la testa, sento la nausea montare sul fondo della gola. I contorni della realtà sono indefiniti, si consumano in macchie di colori ammassati.
Uso i residui della forza che mi è rimasta, rotolo di lato, tento di alzarmi ma un capogiro mi rigetta a terra.
Batto ancora la testa.
La mia vista si sta offuscando, ma sento chiaramente il respiro affannoso del ragazzo che si trascina nella mia direzione.
Ho paura.
Con le unghie mi aggrappo all’asfalto, tento di strisciare via, fuori dalla portata del mostro che mi bracca, una lacrima di frustrazione mi brucia una guancia.
Aiuto.
Muoio.
Non ne posso fare a meno. Sono debole, stanca. Mi lascio andare, stesa sull’asfalto freddo, il velo della notte a coprirmi il corpo come un sudario.
È finita.
Mentre la coscienza mi scivola dalle dita, nel mio campo visivo entrano delle scarpe lucide, dei pantaloni bianchi con un bordo nero.
Poi è solo buio.
 
Apro gli occhi. Ho la vista velata, come se una patina mi impedisse di vedere chiaramente.
Sono sdraiata, sprofondata in un cuscino morbido e avvolta in lenzuola setose.
Mi tiro su con il busto, ma come mi muovo un dolore lanciante mi attraversa la testa e un conato di vomito mi piega con violenza.
Dio, che schifo.
Sono stordita, faccio fatica persino a trarre un respiro regolare.
Sto male.
-No, rimettiti sdraiata- una voce gentile, la mia vista coglie indistintamente i lineamenti dell’infermiera della Toussand –Hai battuto la testa, devi ancora riprenderti-
Con un tocco premuroso, l’infermiera mi aiuta ad adagiarmi sul letto. La testa mi pulsa da impazzire.
-Cosa …- gemo –Cos’è successo?-
-Shhh- sussurra l’infermiera. Mi posa una mano fresca sulla fronte –Riposa ancora un po’- 

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Capitolo 4
*** Domande e misteri. ***


Quarta settimana alla Toussand.

Guardo il piatto colmo di cibo di fronte a me. Mi viene la nausea al solo pensiero di ingoiare qualcosa, ma dovrei sforzarmi di mangiare. Ho avuto il permesso di lasciare l’infermeria solo ieri, mi sento meglio, anche se sono ancora debole.
Non riesco a ricostruire l’accaduto. L’infermiera ha detto che uno studente mi ha portato da lei di notte, a quanto pare sono semplicemente inciampata e la brutta caduta mi ha causato qualcosa di simile ad un trauma cranico. Ho tentato di sostenere stoicamente che qualcuno mi avesse aggredita, ma lei ha pensato che il delirio fosse fra le conseguenze della botta e non mi ha creduto.
Eppure io ricordo chiaramente quello che è accaduto anche se si tratta di un fatto decisamente improbabile. Non è stato un sogno, la paura e la ferocia erano troppo freschi e netti perché non fossero reali.
Alzo lo sguardo. Al tavolo dei sette, molti mi fissano con insistenza. Oggi, però, non ho la forza di sostenere quegli sguardi, semplicemente mi alzo ed esco dalla stanza, lasciando il vassoio colmo di cibo intatto.
Sono stanca, credo che tornerò nei dormitori per riposarmi un po’. Non ho detto nulla a mia mamma, non ho accennato nemmeno all’infermeria, sarebbe stata capace di correre fino a qua per assicurarsi che la sua “bambina” stesse bene.
Mi sento stordita, la testa mi fa ancora male e ogni tanto i pensieri mi sfuggono dalla mente, come se non riuscissi a ragionare con lucidità. Raggiungo il dormitorio, mi corico per un po’, spiegherò l’accaduto al professore di storia e gli chiederò che la mia prova venga spostata anche solo di un giorno: in questo stato non sono in grado di studiare.
Chiudo gli occhi.
Lentamente scivolo nel tepore del sonno.
Ma è prorpio qui, dove credevo di poter riposare in pace, che il buio dell’incoscienza si fa denso, dando vita a sagome scomposte, gemiti e urli feroci. Nelle tenebre si accendono occhi folli e bramosi.
Sull’unico sfondo monocromo e viscoso del sangue, si tagliano affilati due canini, più pericolosi della lama di una spada e più freddi del ghiaccio.
Un urlo bellicoso, un rantolo smanioso,un volto trasfigurato mi compare innanzi, apre le fauci fino a slogarsi le mascelle e mi si avventa contro.
Il respiro mi si spezza nei polmoni mentre mi irrigidisco in un sol colpo nel groviglio stretto delle lenzuola. Balzo a sedere e d’impulso un conato mi stringe lo stomaco, ma va a vuoto: non c’è nulla nel mio corpo che io possa espellere.
Mi porto una mano al petto.
Merda.
Sono in un vero e prorpio bagno di sudore, i capelli sottili mi si incollano al viso e i vestiti riempiono gli incavi del mio corpo.
Era reale. Era dannatamente reale.
Non sono pazza.
Mi alzo con cautela, raccolgo i capelli in una crocchia allentata e mi infilo vestiti freschi e puliti. Devo davvero avere un aspetto orribile. Mi sciacquo il viso, ma non riesco in ogni caso a riprendermi, sono confusa e, anche se mi brucia doverlo ammettere, dannatamente terrorizzata.
Mi appoggio al lavandino.
D’accordo. Va tutto bene.
Devo avvisare il professore.
Mi alzo, tento di darmi un contegno composto, ed esco dalla stanza. Ma non appena mi richiudo la porta alle spalle, con la coda dell’occhio catturo un guizzo, mi spavento e reagisco di conseguenza.
Balzo indietro in un sussulto, le braccia tirate come armi pronte alla battaglia.
Ma quello che mi ritrovo davanti è uno dei sette ragazzi della mensa, appoggiato con fare spavaldo alla parete, gli occhi verdi e risoluti sotto i capelli color paglia.
Mi rilasso con un sospiro. Credo di aver sfiorato l’infarto. Gli volto le spalle e faccio per imboccare il corridoio per le sale degli insegnanti, ma mi si parano di fronte due ragazze, entrambe più basse di me, spalleggiate da un terzo individuo, moro, i capelli tagliati corti e gli occhi castani.
Mi arresto sul posto. Mi stanno sbarrando la strada?
Una delle due ragazze mi si avvicina. Ha uno sguardo vacillante, quasi insicuro, ma non si ferma.
-Chi sei davvero, Kyla?- mi chiede, la voce tesa, mentre gli occhi grigi mi scrutano indagatori.
Inarco le sopracciglia. Che diavolo vuol  dire “chi sei?”.Cioè, si sono limitati a fissarmi come un oggetto in vetrina per un mese e la prima cosa che viene loro in mente di chiedere è “chi sei?”. Sul serio, io questi non li capisco.
-Scusa?- rispondo, molto brillantemente. Gli altri mi si stanno stringendo attorno in cerchio, comincio ad essere angosciata.
-È una domanda semplice, Ward- interviene il ragazzo biondo, serio –Sei una di Loro?-
Segue un breve stacco di silenzio.
Loro?
Sono sempre più confusa. Tutta quest’attenzione incomprensibile mi toglie il fiato e mi irrita davvero.
-Non capisco … - dico sinceramente, a mezza voce.
Ho un capogiro. La vista mi si sottrae per un secondo, un secondo solo, ma la realtà pare girare vorticosamente attorno a me, come una terribile giostra, le quattro sagome si allungano e torreggiano minacciose, sovrastandomi e soffocandomi.
L’iniziale smarrimento cede il posto all’irritazione, e man mano ad una cieca esasperazione.
-Si può sapere che cosa diavolo volete?- ringhio, furiosa. L’eco della mia rabbia striscia sulle pareti dei dormitori e le espressioni dei quattro ragazzi si fanno dure d’improvviso.
Mi appoggio al muro, lo sforzo di agitarmi ha peggiorato la situazione: la testa riprende a pulsare e i sensi si confondono in un amalgama impreciso. 
Non ora.
Andiamo, Non ora.
-Cosa state facendo?-
Una quinta voce. Diversa, calma ma terribilmente autoritaria.
I quattro ragazzi si tendono sul posto e si voltano di scatto. Sembrano quasi spaventati.
Sbatto le palpebre più volte per delucidarmi lo sguardo, ma mi sento debole e stordita. Sul fondo del corridoio avanza senza fretta il ragazzo dagli occhi neri, stringe mollemente un libro della biblioteca in mano e con l’indice tiene il segno fra le pagine fragili.
-Elijah- geme una delle ragazze a mezza voce.
-Noi stavamo solo …- tenta il ragazzo biondo.
-Mi sembra- lo interrompe lui con aria severa –Di avervi già dato il mio parere riguardo questa faccenda-
-Ma non può essere un’umana!- sbotta ancora il biondo, nervoso –Ha steso da sola due di loro. Nessun’umano può farlo-
Sono sempre più confusa. Che diavolo vuol dire che non posso essere umana?
Senza una parola, l’altro mi si avvicina. Io tento di indietreggiare di qualche passo, quella situazione non mi piace affatto. Gli occhi neri e magnetici del ragazzo sono fissi su di me, e si fanno più vicini e reali, fino a fermarsi a qualche passo.
Cosa vogliono tutti quanti?
Perché il mondo non mi lascia in pace?
Il ragazzo allunga un braccio e mi prende un polso con le lunghe dita, è una presa ghiacciata e salda, ma gentile.
Non mi oppongo.
Inaspettatamente, mi graffia la pelle sottile con l’unghia del pollice, prorpio dove il fascio di vene azzurre si nota sotto la mia carnagione candida. Io sussulto, non perché il dolore fosse acuto, più perché mi ha presa alla sprovvista, e tento una debole ribellione, ma viene liquidata senza sforzi.
Una sottile linea rossa si disegna sulla mia pelle pallida come un lenzuolo.
All’istante i quattro ragazzi sobbalzano e si irrigidiscono come assi di legno, qualcuno si porta una mano alla bocca stringendo le dita convulsamente, qualcun altro arretra.
-Ora che la vostra curiosità è stata saziata- afferma il ragazzo, una nota fredda nella voce sicura –Vi suggerisco di tornare nei dormitori-
Era un suggerimento, ma suonava più come un ordine che non ammetteva repliche. Io stessa avverto un brivido sopraffarmi, come un istintivo impulso a sottomettermi al suo volere. Mi terrorizza.
La ragazza che mi si era avvicinata abbassa gli occhi con vergogna ed è la prima ad ubbidire. L’ultimo a chinare il capo ed andarsene è il biondo, palesemente contrariato e punto nel vivo.
Non esito oltre, strappo il mio polso dalla presa del ragazzo e prendo qualche passo di distanza, scoccandogli uno sguardo di fuoco.
Lui non sembra affatto sorpreso, al contrario abbassa le palpebre, pacato e composto.
Non capisco.
Sono così dannatamente confusa, stordita e stanca! Perché mi sono crollati addosso così tanti eventi incomprensibili, uno dopo l’altro, con il peso di una valanga?
Per un istante rimaniamo entrambi fermi, impalati nella penombra del corridoio. Ha uno sguardo penetrante e importante, mette soggezione e mi costringe ad abbassare gli occhi. Ed è proprio ora che noto un particolare che prima non avevo notato.
Il ragazzo di fronte a me indossa scarpe lucide e pantaloni bianchi bordati di nero.
-Tu sei … - corrugo la fronte, mi sforzo di ricordare –Tu mi hai portata in infermeria-
Lui sbatte le palpebre –Si- è la semplice risposta.
Lui sa.
C’era.
Sa cos’è successo quella sera.
-Allora tu … -mi animo, pronta ad attaccarmi a quell’appiglio –Tu li hai visti. Eri lì quando mi hanno aggredita-
-Quando sono arrivato eri stesa a terra. Se qualcuno ti ha aggredita, era già tutto finito-
-No, non è vero- ribatto decisa –Loro erano ancora lì-
Come potevo dimenticare il terrore di essere preda? Di sapere di non avere speranze, la disperazione di aggrapparmi all’asfalto mentre l’ansito bramoso del predatore si faceva più vicino e incalzante?
-Non c’era nessuno- taglia corto lui, la voce è calma ma di un’autorità che per un attimo mi schiaccia.
-Invece si- ansimo a mezza voce.
-Hai battuto la testa-
Oh, grandioso. Ecco che arriva la scusa del trauma.
Il sangue mi monta alla testa e l’irritazione cresce. Faccio per rispondere, insistere, ma lui allunga una mano verso di me e io provo il fortissimo istinto di sottrarmi, scappare. Ma non lo faccio.
Mi sfiora la fronte. Ha la pelle ghiacciata.
-Ti reggi in piedi per miracolo - mi dice e sembra sinceramente interessargli la mia salute –Và a riposarti-
E con quelle parole mi volta le spalle.
-Non ci provare- esplodo, la voce graffiata dalla rabbia –Non provare ad andartene senza darmi spiegazioni- io stessa mi sorprendo del veleno che gronda dalle mie parole.
Il ragazzo mi getta un’occhiata impassibile da sopra la spalla –Se non ti riposi rischi di perdere i sensi-
Perché tutti non fanno altro che dirmi di stare buona?
-Sono stanca di stare in disparte- sibilo, velenosa –Voglio sapere cosa mi è successo!-
Urlo, i polmoni mi ricacciano una fitta e delle improvvise vertigini mi scalano lo stomaco. Sono costretta ad appoggiarmi nuovamente al muro. Le mie ginocchia tremano leggermente, sono debole, non mangio da troppo tempo e ora il mio corpo reclama a gran voce qualcosa da mettere sotto i denti.
Merda.
-Non esagerare, sei debole- mi dice il ragazzo, la sua voce mi giunge leggermente ovattata. Impreco. Non c’è bisogno che sia lui a dirmelo, dannazione.
Mi accuccio sul posto. Non credevo che una semplice botta alla testa potesse provocare tutto questo. E inoltre mi sento davvero stupida per non aver ingoiato nulla a pranzo, soprattutto dopo due giorni di conati che mi hanno svuotato lo stomaco.
Vedo le scarpe del ragazzo girare i tacchi e muovere qualche passo lontano da me.
-No- ringhio –Se ora te ne vai non mi dirai mai la verità, vero?-
I passi si arrestano. Silenzio.
-Non ti prendere gioco di me- sibilo, il peso totalmente abbandonato al muro –Ho il diritto di sapere- mi sfugge una nota disperata dalla voce.
Per un attimo, nel corridoio cade una cappa di silenzio pesante. Non sono nemmeno sicura che lui sia ancora nei paraggi, sono stanca persino per alzare lo sguardo.
Poi d’un tratto, sento dei passi vicini. Il ragazzo si accuccia di fronte a me, cerca il mio sguardo con i suoi occhi neri e profondi. È vicino, riesco a sentirne il profumo, il respiro regolare.
-Facciamo così- propone con voce calma e morbida –Ora tu rientri, ti riposi, mangi come si deve e cerchi di riprenderti un po’. Domani, dopo le lezioni pomeridiane, vieni alla sezione nord dei dormitori. Sarò là e potrai farmi le domande che vuoi- inclina il capo –Va bene?-
Mi rilasso impercettibilmente –Non me lo stai dicendo solo per dissuadermi dall’idea di tormentarti, vero?-
-No-
-Bene- sussurro –Perché non mi sarei arresa in ogni caso-
Lui sorride. Poi si rialza e scompare così com’è apparso. 

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Capitolo 5
*** Vampiri. ***


 
 
Elijah rientra nei dormitori. La sera si fa ormai imminente e i suoi sensi si risvegliavano placidamente. Ad aspettarlo davanti alla sua stanza sono riuniti i suoi sei compagni, pallidi sullo sfondo buio, gli occhi che si arrossano lentamente alla notte.
Hortense china rapida il capo non appena lo vede giungere. Elijah sa che è consumata dai sensi di colpa, la ragazza nutre per lui grande stima e rispetto, ma a quanto pare ciò non è bastato per impedirle di commettere una simile sciocchezza. Nonostante tutto, è anche a conoscenza che non sia stata lei a trainare gli altri, no, la colpa è senza dubbio di Derek.
-Spero- Esordisce con voce glaciale –Che ora siate soddisfatti- si volta e incrocia con severità lo sguardo di Derek, che di contro abbassa gli occhi.
-Ward sa che nascondiamo qualcosa- annuncia Elijah con calma.
-Tutti sospettano che ci sia qualcosa di diverso in noi- Interviene Daisy,i lunghi capelli fiammanti stretti in una treccia.
-Lei non lo sospetta. Grazie alla conferma di stasera, ne è certa- ribatte lui, algido.
-Non capisco- balbetta Derek, nervoso –Ha abbattuto due Vampiri da sola-
-È un’umana molto abile, ma resta pur sempre umana- sibila Elijah.
Segue una lunga coda di silenzio.
-Vi ho chiesto tempo fa di fare il possibile perché la nostra vera identità rimanga all’oscuro- rimarca lui, la voce ferma e fredda –Non avreste dovuto agire senza il mio consenso. Avevo già espresso il mio parere, sapevo che Ward era un’umana, lo si distingue chiaramente dal suo odore. Ditemi, il mio parere non conta più?-
-Conta- sussurra Hortense, il tono tremante –Ma dopo lo scontro con i due Vampiri anche gli altri hanno cominciato a sospettare. Io … mi dispiace, Elijah, mi dispiace davvero- la sua voce s’incrina.
Elijah non si fa impressionare –Avete commesso un errore da cui non si può tornare indietro. Dobbiamo accettare che Ward conosca la nostra vera identità-
Marine inarca le sopracciglia in un’espressione scettica -Un’umana? È decisamente inaccettabile-
-Hai qualche suggerimento, Marine?- gli occhi di Elijah lampeggiano minacciosi e la sua voce si fa più bassa.
Endymion e Bruno fremono, rigidi.
-Mentirle- risponde la ragazza con voce sottile –Diciamole, non so, che la botta alla testa le ha confuso le idee, che noi non centriamo niente con lei, cose del genere-
Elijah sospira –No. A lei non si può mentire- sancisce –Domani lei saprà di noi, che lo vogliate o meno- Getta uno sguardo gelido ai presenti –Ricordate: non sono io che vi ho messi in questa situazione, vi ci siete cacciati da soli-
E, con quelle parole, si chiude nella sua stanza.

 
Quarta settimana alla Toussand.
Apro gli occhi. Il ricamo fitto e sfarzoso del soffitto mi si distingue nettamente davanti, confermandomi che la vista ha ripreso a funzionare. Mi alzo con cautela, la testa mi gira ancora un po’ e sul fondo della gola minaccia ancora una parvenza di nausea, ma riesco a stare in piedi, le ginocchia non mi tremano più e da quando ho finalmente ingoiato qualcosa mi sento più vigorosa.
Getto un’occhiata dalla finestra. In questi giorni sembra che il sole abbia cessato di esistere. Una cortina lattea e mutevole copre come un telo qualsiasi cosa, l’aria è greve di umidità. Be’, è pur sempre ottobre.
Mi guardo allo specchio. Ho un aspetto decisamente più sano, gli occhi sono più vispi e la pelle non è più imperlata di sudore.
Mi porto una mano al capo e cerco di sondare le mie condizioni, ma non appena la punta dell’indice sfiora la zona che ho battuto con violenza, trasalgo con un mezzo gridolino soffocato.
Devo avere un bernoccolo davvero enorme. Be’, poco male: per il momento sembra che io abbia riacquistato vista e lucidità, posso affrontare l’interrogazione di questo pomeriggio e poi …
Abbasso gli occhi.
Traggo un profondo respiro, mi raccolgo i capelli, mi vesto rapidamente e filo in classe.
 
Durante la mensa i miei occhi non riescono a evitare di inchiodarsi ripetutamente al tavolo dei sette, cercando soprattutto i due abissi neri che ieri mi avevano ripromesso la verità. Aveva detto di non aver sviato il tutto per tentare di ammansirmi, ma mi sento comunque inquieta: nessuno di loro osa rivolgermi la minima attenzione. 
Non so se sia un particolare positivo o meno.
Fatto sta che reclamerò con tutta la mia forza la verità, e se pensano di mentirmi è meglio che lo facciano in modo convincente, perché potrei davvero rendere la loro vita un dannato inferno.
Già, è anche per questa mia amabile determinazione che non riesco a legare con qualcuno.
La campanella suona.
Nella confusione degli alunni che si alzano per tornare in classe, gli occhi neri si alzano e trovano i miei.
Forse me lo sono solo immaginato, ma ho avuto l’impressione che il ragazzo mi indirizzasse un leggero cenno del capo, un gesto complice.
Verrà.
Ci sarà.
 
I miei passi suonano quasi assordanti sul pavimento lucido che porta alla sezione nord dei dormitori. Ci sono alcune vetrate inserite a sprazzi nella parete scura, ma nonostante ciò la luce del sole non riesce a perforare la coltre di nubi e il corridoio assume una sembianza più cupa.
Mi fermo.
Sono arrivata.
Di fronte a me, la porta che dà sulla piccola sala comune dei dormitori. Da quella sala si ramificano le varie stanze private, immagino. Anche il mio dormitorio ha una sala comune, ma io preferisco di gran lunga la semioscurità della mia camera privata, e la compagnia degli alunni del mio stesso dormitorio non mi va molto a genio.
Allungo una mano. Busso alla porta.
È strano. Mi sento nervosa, inquieta. Ho il cuore che aumenta i battiti, li sento pulsare direttamente sulla gola. È ridicolo. Non c’è nulla per cui essere tanto angosciata.
La porta si apre con un cigolio, mi appare sulla soglia la ragazza che la sera prima ha dato via al delirio. Ha i capelli tagliati corti, a caschetto, gli occhi grigi vigili ma dolci.  È più bassa e gracile di me, è graziosa, e sarebbe corteggiata da gran parte degli studenti se non fosse attorniata da quell’alone fosco e impalpabile che la distingue dagli altri .
Senza una parola si scosta, tenendomi la porta aperta, in un muto invito ad entrare.
Mi schiarisco la voce.
Perché sono così nervosa?
Entro.
Sono tutti lì. I sette ragazzi del tavolo di fronte al mio. La sala è immersa in una penombra piuttosto inquietante, e le sagome dei presenti sembrano spettri esangui proiettati nella notte.
Avverto un’irragionevole morsa stringersi attorno ai miei polmoni, premere sullo sterno. Sono terribilmente angosciata, un lieve tremito mi scuote le punte delle dita.
Tento di mascherare il mio stato emotivo: non voglio apparire impaurita.
Come la porta si chiude alle mie spalle, però, mi manca il respiro.
Improvvisamente mi sento un topo piccolo ed esposto, intrappolato in una cerchia di gatti dagli occhi freddi.
Va tutto bene.
Sono impietrita, ma mi sforzo di agguantare un respiro rigido.
Va tutto bene.
I presenti sono tesi, attorno a me, e mi trasmettono la loro rigidità senza che io riesca ad evitarlo.
Proprio di fronte a me, seduto con eleganza su un divano di seta bianca, il ragazzo dagli occhi corvini.
Riesco a calmarmi quel tanto che basta per celare il tremito che mi squassa le ginocchia. Anche lui è avvolto da un alone tetro di mistero, emana quasi un gelo imponente che spicca in confronto ai suoi sei compagni. Ma nonostante il suo volto sia freddo e inespressivo, colgo nel suo sguardo un fondo gentile.
-Ciao Kyla- esordisce lui, pacato –Come vedi non ti ho dato buca-
Tutto ciò che riesco a fare è annuire con fare meccanico. 
Ho la mandibola serrata come in un dannato crampo e mi sento tesa al pari di una corda di un violino. Tento di darmi un contegno più naturale.
Mi indica con un cenno felino una poltrona di broccato scuro e io mi siedo, dritta e rigida come una colonna di granito.
-Non mi sono ancora presentato- continua –Sono Elijah Russeau, del quarto anno-
Oh, cazzo. Ho di fronte a me il dannato secchione che riesce costantemente a battere i miei punteggi nella classifica generale. Destino, ti stai divertendo con me, eh?
Mi presenta i suoi sei compagni ma a fatica sto dietro alle parole di Elijah, una pressione mi stringe le tempie: l’atmosfera è così lugubre che fatico a ragionare senza perdere il senno nelle propaggini dell’angoscia.
Cade un silenzio greve che a fatica tollero. Gli occhi dei presenti sono tutti puntati su di me, bagliori sinistri che rifulgono come stelle in una notte senza luna.
Elijah appoggia i gomiti sulle ginocchia e si protende verso di me -Chiedi quello che vuoi sapere. Risponderemo- mi incoraggia a mezza voce.
È il mio momento. Sta a me parlare, ora. 
Ho la gola stretta nella tensione. Quegli occhi neri incutono una soggezione terribile.
-Cosa … - Merda. Mi trema la voce –Cos’erano quei … -
Non riesco a formulare una frase di senso compiuto, quei due fori abissali sono puntati su di me, severi e controllati, e si portano via tutta la mia patetica lucidità.
-Quelle persone che mi hanno aggredita- la mia voce ritrova fermezza, raddrizzo la schiena e mi faccio seria e fredda –Cos’erano?-
-Cos’erano, mi chiedi- lo sguardo di Elijah si fa più penetrante –Devo dedurre che hai già intuito che non si tratta di umani-
Un brivido mi scala la schiena. Sì, l’avevo intuito. Ma sentirselo dire così direttamene è agghiacciante.
E allora? Allora cos’erano quelle bestie?
Una goccia fredda mi scivola fra i dorsali, alzo gli occhi, glielo chiedo con lo sguardo, un muta richiesta a continuare, perché improvvisamente mi manca la voce.
-Hanno sembianze umane, ma sono animali costantemente affamati, mai sazi né soddisfatti. Sono bestie, Kyla, bramano il sangue più di ogni altra cosa al mondo-
La voce di Elijah è grave, bassa, mi sento invischiata nel buio denso dei suoi occhi, le sue parole profonde mi scuotono le membra, il mio respiro slitta in una corsa frenetica e irregolare.
-Sono Vampiri- 

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Capitolo 6
*** La domanda più importante. ***




Sono Vampiri.
Mi sveglio di soprassalto, il cuore in gola e i capelli che mi schermano gli occhi come un sipario umido.
Sono sudata, ho l’impressione di essere stretta fra le spire letali di un pallido serpente, ma non appena riesco a riaffiorare alla realtà mi accorgo che sono solo le lenzuola intricate.
Ancora. Di nuovo spettri e ombre vengono a braccarmi nella notte dei miei incubi.
Sono Vampiri.
La voce di Elijah è chiara e netta nella mia testa, come se lui fosse qui, proprio di fianco a me.
Rabbrividisco.
scosto le lenzuola e mi siedo sul lato del letto, scostandomi i capelli pesanti con una mano. Mi bruciano le palpebre e gli angoli degli occhi. Il mio corpo ha sonno, reclama altro riposo, altro buio e un materasso morbido su cui scaricare il peso. Ma la mia mente si oppone. La mia mente è esasperata; per la prima volta nella mia vita, ho paura del buio. Del buio del sonno, delle fredde e inospitali tenebre che mi risucchiano in inevitabili incubi.
Sono Vampiri.
Sono Vampiri.
Sono Vampiri.

Un’ossessione. Una finestra tetra e oscura che si è aperta nella mia vita, una finestra che fino ad ora ho ritenuto leggenda, fantasie, romanzi e storielle per spaventare i bambini.
Ma ho commesso il terribile errore di affacciarmi a quella finestra, e quello che ho visto mi impedirà per sempre di chiuderla.
Aspetto di calmarmi, mi impongo un respiro regolare e, lentamente, riesco a cancellare l’incubo. A questo punto mi corico ancora, così come ho già fatto innumerevoli volte in poche notti, e calo le palpebre, decisa a innalzare una salda barriera che tenga i Vampiri ai margini del mio cervello.
 
La luce mi solletica le palpebre. Apro gli occhi.
È mattina. Quasi non ci credo. Finalmente la notte è finita.
Mi porto una mano alla tempia destra e caccio un sospiro. Devo aver dormito circa un paio di ore nel corso della notte. Devo essere uno strazio.
Mi appoggio al bordo del lavandino e oso un’occhiata al riflesso che mi restituisce lo sguardo sfinito.
Tutto sommato, credevo peggio. Ho l’espressione sciupata e sono visibilmente stanca, ma non è nulla che non si possa cancellare con una doccia fresca e una buona colazione.
Mi inumidisco le labbra.
La situazione mi sembra così paradossale, come se la realtà che sto vivendo mi stia scorrendo addosso simile ad acqua ghiacciata: è un contatto sgradevole, ma non riesco a trovare un punto fermo negli eventi che si susseguono e corrono a cavallo di una corrente troppo forte perché possa arrestarla.
Trovo assurdo come per diciassette anni della mia vita io abbia trascorso ore e giornate in piena tranquillità, fiduciosa del mondo, quando in realtà bestie dissennate nella loro sete attendono, acquattate nell’ombra, il momento propizio per l’agguato.
Lascio cadere i vestiti sulla soglia del bagno. Entro nella doccia, rovescio il capo e ascolto il getto d’acqua tiepida che mi percorre il collo e le curve del corpo.
Progressivamente, la tensione si scioglie e la mente si sgombera.
Mentre il vapore acqueo si innalza e appanna le pareti della doccia, rivedo gli occhi magnetici di Elijah di fronte a me, sento sulla mia pelle gli sguardi dei sei compagni. E mi vedo alzarmi di getto dalla poltrona di broccato, mentre la verità mi stordisce, voltare le spalle all’intera faccenda come una bambina terrorizzata, uscire affannosamente dalla stanza, frenetica come chi nuota verso la superficie per una boccata d’aria.
L’unica differenza è che io sono annegata.
Non ho nemmeno posto la domanda più importante.
 
Getto rapidamente libri e astucci nella mia tracolla di jeans, irritata dal leggero chiacchiericcio dei miei compagni di dormitorio, che mi raggiunge nonostante la spessa porta chiusa che ci separa.
In questa condizione non riesco a studiare, dannazione!
Ho bisogno di un luogo silenzioso, dove riesca a concentrarmi per studiare e mettere a tacere quel ronzio frenetico e insistente dei miei pensieri.
Mi alzo.
Esco a grandi falcate, attraverso la sala comune dei dormitori senza una parola, aprendomi un varco fra le facezie degli altri studenti.
Apro i pesanti battenti della biblioteca della Toussand. Il solo gemito antico che emette il legno è come trarre una boccata d’aria fresca.
I maestosi scaffali torreggiano su di me, colmi e pesanti di libri. Piccole particelle di polvere danzano fra di loro sotto i riflettori del primo sole.
Dovrei venire più spesso qui. La mite quiete che pregna questo luogo riesce sempre a mettere in pace anche me.
Mi dirigo ad un piccolo tavolo incuneato fra due scaffali, ormai etichettato come mio angolo personale di studio, ma per la seconda volta la sorpresa di trovarlo occupato mi coglie di sprovvista.
L’alta vetrata opaca soffoca il sole, ma la poca luce soffusa che trapela cola sulla linea delle spalle di Elijah, seduto con l’eleganza che lo contraddistingue, gli occhi fissi fra le pagine di un libro.
Mi arresto.
Rimango impalata per qualche istante.
Sinceramente, non so come reagire.
Forse dovrei sentirmi imbarazzata per la mia fuga improvvisa, strappandomi all’unica occasione che avevo per sapere la verità fino in fondo.
Forse dovrei sentirmi irritata: quello è il mio dannato angolo di studio ed è già la seconda volta che lui lo viola liberamente.
O forse dovrei semplicemente odiarlo: è sua la voce che mi riecheggia nel cranio e sono sue le parole che mi strappano il sonno notte dopo notte.
Decido di non reagire affatto, di voltargli le spalle ed evitare l’ennesimo problema, come una corsa ad ostacoli.
Faccio per sgattaiolare silenziosamente dietro uno scaffale ma la voce autoritaria di Elijah mi gela sul posto.
-Puoi sederti qui- dice con tono impassibile, senza nemmeno staccare gli occhi dal libro –Se vuoi-
Mi irrigidisco.
E adesso cosa faccio?
Mi volto e lo guardo.
La sua figura ha un che di austero e freddo che mi suggerisce di tenermi alla larga, la soggezione che esercita su di me mi schiaccia come un insetto indifeso.
Rabbrividisco. Non riesco mai ad evitarmelo, quando ho a che fare con lui. È come se il mio stesso corpo fremesse per darmi un segnale di pericolo.
Cosa dovrei fare?
Rifiutare l’offerta mi sembra davvero scortese, in fondo lui ha accettato di confrontarsi con me ed è stato del tutto sincero, io invece ho insistito con ferocia per strappargli la verità e non sono nemmeno riuscita a sostenerne un assaggio.
Mi avvicino con passo incerto, palesemente titubante.
Lui nemmeno sembra accorgersi della mia presenza: continua  a leggere con indifferenza, lo sguardo assorto e l’espressione totalmente immota.
Mi siedo.
Ora che lo guardo da questa distanza non è così spaventoso, in fondo. Quando non mi stanno fissando con quell’espressione enigmatica, quegli occhi sono profondi e brillano di intelligenza, il volto pallido è chiuso in lineamenti affilati, gli zigomi sono due tagli alti e scavati e i capelli colano sulla linea del naso, sinuosi come piccoli rivoli di inchiostro nero.  
Ha un portamento magnetico e affascinante, in un certo senso stuzzica la mia curiosità, ma allo stesso tempo mi intimidisce, con la sua autorità pari a quella di un re.
Sbatto le palpebre.
Ma a che sto pensando? Devo studiare.
Estraggo il materiale e apro il quaderno di matematica.
Comincio a scribacchiare.
Elijah è silenzioso e concentrato, divora i libri uno dopo l’altro senza la minima piega sul viso. Io, invece, nonostante il silenzio della biblioteca e il comportamento perfetto di Elijah, fatico ad immergermi totalmente in quello che sto facendo e mi tocca ripetere più volte lo stesso esercizio prima di farlo risultare correttamente.
La presenza di Elijah mi distrae. Avverto il solito campanello d’allarme risuonare fra le tempie, e la usa sagoma tetra che lampeggia incalzante al margine del mio campo visivo.
Sono tesa, maledettamente tesa.
Mi mordicchio un labbro e mi sfugge un mezzo sospiro di esasperazione.
Lo sento.
Sul fondo della mia mente, lo sciame indistinto di pensieri accavallati che preme per irrompere nella mia debole concentrazione. È come se avessi chiuso i Vampiri in un angolino della mia mente, tenuti a bada con una diga che sta cedendo.
Mi porto una mano alla fronte e serro le palpebre per qualche istante, frugando alla ricerca del freddo controllo.
-È decisamene improbabile che un Vampiro penetri nella Toussand- la voce concreta di Elijah mi afferra e mi riporta alla realtà. Lo guardo di sottecchi; deve aver notato il mio disagio.
-Non devi aver paura- conclude, voltando pagina.
-Non ho paura- rispondo di getto, stuzzicata nell’orgoglio.
-Sei terrorizzata- mi corregge lui, senza la minima esitazione.
Io mi stizzisco un po’: mi infastidisce che sia lui a decidere i miei stati emotivi. Soprattutto perché ha dannatamente ragione.
-Sono terrorizzata- ammetto a mezza voce, tirando l’ennesima rigata sull’esercizio scorretto di matematica.
Lui mi scocca un’occhiata rapida e acuta, ma non commenta oltre.
Dopo una manciata di minuti, lo sento muoversi. Appoggia qualcosa sul tavolo con un tonfo e la mia curiosità mi spinge ad alzare lo sguardo.
Tiene fra le dita affusolate una scatola di legno, corta e sottile.
E la sta porgendo a me.
Ha un aspetto piuttosto antico, sebbene sia pulita e ben tenuta. I cardini sono di ferro e mostrano un accenno di ruggine, sul coperchio è inciso un motivo vermiglio di tentacoli che si estendono sui lati della scatola, come fiamme stilizzate.
Al centro, in nero, risalta un disegno geometrico di linee spezzate e acuminate, una sovrapposizione simile ad un dedalo dentro il quale l’occhio si perde.
-Che cos’è?- chiedo in un sussurro; persino parlare ad alta voce mi sembra una mancanza di rispetto, davanti al portamento altero di Elijah.
-Forse se lo terrai con te sarai più tranquilla- risponde lui, enigmatico.
Allungo una mano. Le nostre dita si sfiorano. È freddo.
Apro la scatola con un certo timore.
Rimango senza fiato.
Su un letto di velluto rosso, scintilla, freddo e suadente, un pugnale. La lama è di candore quasi accecante, lucida come il ghiaccio e dal filo che non perdona. La guardia è perlacea e ritorna il motivo di linee spezzate che si intrecciano in un groviglio fino a risolversi nelle due estremità acuminate.
L’elsa è semplice, argentea, tanto pura che mi ci potrei specchiare.
persino con la poca luce soffusa della biblioteca, il riflesso candido e argenteo fa quasi male agli occhi.
È Magnifico. Ma di una bellezza insidiosa, il fascino del pericolo stesso. Questo pugnale è incantevole tanto quanto è letale.
Ma perché Elijah mi sta dando un’arma tanto pericolosa?
Lui sembra leggermi nella mente.
-È un’arma molto pericolosa per i Vampiri- spiega, puntando su di me gli occhi neri come la pece.
Oh.
Capisco.
Elijah mi ha dato un’arma perché io possa sentirmi al sicuro.
Ma perché tanta premura? Mi conosce appena.
E poi …
Ricambio lo sguardo. L’abisso che ha negli occhi mi cattura e mi sento cadere in quel vortice scuro. Per la prima volta, riesco a reggere il suo sguardo.
E poi …
La vista quasi mi si offusca, troppo intenta ad affondare in caduca libera fra le tenebre viscose degli occhi di Elijah. Non credo di aver mai provato un’intensità tanto travolgente semplicemente guardando negli occhi qualcuno.
Ma Elijah ha qualcosa di diverso.
qualcosa che mi attrae e spaventa allo stesso tempo   
E poi …
E poi come fa a conoscere tante cosa riguardo ai Vampiri?
Il ronzio che ho in testa tace improvvisamente. Un silenzio di ghiaccio lascia il posto ad un dubbio pulsante che tento di sopprimere.
Elijah intuisce qualcosa. Si tende impercettibilmente verso di me.
Rabbrividisco.
Sento la tensione avvampare nella sua gelida corsa.
-Hai ancora una domanda da pormi, vero?- mi sussurra.
La sua voce è profonda e squassa il mio corpo in un tremito che non riesco a mascherare.
-Solo che hai paura della risposta-
Il dubbio incalza con più forza e si fa sempre più una gelida certezza.
Improvvisamente sono spaventata.
La temperatura della sala mi sembra calare a picco, eppure una goccia di sudore si incanala nell’incavo dei dorsali.
-Tu sei … - la mia voce è poco più di un sussurro che traspira dalle labbra.
 
 
-… un Vampiro?-
 
 
 
 
NOTE: Hola :3 finora ho pubblicato ogni due giorni circa, che puntualità! Bene, perché d’ora in poi dovrò farlo più di rado D:
è che ho avuto un problema ( e non sto scherzando) … si è rotto il computer e ho perso tutti i capitoli che mi ero scritta preventivamente per poter pubblicare regolarmente (che culo, eh?)
Questo capitolo l’ho riscritto rapidamente e sono riuscita a pubblicarlo abbastanza in fretta ma per i prossimi non posso proprio garantire, anche perché settimana prossima sarò fuori casa e non potrò scrivere…
…Niente, chiedo scusa in anticipo!
Ringrazio chi ha inserito la mia storia nelle seguite/ricordate/preferite e al prossimo capitolo! 

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Capitolo 7
*** Voraci. ***


-Sono qualcosa di molto simile- confessa Elijah, scrutandomi l’anima con i suoi occhi neri.
Mi sento mancare.
Una piccola scossa di adrenalina si arrampica con malagrazia sulla mia schiena, mentre un freddo sudore si scioglie fra i dorsali.
Hanno sembianze umane, ma sono animali costantemente affamati, mai sazi né soddisfatti. Sono bestie, Kyla, bramano il sangue più di ogni altra cosa al mondo.
Bestie. Animali.
La penna mi scivola dalle dita, ma io non riesco a muovere un muscolo per reagire, persino battere le palpebre mi sembra uno sforzo sovrumano.
La testa comincia a girarmi in un accenno di nausea.
Bramano il sangue più di ogni altra cosa al mondo.
Più di ogni altra cosa.

Sono seduta di fronte ad un Vampiro. E sono sola, in un luogo in cui nessuno mette mai piede.
Il pensiero è crudo e concreto, la mia mente me l’ha gettato addosso di peso, rapida e lucida, ma è come se il mio cervello si rifiutasse di assimilarlo.
È un sussurro che aleggia ai margini della mia coscienza, un sussurro insistente quanto sfuggente.
Il sussurro infido della paura.
Il mio respiro è greve come pietra fra sterno e cuore, il battito cardiaco è ovattato e riecheggia sordo nelle mie orecchie come rintocchi di campane funeree.
Inconsciamente, stringo le dita sulla scatola di legno. Elijah lo nota, coglie ogni mio movimento, ogni sfumatura dei miei comportamenti.
Lo vedo confusamente sporgersi verso di me, l’abisso accattivante dei suoi occhi farsi più vicino.
Un gelo mai provato prima mi striscia nelle vene, mi dà alla testa e minaccia di farmi perdere i sensi, ma io mio aggrappo con denti e unghie alla realtà, mi impongo di riprendere possesso del mio corpo, della mia mente.
-Hai paura?- la voce di Elijah è tanto vicina da sguinzagliarmi brividi sulla pelle. Gli basterebbe allungare una mano, solo una mano e…
Come rianimati, i miei polmoni si scrollano il gelo del terrore e si trascinano in un rigido respiro, tanto violento da farmi male allo sterno. Ma io mi sveglio, reagisco a quell’assurda ibernazione e agguanto un briciolo di razionalità.
Elijah mi ha tratta in salvo da due Vampiri.
Elijah mi ha ceduto un’arma letale per i Vampiri stessi.
Il fiume in corsa di gelido terrore si arresta.
Il tempo sembra quasi rallentare, odo il mio respiro più profondo e regolare. Più vivido che mai, il ricordo di un Vampiro che mi si getta contro. I suoi occhi senza senno, tinti in nel rosso folle del desiderio. Il suo viso feroce e smanioso, contratto da una ragnatela di smorfie spaventose. Il rantolo agghiacciante.
E i canini.
Due lame candide come la neve, pronte a macchiarsi della peggior colpa al mondo.
Le viscere mi si rimescolano in una presa di ghiaccio.
Con uno sforzo disumano, alzo gli occhi su Elijah.
Guardo la sua pelle tesa e pallida, scivolo sulla linea del naso e, infine, mi soffermo sulle labbra.
Esangui, sottili. Quasi eleganti, abbandonate in quella linea morbida.
E provo ad immaginarle grondanti di un cremisi caldo e pulsante, provo a trasfigurargli il volto impassibile, provo ad accendere di rosso i suoi occhi acuti.
Non ci riesco.
Ho paura?
-Non lo so- rispondo con un filo di voce.
Mi sento spaccata a metà. Una parte di me è imprigionata nell’irrazionale terrore, l’altra metà rivede quelle scarpe lucide soffermarsi nel mio campo visivo e salvarmi la vita.
Lui alza il mento e mi scruta con un fondo di interesse negli occhi. Mi sento nuda sotto quello sguardo, nuda ed indifesa.
Traggo un lungo respiro e mi passo una mano fra i capelli.
Tremo e mi formicolano le dita.
-Hai intenzione di farmi del male?- la mia voce è appena udibile sul silenzio assordante della biblioteca.
Lui mi guarda, impassibile.
-No-
Mi rilasso. Gli credo. Non riesco a dubitare delle sue parole un solo istante.
Ingoio e mi ascolto: dentro di me le due metà ingaggiano una feroce battaglia per prendere il sopravvento. Terrore e fiducia si dichiarano guerra.
Sorprendentemente vince la fiducia. Potrei pentirmene, ma proprio non riesco a inquadrare Elijah come una persona che potrebbe fare del male a qualcuno.
Ha detto di essere qualcosa di molto simile ad un Vampiro, ma non si è definito tale.
Raccolgo il mio coraggio –Cosa sei- sussurro –esattamente?-
Per un istante lui rimane in silenzio, le sopracciglia lievemente inarcate. Dev’essere sorpreso quanto me del fatto che non me la sia data subito a gambe.
-Se ti rispondo non uscirai più da questa faccenda- mi avverte lui, composto.
Trovo la forza per alzare un angolo della bocca in una piega amara –Ci sono già dentro fino al collo-
Lui mi scava con lo sguardo, mi scruta più a fondo –La verità potrebbe spaventarti più di quanto non lo faccia quello che già conosci-
Sbatto le ciglia. Cosa potrebbe spaventarmi di più?
-Sono già terrorizzata- gli faccio notare –tanto vale andare fino in fondo-
Segue un breve stacco di silenzio.
-I Vampiri ci considerano esseri superiori, il gradino più alto, qualcosa di simile ad una loro evoluzione. Qualcuno di loro ci venera, qualcun altro ci evita. Ci chiamano Voraci, esseri nati solo per uccidere-
Qualcosa di superiore ad un Vampiro.
Una loro evoluzione.
Nati per uccidere.

-Siamo più forti, più veloci, più astuti- Elijah sposta lo sguardo –più pericolosi-
più pericolosi.
Non reagisco.
Minimamente.
Il terrore di pochi istanti fa mi ha squassato il corpo e sfinito la mente. Ora non ho la forza per ripetere l’esperienza, non ho la forza nemmeno per spaventarmi.
È come se la mia mente si fosse rintanata in un angolino, lasciandomi come un involucro vuoto, un guscio incapace di provare altro terrore.
 C’è solo la fredda consapevolezza di ciò che mi ha rivelato Elijah.
-I Voraci bevono … - Il solo pensiero mi torce lo stomaco –il sangue?-
Un’ ombra guizza nello sguardo di Elijah e ne incupisce l’espressione –La natura di un Vampiro è animale: si avventano sul sangue per sfamarsi, per soddisfarsi. E una volta che sono soddisfatti si ritirano finché la fame non li richiama ancora. La natura di un Vorace è quella di un predatore: a noi non basta l’inebriante piacere che ci causa il sangue, noi divoriamo anche la carne, ci sfamiamo di ciò che strappiamo da un corpo umano e niente ci ferma, perché non proviamo mai la sensazione di sazietà. Siamo costantemente affamati-
Le viscere mi si rimescolano, la nausea mi getta un retrogusto amaro sul fondo della gola.
Avverto un conato di vomito che preme con insistenza e mi costringo ad appoggiarmi al tavolo per riafferrare un minimo di lucidità.
-Ora hai paura?- la voce di Elijah è gelida, per un attimo una sottile venatura amara si fa strada nella sua voce.
Il cuore si arresta per un secondo. Il mio sguardo è fisso e vacuo.
Paura?
Forse.
Stringo i denti, contraggo la mandibola.
Sono disgustata. Quello che Elijah mi ha rivelato è tanto orripilante che stento a crederci.
–Non scherziamo- sussurro, spaventata.
Lui non si scompone minimamente –Non scherzo riguardo argomenti del genere. Vorrei che tu fossi cosciente di chi hai davanti. Non dimenticarti di cos’è capace un Vorace-
Un sorriso amaro mi affiora sulle labbra. Dimenticarsi? Come se fosse possibile. Rimango in silenzio, non so come ribattere. Lui stesso mi sta dicendo di essere un pericolo mortale.
-Tu mangi … ? - La mia voce trema e io stessa distinguo la nausea che ne altera il tono.
Lui rimane in silenzio per un istante, tanto che penso che non risponderà alla domanda che non ho il coraggio di porgli.
Ad un tratto, senza preavviso, la sua mano pallida corre al colletto della camicia. Slaccia i primi bottoni, si scopre il collo bianco ed elegante. Persino in quella situazione, trovo il tempo di sentirmi imbarazzata.
Ma qualcosa attira la mia completa attenzione.
Esattamente al centro delle clavicole, una macchia scura spicca sul pallore del petto di Elijah. È nera, di un nero che sembra impermeabile alla luce. È Lo stesso disegno contorto che è riportato sul coperchio della scatola di legno.
Dà l’impressione di un’orribile malattia che appesta il candore immacolato della pelle di Elijah.
-Che cosa…?- corrugo la fronte, la voce mi muore in gola.
-È un Sigillo- risponde Elijah con voce grave -Permette di tollerare il cibo umano per un determinato arco di tempo-
Un’ondata di sollievo mi invade e mi sembra di trarre la prima vera boccata d’aria.
Gli occhi di Elijah si appuntano su di me –Non fare quella faccia. Ho detto che rende tollerabile il cibo umano, non che sopprime il desiderio di sangue- dice, duro –Per noi sette non è facile resistere al richiamo del sangue-
Sette.
Come ho fatto a non pensarci?
Sono tutti Vampiri.
Peggio: Voraci.
Sette Voraci. E io ho pranzato al tavolo di fronte per settimane.
-Ad ogni modo noi sappiamo controllarci- Elijah continua –Ma non tutti ne sono in grado, né vogliono farlo- Abbassa lo sguardo sulla scatola di legno, che ancora stringo fra le dita –Per questo confido che se ce ne sarà bisogno non esiterai ad usarlo-
Trattengo il fiato. Non mi piace l’idea di essere nuovamente una potenziale preda. Né mi piace pensare di affondare la lama nel cuore di qualcuno, che quel qualcuno sia umano oppure no.
Stringo i denti. Sento una nota di disperazione farsi strada in me e avverto per la prima volta il reale peso schiacciante di tutta quella situazione. Conoscere la verità, andare fino in fondo, significa convivere con la gelida consapevolezza di avere accanto sette predatori, sette ragazzi che celano un terribile segreto.
E significa dire addio a sonni tranquilli, significa stringere convulsamente un pugnale senza mai potersi fidare di qualcuno, significa aver paura di mettere piede fuori dalla Toussand.
Mi lascio scappare un sospiro esausto.
Con la coda dell’occhio, vedo Elijah allungare una mano nella mia direzione.
L’istinto di sottrarsi e sfuggirgli si fa prepotente, ma rimango immobile.
Lascio che le sue dita ghiacciate s’insinuino fra i miei capelli –Credo di averti spaventata abbastanza, per oggi- mi dice, e improvvisamente il suo tono sembra premuroso.
Non replico. Non mi muovo.
Sono stordita dalla verità che mi è crollata addosso.
Semplicemente aspetto che le dita di Elijah scivolino via e non appena la sua schiena scompare dietro la porta della biblioteca, riprendo a respirare.



NOTE: Rieccomi! sono riuscita a riscrivere in tempo questo capitolo, il prossimo lo pubblicherò sabato sera oppure domenica, prima non mi è possibile! :)
Ringrazio ancora chi ha deciso di seguire questa storia, alla prossima! 

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Capitolo 8
*** Cosa dovrei pensare? ***


Quinta settimana alla Toussand.

catturo con l’indice la ciocca che mi è scivolata dalla coda frettolosa che ho tentato di stringere stamattina, quando per la prima volta mi sono trovata realmente in ritardo. Ho persino dovuto saltare la colazione in mensa.
Non ho dormito un granché, e quelle poche ore di sonno sono giunte agitate e accompagnate dal sole, quando ormai era tempo di alzarsi dal letto.
Ma come potevo riuscire a dormire? Come potevo semplicemente scivolare nel tepore rilassante del sonno, dopo che gran parte della mia vita era stata messa al repentaglio da una chiacchierata in biblioteca?
No, di dormire non se ne parlava.
Sospiro, mi agito sulla sedia.
Elijah mi ha detto la verità. Non ha provato a mentirmi, non ha tentato di tenermi all’oscuro della sua realtà, forse perché sapeva che io avrei fatto di tutto pur di portare a galla la verità. Eppure, ora mi chiedo se io abbia fatto bene ad andare così oltre.
Elijah aveva ragione: da questa storia non ne uscirò mai.
Mi gratto la fronte. Sono confusa, il mio cervello è consumato come un gomitolo di lana sfilacciato, la mia mente è esausta eppure non fa che sfornare nuovi innocenti pensieri ronzanti che mi stordiscono.
Sono stanca.
Psicologicamente stanca.
Non so davvero cosa pensare.
Elijah stesso mi ha confermato di essere un pericolo mortale, lui stesso mi ha fatto intendere sottilmente quanto spaventosa possa essere la sua vita. La sua e quella dei sei ragazzi che lo seguono.
Eppure …
Eppure, dannazione, non posso credere che lui sia un mostro tale! Mi rifiuto di pensarlo, la mia stessa mente si rifiuta di assimilarlo.
E poi c’è quel pugnale che mi ha dato. Lasciato a marcire nella mia camera di fianco alle lettere di mia madre, come se nemmeno si meritasse un piedistallo illuminato.
Cosa dovrei pensare?
Elijah ha due facce. Due facce che mi confondono e che si sostituiscono fra loro.
La prima è quella di un mostro, un predatore a sangue freddo, qualcosa di orribile che si deve temere.
La seconda è quella di un uomo che mi ha salvato la vita e che si premura della mia salute.
Ho davvero paura di quello che Elijah sopprime dentro di sé? Ho paura di quella parte oscura che ottenebra il suo cuore?
Ho paura?
Non lo so.
Mi porto le mani ai lati del capo in un gesto sfinito.
Cosa dovrei fare?
Cosa dovrei pensare?
-Ward!-
Una voce stentorea mi strappa a forza da quel vortice di angoscia e mi catapulta nel mondo reale, dove trasalisco con violenza sul mio banco di scuola.
Il docente di quest’ora mi osserva da sopra gli occhiali spessi, come aspettandosi qualcosa da me.
-Si?- rispondo, e la mia voce suona stanca, strascicata.
-Non hai risposto alla mia domanda- insiste il professore, con aria arcigna.
Non gli chiedo di ripetere, non tento nemmeno di cavarmela in qualche modo –Scusi, non stavo seguendo- taglio corto, asciutta.
Lui alza il mento con superiorità e cela rapidamente la sorpresa. Non è mai successo, in classe sono sempre attenta. Silenziosa, ma attenta.
-È da qualche giorno che ti vedo distratta e poco interessata, Ward- rimarca, appoggiandosi alla cattedra.
-Non succederà più-replico, brusca.
-Me lo auguro- mugugna lui, per poi riprendere la lezione fra il chiacchiericcio soffocato della classe.
Avverto la frustrazione montare a cavallo di lacrime salate, ma con uno sforzo le ricaccio indietro.
Non ho intenzione di piangermi addosso.
 
Sono passati già due giorni da quel pomeriggio in biblioteca e io non ho cavato un ragno dal buco. Sono sempre più stanca e tormentata e riesco a reggere i miei risultati scolastici per miracolo. Fortunatamente non sono una che ha bisogno di molto tempo per studiare, e mi bastano anche i pochi sprazzi di concentrazione che riesco ad afferrare per rimanere a galla.
Ma sono davvero esausta.
Finora ho evitato Elijah e i suoi compagni; non appena la campanella suonava mi rintanavo nei dormitori, sono arrivata persino a pranzare e cenare al bar di fianco alla segreteria piuttosto che presentarmi alla mensa.
Perché?
Non ne ho idea.
Probabilmente perché non saprei come reagire, perché il mio cervello potrebbe rispolverare pensieri molesto o la mia mente potrebbe riprendere a sferragliare.
E io non voglio. Per un istante voglio godermi la sensazione di avere la testa completamente vuota, anche se questo significa essere frastornata per gran parte della giornata.
Ma oggi non mi dirigo al bar né tantomeno alla mensa.
Oggi prendo tempo. Mi alzo con calma mentre i miei compagni mi scorrono affianco come un fiume colmo di chiacchiere inutili, e riordino le penne che ho sul banco una per una.
Finalmente cala il silenzio in classe. Chiudo la cerniera dell’astuccio e sospiro, esausta.
-Niente pranzo oggi, Ward?- mi chiede l’insegnante di matematica, una donna mora e gracile, impugnando la borsa e preparandosi per uscire.
-Si, ora vado- rispondo con voce vuota.
Lei si schiarisce la gola –I tuoi risultati lasciano un po’ a desiderare ultimamente, non vorrei che fosse per l'incidente o … -
-È solo un periodo complicato- la interrompo, secca.
-Già, può capitare- continua lei –Ma se avessi bisogno di qualcosa non esitare a chiedere, noi professori siamo disponibili-
So che ha un intento generoso, so che vuole essere comprensiva, ma in questo momento non fa che darmi sui nervi.
-Con il suo permesso, andrei a pranzo- concludo e, senza aspettare la risposta, esco dalla classe masticando un saluto.
Mi dirigo alla mensa. Sono frustrata, mi sono presa il mio tempo e ora devo tonare in gioco, scappare non serve a nulla. Semplicemente aspetterò finché non avrò le idee chiare, ma fino a quel momento interrompere la mia quotidianità non farà che rendermi la vita più difficile di quanto non lo sia già.
Come al solito chiedo alla donna che serve in mensa una porzione moderata, e come al solito lascio che scelga lei cosa mettermi nel piatto perché le pietanze offerte sono talmente raffinate che non ne distinguo una dall’altra.
Mentre mi dirigo al solito posto, lo sguardo scivola inevitabilmente sul tavolo di fronte. Questa volta sono solo sei gli sguardi che si puntano su di me. Elijah non c’è.
Mi siedo, mentre gli occhi del tavolo di fronte mi consumano la pelle come fuoco. Mi sforzo di ignorarli, ma quelli scavano carne e ossa fino a turbarmi l’anima. Se potessero davvero vedere dentro di me, se potessero avere un assaggio della confusione che mi squassa come un terremoto, la smetterebbero di fissarmi con tanta insistenza?
Sento dei passi avvicinarsi.
Si fermano.
Alzo lo sguardo.
Elijah. Tiene elegantemente un vassoio su una mano, nel piatto c’è solo una manciata di pasta e qualche misera fetta di pane. Nella mano libera stringe l’immancabile libro della biblioteca.
Alla sua vista, le mie metà in contrasto si innalzano con prepotenza.
-Hai smesso di studiare in biblioteca- mi fa notare, pacato.
-Ho smesso di studiare ovunque- rispondo automaticamente, senza una vena di emotività nella voce.
Noto che sono più sciolta, perlomeno ora riesco a formulare una frase di senso compiuto e non ho più quel freddo spaventoso al petto. Forse sto lentamente digerendo la faccenda.
Elijah non si scompone –Quindi hai deciso di avere paura- deduce con arguzia –è comprensibile-
-No- mi affretto a negare, ma mi mordo la lingua –Non lo so … - mormoro infine, confusa.
I suoi occhi trovano i miei e ci studiamo in silenzio e a distanza.
-D’accordo- dice semplicemente, una maschera impassibile calata sul volto.
-Comunque- riprendo, nervosa –Non direi a nessuno di voi. In nessun caso-
Forse è questa la vera ragione del discorso. Forse Elijah teme che se decidessi di tenermi alla larga da loro potrei spiattellare in giro la loro terribile verità. Non lo farei. Nemmeno se dovessero arrivare a terrorizzarmi.
-Non ne dubitavo- risponde lui, calmo. Abbassa lo sguardo sul mio piatto –Buon appetito- conclude, voltandomi la spalle per raggiungere il suo tavolo.
Mi inumidisco le labbra.
Ci sarebbe ancora una cosa che dovrei dirgli. Qualcosa che avrei dovuto fare da tempo. Ma la valanga di avvenimenti mi hanno trascinata via e distolta dalla mia vita principale.
-Elijah- chiamo di getto, con un coraggio che non so da dove sia spuntato.
Il ragazzo si volta. I suoi occhi neri come la notte mi catturano inevitabilmente. Gli faccio un timido segno di avvicinarsi e gli sguardi dei suoi compagni si fanno, se possibile, ancora più intensi.
Elijah appoggia il vassoio sul tavolo e mi raggiunge. Ha un passo calmo e qualcosa nel suo portamento che incute timore, ma al contempo emette un alone di fascino che mi impedisce di staccare gli occhi da lui per un solo istante.
Appoggia le lunghe mani diafane sul mio tavolo e si sporge verso di me. Effonde un odore che non saprei classificare, ma che per poco non mi inebria.
Mi schiarisco la gola –Hai detto di avermi portata tu in infermeria-
Niente da fare. Con lui nei paraggi la mia voce si riduce ad un filo appena palpabile.
-Si- conferma lui, la voce vicina e profonda.
-Mi hai dato un pugnale per difendermi- continuo io, spostando impercettibilmente la sedia: la sua vicinanza così stretta mi stordisce.
Elijah annuisce, il volto immobile.
-Be’- svuoto i polmoni in un respiro profondo-Grazie-
Lui mi guarda, la linea degli occhi affilata come quella del più maestoso felino.
E sorride appena, prima di raggiungere al tavolo i sei studenti.


Dovrebbe davvero farlo più spesso, lo rende meno tetro. 

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Capitolo 9
*** Conoscenza. ***


Compiaciuta, ricontrollo i risultasti degli ultimi test assegnati. I miei voti sono tornati a decollare e finalmente ho riacquistato un minimo di serenità, nonostante ancora non abbia deciso cosa pensare di Elijah e i suoi compagni. Ma mi sono ripromessa di accantonare questa storia: ci penserò non appena avrò finito i test in programma per questa settimana, un altro calo a picco dei miei voti potrebbe rovinarmi la reputazione.
Mi infilo in tasca i risultati e faccio per imboccare il corridoio per i miei dormitori, ma un tonfo sordo e un gemito soffocato mi giungono alle orecchie.
Mi arresto, riduco il mio respiro al minimo.
Sul silenzio spiccano sussurri velenosi e scalpiccii. Strano, a quest’ora dovrebbero essere tutti alla sala studio o nei loro dormitori. È molto raro che qualcuno rimanga a vagare per i corridoi. Come sto facendo io ora, per esempio.  
Mi dirigo verso la fonte dei rumori sospetti.
Per un attimo, il pensiero che possa trattarsi di un Vampiro mi gela di orrore, ma poi ricordo che Elijah mi ha assicurato che la Toussand fosse una scuola sicura.
Non so se il fatto che credo alle sue parole significhi che mi fido di lui oppure è solo un attaccamento patetico a qualcosa a cui voglio credere disperatamente anch’io.
Ma poco importa, svolto l’angolo e nella penombra dei corridoi noto un piccolo gruppo di tre studenti schiacciati contro il muro. Confabulano fra loro e le loro voci sono rabbiose.
Inarco le sopracciglia: davvero non capisco che stiano facendo, probabilmente si staranno lamentando di un voto o di un rimprovero di un professore, in fondo non sono affari miei.
Sto per voltare le spalle all’intera faccenda quando un singhiozzo femminile mi inchioda sul posto.
No, non si stanno lamentando di un professore.
Mi avvicino, guardo meglio.
Come pensavo:  fra il muro e la cerchia di quei bastardi c’è una ragazza. È accucciata su sé stessa come una cartaccia, si copre il viso e la gola con le mani e trema di paura o di rabbia.
Uno dei ragazzi le assesta un calcio fra le costole –Forse questo ti convince a passarci i risultati, domani- le sussurra beffardo.
-E magari non solo quello- accresce un secondo ragazzo, un sorrisetto rivoltate dipinto in volto.
Il sangue mi monta alla testa.
Che razza di stronzi.
Mi avvicino senza alcuna esitazione, picchietto con fare spazientito sulla spalla del più vicino, che si volta con aria aggressiva.
-Oh, guarda chi c’è- ride –la Ward. Ti fermi a farci compagnia?-
I suoi due patetici scagnozzi ridono come imbecilli.
Per contro inclino il capo di lato e lo guardo con aria compassionevole –Sul serio, fate schifo-.
Cala un silenzio pesante.
I volti dei tre ragazzi si fanno neri e duri. Forse stanno tentando di farmi paura, con quell’aria minacciosa.
-Oh, allora vuoi gioc … - la fine della sua frase muore fra le mie nocche, il mio pugno va a segno e senza il minimo sforzo catapulto il ragazzo a terra, che nemmeno fa in tempo a reagire.
Di nuovo silenzio. Stavolta rotto solo dalle lagne dolenti del ragazzo che ho gettato a terra, che si stringe teatralmente una mano al labbro, aperto in una piccola ferita sanguinante.
I suoi due leccapiedi sono impietriti. All’improvviso non hanno più quell’aria spavalda in faccia, ma strabuzzano gli occhi, e io stessa posso fiutare la loro paura.
Uno dei due mi si lancia contro. È totalmente inesperto: lanciarsi con il gomito teso e il pungo chiuso a mo’ di Superman non può certo fare molto.
Scarto di lato e mi limito a dargli una spintarella con la suola della scarpa per farlo andare gambe all’aria.
Tutto sommato, sono stata generosa.
Il terzo sembra più intelligente, o forse solo più codardo, e se la dà subito a gambe, subito seguito dai suoi due caracollanti compagni.
-Bastardi- mormoro mentre li guardo sparire lentamente. Abbasso lo sguardo sulla ragazza accucciata a terra. Ha dei lunghi capelli castani che le ricadono scomposti in boccoli eleganti. È davvero graziosa.
Le porgo la mano –Stai bene?- chiedo, un po’ imbarazzata. Non sono mai stata molto brava con le lacrime, e a consolare le persone sono una catastrofe.
Ma noto che non sta piangendo. Si sta stringendo la gola e il suo corpo ha dei piccoli spasmi, come se si stesse sforzando terribilmente.
Ora che la guardo meglio ha un’aria familiare e un atteggiarsi che ho già visto …
Non sarà …?
Un balenio rosso come il sangue avvampa nei suoi occhi castani, la ragazza si alza di scatto e corre via, urtandomi una spalla.
Mi cade la sacca e i libri si spargono sul pavimento. Ma io rimango imbambolata per qualche istante. Credo di essermelo immaginato. Quel scintillio vermiglio negli occhi della ragazza. O forse no?
 Non sono riuscita a vederla bene in viso, ma sono abbastanza sicura che si trattasse di una dei sette Voraci. Un piccolo brivido mi scala la schiena.
Improvvisamente dei passi.
Leggeri, felpati.
Mi volto rigidamente.
Ai miei piedi una ragazza dagli occhi grigi e dai capelli tagliati a caschetto sta raccogliendo i libri che mi sono caduti.
Questa volta ne sono più che certa: lei è una Vorace.
Quel pensiero mi mozza il respiro e io non riesco a far altro che rimanere impalata a guardarla mentre raccatta i miei libri. Ha un modo di fare elegante, grazioso e il suo corpo è così gracile che fatico a ricollegarla alla descrizione di ciò che un Vorace dovrebbe essere.
Ma la consapevolezza di essere di fronte ad un essere che si nutre di carne e sangue umano mi blocca lo stomaco.
Si rialza e mi porge i libri con un sorriso –Scusala, Marine è timida, non ci sa fare con gli estranei-
Come sospettavo. Anche la vittima dei tre ragazzi era una Vorace.
Una fitta mi attraversa il petto. Avrebbe potuto sbranarli se avesse voluto, e invece se ne stava in un angolo a tentare di controllarsi.
Chi è il vero mostro, ora?
Prendo i libri che mi sta’ porgendo la ragazza –Non c’è problema- riesco a dire, la mia voce ha un tremito velato.
Lei mi guarda con interesse –Sei Kyla Ward, vero? Complimenti per i tuoi risultai, in classifica generale sei seconda solo ad Elijah. Non è da tutti avere una media come la tua-
Sbatto le palpebre. Sbaglio o sto amabilmente disquisendo con una persona che potrebbe mangiarmi?
-Grazie- il mio tono è un po’ teso.
Lei mi porge la mano –Sono Hortense Byron, la terza in classifica-
Mi mordo un labbro. Vuole che le stringa la mano?
Ingoio e allungo il braccio a mia volta.
Non so cosa mi sarei aspettata di provare, ma la verità è che sento solo freddo. Le sue dita, il sui palmo, il dorso … sembrano fatti di ghiaccio. Ma per il resto, è una normalissima mano.
 Mi sorride. Lo fa spesso, ma si premura di tenere le labbra serrate. Credo che se sorridesse a pieni denti potrebbe mostrare qualcosa che nessuno dovrebbe vedere.
-Ehi, Hortense-
Una voce svogliata ci sorprende, mentre dall’angolo a destra sbuca un ragazzo, i capelli color paglia e gli occhi verdi.
-Ah, ciao Derek!- esclama lei, agitando una mano.
Oddio.
Probabilmente sono impallidita. Reggere una conversazione con Hortense tentando di non dar peso al fatto che potrei essere il suo potenziale pranzo è già impegnativo di per sé, non ho bisogno delle attenzioni di un secondo Vorace.
-Ho sentito odore di sangue e sono venuto a controllare- risponde con spigliatezza Derek, le mani in tasca e il passo strascicato.
Ingoio.
Grandioso.
Hortense caccia una risatina forzata giusto per stemperare la situazione. Mi presenta a Derek come se ci trovassimo in un normalissimo contesto in cui tre adolescenti si incontrano e fanno conoscenza.
Ma tutti e tre sappiamo che non è così. Una voragine profonda che non può essere colmata ci separa.
-Oh, Elijah ci ha parlato di te- dice Derek.
Il mio respiro si blocca per una frazione di secondo –Davvero?-
Lui annuisce –Certo. Sei quella che ha steso due Vampiri da sola, vero?-
Ecco fatto.
Quella lieve illusione che Hortense ha abilmente tenuto in piedi, quel fragile specchio di una realtà quotidiana va in frantumi. 
Cala un istante di silenzio.
-Ma sei imbecille?- sbotta Hortense, incrociando le braccia.
Derek la guarda, sbigottito –Che ho fatto?-
-Prima che arrivassi tu stavamo tentando un approccio civile-
-Io la ammiro, non è da tutti cavarsela in una situazione come quella-
Hortense esplode in un’ulteriore verso di frustrazione –Quella faccenda non andava tirata in ballo. Kyla è ancora confusa-
Derek corruga la fronte –Sei confusa?- mi chiede, diretto.
Vado in panico.
-Si- rispondo di getto.
 –No- mi correggo.
-Non lo so- mi arrendo in fine.
Derek si rivolge a Hortense –è confusa- conferma.
Mi passo una mano fra i capelli. Sul serio, questa è la conversazione più assurda e pericolosa che io abbia mai tenuto nella mia vita.
Hortense si volta verso di me –Dato che abbiamo aperto l’argomento ne approfitto per chiederti scusa, Kyla-
-Per cosa?- chiedo a mezza voce.
-Per  aver creduto che fossi un Vampiro- interviene Derek.
Le sue parole cadono pesanti nel silenzio.
Mi ci vuole un attimo perché arrivino al cervello, circa il tempo che serve a Hortense per scoccare al compagno uno sguardo di fuoco.
-Cosa?!- esclamo, senza fiato.
-non lo sapevi?- salta su Derek, cadendo dal pero.
-Io non … - sgrano gli occhi, inorridita –Non sono un Vampiro!-
-No, infatti- Tenta di rimediare Hortense.
-Già, Elijah l’aveva capito subito. Ma io ho dubitato fino alla fine- continua Derek con quel suo tono spigliato e leggero.
Hortense alza al cielo l’ennesima imprecazione.
-Scusa- reagisco, brusca –Ma in che cosa dovrei assomigliare ad un Vampiro?-
Sarcasmo. Giusto per far capire a Derek quanto i suoi dubbi fossero assurdi.
Ma lui ovviamente non lo coglie.
-Prima di tutto sei inquietante- comincia lui.
-Non sono inquietante. Sono inquietante?- mi rivolgo a Hortense in cerca di un appoggio.
-I tuoi vestiti lo sono- ribatte Derek, zittendo Hortense in procinto di rispondere.
Mi guardo i vestiti. D’accordo: sono neri. E con questo? Se mi mettessi a sospettare di chiunque vesta di nero non ne uscirei viva né sana di mente.
prendo fiato per negare ma lui mi anticipa.
-Non mangi praticamente nulla-
-Non mangio perché il cibo della mensa non mi piace-
-Hai steso due Vampiri-
-Pratico arti marziali-
-Sei pallida-
Apro la bocca in una smorfia sdegnata –Mai sentito parlare di carnagione chiara? Per tua informazione in passato la pelle candida indicava grande bellezza ed era simbolo di nobiltà-
Derek aggrotta la fronte e sembra prendere in seria considerazione la mia risposta –Mi stai dicendo di essere nobile?-
-Cos … No!- esclamò, totalmente frastornata.
-Bene, perché al giorno d’oggi la pelle pallida è ricollegata al Vampiro o allo spettro. A te la scelta-
Mi blocco un attimo –esistono anche gli spettri?- chiedo, angosciata.
-Che domande: è ovvio che non esistono- mi risponde con aria da saputello.
-E allora che …?- mi porto una mano alla tempia e mi impongo di ragionare con calma.
La situazione sta decisamente degenerando.
-E infine non fai altro che startene rintanata nella tua stanza buia- conclude Derek, soddisfatto.
-Come sai che la mia camera è buia?- chiedo, sospettosa.
Lui scrolla le spalle con indifferenza -Non lo sapevo. Ho tirato ad indovinare-
Inarco le sopracciglia e rimango in silenzio per qualche istante.
-La prossima volta ricordami di non coinvolgerti in qualsiasi discorso necessiti un minimo di delicatezza- lo redarguisce Hortense a denti stretti.
Non resisto.
La situazione è paradossale tanto quanto assurda.
Scoppio a ridere. Forse solo per sfogare la tensione e la confusione di quei giorni, ma subito dopo mi sento meglio.
-D’accordo sospetti giustificati, te li condendo- ammetto –Ma non sono inquietante- preciso, alzando l’indice.
Derek prende fiato, probabilmente per contraddirmi nuovamente, ma Hortense gli ricaccia una gomitata che lo zittisce.
-Sei davvero una persona interessante, Kyla- mi dice lei con un sorriso dolce –mi piacerebbe conoscerti meglio.-
E, così dicendo, mi salutano e spariscono nei loro dormitori. 




NOTE: ecco, cercate di non odiarmi od organizzare una congiura nei miei confronti, mi rendo cono del ritardo e chiedo scusa XD è stato un attimo di sbando, cercherò di farmi perdonare ma specifico che gli aggiornamenti non saranno frequenti, ora che la scuola è cominciata scriverò quando avrò tempo :) 
A presto! 

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Capitolo 10
*** Decisione. ***


Sbadiglio e mi delucido lo sguardo strofinandomi gli occhi. Finalmente stanotte ho dormito più di due ore e ho recuperato un minimo di sonno.
Ma il risveglio alla mattina è sempre traumatico.
Appoggio il vassoio sul bancone scorrevole e verso del latte tepido nella mia tazza, mentre con lo sguardo passo in rassegna i croissant e i vari biscotti offerti.
Non amo particolarmente i dolci, quindi mi limito a cacciare nel mio vassoio qualche fetta di pane tostato e dei classici biscotti ai cereali.
MI volto per riporre la pinza per i cibo e noto, non senza trasalire, che dietro di me, imbottigliato in fila, c’è un Vorace.  Ha i capelli biondi legati in una coda sulla nuca e l’aria più ombrosa rispetto ai suoi compagni. Mi volto rapidamente, sperando che lui non si sia accorto della mia attenzione, né tanto meno della reazione decisamente poco cortese.
Ma siamo fermi in fila e la sua presenza alle mie spalle è insistente. Per distrarmi lascio vagare il mio sguardo nei dintorni, sono nervosa e non voglio trasmettere questa mia tensione al Vorace.
I miei occhi si puntano inevitabilmente al tavolo all’angolo. Vedo il profilo di Elijah assorto e silenzioso, mentre i suoi compagni si scambiano qualche rapida chiacchiera. Seduta al suo fianco c’è Hortense, e sembra che stia riprendendo ancora Derek, che di contro la ignora mentre gira il cucchiaio nella tazza con aria assonnata.
Al lato del tavolo una ragazza dai capelli ramati si raccoglie la chioma in una complicata treccia e di fronte un ragazzo moro si stiracchia sulla sedia.
Hanno un comportamento assolutamente quotidiano. Potrei confonderli per dei normalissimi studenti se non emanassero quell’impalpabile sensazione gelida e torva, la stessa sensazione che tiene alla larga gli altri studenti. Peccato che, da come ho potuto scoprire, alcuni studenti che non hanno affatto l’aria tetra siano molto peggio di uno qualsiasi dei Voraci che siedono a quel tavolo.
Il mio sguardo scivola sulla ragazza gracile e castana che mordicchia con poca convinzione una fetta biscottata. Ha una sfumatura violacea sopra l’occhio destro, il ricordo di tre bastardi che non sapevano stare al proprio posto. Il solo pensiero della loro prepotenza mi manda in bestia.
Sotto i miei occhi, la vedo alzare lo sguardo e intercettare il mio. Rimaniamo a fissarci per qualche secondo, poi lei alza una mano in un timido saluto.
Sbatto le palpebre. Non melo sono immaginato, vero?
Ricambio il saluto con un certo impaccio: in fondo non le ho mai parlato, non la conosco e so che è totalmente diversa da me.
Un cozzare alto e improvviso mi fa trasalire e rompe quel piccolo contatto fra noi. Rumore di vetri infranti e un gridolino squillante. Allungo il collo per capire cosa sia successo.
A quanto pare dev’essere caduto un bicchiere di mano ad una ragazza. Oh, è sempre stato il mio terrore: solo il manico di una tazza della Toussand potrebbe costare di più della mia stessa casa, figurati un bicchiere intero.
Mi rilasso. Spero solo che la fila riprenda a scorrere perché il mio stomaco reclama cibo con foga.
Improvvisamente, però, avverto il ragazzo alle mia spalle irrigidirsi come un pezzo di legno. Gli scocco un’occhiata rapida e di sottecchi: la sua presa sul vassoio è spasmodica, le sue nocche sono sbiancate e la mano libera è corsa alla gola.
Si accorge della mia malcelata attenzione e suoi occhi si inchiodano su di me, stretti in uno sforzo che mi trasmette. Un balenio vermiglio attraversa le sue iridi e mi gela la schiena.
I Voraci al tavolo hanno alzato tutti il capo nella nostra direzione e gli occhi di Elijah sono fissi e seri sul ragazzo dietro di me.
Merda. Sono pronta a scommettere che la studentessa si sia tagliata con un frammento di vetro.
Il ragazzo trema di sforzo, una vena si gonfia sul suo collo e la sofferenza è tanto concreta, tanto reale che per un istante mi sembra di non poter respirare.
Non ne posso più. Vederlo sopprimere le ribellioni del suo corpo è una scena straziante.
Appoggio il vassoio al bancone e mi faccio largo nella fila a forza di gomitate, ricevendo imprecazioni e mezzi insulti. Un addetto alla pulizia sta raccogliendo i resti del bicchiere, mentre la ragazza si guarda con aria sofferente un dito sanguinante. È una ferita da nulla, un taglio superficiale, ma esce sangue. E sangue vuol dire sedurre la bestia che riposa nei Voraci.
-Ma tu sei ferita!- esclamo, facendo ricorso a quelle orribili doti di recitazione che mia madre trovava strabilianti ai tempi dell’asilo.
La ragazza inarca le sopracciglia perplessa. Già, io non sono solita rivolgere la parola a nessuno, e gli studenti qui mi considerano come una fuori dal normale. Insomma, l’eccentrica di turno.
-Non è niente- tenta di protestare con un sorriso forzato.
Le prendo un polso. Al diavolo la mia reputazione, se non la porto via di qua il suo sangue potrebbe causare un putiferio.
-Vieni con me- me la trascino letteralmente dietro.  Usciamo dalla porta laterale, la più lontana dal tavolo dei Voraci e comincio ad allontanarmi il più velocemente possibile.
-Ward è solo un taglio, dico sul serio …- schiamazza la ragazza, con un tono fra il preoccupato e l’indignato.
Penso febbrilmente ad una scusa per evitarle di tornare in mensa -Dobbiamo evitare che si infetti-.
Oh, grandioso. Questo si che è un colpo di genio, Kyla. Davvero grandioso.
E infatti la ragazza indossa un’espressione sconcertata –La Toussand è una delle scuole più prestigiose. Credi davvero che non disinfettino i loro bicchieri?-
Touché. Probabilmente lavano qualsiasi angolo della scuola tre volte di fila e con cinque prodotti diversi.
Mi fermo –Senti- comincio, irritata –la vista del sangue mi da fastidio e mi chiude lo stomaco quindi tu ora ti disinfetti il dito e ti metti un dannato cerotto, chiaro?-
La mia voce è tagliente e non ammette repliche. La vedo impallidire e annuire senza più una parola.
 
Mi chiudo la porta dell’infermeria alle spalle.
Sospiro.
Bene, ora tutti andranno in giro a dire che sono una ragazza eccentrica, acida e con il terrore per il sangue.
Suona la campanella e io lascio cadere il capo contro la porta. Le lezioni sono iniziate e il mio stomaco è completamente vuoto.
La giornata comincia bene.
 
La campanella squilla e sancisce la fine delle lezioni pomeridiane. Seguo il fiume di persone che esce dalle classi per confluire nei rispettivi dormitori ma qualcosa mi trattiene.
Dietro il vetro lucido di una finestra, seduto con eleganza felina sul davanzale esterno, un gatto nero mi fissa, curioso.
Mi guardo attorno. Fortunatamente nessuno lo ha visto: alla Toussand la presenza di qualsiasi animale è severamente vietata. Se qualcuno si accorgesse di lui lo scaccerebbe sicuramente in malo modo.
Sguscio dalla folla e mi avvicino con fare spigliato, tentando di non dare nell’occhio. Ma in fondo a chi potrebbe interessare quello che faccio io?
Apro la finestra scorrevole verso l’alto quel tanto che basta perché possa infilarci il polso. Il gatto allunga il collo con sufficienza per concedermi un’occhiata poco interessata. Sorrido: ho sempre desiderato un gatto, ma l’allergia di mio padre me l’ha impedito. È un animale magnifico, ha il pelo lucido come l’acqua, due occhi enigmatici di un verde intenso e la lunga coda sinuosa avvolta attorno al colpo slanciato.
Riesco ad avvicinarlo abbastanza per dargli una grattatina dietro l’orecchio a punta.
Guardandolo in quella posa fiera e maestosa mi ricorda inevitabilmente Elijah: è scuro e con una terribile superstizione che lo marchia a vita.
Ma è bellissimo.
-E poi dici di non essere inquietante-
Una voce disinvolta mi coglie alla sorpresa e mi fa nettamente trasalire.
Il gatto rizza i peli sulla schiena, soffia minaccioso e balza via.
Getto un’occhiata alle mie spalle: Derek mi guarda con un sopracciglio alzato e al suo fianco Hortense agita una mano in saluto.
-Che c’è di inquietante nell’accarezzare un gatto?- chiedo, mentre serro la finestra. Noto con piacere che la presenza dei due non mi getta più nel panico totale, anche se un’inevitabile tensione non accenna a mollare.
-Era un gatto nero- spiega semplicemente Derek –Potrei pensare che tu sia una strega-
-Potrei esserlo- ribatto, stringendomi nelle spalle.
Lui fa una smorfia –Non esistono- dice, con un gesto scettico della mano.
Inclino il capo con aria ironica –Nemmeno io prima credevo all’esistenza dei Vampiri-
Hortense ride ma Derek mi prende sul serio. Quel ragazzo ha il senso dell’umorismo di un comodino.
-Un punto a tuo favore- riflette, portandosi una mano al mento –quindi sei una strega?-
-Chi lo sa?-
-Stiamo andando ai dormitori. Facciamo la stessa strada per un tratto, vieni con noi?- mi chiede Hortense, interrompendo quel discorso prima che degeneri.
È gentile. Dal momento che dovrà abituarsi al fatto che io conosca la sua vera identità forse sta’ tentando di rendere il nostro rapporto qualcosa di amichevole.
-No, grazie. Vado a studiare- rispondo con un mezzo sorriso cortese.
-D’accordo- si sofferma a guardarmi con occhi seri. Sembra che voglia aggiungere qualcos’altro, ma è Derek che mi sorprende.
-Grazie per quello che hai fatto stamattina- mi dice, e di colpo sembra più maturo.
-Ah- il sorriso svanisce lentamente –Figurati-
Alza una mano –Ci vediamo!-
E nuovamente scompaiono nei corridoi.
 
Entro in biblioteca. La mia sacca è greve dei libri che devo studiare, questo è uno dei periodi in cui i professori si divertono a riempire ogni singolo spazio vuoto dell’orario per ficcarci un test.
Poco male, una volta superata questa settimana la strada si spianerà per qualche giorno.
Mi volto con il fiato sospeso.
E, come mi aspettavo, Elijah è seduto a divorare libri, ma ha cambiato posto, non occupa più il tavolo addossato alla vetrata, quello che amo come angolo di studio personale. Ora siede dietro uno scaffale.
Forse ha interpretato le mie parole alla mensa come una richiesta di starmi alla larga, probabilmente ha pensato che volessi evitarlo per un po’, finché non mi fossi decisa.
E infatti è stato così. Ma ora la confusione che avevo in testa tace.
Ho paura di Elijah?
Sorrido.
No.
Mi avvicino al suo tavolo.
Lui alza gli occhi. Ha uno sguardo che trafigge, di fronte al quale sento di non avere barriera che regga. La sua espressione è indecifrabile, ma in qualche modo il suo volto placido e la linea dei suoi occhi mi sguinzagliano un lungo brivido sulla schiena.
Avere a che fare con lui è totalmente diverso dalle chiacchiere con cui mi hanno trattenuta Derek e Hortense. Lui ha un’autorità che schiaccia, una fierezza che mi fa sentire piccola e impotente.
Traggo un respiro –Posso sedermi?- gli chiedo, leggermente nervosa.
Per un istante che mi pare infinito, lui mi osserva. Non fa altro, mi scruta con la notte dei suoi occhi e mi cattura in quella trappola magnetica che lo avvolge.
Poi, senza una parola, si sposta di un po’ sulla panca, lasciandomi lo spazio sufficiente per sedermi.
Prendo posto. Non gli sono mai stata così vicina, prima mi assicuravo di sedermi abbastanza distante da lui.
Respiro a fondo. Il suo profumo mi invade le narici.
Non ho paura, non c’è ragione per essere tanto nervosa.
-E così hai deciso- mi dice inaspettatamente, gli occhi fissi sulle pagine del libro.
-Ho deciso- confermo a mezza voce.
Con la coda dell’occhio, lo vedo sorridere.

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Capitolo 11
*** Al tavolo dei Voraci. ***


 
Io ed Elijah usciamo dalla biblioteca insieme. Abbiamo studiato più di tre ore e ormai il giorno arrossa nel tramonto. La luce entra dalle vetrate ampie e dona alla Toussand un colore slavato che scivola lentamente nella notte.
Gli getto uno sguardo di sottecchi. Abbiamo studiato nel più totale silenzio e questo mi ha aiutata a concentrarmi, inoltre dopo l’iniziale tensione mi sono lentamente sciolta fino a trovarmi a mio agio.
Lui incrocia il mio sguardo e io mi affretto a distoglierlo, incapace di reggere l’intensità tagliente dei suoi occhi.
-Marine mi ha raccontato come l’hai difesa- esordisce dopo un istante, mentre imbocchiamo il corridoio che conduce ai dormitori.
Non rispondo. Mi limito ad annuire, intimidita.
-E ho visto cos’hai fatto stamattina in mensa- prosegue, gli occhi fissi di fronte a sé e le spalle rette in un contegno fiero.
Si ferma e mi guarda, noto quasi una piega divertita sul suo volto –Sei passata dall’essere terrorizzata a decidere di proteggerci?-
Mi sento arrossire leggermente. Non ero terrorizzata, prima. Ero solo molto confusa, ancora non avevo le idee chiare.
-È che li ho visti mentre … - cerco il termine adatto - … resistevano-
L’espressione di Elijah cambia. Ora è serio come suo solito e il suo sguardo mi penetra nelle ossa.
Rabbrividisco al pensiero della sofferenza di Marine, accasciata contro la parete, e mi manca il respiro riportando alla mente i muscoli in tensione del ragazzo che aspettava in fila dietro di me, costretto a resistere ai suoi istinti senza via di fuga.
-È terribile- sussurro, sinceramente provata.
-Non è facile controllarsi- ammette Elijah, riprendendo a camminare.
-Tu ci riesci- dico, quasi sovrappensiero. Ricordo quando mi ha ferita il polso per dimostrare che fossi umana. Era proprio lì, di fianco a me. Ed è rimasto freddo e impassibile.
Lui mi indirizza un’occhiata indecifrabile –è importante che io ne sia in grado- mi risponde.
Eccole lì. Le ennesime parole enigmatiche.
Giungiamo al bivio che divide il corridoio per i dormitori est e quello per i dormitori nord. Guardo l’ora: faccio giusto in tempo a farmi una doccia prima di andare in mensa per la cena.
Elijah mi saluta con un semplice cenno del capo e io ricambio alzando timidamente una mano.
Poi le nostre strade si dividono.
 
Esco dai dormitori con le punte dei capelli ancora umide. Li ho raccolti frettolosamente in una coda allentata e qualche ciocca non fa che divertirsi scivolando dalla presa dell’elastico.
Sulla folla che si indirizza in mensa chiacchierando, noto Hortense ferma in un angolo, un dito al mento mentre si alza sulle punte e scruta tra la folla.
Mi avvicino, titubante.
-Ciao-
Lei si volta con aria sorpresa, probabilmente l’ho colta alla sprovvista.
Non vorrei essere invadente, ma lei si illumina in un sorriso e non da’ segni di fastidio.
-Ciao Kyla! Stavo cercando Derek, gli avevo chiesto di aspettarmi ma scommetto che se n’è dimenticato- mi dice, allegra.
-Stai andando in mensa?- le chiedo, tentando di spingere il discorso: odio i silenzi imbarazzanti ma per contro sono una frana sull’aspetto sociale.
-Già, vieni con me?- mi chiede, squillante.
È energica e luminosa come il sole, ma il suo entusiasmo è smorzato da quell’inconfondibile alone tetro che contraddistingue i Voraci.
Annuisco sforzandomi di sorriderle e apparire disinvolta.
Mentre siamo in fila si volta verso di me –Sei sempre seduta sola, in mensa?-
Mi stringo nelle spalle –Qui io sono quella eccentrica. Nessuno muore dalla voglia di avere a che fare con me- lo dico con leggerezza, non mi interessa minimamente del giudizio altrui, anzi: tanto meglio che mi stiano alla larga.
Ma Hortense sembra colpita dalle mie parole e la sua espressione si rattrista –Non è carino da parte dei tuoi compagni-
-Mi piace stare sola- ribatto, sincera.
-Be’, ma è triste- insiste lei, sforzandosi nella scelta di un primo piatto tra quelli offerti.
-Non direi. È più triste che tre studenti malmenino una ragazza- rispondo, ancora irritata.
Hortense mi guarda, intenerita –Sei davvero una bella persona, Kyla- mi dice con voce dolce, mentre le servono una piccola porzione di pasta al forno.
O almeno credo che sia pasta al forno.
Alle sue parole mi sfugge un sorriso ironico –Se mi conoscessi meglio non credo che lo diresti ancora-
Sento la sua risata sottile sul chiacchiericcio generale.
La donna che serve alla mensa mi riconosce e prima che io possa aprire bocca mi anticipa –“ti servo quello che mi pare, basta che non c’entri nulla con le fragole”- recita, mentre mi offre un piatto a casaccio.
Sorrido –Grazie-
-Non ti piacciono le fragole?- mi chiede Hortense.
-Sono allergica-
-Ah, capisco-
Usciamo dalla fila. La ragazza si volta verso di me e mi lancia un sorrisetto esasperato -Che ti avevo detto? Derek si è completamente dimenticato-
Sorrido. Il ragazzo sta chiacchierando con il suo fare strascicato e sembra che nemmeno si sia accorto dell’assenza di Hortense.
Appoggio il vassoio sul mio tavolo.
-Be’, ci vediamo- dico alla ragazza, un po’ impacciata.
Ma lei mi guarda con aria assorta per qualche istante. Poi si anima, come folgorata.
-Kyla- mi dice, solare –perché non vieni a sederti con noi?-
-No- rispondo subito –Non credo sia il caso-
-Perché no? Sei sempre qui da sola- incalza lei.
Tento di svicolare -Mi piace stare sola, ricordi?-
Hortense non demorde -Avanti, ti presento agli altri-
-Un’altra volta, magari- rispondo, forzando un sorriso.
Lei appoggia a sua volta il vassoio e mi guarda con occhi seri –Nessuno di noi vuole farti del male, davvero-
Io mi mordicchio un labbro –Lo so- mormoro, insicura –è solo che non sono brava in queste cose-
Hortense sorride –Non farti questi problemi, non ti mangiamo mica-
Sussulto e le scocco un’occhiata incredula. Davvero rassicurante, detto da una Vorace.
Lei sembra rendersi conto solo ora dell’enorme significato delle sue parole e arrossisce fino alla radice dei capelli.
-No, scusa, volevo dire che … -Balbetta, agitando le mani, mortificata.
Le sorrido –Va bene- concedo, mentre già sento l’agitazione stuzzicarmi –Ma non ti prometto nulla-
Lei si apre in un sorriso che le spennella il viso di luce e annuisce.
-Vieni con me-
 
Ed eccomi qui. Non credevo che nella mia vita mi sarei mai trovata in una posizione scomoda come questa ma, ebbene si, Kyla Ward è seduta ad un tavolo con sette Voraci. Sette creature che potrebbero avere me nel piatto piuttosto che uno sfizioso pasto della Toussand.
Scuoto la testa: preferirei davvero evitare pensieri come questi, non è facile mantenere un’aria disinvolta in situazioni del genere.
Alla mia sinistra Hortense punzecchia la sua pasta con la forchetta e nel frattempo tenta di intavolare una discussione spigliata, ma io non sento le sue parole, sono troppo intenta a rimanere pietrificata sul posto come una colonna di granito.
Mi ero ripromessa di avere più fiducia verso i sette Voraci, ma la situazione è decisamente imbarazzante e mi chiude completamente lo stomaco. Abbasso lo sguardo sul mio piatto; credo che oggi non mangerò affatto.
-Spiegami una cosa- interviene improvvisamente Derek, facendomi sobbalzare –Se sei una normalissima umana perché non mangi nulla?-
-Ah- balbetto, colta alla sprovvista –Non ho fame- chioso, tutto d’un fiato.
Hortense lascia che il suo vano discorso venga risucchiato dal silenzio: probabilmente si rende conto che nessuno la stava minimamente ascoltando.
Di sottecchi noto che la maggior parte dei Voraci mi sta fissando.
Dio, perché mi sono lasciata convincere?
-La mettete in imbarazzo- interviene Elijah con voce piatta, gli occhi incollati fra le pagine di un libro –mangiate- ordina freddamente.
Un brivido mi scala la schiena. La sua voce ha una nota che mi spinge inevitabilmente a chinare il capo di fronte alla sua autorità. È come se mi risvegliasse un fortissimo istinto ad ubbidire ai suoi ordini.
Per qualche istante i compagni sembrano subire la stessa soggezione che mi stringe, e chinano i capi sui loro piatti, stuzzicando il cibo.
Ma il silenzio che cala è, se possibile, ancor più imbarazzante.
Traggo un profondo respiro e appoggio il gomito al tavolo: non mi sono mai trovata tanto a disagio in vita mia. Incrocio senza volerlo lo sguardo del Vorace che siede di fronte a me: ha i capelli tagliati corti e due occhi castani tagliati in tratti orientaleggianti.
Mi sorride con fare incoraggiante.
Io vengo colta alla sprovvista per l’ennesima volta, ma sono sempre più sorpresa di quanto quei sette ragazzi cerchino di farmi scivolare nella loro vita nonostante l’enorme differenza che ci separa.
Ricambio timidamente il sorriso.
Lui si appoggia allo schienale della sedia –Pratichi sport, Kyla?- chiede di punto in bianco.
E nuovamente l’attenzione si concentra su di me, gelandomi di tensione.
Annuisco, titubante.
-Arti marziali, giusto?- interviene squillante Hortense, pronta a cogliere al volo l’occasione d avviare una conversazione.
-È così che ha fatto fuori due Vampiri- se ne esce Derek, il consueto tempismo che ghiaccia nuovamente l’atmosfera. 
-già- rispondo a disagio, posando la forchetta intatta.
-Be’ è ammirevole. Non dev’essere stato facile per un’umana- accresce il ragazzo che ho seduto di fronte.
Derek scocca a Hortense un’occhiata saputella –Vedi? Lo dice anche Bruno-
Inarco le sopracciglia. Non dovrebbe essere un merito quello di aver quasi ammazzato di botte qualcuno.
-A dire il vero sarei morta se … - indirizzo un’occhiata fugace ad Elijah, mentre la mia voce si affievolisce lentamente.
… Se Elijah non fosse intervenuto. Mi ha salvato la vita, non posso ignorarlo né dimenticarlo. Ho un debito insaldabile nei suoi confronti.
Lui intercetta il mio sguardo e per un istante mi sento avvampare, tanto che mi affretto a distogliere lo sguardo, nervosa.
-È comunque straordinario che tu sia riuscita a tenere testa a due di loro- Interviene Bruno, catturando la mia attenzione –ti alleni spesso, vero?-
Mi stringo nelle spalle –Quando posso- raccolgo nervosamente una ciocca dietro l’orecchio –è solo che non esco più da quella sera- aggiungo in un soffio.
Cala qualche secondo di silenzio denso e sento gli sguardi dei sette ragazzi bruciare sulla mia pelle come marchi di fuoco.
Bruno si sporge verso di me –Sono un po’ fuori forma- mi dice –Se cerchi qualcuno che ti accompagni in palestra conta su di me-
Sgrano gli occhi.
Quasi non ci credo.
Si sta veramente offrendo di accompagnarmi fuori dalla Toussand? Ha intuito che la paura di uscire di qui da sola mi blocca come un topo in trappola?
-Grazie- rispondo a mezza voce, ancora stupita dalla gentilezza che mi offrono persone che potrebbero essere un pericolo mortale per me.
Mi sorprendo a provare un enorme senso di sollievo, come se qualcuno mi avesse appena spinto via dal petto un enorme macigno. Queste persone sono amichevoli, disponibili, gentili.
I tre studenti che hanno aggredito Marine sono meschini e infidi.
La differenza è tanta e improvvisamente il fatto che siano Voraci non mi sembra così rilevante, in confronto alla cattiveria pura e tipica degli umani.
Avverto un fruscio e involontariamente mi tendo come la corda di un violino. I miei occhi saettano di lato mentre stringo la presa sulla forchetta.
La ragazza seduta di fianco a me allunga una mano nella mia direzione. Ha i capelli ramati fermi in una pettinatura esperta e minuziosa, due occhi dalle curiose sfumature rossastre e una gran spruzzata di graziose lentiggini che le colorano il volto.
Mi limito a guardarla, non faccio nulla per sottrarmi né per impedirle di toccarmi.
Le sue dita fredde come il ghiaccio prendono delicatamente una ciocca ribelle che mi è scivolata dalla coda provvisoria. I miei capelli le scorrono sulla pelle morbidi e sottili, finché la ragazza non ritrae la mano.
-Hai dei capelli meravigliosi- mi dice, rapita nel gioco di luce che la mia chioma platino offre sotto il chiarore al neon della mensa.
Arrossisco un po’: non sono abituata ai complimenti e non so mai come comportarmi davanti ad una lusinga.
-Grazie- rispondo timidamente.
Mi sorride –Sono Daisy-
Le stringo la mano con un mezzo sorriso imbarazzato.
-Non hai mai pensato di raccoglierli? Sono lunghi, potresti creare dei veri e propri capolavori- continua, mentre i suoi occhi ritornano inevitabilmente a scivolare fra i miei capelli.
-Ah, veramente io … - inarco le sopracciglia. Non ho mai pensato di rendere sfarzosi i miei capelli, anzi: non li ho mai nemmeno degnati di una cura, semplicemente li ho lasciati crescere con indipendenza –Non ci so fare con queste cose- ammetto.
Daisy si porta un dito alle labbra, la tipica espressione assorta del mondo dei Vampiri –Peccato-
Il mio sguardo si sofferma sugli intrecci fini e sottili che si srotolano come un ricamo sul suo capo, tenendo stretti i capelli fiammanti in un disegno ammirevole.
-Potresti farlo tu per me- propongo timidamente –se vuoi-
I suoi occhi si illuminano. È evidente che devo aver centrato la sua passione.
-Volentieri-
E il suo sorriso è tanto radioso che, per un istante, riesce a scacciare le nubi di quell’aura oscura che avvolge tutti i Voraci.
La campanella squilla, un suono alto e stridente che rompe l’atmosfera come uno specchio.
Mi riscuoto, mi rendo conto di aver trascorso il mio tempo con persone potenzialmente fatali, il pericolo incarnato in sette studenti.
Eppure è stato il miglior pranzo da quando ho messo piede in questa dannata scuola. 

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Capitolo 12
*** Felix. ***


Sesta settimana alla Toussand.   

 Esco dalla classe con i libri che pesano nella tracolla di jeans, in mano un blocco per gli appunti malandato e completamente gonfio di note in ogni centimetro bianco dei fogli. Non sono mai stata una persona ordinata.
Anche oggi ho pranzato al tavolo dei Voraci. Sono già tre giorni che consumo i pasti in loro compagnia e la tensione sembra essersi allentata un po’, sebbene mi ci voglia ancora qualche tempo per schiudermi completamente.
Ho scoperto che, nonostante la loro natura, non sono affatto persone ostili e non badano alle apparenze né giudicano con superficialità. Non parlo molto, ma ascolto con attenzione e mi piace rimanere al margine delle loro chiacchiere, semplicemente ascoltando come spettatrice i loro piccoli battibecchi o le loro discussioni.
E, lentamente, sto cominciando a capirli, ad apprezzarli. Ognuno di loro ha una personalità propria, un modo di fare, delle caratteristiche specifiche, un colore che li contraddistingue da quel grigio monotono degli altri studenti.
Solo Elijah mi appare completamente indecifrabile.
Non apre bocca, parla solo se strettamente necessario e quando lo fa è parco di parole. Si siede al tavolo, mi scocca la solita occhiata enigmatica e profonda, consuma rapidamente il pasto e poi torna ad affondare il naso fra le pagine di un libro.
Totalmente indecifrabile.
Svolto l’angolo, alzo lo sguardo.
Sul fondo del corridoio una sagoma si staglia sulla flebile luce che entra dalle vetrate dell’atrio. Acuisco la vista e guardo meglio: una zazzera rossa, spalle larghe da palestra e comportamento disorientato.
-Felix?- chiedo, fra l’incredulo e il perplesso.
Lui si volta. È proprio Felix, e il suo volto si illumina alla mia vista, accendendogli gli occhi di un verde vispo e brillante.
-Kyla!- esclama con un sorriso –è proprio te che cercavo!-
-Che ci fai qui?- chiedo, ancora incredula per quanto io sia felice di vederlo. In fondo è stato ciò che più si avvicinava ad un amico per un bel po’ di tempo,l’unica luce offertami al primo buio della Toussand.
-Ah- lui caccia un’insolita risatina –Be’ non ti ho più vista agli allenamenti  e mi sono preoccupato-
Mi mordicchio un labbro. Effettivamente è da qualche settimana che non mi presento più in palestra, ma come faccio a spiegargli il motivo della mia improvvisa sparizione?
-Si, be’ … - prendo tempo –Ho avuto dei problemi in famiglia e … - rimango sul vago, stringendomi nelle spalle.
Mi riscuoto –Ma come hai avuto il permesso di entrare? Di solito qui mettono piede solo studenti e insegnanti-
Lui mi ricaccia un gesto di noncuranza. Ha un comportamento insolito, nervoso, quasi frenetico –Lascia stare. Piuttosto, ho una faccenda da discutere con te-
Io alzo le sopracciglia, colta alla sprovvista –Dimmi-
Felix ammicca con un’occhiata eloquente –in privato-
-Oh- mi guardo attorno. Se si tratta di una questione importante i corridoi della Toussand non sono il posto giusto –Seguimi-
 
Lo porto nei dormitori, nella mia piccola camera dall’aria ferma e lo faccio accomodare su una sedia sgombera di vestiti o cianfrusaglie eventuali. Io mi siedo sul letto e mi protendo verso di lui, invitandolo a prendere parola.
Felix è serio –Ho bisogno di te, Kyla- mi dice.
Io rimango interdetta per qualche istante, poi gli faccio cenno di andare avanti.
-Mi serve il tuo aiuto- la sua voce ha un piccolo sussulto e per un istante mi pare di scorgere un manto scuro fra le sue ciglia, ma è un secondo, un attimo solo.
Poi tutto torna come prima.
Mi agito sul materasso. Devo essermelo immaginato. Eppure non riesco a scrollarmi di dosso questa angoscia velata, questo campanello d’allarme che suona lontano.
-Cosa ti serve?- chiedo, tesa.
Lo sguardo di Felix si distoglie da me e passa oltre –Chi te l‘ha dato?-
Mi volto. Con un brivido, mi accorgo che i suoi occhi sono fissi sulla scatola di legno che mi ha affidato Elijah, ormai opacizzata dalla polvere sottile.
-Non è niente- mi affretto a spiegare, ma io stessa mi accorgo del tono allarmato della mia voce –è solo un regalo- concludo forzando una risatina.
Ma quando mi volto il cuore smette di battere.
Sul volto di Felix si sta scavando una ragnatela di grinze feroci, gli occhi hanno perso quel verde puro e genuino e stanno annegando in un rosso che sa di sangue.
Sotto il mio sguardo allibito il suo corpo si tende, si contrae spasmodicamente, riesco a vedere i muscoli guizzare sotto la sua pelle sottile. L’orrore mi gela ogni capacità di ragionare.
Non è possibile
Non voglio crederci.
Non lui.
Non Felix.
No.
No.
No!
Come in una realtà parallela, come al di là dello schermo del cinema, le labbra di Felix si schiudono, due lame bianche e affilate ne fanno capolino.
Io ancora non riesco a reagire. Sono immobile, il mio respiro è immobile persino il mio cuore è immobile.
Sento solo una piccola crepa che si apre nel mio petto, e si allarga, diventa una voragine incolmabile. È solo quando Felix si avventa su di me, con un guizzo rapido quanto inatteso, che tutto torna a prendere consistenza.
Scarto di lato, mi getto a terra e per un soffio svicolo alla sua presa.
Non riesco a guardarlo in faccia, non riesco a collegare il sorriso solare del mio allenatore su quel corpo in contrazione, scosso da istinti feroci.
È sbagliato. È tutto sbagliato.
Un fruscio, un nuovo ringhio basso.
rotolo a destra, mi alzo agilmente giusto in tempo per non essere colpita, ma la mia stanza è piccola, sono in gabbia. In gabbia con un leone.
Spinta solo dall’impulso del terrore, tento di raggiungere la porta ma è un errore, un enorme e grave errore che pago caro.
Felix scatta, in un lampo mi è addosso, mi sovrasta con il suo peso, inchiodandomi a terra con tale violenza che per un attimo i miei polmoni non riescono a trarre alcun respiro.
Gemo, stordita, confusa e terrorizzata.
Il ghiaccio della paura mi fluisce nelle vene, un terrore che già conosco comincia a strisciare su di me, avviluppandomi con le sue braccia infide.
Nei miei occhi si specchiano i canini di Felix, lunghi e immacolati come la neve, pronti ad affondare nella mia tenera carne e a strapparmi la mia linfa vitale.
No.
Non voglio morire.
Non voglio.
Stringo i denti. Un’ondata di rabbia si gonfia in me e avverto una determinazione disperata invigorirmi.
Non morirò oggi.
Non morirò qui.
Non morirò così.
Con tutta la forza che ho, sferro una ginocchiata al basso ventre di Felix, proprio nell’istante in cui si stava chinando su di me e lo getto di lato con tanta foga che io stessa mi faccio male.
Lo sento gemere, un gorgoglio basso che mi mette i brividi.
Ma non c’è tempo nemmeno per inorridire: mi sollevo, con un balzo sono accanto al mio letto.
Le mie mani tremanti aprono freneticamente la scatola di legno e nel buio scintilla quasi accecante la lama spettrale del pugnale. In fretta, faccio per impugnarlo, ma uno strattone brusco mi tira verso il basso, strappandomi un gemito di dolore.
Felix è strisciato fino a me e mi ha afferrato una caviglia, le sue dita sono forti e violente, la sua presa fa male, mi gonfia un groppo che mi preme in gola.
Un altro strattone, più forte, mi costringe in ginocchio, mentre avverto chiaramente gli arti di Felix stringermi le gambe in una morsa di ferro.
Urlo, gemo, provo a dibattermi, ma non c’è nulla da fare: quegli occhi rossi e folli continuano a fissarmi con desiderio e le sue braccia non allentano di un centimetro.
Mi aggrappo al bordo del comodino, impedendo a Felix di trascinarmi lontano. Ma lui è più forte, e i suoi respiri corti ed eccitati si avvicinano sempre di più, le sue dita avanzano, la sua presa si stringe.
Ormai riesco a muovere solo il busto, non c’è niente che io possa fare per liberarmi dalle sue spire. Mi lascio sfuggire un'unica lacrima di frustrazione, ardente come fuoco disciolto.
Poi accade.
Un dolore acuto, sottile.
Al polpaccio.
Il respiro mi si mozza in gola.
Terrore.
Mi ha morsa.
Li sento. Due fori sulla mia pelle, due canini nella mia carne.
 E il sangue. Mi scivola via come sabbia dalle dita, la punta del piede già mi formicola.
No, dannazione, no!
In un gesto estremo, con la forza della disperazione, mi tiro indietro con uno strattone, ribaltando il comodino, gettando a terra gli oggetti che vi erano appoggiati sopra, inclusa la scatola di legno.
Un tintinnio alto e cristallino mi suggerisce la posizione del pugnale e, mentre avverto le forze scemare lentamente, allungo una mano nel buio.
Le mie dita incontrano la guardia fredda, ne percorrono febbrilmente il contorno fino ad arrivare all’elsa. Impugno l’arma, la testa mi gira vagamente ma riesco a sollevare il busto.
Raccolgo ogni residuo di forza  e con un urlo che mi brucia la gola affondo il pugnale nella spalla di Felix.
Un getto nero come la pece esplode dalla ferita, dipanandosi attorno in una pozza densa di inchiostro, schizzi scuri balzano sulle pareti e sul mio viso, mentre la mia mano ne è totalmente ricoperta.
Un liquido viscoso, maleodorante e freddo come il ghiaccio.
Rimango agghiacciata, inorridita.
La mia presa sul pugnale trema, le carni di Felix si irrigidiscono con uno scossone tremendo e
un rantolo agghiacciante si strappa dalle sue labbra.
Fa in tempo a puntare i suoi occhi ora verdi e sofferenti su di me, prima di accasciarsi sul pavimento, freddo ed immobile.
in un istante, tutto è finito.
Guardo la devastazione di quella scena, inclino il capo di lato e cedo ad un conato di vomito. 

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Capitolo 13
*** Lacrime. ***


Non so per quanto tempo sono rimasta qui, inerme e sconvolta.
Il corpo di Felix è ancora ai miei piedi, le mie dita stringono ancora il pugnale,  come se fosse l’unico appiglio su un baratro senza fine.
La sostanza nera e viscosa è ormai secca sulla mia pelle.
Il sangue di un Vampiro.
O di un Vorace.
Il mio polpaccio ha smesso di sanguinare, ma i segni di due denti sono evidenti, due fori rossi sul candore della mia pelle.
Non so cosa fare. Mi sento persa, smarrita, lasciata sola a vagare in un labirinto illusorio.
Alzo il capo.
Sento la disperazione dimenarsi prepotente in me, ma in qualche modo non riesco a reagire, non riesco nemmeno a piangere. Il terrore mi ha seccato le lacrime, lasciandomi arida e vuota.
Un unico pensiero si staglia chiaro nella mia testa.
Elijah.
Mi alzo, le vertigini mi assalgono ma mi sostengo al muro.
Elijah.
Esco. Non penso al fatto di essere ricoperta da capo a piedi di sangue nero e freddo, non bado al pugnale che ancora stringo fra le dita, né all’aspetto sconvolto che mi scompiglia.
Elijah.
I corridoi sono deserti. Aumento il passo, la calma irreale che mi aveva lambito come una doccia fredda comincia ad incrinarsi.
Elijah.
Corro. Il respiro aumenta in modo irregolare, il cuore batte a mille, la testa mi gira vorticosamente ma non importa. Non mi importa di nulla, voglio solo raggiungere Elijah.
Busso alla porta con emergenza, come se gli incubi e le immagini di ciò che è accaduto fossero reali e mi stessero inseguendo, braccando.
Mi apre la porta Bruno, la sua espressione muta nell’incredulità quando mi vede in questo stato, e per un istante rimane a corto di qualsiasi parola.
-Elijah- riesco solo ad ansimare, mentre la gola mi si stringe e il respiro corre frenetico, bruciandomi i polmoni. La cornice della mia vista comincia ad offuscarsi, mi sento pesante, ferita.
Bruno mi afferra per un braccio e mi trascina dentro la stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
Elijah è lì. Seduto sulla poltrona. Solleva gli occhi dal suo libro, e quando mi vede balza in piedi, gettando il volume sul tavolo.
Ha l’aria allarmata, e persino nella situazione offuscata in cui mi trovo riesco a pensare quanto sia insolito vedere il mare calmo del suo viso incresparsi, la sua maschera immota creparsi anche solo un po’.
-Kyla!- esclama. Anche la sua voce ha perso di controllo e una venatura agitata spicca evidente.
Non mi chiede niente. Non fa niente. Ha già intuito tutto. Il sangue e il pugnale sono indizi piuttosto eloquenti.
Un tremito brusco mi attraversa il corpo come una scossa, la mia presa si apre, il pugnale finisce a terra con un cozzare stridente che mi fa male alle orecchie.
Stringo i denti, il mio sguardo si perde.
Non riesco a respirare.
Non ci riesco.
Non respiro!
Mi porto una mano al collo, odo il mio stesso respiro farsi difficoltoso, avverto un terribile nodo sul fondo della gola; un nodo enorme, spesso e pulsante, che aumenta gradualmente, fino a non lasciarmi che una sottile fessura per l’aria.
Il mio cuore pulsa impazzito nel petto, non riesco a fermarlo, non riesco a calmarmi.
Non ce la faccio.
Stringo gli occhi.
La mia lucidità è in frantumi, sono letteralmente preda del panico.
Crollo in ginocchio. Odo confusamente la voce di Elijah chiamare il mio nome, ma non riesco a rispondere, tutto ha un ritmo troppo veloce per me; i battiti del mio cuore sono tanto rapidi e violenti da sembrare un unico, lungo suono cupo, ritmato dal battito duro dei miei denti.
Ho ucciso Felix.
Sto male.
L’ho ucciso.
Mi sembra di impazzire.
Ho ucciso.
La realtà perde di consistenza, si sfalda sotto le mie dita come un pergamena lisa dal tempo, i suoni si trascinano in un mormorio ovattato, la vista slava lentamente ed è in questo momento che ho la certezza che qualcosa si è rotto in me, qualcosa che in qualche modo teneva intatta la mia purezza.
Poi un tocco freddo sul mio viso. Qualcuno mi prende il volto fra le mani e mi costringe ad alzare lo sguardo.
È tutto confuso, tutto così sottile e irrilevante che mi viene voglia di lasciarmi scivolare laddove i sogni prendono consistenza.
Gli occhi neri di Elijah mi appaiono dietro uno specchio offuscato. La sua espressione è fredda, ha riacquistato controllo, le sue labbra si muovono ma sono assordata dal mio respiro, stordita dal mio terrore.
Sto ansimando. Con tale violenza che i polmoni mi bruciano come tizzoni ardenti.
-Calmati- La sua voce riesce a spezzare la mia confusione mentale e mi raggiunge, flebile ma autoritaria.
Ho sentito. Ho capito.
Ma non ci riesco.
Non ne sono in grado.
Non ce la faccio da sola.
E forse nemmeno ne ho voglia.
Perché dovrei tornare alla realtà? Perché non abbandonarsi ai piaceri dell’incoscienza, solo per risvegliarsi in un mondo che ha da offrire nient’altro che dolore?
Elijah sta parlando. Imparte ordini ai suoi compagni, chiama il mio nome, mi fa domande. Ma la sua voce non ha più la forza per raggiungermi e io non ne ho per rispondere.
Mi piego in una smorfia sofferente. Il mio respiro non si sta regolarizzando, il mio cuore non ha intenzione di tornare tra gli schemi. È tutto inutile.
Sangue.
Morte.
Dolore.
No.
No.
No.

Comincio ad affondare nello sconforto e so che non ne riemergerò mai più.
Sto per arrendermi, quando attraverso il velo confuso della disperazione vedo il volto di Elijah farsi più vicino, il suo odore si infrange su di me come un onda imponente, e mi inebria fino allo stordimento.
La sue braccia si allungano, mi cinge in un abbraccio cauto, quasi inesperto. Avverto il tocco delle sue dita sulla mia schiena, la delicata pressione che usa per trarmi a sé.
In un istante, tutto si arresta.
Il mio respiro si tronca.
Il mio cuore è in attesa.
Le sue labbra sfiorano il mio orecchio -Calmati- mi sussurra.
Stavolta, come un soldato, obbedisco.
Il vuoto della paura si affievolisce lentamente, la confusione si dirada, mostrandomi concretamente la dura realtà.
Sono rigida, ferma e fredda come il ghiaccio.
Abbasso lo sguardo; oltre la spalla di Elijah, le mie mani giacciono inermi sul pavimento. La mia carnagione pallida risalta con prepotenza sotto il sangue secco e nero che le imbratta. Una macchia che non solo disonora le mie dita, ma che marchia soprattutto la mia anima.
L’accusa indelebile di un omicidio.
Socchiudo gli occhi, il dolore mi frana addosso con un peso indicibile, un peso che le mie spalle non riescono a sorreggere.
Una lacrima traditrice mi corre lungo il volto. So che ne ho bisogno, so che se voglio emergere da questa situazione devo gettare fuori quel grumo di dolore con le lacrime, ma anche con questa consapevolezza tento una fragile opposizione.
La mano di Elijah mi corre sul collo e poi si insinua fra i miei capelli, sulla mia nuca, in un tocco che mi fa letteralmente rabbrividire.
Non ce la faccio più.
Ogni mia resistenza crolla. Il mio capo affonda fra i suoi capelli e le mie braccia ricambiano automaticamente l‘abbraccio.
Le dita stringono, stringono con forza le pieghe della sua camicia, come se mi stessi aggrappando, come se quel semplice gesto potesse issarmi al di fuori di quel baratro di disperazione.
E non trovo la forza per fermare le lacrime che seguono, perle calde che mi bruciano gli occhi come fuoco.
Finalmente mi sciolgo in un pianto liberatorio, senza più alcun ritegno. I singhiozzi sono tanto violenti che ho paura di spezzarmi, di spaccare lo sterno e squarciare la schiena.
Ma non succede.
Non succede perché c’è Elijah che lo impedisce, ci sono le sue braccia che mi stringono e la sua spalla che raccoglie le mie lacrime.
 
Serro le palpebre.
È finita. Il pianto è scemato e le lacrime si sono seccate, lasciandomi in regalo nient’altro che un insistente mal di testa. 
Il nodo alla gola si è sbrogliato, riesco a respirare, la nebbia che avevo nella mente si è diradata. Il dolore è ancora lì, reale e crudo, anche se ora è sopportabile.
È che sono stanca. Sono a pezzi.
Psicologicamente morta.
Quasi mi vergogno della scenata, ma il terrore che mi aveva agguantato non dava segno di voler allentare la presa e io non sapevo come reagire.
-Mi dispiace- sussurro, la mia voce è spenta e roca per il pianto.
-Va tutto bene- risponde Elijah, calmo.
Qualcosa, nella sua voce, ha il potere di sopire il dolore che mi scava il petto, come un palliativo.
Ho ancora le dita serrate meccanicamente sulla sua camicia, la guancia appoggiata sulla sua spalla innaffiata dalle mie lacrime. È strano come una persona che dovrebbe incarnare il terrore mi faccia in realtà sentire al sicuro così come non lo sono mai stata.
Sospiro e lascio la presa, le mani cadono inermi sul pavimento e mi lascio affondare a peso morto in quell’abbraccio che sa di salvezza.
-Non so cosa mi sia preso- mormoro, tentando di giustificare il mio comportamento irrazionale. Non avevo mai provato nulla di simile: quel blocco alla gola, quella sensazione di non poter seguire il ritmo del respiro … era tutto così dannatamente reale che per un istante ho davvero creduto di poter morire. 
La voce di Elijah è controllata e mi sfiora l’orecchio.
-Hai avuto un attacco di panico. È più che comprensibile-
Sbatto le palpebre un paio di volte. Non rispondo.
La tranquillità buia di quella stanza è così paradossale in confronto a ciò che mi squassa la mente,un tormento interiore che non mi da pace.
-Cos’è successo, Kyla?-
Eccola lì. La domanda tanto temuta. Quella che rompe lo specchio dell’illusione per trascinarmi definitivamente alla realtà.
Ma devo rispondere, Elijah deve sapere.
 -Felix- sussurro, mordendomi con forza le labbra –Mi ha aggredita-
-Chi è?- mi chiede lui, senza sciogliere l’abbraccio.
Ingoio a vuoto –Il mio allenatore-
Avverto le dita ghiacciate di Elijah indugiare sul mio collo. Mi sfiora la pelle, la gola, la nuca. Un lungo brivido mi scivola fra i dorsali.
-Perlomeno non ti ha morsa- deduce, parlando più a se stesso che rivolgendosi a me.
-L’ha fatto- ribatto in un soffio.
Elijah scioglie la presa all’istante e mi afferra per le spalle. Un balenio preoccupato gli attraversa gli occhi e qualcosa, in fondo alla mia coscienza, sa che non è affatto un buon segno.
-Che hai detto?- mi chiede, la voce forzata in una calma che però ha un che di rigido.
-Mi ha morsa- rispondo, frastornata –Al polpaccio-
Lui contrae le labbra. Per un attimo un cipiglio preoccupato gli stropiccia la pelle tesa e candida, ma riagguanta subito la lucidità fredda che io tanto invidio in lui.
In ogni caso, questa storia mi piace sempre di meno.
-Cosa c’è?- chiedo, angosciata.
Elijah mi affonda negli occhi il suo sguardo penetrane ed enigmatico. Sembra sul punto di dire qualcosa, di lasciare che io finalmente scosti quel drappo di mistero dal suo volto per capire, per sapere.
Ma non lo fa.
-Vieni- si limita a dire –datti una sciacquata.
Mi accompagna in bagno, mentre le domande mi si affollano nella testa e mi premono sulle labbra, ma l’autorità ferma di Elijah mi intimidisce a tal punto che le ingoio senza il minimo tentativo.
Non posso fare a meno di pensare per l’ennesima volta a quanto Elijah sia indecifrabile. Ha il portamento fiero e distaccato di un re, di qualcuno che dalla cima della piramide abbassa di rado lo sguardo.
Eppure è tutt’altro che freddo.
In pochi nella mia vita si sono presi tanto cura di me, e nessuno mi ha mai stretta come ha appena fatto lui.
Scaccio rapidamente quel pensiero tanto inadatto al contesto: mi sono appena macchiata del più grande reato, poco importa se l’ho fatto per difendermi. Qualcosa si è rotto in me, qualcosa si è spezzato e non tornerà più come prima.
Lo specchio nel bagno mi restituisce l’immagine di una ragazza gracile e sfinita. Gli occhi sono rossi e gonfi di pianto, il mio viso è letteralmente esangue, scavato in un’espressione stravolta.
Mi guardo le mani: Piccole, lisce, da bambina.
Pure, se non fossero imbrattate di nero, un nero che ha il sapore della morte.
Mi lavo, l’acqua viene contaminata dal sangue che stringo fra le dita e sparisce in un vortice scuro sul fondo del lavandino, eppure ho l’impressione che non riuscirò mai a scrollarmi di dosso questa sensazione viscosa dalla pelle.
 
Esco dal bagno, ed Elijah mi incalza immediatamente. Mi fa sedere, senza darmi il tempo di una domanda mi scopre il polpaccio ed esamina con occhio clinico i fori arrossati sulla mia pelle.
-Non è profondo- mormora con voce assorta.
No, non lo è, in effetti. Nonostante la violenza della presa del Vorace, nonostante i suoi rantoli smaniosi e le membra frementi di desiderio, i canini non sono affondati con la brutalità che mi aspettavo. Hanno semplicemente forato gli strati più superficiali della pelle.
Forse ho avuto i riflessi abbastanza pronti per reagire ed impedirgli di immergersi di più nel mio sangue.
Un pensiero mi trafigge il cervello come un pugnale.
O forse è stato proprio lui a manipolarmi, forse uccidermi non era nei suoi piani.
-Non mi ha morsa con forza- sussurro.
Elijah alza il capo e incrocia il mio sguardo. Sta riflettendo, riesco quasi a vedere i meccanismi sferragliare oltre quel pozzo insondabile dei suoi occhi.
Perché non dice nulla? perché non mi rassicura?
-Elijah … - mormoro, una venatura tremante si insinua fra le mie corde vocali.
Ma in quell’istante la porta della sala si spalanca e Bruno fa irruzione, affiancato da Daisy.
Il ragazzo ha uno sguardo inquieto e gli occhi nocciola corrono subito a cercare l’attenzione di Elijah.
-È come pensavi-  dice solo, la voce tesa.
Sbatto le palpebre. Nonostante tutto, non hanno smesso di parlarsi in codice. Mi piacerebbe riuscire a cavare anche solo una lontana teoria di ciò che sta ribaltando la mia vita, ma non ci riesco. Non ci riesco perché non fanno altro che nascondermi la verità, tenermi in disparte come una bambina impreparata ad affrontare la realtà.
Elijah si alza, ed estrae una fascia candida da un cassetto –il ragazzo?-
-In infermeria- risponde prontamente Daisy.
Corrugo la fronte,ma  quel semplice gesto mi infligge una stilettata di dolore alle tempie aride di pianto.
Elijah si china davanti a me e tende la fascia, ma quando le sue dita mi sfiorano la pelle lo sento sopprimere un sussulto. Abbasso lo sguardo, allarmata, ma è questione di secondi, solo un attimo di esitazione. Le sue dita tornano ad essere ferme e salde come sempre.
Eppure l’ho avvertita. Una tensione rigida come uno spasmo, un istinto soffocato.
Il mio sguardo cade sul mio polpaccio.
Mi si gela lo stomaco.
La ferita. Uno dei due fori ha ripreso a sanguinare.
Elijah è impassibile, controllato e freddo come suo solito, ma una sottile scoordinazione gli irrigidisce le dita e so per certo che il motivo è il mio sangue.
Bruno e Daisy sono due assi di legno sull’uscio e non osano il minimo movimento: la quantità di sangue è minima ma dev’essere in ogni caso suadente per l’istinto predatore di un Vorace.
Senza pensarci due volt allungo una mano e afferro il polso di Elijah.
È la prima volta che cerco un contatto volontario con uno di loro, e il gelo della sua pelle mi fa inevitabilmente rabbrividire.
Elijah alza lo sguardo. È calmo, immobile e moderato. So che ha un grande controllo, so che è in grado di sopprimere i suoi istinti più oscuri, me l’ha detto lui stesso. Ma ha detto anche che resistere al richiamo del sangue non è cosa facile e ho potuto verificarlo di persona.
Non voglio metterlo in difficoltà.
-Faccio io- sussurro, ostentando sicurezza nonostante la mia voce renda fresco il pianto.
Lui non commenta. Sembra cogliere al volo i miei pensieri, e li accetta.
Fascio la ferita il più stretto possibile: non voglio che l’odore del mio sangue trapeli nell’aria.
 Un trambusto appena fuori dalla stanza attira l’attenzione generale. Daisy si volta e con uno scatto felino è alla porta, ma si ritrae all’istante, lasciando entrare Hortense e Derek, entrambi con il fiato grosso.
-Niente nei dormitori Nord- dice Derek, serio come non l’avevo mai visto.
-Niente negli Ovest- aggiunge Hortense scuotendo il capo.
Elijah alza il mento e un silenzio sottile si insinua fra i presenti, senza che nessuno abbia il coraggio di romperlo. Non capisco cosa stia succedendo, ma sono stanca e pensare con lucidità mi sembra impossibile in questo momento. Semplicemente vorrei dormire. Dormire e sfuggire dalla morsa pressante della realtà.
La realtà in cui io ho ucciso.
Sospiro e mi prendo il capo fra le mani. Ho la certezza che non riuscire più a piangere nemmeno se lo volessi e non sono sicura che questo sia un fatto positivo: il dolore è ancora più concreto e non ho modo di scacciarlo con le lacrime.
-Kyla- la voce di Hortense mi riscuote. Sollevo il capo; ha uno sguardo preoccupato, velato quasi di compassione.
-Sto bene- mento. Una pietosa e palese menzogna.
-Il tuo amico non è morto- interviene Bruno con voce cauta.
Il respiro mi si strozza in gola.
-Cosa?- esclamo, incredula. Non voglio illudermi di aver davvero udito ad un miracolo. Ha davvero detto che Felix è vivo? Com’è possibile? Io stessa ho affondato il pugnale nella sua carne scossa dagli spasmi.
-È in infermeria- interviene Daisy.
–Com’è possibile? io ho … - la voce mi trema e non trovo il coraggio per concludere la frase.
-Non lo hai ucciso- chiarisce Elijah a mezza voce.
Assurdo. La ferita che gli ho inflitto era più che mortale: una lama nella schiena, affondata fino all’elsa, non da’ scampo di sorta. 
-L’ho pugnalato- scandisco fra i denti.
-Non era esattamente lui- interviene Derek e in risposta al mio sguardo vacuo arriccia le labbra.
-Cosa …?- sono confusa, ancora confusa.
-I Voraci si distinguiamo dai Vampiri per superiorità e razionalità. I più temibili di noi arrivano ad affinare le proprie abilità fino ad ottenere capacità che vanno oltre la concezione umana- Lo sguardo di Derek saetta verso Elijah per un secondo –In questo caso sembra che un Vorace abbia manipolato Felix come un burattino-
Mi sfugge un gemito esasperato. Perché invece che spianarsi la mia vita non fa che aggrovigliarsi di domande e misteri? È un terribile dedalo del quale mai troverò via d’uscita.
-La lama de pugnale è stata forgiata appositamente per Vampiri e Voraci. Per questo quando lo hai colpito non hai inferto ferita a Felix, ma a chi ne reggeva i fili- conclude Hortense, con voce delicata.
Non m’importa. Non m’importa più di nulla. Felix è vivo. Non l’ho ucciso.
Felix è vivo. 
Mi alzo dalla poltrona con la testa leggera e la mente annebbiata, una forte spossatezza mi destabilizza ma non mi importa. Volto la schiena a tutta quell’orribile faccenda e corro in infermeria, stanca, provata e distrutta.
Alle mie spalle, la voce di Elijah muore nell’eco dei corridoi. 

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Capitolo 14
*** Alzare il sipario. ***


Elijah entra nella sala di attesa. Anche lì l’odore dei medicinali è forte e non esiste centimetro di stanza che non effonda aromi di disinfettanti vari.
Non ha molto da cercare.
Kyla è l’unica nella sala, abbandonata a peso morto su un seggiolino di  plastica blu, e spicca contro la vernice bianca dei muri, con il suo solito vestiario scuro e cupo.
Elijah si avvicina,ma si accorge fin da subito del respiro profondo e assorto della ragazza, non gli ci vuole molto per capire che si è totalmente addormentata nell’attesa.
Getta un’occhiata all’orologio appeso alla parete: le ha lasciato un’ora per delucidarsi le idee da quando ha voltato loro le spalle ed è corsa fuori a cavallo del suo dolore. Le ha concesso il lusso di elaborare lacrime e terrore in solitudine, solo per la certa consapevolezza che con una ferita tanto profonda il Vorace che si aggirava per la Toussand fosse destabilizzato. In fondo, in meno di un paio di settimane la vita di quella ragazzina si era stravolta completamente, un peso enorme le era crollato addosso e l’amalgama di terrore e paura l’avevano soffocata come edera. Ma ora era arrivato il momento di affrontare la situazione e smettere di scappare da ogni notizia nefasta.
Elijah trattiene un sospiro e si siede di fianco a Kyla, apre l’immancabile libro sottile di biblioteca e attende.
Ma è proprio nella sua fredda concentrazione che irrompe qualcosa. Elijah non riesce a classificarlo, un lontano sussurro, un profumo, forse. Sì, un aroma dolcissimo che gli stuzzica la gola.
Alza il capo, si guarda attorno. Ma non riesce a definire da dove provenga.
L’occhio gli cade su Kyla, sul suo viso rilassato, ancora solcato dalle lacrime. Sulla sua pelle di alabastro candida quasi quanto la sua, sulle lunghe ciglia pallide e le labbra rosee schiuse appena al sonno.
Quasi sovrappensiero, guidato dall’istinto, lo sguardo di Elijah cola lungo la gola e si sofferma sul collo. Lungo, chiaro.
Esposto.
 Un battito cardiaco più violento lo assorda per un istante.
Distoglie lo sguardo a forza e stringe i denti, ma un leggero tremito gli scuote le dita. Allora serra le palpebre e ricorre alla sua lucidità, una doccia fredda che in più di un’occasione lo ha aiutato.
Un respiro più profondo, e il controllo torna padrone.

Dannazione.
Non vuole profondarsi oltre in pensieri molesti, e tenta di respingere quella debole sensazione che gli pulsa sul fondo del petto.
Eppure sa che è così.
Il dubbio gli si è insinuato nella testa da quando ha esitato sulla ferita di Kyla, poche ore prima.
Elijah ha sete.
Il suo corpo richiede sangue, il suo istinto lo sprona.
Ma non è così che andrà. Anni di oppressione gli hanno donato una certa esperienza e un controllo praticamente inflessibile. Sa placare la sua sete, è in grado di  mettere a tacere il rantolo smanioso della bestia che risiede in lui.
Un fruscio lo riporta alla realtà.
Gli occhi di Kyla si schiudono sulla sala luminosa e la pupilla viene inghiottita dal celeste terso delle sue iridi. Si concede un istante per riprendersi del tutto, per tornare alla realtà, poi il suo sguardo si posa su Elijah.
Ha gli occhi arrossati e le palpebre ancora pesanti, ma la disperazione è scivolata via dalle grinze del suo volto e ora è solo lo specchio della rassegnazione.
-Ciao- sussurra, abbassando gli occhi con quel suo fare schivo.
Elijah si limita ad un parco cenno del capo.
È Kyla a spezzare il sottile silenzio fra di loro.
-Mi dispiace- dice con un filo di voce.
Lui non risponde, non fa una piega, la guarda con aria impassibile, aspettando che vada avanti.
-Non faccio che comportarmi come una bambina- piega un angolo della bocca in una smorfia quasi imbarazzata –perdo il controllo di continuo-
Elijah alza il mento con fare atono, ma apprezza le parole di Kyla, ed è un bene che lei stessa sappia che è arrivato il momento di reagire.
-Non c’è problema- risponde, senza prolungarsi in incoraggiamenti inutili che farebbero solo da cornice ad una situazione che, invece, deve essere colta per quello che è.
Kyla si mordicchia un labbro-Non credevo che anche voi aveste del sangue in corpo-se ne esce, cambiando argomento.
-Non lo è. Le vene dei Vampiri sono totalmente vuote, in quelle dei Voraci stagna un liquido freddo e nero che circola indolente. Non ha nulla a che vedere con il nostro organismo, per quanto ne so potremmo vivere tranquillamente anche senza, ma è qualcosa che appartiene al nostro corpo e che ci distingue dai Vampiri. Se i Voraci avessero sangue nelle vene si sbranerebbero fino ad estinguersi. Fortunatamente se uno di noi osa mordere qualcuno della stessa specie il liquido reagirebbe come un veleno letale e la morte non si farebbe attendere a lungo.
Qualcuno crede che sia la prova della nostra bestialità, la malvagità che trasudiamo e che fa parte della nostra esistenza. Una sorta di sporcizia che corrompe un corpo immondo-
Kyla lo guarda, uno sguardo profondo e più maturo –E tu ci credi?-
Elijah scrolla le spalle –credo a poche cose nel mondo-
-Io no. Voi non siete malvagi- E lo dice di slancio, con convinzione.
In tutta risposta un sorrido amaro affiora sulle labbra del ragazzo, ma non dice nulla.
Passa solo qualche secondo, e la domanda fatidica non si fa attendere.
-chi era?-
Elijah non domanda, sa a cosa si riferisce –Un Vorace. Non ne conosciamo ancora l’identità-
-Cos’ha fatto a Felix?-
-È un ipotesi, ma è probabile che abbia preso controllo del suo corpo per introdursi a scuola-
Kyla corruga la fronte. È confusa. E lo è sempre stata, da quando è cominciata quella storia, da quando quella sfortunata notte l’ha trascinata in pericolose vicende che dovrebbero riguardare solo il mondo dei Vampiri.
-Perché è venuto proprio qui? Perché alla Toussand?- chiede, e la domanda è rivolta più a se stessa che al ragazzo.
Ma lui conosce la risposta e sa che non è lontano il momento in cui dovrà alzare del tutto il sipario.
Gli occhi di Kyla cercano il suo sguardo e per la prima volta lo sostengono con una determinazione che raramente affiora in lei.
-Elijah, quanto ancora mi state nascondendo?-chiede, la voce improvvisamente seria.
Il ragazzo la guarda. Uno sguardo intenso e sondatore.
Kyla è seria, è pronta ad incassare la botta, glielo sta chiedendo da adulta.
 -Un Vorace affamato non morde senza uccidere, è una conseguenza quasi imprescindibile. E la preda non ha scampo finché Il Vorace  ha in corpo un briciolo di forza di stringere le mandibole: se lui vuole uccidere, allora la preda muore-
La ragazza rimane in attesa che lui continui, ma sulla sua espressione comincia a farsi strada una consapevolezza gelida.
-Più importante: se il Vorace vuole uccidere, mira al collo- Elijah pianta negli occhi di Kyla uno sguardo grave –non al polpaccio-
Capisce.
 -Il suo intento non era uccidermi?- chiede con un tremito nella voce.
-No- 
Lo chiede con lo sguardo. Lo fa spesso; quando non trova il coraggio per dar consistenza ad una domanda, Kyla fa ricorso a quell’espressione di chi ha intuito ma non sa come uscirne.
Elijah mette da parte il libro. È giusto che lei sappia, che la storia le si presenti al completo.
Era arrivato il momento di alzare il sipario.

 
- Ti permetterò di sapere fino in fondo, ma affonderai nel nostro mondo come nelle sabbie mobili e non c’è modo di tornare in superficie- dice Elijah.
Parole pesate, succinte ma che nella loro interezza lasciano intendere quanto ancora io fossi lontana dallo scostare il muro di mistero fra di noi.
Annuisco. Non sono in grado di fare altro.
Mi trapassa con uno sguardo nero e denso, e quasi da l’impressione di averci ripensato; ma infine inizia.
-Tu conosci soltanto noi sette, ma sappi che siamo numerosi, più di quanto tu non creda. Il mondo, la realtà in cui vivi, è ricolmo di Vampiri, popolato da creature mimetiche che gli umani non sono in grado di distinguere. Siamo un seme nero e virulento piantato a forza nelle fondamenta fertili di questo mondo, e qui cresciamo, ci espandiamo, appestiamo l’aria con la nostra malvagità e ci trasciniamo una scia di sangue nel passato. I Vampiri, e maggiormente i Voraci, sono esseri malvagi, Kyla.  Se dissennati dalla sete possono tramutarsi nel peggior predatore fra le bestie che calpestano questa terra-
Fa una pausa, e il gelo della sua voce mi penetra fin dentro le ossa.
-Non sono tutti così- insisto, con un ostinato filo di voce –Voi non fareste del male a nessuno-
Sono convinta. Dopo ciò che mi è successo, dopo averli conosciuti davvero, so che è così.
Un angolo della sua bocca si contrae –Quelli come noi sono feroci per natura, ma non tutti lo sono volontariamente-. Mi guarda con tale intensità che fatico a reggere il suo sguardo –Se perdessi il controllo non sarei meno diverso dai Vampiri che ti hanno aggredita-
Stringo le labbra. –Smettila- sibilo, infastidita. –ho passato settime d’inferno rimuginandoci sopra e finalmente ho raggiunto il capo del gomitolo. Non sei come loro-
-Ma ti sei posta la domanda- mi incalza lui, senza una piega.
Faccio una smorfia irritata e mi chiudo in un ostinato silenzio facendo intendere che non avrei mosso piede dalla mia posizione. Elijah non è malvagio, lui non mi aggredirebbe mai.
-In ogni caso hai ragione- riprende lui, senza scomporsi. –Noi sette non siamo come loro per il semplice motivo che ci sforziamo di frenare i nostri istinti animali. Siamo diversi perché troppo a lungo abbiamo camminato sui cadaveri, e siamo stanchi di lasciare uno strascico di morte ovunque andiamo. E non siamo i soli. Nell’intera comunità di Vampiri qualcuno condivide il nostro pensiero, il desiderio di vivere senza uccidere e, con il tempo, questo pensiero ci ha avvicinati fino alla decisione radicale.-
-Quale decisione?- chiedo a mezza voce.
-La rottura- risponde, contraendo la mandibola.
Un brivido infondato mi slitta lungo la spina dorsale.
-Ci siamo divisi. Abbiamo seguito il nostro ideale, abbiamo perseguito nella nostra fermezza per una convivenza con gli umani. All’inizio è stato difficile, molti sono ricaduti nella spirale di sangue, altri sono addirittura impazziti tentando di resistere agli impulsi del corpo, qualcuno ha semplicemente rotto le file per tornare nel bagno di sangue da cui erano fuggiti. In pochi ce l’anno fatta-. Sposta lo sguardo ammantato dai ricordi-e quei pochi tutt’ora conducono una vita gomito a gomito con gli umani-
-E gli altri?- sussurro.
-Gli altri sono ancora in circolazione. Vagano nel mondo come spettri e succhiano via la vita dagli umani, deteriorando il mondo con la loro ferocia. Noi facciamo il possibile per tenerli lontani, ci siamo spartiti le zone da sorvegliare e difendere, fino a questo momento la situazione è rimasta in stallo ma …-
-… ma ora sono passati all’offensiva- intuisco, nervosa.
Elijah annuisce, severo.
Un pensiero amaro mi affiora nella mente –Quindi chi ha preso il controllo di Felix è uno di loro-
-Sì-
-Ma perché lui? Perché prorpio Felix?-
Mentre la domanda mi si formula sulle labbra, la mia mente ha già fornito un abbozzo di risposta.
-È una strategia, kyla. il loro obiettivo è stroncare la feccia oppositrice alla radice-
-e qual è la radice?-
Il suo sguardo si fa più penetrante –Sono io-
Un brivido gelido mi torce lo stomaco.
Ma certo.
Quella palpabile aura di superiorità, quell’alone altero ed evanescente. È palese quanto Elijah sia più in alto di un gradino rispetto ai suoi sei compagni.
Lui è la radice.
Lui è il capo.
Abbasso lo sguardo. La mia mente sferraglia febbrile. Se vogliono colpire lui, allora perché hanno usato Felix? Elijah non ha mai avuto alcun contatto con lui, anzi: nemmeno lo conosceva.
A meno che …
L’intuizione mi colpisce come uno schiaffo e mi illumina in un lampo.
-Volevano usare me, vero?- domando in un soffio, un lieve tremito che mi afferra le dita.
Lui mi guarda. Due pozzi tenebrosi in cui è così dannatamente facile smarrirsi, due gorghi magnetici.
-Un Vorace che ha sviluppato questo tipo di capacità ha bisogno di bere una stilla di sangue della sua vittima per appropriarsene. Ma non può mordere un suo simile senza andarsene di morte atroce dopo pochi secondi.
Il suo intento era di controllare qualcuno che mi è vicino per uccidermi, ma non poteva farlo con i miei compagni per via del veleno che scorre loro nelle vene-
Prima controllare Felix per arrivare a me, e poi sfruttare l’amicizia in boccio che c'è fra di noi per colpire a morte Elijah. Ecco qual’era l’infida strategia.
Ed ecco spiegata la preoccupazione che avevo letto sul volto di Elijah quando ha visto il morso al polpaccio: è stato allora che i suoi dubbi si sono consolidati in cruda realtà.
Se un Vorace vuole uccidere, mira al collo.
Se vuole solo razziare del sangue, morde agli arti.
Mi guardo le mani: tremano leggermente, ma il sangue se n’è andato e ora hanno un aspetto bianco e puro. Se non avessi avuto la prontezza di colpire quel Vorace con il pugnale, ora quelle stesse mani sarebbero immerse ne corpo senza vita di Elijah.
Al solo pensiero, le viscere mi si rovesciano e un gelo irreprimibile mi monta fino alle punte delle dita.
Non me lo sarei mai perdonata.
Mai.
Un cigolio legnoso mi riporta alla realtà e l’infermiera della Toussand mi fa segno di avvicinarmi.
Obbedisco, ed entro nella sala.
Gli occhi verdi e vivi di Felix mi sorprendono sul vano della porta e un piccolo sorriso gli si apre fra le lentiggini.
Il sollievo mi scrolla di dosso il peso dell’angoscia e in un attimo tutto mi sembra più leggero e luminoso.
Finalmente una luce in quel corridoio senza fine. 

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Capitolo 15
*** Tentazione. ***


È domenica.
Finalmente, un giorno di tregua.
Quasi non mi sembra vero. Da troppo tempo un sonno senza sogni non accoglieva la mia mente, e finalmente questa notte sono riuscita a rinvigorirmi.
Forse sono sprofondata nelle lenzuola semplicemente perché ero spossata, psicologicamente ai limiti di me stessa. La mia vita non fa altro che ribaltarsi ogni volta che credo di aver trovato un punto d’appoggio saldo e questo mi disorienta più di quanto non lo facciano le continue lacrime.
Forse non dovrei più tentare di aggrapparmi così disperatamente alla realtà, forse dovrei solo lasciarmi trasportare dagli eventi, senza opporre resistenza.
Sarebbe più facile.
Ma non più utile.
Mi passo una mano sul viso, lo sguardo ancora appannato dal lieve velo del tepore.
Perlomeno Felix è vivo.
se così non fosse, i sensi di colpa mi avrebbero corrosa finché di me non sarebbe avanzato altro che uno spettro livido.
Mi alzo, scivolo dalle lenzuola tiepide all’aria fredda della mattina.
Ho un aspetto davvero orribile.
Il pianto violento di ieri mi ha prosciugato ogni energia lasciando come ricordo un bruciore rosso agli angoli degli occhi e un gran mal di testa.
Probabilmente se qualcuno mi vedesse ora, potrebbe pensare che mi stia riprendendo da una sbornia, in fondo i sintomi sono pressoché gli stessi.
Sospiro: ottimo, sembra che io stia riacquistando sarcasmo, non ci vorrà molto prima che la mia personalità torni a grondare acidità.
Apro le imposte: stamattina il sole è riuscito a penetrare le coltri di nuvole e una piacevole temperatura riscalda i giardini esterni della Toussand.
Non sarebbe male uscire per qualche passo.
 
L’aria è fredda qui fuori. Ma mi dà la sensazione di filtrare in ogni fibra del mio corpo, e di pulirlo dal sangue e dall’orrore che infestano la mia vita.
Mi siedo a gambe incrociate sul prato curato meticolosamente e alzo il mento al cielo, godendomi quegli ultimi, timidi raggi di sole che occhieggiano fra le nubi, prima che il vento dell’autunno se li porti via.
L’aria dà uno scossone più forte ed inatteso, mi strappa l’elastico che mi teneva raccolta la chioma e in un attimo i capelli mi investono in una nube bianca e sfarfallante.
Non mi importa. Così sto bene, per la prima volta dopo settimane mi sento in pace e non ho intenzione di scendere nell’inferno della mia testa riportando a galla pensieri indesiderati.
-Dovresti trattarti meglio, sai?-
Una voce familiare mi riporta sulla terraferma.
apro gli occhi e sorrido –Ciao Daisy-
-Si rovineranno i capelli, se li lasci in balia del vento- risponde lei, sedendosi accanto a me con un sorriso amichevole in volto.
Anche oggi ha una capigliatura raffinata e sottile che risalta quella curiosa sfumatura rossastra che le annega la pupilla nell’iride.
Mi stringo nelle spalle –Non ho un particolare interesse per questo tipo di cose. I capelli li ho sempre tenuti legati stretti a causa della palestra-
La ragazza allunga una mano e fa scorrere le dita nel fiume sottile che mi ondeggia ai lati del viso.
-Non hai idea di quanto ti invidi- sospira, strizzandomi un occhio con fare complice.
Di rimando, le sorrido timidamente.
-Hai davvero le mani d’oro quando si tratta di capelli- considero ammirata, tentando di seguire gli intrecci serpeggianti delle sue ciocche chi si accavallano l’una sull’altra. –Questa pettinatura è magnifica-.
Daisy si porta delicatamente una mano alla chioma ornata come un bassorilievo antico, e una piega soddisfatta le spicca chiaramente sul volto.
-ti piace? Se vuoi posso farlo anche a te-
Mi volto a guardarla.
Perché no?
In fondo mi ci vuole una pausa, e potrebbe essere piacevole cambiare stile per un po’, sentirsi più ordinata, precisa. Forse quel tocco avrebbe distolto lo sguardo dalla piega sfinita che ha il mio volto.
E forse del tempo con Daisy si sarebbe rivelato più divertente di quanto io non creda.
 
Entro in biblioteca. L’aria stantia e ferma mi colpisce le narici come al solito, ma ho imparato ad amare quel retrogusto di muffa che sa di antico e pace.
Appoggio i libri al solito tavolo spesso e, alzando lo sguardo, incrocio il mio riflesso sulla lunga vetrata opaca.
Sorrido. Un sorriso spontaneo e timido,  di quelli che di rado riesco a sfornare e ancor più raramente in questo periodo scuro e pericoloso.
Daisy ha fatto davvero un ottimo lavoro.
Il mio riflesso è così femminile, così delicato che stento a riconoscermi; i capelli sono interamente raccolti sulla nuca, stretti in trecce fluenti e concatenazioni sorprendenti che si tuffano una nell’altra.
credo di non aver mai avuto un aspetto tanto preciso e accurato in tutta la mia frenetica vita. Di rado mi sono preoccupata dell’ apparenza; il mio modo di vestire non aveva molto successo fra i miei coetanei e i primi anni della mia adolescenza vertevano esclusivamente alla palestra, poco importava l’aspetto che avessi.
Mi siedo e comincio a studiare: devo recuperare decisamente troppo materiale per permettermi  un intero pomeriggio di svago. La matematica sembra essersi stizzita decisamente della mia trascuratezza.
Il tempo scorre lento e viscoso; sono passati solo quindici minuti quando la porta della biblioteca si apre con un gemito basso.
Mi volto appena, ma ancor prima di farlo so perfettamente che si tratta di Elijah: assieme a me, sembra essere l’unico nella scuola ad apprezzare il silenzio e la solitudine di questa sala polverosa.
-Ciao- saluto, a mezza voce.
Elijah ricambia con il consueto cenno del capo. –Stai bene?-  mi chiede, mentre si richiude la porta alla schiena.
Scrollo le spalle e torno a concentrarmi sui libri –Si. Nonostante la matematica intenda ostacolarmi a tutti i costi-
Rimango in silenzio, ma per un istante non odo passi né fruscii in avvicinamento e la curiosità mi spinge a voltarmi una seconda volta.
Elijah è fermo a qualche passo dall’entrata e il suo portamento tradisce un pizzico di tensione che mi angoscia all’istante.
-Elijah?- indago, posando la penna.
-Hai cambiato profumo?- domanda lui di rimando, lasciandomi del tutto sconnessa.
-Cosa?- ribatto, disorientata.
-Il profumo. Lo hai cambiato?- insiste lui.
Ma di che parla?
-Non ho mai messo nessun profumo- chiarisco, aggrottando la fronte in una piega perplessa.
Lo vedo riscuotersi, come svegliandosi da un sogno velato. –Hm. dicevi?- prosegue, avvicinandosi.
-ah- farfuglio, ancora confusa da quel balzo improvviso di argomento –La matematica. Non mi riescono gli esercizi-
Lui mi lancia un rapido sguardo mentre appoggia i libri sul tavolo con il suo solito atteggiamento altero e contegnoso.
-vuoi che dia un’occhiata?-
 
Kyla si apre in un sorriso che le illumina gli occhi cerulei.
-Si, grazie-
 Sembra più solare oggi, o forse è solo quella pettinatura così ordinata a darle un aspetto più composto e a metterle in evidenza il sorriso sulle labbra sottili. Elijah sa che è opera di Daisy: riconosce l’ossessione per gli intrecci stretti e minuziosi che si intricano in un disegno generale di luci e ombre.
Si avvicina a Kyla ma le sue gambe hanno una breve esitazione e si trova a sopprimere un capogiro: un profumo intenso gli si infila nelle narici e gli annebbia la mente, stordendolo come una botta alla testa.
I suoi occhi offuscati spaziano sui capelli della ragazza finché, inevitabilmente, lo sguardo gli cade sul collo. Quella pettinatura innovativa che le stringe strettamente i capelli sulla nuca mette terribilmente in risalto il candore della sua pelle. La linea lunga e sinuosa che dall’attaccatura della nuca scivola fino alle spalle esili si apre come un sipario sullo sguardo fisso di Elijah, il quale a forza si impone di chiudere gli occhi per togliersi dalla testa quell’immagine.
Ma quando li riapre è anche peggio: la pelle di Kyla dà l’impressione di essere liscia come la seta e l’irrefrenabile impulso di allungare una mano per carezzarla investe Elijah con prepotenza.
Il ragazzo stringe i denti e si impone con forza di resistere, ma quell’aroma intenso ed inebriante non sta facendo altro che frastornarlo, attutendogli i sensi.
È solo quando avverte l’impatto duro sotto i suoi palmi che si accorge di essersi appoggiato al tavolo, nello spazio fra le sue braccia Kyla è ignara del suo stato e gli sta parlando di matematica, mentre indica un esercizio sul libro.
Elijah avverte i battiti del suo cuore accelerare impazziti, fino ad assordarlo con un unico suono cupo ed ovattato. La sua mente è completamente colma di quel profumo stordente e allettante al contempo, il suo corpo è rigido come un’asse di legno e, lontano ma nitido, Elijah ode il ruggito della bestia che risiede in lui.
A un nulla dal suo viso, il lungo collo di Kyla lo richiama con un sussurro accattivante, e sotto la pelle candida, sotto quello strato di neve appena caduta, Elijah avverte chiaramente il sangue scorrere veloce nelle vene, trottare al ritmo del cuore, caldo e denso.
Elijah ha mal di testa. Una morsa ferrea gli preme le tempie e ha la terribile certezza che la sua coscienza si stia ritirando lentamente per cedere il passo al desiderio fremente e irrazionale di un animale. 
Le sue dita cominciano a contrarsi in piccoli spasmi, il ragazzo ormai sa cosa sta accadendo e  non può permettere al suo lato bestiale di avere la meglio sulla razionalità.
Ma è difficile.
Maledettamente.
Non ha mai provato una tentazione tanto travolgente, e il desiderio di Kyla è così intenso che a stento riesce a mantenere il controllo sul suo corpo.
Un dolore improvviso, una stilettata al petto, sottile ma profonda fino al cuore.
L’animale che c’è in lui si sta ribellando alla soppressione, la sua bestia ha sete, una sete feroce e incontrollabile.
Una seconda pugnalata, più intensa, si confonde nell’aroma irresistibile del sangue di Kyla.
i suoi occhi si offuscano e per un terribile secondo Elijah perde contatto con la sua coscienza.
Riesce a riappropriarsi di se stesso appena in tempo, ma non trova la forza di opporsi  ai suoi istinti e cala il capo nell’incavo fra la spalle e il collo di Kyla che, innocente, sfoglia le pagine senza accorgersi di nulla.
Le labbra di Elijah sfiorano ormai la pelle della ragazza e il profumo che effonde rischia di gettarlo nella più irrazionale follia. Avverte sulla sensibilità della bocca il calore corporeo della ragazza, e improvvisamente lo anela, lo respira, quasi se ne nutre.
Un fremito percorre il corpo di Elijah, risvegliando i muscoli assopiti, scuotendo impulsi dalla polvere e snudando una brama folle e incontenibile.

Dio.
Elijah ormai ha la certezza di non poter più tornare indietro, sa che sta scivolando nel baratro oscuro dentro di lui, e sa che il suo corpo non risponderà a nessuno dei suoi disperati ordini.
Sente le mascelle allentarsi, contro ogni suo volere, le labbra si schiudono, la bocca si spalanca.
I canini luccicano alla luce opaca, una muta minaccia appesa a mezz’aria.
Per un istante, Elijah pensa a quanto sarebbe bello affondare le zanne nella carne morbida di Kyla, a quanto sarebbe appagante dissetarsi con la sua calda essenza e lasciare che il piacere sublime del sangue gli attraversi il corpo fino a spremerle ogni stilla vitale.

No.
Andiamo.
NO.
Un respiro brusco, ed Elijah riemerge da quel mare di melassa, serra le fauci in un unico scatto.
Con uno sforzo che ha del disumano, allontana il volto dal collo di Kyla e, infine, con gli ultimi residui che ha da offrirgli la sua forza di volontà, si stacca dal tavolo e arretra di qualche metro.
Ha il fiato grosso e una doccia di sudore fra i dorsali.
Ma il peggio è la mente: si sente esausto, svuotato.
Provato come mai nella sua vita.
Si stringe la gola con una mano, e una terza zampata dal suo istinto animale lo piega in due.
Sa che non può resistere ad un altro assalto, sa che è già un miracolo il fatto che non abbia dissanguato Kyla lì, su quel tavolo e in quel momento.
Deve andarsene, o finirà in un bagno di sangue.

 
Uno schianto secco e un tremito improvviso scuotono il tavolo su cui sono appoggiata.
sobbalzo, e il mio cuore si arresta per un istante in una gelida attesa.
Abbasso lo sguardo e qualsiasi formula matematica mi si aggirasse per la mente viene prosciugata da un vuoto ghiacciato.
Le dita di Elijah sono affondate nel legno del tavolo e, come se il nastro della realtà si fosse inceppato in un'unica scena, una miriade di piccole, sottili schegge di legno aleggiano in aria.
Lenta e affaticata, la mia mente tenta di trovare una spiegazione razionale a ciò che sta accadendo, ma quando mi volto Elijah si è letteralmente volatilizzato.
L’unica traccia che mi testimoni la presenza del ragazzo è la porta della biblioteca che nel suo lento gemito si chiude sul corridoio.
 

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Capitolo 16
*** La guerra è cominciata. ***


 
Settima settimana alla Toussand.

Negli ultimi giorni, Hortense mi aspetta fuori dalla classe a fine lezione, poi entriamo insieme in mensa. Devo dire che si sta instaurando un buon rapporto, forse posso persino definirla qualcosa di simile ad un amica, anche se il contesto ha qualche punto insolito che si differenzia da un’ordinaria amicizia.
La trovo dritta e composta come sempre, lo sguardo fra la folla che scorre nei corridoi e le mani strette con grazia sulla cartelletta di scuola.
Una volta che ci si abitua a quell’aria tetra che le aleggia attorno come uno spettro, quando si è in grado di andare oltre la semplice scorza esterna, Hortense appare timida e graziosa come un’adolescente in boccio. Guardandola più attentamente, i suoi occhi grigi hanno un’espressione calda e sfuggevole che le addolcisce i toni del viso, così come la linea morbida del naso, rivolta verso l’alto, e le piccole mani bianche.  
La ragazza si volta e incrocia il mio sguardo. Mi sorride con aria amichevole e agita una mano in saluto.
-Ciao- saluto,sollevata di avere una pausa fra le interminabili ore di scuola. Dopo la frana di avvenimenti che mi è crollata addosso, recuperare non è stato facile. Non quando i professori non fanno altro che ricordarmi costantemente l’andatura disastrosa dei miei ultimi test.
Entriamo in mensa e noto con la coda dell’occhio che Hortense si guarda attorno con insistenza, nonostante tenti di darsi un contegno naturale.
-Cerchi Derek?- chiedo spigliata, cercando una zazzera bionda nella folla.
Ma alla domanda lei sussulta con un sorrisetto forzato e scuote la testa –Ci sediamo?-
Perplessa, la seguo al tavolo, dove hanno già preso posto Endymion, Marine e Bruno.
Poco dopo si unisce a noi anche Daisy, che ovviamente sfoggia una pettinatura complicata e del tutto innovativa mentre mi si siede accanto strizzandomi l’occhio.
Derek ci raggiunge quando ormai il mio piatto è vuoto; si lascia letteralmente cadere sulla sedia di fianco a Hortense con uno sbadiglio che potrebbe slogargli la mascella.
Elijah non è venuto.
Spero che non c’entri nulla ciò che è successo in biblioteca. Anche perché, francamente, non ho idea di cosa sia successo. So solo che un momento prima lui era lì che si offriva di aiutarmi in matematica, e il momento dopo era sparito, lasciando come testimonianza i segni delle proprie unghie sul legno del tavolo.
Non credo che sia un segno positivo.
Forse dovrei chiarire la faccenda.
Ma mi sorprendo a sapere, nel fondo più remoto della mia mente, che il portamento di Elijah mi intimidisse al punto di impedirmi di confrontarmi con lui senza che parte della mia lucidità decida di lasciarmi a piedi.
-Kyla?-
Sobbalzo sulla sedia, mentre torno alla realtà.
-Eh?-
-sai bene?- Daisy inclina il capo e mi guarda con aria indagatrice.
-Sto bene- rispondo in automatico.
 -Come mai Elijah non è venuto?- chiede Hortense, giocherellando distrattamente con un acino d’uva.
Tengo lo sguardo basso ma rizzo le orecchie con attenzione.
È Derek a rispondere:
-Dice di non aver fame- risponde con una scrollata di spalle –Si è chiuso nei dormitori ad ammuffire fra i libri-
il tono del ragazzo è leggero, quasi  critico.
-Dovresti cominciare anche tu a spolverare qualche libro, Derek- interviene Bruno con disinvoltura –Se non sbaglio è il tuo nome che sta affondando nella classifica generale-
Derek arriccia le labbra con fare piccato e in tutta risposta gli rivolge una smorfia infantile.
La campanella suona con un acuto stridulo che ci getta nella pigra consapevolezza di dover affrontare altre tre lunghe ore di scuola.
 
Caccio un mezzo sospiro mentre percorro il corridoio a ritroso verso i dormitori. Sono già tre giorni che Elijah salta i pasti alla mensa, in biblioteca si vede di rado, e quando succede scompare dopo pochi minuti. Sto davvero cominciando a preoccuparmi; non vorrei essere responsabile del suo comportamento schivo, ma contemporaneamente non capisco cosa potrei avergli fatto.
Di sottecchi getto un rapido sguardo a Hortense, che zampetta al mio fianco in silenzio. Forse dovrei chiedere a lei. Forse c’è ancora qualcosa che stanno nascondendo, sinceramente non me ne sorprenderei affatto: se c’è una cosa che ho appurato in loro compagnia, è che la diffidenza sta alla base della loro vita.
-senti- esordisco, ostentando naturalezza. –Che fine ha fatto Elijah?-
Hortense sembra irrigidirsi lievemente, ma nasconde la reazione sotto un sorriso spigliato –non sta molto bene, ultimamente-
-Capisco- rispondo, un po’ delusa. So bene che sta mentendo, ma so anche che non lo farebbe se non per una buona ragione.
Per un istante, l’unico suono che riempiei corridoi sono i nostri passi periodici e regolari, ma il silenzio che c’è fra noi non è più il silenzio mite di qualche secondo fa: ora una sfumatura tesa impaccia sia me che Hortense.
-D’accordo- interviene d’un tratto lei, piantandomi nel volto uno sguardo serio –Non ti ho mentito. Elijah sta male davvero-
Mi fermo e la guardo seria, aspettando che vada avanti.
-Lui ha … - Hortense scosta lo sguardo. Sembra che si senta terribilmente in imbarazzo a parlarne con me e, per un istante, me ne sento in colpa.
-Elijah ha dei problemi di autocontrollo- continua lei –sai riguardo cosa-
Mi si gela il sangue nelle vene –Mi stai dicendo che ...-
-Ha sete, Kyla- completa lei, diretta –per questo motivo si tiene alla larga dagli umani. Non vuole fare del male a nessuno, almeno finché non sarà finito-
-Finito?- corrugo la fronte –finito cosa?-
Hortense rimane in silenzio per qualche minuto. Sta soppesando la situazione, per decidere se farmi scivolare ancora più in profondità nella loro vita o meno.
-Elijah ti ha parlato del Sigillo, vero?- prosegue poi, a voce bassa.
Io annuisco, ricordando vagamente il marchio nero sul petto del Vorace. Mi aveva spiegato che serviva a quelli come lui per poter digerire il cibo umano, senza costringerli a spargere sangue.
-Be’, probabilmente il motivo per cui Elijah sta male è che l’effetto del Sigillo sta svanendo. Senza la limitazione imposta dal Sigillo gli impulsi animali si fanno più vivi e il sangue diventa l’unica alimentazione digeribile dal nostro organismo.
Imporre il Sigillo è una pratica lunga e non poco dolorosa, senza contare che va fatta periodicamente: ai normali Vampiri basta praticarla una volta ogni cinque mesi, se non di più. Ai Voraci non è permesso andare oltre il terzo mese, e questo solo per chi già di natura possiede un controllo d’acciaio.
Elijah sta rinnovando il Sigillo, entro qualche giorno si sentirà meglio e sarà in grado di tornare tra gli umani-
In un istante mi rendo conto di quanto sia realmente difficile la vita di un Vorace. Sopprimere gli impulsi del corpo costantemente, sottoporsi a pratiche regolarmente, e nel frattempo mantenere un aspetto naturale e nascondere il terribile segreto dietro un sorriso.
-Mi dispiace- farfuglio, imbarazzata –non dev’essere facile-
Lei mi trae d’impaccio con un sorriso –in realtà sarebbe più difficile una vita senza il Sigillo. Pensaci bene, ci permette molti lussi che non potremmo ottenere senza-
-Tipo una vita sociale?- butto lì, giusto per alleggerire un po’ l’atmosfera.
Lei ride –Esatto. Io e te non saremmo amiche, per esempio-
Le sorrido.
Siamo amiche, dopotutto.
-Quindi il Sigillo vi permette il lusso della scuola-
Annuisce.
-Vi permette di entrare nella normale società-
-Già-
-Di stringere amicizie-
-Si-
-E magari di trovare un ragazzo-
ironia. Giusto per ridere un po’, ma come al solito sembra che io non ci sappia fare in queste cose.
Hortense si incupisce un poco e inclina il capo di lato –A dire il vero, si dovrebbe aprire una piccola parentesi riguardo questo aspetto-
Sbatto le palpebre un paio di volte –Cioè?-
-Be’ … il desiderio per un Vorace è qualcosa di sottile e in continuo mutamento. I confini che distinguono il desiderio d’amore e il desiderio di sangue sono appena riconoscibili, solo una mente fredda e calcolatrice sarebbe in grado di avvertire il passo che va oltre, ma anche in quel caso non è detto che si riesca a tornare indietro: spesso le lusinghe del sangue sanno sedurre anche il più tenace Vorace.-
Mi fermo nel bel mezzo del corridoio, un brivido ghiacciato a scalarmi le vertebre. Fra i complicati aspetti della vita di un Vorace, di certo non mi sarei mai aspettata di trovare questo.
-Più un Vorace è attratto da un umano, più è attratto anche dal suo sangue- conclude Hortense, fredda.
Abbasso lo sguardo. Una fitta mi sorprende sul fondo dello stomaco. Mi sento stranamente infastidita, quasi in disapprovazione, e non capisco perché. In fondo Umani e Voraci sono due razze diverse, è normale che su questo aspetto rimangano separati; eppure non riesco ad ingoiare quel retrogusto amaro che ho sul fondo della gola.
-Dev’essere orribile amare una persona e nel frattempo desiderare di ucciderla. Non vorrei mai trovarmi in una situazione del genere-
La voce di Hortese svanisce nei corridoi, mentre un velo ghiacciato mi cresce nel petto.
 
Elijah caccia un sospiro fra i denti, alzando lo sguardo al soffitto bianco della sala. Le luci sono spente, la stanza è vuota e silenziosa, come piace a lui. Eppure non riesce a trovare la pace che cerca, non riesce a mettere a tacere quel vortice di pensieri striduli che gli affollano la mente.
Ha mentito.
A Hortense, a Derek, a tutti.
Ha giustificato il suo smarrimento con la scusa del Sigillo, ha detto loro di aver bisogno di tempo per tracciare nuovamente la pratica.
Non è vero.
Ha compiuto il rito non più di un mese fa, il Sigillo è fresco e pulsante, svolge il suo effetto alla perfezione.
Eppure Elijah ha sete.
Una tremenda e animale sete che lo ha gettato al margine della follia.
Non sa come sia riuscito ad evitarlo, non sa dove abbia trovato la forza per allontanarsi dal collo tiepido di Kyla, sa solo che per un istante ha desiderato ucciderla più di ogni altra cosa al mondo, e questo lo disgusta.
Si, prova disgusto per se stesso;  soprattutto perché anche ora, a distanza di tre giorni e chiuso in una stanza lontana,il solo pensiero di avvicinarsi a quella ragazzina gracile gli sguinzaglia in corpo un’adrenalina inappagabile. 
Stringe i denti: una goccia di sudore gli percorre l’incavo del viso e, ancora, la sua metà animale ringhia e scalpita, trattenuta da catene sfinite.
Così non va.
In questo stato non può guidare i suoi compagni, né può avere la sfacciataggine di considerarsi ancora loro protettore.
Elijah è debole, l’abisso del sangue lo richiama con un urlo che ha del disumano, e per quanto lui si sforzi di ignorarlo,  sa che nel suo petto cresce una ferocia incontrollabile.
Un bussare cupo lo distoglie dai suoi pensieri.
Endymion entra nella stanza stagliato su una lama di luce, sul volto un espressione grave.
Con un unico gesto brusco, quasi sprezzante, getta all’interno della sala una seconda sagoma, debole e caracollante, mentre il silenzio si spezza di rantoli e sibili affannosi.
Elijah contrae la mandibola. Un fondo di rabbia lo avvelena, ma lui la tiene a bada e si sforza di mantenere la calma razionale che lo distingue.
-Ottimo lavoro- si limita a dire con voce tagliente, liquidando il compagno con un autoritario gesto della mano.
Endymion esce senza fiatare e in pochi seconda la stanza affonda nuovamente nel buio.
Elijah si alza lentamente, tiene gli occhi fissi sulla sagoma scomposta, si impone la fredda razionalità, il distacco di una mente calcolatrice, ma non può fare a meno di avvertire una venatura violenta scuotergli gli abissi dell’anima.
È un ragazzo. Deve avere la sua età, forse qualche anno in più, ma è giovane. Ha un viso scavato e occhi vitrei puntati nel vuoto.
-Chi sei?- comincia Elijah.
La sua voce è fredda e affilata come una lastra di ghiaccio.
Silenzio.
-Chi ti manda?-
Ancora silenzio.
Il silenzio ostinato della fedeltà ad un ordine. Qualcuno gli aveva cucito la bocca e lui non aveva intenzione di sottrarsi a quel vincolo.
Elijah si inginocchia di fronte al ragazzo e lo costringe rudemente a guardarlo in volto: ha occhi accesi d’odio e la bocca affogata in una piega di disprezzo.
Un mezzo sorriso amaro affiora sulle labbra di Elijah.
Disprezzo.
Quella feccia lo disprezza. Quel Vorace vestito del sangue di più morti e imbrattato nell’anima della colpa più imperdonabile lo disprezza.
-Il tuo silenzio è un atto di inutile eroismo- gli sussurra ad un nulla dal viso iracondo –parla- ordina poi, imperioso.
Per un istante, la sua autorità sembra insinuarsi nelle prime crepe della corazza nemica, ma subito il ragazzo si riprende con un ringhio e gli sputa in faccia.
-Non sei degno di alcuna parola, Traditore- sibila, contenendo a stento la rabbia.
Elijah non fa una piega, non si scompone –è piuttosto infido affidarsi ad un espediente indiretto per colpirmi alla spalle- alza il mento con disprezzo – ma in fondo non c’era da aspettarsi altro da voi, subdoli foste in passato e subdoli rimanete- 
Il Vorace scoppia a ridere, la risata folle e feroce di chi ha venduto la propria umanità al sangue.
-Eppure ero ad un passo dal successo, Traditore. Se solo l’Umana non avesse avuto con sé il pugnale, ora saresti morto-
Una fitta d’ira morde Elijah, ma lui ostenta impassibilità –Piuttosto limitativo basarsi su ipotesi. Hai fallito e ora i ruoli si invertono-
Il Vorace ruota gli occhi verso il soffitto –è stato difficile, sai? Chissà se mi sarei fermato, se lei non mi avesse pugnalato. Il suo profumo era irresistibile e il suo sangue … - un sorriso sghembo gli taglia in due il volto, trasfigurato dal desiderio selvaggio.
Prima ancora che possa rendersene conto, Elijah lo afferra con violenza per il bavero, portandoselo ad un soffio dal viso –Non ti avvicinerai ancora a lei- gli sussurra, la voce bassa come il monito di un predatore.
Ma lui torna a guardarlo negli occhi e in viso gli si dipinge un’espressione divertita, quasi incredula –Ma guarda, allora anche tu perdi il controllo-
Scoppia a ridere, un ghigno sguaiato e dissennato che rimbomba nella stanza buia, mentre Elijah solleva gli occhi sull’unico specchio appeso alla parete della stanza.
Nel buio denso e filamentoso, i suoi occhi spiccano rossi e feroci come il sangue fresco.
Gli occhi della bestia che c’è in ogni Vorace.
-Fammi indovinare- continua il Vorace con voce leggera, quasi divertita, priva di ogni senno –La ragazzina ti piace-
Elijah contrae la mandibola. Avverte un terribile gelo sprofondargli nelle viscere e quella terribile consapevolezza da sottile farsi pesante come un macigno. Una lieve nausea lo coglie alla gola e avverte il primo vero accenno della paura.
Paura fresca e pura, paura di ciò che potrebbe diventare e di ciò che le sue mani potrebbero compiere.
Il ghigno del Vorace si allarga ancora, una crepa disgustosa su un volto che ormai non ha più nulla di umano –Te ne stai innamorando! E ora temi di poterla … -
Elijah agisce in un lampo.
Sa che se quella frase verrà terminata, la verità gli crollerà addosso con il peso di una frana e improvvisamente prenderà consistenza.
Invece la voce del Vorace si spenge in un gorgoglio, il silenzio lento e freddo che non verrà mai più spezzato.
Elijah si alza con calma, in un unico gesto teatrale si pulisce del liquido nero che gli cola lungo le dita.
Endymion fa irruzione nella stanza con aria allarmata, probabilmente attirato dal trambusto.
La situazione è chiara e impattante, nessuna domanda, nessun dubbio.
-Dì agli altri di tenersi pronti- dice Elijah con voce affilata –la guerra è cominciata- 

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Capitolo 17
*** Il ragno e la mosca. ***







Quando esco dalla classe, Hortense non mi sta aspettando di fianco al corridoio come al solito; solo dopo averla cercata per qualche istante la noto in un angolo a bofonchiare con Derek. Sembra tesa, preoccupata, e persino Derek, che generalmente non fa che sfoggiare un mezzo sorrisetto noncurante sul viso sfacciato, ora è serio e rigido.
Qualcosa di sgradevole si smuove dentro di me: non va bene. Sono stanca di affrontare problemi su problemi, ostacoli che si sovrappongono uno sull’altro senza il tempo di un respiro.
Eppure avrei dovuto aspettarmelo. Ho scelto questa condizione di vita da quando ho deciso di sedermi con loro al tavolo della mensa: credevo forse che la vita di un Vorace fosse facile?
Mi avvicino ai due con un brutto presentimento, ma mi sforzo di cacciare i pessimismi e saluto con una mano nella loro direzione.
Quando Derek alza lo sguardo un sorriso forzato gli si apre fra gli angoli della bocca, mentre Hortense ricambia il mio saluto, ma il suo volto rimane tirato e cupo.
-va tutto bene?- chiedo inclinando il capo.
A dire il vero non so se sia il caso di ascoltare la risposta, sempre che abbiano intenzione di rivelarmela.
-certo!- esclama Derek agitando una mano con noncuranza, ma spicca palese una nota costretta che stona.
Sposto lo sguardo su Hortense: perché dopo tutto questo tempo, dopo tutto ciò che abbiamo affrontato, che io ho affrontato, perché ancora non si fidano di me?
-Non va tutto bene- se ne esce improvvisamente lei , ricevendo uno sguardo teso da parte di Derek –Ma non credo che sia il caso di parlarne ora. Vieni, andiamo in mensa-
sbatto le palpebre con aria perplessa.
Non va tutto bene.
Già, l’avevo intuito.
Che cos’altro sta per accadere, ancora?
Rimango in silenzio mentre seguo i due, avvolti nella loro aria cupa e legati da una verità che mi esclude. Che cosa succede? Che cosa dovrei aspettarmi?
Ma come entro in mensa e alzo lo sguardo, un’ondata di sollievo mi travolge.
Elijah.
È chiuso nel solito guscio freddo e distaccato, una maschera impassibile calata in volto e l’aria schiacciante che lo eleva un gradino sopra a chiunque gli sia di fianco.
Ma è lì, seduto al tavolo a leggere un libro.
Nella mia testa, è come se ogni pensiero confuso riesca a trovare un posto, nonostante nulla abbia davvero un prorpio ordine in questo momento.
Mi siedo fra Daisy e Bruno. Nessuno, in quel tavolo, sembra avere la voglia e la forza per spezzare il silenzio teso e strisciante che aleggia sui presenti, e questo non è affatto un buon segno.
Lentamente il loro umore mi si incolla addosso, mi viene trasmessa l’angoscia che si respira e finisco per tendermi a mia volta come la corda di un violino.
Che sta succedendo?
Quando la campanella suona, nemmeno una parola è giunta a trarre d’impaccio la situazione e, senza fiatare, i presenti si alzano ed escono, lasciandomi al tavolo da sola, frastornata e spaventata come non lo sono mai stata.
 
La sala della mensa si è completamente svuotata e io sono ancora qui, seduta a fissare il mio piatto intatto. Sospiro: non c’è nulla da fare, nonostante tutto, ogni singolo aspetto della vita di un Vorace mi spaventa, mi pietrifica e io non riesco mai a reagire in tempo.
Mi alzo, scostandomi una ciocca con rabbia.
Si, sono nervosa e anche incazzata.
Perché non posso sapere cosa succede, perché non riesco a stare al passo?
Io ho dato tutto ciò che potevo dare a Hortense e agli altri, mi sono fidata rischiando di rimetterci anche la pelle, ho mantenuto il loro segreto, ho digerito con il tempo la tensione di avere a che fare con una razza diversa e mortale.
E loro ancora non credono in me.
Non si fidano.
Non mi parlano e mi lasciano a marcire nei dubbi.
scosto la sedia con un gesto secco e senza una parola esco dalla sala a grandi passi.
Mi sto avviando verso la biblioteca, ma non appena mi chiudo la pesante porta alle spalle una voce mi fa trasalire sul posto.
-Vai di fretta, Kyla?-
-Elijah- sussurro, avvertendo chiaramente la rabbia svaporare: davanti al suo contegno ieratico, prorpio non riesco a reagire.
È appoggiato alla parete, il solito libro nelle dita sottili.
-Mi scuso a nome di tutti: oggi non siamo stati di compagnia- mi dice, pacato.
Ed è solo ora che mi rendo conto di quanto quegli occhi neri mi fossero mancati. Sono passati solo pochi giorni, nemmeno una settimana, ma è davvero sconcertante come la tensione mi abbia divorata senza che il suo sguardo fosse lì, a rassicurarmi.
-Stai bene?- chiedo di getto, dimenticandomi all’istante degli interrogativi che mi pesavano addosso come macigni.
Elijah sembra colto alla sprovvista –cosa?- chiede, corrugando la fronte. Probabilmente si aspettava che lo assalissi di domande, e lo volevo effettivamente fare, ma mi rendo conto che tutto passa in secondo piano di fronte al sollievo che provo nell’averlo di nuovo di fronte.
-Hortense mi ha detto che sei stato male- farfuglio, abbassando lo sguardo –stai bene?-
Con la coda dell’occhio scorgo il suo sguardo farsi più intenso, e in risposta una piccola vampa di calore mi investe.
-sto bene- risponde infine.
Cala un istante di silenzio dannatamente imbarazzante, nel quale io mi limito ad attorcigliarmi una ciocca chiara attorno all’indice, tenendo lo sguardo ostinatamente basso.
-Sei nervosa- interviene Elijah, chiudendo il libro e staccandosi dal muro.
-No- mi affretto a mentire, non voglio apparire come una bambina capricciosa.
-Non era una domanda- stabilisce lui.
Mi mordicchio un labbro. Non mi abituerò mai alla sua dannata capacità di leggermi nella testa. Come riesce ad intuire così facilmente i miei pensieri?
-è solo che vorrei che vi fidaste di me- mormoro a mezza voce.
Tento di cogliere una reazione sul suo viso, ma è calmo come il pelo dell’acqua. Nonostante ciò, qualcosa nel suo portamento mi suggerisce una tensione sottile, e noto solo ora che non si è mosso di un solo centimetro dalla sua postazione.
Da’ quasi l’impressione di volermi tenere a distanza.
-Non è facile per un Vorace dare troppe confidenze ad un Umano. Stiamo facendo del nostro meglio- replica, quasi comprensivo.
Sospiro, passandomi una mano fra i capelli –Lo so, è solo che …- alzo gli occhi e lo guardo direttamente in volto –tu ti fidi di me?-
Colgo un sorriso amaro appena impercettibile sulle sue labbra, prima che la solita impassibilità si divori il suo lato umano.
-Si. Ma è la tua fiducia il problema- mi risponde, enigmatico.
-io mi fido di te!- esclamo subito.
-Già. E questo quanto può essere sicuro per te?- replica.
Aggrotto la fronte –cosa?- mormoro con un filo di voce.
Perché mi parla in questo modo? Perché è così distaccato? Cos’è successo in questi giorni?
-Che sta succedendo, Elijah?- chiedo, avvicinandomi.
Sono al limite della pazienza.
Finisce sempre così: Dubbi, misteri che si accumulano e nemmeno uno straccio di risposta.
Il suo sguardo freddo sembra incrinarsi appena, mentre mi osserva, immobile e freddo.
-La guerra, Kyla- si confida finalmente –sta per cominciare-
rimango agghiacciata. Non tanto per quello che mi ha appena rivelato, più per il tono della sua voce: sembra stanco, estremamente stanco. E, per la prima volta da quando è entrato nella mi vita, accenna ad una debolezza.
In questo momento Elijah non è più il Vorace forte e imperscrutabile che conosco, in questo momento è solo un ragazzo stanco e rassegato all’idea di un futuro che porterà dolore e sfacelo nella sua vita.
Una guerra.
Non so cosa dire. Non so che rispondere. Non credo che esistano parole per una situazione come questa.
-È per questo che non te ne abbiamo parlato. Ne devi stare fuori- conclude, quasi in un sospiro.
-Mi dispiace- mormoro.
-Da oggi porta con te il tuo pugnale. In caso succedesse qualcosa, saresti in grado di difenderti-
-Mi dispiace- ripeto ancora. È come se non riuscissi a dire altro.
Una guerra fra Voraci.
Come un morso di dolore, la consapevolezza che qualcuno potesse rimanere ferito, o peggio ucciso, mi assesta una stilettata allo stomaco.
Mi prende per le spalle, le sue lunghe dita sono fredde come il ghiaccio, eppure il suo tocco mi scalda il petto.
-Kyla- mi chiama, costringendomi a guardarlo in volto –promettimi che ne starai fuori-
mi manca il respiro per una frazione di secondo, mentre una sensazione sgradevole mi cresce dentro e si gonfia fino a soffocarmi.
Il mio cervello non riesce a concepire che la persona che ho di fronte potrebbe svanire da un momento all’altro, portato via dalla ferocia di una battaglia.
Si rifiuta di assimilarlo.
Hortense, Derek, Daisy, Bruno, Endymion, Marine.
Non posso pensare che qualcuno di loro potrebbe sparire dalla mia vita.
Quasi senza nemmeno pensarci, allungo le mani e lo abbraccio.
Abbraccio Elijah.
Non so cosa mi sia preso, ma lo stringo e assaporo con tutta me stessa ogni singolo centimetro di quel contatto. Ha una corporatura sottile, slanciata, un addome scavato e una schiena forte.
Cosa mi ha spinto a superare quel muro di autorità fredda? Non lo so. Forse il semplice fatto che da un momento all’altro Elijah mi possa scivolare dalle dita, e questo, per quanto io stringa la presa, potrebbe essere un destino ineluttabile.
 
Elijah si irrigidisce all’istante. È riuscito a racimolare il saldo controllo che gli serve per convivere con la razza umana, ma dopo una tale crisi di sete il suo corpo è ancora debole e lui stesso sa che non è in grado di sostenere quella discussione troppo a lungo. Il profumo di Kyla ha cominciato a stuzzicarlo in mensa, e ora che sono soli in biblioteca sembra tanto travolgente da essere quasi irresistibile.
Ma nonostante il martellare insistente alle tempie, Elijah sa che è necessario mantenere la calma e tenere la situazione sotto controllo, almeno per quanto possibile.
Per questo si era ripromesso di rispondere rapidamente alle domande di Kyla, di presentarsi perché anche lei fosse al corrente dei fatti, e di dileguarsi subito dopo le spiegazioni.
E invece ora era lì, nel bel mezzo della biblioteca vuota, e lei tanto vicina da stordirlo totalmente.
Non ricambia l’abbraccio, tenta di essere il più algido e distaccato possibile, ma con orrore avverte già sul fondo dello stomaco un feroce richiamo, e sa che se non uscirà da quella situazione in fretta, finirà nel sangue.
-Kyla- mormora, ma la sua voce ha un improvviso tremito.
Elijah stringe i denti, avverte ogni singolo muscolo del proprio corpo contrarsi , lontano ma arrogante, il ruggito del Vorace che si nasconde in lui.
-Kyla- ansima, stavolta con più forza, ma lei non sembra nemmeno sentirlo.
Un dolore improvviso, intenso, lo coglie impreparato come un pugno allo stomaco e in una convulsione a stento soppressa si vede piegare in due. Un pulsare incalzante comincia a risuonargli nelle orecchie, come rintocchi di campane a ritmo serrato, la vista gli si annebbia a sprazzi e ormai avverte sulla nuca l’alito del Vorace che affiora, si dibatte come un bestia in cella e affonda gli artigli nello sterno di Elijah.
Gli viene strappato un gemito soppresso; il dolore è tanto intenso, tanto travolgente, che per un orribile istante Elijah crede di poter essere sbranato dall’interno.

Ogni fibra del suo corpo è tesa come la corda di un violino, ed Elijah riconosce con disperazione la sensazione di smarrimento che si prova quando la ragione sta per cedere il passo alla sete. Avverte con lentezza estenuante il controllo scivolargli dalle dita come sabbia al vento e la consapevolezza di essere perduto emerge nella sua testa come un infida pugnalata.
Un colpo più violento, dritto nel petto, gli mozza il respiro. L’udito ormai è quasi nullo, tutto ciò che avverte è ovattato e lontano, una scena che scivola via lentamente, fuori dalla sua portata.
A nulla servono i suoi estremi tentativi, la forza della disperazione che tenta di combattere e ricacciare indietro gli impulsi più intimi e arcani di un Vorace, qualcosa dentro di lui ringhia e innalza un coro di desiderio al sangue.

No.
No.
NO.
Il respiro di Elijah si fa più corto e affannoso, le sue braccia si stringono meccanicamente attorno all’esile corpo di Kyla. Il coro dentro di lui si fa più serrato, più incalzante, il ritmo cresce e lo assorda, mentre il profumo della pelle di Kyla lo investe al pari di un tornado; e come un tornado strappa le radici di un albero, così il suo profumo sradica la ragione dalla mene di Elijah.
Le braccia del ragazzo stringono con violenza il corpo di Kyla, il suo capo si china inevitabilmente, le labbra si schiudono.
Ora Elijah sa che sta facendo qualcosa di sbagliato, ma la sua mente è così stremata, così annebbiata, che non ha idea del perché sia sbagliato.
Sa che ha sete. Una sete che gli inaridisce la gola come un deserto e che richiede con prepotenza  di essere soddisfatta.
Abbassa lo sguardo: il collo di Kyla è lì, a un soffio dalle sue labbra, la pelle è vellutata, tanto liscia e pura che pare d’alabastro. La luce le cola addosso come se fosse cera, e il suo colore perlaceo lo richiama come un sussurro, lo seduce e lo persuade, lusinghiero.
Una mano corre alla sua nuca ,le dita si chiudono rudemente fra i suoi capelli pallidi. Con uno strattone che le strappa un urlo soffocato, Elijah tira verso il basso il capo di Kyla, esponendo la sua gola tremante alla luce soffusa della sala.
La situazione precipita e in un ultimo anelito di coscienza, Elijah, nel suo profondo, sa che è finita.
Le sfiora la pelle con le labbra, il suo profumo è così intenso che pare poter essere assimilato da tutti e cinque i sensi, e sotto quel velo sottile e traslucido, il sangue pulsa impazzito nelle vene.
Con la lingua percorre l’intera linea della sua gola, una scossa galvanizzante lo attraversa ed Elijah risponde alle urla e ai dibattiti di Kyla serrando la morsa delle sue braccia, bloccandola.
Ora lei è in trappola. Una mosca nella ragnatela.
E il ragno ha fame.
Molta.
Elijah non si chiede più se quello che sta facendo sia giusto o sbagliato. Non gli importa. La sua mene è esclusa, destabilizzata, e tutto ciò a cui ora più dare ascolto è la sua gola arida e bruciante.
Ha sete.
Un tormento a cui deve assolutamente dare pace, o impazzirà.
Come una bestia priva di razionalità, Elijah solleva il corpo della preda che stringe e lo sbatte con brutalità sul tavolo ampio della biblioteca. Il tonfo secco copre l’urlo spezzato di Kyla, ma non attraverserà mai le spesse pareti della biblioteca, isolata alla scuola come un’isola in mezzo all’oceano.
Senza il tempo di un respiro, le è addosso. La blocca con il peso del suo corpo e, in pochi e rapidi gesti, il suo collo è nuovamente esposto, tanto bianco da riflettere la luce del giorno.
Con il respiro pesante di una bestia, Elijah si china sulla sua gola e, mentre l’eccitazione cresce come un’onda nel suo corpo, apre la bocca.
I canini affondano con semplicità, senza sforzo, come un coltello nel burro, il sangue irrompe nella sua gola come un fiume in piena, lo avverte riempire il suo corpo, colare lento e terribilmente dissetante.
Elijah si sente bruciare, si sente caldo come non lo è mai stato e nonostante il sollievo che prova, la richiesta cresce e il sangue sembra non essere mai abbastanza.
Le palpebre di Elijah si chiudono, tuti i suoi sensi sono sospesi, minimi di fronte al propormene piacere che gli causa il sangue caldo e viscoso, un’ebrezza intensa, appagante.
E senza alcuna via d’uscita.

 
Quando il mio corpo sbatte con una violenza inaudita contro il tavolo della biblioteca, il mio urlo si spenge nel dolore, ma nemmeno quello riesce a sbloccare il mio cervello.
Non riesco a credere che stia accadendo davvero.
Elijah non farebbe mai una cosa del genere.
Mi dibatto, urlo, ma so che non serve a nulla: la biblioteca è isolata e nessuno verrà a salvarmi.
Elijah è forte, più di quanto credessi, e nemmeno il mio corpo allenato può nulla contro di lui, vedo semplicemente le mie resistenze piegarsi fra le lacrime, finché il peso del suo corpo mi inchioda al legno del tavolo.
Dovrei fare qualcosa. Reagire.
Il pugnale.
Ce l’ho appeso alla cintura, all’interno dei pantaloni.
Frugo febbrilmente lungo il mio corpo, in un terribile sforzo riesco a sfoderarlo.
 Lo sollevo.
Elijah è chinato, totalmente smarrito nell’ebrezza del mio sangue, come abbandonato a qualcosa di orribilmente vicino al piacere fisico.
Non si è accorto di me. Del pugnale.
Le lacrime continuano sgorgarmi dagli occhi, disperate, ma io non agisco.
Mi basterebbe un gesto, un semplice gesto e tutto sarebbe finito.
Ma non ci riesco.
Non posso fare una cosa del genere ad Elijah.
Semplicemente non posso.
La mia presa trema sull’elsa, mi sento indebolire: le dita mi si schiudono e il pugnale cade a terra con un cozzare distante e freddo.
Poi il capo mi cade di lato, e tutto si fa nero e viscoso.

Quando i suoi denti sono affondati dolorosamente nel mio collo, ero sconvolta.
Quando  ho udito il rumore che faceva il sangue quando mi veniva sottratto, ho avuto paura.
Quando una mano di Elijah è corsa a soffocare l’urlo sulle mie labbra, ero terrorizzata.


 
Ora ho davvero paura.



NOTA: ma salve! Finalmente sono riuscita a risolvere il problema con il computer ( ergo ne ho comprato uno nuovo,  ormai era andato).
Chiedo ancora scusa per il disguido e spero di riuscire a recuperare in fretta il terreno perso D:
Be’, comunque ho risolto il tutto giusto in tempo per farvi gli auguri di buon Natale!

Alla prossima, e godetevi le feste! 

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Capitolo 18
*** Toccare il fondo. ***


Elijah si appoggia alla pesante porta, un rivolo di sangue gli sfugge da un angolo della bocca, il suo corpo è ancora bollente ed elettrizzato, ma la sensazione di sollievo sta man mano morendo in una fredda angoscia che sa di sconfitta.
Si porta una mano al volto e, con lentezza impietosa ed estenuante, la coscienza riaffiora dal torpore e la mente gli si snebbia, sbattendogli in faccia la realtà con un impatto che lo stringe in una morsa di nausea.
Cos’ha fatto?
Cosa diavolo ha fatto?
Hortense, al suo fianco, tiene chiusa la porta che dà alla biblioteca, il fiato grosso e un’espressione sconvolta fra le grinze del volto.
Elijah sfugge il suo sguardo. Con che coraggio può anche solo pensare di guardarla in faccia? Con che coraggio si reputa a capo dei Voraci che lo seguono? Come può osare definirsi loro pari, dopo quello che ha fatto?
Privato totalmente di ogni forza, svuotato di sicurezze e sradicato dai valori su cui si era sempre appoggiato, Elijah semplicemente si lascia andare fino a scivolare a terra, il capo stretto fra le mani convulse e un orribile, incolmabile voragine che si spacca nel suo petto.

Cosa diavolo ha fatto?

 
Dapprima solo una sensazione trascurabile, ma poi, tenace sebbene lento, un acuto e persistente dolore mi stuzzica le tempie, fino ad assestarmi vere e proprie stilettate di emicrania.
Un gemito appena soffocato mi sfugge dalle labbra socchiuse; ho la gola secca e mi tocca ingoiare un paio di volte a vuoto prima di poter riacquistare sensibilità. Stretto fra i denti, ho un sapore secco e amaro che mi da’ la nausea.
Ho freddo. Ad ogni centimetro del mio corpo.
E mi sento così stanca, quasi spossata.
A fatica, mi costringo a sollevare le palpebre. La luce, sebbene soffusa e sfumata in un colorito ocra, mi acceca per un istante, infliggendomi una pugnalata nel cranio pulsante.
Un altro gemito mi gratta la gola e progressivamente tento di agguantare il pieno controllo del mio corpo. Dopo qualche istante, i sensi sono tornati efficienti, ma di conseguenza l’emicrania si è fatta più viva e prepotente.
Punto i gomiti e mi sollevo con il torso, provocandomi un’ondata di nausea che per poco non mi abbatte nuovamente ma, stringendo i denti, riesco a sopprimerlo e a mettermi a sedere.
Sono in biblioteca. Stesa sul tavolo principale.
Sbatto le palpebre un paio di volte e mi passo una mano fra i capelli, ma incontro qualcosa di viscido e la ritraggo all’istante, disgustata.
La mia mente si riscuote improvvisamente.
Abbasso lo sguardo su una ciocca chiara e, con orrore, il mio presentimento di fa concreto: sangue.
Il mio sangue.
La scena mi irrompe in testa, rapida e impattante, spaccandomi in due le tempie sfinite.
No.
Non è successo davvero.
Non può essere successo.
Per qualche istante, non riesco a far altro che rimanere qui, seduta sul tavolo, lo sguardo perso e un orribile sensazione che lentamente accresce, come acqua che sale implacabile, pronta ad affogarmi.
Elijah non può avere fatto una cosa del genere.
Mi rifiuto di accettarlo. Di ricordarlo. Di assimilarlo.
Mi riscuoto. Sbatto ancora le palpebre, tentando di snebbiarmi lo sguardo da quella patina di stordimento che mi stringe; lentamente, scendo dal tavolo della biblioteca e mi metto in piedi, ma con un orribile capogiro mi rendo conto che le mie gambe non hanno la forza di sorreggermi.
Le ginocchia mi crollano, la coscienza si ritrae in un buio viscoso per un breve, singolo istante. Quando riapro gli occhi, lo faccio in risposta ad un dolore secco ed improvviso alla testa.
La gola mi brucia da morire e, dannazione, non riesco a riprendermi da questo stato confusionale.
Sono svenuta per una frazione di secondo.
Sono caduta a terra. La botta alla testa mi ha ridestata, ma ora le punte delle dita mi formicolano.
Ogni singola fibra del mio corpo trema e sono costretta ad aspettare qualche minuto per riprendermi, prima di tentare a rialzarmi.
Mi guardo le mani e lo sbigottimento mi strappa un mezzo sospiro: sono bianca. Lo sono sempre stata, certo, ma ora ho un colore spettrale. Esangue.
Quasi mortale.
Stringo gli occhi e una sottile lacrima calda mi scivola dalle ciglia.
Non può essere successo davvero.
Non può, dannazione!
Stringo i denti. Devo vederlo. Devo vedere Elijah, parlargli, devo capire.
Traggo un profondo respiro e mi alzo.
 
Mi dirigo in camera mia il più velocemente possibile, ma i contorni del mio campo visivo sono indistinti e la mia mente sembra ferma in un blocco di ghiaccio. Ho raccolto i capelli e li ho infilati nel collo della camicia, in modo che il sangue secco che ne imbratta il biondo non salti troppo all’occhio. Ostento un’andatura decisa e mi sforzo di tenere il busto dritto, nonostante mi senta tanto spossata da pensare che ad ogni passo potrei svenire nuovamente.
Fortunatamente non accade e io riesco a raggiungere la porta della mia camera. A apro con un polso tremante, addossandomi con tutto il peso del mio corpo e, una volta dentro, scivolo a terra, riprendendo fiato.
Ho sonno.
È come se le palpebre pesassero come macigni e io non avessi la forza di tenerli sollevati.
So a cosa sono dovuti questi sintomi.
Un orribile, agghiacciante brivido mi scala la schiena e la gola mi si chiude in un ansito sofferente, un misto di dolore, paura e strazio.
Ha bevuto il mio sangue.
Elijah ha bevuto il mio sangue.
Innalzo un ringhio di rabbia al cielo, a chiunque da lassù stia giocando la partita della mia vita e stia pietosamente perdendo.
Perché?
Stavo vivendo la mia noiosa, regolare vita e stavo bene prima che tutto ciò accadesse, prima che quei sette Voraci entrassero a far parte della mia esistenza. Volevo che accadesse qualcosa, che qualcuno desse uno scrollone alla mia ordinaria quotidianità. Ora, però, quella noia non è più così male in confronto al dolore che mi sta scavando dall’interno.
Prima che tutto iniziasse a girare attorno ad Elijah.
-Maledizione- Sussurro tra di denti.
Mi rialzo, mi strappo i vestiti dal corpo e mi getto letteralmente sotto il gelido getto d’acqua della doccia.
E mentre il sangue rappreso si scioglie e scivola via, le mie lacrime si mischiano con l’acqua e raschiano dal mio corpo la stanchezza, la sofferenza che cola da ogni poro della mia pelle e i miei impietosi ricordi, impressi a inchiostro indelebile nella mia mente.
Quando mi sottraggo al violento getto d’acqua mi sento fresca, ma dentro di me cresce un grumo nero e soffocante di angoscia, e so che non si scioglierà finché non avrò parlato con Elijah.
Mi cambio frettolosamente, raccolgo i capelli ancora umidi ed esco dalla porta.
 
Daisy e Bruno.
In fondo al corridoio. Li vedo.
Hanno un’aria lugubre dipinta in volto, qualcosa che va oltre il loro solito alone tetro, qualcosa che ha a che fare con il cuore del loro gruppo. Si tengono in disparte e mormorano tra loro, masticando le parole come se avessero paura di parlare anche solo sottovoce.
Sembrano spaventati.
Cosa può spaventare un Vorace?
Nel bel mezzo del corridoio, mi fermo.
La guerra, Kyla.
Il respiro mi si mozza in gola.
Sta per cominciare.
Oh, Dio.
Perché deve essere tutto così doloroso? Così complicato?
perché ovunque volga gli occhi non vedo altro che sangue, sangue, e ancora sangue?
Rosso. Sembra l’unico sfondo monocromo della mia vita.
Si voltano.
Mi vedono, e nei loro sguardi leggo sorpresa, difficoltà. E infine distacco.
Un’ondata di gelo mi investe, mentre ciò che il mio intuito mi sussurrava dall’inizio comincia a farsi più incalzante ed insistente.
Mi terranno a distanza, tenteranno di evitarmi.
Perché io sono solo un fascio di nervi muscoli e sangue che ha ridestato la sete di Elijah. Non potrò più stare accanto a loro, non potrò più farmi acconciare i capelli da Daisy, parlare di sport con Bruno, ridere di Derek assieme a Hortense. Non avrò più la possibilità di avvicinare Endymion o Marine.
E non potrò più studiare in biblioteca.
Né con Elijah, né senza di lui.
I due mi voltano le spalle e fanno per andarsene.
-No- mormoro, distrutta –Aspettate!-
Tendo una mano nella loro direzione, ma sono ancora stanca e devo limitare i miei movimenti per evitare di perdere ancora i sensi.
-Vi prego!- urlo, e la mia voce si incrina nella disperazione.
Non si voltano, non tornano indietro.
La mia mano ricade lungo il fianco, mentre un nodo mi si gonfia in gola e lo stomaco mi si contrae. Non mi do nemmeno la pena di piangere. Sono arida e sono stanca.
Stanca di tutto.
Stanca dall’inizio.
-Kyla-
Un sospiro appena percettibile, un tono di voce pietoso, quasi commiserevole.
Non mi volto nemmeno. Ho riconosciuto la voce.
-Ho bisogno di parlare con Elijah- rispondo solo.
Hortense entra nel mio campo visivo. Ha uno sguardo profondo ma velato di compassione. Compassione nei miei confronti.
-Non fare così-mi sussurra, sfiorandomi un polso.
-Devo parlargli-
-Non puoi- chiosa, asciutta –E lo sai- aggiunge, ammorbidendo il tono di voce.
scuoto il capo.
-Non voglio che vada a finire così- ansimo, angosciata.
i miei peggiori dubbi si stanno avverando. Loro si allontaneranno da me. Lui si allontanerà da me.
E cosa rimane?
Un guscio vuoto.
La mia vita. Niente per cui valga la pena trascinarsi avanti.
Hortense caccia un sospiro tremante –è l’unica soluzione- la sua voce è incrinata e, quando alzo lo sguardo, noto che ha gli occhi umidi.
-No- fremo, mordendomi le labbra –Devo parlargli-
Lei prende fiato per rispondermi ma il suo sguardo sguscia sopra la mia spalla e le sue labbra si serrano di scatto, mentre impallidisce più di quanto avrebbe dovuto.
Mi volto all’istante.
Elijah.
È insieme a Derek, che lo segue come un cagnolino. Da quando ha bisogno di scorta?
Non appena incontro il suo sguardo, le tenebre lucide dei suoi occhi si colmano di sofferenza e, per la prima volta, è lui ad abbassare lo sguardo di fronte a me.
Che cos’è successo?
Perché il mondo si è ribaltato?
Faccio un passo verso di lui ma, con una rapidità che ha del disumano, Derek si frappone fra noi e Hortense è al fianco di Elijah.
Rimango agghiacciata.
-Mi dispiace Kyla- dice Derek, serio come non mai –Ma non te lo posso permettere-
Mi sento come stretta in una morsa impalpabile ma orribilmente soffocane.
-Elijah- sussurro, cercando il suo sguardo oltre il corpo di Derek –Non puoi farmi questo-
Lui non mi risponde.
Nell’aria si respira solo tensione allo stato puro. Una tensione che rende l’aria quasi rarefatta, irrespirabile.
-Non farmi questo- ripeto, alzando la voce –Non me lo merito!-
Silenzio.
Un silenzio così crudele.
-Rispondimi!- urlo, scoppiando a piangere.
Lui scuote impercettibilmente il capo –è per il tuo bene-
-Sto bene!- affermo, un pietoso tentativo di rimettere tutto a posto –io sto bene!-
Finalmente Elijah inchioda i suoi gorghi oscuri nei miei occhi –Ti ho quasi uccisa- dice, scandendo le parole con freddezza.
-Non lo hai fatto- rispondo prontamente.
-Hortense me lo ha impedito. È entrata in biblioteca e mi ha strappato dal tuo collo. È solo grazie al suo intervento se sei viva- le sue parole sono lastre di ghiaccio, fredde e taglienti –Se fosse stato per me, saresti morta.-
Morta.
La parola mi rimbomba nella testa come rintocchi di campane.
La verità mi crolla addosso con il peso di una frana.
Morta.
-D’ora in poi noi per te non esisteremo- continua Elijah, lapidario.
-No- rispondo. E io stessa mi sorprendo della fermezza nella mia voce –Non voglio-
-è così che deve finire-
-E allora trova il mondo per farla finire diversamente!—ringhio stringendo i denti –Ho superato enormi difficoltà negli ultimi mesi, ho dovuto accettare aspetti di voi che mi terrorizzano. Una parte di me è morta dalla sera dell’aggressione, ma non mi importa; non mi importa di nulla perché io con voi , con te, sto bene.  E se credi che sia facile ritornare alla mia squallida e noiosa vita dopo tutto questo, be’ ti sbagli! Quindi non pensare, nemmeno per un minuto, di potermi lasciare indietro come uno schifosissimo rifiuto!-
Ho alzato la voce, sto urlando.
E piangendo.
Perché non faccio che piangere?
Il silenzio cala come una cappa viscida e soffocante.
Poi Elijah distoglie gli occhi dai miei.
Da quel singolo, fugace gesto, so che è finita.
-Non provarci!- insisto, mentre la disperazione mi sale alla gola –Non provare ad andartene!-
-Mi dispiace- sussurra, prima di voltarmi le spalle.
-No!- urlo, tendendomi verso di lui, solo per finire tra le braccia forti di Derek, che mi tiene a distanza. Grido, mi dibatto.
Piango.
Piango come non ho mai fatto in tutta la mia vita, mentre la sua sagoma lentamente svanisce nel buio del corridoio.
Le resistenza di Derek si trasforma lentamente in un abbraccio e, mentre ogni stilla di dolore mi viene strappate dalle lacrime, lui mi accompagna scivolare a terra, sempre più giù.


Fino a toccare il fondo.

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Capitolo 19
*** Mamma. ***


La sveglia scatta e irrompe nell’accogliente tenebra del sonno, strappando la mia mente dall’unico luogo in cui si può permettere di oziare.
Non apro gli occhi. Le palpebre mi bruciano e la testa mi pulsa in un’emicrania davvero fastidiosa. Credo di essere disidratata.
Allungo una mano e metto a tacere quell’insistente squillo acuto, solo per ritirarmi nel caldo delle lenzuola e voltarmi sull’altro lato.
Non andrò a lezione.
Non oggi.
Mi sento spossata. E non voglio vedere in faccia nessuno di loro. Non quando i fatti sono ancora così freschi e dolorosi; anche se non credo che la faccenda si richiuderà molto presto.
Ma oggi non posso farcela.
Oggi voglio solo concedermi una giornata di riposo, e forzare la mia testa a scivolare nella quieta incoscienza del sonno.
 
È passata una settimana.
Sette lunghi giorni in cui consumo i pasti fuori dalla mensa. In cui tutto mi sembra così vuoto e monotono da darmi una nausea persistente. Sette giorni  in cui ho il terrore di avventurarmi per i corridoi della Toussand, temendo di scorgere anche solo uno di loro.
Non so come comportarmi.
So solo che se ci penso sto male.
Mi alzo, i capelli scostati disordinatamente di lato, e consegno il test in bianco. Non sono nemmeno in grado di studiare, di impegnarmi. Non trovo nulla per cui valga la pena entusiasmarsi.
È vero: è passata una settimana. Dovrei reagire; lasciarmi semplicemente trascinare dal ritmo della mia esistenza, sopravvivendo più che vivendo, è il modo peggiore di accettare la situazione.
Ma forse, in fondo, non l’ho affatto accettata.
Esco dalla classe in un silenzio di tomba, rotto solo dallo scribacchiare frenetico dei miei compagni che si danno da fare per riempire lo stesso foglio che ho riconsegnato intatto.
Sospiro.
È curioso come in realtà io non stia provando dolore, rabbia né frustrazione.
Solo una sensazione vuota nel petto.
Una voragine incolmabile che si divora qualsiasi emozione e pensiero.
Maledizione.
Mi dirigo in camera mia a capo basso, getto libri e materiale sul letto sfatto con noncuranza e semplicemente mi lascio cadere sul parquet lucido della stanza.
Sul comodino, la custodia istoriata che contiene il pugnale è immersa nella penombra, lucida e immune dal pulviscolo, come se nemmeno il tempo volesse avere a che fare con lei.
Accanto, una pila di lettere di mia madre cresce a dismisura.
Sono disordinate, abbandonate lì come cartacce che crepitano di tanto in tanto nel silenzio fermo della sala. Le ultime non le ho nemmeno aperte. Non ho scritto nessuna risposta, non mi sono fatta sentire, non ho dato notizie.
Perché odio le apprensioni esagerate di mia madre. Odio quando si fa così protettiva da diventare quasi soffocante.
Eppure ora mi sento una bambina smarrita, una bambina che ha bisogno di protezione materna.
È con  rapidità, quasi bisogno che compongo il numero di telefono.
-Pronto?-
La sua voce è così calda e dolce.
-Mamma- mormoro in risposta.
-Tesoro!- si anima lei –Finalmente sento la tua voce!-
-Mi dispiace, sono stata … impegnata-
Ride. Una risata morbida che non credevo mi sarebbe mai mancata tanto.
-Non importa. Allora, come stai?- domanda, entusiasta.
schiudo le labbra, esito un secondo di troppo.
-Bene- sussurro, mascherando il tremito nella mia voce.
Mia madre si concede un istante di silenzio prima di rispondermi –Sei sicura?-
Quasi mi scappa un sorriso amaro. Il fiuto di mia madre non sbaglia mai. Nemmeno tramite telefono.
-Sì. E tu?- ribatto prontamente.
-Oh, qui è tutto come al solito: nessuna novità. Spero che almeno tu non stia annoiando, laggiù-
-No- sospiro con amarezza. No, il movimento qui proprio non manca.
-Kyla, sei sicura di stare bene?- indaga mia madre, e posso vederla ,come se fosse proprio qui di fronte a me, corrugare le sopracciglia con quella sua aria da detective.
-Sono solo stanca- mi schermisco io.
-lo studio è tanto, vero?- mi risponde, la voce ammorbidita e comprensiva –Cerca solo di non esagerare, ti conosco e so che tendi a sfinirti per dare il massimo-
-Mamma- la voce mi trema, gli occhi mi si riempiono di lacrime. Ho davvero creduto di potermi comportare da persona adulta? Credevo di essere matura, indipendente, di potermela cavare da sola. E invece sono distrutta, non faccio che piangere come una stupida ragazzina.
-Cosa c’è che non va, Kyla?- Ora il suo tono è preoccupato, ma sempre dolce.
-È un brutto periodo. La scuola non va bene, le delusioni sono tante- confesso, glissando  su una parte della verità. La più importante.
-Non ti devi preoccupare, tesoro-mi risponde lei, comprensiva –Un brutto voto a scuola non è la fine del mondo. Sono sicura che recupererai, sei sempre stata testarda, so che non ti arrenderai nemmeno stavolta-
-Non ce la faccio- sussurro, passandomi una mano fra i capelli.
-È un momento di sconforto, è normale. Andrà tutto bene, vedrai- mi incoraggia.
Purtroppo non è così semplice. Niente tornerà come prima.
Rimango in silenzio, non rispondo. Ricaccio indietro le lacrime: Odio ogni mio momento di debolezza.  
-Kyla, hai bisogno di staccare la spina per un po’. Perché non chiedi qualche giorno di riposo? Se non sbaglio gli studenti della Toussand hanno diritto a sette giorni di riposo giustificati l’anno. Torna a casa per un po’, riposati-
Mi mordicchio le labbra, nervosa.
Non è una cattiva idea, a dirla tutta.
Andarmene da qui mi aiuterà a snebbiare la mente, e smettere di vederli ogni giorno non potrà che farmi bene.
-D’accordo- rispondo, e subito m sento rinfrancata, come se avessi tratto una boccata d’aria fresca.
Sarei tornata a casa. Dalla mia famiglia.
Qualche giorno per vivere come una persona normale e dimenticarmi di tutto ciò che succede qui fuori, nel mondo.
-Va bene- mia madre sembra colta alla sprovvista. Probabilmente non si aspettava che avrei accettato. Di norma rifiuto tutte le occasioni per allentare la presa sulla scuola o per riposarmi un po’. Ha ragione lei, sono sempre stata un’inguaribile testarda.
Ma ora sono al limite. Ora da sola non ce la faccio.
Voglio scappare. Fuggire dalla Toussand e dai problemi di sangue che contiene, dimenticare anche solo per un po’ i tormenti di questi mesi.
-Allora chiamami quando avrai scelto i giorni in cui tornare. Sarò qui ad aspettarti- Continua lei, felice.
-Certo. Ti chiamo io-
-Ci vediamo, Kyla-
-Mamma?- la fermo, prima che potesse chiudere la chiamata.
-Si?-
-Ti voglio bene-
L’ho colta di nuovo in contropiede.
-Anche io-
 
Mi chiudo la porta della segreteria alle spalle con un mezzo sospiro di sollievo.
Bene. È fatta.
Settimana prossima tornerò a casa per tre giorni. Semplicemente me ne andrò, sparirò per un po’ e forse avrò l’occasione di stare davvero bene, di riavvolgere il nastro del tempo e tornare bambina.
La verità è che sono esausta; tutti gli avvenimenti che mi sono franati addosso mi hanno schiacciata, e le pressioni e gli sconvolgimenti sono stati più grandi di me.
Mi passo una mano fra i capelli sciolti e faccio per andarmene quando il mio sguardo incespica su una fessura di luce, una porta socchiusa. È il laboratorio di musica: gli studenti della prestigiosa scuola Toussand hanno l’opportunità di scegliere tra una vasta gamma di passatempi classici, tra i quali il ricamo, corsi di lingue straniere e, appunto, la musica.
Qualcuno sta suonando, e anche bene, a dirla tutta. È una musica triste, che quasi mi contagia di malinconia. Le note sono lunghe e acute, il passaggio di tono è morbido e più ascolto più il vibrante suono assomiglia al canto umano.
Chiunque stia suonando sa davvero trapassare carne e abiti e toccare le corde dell’anima.
mentre cammino, lo sguardo non può evitare di intrufolarsi per quel piccolo scorcio luminoso, ma ciò che vedo non fa che peggiorare il mio umore, colpendomi come un maglio dritto nello stomaco.
lì dentro c’è Marine. I lunghi capelli cenere che le si srotolano come un lungo tappeto sulla schiena, e la guancia morbidamente abbandonata ad un sottile violino color ebano.
Ha le palpebre morbide, gli occhi chiusi e le labbra rilassate, ma una sottile piega malinconica le si è insinuata nel volto dolce.
Già, sembra che lo stato d’animo sia lo stesso per tutti, qui dentro.
Di fronte a lei, slanciato e composto, c’è Elijah. Il suo profilo affilato è volto alla finestra e sembra distratto, fuori dalla realtà. Anche lui ha un’aria malinconica negli occhi tenebrosi, e le sue labbra sottili sono contratte in un’espressione tesa.
Indugio un secondo di troppo su quella lama di luce, su quella finestra che sembra affacciarsi in un altro mondo e che, sebbene piccola, riesce a farmi davvero male.
È orribilmente struggente essere tenuti a distanza, obbligati al ruolo di spettatori impotenti. Osservare le vite delle persone che ami senza poter fare nulla.
Proprio in quell’istante, come se avesse avvertito i miei occhi sulla sua nuca, Elijah si volta e, in una frazione di secondo, i nostri sguardi si incrociano.
Rapidamente volto il capo e riprendo a camminare, stringendo i denti.
Perché ormai, dannazione, mi è chiaro cosa lui sia per me. Mi è chiaro ora, proprio quando l’ho perso.
 
Elijah socchiude le palpebre.
È stato solo un secondo. Una breve sprazzo di vita, sufficiente a rinfacciargli la sua colpa come uno schiaffo impietoso.
Erano giorni che di Kyla non vedeva nemmeno l’ombra, e ora, del tutto inaspettatamente, quegli occhi caldi e glaciali al contempo compaiono sulla soglia della porta, all’ombra, sfuggenti come quelli di un animale selvatico.
E poi spariscono, così come sono comparsi.
Elijah sospira.
Quello che le ha fatto è orribile. Le ha permesso di scivolare nella loro vita lentamente, di trovarvi un equilibrio, ma quando vi è rimasta intrappolata l’ha dovuta gettare fuori e innalzare scudi e barriere per impedirle di farvi ritorno.
È orribile. Ma è l’unica soluzione.
Elijah ha perso il controllo, ha ceduto alla sete. E non può permetterselo, non ora: ora deve solo concentrarsi sul suo gruppo, deve guidarlo il più freddamente possibile e tentare di limitare al minimo i danni che una possibile guerra potrà scatenare. Per farlo deve essere nel pieno delle sue capacità fisiche e facoltà mentali.
Inoltre stare vicino a Kyla sarebbe pericoloso per la sua vita e lui le ha già inflitto abbastanza dolore. La cosa migliore adesso è tentare di scivolare via dal suo mondo, lentamente, e permetterle di incamminarsi per un’altra via.
Il ragazzo si porta una mano al collo, contrendo la mandibola.
È la cosa migliore.
Anche se è dolorosa. 

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