Echo.

di Elissa_Bane
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The only one in the world. ***
Capitolo 2: *** Arrival of the birds. ***
Capitolo 3: *** The Great Game. ***
Capitolo 4: *** Gave me no warning, I had to be on my way. ***
Capitolo 5: *** Tomorrow's bleeding ***
Capitolo 6: *** Goodbye my lover. ***
Capitolo 7: *** Ghosts that we knew. ***



Capitolo 1
*** The only one in the world. ***


ECHO.

Capitolo primo.

The only one in the world.













Sebastian Moran

Le cose non iniziano.

Le cose non finiscono.

Esistono.

Noi, miserabili esseri umani, esistiamo.

Viviamo, respiriamo, mangiamo, facciamo sesso, fingiamo di amare per non restare soli, ma non nasciamo e non moriamo.

Sono termini riduttivi.

Noi iniziamo o cessiamo di esistere.

Io faccio sì che le persone cessino di esistere.

Io, che non ho mai iniziato ad esistere.

Sono un assassino. Il migliore di tutti i tempi.

È per questo che mi scelse.





James Moriarty

Era una giornata di settembre calda e monotona.

Gli affari prosperavano, la mia rete si allargava sempre di più nei territori extraeuropei. Passare il confine era stato uno dei trionfi migliori della mia carriera, e fu proprio grazie ai miei informatori asiatici che il suo nome arrivò a me.

Era uno dei migliori uomini delle truppe britanniche mandate in Afghanistan e il suo talento non era passato inosservato né tra i compagni, nè tra le mie spie. Capitano Sebastian Moran, quello era il suo nome, ed era appena tornato in Inghilterra dopo aver passato sei mesi al fronte.

Sangue freddo, nervi saldi, mira eccellente: una descrizione promettente. Era esattamente l'uomo di cui avevo bisogno. Aveva tutte le carte in regola per diventare il mio killer personale.

Cliccai il tasto verde di chiamata guardando fuori dalla finestra dell'appartamento. Piccole nuvole bianche erano sparse nel cielo azzurro brillante. Il rumore delle macchine si sovrappose a quello del telefono che squillava.





SM

Il telefono squillò non appena mi fui versato un bicchiere di whiskey, la solita suoneria a ricordarmi che ero nessuno solo fino a quando il mio nome non veniva scelto e contattato. Non era facile farlo, quindi risposi.

«Pronto.»

«Sebastian Moran?»

«Dipende.»

«Da cosa?»

«Da quanto mi pagherai.»

L'uomo che mi aveva chiamato sembrava sorridere persino attraverso il telefono.

«Stiamo già parlando di affari? Quanta fretta.»

«Preferisci prima portarmi fuori a cena e regalami delle rose rosse?» risposi incurvando un angolo delle labbra e bevendo un sorso di whisky, che mi riscaldò la gola.

Lui era diverso da tutti gli altri.

Non aveva paura, non era spaventato che qualcuno lo potesse intercettare, non temeva di venire scoperto. Quindi le opzioni erano due: o era un pazzo, o un genio. O, magari, entrambi.

«Stai suggerendo un appuntamento, Sebastian?»

Risi. Non potei farne a meno.

«Posso prima almeno sapere come ti chiami?»

Ora, solitamente ho quattro tipi di clienti: quelli che mi dicono un nome falso, quelli che sono onesti, quelli che si nascondono dietro un intermediario e quelli che mi dicono che sarò pagato e quello mi deve bastare.

«Sono James Moriarty.»

«Bene James. Ho solo due domande: a che ora e dove, stasera?»





JM

Il ristorante si trovava nella campagna in prossimità di Londra, elegante e lontano da occhi e orecchie indiscrete. Il proprietario era sotto il mio controllo da più di un anno, ormai, ed era sempre disposto a tenermi pronto un tavolo nel suo locale.

Attesi in auto l'arrivo di Sebastian, mentre un cd di musica classica suonava la sua melodia. Seguii le note con la mente, tenendo il tempo con una mano, e chiusi un istante gli occhi sul mio pezzo preferito, dove il violino raggiungeva le note più alte.

Quando li riaprii vidi Moran scendere dalla sua macchina nera. I suoi occhi filavano veloci nel parcheggio in mia ricerca, la sua fronte era solcata da una ruga di concentrazione. Era molto più bello di quanto le fotografie avessero lasciato intendere.

Stava per prendere il telefono quando scesi dalla macchina, dopo aver interrotto la musica.

«Sebastian» chiamai per attirare la sua attenzione, «è un piacere conoscerti.»

Allungai una mano che non tardò ad afferrare. La sua presa era forte, sicura. Lasciai scivolare forse troppo lentamente le dita sulla sua pelle mentre scioglieva la stretta.

«James, temevo che avrei dovuto rinunciare al piacere di fare la tua conoscenza».

«Hai troppa poca fiducia in me, non avrei mai rinunciato ad un appuntamento con un uomo come te. Penso che scoprirai di avere alcuni interessi che combaciano con i miei, e che inizierai a fidarti di me molto presto» replicai con un ampio sorriso.

«Questo è un appuntamento?» domandò alzando le sopracciglia.

«Sei stato tu a chiedermi di uscire» precisai soddisfatto. Sebastian scosse la testa.

«Touché. Allora, abbiamo intenzione di entrare o di rimanere nel parcheggio per tutto il resto della serata?».

«Entriamo, il signor Lemaire ci ha lasciato il tavolo migliore». Feci una pausa, incamminandomi con Sebastian alla mia sinistra. «Ma intanto dimmi dell'Afghanistan. Ho sentito dire che ti sei fatto notare».

«Non ci vuole molto a farsi notare. Basta rimanere vivi».

Lo squadrai lentamente, dai tratti duri del viso alle mani grandi e sicure, dagli occhi ora sfuggenti alle labbra socchiuse.

«Restare vivi e centrare da una ragionevole distanza un uomo in corsa esattamente nella tempia durante una missione sono due cose differenti. Uno è istinto di sopravvivenza, l'altro è talento».

«Possibile. Ma io parto in svantaggio, James. Non so nulla di te».

Sebastian Moran mi osservava con enigmatico interesse. Era così adatto alla sua professione. Era glaciale e attraente.

«Potrei offendermi per questo, sono piuttosto famoso. Sono un consulting criminal. L'unico al mondo». Sottolineai la parola unico, facendo attenzione alla sua reazione. Non si scompose per nulla.

«E», domandò, incurvando le labbra, «che cosa desidera l'unico consulting criminal al mondo da me?».

Feci schioccare la lingua. «Tutto. Mi serve un uomo come te. Sei fuori dal comune».

«Su questo non ci sono dubbi, James».

«Bene, Sebastian», dissi quindi indicando un tavolo e sedendomi di fronte a lui, «prima di discutere i dettagli direi di cenare. Gli affari possono aspettare».

Versai il vino rosso nel suo bicchiere, senza distogliere i miei occhi dai suoi azzurri, che non sfuggivano più. Erano glaciali e magnetici. Sorrise alzando il calice di vino in segno di assenso.

«Allora James, raccontami qualcosa di te», disse, chinandosi poi verso il mio orecchio e sorprendendomi. «La coppia al tavolo tre, sono qui per te. Quindi, se ci tieni al tuo bel corpicino, fingi di essere il mio appuntamento», aggiunse con voce più bassa. Continuai a comportarmi con estrema scioltezza, per nulla allarmato.

«Mi piaci, Moran. Hai già iniziato a lavorare», sussurrai sorridendo, poi bevvi un sorso di vino.

«Ora, se non ti dispiace James», mormorò senza smettere di sorridere e prendendomi la mano. I miei occhi scattarono rapidamente verso l'unione dei nostri corpi. «Parla normalmente e fingiti almeno interessato a noi. Non vorrei ritrovarmi un cadavere nel letto, stanotte».

Risi, muovendo il pollice sulla sua pelle calda. L'elettricità che aleggiava da quando ci eravamo incontrati era quasi palpabile.

«Prendo questa frase come una promessa», risposi alzando gli occhi di nuovo per incontrare il suo sguardo.

«Io mantengo sempre le mie promesse» disse, la voce bassa ma sicura.

«Sei assunto. Questo è il tuo lavoro: evitare che io venga ucciso, eliminare chi mi intralcia la strada e mantenere le promesse. Ma, naturalmente, sarai pagato solo per i primi due incarichi».





SM

Adesso, ripensandoci, mi rendo conto che James mi è sempre piaciuto. Non solo come uomo, naturalmente. C'era qualcosa in lui che affascinava, la grazia sinuosa dei movimenti che strideva con la mente acuta e fredda.

Ma, allora, lui era il mio nuovo datore di lavoro e l'unica cosa che avevo in mente non era certo di chiedergli di sposarmi, anzi.

La coppia del tavolo tre ci seguì anche nel parcheggio, quindi feci in modo di continuare a flirtare con James. Non che avessimo queste grandi difficoltà. Aveva iniziato a piovere.

«Allora», dissi, inclinando un poco il capo di lato, «Ti andrebbe di passare a bere qualcosa da me?».

«Mi andrebbe molto, Sebastian, ma la mia macchina?».

«Manderò qualcuno a riprenderla». James apparve sorpreso e io risi.

«Davvero professionale», rispose sorridendo, «allora fai strada».

Arrivammo a casa mia poco dopo, la macchina blu della coppia che parcheggiava poco distante dal portoncino d'ingresso. Sorrisi a James e aprii la porta di casa. Poi mi voltai verso di lui e risi liberamente, come se mi avesse appena fatto la battuta più divertente che io avessi mai sentito. Mi chinai con deliberata lentezza verso il suo volto.

«James», mormorai, «entra in casa».

«D'accordo», rispose avvicinandosi a me con la stessa calma.

In questo modo le nostre labbra quasi si sfioravano, e sperai che la coppia fosse abbastanza lontana da credere che lo stessi baciando.

Una mano sfiorò con delicatezza il viso di James.

«Arrivo subito».

Avendolo visto entrare nell'appartamento uscii dal cancello e mi accostai alla macchina. «Cosa volete da lui?», domandai.

L'uomo e la donna strabuzzarono gli occhi.

«Non...noi...beh...ecco...». Sfilai lentamente la pistola dalla giacca.

«Potete andare e dire a chiunque vi abbia mandati che può evitarsi il disturbo».

Misero in moto la macchina e se ne andarono senza aggiungere nient'altro.

Aprendo la porta dell'appartamento scoprii che James si era accomodato su una delle poltrone nel soggiorno. Mi avvicinai al mobiletto bar, scrutandolo di nascosto. Gli occhi neri s'intrecciarono ai miei e io deglutii, lievemente in imbarazzo per essermi fatto scoprire, come un adolescente alla sua prima cotta.

«Cosa vuoi da bere?».

«Vedo che ti piace il whisky. Quello andrà bene», disse con naturalezza, come se conoscesse perfettamente le mie abitudini.

Ne versai in due bicchieri, mentre fuori un temporale infuriava minaccioso. Gli porsi un bicchiere e mi sedetti di fronte a lui.

«Non credo che la coppia ci darà ancora fastidio. Erano dilettanti, è bastato mostrare loro la pistola e se ne sono andati con la coda fra le gambe».

«Il mondo è popolato fondamentalmente da idioti, e la maggior parte di quelli che si mettono contro di me appartengono a quella categoria. Non vorrei che pensassi di essere stato assunto per questo tipo di persone. Di questi tempi Mycroft Holmes si sta interessando un po' troppo a me», spiegò tra un sorso e l'altro, «ho bisogno di qualcuno che non faccia errori nel suo lavoro».

«Ho sparato novecento pallottole da quando sono tornato in Inghilterra, James, e nessuna ha mai mancato il suo bersaglio, che fosse un cervo o un uomo. Ma naturalmente questo lo sapevi».

Fuori la pioggia non accennava a cessare. Si alzò in piedi, avvicinandosi alla finestra che dava sul giardino interno.

«Sì, lo sapevo, come ora so di potermi fidare di te quando la mia strada si incrocerà con quella di Sherlock Holmes, il fratello dell'uomo che ha in mano il Governo. E accadrà molto presto, Sebastian».

«Esattamente», mormorai, alzandomi in piedi e avvicinandomi alle sue spalle, «quanto presto?».

«Mentre noi stiamo parlando un uomo sta cercando di ucciderlo. So che non ce la farà, ma in questo modo il gioco è iniziato», disse girandosi verso di me e piantando i suoi occhi nei miei.

Gli presi il bicchiere di mano e lo appoggiai sul tavolino accanto al mio, poi mi chinai verso di lui.

Lo vidi tremare leggermente, già conscio di quello che sarebbe accaduto. Diamine, lo eravamo sin dall'inizio della serata.

Mi chinai lentamente fino a poggiare le labbra sulle sue. All'inizio fu un contatto timido, ma una volta che aprì le labbra le cose cambiarono rapidamente.

Infilai una mano tra i suoi corti capelli castani e me lo tirai addosso. Mi piaceva il suo sapore, non celato minimamente dal gusto del whisky bevuto poco prima. James sapeva di violetta.

Slacciai in fretta la sua cravatta e lo sospinsi verso la mia camera da letto.

Sorrise contro le mie labbra e disse semplicemente: «Sebastian».

Giurai a me stesso che il mattino dopo quella sarebbe stata l'unica parola in grado di ricordare.



 
*.*.*





Mi svegliai nel letto vuoto, senza sorprendermi minimamente di ciò. James aveva capito perfettamente come sarebbe stato il nostro rapporto.

Sulla scrivania la sua cravatta nera giaceva abbandonata, un biglietto bianco adagiato sopra.


 

Non credi di aver bruciato le tappe, Sebastian? Non credevo che le tecniche di corteggiamento fossero ormai così tanto sottovalutate.

JM





Afferrai il cellulare e scrissi velocemente un messaggio.

Ci vediamo stasera a Hide Park. Vestiti elegante. SM








NdA: Cao a tutti!
Questa fanfiction è stata partorita dalle menti malate di Danae98 e seeyouthen, rispettivamente Sebastian Moran e James Moriarty, dopo un pomeriggio di puro fangirling.
Speriamo, in questi otto capitoli, di farvi appassionare alla storia mai raccontata di Mr. Sex e del suo serial killer. La fanfiction segue gli eventi della serie tv, ogni capitolo rappresenta infatti indicativamente ogni episodio di Sherlock.
Enjoy!
Al prossimo capitolo, xxx

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Capitolo 2
*** Arrival of the birds. ***


NdA: Hello everyone! Siamo tornate col secondo capitolo, che prende il titolo dalla bellissima canzone "Arrival of the birds" [ https://www.youtube.com/watch?v=MqoANESQ4cQ ] , la quale è la musica che fa da sottofondo al capitolo (leggete e capirete meglio). Pooooooi: io e seeyouthen volevamo ringraziare tutti coloro che ci hanno letto, ci avete fatto molto piacere (e se vi scappasse una recensioncina, tranquilli che non incaricheremmo Sebastian di farvi fuori XD ).
Ci vediamo lunedì prossimo!
-Danae e seeyouthen

 


ECHO.

Capitolo secondo.

Arrival of the birds.




 

JM

Mancavano dieci minuti all'appuntamento con Sebastian. Mi annodai lentamente la cravatta intorno al collo. Una nuova cravatta, perché quella del giorno precedente giaceva sul comodino del mio nuovo dipendente. Tutto nuovo. Tornai indietro con i ricordi alla notte appena passata, sorridendo soddisfatto.

Ancora adesso, se dovessi associare Sebastian Moran ad un colore, quello sarebbe sicuramente il rosso. Rosso come la decisione, la tenacia, l'energia, la vita, la passione.

Le donne si girano a guardarlo mentre cammina per strada, gli uomini temono il suo sguardo. Ha occhi in grado di uccidere e un sorriso attraente. È una persona avvolta da un alone di mistero ma allo stesso tempo sa essere aperto e divertente.

Tutto quel vortice di caratteristiche mi aveva colpito dal primo istante, anche allora.

Davanti allo specchio della mia camera, ricordai l'attimo in cui le nostre labbra erano venute a contatto – avevo sentito tutti i suoi muscoli fremere, proprio come i miei – e poi quello in cui le mani si erano posate sui corpi, scivolando ora con delicatezza ora con forza.

La bocca di Sebastian sapeva di whisky e di sigaretta, la sua pelle era ruvida e calda.

Era stato bello.

Era iniziato e finito in quell'appartamento.

Poi Sebastian mi aveva sorpreso. Non credevo che il mio biglietto potesse causare una simile reazione. Credevo lo avrebbe considerato un ironico commento per una splendida notte passata tra calde lenzuola. Invece aveva inviato quel messaggio e forse non era finito tutto in quell'appartamento. Forse era solo iniziato.

Scesi rapidamente al piano terra, afferrando la giacca nera lasciata sullo schienale di una sedia, e mi avviai alla macchina.

Sfrecciai per le vie di Londra, curioso di sapere cosa fosse venuto in mente a quell'uomo tutt'altro che prevedibile. Quando parcheggiai lo trovai appoggiato alla sua macchina con una sigaretta tra le labbra. Si sistemò distrattamente la giacca dello smoking nero, senza notarmi.

Si rivolse a me solo quando chiusi la portiera; prese la sigaretta tra le dita e si aprì in un largo sorriso.

«Signor Moriarty», mi salutò con una sottile vena ironica nella voce.

«Signor Moran», replicai con il suo stesso tono, «bel completo».

«Lo indosso solo nelle occasioni importanti», puntualizzò prima di rimettersi la sigaretta tra le labbra.

«Mi ritengo fortunato, allora», sorrisi divertito. Lui annuì e soffiò fuori il fumo dalle narici, facendo scorrere gli occhi tutt'intorno a lui.

«La macchina ci aspetta», disse poi, invitandomi ad entrare con un gesto della mano.

Non appena chiusi la portiera, l'odore della sua macchina mi inondò le narici, proprio come era accaduto il giorno precedente. L'Arbre Magique si mescolava al profumo inebriante della pelle di Sebastian.

«Ti dà fastidio se metto un po' di musica?», domandò, senza tuttavia attendere una risposta per cliccare il tasto ON sul cruscotto.

«Fai pure», mormorai più a me stesso che a lui.

La musica si fece largo tra gli spiragli delle casse, invadendo ogni centimetro della macchina. Sebastian iniziò a canticchiare a bassa voce, ma non fece in tempo ad arrivare il ritornello che già la sua voce cercava di adattarsi alle note dell'originale. Non era perfettamente intonato, ma era piacevole.

Stavamo ascoltando un vecchio disco di Tom Waits.


 

You wave your hand and they scatter like crows. They have nothing that will ever capture your heart, they're just thorns without the rose, be careful of them in the dark.


 

Sebastian mi guardò con la coda dell'occhio. Notai un lampo nei suoi occhi glaciali.


Oh if I was the one you chose to be your only one. Oh baby can't you hear me now?

La sua voce era profonda, vibrante, roca; i suoi occhi erano puntati di nuovo sulla strada. I miei, invece, non si staccavano dal suo profilo.


Will I see you tonight on a downtown train? Every night it's just the same: you leave me lonely. Will I see you tonight on a downtown train? All of my dreams just tall like rain all upon on a downtown train.


La canzone finì e pochi attimi dopo anche la nostra corsa in auto. Sebastian aveva un sorriso sghembo dipinto sulle labbra. Diamine, flirtava molto più della sera precedente. La mia mente mi ricordò in fretta com'era finita il giorno prima.

Si prospettava una serata ricca di sorprese.

Scoppiai a ridere, e lui con me.

Non conoscevo bene la zona in cui mi aveva portato, ma avevo già visto la porta di fronte alla quale si fermò un attimo dopo, cercando la chiave giusta nel mazzo numeroso. Ricorreva spesso nelle foto contenute nel fascicolo sul quale, con lettere ordinate, avevo scritto S. Moran un mese prima.

Tre anni prima di partire per la guerra Sebastian aveva comprato un grosso palazzo in un vicolo poco frequentato. Quel palazzo. L'interrato era dedicato al tiro a segno, uno degli impianti migliori di tutta la città; il piano terra era un groviglio di stanze contenenti armi, computer, kit da spionaggio; salendo le scale, si accedeva ad un ampio locale adibito a bar e sala da ballo. Avevo studiato spesso quel palazzo, come le persone che lo frequentavano. Era una delle parti più interessanti del fascicolo di Sebastian.

Nell'insieme, era tutto molto vecchio stampo, ma questo rendeva solo a situazione più affascinante.

«Stiamo andando a sparare o a ballare?», chiesi entrando. Sebastian sorrise e alzò le spalle.

«Entrambi», disse mentre chiamava l'ascensore.

Sebastian Moran aveva superato – e anche con semplicità – le mie aspettative. Nessuno si sarebbe mai sognato di portare me a sparare ad un manichino. Ma Sebastian non mi conosceva, vero? Non aveva nemmeno mai sentito il mio nome. Non si lasciava intimorire dalle voci e dalla fama. Ero piuttosto sicuro che un uomo del genere avesse paura di poche cose al mondo, tra le quali di certo non ero compreso io, il nuovo capo misterioso dalla mente rapida. Almeno, non con le scarsissime informazioni in suo possesso che mi riguardavano.

«Tu non hai nessuna idea di chi io possa essere, vero?».

Le porte dell'ascensore si chiusero con fracasso. Necessitavano un minimo di manutenzione. Misi da parte quell'osservazione per riferirla in un momento più adatto.

«Fino a stamattina non l'avevo. Ma avevo la giornata vuota, visto che il mio nuovo capo non mi ha dato ordini, e l'ho sfruttata per raccogliere qualche indizio. Ho lavorato con tuo fratello, grand'uomo» commentò perdendosi nei ricordi.

Risi.

«Tu hai appena scoperto che sono un criminale a capo di una rete di spie, spacciatori, rapitori, truffatori e assassini e tutto quello che hai da dire è che hai conosciuto mio fratello?» esclamai sconcertato. Le porte dell'ascensore di aprirono, lasciandoci in un labirinto di corridoi. Iniziammo a camminare rapidamente tra i muri scuri.

«Di che cosa ti stupisci? Avevo già capito che eri qualcuno di importante e il tuo nome mi era familiare, ma non credevo che tu e il colonnello foste parenti. Non ti somiglia per niente, in tutti i sensi. Ora ho scoperto quanto è larga la tua rete e per caso è saltato fuori anche che Christopher Moriarty è tuo fratello. Curioso, no?».

«Già, curioso. Eravate amici?».

Sebastian fissava davanti a sé, lo sguardo spento.

«Chris era il mio più grande amico, là dentro. Eravamo tanti, c'era molta brava gente. Lui, però, era il migliore. No, tranquillo» aggiunse notando la mia aria sospettosa «non ho mai nemmeno pensato di andarci a letto insieme». Fece una lunga pausa, ma sapevo che il suo discorso non era finito. «Poi è arrivato quel giorno e durante la missione gli hanno sparato. Io l'ho soccorso e quei bastardi hanno colpito anche me. Ci siamo salvati entrambi, ma io ho chiesto il congedo e sono tornato. Non avevo più nulla da fare, laggiù. Londra, invece, aveva bisogno di me».

Feci attenzione ad ogni gesto, espressione e tono. Tutto in lui traboccava sincerità. Per un attimo mi domandai per quale motivo quell'uomo si stesse aprendo con me, poi scacciai tutti i pensieri e concentrai la mia attenzione sulla sofferenza nei suoi occhi. Christopher era ancora in mezzo al fuoco e una parte di Sebastian non riusciva a perdonarsi di averlo lasciato solo. In quel momento, il miglior serial killer di tutto il Paese era così facile da leggere che la sua anima pareva un libro. Era completamente messa a nudo.

Fui scosso da un brivido. Non vedevo Christopher da tre anni. Da quando era tornato a casa due mesi dopo l'incidente.

«Chris non mi ha mai parlato della guerra. Mi ha sempre detto che parlare del nostro lavoro ci avrebbe solamente fatti litigare – è un uomo d'onore, non come me. Ma sono... felice, ecco, che dove non potevo esserci io ci sia stato tu».

Sebastian sorrise, un sorriso flebile, quasi invisibile.

Si riscosse un secondo dopo, con un sospiro, ritornando ad essere il forte e ironico uomo delle ultime ventiquattr'ore. Tutta l'intimità del momento scomparve e ritornammo due semisconosciuti attratti l'uno dall'altro e legati da un vincolo di lavoro.

Mi condusse attraverso un corridoio buio, fino ad arrivare alla prima sala di tiro.

«Hai mai maneggiato una pistola prima d'ora?», mi chiese tirando fuori una semiautomatica da un cassetto.

«Sono un maledettissimo criminale, Sebastian, di certo non ho iniziato facendo sorrisi dolci ai miei nemici» sbottai sbuffando.

«Avrebbero funzionato» rispose sorridendo e mi porse l'arma. Strinsi la presa sul metallo freddo.

«Vuoi le cuffie?», domandò porgendomene un paio.

«No, direi che posso farcela anche senza. Perché vuoi vedermi sparare?».

«Non posso essere sempre al tuo fianco. Devo essere sicuro che tu sappia difenderti. E poi, non è romantico?» scherzò prendendo una pistola a sua volta. Puntò un manichino e fece finta di sparare, imitando il rumore con la bocca. «Non trovi sia un appuntamento davvero intimo?».

«Trovo molto romantico il tuo interessamento nei miei confronti. Sei un uomo davvero sensibile, Sebastian» lo presi in giro, passando febbrilmente la pistola da una mano all'altra. Avevo accuratamente controllato che non fosse carica.

«Sono una caramellina, proprio come te» replicò con un ghigno «Ora prova».

Alzai la pistola e mirai al cuore del manichino. Le possibilità che colpissi il bersaglio, secondo i miei calcoli, erano scarsissime. Non avevo allenamento, non avevo un talento naturale. Indugiai qualche attimo di troppo, giusto quella manciata di istanti che insospettì Sebastian.

«Tu non hai mai sparato, vero? Hai impugnato una pistola, certo, ma non hai mai avuto bisogno di usarla perché sai ingannare ogni fottutissimo uomo del pianeta con le tue parole. Non hai mai premuto il grilletto» disse, avvicinandosi a me.

«Non è vero.»

«Non sei l'unico uomo alle prese con il suo primo proiettile che incontro» mi interruppe.

Afferrò il polso della mano sinistra, quello con cui impugnavo la pistola, e fece pressione. Credevo che stesse abbassando l'arma, invece la puntò alla sua fronte.

«Un giorno potrai trovarti in questa situazione, proprio mentre punti l'arma alla testa di qualcuno. Uccidere un uomo da lontano è facile. Da vicino vedi la paura nei suoi occhi, ed è in quel momento che scopri se sei un assassino o no» disse in tono pacato, «Quindi ora ti insegnerò a premere quel grilletto. Non voglio farti diventare un sicario, ma non voglio nemmeno vedere il tuo cadavere in una cassa di legno».

Mollò la presa sul mio polso. Il mio braccio cadde pesantemente lungo il mio fianco.

«Sebastian, idiota, io sono un assassino. Ogni giorno decine di dipendenti uccidono persone, anche innocenti, per miei interessi o per quelli dei miei clienti. Le vite di tutti questi uomini sono in bilico tra la sopravvivenza e la morte e sono io a decidere il loro futuro, capisci?».

«C'è una sottile differenza tra un consulting criminal e un serial killer», mi contraddisse Sebastian, ignorando i miei insulti poco velati, «Tu uccidi con la mente, io con il corpo. Ora punta al cuore».

Alzai l'arma, cercando di essere il più preciso possibile. Sentii le sue braccia cingermi e le sue mani posarsi sulle mie. Non distolsi gli occhi dal bersaglio, non lasciai che i miei muscoli tremassero.

«Se tu fossi stato un altro dei miei assassini, probabilmente saresti morto per un affronto del genere»

«Ma io non sono un comune assassino, no? E non ti lascerò morire perché non hai mai premuto un dannato grilletto»

Insieme, sparammo. Il proiettile non aveva colpito esattamente il cuore, ma aveva forato il petto a un paio centimetri di distanza.

«Non sei male» commentò Sebastian, sciogliendo quella sorta di abbraccio nel quale mi aveva rinchiuso.

«Ricordati sempre che sono il tuo capo» lo fulminai sparando un altro colpo, che finì ad un soffio dall'altro.

«Non sei male, signor Moriarty».

«Oh, sta' zitto, o inizierò a pagarti anche per tenere la bocca chiusa». Un sorriso m'increspò le labbra. In fondo mi stavo divertendo. Magari Sebastian Moran sarebbe diventato per me quello che John Watson era per Sherlock Holmes. «Non dovevamo ballare, piuttosto?»


 

SM

Lui. Lui. Lui. Ogni singolo gesto che faceva sembrava studiato per farmi vibrare in risposta: un sorriso chiamava una risata, un lieve abbraccio la voglia di stringerlo più forte, lo sfioramento impercettibile delle sua labbra contro il mio collo il trascinarlo in una delle tante stanze e sbatterlo contro il muro.

Ma non potevo. Io ero forte. Ero il migliore. Quindi lo condussi sino alla sala del piano superiore, le cui vetrate dominavano il giardino, in cui i colori caldi dell'autunno catturavano lo sguardo come gioielli. Per una volta la stanza era completamente vuota, non c'erano nemmeno i musicisti sul loro piccolo palco. James si avvicinò ad una delle finestre che lasciavano entrare prepotentemente la luce del sole morente.

«Sono colpito» ammise osservando cadere alcune foglie dorate.

Aspettati di più da me, pensai.

Con due passi lo raggiunsi e come la sera precedente gli sfiorai l'orecchio con le labbra, per sussurrargli «James, balla con me.»

Come da copione accesi lo stereo e le note di una canzone iniziarono a diffondersi piano nella sala deserta. James rabbrividì, guardandomi con gli occhi neri e liquidi. Non rispose, ma mise la sua mano nella mia, concedendomi il privilegio di guidarlo.

Inizialmente mi sarei buttato sulla mia preda senza lasciarle possibilità di fuggire, ma con lui era diverso. Non era la mia preda più di quanto io non fossi la sua.

Scivolavamo piano sul legno tirato a lucido, la musica che dolcemente cresceva e si gonfiava contro di noi, marea instancabile. Ci stavamo lasciando trascinare? Sì. Me ne sarei pentito? Naturalmente. Ma questo non mi avrebbe impedito di stringere James a me, la mia mano sicura sulle sue reni. I nostri occhi non si lasciavano nemmeno per un istante.

Fu in quel momento che mi accorsi di amare i suoi occhi.

Attenzione: non lui, ma i suoi occhi.

Al contrario di quelli di Chris scintillavano di malizia, lucidi e limpidi. Erano magnetici.

Christopher. Il solo pensiero ancora mi faceva male.

«Non pensare a lui.» mi ammonì James stringendomi forte la mano.

Non domandai come lo avesse intuito, mi limitai a chinare il capo, fino a sfiorargli le labbra «Qui non sei mr. Moriarty» sussurrai mentre i violini si calmavano lentamente «Qui tu sei James ed io Sebastian e non puoi darmi ordini.»

I suoi occhi si scurirono, leggermente irati. Per un istante temetti che se ne sarebbe andato, poi sorrise.

«Sebastian» mormorò lentamente.

Alzò il capo verso il mio in modo repentino, le labbra che s'incontravano magneticamente. Non c'era nulla di delicato o di gentile, in quel bacio. Aveva accettato di non comandarmi con le parole, ma lo stava facendo col corpo.

Nella mia mente affiorarono immagini della notte precedente, momenti in cui aveva urlato il mio nome. E lui lo sapeva, sapeva benissimo a cosa stavo pensando.

Io sorrisi, mentre la canzone in sottofondo continuava dolcemente.

Sorrisi, sorprendendomi. Non m'importava se lui sapeva.

Con lo stesso sorriso sul volto mi chinai ancora una volta verso di lui. La musica stava finendo.

Ci fermammo e con mani salde andai a slacciargli la cravatta. Lo guardai ancora, certo che avesse intuito che cosa avrei fatto di lì a poco.

Slacciai qualche bottone della camicia bianca, scivolando con le unghie sulla pelle morbida della spalla, fino a trovare quello che stavo cercando.

Un piccolo segno, un morso.

Andai a sfiorarlo con le labbra.

Poco dopo ringraziai la mia previdenza, che aveva fatto sì che quel giorno l'edificio fosse solo nostro.

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Capitolo 3
*** The Great Game. ***


ECHO.

Capitolo terzo.

The Great Game.


 


 


 

SM

«Vieni con me, oggi. Mi servono le tue capacità.» mi disse giorni dopo per telefono.

Avevo iniziato a lavorare per lui da poco. Un solo omicidio, al momento: un'anziana signora che non aveva rispettato le regole del gioco di James. Il resto del tempo mi ero limitato a tenere un laser puntato su persone imbottite di esplosivo. Leggermente noioso, se non avessi saputo che James mirava a un gioco più grande.

«Quali delle tante?» risposi sorridendo.

«Quelle per cui ti pago.» disse in un tono che voleva essere secco e severo, ma che in realtà gli riuscì semplicemente divertito.

Sospirai, fintamente afflitto «A che ora e dove.» Mi disse il luogo, scelto dall'altro uomo. Sherlock Holmes, il grande detective, la preda di James.

«A mezzanotte.» aggiunse.

Arrivai in anticipo, come di mia abitudine. Gli sorrisi.

«A chi devo sparare?» domandai con leggerezza, vedendo la sua espressione tesa.

«Per ora a nessuno» cercò di sorridere, nonostante la tensione che vedevo chiara in lui «Ma resta pronto al mio cenno.»

Gli presi il polso della mano che era salita a stringere il nodo della cravatta.

«James» lo chiamai delicatamente «Stai tranquillo. Non lascerò che niente vada storto.»

Se ne andò nella piscina, senza rispondermi.

Preparai il mirino e feci un cenno ai miei quattro uomini di fare altrettanto. Io mi disposi dietro la vetrata sotto la quale James era nascosto alla vista. Gli altri quattro dal lato opposto della piscina. Eravamo pronti, anche se non sapevamo a che cosa.

Dalla vetrata vedevo perfettamente la scena: inizialmente l'uomo fu annunciato dal rumore dei suoi passi sul pavimento lucido, poi comparve la testa di riccioli neri. Camminava lentamente, le mani dietro la schiena, ignaro del fatto che quello stesso pomeriggio ero stato mandato con altri due uomini a prelevare John Watson.

James sapeva dove colpire, che fosse per farti innamorare o per spezzarti il cuore.

Fermo sul bordo della piscina, Holmes si voltò per guardarsi intorno, ma non vide né me né i miei uomini: puoi anche essere il migliore al mondo, ma io non sono sopravvissuto alla guerra andandomene in giro tranquillo. Ho imparato dannatamente bene a non farmi notare.

Ebbi così l'occasione di osservare il suo volto: bianco, gli zigomi alti e occhi cerulei. Un bel viso, che nascondeva una mente pericolosa.

Si voltò improvvisamente verso il lato opposto della stanza. Possibile che avesse capito dove fossero Watson e James?

«Ti ho comprato un piccolo pensiero per il primo incontro» esordì mostrando una chiavetta di plastica nera. Conoscevo James ormai abbastanza da sapere che non stava rischiando così tanto per dei piani missilistici. Mossa sbagliata, Holmes. «Tutti i tuoi piccoli puzzle... l'unire i puntini...tutto per distrarmi da questo.» Lo scrutavo rimanendo nascosto, osservando quell'uomo sbagliare ancora.

Si voltò stupito, quando da uno degli spogliatoi uscì John Watson, un pesante giubbotto a coprirlo. La sorpresa per un attimo lo colse.

«Buonasera.» disse l'uomo, che aveva nell'orecchio un auricolare «Questo è inaspettato, non è vero Sherlock?»

«John...» mormorò Holmes. James non aveva sbagliato. James non avrebbe mai sbagliato. «Che diavolo...»

«Sapevo che non te lo saresti mai aspettato.» Watson, ubbidendo, aprì lentamente il giaccone, rivelando sotto gli esplosivi. «Cosa vuoi che gli faccia dire dopo? Gottle o'gear, gottle o'gear, gottle o'gear...»

«Smettila.»

«E' stata una bella idea» continuò James da dietro le quinte. Riuscivo a vedere solo parte del suo corpo, nascosto da una colonna di cemento «La piscina, dove morì il piccolo Carl. Riuscii a fermare lui» minacciò «Riuscirò a fermare anche John Watson.» Mentre pronunciava queste parole, feci un cenno ad uno degli uomini. Un punto rosso si doveva essere acceso sul petto dell'uomo.«Fermare il suo cuore.»

«Chi sei?» domandò il grande detective. Presi un respiro profondo. Sapevo che Jim non avrebbe atteso ancora a lungo, prima di uscire allo scoperto.

E infatti... «Ti avevo dato il mio numero.» James riuscì a modulare la voce esattamente da persona delusa e quasi tradita. Era un ottimo attore.«Credevo che mi avresti chiamato.» Uscì lentamente allo scoperto. Non riuscivo a vedere il suo volto, ma potevo benissimo immaginare che avrebbe usato il broncio, per rendere meglio l'idea dello spasimante rifiutato e offeso. «Quella nella tua tasca è per caso una pistola Browning L9A1, o sei solo felice di vedermi?» chiese, lievemente divertito.

«Entrambi.» rispose Holmes estraendo la pistola. Improvvisamente era come se un grosso gatto si fosse acciambellato nello stomaco e ci avesse infilato gli artigli. Felice di vederlo?

«Jim Moriarty» si presentò, non concedendo al rivale di sapere il nome per intero «Salve!» poi prese a passeggiare tranquillamente, sempre tenendo le mani in tasca «Jim? Jim dell'ospedale? Davvero ho dato un'impressione così debole? Ma allora suppongo...che il punto fosse proprio quello. Non essere sciocco» aggiunse «Qualcun altro sta tenendo il fucile. Non mi piace sporcarmi le mani. Ti ho fatto intravedere, Sherlock» disse, fermandosi «In piccola parte, che cosa ho in ballo là fuori, nel grande e brutto mondo. Vedi, io sono...uno specialista. Come te.»

«Caro Jim...» Caro Jim? La bestia nel mio stomaco pensò bene di rifarcisi sopra le unghie «Potresti sistemare le cose per me...per sbarazzarmi dell'odiosa sorella del mio ragazzo? » Potevo immaginare James sorridere e abbassare lo sguardo, come sempre quando gli veniva fatto un complimento. Il fatto che Holmes avesse capito lo divertiva «Caro Jim, potresti sistemare le cose per me affinchè io sparisca in Sud America?»

«Proprio così.»

«Consulting criminal.» Sono un consulting criminal. L'unico al mondo. La parole mi rimbombarono nelle orecchie. «Geniale.»

«Sì, vero?» persino da questa distanza riuscivo a percepire quanto James si stesse divertendo. «Nessuno arriva mai a me. Nessuno lo farà mai.»

«Io l'ho fatto.» ebbe la presunzione di affermare Holmes. E, come leggendomi nel pensiero, James rettificò.

«Ci sei andato vicino. E ora mi stai tra i piedi.»

«Grazie.»

«Non voleva essere un complimento.» l'essere nella mia pancia smise di affondare gli artigli nel mio stomaco.

«Sì, invece.»

«Sì, ok, è vero.» altro che artigli. La bestia aveva piantato nel mio petto dei pugnali. «Basta flirtare Sherlock. Papino ne ha avuto abbastanza.» Ecco, grazie. «Ti ho mostrato cosa posso fare. Ho rinunciato a tutta quella gente, tutti quei problemucci e anche a trenta milioni di sterline solo per farti uscire a giocare. Quindi prendilo come un avvertimento amichevole, mio caro» Mio caro? «Vattene. Anche se...» disse, ricominciando ad avvicinarsi all'altro e alla pistola puntata contro di lui «Ho adorato tutto questo.» La mia mente rimase fredda e razionale, ma l'essere che sembrava essersi stabilito nel mio petto non era dello stesso parere «Questo nostro giochino. Far finta di essere Jim l'informatico, far finta di essere gay...» Certo James, stavi fingendo. Una leggera risatina spuntò dalle mie labbra, ricordando il tuo viso perso nel piacere la notte prima. L'ultima di tante. «Ti è piaciuto il particolare della biancheria intima?»

«Sono morte delle persone.» affermò Holmes. Come avrei fatto io, James rise.

«E' quello che capita alle persone!» urlò.

«Ti fermerò.»

«No, invece.»

«Stai bene?» domandò Holmes a Watson, che rimase in silenzio. James si pose accanto a lui.

«Puoi parlare, piccolo John. Forza.» Watson annuì.

«Prendila.» gli stava porgendo la chiavetta coi piani missilistici. James si avvicinò e la prese.

«Quella? I piani missilistici. Noioso! Avrei potuto prenderli ovunque.» disse lanciandoli in acqua. Watson lo bloccò da dietro, ordinando al compagno di scappare. James rise ancora.

«Bene! Molto bene!»

«Se il suo cecchino preme il grilletto, signor Moriarty, saltiamo entrambi in aria.» E anche il tuo amichetto, pensai, facendo comunque segno al mio uomo di non muoversi.

«Non è dolce? Capisco perchè ti piace averlo intorno. Le persone diventano sentimentali nei confronti dei loro animali. Sono così leali. Ma...ops! Direi che lei ha scoperto le sue carte, dottor Watson.» esclamò, quando io stesso, imbracciato il fucile, puntai alla testa del detective. «Beccato.» il dottore lasciò andare James, allontanandosi, e lui si lisciò il completo blu «Westwood. Sai cosa succede se non mi lasci in pace, Sherlock? A te?»

«Oh, fammi indovinare. Vengo ucciso.» Troppo banale per James, aggiusta la mira cervellone...

«Ucciderti? Non essere così scontato.» Appunto «Cioè» rettifica «Ti ucciderò, un giorno. Ma non voglio correre. Me lo tengo da parte per qualcosa di speciale. No, no, no, no...se non la smetti di ficcare il naso» fece una piccolissima pausa «Ti brucerò. Ti brucerò fino in fondo al cuore.»

«Sono stato informato da fonti attendibili che non ne ho uno.» Cercò di argomentare Holmes.

«Sappiamo entrambi che non è proprio vero. Beh» concluse «Sarà meglio che vada. È stato bello fare una vera chiacchierata.»

«E se ti sparassi ora? Proprio ora?» Saresti morto prima di lui.

«Allora potresti goderti l'espressione sorpresa sul mio volto. Perchè sarei sorpreso, Sherlock. Lo sarei davvero. E solo un pochino...deluso.» si fissavano «E, ovviamente, non te la potresti godere per troppo tempo. Ciao, Sherlock Holmes.» salutò infine, camminando verso la colonna da dietro alla quale era sbucato.

«Ci vediamo più tardi.»

«Invece no!» esclamò James, uscendo dalla stanza e raggiungendomi. Feci un cenno agli altri, che posarono i fucili. La scena non era ancora finita.

Mentre al piano di sotto Holmes e Watson si crogiolavano nella loro breve speranza di salvezza, James venne velocemente da me.

La bestia nel mio ventre parve fare le fusa quando mi costrinse a chinare il capo e mi baciò con foga. Prendeva raramente l'iniziativa, ma non mi dispiaceva mai. Me lo strinsi addosso, tremante per l'adrenalina.

«Stai bene?» domandai, ben conscio della risposta.

«Naturalmente» rispose riprendendo fiato «C'eri tu qui.»

Decisamente l'esserino stava facendo le fusa. Posai il capo contro il suo, in un gesto intimo che mi era stato concesso da poco.

«Manca l'ultimo atto» sussurrò al mio orecchio, prima di baciarmi nuovamente e ritornare in piscina.

«Scusate, ragazzi! Cambio idea così spesso!» lo sentii esclamare, mentre mi riaffacciavo lentamente.«Secondo me è una debolezza, ma per essere giusto nei miei confronti è l'unica che ho! Non ti è permesso continuare.» disse, rivolto al detective.«Non puoi e basta. Proverei a convincerti... ma tutto quello che potrei dire tu l'hai già pensato.»

I miei uomini puntarono tutti insieme i fucili addosso a Holmes, che lentamente si voltò a fronteggiare James.

«E probabilmente tu hai già pensato la mia risposta.» affermò puntando la pistola sull'esplosivo a poca distanza da loro. Potevo immaginare il sorrisetto di James.

Se avesse mosso anche solo un muscolo lo avrei freddato.

Ma in quel momento, le note di Staying alive, la suoneria che James usava per me e una o due altre persone, si sparsero nell'aria. Ci fu un istante di smarrimento, finchè James non chiese di poter rispondere.

«Sì, certo che sono io. Che cosa vuoi?» Il suo viso, ora rivolto verso di me cambiò espressione.«RIPETILO!» urlò «Prova a ripeterlo, con la consapevolezza che se menti, io ti troverò e ti scuoierò. Aspetta.» concluse «Scusatemi...ma è il giorno sbagliato per morire.»

«Ti hanno fatto un'offerta migliore?»

«Avrai mie notizie, Sherlock» disse James, andandosene. «Beh, se hai davvero ciò che dici di avere, ti renderò una persona ricchissima. Se non è così...ti userò per fare delle scarpe.»

Lo aspettavo nella mia macchina. Salì senza parlare.

«Lo ha trovato?» chiesi. James annuì.

Nuovamente il trillo del telefono ci distrasse «Adler, ho capito, manderò qualcuno domani...» disse James mentre io accostavo davanti a casa e ne aprivo la porta. Improvvisamente il suo volto si fece bianco «Ah, mi scusi. Sì, capisco. No, non mi interessa che torni a casa. Grazie.» mormorò, riattaccando.

Andai da lui «Cosa succede?»

«Christopher» sussurrò. Sembrava così diverso dall'uomo che avevo visto qualche minuto prima «Lo...lo hanno colpito» disse strizzando gli occhi, come se fosse qualcosa che non riusciva a capire «E'...è...è morto...»

Lo abbracciai. Nonostante mi avesse più volte detto che lui e il fratello non si sopportavano, quando Chris chiamava chiedeva sempre di James e lui faceva lo stesso. Si parlavano attraverso di me. Vidi una lacrima scendere dai suoi occhi neri, seguita da un'altra e un'altra ancora. Poco dopo James stava singhiozzando contro di me e se io non stavo piangendo era solo perchè non avevo ancora compreso bene la notizia. Non ci credevo che Chris non mi avrebbe più chiamato, mandato foto stupide, raccontato del commilitone che gli faceva gli occhi dolci...

Strinsi James, cercando di proteggerlo dal dolore.

Ma questa era l'unica cosa che non potevo fare.


 

JM

Christopher entrò nella mia stanza, tenendo tra le mani un pacchetto di biscotti al cioccolato. I suoi occhi scuri brillavano di gioia, come sempre.

«Jimmy, ti ho portato i biscotti», esclamò posando il sacchetto sulla pila di libri alla mia destra.

«Sto studiando», tagliai corto con freddezza, senza staccare gli occhi dal mio libro di informatica, «e non voglio essere disturbato».

Un'ombra di delusione calò sul viso di mio fratello. Aveva undici anni, e io ne avevo dieci.

«Scusami. Ti avevo portato anche del succo d'arancia. Te lo lascio qui, nel caso ti venisse fame».

«Va bene. E non chiamarmi Jimmy, sai quanto odio quel soprannome da neonato», aggiunsi prima di tornare alla mia lettura.

Christopher chiuse la porta con cautela, lasciandomi solo.


 

*.*.*


 

Era una bellissima giornata di Maggio, il sole splendeva alto nel cielo.

Avevo quattordici anni. Stavo aspettando il bus, all'uscita da scuola, e faceva tanto caldo che piccole gocce di sudore iniziarono a scivolare sulla mia fronte.

Un ragazzino più grande, di cui non sapevo nemmeno il nome, mi si accostò. Non avevo amici in quella scuola, erano tutti idioti.

«Hey, Moriarty, dammi tre sterline. Devo comprarmi da bere» abbaiò allungando una mano. Io non mi voltai nemmeno a guardarlo.

«Vai a casa e bevi l'acqua di casa tua» replicai gelido.

«Ma io ora non vado a casa, razza di idiota. Esco con il mio amico Danny e non abbiamo soldi».

Sbuffai. «Avreste dovuto pensarci prima, no?»

«Sei proprio un piccolo impertinente», mi disse piazzandosi esattamente davanti a me, in modo che non potessi più ignorarlo, «Ti meriti una lezione»

Mi tirò un pugno, al quale non riuscii nemmeno a pensare di reagire. Non ero fatto per combattere. Caddi a terra e mi rialzai a fatica. Un altro pugno. Non riuscii ad attutire il colpo, coprendomi malamente con le braccia. Mi usciva sangue dal naso.

«NON SFIORARE MAI PIÙ MIO FRATELLO, BASTARDO» tuonò la voce di Christopher. Vidi il mio aggressore cadere a terra, di fianco a me. Poi mio fratello si abbassò verso di me, tendendomi una mano.

L'afferrai e mi rialzai. La ragazza di Christopher mi porse un fazzoletto, non poco scioccata dall'accaduto. La sua mano tremava impercettibilmente.

«Grazie» mormorai.

«Di niente, Jimmy. Era solo un coglione. Adesso non ti toccherà più nessuno.»


 

*.*.*


 

«James» iniziò Christopher entrando,«parto tra due settimane.»

Addentai una mela e mi appoggiai comodamente al tavolo, sorridendo lievemente. «E dove vai? Spagna? Messico? Caraibi?»

Christopher non sorrise di rimando. Rimase bloccato, la bocca leggermente aperta. Le parole non volevano uscire. Il mio cuore iniziò ad aumentare i battiti.

«Chris...?»

«Entro nell'esercito, James.»

Fu come una doccia gelida. Il freddo entrava prepotentemente nella pelle, nelle ossa, facendomi vibrare ogni fibra del corpo. La mia mela cadde a terra.

«No» riuscii solo a dire con voce rotta. Christopher trattenne il fiato per un attimo, senza trovare le parole giuste. Perché non c'erano parole giuste.

«Devo farlo. Tutto quello che sto facendo deve avere un senso. Quello è il mio posto.»

«Il tuo posto è a casa! Perché mi stai lasciando qui?» gridai graffiandomi i polmoni con la rabbia che traboccava nella voce.

«Jimmy, è la cosa che so fare meglio. Come fai tu con i tuoi computer. Tu rimarrai qui, ti manderò da zia Marie e starai bene.»

«Io non voglio tornare da lei, ce ne siamo appena andati! Posso cavarmela!» sbottai.

«Hai solo diciassette anni, non posso lasciarti da solo...» mormorò Christopher.

«MA LO STAI FACENDO! ORA VATTENE! SEI COME TUTTI GLI ALTRI!» urlai, fino a che la voce non si spense in un rantolo roco.

«Sono tuo fratello, non sono come tutti gli altri. Prima che io parta ti trasferirai con tutte le tue cose dalla zia, ho deciso.»

«Tu non puoi dirmi cosa fare. Tu non sai di cosa sono capace, Christopher. Vuoi sapere perché non ti chiedo mai i soldi eppure ho questo bel computer e tutti questi apparecchi elettronici? Non sono regali, non sono soldi guadagnati con le ripetizioni. Li ho rubati perché entrare nei conti in banca è facile, con una stringa di numeri. Io posso stare da solo. Posso fare finta di non essere mai esistito, posso diventare una persona nuova. Posso fare tutto quello che voglio, fratello. Non sono un bambino.»

Christopher passò in silenzio una manciata di secondi; ognuno di essi era un passo indietro nel nostro rapporto. Alla fine tra noi rimaneva solo una voragine incolmabile.

«Oh, James... Cos'hai fatto?», mormorò osservandomi con i suoi occhi colmi di pura tristezza, «Cosa sei diventato?».

«Sono cresciuto».

Soffiò fuori tutta l'aria che aveva nei polmoni, coprendosi il viso con le mani. Non voleva far vedere che stesse crollando. Come se potesse nascondermelo.

«Ci... ci rivediamo tra qualche anno» disse prima di voltarsi e uscire dalla nostra cucina. Per sempre.

Più tardi scoprii che Chris aveva chiesto asilo ad un suo amico per due settimane prima di partire per la scuola militare di Winchester. Mi mandò una lettera ogni due mesi, nonostante tutto. Erano lettere brevi e fredde, ma mi assicuravano la sua sopravvivenza. Io mi iscrissi ad una scuola privata e poi al college, falsificando firme su firme. Non avevo intenzione di dividere l'appartamento con una zia che mi considerava un piccolo idiota.

Negli anni costruii la mia ragnatela mentre Chris accumulava stellette sulla divisa. Ci vedevamo una volta l'anno.

Quel giorno, il giorno in cui Christopher mi aveva annunciato di partire, era il giorno in cui avevo deciso di diventare un consulting criminal.

Non avrei più avuto bisogno di nessuno.


 

Il corpo di Chris era sotto ai miei occhi. Freddo. Bianco. Gli occhi erano spalancati e vuoti. Privati della loro luce. Perché nessuno li aveva chiusi? La sua divisa era sporca di sangue. Un proiettile nel petto. Il sangue continuava a scorrere. Si allargava sul tessuto. Non poteva essere reale. Dovevo svegliarmi.


 

Mi risvegliai in un bagno di sudore, ansimando.

Passai le mani sugli occhi, trovandoli bagnati dalle lacrime. Non volevo piangere. Non volevo provare proprio nulla. Non dovevo.

Sentii una mano calda e gentile posarsi sulla mia schiena nuda.

«James» mormorò Sebastian cautamente «Va tutto bene, stavi solo sognando. Torna a sdraiarti. Ci siamo solo io e te.»

«L'ho sognato. Era lui. Non voglio tutto questo.» mugolai mentre i ricordi e le allucinazioni tornavano alla mia mente. Era stato l'incubo peggiore della mia vita.

«Lo so. Nemmeno io lo voglio. Chris non se lo meritava.» sussurrò ancora Sebastian, accarezzandomi. Fece una leggera pressione sulla mia spalla e io lo assecondai, sdraiandomi.

«Non so cosa fare» dissi fissando il soffitto bianco del suo appartamento «Per la prima volta nella mia vita non so cosa fare.» ammisi a malincuore.

«Non posso aiutarti in questo, James. Ma qualsiasi cosa tu decida di fare, ci sono anche io. Non me ne vado. Non ti abbandono.» sospirai, lievemente rassicurato e nascosi il viso nell'incavo del suo collo. Profumava leggermente di miele, ma sotto l'odore del bagnoschiuma sentivo perfettamente il suo, caldo e avvolgente.

Sebastian mi aveva aiutato ad entrare in casa, quella sera. Mi aveva asciugato le lacrime e trascinato sotto la doccia con lui, mentre io ero bloccato in una gabbia di dolore e ricordi. Mi aveva dato un paio di boxer e dei pantaloni, poi mi aveva guidato fino al letto. Non si era mosso dal mio fianco. Si era solamente sfilato il completo, poi era rimasto con me ogni istante. Sapevo che non si era addormentato, non un attimo in tutta la notte. Era rimasto sveglio a pensare al suo migliore amico che era appena morto, a controllare che il fratello di questo amico non si lasciasse morire perché incapace di pensare ad altro se non ad un cadavere sanguinante.

Cercai la sua mano tra le lenzuola e la strinsi. Sebastian non se ne sarebbe andato, no, non quella notte.

Non volevo provare di nuovo dei sentimenti per una persona, il mio obiettivo era essere senza cuore. Non volevo soffrire mai più.

Eppure, pensai respirando piano e lasciandomi accarezzare, io dei sentimenti li avevo. E avevo anche bisogno di Sebastian Moran, che fosse per una notte di sesso, per sparare ad un uomo o per lasciarmi stringere e cullare lentamente.

Avevo bisogno di lui più che mai.


 

*.*.*


 

Il mattino dopo mi risvegliai che il sole era già sorto da tempo.

Il posto accanto al mio nel letto era vuoto, ma sentivo alcuni rumori provenire dal bagno. Probabilmente Sebastian aveva appena finito di fare la doccia. Nell'aria c'era un leggero odore di sigaretta spenta da poco.

Guardai lo smoking blu di Sebastian a terra e decisi di non parlare più di Chris, né di dimostrare alcun sentimento nei confronti dell'accaduto. Avrei chiuso il mio cuore a qualsiasi sentimento, a costo di chiuderlo anche a Sebastian. Sarebbe stato meglio per entrambi.

Ciò che era accaduto era stato la debolezza di una notte, un errore. Non dovevo più mostrarmi così fragile. Non dovevo permettergli di legarsi troppo a me.

Dovevo tornare al mio gioco. Al mio problema finale. Da quando avevo iniziato a giocare con Sherlock era un pensiero che mi ossessionava.

Avevo bisogno di una sola cosa per rimettere insieme tutti i pezzi: Mycroft Holmes.

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Capitolo 4
*** Gave me no warning, I had to be on my way. ***


ECHO.

Capitolo quarto.

Gave me no warning,

I had to be on my way.


 


 


 

JM

La casa di campagna di Sebastian era un edificio da dipinto: i muri, per metà di pietra e per metà bianchi, erano talvolta coperti da edera selvatica; piccole finestre facevano capolino sulla facciata della casa, ma sapevo che dietro, al piano terra, un'ampia vetrata si apriva sul giardino rigoglioso, al centro del quale vi era una grande piscina, ora inutilizzabile per il brutto tempo dei giorni precedenti. Era la prima giornata di caldo e sole da una settimana.

Sebastian aveva anche riarredato all'interno, sostituendo i vecchi mobili in decadimento e la tappezzeria rovinata dal tempo.

Il tutto era un piccolo paradiso che Sebastian si era voluto concedere per staccare tra un lavoro e l'altro. Possedeva il terreno solamente da qualche mese e, per la prima volta, avevo accontentato il suo desiderio di passare una giornata con lui in quel fazzoletto di terra, lontano dal resto del mondo. Era venuto a prendermi un'ora prima raggiante.

Ora stava spalancando le finestre, facendo arieggiare gli ambienti serrati da qualche giorno, mentre io mi appoggiavo al tavolo, aspettando in un silenzio pesante.

Erano passate due settimane dalla morte di Chris.

Due settimane e il tentativo di allontanarmi da Sebastian era andato in fumo. Avevo avuto sbalzi d'umore e lui li aveva notati, momenti in cui lo rifiutavo e altri in cui lo cercavo: un'altalena troppo veloce per qualsiasi persona, tranne che per lui. Accettava quel comportamento senza problemi. Non mi capiva, ma gli andavo bene comunque. Probabilmente lo riteneva una conseguenza della morte di mio fratello, un trauma che aveva bisogno di tempo per svanire. In realtà era solamente la frustrazione derivata dalla mia incapacità di evitarlo.

Ciò che mi legava a lui non era amore, ma necessità. Una necessità che mi rendeva irascibile, facendomi sentire debole.

Quel giorno, però, era diverso. La rabbia nel suoi confronti aveva tutt'altra origine. Lo attesi impaziente, mordendomi un labbro.

Quando ebbe finito di sistemare versò da bere il suo solito whiskey in due piccoli bicchierini e me ne porse uno. Fece segno di seguirlo in giardino e si avviò, ma io non lo seguii.

«Sebastian», iniziai con un tono che voleva attirare la sua attenzione. Volevo guardarlo negli occhi mentre il groppo in gola si scioglieva, liberando parole colme di delusione. «Perché hai detto a Sherlock Holmes che avrei mandato Irene Adler in Arabia?».

Ecco, avevo dato finalmente voce al pensiero che mi assillava da quella mattina.

Sebastian spalancò gli occhi, sorpreso, e per la prima volta vidi un velo d'imbarazzo calare sul suo viso. «C-cosa?», domandò recitando malamente la parte di colui che non sapeva nulla.

«So che Irene è viva. So che è stato Sherlock a salvarla. Ora, solo noi sapevamo del piano, quindi voglio sapere perché hai detto a SHERLOCK HOLMES DI SALVARE LA VITA DI QUELLA DONNA!».

Psicopatico: punto uno, scarso controllo comportamentale.

Sebastian trasse un profondo respiro. «Non volevo che ti macchiassi le mani di un altro omicidio. Sono io l'assassino tra noi». Non mi guardava negli occhi, non ci riusciva. La sua voce era piena di tristezza e rassegnazione, ma il suo stato emotivo non mi toccava minimamente.

«Cosa? Tu stai scherzando, vero? Questa donna è un pericolo per me e tu le salvi la vita? Da che parte stai? Non m'interessa se volevi proteggere la mia dannatissima anima o qualsiasi altra cosa tu credessi stare proteggendo da un altro omicidio perché – novità! - ho ucciso tante di quelle persone che ho perso il conto!», gridai sbattendo il bicchiere sul tavolo. Del whisky si rovesciò, gocciolando per terra.

Punto due: mancanza di empatia.

Punto tre: impulsività.

Sebastian si passò le mani sul viso, sfregando forte, come se questo potesse cancellare qualcosa. «Non volevo farti del male, James. Non volevo», ripeteva. «Non pensavo dovesse morire, non volevo che lo facessi. Non volevo che tutto questo ricadesse su di te

«Non importa, Sebastian. Sei passato dalla sua parte, per un attimo... oh, non ci credo, sei passato dalla sua parte, l'hai aiutato a salvare quella sua stupida puttana».

Si avvicinò e posò le sue mani sul mio viso. I suoi occhi imploravano perdono. Era sul punto di crollare, oppure lo aveva già fatto. Non lo sapevo e forse non volevo saperlo.

«James, io starò sempre dalla tua parte. Non ti farei mai del male. Io ti amo, James».

Scacciai le sue mani, che rimasero a mezz'aria, sfiorando l'aria anziché la mia pelle.

Punto quattro: affettività superficiale.

«James, ti prego, perdonami».

«Voglio stare da solo ora. Non mi cercare» dissi uscendo in giardino. Non era una richiesta brusca, era un ordine e lui l'aveva capito. Non mi seguì.

Spirava una leggera brezza, che faceva sussurrare le foglie. Il profumo dei fiori era inebriante.

Non sentivo nulla. Era come se non provassi emozioni, come se fossi quasi estraneo al mio corpo.

Punto cinque: assenza di rimorso o senso di colpa.

Passarono trenta minuti. Trenta minuti in cui cercai di far scivolare via da me il pensiero dell'accaduto. Mano a mano che riprendevo il controllo, iniziavo a far caso a ciò che era successo. Mi si strinse leggermente il cuore al ricordo del viso straziato di Sebastian, mentre diceva di amarmi. Non volevo che mi amasse, non l'avevo mai voluto ma era inevitabilmente accaduto. Non si meritava di amare uno psicopatico, perché era quello che ero io.

La mano di Sebastian strinse improvvisamente il mio polso, costringendomi a girarmi verso di lui. Mi baciò come mai aveva fatto, come se quello fosse l'ultimo bacio della sua vita. Le emozioni tornarono, eccome se tornarono.

Le mie labbra tremarono contro le sue, mentre tra i nostri corpi la distanza si accorciava fino a non esistere più. Eravamo un groviglio di braccia, mani, pelle. Eravamo tutt'uno.

Crollammo sull'erba. Sentii un gemito di dolore nella gola di Sebastian, per colpa della caduta. Nessuno dei due, però, voleva separarsi dall'altro.

Non so per quanto tempo rimanemmo così, avvinghiati nell'erba, forse un'eternità o forse solo qualche minuto.

Mi ritrovai sdraiato tra le sue braccia, la testa appoggiata a lui. Il suo respiro era regolare, il petto si abbassava e rialzava lentamente. Sentivo i battiti del cuore rimbombare nel mio orecchio. Non mi sarei mai stancato di stare lì sdraiato a tenere il tempo del suo cuore.

Alzai gli occhi su di lui, sollevando la testa. Il sole gli baciava la pelle bianca, i capelli prendevano striature ramate, gli occhi scintillavano di gioia. Li chiuse, lasciando che il calore lo avvolgesse completamente.

«Così bello...» sussurrò impercettibilmente. Sorrisi e gli diedi un leggero bacio sulle labbra. «Potrei stare qui per sempre».

«Anche io», dissi, labbra contro labbra.

Rimisi la testa sulla sua t-shirt bianca e mi lasciai andare. Non pensai più a nulla se non a noi, al giardino, alla casa, al sole. Passò una mano nei miei capelli una, due, tre volte. Sembrava che non avessimo mai litigato.

«Sai», iniziò, «quella cosa che ho detto prima... Non l'ho fatto per farmi perdonare. Lo penso davvero. Ti amo davvero, James».

Feci finta di dormire. Non riuscivo nemmeno a pensare di rispondergli. Lui sospirò tristemente, poi si rassegnò.

Mi addormentai con il suo ti amo nelle orecchie, e lui con me. Ci risvegliammo a causa della pioggia, forte e improvvisa.

Bagnati, corremmo in casa, il respiro affannoso. Ci perdemmo tra le risate, testa contro testa.


 

*.*.*


 

Eravamo sdraiati sul divano di pelle del salotto, coperti solo di un paio di boxer e di una t-shirt, infilati rapidamente dopo una doccia calda. Le nostre gambe erano intrecciate, esattamente come le nostre mani.

Sebastian aveva appena acceso la tv, facendo zapping qualche istante fino a quando non aveva trovato un programma che aveva visto mentre era in guerra. Disse che era il suo preferito. Io ancora non avevo capito né la trama né il senso.

«Lo guardava sempre anche Chris», mi spiegò con un sussurro in un orecchio quando gli domandai cosa fosse, «Quei due ragazzi sono fratelli e uccidono... cose sovrannaturali».

«Ora capisco perché ti piace. Ti basta vedere una pistola o un coltello e sembri un bambinetto a Natale».

«A te basta il wi-fi, ancora peggio», replicò con un sorrisetto.

«Controllo vite con il mio wi-fi», cercai di difendermi. Sebastian rise e non potei fare a meno di fare lo stesso.

«Io metto fine alle vite con le armi, siamo pari».

«Ricordi Paul Kelliher?», domandai tornando indietro di due mesi nel tempo con la mente. Sebastian arricciò il naso, ancora infastidito dal nome di quell'uomo, mentre io ridacchiavo.

«Sì, era una pessima persona. Ora gli altri sanno cosa succede a chi ti minaccia», commentò stringendo forte la mia mano. C'era un sottile senso di piacere proibito nel sentirsi protetto tra le braccia di un serial killer, soprattutto se era il secondo uomo più pericoloso di Londra.

Continuai a non capire lo show, ma Sebastian era felice e io mi ostinavo a guardare quelle repliche per illudermi di conoscere una parte in più di mio fratello. Quella serata sapeva di vita domestica, tranquilla. Sembrava che condividessimo casa insieme da sempre. Che fossimo felici insieme da sempre. Sebastian Moran mi rendeva più umano di quanto non fossi mai stato.

«Ma è così stupido. Non può davvero piacerti. Insomma, non hanno un minimo di capacità deduttive basilari, come può Dean non notare che il fratello -». Fui interrotto da un bacio.

«Ti prego, sta' zitto. È soltanto uno show. E il punto è proprio il legame tra fratelli. Ora taci e guarda: questo è il mio episodio preferito». Mi stampò un altro bacio e io gli morsicai piano il labbro inferiore, sorridendo. Lui tornò a guardare lo schermo, accarezzandomi lievemente un fianco.

«Mossa sbagliata, Tigre», mormorai voltandomi di scatto verso di lui.

Nessuno dei due vide la fine di quell'episodio.


 

*.*.*


 

Sebastian dormiva pesantemente, perso in un sonno tranquillo.

Sorrisi tristemente, osservando il suo viso rilassato. Avrei voluto sfiorargli una guancia o baciargli la fronte, ma non dovevo svegliarlo.

Presi le chiavi della sua macchina, e uscii senza voltarmi indietro. Era quasi mattino.

Misi in moto la macchina e automaticamente partì anche il lettore cd.

Now it's closing time, the music's fading out. Last call for drinks, I'll have another stout. I turn around to look at you, you're nowhere to be found. I search the place for your lost face, guess I'll have another round. And I think I just fell in love with you.

Quanto era vero.


 

SM

Mi svegliai, quella mattina, e il silenzio mi assordò.

James faceva sempre rumore: l’acqua della doccia, la macchinetta del caffè, la musica classica mentre studiava i suoi fascicoli. Se n’era andato. Avrei dovuto prendere l’altra auto.

Non me ne preoccupai, io dovevo portare a termine un incarico e probabilmente lui si era allontanato per il litigio del giorno prima. Nonostante si fosse risolto tutto, conoscevo James e sapevo che per lui era difficile dimenticare una tale insubordinazione.

Dopo una doccia veloce aprii la valigetta nella quale custodivo gelosamente le mie armi.

Quello assegnatomi era un caso facile, dovevo solo far capire a un grassone di Miami che non poteva permettersi di pestare i piedi a James. Osservai i fucili, le pistole e i coltelli con sguardo amorevole. Scelsi un fucile di precisione, delle granate ( una misura di sicurezza) e un coltello da caccia a lama liscia. Perfetto per scuoiare.

Ero molto selettivo anche nel vestire: in missione, meno ti fai notare e meglio è. Un paio di pantaloni neri, un maglione grigio e il mio immancabile cappotto nero, abbastanza ampio da coprire le armi.

Salii in macchina e accesi la radio.

Sorrisi, riconoscendo la canzone.

You touched my heart, you touched my soul, you changed my life and all my goals. And love is blind and that I knew when, my heart was blinded by you… I’ve kissed your lips and held your head, shared your dreams and shared your bed. I know you well, I know your smell, I’ve been addicted to you!

Era una bellissima canzone, che Chris canticchiava scrivendo le sue lettere. Stranamente, per quanto potesse essere triste un addio, riuscivo perfettamente a leggere nella musica che non c’era rimpianto. Avevano entrambi lottato fino alla fine per il loro amore.

Scossi la testa, imponendomi di non pensare a James. Poteva essermi fatale.

Fermai la macchina di fronte all’albergo dove alloggiava Nick Evans. Un uomo era di guardia sin dall’ingresso, cercando di sembrare naturale nonostante si vedesse perfettamente la sua ansia. Il palo era sempre il primo, a morire.

Mi accostai sorridendo. «Hey, scusa, hai un accendino?» domandai accostandomi la sigaretta alle labbra.

Mosse gli occhi intorno ansiosamente «No, levati».

Io odio le persone maleducate. E il ragazzo se ne rese ben presto conto, quando si trovò il mio coltello puntato alla gola.

«Chiama il tuo capo» sussurrai «Ora».

Con un gesto secco fece quello che gli avevo chiesto.

«Nick. Qui c’è qualcuno che ti vuole parlare».

«Che aspetto ha?» lo sentii chiedere.

Il ragazzo ansimò e una goccia di sangue scivolò sull’acciaio «Serio».

«Digli che sto salendo».

«Sta salendo» ubbidì. Il coltello gli perforò la gola, mentre entravo nel palazzo. Eliminate le due guardie salii sino alla stanza di Evans. Un uomo era sul pianerottolo a fare la guardia. Morì ancor prima di vedermi.

Altre sette guardie erano nella sala. Sparai otto colpi. L’ottavo era per l’allarme antincendio, che distrasse gli uomini mentre li uccidevo, uno a uno. Infine avanzai attraverso l’acqua, sino alla camera di Evans. Il grassone era nel letto con una ragazzina che non poteva avere più di diciotto anni.

Le feci cenno di andarsene.

«Cosa… cosa vuoi?» domandò tremante di paura.

Non avevo nemmeno la pistola puntata su di lui e già grosse lacrime scivolavano sul faccione flaccido.

«Questo è il tuo primo giorno a Londra, vero?».

Annuì.

«Ed è anche l’ultimo, o sbaglio?» l’uomo annuì ancora. «Molto bene. Non vorrei mai che te lo dimenticassi. O sarò costretto a rivederti. Comprendi?»

Mi voltai, andandomene. Evans, con la mano tremante cercò di spararmi con la pistola che aveva sotto il cuscino. Fui più veloce io e lo colpii al piede.

Lo lasciai lì, che sanguinava e piangeva, la sua vita che aveva preso una svolta inaspettata.


 

*.*.*


 

«Moran» risposi al telefono.

«Sebastian.»

«Peter. A cosa devo il piacere?» Peter era stato una delle mie tante serate passate a bere e cercare di dimenticare la guerra in un corpo caldo. Non aveva funzionato, ma ancora mi chiamava per passarmi informazioni su quello che accadeva intorno al Governo. Era una delle guardie giurate.

«Moriarty. Si è consegnato stamattina a Mycroft Holmes».

Improvvisamente mi divenne difficile respirare, ma finsi sicurezza. «Ah.»

«E’ nella stanza 01. Nel seminterrato. Nel caso, sai, avesse bisogno di una mano…»

«Grazie Pete.» risposi, la mente in subbuglio «Ma se James avesse bisogno, mi chiamerebbe.»

«Okay…era solo per… beh, lo sai.»

«Sì, certo. Ci sentiamo, Peter.»

Riattaccai sentendomi stranamente vuoto. James si era consegnato. Non mi aveva detto nulla.

Non mi faccio scrupoli a dire che quel pomeriggio distrussi mezza casa.

Mi aveva lasciato.

Tra i vetri rotti e i pezzi di legno mi sedetti, prendendomi la testa tra le mani.

Mi addormentai sanguinando.

Non riuscivo a capire se la ferita che bruciava di più fosse quella sulla mano o quella nel cuore.


 

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Capitolo 5
*** Tomorrow's bleeding ***


ECHO.

Capitolo quinto.

Tomorrow’s bleeding.


 


 


 

SM

Tre mesi. Tre dannatissimi mesi e nemmeno un sospiro.

Peter mi aveva aiutato, creando un collegamento dal mio computer alle videocamere in camera di James.

C’era scritto “Sherlock” ovunque.

Questa era le verità. Non aveva risposto al mio “Ti amo” perché lui voleva Holmes.

Era sempre ruotato tutto intorno a lui. Sempre.

Chissà se James, quando eravamo a letto insieme, immaginava che fosse Holmes sopra di lui, che fossero i suoi riccioli scuri a ricadergli sul petto, se immaginava che fosse il suo corpo a spingersi in lui.

Le mie giornate passavano tra l’alcool e il corpo caldo di Peter.

Lui non aveva mai preteso nulla.

Mai.

Ma non era nemmeno capace di accendere in me quella scintilla che James sapeva far divampare con un solo sguardo.

Mi alzai dal letto. Odiavo Peter, subito dopo il sesso. Avrei voluto sgozzarlo e vederlo agonizzare. Perché lui non era James?

Il ragazzo dai capelli neri si tirò a sedere, guardandomi andare a fumare. Dovevo allontanarmi o lo avrei davvero ammazzato.

James odiava restare a letto, dopo. Si alzava e mi trascinava con lui sotto la doccia e si lasciava coccolare. Peter rimaneva per ore a poltrire tra le lenzuola.

James a volte mi rubava una sigaretta, tanto per farmi un dispetto e potermi soffiare il fumo in faccia. Peter mi chiedeva di uscire, per fumare.

James. C’era lui ovunque.

Tornai a osservare il monitor e una macchia rossa catturò il mio sguardo. Sul suo petto c’era una fasciatura arrangiata con un pezzo di stoffa, sulla quale era fiorito il suo sangue.

La bestia nel mio stomaco affondò gli artigli quando pensai che probabilmente si era inciso il nome dell’altro anche addosso.

Scossi la testa e tornai da Peter.

Non mi curai del fatto che piangesse per il dolore, quando mi spinsi in lui.

Al suo posto, io vedevo il viso di James.


 

*.*.*


 

Ero in macchina ad aspettarlo. Peter mi aveva detto che lo avrebbero lasciato andare qual pomeriggio e io ero lì.

Mi ero fatto fregare ancora una volta dalla promessa di quegli occhi neri.

Yesterday I died, tomorrow’s bleeding.

Spensi la radio, osservandolo uscire. Mi vide e venne verso di me a passo sicuro. Salì in macchina.

Nessuno dei due parlò. Lo portai a casa sua. Scese dalla macchina.

«Vieni.» mi disse. Ero tentato di rifiutare, di lasciarlo andare da solo ma qualcosa me lo impedì. Lo seguii.

Era la prima volta che entravo nel suo appartamento. Lì ogni cosa sapeva di James, dallo stereo coi cd di musica classica al divano di pelle nera.

Era tutto schematico, semplice, lineare. Era freddo.

«Ho risolto le cose con Nick Evans.» dissi, perchè era l'unica cosa che potevo dire.

«Bel lavoro, come sempre» mi lusingò James «Dovresti chiedermi un aumento.»

«In realtà, James, vorrei rassegnare le mie dimissioni.»

James sussultò, e finalmente si girò verso di me, i suoi occhi neri nei miei. «Cosa?» domandò e la sua voce era un misto di stupore e rabbia.

Presi un respiro profondo e mi ripetei, ignorando la voce che si incrinava come ghiaccio sottile.

«Perchè mai vorresti lasciare il lavoro?»

Non risposi immediatamente, ma i miei occhi indugiarono sulla fasciatura nascosta dalla maglietta.

«Perchè non credo di essere l'uomo adatto.»

Lui si passò una mano sul torace, avendo notato il mio sguardo, e si lasciò scappare una risatina.

«Sei geloso Sebastian? Mi stai lasciando per colpa di Sherlock Holmes?»

Il tono in cui diceva il suo nome. Qualcosa, dentro di me, si ruppe col fragore di una vetrata colpita da centinaia di pallottole.

«Ho visto la tua stanza. Il suo nome era ovunque.»

«Serviva ad attirare il fratello. Avevo bisogno di risposte, ma non ti ho dimenticato, là dentro.»

Risi e mi stupii di come la mia voce suonasse stanca e piena di risentimento. Non gli credevo. Non potevo permettermi di credergli.

«Guardami, allora, e vedrai con i tuoi occhi» mi disse, togliendosi la maglia. Non reagii, mentre lui continuava a spogliarsi, fino a togliere lentamente la fascia. Il dolore fece capolino sul suoviso.

«Non importa» dissi, vedendolo scostare la stoffa bianca, la mano che tremava appena «Non importa più, James.»

Si fermò, sospirando. «Mi stai lasciando, quindi. Non credevo che fosse possibile, non credevo che proprio tu mi potessi lasciare. Sai quante volte ho provato a lasciarti io, Sebastian? Non ce l'ho mai fatta. Perchè non riesco a togliermi dalla testa quella tua fottutissima faccia arrogante e quella tua dannata voce che canta quando sono al telefono e quando cerco di dormire.» si girò, osservando il vuoto «Adesso vattene, se non vuoi più vedermi.»

Inspirai lentamente. «Hai provato a lasciarmi?»

«Trroppe volte, dopo la morte di Chris.»

Mi avvicinai a lui. «Perchè?»

«Sono così...fragile. Con te. Tenere a qualcuno non è un vantaggio».

«Se fosse vero sarei dovuto morire mesi fa». Lo feci voltare, in modo che fossimo di fronte. Occhi liquidi mi fissavano. Chinai il capo di lato e lo baciai, la rabbia e la tristezza che ancora riverberavano tra di noi.

«Vuoi ancora lasciarmi? O magari vuoi uccidermi?» domandò con un soffio nella mia bocca.

Mi rimpossessai di quelle labbra, che mi erano tanto mancate. Quando ci separammo, fu solo per riprendere fiato.

«Non ho mai voluto nessuno dei due» dissi.

La sua mano fresca mi guidò attraverso la casa, fino alla sua stanza.

«Spogliami». Non era una richiesta, ma un ordine.

Ubbidii, riprendendo dai pantaloni, ma ancora una volta le sue mani mi fermarono.

«La fasciatura. Voglio che tu me la tolga.». Lo guardai con occhi stanchi. Voleva umiliarmi fino in fondo, farmi vedere fino a dove il suo amore per l'altro si era spinto?

Con mani tremanti per il timore di fargli male, tolsi la stoffa candida.

Mi ero sbagliato.

Avevo sbagliato tutto.

Lo guardai ancora e vidi i suoi occhi lucidi.

«Dovevo ricordarmi di resistere» spiegò «E questa era l'unica cosa che mi ricordasse casa.»

Lo trascinai sul letto con me, baciandolo ancora. Non sarebbe mai stato solo. Non lo avrei mai abbandonato.

Lo giurai a me stesso, sfiorando con le labbra il nome inciso nella sua carne bianca.

Sebastian.


 

JM

Un mese dopo

«Sebastian Moran!», gridai dalla cucina con il tono più irato che avevo.

«Dimmi, James Moriarty», urlò lui in risposta dal bagno.

Un sorrisetto mi scappò dalle labbra, prima di ritornare serio e gridare di nuovo. «Non ti ho mai dato il permesso di finire i il mio caffè. Potrei licenziarti per questo».

Sentii la porta del bagno cigolare e i passi di Sebastian avvicinarsi alla cucina. Indossava soltanto i pantaloni e la sua pelle profumava di dopobarba. Si avvicinò al mobiletto sopra i fornelli e, alzandosi sulle punte, tirò fuori un nuovo pacco di caffè. Me lo lanciò di colpo e lo presi al volo per un pelo.

«Non avrei mai potuto rischiare il licenziamento», disse con un ghigno soddisfatto.

«Ricordami perché non ti ho ancora buttato fuori da casa mia», sbuffai iniziando a prepararmi il mio caffè nero mattutino, senza il quale non iniziavo mai la giornata.

«Perché sono un uomo estremamente attraente oltre che intelligente e simpatico?», suggerì accendendosi una sigaretta.

«Hai dimenticato irritante e insolente. Ora fumi anche in cucina? Devo bere caffè e tabacco?», mi lamentai strappandogli la sigaretta di mano. Lui cercò di riprendersela, ma io ridendo la presi tra i denti e mi scansai di lato.

«Sei un bastardo», disse con un sospiro, poi iniziò a ridere. «Ogni tanto mi domando perché mi piaci così tanto».

«Calma, Tigre, è già la seconda volta in cinque minuti che rischi di perdere il lavoro».

Mi voltai verso di lui e presi la sua sigaretta tra le dita, non prima di aver inspirato profondamente. Soffiai il fumo sulla sua faccia e misi la sigaretta tra le sue labbra, mentre lui sorrideva divertito.

«Cosa c'è in programma per oggi?» domandò sedendosi al tavolo.

Mi accomodai di fronte a lui.

«Ho messo in agenda per entrambi cose molto divertenti», risposi. «Ti dice qualcosa Pentonville? Oggi facciamo saltare il sistema di sicurezza. Insieme a quello della Banca di Londra. Ho piazzato là quel promettente ragazzo che hai trovato la scorsa settimana».

Sebastian sollevò le sopracciglia.

«Perché lo stiamo facendo?» chiese ridendo.

Finii l'ultimo sorso di caffè e gli rubai di nuovo la sigaretta. «Il gioco è iniziato, Sebastian», esclamai andando a prendere le chiavi della macchina. «E sarà meglio che tu ti metta una maglietta».

Dieci minuti dopo eravamo insieme in macchina. Gli impedii di mettere qualsiasi disco e gli spiegai il piano. Avevo fatto fare una divisa su misura per lui: si sarebbe infiltrato nel personale di sicurezza della prigione – l'uomo di cui avrebbe preso l'identità era stato eliminato quella notte – e al mio segnale, intorno alle 11.00, avrebbe fatto saltare il sistema.

«E tu cosa farai?».

«Pensavo di incoronarmi re», gli dissi stringendo le mani sul volante, sorridendo.

«Sempre il solito megalomane», commentò Sebastian. L'angolo destro della sua bocca si alzò leggermente.

«Starò via qualche settimana», aggiunsi poi.

«Come desidera, sire», replicò lui con un cenno del capo.

Accostai due traverse prima della prigione di Pentonville.

«Non sto scherzando, Sebastian. Sarò impegnato per un po'. Ti ho lasciato una lista delle cose da fare in cucina. Qui ci sono le chiavi di casa», spiegai lasciandogli il mazzo in mano. Mi guardò, un'espressione a metà fra l'interrogativo e il sorpreso sul volto. «Ti puoi cambiare là dentro». Indicai una porta verde e scrostata, ma lui non si voltò.

«Te ne stai davvero andando per un mese?», riuscì solo a dire.

«Meno di un mese», precisai sulla difensiva. «Passerà in fretta. Questa volta è diverso, fidati di me». Ed era diverso davvero. Ci saremmo visti, avremmo anche parlato, forse. Conosceva i miei obiettivi, senza sapere il piano nei dettagli, però.

Come previsto, infatti, non si arrabbiò. Avevamo imparato a capirci troppo bene per farlo. Gli diedi un bacio, assaporando per l'ultima volta le sue labbra. Lui annuì e mi guardò, ancora incerto.

Gli feci segno di scendere dalla macchina. Chiuse la portiera ma esitò, senza staccare la mano dal metallo nero. Si abbassò, mettendo la testa all'altezza del finestrino abbassato.

«Ma cosa devi fare?».

«Te l'ho detto, Tigre, vado a prendere la corona».

Capì e scoppiò a ridere, mentre io mettevo in moto e ripartivo in direzione della Torre di Londra.

Riuscivo quasi a sentire nelle orecchie il suo “figlio di puttana!” divertito.


 

*.*.*


 

Sei settimane dopo

Il tribunale era nelle mie mani.

Tutte le persone presenti in quella stanza erano dalla mia parte, tutte eccetto il giudice, Sherlock Holmes e il suo bravo soldatino John Watson.

Non aver corrotto il giudice rendeva la vicenda soltanto più divertente.

«Primo sbaglio», disse Sherlock, «James Moriarty non è affatto un uomo. È un ragno. Un ragno al centro del web. Un criminale del web con migliaia di fili. Lui sa perfettamente come muoversi in questa grande ragnatela».

Annuii lentamente, gli occhi nei suoi. Il ragno James Moriarty. Suonava bene. Mai quanto il Re, ma potevo accontentarmi. Il potere era mio in qualunque caso.

Vedevo nello sguardo di Sherlock l'assoluta certezza di avermi messo in trappola, almeno per un po'. Era sicuro di vincere il processo, di farmi rinchiudere in una cella di nuovo, fino ad una futura evasione.

Ancora non sapeva nulla, ma stava dicendo esattamente ciò che desideravo. Era una sfida solo tra noi, lo era sempre stata. La presenza di un pubblico era pressoché irrilevante. Stava parlando con me.

«E da quanto tempo -», cercò di domandare l'avvocato.

«No, no, non lo faccia. Non è affatto una buona domanda», la interruppe Sherlock alzando gli occhi al cielo. Si sarebbe fatto cacciare fuori presto, di questo passo. Dovetti trattenere l'istinto di ridere. Sherlock era incapace di stare in mezzo alle persone meno intelligenti di lui, ovviamente ad eccezione dei suoi preziosi amici.

«Signor Holmes», lo ammonì il giudice.

«Da quanto lo conosco? La peggiore linea di indagine», continuò lui imperterrito, «Ci siamo visti due volte, cinque minuti. Voleva farmi saltare in aria. Ho sentito subito un legame speciale».

Sollevai le sopracciglia e sorrisi lievemente, scostando lo sguardo. Ero ammirato dalla sua capacità di flirtare anche mentre mi testimoniava contro. Potevo quasi sentire il tono seccato di Sebastian nelle orecchie, e sapevo che lui era nella sala, in silenzio, attento ad ogni parola e ad ogni gesto, nonostante gli avessi ordinato di non presentarsi.

«Signora Sorrel, lei è davvero sicura che questo testimone sia un esperto? Avendo conosciuto l'imputato per soli cinque minuti...», intervenne ancora il giudice.

«Bastavano due minuti per rendermi un esperto», si sbrigò a precisare Sherlock.

«Signor Holmes, è compito della giuria stabilirlo».

«Oh, davvero?». Tra proteste del giudice, sguardi sorpresi e imbarazzati della giuria, dedusse ogni uomo o donna seduto in quelle gradinate.

«Signor Holmes! È stato chiamato per rispondere alle domande della signora Sorrel, non è qui per mettere in mostra le sue abilità intellettive». Sherlock sospirò e sorrise al suo John, che sedeva esasperato qualche gradinata dietro di me, come se ciò che stesse facendo era un segreto tra loro due. «Dia risposte brevi e vada al punto. Il resto sarà considerato oltraggio alla corte». Watson annuì e Sherlock gli lanciò un'occhiata risentita. Sembravano madre e figlia durante una lite familiare. Il fatto che comunicassero a sguardi rendeva il tutto solo più interessante. Sarebbe stato molto facile manipolare Sherlock attraverso John.

Il mio amato nemico fece scorrere lo sguardo fino a me, uno sguardo feroce, di sfida. Sorrisi divertito.

Il giudice lo mise in guardia un'ultima volta, ma cinque minuti dopo Sherlock venne scortato fuori da due guardie. Non riuscii a trattenere un ghigno soddisfatto.


 

*.*.*


 

Il giorno dopo

«Mr. Crayhill, può chiamare il suo primo testimone?».

Il mio avvocato si alzò, ma non lo degnai di uno sguardo. Fissavo il giudice. Avevo vinto e lui non lo sapeva.

«Vostro Onore, noi non chiameremo nessun testimone».

La sala si riempì di 'oooh' stupiti. Esattamente ciò che desideravo. Attenzione, stupore.

«Non capisco, si è dichiarato non colpevole».

«Tuttavia il mio cliente non offrirà alcuna prova. Non ho altre... domande».

Sfoderai un'espressione teatrale e preoccupata. Volevo prenderlo in giro fino in fondo. Non potevo evitarlo, mi piaceva giocare con le persone. Guardai John, il piccolo John che sedeva nello stesso posto del giorno precedente. Feci una smorfia, masticando il chewing gum, e gli sorrisi mentre il giudice incitava la giuria a giudicarmi colpevole. Non riuscii ad abbassare gli angoli delle labbra mentre, guardandomi in giro, ascoltavo quelle vane parole. Mi scappò una risata, ma riuscii a trattenerla, tornando serio.

«...giudicate Moriarty colpevole».

Lanciai una sola occhiata di traverso a Sebastian, che sedeva totalmente inespressivo qualche posto alla sinistra di John.

Passarono sei minuti.

«Avete raggiunto un verdetto in cui siete tutti d'accordo?».

Sorrisi.

«Innocente».

Sebastian uscì prima che potessi riuscire a incontrare i suoi occhi. L'unica cosa che vidi fu l'ombra di un sorriso sulle sue labbra.


 

*.*.*


 

«Due o tre settimane, Sebby, non starò via molto», scimmiottò Sebastian non appena arrivai in casa, un'ora dopo.

Lo fissai intensamente, prima di scoppiare a ridere. Lui rise con me.

«Sei un maledetto stronzo», esclamò prima di stringermi tra le braccia e catturare le mie labbra con le sue.

«Lo so», assentii serio.

Ci sedemmo in cucina, con una tazza di caffè tra le mani.

«Sei andato da lui, vero?», domandò Sebastian da dietro la sua tazza blu.

«Sì».

«E...?».

«Hai eseguito tutti i compiti della lista?». Mi osservò seccato. Odiava quando rispondevo ad una domanda con un'altra domanda, ma era più forte di me.

«Tutti. Anche gli ultimi due: 'non finire il caffè' e 'cambia la lampadina del bagno'».

Risi, e vidi una luce di divertimento anche nei suoi occhi.

«Erano i più importanti, naturalmente. Ora che abbiamo i nostri uomini vicini al trasloco in direzione Baker Street, pronti ad uccidersi a vicenda solo per avere la “chiave” che ho lasciato a Sherlock, dobbiamo solo rapire i bambini. Hai trovato il sosia di Holmes?».

Sebastian annuì.

«Agiremo tra due mesi. Tempo di sparire per un po', devono smettere di parlare di me così tanto. Andrai con lui, non posso lasciare in mano la situazione ad un principiante», ordinai. «Sta diventando tutto così... sexy, non trovi?».

Mi lanciò un'occhiata divertita.

«L'ho sempre pensato, stando intorno a te».


 

*.*.*


 

Un mese e ventinove giorni dopo

Kitty dormiva al mio fianco. Il suo corpo sottile e fragile non aveva nulla di bello, ai miei occhi. Il suo viso, rilassato, rivolto verso di me, mi ispirava solo odio.

Ma lei era necessaria.

Lo era stata e lo era ancora.

Dovevo finire di rovinare la reputazione di Sherlock.

Dopo essere stato con lei mi sentivo sporco. Mi sentivo in colpa nei confronti di Sebastian. Era solo sesso, per me, senza sentimenti, ma mi sembrava comunque sbagliato, nonostante fosse parte del mio grande piano.

Sebastian si stava impegnando a non scoppiare, ma nei suoi occhi, ogni volta che riuscivamo a vederci, vi era una profonda tristezza.

«Puoi chiamare il tuo giocattolino Peter, se vuoi», gli avevo detto un giorno. Se n'era andato sbattendo la porta.

Kitty aprì gli occhi. «Tesoro», mormorò avvicinandosi a me, posando la sua testa sulla mia spalla mente tirava su il lenzuolo.

La strinsi a me, in silenzio.

Lei mi bacio e passò la mano sul mio petto, sul mio ventre. Non avevo mai voluto respingere con così tanta decisione una donna. Tra uomo e donna, avevo sempre preferito gli uomini, ma mai avrei pensato di voler scappare da un letto.

Il pensiero di Sebastian mi punzecchiò di nuovo la mente.

«Ho sete, tu hai sete?», domandai a Kitty.

Lei annuì, ma non mi lasciò andare prima di avermi baciato un'altra volta.

Portai il suo bicchiere a letto. Le avevo messo del sonnifero dentro. Non potevo sopportarla ancora.

Dieci minuti dopo dormiva, e io sfrecciavo su una moto tra le vie di Londra, diretto a casa di Sebastian.

Aprii con le chiavi che mi aveva lasciato dopo un mese di frequentazione assidua del suo appartamento. Ogni luce era spenta. Entrai a passo leggero in camera.

Stava dormendo, l'unica fonte di luce era la piccola radiosveglia posata sul comodino.

«Hey, Tigre», mormorai posando una mano sulla sua spalla.

«James...», farfugliò lui sbattendo gli occhi velocemente. «Cosa stai facendo qui?».

«Non potevo passare con lei una notte in più», risposi io sdraiandomi al suo fianco.

«Sei nella mia lista di persone da uccidere, sappilo», mi disse prima di accogliermi tra le sue braccia, stringendomi e addormentandosi con me.

Quella fu l'ultima notte che passammo insieme.





NdA: E sì, abbiamo aggiornato un giorno prima (sai che grande differenza Danae!) 
Comunque, io e seeyouthen abbiamo completato stamattina la storia e vi annunciamo (con sommo dolore) che mancano solo due capitoli, poi ci dovremo salutare.
Ma non disperate! In due capitoli di cose ne succederanno!
Come sempre ringraziamo tutti voi che ci leggete, chi ci recensisce, chi ci segue e addirittura chi ci ha messe nei preferiti! 
Alla prossima, xxxx
-Danae

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Capitolo 6
*** Goodbye my lover. ***


ECHO.

Capitolo sesto.

Goodbye my lover.


 

JM

Scappai da casa di Kitty la notte seguente, inseguito da Holmes. Quella giornalista non mi avrebbe rivisto mai più.

Corsi alla moto, e poi da Sebastian.

La farsa di Richard Brook era penetrata nelle menti delle persone più di quanto credessi. Per un attimo avevo visto il dubbio fare capolino anche negli occhi del fedele John Watson. Avevo vinto. Rimaneva solo l'ultimo scontro tra me e Sherlock, un faccia a faccia nel quale avrei definitivamente trionfato. La soluzione del nostro problema finale.

Sebastian sedeva irrequieto sul divano, torturandosi i polsini di quella vecchia felpa bucata che aveva indossato per girare nella periferia di Londra senza essere notato.

Aveva portato i bambini in quella vecchia fabbrica di dolciumi insieme al falso Sherlock Holmes. Si era camuffato per non farsi riconoscere dalle troppe persone che avevano fatto caso alla nostra vicinanza più volte.

«Basta», gli dissi con voce ferma. Mi stava dando sui nervi.

Lui mi fulminò con lo sguardo e cercò di calmarsi. Iniziò a tamburellare con le dita sulle ginocchia.

«Sebastian!», lo ammonii una volta, ma non demordeva. «Sebastian!».

«Non riesco a stare calmo, va bene? Non finché quel bastardo non si fa sentire», ringhiò tra i denti.

«Andrà tutto bene. Ormai è rovinato. Abbiamo fatto un lavoro perfetto creando Richard Brook. Nessuno capirà che si tratta di un falso», cercai di tranquillizzarlo con ben pochi risultati. Il mio tono era troppo acido e secco per poter calmare me stesso, figuriamoci Sebastian. La realtà era che non riuscivo ad aspettare di incontrare Sherlock.

L'avrei indotto al suicidio. Sarebbe morto. I nostri tre uomini migliori erano pronti, con il telefono sul comodino e lo smoking sulla sedia. Si sarebbero occupati dei suoi amici se non si fosse ucciso.

Il telefono squillò. Sebastian trattenne il fiato.

«Vado al Bart's», gli dissi semplicemente dopo aver letto il messaggio. Sebastian si avvicinò a me, catturandomi le labbra con le sue.

Il suo bacio aveva il sapore di un addio.

Risposi con foga, le nostre lingue che danzavano una melodia lontana, quella stessa che avevamo ballato molto tempo prima, che mutava proprio come noi. Ci cercavamo, ci allontanavamo, ci abbracciavamo, ci stringevamo per poi allontanarci di nuovo e ricominciare da capo. Ma andava bene così.

Strinsi un'altra volta le ciocche scomposte dei suoi capelli biondi tra le dita, mentre con l'altra mano lo avvicinavo a me, tirandolo per un fianco. Posò le mani sul mio viso e le nostre labbra si separarono.

«Torna presto», disse in un soffio sulla mia bocca, che tremò lievemente. I suoi occhi mi scavavano il viso, come per memorizzare ogni minimo dettaglio, poi si tuffarono nei miei. Mi sentivo quasi nudo sotto uno sguardo così sincero e profondo.

«Lo farò», promisi.



 

SM

Non sarebbe tornato.

Non riuscivo a capire perchè questa sensazione mi attanagliasse le viscere, ma sapevo che sarebbe successo. Che non avrei più rivisto il viso di James.

Il suo sorriso sarcastico.

La piega ironica delle sopracciglia.

La curva morbida del suo fianco nudo in quel punto che amavo mordere.

La cicatrice sul petto, che sfioravo sempre con le dita, Sebastian.

Sapevo che non sarebbe tornato.

Ma lo lasciai andare lo stesso.


 

*.*.*


 

Aveva detto che sarebbe stata una cosa da pochi minuti.

Lo chiamai.

Avevo bisogno di sapere che stesse bene.

James non rispose.

Lo chiamai ancora, l'ansia che saliva.

E lui mi ignorò.

Abbandonai l'imboscata che stavo tendendo a un politico malesiano, uno dei compiti assegnatimi da James, e incomincia a correre verso il Bart's. Correvo verso l'ospedale con il terrore nel petto e il cuore in gola.

Tentai nuovamente di chiamarlo.

Il cellulare squillò vuoto.


 


 


 

JM

I'm waiting...

JM


Attesi sul tetto del Bart's che Sherlock Holmes venisse ad affrontarmi per l'ultima volta, prima di morire.

Mi sembrava già di vedere la sua figura buttarsi dal cornicione, insieme al quel cappotto nero che si apriva come un paio d'ali, giù fino a schiantarsi a terra. Un povero angelo sarebbe caduto, quel giorno.

La porta di fronte a me si aprì nello stesso istante in cui il telefono iniziò a squillare.

Sebastian, recitava il display.

Non risposi.

«Oh, eccoci qui finalmente. Tu ed io. E il nostro problema. Stayin' alive. È così noioso, no?». Riattaccai. «È qualcosa... di piatto. In tutta la mia vita ho cercato delle distrazioni, e tu eri la migliore. E ora non ho più neanche quella, perché ti ho battuto. E sai una cosa? Alla fine è stato semplice. Elementare. Ora devo tornare a giocare con le persone comuni e quanto pare anche tu sei come loro», passai una mano sul viso, prima di ricominciare a guardarlo. «Oh be'...», aggiunsi alzandomi, «ti sei chiesto se io esistessi davvero? Te l'ho quasi fatta?».

«Richard Brook».

«Divertente. Nessuno sembra capire la battuta. A parte te». E Sebastian, pensai.

«Ma certo».

«Ah-ha. Che bravo».


 


 


 

SM

Dio. Cazzo, dovevo fare più velocemente. Veloce, prima che sia tutto perduto.

Cristo santo, lui era lassù, sospeso.

Corsi.

I muscoli urlavano per il maltrattamento che stavano subendo, i tendini si tendevano faticosamente, sempre più doloranti. I polmoni bruciavano, l'ossigeno pareva fatto di vetri rotti e aghi che mi trafiggevano violentemente.

Ma io continuavo a pensare a lui.

Alla sera prima, quando, dopo aver fatto sesso ( fantastico, caldo, magnifico sesso sulla prima superficie orizzontale disponibile- nel nostro caso il pianoforte di James) lo avevo trascinato con me nel letto e per una volta lui non se n'era andato via.

Era rimasto, stretto al mio petto, i suoi capelli che mi solleticavano piano il viso.

Il suo profumo di violetta venne richiamato prepotentemente nei miei pensieri.


Si era accoccolato contro di me, il suo braccio intorno alla mia vita, per stringermi.

James. James, che non mi aveva mai detto nemmeno che gl'importava se ero vivo o morto, mi stringeva stretto. Come a non volermi lasciare andare.

Avrei dovuto capire.

Avrei dovuto fare più attenzione, osservarlo e non guardarlo.

Corsi veloce, tra le strade piene di gente.

Gente inutile.

Erano solo aria, sangue, ossa e muscoli che presto si sarebbero decomposti. Corpi morti.

Corpi morti che camminavano.

Corpi morti che mi separavano da James.


 


 


 

JM

«Sherlock, né tuo fratello né tutti i cavalli del re potrebbero farmi fare cose che non voglio».

Neppure Sebastian, alla fine, non ce l'aveva fatta. Nemmeno lui era riuscito a non farmi arrivare a quel punto, al punto di non ritorno. Non c'era riuscito semplicemente perché io non volevo farlo. Dovevo risolvere il mio problema finale, anche a costo di morire.

«Sì ma io non sono come mio fratello, ricordi? Io sono come te. Pronto a fare qualunque cosa. Pronto a bruciare. Pronto a fare ciò che le persone comuni non farebbero. Vuoi che ti stringa la mano all'Inferno? Di certo non ti deluderò».

«Nah, fai solo lo sbruffone. Nah, sei così ordinario. Sei una persona ordinaria dalla parte degli angeli».

«Sarò anche dalla parte degli angeli, ma non pensare neanche un secondo che io sia uno di loro, Moriarty».

«No... non lo sei. Ora capisco. Non sei ordinario, no, tu sei me. Sei me! Grazie... Sherlock Holmes». Gli strinsi la mano, mentre l'altra si posava sulla pistola.

Fredda, gelida, metallica. La stessa con cui avevo sparato per la prima volta, con Sebastian. Potevo ancora sentire la sua mano sulla mia.

Come molto tempo prima, anche questa volta mi avrebbe accompagnato fino a premere il grilletto. C'erano ancora così tante cose da dire. Troppe, che non avrei mai detto. «Grazie... che Dio ti benedica. Fin quando sarò in vita potrai salvare i tuoi amici, hai una via d'uscita. Allora, buona fortuna».


 

Scusami, Sebastian.


 


 


 

SM

Forza ascensore, apriti.

Muoviti, lui è lì sopra.

Suonò il cellulare, cantando “Live and let die”.

Risposi in fretta «Moran».

«Sono io, Seb.»

«Peter.» la troppa agitazione mi faceva parlare a monosillabi.

«Ci siamo ritirati» disse, proprio mentre le porte dell'ascensore si aprivano con un delicato dling «Holmes è morto, si è buttato».

Sospirai rassicurato, ringraziandolo e salendo in ascensore..

Il cuore rimbalzò nel petto per la gioia. Ce l'avevamo fatta.

Sarei salito su quel tetto e avrei visto Londra con occhi nuovi. Avrei abbracciato James e lo avrei baciato con tutta la forza che avevo, respirando il suo profumo dolce, dandomi dello stupido per essere stato in ansia inutilmente.

Gli avrei detto che lo amavo e lui mi avrebbe risposto.

Potevamo essere felici.

Potevamo andarcene, magari trasferirci nella casa in campagna. James avrebbe potuto continuare a lavorare anche da lì e io ogni sera sarei tornato a casa e lo avrei visto ad aspettarmi in sala, sulla sua poltrona rossa, con i suoi fascicoli aperti sul tavolino, con Bach che suonava dallo stereo. E avremmo dormito insieme, tutte le sere per tutta la vita.

Saremmo stati felici.

Ma le porte dell'ascensore si riaprirono sul tetto, infrangendo tutti i miei sogni.

Perchè a terra c'era un corpo.

James.







NdA: ED ECCOCI QUI! All'ultimo capitolo! (Sì, manca solo l'epilogo e Dan è molto triste al pensiero di salutarvi).
Beh, chi ha visto la serie tv sicuramente sapeva che cosa sarebbe successo, ma speriamo di essere riuscite a rendere bene le emozioni del nostro amato Seb, attualmente col cuore a pezzettini molto piccoli (peggio di noi alla 9x23 di Supernatural).
Cooooomunque, grazie ancora a tutte (tutti?) voi.
Davvero.
Ci vediamo presto, più presto di quanto immaginiate. ;)

-Una Danae depressa dall'aver scritto il POV di Seb e una seeyouthen che tenta di consolarla patpattandola.

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Capitolo 7
*** Ghosts that we knew. ***


ECHO.

Epilogo.

Ghosts that we knew.


 


 

Tre anni dopo


 

Mi spingo un'ultima volta dentro il corpo caldo di Peter, fremendo ad occhi chiusi. Dietro le mie palpebre, in maniera del tutto autonoma, appare, come sempre, il volto di James sconvolto dal piacere.

Ma James è un ricordo.

Una cicatrice talmente profonda dentro me da essere certo che nemmeno la guerra sia mai stata tanto crudele nei miei confronti quanto il Destino, il Fato o Dio come cazzo vogliate chiamarlo. Perchè questa entità mi ha portato via James. L'uomo che amavo. L'uomo che amo.

Dopo tre anni lo aspetto ancora. Vivo ancora nel suo appartamento, preparo il caffè per due e mi occupo dei suoi casi.

Sono diventato io il ragno. Temporaneamente, come mi ripeto in continuazione.

Osservando Peter nel letto, come sempre ho voglia di spaccare qualcosa. Non è lui che dovrei avere al mio fianco. È tornato nella mia vita per caso, approfittando di una notte di bevute, e non se ne vuole più andare.

Ma io non lo voglio. Come quando sono tornato dall'Afghanistan, come quando James si è fatto catturare da Holmes, Peter è solo un corpo caldo.

Un ammasso di ossa, muscoli, tendini e sangue tenuti insieme da un po' di pelle olivastra.

Niente altro.

Mi alzo velocemente, rinfilandomi i jeans e la felpa grigia.

Quella che James mi rubava sempre.

«Potresti...» si schiarisce la voce «Potresti restare, una volta, sai?»

Tutte le volte me lo dice. E tutte le volte gli rispondo che ho un impegno.

Ma non questa volta. Sono stanco di lui. Voglio vederlo morire, sanguinare tra le mie mani. Voglio che l'ultima cosa che vedano i suoi occhi sia il mio volto mentre gli dico che per me è solo una puttana, un modo per svuotarmi le palle. Che non lo amo. Che progetto questo momento da anni.

«Tu non sei lui.» mormoro sadicamente, un lieve sorriso che si apre la strada sul mio volto «Ecco perché non mi fermo mai. Tu non sei lui.» lo vedo incassare il colpo, ferito.

Potrei avergli detto che non è come lui, ma omettendo quella miniscola parola la frase ha un altro significato.

Gli sto negando la speranza.

Perché per quanto si impegni, per quanto si tinga i capelli e si metta le lenti a contatto, Peter non sarà mai James.

E glielo dico. Gli dico tutto, con sadica gioia nel vedere le lacrime colmare gli occhi spalancati in una muta richiesta di pietà.

Ma io non ho pietà, perché nessuno ne ha avuta per me.

Mi inginocchio sul letto ed esaudisco il mio desiderio, estraendo il pugnale da caccia dalla tasca interna della felpa e facendolo scivolare tra le sue costole in un movimento sinuoso.

Muore lentamente Peter, negli occhi ancora la fiducia nei miei confronti. Non ci ha creduto, fino alla fine ha preferito pensare che non mi sarei spinto fino in fondo. Ma si fidava della persona sbagliata.

Me ne vado assaporando la sensazione di libertà e aprendo la porta di casa mi sento quasi felice, prima che il profumo di violetta di James mi solletichi il naso.

La casa profuma di lui, persino la doccia sotto la quale mi getto.

Ogni cosa sa di James, ma solo a metà. Ogni cosa mi restituisce parte della sua ombra, ma di lui non trovo traccia né tra i completi firmati, né tra i libri dalle copertine ordinate, né tra i cd di Bach.

James mi sfugge, nonostante io continui a vederlo ovunque.


 

Quando entro in cucina afferro un bicchiere di whisky e mi sposto nel soggiorno. Non mi stupisco di vederlo seduto sulla sua poltrona. È sempre lì, nei miei sogni.

«Ciao Sebastian.» incomincia, e la voce è talmente simile a quella del vero James che fatico a non piangere.

«Ciao James.» rispondo, sedendomi sulla poltrona gemella e voltandomi a fissare il caminetto. Le fiamme sembrano quasi vere, quasi calde. Ma sono irreali, la mia ennesima allucinazione.

«E' reale» mi dice James. Ma non è questo che credo ogni volta, prima di restare a mani vuote? «Sono tornato a casa Sebastian.»

Sorrido amaramente, senza guardarlo. Fa solo più male, se lo faccio.

«Certo. Naturalmente, tu sei tornato.» annuisco scuotendo la testa e bevendo ancora.

Sento passi leggeri avvicinarsi. Dio, è tutto così patetico.

Posa una mano sulla mia spalla.

«Guardami.»

Mi alzo, andando in cucina a versarmi ancora da bere. Devo comprare una nuova lampadina, questa si è fulminata.

Due mani bianche si posano sui miei fianchi, facendomi voltare.

Slaccia lentamente la camicia, la cicatrice bianca del mio nome che scintilla candida sulla pelle nivea. Mi prende la mano e ce la posa sopra, facendomi sentire la pelle leggermente in rilievo della ferita.

Poi mi bacia.

E qual bacio, non saprei descriverlo. È il primo respiro dopo aver temuto d'annegare, il riaprire gli occhi e vedere ancora i colori.

Quel bacio è un inatteso ritorno a casa.

«Sono io, sono qui» mormora nell'attimo in cui ci separiamo per respirare.

È allora che la verità mi colpisce come un macigno.

James mi ha mentito.

Mi ha lasciato da solo per tre lunghissimi, eterni anni, facendomi credere di essere morto.

Ha mentito.

Da quando? Dal primo momento, o solo quando ha capito che gli avrei fatto comodo?

La realtà è maledettissimamente dolorosa. Più del vederlo morto.

Perché ora vedo la finzione, scopro di essermi disperato per qualcosa di falso, e non ce la faccio a rallegrarmi del fatto che lui sia qui, vivo e vegeto. Che sia tornato da me.

«Mi hai abbandonato.» non riesco quasi a credere alle mie stesse parole. Inizio ad alzare la voce, riversando fuori tutta la rabbia e il dolore. «Pensavo che non sarei riuscito a vivere un giorno senza sorriderti, senza sentire la tua voce. Poi quel giorno è arrivato, ed è stato fottutamente difficile. Ma il successivo è stato ancora peggio. E ho capito che sarebbe diventato sempre più difficile sopravvivere, e che non sarei stato bene per molto tempo. Perché non ti ho perso solo quel giorno, sul tetto. Cazzo, James, io ti perdevo ancora e ancora. Ogni volta che prendevo la tua tazza, ogni volta che alla radio sentivo Arrival of the Birds, o ogni volta che trovavo una tua maglietta sepolta sotto i miei vestiti. Dio santo James, hai la benchè minima idea di quante volte ti abbia perso? Ogni volta che pensavo che tornando a casa non ti avrei trovato, non avrei potuto baciarti e stringerti. Ogni fottutissima notte, quando il mio unico desiderio era quello di raccontarti la mia giornata. Ogni dannata mattina che Dio ha mandato su questa cazzo di Terra, quando mi rigiravo nel letto e, pur sentendo il tuo profumo, dall'altra parte del materasso le lenzuola erano fredde io ti perdevo ancora e ancora.»

Non si aspettava un discorso del genere, lo leggo nella cupa ombra che è appena calata sui suoi occhi. Probabilmente fino ad un attimo fa pensava che fossi pronto ad accoglierlo a braaccia aperte, fingendo che questi anni senza di lui non siano mai esistiti. Quando mi risponde il suo tono è duro.

«Non ho avuto altra celta. Cosa volevi, Sebastian, un bigliettino rassicurante?»

«Avresti almeno potuto lasciarmi un messaggio, sono certo che Watson ha avuto il suo» sono altrettanto duro, ma mi viene spontaneo corazzarmi nella rabbia, piuttosto che ammettere la delusione.

«Cosa averi dovuto dirti? Vado a fingere la mia morte, ti amo, compra il caffè?» Sorride «E no, non l'ha avuto. È per questo che si è sposato.»

Ti amo? Nonostante tutto sorrido anche io. James è tornato. La bestia nel mio stomaco, da lungo tempo assopita, si risveglia e si stiracchia felice, facendo le fusa. «Ti amo?»

Pare essere lievemente imbarazzato, e abbassa lo sguardo «Non sono mai stato capace a dirtelo, ma credo di avertelo dimostrato...» si avvicina piano, come se avesse timore che io lo possa colpire. Poi, ad un soffio dalle mie labbra, sussurra «Did you miss me?*».

Un soffio, a volte, è un'eternità, che colmo con un bacio su quelle labbra morbide e leggermente screpolate, una mano sul suo fianco, a stringerlo.

Per non lasciare che se ne vada via ancora.

«Come fai a sapere che nemmeno io abbia trovato un compagno?» domando, ancora sospeso sulla sue labbra, ricordando il sangue caldo di Peter scorrermi tra le dita. Lui non è mai stato un compagno. Era solo un corpo morto come tanti altri.

«Credi davvero che io abbia mai smesso di osservarti?» risponde sussurrando, e sentendogli la voce lievemente arrochita lo osservo. James, il mio James, ha gli occhi lucidi. Capisco che questi tre anni non devono essere stati facili nemmeno per lui, e mi chiedo quante nuove cicatrici, quanti nuovi ricordi, quante nuove vite abbia avuto. E in tutto questo tempo ha continuato a guardarmi, a seguirmi.

Quelle lacrime, che non lascerà mai andare, sono le sue scuse. Perché lui ha visto e sentito ogni singolo attimo del mio dolore come se fosse il suo.

Gli sorrido ironicamente «Questo suona vagamente come un comportamento da psicopatico.»

«Io sono uno psicopatico» dice, appoggiando il viso alla mia spalla. Dio, quanto mi è mancato il calore del suo corpo. Dio, quanto mi è mancato lui! «Esattamente come tu sei un killer. Suppongo sia per questo che ti amo così tanto.»

Mi si blocca il respiro in gola. Lo ha ridetto. E senza esitazioni, senza mentire. Sospiro, stringendomelo addosso.

«Devo ancora abituarmi a sentirtelo dire...»

«Non devi farci l'abitudine. Forse te lo dirò una volta ogni tre anni.» lo sento sorridere contro il mio collo.

Rido, senza rispondere. Mi limito a respirare il suo profumo ancora per un po', prima di trovare la forza di parlare.

«Mi sei mancato, James»

«Anche tu Sebastian, anche tu.» dice. La sua mano affusolata è sulla mia nuca e sfiora i capelli, delicata.

«Vattene così un'altra volta, e ti giuro che di te non resterà nemmeno una goccia di sangue sul pavimento.» lo ammonisco, la voce nuovamente dura.

James ride, baciandomi ancora.

Il sole entra impetuoso dalla finestra, sorgendo. Ci illumina, soli in una pozza di luce, lontani dal resto del mondo.

E, in quel preciso istante, nel bacio di James, io inizio ad esistere.**


 

You saw my pain, washed out in the rain
Broken glass, saw the blood run from my veins
But you saw no fault no crack in my heart
And you kneel beside my hope torn apart
But the ghosts that we knew will flicker from you
And we'll live a long life
So give me hope in the darkness that I will see the light
Cause oh that gave me such a fright
But I will hold as long as you like
Just promise me we'll be alright.


 


 


 


 


 


 


 

Noticine piccoline piccoline:

*Per i non anglofoni, o coloro che seguono la serie in italiano: “Ti sono mancato?”

** Qui Seb fa riferimento al primo capitolo, dove afferma di non aver mai iniziato ad esistere (scusate la nota abbastanza inutile, ma ci tenevo a farvelo notare) -Danae


 

Qui trovate tutte le canzoni anche solo citate nella storia, in ordine di apparizione (amate tanto Danae, che ci ha perso novant'anni per ricontrollare la storia dall'inizio e trovarle):

Arrival of the birds – The Cinematic Orchestra

Downtown Train – Tom Waits

Staying alive – Bee Gees

Ol' '55 – Tom Waits

I hope I don't fall in love with you – Tom Waits

Goodbye my lover – James Blunt

Shattered – Trading Yesterday

Ghosts that we knew – Mumford and sons


 


 


 

NDA: Ed eccoci qui! Siamo ad un punto, non è così? La storia è finita.

Beh speriamo che vi sia piaciuta tanto quanto a noi è piaciuto scriverla!

*Dan e seeyouthen fanno ciao con la manina*

Solo un'ultima cosa. Credo sia giusto ringraziare chi ci ha seguito, ricordato, e soprattutto chi ha commentato, quindi grazie!


 


 


 

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