The Afterglow

di arya_stranger
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quando niente ha un senso ***
Capitolo 2: *** Qualche spiegazione ***
Capitolo 3: *** Ricominciare a vivere ***
Capitolo 4: *** Il primo passo verso la salvezza ***
Capitolo 5: *** La soluzione è guardare il cielo ***
Capitolo 6: *** Andare avanti ***
Capitolo 7: *** Quello che mai si penserebbe ***
Capitolo 8: *** Una cioccolata calda e un amico ***
Capitolo 9: *** A volte quello che distrugge è anche ciò che risana ***
Capitolo 10: *** Quando le lacrime si confondono con la pioggia ***
Capitolo 11: *** La consapevolezza di sapere che qualcosa sta cambiando ***
Capitolo 12: *** Non sono pazzo, penso solo troppo ***
Capitolo 13: *** Come il mare d’inverno ***
Capitolo 14: *** Ricordare è più doloroso che vivere ***
Capitolo 15: *** Come una favola senza lieto fine ***
Capitolo 16: *** Il ragazzo dal sorriso triste ***
Capitolo 17: *** Padre e figlio ***
Capitolo 18: *** La felicità può nascere solo dalla tristezza ***
Capitolo 19: *** La promessa di una notte ***
Capitolo 20: *** L’ultimo bagliore del sole ***



Capitolo 1
*** Quando niente ha un senso ***



 


1

Quando niente ha un senso





 
Non capivo deve fossi.
Cercai di aprire gli occhi, lentamente; ma una luce accecante mi colpì e li richiusi subito.
Non mi ricordavo nulla, né dove fossi, né tanto meno come ci fossi arrivato. La mia testa era come avvolta dalla nebbia, una nebbia fitta che confonde i ricordi e non te li lascia vedere.
Mi resi conto di essere disteso a pancia in giù su qualcosa di terribilmente freddo. La mia guancia destra percepiva una superfice liscia, molto liscia, come di marmo. Toccai con una mano quello che pensavo fosse il pavimento, ma non vi trovai nulla sopra.
Cercai di schiudere di nuovo gli occhi, gradualmente. La luce era davvero forte, e non vedevo bene, ma dopo qualche secondo riuscii a mettere a fuoco quello che era effettivamente un pavimento.
Mi girai su un fianco, e poi mi misi seduto.
Non sembrava un luogo reale, non aveva senso quel posto.
Prima di tutto non vedevo le pareti, e non esistono delle stanze senza pareti, giusto? Cioè, forse sì, ma non nel senso che intendevo io. Quella era una stanza a tutti gli effetti, ma non se ne vedeva la fine. Era come immensa ed infinita.
Seconda cosa assurda: era tutto completamente e fastidiosamente bianco. Se guardavo in alto era tutto bianco, a destra uguale, a sinistra pure, ed anche quel pavimento duro e freddo era di un bianco abbacinante, quel bianco che fa male agli occhi.
Terza cosa: non esistevano i rumori. Battei la mano sul pavimento, ma il mio gesto non produsse alcun suono. Non riuscivo nemmeno a sentire il lieve fruscio del mio respiro. Le opzioni erano due: o ero diventato sordo (e all’inizio lo pensai veramente), o stavo sognando.
Mi scostai una ciocca di capelli dalla fronte, e incrociai le gambe. Provai a darmi un pizzicotto, ma non mi svegliai. Allora mi diedi uno schiaffo (che ovviamente non fece rumore), ma nemmeno quello sembrò funzionare.
Dove ero finito?!
Mi alzai di scatto e cominciai a correre. Dopo un po’ capii che la mia corse era assolutamente inutile. Non sarei arrivato da nessuna parte, semplicemente perché quel posto era ‘da nessuna parte’.
Lo so che è difficile concepire un posto che non c’è, ma c’è, ma credetemi, era così. Non c’era un’altra soluzione. Quel luogo sfidava le leggi della fisica e l’unica possibilità era che non esistesse veramente.
Assimilai questa informazione come un dato di fatto. Sono sempre stato bravo ad auto-convincermi delle cose. Certe volte torna utile avere una dote del genere. Per esempio, se sei in una situazione che ti terrorizza, tu ti ripeti che non hai paura e se sei bravo come me a persuaderti, allora quella situazione non ti spaventerà più, semplicemente perché tu hai deciso che non ne devi aver paura, e quindi non ne avrai.
Per me è facilissimo auto-convincermi, riesco a controllare le mie emozioni e le mie azioni grazie a questa capacità. Non so se altre persone siano in grado di farlo, ma alla fine chi se ne importa se altri lo sanno fare oppure no? Lo so fare io, e questo è quello che conta, no? Certo che è questo che conta. Se lo decido sarà così, capito come funziona?
Alla fine caddi per terra, stanco dopo una corsa infruttuosa, che non mi aveva portato da nessuna parte se non in un luogo del tutto identico a quello di prima.
Ormai mi ero completamente abituato alla luce accecante che proveniva da chissà dove, non che la cosa mi interessasse, a quel punto. In realtà non mi importava proprio di niente, volevo solo svegliarmi nel mio letto, sotto un piumino morbido.
Ripresi fiato dalla corsa. “Okay, e ora? E ora un cazzo!” pensai.  Capii solo in quel momento che in quel posto molto probabilmente non esisteva nemmeno il tempo. In effetti aveva una sua logica: se un certo luogo non ha un dove, come fa ad avere un quando? Quindi la parola ora, non aveva significato, non lì almeno.
Perfetto, almeno due cose erano chiare. Non mi servivano a molto per andarmene da lì, ma più cose sai e più facilmente puoi tenere la situazione sotto controllo, o almeno è così che io volevo che fosse.
Cominciai a fissarmi le unghie, non che fossero molto interessanti; certo lo erano più di quel bianco abbacinante. Contai tutte quelle macchioline bianche che si formano sulle unghie. Sette. Bene.
Dopo aver esaminato ogni dettaglio esaminabile sulle mie unghie iniziai a mangiarle. Forse non mi piaceva mangiarmi le unghie, ma mi stavo davvero annoiando, e quello mi sembrò un passatempo più che lecito.
Continuai a tormentare le mie povere unghie finché non cominciai a vedere la carne viva, faceva anche male. Ma si può essere così stupidi? Mi dovevo per forza fare male per passare il tempo?
Mi resi conto che anche la parola passatempo non aveva alcun senso in un luogo dove il tempo non esisteva. Cavolo, lì tantissime parole non avevano una logica. Mi misi a fare un elenco mentale di tutte quelle parole.
La prima che mi venne in mente fu orologio. Magari lì gli orologi nemmeno funzionavano, oppure si bloccavano. Peccato che non avessi uno con me. Sarebbe stato divertente vedere cosa succedeva. Seconda parola: luogo. Come ho già detto, quel posto, non c’era, anche se io ero lì.
Destra e sinistra. Se non esisteva uno spazio definito, tutti i riferimenti geografici, come anche i punti cardinali, non esistevano.
Poi, la classica domanda “come hai trascorso la giornata?” sarebbe stata ridicola perché non avresti avuto niente da trascorrere.
Sarei potuto andare avanti per sempre. Ecco un'altra parola: sempre. Non aveva senso. Se non c’è il tempo, come fa ad esserci un sempre? Non potrebbe nemmeno esserci un mai.
Mi distesi su quel pavimento freddo, fissai per un po’ un niente che non stava da nessuna parte, quando un’immagine mi si affacciò nella mente. Il che era strano perché da quando mi ero svegliato la nebbia non era ancora andata via.
Vidi il volto di un ragazzo. Aveva gli occhi nocciola, e i capelli scuri gli ricadevano scomposti ai lati del viso e sulla fronte. Nell’immagine che avevo in testa sorrideva, ma non era un sorriso allegro, era un sorriso triste, come se quel ragazzo fosse stato alla ricerca di un motivo per piegare gli angoli della bocca verso l’altro ma non l’avesse trovato.
La cosa mi lasciò piuttosto turbato. Non riuscivo a capire se conoscessi il ragazzo, non ero sicuro di averlo mai visto prima. Intendo prima di tutto questo, perché lì (si fa per dire) la parola prima non avrebbe avuto senso.
Mi concentrai cercando di ricordare cosa fosse successo. Cercai in tutti i recessi della mia mente, mi sforzai di far riaffiorare anche un solo piccolo ricordo, anche insignificante, ma niente, non mi ricordavo assolutamente nulla. Nella mia testa c’era solo quello che era successo dal mio risveglio e il viso del ragazzo, nient’altro.
Okay, la cosa cominciava davvero a darmi sui nervi. Non ricordare niente mi dava uno strano senso di disagio, non so come spiegarlo, ma mettetevi nei miei panni. Come vi sentireste a svegliarvi in un “luogo” assurdo che molto probabilmente, ma sicuramente, non esiste, e non ricordarvi assolutamente niente?
Ve lo dico io come vi sentireste: persi e confusi, fottutamente persi e confusi, ve lo garantisco.
Cosa ci facevo ancora lì? Perché non mi svegliavo e basta?
Oltre ad essere perso e confuso ero anche frustrato. Forse l’immagine del ragazzo nella mia mente non aveva fatto altro che confondermi ancora di più le idee. Almeno avevo qualcosa a cui pensare, anche se pensare tutto il “tempo” alla faccia di una persona di cui non ricordi niente può annoiare.
Mi rialzai in piedi. Per quello che avevo da fare sarei anche potuto restare seduto, ma mi rendeva più nervoso di quello che non fossi già.
Mi misi le mani in tasca, con le dita che ancora mi facevano male dopo essermi mangiato le unghie fino a farle sanguinare. Perfetto, quindi indossavo dei jeans? Abbassai gli occhi per guardarmi le gambe. Sì, indossavo dei jeans un po’ stinti sulle ginocchia. Ai piedi avevo un paio di scarpe da ginnastica bianche che di bianco avevano ormai poco, e infine indossavo una felpa nera, con il cappuccio e una grande tasca al centro.
Non so perché, ma prima non mi ero reso conto di come fossi vestito, non che m’importasse.
Quindi avevo le mani nelle tasche dei jeans e sapevo come fossi vestito.
Se ci fosse stato un qualcosa (qualsiasi cosa) che spezzasse tutto quel bianco, sarebbe stato già un passo avanti per evitare la mia quasi certa pazzia. Che ne so… magari anche solo la mia ombra? Ah, perché il concetto di ombra lì non esisteva, proprio per niente. Ciò però aveva senso. Infatti per generare l’ombra si deve avere una precisa fonte di luce, no? Ma lì, anche se era tutto dannatamente luminoso, non c’era alcuna sorgente luminosa! Lo so che non ha senso, ma ricordate? Lì niente aveva un senso logico.
Oh, avevo trovato un’altra cosa di cui essere certi. Avevo fame, molta fame. Tutto quel bianco e quella luminosità insensata faceva venire fame.
Ricapitolando: non ricordavo nulla, se non il viso di un ragazzo sconosciuto, ero “lì” dove nulla aveva senso, dove era tutto bianco e luminoso (eccetto me), dove non esistevano suoni e tutto procedeva contro le leggi della fisica, dove non c’era né un “dove” o un “quando”, avevo fame, e per terra era troppo freddo per dormire. Inoltre ero confuso, nervoso, arrabbiato, mi sentivo in idiota e se vogliamo dirla tutta avevo anche un po’ di paura.

 
 
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Capitolo 2
*** Qualche spiegazione ***






2

Qualche spiegazione





 
Fu un sussurro, un mormorio appena percettibile. Ma quando non senti nessun rumore da tanto, anche il più lieve dei respiri sembra una bomba che scoppia.
Ero per terra, su quel pavimento bianco e mi alzai di scatto. Ebbi l’impulso di gridare qualcosa, del tipo “chi è?!”. Ma forse non sarebbe servito a nulla, anche se, a pensarci bene, ancora non avevo provato a parlare.
Ancora un volta sentii quella voce appena accennata. Non riuscivo a capire cosa dicesse e nemmeno da dove provenisse. Beh, considerando che quel posto c’era, ma non c’era, la voce doveva necessariamente provenire da qualche parte, ma da nessuna.
Un fruscio come di un abito lungo. Quindi c’era una donna? Probabile, ma non certo.
Rimasi immobile, e poi presi la mia decisione. Era vero che ancora non avevo provato a parlare, ma non era detto che non lo potessi fare. Aprii piano la bocca, cercando una frase da pronunciare.
«C’è qualcuno?»
Eliminai velocemente dalla lista delle cose assurde che accadevano in quel posto il fatto che non esistevano i rumori.
Ovviamente non ebbi nessuna risposta. Ritentai. «Ehi!» gridai più forte. «C’è nessuno?»
Nessuna risposta, ma risentii il fruscio di quello che a quel punto fui certo fosse davvero un abito lungo da donna.
Mi stavo davvero innervosendo. Io sapevo che lì c’era qualcuno, ma perché non voleva rispondere? Forse non poteva parlare? O forse mi ero immaginato tutto? In ogni caso la mia voce non era di certo frutto della mia immaginazione.
«So che c’è qualcuno! Rispondimi! Dimmi chi sei!» Continuai ad alzare la voce. «Fatti vedere! Ho bisogno di parlare con qualcuno. Dove sono? Perché sono qui?!»
La mia voce si faceva via via più alta e disperata, perché ero disperato.
«Calmati, è tutto apposto.»
Mi voltai. Una donna era in piedi di fronte a me. Come avevo immaginato indossava un abito lungo, rosso. La pelle era bianca come tutto in quel luogo. Sembrava quasi una bambola, con le labbra vermiglie. I capelli neri e lucidi le ricadevano sulle spalle e sul viso. Ma la cosa che più mi colpì furono gli occhi. Erano assolutamente inquietanti e ne ebbi paura.
Quegli occhi erano completamente neri. Non neri nel senso che aveva gli occhi molto scuri. No, erano tutti neri, non solo la pupilla e l’iride.
Feci un passo indietro.
«Non devi aver paura di me» mi disse. Okay, questa era una richiesta un po’ difficile. «Non sono qui per farti del male, ma per aiutarti.»
«Dove sono?» domandai con voce instabile.
«Ti sei già risposto a questa domanda.» Quindi ero in quel posto che in realtà non esisteva. Un po’ come l’Isola-che-non-c’è.
La fissai con aria interrogativa. Come faceva a sapere che io in realtà avevo capito dove mi trovassi?
La donna sorrise, mostrando tutti i suoi denti immacolati. «Non è così difficile da capire.»
«Cosa?» feci titubante.
«Che leggo nel pensiero.» Certo, era ovvio.
«Scusa, ma tu chi sei?»
La donna si avvicinò a me. «Non ho un nome.»
«Tutti hanno un nome» ribattei.
«Io no, semplicemente perché non esisto realmente» mi spiegò. «Come fai a dare un nome ad una cosa che non è reale?» Questa era una bella domanda.
«Ma non ha senso.» Le mie idee erano ancora più offuscate.
«Okay» disse calma. «Facciamo un gioco. Tu mi fai delle domande, e se posso rispondere, lo farò.»
Mi sembrava una cosa più che ragionevole, dopo tutto meritavo della spiegazioni.
«Sono in un sogno?» Prima domanda che mi tormentava da troppo.
«No, non è un sogno.»
«Va bene, non è un sogno» sospirai. Ma forse se non era un sogno non ero così sicuro di voler sapere cosa fosse.
Passai alla seconda domanda. «Perché è tutto bianco?»
«Bianco?» chiese lei stupita.
Annuii. «Sì, ho chiesto perché è tutto bianco.»
Lei mi guardò. «Non so perché tu vedi tutto bianco, ma di sicuro una ragione c’è. Prossima domanda?»
Ma che razza di risposata era? Lei non vedeva tutto quel bianco? Decisi di lasciar perdere e di passare oltre.
«Perché tu sei qui?
«Ho già risposto. Sono qui per aiutarti.»
«Bene, allora aiutami. Aiutami a ricordare, perché io non ricordo niente.»
La donna mi sorrise di nuovo e si sedette per terra, invitandomi ad imitarla.
Anche se era un soggetto inquietante mi stava simpatica, era gentile, e sorrideva, anche se non c’era un vero motivo. Mi sentii un po’ più calmo e rilassato.
«Io non posso aiutarti a ricordare. Posso solo aiutarti a capire come fare.»
«E come? Io voglio ricordare.»
«Va bene» acconsentì. «Per ora ricorderai solo le cose più semplici, ma col tempo ricorderai tutto. Devi solo avere pazienza.» Annuii.
«Molto bene. Chiudi gli occhi.»
Feci ciò che mi diceva, anche se mi sentivo un po’ in soggezione. Chiudendo gli occhi non potevo avevo il controllo su ciò che potenzialmente poteva accadere. Tuttavia, avevo il disperato bisogno di ricordare.
«Adesso ascoltami bene. Dimmi come ti chiami.»
Rimasi stupito da quella domanda. Non aveva senso. Come mi chiamavo? Mi chiamavo Gerard. Eppure in tutto il tempo (si fa per dire) che ero stato lì, non ci avevo mai pensato.
«Io mi chiamo Gerard.»
La donna rise compiaciuta. «Vedi come è semplice?» constatò. «Eppure ancora non ci avevi pensato!»
«Gerard, dimmi quale è il tuo cognome.»
Way, il mio cognome è questo. «Way, Gerard Way.”
«Perfetto!» esclamò. «Ora puoi aprire gli occhi.»
Mi sentivo davvero meglio. Come mi ero potuto scordare il mio nome?
«Per favore, continuiamo» la supplicai.
«Non ce n’è bisogno. Ora hai capito come fare a ricordare le cose, non è vero?»
Sì, in realtà avevo capito come funzionava. Bastava farsi una domanda e concentrarsi solo su quella.
«I ricordi più complessi ancora non puoi elaborarli, ma vedrai che col tempo ci riuscirai.»
«Grazie» mormorai.
«Non mi devi ringraziare, io non ho fatto niente. Comunque se vuoi puoi continuare con le domande.»
«Oh, sì.» Pensai un attimo. «Fino ad ora non ricordavo niente, tranne una cosa.» Feci una pausa. «Nella mia mente c’è l’immagine di un ragazzo. Chi è?»
Quella era la domanda che più in assoluto mi premeva, ma non l’avevo formulata prima. Non saprei dire il motivo, ma avevo paura della risposta.
La donna mi rivolse un’occhiata che non riuscii a decifrare. «Questo lo capirai.»
«Ma sta bene?» Non so perché, ma improvvisamente mi preoccupavo per qualcuno che nemmeno conoscevo.
«Sì, certo. Sta bene.»
Feci qualcosa che sembrava un sospiro di sollievo.
«Ma perché sei qui? Sì, ho capito per aiutarmi, ma ora che ho capito come fare a ricordare, deve esserci un altro motivo che giustifica la tua presenza.» Non era nelle mie intenzioni alzare la voce, ma lo feci comunque.
«In realtà non hai capito proprio tutto del posto in cui ci troviamo.»
Aveva assolutamente ignorato la mia domanda. «Cosa vuoi dire?»
«Non hai capito la funzione di questo posto.»
«E che funzione avrebbe?»
«Ha il compito di ospitare le anime, prima di trovare loro un posto.»
La mia bocca si seccò in un istante, le mie sinapsi smisero di funzionare per qualche secondo, e il mio cuore molto probabilmente perse un battito. Anche se forse le anime non hanno un cuore.
Okay, anima. In che senso anima?
«Nel senso che sei morto, Gerard.»
Non riuscivo a parlare, era tutto ritornato come prima. Non sentivo nessun rumore, vedevo tutto bianco, e la mia mente era vuota, completamente annebbiata.
Mi sentii scuotere per un braccio, ritornai alla “realtà”.
«Gerard? Tutto apposto?»
«Tutto apposto?» Mi alzai di scatto, decisamente arrabbiato. «Mi ritrovo qui, che poi dire ‘qui’ non ha senso. Non mi ricordo niente, e ora arrivi tu che mi dici che qui si accolgono le anime! Fammi capire: sarei davvero morto?!»
Ero davvero infuriato. Non poteva annunciarmi che ero morto in quel modo!
«Gerard calmati!»
«E invece non mi calmo! Perché sono morto? Perché?!» Stavo gridando.
«Io non ti posso dire perché sei morto, ma se mi ascoltassi forse capiresti la vera ragione per cui sei qui!»
Avrei ascoltato, ma questo non voleva dire che mi sarei calmato. Mi sedetti di nuovo, in silenzio, per darle la possibilità di parlare.
«Gerard, sì, è vero, sei morto, non te lo posso negare, ma…»
La interruppi bruscamente. «Ma, cosa?»
«Ma hanno deciso di darti una seconda possibilità.»
Una seconda possibilità? Non sapevo che ai morti si potesse dare una “seconda possibilità”. E poi che genere di possibilità?
Le rivolsi uno sguardo che racchiudeva tutte le mie domande, e possibilmente anche altre che ancora non mi erano venute in mente.
«Non è facile da spiegare,» mi disse. «Diciamo che hai ottenuto una seconda occasione, e devi semplicemente decidere se ne vuoi coglierla o no.»
Cercai di formulare la domanda nel modo più quiete. «Chi mi avrebbe dato questa seconda occasione? E perché me l’ha data?»
«Questa seconda occasione ti è stata data da chi è in grado di decidere sulla tua vita e su quella di tutti gli esseri viventi. La ragione per cui ti è stata data è perché, secondo chi te l’ha concessa, la tua vita sulla Terra non doveva ancora terminare.»
«Ma se questa occasione mi è stata data da chi può decidere sulla mia vita, non poteva subito evitare che io morissi?»
«In realtà è più complicato di come la stai mettendo tu.» Abbassò lo sguardo. «Ci sono dei casi in cui non si può fare niente e la morte di qualcuno è inevitabile.»
«Ho capito.»
Mi fermai un attimo a pensare. Il fatto che qualcuno potesse decidere cosa fare della mia vita mi dava davvero fastidio. Non aveva senso, la mia vita mi apparteneva, e allora perché qualcun altro era libero di disporne come voleva? Non mi sembrava una cosa giusta. La gente che muore ogni giorno è tantissima, certo, ma ci sono delle volte in cui proprio non riesci a non arrabbiarti. Per esempio, non puoi lasciare una madre e un padre senza un figlio, magari piccolo. Chi sarebbe in grado di fare una cosa del genere? Oppure lasciare un figlio senza un genitore o addirittura senza nessuno dei due. Forse in questo caso è anche peggio. Come fa a cavarsela un bambino piccolo senza i suoi genitori?
La donna mi sorrise nuovamente. «Allora, vuoi accettare questa seconda opportunità o no?»
Certo che volevo, ma che razza di domanda era? «Sì, certo.»
«Perfetto, mi aspettavo questa risposta.»
«Ma aspetta, se accetto ritornerò in vita, giusto? Come?»
«Certo, se accetti la seconda occasione tornerai in vita.»
Okay, la cosa non mi tornava. Cioè, io ero morto e così da un momento all’altro tornavo vivo e vegeto?
«Ma lo sai che sei furbo?» Ovviamente aveva sentito tutto il mio ragionamento.
«Sì, grazie. Lo so» dissi. «E allora? A che condizione posso tornare?»
«Ti hanno concesso di tornare, se porterai a termine una specie di…» ci pensò un attimo. «Chiamiamola missione.»
Mi toccava anche fare l’eroe. «E sarebbe?»
«Avrai un periodo di prova sulla Terra. Questo periodo ha due funzioni. La prima è quella di recuperare completamente la memoria, la seconda è appunto, quella della missione.» Sì inumidì le labbra e poi riprese a parlare. «Ti saranno affidate due persone. Avrai due mesi di tempo con ciascuna. Queste persone hanno entrambe bisogno d’aiuto. Tu dovrai aiutale ad andare avanti. Tu, Gerard, le devi salvare.»
«Salvarle?» Ero rimasto impietrito. Come potevo salvare due persone con un tempo di soli due mesi per ciascuna? Era impossibile, e io non ero nemmeno la persona più indicata per portare a compimento una missione del genere.
«Se ti è stato affidato questo compito significa che sei in grado di portarlo a termine. Non ti devi sottovalutare in questo modo!»
Non mi stavo sottovalutando, ero solo consapevole del fatto che molto probabilmente, se non sicuramente, non ci sarei riuscito. Era un dato di fatto. Non sarei di sicuro stato in grado di aiutare delle persone ad uscire dai loro problemi e a ricominciare a vivere. Prima di tutto perché nemmeno io ero completamente vivo. Secondo, ero troppo confuso, e non ricordavo nulla della mia vita passata. E terzo, come ho già detto, ma lo ripeto, io non ero il tipo di persona adatto ad aiutare gli altri. Non che non lo volessi fare, semplicemente non potevo. Okay, è complicato da spiegare, ma in ogni caso mi dovete credere.
La donna mi guardava. Ero più che sicuro che avesse ascoltato il mio discorso “interiore”. Forse vi sembrerà strano, ma il fatto che lei potesse sentire quello che pensavo non mi dava affatto fastidio. Probabilmente lo darebbe a tutti, ma a me la cosa era indifferente. Non so come mai, ma davvero, era così.
«Non devi dirmi subito se accetti o no» mi informò. «Hai tutto il tempo che ti serve. Quando avrai preso una decisione, devi solo chiamarmi.»
«Ma se non accetto, e in ogni caso se fallisco, sarò morto a quel punto.» Lei annuì. «E resterò qui per sempre?»
«No, Gerard» disse il mio nome con estrema gentilezza. «A quel punto verrai giudicato e ti verrà scelto un altro posto. Qui si accolgono solo le anime di passaggio.»
Abbassai la testa sconsolato. Quindi in pratica dovevo scegliere se andare all’Inferno in quel momento o quattro mesi dopo. Wow, bella prospettiva, sempre se l’Inferno esisteva. Perché se c’era davvero io ci sarei andato. Non ricordavo nulla della mia vita, ma chi è stato così bravo da andare in Paradiso? Secondo me nessuno, quindi…
La donna mi prese il mento fra le sue mani e mi alzò la testa in modo che la guardassi negli occhi.
«Hai bisogno di un po’ di tempo per pensare.» Non era una domanda, era semplicemente un’affermazione. «Non dovrei, ma se vuoi posso farti apparire qui quello che vuoi, così ti rilassi un po’ mentre pensi.»
Era una bella idea. Mi ritrovai a pensare a quello che volevo che lei facesse comparire. Chiusi gli occhi pensando a quello che mi piaceva fare. Mi concentrai il più possibile, e mi feci una domanda: “cosa mi piace fare?”. Certo, a me piaceva disegnare.
«Un album da disegno e qualche matita?» le chiesi. «E magari anche un letto e una scrivania già che ci siamo. Per favore.»
La donna rise e mi fece cenno di voltarmi. Dietro di me c’era un bel letto piuttosto grande coperto da un piumino blu scuro, e con testata in ferro battuto. Accanto, una grande scrivania di legno con un blocco da disegno e un portapenne pieno di matite.
Le sorrisi. «Grazie.»
«Di niente.»
«Allora quando ho deciso devo solo chiamarti.»
«Giusto» confermò.
«Ma se non hai un nome come faccio?»
«Giusto anche questo» concordò. «Perché non me lo dai tu un nome?»
«Io?» Io dovevo darle un nome?
«Sì, dai» replicò entusiasta. «Pensa a qualche nome e scegli quello che più ti piace. Non è difficile.»
Richiusi gli occhi per l’ennesima volta. E mi domandai quale fosse un nome da donna che mi piaceva, o che comunque mi ricordassi.
«Helena» affermai soddisfatto. «Ti piace?» In realtà lo avevo deciso perché mi ricordava qualcosa, ma era comunque un bel nome.
«Perfetto! Quando avrai deciso non dovrai altro che pronunciare il mio nome.»
«Va bene» annuii.
«Ci vediamo, Gerard!»
«Alla prossima Helena.»
Non feci in tempo a salutarla che era già andata via. In realtà era letteralmente sparita, ma ormai le cose strane non mi facevano più effetto. Mi ci stavo abituando.
Comunque il letto mi attirava troppo. Mi tolsi le scarpe e mi ci infilai completamente vestito.
Tuttavia avevo deciso di farmi qualche altra domanda prima di dormire.
Prima di tutto mi ripetei le cose su di me che già sapevo ad alta voce.
«Sono Gerard Way e mi piace disegnare.»
Proseguii con altre domande “Quanti anni ho?” Non che mi servisse a molto, ma ero curioso. Gerard ha 19 anni. Ero morto così giovane? Poco male, quel che è fatto è fatto.
“Cosa mi piace oltre a disegnare?” A Gerard piacciono i fumetti. Oh, sì, i fumetti, ora ricordavo.
Pensai ad un’altra domanda, e me ne venne in mente una. In realtà non sapevo se fosse il caso o no di formularmela, prima di tutto perché, come aveva detto Helena, i ricordi più complicati sarebbero venuti in superfice col tempo, non subito, e poi avevo come paura della risposta. Inoltre, quando l’avevo chiesto a lei, non aveva voluto rispondere. Però ero curioso, troppo curioso. Era la prima cosa che mi era venuta in mente in quel posto, come potevo non esserlo?
Ci provai. Presi un profondo respiro e espressi la domanda. “Chi è il ragazzo che ho nella mente da quando sono arrivato qua?”
Aspettai una specie di illuminazione come era successo fino a quel momento, ma niente, non riuscivo a far riemergere il ricordo che era gli era collegato. Più ci pensavo e mi concentravo, e più sentivo che la risposta si allontanava. Avevo capito che era inutile continuare a pensarci.
Trovai una posizione comoda sotto quelle morbide coperte, e provai a non pensare a nulla per un po’, in modo da addormentarmi più velocemente. Non pensare a nulla quando hai così pochi ricordi potrebbe apparire semplice. Ma è tutto il contrario. Questa cosa mi rendeva così nervoso e mi portava a pensare troppo. Provai allora a concentrarmi su un unico ricordo. Il viso del ragazzo.

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Capitolo 3
*** Ricominciare a vivere ***






3

Ricominciare a vivere
 




 
Forse quella dormita mi aveva davvero schiarito le idee. Non solo avevo preso una decisione, ma ero più che convinto a portare la missione a termine. Non perché così facendo sarei potuto tornare sulla Terra definitivamente, ma anche perché avevo capito che, se mi avevano dato una seconda occasione, voleva dire che molto probabilmente la breve vita che avevo trascorso, l’avevo vissuta male.
Pensateci, se avessi passato diciannove anni intensamente e raggiungendo almeno alcuni degli obiettivi che mi ero preposto, non avrebbe avuto molto senso concedermi una seconda opportunità, vi pare?
Almeno io la pensavo così. Semplicemente non avevo fatto un granché ed ero morto troppo giovane. Quella era la mia conclusione su tutto ciò che era accaduto.
Poi, come aveva detto Helena, se non mi avessero ritenuto capace non mi avrebbero mai affidato un compito del genere. Se non fossi stato idoneo probabilmente avrei solo rischiato di peggiorare le cose. Insomma, dovevo aiutare due persone a superare i loro problemi (sperando non fossero così gravi), un minimo di competenza era necessaria!
Comunque, io avevo preso la mia scelta. Ero più che convinto ad aiutare quelle persone e non avrei fallito, fosse costato tutto quello che avevo, anche se a dire la verità non è che avessi molto da perdere. Ero già morto, quindi…


Uscire da quel letto fu una specie di tortura. Era davvero comodo, ma se volevo cominciare subito questa “missione” dovevo alzarmi. In realtà non mi piaceva chiamarla con quell’appellativo. Le missioni vengono compiute dagli eroi, e io di certo non lo ero. Ma non avevo trovato un altro nome per indicarla e finché non ne avessi trovato uno che mi piacesse di più, l’avrei chiamata così.
Mi infilai le scarpe e feci scrocchiare il collo. Il crac che produsse mi svegliò del tutto e chiamai Helena.
«Helena!» gridai. «Ho deciso.»
«Oh, molto bene.»
Come l’altra volta era praticamente apparsa dal nulla, dietro di me.
«Ho deciso» le ripetei.
«Sono felice» esclamò soddisfatta. «Allora, prima di andare è meglio che ti spieghi.»
Lei leggeva nella mente, quindi sapeva già cosa avevo scelto nel momento in cui le avevo detto che avevo preso una decisione.
Ci sedemmo sul letto che aveva fatto apparire la prima volta in cui ci eravamo incontrati.
«Sono contenta che tu abbia deciso di provare» mi disse. «Sono più che convinta che ce la farai.»
«Lo spero» sussurrai abbassando la testa.
«Certo che ce la farai, Gerard. Hai forse dei dubbi?»
«Preferisco non sopravvalutarmi.»
Mi sorrise e i suoi occhi completamente neri sembrarono brillare. Ora mi inquietavano un po’ meno, ma erano comunque molto strani.
Cominciò a parlare. «Come ti avevo già detto, dovrai aiutare due persone.» Fece una piccola pausa. «Quindi, avrai due mesi per ciascuna. Lo so che sembrano pochi e in realtà lo sono. Due mesi sono un tempo esiguo per conoscere qualcuno e aiutarlo davvero, ma è importante che tu non perda nemmeno un minuto del tempo che hai a disposizione.»
Annuii. «Certo.»
«Sulla Terra apparirai come una persona normale, avrai il tuo aspetto.»
La interruppi un momento. «Scusa, ma durante questo periodo che passerò sulla Terra, sarò vivo, giusto?»
«Sì, certo. E se avrai successo la cosa sarà definitiva.»
«Allora avrò bisogno di mangiare, avrò bisogno di una casa…»
Non avevo ancora pensato a questo aspetto della faccenda, forse perché lo avevo dato per scontato. Eppure non lo era affatto.
«Di questo non ti devi preoccupare. Sulla Terra abbiamo delle persone che fanno da tramite in questi casi, anche se ultimamente non ce ne sono stati molti. Comunque, quando arriverai sulla Terra ci sarà qualcuno ad accoglierti e ti spiegherà tutto. Non so ancora a chi ti hanno affidato, ma sta sicuro che ti darà una mano in tutto quello di cui avrai bisogno.»
«Va bene.»
«Dicevo… Sì, quindi» sospirò, «sulla Terra sarai accolto, e ti verrà indicata la persona da aiutare. Dopo lo scadere dei due mesi, se avrai avuto successo, potrai passare alla persona dopo, altrimenti la missione finirà, e sarai giudicato.»
«Bene, ho capito.» Sospirai. «Quando posso partire?»
«Quando vuoi tu. Ho il compito di fornirti tutte le cose di cui pensi di aver bisogno. Troverai tutto quello di cui necessiti sulla Terra, ma se hai qualche richiesta particolare, io sono qui.»
Volevo andare sulla Terra all’istante, non c’erano discussioni.
«Per adesso penso mi basterà uno zaino per mettere l’album da disegno e le matite che hai fatto comparire l’altra volta.»
Qualche attimo dopo mi passò uno zaino nero ed un astuccio. Andai alla scrivania, di cui alla fine non avevo usufruito, considerando che avevo dormito. Sistemai le matite all’interno dell’astuccio e poi infilai tutto dentro lo zaino.
«Sono pronto, posso andare adesso» annunciai.
«In bocca al lupo, Gerard!»
«Crepi!»

***
 

Mi sentivo la testa in fiamme, come trafitta da cento spade affilate. Cercai di aprire gli occhi, ma il gesto mi provocò una fitta alle tempie.
Che cazzo era successo? Helena mi aveva mandato sulla Terra, oppure qualcosa era andato storto ed ero ancora in mezzo a quel bianco abbacinante?
«Ce la fai ad aprire gli occhi?» Una voce maschile mi giunse da vicino.
Con la testa feci piano segno di no.
«Aspetta.»
Sì, forse ero sulla Terra.
Dopo qualche secondo mi sentii poggiare sulla fronte qualcosa di leggermente bagnato. Il sollievo fu quasi immediato.
«Va meglio?» mi chiese la voce.
In risposta aprii gli occhi. Ero disteso su un letto, e accanto a me, su una sedia, c’era un uomo sulla cinquantina, con i capelli folti, ma bianchi. Indossava una Polo blu scura a maniche corte e dei jeans. Probabilmente era estate.
Riuscii a localizzare dove ci trovassimo. Era una normale camera da letto. C’era una scrivania spaziosa in un angolo sotto ad una finestra, una armadio di fronte al letto su cui ero disteso e un cassettone di fianco al comodino.
Mi alzai un po’ con la schiena per poter parlare con lo sconosciuto. «Sono sulla Terra?» domandai incerto.
«Sì» mi rispose semplicemente.
«Cosa è successo?»
«Non ti preoccupare» mi rassicurò. «I viaggi di questo tipo la prima volta fanno questo effetto.»
Quindi passare da quel posto alla Terra ti faceva perdere i sensi e faceva venire un mal di testa allucinate, che per la cronaca avevo ancora.
L’uomo prese qualcosa dal cassetto del comodino e me lo porse. «Per il mal di testa.»
Misi la pastiglia in bocca, poi bevvi un sorso d’acqua dal bicchiere che l’uomo mi porgeva.
«Allora? Quando incontrerò la persona che devo aiutare? Il tempo è già cominciato oppure no?» domandai impaziente. Non mi importava nemmeno di sapere chi fosse quell’uomo.
«Okay, calmati, Gerard» mi disse. «Prima mi presento. Sono Edward e sono il tramite di cui ti ha parlato Helena.»
Ma Helena non mi aveva detto che lei non aveva nome? Insomma, io le avevo dato quello perché non aveva senso non avere nome. Probabilmente la notizia si era diffusa.
Decisi di non dire niente e di farlo continuare. «No, i due mesi di tempo non sono ancora cominciati. Cominceranno nel momento in cui incontrerai la persona che devi aiutare. Contento?»
«E quando la incontrerò?»
«Dipende.»
«Da cosa?»
«Visto che sei appena tornato, avrai qualche giorno per riprenderti. Poi potrai conoscere chi devi aiutare.»
«Ho capito. E adesso dove siamo esattamente sulla Terra?»
«Siamo a New York.» Certo, New York, non ricordavo se l’avessi mai visitata.
«Tu non leggi nella mente, vero?» Il dubbio mi attraversò la mente, comunque ero quasi sicuro che quell’uomo non ne fosse capace.
«No, sono un umano qualunque, più o meno. Non posso leggere nella mente.»
«Se sei un umano qualunque, perché fai da tramite? Insomma non è una cosa da tutti, se lo andassi a dire a qualcuno come minimo ti metterebbero in manicomio.»
«Infatti non lo vado a dire a nessuno, e comunque il nostro nome è Guide. Forse Helena non te l’aveva detto.»
Non aveva esattamente risposto alla mia domanda, ma forse, se non mi diceva di sua spontanea volontà perché era una Guida, il motivo era che non voleva dirmelo.
«Interessante» commentai.
«Che ne dici se ti porto qualcosa da mangiare?» mi chiese Edward gentilmente.
«Sì, grazie.» Uscì dalla porta della stanza e se la richiuse alle spalle.
Mi alzai dal letto, nonostante la testa mi pulsasse ancora. Ai piedi del letto vidi le mie scarpe e lo zaino. Il mio album da disegno e le matite c’erano ancora. Anche se ero certo che lì ne avrei potuti comprare di nuovi nel caso avessi perso le mie cose durante il passaggio da non-so-dove alla Terra.
Mi avvicinai alla finestra. Il vetro era coperto da tende blu che impedivano la visuale dell’esterno e dall’interno. Le scostai delicatamente, e poi aprii la finestra.
Inspirai tutta l’aria che riuscii a far entrare nei miei polmoni e poi la buttai fuori quasi con rabbia. Non mi accorsi che durante l’operazione avevo tenuto gli occhi chiusi. Gli aprii.
Beh, non avevo capito che l’appartamento in cui mi trovavo era esattamente nel centro di New York. Riuscivo a vedere una grandissima porzione della città. Feci un calcolo approssimativo e capii che più o meno ci dovevamo trovare al trentesimo piano, anche se, guardando gli altri grattacieli, compresi che non ci trovavamo così in alto.
Sentii tornare Edward e mi voltai per vedere cosa mi avesse portato da mangiare.
«Rimettiti disteso» mi ordinò. «Non sei ancora completamente in forze.»
Chiusi la finestra e mi ridistesi sul letto, tenendo però la schiena dritta in modo da poter mangiare meglio.
Edward mi posò in grembo un vassoio con un piatto di spaghetti al pomodoro e un bicchiere d’acqua. Per prima cosa bevvi un po’ del liquido fresco. Poi presi la forchetta che era di fianco al piatto e cominciai a mangiare selvaggiamente gli spaghetti.
Edward mi guardò finché non ebbi finito anche di bere tutta l’acqua che c’era nel bicchiere.
Avevo ancora l’ultima forchettata di pasta in bocca quando borbottai qualcosa del tipo “posso averne ancora?” Sembrò capirmi, così prese il piatto e tornò in cucina, o ovunque avesse cucinato gli spaghetti, e dopo poco tornò con un altro piatto fumante pieno di quella roba buonissima.
«Ti piace, eh?» mi chiese divertito.
«Sì» dissi. “Li hai fatti tu?»
Annuì distrattamente. «Mio padre era italiano. Mi ha insegnato a cucinare a dieci anni.»
Rimasi un attimo perplesso. «Era
Edward abbassò la testa. «È morto.»
Oh cavolo, che idiota. Era ovvio che se ne parlava al passato era morto.
«Scusa» mormorai sinceramente dispiaciuto. «Non volevo.»
Fece un gesto di noncuranza. «Non importa, davvero.»
Sì che importava! Ero stato a stretto contatto con la morte e avevo capito che non è una cosa su cui si dovrebbe scherzare tanto facilmente.
Cercai di cambiare velocemente discorso mentre lui stava per uscire dalla stanza. «Senti», lui si voltò verso di me, «ti posso chiamare Ed?»
Lui alzò le spalle, come se la cosa gli fosse indifferente, poi uscì dalla stanza come se niente fosse e mi lasciò solo.
Avevo ancora il vassoio poggiato in grembo. Lo misi sul comodino e scivolai sotto le coperte. La pastiglia che mi aveva dato Ed non aveva ancora fatto effetto. La testa faceva male, anche se meno di prima, ma a quello si era aggiunta una strana sensazione di disagio. Non sapevo perché mi sentissi così. In fondo mi trovavo in una città enorme con uno sconosciuto, forse non avevo tutti i torti a sentirmi un po’ diffidente. Comunque, le cose non potevano stare diversamente, e avrei fatto qualsiasi cosa pur di poter tornare a vivere davvero.
Tirai le lenzuola fin sotto al mento e chiusi gli occhi con l’intenzione di dormire un po’.
Non so quanto mi ci volle prima di prendere sonno, ma alla fine mi addormentai, e questa volta riposai seriamente.


«Gerard, Gerard.» Una voce chiamava il mio nome. Emisi un mugolio per far capire a chiunque stesse cercando di svegliarmi che lo ero.
Era Ed, continuava a ripetere il mio nome.
«Sì, ho capito» borbottai scostando le coperte. «Sono sveglio!»
«Molto bene» disse soddisfatto. «Hai dormito per tutto il giorno e la notte. Adesso è mattina.» Andò verso la finestra e l’aprì, accecandomi con la luce del primo mattino. «Che ore sono?» chiesi assonnato.
«Più o meno le sei. Preparati» mi invitò, «tutto quello di cui hai bisogno per vestirti è nell’armadio. E là,» mi indicò una porta che prima non avevo notato, accanto all’armadio, «c’è il bagno. Quando hai fatto vieni di qua, la colazione è già pronta.»
Feci come aveva detto. Aprii l’armadio e vi trovai una decina di paia di jeans, una decina di felpe, circa quindici t-shit, qualche camicia e due o tre maglioni. C’era anche troppa roba.
Controllai anche cosa si trovasse nel cassetto appena sotto gli scaffali su cui erano riposti ordinatamente gli abiti. Biancheria intima, ovvio.
Presi qualcosa a caso e mi infilai in bagno. Avevo bisogno di una bella doccia bollente.
Mi spogliai lentamente e aprii il box della doccia.
Il getto d’acqua fu inaspettatamente freddo. Regolai meglio la temperatura per evitare di morire assiderato.
Lasciai che l’acqua calda mi scivolasse sulla pelle leggermente intorpidita.
Non so quanto rimasi lì, comunque non un tempo normale per fare una doccia. Quando uscii mi asciugai e mi vestii, poi mi diressi verso la cucina.
Per fortuna mi bastò attraversare il corridoio e trovai subito Ed intento a fare il caffè.
«Ma quanto ci hai messo?» esclamò. Sì, l’avevo capito ce ci avevo messo tanto.
Ignorai la domanda e mi misi seduto al tavolo, che era già apparecchiato.
«Caffè?» mi chiese Ed porgendomi una tazza. Gli presi dalla mano la tazza e avvicinai velocemente il bordo alle mie labbra. Ovviamente mi scottai la lingua.
«Gerard» mi disse divertito, «è stato sul fuoco.»
«Mh» grugnii, «non l’avevo capito.»
Poggiai la tazza sulla tovaglietta davanti a me. Mentre aspettavo che il caffè si freddasse presi un toast e ci spalmai sopra della marmellata. Lo mangiai in tre secondi. Mi resi conto di avere una fame da lupi. Presi un altro toast e lo ricoprii di burro, poi un altro ancora con la crema di nocciole, e andai avanti così finché non mi sentii scoppiare. Poi bevvi il caffè, ringraziando mentalmente chiunque lo avesse inventato.
Nel frattempo Ed si era seduto di fronte e me e aveva cominciato a mangiare.
Finì anche lui il suo caffè. «Bene» disse mentre cominciava a sparecchiare. «Che ne dici se andiamo a fare un giro per la città?»
No, non se ne parlava. Io volevo cominciare subito quella missione che mi era stata affidata, niente giri turistici per New York. L’avrei fatto dopo aver completato il mio “lavoro”.
«Preferirei cominciare subito con la “missione”» annunciai.
Lui si voltò verso di me con aria scocciata. «Ma perché hai tutta questa voglia di cominciare subito?»
Capii che voleva aggiungere qualcos’altro, ma lo bloccai. «Ascolta, non ho accettato questa missione né per fare una gita di piacere né per stare chiuso in questo appartamento con te. Io ho accettato per poter aiutare quella gente e me a tornare a vivere veramente.» Feci una pausa per rendere il mio discorso più incisivo. «Forse per te la vita è scontata, ovvia, ma io ho visto la morte in faccia e non ho intenzione di rincontrarla prima di molti anni. Quindi, o mi porti immediatamente dove cavolo si trova la prima persona oppure ci vado da solo.»
Speravo che le mie parole fossero convincenti. Anche se non avevo la minima idea di dove abitasse la prima persona. Tuttavia, se lui non collaborava, avrei fatto tutto da solo, non mi importava, un modo l’avrei trovato.
Edward mi guardò stupito, non si aspettava una reazione del genere. «Sì, hai ragione tu.»
Mi rilassai. «Molto bene» annuii. «Allora, devo preparare le valige oppure è qui a New York?»
«No» scosse la testa, «non è qui a New York. Comunque non hai bisogno di fare nessuna valigia. Là c’è un altro appartamento con tutto quello che ci serve.»
«Perfetto» affermai soddisfatto. «Allora vado a prendere lo zaino e poi partiamo.»
Quando prendemmo l’auto mi resi conto del caos infernale che c’era in quella città.
Persi la cognizione del tempo e non so quanto ci volle per uscire dalla città e arrivare a destinazione. Ero solo consapevole del fatto che poco dopo aver poggiato la testa contro il finestrino dell’auto mi ero addormentato con il sottofondo della radio accesa e Ed mi aveva svegliato solo appena arrivati.
Mi appunti mentalmente di non dormire in auto. Avevo il collo che gridava per il dolore.
Scesi dalla macchina lentamente e chiusi la portiera dell’auto.
«Allora» dissi a Ed, «dove siamo?»
«In una piccola cittadina vicino a New York. Ti troverai bene.»
Mi guardai intorno. C’era un viale pieno di case; Ed aveva parcheggiato di fronte ad una molto carina, o almeno lo sembrava da fuori.
Tirò fuori dalla tasca un mazzo di chiavi e percorse il breve vialetto che conduceva alla porta d’entrata. Fece scivolare una chiave nella toppa e con un clik questa si aprì.
La casa era graziosa anche dentro. Dopo l’ingresso si apriva un piccolo salotto e accanto la cucina. Dietro il divano c’erano delle scale, che portavano al piano di sopra.
Mi venne improvvisamente in mente una cosa. «Senti Ed» cominciai, «ma che giorno è oggi?»
«Il 30 luglio.» Quella era un’informazione che mi mancava.
«Tu puoi andare di sopra» annunciò. «Quando è pronto il pranzo ti chiamo.»
«Quale è la mia stanza?» chiesi.
«La prima a destra.»
Mi gettai verso le scale e quasi inciampai. Mi ritrovai in un piccolo corridoio con due porte per lato, aprii la prima a destra, come mi aveva indicato Ed.
Era una stanza piuttosto grande, anche se mi sembrava più piccola di quella a New York, era comunque spaziosa e soprattutto ben illuminata. C’era una grande finestra, un letto, una scrivania, un armadio. Sulla scrivania c’era anche un computer, anche se forse non avrei avuto il tempo per usarlo. Sulla destra c’era una porta: il bagno.
Lasciai lo zaino ai piedi del letto e mi sdraiai su quest’ultimo, era veramente comodo.
Chiusi gli occhi nel tentativo di raccogliere i miei pensieri. Ero nella stessa città della prima persona che avrei dovuto aiutare. Tuttavia non avevo uno straccio di piano e non avevo la minima idea di come avrei aiutato quella persona. Non sapevo nemmeno il problema che aveva. Comunque speravo che durante il pranzo Ed mi avrebbe spiegato meglio la situazione.
Mi appisolai sul letto, quando Ed gridò il mio nome dal piano di sotto.
«Ti piace la camera?» mi domandò sorridente non appena giunsi in cucina.
«Oh sì» risposi, «è perfetta.»
Mi avvicinai al tavolo e mi accomodai su una delle sedie. Ed portò un’insalatiera piena di pasta condita con un sugo dall’odore ottimo. «Cosa è?»
«Ragù» affermò orgoglioso. «Ricetta italiana.»
A dire la verità ero contento di essere stato affidato ad un mezzo italiano, mi piaceva come cucinava e anche il suo modo di fare piuttosto diretto.
«Non sei vegetariano, vero?» domandò.
«Emh…» Ero vegetariano? «Penso di no.»
«Bene» esclamò. «Allora passami il tuo piatto che si fredda!»
Mangiai tantissimo. Se continuavo così bel giro di qualche settimana sarei diventato piuttosto grasso. Comunque sarebbe stata colpa di Ed, cucinava troppo bene.
Evitai per tutto il pasto l’argomento “missione”. Lo volevo riservare per dopo, in quel momento volevo solo rilassarmi un attimo.
Quando finimmo di mangiare ci sedemmo sul divano a guardare la televisione.
«Senti» cominciai, «la prima persona che devo aiutare, chi è?»
Ed spense la TV e si rivolse verso di me. «Si chiama Ray Toro. Ha la tua stessa età, ha compiuto gli anni da poco.» Giusto, perché io gli avevo già compiuti, ehm… oh, sì, il 9 di aprile.
Continuò. «Ovviamente vive qua, ha finito l’anno scorso il liceo.»
«E adesso cosa fa?» chiesi curioso.
«Si è iscritto alla facoltà di cinema e regia, ma attualmente è qui e lavora in un piccolo supermercato.»
«Ho capito» annuii.
«Se vuoi oggi pomeriggio andiamo lì a fare la spesa, almeno hai l’occasione per conoscerlo mentre riempiamo un po’ il frigo» propose.
«Sarebbe perfetto» dissi con decisione. «Ma perché dovrei aiutarlo?»
«Per cominciare ti abbiamo affidato un caso, diciamo, semplice» esordì. «Ha sempre vissuto in un quartiere non esattamente sicuro della città. Ha solo bisogno di trovare la sua vera strada. Diciamo che si è un po’ smarrito, ecco.»
Okay, non mi sembrava un compito così impossibile, ce la potevo fare in due mesi, cioè, ce la dovevo fare, ma questi erano dettagli.
«Spero di farcela, in due mesi ci dovrei riuscire» constatai.
Rimanemmo un altro po’ sul divano, facendo zapping, senza mai guardare qualcosa di preciso.
Verso le cinque del pomeriggio Ed mi annunciò che saremmo andati a fare la spesa. E con “andare a fare la spesa” intendo “andare a conoscere Ray, ovvero la prima persona che dovevo aiutare”.
Salimmo in auto. Ero un po’ agitato.
La macchina si fermò nel piccolo parcheggio del supermercato. Il mio cuore mancò di un battito quando entrammo dentro.
Il supermercato era pieno di scaffali, colmi di cibo e altre cose. Mi guardai un po’ intorno, mentre Ed cominciava a prendere le prime cose e ad infilarle in una specie di carello per la spesa. In un angolo intento a sistemare su degli scaffali un po’ troppo alti dei pacchi di biscotti c’era un ragazzo alto, con una cesta di capelli riccioli in testa e un’espressione concentrata, nel tentativo di capire come mettere i biscotti.
Ed me lo indicò, ma non ce n’era bisogno, avevo capito che era lui. 

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Capitolo 4
*** Il primo passo verso la salvezza ***






4

Il primo passo verso la salvezza





 
Era lì, proprio davanti a me, il primo ragazzo che avrei dovuto aiutare per poter ritornare a vivere veramente. Non capii se il nostro incontro mi facesse uno strano effetto oppure no, ma mi sentivo come se adesso la vita di Ray fosse nelle mie mani, e in un certo senso anche la mia era nelle sue.
Mi avvicinai lentamente al ragazzo, mentre Ed faceva i suoi comodi e continuava a riempire il carrello.
«Ti consiglio di prendere una scala» gli suggerii gentilmente. «Anche se sei alto non ce la farai mai.»
Ray si rigò di scatto per vedere chi avesse parlato e mi fece quasi cadere per lo spavento.
«Scusa» fece. «Non ti avevo visto, cioè ti avevo sentito, ma non visto.»
Mossi la mano in un gesto di noncuranza. «Fa niente, è colpa mia che ti sono piombato da dietro.»
Mi sorrise e mi porse una mano. «Sono Ray.»
Io gli stinsi la mano. «Piacere, Gerard.»
«Comunque hai ragione» constatò. «Senza una scaletta o qualcosa del genere non ce la farò mai a mettere questi biscotti lassù.»
Si guardò un attimo intorno, poi si rivolse a me. «Scusa un attimo.»
Scomparve dalla mia vista e quando ritornò teneva con il braccio una piccola scaletta. La posizionò appena sotto lo scaffale, e ci montò sopra. «Senti» cominciò, «visto che sei lì senza fare nulla, mi puoi passare i pacchi di biscotti, per favore?» Indicò la scatola dove stava la merce.
«Oh, sì.» Gli passai lentamente tutto il contenuto della scatola, mentre lui posizionava con cura i prodotti sullo scaffale.
«Non sei di qui, vero?» mi chiese.
«Ehm…» titubai un attimo. «No, mi sono appena trasferito con mio zio.» Dissi la prima cosa che mi venne in mente. Non sapevo se Ray ci avrebbe creduto o meno, ma io rimasi indifferente e lui sembrò cascarci.
«Ah» esclamò, «non ti avevo mai visto qui e allora mi sono incuriosito.» Aveva appena finito di sistemare lo scaffale, così scese dalla scaletta.
«Gerard, vero?» Annuii. «Io finisco il turno alle otto, magari ci possiamo trovare stasera e andiamo a prendere qualcosa, che ne dici?»
Entrai nel panico, cosa dovevo rispondere? Potevo andare? Forse sì, insomma, se dovevo aiutare quel ragazzo ci dovevamo frequentare, mica lo potevo “salvare” se non ci vedevamo mai.
La parte più impulsiva di me prese il sopravvento. «Oh, sarebbe fantastico!»
«Perfetto!» esclamò tutto soddisfatto. «Hai la patente?» mi domandò pensieroso.
«Ehm, no.»
«Allora ci troviamo qui davanti, stasera alle dieci. Va bene?» propose. «Magari non so, se ti può portare tuo zio…»
«Sì, certo, va bene. Alle dieci stasera qui davanti, perfetto. Sì, mio zio…» borbottai.
«Grandioso. A stasera!»
Mi allontanai impacciato. Forse, tutto sommato, avevo fatto la cosa giusta ad  accettare l’invito di Ray, anzi, avevo certamente fatto la cosa giusta.
Cercai Ed per tutto il supermercato, quando lo trovai al reparto bevande.
«Hai conosciuto Ray?» chiese.
«Ehm, sì» risposi.
«E come è andata?» domandò mentre leggeva concentrato l’etichetta di una bottiglia.
«Penso bene.»
«Che vuol dire “penso bene”?» Stava ancora studiando quella dannata etichetta. Odiavo parlare con persone che non mi guardava in faccia.
«Nel senso che stasera usciamo» esclamai spazientito.
Ed mise la bottiglia nel carrello e finalmente mi degnò di uno sguardo. «Oh, fantastico!»
«Bene, allora mi devi riportare qui alle dieci» annunciai mentre cominciavo a guardare cosa avesse messo nel carrello.
«Sì, certo. Sono qui apposta.» Cercai una nota sarcastica nella sua voce, ma non trovai nulla: diceva sul serio.
Tornammo a casa e mangiammo, poi feci una doccia veloce e mi misi in attesa.
Arrivammo davanti al supermercato esattamente cinque minuti prima delle dieci.
«Gerard» fece Ed prima che andassi, «sta attento.»
«Sì, certo» lo rassicurai. Non mi avrebbero rapito gli alieni, almeno non quella sera.
Mi porse un portafoglio e un cellulare. «Tienili con te, e se hai bisogno di qualcosa chiama, il mio numero è l’unico in rubrica.»
Infilai il tutto nelle tasche posteriori dei jeans e poi uscii dalla macchina. «A dopo» lo salutai.
«Sei sicuro di poter tornare a casa da solo?» mi domandò mentre ero già sceso.
«Non ti preoccupare, semmai chiedo a Ray» gli gridai in modo che mi sentisse.
Mi fece un cenno con la mano e ingranò la retromarcia, per poi tornare a casa.
Ray arrivò quasi subito. Camminava lentamente. «Ehi!» gli feci. «Ma sei venuto a piedi?»
«Sì» rispose, «non abito lontano. Andiamo?»
Io non risposi e lo seguii mentre si avviava verso una meta sconosciuta.
Arrivammo davanti a un pub, dall’esterno sembrava piuttosto carino. Quando entrammo l’odore di fumo e alcol ci investì. Ray mi presentò qualcuno, ma dimenticai immediatamente i loro nomi.
Ci sedemmo al bancone e ordinammo da bere. Feci per prendere il portafoglio che mi aveva dato Ed, ma Ray mi bloccò. «Il primo giro lo offro io.»
Il primo giro? Quanto aveva intenzione di bere? Se fossi tornato a casa ubriaco Ed mi avrebbe ucciso. Okay, tecnicamente ero morto anche se ero vivo, ma lui di sicuro conosceva un modo per farmi fuori definitivamente.
«Allora» fece Ray, «come mai ti sei trasferito qui con tuo zio?»
Mi aspettavo quella domanda, infatti Ed e io a cena avevamo inventato una copertura per il periodo che saremmo rimasti lì.
«I miei genitori si sono trasferiti in Messico quando avevo dodici anni, e io da quel momento ho sempre abitato con mio zio. Lui è uno scrittore e gli piace girare, non stiamo più di tanto nello stesso posto. E visto che siamo praticamente entrambi soli, viviamo insieme. Certe volte penso di volermene andarmene per conto mio, ma è come un padre.»
Non pensavo di essere così bravo a raccontare bugie. Mi complimentai con me stesso.
«Oh, è una storia interessante» commentò.
«E tu invece?» domandai. «Cosa fai?»
Sorrise. «Come hai visto lavoro in quel supermercato anche se mi sono iscritto alla facoltà di regia. Ho finito lo scorso anno il liceo, ma vivo ancora con i miei genitori.»
Ricordai quello che mi aveva detto Ed: lo dovevo aiutare a trovare la sua strada. Quella era l’occasione giusta per indagare. «E cosa ti piacerebbe fare nella vita?» chiesi.
«Non lo so» alzò le spalle. «Non ho ancora capito cosa voglio fare. E i miei genitori non sono certo d’aiuto.»
Mi ero fatto un quadro generale della vita di Ray: lavorava in un supermercato, non aveva aspirazioni, da quello che avevo capito non andava d’accordo con la sua famiglia.
Il pub si stava lentamente riempiendo. A causa della musica che c’era in sottofondo e delle chiacchere della gente, io e Ray alzammo la voce per poter continuare a parlare.
«Tu invece cosa vorresti fare nella vita?» Ray volse a me la domanda che gli avevo fatto. Per fortuna mi ero preparato una risposta anche a questo. «Mi piace disegnare, e sto lavorando ad un fumetto, ma per ora non faccio molto. Mio zio guadagna piuttosto bene per entrambi.» Non era proprio una bugia dall’inizio alla fine.
«Oh, che fortuna, io per andare avanti devo lavorare. Sta diventando un problema anche trovare i soldi per l’università…»
«Non ti preoccupare» lo tranquillizzai. «Uno modo lo trovi.»
Notai che era distratto. Cercai di capire cosa stesse guardando. Poi capii. C’erano due ragazzi che stavano cercando di portare con la forza una ragazza fuori dal locale.
«La conosci?» Ray sembrava preoccupato.
«Più o meno, veniva a scuola con me. Vieni.»
Ci alzammo entrambi, mentre i due ragazzi e la ragazza erano già all’esterno del locale. Li seguimmo.
La strada era deserta e in un angolo vedemmo i due che avevo spinto lei contro un muro. Piangeva.
Ray si avvicinò. «Lasciatela stare!»
I due ragazzi si voltarono verso di noi e si misero a ridere. «E perché?»
«Lasciatela stare e basta» sibilò.
I due ignorarono completamente Ray e uno per tutta risposta le diede un bacio sul collo. La ragazza cercò di scostarlo, ma lui la teneva incollata al muro.
Ray non ci vide più, prese per il colletto della felpa quello che aveva baciato la ragazza e lo sbatté violentemente al muro.
«Ho detto di lasciarla stare» gli intimò. «Hai capito?»
L’altro ragazzo prese Ray per le spalle e gli tirò un pugno in pieno viso. Quello provò a tirargli un calcio, ma io lo afferrai da dietro e lo gettai a terra. Fu colto alla sprovvista e non fece nemmeno in tempo scansarsi quando mi misi a cavalcioni sopra di lui e lo colpii sulla mascella. Cercai di tenerlo fermo mentre Ray se la vedeva con l’altro, che era anche più grosso, ma anche Ray lo era più di me.
Mi alzi solo quando Ray mi fece cenno di farlo. «Non finisce qui Toro» disse uno dei due. «E nemmeno con te» mi minacciò.
Mi ricordai della ragazza e la cercai con lo guardo. Era dove l’avevano lasciata quei due idioti e stava ancora piangendo. Ray stava parlando con lei, mi avvicinai.
La ragazza mi vide e mi sorrise, ricambiai. «Grazie» mi fece.
«Ma di cosa?» replicai.
«Sono Eve» si presentò.
«Gerard» mi presentai a mia volta.
Ray non disse niente, forse conosceva già il suo nome. «Senti» le disse, «non puoi andare a casa così. Se vuoi puoi venire da me, ti dai una sciacquata e poi io e Gerard ti accompagniamo a casa.»
La ragazza ci guardò entrambi. Sembrava combattuta. Non la biasimavo dopo quello che era successo.
Alla fine sembrò decidersi. «Va bene.»
Non ci volle molto ad arrivare a casa di Ray. Abitava in un palazzo messo piuttosto male, ma tutto sommato vivibile.
Salimmo le scale del condominio e quando arrivammo ad una delle porte che stavano al terzo piano, Ray ci si piazzò davanti e tirò fuori dalla tasca dei jeans un chiave. Armeggiò per qualche secondo con la vecchia serratura, poi la porta si aprì e ci fece entrare. L’appartamento non era un granché, ma era accogliente.
Ray si rivolse a Eve. «Se vuoi ti puoi fare una doccia. Posso prestarti i vestiti di mia madre, a lei non dispiacerà.» Finì con un sorriso, tanto per rassicurare la ragazza, che ricambiò e annuì.
Ray si avviò frettolosamente verso quella che doveva essere la stanza di sua madre perché ne uscì con un paio di jeans e un maglione rosa. Porse il tutto a Eve e poi le indicò il bagno.
«Fa’ con calma» le disse.
La ragazza si chiuse nel bagno e dopo poco io e Ray cominciammo  a sentire lo scroscio dell’acqua.
Ray mi fece cenno di andare con lui verso la cucina. «Ti posso offrire qualcosa?» domandò gentilmente. «Non so, una birra…»
Lo interruppi subito. «Se non è un problema un caffè, grazie.»
«Un caffè a quest’ora?» chiese stupito.
«Sì, per favore.»
Ray mi guardò un’ultima volta per assicurarsi che fossi sicuro della mia scelta, poi si voltò e cominciò a fare il caffè.
Era così strano che volessi un caffè a quell’ora? A me non sembrava.
Aspettai con calma il mio caffè e alla fine Ray mi porse una tazza fumante. Lui si prese dal frigo una birra e poi andammo a sederci sul divano del salotto.
Rimasi un po’ in silenzio, cominciando a sorseggiare quella bevanda calda che mi riscaldò piacevolmente lo stomaco.
«Senti Ray» iniziai, «la conosci quella ragazza?»
«Mi hai già fatto questa domanda e io ti ho già risposto»
«A me non sembra che tu la conosca così così» obiettai, «anzi, sembra vi conosciate bene bene.»
Ray mi guardò con aria di supplica, come per dire “lascia perdere, ti prego lascia perdere”. Beh, non mi importava, ero curioso e se volevo davvero aiutarlo dovevo conoscere più cose possibili su di lui.
Quindi continuai a fissarlo con aria curiosa.
Alla fine mollò sbuffando. «E va bene! Era la mia ragazza qualche anno fa, poi lei ha cominciato a uscire con altre persone e mi ha lasciato. Contento adesso?»
Sorrisi soddisfatto e annuii. «Quindi l’hai aiutata per quel motivo?»
Ray si grattò la testa. «Sì, anche. Ma avrei aiutato anche una sconosciuta se si fosse trovata in quella situazione.»
«Giusto.»
Sorseggiai con calma il mio caffè. Ray aveva già finito la sua birra da un pezzo quando finalmente Eve uscì dal bagno con i vestiti della mamma di Ray.
Io e Ray ci alzammo e le andammo incontro.
«Ti accompagniamo a casa» disse Ray rivolto a Eve.
Ritornammo sulla strada. «Mi sa che dovremo andarci a piedi» fece Ray.
«Per me non è un problema» disse Eve. Io annuii, anche per me non era un problema.
Ci incamminammo nell’oscurità, solo pochi lampioni a rischiarare l’asfalto.
Eve sembrava un po’ a disagio, ma dopo che Ray mi aveva raccontato la loro storia capii che non era per lo shock dell’accaduto, era semplicemente imbarazzata dalla presenza del ragazzo.
«Ehm» fece lei, «io vi volevo ringraziare, davvero. Non so come avrei fatto senza di voi.»
Ray sorrise. «Non ci devi ringraziare, l’avrebbe fatto chiunque.»
Eve lo guardò e sorrise di rimando. No, non l’avrebbe fatto chiunque, ne ero certo. Ma Ray era davvero un bravo ragazzo e di certo non avrebbe lasciato alla mercé di due idioti una ragazza indifesa.
Anche se era luglio, l’aria era fresca. Eve abbassò le maniche del maglione rosa fino a farlo arrivare alle punta delle dita, io feci lo stesso con la mia felpa.
Ray sembrava l’unico a non aver freddo. Aveva un aria serena, sembrava quasi imbambolato. Per un momento pensai che gli avessero messo qualcosa in quello che aveva bevuto al locale.
«Ray» lo chiamai, lui si voltò verso di me, «stai bene?»
Lui mi guardò con aria felice. «Certo!»
La sua reazione fu leggermente strana. Ma feci finta di niente; dopotutto c’era Eve, avremmo parlato più tardi.
Camminammo più di venti minuti, quando arrivammo ad una casa bellissima. Era molto più grande di quella che avevamo io e Ed, e circondata da un giardino curatissimo.
«Tu abiti qui?» le chiesi a bocca aperta.
Lei abbassò lo sguardo, come se ci fosse qualcosa di male nell’avere una cosa del genere. Beh, forse c’era, nel mondo la gente moriva di fame e c’era chi poteva permettersi delle case del genere, comunque Eve non aveva nessuna colpa se i suoi genitori erano ricchi, a dirla tutta non ne avevano nemmeno loro.
«Grazie ancora» disse lei. «Non so come ringraziarvi. Volete entrare?»
Aspettai che rispondesse Ray, per fortuna lo fece. «Non ti preoccupare, va’ a dormire.»
La ragazza non cercò di convincerci e dopo aver sorriso a entrambi percorse il vialetto fino alla porta d’entrata. Restammo lì fino a quando non fu al sicuro dentro la casa.
Dopo che fu scomparsa dalla nostra vista mi accorsi che Ray guardava ancora verso la casa, come se aspettasse qualcosa.
Gli diedi una piccola spinta, lui si voltò a guardarmi come se non fosse successo nulla. «Ehi!» feci, «Ma cosa hai?»
Mi guardò con aria interrogativa. «Scusa, ma cosa dovrei avere?»
«Da quando siamo arrivati a casa tua hai un’aria persa…»
«Non è vero» fece sulla difensiva. «Sto benissimo, davvero.»
Lo guardai di sbieco, poi rinunciai. Dopotutto lo conoscevo da un giorno scarso, anche se apparentemente sembrava ci conoscessimo da sempre.
Ci incamminammo verso casa mia. Per la strada guardai un attimo il telefono che mi aveva dato Ed per vedere se mi avesse cercato. No, niente. Però notai che erano le due di notte passate. Pensai che tutto sommato non fosse così tardi.
Percorremmo la strada con tutta la calma del mondo.
Quando arrivammo alla porta di casa “mia”, suonai il campanello e Ed venne quasi subito ad aprire la porta.
«Sbaglio o è un po’ presto?» chiese lui sorridendo.
«Ehm» dovevo trovare le parole giuste. «Abbiamo avuto un imprevisto e siamo tornati adesso.»
«Oh, fa lo stesso» disse con noncuranza Ed. Poi si voltò verso Ray. «Piacere, sono lo zio di Gerard, Ed.»
I due si stinsero la mano e anche Ray si presentò.
«Senti Ray» iniziò Ed, «che ne dici se domani vieni a cena da noi. Io sarò via per lavoro e avrete la casa tutta per voi.»
Io guardai Ray in attesa che rispondesse. «Sarebbe fantastico!» disse entusiasta. Comunque, diciamola tutta, in quel momento sarebbe stato entusiasta anche se gli avessero detto che il giorno dopo sarebbe finito il mondo.
«Bene» dissi io. «Allora ci vediamo domani.»
Ray mi sorrise. «Senti, mi dai il tuo numero di telefono?»
«Ho cambiato numero da poco, non lo ricordo a mente.» Mi voltai verso Ed. «Poi dare il mio numero a Ray?»
Ed prese dalla tasca il suo cellulare e dettò velocemente il mio numero a Ray.
Dopo un ultimo saluto, Ray se ne andò e io entrai in casa.
Mi lasciai cadere sul divano e Ed si sedette accanto a me. «Tutto okay?»
Io annuii. «Sì, tutto okay.»
«Quale è stato l’imprevisto di cui parlavi prima?»
Alzai le spalle. «Abbiamo aiutato una ragazza, le stavano dando fastidio.»
Ed sembrò capire e assunse un’espressione impassibile. «Avete fatto bene» osservò dopo qualche secondo di silenzio.
«Grazie» risposi io. Anche se non ero sicuro che “grazie” fosse la risposta giusta.
Poi mi venne in mente una cosa. «Dove vai domani sera?»
«Sarò via tutta la notte.» Non mi aveva risposto.
Lo guardai. «Dove?» ripetei.
«Devo parlare con chi ti ha dato questa seconda occasione.»
«Ho fatto qualcosa di sbagliato?» Adesso ero preoccupato di aver fatto qualche sciocchezza, anche se a me non era sembrato.
Ed scosse la testa. «No, non ti preoccupare. È una specie di normalissima riunione, niente di ché.»
«Oh, capisco» feci. «Io andrei anche di sopra se non ha nient’altro da dirmi.»
Feci per alzarmi ma mi bloccò con una mano. «Sei andato bene anche se era solo il tuo primo giorno. Vedi di non far cazzate e di usare bene il tempo che hai a disposizione.»
Annuii convinto. Lo sapevo, se volevo tornare davvero a vivere non potevo permettermi errori, avevo solo il tempo per fare la cosa giusta al momento giusto.
Salii le scale di corsa e quando arrivai nella mia stanza mi levai le scarpe e le gettai di lato, poi mi infilai sotto le coperte ancora vestito.
Ero stanco, non sapevo perché, forse era normale era poco che ero ritornato sulla Terra. Ma la cosa che mi dava davvero fastidio era che non ricordassi nulla della mia vita prima, della mia famiglia. E poi c’era una domanda che mi tormentava da quando ero là.
Se avessi superato quella “missione” e avessi avuto la possibilità di tornare a vivere la vita di prima, come l’avrebbero presa le persone che mi ritenevano morto e sepolto?
Forse nessuno me l’aveva detto perché la risposta era scontata, ma io ancora non l’avevo trovata.
Prima di cadere nel sonno mi appuntai mentalmente di domandarlo a Ed.

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Capitolo 5
*** La soluzione è guardare il cielo ***






5

La soluzione è guardare il cielo






 
La mattina dopo mi svegliai presto, nonostante l’ora che avevo fatto la notte prima. Andai in bagno e mi feci una doccia veloce, poi scesi in cucina dove Ed stava preparando la colazione.
«’Giorno» lo salutai.
«Hai dormito bene?» chiese lui.
Alzai di rimando le spalle: tutto sommato avevo dormito bene.
Per colazione non mangiai praticamente nulla, nello stomaco avevo come un peso che non lasciava passare il cibo normalmente. Non sapevo quale fosse la causa. Forse la consapevolezza sempre più presente del fatto che se non avessi aiutato le due persone che mi erano state affidate sarei morto, o forse, semplicemente il fatto di non avere certezze.
Ed mi riscosse bruscamente dai miei pensieri. «Come mai così pensieroso?» Domanda idiota.
Non risposi, e all’improvviso mi venne in mente il dubbio che mi ero appuntato mentalmente la sera precedente prima di addormentarmi.
«Senti Ed» cominciai, «ma se dovessi superare la prova avendo così la possibilità di tornare a vivere veramente, i miei familiari, gli amici, come la potrebbero prendere? Insomma, per loro sono morto.»
Ed mi squadrò e si lasciò andare su una sedia. «Helena non ti ha detto nulla?»
Scossi la testa. «Perché non avrebbe dovuto?»
«Non lo so Gerard, comunque non è un problema, te lo posso spiegare io, anche se è un po’ complicato.»
Prese un biscotto da una scatola di metallo che era sul tavolo e dopo averlo mangiato cominciò a parlare. «Queste seconde opportunità non vengono concesse molto spesso. In realtà chi le concede non spiega il motivo per cui lo fa, semplicemente avvisa le Guide e Helena. Comunque, nel caso in cui non dovessi superare questa prova sarai giudicato.»
Annuii. «Questo lo sapevo.»
«Bene, se invece dovessi superare la missione, non sarà semplice come pensi tornare in vita davvero.»
Rimasi un attimo spiazzato. Io avevo capito che, nel caso in cui avessi superato la prova, sarei tornato a vivere e basta, senza troppi problemi. Insomma, che altro ci sarebbe potuto essere?
«Nel momento in cui supererai la prova verrai mandato indietro nel tempo, esattamente qualche ora prima che avvenga la tua morte. Ovviamente conserverai tutti i tuoi ricordi di questo periodo, diciamo di “passaggio”.»
Ero confuso, assolutamente confuso, nulla aveva senso. Se per uno strano caso della sorte fossi riuscito ad aiutare chi dovevo, non era affatto tutto okay. Sarei tornato indietro fino al giorno della mia morte e alla fine avrei praticamente dovuto evitarla. Era assurdo! Se non ero riuscito a scampare una volta alla morte, era molto probabile che anche la seconda volta ripetessi lo stesso errore.
Esposi i miei pensieri a Ed.
«Gerard, io non ci posso fare nulla, le regole sono queste. Se riuscirai tornerai indietro nel tempo e proverai ad evitare la morte. Devi credere in te stesso. Alcuni ci sono riusciti! Devi solo far tesoro di quello che imparerai in questi quattro mesi» concluse.
«A me non sembra per nulla semplice» esclamai. «Perché non me l’avete detto prima?»
«Calmati, ora devi solo concentrarti sulla tua missione e cercare di aiutare Ray e la persona che verrà dopo di lui.»
«Smettetela di chiamarla missione, è un nome insensato» protestai innervosito.
«E come la vorresti chiamare? Vuoi un nome in codice?» mi provocò.
«Non è divertente» sbottai. «Comunque un nome adatto sarebbe “operazione suicidio”.»
«Ora sei tu quello che non è divertente.»
Gli lanciai un’occhiata infuriata, ma lui rimase completamente indifferente. Sapeva il fatto suo, e rispondere alle provocazioni non era la cosa migliore. Lui lo sapeva.
Ormai era troppo tardi per tornare indietro, non avrei potuto fare nulla per evitare tutto questo casino. Se avessi fallito la “missione”, poco male, sarei stato giudicato e fine. Se invece avessi avuto successo, avrei provato ad evitare la mia morte, altrimenti sarebbe andata a finire come nel primo caso. La morte mi aspettava comunque nel giro di pochi mesi, questo era poco ma sicuro.
Il fatto che però mi avessero taciuto tutto, mi faceva davvero arrabbiare; non c’era nessun motivo per farlo. Pensavano forse che se mi avessero detto tutta la verità non avrei accettato? Forse, era una possibilità, non ero così sicuro che avrei accettato ugualmente, ma  coloro che avevano giocato sporco erano loro, di certo non io.
Ed mi riscosse di nuovo dai miei pensieri. Ero un tipo che pensava molto e mi dava fastidio quando interrompeva il flusso di parole nella mia testa.
«Ehi Gerard, ti ricordi che io sono via tutta la notte e che stasera viene Ray, vero?»
Sospirai frustato. «Certo che me lo ricordo, mica sono scemo.»
«Bene.»
Cominciò a sparecchiare lentamente la tavola, mentre io ero ancora seduto su una di quelle sedie che, a dirla tutta, erano anche piuttosto scomode. Decisi di spostarmi sul divano e accesi la televisione.
Rimasi quasi tutta la mattina disteso lì, senza fare in realtà nulla, se non cambiare canale ogni due secondi, fino a quando non mi decisi a spengere quell’apparecchio inutile.
Andai nella mia camera al piano di sopra e cominciai a girare in tondo, per quanto la grandezza della stanza mi consentiva.
Era nervoso, terribilmente nervoso. Niente e nessuno in quel momento avrebbe potuto calmarmi. La mia testa era un accozzamento confuso di informazioni che non avevo ancora avuto il tempo di assimilare e sistemare ordinatamente. Mi sentivo come un tavolo incasinata e pieno zeppa di roba. Non è un granché come paragone, ma rende l’idea.
Alla fine decisi di sedermi davanti alla scrivania e rimasi un po’ a fissare l’album e le matite che non avevo ancora toccato da quando Helena le aveva fatte comparire. In realtà da quando mi ero svegliato nel “luogo” tutto bianco non avevo ancora mai disegnato. Ero riuscito a ricordare che mi piaceva farlo, ma non ci avevo ancora provato.
Poggiai entrambe le mani sulla superficie davanti a me, poi vi poggiai la testa sopra. Volevo disegnare, ma cosa? C’erano un milione di possibilità, peccato che non me ne venisse in mente nemmeno una. Un paesaggio? No, non mi andava, e poi non avevo nessun modello che avrei potuto prendere come esempio. Pensai a cosa nella mia mente era più chiaro. In realtà di chiaro avevo poco e nulla. Poi riaffiorò come da un sogno quel viso. Mi veniva in mente spesso a dire la verità, ma ogni tanto si seppelliva in mezzo alle nuove informazioni e lì vi rimaneva, finché quel ricordo non era in qualche modo sollecitato e tornava fuori.
Il suo viso regolare, le labbra sottili e morbide, gli occhi nocciola-verde grandi e dolci, i capelli scuri scomposti e spettinati che ricadevano sulla fronte e ai lati del viso. Mi era tutto perfettamente nitido se pensavo a quel ragazzo. La sua immagine era impressa nella mia testa come un francobollo su una lettera. Era incredibile come, in quel momento di assoluto spaesamento in cui mi ritrovavo, lui fosse così assolutamente unico. Pensavo che col tempo il suo ricordo si sarebbe sbiadito, come succede a tutti quando non vedono da molto una persona, ma con me era il contrario. Tutte le volte si aggiungeva qualche dettaglio: l’aria innocente eppure inquieta, oppure un ciuffo di capelli che gli ricadeva esattamente sopra l’occhio destro.
Aprii l’album alla prima pagina e me lo sistemai bene davanti, poi cominciai a spulciare fra le tante matite, per vedere quali colori vi si trovassero. Prima tracciai il contorno degli occhi, leggero, dell’iride e della pupilla; la linea delle sopracciglia per poi tornare all’occhio, e disegnare le ciglia scure.
Feci lo stesso con l’altro occhio e mi fermai un attimo per vedere il risultato. Be’, non era male.
Ripresi il lavoro delineando la curva del naso, scurii poi i fori delle narici. Decisi di proseguire con la bocca e la incurvai in quel sorriso triste che aveva. Avrei voluto farlo felice come volevo che fosse, ma se nel mio ricordo non lo era, un motivo c’era sicuramente e non volli cambiare le cose. Dopo la bocca tracciai finalmente il contorno del viso: le tempie, gli zigomi, le guance, per finire con il mento. Mi fermai una seconda volta: stava venendo piuttosto bene. Continuai disegnando la curva del collo, poi non andai oltre, perché nella mia mente l’immagine del ragazzo si fermava lì, e non avrebbe avuto senso inventarmi il resto. Poteva essere magrolino e basso oppure un gigante robusto, anche se optai per la prima.
Tornai in alto dove tracciai con una matita nera delle linee per creare i capelli disordinati.
Dopo aver finito di delineare i tratti principali del suo viso cominciai ad aggiungere dettagli. Le rughe di espressione sulla fronte e intorno alla bocca causate dal mezzo sorriso le feci appena accennate per non caricare troppo il ritratto. Ombreggiai gli occhi sia sulla palpebra che al di sotto della rima inferiore delle ciglia, cercando di non accentuare troppo le occhiaie, che non aveva. Definii la linea delle sopracciglia con una matita più scura di quella che avevo usato in precedenza e feci un piccolo puntino sotto lo zigomo destro, deve stava un piccolo neo che all’inizio non avevo notato.
Tracciai altre ombreggiature, sotto il collo, sotto gli zigomi e sotto l’arcata sopraccigliare. Infine completai i capelli che avevo lasciato a metà.
Rimasi a guardarlo a bocca aperta, non tanto per il disegno in sé, ma per il fatto che io non avevo mai visto il soggetto che avevo ritratto eppure era talmente pieno di dettagli che se ce l’avessi avuto davanti non avrei neppure notato. E poi quel ragazzo era bello, incredibilmente bello. Non capivo come, in tanta bellezza, potesse esserci spazio per un sorriso così malinconico, era inconcepibile.
Quando finii di fissare (perché era quello che stavo facendo)  il disegno, cercai nei cassetti della scrivania una puntina o qualcosa per poterlo attaccare al muro. Guardai per tutta la camera, ma non trovai nulla, allora capii che forse era meglio tenere quel disegno solo per me. Era meglio se nessuno lo vedeva, in particolare Ed. Sapevo che avrebbe fatto troppe domande a cui io non avrei saputo rispondere e alle quali comunque non avevo la minima intenzione di rispondere.
Strinsi il disegno al petto, nel tentativo di far affiorare un altro ricordo relativo al ragazzo. Forse era un mio amico che ora soffriva per la mia morte. Ma non ricordavo niente se non il suo viso.
Riposi il foglio, che ormai non era più un semplice pezzo di carta, ma un pezzo di me, nell’armadio sotto ad una pila di felpe; lì non l’avrebbe trovato nessuno.


Avete presente quando la noia rischia di uccidervi e pur di non passare un solo attimo in più senza fare nulla vi mettereste a fare conversazione con il primo barbone che trovate per la strada? Bene, era quello che stava succedendo a me. Avevo passato tutto il pomeriggio cercando di fare l’incazzato con Ed, cosa che comunque non mi era riuscita molto bene, e a passare da una stanza all’altra, senza meta.
Quando Ed se ne era andato, ero poi uscito in giardino per prendere un po’ d’aria. Avevo sentito Ray quel pomeriggio, e mi aveva detto che sarebbe arrivato poco dopo le otto, appena avesse finito il suo turno di lavoro; io avevo ordinato la pizza.
Alle otto e dieci sentii suonare il campanello, e andai ad aprire.
«Ciao Ray» dissi sorridente.
«Ciao Gerard, ho portato la birra» fece lui entrando.
«Fantastico, io ho ordinato la pizza. Dovrebbe arrivare fra poco.»
Gli feci fare un breve giro della casa e quando arrivò la pizza ci mettemmo a mangiare.
«Senti» fece lui ad un certo punto, «Ho chiamato due o tre amici, gli ho detto di venire qui verso le nove, spero non ti dispiaccia.»
Mi strozzai quasi con il boccone di pizza che avevo appena ingoiato. «No, no. Va benissimo!»
In realtà non sapevo se andasse benissimo o no, ma ormai lo consideravo un amico, e i suoi amici erano i miei, quindi pensai che tutto sommato non era una cattiva idea.
Per ingannare il tempo ci mettemmo a guardare la televisione me dopo poco arrivarono gli amici di Ray. Erano quattro, due ragazzi e due ragazze. Mi dissero i loro nomi, ma ovviamente dopo dieci secondi me li scordai. Poco male, nel giro di due mesi non li avrei mai più rivisti.
Una delle due ragazze si appropriò di metà del divano e praticamente mi ordinò di mettere il dvd che aveva portato.
Sinceramente non mi andava di vedere un film, in particolare quello che aveva portato lei, che sicuramente avrei odiato.
Comunque, cinque minuti dopo l’inizio, la mia mente cominciò a vagare altrove e persi completamente la trama del film.
Andai a prendere i pop-corn e li lasciai agli altri che me li strapparono praticamente di mano ignorandomi e continuando a guardare il film.
Eravamo a meno di metà film quando vidi Ray che lentamente passava davanti al televisore abbassandosi e andando verso la porta, l’aprì e uscì fuori. Naturalmente lo seguii, lo dovevo aiutare oppure no?
Presi la felpa che avevo lasciato su una sedia in cucina e me la infilai prima di uscire.
Ray era appoggiato alla staccionata che divideva la casa dal vialetto d’entrata e fissava il suo cellulare con sguardo assente. Mi avvicinai facendo rumore per annunciare la mia presenza.
«Tutto okay?» gli chiesi. Sembrò non sentirmi così ripetei la domanda.
Alla fine alzò la testa verso di me. «Sì, tutto okay.»
Non mi lasciai convincere e insistei. «Non mi pare sia tutto apposto.»
«Davvero Gerard, non ti devi preoccupare» mi supplicò.
Non dissi più nulla ma mi misi a fissarlo, come per metterlo in soggezione.
Sospirò. «Sei impossibile!» borbottò. «E va bene, mio padre mi ha mandato un messaggio. Mia madre un po’ di tempo fa è stata malata di cancro. Sembrava guarita, ma a quanto pare non lo era.»
Rimasi un attimo impalato davanti a quella rivelazione, non me ne aveva mai parlato. In effetti ci conoscevamo da poco, era normale.
«E tuo padre ti dice una cosa del genere con un sms?» domandai sconvolto alla fine.
«Evidentemente.»
«Dove è adesso lei?» chiesi riferendomi a sua madre.
«All’ospedale, penso. Ma è meglio se non ci vado, rischierei solo di litigare con mio padre. Andrò a trovarla domani quando lui è al lavoro.»
«Sei sicuro? Se vuoi vengo con te» proposi.
«Non è necessario, davvero, vado domani» affermò lui convinto.
«Va bene, ma se hai bisogno di qualcosa non esitare a chiamare.»
Lui annuì e poi tornammo dentro dagli altri, che erano ancora impalati davanti alla televisione e non si erano nemmeno accorti che non eravamo più con loro.


Per fortuna il film finì e se ne andarono tutti. Dissero che sarebbero andati in un certo pub, e mi proposero di andare con loro. Ray però disse che sarebbe andato a casa, così declinai l’offerta: non aveva senso andare se Ray non c’era.
Presi un sacchetto di pop-corn che nessuno aveva mangiato e andai nel giardino sul retro. Sistemai una delle sedie che c’erano lì in modo che nessuna casa o albero mi coprisse la visuale del cielo, poi mi ci misi a sedere alzando la testa verso l’alto.
In quel momento pensai che guardare le stelle era una cosa che amavo. Era meglio di qualsiasi film o spettacolo, e rilassava mille volte di più. Non sarei riuscito a descrivere a parole lo spettacolo delle stelle in una notte d’inizio agosto come quella. Forse perché non ce ne sono; se non l’hai mai visto non potrai mai capire come è realmente. Sarebbe come spiegarlo ad un cieco.
Mi infilavo i pop-corn uno alla volta in bocca, lentamente, mentre osservavo le stelle una ad una.
Da dove stavo mi sembravano solo minuscoli puntini brillanti che luccicavano accanto alla luna, ma il realtà erano enormi masse di gas e nemmeno se mi sforzavo riuscivo ad immaginare la loro grandezza. Ci sono concetti, come l’infinito, che l’uomo non potrà mai capire per quanto si possa concentrare. Pensateci un attimo: immaginate la cosa di più grande che vi viene in mente e ingigantitela fino all’inverosimile. Sono sicuro che alla fin troverete un limite. Se immagino l’oceano, vedo un’immensa distesa d’acqua, ma alla fine c’è anche l’orizzonte. Se immagino il deserto vedo tanta sabbia, ma alla fine ci sarà qualche duna che mi bloccherà la visuale e poi non vedrò più nulla.
L’uomo non è fatto per comprendere questi concetti, l’uomo è piccolo, ed è niente in confronto a tutto quello che abbiamo intorno. Ci crediamo i più intelligente solo perché abbiamo scoperto come accendere un fuoco o come far parlare due persone anche se si trovano in due parti del mondo diverse, ma non è nulla paragonato all’universo. Siamo solo minuscoli acari di polvere in qualcosa di troppo grande e la maggior parte delle volte nemmeno ce ne rendiamo conto. Non siamo padroni di nulla, pensiamo di poter comandare tutto e tutti, ma chi ci dice che su Giove non ci sia una specie miliardi di volte più evoluta di noi che volendo ci potrebbe ridurre in cenere in un nano secondo? E a quel punto noi piccole nullità non saremmo mai esistite e nessuno porterà con sé il ricordo di noi. E cosa potremmo fare? Nulla, perché saremo impotenti ai fatti. E allora perché pensiamo di essere invincibili? Forse perché siamo stupidi e non ci fermiamo mai a guardare il cielo.
Sì, perché la soluzione a tutto questo è fermarsi un attimo a guardare il cielo, non ci vuole molto, basta alzare un po’ la testa, può farlo anche un bambino. A quel punto, se tutti lo facessimo ogni tanto, le cose andrebbero meglio, ne sono sicuro. Uno sguardo in alto e tutti i problemi svanirebbero.


Ed tornò la mattina dopo. Io senza accorgermene mi ero addormentato in giardino, con il pacchetto dei pop-corn fra le mani. Ed mi aveva trovato lì e mi aveva svegliato.
Mi sentivo tutto intorpidito per aver dormito tutta la notte in quella posizione assurda e tornai a letto fino all’ora di pranzo.
«Tutto bene ieri sera?» Stavamo mangiando, ma nessuno aveva ancora detto una parola.
«Sì, tutto bene» mormorai. Poi alzai la testa verso di lui e gli feci una domanda. «Ma tu lo sapevi che la mamma di Ray ha avuto il cancro?»
Lui scosse la testa. «No, perché?»
«Ieri sera mentre stavamo guardando un film suo padre gli ha mandato un sms dove diceva che era stata portata all’ospedale» spiegai. «A quanto pare non aveva sconfitto del tutto il tumore.»
«Oh» fece lui, «mi dispiace. E come ti è sembrato?»
«Chi? Ray? Non lo so.»
«Che vuol dire che non lo sai?» chiese lui insistente.
«Vuol dire che non lo so.» Presi il mio piatto ancora mezzo pieno e lo posai sul lavello, poi borbottai qualcosa nella direzione di Ed e, dopo aver preso il telefono, me ne andai.
In realtà non avevo la minima idea di dove poter andare, ero uscito di casa solo per poter stare da solo, non perché avessi una meta precisa.
Cominciai a vagare per quella cittadina, che in quell’afoso pomeriggio d’inizio agosto era mezzo deserta. Dopo un po’ trovai un parco, dove alcuni bambini stavano giocando, mentre le madri parlottavano fra loro.
Mi sedetti svogliato su una panchina e lo sguardo mi cadde sulle mie unghie. Da quando, nel “luogo” tutto bianco, me le ero mangiucchiate a sangue erano ricresciute e la carne viva non si vedeva più. Stesi una mano di fronte a me e dopo averla abbassata, davanti mi si presentò una scena che mi intenerì. C’era un bambino seduto su una panchina come quella in cui ero seduto io, aveva i pantaloni corti e dall’orlo spuntava la carne rosa che in un punto era più scura. Capii che doveva essere cascato e si era sbucciato il ginocchio. Sua madre, almeno pensavo, era inginocchiata davanti a lui e soffiava delicatamente sulla ferita. Il bambino piangeva piano, cercando di non farsi sentire, forse per orgoglio, forse per non farsi notare dagli altri bambini. La mamma alzò lo sguardo sul viso del figlio e gli asciugò delicatamente le lacrime, poi lo prese in braccio e lo portò via.
Rimasi a fissarli mentre se ne andavano e un ricordo riaffiorò nella mia mente.


Un bambino piccolo, nel giardino di una bella casa, gioca per terra con delle macchinine. Si alza per andare a prendere qualcosa, ma a metà percorso cade e si fa male ad un gomito. Comincia a piangere e dopo poco arriva una donna, bella e alta, con i capelli lunghi. Prende in braccio il bambino e lo stringe a sé, poi lo porta dentro la casa.


Quel bambino ero io, e quella donna mia madre.
Era il primo ricordo che, da quando era successo tutto, mi era tornato in mente. Era un episodio piuttosto insignificante, ma mi aprì come uno spiraglio nella mente, una breccia che ero sicuro col tempo mi avrebbe aiutato a ricordare di più.
Mi alzai e ripresi a camminare. Girai per il parco quasi tutto il pomeriggio, poi ripresi la strada verso casa. Appena arrivato avrei chiamato Ray per sentire come stava sua madre e soprattutto per sentire come stava lui.
Aprii la porta e quando entrai vidi Ed che seduto sul divano guardava distrattamente la tv. Non mi salutò nemmeno e io salii per andare in camera. Mi buttai sul letto e presi il telefono dalla tasca. Mandai un messaggio veloce a Ray, il quale rispose subito. “Tutto okay, ci vediamo domani mattina e andiamo da mia madre.” Mi sentii sollevato dal fatto che volesse condividere quella cosa con me, mi faceva sentire importante. Se lui si fidava di me, allora sarebbe stato più semplice aiutarlo.   
Mi alzai di scatto dal letto, e la testa per un attimo mi girò, poi aprii l’armadio e presi il disegno del ragazzo che avevo fatto la mattina precedente. Mi ridistesi sul letto e mi misi una coperta addosso. Mi strinsi il disegno al petto e ripensai al ricordo che era riaffiorato quel pomeriggio. Sapevo che era un piccolo passo, ma per me era un traguardo enorme. Adesso anche il viso di mia madre era impresso nella mia testa.
Ero assolutamente spaesato, non avevo certezze e, per quanto ne sapevo, quella donna che chiamavo “mamma”, poteva essere una prostituta, e mio padre un alcolizzato violento. Ma c’era anche molte possibilità che fossero due bravissime persone, ed era quello che nel fondo del mio cuore sapevo.
In quella situazione la verità era che non ero io a dover aiutare qualcuno, ma ero io ad aver bisogno d’aiuto. Avevo assolutamente bisogno di una mano che mi aiutasse ad alzarmi e mi desse la forze per non mollare e tornare a vivere veramente. Ma quella persona non c’era. Non era di certo Ed, nemmeno Helena, considerando che non l’avrei più vista e non era nemmeno Ray. L’unica cosa che mi dava una spinta erano i pochi ricordi che avevo: l’episodio con mia madre e il viso del ragazzo. Quest’ultimo, comunque, era ciò che mi aiutava maggiormente. Il suo semplice, seppur triste sorriso, mi consolava, come niente e nessuno avrebbe saputo sicuramente fare, se non quella persona in carne ed ossa. 

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Capitolo 6
*** Andare avanti ***






6

Andare avanti






 
La mattina dopo mi alzai presto per andare con Ray da sua madre.
Non fu un bello spettacolo vederla: aveva la pelle giallastra, e solo pochi ciuffi di capelli fini erano presenti sulla sua testa. Quando Ray le prese una mano notai che sembrava quella di uno scheletro e tremava tutta.
A dire la verità, quando mi avevano assegnato Ray, non avevo capito subito quale fosse il suo problema. Insomma, mi avevano detto che dovevo aiutarlo a trovare la sua strada, ma a me sembrava apposto così. Aveva degli amici, un lavoro, tutto sommato aveva una famiglia. Ma piano piano mi accorgevo che la sua vita non era affatto facile.
Mi raccontò che i rapporti con suo padre non erano mai stati buoni, non riuscivano a stare dieci minuti nella stessa stanza senza finire per urlarsi contro. Sua madre ne aveva sempre sofferto, non voleva vedere suo marito e suo figlio litigare dalla mattina alla sera. Così Ray non stava quasi mai in casa, solo se necessario e durante la notte, e anche suo padre era sempre al lavoro.
Mentre mi raccontava la sua vita si vedeva che stava male. Pensai anche di fermarlo se il ricordo lo faceva soffrire, ma se lo volevo davvero aiutare, doveva parlare, anche se non voleva. Non avrei voluto obbligarlo a fare qualcosa che non gli andava, ma anche se non se ne accorgeva, gli faceva bene sfogarsi, rendeva i suoi pensieri più chiari e la sua rabbia e la sua tristezza si attenuavano parola dopo parola.
Mi presentò a sua madre dicendo che ero un amico dell’università. Non sapevo perché l’avesse fatto, forse voleva solo che lei fosse felice, e farle credere che andava regolarmente a lezione, così da avere degli amici, la faceva stare bene.
I giorni dopo passammo molto tempo insieme. Lui smise quasi di vedere i suoi amici ed era sempre più sconsolato. Più che aiutarlo lo stavo spingendo a ricordare spesso le cose brutte della sua vita, e non andava affatto bene, ma davvero non sapevo come fare. Perché non esisteva un libretto delle istruzioni “Come aiutare persone in difficoltà per poter tornare a vivere”? Qualcuno avrebbe anche potuto scriverlo. Comunque, se avessi avuto successo, l’avrei fatto io.
Andavamo spesso insieme al parco, e parlavamo, anche per ore. Arrivai alla conclusione che parlare era la soluzione migliore. Se lui aveva delle domande io cercavo in tutti i modi di trovare le risposte, se aveva dei dubbi provavo a schiarirli: facevo tutto il possibile, ma non sapevo se sarebbe bastato.
Dopo un mese circa da quando ero arrivato in quel posto, mi annunciò che avrebbe ricominciato a frequentare l’università. Mi disse che non aveva senso continuare a lavorare in quel supermercato tutto il giorno per prendere una miseria. Quindi ricominciò a studiare, e per pagare la retta trovò un altro piccolo lavoro in un bar che lo impegnava solo la sera.
Fui felicissimo di ciò. Non ero sicuro fosse tutto merito mio, forse non potevo nemmeno attribuirmi la metà del successo, in ogni caso qualcosa stava girando ed ero davvero entusiasta.
Sua madre però era ancora all’ospedale e non sembrava migliorare. I medici avevano provato di tutto, ma lei stava solo peggio. Io e Ray continuammo ad andare a trovarla più o meno tre volte alla settimana, stando sempre attenti che negli orari in cui le facevamo visita suo padre fosse al lavoro.
Comunque, sapevamo entrambi che prima o poi avrebbe dovuto affrontare anche lui. Non potevano andare avanti così, e se non lo volevano fare per loro, l’avrebbero dovuto fare per una moglie e una madre che stava male. Così un pomeriggio, dopo aver parlato e convinto Ray, andammo all’ospedale, c’era anche suo padre.
La stanza era piuttosto piccola, ospitava solo la madre di Ray, ma in quel momento eravamo in quattro. L’aria era pesante, sia per l’odore forte di medicine e disinfettate sia a causa della tensione.
«Ciao mamma» la salutò Ray. «Come stai?»
Lei gli sorrise dolcemente e annuì.
Il padre di Ray non aveva ancora detto nulla, e non ero sicuro che ne avesse voglia. Sarebbe rimasto anche tutto il tempo muto con le mani incrociate dietro la schiena.
«Ho un po’ di febbre» lo informò sua madre, «ma il dottore ha detto che passerà presto. Dice che è tutto dovuto allo stress.» Sorrise di nuovo.
Ray scoccò un’occhiata a suo padre. «Certo, in questa situazione sarai stressata.»
Capii subito dove Ray voleva andare a parare. Eravamo andati là affinché chiarisse con suo padre non perché ci litigasse!
La donna si rivolse poi al marito. «Mi fa piacere che siate venuti insieme.»
L’uomo si avvicinò al letto su cui era distesa lei. «Non sapevo ci fosse anche lui.»
Ray scattò come una molla. «Ho un nome» sibilò.
Intervenni e mi frapposi fra i due. «Non mi sembra il caso di litigare!»
Il padre si Ray mi venne incontro e mi tirò uno spintone. «Esci subito da questa stanza, non sono affari che ti riguardano.»
Rimasi un attimo fermo e cercai gli occhi di Ray. Lui mi annuì e io uscii dalla stanza. Non sarei voluto andarmene, volevo rimanere lì, dopotutto io avevo il compito di aiutare Ray, e se non gli potevo stare vicino in momenti come quello allora che senso aveva tutto?
Mi sedetti in una di quelle sedie scomode da ospedale appena fuori dalla porta da cui ero appena uscito e aspettai che Ray tornasse da me.
Cercai di capire cosa stesse succedendo. Per fortuna non sentii urlare o cose del genere, solo borbottii indistinti che non compresi.
Dopo dieci minuti abbondanti ero ancora lì, e nessuno si era fatto vivo, né Ray, né suo padre.
Mi stavo cominciando a preoccupare. Il fatto che non sentissi rumori non mi assicurava che non stesse succedendo nulla di brutto, non sapevo davvero cosa pensare.
Alla fine vidi uscire suo padre che non mi degnò nemmeno di uno sguardo e se ne andò, poi uscì anche Ray.
Mi alzai e andai verso di lui. «Tutto bene?» gli chiesi.
Lui mi lanciò un’occhiata che non compresi molto bene e mi fece cenno di uscire. Arrivammo a “casa mia” e dopo aver salutato velocemente Ed salimmo le scale per andare nella mia stanza. Mi chiusi la porta alle spalle e mi sedetti sulla sedia della scrivania. Ray si appoggiò al davanzale della finestra.
«Tutto bene?» ripetei.
«Sì, diciamo che rispetto alle altre volte è andata bene.»
«Che vuoi dire?» chiesi confuso.
Lui alzò le spalle. «Nel senso che mentre parlavamo non ci siamo urlati contro. Comunque non potevamo con mia madre in quella situazione.»
«Eppure quando l’ho visto uscire sembrava parecchio arrabbiato» osservai.
«Lui è fatto così. È incazzato anche se non ne ha le ragioni.»
«Ah» feci. «E cosa vi siete detti?»
In effetti mi sentivo un po’,anzi, molto invadente, ma volevo sapere cosa era successo, sia per il fatto della “missione”, ma anche perché ero semplicemente curioso.
«Hai presente quando nei film il protagonista e il cattivo si alleano per far fronte ad un nemico ancora più grande e pericoloso?»
In realtà no, non ce l’avevo presente ma annuii comunque. «Ecco» disse lui, «è quello che  successo, ci siamo alleati per combattere la malattia di mia madre.»
Adesso capivo. «Avete fatto bene», gli sorrisi.
«Grazie» fece all’improvviso.
Io lo guardai sorpreso e risi. «Per cosa?»
«Senza di te, io e mio padre non avremmo mai trovato un accordo. Sei stato tu che mi hai spinto ad andare a trovare mia madre quando era presente anche lui. Gerard, è stato tutto merito tuo.»
In quel momento mi sentii tanto orgoglioso di me quando felice per lui. Stava funzionando, lo avevo aiutato, e avrei continuato a farlo per il poco tempo che mi rimaneva ancora.
Lo riaccompagnai a casa e durante il tragitto parlammo del più e del meno. Mi aggiornò su come stesse andando l’università, e mi disse anche che aveva conosciuto una ragazza al suo stesso corso che era molto carina. Mi venne in mente Eve, ma forse lei apparteneva al suo passato, anche se per un momento era giunta nel suo presente.
Tornai a casa con calma, con passo pigro. Non che fossi stanco, solamente avevo capito una semplice cosa, forse un po’ troppo tardi ma meglio che mai. Se non fossi riuscito a superare la “missione”, o se comunque non fossi riuscito a scampare alla mia morte per una seconda volta, quegli erano i miei ultimi mesi sulla Terra, e me li dovevo godere con tutto me stesso. Non so in che modo l’avrei fatto. Per quel momento mi prendevo le giornate con calma e mi lasciavo il tempo per pensare un po’ a tutto quello che mi circondava. Insomma, perdere tempo anche a causa dei dettagli più insignificanti, come una farfalla che si posa su un fiore o come una foglia strappata dal vento al suo albero. Volevo vedere come era davvero il mondo, sia nei suoi lati belli che in quelli brutti, perché non si può conoscere una cosa solo per certi aspetti. Sarebbe come amare una persona solo per i suoi pregi. Non ha senso, i difetti ci sono, e non vanno ignorati, vanno imparati ad amare tanto e anche più dei pregi. Se impari ad amare le imperfezioni impari ad amare il mondo e tutto ciò che lo compone. Mi rendevo conto di sembrare un po’ troppo ottimista, ma io non avevo tempo per essere il contrario, la mia vita sarebbe stata troppo breve per pensare continuamente in negativo, non ne valeva la pena.
Presi le chiavi della tasca dei jeans e la girai nella toppa. Ed stava preparando la cena e un buon odore si spargeva per tutta la casa. Mentre lavorava ai fornelli gli raccontai dei miei successi. Non lo facevo molto spesso, preferivo tenerli per me, ma quella volta ero così felice che avevo la necessità di parlarne con qualcuno e quel qualcuno poteva essere solo Ed.
«Sono contento del lavoro che stai facendo, Gerard» disse lui, dopo che ebbi finito di parlare.
«Non pensavo ci sarei riuscito. Cioè» mi ripresi, «ancora i due mesi non sono finiti, ma penso di aver fatto un buon lavoro.»
«Anche io penso che tu abbia fatto un buon lavoro.» Ed, con una presina, prese una teglia dal forno e la poggiò sul tavolo facendomi segno di mettermi a sedere.
Cenammo in tutta tranquillità. Solitamente mangiavamo veloce e poi andavo in camera mia, mentre Ed lavava i piatti, ma quel giorno rimanemmo a parlare fino a tardi.
Alla fine lo aiutai a sistemare le stoviglie e poi andai di sopra. Mi cambiai velocemente e mi infilai sotto le coperte. Mi ci volle più di un’ora per addormentarmi e alla fine trascorsi un sonno agitato. Non ricordavo che sogno feci. Nella mia mente c’era solo un’immagine sfocata di una frattura profondissima nella pietra e una scala infinita che vi scendeva. Non riuscivo a capire cosa potesse significare, sentivo solo un senso di inquietudine e impotenza.
La mattina, quando scesi per la colazione, vidi Ed che parlava velocemente al telefono. Io cominciai a mangiare senza badare molto alla conversazione che stava avendo.
Alla fine venne da me e notai la sua espressione preoccupata. Misi giù la tazza di caffè che avevo fra le mani e lo guardai. «Cosa è successo?»
«Era la madre di Ray» fece Ed.
La madre di Ray?, pensai confuso.
«E quindi?» lo incalzai a continuare.
«Ray e suo padre dovevano andare stamattina a prenderla all’ospedale con l’auto perché avevano deciso di dimetterla. Hanno avuto uno scontro frontale con un’ambulanza che usciva dal posteggio del Pronto Soccorso.»
Lasciai che le braccia mi cadessero lungo i fianchi e anche se avevo capito tutto, chiesi a Ed come stesse Ray.
«Non ce l’ha fatta» sussurrò. «Mi dispiace, Gerard.»
Non dissi nulla. Mi alzai lentamente dalla sedia e dopo aver preso le chiavi di casa uscii e andai al parco. La mattina presto non c’era nessuno, solo qualcuno che portava il proprio cane a fare una passeggiata.
Mi sedetti sotto un albero e chiusi gli occhi.


Una donna piange cercando di soffocare i gemiti soffocati. Un bambino con i capelli scuri e gli occhi verdi è seduto su una poltrona e guarda la donna senza capire. Lei si alza e va verso il bambino, si china su di lui e gli accarezza una guancia.
«Che è successo mamma?» mormora il piccolo.
«Ora la mamma ti deve dire una cosa» singhiozza lei, «ma mi devi promettere che farai il grande, va bene?» Il bambino annuisce e aspetta che la donna dica qualcosa.
«Papà ha fatto un brutto incidente al lavoro e mi sa che non tornerà più a casa.» La donna cerca di trattenere le lacrime, ma qualcuna scappa al suo controllo e le scivola giù per una guancia.
«No, io voglio papà» piagnucola piano il bambino.
«No, amore» fa piano la mamma. «Papà non c’è più, adesso ci siamo io, tuo fratello e la nonna, vedrai che staremo bene. Okay?»
Il bambino non piange, semplicemente abbraccia sua madre che non riesce più a trattenere i singhiozzi.
Si addormentano entrambi su quella poltrona.



Cominciai a piangere seduto sotto quell’albero, senza preoccuparmi della gente, anche se poca, che passava.
Non erano questi i ricordi che avrei voluto avere della mia vita. Ci sarebbero state tante cose belle da poter ricordare, e fra tanti momenti della vita passata che mi era ancora sconosciuta, quelle scene mi tornavano alla mente prepotentemente. Comunque capii che i pezzi del puzzle del mio passato trovavano incastri quando nella mia vita attuale succedeva qualcosa di simile, o che potesse essere in qualche modo ricollegabile ad essi.
Le lacrime mi scendevano copiose come a mia madre nel ricordo. Non avevo mai pianto da quando era cominciata la “missione”. Non avevo versato nemmeno una lacrima, ma forse quello era un buon momento per farlo.
Dopo un po’ che ero lì cominciò a piovere, ma gli imponenti rami di quell’albero riuscivano in buona parte a ripararmi dall’acqua. I pochi che stavano passeggiando per il parco se ne andarono e rimasi finalmente da solo con me stesso.


Non ricordavo che ore fossero quando tornai a casa, mi ricordavo solo che per tutto il giorno non avevo mangiato nulla e le uniche cose che mi avevano fatto compagnia erano il ricordo straziante di mia madre che piangeva e quello di Ray. Non pensavo ad altro. E poi, diciamocela tutta, se Ray era morto era colpa mia. Io lo avevo spinto a chiarire con suo padre, se non lo avessi fatto, lui non sarebbe mai andato in auto con lui e sarebbe ancora vivo.
A tarda notte mi alzai dal letto in cui ero stato a vegetare tutto il giorno e scesi in cucina. Mi preparai una tazza di caffè e poi presi un pacchetto di biscotti. Tornai in camera e cominciai a mangiare. Dopo un po’ aprii la finestra, mi sentivo come soffocato da quel luogo. Ormai anche quella città e Ray appartenevano al passato, dovevo andare avanti e provare ad aiutare un’altra persona, non potevo aspettare. Mi alzai e mi diressi verso la camera di Ed, bussai un paio di volte, alla fine mi venne ad aprire.
Non sembrava si fosse appena svegliato,: ero piuttosto cosciente e non sembrava irritato dal fatto che fosse piena notte.
«Non voglio aspettare» annunciai. «Voglio andare subito dalla prossima persona che dovrò aiutare.»
Mi preparai ad ogni genere di insulto e rifiuto, ma lui semplicemente annuì.
«Sistemai e prepara le valige, si parte fra mezz’ora.»
La cosa mi soprese davvero. Non mi sarei mai aspettato che mi desse ascolto.
Tornai in camera mia e infilai nello zaino le matite, l’album e il telefono. Poi frugai nell’armadio finché non trovai una valigia. Ci infilai malamente tutti i vestiti. A un certo punto, mentre prendevo una pila di felpe, sentii un leggero fruscio che non era di stoffa. E lo vidi, il disegno del ragazzo. Era da tanto che non lo riprendevo in mano, e la sensazione mi risultò un po’ strana; sentii come un leggero brivido sulla schiena. Lo infilai delicatamente dentro lo zaino e dopo aver finito la valigia, la chiusi.
Andai al piano di sotto, Ed era già pronto.
Uscimmo di casa che erano le quattro di mattina. La strada buia era illuminata solo da un lampione che mandava un luce fioca che rischiarava appena l’asfalto.
Misi la mia valigia sul sedile posteriore e poi mi accomodai accanto a Ed. Mise in moto l’auto e lasciammo quella casa, per sempre.


Dopo poco più di un’ora di viaggio ebbi la forza per chiedere quanto mancava ancora.
«Entro due ore dovremmo arrivare.»
Non avevo la minima idea di dove stessimo andando, e nemmeno mi importava. Volevo solo lasciare quella città, la prossima persona poteva anche abitare in Cina, non sarebbe cambiato nulla.
«Ho parlato con gli altri» fece Ed ad un certo punto. Non volli indagare su chi fossero gli altri. «Quando tu sei andato via stamani, dopo averti raccontato cosa era successo. Hanno deciso che per loro la prova era come superata anche se i due mesi non erano ancora scaduti.» Era una notizia bella, ma in quel momento non abbastanza da rendermi felice.
«Bene, quindi adesso devo aiutare qualcun altro e poi dovrò evitare per la seconda volta di morire.»
Lui annuì tristemente. «Ti hanno anche concesso un mese in più con la prossima persona.»
Lo guardai sorpreso. «Perché?»
«Non conosco la vera ragione, pensano che tu abbia fatto un buon lavoro e comunque un cosa del genere non era prevista. Prendilo un po’ come un risarcimento danni.»
Risarcimento danni, ripetei disgustato nella mia mente. Stavamo parlando di persone che soffrivano o che non ne avevano nemmeno più la capacità.
«Che problemi ha la prossima persona?» chiesi sconsolato.
«Si chiama Frank, ha quindici anni» cominciò. «Capirai da solo perché deve essere aiutato.»
«Va bene, ma più che aiutarlo dovrò evitare che muoia.»
«Gerard, è stato un’incidente, tu non hai colpe!» esclamò lui.
«Non è vero» replicai con voce calma, «e lo sappiamo entrambi.»
«No, io non lo so» protestò lui. «Tu non hai fatto niente per farlo morire, assolutamente niente. Non ti addossare la colpa, non è tua.»
«E allora di chi è?» chiesi provocatorio.
«Di nessuno! Le cose accadono, non c’è sempre bisogno di un colpevole.»
«Non andremo nemmeno al suo funerale» commentai.
«Mi hai chiesto tu di partire subito» osservò sulla difensiva.
«Hai ragione.» Sospirai arreso, era inutile discutere.
«Scusa» fece Ed alla fine. «Non volevo essere così brusco.»
«Non importa.» In quel momento non mi importava di nulla, ma erano solo dettagli.
L’ultima ora di viaggio rimasi incollato al finestrino per ammirare l’alba. Era davvero troppo bella per perdermela. Sulla linea dell’orizzonte si alzava il sole, rosso fuco che dava al cielo un colore fra l’arancione e il rosa. Una linea di nuvole si stagliava poco sopra l’astro che sorgeva. Era uno spettacolo magnifico.
Arrivammo a destinazione che era mattina presto, ed eravamo entrambi distrutti. Non ebbi nemmeno il tempo di guardarmi un po' intorno per vedere in che posto fossimo capitati, mi precipitai in casa e dopo aver chiesto a Ed quale fosse la mia camera mi sdraiai sul letto ancora vestito e mi addormentai.


Erano le una di pomeriggio quando Ed venne a svegliarmi dicendomi che il pranzo era pronto. A dire la verità non avevo nessuna voglia di mangiare. I biscotti che ero riuscito a buttare giù la notte prima erano rimasti bloccati nello stomaco, come se ci fosse una mensola che raccoglieva tutto il cibo che avevo buttato giù e non lo lasciasse passare. Era una sensazione a dir poco orribile, ma non ci potevo fare nulla.
Andai comunque in sala da pranzo, più che per mangiare, per vedere come fosse la nuova casa. Era molto più grande e bella di quella in cui eravamo prima, che per me era già grandiosa.
Ed mi spiegò che aveva tre piani. Al piano terra c’era una cucina spaziosa fornita di tutti gli elettrodomestici possibili immaginabili, un salotto gigante con tre divani disposti a ferro di cavallo in pelle bianca, un puffo al centro del ferro. Davanti a questo una televisione che sembrava lo schermo di un cinema, sul lato destro un’immensa libreria piena di libri, cd e dvd vari, infine una grande scrivania in legno scuro. Su quel piano c’era anche uno studio, la sala da pranzo, e un ampio ingresso.
Mentre cercavo di mangiare qualcosa Ed mi illustrò anche gli altri due piani. Sembrava un agente immobiliare che volesse vendermi quella casa.
Al primo piano c’erano le tre camere principali. E infine al terzo piano, che non era un vero e proprio piano ma una specie di mansarda, c’era una spaziosa e ben illuminata camera.
«Se vuoi puoi trasferire la tua camera nella mansarda» mi propose. «Forse è un po’ più fredda, ma di certo è più spaziosa e luminosa.»
«Va bene» annuii, «dopo decido.»
Mi infilai in bocca una forchettata di pasta e poi ripresi a parlare. «Senti, il ragazzo che devo aiutare hai detto che ha quindici anni, vero?» Ed annuì. «Allora va a scuola.»
«Sì» fece Ed, «va ancora a scuola.»
«Non mi sembra giusto che un ragazzino debba avere dei problemi a quindici anni» osservai.
«Lo so, Gerard» sospirò. «Ma è così, noi non possiamo fare altro che dargli una mano.»
«Sì, ma è ingiusto comunque.» Poi cambiai discorso. «Quando lo potrò incontrare?»
«Quando vuoi» disse lui. «Comunque io conosco sua madre, quindi non sarà un problema.»
«Conosci sua madre?» chiesi stupito. «Pensavo che voi che fate questo “lavoro” non aveste una vita sociale.»
«Infatti è così, ma prima di cominciare questo “lavoro” vivevo come tutti.»
«Ah, e quindi?»
«Non lo so, potremo invitare la sua famiglia a cena e in quell’occasione vi potreste conoscere.»
Ci pensai un po’, in effetti era una buona idea. Avrei potuto conoscere Frank in modo semplice e saremo diventati amici velocemente, almeno lo speravo.
«Per me è okay» annuii. «Ma come mi presenterai a loro?»
«Andiamo avanti con la storia dello zio scrittore e del nipote che lo segue, non ci vediamo da molto, non sa quello che è successo in questi anni.»
«Bene» acconsentii.
«Allora cerco il numero e gli dico di venire stasera!» esclamò entusiasta. Io ero solamente nervoso di conoscere Frank, non sapevo cosa aspettarmi. In particolare non sapevo come comportarmi con lui. Con Ray era stato diverso, aveva la mia età, ed era piuttosto estroverso, e io avevo fatto poco e nulla per stingere amicizia, ma con il nuovo ragazzo avevo la sensazione che non sarebbe andata così. Sentivo che avrei dovuto fare io il primo passo, e io avrei dovuto fare amicizia. Può sembrare stupido, ma la cosa mi spaventava un po’.


Ed si alzò da tavola e andò nello studio del quale, a quanto pareva, si era impossessato. Non che la cosa mi interessasse. Ne uscì dopo più di mezz’ora con un sorriso stampato sulla faccia, come se ci fosse qualcosa di cui essere felici.
«Gerard» mi chiamò, «hanno detto che vengono!»
«Bene» non sapevo se lo fosse, un bene, «e io adesso che faccio?»
«Non lo so.» Alzò le spalle. «Che ne dici di cominciare e preparare la cena con me?»
«Sono le tre del pomeriggio» gli feci notare.
«Mia nonna per il pranzo della domenica cominciava a cucinare il sabato mattina.»
«Ma non ha senso!» pretestai io.
«Dai Gerard, non piagnucolare e aiutami così ti insegno a fare qualcosa.»
Decisi di non rifiutare. Tutto sommato sarebbe stato divertente cucinare, forse, e comunque, come diceva Ed, avrei potuto imparare qualcosa.


Passammo tutto il pomeriggio fra i fornelli e il forno, se così si può dire, e non smettemmo mai un secondo di cucinare.
Ed non si accontentava mai, e tutte le volte che dicevo che era abbastanza quello che avevamo cucinato, lui insisteva che non era mai abbastanza, e allora continuava ad infilare torte e lasagne nel forno.
Come minimo sarebbe avanzata più della metà delle cose che avevamo cucinato. Era umanamente impossibile mangiare tutta quella roba, e se, come pensavo, la famiglia di Frank era composta da massimo tre o quattro persone, io e Ed avremmo dovuto mangiare avanzi per almeno una settimana.
Alla fine Ed annunciò che avevamo preparato cibo a sufficienza, e allora lo aiutai ad apparecchiare la bella tavola che c’era nella sala da pranzo.
Quando riuscii a concedermi un minuto di riposo erano le sette e mezza e dopo solo mezz’ora sentii suonare il campanello.
Ed andò sorridente ad aprire la porta mentre io lo seguivo nervoso con le mani nelle tasche della felpa che in quel momento era la mia unica alleata contro tutto quel casino che stava succedendo. Cavolo, avevo paura, non volevo conoscere il nuovo ragazzo. Ray era morto a causa mia e non volevo che a Frank succedesse lo stesso. Avrei fatto qualsiasi cosa pur di non vedere un'altra persona innocente morire perché io ero un idiota che non sapeva camminare mettendo un piede davanti all’altro.
Comunque seguii Ed fino alla porta, fino a quando questa non fu aperta.
Davanti a noi c’era una donna con in mano un dolce e una bottiglia di vino, piuttosto bella, un po’ più giovane di Ed, a cui sorrise e strinse la mano.
All’inizio oltre alla donna non vidi nessun altro e la cosa mi parve piuttosto strana, poi lei si scostò dalla porta entrando e dietro di lei comparve un ragazzo. Era basso, con i capelli scuri sugli occhi nocciola. Stampato in faccia aveva un sorriso, il sorriso triste che avevo ritratto solo qualche settimana prima.

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Capitolo 7
*** Quello che mai si penserebbe ***



 


7

Quello che mai si penserebbe






Rimasi impalato di fronte alla porta.
Davanti a me c’era un ragazzo, ma non era un ragazzo qualsiasi, era quel ragazzo che da quando mi ero svegliato in quel posto tutto bianco mi aveva accompagnato. In senso metaforico, s’intende. Era il primo ricordo che ero riuscito a recuperare e per un po’ era stato anche l’unico.
Non avevo nessun dubbio: era lui. Non avrei mai potuto confondere quegli occhi verde nocciola, i capelli scuri sul viso e soprattutto il sorriso triste.
Pensai un attimo. Quel ragazzo doveva necessariamente appartenere alla mia vita precedente, perché, per una strana ragione, ne avevo conservato il ricordo. L’altra ipotesi era che fosse stato tutto frutto della mia immaginazione. Ma considerando che me l’ero ritrovato davanti, era da escludere che fosse prodotto della mia mente malata (a questo punto decisi che sì, forse avevo qualche problema). Allora lo avevo conosciuto da vivo, e poiché della mia vita precedente mi ricordavo poco o nulla, non potevo averne la conferma. Però forse lui si ricordava di me, insomma, se ci eravamo già incontrati doveva ricordarsi di me, o no?
Non aveva senso, ma ormai nulla nella mia vita aveva un senso logico, e quindi mi ero abituato.
Mi resi conto che ero davanti alla porta come un idiota e stavo anche bloccando il passaggio a Frank. Mi scostai di poco e lui entrò seguendo sua madre.
Frank non mi salutò, nemmeno io lo feci, comunque.
Chiusi la porta e feci un sospiro. Era impossibile, perché doveva essere il ragazzo che avevo nella testa? Non poteva essere un ragazzino qualunque? No, evidentemente no, altrimenti le cose sarebbero state troppo semplici, non vi pare?
Dall’altro lato però ero anche contento di avere la possibilità di conoscerlo. Lui era stato l’ancora di salvezza nei momenti più bui di quel periodo che avevo passato sulla Terra da quasi-vivo, e senza la sua faccia impressa nella mia mente forse avrei rinunciato alla “missione”.
Decisi finalmente di andare in cucina dove erano tutti. Ed stava bevendo da un calice del vino rosso, come la donna, forse proprio quello che aveva portato lei, e stavano parlando animatamente. Sembravano conoscersi da sempre, e forse era così. Non che mi importasse, comunque. Ed stava illustrando il menù della serata alla donna che annuiva e sorrideva tutte le volte che lui le mostrava un piatto diverso e ogni tanto prendeva un sorso dal calice.
Frank era seduto su una delle sedie che erano disposte intorno al tavolo con i gomiti poggiati sulle ginocchia, guardava distrattamente sua madre e poi si girava intorno, senza osservare qualcosa in particolare, ma più come se stesse cercando qualcosa di interessante su cui concentrare la sua attenzione.
Mi accorsi che Ed aveva finito di parlare con la donna e si stava rivolgendo a me.
«Gerard,» mi chiamò «porta Victoria e Frank in sala da pranzo, io arrivo fra un momento con le lasagne.»
Annuii senza dire nulla e li feci cenno con una mano di seguirmi fino alla sala da pranzo dove madre e figlio si sedettero l’uno di fronte all’altra. Io non mi sedetti, decisi di controllare dove si sarebbe seduto Ed.
Mi sentivo terribilmente fuori luogo; non avevo detto una parola, e a quel punto si sarebbe potuto pensare che fossi scortese e maleducato, ma non era vero, ero solamente agitato e nervoso, il fatto che poi io avessi già “visto” quel ragazzo non rendeva le cose più semplici.
Dopo nemmeno un minuto arrivò anche Ed e posò al centro del tavolo due teglie di lasagne. Io gliel’avevo detto che aveva cucinato per un esercito quando eravamo solo in quattro.
«Secondo me sono buonissime» osservò Victoria. L’aveva chiamata così Ed, vero? Sì.
«E infatti lo sono» affermò con senza modestia Ed accomodandosi accanto a Victoria.
Restava ovviamente solo un posto, quello accanto a Frank. Non sapevo se sarei riuscito a dire qualcosa, probabilmente no, anzi sicuramente.
Ed servì tutti con abbondanti porzioni di lasagne e cominciammo a magiare. Ed e Victoria parlarono del più e del meno. Io, ostinato nel mio silenzio, cominciai ad ascoltare le loro conversazioni.
Scoprii che la madre e il padre di Frank avevano divorziato circa due anni prima e lui si era trasferito poco lontano da lì. Victoria era commessa in un negozio di abbigliamento in centro. Frank, ovviamente, frequentava il liceo della città.
Victoria si vantava un po’ del figlio. Da quanto capii era molto bravo a scuola e aveva degli ottimi voti. Però, capii anche che quella era l’unica cosa che le importava: che il figlio avesse buoni voti, per il resto poteva fare quello che voleva.
I due continuarono a fare conversazione, ma gli argomenti successivi non mi interessavano, così, mentre le portate si susseguivano e il mio stomaco si riempiva, mi misi a studiare Frank cercando di non farmi notare.
Anche lui non aveva detto nulla da quando era arrivato, eccetto un saluto veloce a Ed, e un “grazie” quando l’aveva servito. Il suo sorriso triste e malinconico era scomparso e al suo posto c’era un’espressione indecifrabile, almeno per me. Notai che tutti i dettagli del suo viso che avevo disegnato corrispondevano alla realtà, anche il piccolo neo sullo zigomo e il particolare colore degli occhi. Spesso piegava la testa da un lato e socchiudeva leggermente gli occhi, come se improvvisamente gli fosse venuto in mente qualcosa di importante. Mi sarebbe piaciuto davvero tanto sapere cosa, ma non volevo chiederlo.
Non mangiava molto, infatti era basso e piuttosto magro. Per lo più si limitava ad assaggiare un po’ di tutto ma in piccole porzioni. Teneva il gomito destro sopra il tavolo, mentre l’altro braccio lo teneva sotto. Anche io tenevo spesso il braccio che non usavo per impugnare la forchetta sotto il tavolo, e lo tiravo fuori solo quando mi serviva. Forse era un gesto involontario, ma da come si atteggiava, capii che in realtà, almeno nel suo caso, era un gesto di insicurezza.
Finalmente, o forse no, arrivammo al dessert. Ed aveva preparato due dolci, un semifreddo al caffè e una torta al cocco e cioccolato.
Io ne presi un pezzo di entrambi, mentre Frank solo un pezzo della torta al cocco e cioccolato.
«Ti piace, Frank?» Era la prima domanda che Ed faceva al ragazzino quella sera.
Lui si trovò un attimo spiazzato, poi annuì convinto. «Sì» sorrise, «è buonissimo.»
Questa affermazione fu un po’ la sua condanna, perché con la scusa che aveva mangiato poco, Ed gli rifilò un totale di quattro porzioni di dolce. In effetti era davvero buono, ma penso che alla fine Frank stesse per scoppiare.
Notai che anche Victoria aveva mangiato più di una porzione del dolce, e dovetti riconoscere che mi ero sbagliato a pensare che non avremmo mai finito quella torta.
Ed continuava a parlare con la madre di Frank. I loro argomenti sembravano non finire mai, sul serio. Sembrava fossero stati in una specie di cella di isolamento per anni e ora dovessero sfogarsi dopo non aver avuto relazioni umane per un tempo infinito.
Io e Frank continuavamo ad ignorarci e a non parlare. Sapevo che prima o poi ci saremmo in qualche modo dovuti presentare o che so io, ma avevo una paura inverosimile. Paura di cosa non l’avevo ancora capito, ma c’era, e non riuscivo ad allontanarla. Mi concentrai e attinsi alle mie capacità auto-persuasive per convincermi a spiccicare una parola con quel ragazzino.
Presi un respiro profondo e mi ripetei che era tutto okay, che non c’era motivo di essere nervoso in quella maniera, era solo un ragazzino, anche se per qualche inspiegabile ragione io l’avevo necessariamente già visto. Una voce riscosse i miei pensieri.
«Io e Victoria andiamo in giardino a fumare» stava dicendo Ed, «torniamo fra un po’. Se volete c’è del gelato nel congelatore.» E con un sorriso a entrambi lui e Victoria se ne andarono nel nostro bel giardino e io rimasi in sala da pranzo con Frank.
Cercai di farmi venire in mente qualcosa di intelligente da dire visto che lui non sembrava molto intenzionato a cominciare un discorso.
«Lo vuoi il gelato?» feci alla fine. Lui annuì lentamente e così mi girai facendogli segno di seguirmi in cucina.
Come aveva detto Ed, nel surgelatore trovai una vaschetta di gelato al cioccolato, nocciola e yogurt. Presi due ciotoline e due cucchiaini e poi chiesi a Frank quale gusti volesse.
«Nocciola, è il mio gusto preferito» disse.
«Davvero?» chiesi curioso. Questa discussione sui gusti dei gelati era davvero interessante. Spero mi avrebbe portato da qualche parte.
Lui annuì mentre io cominciavo a riempire la sua ciotolina. «Il tuo qual è?» domandò.
Mh, quale era il mio gusto preferito? «Cioccolato e yogurt, penso.»
«A me non piace il gelato allo yogurt. È troppo… non so. Acido?»
Sorrisi e poi gli passai la sua porzione di gelato alla nocciola. «Siediti pure al tavolo, arrivo subito.»
Lui fece come gli avevo detto e dopo essermi preparato il mio gelato mi misi sulla sedia di fronte a lui.
Frank aveva già cominciato a mangiare avidamente il gelato alla nocciola, e a dire la verità sembrava un bambino mentre si portava il cucchiaino alla bocca.
Sorrisi di nuovo e cominciai a mangiare anche io. Se entro quei tre mesi non mi fossi ammalato di diabete per tutte le cose che Ed mi faceva ingurgitare ero certo che non ne avrei più avuta l’occasione.
«Quindi tu sei Gerard» disse lui ad un certo punto.
Annuii. «E tu sei Frank»
«Esatto» sospirò. «Come sei finito qui?»
«Non so se lo sai, ma mio zio è uno scrittore. Gli piace viaggiare e io vivo con lui, non stiamo più di tanto nello stesso posto, mai. Non so la vera ragione per cui abbia scelto questa città, ma forse ora ho capito.»
«Per mia madre?» chiese lui.
«Non lo so, probabile. Forse voleva rincontrare una vecchia amica.»
Comunque, il fatto che fossi diventato così bravo a dire le bugie non è che mi piacesse tanto, anzi, mi dava sui nervi. Odiavo inventare menzogne, soprattutto a persone che non le meritavano.
«E tu perché sei qua?» In realtà l’avevo capito mentre sua madre parlava con Ed, ma volevo sentire la storia dalla sua bocca.
«Ho sempre abitato qui, quando mia madre e mio padre hanno divorziato, hanno deciso che rimanessi a vivere qui con lei.»
«Beh, hanno deciso bene. Avrai degli amici…»
Lui mi interruppe. «Non ho amici, solo qualche compagno che ogni tanto aiuto con i compiti.»
«Come mai?» Odiavo anche fare l’impiccione, comunque.
Frank alzò le spalle senza rispondere e continuò a mangiare il suo gelato.
Okay, non aveva amici, e allora? Nemmeno io ero un tipo così socievole. Forse ci saremmo trovati d’accordo insieme. Lui era un ragazzo davvero dolce e alla mano. Sarebbe andato tutto bene, sicuramente.
Distolsi la mia attenzione dal gelato e lo guardai. «Cosa ti piace fare?» domandai pensieroso.
«Mh, mi piace la musica. Suono un po’ la chitarra. E la cioccolata.» Sembrava un bambino mentre parlava, nonostante avesse quindici anni, e la cosa mi piaceva da morire. Quel suo atteggiamento a tratti infantile mi faceva sorridere. Però sul suo viso non c’era la gioia che si ha nell’età dell’innocenza e questo si vedeva bene. I suoi occhi erano quelli vissuti di chi ne ha passate così tante che vorrebbe solo una spalla su cui poter piangere e forse un abbraccio, ma nei suoi c’era ancora di più. La consapevolezza del riscatto, la speranza di un futuro migliore. Magari tutte quelle cose me le ero solo immaginate, e forse ero solo troppo stanco anche per condurre una semplice conversazione, ma io le vedevo davvero tutte quelle cose nei suoi occhi.
«Davvero suoni la chitarra?» chiesi ad un certo punto riscuotendomi dai miei pensieri.
Lui alzò di nuovo le spalle. «Non molto, con la scuola e tutto il resto non ho molto tempo di esercitarmi, ma amo suonarla. Suono anche il piano.»
«Secondo me è bello avere una passione del genere, dovresti coltivarla.»
Notai che aveva finito il suo gelato, io ero ancora a metà. «Ne vuoi ancora?» gli chiesi indicando la sua ciotolina vuota.
Lui mi sorrise. «Sì, grazie.» Gli preparai una nuova porzione di gelato alla nocciola e lui ricominciò a mangiare.
«Tu invece?» mi chiese lui.
«Io?» feci confuso. «Io disegno.» In realtà avevo fatto solo tre o quattro disegni. Quello di Frank era stato il primo, poi ne avevo fatti un altro paio che raffiguravano tutti volti di persone viste per la strada o frutto della mia immaginazione. Comunque mi piaceva da matti, e Ed avevo detto che ero anche molto bravo. Ovviamente non gli avevo fatto vedere il disegno di Frank, ma gli altri glieli avevo mostrati, e gli erano piaciuti molto.
«Anche a me piacerebbe disegnare, ma non ne sono capace» ammise lui dispiaciuto.
«Non è molto difficile, devi solo osservare molto bene le cose, e poi il resto viene naturale» spiegai.
«La fai semplice» commentò mentre leccava dal cucchiaino un po’ di gelato. «Se non hai talento è inutile.»
«Il talento è importante, ma secondo me è importante anche la pratica. Insomma, potresti essere un genio, ma se non ci provi mai come farai a scoprirlo?»
Lui mi guardò con un sguardo ammirato, come se avessi appena detto chissà cosa.
«Hai ragione» sussurrò alla fine. «Ma io ci ho provato. Davvero, è meglio se non lo faccio.»
Io risi e lui fece lo stesso. Era davvero simpatico.
Ci fu un po’ di silenzio. Ma non quello imbarazzante in cui ci si guarda in giro in cerca di qualcosa su cui concentrare il nostro sguardo. Quello che era calato sulla cucina era un silenzio di riflessione, in cui ciascuno raccoglieva i pensieri e rifletteva, da solo.
«Sei davvero così bravo a scuola come dice tua madre?» chiesi curioso.
Lui sorrise abbassando lo sguardo. «Mia mamma esagera sempre. Tutte le persone che incontra sono costrette a subirsi i suoi elogi verso di me.»
Lo guardai. «Non hai risposto alla mia domanda» gli feci notare.
Sbuffò. «Me la cavo» borbottò alzando le spalle.
«Sei troppo modesto, scommetto che fai ripetizioni a metà della tua classe.»
«Aiuto un paio dei miei compagni, ma nulla di ché. Non ci guadagno nulla» spiegò.
Mi resi conto che la cosa lo metteva piuttosto in imbarazzo, e sinceramente non ne capivo il motivo. Non ha senso vergognarsi di avere dei buoni voti a scuola.
«Ehi, è bello che tu vada bene a scuola, non te ne devi vergognare» gli dissi con calma.
Lui alzò lo sguardo fino ad incontrare i miei occhi, i suoi luccicavano. Avevo centrato nel segno: se ne vergognava, l’avevo capito subito da come ne parlava.
Da quello che avevo capito, Frank era un ragazzo piuttosto introverso, ed era già tanto se stava parlando con me, che alla fine ero uno sconosciuto.
«Non è vero che me ne vergogno» ribatté lui.
«Non ci credo, lo capisco dai tuoi occhi» dissi incrociando le mani al petto.
«Dai miei occhi?» domandò confuso mentre finiva la sua seconda porzione di gelato.
Annuii con forza. «Quando ti ho detto che non c’era motivo di vergognarsene tu mi hai guardato e i tuoi occhi hanno luccicato, come se ti avessi sorpreso a rubare qualcosa.»
Aprì la bocca per ribattere, ma evidentemente non trovò le parole giuste e anche lui incrociò le braccia al petto.
«Sei una specie di mago che legge il pensiero guardando negli occhi della gente?» fece lui scherzosamente.
«Chi lo sa» decisi di reggere il gioco. «Poterei anche esserlo e tu non lo saprai mai.»
«Non mi fai paura. Per quanto ne sai potrei essere io il mago.»
Presi le due nostre ciotoline e le poggia sul piano dell’acquaio, poi tornai a sedere al mio posto di fronte a Frank.
«Beh, è una buona osservazione» ammisi. «E inoltre nessuno sospetterebbe di te come uno stregone crudele, hai l’aria troppo innocente per assomigliarci.»
«Vedi?» esclamò soddisfatto come se avesse appena vinto una scommessa. «Sei tu quello che dovrebbe avere paura di me, non il contrario.»
«Me ne ricorderò» dissi con un sorriso.
Non mi capacitavo di come, in quel poco tempo, fossimo entrati così in confidenza. Mi stupii sia di me stesso, che fino a poco tempo prima ero stato in ansia per una semplice chiacchierata che sapevo sarebbe dovuta arrivare, e sia di lui, che come avevo ben notato era piuttosto chiuso, non timido, solo riservato.
Avevo davvero tante speranze, volevo portare a termine quella missione senza tante complicazioni, anche se inevitabilmente ce ne sarebbero state. La morte di Ray mi aveva fatto capire che è inutile disperarsi per qualcosa. Certo, abbiamo tutto il diritto di essere tristi e di passare un periodo difficile, ma dopo è necessario alzarsi in piedi ed andare avanti. Rinunciare a tutto è terribilmente egoistico. Se dopo la morte di Ray avessi abbandonato la missione, non avrei rinunciato solo alla possibilità di un’altra vita, ma avrei anche rinunciato alla possibilità di aiutare una persona che aveva bisogno di una mano per poter andare avanti e per poter credere in qualcosa.
Non mi ero pentito di aver deciso di partire subito da quella città che aveva visto la morte di quello che ormai era diventato un mio amico. Non importava se non ero andato al suo funerale, avrebbe capito sicuramente, l’importante sarebbe stato aiutare Frank, aiutarlo veramente.
Sinceramente pensavo che tutti quegli psicologi e roba varia fossero abbastanza inutili. Anzi, secondo me servivano solo a confonderti maggiormente le idee e non era la cosa migliore. Invece un amico, un parente, qualcuno che ti è vicino e ti conosce veramente, è meglio di qualsiasi cosa, per un consiglio, una mano o una spinta.
Io volevo porgere la mia mano a Frank, e l’avrei fatto. Forse l’avevo già fatto, però non capivo se lui avesse accettato o no quell’aiuto. Nel mio cuore pensavo di sì, ma non ne avevo la certezza. Per quanto ne sapevo io, lui poteva anche fare il carino perché ero il “nipote” di un amico di sua madre, e non voleva deluderla non rivolgendomi nemmeno una parola. Avrei capito solo in seguito se per lui ero davvero importante.
«E comunque mi piacerebbe vedere i tuoi disegni, un giorno» confessò all’improvviso Frank.
«I miei disegni?» ripetei stupito.
Lui annuì convinto. Non mi aspettavo una richiesta del genere.
«Solo se tu mi farai sentire come suoni la chitarra» proposi.
«Mi sembra un compromesso più che ragionevole» acconsentì.
Non vedevo l’ora di sentire Frank suonare. Pensavo che tutte le forme d’arte come la musica, il disegno, la scrittura, fossero estremamente personali, e dare un pezzo della propria arte a qualcuno significava dare un pezzo di se stessi a quella persona. Era come un atto di fiducia, come chiudere gli occhi e gettarsi all’indietro, sapendo che c’è qualcuno di cui ti fidi ciecamente a prenderti, perché non ti lascerà mai cadere per terra.
«Se vuoi ci possiamo vedere. Quando vuoi» suggerii.
«Certo, io ho scuola, ma non è un problema. Tu invece? Non lavori? Non hai una ragazza?»
Lo interruppi. «No. No. E non ho una ragazza»
«Scusa, pensavo che ce l’avessi. Insomma sei più grande di me. Quanti anni hai?»
«Diciannove. Tu hai quindici anni, vero?» gli chiesi.
«Sì, li compirò fra poco» rispose. «Te l’ha detto tuo zio?»
Annuii. «Fai il secondo anno di liceo.» Non era una domanda, ma un semplice osservazione. Se mi facevo due calcoli dovevo avere ragione, e comunque non pensavo fosso mai bocciato, visto che era bravo.
«Esatto. Ma tu non vai all’università?» In effetti, un ragazzo della mia età completamente nullafacente era un po’ strano. Non studiavo, non lavoravo, non avevo nemmeno un piccolo impiego saltuario.
«No, mi sono preso un po’ di tempo prima di decidere cosa fare.» Mi sembrò una risposta più che legittima. Anche se a dire la verità mi sarebbe piaciuto, se avessi superato la “missione”, iscrivermi all’università. L’avrei fatto davvero se tutto fosse andato secondo i piani.
«Capisco» annuì lui.
«Tu cosa vorresti fare dopo il liceo?»
«Non lo so» rispose. «Mia mamma mi vorrebbe mandare a qualche facoltà importante, tipo medicina o legge. Ma ancora non so cosa voglio.»
«Comunque quando lo saprai non dovrai farti influenzare da nessuno, nemmeno da tua madre. Tutti dovrebbero inseguire il proprio sogno, qualunque esso sia.»
«Sono d’accordo con te» affermò. «Ma mia madre sarà difficile da convincere. Le piace comandare e fare come vuole, anche per gli altri.»
«Forse lo fa solo per il tuo bene.» Provai a convincere anche me di questa cosa, ma la mia straordinaria dote di auto-convincimento venne per un po’a mancare e capii che non lo faceva per il suo bene, ma solo per poter andare il giro a vantarsi di avere un figlio medico o avvocato.
«No, lo fa per se stessa.»
«Dovresti parlarne con lei» gli suggerii.
«Ci ho provato mille volte, ma non le interessa. E poi è sempre fuori a lavorare o con le amiche. Non le interessa di me.»
«Tutte le madri dovrebbero mettere al primo posto i figli.»
Gli unici due ricordi che avevo erano di mia madre, e lei metteva i figli al primo posto, non se stessa o nessun altro. Sicuramente era una madre dolce e comprensiva, non come quella di Frank.
Mi dispiaceva per lui.
«Ma non tutte lo fanno» concluse lui.
Mentre lui finiva di pronunciare quelle parole dalla porta della cucina apparvero Ed e Victoria. Stavano ridendo e non sembrarono nemmeno accorgersi di noi.
«Ehi ragazzi!» fece Ed. «Tutto bene?»
«Tutto bene» risposi io.
Victoria si fece avanti e si rivolese a me. «Avete una casa davvero bella!» esclamò. «Sei fortunato ad avere uno zio come Ed.»
«Sì, è vero.» Feci un sorriso piuttosto falso, non sapevo che dire e non volevo offendere nessuno.
Rimanemmo un attimo in silenzio, poi Victoria intervenne. «Forse è meglio se adesso andiamo» decise dando una veloce occhiata al suo orologio. «Vi ringrazio tantissimo per la cena, era tutto buonissimo.»
«Oh, non è niente.» Ed scosse una mano come per dire che aveva fatto una cosa da nulla.
Victoria si portò vicino a Frank e gli mise un braccio intorno alle spalle. Lui rimase impassibile.
Ci avviammo tutti verso la porta e i nostri due ospiti presero le loro giacche e se le infilarono addosso.
«Senti» disse Ed a Victoria, «domani è sabato, non è che ti andrebbe di venire con me a mangiare qualcosa?»
«Mi farebbe molto piacere!» accettò lei entusiasta. Sembrava una ragazzina al primo appuntamento.
«Perfetto» affermò Ed. Poi si rivolse a Frank. «Se ti va tu puoi tornare qui da noi, almeno non sarete soli» concluse guardando anche me.
Io annuii e mi voltai verso Frank per avere anche la sua approvazione.
«Per me va benissimo» disse alla fine.
«Bene» intervenne sua madre. «Verrò domani sera alle otto a portare Frank e a prenderti» disse a Ed.
Dopo qualche altro minuto pieno di saluti, Frank e sua madre andarono via e rimanemmo soli in casa io e Ed.
Ci sedemmo al tavolo in cucina. Era piuttosto tardi, ma io ero troppo agitato per dormire.
Eppure quando avevo conosciuto Ray non ero così euforico. Certo, provavo quel misto di felicità e preoccupazione, che forse era anche normale, ma con Frank era diverso.
«Com’è andata?» mi chiese subito.
«Bene, direi» annuii. «Ma la vera domanda è: come è andata a te?»
Ed mi guardò confuso, come se non capisse a cosa mi stessi riferendo. «A me?»
«Sì, tu e Victoria…»
Ed scoppiò a ridere come se avessi appena raccontato una barzelletta eccezionale. Adesso ero io confuso.
«Fra me e Victoria non c’è assolutamente nulla” spiegò. «Lei è solo una vecchia amica, te l’ho già spiegato.»
«E allora perché l’hai invitata a cena?»
«Pensavo fossi più intelligente» commentò. Questo non lo doveva dire. «L’ho fatto solo per poter dare il tempo a te di conoscere meglio Frank.»
«Davvero?» feci. «Ma ho tanto tempo, insomma, mi hanno dato anche un mese in più!»
«Non devi sottovalutare così il tempo, Gerard. Non ne devi sprecare nemmeno un secondo, ricordalo.»
«Mh, va bene.»
«Ora è meglio che tu vada a letto» mi suggerì lui.
Mi diressi verso la mia camera e tirai fuori il pigiama per cambiarmi.
Mi resi conto che erano le due di notte e decisi che forse era meglio dormire. Mi distesi sul letto e chiusi gli occhi.
Non avrei mai pensato che si potesse pensare così tanto ad una persona.
 

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Capitolo 8
*** Una cioccolata calda e un amico ***



 


8

Una cioccolata calda e un amico






Una flebile luce proveniva dalla finestra e fu quella che mi svegliò alle sette di mattina. In quei due mesi e qualche giorno che ero stato sulla Terra, non mi ero mai alzato così presto, solo qualche volta se Ed e io avevamo delle importanti commissioni da fare.
Mi stirai ancora sotto le coperte e cercai in qualche angolo remoto del mio cervello la forza per scendere di sotto e fare colazione. Non è che avessi tanta fame, la cena di Ed della sera precedente era stata infinita e mi avrebbe sfamato anche per la settimana successiva, ma se al mattino non mangiavo qualcosa Ed si arrabbiava. “La colazione è il pasto più importante della giornata!”, mi rimproverava. E così io dovevo mangiare per forza anche se la conseguenza sarebbe stata vomitare tutto.
Finalmente mi decisi a scendere, ancora in pigiama,  e di sotto non trovai nessuno. Nemmeno Ed si svegliava  così presto.
Presi la mia tazza rossa e feci il caffè, anche per Ed, già che c’ero. Poi tostai un po’ di pane e presi la marmellata dalla dispensa. Mangiai con tutta la calma del mondo, come se avessi tutta la vita davanti, ma non era affatto così. Da quanto ne sapevo, potevo anche avere solo quei tre mesi che mi sarebbero dovuti servire per aiutare Frank. Feci un breve calcolo, era il ventisette settembre e il tempo sarebbe scaduto il ventisei dicembre, considerando che il conto alla rovescia era iniziato il giorno prima. Non mi potevo lamentare comunque, avrei passato il Natale in quel posto.
Ce la potevo davvero fare, avevo molto tempo, e quel ragazzino mi stava davvero simpatico. Certo, aveva i suoi problemi: i genitori divorziati, una madre assente, una reputazione da ragazzo studioso e serio che di certo a scuola lo penalizzava molto, e quasi nessun amico. Inoltre, non escludevo il fatto di scoprire altre cose sul suo conto: dopotutto lo conoscevo da un giorno e avevamo parlato solo per poco.
Avrei avuto molto su cui lavorare, ma ero fiducioso, e io lo sono raramente.
Finii di bere il mio caffè in pace e dopo poco arrivò Ed.
«Che ci fai alzato così presto?!»  chiese scandalizzato.
«Che c’è Ed?» feci. «Hai visto un fantasma?»
Mi guardò torvo. «Mh, più o meno. Hai già mangiato?»
«Sì mamma» risposi sarcastico. Non ero dell’umore per una chiacchierata.
«Ti ha morso una tarantola?» Decisi di non rispondere.
Tornai di sopra per sistemarmi, anche se Frank non sarebbe arrivato prima di dodici ore.
Quando riscesi, Ed era già fresco e pulito e stava entrando nel suo studio. Non avevo mai capito come facesse a prepararsi così velocemente.
Andai in salotto e mi avvicinai all’immensa libreria. Avrei potuto impiegare il tempo leggendo qualcosa.
Scorsi le copertine facendo passare il dito indice della mano destra sulle costole di ciascuna. Ogni tanto mi fermavo a leggere il titolo per intero, certe volte nemmeno leggevo quello, e raramente tiravo fuori il libro dal suo posto per leggere la trama. Ad un certo punto il mio dito si soffermò su un titolo: Il bergsonismo.


Un bambino è seduto su un divano e aspetta qualcosa. Arriva una donna, con una tazza in una mano e nell’altra un pacchetto di biscotti al cioccolato. Porge la tazza al bambino che comincia a bere piano e prende ogni tanto un biscotto dal sacchetto che la donna gli ha messo accanto.
«Hai finito?» chiede ad un tratto la donna. Il bambino annuisce soddisfatto e qualche ciocca dei capelli neri gli finisce sulla fronte.
La donna sparisce per un minuto portando con sé i biscotti e la tazza ormai vuota.

«Come è andato il primo giorno di scuola?» La donna è tornata e si è seduto accanto al bambino.
«Bene, ma non capisco una cosa, mamma.»
«Cosa?» domanda lei scostandogli i capelli dal viso.
«Quando la maestra è in classe e parla, il tempo non passa, sembra infinito. Ma quando ci fa disegnare o c’è la ricreazione il tempo passa troppo veloce. Non è giusto!»
La donna sorride e prende sulle ginocchia il bambino. Lui la fissa puntandole addosso gli occhi verdi, curioso.
«Lo sai cosa diceva un signore tanto tempo fa di nome Bergson?»
Il bambino scuote la testa e continua a guardare sua madre, in attesa di una risposta.
«Diceva che quando stiamo bene, ci divertiamo e siamo con le persone a cui vogliamo bene ci sembra che il tempo passi velocemente, anche troppo. Ma lo stesso tempo, se lo passiamo a fare qualcosa che non ci piace o qualcosa di noioso, ci sembra non passare mai.»
«E perché?»
«È il nostro cervello che ci fa credere che un tempo sia durato più di un altro anche se sono uguali, è come una magia.»
«E chi è che fa la magia?»
«Beh, la facciamo noi!»


Il libro mi cascò di mano e dovetti arrancare fino al divano per non rischiare di cadere a terra.
Era stata la visione più lunga che avessi mai avuto. In quel momento capii che quei “salti” nel passato mi levavano davvero tante forze, quella in particolare; forse per la lunghezza.
Lasciai che la testa cadesse sul bracciolo del divano e poi, dopo aver tirato su le gambe, mi rannicchiai stringendo le ginocchia al petto. Chiusi gli occhi e rimasi lì.


«Gerard, Gerard.» Sentivo che qualcuno mi chiamava e mi tirai su. Ed era di fronte a me con aria preoccupata. Lo guardai confuso.
«Che è successo?» chiese lui.
«Nulla» feci io, «stavo dormendo.»
«Tu non dormi mai sul divano in questa maniera. A volte non dormi nemmeno quando dovresti.»
«Beh» dissi io irritato, «penso di avere il diritto di dormire quando mi pare, no?»
«Tu mi nascondi qualcosa, ragazzo.»
In effetti non avevo mai detto a Ed che stavo ricominciando a ricordare alcuni episodi della mia vita, ma tutto sommato non stavo facendo nulla di male. Quelli erano i miei ricordi, la mia vita, e a me solo appartenevano, e in quanto possessore ne potevo disporre come meglio credevo.
Ignorai l’ultima osservazione di Ed, ma notai che lui si era reso conto del libro che avevo lasciato cadere per terra dopo che avevo avuto la visione.
Lo prese e se lo rigirò fra le mani. «Che ci facevi con questo?»
«Volevo leggere qualcosa, poi mi è venuto sonno e mi sono disteso.» Come scusa era pessima e piena di falle.
«E perché il libro era per terra?» Infatti.
Alzai le spalle facendo nuovamente finta che niente fosse e me ne andai in cucina. Il grande orologio segnava l’una e la tavola era già apparecchiata. Ecco perché Ed era venuto a cercarmi, era pronto il pranzo.
Infatti lo sentii arrivare da dietro e quando fu nel mio campo visivo aprì il forno e ne tirò qualcosa fuori.
Poggiò un pollo sul tavolo e si sedette, lo imitai.
Mangiammo piuttosto velocemente e nel più totale silenzio.


Le otto di sera arrivarono troppo velocemente, oppure lentamente. Non riuscivo a capirlo. In effetti quell’uomo di cui parlava mia madre nella visione aveva assolutamente ragione: il tempo non è come sembra, un’ora non è un’ora, è quello che in realtà sembra a noi, non quello che segna l’orologio.
Però io in quel momento non riuscivo a capire se il tempo fosse passato troppo in fretta o molto lentamente. Comunque il problema non sussisteva perché l’attesa era finita.
Il campanello suonò, e la scena della sera prima si ripeté. Ed andò ad aprire la porta e io lo seguii. Ma rispetto al giorno precedente prima qualcosa era cambiato: non era Victoria che teneva fra le braccia qualcosa, ma Frank e sul suo volto non c’era quel sorriso triste e forzato, ma un sorriso sincero e aperto, ed era rivolto verso di me. Ricambiai, e gli presi dalle braccia il vassoio che lo ingombrava abbastanza e lo feci entrare.
Ed e Victoria ci salutarono velocemente e poi se andarono.
Portai il vassoio con quella che credevo fosse una torna in cucina e la poggiai sul tavolo, poi mi voltai verso Frank che mi aveva seguito.
«Che vuoi da mangiare?» chiesi io.
Lui ci pensò un attimo. «Non lo so, cosa sai cucinare?»
In realtà non avevo mai cucinato veramente, avevo solo aiutato Ed a fare le sue magie con il cibo. Ma da solo non avevo mai provato a fare nulla. Pensai fosse meglio non rivelare questo dettaglio.
«Ed è mezzo italiano e mi ha insegnato a cucinare qualcosa» mi fermai un attimo. «Che ne dici se facciamo gli spaghetti con le vongole?»
Ed me li aveva cucinati due sere prima, ed erano davvero buoni. Io ero stato tutto il tempo ad osservarlo e forse sarei stato in grado di rifarli.
«Per me va bene!» esclamò con un sorriso.
«Perfetto.»
Cominciai a prendere tutto quello che serviva. Ed aveva fatto la spesa in un negozio italiano il giorno prima per la cena con Victoria e Frank. Ma come sempre aveva comprato il doppio delle cose che poi avevamo usato, quindi avrei sicuramente trovato tutto quello che mi serviva. In caso contrario avrei improvvisato, sperando che Frank non si accorgesse di nulla.
«Li hai mai mangiati?» gli domandai curioso.
«A dire la verità no. Mia mamma non cucina praticamente mai.»
«Oh» mormorai un po’ dispiaciuto, «allora vedremo di rimediare.»
Lui mi seguiva passo passo nei genti che compivo, e io gli spiegavo. Tutto sommato era divertente.
Misi l’acqua a bollire e nel frattempo preparai il soffritto con l’aglio, il prezzemolo e l’olio. Stavo per aggiungere anche il peperoncino quando mi venne un dubbio.
«Frank, ti piace il peperoncino?»
«Mai provato» rispose. «Tu però mettilo.»
Lo guardai dubbioso.
«Non ti preoccupare» garantì lui.
Alzai le spalle e ne misi solo un po’.
Quando l’acqua cominciò a bollire buttai gli spaghetti e misi a cuocere le vongole insieme al soffritto.
«Secondo me vengono buoni» osservò Frank.
«Io lo spero» dissi poco fiducioso.
Dopo pochi minuti scolai gli spaghetti e gli unii alle vongole nella padella. Feci saltare tutto per un qualche secondo e poi annunciai che erano pronti.
Nel frattempo Frank aveva insistito per apparecchiare e gliel’avevo lasciato fare, così ci mettemmo a tavola.
Presi il piatto di Frank e lo servii, poi feci lo stesso con me.
Frank prese la forchetta ma lo fermai. «Aspetta, forse è meglio se assaggio prima io.»
Lui non mi ascoltò e si mise in bocca qualche spaghetto.
Io lo guardavo nell’attesa che cascasse giù dalla sedia o cominciasse a dimenarsi. Ma non accadde nulla di tutto ciò.
«Ehi, sono buoni!»
«Davvero?» esclamai stupito. Lui annuì convinto. Assaggiai anche io un po’ di pasta. Non erano male.
Lui prese un altro boccone ma appena ingoiò cominciò a tossire.
«Frank?» Fece un gesto di noncuranza con la mano mentre continuava a tossire rumorosamente. Mi alzai e andai vicino a lui. Aveva il viso rosso. Bevve un bicchiere d’acqua ma non fece che peggiorare le cose.
Gli passai un pezzo di pane e lo mangiò. Si calmò e si accasciò sulla sedia, poi scoppiò a ridere. Io feci lo stesso.
«Io ti avevo avvertito!» gli dissi mentre continuavo a ridere.
«Okay, avevi ragione tu.»
«Ehi, se non li vuoi mangiare non è un problema. Ti do qualcos’altro.»
Scosse la testa. «No, li mangio, ce la faccio.»
Lo guardai. «Sei sicuro?»
Lui annuì e per dimostrarmi quello che aveva appena detto ricominciò a mangiare senza problemi.
Non mi sembrava lo stesso ragazzo della sera prima, silenzioso e un po’ triste. In quel momento era tutto il contrario, parlava continuamente con la bocca piena e aveva un perenne sorriso stampato in faccia.
Se non l’avessi visto con i miei occhi non ci avrei mai creduto.
Finimmo di mangiare e lui non ebbe altri attacchi causati dal peperoncino.
Sparecchiai e poi proposi una partita a Monopoli.
Sistemammo sulla tavola il tabellone e cominciammo a giocare, mentre chiacchieravamo del più e del meno.
«Il gioco durerà poco» mi avvisò Frank.
«Come mai?»
Alzò le spalle. «Sono assolutamente negato nei giochi di società. Perdo subito.»
«Non eri il secchione bravo in tutto?» lo presi in giro.
Lui sorrise. «Questo è quello che ti fa credere mia madre, non sono bravo in tutto.»
«Allora quasi in tutto.»
«E smettila!»
«Ricordati che mi devi ancora far sentire come suoni» gli ricordai.
«Mh, la chitarra o il piano?»
«Entrambi, comunque mi sembri un tipo più da chitarra che da piano» osservai.
«In effetti mi ha costretto mia madre a suonare il piano» sospirò.
«Comunque è bello sapere suonare sia l’uno che l’altro, no?» domandai.
«Certo» affermò. «E ricordati che tu mi devi far vedere ancora i tuoi disegni.»
«Penso che i miei disegni non siano ancora pronti per un pubblico.»
Mi guardò negli occhi costringendomi ad abbassare lo sguardo. «Secondo me sei tu che non sei pronto a mostrare i tuoi disegni.»
«Probabile.» Restai sul vago.
Nel giro di meno di mezz’ora Frank aveva quasi perso tutti i suoi soldi e aveva acquistato poco o nulla.
Stavo riflettendo sulla mossa successiva quando il telefono di Frank squillò.
Da quanto capii era sua madre. Snocciolò qualche e qualche no e poi riattaccò.
«Ha detto che faranno molto tardi e forse tuo zio si ferma a dormire a casa mia, chiedono se posso rimanere qui.»
«Certo che puoi rimanere qui» gli sorrisi.
«Grazie.»
Continuammo a giocare fino a quando Frank non rimase al verde e perse.
«Io te l’avevo detto che avrei perso.»
Era davvero divertente passare la serata con Frank. Non facemmo nulla di particolare, ma anche solo la sua presenza aveva la forza di mettere di buon umore, di far ritrovare il sorriso alla persona più infelice sulla faccia della Terra. Eppure avevo capito, sia dalle sue parole che da quelle di sua madre, che non era un ragazzo sereno. Quindi non riuscivo a capire come potesse essere così felice in quel momento, davvero non ci arrivavo. Non potevo certo chiederglielo, ci conoscevamo da due giorni, e non era il caso di fare certe domande ad una persona di cui si sapeva così poco. In realtà la sera prima mi aveva raccontato molte cose sul suo conto, ma io non gli avevo chiesto nulla, era stato lui che di sua spontanea volontà aveva deciso di raccontarmi alcuni pezzi della sua vita, e apprezzavo questa fiducia che mi dava.


Stavamo finendo un pacchetto di patatine sul divano mentre guardavamo la tv, quando buttai uno sguardo all’orologio del salotto, erano le una. Ormai Ed e Victoria non sarebbero tornati. Non che la cosa mi stupisse, avevo subito notato come funzionava il rapporto fra quei due, e anche solo dalle prime parole che Ed le aveva rivolto avevo percepito che non erano semplici amici.
Mentre facevo quella semplice considerazione mi ero accorto che, rispetto alle altre persone, avevo una maggiore capacità di comprendere i sentimenti degli altri. Non è una cosa semplice da spiegare, ma immaginate di poter leggere nel pensiero degli altri e di poter sapere sempre cosa provano, come si sentono, se soffrono, se sono felici, preoccupati, ansiosi. Ecco, io non è che leggessi nel pensiero, ma avevo comunque il “dono” di sapere cosa le persone provassero semplicemente guardandole negli occhi o osservando attentamente i loro gesti.
Non pensavo fosse una cosa comune a tutti. Insomma, io ero morto e poi ero tornato sulla Terra, qualche piccola conseguenza ci sarà pur stata, no? Beh, quella era una delle cose di cui mi ero reso conto, non so se altre cose mi erano capitate. Non ne preoccupavo più di tanto, in tal caso le avrei scoperte.


Frank si mise in bocca l’ultima patatina mentre io finivo di formulare i miei pensieri contorti. Se li avessi esposti a qualcuno mi avrebbe certamente mandato come minimo in manicomio.
Con questa “capacità” che avevo appena scoperto compresi che Frank non era più felice e allegro come prima, anche se cercava di non darlo a vedere.
«Che c’è?» gli chiesi.
Lui si voltò verso di me con sguardo interrogativo. «Cosa ci dovrebbe essere?»
Una piccola goccia di sudore scese sulla sua fronte fino al sopracciglio. Lui sembrò non rendersene conto, ma si passò la mano sul viso.
«Non lo so» feci io sul vago, «sembri pensieroso.» In realtà non lo era, sembrava come preoccupato da qualcosa.
«No» scosse la testa, «sono solo un po’ stanco.»
«Vuoi andare a dormire?» proposi. «Ti do la mia camera, io dormo qui sul divano.»
«No, non ho sonno, sono solo un po’ stanco. Non voglio andare a letto.»
Un'altra goccia di sudore gli colò sulla tempia e cominciò a respirare più irregolarmente, anche se quasi impercettibilmente.
Cominciavo seriamente a preoccuparmi, non sembrava stare per nulla bene; sudava, respirava male, e con i minuti che passavano mi resi conto che inspirava ed espirava sempre più velocemente e rumorosamente.
«Ehi, Frank, che hai?» Gli misi una mano sulla spalla e lui la prese. Scosse la testa, ma non disse nulla.
Con l’altra mano si prese la gola e cominciò ad andare in iperventilazione.
Cercò di dirmi qualcosa, ma non capii, respirava male e le parole gli si soffocavano in gola.
Era madido di sudore e tremava. Non capivo cosa gli stesse succedendo, avevo paura e lui non riusciva a dirmi se fosse una cosa normale o no, anche se una cosa molto comune non era.
Lo aiutai a sdraiarsi sul divano e corsi in cucina a prendere un bicchiere d’acqua.
Gli alzai la testa piano e riuscì a bere solo un piccolo sorso. Non stava migliorando, tremava ancora di più.
Chiuse gli occhi e rimase così per qualche secondo. Il respiro cominciò a tornare regolare, ma rabbrividiva ancora.
Riaprì gli occhi e si accorse che ero tremendamente preoccupato e terrorizzato.
«Sto bene» mugolò.
«No, non stai bene» replicai io. «Cosa ti è preso?»
Prese un respiro profondo per regolarizzarlo ulteriormente. «Mi succede qualche volta. Sono delle crisi di panico. Non sono gravi, mi passano velocemente.»
Lo guardai dubbioso. Non poteva non essere una cosa neanche minimamente grave, non c’era da scherzare.
«E questa volta a cosa era dovuto il panico?» Mi misi seduto per terra accanto al divano dove era ancora disteso.
Lui abbassò gli occhi. «Non lo so» sospirò. «Forse è perché non ho mai dormito fuori casa e…»
Lo interruppi, avevo capito e se fosse andato avanti sapevo che si sarebbe solo trovato in imbarazzo. «Okay, ho capito. Ma stai sicuro che non ti mangio, di solito preferisco i ragazzi più in carne, tu sei troppo gracile.»
Scoppiò a ridere e io feci lo stesso.
Andai in cucina a preparargli una cioccolata calda, e una anche per me, per lo spavento che mi aveva fatto prendere. Nelle tazze aggiunsi anche uno di quei bastoncini croccanti di cioccolata e un pizzico di cannella.
Andai in salotto e tornai a sedere vicino a lui per terra accanto al divano.
«Gerard, il divano è abbastanza grande per entrambi.»
«Grazie» sorrisi, «ma preferisco stare qui, e poi il tappeto è caldo, non sai cosa ti perdi.»
Ricambiò il sorriso e cominciò a bere lentamente la cioccolata.
«Nessuno mi aveva mai fatto la cioccolata calda» esordì ad un certo punto.
«Nemmeno tua madre quando stavi male, da piccolo?» chiesi io stupito.
Lui scosse la testa sconsolato. «Mai.»
«Va beh, c’è sempre una prima volta, no?» lo incoraggiai.
«Grazie.»
«Per cosa?» domandai.
«Per essere mio amico» ci pensò un attimo. «E per la cioccolata.»
«Non è una cosa per cui mi devi ringraziare, davvero.»
«E invece devo» protestò. «In tutta la mai vita nessuno mi ha mai considerato come stai facendo tu, e ti conosco solo da due giorni! Nemmeno mia madre si è mai preoccupata così per me.»
«Non dovresti parlare così.»
«Così come? È la verità.»
Rimanemmo un po’ in silenzio, poi Frank sospirò e io alzai lo sguardo per osservarlo.
«Gerard?»
«Dimmi.»
«Ho sonno, io dormo sul divano, tu vai pure in camera, ok?»
«Assolutamente no!» esclamai. «Dopo quello che ti è successo secondo te ti lascio da solo?»
«È una domanda a trabocchetto?» fece lui.
«No, io resto con te. Preferisci rimanere sul divano o vuoi andare in camera?»
Lui ci pensò un attimo, poi sembrò arrivare ad una soluzione. «Preferisco rimanere sul divano.»
«Perfetto, allora io vado un secondo in bagno, tu intanto dormi, ok? Torno subito.»
Quando tornai era già bello che addormentato.
Mi misi a gambe incrociate sul tappeto vicino al suo viso e appoggiai i gomiti sul bordo del divano, per poi mettere la testa sugli avambracci che avevo incrociato sulla morbida stoffa.
Rimasi lì per non so quando tempo, a guardare Frank che dormiva, la mano poggiata sul petto che si abbassava e alzava lentamente, gli occhi grandi chiusi, le guance morbide e leggermente arrossate, le labbra sottili e chiare leggermente aperte. Non mi sarei mai stancato di fissarlo, mai.
Gli spostai una ciocca di capelli dalla fronte e lui non si accorse di nulla, evidentemente aveva il sonno pesante. Così cominciai ad accarezzargli i capelli delicatamente finché anche io non mi addormentai.

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Capitolo 9
*** A volte quello che distrugge è anche ciò che risana ***






9

A volte quello che distrugge è anche ciò che risana






 
I giorni passavano e io e Frank trovavamo sempre un po’ di tempo per stare insieme. Anche solo un’ora, spesa a guardare distrattamente la tv.
Lui aveva i suoi impegni: la scuola, le ripetizioni che faceva ai suoi compagni di classe, la chitarra e il piano. Così finiva che stavo da solo per la maggior parte del tempo in casa ad annoiarmi. Per lo più dormicchiavo, disegnavo cose senza senso che spesso, o quasi sempre, gettavo via dopo aver finito, guardavo la tv, o aiutavo Ed a preparare il pranzo e la cena. Facendola breve, stavo tutto il giorno a girarmi i pollici. Frank solitamente veniva a casa mia nel tardo, molto tardo, pomeriggio e se ne andava via prima di cena. Io e Ed gli chiedevamo sempre se volesse rimanere a mangiare con noi, ma la maggior parte delle volte rifiutava, dicendo che non voleva lasciare sola sua madre.
Erano passate quasi due settimane dalla prima volta che l’avevo visto e sentivo il tempo scivolarmi via dalle mani come una manciata di sabbia. Avevo paura di non aver abbastanza tempo, e in effetti ne avevo poco. L’ultima volta che eravamo stati insieme per più di due ore, era stata la sera in cui Frank si era sentito male, ovvero il secondo giorno.
La mattina avevo parlato con sua madre di quello che era successo, senza che lui se ne accorgesse, ma lei aveva semplicemente detto che ogni tanto aveva queste crisi di panico, ma che non era nulla di grave. Io non avevo aggiunto niente, ma se un evento del genere si fosse ripresentato, lo avrei portato io stesso da un medico, per capire cosa stesse succedendo.
Comunque non ne avevo più riparlato né con lui né con sua madre, e Ed, se Victoria non gli aveva detto nulla, non sapeva ancora dell’accaduto.
Finalmente arrivò il fine settimana. Era venerdì pomeriggio e dopo aver preso la giacca uscii di casa gridando a Ed che sarei tornato per l’ora di cena.
Mi incamminai per la strada già illuminata dai lampioni. In quel periodo di metà ottobre le giornate erano fredde e buie, le nuvole nere che coprivano perennemente il cielo rendevano ancora tutto più cupo. Non che la cosa mi dispiacesse, mi piaceva il brutto tempo. La maggior parte delle volte la pioggia o i temporali rispecchiavano più il mio umore rispetto ad una giornata soleggiata, eccetto in alcune situazioni, come quando ero con Frank. In quei momenti per riflettere il mio umore sarebbe servita una giornata primaverile, con un leggero venticello che trasporta il profumo dei fiori appena sbocciati. Però risultava impossibile, dato che non avrei passato nemmeno un giorno di primavera insieme a Frank e di certo non avevo alcun potere magico per poter cambiare il meteo o le stagioni.
Fuori non c’era nessuno, erano tutti in casa al caldo, ma io dovevo andare da Frank e non avevo la patente. Comunque in meno di dieci minuti arrivai davanti al portone. Non era la prima volta che andavo a casa sua. Qualche giorno prima ero stato a cena da lui con Ed e mentre con la macchina ci dirigevamo là, avevo cercato di memorizzare la strada ed evidentemente non me ne ero dimenticato.
Suonai il campanello e aspettai. Supposi che Victoria non fosse in casa, non c’era mai, era sempre fuori, per una ragione o l’altra, giustificata o meno. Mi dispiaceva che a Frank toccasse rimanere sempre solo.
Sentii dei passi al di là della porta e poi lo scatto della maniglia. Il viso stupito di Frank mi apparve da dietro al porta.
«Ehi» esclamò. «Ti ha portato Ed?» Si affacciò fuori girando la testa un po’ da tutte le parti, forse per vedere se c’era la macchina di Ed.
«No» risposi io, «sono venuto da solo.»
Rimase un attimo imbambolato di fronte a me, poi sembrò ricordarsi qualcosa. «Scusa, entra.»
Mi fece spazio e entrai in casa. Come la prima volta mi colpì il forte odore di vaniglia che aleggiava in ogni angolo. Frank mi aveva spiegato che sua madre era fissata con i deodoranti per ambiente alla vaniglia e ne spargeva quantità industriali per tutta la casa. Inoltre, certe volte accendeva anche delle piccole candele che spargevano quell’aroma che sua madre amava tanto.
Andammo in salotto e ci sedemmo sul divano. Frank spense la tv e si rivolse a me. «Mi fa piacere che tu sia venuto.»
Gli sorrisi. «Non voglio che tu stia sempre da solo.»
«Andiamo in camera mia, fra poco dovrebbe arrivare mia madre.»
La sua camera non l’avevo mai vista. La volta in cui ero stato a cena a casa sua avevamo passato tutta la sera a tavola e quindi non avevo ancora avuto l’occasione di vedere la sua stanza.
Salimmo al piano superiore, dove contai tre porte. Entrammo nell’ultima.
La sua camera era piuttosto grande. La prima cosa che vidi fu il letto, ad una piazza e mezzo, poi, a sinistra, una grande scrivania e una libreria accanto a questa. Sulla destra c’era una chitarra elettrica completamente bianca vicino ad un amplificatore, un piccolo armadio e una sorta di baule, di quelli un po’ vecchi che certe volte si trovano nelle soffitte. Quello era decisamente un oggetto che stonava in una camera come quella. Sarebbe stato bene nello studio di uno scrittore, o nella camera di una vecchietta, ma non nella stanza di un quindicenne. Tuttavia non indagai.
La mia attenzione, dopo essere stata catturata dal baule, si concentrò sulla chitarra.
«Frank?» lo chiamai.
Lui, che nel frattempo si era seduto sul bordo del letto, alzò lo sguardo su di me. «Dimmi.»
Mi misi seduto accanto a lui. «Mi suoni qualcosa con la chitarra?» Cercai di risultare il più supplichevole possibile, e in effetti la mia richiesta uscì fuori come fosse il mio ultimo desiderio prima di morire, il ché suonava anche piuttosto ironico considerando la mia situazione.
Frank aprì la bocca come per dire qualcosa, ma la richiuse subito.
Io lo incalzai. «Per favore.»
«Facciamo un’altra volta, okay?» mi pregò.
Lo guardai con aria delusa e lui mi diede una piccola spinta. «E dai, non fare il permaloso» mi canzonò.
Gli sorrisi. «Va bene, un’altra volta, ma voglio che sia presto.»
«Ehi, anche io voglio vedere i tuoi disegni!» protestò lui.
«Sì, okay» lo accontentai. «Prima o poi.»
«Io direi prima» fece lui.
Non risposi e mi avvicinai alla piccola libreria accanto alla scrivania e mi misi a sbirciare. C’era qualche libro, circa una ventina, e molti CD, ne contai circa quaranta. Era piuttosto evidente che a Frank piacesse la musica.
Tornai a sedere accanto a lui sul letto e mentre mi sedevo lui infilò le mani sotto le cosce, come a volerle riscaldare.
«Cosa vuoi fare?» mi chiese.
«Usciamo» proposi.
«Mh, e dove?»
«Dai, andiamo a prendere qualcosa al bar» proposi entusiasta. «Offro io.»
Lui mi guardò un attimo pensieroso, poi aprì il piccolo armadio e ne estrasse una felpa pesante, se la infilò e fummo pronti per uscire.
Io non conoscevo ancora bene il posto, ma pensai che Frank conoscesse un posto carino dove prendere una cioccolata o un caffè.
«Frank, scegli tu dove andare. Io non conosco bene la città, sono appena arrivato.»
Lui annuì e mi sorpassò. Camminammo per circa cinque minuti, fino ad arrivare a un bar con un’insegna all’entrata: “La stella del mattino”. Entrammo dentro al locale e una piacevole atmosfera ci avvolse. I tavoli erano tutti ricavati direttamente dal tronco di un albero tagliato, così da risultare circolari. Di legno chiaro e grezzo erano anche le sedie. Ci sedemmo a uno di quei tavoli davvero originali, su cui stavano anche delle candele, un po’ in disparte e subito arrivò una cameriera chiedendoci cose volessimo ordinare. Frank prese una cioccolata calda e tanto per restare leggero un fetta di torta alla crema di nocciola. Ordinò anche per me e chiese un caffè e una fetta di cheese-cake. Non pensavo mi conoscesse così bene da ordinare esattamente quello che avrei ordinato io.
«Frank, mi fai paura» ammisi.
Lui mi guardò confuso. «Perché?»
«Hai ordinato per me quello che avrei ordinato io.»
«E quindi?» fece lui con noncuranza.
«E quindi nulla, mi sembra solo strano che tu mi conosca così bene quando in realtà ci siamo conosciuti due settimane fa.»
Lui alzò le spalle e mi guardò. «Mi piace osservare le persone, e forse per questo imparo presto come sono» spiegò.
Io annuii come per fargli intendere che avevo capito cosa volesse dire. In effetti era una bella cosa osservare gli atteggiamenti, le abitudini e i vari comportamenti delle persone. Frank lo aveva fatto con me e forse con tanta altra gente. Si concentrava su come vivessero e su cosa piacesse loro, in modo da imparare a conoscerle veramente.
Apprezzavo quella cosa: molti si limitano a un giudizio superficiale, e spesso sbagliato delle persone, ma l’apparenza non è tutto, anzi, non è nulla. Quello che hai dentro, quello che pensi veramente e quello che provi è ciò che conta veramente, non altro, solo quello che sei veramente.
Frank l’aveva capito, e solo per questo fatto l’avrei stimato, ma c’erano tanti altri fattori che contribuivano a renderlo così spontaneo e anche ingenuo. Non era uno di quei soliti adolescenti che segue le mode, che fa tutto quello che fanno gli altri o quello che gli chiedono di fare: lui semplicemente cercava di sembrare naturale e in quelle due settimane non avevo mai visto un atteggiamento anche minimamente falso da parte sua, non mi era mai nemmeno venuto il dubbio. Forse perché aveva solo quindici anni, ma non si rendeva conto di quanto fosse importante essere se stessi. Forse non capiva che la sincerità è tutto quello che in una persona dovrebbe esserci, solo la pura e semplice verità e il coraggio di apparire come si è veramente e non come gli altri vorrebbero che tu fossi.
Mi riscossi dai miei pensieri quando tornò la cameriera con le nostre ordinazioni.
Ringraziammo entrambi e Frank si fiondò subito sulla torta.
«Frank?» lo chiamai. Lui alzò la testa dalla torta e mi guardò. «Hai pranzato?»
Lui scosse la testa e continuò a mangiare.
«Ma non hai mangiato nulla a scuola?»
Lui scosse la testa nuovamente senza considerarmi molto. Gli presi il piatto con la fetta di dolce in ostaggio e lo costrinsi ad ascoltarmi seriamente. «Perché non hai mangiato nulla?»
Lui mi guardò come per farmi capire che non aveva voglia di parlarne, ma non mi importava.
Alla fine capitolò. «Mi hanno fregato i soldi del pranzo» sentenziò. «Adesso mi ridai la torta?»
Gli restituii il piatto e cominciai anche io a mangiare la mia fetta. No, non andava per nulla bene.
«Non dovresti farti rubare i soldi del pranzo, non puoi non mangiare, sei già magro…»
«E io che ci posso fare?» borbottò senza alzare la testa dal piatto.
Sospirai. «Scusa, hai ragione.»
«No, hai ragione tu, sono uno stupido» mormorò.
«No Frank, non intendevo questo!» Idiota che sono, non dico mai la cosa giusta.
«Lo so che non intendevi questo, ma è quello che intendo io.»
Gli presi la mano che aveva abbandonato sul tavolo e intrecciai le nostre dita. «Non dire più che sei stupido, okay?»
Lui annuì debolmente sorridendomi. Sciolsi le nostre mani e cominciai a sorseggiare lentamente il caffè bollente mentre lui beveva la cioccolata calda.
«La tua è più buona» commentò ad un certo punto.
«Come?» chiesi senza capire.
«La cioccolata che mi hai fatto tu quando sono stato male era più buona.»
Risi e lui fece lo stesso. «È impossibile, non ci credo.»
«Davvero» mi assicurò. «Assaggiane un po’.» Mi passò la tazza e io la presi fra le mani. Soffiai un po’e poi ne bevvi un sorso. Il sapore della cioccolata mi invase la bocca. In effetti quella che avevo fatto io ero più cremosa e dolce.
Gli ripassai la tazza e mi guardò come cercando una conferma alle sue parole. «Hai ragione» ammisi, sia perché era vero, sia per farlo contento.
«Te l’avevo detto» gongolò lui soddisfatto.
«Frank, scusa se ritorno al discorso di prima, ma l’hai detto a qualcuno di quello che è successo, vero?»
Lui fece segno di no. «Non cambierebbe nulla, e non è la prima volta che succede.»
«Potresti andare dal preside, farebbe qualcosa» suggerii.
«Mi prenderebbero solo più di mira. Devo solo lasciar fare e se capiscono che non mi arrabbio e non reagisco, forse non lo troveranno più divertimento.»
Lo guardai, ma lui teneva gli occhi bassi. «Mi dispiace.»
«Non devi, non è colpa tua, davvero.» Mi sorrise e io ricambiai.
Visto che non aveva pranzato lo obbligai a ordinare un’altra cioccolata e un’altra fetta di torta. E comunque avevo detto che avrei offerto io, quindi lo avrei costretto a mangiare ciò che volevo.
Mi raccontò di come andava la scuola, le lezioni di chitarra e pianoforte. Mi disse che il suo insegnante di chitarra gli aveva detto che poteva anche non andare più a lezione, perché ormai era abbastanza bravo da continuare da autodidatta. Lui non pensava di essere bravo, ma se il suo insegnante non era uno stupido, doveva essere così.
Mi raccontò che sua madre parlava spesso di me e appena gli chiesi che cosa dicesse esattamente scoppiò a ridere.
«Che c’è?» gli domandai io.
«Niente, è solo che mia madre è divertente quando parla di te.»
«Perché?» feci io curioso.
«Dice sempre che sei un bel ragazzo e che hai dei bei capelli.»
Arrossii leggermente e le mani mi andarono senza accorgermene ai capelli. Non avevo mai pensato di avere dei capelli belli. Erano banalissimi capelli neri. Erano un po’ lunghi e piuttosto lisci, nulla di ché.
Passammo quasi tutto il pomeriggio  lì e ormai fuori si era fatto completamente buio.
«Facciamo qualcosa domani?» mi chiese. «È sabato.»
Rimasi un po’ stupito dalla sua proposta: di solito ero sempre io quello che gli proponeva di venire a casa mia o di fare una passeggiata.
«Mh, che ne dici se andiamo al parco?» proposi.
«Per me va bene» concordò lui contento.
Stavamo per andare a pagare, quando vidi che la gente si alzava di scatto dalle sedie e gridava. Cercavano tutti di uscire, ma si fermavano alla porta d’ingresso. Noi eravamo ad un tavolo in angolo e non riuscivo a capire cosa stesse succedendo.
Frank mi guardò preoccupato. Gli feci cenno di seguirmi e lui mi venne dietro mentre mi avvicinavo all’uscita. Non c’era tanta gente nel bar, poco meno di una decina di persone, contando che era quasi l’ora di cena.
Erano in tre. Uno stava puntando la pistola alla tempia della ragazza che era alla cassa, il secondo stava alla porta per non far uscire nessuno e l’ultimo controllava i clienti. La povera ragazza che era alla cassa stava mettendo tutti i soldi in un sacco della spazzatura che le era stato dato dall’uomo che le puntava la pistola alla testa.
Tutti e tre portavano un passamontagna e tutti avevano una pistola in mano.
Io e Frank rimanemmo immobili fra la gente. Sentii Frank prendermi la mano e gliela strinsi.
«Nessuno chiami la polizia o l’ammazzo!» A gridare era stato l’uomo che controllava le persone che erano nel locale, e quindi anche noi. Ci fece ben notare che in mano aveva una pistola, e Frank mi strinse ancora di più la mano. Lo guardai e lui ricambiò lo sguardo. Cercai di sembrare il più tranquillo possibile, ma forse non mi riuscì tanto bene.
Dovevo farmi venire in mente qualcosa, non potevamo stare lì, e inoltre Frank soffriva di crisi di panico e non volevo che ne avesse una lì, non in quella situazione. Avevo paura, non lo negai a me stesso.
Poi mi venne in mente che c’era un bagno. Mentre mangiavamo Frank ci era andato, e mi ricordavo dove fosse.
Guardai Frank e gli indicai senza farmi notare la direzione dei bagni, lui annuì. Se fossimo riusciti ad arrivare là senza farci notare, saremmo potuti uscire dalla finestra e chiedere aiuto.
Ci muovemmo di qualche passo, fino a staccarci dal gruppo. Frank mi teneva ancora la mano e mi voltai per vedere come stesse. In quel secondo in cui mi girai, l’uomo che stava alla porta notò che ci stavamo allontanando e corse da noi, lo stesso fece l’uomo che controllava la porta. Uno dei due mi prese per le spalle e mi unì le mani dietro la schiena tenendole ferme. L’altro invece prese Frank e tornò davanti alla porta dove lo fece inginocchiare. Non sapevo davvero cosa fare, speravo solo che dopo aver preso i soldi se ne sarebbero andati il più velocemente possibile. Mi girai per vedere dove fosse l’uomo che aveva preso il bottino, ma non lo vidi e non vidi nemmeno la ragazza che gli aveva consegnato l’incasso.
Frank era con le ginocchia a terra e l’uomo lo teneva fermo per i capelli. Mi guardava disperato, e io gli sorrisi debolmente per tranquillizzarlo. Una lacrima gli scese sulla guancia e sentii che qualcosa mi si contorceva dentro.
L’uomo mi teneva ancora le mani dietro la schiena. Mi sarei potuto liberare, ma non volevo rischiare, aveva un pistola. Pensai che potesse essere scarica o che comunque non avrebbe avuto il coraggio di usarla, ma preferii non sfidare la sorte.
L’uomo che teneva Frank si accorse che stava piangendo e scoppiò a ridere. Se avessi potuto l’avrei ucciso con le mie stesse mani. Gli asciugò teatralmente una lacrima e la rabbia mi salì ancora di più.
«Oh, il povero piccolo piange» lo schernì. «Vuoi la mamma?» Scoppiò a ridere anche l’uomo che teneva me.
«Lasciatelo!» gridai. L’uomo mi torse un polso e trattenni un lamento. L’altro puntò la pistola alla tempia di Frank che non riuscì a trattenere un singhiozzo. Non ce la facevo a vederlo così. Lui mi fissava e io non potevo fare nulla, questa cosa mi uccideva.
Dopo poco vidi tornare il terzo uomo e la ragazza da quella che pensai fosse la cucina. L’uomo teneva in mano la busta con l’incasso, e scaraventò malamente la ragazza su una sedia. Aveva la maglia strappata e i pantaloni mezzi calati sulle gambe.
«Andiamo» ordinò agli altri.
L’uomo che mi teneva mi lasciò andare e prima che potessi raggiungere Frank il colosso che lo teneva gli tirò un calcio nello stomaco che lo mandò per terra. I tre se andarono e io corsi da Frank.
La gente che eri lì parlava in fretta e c’era chi stava chiamando amici, parenti, e chi la polizia o l’ambulanza.
Frank era ancora disteso con la faccia per terra , io mi chinai e lo voltai piano. Aveva gli occhi chiusi e le mani sulla pancia. Gli accarezzai il viso e lui aprì lentamente gli occhi pieni di lacrime. Non dissi nulla e lo aiutai ad alzarsi e lo misi a sedere su una sedia, poi mi abbassai piegandomi sulle ginocchia per essere alla sua altezza.
«Frank, stai bene?» Mi rendevo conto del fatto che fosse una domanda molto stupida, ma non sapevo cosa dire.
Lui aprì la bocca per dire qualcosa, ma le parole gli morirono in gola, soffocate da un singhiozzo. Scoppiò a piangere e poggiò la testa sulla mia spalla, io lo abbracciai, facendo attenzione e toccarlo. Per quanto ne sapevo poteva anche avere una costola rotta. Non so per quanto rimase sulla mia spalla a piangere, ma a un certo punto sentii una sirena.
Qualcuno mi poggiava una mano sulla spalla. Era una donna che riconobbi essere fra le persone che erano nel locale. «Il tuo amico ha bisogno di un medico?» mi chiese gentilmente.
Frank alzò la testa e si asciugò le lacrime. «No» mormorò.
Gli asciugai una lacrima che gli stava scendendo sullo zigomo. «Sei sicuro? Stai bene?»
Lui mi rivolse un piccolo sorriso per rassicurarmi e io ringraziai la donna. Restammo lì ancora un po’. Alcuni agenti ci fecero qualche domanda, ma risposi a quasi tutte io, Frank era troppo scioccato.
Stranamente mi ero ricordato di prendere il cellulare prima di uscire e chiamai la madre di Frank per spiegarle quello che era successo, le dissi anche che si fermava a cena da noi.
Tornammo a casa piano, senza fretta. Frank non parlava e teneva le mani in tasca e la testa bassa. Mi stava seriamente facendo preoccupare.
«Frank, per favore, di’ qualcosa» lo supplicai.
Lui non aprì bocca, ma estrasse un mano dalla tasca della felpa e intrecciò le sue dita con le mie.
Non sapevo se questo gesto avrebbe dovuto farmi preoccupare ulteriormente o se era un modo per dire che era tutto okay, ma se non voleva parlare non lo potevo certo obbligarlo e comunque mi piaceva camminare con la sua mano nella mia, era tranquillizzante.
Camminammo finché non arrivammo di fronte alla porta della mia casa. Ormai la consideravo tale, anche se forse non lo era. Suonai al campanello dato che avevo dimenticato le chiavi.
Ed ci venne ad aprire e non appena vide lo sguardo sconvolto di Frank e le nostre mani, sgranò gli occhi.
Entrammo finalmente in casa e ci sedemmo tutti sul divano.
Frank non aveva intenzione di lasciare la mia mano e nemmeno io.
Raccontai tutto a Ed, dovevo, non potevo nascondere una cosa del genere, sarebbe stato troppo.
Cercai di non soffermarmi troppo su quello che quel bastardo aveva fatto a Frank, non volevo che piangesse di nuovo o che Ed diventasse troppo apprensivo.
Poi Ed andò a preparare la cena e io e Frank rimanemmo in salotto seduti sul divano. Non sapevo cosa dire, e lui non parlava. Non avrei mai voluto che accadesse una cosa del genere, almeno non a lui, non aveva fatto niente di male e soffriva anche troppo. Era la persona più pura e ingenua che avessi mai conosciuto ed ero certo di questo. I ragazzi come lui erano quelli presi in giro e di mira da quelli che si sentivano più forti, ma che in realtà erano i più deboli. Chi avrebbe il coraggio di picchiare o anche solo dire qualcosa di offensivo ad una persona come Frank? Io davvero non lo capivo, non lo ritenevo umano. Forse le persone che non capivano questo in effetti non erano umani, erano mostri.
Se avessi saputo quello che sarebbe successo, non avrei mai proposto di uscire, mai. Sfortunatamente non ero veggente; il piccolo viaggio nell’aldilà mi aveva dato la capacità di capire al volo i sentimenti degli altri, o almeno di capire quello che provassero, ma non ero in grado di sapere quello che sarebbe successo. In genere preferirei così, il futuro va scoperto un po’ alla volta, ci deve sorprendere, ma in questi casi avrei tanto voluto avere una sfera di cristallo o anche una macchina del tempo sarebbe andata benissimo. Sarei tornato indietro a qualche ora prima e avrei evitato tutto questo. Non saremmo più andati in quel locale, non avremmo assistito ad una rapina, non avremmo tentato di scappare nei bagni e Frank non sarebbe stato minacciato con una pistola e picchiato.
Ma poi, perché pensavo al plurale? Ero stato io che avevo proposto di andare a mangiare qualcosa, io avevo deciso di provare a scappare dai bagni. Come sempre non ne facevo una giusta. Sbagliavo, cercavo di rimediare ma ricadevo sugli stessi errori. Così come con Ray. Avevo voluto fare l’eroe e cercare di farlo rappacificare con suo padre, ma avevo solo fatto peggio, lo avevo ucciso. E ora con Frank? Era scioccato, stremato, e forse segnato a vita.
Se poi volevamo mettere in questo quadro un po’ di egoismo da parte mia, dopo questo episodio non so se sarei mai riuscito ad aiutare Frank ad andare avanti e a superare tutti i suoi problemi.
Tutto quello che stava accadendo da quando ero tornato sulla Terra non mi stava per nulla aiutando, non era mai successo qualcosa che mi facesse capire che forse ce l‘avrei fatta davvero. No, tutto e tutti erano contro di me, mai qualcosa di bello da raccontare a Ed, o mai qualcosa che rendesse felice chi dovevo aiutare, mai.
Inoltre mi affezionavo troppo. Ray era diventato un mio amico, anche se l’unico, e nonostante ci conoscessimo da poco, gli volevo bene. Con Frank era ancora peggio, il suo viso mi accompagnava da quando mi ero svegliato in quel bianco che mi faceva andare fuori di testa, e quando, vedendolo la prima volta, avevo realizzato chi fosse, mi ero sentito subito legato in qualche modo a lui, come se in realtà lo conoscessi da sempre.
Ma forse erano proprio questi legami che mi faceva andare avanti. Ciò che mi distruggeva era anche ciò che mi risanava, e non è un controsenso, è la verità. Se Frank era triste stavo male, ma se era felice lo ero anche io. Non avrei mai pensato che solo due settimane avrebbero potuto cambiarmi la vita, ma era successo, Frank mi aveva cambiato la vita. E avevo la certezza che quei restanti due mesi e mezzo sarebbero stati i più belli, e forse anche tristi, della mia vita. Anche se non ricordavo nulla di quei diciannove anni che avevo passato, era così e basta.
Il problema era che Frank aveva salvato la vita a me, senza saperlo, ma in realtà sarei dovuto essere io quello che avrebbe dovuto salvare la vita a lui, e per ora non era quello che stavo facendo, e mi sentivo tremendamente in colpa. Ci sono delle situazioni in cui, per aiutare veramente una persona, dovresti essere freddo in modo da essere pienamente cosciente e consapevole delle tue decisioni e azioni, e certe volte i sentimenti non lo permettono. Avevo tremendamente paura che potesse succedere questo, e in verità era già successo.
Avevo cercato di scappare andando in bagno per proteggerlo, ma così facendo avevo solo peggiorato la situazione e quando lo avevo visto umiliato e deriso avevo gridato che la finissero e lo avevano minacciato con una pistola alla tempia per farmi stare zitto. Se i miei sentimenti non fossero stati così forti la mia mente sarebbe stata in grado di capire che facendo quello che avevo poi fatto, non avrei certo migliorato le cose. Ma vedere Frank che stava male e che piangeva, mi aveva accecato.
Tutti quei pensieri mi vagavano per la testa e lui era lì, accanto a me che mi teneva stretta la mano e che aveva poggiato la testa sulla mia spalla. Lui non sapeva quello che provavo veramente, e forse non glielo avrei mai detto, sarebbe stato troppo da stronzi dirgli tutto e poi lasciarlo allo scadere dei tre mesi. A quel punto sarei tornato indietro nel tempo e tutto sarebbe ricominciato. In realtà non avevo ancora capito bene come funzionasse la questione del tempo, non so cosa sarebbe successo dopo, sempre se ci fosse stato un “dopo”. Non conoscevo ancora le conseguenze né per me né per Frank, ma avrei potuto tranquillamente chiedere a Ed al momento opportuno.
Misi un braccio attorno alla spalla di Frank e lui si accoccolò al mio petto. Chiuse gli occhi e dopo poco sentii che il respiro gli si faceva pensante, si era addormentato. Non volli svegliarlo, nemmeno per cenare, non avrebbe comunque mangiato nulla. Lo presi delicatamente in braccio, era uno scricciolo, non feci molta fatica e lo portai in camera mia. Lo infilai dentro le coperte e lo coprii bene.
Dormiva come i bambini, e i bambini non dovrebbero pensare alle cose degli adulti, né al dolore né alla tristezza. Dovrebbero solo giocare e divertirsi, ma qualche eccezione c’è sempre. 

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Capitolo 10
*** Quando le lacrime si confondono con la pioggia ***






10

Quando le lacrime si confondono con la pioggia






 
Quella sera non cenai, rimasi con Frank sul divano, mentre lui dormiva.
Io e Ed lo riportammo a casa la sera tardi, ma non stava per nulla bene. Non so se fosse solo lo shock dell’accaduto, che comunque era molto, o se c’era qualcos’altro che lo turbava così tanto.
Lo portai in camera sua, tenendogli la mano e lui si rifugiò subito sotto le coperte. Sarei voluto rimanere lì con lui, ma non potevo, così tornai a casa.
Cercai di dormire, ma avevo talmente tanti pensieri che non riuscii nemmeno a chiudere gli occhi. Forse pensavo troppo, anzi, era sicuramente così, ma dovevo ancora capire se fosse un pregio o un difetto.
In ogni caso non è che potessi fare molto: quando i pensieri ti intrappolano non ne puoi uscire, è come una mosca in una ragnatela, non si può liberare.
Il giorno dopo Frank non si fece sentire e io nemmeno. Non sapevo se stessi facendo la cosa giusta, non capivo se lui non mi avesse né chiamato né altro perché in realtà pensava di disturbarmi o se lo facesse perché voleva effettivamente stare da solo. Decisi quindi di lasciargli il suo spazio e di aspettare almeno due o tre giorni prima di rifarmi sentire, sempre se non si fosse fatto vivo lui per primo.
Rimasi due giorni con l’ansia e la paura che non stesse bene, che avesse bisogno di me, ma che non avesse il coraggio di chiedermelo, e che soprattutto fosse arrabbiato con me. Non so perché, io non avevo fatto nulla per farlo arrabbiare, ma avevo come un senso di colpa che mi faceva pensare che lui forse era arrabbiato. Alla fine tutto quello che era successo era colpa mia. Sicuramente era un pensiero assurdo, molto probabilmente lui non aveva nulla contro di me, ma questo presentimento continuava a perseguitarmi.
Ed non parlava di Frank, né dell’”incidente” che avevamo avuto al bar. In realtà non parlava proprio di nulla e questa cosa mi dava piuttosto sui nervi. Io ero fottutamente confuso e anche incazzato, e Ed, invece di aiutarmi dicendomi che andava tutto bene, se ne restava nel suo inutile e insensato silenzio. Non capivo perché avesse quell’atteggiamento, non aveva senso. I bambini e gli adolescenti fanno gli scioperi della parola per far sentire in colpa i genitori, ma gli adulti non lo fanno!
Era il secondo giorno che non avevo notizie di Frank quando decisi di parlare sia con lui che con Ed. Il primo nella mia lista era Ed.
Avevamo da poco finito di pranzare, Ed era stranamente seduto sul divano davanti alla tv, cosa che appunto non faceva mai. Al massimo si metteva a leggere un libro, ma la tv gli era estranea.
Mi avvicinai e mi sedetti accanto a lui, mantenendo comunque una certa distanza di sicurezza.
«Ed?» Lui non staccava lo sguardo dalla televisione. Alzai un po’ la voce. «Ed?!»
Finalmente si decise almeno a guardarmi, ostinato nel suo silenzio.
«Perché non dici nulla da quasi due giorni?» Il mio tono era calmo, anche se dentro non lo ero per nulla.
Lui abbassò la testa. «Lo vuoi sapere davvero?»
«Certo che lo voglio sapere!» esclamai irritato. «Non voglio vivere con una mummia.»
Sospirò. «Gerard, sono preoccupato» si interruppe subito e non riuscì ad andare avanti.
«Perché?» lo incalzai.
Rimase un attimo in silenzio, poi ricominciò a parlare. «Ascolta, non sottovalutare quello che ti sto dicendo, è davvero importante.» Io annuii e aspettai. «Ho notato che tu e Frank siete davvero legati anche se è poco più di due settimana che vi conoscete. Ed è una cosa bella, perché per aiutarlo lo devi conoscere bene, ma…» Si sistemò i corti capelli tirandoli indietro. «Ma non voglio che dopo tu soffra.»
«Perché dovrei soffrire?»
«Quando la missione sarà finita, tu non rivedrai più Frank, e se vi legate troppo la conseguenza sarà solo che tu starai male.»
«E Frank?» In realtà la mia domanda poteva significare tutto e nulla, ma Ed capì benissimo cosa gli avevo chiesto.
«Se supererai la prova, al momento in cui tornerai a poche ore prima della tua morte, lui non si ricorderà già più di te, solo di quello che gli hai trasmesso. Al massimo potrà conservare memorie sfocate, ma nulla di più. Come il ricordo di un vecchissimo amico d’infanzia o addirittura di una persona vista per strada.»
Mi ero chiesto se dopo tutto questo Frank si sarebbe ancora ricordato di me o no, e forse avevo sempre saputo la risposta, ma non avevo mai voluto accettarla. Semplicemente Frank mi avrebbe cancellato dalla sua memoria e io, se fossi riuscito nella “missione”, avrei vissuto con i ricordi che avevamo e avremmo avuto insieme, ma li avrei custoditi per sempre da solo.
Sospirai e Ed mi diede un pacca sulla schiena per confortarmi. Ma l’unica persona che in quel momento avrebbe potuto confortarmi era probabilmente a casa sua. Non sapevo cosa stesse facendo, se stesse bene e cosa pensasse di tutto il casino che era successo.
«E Ray?» chiesi. «Nemmeno lui si sarebbe ricordato di me?»
Ed scosse la testa. «Vale la stessa cosa per tutti. Al momento in cui tu saresti tornato indietro nel tempo lui si sarebbe scordato di te. Non è una cosa che abbiamo scelto noi, sono le strane regole dello scorrere del tempo. Ma forse è meglio per loro, per quelli come te no, ma per loro sì. C’è sempre chi soffre di più e chi meno.»
E in quel caso, quello che avrebbe sofferto, sarei stato io. Ma che senso aveva cercare di portare a termine quella “missione”, se il risultato sarebbe stato soffrire per la mancanza della persona che avevi aiutato? Tanto valeva morire definitivamente così da evitare il dolore; sempre se non esisteva l’Inferno o una cosa del genere, perché se fosse esistito ci sarei andato, e al quel punto avrei preferito vivere nel mio dolore.
«Quindi mi stai dicendo che affezionandomi così a Frank faccio un errore?»
«Non stai facendo un errore, sta solo a te decidere se è giusto o no. Se per te vale la pena affezionarti ancora, anche se dopo soffrirai, allora okay. Ma se pensi che dopo il dolore sarà troppo, allora forse è meglio se ti metti qualche freno.»
Ne valeva la pena? Sì. Sarei stato peggio di un cane bastonato dopo? Sì.
La mia non era per nulla una situazione facile. Comunque era inutile pensarci troppo: anche se avessi voluto, non sarei mai riuscito a non affezionarmi troppo a Frank, sarebbe stato impossibile. Era ovvio che non potessi controllare i miei sentimenti, chi può? Anche chi pensa di poterlo fare è solo un illuso, lo dice il proverbio: al cuor non si comanda. Certo, ci si possono dare delle regole, ma i sentimenti non cambieranno in ogni caso.
Ringraziai Ed per quella conversazione, mi aveva aiutato. Rimanemmo un po’ a guardare insieme la tv poi squillò in telefono e Ed andò a rispondere. Lo sentii borbottare qualcosa dalla cucina dove era andato a parlare e dopo qualche minuto tornò da me.
Notai subito la sua faccia preoccupata.
«Ti porto da Frank» fece senza darmi spiegazioni. Io, senza chiederne, presi la giacca e uscii seguito da lui.
Salimmo in macchina e a quel punto mi spiegò. «Era Victoria al telefono. Frank ha la febbre alta dalla sera che l’abbiamo riportato a casa.»
Io lo guardai confuso. Perché non mi aveva detto nulla?
«Non mangia» continuò, «e mi ha detto che chiede continuamente di te.»
«E perché non ha chiamato prima?» esclamai io.
«Non lo so» disse lui. «Forse non ti voleva disturbare.»
Ero lì, in quel posto e in quel preciso momento perché dovevo aiutare Frank, il mio scopo era quello. E invece cosa avevo fatto? Lo stupido che voleva lasciargli il suo spazio, quando in realtà lui aveva bisogno di me. Non era possibile che non riuscissi mai a fare la cosa giusta, non capivo perché per una volta non fossi capace di prendere una decisione intelligente, che non danneggiasse né me né gli altri.
Arrivammo davanti alla casa di Frank e Ed mi lasciò lì, dopo avermi raccomandato di telefonargli quando mi sarebbe dovuto venire a prendere.
Feci di corsa il breve vialetto che mi separava dalla porta d’ingresso e suonai il campanello. In pochi secondi la madre di Frank fu sulla porta e mi fece entrare senza dire nulla.
«Per favore» mi supplicò. «Va’ da lui.»
Annuii e mi precipitai su per le scale, fino ad arrivare alla porta della sua camera. C’ero stato solo una volta, ma non ero sicuro di volervi entrare una seconda, non per vedere Frank che stava male.
Alla fine mi decisi a entrare per poi chiudermi la porta alle spalle.
La stanza era come l’ultima volta che l’avevo vista, con la scrivania in ordine, la chitarra, lo strano e vecchio baule. Di diverso c’era solo il letto disfatto. Non riuscivo nemmeno a vederlo, era completamente sommerso dal piumone pesante bordeaux.
Mi avvicinai e mi sedetti sul materasso.
«Frank?» lo chiamai senza alzare troppo la voce. All’inizio non disse e non fece nulla, poi vidi comparire il suo viso da sotto le coperte. La pelle era più chiara del solito e i capelli sudati erano incollati al viso, il quale era rigato da lacrime ormai secche.
«Sei venuto.» Riuscii a malapena a sentire le sue flebili parole.
«Certo.» Non sapevo davvero che dire. Era una di quelle situazioni in cui hai paura di dire troppo e qualcosa di sbagliato e alla fine non dici nulla.
Gli accarezzai la guancia e gli sorrisi debolmente, ma lui non ricambiò.
«Frank, mi dici che hai?» Più che una domanda risultava una preghiera.
Frank mi mise una mano davanti alla bocca e tossì, ma non disse nulla.
«Tua madre ha detto che hai la febbre alta dall’ultima volta che ci siamo visti e che non mangi.»
Frank provò a dire qualcosa ma gli uscì solo un verso strozzato dalla gola.
«Okay, non importa.» Forse non gli andava di parlarne, almeno non in quel momento.
Io mi tolsi le scarpe e misi i piedi sopra il piumone, appoggiando la schiena alla testata morbida del letto. Frank si accoccolò a me e chiuse gli occhi.
Aspettai che il suo respiro si regolarizzasse e poi decisi che non sarebbe stata una cattiva idea dormire, non lo facevo da ormai due giorni e ne stavo sentendo le conseguenze.
Chiusi gli occhi e in meno di qualche minuto mi addormentai anche io.


«Gee.» Non realizzai subito dove mi trovassi e chi fosse la persona che mi stava chiamando, poi ricordai.
Aprii gli occhi e la prima cosa che vidi fu il viso di Frank. «Ehi.» Gli sorrisi e questa volta sorrise anche lui.
«Come stai?» gli domandai. Lui alzò le spalle, poi poggiò la testa sulla mia spalla.
«Quanto abbiamo dormito?»
Frank si sporse dall’altra parte del letto e guardò l’ora dal cellulare che era sul comodino.
«Sono le dieci di sera» fece. «Tu a che ora sei arrivato?»
«Verso le tre, le quattro le pomeriggio» risposi.
«Beh, abbiamo dormito abbastanza» osservò. La sua voce era ancora debole.
Annuii e cominciai ad accarezzargli i capelli.
«Gee?» mi chiamò. «Mi fai una cioccolata, per favore?»
Io risi. «Certo.» Uscii dalla stanza  e mi diressi verso il piano terra. In salotto Victoria stava guardando la tv. Appena mi vide si alzò e mi venne incontro. «Come sta?» mi chiese.
«Meglio» sorrisi. «Ha chiesto se gli posso fare una cioccolata calda.»
Victoria mi sorrise. «Oh, non ti preoccupare, faccio io.»
«Non importa, davvero. Gliela porto su e poi chiamo Ed per farmi venire a prendere: è tardi.»
«Ti va di rimanere a dormire qui?» mi chiese. «Non so cosa abbia davvero Frank, ma da quel giorno non parla, non mangia e ha la febbre. Però tu stai riuscendo anche a fargli mangiare qualcosa. Non andare via.»
Rimasi un po’ spiazzato da quelle parole, non mi aspettavo una richiesta del genere.
Alla fine le sorrisi e annuii. «Certo, va bene.»
Victoria mi abbracciò come farebbe una madre. «Grazie, chiamo io Ed.»
Io andai in cucina mentre lei prendeva al telefono.
Speravo solo che a Frank non desse fastidio.
Me ne tornai di sopra con due cioccolate calde fumanti in mano.
Entrai in camera e vidi Frank in piedi che guardava fuori dalla finestra aperta. Posai le cioccolate sulla scrivania e mi precipitai da lui.
«Ma che fai?» esclamai. «Vuoi prenderti anche una broncopolmonite?!»
Chiusi la finestra, rifeci distendere a letto Frank e lo coprii bene.
«Gee, così mi fai soffocare» si lamentò. «E poi ho solo un po’ di febbre, non sto per morire.»
Ignorai il suo commento e ripresi le cioccolate da dove le avevo lasciate, poi porsi a Frank la sua.
Lui si portò la tazza alla bocca, ma improvvisamente si bloccò. «L’hai fatta tu, vero?»
Io annuii mente cominciavo a bere la mia. «Perché?»
«Perché se l’aveva fatta mia mamma non la bevo.»
Risi. «E dai, non sa fare una cioccolata?»
«Come minimo la farebbe bruciare.»
Sorrisi. Appena ero arrivato Frank era sotto le coperte e quando l’avevo visto mi era venuto un colpo per come stava male, ma era bastata una dormita e poco tempo con me e aveva riacquistato il sorriso.
«Un giorno mi dovrai insegnare a fare la cioccolata buona come la fai tu» disse poggiano la tazza vuota sul comodino.
«Scordatelo.»
Lui mi guardò. «Perché?»
«Scherzo.» Gli arruffai i capelli affettuosamente e lui mi sorrise.
«Frank, tua mamma mi ha chiesto di rimanere a dormire qui. Per te non è un problema, vero?»
Vidi i suoi occhi che si illuminavano e mi abbracciò. «Certo che non è un problema.»
Risi mentre scioglievamo l’abbraccio.
Non volevo sconvolgere quel momento di spensieratezza, ma prima o poi avremmo dovuto parlare di quello che era successo.
«Come stai?» gli chiesi.
«Mi fa un po’ male la testa» disse lui.
«Vuoi misurarti la febbre?» domandai. Guardai se sul comodino o nei dintorni ci fosse un termometro.
Poi vidi Frank che apriva il cassetto del comodino e che ne tirava fuori qualcosa.
«Stavi cercando questo?» mi fece sventolandomi davanti agli occhi un termometro giallo.
Io annuii. «Allora? Non ti misuri la febbre?»
Mi rendevo conto di sembrare un dottore apprensivo più che un amico preoccupato, ma in fondo non era un problema.
Frank si infilò il termometro sotto l’ascella e aspettò. Dopo qualche secondo sentii un bip, e lui guardò il piccolo oggetto elettronico. Guardai anche io. Sullo schermo c’era un numero: 39.
«Frank, hai la febbre altissima!» commentai mentre lo coprivo ancora di più.
«Ma sto bene» protestò, «e mi fa caldo.»
«No, non puoi stare bene se hai la febbre a trentanove. È molto alta, okay?»
«Gee, calmati, è solo febbre.» Non mi importava, non volevo che stesse male e che tantomeno facesse la fine di Ray, questa volta non ce l’avrei davvero fatta, sarebbe stato troppo. Non potevo lasciar andare anche Frank, anche se mi fosse costata la vita.
Dopo l’affermazione di Frank non dissi nulla. Lui poggiò la testa sulla mia spalla e rimase lì, anche lui senza dire nulla. Non so cosa fosse stato a colpirmi tanto di quel ragazzo. Forse il sorriso triste che mi aveva accompagnato fin dal primo momento in cui mi ero svegliato in quel luogo terrificante, oppure il suo atteggiamento un po’ timido e ingenuo eppure affettuoso. La prima volta in cui l’avevo visto dal vivo, per così dire, non mi aveva nemmeno salutato. Non che io l’avessi fatto comunque, ma dopo non molto era riuscito a parlare spontaneamente come molte persone non fanno nemmeno con i vecchi amici. Ecco, tutte queste cose insieme erano le ragioni per cui tenevo così tanto a quel piccoletto, ed erano tutte importanti, perché non riuscivo a farne prevalere una su un’altra.
Sorrisi, ma mi accorsi troppo tardi che Frank mi stava guardando.
«Perché sorridi? » mi chiese curioso.
«Perché solo felice.» Quale altre ragioni ci sono per giustificare un sorriso?
Lui sorrise a sua volta. «E a cosa pensavi per essere felice?»
«Se te lo dicessi non ci crederesti.»
Lui si alzò leggermente a sedere per guardarmi negli occhi. «Mettimi alla prova.»
«Va bene» acconsentii. «Stavo pensando alla prima volta che ci siamo incontrati.»
Frank sbarrò gli occhi nocciola per lo stupore. «Davvero?»
«Sì, davvero» confermai. «Ti sembra così strano?»
Lui alzò le spalle. «No, però non ho mai avuto degli amici ed è strano sentirmi dire che qualcuno pensa a me.»
«Tu non pensi mai a me?» gli chiesi prendendolo in giro.
Lui non capì il senso ironico della mia domanda e si fece serio. «Io ti penso sempre.»
Ma come faceva ad essere sempre così sincero e diretto? Io prima di dire una cosa del genere ci rimuginavo mille volte, perché volevo essere sicuro di non dire una cosa falsa alle persone. Invece lui sembrava così sicuro di quello che provava, io ero l’opposto, in quel momento non avrei saputo nemmeno dire quale fosse il mio colore preferito, perché mi sarei sentito in colpa per gli altri colori.
E Frank mostrava sempre quella sincerità disarmante alla quale forse non mi sarei mai abituato.
«Ti sembra così strano?» Frank ruppe quel silenzio che si era formato, girando la domanda che gli avevo fatto pochi secondi prima.
Risi e gli scompigliai i capelli. «Se mi citi voglio i diritti d’autore.»
«Perché? Sei per caso uno scrittore famoso e io non lo so?»
«E chi lo sa, magari…»
Lui prese il cuscino che aveva dietro la schiena e me lo tirò in faccia.
«Non mi vendico solo perché stai male, ma ricordati di scappare appena sarai guarito.»
«Dovrei avere paura?» mi sfidò.
Gli sorrisi ma non risposi per lasciarlo sulle spine.
«Gee?» mi chiamò. «Se rimani qui hai bisogno di qualcosa per dormire, no?»
«Presumo di sì» feci.
«Nel cassetto in basso dell’armadio ci dovrebbero essere una maglietta e un baio di pantaloncini che a me stanno un po’ grandi, a te dovrebbero andare» spiegò. «Ti scoccia prenderli?»
Mi alzai dal latto e, arrivato davanti all’armadio, aprii il cassetto che mi aveva indicato. Era pieno di magliette e pantaloncini. «Frank, ci sono tantissime magliette» gli feci notare.
«È nera con il collo a V, e i pantaloncini sono verde scuro con l’elastico.»
Tirai fuori un po’ di cose a caso e alla fine trovai la maglia e i pantaloncini che mi aveva descritto. Glieli mostrai per avere conferma che fossero quelli.
«Se preferisci cambiarti in bagno è la seconda porta a destra in corridoio» mi disse.
Io feci finta di non sentito e mi cambiai lì. Poi tornai verso il letto e quella volta mi infilai sotto le coperte insieme a Frank invece che stare sopra il piumone.
«Vuoi dormire?» gli domandai.
Lui scosse la testa. «Non ho sonno, abbiamo dormito tutto il pomeriggio.»
«E cosa vorresti fare?»
Frank si mise a fissare il soffitto come se stesse pensando e alla fine sembrò avere un’illuminazione. «Ti va di fare il gioco di obbligo o verità?»
«Non lo so, come funziona?»
«Ti spiego» cominciò. «A turno scegliamo obbligo o verità. Se si sceglie obbligo si è costretti dall’altro a fare qualcosa, se invece si sceglie verità l’altro deve fare una domanda a cui si deve rispondere, ovviamente, con la verità.»
«Ma che razza di gioco è se si obbliga le persone a fare e dire delle cose anche se forse non vorrebbero?»
«E dai Gee, è solo un gioco» mi supplicò.
«E va bene, comincio io. Scelgo verità.»
Rimase un po’ a pensare e alla fine decise la sua domanda. «È vero che sei uno scrittore famoso in incognito?»
Okay, se il gioco consisteva in domanda del genere ci potevo anche stare. «Sì, è vero.»
«Gerard, devi dire la verità! Tu non sei uno scrittore in incognito!»
«Ma tu come fai a saperlo?»
Frank sospirò. «E va beh, tocca a me. Scelgo obbligo.»
Cosa potevo obbligarlo a fare? Non che mi piacesse molto la parte in cui dovevo costringere, ma se fare quel piccolo gioco lo faceva felice, non era un problema. Il problema era il gioco in sé, non mi veniva nulla in mente, la mia testa era un buco nero in cui era finita tutta la mia ispirazione.
«Io dico qualcosa e tu la fai?» chiesi. Lui annuì, aspettando di ricevere un ordine, come un soldato.
«Ti obbligo a stare meglio e già che ci siamo, ti obbligo anche a dirmi perché sei stato così male e perché non mi hai cercato subito.»
Ecco, l’avevo fatto, avevo trovato un modo per scoppiare la bolla di temporanea felicità in cui ci eravamo racchiusi. Ma non me ne pentivo, avevo bisogno di spiegazioni, e se fossi dovuto ricorrere e questi espedienti, l’avrei fatto. E comunque si era rovinato con le sue mani.
Frank abbassò la testa e rimase un po’ in silenzio evitando accuratamente il mio sguardo. Non volevo farlo soffrire, capiamoci, era l’ultima cosa che volevo al mondo, ma era necessario che lui si sfogasse, e poi volevo sapere cosa realmente non andava.
Lo sentii sospirare e poi, visto che non diceva nulla, cominciai a parlare io. «Non è solo per quello che è successo in quel locale, vero?»
Finalmente alzò lo sguardo su di me e mi fece capire che no, non era solo quello il problema. «E allora cosa c’è, Frankie?»
Non ricordavo se fosse la prima volta in cui lo chiamavo con quel soprannome, ma era comunque la prima volta che me ne rendevo conto, e la prima volta che se ne rendeva conto anche lui, infatti mi sorrise. Quel sorriso si dissipò subito sul suo bellissimo viso.
«Io…» cominciò, ma le parole gli si bloccarono subito.
Notai che aveva gli occhi leggermente lucidi e inghiottiva spesso.  Ce la stava mettendo tutta per non piangere.
«È complicato» disse alla fine.
Gli cinsi le spalle con un braccio. «Prova a spiegarmelo se ne hai voglia. Provare non costa niente.»
Sospirò di nuovo. «Non so perché mi sento così, è come se dentro di me ci fosse un vuoto o sono troppo pieno, non lo so. Mi sento uno schifo per quello che è successo. Hanno preso in ostaggio me perché ero il più fragile di tutti, se ne sono resi conto anche loro. Hanno pensato che uno come me non si sarebbe opposto, ed è quello che è successo. Non voglio essere quello che viene sempre preso di mira da tutti, che nessuno guarda perché insignificante, io voglio essere qualcuno nella vita. Non voglio fare la fine di tanta gente che non sa nemmeno per quale ragione si alza la mattina. Non voglio essere così.»
Le lacrime gli cominciarono a scendere piano sulle guance leggermente arrossate per la febbre, fino a cascare sul mento. Gliene asciugai qualcuna, poi lasciai che cadessero libere.
«Non capisco perché deve essere sempre così complicato» continuò. «Deve sempre capitare tutto a me. Perché? Perché, Gee?»
E io non sapevo cosa rispondergli. Cosa avrei dovuto dire? Sfido chiunque a trovare parole per una situazione del genere, e vi assicuro che non è facile.
Anche io spesso pensavo che capitassero tutte a me. Insomma non succede tutti i giorni di essere scelti per questa seconda possibilità di vita, no? Poi la morte di Ray. Se non è sfortuna, non saprei come chiamarla.
«Non ho mai avuto nessuno, sono sempre stato solo. Mia madre non c’è mai e da quando i miei si sono separati è ancora più assente. Non ho mai avuto amici, mi hanno sempre scansato tutti. Io ero, e sono, quello “strano”. Non è bello sentirselo dire.»
Gli accarezzai una guancia. «Ma ora hai me» sussurrai. 
«È proprio questo il problema.»
Capii subito cosa intendesse, ma volli sentire una spiegazione da lui.
«Ho paura, ho una fottutissima paura che tu mi abbandoni.» Un singhiozzo gli spezzò le parole. «Ora che ti ho trovato ho paura che un giorno tu non ci possa essere più per aiutarmi.»
Mi si gettò al collo e cominciò a piangere sulla mia spalla. Non mi aspettavo una reazione del genere, ma avrei dovuto prevederla.
Lo abbracciai senza dire nulla, rispettando le sue lacrime e la sua tristezza. Ma quella non era nemmeno tristezza, era più disperazione mischiata a un’amara rassegnazione. Frank si stava rassegnando a quello che il mondo gli aveva dato, non capivo se volesse lottare o no, ma era quello che avrebbe dovuto fare, e quello che lo avrei aiutato a fare, in ogni caso. Non aveva senso mollare. La maggior parte delle volte non si ha nulla da perdere, e allora perché non tentare?
Dopo qualche minuto smise di piangere e si calmò, si asciugò tutte le lacrime e mi abbracciò un’ultima volta prima di distendersi. Io ero ancora seduto con la schiena appoggiata alla testata morbida del letto, anche se mi ero infilato sotto le coperte. Frank non appena si era disteso, si era accoccolato contro di me e si era addormentato. Io neanche sotto una dose massiccia di sonniferi sarei riuscito a dormire.
Frank aveva paura che lo abbandonassi e le sue paure erano fondate. Io lo avrei abbandonato nel giro di poco più di due mesi, faceva bene ad aver paura.
Mi sentivo un stupido e uno stronzo. Chi ero io per abbandonare una persona del genere? Frank era fantastico, era tutto quello che di meglio esisteva nella razza umana, aveva soltanto paura che io l’abbandonassi e l’avrei fatto. Non era affatto giusto. Io me ne sarei andato e, nel giro di qualche ora, giusto il tempo di ritornare nel passato, lui non si sarebbe ricordato di me. Certo, non avrebbe sofferto, e se la mia missione sarebbe andata a buon fine, riuscendo così ad aiutarlo, sarebbe anche stato bene e sarebbe vissuto più felicemente. Ma non importava, il senso di colpa mi avrebbe logorato a vita, per sempre, e in certe situazione il “per sempre” mi faceva paura, troppa paura, a dire la verità. E allora tanto valeva finirla, passare il tempo che avevo con Frank e poi lasciarmi andare e morire, solo per non soffrire, ma non l’avrei fatto. Perché? Perché se Frank non avrebbe voluto, e avrebbe avuto ragione. Quindi, ricapitolando, avevo solo una misera scelta: concludere la missione, tornare nel passato, e riprende la mia vita, quella vera, anche se ormai la mia esistenza era quella in cui vivevo con Ed e abbracciavo Frank.


 
***


«Gerard!» mi gridò Ed. «Vai a vedere chi è alla porta.»
A casa di Frank, quasi una settimana prima, ero rimasto sveglio tutta la notte, non avevo dormito un secondo, ma non mi lamentavo. Ero tornato a casa il pomeriggio seguente e avevo dormito qualcosa tipo tredici ore. Nei giorni seguenti Frank era stato decisamente meglio e ci eravamo visti quotidianamente. Infatti avevamo deciso che ci saremo visti tutti i giorni, anche solo per poco. Il fatto è che volevo sapere sempre come stesse, non volevo che accadesse di nuovo che lui stesse male e io non lo sapessi.
Uscii dalla mia camera e mi precipitai per le scale per andare ad aprire. Era una domenica piovosa. Avevo visto Frank la mattina. Era venuto da me e eravamo rimasti tutto il tempo a guardare la pioggia e i lampi mentre parlavamo.
Arrivai finalmente alla porta e l’aprii.
C’era Frank, con i capelli gocciolanti per la pioggia, i vestiti completamente zuppi e gli occhi rossi per le lacrime che si confondevano con la pioggia. Piangeva ancora. Era bagnato come un pulcino e appena lo vidi mi si strinse lo stomaco.
Rimasi impalato di fronte a lui, in un silenzio che fu lui a rompere fra i singhiozzi.
«Gee...» sussurrò debolmente.
Lo guardai con aria interrogativa. «Che è successo?»
“Io… I miei genitori, Victoria, non sono veramente i miei genitori. Mi hanno adottato appena nato.»
 
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Capitolo 11
*** La consapevolezza di sapere che qualcosa sta cambiando ***






11

La consapevolezza di sapere che qualcosa sta cambiando
 





 
«Mikey, vieni a giocare!»
Ci sono due bambini, uno un po’ più grande dell’altro. Sono alla finestra della cucina a guardare fuori: piove. Ma appena il più grande grida di andare a giocare in giardino niente e nessuno li impedisce di uscire all’acqua.
«Arrivo, Gee!»
I due bambini escono nel giardino sul retro e cominciano a correre sotto la pioggia, ma non se ne preoccupano, si divertono e basta.
Ad un certo punto il più grande saluta qualcuno che si è appena affacciato alla finestra dalla quale poco prima i due bambini stavano ammirando cosa stesse accadendo fuori.
«Ciao nonna!» grida allegro. C’è una donna, che sorride al nipote.
«Bada bene che Mikey non si faccia male» gli raccomanda. Il bambino annuisce e torna a giocare.
La pioggia comincia a scemare e i due fratellini ne approfittano per giocare con la terra bagnata e morbida. Costruiscono una specie di castello.
«Ti piace?» chiede il più grande. Il bambino più piccolo annuisce sorridendo e abbraccia il fratello.
«Fra quanto torna papà?» domanda poi.
Il fratello maggiore abbassa lo sguardo. «
Papà non torna.»
Per quanto ormai il bambino sia abbastanza grande per capire, ancora non si vuole spiegare quello che era successo e ogni tanto chiede al fratello, alla mamma o alla nonna dove sia il padre.
Si accascia su se stesso, sconsolato.
«Dai Mikey» il più grande gli prende una mano. «Torniamo dentro.»



Non ebbi tempo per ragionare sulla visione. Frank era ancora davanti alla porta, scioccato e bagnato fradicio. Lo feci entrare e lo portai in bagno. Gli diedi dei vestiti e aspettai che si asciugasse e cambiasse. Poi andammo in camera mia.
Aveva ancora i capelli un po’ bagnati. Ci sedemmo sul letto e cominciai ad asciugarglieli con l’asciugamano che mi ero portato dietro.
«Mi vuoi raccontare bene quello che è successo?» gli domandai mentre posavo l’asciugamano.
Ogni tanto qualche lacrima gli scappava ancora e tremava. Lui annuì alla mia domanda e si strinse le ginocchia al petto.
«Ero in salotto a guardare la tv e mia mamma stava parlando a telefono con qualcuno» si passò una mano sul viso. «Non capivo con chi stesse parlando, in realtà non mi importava: sta sempre al telefono con le sue amiche. Ma poi ha cominciato a gridare, così ho abbassato il volume della televisione per capire cosa stesse succedendo. Diceva qualcosa tipo: “ti devi occupare di lui, è un ragazzo con dei problemi, non ha amici, non posso fare tutto da sola”. A quel punto ho capito che stava parlando con mio padre. Ma litigano spesso, quindi non ci ho fatto molto caso. Poi ha detto una cosa, mi ricordo le precise parole.»
Ricominciò a piangere silenziosamente e incastrò la testa fra le ginocchia che aveva stretto al petto e che aveva circondato con le braccia. Mi avvicinai un po’ e gli accarezzai la testa. L’alzò un po’ e fra le lacrime riuscì a pronunciare la frase che sua mamma aveva detto al padre al telefono.
Frank è anche tuo figlio. Abbiamo deciso insieme di adottarlo e di occuparcene, non posso prendermi tutte le responsabilità.”
Dopo aver ripetuto le parole che aveva detto Victoria calò un silenzio di tomba. Frank aveva smesso di piangere, io non sapevo cosa dire.
Alzai lo sguardo su di lui e mi fece un mezzo sorriso.
«Ehi Gee, non devi sempre essere così preoccupato per me. Risolverò questa cosa.» Abbassò un attimo la testa e poi tornò a rivolgersi a me. «Risolveremo questa cosa.»
Lo abbracciai e lui ricambiò calorosamente la stretta. Lo sentii che poggiava la fonte nell’incavo fra la mia spalla e il mio collo. Il suo respiro caldo mi faceva il solletico.
«Scusa» sussurrò.
«Per cosa?» domandai. Non c’erano ragioni per scusarsi.
«Ti faccio sempre preoccupare, anche per cose insensate. Mi dispiace, davvero.»
Gli presi il mento fra le mani e gli alzai la testa il modo che mi guardasse dritto negli occhi.
«Frank, non ti devi scusare» sussurrai.
«E perché non dovrei?» chiese lui in un soffio.
«Perché se mi voglio preoccupare per te o meno lo decido io e basta, e tu non c’entri nulla.»
Annuì e mi abbracciò un’altra volta. Orami era diventata un’abitudine, stavamo più tempo abbracciati che divisi.
Non ero abituato a tutto quel contatto fisico. Insomma, da quando ero sulla Terra, Ed mi aveva al massimo dato una pacca sulla schiena, e lo stesso valeva per Ray. Solo Frank si era preso tutta quella confidenza e ne ero felice. Io non avrei mai avuto il coraggio e la forza per fare –diciamo- il primo passo, ma avevo capito che con lui potevo essere davvero me stesso. Non dovevo aver paura di dire o fare qualcosa, perché Frank non mi avrebbe in ogni caso giudicato, lui non lo faceva con nessuno e a maggior ragione non l’avrebbe fatto con me.
Mentre scioglievamo l’abbraccio gli scompiglia i capelli e gli stampai un bacio sulla guancia. Lui mi sorrise.
Avvicinò la sua bocca al mio orecchio. «Ti voglio bene.»
«Anch’io, Frankie. Anch’io.»
Rimase tutta la sera a casa mia, anche per cena.
Non era scosso come in realtà avevo pensato all’inizio. Certo, scoprire che quelli che hai ritenuto per una vita tuoi genitori non lo sono mai stati non dev’essere molto piacevole, ma comunque i veri genitori sono quelli che ti crescono e ti amano, non quelli che ti mettono al mondo. Però Frank avrebbe meritato molto più amore dai suoi genitori. Il padre non lo vedeva mai, e la madre era sempre fuori e si preoccupava solo se la situazione degenerava, come quando era stato a letto con la febbre e aveva smesso di mangiare. Beh, a quel punto chi non si sarebbe preoccupato? Comunque non pensavo che fossero delle persone cattive, assolutamente. Suo padre non lo conoscevo, e quindi non mi sarei potuto esprimere su di lui, ma Victoria era una brava donna, forse non era una brava madre, tutto qui.
Lo riaccompagnai a casa, e facemmo tutta la strada a piedi. Era freddo, ma entrambi avevamo il bisogno di schiarirci un po’ le idee.
Frank mi prese la mano e incrociò le nostre dita. Così camminammo tutto il tempo in silenzio. Eravamo quasi a casa sua quando decidemmo di sederci su una panchina che stava vicino alla strada.
«Come stai?» gli chiesi.
Frank alzò le spalle. «Non sono triste, forse solo un po’ arrabbiato perché ho dovuto scoprire tutto in questa maniera.»
«Lo so» cercai di consolarlo. «Mi dispiace. Ma i tuoi genitori ti vogliono bene. Non importa se Victoria non è la donna che ti ha partorito, l’importante è che sia la madre che ti ha cresciuto e che ti vuole bene.»
«Sì, hai ragione.»
«Quando hai intenzione di parlarne con lei?»
Sospirò e una nuvoletta di vapore gli uscì dalla bocca. «Non lo so, forse domani. Ma voglio che ci sia anche tu.»
«Non vuoi parlare da solo con lei?»
«No» affermò deciso. «Voglio che ci sia anche tu. Per favore.»
Gli sorrisi. «Certo, dimmi quando e ci sarò.»
Riprendemmo a camminare finché non giungemmo davanti alla porta di casa sua.
«Gee, domani devo andare a fare una ricerca in biblioteca, ti va di venire a farmi compagnia?»
In realtà non sapevo nemmeno che in quella piccola città ci fosse un biblioteca, ma l’avrei dovuto immaginare.
«Va bene» decisi. «Come ci andiamo?»
«Ti passo a prendere verso le quattro. È vicina, ci andiamo a piedi.»
«Okay, allora a domani.» Gli scompigliai affettuosamente i capelli e me ne feci per andare, ma lui mi prese per un braccio e, dopo essersi messo in punta dei piedi, mi lasciò un bacio sulla guancia.
Sorrisi e poi me ne andai.
Mentre tornavo a casa mi tornò in mente la visione che avevo avuto appena avevo visto Frank, non avevo ancora avuto modo di rifletterci.
Avevo visto me stesso che giocavo con mio fratello, Mikey, più o meno avevo sette anni. Non ricordavo quanto anni di differenza fra me e mio fratello ci fossero. In realtà avevo scoperto da poco che avevo un fratello, ma la cosa non mi aveva scioccato, non ricordavo praticamente nulla. Comunque, Mikey, nella visione, sembrava avesse circa tre o quattro anni. Feci un veloce calcolo e pensai che in quel momento aveva praticamente l’età di Frank, se non la stessa, o comunque un anno in più o uno di meno. Mi faceva tenerezza il fatto che avessero quasi la stessa età. Frank sarebbe potuto essere il compagno di classe di mio fratello, e Frank stesso sarebbe potuto essere mio fratello.
Continuai a pensare alla visione. Giocavamo sotto la pioggia. Forse era davvero divertente correre sotto la pioggia, ma pensai che mia madre si fosse arrabbiata quando poi lo scoprì. Insomma, molto probabilmente ci aveva visti tornare in casa completamente zuppi, e sicuramente avevamo sporcato il pavimento. Un sorriso mi sfiorò il volto al pensiero di una mamma arrabbiata per i guai dei figli. Non ricordavo molto di mia mamma, ma le volevo bene comunque, e lo stesso a mio padre, che era morto, e di cui purtroppo non potevo ricordare il volto, e forse non l’avrei mai ricordato. Non è bello non ricordare quasi nulla dei tuoi genitori e della tua famiglia, ti fa sentire come se dentro ti mancasse un pezzo di qualcosa. Comunque, se la missione fosse andata a buon fine, avrei almeno rivisto mia madre e mio fratello.
Nella visione c’era però un’altra persona. Mia nonna guardava me e mio fratello dalla finestra e mi raccomandava di stare attento che non si facesse male. Helena. Ecco come si chiamava: Helena. Ed era anche lo stesso nome che avevo dato alla donna che mi aveva accolto appena morto, nel luogo tutto bianco. Non avevo mai scordato il nome di mia nonna, soltanto non sapevo che fosse il suo.
Mi ricordai che lei era molto importante per me, mi confidavo più con lei che con mia madre o chiunque altro.
Continuai a camminare pensando a Helena e una piccola lacrima mi scivolò sulla guancia, ma l’asciugai subito, per un momento pensai anche di averla immaginata.
Ripresi ad analizzare la visione. Mio fratello mi aveva chiesto quando sarebbe tornato papà, e sembravo piuttosto indeciso su cosa rispondergli. Mi ricordai di un’altra visione in cui era stata mia mamma che diceva a me che mio padre non sarebbe tornato, e a modo mio avevo utilizzato le stesse parole con mio fratello.
Non sapevo quanto fosse orribile perdere il padre, non riuscivo a capire quanto fosse doloroso. Forse perché era passato tanto tempo, o perché non ricordavo bene il dolore. Probabilmente nemmeno se non fossi morto avrei mai realizzato e quantificato la sofferenza.
Arrivai a casa, sbattei la porta così che Ed capisse che ero tornato e poi andai in camera mia. Mi cambiai velocemente e andai a letto. Ero stanco, e volevo solo dormire.


 
***


«Gerard, c’è Frank.» Era Ed che mi avvisava che Frank era arrivato, e che dovevamo andare in biblioteca.
Scesi le scale, come sempre di corsa, e arrivai in cucina, dove Frank era seduto al tavolo e Ed gli stava piazzando davanti ogni genere di cibo, dolce o salato che avessimo in dispensa.
«Ed non abbiamo tempo» dissi scocciato.
«Ma io ho fame» si lamentò Frank.
Gli presi una mano e salutai Ed velocemente. «Ti prendo un gelato prima di andare in biblioteca, okay?»
Frank annuì e uscimmo.
L’aria era più fredda del solito, non tirava un alito di vento ed era come se anche l’atmosfera fosse stata congelata.
Sentii Frank che rabbrividiva. «Forse è meglio se non prendiamo un gelato» disse.
«Credo anche io» confermai. «Vuoi fermarti a prendere una cioccolata?»
«No, la cioccolata la fai buona solo tu. Andiamo in pasticceria.»
Frank mi portò in una bella pasticceria che non avevo mai visto. Si trovava in una grande piazza, quella in cui si trovava anche la biblioteca.
Prendemmo un pezzo di dolce ciascuno e ci mettemmo seduti su una panchina a mangiare.
«Che ricerca devi fare, Frank?»
Inghiottì e poi mi rispose. «Storia europea. Carlo Magno.»
Qualcosa mi ricordavo. Ma chissà perché certe nozioni, volendo inutili, erano nella mia testa, e altre cose che avrei voluto sapere. mi erano precluse.
Finimmo di mangiare e poi ci dirigemmo verso l’edificio. Sembrava piuttosto antico, non me ne intendevo, ma a prima vista mi dava quell’impressione.
Appena entrati mi resi conto che dovesse essere molto grande. All’entrata c’era un grande bancone circolare a cui stava una signora con degli occhiali, era chinata su un libro. Appena ci sentì entrare alzò lo sguardo e ci rivolse un sorriso.
«Buon pomeriggio Frank» lo salutò. «Chi è il tuo amico?»
«Ciao, Gwen» ricambiò il saluto Frank. «Lui è Gerard.»
«Oh, felice di vederti con un amico» sorrise. «Fammi indovinare. Scienze?»
Frank scosse la testa. «Storia europea.»
«Io amo la storia. Se hai bisogno chiama.»
Seguii Frank che camminava nel dedalo di stanze e corridoi fino ad arrivare ad una porta con la scritta “Sezione storia”. Entrammo dentro. La stanza era davvero grande e non c’era nessuno. Girando un po’ avevo visto qualcuno seduto ai tavoli, ma per lo più gente che aveva l’aria da universitario.
Frank si sedette ad un tavolo e io lo imitai. Si tolse dalla schiena lo zaino che aveva tenuto tutto quel tempo e lo poggiò per terra. Poi ne tirò fuori un quaderno e una penna.
«Frank?» lo chiamai.
Lui alzò la testa. «Sì?»
«Ma non avete una biblioteca nella tua scuola?»
«Sì che ce l’abbiamo.»
«E allora perché vieni qui a studiare?» domandai.
«Preferisco venire qui perché c’è meno gente» rispose sbrigativo.
«Okay.»
Frank cominciò a gironzolare per gli scaffali e alla fine prese un grosso tomo con la copertina verde e dopo essere tornato al suo posto cominciò a spulciare l’indice.
«Vuoi che ti dia una mano?» proposi.
Lui mi sorrise. «Cerca qualche libro che parli di Carlo Magno e segnami le pagine interessanti.»
Cominciai a camminare fra gli scaffali come aveva fatto Frank poco prima, leggendo i titoli dei libri. Ogni tanto ne prendevo uno e me li caricavo su un braccio. Quando diventarono troppi e troppo pesanti da sostenere, tornai da Frank e iniziai a cercare qualcosa di interessante.
Sostanzialmente mi persi in una marea di informazioni, più o meno simili, che mi si accumularono nel cervello confondendosi fra loro. Mi sembravo un topo d biblioteca, o uno di quegli uomini, o donne che, nei film d’avventura, vanno a fare ricerche in biblioteca per scoprire dove si trovi il tesoro o manufatto di inestimabile valore di turno.
Rintracciavo nell’indice di tutti i libri le pagine che parlavano di Carlo Magno, le sfogliavo, poi le segnavo con un pezzo di carta strappata dal quaderno di Frank. Se trovavo delle notizie praticamente identiche a quelle di altri libri non le segnavo e passavo oltre.
Quel processo meccanico ebbe come scopo principale quello di non pensare a tutte le cose che mi turbavano, e non erano poche.
Quando ebbi controllato almeno quindici libri, fra i quali ne avevo scartati quasi dieci, Frank mi disse che potevano bastare, e cominciò a leggere tutte le cose che gli avevo segnato.
Io poggiai le braccia sul tavolo e sopra di queste adagiai anche la testa. In quella posizione mi misi a osservare Frank che leggeva silenziosamente e incredibilmente concentrato.
Con la mano destra voltava le pagine e sulla sinistra teneva posata la testa, come se gli pesasse.
Mi divertivo a guardarlo mentre studiava, era incredibilmente rilassante.
«È davvero così interessante fissarmi mentre leggo?» fece ad un certo punto sorridendomi.
«Abbastanza» risposi ricambiando il sorriso.
Scosse la testa divertito e riprese a leggere un libro.
In effetti mi sembravo uno stupido a fissarlo in quella maniera, ma se a lui non dava noia, dove era il problema?
Passò un’ora e Frank cominciò a ricopiare informazioni e appunti sul suo quaderno. Aveva una calligrafia abbastanza minuta, un po’ scomposta, ma si riusciva bene a capire cosa scrivesse.
Mi girai di scatto. Il rumore di qualcosa che cadeva mi aveva riscosso.
Alla porta d’entrata della stanza c’erano due ragazzi, per la precisione una ragazza e un ragazzo.
Al ragazzo era cascato un libro mentre cercava di tenera la porta aperta alla ragazza e ora lei gli stava dicendo di essere un incapace.
«Scusate» disse poi lei rivolgendosi a noi.
«Di niente» replicò Frank.
I due entrarono e la ragazza continuò a borbottare qualcosa all’altro, che la ignorava.
Si sedettero ad un tavolo abbastanza vicino al nostro.
«Scusate» ripeté la ragazza che poi era venuta da noi. «Siamo nuovi qui, non è che ci sapreste dire dove possiamo trovare qualche libro su Carlo Magno?»
Io le sorrisi. «Gli ha presi quasi tutti lui» dissi indicando Frank.
Frank mi lanciò un’occhiataccia e le porse qualche libro. «Prendi pure quelli che ho già consultato, poi ti do anche gli altri.»
«Grazie mille.»
«Senti» la chiamò Frank, «ma perché proprio Carlo Magno?»
«Devo fare una ricerca per scuola» rispose lei.
«Hai detto che sei nuova vero?» La ragazza annuì. «Allora siamo nella stessa classe di storia.»
«Oh, bene» esclamò entusiasta. «Mi chiamo Rachel.»
Frank si alzò e le strinse la mano, lo stesso feci io. «Piacere» dissi, «sono Gerard.»
«Io sono Frank.»
«Anche tu» cominciò rivolgendosi a me, «sei nella nostra scuola? Ma mi sembri un po’ grande per andare ancora la liceo.»
Risi. «Ho finito il liceo l’anno scorso, e diciamo che mi sto prendendo un anno per pensare.»
«Capisco.» Si voltò verso il tavolo al quale era ancora seduto il ragazzo. «Jimmy vieni qua.»
Il ragazzo si alzò dalla sedia e venne verso di noi rivolgendoci un sorriso timido.
«Lui è mio fratello Jimmy» lo presentò Rachel.
«Ciao» ci salutò.
«Loro sono Frank e Gerard» disse la ragazza indicandoci.
«Bene» feci io, «solo felice di avervi conosciuto.»
Stavano per tronare al loro posto quando Frank li fermò. «Che ne dite se quando abbiamo finito qui andiamo a fare una passeggiata?»
Rimasi piacevolmente stupito dalla proposto di Frank. Era un ragazzo piuttosto timido, e pensavo non avrebbe mai domandato a dei ragazzi che conosceva da poco meno di cinque minuti di uscire. Non sapevo se questo fosse dovuto al mio lavoro o al fatto che in realtà Frank avesse dentro di sé anche una parte più estroversa. Però arrivai alla conclusione forse più semplice. Frank mi aveva detto che gli piaceva osservare le persone e, secondo il mio ragionamento, Frank, in quei pochi minuti, aveva attentamente studiato Rachel e Jimmy, e aveva semplicemente capito che erano due bravi ragazzi. Rachel era spontanea, gentile e dolce, mentre suo fratello, anche se era molto timido, era come la sorella, e aveva in comune con Frank il fatto di non essere molto estroverso.
Rachel annuì alla proposta di Frank. «Con piacere.»
«Perfetto» disse Frank, «la biblioteca chiude fra poco, quindi va bene se ci troviamo all’uscita fra circa un quarto d’ora?»
«Perfetto!» esclamò Rachel. «Io e mio fratello andiamo a sistemare dei libri di là. Ci troviamo all’uscita.»
La ragazza ci rivolte un bellissimo sorriso e potei notare i suoi fantastici occhi blu. Jimmy ci fece un cenno con la mano.
Quando uscirono dalla porta Frank si alzò e cominciò a raccogliere tutte le sue cose.
«Sono simpatici» osservò. «Vero?»
Io annuii e lo aiutai a rimettere la sua roba nello zaino.
«Non mi sembri molto convinto» commentò.
«Non è vero, sono molto simpatici» obiettai.
«Va bene» acconsentì, «però adesso andiamo.»
Si mise lo zaino in spalla e si avviò verso l’uscita della biblioteca, sorridente.
Appena usciti mi prese la mano e incrociò le dita con le mie, come ormai facevamo quasi sempre mentre camminavamo. Mi piaceva quella cosa di camminare mano nella mano.
Scendemmo la scalinata e in fondo a questa trovammo Rachel e Jimmy che ci aspettavano.
«Allora» fece la ragazza, «dove andiamo?»
Io guardai Frank nell’attesa che proponesse qualcosa. «Andiamo al parco?»
Acconsentimmo tutti e ci dirigemmo verso il parco, che mi sembrava non fosse molto lontano da lì.
Erano le sei e mezza ed era già buio. Beh, era ottobre e faceva buio presto, anche se mi piaceva l’oscurità che si creava.
Camminavamo tutti e quattro allineati. Io e Frank sulla sinistra che ci tenevamo per mano, accanto a me c’era Rachel e accanto a lei suo fratello.
Parlammo del più e del meno finché non arrivammo a destinazione e decidemmo di sederci su una delle tante panchine.
«Quindi» cominciò Frank, «tu hai la mai età e tuo fratello ha due anni in più di noi, quindi due in meno di Gee, giusto?»
Rachel annuì. «Giusto.»
«Mi fa piacere che abbiamo così tante lezioni in comune» disse Frank a Rachel.
Durante il tragitto Rachel aveva tirato fuori il suo orario e lei e Frank avevamo scoperto di avere praticamente tutte le lezioni insieme. Ero felice, perché non sarebbe più stato da solo, adesso aveva un’amica, e anche un amico.
«Come vi state trovando qui?» chiesi io a Rachel e Jimmy.
Rachel alzò le spalle, noncurante. «Siamo arrivati qui da due settimane e voi due siete i primi amici che conosciamo. Comunque tutto sommato bene.»
«Comunque siete simpatici» disse ad un certo punto Jimmy. Era la prima frase che pronunciava da quando eravamo usciti dalla biblioteca.
«Anche voi» disse Frank. Rachel sorrise e gli occhi blu le brillarono.
«Sentite» cominciò Rachel, «scusate se ve lo chiedo, ma è solo per curiosità. Voi due» indicò me e Frank, «state insieme?»
Io e Frank ci guardammo senza dire nulla. Era calato un silenzio piuttosto imbarazzante che nessuno riusciva a spezzare.
Abbassammo tutti lo sguardo e improvvisamente le nostre scarpe diventarono incredibilmente interessanti.
Poi Jimmy scoppiò a ridere. «Scusate, ma siete tutti così divertenti!»
In effetti non aveva tutti i torti, Rachel ci aveva solo chiesto se stavamo insieme. E comunque io e Frank non stavamo insieme, quindi non vedevo il problema.
Alla fine scoppiammo tutti a ridere. «Comunque non stiamo insieme» riuscii a dire io alla fine.
«A me sembrava» mormorò Rachel. «Insomma, di solito due ragazzi non camminano per mano e non si guardano come vi guardate voi due.»
Io come guardavo Frank? Okay, la storia del camminare per mano la potevo capire, e in effetti era un po’ strano, ma cosa intendeva con “come ci guardiamo noi due”?
«Cosa intendi?» chiese Frank anticipandomi.
Rachel sembrò pensarci un momento poi cominciò a parlare. «Non lo so. Non ho mai avuto un ragazzo, ma secondo me voi due vi guardate come due persone che si amano davvero. Non so come spiegarvelo, ma mi avete dato l’impressione che dipendeste l’uno dall’altro. È come se senza uno di voi due l’altro non riuscisse ad andare avanti.» Si fermò un attimo. «Magari mi sbaglio, ma è quello che ho pensato io. Quando siamo entrati nella stanza della biblioteca dove Frank stava studiando, tu» mi guardò, «lo fissavi come fosse un dio in Terra. Davvero.»
Frank mi guardò e rise. Quella ragazza mi avrebbe fatto diventare scemo. A me piaceva Frank in quel senso? Che gli volessi bene più di ogni altra come non c’erano dubbi, ma Rachel mi stava facendo pensare a cose che non avevo mai preso in considerazione, e scommisi che Frank stesse pensando alla stessa cosa.
«Non dovete dirci nulla se non volete» ci rassicurò Jimmy. Si stava un po’ sciogliendo.
«No» cominciai io, «non lo so…» Non sapevo che dire, le parole non mi uscivano dalla bocca e Frank stava zitto.
«Ha ragione Jimmy» ci fece notare Rachel, «non importa che diciate qualcosa. Però, pensateci a quello che vi ho detto.»
«Bene» disse Frank dopo un po’, «è tardi, io devo andare.»
Jimmy diede uno sguardo all’orologio che aveva sul polso. «Anche noi. È stato un piacere conoscervi.»
«Frank, noi ci vediamo a scuola» lo salutò Rachel mentre si sistemava la sciarpa. «Gerard, alla prossima. Ti farò portare i miei saluti da Frank.»
«Perfetto» sorrisi. «Alla prossima.»
Ci salutammo e poi io e Frank prendemmo la strada per casa sua. Come sempre ormai mi prese la mano, e silenziosamente cominciammo a camminare.
Non riuscivo a non pensare a quello che ci aveva a detto Rachel. Cavolo, ma come si fa ad avere le idee così confuse? Io amavo Frank? Sì, ma come un amico davvero importante, o come qualcosa di più di un amico?
Le mille ipotesi mi stavano affollando nella mente e arrivai ad un punto in cui non riuscii nemmeno più a distinguere il nero dal bianco.
«Gee.» Frank si voltò per guardami in faccia. «Stai pensando a quello che ha detto Rachel.» Non era una domanda.
Annuii. «Anche io» ammise.
Riabbassò la testa e riprendemmo a camminare nel nostro calmo e rilassante silenzio come se non fosse successo nulla.
Arrivammo davanti a casa sua e ci fermammo un po’ in giardino, nonostante fosse ora di cena e facesse davvero freddo. Non gli lasciai andare la mano.
«Non mi dici niente?» domandai scostandogli un ciuffo di capelli che gli copriva i bellissimi occhi.
«Non so che dire» rispose sorridendo.
«Ci vediamo domani?»
«Certo, tutti i giorni. Vieni tu da me.»
«Va bene, però rimani a cena da me, okay?»
Annuì e si stropicciò gli occhi con una mano. Era bello, bellissimo.
Gli lasciai la mano e lo attirai verso di me abbracciandolo. Lui non se l’aspettava, ma dopo qualche secondo mi cinse la schiena con le braccia.
Sentii il suo respiro sul collo e le sue mani che mi accarezzavano dolcemente la schiena.
«Tua mamma non c’è?» domandai notando che la sua macchina non era posteggiata davanti casa.
Lo sentii scuotere la testa.
«E perché non mi hai detto nulla?»
«Perché mia mamma non c’è praticamente mai e non posso sempre stare a casa tua.»
Sciolsi l’abbraccio per poterlo guardare in viso. «E perché no?»
«Perché non posso, Gee. Non è casa mia e fra un po’ è come se ci vivessi.»
Presi il cellulare dalla tasca, perché stranamente mi ero ricordato di prenderlo e mandai a Ed un messaggio in cui dicevo che ci sarebbe stato anche Frank a cena.
«Andiamo» gli dissi prendendogli una mano.
«Dove?» chiese senza protestare mentre lo trascinavo via.
«A casa mia. Non voglio che tu stia da sempre solo, e non è la prima volta che te lo dico, mi pare.»
«Sì, mamma.» Risi e lui fece lo stesso.
Passammo una serata come tante, ma in più c’era qualcosa di diverso, una consapevolezza nuova. La consapevolezza che forse qualcosa stava cambiando. Forse Rachel era solo un angelo mandato da qualcuno per farmi capire qualcosa che avrei già dovuto capire.


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Capitolo 12
*** Non sono pazzo, penso solo troppo ***






12
 
Non sono pazzo, penso solo troppo
 




Toc toc, toc toc.
Mi svegliai di soprassalto quanto sentii un rumore fastidioso.
Mi rigirai nel letto e mugolai seppellendo la testa sotto il cuscino. Volevo dormire, chi aveva il diritto di venirmi a svegliare? Nessuno.
Sentii la porta aprirsi.
«Gerard svegliati, è importante!»
Ignorai la voce di Ed e continuai a dormire alzando ancora di più le coperte sopra la testa.
Una depressione si creò nel letto, sul lato destro. Evidentemente Ed si era seduto, e infatti cominciò a scuotermi per le spalle. Non aveva ancora capito che non avevo la minima voglia di uscire da quella coltre di calore.
«Gerard se non ti alzi entro due secondi, giuro che ti tiro una secchiata d’acqua addosso» mi minacciò.
Sapevo che non l’avrebbe mai fatto, o almeno lo speravo. Così continuai a fare finta di nulla. Prima o poi se ne sarebbe andato.
«Bene» fece, «allora suppongo non ti interessi sapere che oggi è il compleanno di Frank.»
Con uno scatto mi scostai le coperte di dosso, e mi misi seduto. Ed aveva un sorriso soddisfatto stampato sula faccia.
«Perché non me l’hai detto subito?» pretestai. «Anzi, perché non me l’hai detto una settimana fa?!»
«Perché non lo sapevo nemmeno io» si difese.
«Ma non vi danno una specie di curriculum delle persone che vanno aiutate?»
Sospirò alla mia domanda. «Si, ma di certo non ricordavo la data di nascita di Frank.»
«E allora come l’hai scoperto?»
«Ieri» cominciò, «quando sono andata a prendere Frank per portarlo qui, me l’ha detto Victoria.»
«Capito» dissi. «Ma ora come faccio?»
«Come fai a fare cosa?» chiese lui.
«Il regalo!»
«Ti ho svegliato proprio per quello» borbottò.
Mi alzai dal letto e infilai in bagno. Mentre chiudevo la porta vidi Ed che usciva dalla mia camera.
Ora si poneva un problema che avrei dovuto risolvere al più presto possibile. Cosa regalavo a Frank?
Erano passate cinque settimane dalla prima volta che l’avevo visto e considerando tutto il tempo che avevamo passato insieme, potevo dire di conoscerlo piuttosto bene. Ma in quel momento la mia mente non fu capace di elaborare nulla, e l’illuminazione in cui speravo non arrivò.
Mi sistemai velocemente e dopo una colazione fugace io e Ed salimmo in macchina.
«Ed» attirai la sua attenzione, «cosa gli regalo?»
«Non lo so» scosse la testa. «Cosa gli piace fare?»
«Gli piace la musica, suona la chitarra e il piano» spiegai.
«Mh» Ed pensò un attimo, «che ne dici di un CD?»
«No, è un regalo abbastanza banale.»
«Non so Gerard, sei tu che stai sempre con lui, mica io» protestò.
«Chiedevo solo un aiuto.»
«Comunque» disse mentre posteggiava. «Cosa fate stasera?»
Mh… cosa? Io non avevo mai organizzato una festa di compleanno, e non ci ero nemmeno mai andato! O meglio, non ricordavo di averne mai organizzata una o di avervi mai partecipato, ma era uguale. Le uniche cose che sapevo sulle feste provenivano da stupidi film per ragazzine che passavano il pomeriggio in televisione, e di certo quelli non mi avrebbero aiutato.
«Chiamo Rachel e Jimmy e andiamo a mangiare una pizza noi quattro, offro io. Che ne pensi, Ed?»
Era la prima cosa che mi era venuta in mente, ma tutto sommato non mi sembrava un’idea tanto male.
«Buona idea» si complimentò. «Poi se vogliono rimanere a dormire da noi non è un problema.»
«Oh, perfetto!» esclamai soddisfatto. Almeno il problema della festa era risolto. Ora restava il regalo.
Scendemmo dalla macchina e cominciammo a guardare le vetrine di tutti i negozi che si trovavano in quella città, ma nulla, e dico nulla, mi sembrava adatto per Frank. Non capivo perché fosse così difficile trovare un regalo di compleanno. Insomma, la gente ne compra tutti i giorni, e penso che nessuno si faccia tutti questi problemi.
«Gerard, non abbiamo tutto il giorno» mi informò Ed.
«Lo so» borbottai frustrato.
«Dai» mi tirò una pacca sulla spalla. «Andiamo a prendere un caffè e poi ricomincia a cercare.» Sì, cercare, perché stava seriamente diventando una caccia al tesoro.
Infilammo in un bar e ci sedemmo, una cameriera venne subito a prendere le ordinazioni.
Mentre bevevo con calma il caffè presi il telefono e mandai un messaggio a Rachel. Volevo organizzare qualcosa di carino, e non volevo che Frank sapesse nulla: sarebbe stata una sorpresa. Il pomeriggio saremmo usciti e nessuno avrebbe alluso al compleanno o cose del genere. Lo so che è una cosa cattiva, ma mi sarei divertito a farlo stare un po’ sulle spine. Poi, considerando che era anche Halloween, la festa preferita di Frank, saremmo andati e comprare caramelle e schifezze varie e avremmo mangiato il tutto al parco.
Poi saremmo andati a mangiare la pizza, e solo alla fine avremmo fatto portare la torta con le candeline.
Organizzai tutto questo con Rachel per messaggio mentre bevevo il caffè al bar. Lei l’aveva definito un piano “diabolico” e io le avevo dato perfettamente ragione.
Appena l’ultimo sorso della bevanda scura fu troppo freddo per essere bevuto io e Ed uscimmo dal bar e tornammo alla ricerca del regalo.
«Ed, io non so davvero cosa regalargli.»
Beh, lo aveva già capito da molto tempo che non ne avevo la minima idea. Alla fine avrei dovuto davvero comprargli un banalissimo CD. L’avrebbe apprezzato tantissimo, ma prima di tutto avrei dovuto chiamare Rachel per farmi consigliare. Da quanto avevo capito lei e Frank ascoltavano al stessa musica, ma io non ci capivo davvero nulla. E secondo, volevo un regalo più speciale.
Cominciai a camminare senza nemmeno più guardare le vetrine. Non avrei certo avuto un’illuminazione, ormai mi dovevo rassegnare a un regalo banale, se pur carino, ma banale, che chiunque avrebbe potuto comprare.
Calciai un sassolino che mi stava intralciano la via, quando un ragazzo mi passò accanto e mi diede una spallata. «Scusa» mi fece. «Tutto okay?»
Annuii. «Sì, tutto okay.»
Era alto, molto alto, ed era coperto completamente di tatuaggi. Colorati, in bianco e nero, piccoli, grandi, scritte e disegni. L’avrei definito una mostra d’arte ambulante, perché quello era.
«Bene» esclamò sorridendo mentre se ne andava, «alla prossima.»
Non pensavo ci sarebbe stata una prossima volta, ma era stato gentile e lo salutai con un cenno della mano.
Poi mi venne un’idea.
Mi voltai per parlare con Ed che stava camminando dietro di me. «Ed, mi dai il tuo telefono? Devo chiamare Victoria.»
«Non puoi usare il tuo?» chiese.
«Non ho il suo numero in rubrica» spiegai.
Mi fermai per lasciare che mi raggiungesse, poi prese il telefono dalla tasca e me lo porse.
Cercai velocemente il numero e feci partire la chiamata.
«Cosa hai in mente?» domandò Ed dubbioso.
Sorrisi. Certe volte penso davvero di essere un genio.
«Pronto, Ed?» Victoria rispose al telefono e il mio sorriso si allargò.
«Ciao, sono Gerard» dissi. «Ti devo chiedere una cosa.»
«Ciao Gerard!» esclamò. «Dimmi tutto, caro.»
«Allora» cominciai, «oggi è il compleanno di Frank e gli volevo fare un regalo speciale, ma ho bisogno del tuo permesso per fare una cosa.»
«Cosa esattamente?»
«Un po’ di tempo fa, Frank mi ha detto che gli sarebbe piaciuto farsi un tatuaggio. E beh» esitai un attimo, «pensavo sarebbe stato carino se per il suo compleanno lo portavo a farsene fare uno.»
Dall’altro capo del telefono ci fu un momento di silenzio. Pensai che Victoria non fosse d’accordo, e a quel punto avrei davvero dovuto comprare un CD.
Ed mi guardava ridendo e scuotendo la testa.
«Non mi ha mai detto nulla» osservò. «Ma mi sembra un’idea carina. Per me non ci sono problemi!»
Esultai dentro di me. «Grazie mille Victoria!»
«Di niente, caro.»
«Però non dire nulla a Frank, per favore, voglio che sia una sorpresa» mi raccomandai.
«Certo» mi rassicurò, «non gli dirò nulla.»
«Perfetto, comunque stasera andiamo a mangiare una pizza, ma non gli dire nemmeno quello.»
Sentii Victoria che rideva e risi anche io. Ci salutammo e dopo aver riattaccato restituii il telefono a Ed.
«Tu sei pazzo» mi fece notare.
«Sì, lo so!»
Ed mi portò da quello che aveva definito il tatuatore più affidabile e bravo della città, e io non potei che fidarmi.
In realtà era una ragazza, molto carina e dai capelli corvini. Le spiegai la situazione, dicendole che sarei venuto con Frank l’indomani.
Finalmente potei tornare a casa con la consapevolezza di aver appena fatto a Frank un regalo fantastico.
Mandai un sms a Rachel per darle la notizia e anche lei mi informò del fatto che fossi genialmente pazzo.
Ci ritrovammo alle quattro di pomeriggio nella piazza della biblioteca dove avevamo conosciuto Rachel e Jimmy. Orami erano già passate due settimane, forse anche di più. Da quel giorno, e la maggior parte delle volte, non eravamo più solo io e Frank, ma anche fratello e sorella. Rachel era una ragazza davvero gentile e sempre disponibile, era molto sensibile e simpatica: in poche parole una ragazza a cui non si poteva non volere bene. Il fratello non le assomigliava molto, né fisicamente né caratterialmente. Jimmy era più timido  e riservato, ma anche lui, come la sorella, era gentile e sempre disponibile.
Però, la cosa che mi faceva più piacere era il fatto che adesso Frank avesse degli amici oltre a me, e che soprattutto avesse qualcuno con cui stare a scuola. Mi dispiaceva saperlo solo, a pranzo, ma ora non me ne dovevo più preoccupare.
Frank fu l’ultimo ad arrivare al punto di ritrovo. Avevo proposto di andare a prenderlo a casa, ma mi aveva detto che sua mamma doveva fare delle commissioni e che l’avrebbe portato lei.
Appena arrivò mi si gettò al collo e mi abbracciò. «Felice Halloween!»
«Ehi» pretestai, «così mi stacchi la testa!» Si mise a ridere e io feci lo stesso.
Ci staccammo dall’abbraccio e salutò anche gli altri.
«Allora» disse Frank, «che facciamo?»
A dire la verità non mi sembrava che il fatto che nessuno gli avesse fatto gli auguri lo disturbasse molto. Comunque lui non ci aveva mai detto quando fosse nato, e per quanto ne sapeva nessuno di noi ne era al corrente.
«È Halloween, andiamo a comprare le caramelle!» esclamò Rachel mentre si incamminava verso una destinazione a me sconosciuta.
Arrivammo davanti ad un negozio di dolciumi ed entrammo tutti e quattro.
Rachel e Frank cominciarono a riempire i piccoli sacchetti con ogni genere di caramelle, cioccolatini, strana roba non meglio identificabile, ma comunque molto gommosa e appiccicosa.
Per farla breve uscimmo dal negozio che i due più piccoli del gruppo avevano le braccia piene di roba.
«Scusate se ve lo chiedo» comincio Jimmy, «ma quanto abbiamo speso?»
Alla cassa avevano pagato Frank e Rachel, ma poi il prezzo l’avremmo diviso per tutti.
Rachel estrasse lo scontrino da una tasca del giubbotto nero e lesse. «Trentuno e venti.»
«Fanno sette dollari e ottanta a testa» disse Frank.
Rachel gli fece una linguaccia. «Secchione» disse scherzando.
«Per caso ti ricordi per quale motivo hai preso quel bellissimo voto a matematica?» la provocò.
«Sì» disse lei soddisfatta, «perché il secchione qui presente mi ha aiutato per una settimana intera con le equazioni.» Sorrise e si infilò in bocca un orsetto gommoso verde.  
«Appunto, e se vorrai ancora una mano ti merita chiudere quella bocca riempiendola di caramelle!»
Rachel scoppiò a ridere e appena giunti al parco si mise a sedere sull’erba.
«Le panchine ti risultano scomode?» feci io sedendomi anch’io sull’erba.
Lei alzò le spalle e cominciò a mangiare.
Feci per prendere un cioccolatino da un sacchetto ma lei mi bloccò. «Ehi!»
«Gerard, tu sei troppo grande per le caramelle» pretestò allontanando da me tutti i sacchettini bianchi di carta.
«E tu sei troppo piccola.» Andai da Frank e presi da un suo sacchetto una caramella e la mangiai trionfante.
Rimanemmo lì seduti finché l’ultima caramella non fu mangiata, stranamente da Rachel. Non capivo come facesse a essere così magra con tutta la roba calorica che ingurgitava dalla mattina alla sera.
Cominciammo a vedere i primi bambini con le mamme che se ne andavano in giro travestiti per fare dolcetto o scherzetto. Una bambina vestita da piratessa ci passò vicino e ci sorrise.
«Stasera rimaniamo fuori a mangiare una pizza?» propose Jimmy. Che bravo, stava seguendo il piano alla perfezione, come la sorella.
«Va bene» acconsentì Frank con un sorriso, «però prima ci andiamo a trovare un travestimento.»
Così dicendo si alzò e mi porse una mano per aiutarmi a tirarmi su.
Rachel ci aveva detto che forse a casa sua ci poteva essere qualcosa di interessante, così ci avviammo verso casa loro. Non ci ero mai stato, ma Frank ci era andato qualche volta per studiare con Rachel.
Era una casa piccola ma carina, con un giardino verde intorno. L’interno era molto curato.
Salimmo le scale fino arrivare alla camera di Rachel al piano di sopra. Mi sedetti sul letto e così fecero gli altri, mentre lei cominciava ad armeggiare nell’enorme armadio che aveva.
«Dovrei avere qualche costume di Halloween qua dentro.»
Mentre lei cercava, cominciai a guardarmi intorno. Le pareti erano dipinte di un colore simile alle melanzane, ma non troppo scuro, eccetto il soffitto che era dipinto di nero ed era coperto da quelle stelline che al buio si illuminano.
Sulle pareti c’erano anche alcuni poster. La scrivania era completamente coperta di fogli e matite.
«Rachel?» la chiamai. Lei interruppe un attimo la sua ricerca per guardarmi. «Ma tu disegni?»
Lei annuì. «Sì, mi piace disegnare.»
«Anche a me piace disegnare» ammisi. «Posso vedere i tuoi disegni?»
«Certo» acconsentì lei. «Sono un po’ sparsi sulla scrivania e un po’ nella cartellina blu su quella mensola.»
Mi indicò una mensola vicino al letto e presi la cartellina di cui parlava, poi mi misi seduto alla scrivania. Questa era, come avevo già notato, ricoperta di fogli e oggetti vari per disegnare. Per lo più erano disegni non ancora finiti. Vidi lo schizzo del muso di un gatto e qualche inizio di volti, sia femminili che maschili. Poi aprii la cartellina e ne estrassi il contenuto. Da quanto notai, lì dentro teneva i disegni già completi. C’era una copia della Monna Lisa, che a mio parere era fatta benissimo, il viso di un ragazzo dai capelli rossi, gli occhi ghiaccio e la pelle chiara. Per un attimo ebbi paura che cominciasse a parlarmi da quanto era realistico. Poi c’era il disegno di uno scorcio fra due case con la vista su un corso d’acqua, molto pittorico.
Andai da lei per chiederle che posto fosse. «Venezia» mi disse.
Stava ancora cercando nell’armadio e cominciai a dubitare che avrebbe davvero trovato qualcosa.
«Ci sei mai stata?» chiesi. Frank si avvicinò a me per vedere il disegno.
«No» scosse la testa, «ma mi piacerebbe.»
«Magari ci potremmo andare tutti insieme, fra qualche anno» propose Frank entusiasta. Sì, fra qualche anno. Una fitta di sensi di colpa mi invase.
«Sarebbe fantastico!» esclamò Rachel.
Continuai a guardare i suoi disegni con Frank, quando ci giunse un grido di gioia.
«Ragazzi, li ho trovati!»
La ragazza tirò fuori dall’armadio una scatola di cartone, abbastanza grande, e la poggiò sul letto.
«Jimmy» disse al fratello, «mentre noi guardiamo cosa c’è qui dentro, va’ a prendere i trucchi della mamma.»
Il fratello obbedì senza dire nulla.
Aprì la scatola e cominciò a guardare cosa ci fosse dentro, cominciando a scartare la roba che non ci sarebbe stata utile.
C’era un costume da coniglio decisamente minuscolo, e un altro da fatina, che, se possibile, era ancora più piccolo. Scartammo altra roba.
«Gerard» aveva in mano un paio di canini, «che ne dici di travestirti da vampiro?»
Risi all’idea. “Va bene, però ho bisogno anche di un mantello.»
Dopo cinque secondi tirò fuori dalla scatola magica un mantello nero con l’interno bordeaux. «Questa ti va bene?»
Nel frattempo era tornato Jimmy con una borsa viola.
«Sono questi i trucchi di mamma?» chiese alla sorella mostrandole la borsa.
«Sì, bravo, poggiali sul letto.»
«Ce l’hai un lenzuolo bianco che non usi?» chiese Frank a Jimmy.
«Una tovaglia bianca è uguale?»
Frank alzò le spalle e Jimmy riscomparì, per tornare con una tovaglia bianca.
«Fantastico» disse soddisfatto Frank. «Gee, ho bisogno di te.»
«Al tuo servizio» feci.
«Un attimo.» Chiese a Rachel un paio di forbici e poi tornò da me con quelle e la sua tovaglia. «Mi ci fai due buchi per gli occhi?»
«Certo.» Gli misi la tovaglia in testa per prendere le misure, e dopo aver fatto dei segni con un pennarello, cominciai a tagliare due fori.
Rachel aveva tirato fuori dalla scatola un cappello da strega, che avrebbe usato lei, e un paio di corna da diavolo per Jimmy.
Appena ebbi finito di sistemare i buchi per gli occhi al costume di Frank, Rachel mi prese in ostaggio e cominciò a tirare fuori dalla borsa dei trucchi di sua madre ogni genere di cose.
«Beh» fece, «sei già pallido di tuo, ma ti sbianco un altro po’.»
Mi mise su tutta la faccia una roba piuttosto fastidiosa, che secondo lei mi avrebbe “sbiancato”. Poi, con l’ombretto nero, mi disegnò delle occhiaie e mi scurì tutta la pelle intorno all’occhio. Infine, con la matita rossa, mi creò un ipotetico rivoletto di sangue sotto al labbro.
Mi misi i denti finti e il mantello, e io fui pronto.
«Wow» Frank aveva appena visto il mio travestimento. «Fai paura, Gee.»
«Farò più paura quando ti succhierò il sangue via da collo.»
«Mh, no» disse scuotendo la testa, «non lo faresti mai, mi vuoi troppo bene.»
Gli stampai un bacio sulla guancia  e poi andai ad aiutare Rachel che si stava disegnando una mezzaluna sulla guancia.
Alla fine fummo tutti pronti. Io, vestito da vampiro con le zanne e il mantello, Frank, che con la tovaglia bianca sembrava ancora più basso di quello che era già, Rachel con il cappello da strega, e Jimmy, con le corna da diavolo e la faccia completamente impiastricciata da sua sorella con qualcosa di rosso. Tutto sommato però, i travestimenti erano venuti bene a tutti, e uscimmo di casa soddisfatti.
Per la strada la gente ci guardavano. Insomma, di solito i ragazzi della nostra età a Halloween partecipano alla feste e si ubriacano fino a scordarsi come si chiamano, non vanno in giro travestiti come invece fanno i bambini. Però quella situazione rendeva tutto ancora più divertente.
«Perché ci fissano tutti?» chiese Jimmy.
«Perché siamo belli» fece Rachel scherzando.
«Non penso che ci stiano guardando per quello.» Lo penso anche io, Frank.
«Forse siamo un po’ troppi grandi per travestirci» azzeccò Jimmy.
«Forse» dissi io, «ma Frank può essere tranquillamente scambiato per un bambino con questo coso addosso.»
«Ti voglio bene anche io, eh» borbottò Frank alla mia destra.
Risi sotto i baffi e gli cercai la mano sotto la tovaglia. «Io di più.»
«Ragazzi,» Rachel richiamò la nostra attenzione «dove andiamo a mangiare? È quasi ora di cena.»
«C’è una pizzeria qui vicino» ci informò Rachel, sperando che avesse avvertito la pizzeria per il dolce per Frank.
«Perfetto» esclamai, «io muoio di fare. Non mi avete fatto mangiare praticamente nessuna caramella.»
Lanciai un’occhiata alla ragazza, e lei fece finta di non aver capito, nonostante fosse lei la causa del mio stomaco che brontolava incessantemente.
Entrammo finalmente nel ristorante e ci sedemmo. Una cameriera ci portò i menù.
«Gee, tu cosa prendi?» mi chiese Frank.
Diedi uno sguardo veloce al menù. «Penso una margherita, tu?»
«Mh,» ci pensò un attimo, «anche io una margherita.»
Dopo un po’ arrivarono le nostre ordinazioni. Io mi fiondai sulla pizza come se non mangiassi da un secolo e la finii che Frank era ancora a metà.
«Gerard» mi fece, «cosa hai al posto della bocca? Un tritatutto?»
Alzai le spalle. «Forse, è probabile.»
Mi sorrise. «Comunque io non ho più fame.» E così dicendo mise il suo piatto con ancora metà pizza sopra il mio, ormai vuoto.
«No» dissi rimettendo il piatto al suo posto, «questa la mangi tu.»
«Ma non ho fame» protestò.
«Dai» lo supplicai, «solo un altro po’.»
«Sembri mia madre. E ho detto che non mi va più, mangiala tu!»
Sospirai sconfitto e mangiai anche la sua pizza, per non doverla lasciare nel piatto. Mh, no, in realtà avevo fame.
Quando finimmo di mangiare tutti, feci un cenno alla cameriera, era il momento della torta.
Di sicuro Frank sarebbe diventato rosso come un pomodoro per l’imbarazzo, ma nel ristorante c’eravamo solo noi e una coppia di anziani signori, quindi mi ero preso la briga di chiedere alla cameriera se poteva anche spengere le luci.
Beh, effettivamente le luci si spensero e subito io e Rachel cominciammo a cantare Tanti auguri a te, seguiti poi da Jimmy e anche da marito e moglie che stavano al tavolo vicino.
«Ma che cazzo…» Non appena Frank vide entrare la torta sorrise senza dire nulla. La cameriera poggiò la torta con sedici candeline blu davanti al festeggiato.
«Esprimi un desiderio» ordinai a Frank.
Lui chiuse gli occhi e poi spense le candeline. Gli ci volle un po’, ma alla fine ce la fece.
«Io pensavo che non lo sapeste!» esclamò mentre mangiavamo la torta.
«E invece sì» dissi io.
Mi sorrise. «A chi è venuta l’idea?» Ovviamente sapeva già la risposta, ma volle comunque chiederlo.
«Al tuo ragazzo» fece Rachel. Frank diventò rosso e fece finta di nulla. Era la seconda volta che Rachel ce l’aveva con quella storia, ma era la prima volta che Frank arrossiva.
«Eddai» fece lei tirando un pugno sulla spalla di Frank. «È inutile negare, è piuttosto palese.»
«E smettila» la riprese suo fratello.
Offrimmo un po’ della torta anche a quei due anziani signori, che ci ringraziarono e fecero gli auguri a Frank.
«Bene» dissi io, «adesso possiamo anche andare.»
«Gee?» mi chiamò Frank. «Mi accompagni a casa?»
«No» scossi la testa. «Andiamo tutti a casa mia. Ed ha detto che per lui era perfetto, poi tua mamma ha detto che lui poteva andare a casa vostra così avevamo la casa libera.»
Frank sorrise per la millesima volta quel giorno e alla fine ci avviammo verso casa mia.
Come previsto Ed non c’era.
Rachel entrò per prima in casa e corse in soggiorno, per poi gettarsi sul divano.
«Che bel divano» osservò. «È davvero tanto comodo.»
«Ti prego di non distruggerlo, grazie» le chiesi.
Finimmo in quattro su un divano da tre, nonostante ci fosse anche la poltrona, ma ci arrangiammo.
«Adesso i regali» esclamò Rachel. Prese dal suo zainetto un pacchetto rosso e lo porse a Frank.
Lui lo prese ringraziando e lo scartò. Il regalo era una catenina con un ciondolo di metallo. Come quelli che danno ai soldati, quei rettangoli di metallo fine con le punte un po’ stondate su cui è inciso il loro nome.
Mi sporsi per vedere cosa ci fosse scritto. C’erano una G e una F e sotto una R e una J.
«La F sta per Frank» spiegò Rachel, «la G per Gerard, la R per Rachel e la J per Jimmy.»
Frank se la mise al collo. «Grazie, è bellissima.»
«Non è nulla!»
«Per il mio regalo dovrai aspettare domani» dissi io ad un certo punto.
Frank si voltò verso di me curioso. «Cosa è?»
Scossi la testa. «È una sorpresa, lo scoprirai domani, ma ti piacerà.»
«Nemmeno un indizio?» mi supplicò.
«Dobbiamo andare in un posto per il regalo» rimasi sul vago.
«Mi vuoi per caso uccidere?»
Risi e gli scompigliai i capelli. «Ma chi avrebbe il coraggio di uccidere uno scricciolo come te?»
«Ma guarda che nemmeno tu sei tanto alto!»
«Infatti sono solo quasi dieci centimetri più alto di te.»
Mi diede un bacio sulla guancia e un pugno nella spalla. «Scemo.»
Passammo tutto il resto della sera a mangiare pop-corn, guardare film penosi, ma più che altro a dire cazzate.
Verso le tre di notte Rachel si addormentò sul divano e le andai a prendere una coperta. Fu seguita a ruota dal fratello, che si addormentò per terra sul tappeto.
«Frank, io non ho sonno, tu va di sopra a dormire, ti raggiungo fra un po’.»
Lui annuì e prima di andare gli schioccai un bacio sulla fronte. Mi abbracciò.
«Grazie» soffiò, «per tutto.»
Aspettai di sentire la porta della mia stanza che si chiudeva e dopo aver preso la giacca andai fuori.
L’ultima volta che mi ero messo a guardare le stelle Ray era ancora vivo ed eravamo nell’altra casa.
Guadare il cielo aveva il potere di rilassarmi in una maniera incredibile, era più efficace di una camomilla o anche di un sedativo.
Andai sul retro del giardino, dove c’era qualche sedia e un tavolo di plastica tondo. Presi una sedia e la portai al centro del giardino e poi mi ci sedetti. L’ultima volta che avevo fatto quella cosa non c’era quel freddo pungente, ma forse il gelo mi aiutava a concentrarmi maggiormente, anche se tremavo come una foglia.
Mi ero un po’ informato su come era costituito il cielo e in particolare le stelle. Era uno degli argomenti, che da quando ero tornato sulla Terra, mi aveva affascinato di più in assoluto.
In pratica sono masse di gas compresso e incandescente. Ma la cosa più incredibile è che noi vediamo dei piccoli puntini, ma in realtà sono enormi. Poi ce ne sono di bianche, azzurre, gialle, rosse. Tutto dipende dalla temperatura, quelle bianche sono le più calde, e al contrario di quello che si potrebbe pensare, quelle rosse sono le più fredde.
La cosa più bella è che le stelle non sono poi tanto diverse da noi. Tutte nascono dalle nebulose, poi diventano stelle, in seguito i destini delle stelle si dividono, c’è chi diventa una nana bianca, per poi spengersi lentamente, c’è chi prima di diventare una nana è una gigante rossa, enorme, ma fredda, e chi, infine, esplode, si trasforma in una supernova fino a diventare un buco nero.  
Ora vi chiederete: cosa è che abbiamo in comune con le stelle? Beh, tutto, volendo.
Come noi nascono, crescono, si trasformano e muoiono. Prendono strade diverse, hanno destini differenti, come le persone, non seguiamo tutti uno stesso cammino. Non ho ancora capito lo creiamo noi o se in qualche modo è già stata stabilito, e non lo scoprirò mai, ma l’importante è che combatterò affinché si realizzi ciò che voglio.
Ciò che mi aveva affascinato di più leggendo il libro di astronomia che mi aveva dato Ed, erano i buchi neri. Niente riesce a sfuggire ad essi, neanche la luce, e non sono visibili con il telescopio, ma si possono individuare grazie ad una fortissima attrazione di gravità verso un punto vuoto dello spazio. Anche nella vita ci sono delle sorte di buchi neri, cose a cui non puoi sfuggire, volenti o nolenti. Ci avevo pensato, e avevo capito che Frankie era il mio buco nero. Semplicemente io non potevo fare a meno di lui, non gli potevo sfuggire.
No, non sono pazzo, penso solo troppo.
Il rumore di passi leggeri mi riscosse dai miei pensieri. Era Frank. Gli feci cenno di avvicinarsi e lo feci sedere sulle mie ginocchia. Lui si accoccolò sul mio petto e io cinsi il suo corpo con le braccia. Si era portato una coperta dietro, ma addosso aveva solo il pigiama.
«Che facevi?» mi chiese piano.
«Guardavo le stelle.» Alzò la testa e si mise anche lui a contemplare il cielo, per fortuna era una serata limpida.
«Non riuscivi a dormire?» gli domandai.
Lui scosse la testa e dopo aver poggiato la testa sulla mia spalla chiuse gli occhi.
«Ti ho visto dalla finestra e sono sceso» mi spiegò.
«Sì, sei sceso senza nulla e come minimo ti prenderai un raffreddore» lo rimproverai.
«Non è vero» ribadì, «ho preso la coperta che tieni sempre in fondo al letto.»
Lo strinsi ancora di più. «Ho notato.»
«Gee, conosci qualche costellazione?»
Annuii. «Quella è la costellazione di Orione.» Indicai il gruppo di stelle. «Quella che sembra una caffettiera.»
Frank rise. «Ho capito.»
Ne indicai un’altra. «Quella è la costellazione dei Gemelli.»
«Come fai a sapere tutte queste cose?»
Alzai le spalle. «Mi piacciono le stelle, guardarle è l’unica cosa che mi rilassa veramente.»
«Sono belle» mormorò.
«Come te.»
«Non è vero.»
«Oh, si che è vero» protestai.
«No, solo tu lo pensi. Quindi o sei pazzo tu o lo sono tutti gli altri.»
«Non so quale sia la risposta giusta, ma non mi importa.» Sorrisi e Frank alzò la testa per ricambiare.
«Davvero Gee, non so come ringraziarti per quello che fai per me. Nessuno l’aveva mai fatto prima.»
Una piccola lacrima gli scese sulla guancia e gliela asciugai lentamente con il pollice.
«Non mi devi ringraziare, voglio solo che tu mi prometta che starai meglio.»
«Te lo prometto.»
«Bravo Frankie.»
«Gee?» mi chiamò. «Ti amo.» Lo disse in un soffio e per un momento pensai di aver capito male, ma il suo sorriso mi diede la conferma.
Gli alzai il mento con una mano e lentamente feci combaciare le nostre labbra. Frank mi prese l’altra mano e incrociò le nostre dita. Mi staccai un attimo per poterlo guardare in faccia. Gli accarezzai una guancia, poi ricominciai a baciarlo.
Considerando che non ricordavo di aver mai baciato nessuno, come primo bacio fu perfetto, e non esagero se dico perfetto. Era freddo, sì, molto, ma il calore del corpo di Frank contro il mio mi fece dimenticare la temperatura rigida e mi infuse calore fino al centro del cuore, dove qualcosa esplose definitivamente. Forse una stella, e adesso al posto del cuore avevo una supernova.
Le labbra di Frank erano incredibilmente morbide, sapevano di dolce. Non avrei mai voluto che quel momento finisse.
Ci staccammo per riprendere fiato e poggiai la mia fronte sulla sua.
Alla fine mi decisi a parlare. «Ti amo anche io.»
 
 

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Capitolo 13
*** Come il mare d’inverno ***




 

13

Come il mare d’inverno
 



Allora, primo punto: mi piacevano i ragazzi. Secondo punto: era un problema? No, non lo pensavo proprio, in ogni caso non lo era se il ragazzo in questione era Frank Iero. Terzo punto: l’avevo baciato. Quanto punto: lo volevo ribaciare? Sì, eccome se lo volevo. Quinto e ultimo punto: lo amavo? Cazzo se lo amavo.
Nelle situazioni confuse farsi uno schema mentale del genere era molto utile, lo pensavo più per esperienza che per altro. Non avevo dubbi, e avevo qualche risposta in più. Tuttavia questo non risolveva affatto le cose, anzi, le peggiorava di gran lunga. Perché? Per il semplice fatto che avevo solo altri due mesi per stare con il ragazzo che amavo, e la cosa mi dava piuttosto sui nervi.
Mi venne in mente che, forse, dopo essere tornato in vita e dalla mia famiglia, potevo tornare da Frank, e se così si poteva dire, farlo rinnamorare di me. Prima di tutto non avevo idea se fosse una cosa fattibile, per quanto ne sapevo potevo abitare dall’altra parte dello Stato. In secondo luogo non sapevo se fosse qualcosa che veniva concessa alla persone come me, e avevo i miei dubbi. Infine, sarebbe stato troppo doloroso vederlo, sapendo che lui non si ricordava nemmeno il mio nome. Non sapevo nemmeno se avrei avuto il coraggio di rivolgergli la parola.
Scartai tutte le ipotesi, e non mi rimase che la scelta di vivere quei due mesi al pieno delle mie possibilità, e poi, una volta conclusi, cercare di farmene una ragione.
Non sarebbe stato per nulla semplice, ma in alcuni casi si devono fare dei sacrifici, e io l’avrei fatto, per Frank.
Mi rigirai nel letto così da poter guardare Frank che ancora dormiva. Il giorno prima era stato il suo compleanno, e non avrei potuto organizzare una giornata migliore, o almeno lo speravo.
Cominciai ad accarezzargli piano i capelli scuri, per non svegliarlo.
La prima volta che l’avevo visto mi ero subito reso conto che aveva qualcosa di speciale. Ero già certo che sarebbe stato speciale per me, ma non avrei mai pensato che sarebbe andata a finire in quella maniera.
Decisi di alzarmi per andare di sotto a vedere se Jimmy e Rachel erano svegli e per preparare la colazione.
Fratello e sorella erano nella stessa posizione della sera precedente e nessuno dei due accennava a svegliarsi.
Andai in cucina senza fare rumore e cominciai ad apparecchiare. Sul tavolo trovai il mio telefono. Ed mi aveva mandato un messaggio, dicendomi che sarebbe tornato dopo pranzo e che io e gli altri ci saremmo dovuti arrangiare per mangiare. Mh, che gentile.
Misi in tavola tutto quello che mi capitò sotto mano, dai biscotti alla marmellata. Poi tostai il pane, preparai il caffè e presi il latte dal frigo.
Guardai il grande orologio: segnava le dieci e mezza. Era ora di svegliare tutti. Andai in salotto e trovai un Jimmy assonnato che si massaggiava la schiena.
«Cavolo» fece, «ma come ho fatto a dormire sul tappetto?»
Sorrisi. «Se non lo sia tu. Io vado a svegliare Frank, tu sveglia tua sorella.»
Mi fece un cenno di assenso e io salii le scale fino ad arrivare alla mia camera. Frank, ovviamente, dormiva ancora.
Mi avvicinai piano e salii sul letto. «Frankie» chiamai. Sarebbe stata dura.
Lo chiamai altre due volte e alla terza emise un mugolio e seppellì la testa sotto il cuscino.
«Dai Frank» alzai un po’ la voce, «la colazione è pronta.»
Un altro mugolio. Era più facile svegliare un ghiro. Cercai di levargli le coperte di dosso, ma non le voleva lasciare, quindi decisi di passare alle maniere forti. Mi infilai anche nel letto e cominciai a fargli il solletico.
Iniziò a ridere e gridare mentre si contorceva fra le lenzuola.
«Okay» capitolò infine, «sono sveglio.»
Si mise seduto sul letto e si scostò un paio di ciocche che gli erano andate sulla fronte.
«La prossima volta userò io questo metodo su di te» mi minacciò con un sorrisetto.
«Sempre se riuscirai a svegliarti prima di me.»
Mi si avvicinò e mi lasciò un bacio veloce all’angolo della bocca. Sorrisi e andammo di sotto.
Jimmy e Rachel stavano già mangiando seduti al tavolo della cucina.
«Grazie per averci aspettato» fece Frank sedendosi.
«Se la bella addormentata e il principe sono in comodo» annunciò Rachel.
Finalmente ci sedemmo tutti e anche io e Frank cominciammo a mangiare.
Frank mi lanciò uno sguardo e mi sorrise. Io ricambiai.
Rachel ci guardò con aria confusa. «Cosa mi sono persa?»
«Cosa ti sei persa? » ripeté Frank.
«La domanda la faccio io a voi, non tu a me» sbottò la ragazza.
«Ma la mia domanda era: cosa è che di dovresti essere persa?» chiarì Frank.
Rachel fece un gesto di noncuranza con la mano e sospirò. «Lascia stare.»
Finimmo in silenzio e poi rimettemmo tutto in ordine.
Dopo due ore circa pranzammo sul divano con quello che trovammo in frigo. Poi Jimmy disse che il lunedì avrebbe avuto un compito in classe importante e che doveva andare a studiare. Fratello e sorella tornarono così a casa e Rimanemmo solo io e Frank. Era sabato, quindi lui non doveva fare i compiti e avevamo tutto il giorno a disposizione.
Prima di tutto decidemmo di vestirci perché eravamo ancora in pigiama, poi uscimmo per fare una passeggiata. Come il giorno prima era freddissimo e come sempre Frank aveva solo una felpa.
«Frank» gli feci, «per caso vuoi lasciarti morire per assideramento?»
«Non ho freddo» disse.
Mi tolsi la sciarpa e gliela misi al collo, poi gli presi la mano e gliela tenni stretta per riscaldarla.
«Gee?» mi chiamò dopo un po’, «mi avevi detto che il mio regalo me lo davi oggi…»
«Non mi fare quello sguardo da cucciolo bastonato» lo rimproverai.
Mi prese un braccio. «Dai.»
Buttai teatralmente gli occhi al cielo. «Va bene. Però prima devi decidere una cosa.»
Mi guardò confuso. «Che cosa?»
«Devi decidere che tatuaggio ti vuoi fare» dissi semplicemente.
Frank si arrestò per il marciapiede, e si mise entrambe le mani in tasca. Mi guardò per chiedere conferma che non lo stessi prendendo in giro e annuii.
Mi saltò al collo e per poco non cascai per terra. «Ehi!» esclamai, «mi fai cadere.»
«Grazie, grazie.» Cominciò a ripetere quella parola e non finì finché non gli mancò il fiato per andare avanti.
«Okay» dissi quando si fu calmato, «adesso devi scegliere davvero che tatuaggio vuoi.»


Non avevo mai visto Frank così felice. Non lo vedere quasi mai allegro, la maggior parte delle volte era semplicemente insofferente al mondo. Ma quel giorno era contento. L’avevo portato a fare il suo primo tatuaggio e alla fine si era deciso a farsi tatuare una scritta. Beh, a me parve una bellissima frase quella che decise di farsi scrivere: “live each days as if it were your last”. A dire la verità era esattamente quello che avrei dovuto fare, vivere ogni giorno come se quello successivo non ci fosse. Forse lo stavo facendo, forse no, ma non mi lamentavo, non avevo senso farlo, e non l’avrei fatto.
Uscimmo dallo studio che Frank aveva finalmente il suo tatuaggio bello in vista sul braccio sinistro. La scritta correva sull’interno dell’avambraccio, con una calligrafia molto bella.
Non ricordo quante volte Frank mi abbia ringraziato per il regalo di compleanno, e anche se avessi voluto contarle avrei certamente perso il conto a cento.


 
***


Il giorno seguente finalmente Frank decise che era il momento. Avrebbe detto a sua madre che sapeva tutto, che sapeva che lei non era il realtà la madre biologica e che era stato adottato dalle persone con cui aveva vissuto tutta la vita.
«Per favore, vieni con me.» Eravamo a casa mia, era pomeriggio inoltrato e Frank sarebbe dovuto andare da sua madre per raccontarle tutto.
«Secondo me è meglio se parlate voi due da soli.»
Frank si risedette sul mio letto e abbassò lo sguardo. «Se non vieni con me non le dico nulla» borbottò.
Sospirai e mi sedetti accanto a lui. Gli alzai il mento in modo che mi potesse guardare in faccia. «Perché devi fare così?» chiesi esasperato scostandogli un ciuffo di capelli dal viso.
Lui mi fissò confuso. «Così come?»
«Lascia stare» dissi. «Andiamo.»
Scendemmo al piano di sotto e ci mettemmo le giacche per poi uscire di casa.
Frank mi prese la mano e cominciammo a camminare all’aria gelida.
Dopo poco arrivammo davanti alla sua casa. Suonammo il campanello e Victoria ci venne ad aprire.
«Ehi, ragazzi!» esclamò. Se avesse saputo il motivo per cui eravamo lì, non sarebbe stata così felice di vederci.
«Ciao mamma» fece Frank entrando tenendomi stretta la mano.
«Buonasera Victoria.»
Appena entrammo la donna si precipitò in cucina, mentre noi appendevano la giacche e ci sedevamo in salotto, sul divano.
Frank poggiò una mano sulla mia gamba. «Ho paura» confessò.
Gli accarezzai una guancia e sorrisi. «Non ne devi avere, non c’è motivo.»
In quell’istante tornò Victoria con un vassoio pieno di biscotti e due tazze fumanti.
«Ho preparato il tè» disse allegra. Però sia io che Frank avevamo lo stomaco chiuso..
Victoria si sedette sulla poltrona davanti al divano e ci guardò stranita. «Che è successo?»
Evidentemente avevamo entrambi una faccia piuttosto sconvolta.
«Qualche giorno fa» cominciò Frank, «ti ho sentita per sbaglio parlare al telefono con papà.»
La donna non disse nulla e aspettò che il figlio continuasse.
«Io non sono tuo figlio. Mi avete adottato.»
Il silenzio glaciale che già aleggiava nella stanza calò definitivamente in una cortina indistruttibile. Nessuno voleva dire niente. Io non mi volevo intromettere, Frank guardava sua madre in attesa di una spiegazione e lei stava con lo sguardo basso. La situazione rimase invariata per molti secondi, poi Victoria scoppiò a piangere.
«Io volevo dirtelo» singhiozzò, «ma tuo padre e io abbiamo pensato che saresti vissuto meglio rimanendo all’oscuro di tutto.»
«È la mia vita!» esclamò Frank. «Ho il diritto di sapere chi sono i miei genitori.»
«Lo so, ma…»
Frank si alzò e la interruppe. «Pensavi che non dicendomi nulla sarei stato meglio?» stava gridando. «E invece no! Fino a questo momento ho pensato di essere una persona che in realtà non sono. Io non sono Frank Iero! Chi sonoono? Dimmelo!»
I singhiozzi di Victoria si facevano più forti e strozzati.
«Voglio sapere chi sono i miei genitori!» Anche se lo conoscevo da poco, non avevo mai visto Frank così arrabbiato, e forse non avrei mai pensato di vederlo.
Lo presi per un braccio e lo feci sedere di nuovo. Lui mi prese una mano, ma il suo sguardo accusatorio nei confronti di Victoria non migliorò.
Aspettammo che la donna si calmasse. Prese un fazzoletto e si asciugò le lacrime.
«Vuoi sapere la verità?» chiese lei alla fine.
«Certo che la voglio sapere» disse secco il ragazzo.
«Va bene» annuì. «Io avevo una sorella...»
Frank non diede il tempo alla donna di cominciare che la interruppe. «Hai una sorella? Ho una zia e non ne so nulla?»
«Lasciami spiegare» intervenne lei. «No, non era tua zia, mia sorella era tua madre. Io sono tua zia.»
Frank si passò una mano fra i capelli. «Perché parli al passato?»
«Adesso ti spiego.» Incrociò le dita delle mani e cominciò. «Si chiamava Linda. Conobbe un ragazzo, se ne innamorò perdutamente. Quando mi disse che era incinta rimasi scioccata, era una cosa che non sarebbe mai dovuta accadere, non nella sua situazione.» Alzò lo sguardo su Frank. «Aveva una malattia degenerativa, e i medici non le avevano dato più di uno, al massimo due anni da vivere.»
Certe volte è strano il modo in cui le vite sembrino così simili anche se molto differenti. Anche io avevo pochi mesi di vita. Così come ne aveva avuti pochi la madre di Frank.
«Era disperata. Lei sarebbe morta e avrebbe lasciato un neonato e il suo fidanzato da soli. Dopo nove mesi nascesti tu. Per fortuna eri sano come un pesce. Passasti i primi mesi di vita con tua madre e tuo padre. Lei morì che avevi solo cinque mesi. Proposi a tuo padre di aiutarlo a occuparsi di te. A quel tempo ero già fidanzata e mi sarei sposata dopo poco. Così decidemmo di prenderti con noi. Tuo padre ci avvertì che sarebbe andato all’estero per un mese, per lavoro. Non è più tornato e allora ti abbiamo adottato formalmente. Penso sia scappato. Non so le ragioni.»
«Ho capito» sussurrò Frank.
«Sei arrabbiato?» chiese Victoria.  
«Non lo so» rispose Frank. Adesso non sembrava più arrabbiato, semmai spossato e triste.  
«Mi dispiace» mormorò la donna. «Pensavo sarebbe stato meglio non dirti nulla, ma mi sbagliavo.»
«Sì» annuì il ragazzo, «ti sbagliavi. Penso che starò per un po’ da Gerard. Devo pensare.» Poi si rivolse a me. «È un problema?» mi domandò.
Scossi la testa. «Se non lo è per Victoria per me non lo è.»
Mi andava benissimo se stava da me, avremmo potuto passare un sacco di tempo insieme, me non volevo che lo facesse contro il volere di sua madre.
Victoria mi guardò. «Va bene. Occupati di lui.»
«Certo» acconsentii, «lo farò.»
Frank era già uscito dalla casa e si stava dirigendo a grandi falcate verso la strada per andare a casa mia. Lo raggiunsi correndo, ma quando gli fui accanto non dissi nulla. Lui camminava a testa bassa con le mani seppellite nelle tasche della felpa. Alla fine si sarebbe davvero preso la febbre, era il primo di novembre e lui andava a giro solo con la felpa.
Gli tolsi una mano dalla tasca e, come era solito fare lui, intrecciai le nostre dita. Lui mi rivolse un sorriso veloce e poi tornò a camminare mestamente fissando l’asfalto del marciapiede.
Non sapevo davvero che fare, e mi resi anche conto che erano molte le situazioni in cui non avevo la minima idea di come comportarmi. Forse era per il fatto che ero morto e poi ero tornato sulla Terra. Questo mi aveva un po’ scombinato tutto, ma forse era anche nel mio carattere. Avevo acquisito la capacità di comprendere gli stati d’animo altrui, ma non sapevo ancora bene come migliorali nel caso fossero stati negativi. Non andava affatto bene, io volevo e dovevo aiutare Frank in tutti modi possibili, e non lo stavo facendo per me, lo stavo facendo solo ed esclusivamente per lui.
Eravamo più o meno a metà strada, quando Frank si fermò improvvisamente.
Cercai di scorgere il suo volto fra i capelli che gli ricadevano sul viso, ma non ci riuscii. Però notai che il suo petto si abbassava e si alzava ad un ritmo troppo veloce, come se avesse appena corso una maratona e avesse il fiatone. Capii subito cosa stava succedendo.
Mi misi davanti a lui e gli alzai il mento. Un rivolo di sudore gli scese sulla tempia.
Il suo respiro si atava facendo sempre più veloce e strozzato. Era tutto come la prima volta, lui stava male e io mi ero immobilizzato per paura di fare qualcosa di sbagliato, per paura di non sapere come aiutarlo.
Si aggrappò a me e io lo strinsi forte. Alzai lo sguardo, qualche metro aventi c’era una panchina, era messa parecchio male, ma poteva andare per farlo sdraiare.
«Ce la fai a camminare?» gli chiesi. Non rispose, e non riuscii a capire se mi avesse fatto un cenno di assenso con la testa, perché questa era seppellita nel mio petto.
Cercai, come meglio potevo, di aiutarlo a raggiungere la panchina e alla finne riuscii a farlo sedere.
Avevo gli occhi spalancati, sudava, respirava male e tremava come se ci fossero quaranta gradi sotto zero.
Si distese e poggiò la testa sulle mie gambe. Come la prima volta chiuse gli occhi e rimase così per qualche secondo. Quando gli riaprì stava decisamente meglio.
Il mio cuore batteva veloce, adesso era il mio turno di correre la maratona. Avevo paura, non sapevo se quagli attacchi fossero normali o meno, anche se pensavo proprio di no. Non sapevo come comportarmi e questo non faceva che aumentare le mie preoccupazioni.
Lo tirai un po’ su e richiuse gli occhi appoggiandosi a me. Gli passai il braccio attorno alle spalle e cominciai ad accarezzargli i capelli.
«Va meglio?» gli sussurrai nell’orecchio.
Lui, ancora con gli occhi chiusi, annuì debolmente. Rimanemmo in quella posizione per una decina di minuti, senza dire nulla. Ma io ero preoccupato, cavolo se ero preoccupato, avrei voluto portarlo da un medico, e forse l’avrei fatto. Mi appuntai mentalmente di parlare con Ed di questa cosa, non potevo più fare finta di nulla.
«Gee?» Era talmente perso nei miei pensieri che quasi non sentii la voce di Frank che mi chiamava.
Mi riscossi. «Ehi, piccolo.» Lui mi sorrise.
«Andiamo?» fece. Così dicendo si alzò lentamente dalla panchina. Lo imitai.
«Okay.» Mi prese la mano e riprendemmo la strada di casa.
Appena arrivati dissi a Frank di salire, io dovevo parlare con Ed.
L’interessato era seduto sul divano del salotto e, completamente assorto, stava leggendo un libro. Mi schiarii la voce per annunciare la mia presenza. Lui si riscosse e quasi fece cadere il libro per terra.
«Ehi Gerard» mi salutò.
Io non ricambiai il sorriso e mi sedetti. «Ti devo parlare.» Decisi che per quel momento gli avrei solo spiegato la situazione fra Frank e sua madre, il resto avrebbe potuto aspettare.
Lui si mise in ascolto.
«Allora,» cominciai, «lo sapevi che Frank non è il vero figlio di Victoria?»
Ed abbassò la testa e sospirò. «Sì» ammise, «lo sapevo.»
Chissà come mai avevo lo strano presentimento che lui sapesse tutto. Lui sapeva sempre tutto, ma non diceva mai nulla.
«Beh» feci io scocciato, «temo che Frank l’abbia scoperto.»
«La sai una cosa Gerard?» Io lo guardai. Cosa avrei dovuto sapere? «Le persone come te, non si sa come né perché, tendono a far venire tutto a galla.»
Seriamente, non capivo cosa intendesse. «Non capisco.»
«Beh, a dire la verità nessuno l’ha mai capito. Ma si sa per certo che dopo che le persone sono state, anche se per poco, nell’aldilà, acquistano delle capacità che gli altri umani non hanno.»
Bene, allora avevo effettivamente delle capacità che gli altri non avevano. Certe volte pensavo fossero tutti deliri della mia mente, ma era una cosa vera.
«Una capacità comune a tutti» continuò Ed, «è quella di far venire a galla i segreti e le emozioni delle persone a cui stanno intorno. Tu senza volerlo hai fatto trapelare questo segreto.»
Quindi era colpa mia se Frank aveva scoperto tutto e adesso stava male? Era sempre colpa mia, non ne facevo mai una buona. Avevo ucciso Ray e stavo facendo soffrire Frank?
«Non te ne prendere la colpa.» Invece era proprio quello che stavo facendo e quello che avrei fatto, perché era davvero colpa mia.
Cercai di cambiare discorso. «Quindi sai tutta la storia?»
«A grandi linee» disse facendo un gesto strano con la mano. «Come sta Frank?»
«Male, ha litigato con sua madre e adesso è di sopra. Non è un problema se sta qua per un po’, vero?» domandai speranzoso anche se conoscevo già la risposta.
«Certo che no» affermò Ed, «può stare da noi quanto vuole. Ma… Gerard, ricordati quale è il tuo compito.»
Annuii senza ascoltarlo più di tanto. Sapevo benissimo quale era il mio compito e quello sarebbe rimasto, solamente era cambiato lo scopo.  
«Pensi che Frank vorrà riparlare con Victoria?» fece Ed apprensivo.
Scossi la testa. «Non lo so» mi passai una mano sul viso. «Per ora no. Ma forse fra qualche giorno…»
«Mh» borbottò, «ho capito.»
«Bene» dissi alzandomi, «vado su da lui.»
Mi diressi verso le scale senza dire nulla, e quando mi voltai Ed aveva già ricominciato a leggere il suo libro.
Saltai alcuni scalini rischiando di cadere. Quando arrivai davanti alla porta della mia stanza l’aprii e trovai Frank seduto sulla scrivania, e solo quando mi avvicinai capii cosa stesse facendo.
Davanti a lui c’erano tutti i disegni che avevo fatto. Non erano molti, e per lo più erano stati realizzati nell’ultimo mese, mentre Frank era a scuola.
Non appena si accorse che ero entrato in camera mi guardò con aria colpevole. «Sono bellissimi.»
Sembrava davvero stupito. Mi sedetti sul brodo del letto, mentre Frank continuava a guardare i miei disegni come se stesse ammirando qualche quadro cinquecentesco perfetto fin nei minimi dettagli.
«Io non sono esperto di disegno e cose così» disse, «ma questi disegni sono fantastici.»
Considerando che l’ottanta percento erano suoi ritratti, solo il soggetto faceva una bella parte nella buona riuscita del lavoro.
Quando ebbe finito di guardarli tutti, gli rimise nel cassetto e si sedette sul letto accanto a me.
«Non mi sembra di averti dato il permesso di guardare i miei disegni.» Non lo volevo rimproverare, però non è che la cosa mi andasse molto a genio.
«Scusa» sussurrò, «ma ero curioso. Tu non volevi mostrarmeli, e allora ho fatto da solo.»
«Dai» feci accarezzandogli una guancia, «non importa.»


Alla fine riuscii a trovargli qualcosa con cui dormire. Poi andai di sotto e preparai la mia famosa cioccolata calda. Presi un pacchetto di biscotti e tornai su con le mani cariche. Ci cambiammo e cominciammo a mangiare. Era presto per andare a dormire e tardi per cenare, ma nessuno dei due ci fece caso.
«Ehi Gee» fece ad un certo punto Frank. Avevamo bevuto la cioccolata e mangiato i biscotti, per terra, sul tappeto, che adesso era cosparso di briciole.  
«Dimmi.» Mi avvicinai a Frank e lui poggiò la testa sulla mia spalla.
«Pensi mai a cosa c’è dopo?» Non so perché ma capii subito cosa intendesse.
«A volte» cercai di non soffermarmi troppo null’argomento. Non volevo che mi scappasse qualcosa che non volevo dire. In realtà avevo pensato se fosse il caso di raccontare tutto a Frank o no, ma arrivavo sempre alla conclusione che gli avrei solo fatto del male, e non era quello che volevo. Certo, avrebbe dimenticato tutto, ma ci sarebbe stato comunque un piccolo spazio di tempo in cui quella consapevolezza avrebbe fatto parte di lui.
«Io ho paura, non voglio morire» mormorò.
Presi ad accarezzargli i capelli lentamente. Le ciocche scure e morbide mi si intrecciavano fra le dita. «Tu non morirai.»
Alzò lo sguardo verso di me. «Tutti muoiono.»
«Lo so» dissi piano, «ma tu non morirai.»
Mi guardò confuso. «E perché?»
«Perché ti amo.»
«Sarebbe bello se l’amore rendesse immortali le persone» mi lasciò un lieve bacio sulla guancia.
«Non l’amore» precisai, «il nostro amore.»
Mi sporsi leggermente in avanti e lo baciai. Sentii sulle sue labbra il sapore dolce della cioccolata  e dei biscotti. Lui ricambiò il bacio. Sentii il cuore che scoppiava e pensai che quello sarebbe stato un momento perfetto per morire. Avevo tutto: Frank. Lui era il mio tutto.
Cominciai ad accarezzargli la schiena e rabbrividì sotto il mio tocco. Schiuse leggermente la bocca e approfondimmo il bacio. La sua bocca calda faceva da contrasto con la mano fredda che mi accarezzava la guancia.
Io continuavo ad accarezzargli piano la schiena, e passai l’indice dell’altra mano sulla sua nuca, rabbrividì di nuovo.
Ci staccammo un attimo.
«Ti amo» soffiò sulle mie labbra.
«Ti amo anche io» sorrisi.  
«Non mi lasciare mai» sussurrò. «Non vivo senza di te.»
Fu come sentirsi crollare tutto addosso. La scelta era fra promettere qualcosa che sapevo non avrei potuto mantenere  e non promettere nulla, deludendo Frank. Ma forse ci sono delle volte in cui la scelta è impossibile da compiere, quando ami talmente tanto una persona che faresti qualsiasi cosa, anche morire.
«Nemmeno io vivo senza di te.» Ripresi a baciarlo. Non volevo pensare a quello che sarebbe successo dopo, non dovevo pensare a come avrei fatto a ritrovare Frank dopo, e in quel momento mi importava solo delle sue labbra morbide e un po’ screpolate che mi baciavano come se fosse la cosa più importante del mondo, e per noi due lo era.


Non so per quanto rimanemmo stretti l’uno all’altro, abbracciati, so solo che alla fine Frank si addormentò addosso a me e io lo misi sul letto sotto le coperte. Mi infilai anche io sotto il piumone vicino a lui.
Prima di spengere la luce lo guadai, lui era… come il mare d’inverno. Bellissimo, ma triste che ti strappa il cuore. 

 

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Capitolo 14
*** Ricordare è più doloroso che vivere ***




 

14

Ricordare è più doloroso che vivere




 
 
Svegliarmi tutte le mattine con quello scricciolo addosso che ancora dormiva fu una delle cose più belle che mi fosse mai capitata. Quando aprivo gli occhi vedevo i suoi capelli spettinati sul mio petto e cominciavo ad accarezzarglieli, finché non si svegliava. Quando finalmente cominciava il suo lento risveglio (e vi assicuro che era davvero lento), si stringeva ancora di più a me e iniziava a borbottare cose senza senso. Mi faceva sempre ridere. Alla fine apriva gli occhi, ma li richiudeva sempre quando questi venivano colpiti dalla luce. Dopo un po’ si abituava e allora alzava la testa mostrandomi quelle due pozze nocciola e mi baciava, un bacio leggere e tenero sulle labbra.
Forse furono proprio quei momenti che mi mancarono di più quando decise di andare a parlare con sua madre, perché aveva capito che era inutile continuare ad essere arrabbiato con lei. Certo, Victoria aveva fatto un errore, e a mio parere anche piuttosto grosso, ma Frank le voleva bene comunque perché alla fine era la donna che lo aveva cresciuto. Avrebbe avuto più ragioni per odiare suo padre, quello adottivo. Per quanto ne sapevo non è che si preoccupasse molto del figlio, da quello che avevo capito lo chiamava ogni tanto, ma niente di più.
Comunque Frank andò a parlare con sua madre, e questa volta lo convinsi ad andare da solo. Nessuno dei due avrebbe avuto la completa libertà di parlare con me fra i piedi. Forse Frank sì, ma Victoria no.
Uscì da casa con uno sguardo un po’ preoccupato, non mi voleva lasciare ma desiderava parlare con sua madre.
«Appena abbiamo chiarito ti chiamo o vengo da te» mi aveva detto sulla soglia della porta. «Okay?»
Io avevo annuito e mi ero sporto per stampargli un veloce bacio sulla bocca. «Certo» avevo sospirato. «In bocca al lupo.»
Lui aveva sorriso. «Crepi.»
E se ne era andato dopo che era stato da me quasi due settimane.
Avevamo vissuto benissimo quel tempo. Oltre ai bellissimi risvegli, c’erano tantissimi momenti che non avrei mai scordato. Quando durante la settimana lo andavo a prendere a scuola e facevamo la strada lunga per passeggiare mano nella mano, oppure quando mi mettevo a disegnare e lui cominciava a fissarmi. Dopo che aveva visto tutti i miei disegni non avevo più motivo di nasconderli, e anche se mi dava un po’ fastidio che mi si guardasse mentre disegnavo, per lui avrei fatto anche molto di più, quindi non era un problema. Il fine settimana, dopo che Ed si era chiuso nel suo studio, ci guardavamo anche due o tre film, con il risultato che stavamo svegli fino a notte fonda. Certe volte non andavamo nemmeno a letto, per poi dormire tutto il pomeriggio seguente.
Potevamo tranquillamente sembrare una coppia di felici ragazzi che si amavamo e facevano le cose che facevano tutti, ma purtroppo non era così. Prima di tutto perché due ragazzi che si amavano non era vista come una delle cose più normali al mondo, e secondo, avevo solo altre sei settimane da passare con lui.
Il solo pensiero del tempo che mi scivolava via dalle mani senza che potessi fare nulla, mi faceva contorcere lo stomaco e salire le lacrime agli occhi: era una cosa orribile.
Frank era andato via quasi da un’ora quando decisi di andare a parlare con Ed, non gli avevo ancora raccontato del problema di Frank ed era già troppo tardi, anche se in tutto il tempo che era stato da noi non aveva avuto nessuno dei suoi attacchi.
Lo trovai nel suo ufficio, seduto alla scrivania che scriveva frettolosamente su un foglio.
«Ehi Gerard» mi salutò. «Frank è già andato?»
Annuii. «Spero vada tutto bene.»
Ed posò la penna e si mise più comodo sulla sedia. Io mi sedetti su quella di fronte alla scrivania.
«Devi parlarmi di qualcosa in particolare?» mi domandò.
«Sì» dissi. «Si tratta di Frank. Non so se Victoria te l’aveva già detto o se lo sai, però mi preoccupa.»
«Cosa c’è che non va?» formulò la sua domanda mentre si sporgeva un po’ in avanti.
«È già successo due volte. Comincia a sudare e a tremare e non respira. Poi si distende e dopo qualche minuto gli passa tutto» spiegai velocemente. «Lui dice che non è nulla, che sono solo semplici crisi di panico o qualcosa del genere, ma io non ne sono poi così convinto.»
Ed esitò qualche secondo prima di rispondere. «È abbastanza comune negli adolescenti. Io penso che le crisi di Frank siano causate dall’insicurezza. Questi attacchi» si fermò un istante, pensando, «ti ricordi per caso se sono accaduti dopo che era successo qualcosa di particolare?»
Ci pensai un attimo. Beh, in effetti tutte e due le volte aveva avuto le crisi dopo che era successo qualcosa di, diciamo, inaspettato. «Sì» affermai. «La prima volta è successo quando è rimasto a dormire qui la prima volta, e la secondo dopo aver litigato con Victoria per la storia dell’adozione.»
Ed annuì fra sé come a conferma della sua teoria. «Allora è solo questione di insicurezza e anche paura. Penso che con il tuo aiuto possa risolvere questa cosa. Devi aiutarlo a fargli capire che è importante, che non è un ragazzo qualunque, fagli capire che è speciale!»
«Per me è molto speciale» sussurrai a testa bassa.
«Lo ami?» chiese Ed senza tanti giri di parole.
Arrossii senza accorgermene ma alla fine annuii. «Sì.»
Ed si alzò dal suo posto e fece il giro della scrivania fino ad arrivarmi dietro, mi poggiò una mano su una spalla. «Ti sei messo in un bel casino, Gerard.»
«Lo so.» Sentivo gli occhi che mi pungevano per le lacrime, ma non potevo scoppiare a piangere mentre ero con Ed, semplicemente non potevo.
Ed rimase un po’ in silenzio.
«C’è mai stato» cominciai, «qualcuno che si è rincontrato, dopo aver superato la prova, con la persona che aveva aiutato?»
Avevo paura della risposta.
«Sinceramente non lo so, ma non penso» disse sconsolato. «Ma forse è meglio che ti racconti la mia storia.»
La sua storia? Non capii bene finché non cominciò a raccontare.
«Io ho passato quello che stai passando tu. Anche io, come te, ho affrontato la tua stessa prova, ma forse è meglio cominciare a raccontare dall’inizio.
«Sono sempre vissuto in una cittadina poco distante da qui. I miei genitori non mi facevano uscire quasi mai perché avevano paura che mi succedesse qualcosa. Il pomeriggio mi mettevo sempre a guardare gli altri bambini che giocavano a palla per la strada e ci stavo male, perché mi sarebbe piaciuto scendere e stare con loro, anche solo per un po’, ma non potevo. Quando avevo dieci anni, mia madre aveva paura anche solo a farmi attraversare la strada da solo. Mi accompagnava sempre a scuola lei, anche quando divenni più grande lei mi seguiva ovunque dovessi andare, e alla fine decisi di non andare più da nessuna parte se non a scuola, se c’era lei che doveva sempre venire con me.
«Nella mia camera avevo creato un mio piccolo mondo, amavo leggere, e mio padre tornava spesso dal lavoro con un libro per me. Tolkien, Bradley, Lewis, Dumas, creavano mondi in cui amavo vivere. Se avessi avuto il potere di poter infilare dentro ai libri l’avrei fatto senza pensarci un attimo. Tuttavia non ero per niente felice, anzi, tutto il contrario.
«Mi ricordo che una volta mia nonna per il Ringraziamento venne a casa nostra e mi disse che tutti quei libri mi avrebbero fuso il cervello. Io non le diedi ascolto, quei libri erano semplicemente la mia ancora di salvezza e non ne potevo fare a meno.
«Al liceo conobbi Victoria, quella che tu conosci come la madre adottiva di Frank. Era una ragazza molto carina e cominciammo a pranzare sempre insieme. Lei era una delle poche –se non l’unica- che non mi scansava e per questo le volevo bene.
«Ovviamente non ci mettemmo mai insieme, perché io non uscivo e non potevamo mandare avanti una relazione solo vedendoci a scuola. Così rimanemmo sempre amici. All’ultimo anno di liceo mia mamma cominciò a lasciarmi un po’ uscire con Victoria e i suoi pochi amici. Non facevamo molto, ma io speravo che questo potesse darmi qualche occasione per fidanzarmi con Victoria. Sì, mi piaceva, ma a dire la verità non ci speravo molto.
«Il gruppo di amici con cui uscivamo cominciò ad allargarsi e una sera in discoteca si unirono a noi tre ragazzi. Non li conosceva nessuno, si diceva si fossero trasferiti da poco, ma a nessuno interessava davvero.
Uno di quei tre mi offrì da bere, e io accettai. Anche perché non mi sembrava molto educato rifiutare. Quando mi portò la birra mi misi a berla, senza pensarci troppo. Dopo un po’ mi resi conto che non era solo birra quella che aveva bevuto. Non ho mai saputo cosa ci avesse messo dentro, ma sono sicuro che l’avesse fatto, non c’erano altre spiegazioni. Passai più di un mese all’ospedale e alla fine morii.
«Come penso sia accaduto a te, mi ritrovai in un luogo tutto bianco. Ma come penso avrai capito, quello è un posto che in realtà non si trova da nessuna parte. Ero sconvolto, non capivo nulla, e volevo solo andarmene. All’inizio i ricordi erano come scomparsi, ma poi arrivò una donna, con un vestito lungo e gli occhi tutti neri. Mi spiegò come fare e recuperare i ricordi più importanti e poi mi disse che col tempo avrei ricordato il resto. Mi disse anche che mi avevano dato una seconda possibilità, una seconda possibilità di tornare a vivere. Perché ero morto, ma non penso di essermene reso conto subito.
«La seconda possibilità consisteva nell’aiutare delle persone a ritrovare la loro strada, nel farli capire che non tutto era perduto. Se avessi superato la prova sarei potuto tornare indietro nel tempo ed evitare la mia morte, anche se non mi ricordavo cosa fosse successo. All’inizio mi sembrò una richiesta assurda, ero io quello che aveva bisogno d’aiuto, cavolo, ero morto, per quale ragione avrei dovuto accettare un patto del genere? Tuttavia decisi che provare non costava nulla. Dissi alla donna che tu chiami Helena che avrei accettato e dopo avermi salutato mi mandò sulla Terra. Mi ritrovai disteso per terra, accanto a me c’era una donna piuttosto anziana. Mi disse che sarebbe stata colei che mi avrebbe guidata nella mia missione e così cominciai.
«La prima persona che dovetti aiutare fu una ragazzina poco più piccola di me. Era affetta dalla sindrome di down e sinceramente all’inizio ero nel panico perché non sapevo come comportarmi. Mi arrabbiai con Julia, la donna che mi guidava nella missione, perché mi avevano affidato un caso troppo difficile. Non avevo nemmeno mai parlato con una persona affetta da una simile malattia, come pesavano sarei stato in grado di cavarmela? In ogni caso non è che potessi fare molto, avevo accettato la missione e a quel punto ero deciso a superarla. Feci amicizia con la ragazzina e lei si legò molto a me. La aiutai a trovare dei nuovi amici, insomma, a vivere nonostante tutto. Mi comunicarono che avevo superato la prima parte della prova, potevo passare alla seconda e ultima persona.
«Era un’altra ragazza, aveva esattamente la mia età e me ne innamorai subito. Aveva un carattere molto chiuso, introverso e prima di riuscire a parlarle mi ci volle abbastanza tempo. Scoprii che si faceva del male, ma lei, appena nominavo la parola ‘autolesionismo’, scoppiava a piangere. Alla fine smisi di pronunciare quella parola. Si tagliava, spesso si mordeva l’intero delle guance finché non sentiva il sapore metallico in bocca. Una volta la vidi che si strappava i capelli. I suoi erano morti e viveva con sua nonna, che certe volte si scordava anche come si chiamasse sua nipote, figuriamoci se era in grado di badare a lei. Mi faceva stare malissimo tutto quel casino, io la amavo, ma come poteva lei amare me se non teneva nemmeno a sé stessa?
«Dopo il primo mese non ero a nulla, lei continuava a fare quello che voleva, e anche se mi raccontava sempre tutto ed eravamo diventati migliori amici, nulla le fece cambiare idea. Le dissi che era inutile che si facesse del male, non avrebbe risolto nulla. Ma lei non mi voleva ascoltare.
«La svolta avvenne una sera. Era pieno inverno, ma lei volle andare a fare una passeggiata. Quando feci per riaccompagnarla a casa si rese conto che non aveva le chiavi e sua nonna era sorda e non avrebbe comunque sentito il campanello. Le dissi che poteva restare da me, anche per la notte. E, per farla breve, ci baciammo, e forse anche qualcosa di più. Le dissi che la amavo e lei mi disse lo stesso. Le feci promettere, se era vero quello che affermava, di smettere di farsi del male. Me lo promise, e mantenne fede al giuramento.
«Quando scadde il tempo e mi dissero che avevo portato a termine la missione non le dissi nemmeno addio, feci finta che il giorno dopo ci saremmo visti come sempre. L’ultimo giorno espressi a Julia il mio desiderio di diventare come lei, una Guida. Tornammo insieme nel luogo bianco, e lì chiedemmo a Helena se fosse possibile. Accolsero con gioia la mia proposta, non c’erano tante Guide. Passai un altro anno con Julia sulla Terra per l’addestramento e alla fine diventai una Guida. Cominciai il mio lavoro, e mi piacque fin da subito. Il resto della storia lo conosci.»
Rimasi a bocca aperta davanti a Ed che aveva appena finito di raccontare la sua vita. Ero scioccato e stupito, non pensavo avesse una storia del genere, insomma, chi ha la possibilità di raccontare una vita del genere? Penso solo qualche persona fra i sette miliardi di anime che popolano il pianeta. E fra quelle persona c’era Ed, e anche io.
«Wow.» Non riuscii a dire altro che quello. Non c’erano parole alla storia che mi aveva appena raccontato.
«Sei stupito?» mi chiese con un sorriso tirato.
Annuii. «Mi dispiace per la ragazza. Come si chiama?»
«Isabelle, ma io la chiamavo solo Belle.»
«Si vede che la amavi molto» dissi in un soffio.
«No» scosse la testa, «la amo ancora.»
Gli rivolsi uno sguardo per fargli capire che sapevo come si sentiva.
«Non hai mai provato a cercarla dopo che sei diventato Guida?»
Ed si passò pensieroso una mano fra i capelli. «Sì, l’ho fatto» ammise. «Ti ricordi quando eravamo nella città di Ray e quella sera vi ho lasciati soli perché avevo una riunione? Beh, non avevo nessuna riunione, quella era la città in cui abitava ed ero andata a cercarla.»
«Però non l’hai trovata» cercai di indovinare.
«Infatti» disse amareggiato. «Con questo volevo farti capire che fai benissimo ad amare Frank, e anche se dopo starai male, ne vale la pena, perché il suo ricordò vivrà per sempre in te.»
Gli sorrisi, grato. «Grazie Ed, per tutto.»
Lui ricambiò il sorriso e si alzò per abbracciarmi «Di nulla.»
Decisi che forse era meglio se lo lasciavo un po’ da solo. Ero più che sicuro che ricordare quelle cose gli facesse male. Erano fatti che gli avevano segnato la vita, ma che gli procuravano come un buco nel petto che lo faceva soffrire.
Lo salutai e me ne andai in camera mia nell’attesa che Frank si facesse vivo.
Adesso capivo perché Ed e Victoria si conoscessero già. Pensai che forse, dopo la morte di Ed, Victoria fosse stata male, ma se i miei calcoli erano giusti, dopo che lui aveva superato la stessa missione che stavo cercando di compiere anche io, si era tutto annullato non appena era tornato indietro nel tempo. Alla fine loro due erano solo amici del liceo che non si vedevano da molto tempo. Mi resi anche conto che, tutto sommato, le persone che avevano affidato a me erano dei ‘casi’ –per così dire- un po’ meno complicati di quelli che erano toccati a Ed: lui aveva dovuto faticare molto di più. Aveva avuto a che fare con una ragazzina down e con una ragazza autolesionista. Non lo invidiavo per nulla, però mi dispiaceva.
La sua storia con Isabelle e la mia con Frank non erano molto diverse, ma io non sapevo se sarei stato forte come Ed, lo amavo da morire e forse era proprio quello che volevo, la morte. Senza di lui non riuscivo a trovare uno straccio di ragione per cui continuare a stare su un pianeta schifoso. Cavolo, se mi avesse chiesto di regalargli la luna l’avrei fatto! Non penso esistano degli amori così potenti. Un giorno, davanti alla scuola di Frank mentre aspettavo che lui, Rachel e Jimmy uscissero, mi ero fermato a osservare una coppia che faceva i suoi comodi seduti su un muretto. Si baciavano, ma in loro non vedere l’amore e la gioia di stare con la persona che amavano, sembrava si baciassero solo perché dovevano. Penso non ci sia cosa peggiore che fare qualcosa contro la propria volontà. Io e Frank, invece, quando ci baciavamo sapevamo che in quel momento sarebbe potuto scoppiare il Sole, sarebbe potuta iniziare una guerra atomica, o sarebbero potuti sbarcare gli alieni, ma a noi non sarebbe importato, tutto in quei momenti andava in secondo piano, proprio tutto. E non è egoismo, è amore. A dire la verità quando le persone sono innamorate diventano un po’ egoiste nei confronti degli altri, ma eccedere non è mai un bene. Avevo capito che senza Frank sarei stato solo un rifiuto umano e lo trattavo come fosse una cosa preziosissima, e per me lo era. Come avevo detto a Ed, per me era speciale, ma non speciale banale, speciale unico, come un rarissimo diamante.
Mentre formulavo quei pensieri sentii il mio telefono vibrare. In realtà non sapevo nemmeno dove fosse, non lo usavo praticamente mai, e la maggior parte delle volte in cui uscivo lo scordavo a casa. Alzai le coperte del letto, e dopo un po’ lo trovai sotto il cuscino su cui aveva dormito Frank.
Mi rigirai quell’aggeggio fra le mani e alla fine riuscii a leggere il messaggio di Frank.
Con mia mamma tutto okay (cioè, come prima). Va ad una cena  e torna tardi. Ti va di venire da me? Ti amo. Frankie.
Non risposi nemmeno al messaggio e dopo aver preso qualcosa di pesante da mettermi addosso e aver salutato Ed mi precipitai fuori di casa e feci quasi tutta la strada di corsa.
Mi fermai davanti alla porta della sua casa per riprendere fiato, e quando fui in grado di respirare suonai il campanello.
Nemmeno mi accorsi che la porta era stata aperta che Frank mi saltò in braccio.
«Ehi Frankie, così mi ammazzi» protestai mentre lo abbracciavo. «Come va?»
Mi rispose senza staccarsi da me. «Bene» disse, «ma mi sei mancato.»
Risi. Beh, erano passate solo due, al massimo tre ore, da quando ci eravamo salutati. «Anche tu.»
Entrammo in casa e Frank mi raccontò velocemente cosa era successo.
Appena aveva suonato al campanello, sua madre era corsa ad aprire e appena l’aveva visto era scoppiata a piangere, e così era andata avanti tutto il tempo. Frank le aveva spiegato che nonostante tutto la perdonava e le aveva chiesto se poteva tornare da lei. Ovviamente lei aveva accettato e aveva continuato a piangere.
«Insomma» mi spiegò Frank, «ha pianto tutto il tempo, ma credo che adesso sia tutto okay.»
Gli sorrisi felice. «Bene, sono contento.»
Decidemmo di andare in camera di Frank, non ci interessava di guardare la televisione sul divano, e allora tanto valeva stare comodamente sdraiati sul suo letto.
La sua stanza era come sempre. Il letto al centro, la chitarra con l’amplificatore di lato, la scrivania. Però ci fu una cosa che attirò la mia attenzione: lo strano e antico baule di Frank era stato spostato ed era attaccato a un lato del letto, dalla parte in cui solitamente dormiva Frank. In effetti non avevo mai chiesto cose fosse quel baule, lui non me l’aveva detto e allora avevo pensato che fosse qualcosa di banale o qualcosa che non mi volesse dire. Non era assolutamente un problema se aveva i suoi segreti, anzi, tutti hanno dei segreti e devono averne. Ma in quel momento mi sentii troppo curioso e decisi che gli avrei chiesto cosa contenesse quell’oggetto che sarebbe potuto benissimo essere venduto in un negozio d’antiquariato.
Frank si era disteso sul letto dalla parte opposta rispetto al baule, e io lo feci spostare un po’ per potermi distendere accanto a lui.
«Frank,» lo chiamai «ti posso fare una domanda?»
Lui annuì e mi sorrise come a incoraggiarmi a chiedere quello che avevo da chiedere.
«Quel baule» indicai il vecchio oggetto, «cosa è?»
«In che senso cosa è?» fece lui. «È un baule.» Alzò le spalle incurante, ma sapeva che non era quello che intendevo.
Gli accarezzai distrattamente una guancia. «Sai cosa intendo» dissi semplicemente. «Ma se non me lo vuoi dire è okay.»
Lui non aggiunse nient’altro e si accoccolò a me poggiando la testa sul mio petto.
Restammo un po’ in quella posizione, fermi, alla fine parlò.
«No» affermò deciso, «non vedo il motivo per cui non dovrei dirti cosa c’è la dentro.»
Gli alzai la testa per poterlo guardare in viso. «Ehi, ma non ti devi sentire obbligato.»
Senza ascoltarmi gattonò dall’altra parte del letto in modo che il baule fosse davanti a lui sul pavimento.
Aprì il coperchio alzando le cerniere un po’ arrugginite e finalmente ci riuscì. Mi fece cenno di avvicinarmi e come aveva fatto lui poco prima gattonai e lo raggiunsi.
Vidi quello che c’era dentro. A dire la verità all’inizio non capii cosa fossero, ma mi sporsi un po’ più avanti e capii.
C’erano tantissimi quaderni e fogli sciolti. Alcuni erano scritti a mano, una calligrafia confusa e abbastanza minuta, la calligrafia di Frank. Altri pensai fossero scritti con una macchina da scrivere per il carattere particolare.
Rimasi stupito. Non avrei mai pensato che Frank scrivesse, e non così per fare, ma seriamente, la quantità di materiale là dentro era impressionante.
Mi voltai verso di lui per guardarlo in faccia. Lui mi sorrise e alzò le spalle.
«Hai scritto tu tutti questi fogli?» gli chiesi.
Lui annuì. «Eccetto alcune cose. Ci sono anche delle poesie che per ricordare  meglio ho riscritto. Ma il novantanove percento delle cose sono state scritte da me.»
«È impressionante, passi tantissimo tempo a scrivere» osservai. «Perché non me l’hai mai detto?»
Alzò le spalle. «Non lo so» sospirò. «Forse avevo paura che mi chiedessi di farti leggere qualcosa o forse perché volevo che questa cosa rimanesse solo mia.»
«Apprezzo che tu me l’abbia detto. Ma cosa scrivi?» chiesi. «Poesie, storie…»
«Per lo più lettere» rispose velocemente.
Lettere? «Scusa, ma le lettere non andrebbero consegnate al destinatario?»
Lui scosse la testa come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «No» rise, «io non lo faccio mai. Ho scritto tantissime lettere, ma non le ho mai consegnate. Anche perché la maggior parte le ho scritte a persone che non esistono. O almeno fino a un po’ di tempo fa.»
Mi sistemai più comodamente sul letto. «Non capisco.»
Anche lui si sistemò e cominciò a spiegarmi. «Allora, alcune di queste lettere le ho scritte a persone che conosco, tipo i miei genitori, oppure qualcuno che è a scuola mia, ma solo perché non ho voglia di parlare e allora mi sfogo. Ma quasi tutte sono scritte a Nessuno.»
Continuavo a non capire. Frank aveva pronunciato la parola ‘nessuno’ come fosse il nome proprio di una persona, ma non aveva senso, o almeno non lo comprendevo.
Lui non aspettò che dicessi niente e continuò a spiegarmi. «Sono sempre stato solo, non ho mai avuto amici e mia mamma era, ed  è, a casa raramente. Sono circa cinque anni che scrivo queste lettere, quasi tutti i giorni» si fermò un attimo per riprendere fiato. «Vuoi sapere chi è Nessuno? Beh, è esattamente quello che pensi: nessuno. Non avevo una persona a cui scrivere. Avrei voluto avere qualcuno da amare, qualcuno che mi aiutasse nei momenti di bisogno e semplicemente qualcuno che mi abbracciasse perché mi voleva bene. Ma non avevo una persona del genere. Allora me la creai, come fanno i bambini con gli amici immaginari. Io ero effettivamente un bambino quando ho cominciato a scrivergli, ma non avevo l’ingenuità dei ragazzini di dieci anni, assolutamente no. Forse ero anche troppo sveglio e avevo capito una cosa. Compresi che se la vita non l’abbiamo vissuto appieno, è stato tutto inutile, anni passati senza senso, solo perché dovevamo. E non capivo perché fossero così tutti felici anche se faceva tutto così schifo, e volevo trovare una risposta. «Pensavo che Nessuno avrebbe potuto darmi una risposta. Lui, o lei, ma non è importante, non era reale, e quindi magari poteva capire dei meccanismi delle persone che le persone stesse non possono comprendere. Ma non poteva rispondere alle mie lettere, come avrebbe potuto? Ma io continuavo a scrivere, non mollai. Gli raccontavo tutto, quello che avrei voluto, le mie speranze, ma soprattutto le mie paure. E lo sai quale era la mia più grande paura? Quella di vivere una vita senza senso come tutti. Non volevo!
«Allora decisi che avrei trovato qualcosa per cui sarebbe valsa la pena vivere. Ho cercato tanto, e non ho mai trovato nulla. Poi un giorno mia madre mi annunciò che un suo vecchio amico si era trasferito in città e che la sera stessa saremmo andati a cena da lui. Da quel giorno ho smesso di scrivere a Nessuno, e ho cominciato a scrivere a te. Avevo trovato la ragione per cui valeva la pena di vivere.»
Non mi ero nemmeno accorto che lentamente le lacrime avevano cominciato a scorrere sulle mie guance, senza che io potessi fare nulla. Frank se ne accorse quasi prima di me e cominciò ad asciugarle mentre ogni tanto mi dava dei piccoli baci.
Mi aveva turbato la storia che mi aveva racconto. Ma allo stesso tempo mi aveva fatto capire quanto solo era stato prima di conoscere me. Non aveva vissuto un’infanzia felice e quel baule ne era la prova.
L’unica cosa che volevo in quel momento era tornare indietro nel tempo, non morire e semplicemente conoscere Frank in una situazione normale, a scuola, al parco, tutto, ma non nella cazzo di missione in cui mi ero ritrovato.
I tentativi di Frank di asciugare le mie lacrime furono vane, perché non riuscivo a smettere. Seppellii il viso nell’incavo della sua spalla. Lui mi abbracciò e mi lasciò qualche bacio sul collo per cercare di calmarmi, ma alla fine cominciai a singhiozzare.
Era dalla volta sotto quell’albero che non piangevo. Ray era morto e avevo avuto la visione in cui mia mamma mi diceva che mio padre era morto.
La verità era che non mi piaceva piangere, anche se tante volte ne avevo voglia. Ma respingevo indietro le lacrime e questo mi lasciava un senso di vuoto nello stomaco che la maggior parte delle volte non mi abbandonava per tutto il giorno. Era terribile. Però certe volte piangere era l’unica soluzione, attraverso le lacrime buttavo fuori tutto, era come una valvola di sfogo.
Frank mi accarezzava i capelli mentre io continuavo a piangere sulla sua spalla.
Meritavo di stare male. Frank mi aveva detto che da quando mi aveva conosciuto aveva trovato la ragione per cui viveva e io l’avrei abbandonato nel giro di poco. Ero un bastardo e uno stronzo. Non c’erano altre definizioni per me se non quelle. Mi sentivo la persona più schifosa del mondo e non c’era nulla che potessi fare. Semplicemente l’avrei abbandonata senza uno straccio di spiegazione e lui non si sarebbe nemmeno ricordato nulla. Era orribile, era un pensiero che non potevo sopportare. Io lo amavo, ma non come si amano la bella ragazza e il bel ragazzo nei romanzi e nelle favole. Quelli si giurano amore eterno ma non sanno nemmeno cosa è l’amore. Io avevo capito in quel momento cosa era l’amore e non lo avrei mai scordato. L’amore era guardare negli occhi quella persona e pensare a quanto si è fortunati. È svegliarsi la mattina e pensare a quella persona. È andare a letto la sera e ripensare a come avevi trascorso la giornata con la persona che amavi. Era stare separati per due minuti eppure sentire una terribile mancanza. Era pensare a quella persona per mille ore al giorno. Era sognare quella persona, desiderare una vita insieme, desiderare un bacio, un abbraccio, uno sguardo, perché quello era tutto. Tutto quello era la vita. Ma l’amore è soprattutto sacrificio. Avere la consapevolezza che moriresti per la persona che ami. Sapere che se ti chiedessero se salvare la tua vita o di quella persona, tu non ci staresti nemmeno a pensare un secondo e pur di evitare che facciamo qualcosa a lui o a lei ti uccideresti con le tue stesse mani. 

 

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Capitolo 15
*** Come una favola senza lieto fine ***


 


15

Come una favola senza lieto fine




 
 
Solo un altro mese, un altro fottutissimo mese e basta, poi sarebbe tutto finito. O sarebbe tutto ricominciato: dipendeva un po’ dai punti di vista.
A quel punto non sapevo nemmeno se volessi o no superare la prova, ma poi vedevo Frank: era felice, mi amava, voleva stare con me, e io avevo il dovere di aiutarlo. Mancava solo un mese, era vero, e dovevo fare in modo che quel mese fosso il più bello delle nostre vite. Della mia lo sarebbe stato sicuramente.
Avevo promesso a Frank che lo sarei andato a prendere a scuola e che saremmo andati a fare una passeggiata, nonostante il cielo minacciasse pioggia. Ma d’altronde Frank proponeva sempre di andare a fare due passi nelle giornate più fredde e piovose, quindi ci avevo fatto l’abitudine.
Mi preparai lentamente prima di uscire, e alle tre in punto ero davanti alla scuola del piccoletto, con il cappuccio calato sulla testa per il freddo.
Dopo poco che ero lì, una mandria di ragazzi uscì dal portone e io aspettai con pazienza di scorgere Frank fra la folla, quando vidi qualcuno che mi veniva incontro. Ma non era lui.
«Gee!» Rachel mi saltò praticamente addosso e arrivai alla conclusione che le persone piccole a magre, come Frank e Rachel, quando decidono di abbracciarti ti possono uccidere.
«Ehi!» la salutai. «Come va? È un po’ che non ti vedo.»
Le scompigliai i capelli e lei mi sorrise. «Io bene» disse felice. «Tu piuttosto come stai?»
«Benissimo» mentre le rispondevo vidi Frank che ci veniva incontro sorridente.
Cercai di trattenermi dal salutare Frank con un bacio e mi limitai a sorridergli.
«Ehi Rachel» fece Frank, «ti va di venire al parco con noi?»
Lei ci pensò un attimo. «Mi dispiace» disse alla fine, «ma domani ho il compito di biologia e non so nulla.»
Ci sorrise dispiaciuta. «Bene» sospirò poi, «è meglio che vada.»
Cominciò a correre e dopo qualche metro si girò verso di noi per farci un cenno con la mano.
Quando si fu allontanata e mi fui assicurato che nessuno ci stesse guardando mi sporsi verso Frank e lo bacia sulle labbra. Appena mi staccai lui mi abbracciò.
«Come stai?» gli chiesi piano all’orecchio.
Lui mi stampò un bacio all’angolo della bocca. «Adesso benissimo» fece sorridendomi.
Forse mi sciolsi, ma poi ricordai che era troppo freddo per farlo.
Gli presi la mano e cominciammo a camminare, senza fretta, in fondo avevamo tutto il pomeriggio.
«Frank» lo chiamai ad un certo punto. «Ti posso chiedere una cosa?»
Lui si voltò verso di me e annuì curioso.
«Lo fai apposta di proporre di uscire nei giorni più freddi?»
Lui mi sorrise come per scusarsi. «Non proprio» ammise, «ma se è freddo il parco è vuoto ed è tutto per noi.»
In effetti in giro non c’era nessuno e quando arrivammo al parco vidi solo una signora imbacuccata che portava a spasso un piccolo cane nero. Ci passò accanto e lanciò un’occhiata alle nostre mani, unite, e poi alzò lo sguardo verso di noi. Non disse nulla.
Mi voltai verso Frank per accertarmi che non si fosse accorto di niente, ma evidentemente aveva visto tutto.
Si fissava le scarpe e non era felice come lo era un momento prima.
Mi misi a sedere sulla prima panchina che trovai  e trascinai Frank con me.
«Ehi» gli presi il viso fra le mani e lo costrinsi a guardarmi negli occhi. «Che c’è?»
Lui cercò di evitare il mio sguardo, ma ogni suo tentativo fu pressoché vano.
«Frankie, per favore» lo supplicai. «È per quella donna?»
Vidi una piccola lacrima che gli scendeva sulla guancia e fui veloce ad asciugarla, poi lui annuì.
Mi sentivo come se qualcuno mi avesse tirato un pugno nello stomaco.
Frank si sistemò meglio sulla panchina e si appoggiò a me. Lo guardai e capii che stava cercando di trattenere le lacrime.
Ma che razza di mondo era quello in cui una donna poteva farti piangere con uno sguardo?
Avvicinai il mio viso al suo e feci combaciare le nostre fronti. Chiusi un attimo gli occhi.
Lui mi accarezzò una guancia e io sorrisi fra me e me.
«Ti amo» mi sussurrò piano. «Ricordatelo.»
Lo baciai. «Posso dimenticarmi tante cose, ma non la ragione per cui vivo.» E per cui morirò, aggiunsi mentalmente.
Feci scivolare la mano sulla sua schiena e cominciai ad accarezzarla. Lui si abbandonò completamente addosso a me e chiuse gli occhi.
Facevo scorrere la mia mano sulle sue vertebre come se dovessi contarle, e lui stava lì, come un bambino.
Risi e Frank aprì subito gli occhi. «Perché ridi?» mi chiese.
Alzai le spalle. «Sei bellissimo.»
Arrossì leggermente e si sporse leggermente per potermi baciare. Gli accarezzai la tempia guardandolo negli occhi.
«Frank, mi prometti una cosa?»
Lui annuì e mi baciò di nuovo. «Non ti deve importare del giudizio degli altri, okay?» dissi. «Non ti devi preoccupare se qualcuno ci guarda male o fa qualche commento poco carino, tu va avanti a testa alta. Promettimi che lo farai?»
Lui mi regalò un piccolo sorriso. «Te lo prometto.»
Gli scompigliai piano i capelli già spettinati e lo baciai sulla fronte.
«Camminiamo un po’?» proposi.  
Frank annuì e si alzò. Io feci lo stesso e appena fui in piedi gli cinsi la vita con un braccio e me lo portai vicino. Lui appoggiò le mani aperte sul mio petto e mi guardò come in attesa.
Gli infilai una mano fra i capelli e feci combaciare le nostre labbra. Frank si alzò leggermente sulle punto dei piedi e ricambiò il bacio. Le sue labbra erano un po’ screpolate per il freddo ma morbidissime.
Schiusi leggermente le labbra e lui fece lo stesso. Mi staccai un attimo e gli lasciai un bacio sulla mascella, poi tornai alle sue labbra. Erano bollenti e immaginai che anche le mie lo fossero. Assaporai piano le sue labbra e poi approfondii il bacio. Frank cercò ancora di mettersi in punta dei piedi per essere alla mia altezza, ma non ci riuscì. Così, senza staccare le nostre labbra, lo tirai su e lui mi cinse i fianchi con le gambe mentre io lo tenevo con una sola mano per non farlo cadere.
Sorrise contro le mie labbra. Era talmente piccolo che non riusciva nemmeno a baciarmi per bene se stavamo in piedi.
Con la mano che avevo libera gli accarezzavo la guancia mentre lo baciavo e lui mi cingeva il collo con le braccia e ogni tanto mi accarezzava i capelli delicatamente e me li lisciava.
Lasciai scivolare la lingua lungo il suo palato e lo sentii rabbrividire. Sapeva di buono, un sapore dolce ma non troppo, era semplicemente perfetto.
Frank si strinse di più a me per non cascare e io lo abbracciai più forte.
Il mio cervello, che era come spento, non riusciva a pensare lucidamente, l’unica cosa presente nella mia testa era il sapore delle labbra di Frank.
Mi resi conto che qualcosa di freddo cadeva lento sul mio viso. All’inizio non ci feci caso, poi mi staccai da Frank con uno schiocco e mentre lo mettevo giù alzai lo sguardo al cielo; lui fece lo stesso.
Nevicava, nevicava davvero. Grandi fiocchi di neve cadevano lenti per terra e addosso a noi. Un piccolo cristallo mi scivolò sul collo e rabbrividii di freddo.
Frank mi prese la mano e ci rimettemmo seduti sulla panchina, con lo sguardo verso il cielo, a contemplare la neve che cadeva lenta.
Dopo dieci minuti si era giù formata un sottile strato bianco sull’erba del parco e Frank sorrise.
«Amo la neve» disse in un soffio.
Lo guardai e sorrisi, era incantato da quello spettacolo e lo capivo.
Quando cominciò a nevicare più forte e il freddo divenne insopportabile andammo a casa mia e ci riscaldammo come potevamo.
Preparai la mia, ormai famosa, cioccolata calda e ci mettemmo sotto la finestra per vedere la neve.
Frank era assorto nei suoi pensieri e parlava poco. Mi sarebbe piaciuto sapere quali cose gli vagavano nella mente, ma non mi andava di essere troppo invadente, se c’era qualcosa di serio me l’avrebbe detto.
Rimanemmo tutto il pomeriggio distesi sul letto a non fare nulla, ogni tanto Frank si appisolava e io lo guardavo mentre dormiva. Non lo svegliai nemmeno quando alla fine si addormentò seriamente, volevo lasciarlo sognare.


 
***


C’è un ragazzo, ha i capelli neri e gli occhi verdi. Lo sguardo è tremendamente triste, e forse sconsolato, ha perso la fiducia in tutto. Cammina, senza una meta, o forse le sue gambe sanno dove andare per lui, anche se la mente non vuole capirlo e il cuore è troppo distrutto per accettarlo.
Si sta facendo sera, fa freddo, ma il sole che sta per calare regala agli abitanti del luogo ancora un po’ di calore.
Il ragazzo cammina, e non si ferma, non vuole fermarsi, e perché dovrebbe? E poi non c’è nessuno a fermarlo, eccetto se stesso.
Imbocca una strada sterrata, piccola, quasi immersa nel bosco. Sente il gorgogliare di un corso d’acqua e decide di seguire quel rumore. È un suono rilassante ma allora stesso tempo che dà un senso d’ansia, è come il battere di un orologio che ti ricorda che il tempo sta per scadere. Tick, tock.
Inciampa su un ramo che intralcia la strada e cade per terra, sbucciandosi le mani e sporcandosele di terra. Si rialza piano e strofina le mani sui pantaloni, poi le guarda. Da un palmo esce qualche goccia di sangue. Ignora la ferita e riprende il suo viaggio verso l’acqua, perché è lì che vuole arrivare.
Il canto degli uccelli lo distoglie dallo scorrere dell’acqua, e si ferma un attimo dove è, a pensare. Cosa voleva fare davvero? Ne valeva la pena? Non aveva un padre, sua nonna era malata, suo fratello non c’era mai e sua madre piangeva in continuazione, perché con i pochi soldi che guadagnava non riuscivano ad andare avanti. Mikey andava ancora a scuola e tutti lo prendevano in giro per i libri di seconda mano, però, per fortuna, aveva trovato una ragazza, che anche se forse non lo amava, gli voleva bene e stavano bene insieme. Sua nonna stava per morire e non poteva impedirlo, dopo tutto non si può evitare che le persona muoiano, un giorno, che sia presto o tardi, la morte porta via tutti. Sua mamma era ancora disperata per la morte del marito anche se erano passati tantissimi anni e non sapeva cosa fare per stare meglio. E lui? Aveva finito il liceo, non aveva abbastanza soldi per andare al college, non trovava un lavoro, non aveva amici, non ne aveva mai avuti, eccetto suo fratello. Non ha una ragione per vivere, e allora perché continuare a farlo? Con quale scopo continuare ad occupare un pianeta che non ha niente da offrire?
Si riscuote dai suoi pensieri e riprende la strada per raggiungere l’acqua.
Alla fine scorge un piccolo ponte, un po’ malandato. E dove c’è un ponte ci deve essere necessariamente anche dell’acqua. Giunge sopra il ponte e si sporge un po’. L’acqua è limpida e rispecchia il colore del cielo.
Il ragazzo si issa e si mette seduto sul parapetto del piccolo ponte, con i piedi che ciondolano nel vuoto, sotto c’è solo acqua. Tanta acqua e quale roccia. Dal ponte è un salto di circa cinque metri.
Fa dondolare un po’ le gambe come fanno i bambini, ma lui non sta giocando.
Si volta e vede il sole che tramonta, è bello, fottutamente bello. L’arancio e l’azzurro si confondono creando un colore stupendo. Segue tutta la discesa del sole con lo sguardo, finché non intravede il suo ultimo bagliore. È come un segnale, chiude gli occhi e si lascia cadere giù.

 

Mi svegliai di soprassalto urlando. Sudavo freddo e appena mi portai una mano sul viso mi resi conto che stavo piangendo. Per fortuna non ero con Frank.
Mi alzai e andai in bagno. Mi appoggiai al muro fresco e mi lasciai cadere per terra. Mi coprii il viso con le mani e piansi. Non poteva essere, non aveva senso. Mi ero suicidato, perché mai avrebbero dovuto darmi una seconda occasione? Non aveva senso, nulla aveva un senso! Era come nella stanza tutta bianca in cui mi ero svegliato. Niente seguiva la logica, era solo un’accozzaglia di informazioni che non riuscivo a capire.
Sentivo le lacrime che pizzicavano sulle guance e singhiozzavo, anche se non avrei voluto, ma non potevo farne a meno.
Decisi di alzarmi sorreggendomi con l’aiuto del lavandino. Aprii l’acqua e mi sciacquai il viso. Mi diedi un’occhiata allo specchio. Vidi un ragazzo, lo stesso ragazzo che si era gettato da un piccolo ponte nel bosco, ma forse era anche un ragazzo diverso, non riuscii a capirlo.
Mi asciugai il viso lentamente, come se in quel momento fosse la cosa più importante del mondo. E dopo che ebbi rimesso al suo posto l’asciugamano, non ce la feci più e tirai un pugno sul muro.
Rimasi un attimo fermo con il respiro affannato e poi mi guardai la mano. Le nocche erano rosse e appena provai a muovere le dita una fitta lancinante mi fece scappare un gemito.
Stupido.
Feci scorrere sulla mano l’acqua fredda e poi l’asciugai piano. Faceva male, terribilmente male, e mi stava bene. Aprii l’armadietto accanto allo specchio e cercai una pomata o qualcosa del genere, ma non ci trovai nulla, così presi un po’ di garza e mi avvolsi la mano nella morbida e sottile stoffa bianca.
Frank avrebbe fatto delle domande, ma decisi che non avrei risposto.
Tornai in camera e vidi sulla sveglia che erano le nove di mattina, poi lo sguardo mi cadde sul telefono che vibrava, era un messaggio di Frank: dopo tutto era sabato. Ma la mia attenzione fu catturata dalla data. Sedici dicembre. Fra poco sarebbero iniziate le vacanze di Natale, e sarei potuto stare sempre con Frank, ma non fu quello il primo pensiero che attraversò la mia mente. Sedici dicembre. Mancavano solo dieci giorni. E a distanza di dieci giorni dalla fine, avevo conosciuto la causa della mia morte.


Mi vestii velocemente, presi il telefono e mi diressi al piano di sotto. In cucina trovai Ed che, come tutte le mattine, stava preparando la colazione.
Ed si voltò al sentirmi arrivar e mi sorrise. «Buongiorno!» esclamò.
Io mi sedetti e Ed mi mise davanti una teglia con un dolce che aveva appena tolto dal forno. Piccole volute di fumo si levavano dalla torta ancora calda.
Mi versai una tazza di caffè, poi mi tagliai una fetta di dolce e scoprii che era al cocco, il mio preferito. Tuttavia non aiutò il mio umore a migliorare.
Rimasi a fissare la colazione che stava davanti a me per almeno cinque minuti.
«Tutto bene?» chiese Ed. «Ti eri incantato.»
Mi riscossi e lo guardai senza dire nulla, poi abbassai la testa e cominciai e mangiare, buttando giù ogni boccone con un sorso di caffè.
Non riuscivo a pensare a qualcos’altro che non fosse il sogno. Avevo bisogno di Frank per distrarmi un po’.
Mi ricordai che mentre ero in camera il telefono aveva vibrato, era Frank. Presi l’oggetto metallico dalla tasca dove lo avevo messo e lessi il messaggio di Frank: Alle dieci davanti a casa mia, non puoi dire di no. Il tuo Frankie.
Non potevo dire di no? Beh, non l’avrei detto comunque, non risposi, d’altronde non lo facevo mai, ma controllai l’ora. Erano le nove e quindici. Per arrivare a casa di Frank mi si sarebbero voluti circa dieci, quindici minuti. Decisi che non gli sarebbe dispiaciuto se fossi arrivato un po’ in anticipo, così, senza nemmeno salutare Ed, mi misi la giacca e uscii.
Il freddo di dicembre mi attraversò, fino a penetrarmi nelle ossa e rabbrividii.
Mi misi a camminare il più velocemente possibile, non volevo morire assiderato.
Quando da dietro l’angolo intravidi la casa di Frank il mio cuore ebbe un tuffo. Non mi ero ancora reso conto di quanto fossi felice tutte le volte che lo vedevo, era come un incantesimo: quando mancavano pochi minuti al nostro incontro qualcosa dentro di me si accendeva e io cominciavo ad agitarmi e il mio stomaco a fare capriole.
Giunsi davanti alla porta e suonai il campanello. Mentre aspettavo che Frank, o Victoria, mi venisse ad aprire mi voltai per vedere se la macchina di quest’ultima era parcheggiata davanti alla casa. Come mi aspettavo non trovai la sua macchina e appena tornai a guardare la porta trovai un Frank sorridente.
Feci qualche passo avanti e lo bacia affettuosamente sulla fronte. «Buongiorno amore.»
Al sentirsi chiamare con quell’appellativo vidi la bocca di Frank che si piegava in un enorme sorriso, e approfittando del fatto che era uno scalino al di sopra di me mi baciò senza doversi mettere sulle punte o senza il bisogno che lo prendessi in braccio. Pensai che non esisteva cosa più dolce e tenera di quell’esserino che mi stava baciando dall’alto del suo scalino.
Appena si staccò salii su quello scalino che ci separava e lui mi prese per mano entrando in casa trascinandomi con sé.
Appena mi fui tolto la giacca mi resi conto che Frank era ancora in pigiama. Andai da lui che mi stava aspettando pochi metri più in là. Lo presi fra le mie braccia  e lo abbracciai. Considerando che era solo in pigiama potei sentire il suo corpo che aderiva al mio. Era magro e piccolo, ed ebbi paura di romperlo se lo avessi abbracciato un po’ più forte.
«Ti amo» sussurrò lui sul mio petto.
Gli bacia la testa. «Anche io ti amo, tantissimo.»
Alzò la testa per potermi guardare meglio in viso. «Come è che oggi sei così dolce?»
Perché mi restano solo dieci giorni da passare con te, ho scoperto perché sono morte e ti amo da morire. Sarebbe stata questa la risposta, ma come potevo dirgli tutte quelle cose? Avrei voluto raccontargli tutta la verità, dirgli come mi sentivo davvero. Cazzo, ero distrutto, non ce la facevo più. Ma lo avrei solo rattristito, e non volevo, lui doveva essere felice, anche a costo della mia tristezza.
Gli sorrisi e alzai le spalle. «Di solito non sono dolce?» gli domandai fingendo di essere offeso.
Mi baciò e strofinò il suo naso contro il mio. «Sì, lo sei, ma oggi particolarmente.»
«Forse perché oggi sei particolarmente bello» dissi baciandolo a mia volta.
Lui si staccò un attimo da me. «Perché di solito non sono bello?» fece, questa volta era lui l’offeso.
Gli misi una mano sulla nuca e lo riavvicinai a me. «Tu sei sempre bellissimo.»
Mi sorrise e poggiò la testa nell’incavo del mio collo, a occhi chiusi.
«Sei la cosa più bella che mi sia mai capitata.» Disse quelle parole in un soffio, facendomi il solletico.
«Anche tu.» Approfittai del fatto che avesse il collo scoperto, per poterlo baciare dove la pelle era più sensibile. Lo sentii rabbrividire e continuai a lasciare piccoli baci sulla sua nuca e sul collo.
«Amore?» lo chiamai. Lui rispose con un mugolio. «Avevi qualcosa in programma per oggi?»
Alzò la testa di malavoglia. «Sì, ma sinceramente preferirei rimanere a casa con te.» Sorrise.
Risposi con un bacio, per fargli capire che anche io avrei preferito rimanere a casa con lui.
Mi disse che non aveva ancora fatto colazione e mi supplicò di preparargli la cioccolata calda. A quella richiesta risi e mi diressi in cucina. Lui, come un bambino, si sedette al tavolo, aspettando ansiosamente che gli portassi la bevanda calda.
Mise a dondolarsi sulla sedia e alla fine si alzò e venne da me che stavo versando il liquido denso e scuro nella sua tazza rossa.
«Non so come farei senza la tua cioccolata.» Mi prese la tazza dalle mani e cominciò a bere come se non aspettasse altro da secoli.
«E io non so come farei senza di te che bevi la cioccolata», risi e gli scompiglia i capelli.
Frank si risedette al tavolo e con un cenno della mano mi invitò ad imitarlo.
Appena mi fui seduto di fronte a lui, si alzò con la tazza in mano venendo verso di me e si sedette sulle mie ginocchia. Gli cinsi la vita con le braccia  e lui continuò a bere il prezioso contenuto della sua tazza.
Ad un certo punto posò la tazza sul tavolo e si accoccolò al mio petto.
Ebbi una sorta di presentimento che mi distrusse definitivamente, come se non lo fossi stato già abbastanza dopo il sogno. Forse era solo la mia immaginazione, ma era come se Frank, in qualche modo a me sconosciuto, si stesse rendendo conto, nel suo subconscio, che stavo per andarmene, che nel giro di pochi giorni non mi avrebbe più rivisto.
Non so come lo capii, ma più si stringeva a me e più quel sentimento cresceva. Frank, senza saperlo, stava capendo tutto.
Sentii come una stretta allo stomaco e una lacrima mi scese giù per la guancia. Fui veloce ad asciugarla e, poiché Frank aveva il viso contro il mio petto, non si accorse di nulla. Ringraziai Dio, sempre se esisteva.
«Frankie» mormorai per non rovinare quel momento, «hai intenzione di stare tutto il giorno in pigiama?»
Mi baciò proprio dove avevo il cuore e mi sentii male per la dolcezza di quel gesto.
«Posso?» domandò dandomi un altro bacio sul cuore.
«Certo che puoi» soffiai.
Mi diede un terzo bacio sul cuore, poi alzò la testa e mi guardò negli occhi.
«Mi prometti una cosa?» fece serio. Cavolo, era troppo serio. Io annuii. «Qualunque cosa accada, adesso o fra dieci, venti anni, mi devi promettere una cosa.» Sospirò e si fermò un attimo come a trovare le parole giuste. «Mi devi promettere che qualunque cosa accada tu non mi scorderai» portò una mano sul mio cuore, «una parte di me, anche piccola, dovrà sempre rimanere qui, dentro di te.»
Rimasi in silenzio, anche se avrei voluto urlare, piangere, distruggere qualsiasi cosa avesse ostacolato il mio cammino, e tutte queste cose contemporaneamente. Ma decisi di rimanere in silenzio, un silenzio che però conteneva tutte le cose che provavo, e Frank lo capì.
Senza quasi accorgermene posai anche io una mano sul suo cuore. «Solo se tu prometterai lo stesso.»
Come avevo fatto io, anche lui non disse nulla, ma mi baciò, e quello per me valeva più di mille parole.
Avevamo suggellato una promessa con un bacio, e avremmo mantenuto la promessa a qualunque costo.


Andammo nella camera di Frank, era inutile stare in cucina su quelle sedie scomode.
Ci distendemmo sul suo letto, l’uno accanto all’altro e lui mi chiese di raccontargli una storia.
Mi schiarii la voce, come si addice a chi si accinge e raccontare una storia. Frank mi venne più vicino  e posò la sua testa sul mio petto.
Non so come mi venne in mente quel racconto, forse me lo inventai.
Era la storia di due leoni, uno si chiamava Jason e l’altro Adam. Jason era forte, combattivo e coraggioso, ma era il figlio di un leone e una leonessa che erano stati mandati via dal branco perché erano stati accusati di aver ucciso un altro membro, beh, non proprio un membro qualsiasi, il capobranco, anche se la verità non si seppe mai. Jason, però, che all’epoca dei fatti era appena un cucciolo, rimase con lo zio, il fratello del padre, e con lui crebbe. Fin da cucciolo si dimostrò il più abile negli scontri e anche il più valoroso e leale nei confronti dei compagni. Però tutti lo prendevano in giro, e non lo consideravano al loro pari, perché i suoi genitori erano stati esiliati. Jason si difendeva sempre dicendo che non erano loro i colpevoli dell’uccisione del vecchio capobranco, che era stato tutto uno sbaglio, che i suoi genitori non c’entravano nulla. I più grandi rimproveravano sempre chi cercava di accusare o dar fastidio a Jason, ma i suoi compagni non davano cenni di smetterla.
Adam, invece, era un cucciolo abbastanza gracile, era coraggioso ma non abbastanza forte per combattere come si deve, e anche se era molto leale, nessuno lo voleva come compagno di giochi. Crebbe solo, senza amici e con la sola compagnia della madre, la capobranco, perché suo padre era stato ucciso da altri due membri del branco quando era ancora un cucciolo, ma la verità sulla sua morte non si seppe mai.
La storia di Jason e Adam si intrecciò, in un giorno come tanti, che però era destinato a diventare un giorno speciale.
Jason stava litigando, come faceva spesso, con gli altri, che lo avevano come al solito preso in giro, Adam stava passando di lì, e si accorse della scena.
Si avvicinò cauto al gruppo di giovani leoni, come lui,  e si mise ad ascoltare. Non gli ci volle molto per capire di cosa stessero parlando.
«I tuoi genitori sono degli assassini!» sputò uno di quegli che stava attorno a Jason.
Jason non rispondeva più alle provocazioni, era stanco di parlare, ma Adam si accorse che i suoi muscoli erano contratti, era pronto a scattare.
Jason saltò addosso a quello che aveva appena offeso i suoi genitori, e lo bloccò con le zampe, ma un altro si avventò su Jason per liberare l’altro. Adam stava un po’ in disparte, indeciso se intervenire oppure no.
Poi sentii un uggiolio di dolore, e vide La zampa di Jason coperta di sangue.
Saltò in mezzo alla folla e atterrò accanto a Jason. Ruggì e tutti si bloccarono.
«Andate via!» avvisò tutti. Adam non si era mai esposto così tanto, era sempre rimasto da solo, nel suo piccolo mondo, e non sapeva come avrebbero reagito gli altri. Nonostante tutto però, sapevano che era il figlio della capobranco e nessuno avrebbe osato aggredirlo. Così tuti se ne andarono come nulla fosse. Rimasero Jason e Adam. Il primo era per terra con la zampa ferita da quello che sembrava un morso, e il secondo accanto a lui che lo scrutava.
«Tutto bene?» fece Adam preoccupato.
Jason cercò di rialzarsi per fare vedere che stava benissimo, ma non era così, e appena poggiò la zampa per terra ricadde con un mugolio di dolore.
Continuò ad ignorare la presenza di Adam, che comunque non aveva intenzione di andarsene e cominciò a leccarsi la ferita. Non era molto grave, ma delle fitte acute gli attraversavano tutta la zampa.
«Dimmi una cosa» fece all’improvviso Jason, «perché tutti se ne sono andati appena hai detto loro di farlo?»
Adam abbassò lo sguardo. «Non lo so…»
Jason lo guardò pensando e capendo all’improvviso chi fosse. «Ma tu sei il figlio della capobranco.»
«Sì» ammise Adam in un sussurro.
«I mie genitori sono stati accusati di aver ucciso tuo padre, quando noi eravamo piccoli, lo sai, vero?»
Adam annuì. «Questo non mi impedisce di aiutarti.»
E così Adam aiutò Jason a tornare a casa e da quel momento i due diventarono inseparabili.
Diventarono più grandi, e capirono che tutto non è come sembra, che possono accadere delle cose che non si capiscono bene, che hanno bisogno di tempo per essere comprese e anche accettate. I due non erano più dei cuccioli e insieme capirono che si amavano, si amavano veramente e quando si ama veramente qualcuno non si può fare nulla.
Però non dissero niente a nessuno, non perché non fossero sicuri dei loro sentimenti, ma solo perché avevano paura della reazione degli altri.
Continuarono a far finta di nulla, finché un giorno la madre di Adam, la capobranco, si presentò a lui dicendo che gli aveva trovato una compagna, che adesso era grande abbastanza per prendere il suo posto da capobranco. All’annuncio della madre Adam non disse nulla, non gli venivano le parole, non voleva dire la verità a sua madre, ma non voleva nemmeno lasciare Jason per qualcuno che nemmeno conosceva.
Quando sua madre ebbe finito di parlargli, corse via, e andò da Jason. Gli raccontò la storia fra le lacrime e i singhiozzi e dovette anche fermarsi qualche volta.
«Non permetterò che accada» fece convinto Jason quando Adam finì di raccontare. Strofinò il muso contro quello del suo amore.
«Io non voglio, Jason» mormorò il più gracile, «mi madre non può decidere per me.»
Jason sospirò abbattuto. «Le devi dire la verità» decise alla fine.
Adam scosse la testa. «Non posso» soffiò. Poi ebbe come un’idea. «Scappiamo!»
Jason lo guardò un attimo, per essere certo che avesse capito. «Davvero?» esclamò stupito. «Vuoi davvero scappare?»
Adam annuì sorridendo e saltò in piedi. «Stanotte ce ne andremo, va bene?»
Jason lo guardò amorevolmente e poggiò la testa sopra la sua. «Certo.»
Scapparono la notte stessa, fecero attenzione a non svegliare nessuno, e se ne andarono di soppiatto.
Per tutta la notte e la mattina seguente camminarono, attraverso la savana, finché non furono sfiniti e si ripararono sotto un albero.
«Quanto ancora dobbiamo camminare?» chiese Adam.
«Non lo so» fece Jason, «ma più lontano andiamo, meglio è.»
Adam annuì, capendo che Jason aveva ragione.
Ripartirono la mattina seguente e quando finalmente giunsero ad una caverna decisero che quella sarebbe stata la loro casa, per sempre, o finché non si sarebbero stancati di stare lì, e avrebbero deciso di trasferirsi.
Vissero insieme felicemente per più di cinque anni. Andavano a caccia, dormivano, parlavano, tutto questo insieme, come avevano sempre voluto fare.
Ma si sa, non tutto può sempre andare bene.
Un giorno Jason era andato a caccia senza Adam il quale non si sentiva molto bene. Adam si era addormentato, e quando si svegliò si rese conto che l’altro sarebbe dovuto essere tornato già da un pezzo.
Cominciò ad agitarsi e subito dopo partì per andare a cercarlo. Andò in tutti i posti dove solitamente catturavano le loro prede, ma non lo trovò, alla fine, sulla strada di casa, sperando che Jason fosse già tornato là seguendo una strada diversa, lo vide. Stava sotto un albero, un albero bello e stranamente rigoglioso per stare nella savana. Era riverso a terra, con le zampe da un lato e il muso abbandonato vicino ad esse, la folta e bella criniera sporca di fango e terra. La gola squarciata.
Adam cadde accanto a lui e ruggì, con tutto il fiato che aveva, tutti dovevano sapere che chi amava era morto, il suo dolore doveva condividerlo con gli altri, perché da solo non ce l’avrebbe fatta.
Trascinò a fatica Jason fino alla loro grotta, dopo che fuori da questa ebbe scavato una buca ci adagiò Jason, per poi coprirlo con la terra. Non pianse, mai, nemmeno una lacrima. Sarebbe stato ridicolo piangere, le lacrime sarebbero state nulla in confronto al dolore che provava.
La leggenda narra che Adam per tutta la vita e anche dopo vagabondò per la savana, prima da leone, poi da spirito. Non sarebbe mai riuscito a trovare la pace, non sarebbe mai potuto tornare da Jason perché faceva troppo male.
Non si seppe mai come Jason fu ucciso. Ma lo spirito di Adam rimase per sempre a vegliare sula sua tomba.


 
 

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Capitolo 16
*** Il ragazzo dal sorriso triste ***


 
 


16

Il ragazzo dal sorriso triste




 
 
«Perché?»
Questa fu la sola parola che Frank riuscì a pronunciare dopo che ebbi finito di raccontare la mia favola. Anche se forse con le favole non aveva niente in comune. Tuttavia non seppi rispondere a quella domanda e per un momento pensai anche che, forse, la storia che avevo raccontato non avesse senso.
Frank scostò la testa dal mio petto, dove era stata fino a quel momento e si voltò dall’altra parte. Ebbi paura che volesse piangere, perché tutte le volte che succedeva sentivo come se qualcosa morisse dentro di me, ed era la sensazione più brutta potesse provare una persona.
Gli poggiai una mano sulla spalla e mi sporsi vicino al suo viso per vedere se avesse gli occhi lucidi, ma non lo erano per niente: sembrava solo stesse pensando.
Mi sporsi ancora un po’ verso di lui e gli bacia la tempia. Lui non reagì in alcun modo, e se la sua unica reazione doveva essere quella di non reagire, avrei quasi preferito che si fosse messo a piangere.
Non sapere che cosa avesse o cosa gli stesse vagando per la testa, mi innervosì a tal punto che strinsi un pugno, ma cercai subito di calmarmi.
«Ehi Frankie» lo chiamai piano, «che hai?»
Finalmente si voltò verso di me. «Tu pensi che questa possa essere la nostra storia?»
Lo guardai confuso. Era quello che pensava? Beh, perché molto probabilmente aveva ragione.
Gli accarezzai piano una guancia. «No» mentii, «assolutamente no. Noi staremo per sempre insieme.»
«Come fai a dirlo?» domandò lui mentre si girava sulla schiena e si metteva a fissare il soffitto.
«Non lo so» feci, «però lo spero. E penso che se una cosa la si desidera molto la si possa anche ottenere.»
«La nostra non è una storia a lieto fine» disse serio. «È la realtà, Gerard.»
Aveva lo sguardo serio e fisso in alto, pensai che fosse troppo serio e mi preoccupai.
«Che ti succede?» lo interrogai a bassa voce.
«Mi succede che ti amo ma ho paura» affermò. «Ti avevo già detto che ho paura e arrivi tu che mi racconti una storia del genere!» Il suo tono di voce si stava lentamente alzando.
Mi sollevai a sedere, ma lui rimase lì come era. «Io…» Non trovai le parole.
«Tu cosa Gerard?» mi spinse.
«Scusami.» Abbassai lo sguardo e presi a guardarmi le mani.
«Ti dispiacerebbe andare via?» chiese. «Voglio stare un po’ da solo.»
Frank non mi aveva mai fatto una richiesta del genere, mai. Non mi sarei mai sognato che un giorno mi avesse chiesto di andarmene per lasciarlo solo. Io tutti i giorni mi facevo in quattro per stare anche solo una misera ora con lui, perché sapevo che non l’avrei più rivisto e lui mi chiedeva di andarmene.
Rispettai il suo desiderio e senza dire nulla scesi dal letto e me ne andai. Non mi rivolse nemmeno uno sguardo. Neanche un saluto.
Appena scesi in strada diedi uno sguardo al mio orologio. Erano le una. Mandai un messaggio a Ed nel quale lo avvertivo che non sarei tornato a pranzo e mi diressi verso la piazza della biblioteca.
Non capivo. Frank mi amava, me l’aveva detto anche poco prima di mandarmi via, ma non aveva senso il suo comportamento. Stavamo insieme o no? Certo, e allora perché mi aveva trattato in quel modo?
Cercai di scacciare tutti quei pensieri. Alla fine aveva tutto il diritto di stare un po’ da solo, e io certo non potevo impedirglielo.
Misi le mani in tasca, sperando di avere qualche moneta per comprarmi qualcosa da mangiare. Per fortuna non avevo l’abitudine di svuotare le tasche della giacca e vi trovai una serie di resti con cui avrei potuto prendermi qualcosa da mettere sotto i denti.
Percorsi la circonferenza della piazza due volte finché non mi decisi ad entrare in un bar e prendere un panino. Me lo feci incartare e mi diressi verso il parco, che per fortuna non era molto lontano.
Vagai senza una meta fra le aiuole e gli alberi secchi mentre ogni tanto davo un morso al mio pranzo. All’improvviso vidi la panchina vicino alla quale io e Frank ci eravamo dati uno dei baci più belli.
Sentii qualcosa allo stomaco, una sensazione di tristezza e frustrazione che mi fece passare la fame in meno di un secondo. Gettai il panino mezzo mangiato in un cestino dei rifiuti e poi mi avvicinai a quella panchina. Non mi ci sedetti, rimasi a guardarla come se fosse un fantastico quadro in un museo.
Non so quanto rimasi a contemplarla, ma alla fine mi sedetti per terra e nascosi la testa fra le gambe tirate vicino al petto. Presi qualche profondo respiro e cercai di calmarmi, ma alla fine non ce la feci. Una lacrima mi bagnò la guancia e mi scese fino al mento per poi cadere sui pantaloni, dove si creò un piccolo alone poco più scuro.
Non lo negai a me stesso, Frank mi aveva terribilmente ferito e stavo male, malissimo che sarei potuto morire.
Un'altra lacrima mi scese lungo la guancia ma questa volta l’asciugai con rabbia.
Mi alzai di scatto e cominciai a correre, non sapevo verso dove, volevo solo andare il più lontano possibile da tutto e da tutti. Non volevo più sapere di nessuno, volevo solo che quei dieci giorni alla scadenza del tempo finissero e poi la morte. Non volevo nient’altro.
Le gambe non rispondeva più al cervello, che ormai non funzionava. Le braccia si muovevano coordinate per rendere la mia corsa ancora più veloce. Gli occhi sbarrati e il vento che gli faceva bruciare. I capelli che sbattevano contro il viso.
Non pensavo, correvo e basta.
Forse non mi fermai in tempo e qualcuno mi venne addosso, o io andai addosso a qualcuno.
Caddi per terra e per un momento rimasi fermo e immobile lì dove ero.
«Gerard!» Una mano mi si era posata su una spalla e la voce preoccupata di una ragazza mi stava parlando.
Lentamente misi a fuoco chi fosse la persona con cui mi ero scontrato e vidi due occhi blu che mi guardavano con apprensione.
«Che è successo?» fece Rachel accarezzandomi una guancia.
Non dissi nulla, ma lei mi aiutò a rialzarmi e mi fece camminare per un po’, anche se io non mi resi bene conto di dove mi stesse portando.
«Attento agli scalini» mi avvertì.
Alla fine sentii che mi aiutava a sedermi su qualcosa di morbido. Io mi distesi e lì rimasi.


Qualcuno parlava sottovoce, ma non riuscii a capire bene cosa dicesse, e non mi sforzai nemmeno. Provai ad aprire gli occhi piano ma la luce mi colpì violentemente le pupille e li richiusi subito. Provai a spostarmi o ad alzarmi, ma appena mossi un muscolo sentii una fitta alla schiena e mi lasciai sfuggire un gemito di dolore. Anche la testa mi faceva male terribilmente.
«Si è svegliato» sentii dire da qualcuno nella stanza.  
Mi fu posato qualcosa di freddo e bagnato sulla fronte e subito sentii un incredibile sollievo dal terribile mal di testa che avevo. Sospirai e riprovai ad aprire gli occhi.
Rachel era seduta per terra accanto al divano dove ero disteso e mi teneva un panno bagnato sulla fronte, mentre Jimmy stava in piedi dietro di lei.
«Come stai?» mi chiese la ragazza.
Io non risposi. «Quanto ho dormito?»
«Qualche ora» rispose Jimmy mettendosi a sedere sul bracciolo del divano.
Cercai di tirarmi un po’ su a sedere e ce la feci, nonostante la schiena mi facesse malissimo.
«Rachel?» la chiamai quando improvvisamente mi vene una cosa in mente.
«Sì?» rispose lei.
«Quando ti sono venuto addosso ti sei fatta male?»
Lei scosse la testa e sorrise. «No, io sto bene» mi rassicurò. «Ma a te cosa è successo?»
Non avevo voglia di raccontarle cosa mi era successo, per nulla, ma non avevo nemmeno nessuna scusa pronta. Decisi per una via di mezzo. «Niente» feci, «ho litigato con Frank e mi sono arrabbiato, tutto qui.»
Addolcii il tutto con un sorriso, ma Rachel sembrò non bersela. «Sei sicuro?» chiese dubbiosa. «Mi sembravi parecchio sconvolto.»
Cercai di sorridere nuovamente, ma questa volta il tentativo non riuscì un granché. Non risposi, lei aveva già capito.
Rachel si voltò verso il fratello. «Ehi Jimmy» lo chiamò, «mi fa un favore? Vai a comparare qualcosa da mangiare e un’aspirina per Gerard.»
Jimmy si alzò dal bracciolo del divano e si spolverò i pantaloni. «Okay» accettò un po’ scocciato «vado.» Prese la giacca e uscì di casa così che io e Rachel potessimo rimanere soli.
Appena sentimmo la porta che sbatteva, Rachel cominciò a parlare. «Adesso mi dici cosa è successo o quanto è vero che ti sto parlando non ti faccio uscire di qui.»
Abbassai la testa sconfitto, a quel punto non c’era nient’altro che potessi fare, le avrei detto tutto.
Presi un respiro e le chiesi un bicchiere d’acqua. Lei me lo portò velocemente e poi si mise a sedere sul tavolino di fronte al divano come aspettando che cominciassi a parlare.
«Io e Frank…» cominciai. Non sapevo come dirlo, davvero, non trovavo le parole, ma forse prima avrei dovuto trovare il coraggio.
«State insieme?» chiese Rachel.
Annuii. «Beh, almeno credo.»
La ragazza mi guardò con aria preoccupata. «Vuoi raccontarmi cosa è successo?»
Come potevo dire di no se mi guardava in quella maniera? Le raccontai tutto, un po’ in generale di come avevamo capito che ci amavamo, di come andavano le cose, e poi della favola che avevo raccontato a Frank. Le feci un breve riassunto, così che capisse.
«Appena ho finito di raccontargli la storia si è messo a fissare il soffitto. Sembrava deluso. Mi ha detto che non voleva che quella storia avesse quel finale tragico, perché era come se pensassi lo stesso di noi. Alla fine mi ha chiesto di andarmene perché voleva stare da solo a pensare.»
Rachel rimase per un po’ in silenzio. «Beh» disse alla fine, «un po’ si vedeva che vi piacete.»
Le rivolsi un sorriso triste. «Forse. Ma tu l’hai capito prima di noi.»
Rachel fece un cenno di assenso e si sedette accanto a me dalla sua postazione sul tavolino. «Io non penso che Frank volesse dirti che è finita» mi spiegò. «Secondo me aveva veramente solo bisogno di pensare. Tutti hanno il diritto di prendersi un momento e analizzare quello che sta succedendo. Non ti pare?»
«Hai ragione» affermai. «Ma non mi aveva mai chiesto una cosa del genere. Insomma, mi ha praticamente buttato fuori di casa.» Sentivo gli occhi che mi bruciavano per le lacrime trattenute, ma decisi di non piangere di fronte e Rachel.  
Lei mi poggiò una mano sulla spalla. «Ehi Gee» disse affettuosamente, «Non ti devi abbattere così. Frank ti ama, lo sai benissimo anche tu questo. È solo confuso. Chi non lo sarebbe nella vostra situazione?»
Non dissi nulla, aveva perfettamente ragione.
«E cosa avrei dovuto fare?» chiesi esasperato.
«Esattamente quello che hai fatto» rispose. «Molto probabilmente lui non voleva che te ne andassi davvero, ma se te l’ha chiesto lo dovevi fare. Lo conosci il proverbio: se l’ami lascialo andare
Scossi la testa, no, non lo conoscevo. «E di chi è la colpa?»
Rachel mi scompigliò i capelli. «Ma di nessuno» rispose. «te l’ho detto: siete solo confusi, e tu più di lui anche se non lo dai a vedere.»
«Ma ormai quel che è fatto è fatto” mormorai. Mi misi le mani fra i capelli e gli tirai un po’.
«Non lo devi dire» mi rimproverò, «se non ci credi nemmeno tu, non succederà nulla. Se vuoi chiarire devi essere il primo a volerlo. Capito?»
«Sì» annuii, «ho capito. Ma non so come.»
Rachel si sistemò sul divano e si mise le mani sotto le gambe come per riscaldarle. «Tu cosa vuoi fare? Vuoi chiarire?»
Mi alzai infuriato. «Certo che voglio chiarire!» gridai. «Lo amo, come potrei non volerlo?»
Mi resi conto che avevo alzato decisamente troppo la voce e Rachel non si meritava che le gridassi addosso.
Mi risedetti. «Scusami, non volevo.»
La ragazza mi abbracciò. «Non ti preoccupare.»
La abbracciai a mia volta e poi mi staccai per sentire cosa avesse da dire. «Senti» cominciò, «vuoi che ci parli prima io?»
«Non lo so.»
«La scelta è tua» trillò lei. «Se vuoi ci parlo a scuola lunedì, o lo posso chiamare anche adesso, non gli dico che tu sei qui.» Fece per andare a prendere il telefono ma la fermai.
«No, davvero, è meglio di no» la bloccai. «Ci parlo io, domani.»
Mi guardò dubbiosa. «Non mi sembri molto convinto.»
«È solo che non mi sono mai trovato in una situazione del genere e non so come comportarmi.»
Mi accarezzò la schiena cercando di confortarmi. «Se hai bisogno io ci sono, lo sai.»
Le sorrisi. «Sì, lo so.»
«Si vede davvero che vi amate» osservò. «Quando mi sei venuto addosso eri sconvolto, ho praticamente dovuto portarti qui trascinandoti.»
«Non volevo» soffiai . «Non volevo che mi trattasse in quella maniera. Ero scioccato.»
«Capisco» mi disse. «Ma non puoi avere quelle reazioni tutte le volte che litigherete, devi andare avanti.»
Tanto non ci saranno altre volte, manca poco. La mia mente era piena di pensieri, ma non sapevo cosa ascoltare e finii coll’ignorare tutto. Volevo solo vivere quei pochi giorni che mancavano con Frank, felici.
Volevo solo essere contento per un po’. Chiedevo troppo?
Se dopo sarebbe successo davvero qualcosa di brutto volevo che quei dieci giorni scarsi fossero bellissimi. Avrei fatto di tutto purché fosse stato così, anche morire, e forse era quello che avrei fatto sul serio.
Ringraziai Rachel per l’aiuto e il sostegno che mi aveva dato. Sulla soglia della porta le scompigliai affettuosamente i capelli castani e poi, appena giunsi sulla strada, mi misi a correre. Dovevo parlare con Ed e non avevo un minuto da perdere, non nella mia situazione.
Quando arrivai davanti alla porta di casa cominciai furiosamente a cercare le chiavi nelle tasche della giacca e dei pantaloni, ma ovviamente le avevo scordate in camera, quindi suonai il campanello, sperando che Ed fosse a casa e non fosse uscito per una delle sue commissioni.
Rimasi un po’ lì fermo, poi la porta si aprì e Ed comparve davanti a me.
«Cosa è successo?» chiese immediatamente. Evidentemente avevo la faccia abbastanza sconvolta. Beh, lo ero.
Non risposi alla domanda ed entrai in casa senza fare troppi complimenti. Andai in salotto, e mi accorsi che Ed mi stava seguendo. Cominciai ad andare avanti e indietro per il salotto, mentre Ed si sedeva comodamente sul divano con le braccia conserte, in attesa che dicessi qualcosa, ma non trovavo le parole.
«Cosa è successo?» ripeté allora lui.
Fermai la mia marcia nervosa e lo guadai negli occhi. «Ho litigato con Frank.»
In realtà non ci avevo litigato nel vero e proprio senso della parola, ma alla fine quello era ciò che era successo.
Lui continuò a guardarmi con quella stana aria d’attesa, poi si decise a parlare. «Mi dispiace.»
«Ti dispiace?!» gridai. «No che non ti dispiace! È tutto uno schifosissimo gioco che alla fine prevedere solo una vittima: me. Ti sembra giusto?»
Pensai che Ed volesse controbattere, ma lui se ne stava impassibile sul quel divano. Decisi che allora potevo continuare a parlare. «Non ha senso tutto questo! Lo capisci Ed? Se Frank cominciasse ad odiarmi io non avrei più una ragione per stare in questo cazzo di pianeta! Lo capisci?» gridai più forte che potevo, ma Ed non reagiva. «Mi alzo la mattina con la consapevolezza che potrei morire, e peggio ancora che non portò più veder la persona che amo! Cos’è? Vi divertite a vedere le persona soffrire? Non sono la pedina di una scacchiera. Sono una persona e ho dei sentimenti!
«In realtà non ho mai davvero pensato che sarei riuscito ad aiutare anche solo una persona. Ray è morto per colpa mia e adesso morirò io per colpa vostra. Voi mi avete dato questa fottuta seconda possibilità senza nemmeno dirmi il motivo. Perché? Perché avete deciso che io potevo avere un’altra occasione di vivere? Ci sono altre miliardi di persona che muoiono e che meritano di vivere più di me. Io non sono nessuno, non riesco mai a fare nulla di buono. Perché dovrei continuare a vivere? Ed, dimmelo, perché io non lo so!»
Dentro di me si stavano mischiando mille sentimenti: amore per Frank, odio per me stesso, nervosismo per Ed che non mi rispondeva, ma soprattutto rabbia, perché non avrei più rivisto il ragazzo che amavo.
«Sai, ho capito una cosa: non è davvero possibile aiutare qualcuno. La maggior parte delle volte perché sono le persona stesse che non vogliono. Ma forse anche perché è così che deve andare la vita. C’è chi è destinato a vivere per sempre nella felicità e chi nel dolore. Ma anche questo ti sembra giusto?
«Se ciascuno di noi fosse in grado e avesse la voglia di aiutare anche solo una persona, non credi che il mondo sarebbe migliore? Non credi che saremmo tutti un po’ più felici? Ma non è così, perché viviamo in un mondo dove quasi tutti se ne fregano degli altri. Sono troppo occupati a farsi i cazzi propri per guardarsi in giro e capire che tutti hanno bisogno d’aiuto, anche la persona più improbabile.
«Ma lo sai quale è la cosa più brutta? La gente non si vuole prendere nessuna responsabilità, la gente è vigliacca. Perché aiutare la gente implica prendersi delle responsabilità. E questo te lo posso garantire. Se non riesci nello scopo il senso di colpa ti divora e non ti lascia vivere in pace. Ti logora dall’interno fino ad arrivare in superfice, e alla fine desideri solo di farla finita, e molti lo fanno. Ma certe volte vale la pena di prendersi delle responsabilità anche se sai che potrebbe non finire per il meglio. È quello che ho fatto io. Ho deciso che avrei aiutato due persone. Ci ho provato con tutto me stesso, il quel luogo bianco che mi stava per far impazzire ho deciso che avrei messo la mia vita a disposizione di altri. Perché alla fine è anche questo.
«Ma forse il mio sbaglio è stato un altro: mi sono innamorato. Non è mai la soluzione giusta, ho fatto certamente una cazzata. I sentimenti rovinano tutto, ti portano alla tomba. E anche se non è la tomba dove finirà il tuo corpo è la tomba dove finirà la tua anima. Amare è peggio di vendersi al diavolo, Ed, lo sai questo, vero? Regali l’anima e il cuore alla persona che ami e quella persona ne dispone a suo piacimento. Ti può far sentire felice, triste, amareggiato, entusiasta, ma ti può anche distruggere. Non so bene se Frank mi abbia distrutto, ma sono sicuro che anche se l’avesse fatto avrà la forza per ricompormi.
«Chi mi ha veramente distrutto siete voi! Non avreste mai dovuto darmi questa secondo possibilità, non avete risolto nulla! Cosa mi cambia fra il morire fra qualche giorno e il morire cinque mesi fa? Niente, ecco cosa mi cambia: niente. Anzi, forse qualcosa cambia. In questa maniera soffro di più. Prima di morire mi sottoponete ad una tortura. Non è così, Ed?»
Smisi di urlare quando non ebbi più fiato. Ero incazzato e avevo finalmente tirato fuori tutto quello che avevo elaborato e pensato in quel tempo.
«Hai ragione» disse ad un certo punto Ed.
«Come?»
Si mise un po’ più comodo al suo posto. «Ho detto che hai ragione. Non è giusto.»
«Ormai quel che è fatto è fatto» osservai. «Non c’è modo di rimediare.»
«C’è sempre un modo» fece Ed.
«E quale sarebbe?» chiesi irritato.
Ed si grattò la testa pensieroso. «Potremmo chiedere se puoi avere un altro mese.»
«Non hai capito nulla» dissi scuotendo la testa. «Io la voglio finire! Non voglio né un giorno né un mese in più! È una tortura. Non voglio più soffrire per nulla. Voglio smettere con questa farsa.»
Il mio tono di voce da arrabbiato era diventato disperato.
«Potrei farlo» mi disse, «tu potresti decidere di farla finita e sarebbe davvero finita. Ma non voglio che tu lo faccia.»
«Perché?» domandai esasperato.
«Perché so che ce la puoi fare» rispose. «Tu hai già aiutato Frank. Non puoi abbatterti solo perché avete litigato…»
Lo interruppi. «Non è solo quello.»
«Lo so» annuì, «ma non puoi mollare così, manca troppo poco, devi resistere e tornare in vita davvero.»
«Non senza Frank» affermai.
«Promettimi almeno che ci proverai» mi supplicò.
«Andrò avanti questi dieci giorni che rimangono» gli concessi alla fine. «Ma poi non so cosa farò.»
Ed annuì. «Va bene.»
Me ne andai in camera mia senza dire nulla. Ed mi chiamò. «Gerard» gridò dalla cucina, «Frank ti ama, non potrebbe mai odiarti.»
Lo so, sussurrai fra me e me. Sapevo che non mi avrebbe mai potuto odiare, come io non avrei mai potuto odiare lui.
Salii le scale velocemente e quando arrivai in camera mi gettai sul letto. Sentii che qualcosa sotto il cuscino mi dava fastidio. Era il cellulare. Lo presi e me lo rigirai fra le dita, per poi notare che c’erano una chiamata persa e un messaggio. Erano entrambi di Frank. Il messaggio diceva: Scusa, ti amo.
Sorrisi e mi tirai la coperta fino sotto il mento nonostante fossi ancora vestito.
Fuori pioveva, sentivo la pioggia scrosciante che cadeva e il rumore mi rilassava. Dopo un po’ sentii anche un tuono e mi riscossi.
Avevo promesso a Ed che avrei aspettato i giorni che mancavano, ma dopo non sapevo cosa avrei fatto. Frank avrebbe voluto che tornassi dalla mia famiglia per vivere una vita normale, ne era sicuro, ed era quello che volevo fare, ma non era quello che mi sentivo di fare, erano due cose ben diverse.
Mi rannicchiai sotto le coperte.

 
C’è una stanza con le pareti di un colore smorto tendente al bianco sporco, che forse in origine era di un bel bianco splendente.
Al centro della stanza c’è un letto, bianco anch’esso, con lenzuola pulite e fresche di bucato. Al lato di questo una finestra. C’è una donna piegata su se stessa, poggiata sul materasso. Dall’altra parte del letto una flebo.
Dalla finestra si vede una città caotica con palazzi vecchi e rovinati. La donna si riscuote un po’ e alza la testa per poi stropicciarsi gli occhi, in un gesto stanco.
Si alza e fa un giro per la stanza poi torna vicino al letto e si siede dove era prima. Poggia un mano sul lenzuolo bianco e prende una mano. C’è un ragazzo disteso sul letto, sotto il lenzuolo. È pallido e quasi si confonde con il resto della stanza e il posto sul quale è adagiato. Ha gli occhi chiusi, come addormentato, ma il macchinario che segna il battito cardiaco ricorda alla donna che non sta dormendo, è in coma. La donna si china sul ragazzo e comincia a piangere. Grandi lacrime le solcano le guance e non le asciuga, lascia che il dolore le scivoli addosso, sperando che se ne possa andare. Poi bacia la mano del ragazzo e gli mormora qualcosa: «Gerard, piccolo, svegliati. Ti prego.» Ma il ragazzo rimane immobile, e la donna continua a piangere, più forte.
Si sente qualcuno bussare piano alla porta e poi una giovane infermiera entra e sorride alla donna, ma questa non ricambia.
«Le dispiace uscire un attimo?» chiede. «Il dottore dovrebbe fare qualche accertamento.»
La donna si asciuga piano le lacrime, senza fretta, poi si alzo. «Non è un problema, sarei comunque andata via fra poco.»
Esce e dopo poco entra un uomo con un camice bianco. Si siede dove fino a poco tempo prima c’era stata la donna e comincia a scrivere qualcosa su un foglio attaccato ad una cartellina. Chiede all’infermiera che l’ha seguito di fare un prelievo del sangue al paziente e lei ubbidisce. Prende del cotone e lo imbeve con il disinfettante, passa il batuffolo sull’incavo del gomito sinistro e poi prende una siringa. Buca il braccio del ragazzo e prende un po’ di sangue per poi riversarlo in una boccetta. Scrive qualcosa su un’etichetta adesiva e poi l’attacca sulla provetta con il sangue.
Il dottore continua a scrivere mentre l’infermiera se ne va.
«Perché non ti vuoi svegliare?» mormora. «Lo sai che io ho un figlio poco più piccolo di te. Si chiama Frank. L’ho visto solo da bambino, l’ho abbandonato.»
Il medico abbassa la testa. «Non c’è colpa più grande che abbandonare il proprio figlio, ma ero giovane e avevo paura, non volevo la responsabilità di un ragazzino. Beh, tu ai tuoi genitori ne fai passare sicuramente tante. Perché l’hai fatto? Volevi dimostrare qualcosa a qualcuno? Ma non penso si risolvi molto a buttarsi da un ponte, eccetto il collo rotto.»
Il dottore per un attimo si dimentica del suo lavoro e comincia a parlare con il ragazzo, come se fosse un amico. È stanco di avere tutte quelle responsabilità, non vuole avere sulla coscienza tutte quelle vite.
«Secondo me tu e mio figlio sareste andati d’accordo. Non lo con esattezza perché non conosco né te e purtroppo nemmeno lui…»
L’uomo si apre un po’ il camice e armeggia nella tasca esterna, poi tira fuori una foto.
«Ecco» dice, mostrando al ragazzo disteso sul letto la foto.
Il ragazzo per un attimo apre gli occhi, un secondo, quasi l’uomo non se ne rende conto, ma l’ultima cosa che il ragazzo vede è quella foto. C’è un ragazzino un
po’ più piccolo di lui, ha gli occhi nocciola, e i capelli scuri gli ricadono scomposti ai lati del viso e sulla fronte. Nella foto sorride, ma non è un sorriso allegro, è un sorriso triste, come se quel ragazzo fosse stato alla ricerca di un motivo per piegare gli angoli della bocca verso l’altro ma non l’avesse trovato.


 

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Capitolo 17
*** Padre e figlio ***


 
 
 
17

Padre e figlio




 
 
C’è un luogo nella mia testa dove è tutto perfettamente spaventosamente e confuso. Ci sono mille voci che mi urlano e che mi sussurrano, ma semplicemente non riesco a capire cosa dicano. Parlano, a me, e solo a me. Ma il messaggio non arriverà mai a destinazione. Forse perché non capisco, forse perché non voglio capire. Se tutti conoscessimo chi è il nostro vero nemico sarebbe tutto più semplice: lo uccideremmo e potremmo vivere in armonia con il resto del mondo. Ma è questo il problema: chi è il mio nemico? Chi è che minaccia la mia vita, la mia felicità, tutto ciò che ho di caro? Chi? Non se esista una risposta. Ma se c’è qualcuno che mi nuoce, quello è me stesso.
 

 
***
 

Ero affacciato alla finestra, come alla ricerca di qualcosa su cui focalizzare l’attenzione che non fosse la mia vita. L’aria fredda entrava nella mia stanza ed io, che mi ero appena svegliato, ero lì con solo una maglietta, e presto mi sarei congelato. Non che mi importasse, comunque.
Alla fine decisi che non valeva la pena morire in quella maniera. Dopotutto mancavano solo nove giorni allo scadere del tempo. Era inutile che mi ci mettessi anche io.
Mi alzai dalla mia postazione davanti alla finestra, e andai verso la sedia della scrivania dove la sera prima avevo lasciato la mia felpa, senza nemmeno rendermene conto. Me la infilai lentamente, come se fosse un complesso rituale, poi decisi di cambiarmi i pantaloni. Quando ebbi completato l’operazione mi guardai un attimo allo specchio che c’era dentro il mio armadio. Non andava per nulla bene, ero uno schifo. Mi spogliai completamente e infilai in bagno: avevo decisamente bisogno di una doccia, non potevo presentarmi da Frank in quelle condizione, anche se, a dirla tutta, quello che doveva porgere della scuse era lui. Ma non volevo certo aspettare che fosse lui ad uscire dal guscio. Io ero, in teoria, quello più forte, e io dovevo fare il primo passo, anche se il mio temperamento orgoglioso per un momento mi aveva fatto vacillare.
Feci una doccia veloce e poi scesi in cucina, dove Ed, come tutte le mattine, preparava la colazione. Non cercai di sfuggirgli, tanto sapevo che si sarebbe arrabbiato se non avessi mangiato qualcosa  e così mi sedetti pigramente al tavolo.
Ed mi porse una tazza colma di caffè scuro e la bevvi senza nemmeno aspettare di mangiare qualcosa, mi dovevo svegliare, e per bene.
«C’è ancora caffè?» domandai speranzoso a Ed.
Mi si avvicinò da dietro e mi verso ciò che avevo richiesto nella tazza. Mangiai anche qualcosa, e poi bevvi, di nuovo, tutto d’un sorso, il caffè.
«Io vado da Frank» annunciai alzandomi.
«Ma non avevate litigato?» domandò Ed perplesso.
«E allora?» ribattei io decisamente acido.
Raggiunsi l’ingresso e presi la giacca, poi uscii senza aggiungere altro. Il gelo mi colpì inaspettatamente.
Cominciai a fissarmi i piedi mentre camminavo, conoscevo la strada a memoria, non avevo bisogno di pensare a dove andare. Mi meravigliai di non essermi ancora congelato i piedi. Avevo portato per tutto il tempo da quando mi ero svegliato nel luogo bianco, quelle scarpe di tela bianca che con il passare del tempo erano diventate grigio-gialle.
Il marciapiede mi scorreva sotto i piedi lentamente, come le immagini di un film muto in bianco e nero. Senza accorgermene andai addosso a qualcuno. Mi scusai borbottando qualcosa e ripresi il mio cammino. Erano due giorni che non facevo altro che andare addosso alla gente.
Alzai un attimo lo sguardo e stimai che nel giro di circa altri due minuti sarei arrivato esattamente di fronte alla porta della casa di Frank. Mi venne in mente che molto probabilmente Victoria era a casa, dopotutto era domenica mattina, non lavorava di certo. Fui quasi tentato di invertire la marcia e tornare nel pomeriggio, ma non avrebbe avuto senso e così non mi fermai.
I due minuti passarono e mi trovai di fronte a quella porta che conoscevo come il palmo della mia mano. Non volevo suonare, non capivo il perché, ma qualcosa bloccava la mia mano. Sentivo il tempo che scorreva, lo percepivo veramente, come fosse una cosa concerta. Passava, e più passava e più la voglia di suonare quel dannatissimo campanello passava.
Alla fine decisi di alzare il braccio, quando la porta si aprì.
Non ebbi il tempo di constatare quello che stesse accadendo, che mi baciò, quasi disperatamente.
Sentivo il suo corpo esile contro il mio e lo abbracciai, ricambiando il bacio. Sentii le sue labbra morbide sulle mie e mi sciolsi. Smisi di pensare a qualsiasi cosa che non fosse quel bacio e Frank.
Dopo un po’ si staccò. Piangeva. «Scusa Gee,» gli tremava la voce. «Sono uno stupido.»
Gli lascia un bacio leggere sulla bocca e gli asciugai le lacrime. Avevo perso il conto di quante volte avessi fatto quel gesto, così triste eppure naturale.
«Non importa» sussurrai mentre entravamo in casa.
Mi prese la mano e mi trascinò sul divano, mi fece sedere e poi lui fece lo stesso.
«Sì che importa!» Piangeva ancora.
Mi avvicinai a lui e gli feci poggiare la testa sul mio petto. «Shhh» gli mormorai nell’orecchio. «È tutto passato, non ci devi più pensare.»
«Non ce la faccio» singhiozzò. «Ti ho fatto stare male per nulla. Rachel mi ha chiamata.»
Oh cazzo. Rachel, tieni la bocca chiusa, pensai.
«Cosa ti ha detto?» chiesi come se non sapessi nulla di nulla.
«Ieri» spiegò, «eri abbastanza sconvolto.» Continuava a piangere a dirotto e dovevo interpretare le sue parole.
«Io direi molto sconvolto» lo corressi.
«Scusa.»
Gli baciai la tempia. «Basta, non ne parliamo più.»
Annuì. «Va bene» mi concesse alla fine. «ma me ne ricorderò per sempre.»
Sorrisi quado pronunciò le ultime due parole. Per sempre. Come se esistesse davvero un “per sempre”. Per noi consisteva in nove giorni.
Gli accarezzai dolcemente i capelli. «Tutto okay?» chiesi poi.
Scosse la testa. «No, per nulla.»
Gli alzai la testa per guardarlo negli occhi. «Frank» lo ripresi, «ti ho detto che ti devi dimenticare di quello che è successo ieri. Per favore.»
Abbassò lo sguardo. «Non è solo per quello.»
Aggrottai le sopracciglia. «Cosa è successo?»
Si mise comodo sul divano. «Ieri sera Victoria è tonata, stranamente, a casa per cena» cominciò. «Beh, aveva una ragione per farlo.» Aspettai che continuasse. «Ha cominciato a dirmi che mio padre, il mio vero padre, dopo che mia mamma era morta e lui mi aveva abbandonato, si era fatto risentire.»
«In che senso?»
«Mi aveva detto che mi aveva abbandonato e basta» spiegò. «Ma non è così. Più o meno da cinque anni Victoria e lui si mandano delle lettere. All’inizio mandava delle lettere anche a me, ma poi hanno deciso di comune accordo che era meglio se non le leggevo. Insomma, era ovvio, io non sapevo nulla della storia dell’adozione e di mia madre, e se avessero deciso di farmi leggere le lettere avrebbero dovuto spiegarmi anche tutto il resto.»
«Come si chiama tuo padre?» chiesi per pura curiosità.
«Anthony» rispose secco. «Sta a New York.»
Il realtà conoscevo meglio io suo padre di lui. Io almeno sapevo che faccia avesse, aveva assistito alla mia morte.
«Cosa hai intenzione di fare?»
Sospirò pesantemente. «Non lo so» disse calmo. «Ieri Victoria lo ha chiamato e gli ha detto che sapevo tutto. Lui ha reagito bene, e ha detto che voleva vedermi. Ha detto che se voglio, posso andare qualche giorno da lui prima di Natale.»
Non sapevo cosa dire. Frank era confuso e lo capivo benissimo, ma non avrei saputo che consiglio dargli.
«Devi andarci solo se te le senti» dissi alla fine, senza essere molto sicuro.
«Hai ragione» annuì. «Ma non riesco a capire se andare da lui è la soluzione giusta. In fondo mi ha abbandonato quando era appena nato, non so se lo voglio vedere. Però sono anche curioso e in ogni caso è mio padre.»
«In pratica sei ancora indeciso se perdonarlo oppure no» riassunsi le sue parole.
Mi sorrise, pensieroso. «Esatto.»
Cominciò a giocherellare con la zip della felpa che aveva addosso e per un attimo distrasse anche me.
«Hai fatto colazione?» mi chiese ad un certo punto.
«Sì» affermai.
«Ha detto che se voglio posso anche portare un amico.»
Alzai lo sguardo verso di lui. Beh, non mi sarebbe dispiaciuto passare qualche giorno con Frank a New York.
«Davvero?» chiesi stupito.
«Mhmh» annuì. «Gee, io ci ho pensato, io questa cosa la voglio fare con te. Voglio conoscere mio padre, ma solo se tu sarai con me.»
Mi avvicinai a lui e gli diedi un lungo bacio, per fargli capire che sarei sempre stato con lui e che l’avrei appoggiato sempre. O almeno per il sempre che ci rimaneva.
«È un sì?» chiese sorridendo.
«Ovvio» sorrisi a mia volta.
Come minimo mi sarei dovuto camuffare per non farmi riconoscere, o almeno sperare che Anthony si fosse dimenticato della mia faccia. A dire la verità ero più nervoso di Frank, non ero così poi sicuro di voler incontrare chi mi aveva visto morire su uno squallido letto d’ospedale, mentre mi mostrava orgoglioso la foto di suo figlio, ma non potevo nemmeno abbandonare così Frank, anche se nel giro di qualche giorno l’avrei fatto.
In ogni caso c’erano buone possibilità che il ricordo fosse stato cancellato dalla sua mente dopo che ero tornato indietro nel tempo. E lo sperai con tutto me stesso.


Partimmo esattamente due giorni dopo. Frank mi aveva spiegato che suo padre non stava esattamente a New York, o almeno non sempre. In realtà aveva due case. Una proprio in città, in modo da essere vicino al lavoro e poi ne aveva un’altra, molto fuori città, in una cittadina piuttosto sperduta e con pochi abitanti.
Noi saremmo stati nella casa fuori città, anche perché era più grande.
Partimmo la mattina presto. Victoria ci portò in macchina alla stazione e prendemmo un treno. Ci sarebbero volute circa tre ore per arrivare a destinazione.
«Ti do una mano.» Frank stava cercando di salire sul treno portandosi dietro una valigia enorme, nonostante dovessimo stare da suo padre solo cinque giorni. Non dovevamo trasferirci. Eppure lui si era voluto portare dietro mezza casa. Tutte le sue felpe, metà dei CD che possedeva, e come se non bastasse anche la chitarra.
Gli presi la valigia e la issai sul vagone, poi lui mi seguì con la chitarra sulle spalle.
Mi lamentai per l’ennesima volta da quando eravamo partiti di tutta la roba che aveva portato.
«Mi serve la roba che ho portato» protestò.
Io risi e sbuffai.
«Non sbuffare» mi rimproverò mentre entravamo in un vagone completamente deserto.
Misi la mia valigia e quella di Frank sulle grate sopra le nostre teste e poi mi sedetti. Lui mi imitò venendo accanto a me.
«Perché non posso sbuffare?» chiesi divertito.
«Perché non puoi e basta» mi spiegò lui.
Risi di nuovo per prenderlo in giro e lui mi tirò un pugno sulla spalla.
«Credo di aver bisogno di un ospedale» continuai a ridere.
Frank si alzò e andò a sedersi sul sedile davanti al mio, lontano da me.
«Che fai?» gli chiesi.
«Non dire che non ti ho mai detto che sono permaloso.» In quel momento il treno partì.
«No» ribattei, «non me l’hai mai detto.»
Lui cominciò a guardare fuori dal finestrino ignorandomi. «Dai Frankie» dissi con voce mielosa.
Mi alzai a mia volta e andai vicino a lui, ma non si decideva a reagire in alcun modo.
Cercai di girargli il volto in modo che mi guardasse, ma si ritrasse. Così cominciai a fargli il solletico, dapprima sul collo e poi anche alla pancia. Cominciò a dimenarsi sul sedile del treno, a ridere e ad urlare. Sperai che nessuno ci sentisse.
Frank continuava a contorcersi supplicandomi di smetterla.
Continuai ancora un po’ a torturalo, poi, quando vidi che era sfinito e non ce la faceva nemmeno più a ridere, la smisi.
«Sei un bastardo!» esclamò.
Scossi la testa sorridendo. «No, non è vero.»
«Come non è vero?» fece. «Certo che è vero.»
Mi si avvicinò e cominciò a anche lui a farmi il solletico al collo, ma io rimasi impassibile.
«Non ti da fastidio?» mi chiese incredulo.
«No» dissi semplicemente. «Non soffro il solletico sul collo.»
«Non ci credo» affermò lui.
Alzai le spalle. «Hai appena verificato.»
«E dove lo soffri il solletico?» mi chiese innocentemente.
«Non te lo dico» risposi soddisfatto.
«Non è giusto!» protestò. «Io appena mi sfiori muoio, tu manco lo soffri!»
Risi e lo baciai velocemente sulla guancia in modo che non si potesse scansare. «Non è colpa mia se sono nato insensibile.»
Trascorremmo il resto del viaggio non facendo nulla in particolare. Frank guardava fuori dal finestrino e io con lui. Dopo un po’ mi resi conto di quanto fosse perfetta la luce sul suo volto in quella posizione, e così presi il blocco da disegno dalla valigia e una matita. Lo ritrassi, come avevo fatto tante volte, ma una cosa diversa c’era: non l’avevo mai disegnato dal vivo, non era mai successo. Le altre volte mi ero solo affidato al ricordo che avevo di lui, e tracciavo linee sul foglio senza staccarvi mai gli occhi. Quella volta invece, alzavo lo sguardo ogni tanto per guardarlo, scrutare il suo viso e riportarlo sul foglio di carta. Era completamente diverso, in un certo senso era meglio anche se sapevo che lui si sentiva un po’ in soggezione. Ogni tanto mi lanciava un’occhiata per cercare di scorgere il disegno che stavo facendo, ma tutte le volte che lo faceva ero pronto a ritrarre il foglio contro il petto, per impedirgli di vederlo. Lui sbuffava e poi tornava a guardare fuori dal finestrino.
«Finito» annunciai dopo un po’.
«Me lo fai vedere?» chiese Frank impaziente.  
Gli porsi il blocco e mentre lui guardava il disegno io rimisi la matita al suo posto nell’astuccio dentro la valigia.
Rialzai lo sguardo per vedere quale fosse stata la sua reazione. Continuava a fissare il foglio senza dire nulla.
«Allora?» lo incitai. «Ti piace?»
«Se mi piace?» fece lui guardandomi. «È bellissimo. Cazzo Gee, è…» Non trovò le parole e così non disse nulla, per poi continuare a guardare il disegno. 
«È tuo» decisi.
«Davvero?» esclamò contento.
Annuii e lui mi venne addosso abbracciandomi, solo dopo aver messo al sicuro il disegno sul sedile.
Mi baciò. «Grazie mille, è il regalo più bello che mi potessi fare.»
Gli stampai un bacio sulla tempia, e in quel momento l’auto-parlante annunciò che eravamo arrivati a destinazione. Presi la mia valigia e quella di Frank, perché se avessi aspettato che la prendesse da solo saremmo scesi qualche fermata dopo.
Scendemmo dal treno e ci inoltrammo nella stazione deserta di quella cittadina piccola e abbastanza sperduta.
«Mio padre ha detto che ci sarebbe venuto a prendere» mi informò. «Questione di minuti e arriva.»
Ci dirigemmo appena fuori dalla stazione, sulla strada, aspettando che Anthony ci venisse a prendere.
Dopo circa dieci minuti vedemmo un fuoristrada scuro che giungeva da destra, la macchina si fermò davanti a noi. Scese un uomo con gli occhiali da sole, che appena vide Frank gli corse in contro e lo abbracciò.
«Mi dispiace.» Riuscii a mala pensa a sentire le parole che suo padre aveva pronunciato nell’orecchio di Frank. Era una scena piuttosto commovente.
Mi allontanai di qualche passo per lasciare loro un po’ di privacy, ma comunque mi misi a spiarli, mi sentivo un po’ in colpa ma ero curioso, e poi, dopotutto, Frank era sempre il mio ragazzo.
Si abbracciarono un’altra volta e vidi che entrambi avevano gli occhi lucidi. Frank aveva fatto la scelta giusta decidendo di andare a trovarlo. Anthony aveva tutte le colpe del mondo, era vero, ma era pur sempre suo padre e come tale si sarebbe dovuto comportare.
Dopo qualche altro secondo Frank mi fece un cenno con la mano e mi avvicinai.
Allungai la mano verso suo padre e lui me la strinse. «Piacere, sono Gerard.»
Lui mi sorrise. «Io sono Anthony, il padre di Frank. Chiamami pure così, non mi sono mai piaciute le formalità» mi disse. «Frank mi ha detto di te.»
In che senso gli aveva detto di me? Cosa gli aveva detto di me? Gli aveva detto che eravamo semplicemente ottimi amici o gli aveva detto qualcosa di più?
Per un momento il panico mi assalì per quello che avrebbe potuto pensare, ma in ogni caso non ne avevo motivo perché mi aveva appena accolto calorosamente. Comunque rivolsi a Frank un’occhiata perplessa. Lui mi fece un cenno con la mano, che interpretai con un: “ti spiego dopo”. Così lasciai fare.
Salimmo in macchina, io dietro con i bagagli e Frank davanti con suo padre. Loro due si misero a parlare: di come fosse stata vivere con Victoria e suo marito, di come andasse a scuola, insomma, cose che i genitori chiedono normalmente ai figli.
Frank sembrava davvero felice, e io potevo solo essere altrettanto. Come non potevo? Aveva appena ritrovato suo padre, e anche se sua madre era morta, il dolore non poteva essere poi più di tanto perché non l’aveva nemmeno mai vista.
Sorrisi pensando che forse ce l’avevo davvero fatta con Frank, ero riuscito a farlo stare meglio. Mi sentii pizzicare gli occhi e non mi accorsi quando una lacrima mi scese giù per una guancia, ma fui svelto ad asciugarla.
Non sapevo se fossero lacrime di gioia o di tristezza. Nel primo caso la ragione era il fatto che Frank fosse felice, e io lo ero per lui. Non avrei mai potuto desiderare nient’altro che non fosse vederlo sorridere per tutta la vita, anche se sapevo che in ogni caso sarebbe stato impossibile, tutti hanno i loro momenti bui. Nel secondo caso la ragione era il fatto che mancassero pochi giorni, davvero pochi giorni e solo al pensiero mi si contorcevano le budella e mi veniva la nausea.
Ma forse non era per nessuno dei due motivi, forse quella era stata una lacrima d’orgoglio, orgoglio verso Frank, verso quello che aveva fatto per me e verso quello che aveva fatto per se stesso. Perché era vero che lo avevo aiutato e gli avevo fatto capire quanto fosse importante, almeno per me, ma la maggior parte del lavoro l’aveva fatto lui, e per questo ero orgoglioso.
I miei pensieri furono interrotti dalla macchina che si fermava sul vialetto di una casetta molto carina  e decisamente troppo grande per una sola persona.
Scendemmo di macchina e Anthony mi aiutò con i bagagli. Si fermò davanti alla porta e armeggiò con la serratura, poi aprì la porta e ci fece entrare.
«Vi piacerà stare qui» disse soddisfatto Anthony con un sorriso. «Portiamo su le valige.»
Salimmo le scale, appena dietro l’ingresso e arrivammo in uno stretto corridoio. Cominciai a pensare che le case in America fossero tutte uguali.
Il padre di Frank aprì una porta sulla destra ed entrammo.
«Spero non ti dispiaccia,» disse rivolgendosi a me «ma Frank mi ha detto che andava bene una camera insieme.»
Mi affacciai all’entrata e vidi l’interno: c’erano un letto grande, matrimoniale, un armadio e un cassettone.
Rivolsi un sorriso a Frank. «È perfetta» dissi alla fine.
Anthony poggiò la valigia di Frank per terra e io poggiai la mia. Batté le mani soddisfatto. «Sono contento che vi piaccia» sorrise. «È quasi ora di pranzo. Che ne dite se vi porto fuori, non sono esattamente un buon cuoco.»


Pranzammo in una piccola tavola calda in centro, sempre se un posto piccolo come quello poteva avere un centro. Sembravamo quasi una famiglia: io e Frank fratelli e Anthony nostro padre, anche se definire me e Frank fratelli poteva suonare strano e forse anche buffo.
Anthony parlava continuamente e faceva mille domande sia a me che a Frank. Era premuroso, forse un po’ pressante, ma sembrava un bravo padre, non capivo perché avesse abbandonato suo figlio. Forse era davvero troppo giovare per avere un figlio e si era sentito spaventato.
Mi resi conto che Anthony mi stava fissando. «Lo sai che mi ricordi qualcuno?» mi disse.
«Davvero?» feci io stupito pregando di essere un buon attore.
«Sì» confermò, «ma non ricordo bene chi.»
Non dissi più nulla e l’uomo non si soffermò molto sul discorso, riprendendo a parlare con Frank.
«Lo sai» disse, «ho cominciato a pensare alla cazzata che avevo fatto che tu avevi più o meno dieci anni. Ero disperato perché pensavo che tu non mi avresti mai perdonato. Ti scrissi una lettera, ma poi decisi con Victoria che per quel momento era meglio non dirti nulla.»
Frank annuì. «Lo so, ma mi piacerebbe leggere quella lettere. Non ho chiesto a Victoria se ce l’ha ancora.»
Anthony si infilò in bocca un pezzo dell’hamburger che aveva ordinato e dopo che ebbe inghiottito rispose. «Penso proprio che ce l’abbia ancora. Comunque mi sa che ne avevo fatto una copia, se la vuoi te la do con piacere.»
Frank sorrise. «Grazie.»
«E tu Gerard?» cominciò. «Cosa fai?»
«Io e mio zio ci siamo trasferiti da quasi tre mesi dove sta anche Frank. Lui è uno scrittore e viaggia molto, vivo con lui e ho appena finito il liceo. Mi sono preso un anno per pensare a quello che mi piacerebbe fare. Intendo all’università.»
«Capisco» osservò pensieroso. «E che facoltà ti piacerebbe frequentare?»
«Non lo so» dissi incerto, «amo disegnare, e quindi qualcosa come Belle Arti mi piacerebbe. Ma non lo so ancora, comunque ho ancora un po’ di tempo per pensare.»
Anthony mi sorrise. «Disegni?» fece stupito. «Mi piacerebbe vedere qualche tuo disegno.»
«È bravissimo» si intromise Frank, «mi ha fatto un disegno in treno.» Cominciò ad armeggiare nello zaino che si era portato dietro, non si sa per quale motivo, e ne estrasse il mio disegno. Fece attenzione che non finisse dentro a un piatto e lo porse a suo padre.
«Wow» mormorò. «Sembra che esca dal foglio.»
Mi resi conto troppo tardi che ero un po’ arrossito, i complimenti degli sconosciuti, o dei quasi sconosciuti mi faceva quell’effetto.
«Grazie» borbottai imbarazzato.
Anthony restituì il foglio al figlio che lo rinfilò nello zaino con cura, come fosse una reliquia. Non capivo perché tutti pensassero che disegnassi così bene, a me non sembrava.
Finimmo il nostro pranzo senza dire niente di rilevante e alla fine Anthony andò a pagare mentre io e Frank ci mettevamo le giacche.
«Mi spieghi perché devi andare a mostrare in giro i miei disegni?» lo rimproverai.
Lui mi sorrise innocente. «Ma sei bravo, cavolo. Lo faccio per te.»
«Non devi fare nulla per me» sbottai, anche se in realtà non ero arrabbiato. «Specialmente se riguarda i miei disegni!»
«Ti bacerei se potessi» disse con un sorriso.
«Io ti ucciderei di baci se potessi» sussurrai. «Adesso.»
 
 
 
 

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Capitolo 18
*** La felicità può nascere solo dalla tristezza ***





18

La felicità può nascere solo dalla tristezza




 
 
Avevo già potuto verificare quanto fosse difficile svegliare Frank quando era una notte intera che dormiva, ma in quel momento stavo constatando quanto fosse difficile farlo addormentare.
«Frank, cazzo» esclamai, «dormi!»
Erano le due di notte, ed ero stanco morto. Avrei anche potuto dormire in piedi con gli occhi aperti e Frank non aveva la minima intenzione di chiudere quei suoi bellissimi occhi per dormire e non la smetteva un attimo di parlare.
«Ma non ho sonno» mormorò avvicinandomisi e baciandomi i capelli.
La stanza che ci aveva Anthony era davvero bella. La prima volta che l’avevo vista ci ero stato troppo poco tempo per esaminarla attentamente, ma quella sera, verso le undici, io e Frank eravamo saliti di sopra e ci eravamo chiusi nella stanza. Tecnicamente per dormire, ma, come già detto, Frank non ne voleva sapere.
«Mi spieghi cosa ti ha messo tuo padre nel dolce stasera?» borbottai. «O forse ti sei scolato qualche litro di caffè di nascosto?» Mi voltai verso Frank e lo vidi sorridere.
«No» fece, «sono solo felice. Ho ritrovato mio padre e trascorrerò con te una settimana bellissima. Tu non sei felice?»
Gli presi il mento con una mano e lo baciai dolcemente sulle labbra. «Certo che sono felice» sussurrai. «Ma ora dormi, per favore.»
Mi accarezzò piano una guancia e ricambiò il bacio. Poi si distese per bene sul letto e si rannicchiò con la schiena contro il mio petto. Io gli cinsi la vita con un braccio e finalmente riuscii a chiudere gli occhi.


La mattina a svegliarci fu la luce tenue che proveniva dalle finestre, anche se queste erano coperte da spesse tende blu. Come al suo solito Frank cominciò a borbottare e a tirarsi il piumino del letto fin sopra la testa per ripararsi dalla luce e continuare a dormire.
Io mi alzai piano e aprii le tende completamente. Sentii Frank che si lamentava. Poi andai da lui e gli tolsi le coperte di dosso.
«Così me la paghi per ieri sera» dissi trionfante quando lui cominciò a lanciarmi una serie d’insulti che avrebbe potuto riempire un vocabolario solo con quelli.
Risi mentre Frank, ormai completamente sveglio, si alzava e cominciava a stropicciarsi gli occhi. Mi mandò un’occhiataccia e poi si chiuse in bagno.
Appena ne uscì ci entrai io e quando fummo pronti scendemmo.
Non so perché, ma quasi mi aspettavo di trovare Ed che preparava indaffarato la colazione in cucina, al contrario, il piano di sotto era deserto.
«Mi sa che mio padre è ancora a letto» osservò Frank.
«Dev’essere una cosa di famiglia avere il sonno così pensante.»
Frank fece un verso non meglio identificabile e si diresse in cucina, dove cominciò ad apparecchiare la tavola. Lo seguii e mi misi a preparare il caffè. Dopotutto io non ero nessuno in quella casa, se non il ragazzo del figlio del proprietario, anche se lui non lo sapeva.
«Frank» lo chiamai, «cosa intendeva ieri tuo padre quando diceva che gli hai parlato di me?»
«Intendeva dire quello che ha esattamente detto» rispose.
«E cosa gli hai detto?»
Frank alzò le spalle noncurante. «Nulla di ché.»
«Frank» cercai di attirare la sua attenzione, «gli hai detto o no che stiamo insieme?»
Frank smise di fare quello che stava facendo per un attimo e poi riprese. «No» scosse la testa, «non posso dirglielo finché non so che reazione avrebbe.»
«Capisco» annuii. «Beh, comunque solo Ed lo sa, a meno che tu non l’abbia detto a qualcun altro.»
Non mi andava di raccontagli la verità su ciò che avevo detto a Rachel dopo che avevamo litigato. Lei lo sapeva. Ma non desideravo che Frank conoscesse il fatto che avevo riferito una cosa così delicata a lei senza il suo permesso.
Frank andò verso la cassettiera che conteneva le posate e prese cucchiaini, coltelli, e forchette per tre. «Io non l’ho detto a nessuno.»
«Pensi che dovremmo?» chiesi esitante.
Sospirò. «Non lo so Gerard, davvero. Non so se sia la cosa giusta o meno.»
«Io un po’ ci ho pensato» ammisi. «Per esempio, penso che Rachel e Jimmy dovrebbero saperlo. Loro non si faranno molti problemi, so che lo accetteranno. E poi Rachel l’ha già capito.»
Aveva appena finito di apparecchiare, così si sedette su una sedia rivolta verso di me. «Io non ho niente da dire a nessuno.»
«In che senso?» domandai un po’ spiazzato. Intendeva che non gli importava che gli altri lo sapessero? «Ti vergoni?»
«Mi vergono di cosa?» fece confuso.
«Di amarmi» precisai, «ti vergoni di amarmi?»
«No, assolutamente, come potrei?» esclamò. «Io sono orgoglioso di amarti. Intendevo che non nascondo nulla, a parte il fatto di amarti, ma lo sai che lo faccio per noi.»
«Non capisco.»
«Gerard» cominciò, «nel caso di Rachel e Jimmy posso fare un’eccezione, forse, ma non so se voglio dirlo ad altri, non so nemmeno se voglio dirlo a loro.»
«Perché?» domandai.
In quel momento fui sollevato: per fortuna non gli avevo detto che avevo riferito tutto a Rachel, perché si sarebbe sicuramente arrabbiato.
Si scostò qualche ciocca di capelli che gli era finita sulla fronte. «Non lo so, ho paura.»
Mi avvicinai piano a lui e mi chinai per raggiungere la sua altezza, visto che era seduto e io in piedi. Gli accarezzai piano una guancia. «Non devi avere paura» mormorai. «Lo sai che io sono con te.»
Fece un debole sorriso e mi prese la mano che avevo sulla sua guancia per stringerla. «Non so se sono ancora pronto. Ho bisogno di tempo.»
Noi, di tempo, non ne avevamo punto, ma feci finta di nulla.
«Hai tutto il tempo che vuoi Frank. Tutto.»
«Mi dispiace» si scusò mentre mi sedevo vicino a lui, prendendo una sedia. «Ma questa cosa è più grande di me. È successo tutto in fretta e non ho avuto il tempo di comprendere.»
«Anche per me è stato così» ammisi, e forse era ancora così. «Ma non c’è molto da comprendere, non credi? Ci amiamo e questo è tutto quello che c’è da sapere.»
Mi sorrise, tristemente. «Hai ragione, ma forse non siamo noi quelli che dobbiamo comprendere. Chi deve comprendere sono gli altri »
Annuii, era esattamente la verità quella che aveva appena detto. «Bisogna vedere se gli altri capiranno» osservai. «È per questo che ho proposto di dirlo a Rachel e Jimmy, per vedere come reagiranno loro e agire di conseguenza.»
Frank voltò la testa per poi tornare a guardarmi. Interpretai quel gesto come d’incertezza. «Secondo te è la soluzione giusta?»
Feci sì con la testa. «Dobbiamo, per noi e per rispetto a loro.»
Mi lasciò la mano e si mise le sue in grembo, pensieroso. «Okay» decise alla fine, «quando torniamo diremo loro tutto.»
Lo baciai sulle labbra. «Perfetto» dissi soddisfatto.
Lui ricambiò il bacio. «Lo faccio solo per te.»
Appena ci staccammo Anthony entrò in cucina con un’espressione stupita. «Già svegli?»
Non rispondemmo nessuno dei due, era abbastanza ovvio che fossimo già svegli, non aveva senso fare una domanda del genere.
Misi il caffè in tavola e qualcosa da mangiare che avevo trovato nella dispensa. Anthony si sedette a capotavola e si versò un po’ di caffè. Frank, che era già seduto, avvicinò la sedia al tavolo e cominciò a mangiare. Io, appoggiato al lavello, non avevo per nulla fame e mi misi a osservare Frank e suo padre. Sembravano davvero una famiglia, certo, non c’era una figura femminile, ma erano pur sempre una famiglia. Sentii una fitta allo stomaco e non capii perché. Alla fine decisi che avrei almeno bevuto un po’ di caffè per svegliarmi.


La vita a casa del padre di Frank era a dir poco piacevole, non facevamo nulla di particolare, ma l’aria che si respirava costantemente era fantastica.
Erano già passati tre giorni da quando eravamo arrivati, e sentivo che il tempo mi stava letteralmente scivolando via dalle dita. La mattina la trascorrevamo per lo più stando in cucina, prima per fare colazione, e poi per mettere insieme qualcosa per il pranzo. Dopo aver mangiato, Anthony si metteva a leggere il giornale e io e Frank facevamo quello che capitava: o guardavamo la TV, o io disegnavo mentre lui mi guardava, oppure semplicemente parlavamo. Il pomeriggio stavamo tutti insieme: camminavamo, anche se fuori era decisamente freddo, ci rinchiudevamo nei bar e ci passavamo tutto il pomeriggio con qualcosa di caldo da bere e una fetta di torta, altre volte capitava che per il troppo freddo facevamo qualche gioco di società in salotto, per terra sul tappeto. Comunque io ero negato, e pure Frank, quindi vinceva sempre Anthony, ad eccezione di una volta in cui lui si era un attimo assentato per una chiamata e io e Frank avevamo preso un po’ di soldi dalla cassa del Monopoli e lui non si era accorto di nulla. Gioco sporco? Sì, ma per una buona causa.
Esattamente il terzo giorno, Anthony ci venne a svegliare dicendoci che sarebbe stato via tutto il giorno perché c’era un’emergenza all’ospedale.
Io e Frank ci rimettemmo a dormire, era davvero presto e solo dopo due o tre ora decidemmo di alzarci.
Scendemmo ancora in pigiama e rimanemmo quasi tutta la mattina a fare colazione.
«Frank?» lo chiamai. Lui mi rispose con un mugolio. «Siamo troppo pigri.»
Lui alzò un sopracciglio. «È un problema?»
«Beh» borbottai, «non lo so, forse sì.»
«E cosa proponi per rimediare alla nostra pigrizia?»
Ci pensai un attimo. Cosa potevamo fare? «Il giorno in cui siamo arrivati, quando siamo andati a pranzo fuori, ho notato un cimitero monumentale lì vicino. Mi piacerebbe andarci per vedere se c’è qualche statua interessante da disegnare.»
Frank mi guardò perplesso. «Sei buffo» ridacchiò poi.
Fu il mio turno di guardarlo con aria perplessa. «Perché?»
«Perché penso tu sia l’unica persona che proporrebbe al proprio ragazzo di andare in un cimitero monumentale per fare dei disegni.»
Sbuffai. «Non importa.»
«Non dicevo questo.» Si avviò all’ingresso e io lo seguii. Si infilò la giacca e mi porse la mia. «Certo che andiamo, però prima ci prendiamo un boccone.»
Sorrisi e uscimmo di casa. In effetti non penso esistano molti ragazzi che vanno nei cimiteri per ritrarre statue, ma io non ero assolutamente normale, ero morto e poi ero tornato in vita, non potevo esserlo.
Ci fermammo alla stessa tavola calda del primo giorno, e mangiammo qualcosa abbastanza velocemente. Dopo aver pagato ci dirigemmo verso il cimitero monumentale.
Il cancello era grande e in ferro battuto. Spinsi uno dei due battenti verso l’interno e quello cigolò rumorosamente prima di aprirsi. Aspettai che anche Frank entrasse e poi socchiusi il cancello.
Era davvero un luogo particolare. Potrei definirlo “bello”, ma nella morte e nelle tombe non c’era davvero nulla di bello, e ve lo posso assicurare, ma c’era un aura di fascino e mistero che incantava.
Le tombe erano tutte molto grandi e decorate con statue: proprio quello che cercavo io. Ci mettemmo a fare un giro e per passare il tempo cominciai a leggere le varie iscrizioni sulle lapidi. Notai che molte delle persona che erano state seppellite lì erano morte durante guerre o epidemie. In effetti le tombe erano tutte abbastanza antiche, quasi nessuna era recente.
Alla fine trovai la statua di un angelo che faceva al caso mio. Era molto alta, l’angelo aveva dei riccioli scolpiti sul capo e intorno al volto, il viso era altero e guardava dritto in avanti, le ali erano spiegate all’indietro, ed erano davvero possenti. Ma la cosa che mi piaceva di più e che più mi aveva colpito era la spada che impugnava. Teneva entrambe le mani sull’elsa e la punta della lama poggiava per terra. Era una scultura bellissima. Mi chinai per vedere se ci fossero delle iscrizioni sull’autore o su chi fosse l’angelo in questione, ma non vi trovai niente. Così mi sedetti su un masso che stava più o meno davanti alla statua e presi il blocco da disegno che avevo nello zaino e una matita.
Prima di cominciare mi voltai per vedere dove fosse Frank e lo scorsi fra due cipressi che camminava con le mani in tasca. Decisi di non disturbarlo, dopotutto aveva tutto il diritto di stare da solo e di pensare. Se voleva la mia compagnia non doveva far altro che venire da me.
Aprii il blocco da disegno su una pagina bianca e cominciai ad osservare meglio l’angelo.
Cominciai a tracciare una bozza schematica per non sbagliare nel corso del disegno e poi iniziai dal volto. Gli occhi erano ben aperti e guardavano in avanti. Non erano esattamente espressivi, ma comunicavano autorità e potenza. Il naso era perfetto, un po’ all’insù ma non troppo e creava un’ombreggiatura sul lato destro del volto a causa della luce del sole. Le labbra erano sottili e serrate con gli angoli leggermente piegati verso in basso in un’espressione severa. La forma del viso era quasi un triangolo con la mascella affilata e il mento appuntito. Cominciai poi a delineare i boccoli dei capelli. I riccioli erano abbastanza lunghi, gli ricadevano un po’ sulla fronte in onde morbide e ai lati del viso, ed erano scolpiti perfettamente. Appena ebbi finito con i capelli, cominciai a tracciare velocemente gli abiti, ma poi iniziai le ali. Erano enormi, quasi quanto l’angelo stesso. Trasmetteva la loro morbidezza e la loro potenza. Tracciai il contorno e poi lasciai qualche segno ad indicare le piume e la struttura più rigida vero l’esterno delle ali. Completai gli abiti, una lunga veste son una cintura in vita. Lasciai per ultima la spade che realizzai con estrema precisione. Volevo che sembrasse vera, quasi come se dovesse uscire dal foglio. Disegnai l’elsa con sopra le mani dell’angelo, la guardia semplice, ma allo stesso tempo bellissima e infine la lama, affilata e più spessa al centro.
Rifinii il disegno e quando ebbi terminato mi alzai per andare a cercare Frank. Sperai non si fosse perso, anche se il cimitero non era così poi gigante.
Cominciai e girare fra le varie tombe, statue e cipressi che ogni tanto mi sbarravano il cammino. Feci lo slalom fra le lapidi e alla fine scorsi la figura di Frank. Era piegato su una tomba, in ginocchio per terra, non capivo molto bene cosa stesse facendo da lontano, ma mi avvicinai per verificare.
Quando fui a qualche passo da lui sentii che singhiozzava. Mi inginocchiai con lui e gli misi una mano sulla spalla.
«Ehi» gli sussurrai in un orecchio, «cosa c’è?»
Continuava a piangere con il viso fra le mano. Io alzai lo sguardo e capii subito cosa stesse succedendo. Era davanti ad una lapide, abbastanza spoglia: non molto adatta ad un cimitero monumentale. C’era un nome su quella tomba, solo un nome, né una data né una frase: Linda Pricolo. Era la madre di Frank, la sua vera madre. Mi sentii gli occhi pizzicare ma ricacciai indietro le lacrime, non potevo piangere anche io.
«È per questo che mio padre è venuto ad abitare qui.» Non mi ero accorto che Frank avesse alzato la testa e mi stesse guardando.
Annuii e cercai di asciugargli le lacrime, ma quelle continuarono a scendere.
«Perché nessuno mi dice mai nulla?» disse disperato. «Perché?»
Lo avvicinai a me e posai la mia fronte sulla sua. «Non lo so Frankie. Forse non ti vogliono far soffrire più di quanto tu non soffra già.»
Era una spiegazione pessima, ma non sapevo cosa dire.
«Ma così è peggio» singhiozzò. Mi abbracciò e seppellì le testa nell’incavo fra la mia spalla e il mio collo. Sentii lacrime calde che finivano sulla mia pelle fredda. Gli accarezzai la schiena dolcemente, nel tentativo di calmarlo, ma non penso sia bello trovare la tomba di una madre che non si è mai conosciuta.
Nel frattempo il sole cominciò a calare. Non mi ero reso conto del tempo che passava e dovevano essere le cinque di pomeriggio. Aiutai Frank ad alzarsi e uscimmo dal cimitero, verso la strada per tornare a casa di Anthony.
Non disse nulla per tutto il tragitto, tremava abbracciato a me, sia per il freddo che per lo shock. Io cercavo di riscaldarlo strofinandogli le mani addosso, ma non è che funzionasse molto.
Quando arrivammo davanti alla porta era completamente buio e Frank prese le chiavi che aveva infilato in tasca prima di uscire. Appena entrammo notammo che Anthony doveva già essere tornato a casa. Le luci erano accese e la sua giacca era appesa nell’attaccapanni all’ingresso.
Facemmo qualche passo in avanti fino a raggiungere il salotto dove Anthony guardava la TV.
«Ciao ragazzi» ci salutò con un sorriso. «Dove siete stati?»
Si voltò un attimo e notò che Frank era addosso a me e non diceva nulla. Io mi sedetti e feci sedere anche Frank.
«Siamo andati al cimitero monumentale» cominciai, «lo sai, io disegno e volevo ritrarre qualche statua. Mentre disegnavo Frank si è fatto un giro e ha trovato la tomba di sua madre.»
Vidi Anthony che impallidiva e che si avvicinava piano a Frank.
«Mi dispiace non avertelo detto» si giustificò. «Non è che non te lo volessi dire, non volevo farti stare male inutilmente.»
Frank si asciugò le lacrime a guardò suo padre. «Sei venuto ad abitare qui per questa ragione?» chiese.
Anthony annuì. «Ci siamo conosciuti qui» spiegò. «Era estate e con alcuni miei amici decidemmo di venire qui a svagarci un po’ dal caldo della città. Questi miei amici portarono altri amici, e insomma, la conobbi. Quando si ammalò, prima che nascessi, mi disse che voleva essere seppellita qui. Mi chiese anche di non scrivere nient’altro sulla lapide eccetto il suo nome. Io le domandai il motivo e lei mi rispose che il tempo non è così poi importante, sono importanti i momenti. All’inizio non capii cosa intendesse, ma poi, quando tu sei nato e quando lei è morta, l’ho capito. Bisogna vivere ogni momento della nostra vita come se fosse l’ultimo, perché non sai mai quello che ti potrebbe succedere» sospirò. «Aveva ragione e io non le ho dato retta. Ho sbagliato, Frank. Ti ho abbandonato, ho abbandonato l’unica cosa che avessi al mondo.»
Una lacrima lucida gli percorse il volto, ma Anthony fu veloce ad asciugarla.
«Okay» disse Frank, «ti capisco, non sono arrabbiato.»
Suo padre gli sorrise incoraggiante con gli occhi un po’ lucidi. Sarei voluto andare via, non c’entravo nulla in quella situazione, era una cosa fra loro due, ma Frank faceva parte della mia vita e io della sua, quindi tutto quello che riguardava uno riguardava automaticamente anche l’altro.
Frank e suo padre rimasero un po’ a guardarsi e poi risero.
«Io vado a vedere se riesco a preparare qualcosa per la cena» annunciò.
«Ma sono le cinque del pomeriggio» obiettò Frank.
«Mi ci vorrà molto tempo per vedere di compicciare qualcosa» e dopo aver detto questo, Anthony scomparì in cucina.
Dopo circa tre ore la cena fu pronta e nonostante tutto ciò che Anthony aveva preparata facesse abbastanza schifo, io e Frank fummo pieni di complimento, per non offenderlo e soprattutto per incoraggiarlo a migliorarsi.
Appena finito di mangiare, Frank mi disse che era molto stanco e andò sopra.
«Io aiuto tuo padre a rimettere a posto e poi ti raggiungo» lo informai.
Frank salì le scale e scomparve dietro esse.
«Da quanto tu e Frank vi conoscete?» mi domandò Anthony mentre cominciavamo a sparecchiare.
«Circa tre mesi.»
«State molto bene insieme» sorrise.
Quasi mi cascò la pila di bicchieri che avevo creato. «C-come?» balbettai.
«È abbastanza ovvio che fra voi c’è qualcosa che non è semplice amicizia.»
Sbarrai gli occhi. «Io…»
Anthony rise e mi tirò una pacca sulla spalla. «Ehi» mi disse, «non è assolutamente un problema per me. Mi basta che siate felici.»
Forse la vera risposta era che io e Frank eravamo decisamente stupidi, perché tutti si accorgevano che fra noi due c’era qualcosa, ma non ci facevamo mai caso e soprattutto ci eravamo accorti tardi che ci amavamo. Rachel l’aveva capito per prima. 
«Io voglio che Frank sia felice» dissi.
«Lo so» annuì. «Ma se tu non sei felice lui non portò mai esserlo.»
«Ma io sono felice» osservai, come se fosse la cosa più evidente del mondo.
«Ho qualche anno di esperienza di più di te. Abbastanza da capire che non sei esattamente felice e che c’è qualcosa che ti turba, costantemente. Hai una ruga sulla fronte che se ne va raramente.»
Rimasi stupido dall’osservazione di Anthony, prima di tutto perché aveva ragione, secondo perché quella cosa della ruga era abbastanza strana.
Non aggiunsi nulla e lui parlò al mio posto. «Promettimi che veglierai su di lui.»
«Certo.» L’avrei fatto anche dall’aldilà, non mi importava a che prezzo, avrei sempre controllato che Frank stesse bene. Era la mia vita, era tutto per me, non avrei mai permesso che gli succedesse qualcosa di brutto.
«Grazie, sei un bravo ragazzo.»
Gli sorrisi debolmente e finii di mettere nel lavello tutte le stoviglie che avevamo usato.
«Va pure da lui» mi disse poi Anthony.
«Va bene» annuii, e mi precipitai verso le scale.
Entrai in camera. Frank era disteso sul letto e fissava il soffitto. Non avevo mai capito cosa ci trovasse di tanto interessante nei soffitti, ma gli fissava spesso.
Mi chiusi la porta alle spalle e mi distesi accanto a lui.
«Va tutto bene?» gli domandai sporgendomi verso di lui e girandomi a pancia in giù.
Lui annuì e mi sorrise. Poggiai la fronte sulla sua e chiusi gli occhi. «Ti amo» sussurrai.
Lui mi sollevò il mento e mi bacio sulle labbra. Un bacio dolce, quasi triste. Ricambiai il bacio e gli accarezzai la guancia.
Lo sentii sorridere contro la mia bocca e approfondii il bacio. Può sembrare una cosa stupida, ma io amavo baciarlo. Sentire il suo sapore nella mia bocca, sapere che il quel momento sarebbe potuta scoppiare una bomba e noi saremmo rimasti lì, nella stessa identica posizione, l’uno vicino all’altro.
Si staccò un attimo e mise il suo viso contro la mia guancia, sentii le sue ciglia che sbattevano e che mi facevano il solletico sulla pelle.
«Anche io ti amo.» Mi baciò la guancia e sorrisi. Non avrei scambiato quel momento con nulla al mondo.
Frank era una parte di me, senza lui io mi sentivo come se mi mancasse un braccio o una gamba, e non è per esagerare, era esattamente così. Non capivo come la gente potesse vivere senza amare e mi chiesi come io avevo potuto vivere senza amare qualcuno. Ho sempre pensato che l’espressione “anima gemella” fosse stupida, e lo pensavo ancora, ma un fondo di verità c’era. La persona che si ama non è esattamente l’anima gemella, è proprio l’altra parte della tua anima che si incastra con la tua per completarla. Ma se non si è mai amato è una cosa che non si può capire.
Continuai a baciarlo. Gli accarezzavo la schiena e sentii che aveva freddo, tremava.
«Hai freddo?» gli chiesi.
Lui annuì e senza curarsene più di tanto riprese a baciarmi. Lo spostai delicatamente in modo che potessi tirare su le coperte e mettercele addosso. Mi resi conto che avevo ancora le scarpe, così me le sfilai velocemente e le scalcai fuori dal letto.
Le labbra di Frank erano bollenti e così anche le sue guance. Gli accarezzai i capelli lentamente, facendo attenzione a non tirarglieli per non fargli male.
Si avvicinò ancora di più a me e mi circondò il busto con le braccia. E continuai a baciarlo, perdendo la cognizione del tempo.


La mattina dopo ci svegliammo che avevamo ancora i vestiti del giorno prima. Ci cambiammo velocemente e scendemmo per aiutare Anthony con la colazione, sempre se era già sveglio. Appena arrivammo in salotto lo trovammo alle prese con i fornelli.
«Ehi ragazzi» esclamò, «vi piacciono le frittelle?»
Io e Frank ci sedemmo a tavola sorridendo, aspettando le famose frittelle di Anthony.
«Avete dormito bene?» ci chiese mentre poggiava un piatto pieno di pseudo-frittele davanti a noi.
«Sì, papà» affermò Frank.
Sorrisi. Non avevo mai sentito Frank rivolgersi a suo padre con l’appellativo “papà”. Beh, era più che normale, ma mi faceva un po’ strano. Forse anche Anthony se ne accorse.
Pensai che non ci fosse cosa più dolce e fragile di Frank.
Mangiammo insieme, come tutte le mattine, parlando fra di noi.
Il pomeriggio decidemmo di andare a fare una passeggiata, non era una giornata particolarmente fredda e decidemmo di approfittarne.
Uscimmo nel primo pomeriggio e cominciammo a camminare senza una meta precisa. Una cosa mi dispiaceva, non c’era la neve e non si decideva a nevicare. Frank amava la neve, e un perfetto regalo di Natale sarebbe stata una bella nevicata.
Anthony camminava davanti a noi e Frank mi prese la mano, intrecciammo le dita, come facevamo sempre.
Passammo davanti al bar dove si ritrovavano i ragazzi, e essendo le vacanze di Natale era pieno, nessuno era a casa a studiare o a lavorare.
Nessuno fece caso a noi e continuammo la nostra passeggiata.
Entrammo in una zona un po’ più isolata, piena di alberi sempreverdi, era una specie di parco, non c’era nessuno.
Con la coda dell’occhio mi resi conto che Frank mi stava guardando. Mi voltai verso di lui e gli stampai un bacio sulla tempia. Lui sorrise e si strinse a me.
Passammo davanti ad un cassonetto dell’immondizia e sentii un rumore stano. «Che c’è?» chiese Frank anticipando la mia domanda.
Anthony si fermò con noi. «Proviene dai cassonetti dell’immondizia» osservò.
Lo vidi scomparire dietro uno di essi. Sentii altri rumori, come mugolii e fruscii di scatole.
Dopo un po’ io e Frank vedemmo Anthony ricomparire con un cucciolo fra le braccia. Era un piccolo cane, probabilmente qualcosa tipo un labrador. Non doveva avere più di un paio di mesi.
Piangeva e mugolava. Appena vide il cucciolo gli occhi di Frank si illuminarono, corse incontro suo padre e prese in braccio il cucciolo. Questo si arpionò addosso a Frank, come avesse paura di cadere. Frank cominciò ad accarezzarlo piano e a sussurragli cose che non riuscii a capire. Poi mi avvicinai anche io e accarezzai sulla testa il cucciolo.
«Chi avrebbe il coraggio di gettare fra la spazzatura un essere così?» domandai infuriato.
«Solo un mostro» rispose Frank continuando a tranquillizzare il cane.
«Non possiamo lasciarlo qui» osservò Anthony.
«Viene a casa con noi!» esclamò entusiasta Frank baciano il cucciolo sulle orecchie.
Anthony scosse la testa sorridendo. «Ora come faccio a dirgli di no» mormorò.
Alla fine il cucciolo venne a casa con noi. Nella prima ora distrusse un cuscino, poi si appisolò sul divano e noi andammo a cena. Anthony non aveva potuto preparare un gran ché, era stato occupato a rimediare ai danni del piccolo essere che ci eravamo portati dietro.
Frank era euforico, si era innamorato del cane e ora non immaginavo nemmeno di toglierlo, non ci sarebbe riuscito nessuno.
«Mi sa che Victoria non me lo lascerà tenere» disse mentre mangiava, sconsolato.
«Penso anche io» osservò Anthony. «Se vuoi lo posso tenere io e tu potrai venire a trovarlo tutte le volte che vorrai.»
Frank si alzò di scatto dalla sua sedia e andò ad abbracciare suo padre. «Grazie papà!»
«Okay, okay» disse lui. «Ma lui dove dorme?»
«Dorme con noi» propose di slancio Frank. «Vero Gerard?»
Mi ci volle qualche secondo per capire. «Cosa? Non credo sia una buona idea, è piccolo, lo potrei schiacciare.»
«Dai» mugolò, «il letto è grade abbastanza anche per lui. Per favore, Gerard.»
Alzai gli occhi al cielo. «E va bene» acconsentii.
Questa volta venne ad abbracciare me e quasi mi strozzò.
Andammo a letto che Frank era piuttosto agitato, più del solito s’intende. Prese Il piccolo cane e lo mise dentro al letto, fra me e lui.
«Scusami eh,» protestai, «ma io non posso nemmeno abbracciarti?»
Frank mise la sua schiena contro di me così che io potessi abbracciarlo e poi si mise il cucciolo in grembo.
«Così va bene?» mi domandò.
«Perfetto» annuii.
La piccola creatura si addormentò subito, era stanco, e forse avremmo fatto meglio a portarlo da un veterinario il giorno dopo.
«Frankie?» lo chiamai. «Come lo chiami?»
«Mh,» ci pensò un attimo. «Che ne dici di Sam?»
«Mi piace» approvai.
«’Notte Sam» mormorò. «’Notte Gerard.» Si voltò un attimo e mi baciò.
«Adesso ho due cuccioli» commentai. «Uno non mi bastava, evidentemente.» Frank rise.
Ma presto non ne avrei avuto nemmeno uno.


 

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Capitolo 19
*** La promessa di una notte ***


 
 
 
19

La promessa di una notte




 
 
Il soggiorno da Anthony trascorse come solo le cose belle posso fare. Perché quel tizio di cui mi aveva parlato mia madre da piccolo aveva fottutamente ragione. Il tempo non è quello che si misura sugli orologi, il tempo è una cosa molto più grande e complessa. È l’unione dei momenti che passi con i tuoi sentimenti, le emozioni, le persone che ti circondano. Se una mattina passata in solitudine, perché Frank era a scuola, non passava mai, un’ora con lui passava in un secondo da quanto stavo bene. Vi sembra giusto? A me no, perché non era essere il contrario? Sarebbe tutto più piacevole e la gente sarebbe meno nervosa, sarebbe un vantaggio per tutti, nessuno escluso. Comunque non era una cosa possibile, perché se qualcosa è in una certa maniera forse c’è un motivo e io l’avevo capito, quella esperienza mi aveva aperto gli occhi.
I momenti belli sembrano passare velocemente per farci capire che non ne va sprecato nemmeno un secondo, bisogna goderseli a pieno, perché quando meno te lo aspetti qualcosa o qualcuno potrebbe portarteli via, senza che tu possa fare nulla. Le persone normali sono troppo impotenti davanti a questi fatti. Però, a pensarci bene, chi sono questo “persone normali”? Perché io non lo ero di certo. Tutti usano quell’appellativo, ma nessuno ha mai chiarito chi siano le persona anormali. Insomma, la concezione di normale e anormale è diversa per ciascuno di noi. In questo senso (okay, in tutti i sensi) non esiste una verità assoluta, mai. Per esempio, il fatto che io amassi un altro ragazzo a me sembrava normalissimo, perché faceva parte della mia vita, di me e di Frank. Ma per molte persone non era normale che due persone dello stesso sesso si possano amare, ragazzi e ragazze che siano. Però non si può scegliere chi amare, è una cosa che accade così (e quando accade è bellissimo, ve lo posso assicurare), perché la gente non lo capiva? Sarebbe bastato un minuto con me e Frank per capire che vivevamo l’uno per l’altro, e non è forse una cosa fantastica questa?


Mi riscossi dai miei pensieri e svegliai Frank. Era il ventitré di dicembre e noi dovevamo preparare le valige per tornare alle nostre case e passare il Natale. Il giorno prima Ed ci aveva chiamato e ci aveva informato che avremmo passato il Natale a casa nostra, io, Frankie, Victoria e ovviamente lui. Sarebbe stato bellissimo.
Dopo qualche minuto Frank si decise ad alzarsi e dopo un po’ anche il piccolo Sam cominciò a gironzolare per la camera facendo le feste a entrambi. Frank prese Sam in braccio e si rimise sul letto, per coccolarlo. Mi fece cenno di avvicinarmi. Gli stampai un bacio sulle labbra e dopo aver accarezzato Sam mi infilai in bagno.
Sarebbe stata una tragedia. Frank si era affezionato tantissimo a Sam e non avevo idea di come avrebbe reagito a lasciarlo. Suo padre gli aveva detto che poteva tornare tutte le volte che voleva e gli aveva anche dato le chiavi della casa così da poter entrare anche se lui era a New York o comunque a lavorare.
Uscii dal bagno e vidi che Frank stava ancora facendo le coccole a Sam. Quest’ultimo gli stava facendo il bagno da quanto lo leccava e non la smetteva.
«Frank» lo chiamai stropicciandomi gli occhi, «fra due ore abbiamo il treno, non vorrai perderlo?»
Lui sbuffò e mi consegnò Sam, andando in bagno. Sì, sarebbe stata decisamente dura separarlo da quell’animaletto.


Finalmente alle dieci di mattina fummo pronti per andare alla stazione. Per fortuna, quando venne il momento di salutare Sam, Frank non pianse o cose del genere, ma gli promise che sarebbe tornato presto. Appena usciti di casa cominciò ad abbaiare e piangere. Frank fece finta di non sentire per non stare ancora più male e tirò dritto fino alla macchina di suo padre, che ci portò alla stazione.
Il viaggio fu abbastanza silenzioso, si vedeva che Frank era abbastanza triste, ma non sapevo davvero cosa dirgli.
Victoria ci venne a prendere alla stazione e mi portò a casa, poi se ne andò con Frank. Molto probabilmente non avrei trascorso quel giorno con lui.

 
***
 

Un’irritante musichina natalizia mi svegliò troppo presto e arrabbiato andai di sotto ancora in pigiama. Ed stava facendo l’albero di Natale, come se normalmente le persona facessero l’albero la vigilia, non ha senso, è troppo tardi.
«Era proprio necessaria la musichina?» chiesi nervoso a Ed dopo essere andato in cucina a prendere un po’ di caffè per svegliarmi, come se quella canzoncina non mi avesse già svegliato a dovere.
Lui si girò verso di me. «Dai Gerard!» esclamò entusiasta. «È Natale!»
«No» dissi brusco, «Natale è domani e domani l’altro è una tragedia.»
Ed si incupì all’improvviso, non ci aveva pensato, eh?
Interruppe “l’operazione albero di Natale” e si sedette sul divano, lo imitai.
«Non la devi prendere così male» mi consigliò.
Come se fosse stato facile. «Perché?»
«Senti» cominciò, «stamattina ho ricevuto la risposta per la tua missione.»
Alzai le sopracciglia. «In che senso?»
«Mi hanno detto se la tua missione è stata superata o no.»
«Ma mancano ancora due giorni» osservai.
«Lo so» confermò lui, «ma danno la risposta sempre qualche giorno prima perché uno si abitui a quello che succederà dopo.»
«E quindi…» lo incitai impaziente.
«Era una risposta affermativa» sorrise. «Ce l’hai fatta, Gerard.»
«Fantastico» esultai non troppo convinto. Non lo era per niente.
«Dovresti essere felice» mi incitò.
«Davvero?» chiesi ironico. «Fra due giorni dovrò rivivere la mia morte e se possibile evitarla.»
«Detta così sembra una cosa tragica» osservò, «e se l’affronterai con questo spirito non ce la farai mai. Io so che tu hai la forza necessaria. E poi mi hai fatto una promessa.»
Chinai lo sguardo sulla tazza rossa vuota che avevo fra le mani.
«Lo so» annuii, «la manterrò.»
Ed mi sorrise e mi tirò una pacca sulla spalla, gli sorrisi anche io.
Feci per tornare su, ma Ed mi chiamò. «Mentre dormivi ha chiamato Rachel. Mi ha chiesto di dirti che ti viene a prendere dopo pranzo per fare un giro.»
Gridai a Ed dal piano di sopra che avevo capito e andai a vestirmi. Come era possibile che Rachel si fosse svegliata così presto? Sicuramente sarebbe nevicato.


Dopo pranzo, come annunciato, qualcuno suonò alla porta. Presi la giacca e andai ad aprire. C’erano Rachel, Jimmy e Frank.
Uscii e mi chiusi la porta alle spalle. «Sono l’ultimo?» domandai.
«Sì» rispose la ragazza.
«Dove andiamo?» chiesi mettendomi le mani in tasca.
«Frank voleva provare a fare la danza della pioggia per far nevicare» spiegò Jimmy, «ma io gli ho detto che non ha senso: dovrebbe fare la danza della neve, ma non penso che esista.»
Sua sorella scoppiò a ridere io guardai Frank, stava sorridendo.
«Che c’è da ridere?» Jimmy rimproverò sua sorella.
Alla fine decidemmo di andare al parco, anche perché non c’erano molte alternative.
La rugiada sull’erba era congelata per il freddo e il terreno risultava abbastanza duro.
Ci sedemmo su una panchina e Rachel cominciò a raccontare cosa era successo in quel tempo che eravamo stati dal padre di Frank. In pratica sua madre aveva deciso di ridipingere la casa per le vacanze di Natale e aveva costretto lei e Jimmy ad aiutarla. Avevano cominciato dal salotto, però si erano dimenticati di coprire i mobili e il divano era tutto a schizzi.
«Pensavo che mia madre mi avrebbe uccisa» spiegò lei. «ma poi ha detto che il divano era più bello così. Allora ho preso altri colori e ho continuato a schizzarlo. È stato divertente!»
Risi, non capivo come potesse sua madre essere così felice dell’opera di sua figlia. «Voglio vedere il divano prima o poi» disse Frank.
«Per me è orrendo» intervenne Jimmy.
Sua sorella gli tirò uno schiaffo sulla spalla. «Non è vero!» protestò.
Ad un certo punto notai che Frank mi fissava insistentemente e non capivo il motivo. Lo guardai con sguardo interrogativo. Lui prese il telefono dalla tasca dei pantaloni e cominciò a scrivere furiosamente. Dopo qualche secondo mi porse il telefono cercando di non far notare nulla a Rachel e suo fratello che stavano ancora litigando. Lessi velocemente quello che c’era scritto e poi resi l’aggeggio a Frank annuendo e forse anche sorridendo.
«Che ne dite di un gelato?» propose Jimmy.
«Ma sei pazzo?» esclamò Rachel. «Si gela e tu vuoi il gelato.»
«Facciamo così» cominciò Frank, «andiamo tutti a casa mia, mia mamma non c’è e ha lasciato il risaldamento acceso. Ci saranno una trentina gradi. E c’è il gelato.»
Jimmy scattò in piedi alla parola gelato e cominciò a camminare in direzione della casa di Frank. Questo scosse la testa divertito e si alzò. Rachel andò incontro al fratello e io e Frank rimanemmo un attimo indietro.
«Sei sicuro che ti va bene?» sussurrai a Frank. Lui annuì convinto e mi prese la mano, per poi raggiungere gli altri.
Appena entrammo in casa, lo sbalzo di temperatura mi fece quasi mancare il respiro. Frank non scherzava quando diceva che c’erano almeno trenta grandi. Mi tolsi la giacca e anche la felpa per rimanere solo con una maglietta a maniche corte.
«Cavolo» si lamentò Jimmy, «preferivo quasi fuori. Però voglio il gelato. Frank?»
Frank era sparito e ritornò dopo qualche secondo con una vaschetta di gelato in mano e quattro cucchiaini.
Ci sedemmo tutti sul divano e Frank ci chiese che film volessimo vedere.
Alla fine ne mettemmo uno a casa, tanto andava sempre  a finire che facevamo tutto escluso guardare il film.
Jimmy prese la vaschetta di gelato e cominciò a mangiare impugnando saldamente il cucchiaino come se fosse una spada.
Eravamo a metà del film che il gelato non c’era più e io ne avevo mangiato pochissimo.
«Ma è possibile che l’abbiate mangiato tutto voi?» chiesi arrabbiato. «Fate schifo.»
«Grazie Gerard» fece Rachel ironica.
Frank mi lanciò un’occhiata. Era il momento, anche se io forse non ero tanto sicuro di quello che stavamo facendo. Ero stato io a volerlo, ma forse in quel momento me ne stavo un po’ pentendo. Mi autoconvinsi che era la cosa giusta da fare. È un gioco per me autoconvincermi.
«Ragazzi» Frank richiamò l’attenzione di Rachel e Jimmy.
«Che c’è?» chiese la ragazza curiosa.
«Dobbiamo dirvi una cosa» annunciai. Forse, aggiunsi nella mia testa.
Frank mi rivolse  un sorriso di incoraggiamento. «Okay» cominciò, «non so come dirvelo, ma penso lo dobbiate sapere, insomma, sì, uhm…» Frank guardò Jimmy che lo fissava in attesa.
«State insieme» disse ad un certo punto Rachel. E non era una domanda, era un’affermazione. «Era ovvissimo, comunque. » La ragazza ci sorrise, e senza che nessuno se ne accorgesse mi fece l’occhiolino. Lei sapeva già tutto: gliel’avevo detto di persona.
«E…?» facemmo in coro io e Frank.
«Cosa?» chiese Jimmy.  
«Cosa ne pensate?» spiegò Frank. «Ci parlerete ancora?»
Rachel scoppiò a ridere. «Perché non dovremmo più parlarvi?»
«Non lo so» dissi io un po’ confuso ma felice per la loro reazione. «Non è un problema, vero?»
«Assolutamente no» affermò la ragazza. «Perché dovrebbe esserlo? E poi io l’ho capito la prima volta che vi ho visti che c’era qualcosa.» Sorrise.
«Bene» disse Frank felice. «Io non ve lo volevo nemmeno dire.»
«E perché?» chiese Jimmy alzando un sopracciglio.
«È complicato quello che stiamo passando, e forse non ero pronto.»
Ero felice. Avevamo detto a Jimmy e Rachel di noi due, e forse mi ero anche liberato di tutto quello che avevo dentro. Dirlo mi aveva come liberato da un masso che avevo fra il cuore e lo stomaco, e mi sentivo molto più leggero, avrei potuto volare.
Anche Frank lo era. Lo vedevo dai suoi occhi limpidi e allegri.
Passammo tutto il resto del pomeriggio sul divano a non fare essenzialmente nulla, semplicemente stando insieme a ridere. Ma io sapevo quello che sarebbe successo due giorni dopo e tutte le volte che il pensiero mi attraversava per sbaglio la mente, mi rattristavo, ma cercavo di non farlo notare, e nessuno se ne accorse, per fortuna.


Tornai a casa per cena e appena entrai vidi la casa addobbata di tutti punto: ghirlanda alla porta, festoni ovunque e in salotto l’albero di Natale. Ed si era impegnato, dopotutto avremmo trascorso il Natale lì.
Andai a letto presto, ero sfinito, e la giornata successiva sarebbe stata l’ultima.


La mattina dopo non fu nessuna canzoncina a svegliarmi, solo un qualcosa che mi veniva addosso e mi leccava la faccia.
Aprii gli occhi. «Sam!» Cosa ci faceva sul mio letto? Mi voltai e vidi che non c’era solo lui sul mio letto, c’era anche Frank.
«Buon Natale!» gridò e anche lui venne a baciarmi come stava già abbondantemente facendo quell’animaletto agitato.
«Anche a te. Cioè, anche a voi.»
«Ci sarà anche mio padre oggi. A dire il vero è arrivato stamani presto, e io nemmeno lo sapevo!»
Sam mi stava ancora leccando la faccia. Frank si era invece sdraiato accanto a me.
«Comunque» dissi, «perché sei qui?»
«Victoria, cioè» si riprese, «mia mamma è venuta per aiutare Ed con il pranzo e anche mio padre è qui. Anche se non saranno molto d’aiuto, piuttosto d’intralcio.»
Sorrisi e lo avvicinai a me per poterlo baciare.
«Ti amo» gli sussurrai.
Mi alzai e mi vestii velocemente, poi scendemmo con Frank che teneva in braccio Sam come se fosse una parte di lui, tipo un braccio o una gamba.
In cucina c’era il caos più totale. Ed stava cercando di mettere qualcosa in forno mentre Victoria voleva assaggiare quello che c’era nella teglia.
«Non è pronto!» l’ammonì Ed.
Anthony stava girando un impasto e lo guardava come se fosse un strana sostanza aliena.
Cercai di farmi un piccolo spazio, presi il caffè e lo passai a Frank. Poi feci velocemente una cioccolata e presi un pacco di biscotti. Scappammo da quel casino e andammo in salotto per fare colazione. Poggiammo tutto sul tavolino davanti al divano e ci sedemmo. Frank prese la cioccolata e cominciò a inzupparci lentamente dei biscotti per bere qualche sorso ogni tanto. Sam stava sulle sue ginocchia e qualche volta chiudeva gli occhi per poi riscuotersi all’improvviso se Frank si muoveva.
«Gerard?» mi chiamò. «Non è che magari hai in mente di aprire un chiosco di cioccolata calda?»
Risi e gli scompigliai i capelli già spettinati. «Non penso proprio.»
«Perché?» chiese mentre Sam cercava di raggiungere la sua tazza.
«Non penso venderei molto» spiegai.
«Ma scherzi?» Frank scattò e quasi Sam cadde dalle sua ginocchia. «La tua cioccolata è buonissima, diventeresti famoso!»
«Tu dici?» chiesi ridendo.
«Sicuramente» borbottò con un biscotto in bocca.
Non so come, ma finimmo tutto il pacco di biscotti, che oltretutto avevo appena aperto. Non che mi dispiacesse, ma non era possibile mangiare tutti quei biscotti in due, anche se Frank ne aveva dati qualcuno a Sam che aveva sbriciolato tutto il tappeto.
«Tua madre ti ucciderà quando vedrà che casino hai fatto fare a  Sam» osservai.
«Ma non è il suo tappeto» protestò.
«Ma le mamme sono tutte fissate per la pulizia. Anche se il tappeto non è il suo si infurierà comunque» alzai le spalle.
Mi voltai per vedere la stanza e notai che sotto l’albero c’erano almeno una decina di pacchi colorati con dei nastri. Per fortuna mentre ero da Anthony avevo commissionato a Ed il regalo di Natale per Frankie, e anche se non era bello e originale come quello del suo compleanno, era il pensiero che contava.
Rimanemmo tutta la mattina sul divano a fare le coccole a Sam e a farci le coccole, finché il caos in cucina non fu sistemato e la tavola accuratamente apparecchiata da Victoria, che alla fine si era rivelata utile solo per quello.
Quando il pranzo fu pronto e messo in caldo, Victoria, Ed e Anthony presero i nostri posti sul divano, con la scusa che “erano vecchi”, e a me, Frank e Sam toccò il posto sulle briciole di Sam che ancora nessuno aveva notato.
«Apriamo i regali?» fece impaziente Frank.
«Certo» disse Ed mentre si avvicinava all’albero e prendeva un pacco.
Tornò al suo posto e lo diede a me. Lo aprii piano. Era una cintura di pelle, molto bella e penso anche costosa.
«Voltala» mi disse Ed.
Feci come aveva detto e sul retro della fibbia notai che c’era una scritta incisa. “Continua a vivere”.
Ringrazia Ed, non tanto per il regalo, ma per quello che aveva fatto per me in tutto quel tempo. Ovviamente non lo dissi esplicitamente, ma lui capì.
Fu la volta di Victoria che prese un regalo per Ed: un maglione. Anthony regalò a Ed un portafoglio. Frank una bracciale a sua madre. Io un altro bracciale a Victoria, ops. Avanti così finché non fu il mio turno di dare il mio regalo a Frank.
Presi il pacchetto e lo porsi a Frank che mi sorrise. Si rigirò il pacchetto rettangolare fra le mani e alla fine strappò la carta. Trovò un quaderno rilegato in pelle scura. Lo aprì, le pagine leggermente ingiallite per rendere l’idea di un quaderno antico erano attraversate da tante righe.
Frank notò che sulla prima pagina avevo scritto una dedica. La lesse in silenzio senza farla vedere agli altri. Ricordavo le parole a memoria.


Mi dispiace, ma non ho potuto fare di meglio questa volta per il tuo regalo ma spero ti piaccia
comunque. Voglio che tu conservi questo quaderno per sempre, te lo chiedo per favore,
non voglio nient’altro da te. Quella volta che mi hai raccontato del tuo baule ho capito che eri
molto solo, prima che arrivassi, e non voglio che sia più così. Però ci sono dei momenti in cui
la nostalgia, la paura, la solitudine ci assalgono, e non ci possiamo fare nulla.
Questo quaderno sarà colui che ti starà vicino anche quando io non ci sarò, sempre.
Se ne avrai bisogno (anche se spero di no) aprilo, prendi una penna, siediti o distenditi
sul letto e comincia a scrivere, tutto quello che vuoi, sfogati e non lasciare che le tue emozioni
ti cambino o non ti lascino esprimere ciò che davvero provi.
Se farai questo io sarò per sempre con te, sarò la tua ombra fedele, ti seguirò anche in capo al
mondo, sarò il tuo angelo custode.
Promettimi che farai ciò che ti chiedo, qui, adesso e io sarò felice, mi basta questo, Frank.
Voglio che tu sia felice, devi capire che la vita può avere i suoi lati positivi, li devi
solo cercare, e sai dove li puoi trovare? Nel tuo cuore, non c’è altro posto dove tu possa scovarli
Il quaderno ha molte pagine, ma so che prima o poi lo finirai, in tal caso te ne comprerò un altro, se potrò, e se così non fosse fallo tu.
Ricordai che anche se il mondo a volte fa schifo tu se la cosa più bella della mia vita.
Ti amo, Frank.

Il tuo per sempre e solo,

Gerard.


 
Appena ebbe finito di leggere chiuse il quaderno e se lo strinse al petto. Nel frattempo gli altri avevano cominciato a parlare, anche perché l’unico regalo che mancava era quello di Frak per me.
Vidi una piccola lacrima che gli scendeva sulla guancia. Mi avvicinai e gliela asciugai, poi, senza farmi notare, lo baciai. Sentii le sua labbra calde sule mie e poi la sua mano sulla mia guancia.
«Grazie» mi sussurrò. «Ti amo.»
Lo abbracciai, ma poi lui si staccò per andare a prendere sotto l’albero l’ultimo regalo che era rimasto.
Victoria si alzò e come lei anche Ed e Anthony.
«Ragazzi, noi andiamo a tavola» annunciarono, «fate veloce, è pronto.»
Si avviarono verso la sala da pranzo e rimanemmo solo io e Frank.
Strappai la carta del pacchetto e finalmente vidi il mio regalo.
All’inizio vidi solo una scatola di cartone marrone chiaro con una scritta in nero sopra che però non lessi.
Aprii subito. Dentro c’era una scatola di metallo. 120 matite lessi sopra. Conoscevo la marca delle matite, e non osavo nemmeno pensare quanto Frank avesse pagato quel regalo.
«Ma sei pazzo?» esclamai. Lo baciai e non gli diedi nemmeno la possibilità di rispondere.
«Gerard» fece, «senza offesa, ma le tue matite facevano schifo, sei troppo bravo per disegnare con della matite scarse.»
Lo ringraziai per i restanti sessanta secondi, quando Victoria ci gridò di andare a tavola.
Come sempre Ed aveva esagerato e aveva cucinato una quantità industriale di cibo.
Rimanemmo a tavola fino al pomeriggio a parlare e mangiare, soprattutto mangiare. Ero certo che da quando ero tornato sulla Terra e abitavo con Ed ero ingrassato qualche chilo.
Rimasero tutti anche a cena per mangiare tutto quello che nessuno aveva avuto il coraggio nemmeno di guardare, ovvero una teglia di lasagne, l’arrosto avanzato, una bistecca e un dolce intero.
Mentre mangiavamo il tiramisù, Sam cominciò a mugolare ai piedi di Frank, così questo gli preparò la sua ciotola con le crocchette.
Anche a cena rimanemmo a tavola fino a tardi.
«Anthony» cominciò Victoria, «non è un po’ tardi per guidare fino a casa tua?»
«Esatto» si intromise Frank, «Io rimango da Gerard e papà può dormire in camera mia. Va bene?»
Tutti annuirono e poi Victoria e Anthony se ne andarono.
«E Sam?» chiese Anthony a suo figlio sulla porta.
«Sta con noi» annunciò a suo padre, «non ti preoccupare.»
Frank prese Sam in braccio e andammo in camera mia.
Era davvero tardi, tuttavia non avevamo per nulla sonno.
Vidi Frank prendere uno zaino che non avevo notato ma che probabilmente aveva portato in camera mia quella mattina. Ne tirò fuori un pigiama e se lo infilò.
«Ma tu avevi già programmato tutto?» gli chiesi.
Lui mi rivolse un sorriso furbo e io gli andai incontro per baciarlo.
«Alla fine non sei tonto come pesavo» risi.
Mi tirò un pugno sulla spalla. «Che stronzo!»
Sam era finito sotto la scrivania e dormiva già, era stanco morto.
Ci mettemmo sotto le coperte e lui mi abbracciò.
«Hai sonno?» mi chiese.
«Per mia fortuna no» dissi, «altrimenti mi avresti tormentato.» Gli sorrisi.
Frank sbuffò e poggiò la testa sul mio petto.
«Gerard, cosa vuoi fare domani?» mi chiese.
Mi venne un groppo alla gola e le lacrime cominciarono a salirmi agli occhi, ma le ricacciai indietro.
«Lo decidiamo a colazione, okay?»
Lui annuì. «Certo.»
Avvicinò il suo viso al mio e poggiò piano le sue labbra sulle mie, delicatamente, e io feci lo stesso, come se avessimo potuto farci male. Schiusi leggermente la bocca e continuai a baciarlo.
La sua bocca sapeva di cioccolata, quasi come sempre e amavo quella cosa.
Mi staccai un attimo. «Ma lo sai che quasi tutte le volte che ti bacio sai di cioccolata?»
«Considerando che ci baciamo sempre, vuol dire che mangio tanta cioccolata.»
«Beh» dissi, «la cioccolata è buona.»
Frank mi stampò un bacio sulla tempia. «Non ha molto senso questo discorso» osservò.
«Lo so» ammisi, «ma mi piace tanto la cioccolata.»
Frank fece un risolino contro il mio viso e il suo fiato mi fece il solletico.
Si accorse che mi aveva fatto il solletico e, allontanando un po’ la sua bocca dal mio viso, mi soffiò sulla guancia e io mi ritassi. «Mi da fastidio» mi lamentai.
Lui mi si accoccolò addosso. «Dai» mi pregò.  
«Smettila, altrimenti te lo faccio io il solletico» lo minacciai. «E lo sai che è peggio.»
Sbuffò per l’ennesima volta. Sarebbe stata una delle ultime volte che lo sentivo sbuffare.
Si issò con i gomiti sul mio petto per baciarmi e tenermi il viso fra le sua mani, che, se prima erano fredde, si stavano a poco a poco riscaldando. Anche le sue labbra diventavano sempre più bollenti.
Mi staccai un attimo dal bacio per riprendere fiato. «Ti amo» mormorai sulla sua bocca.
«Anche io ti amo» rispose, e riprese a baciarmi.
La sua bocca era morbidissima, anche se le labbra erano un po’ screpolate. Gli accarezzai piano i capelli e scesi fino al collo, appena lo sfiorai lo sentii rabbrividire. Sorrisi sulle sue labbra e lui fece lo stesso.
Sentivo il suo petto che stava sopra il mio, ma non mi pesava, solamente percepivo la sua presenza senza che mi desse fastidio.
Cominciai ad accarezzargli la schiena piano, soffermandomi sull’incavo che i muscoli e la spina dorsale creavano al centro.
Lui mi passò le braccia dietro al collo e mi abbracciò strettamente come se avesse paura che potessi scappare, come avrei mai potuto fare una cosa del genere?
Continuai a passare la mia mano sulla sua schiena e con l’altra presi ad accarezzargli il viso. Le guance morbide e levigate, gli occhi chiusi, le tempie lisce. Non so cosa avrei fatto per un altro momento del genere, perché quello sarebbe stato l’ultimo, ne avevo la consapevolezza, non c’erano altre alternative. Il giorno dopo avrei dovuto trovare una scusa per non stare con Frank e poi sarebbe successo. Sarei tornato indietro nel tempo, e lui si sarebbe completamente scordato di me, come se non mi avesse mai conosciuto, come se non si fosse mai innamorato di me, come se non mi avesse mai baciato, come se non fossi mai esistito. Da quel momento sarei stato solo un’ombra del passato, o in questo caso direi del futuro, forse un sogno mal ricordato. Ma era meglio se fossi letteralmente scomparso dalle menti di tutti quelli che avevo conosciuto: Frank per primo, Rachel, Jimmy, Victoria, Anthony.
Era terribile, ma era la realtà, era la mia realtà, e la dovevo accettare per forza. È come chi nasce cieco o con qualche handicap, purtroppo non ci può fare nulla, deve solo accettare la sua condizione e imparare a conviverci. Io dovevo imparare a convivere con il costante pensiero in testa che avevo amato una persona, e avrei continuato ad amarla, ma quella persona non mi poteva amare, semplicemente perché non sapeva chi fossi.
Interruppi un attimo il bacio e Frank poggiò la testa nell’incavo fra il mio collo e la spalla. Aveva il collo scoperto e ne approfittai per lasciargli qualche bacio. La sua pelle lasciava un tepore piacevole sulle mie labbra e continuai a baciargli lentamente il collo, lasciando che passasse qualche secondo fra un bacio e un altro.
Arrivai alla base del collo e succhiai leggermente la pelle.
Alzai la testa e mi soffermai un attimo a guardalo. Aveva gli occhi socchiusi, ma sapevo che riusciva a vedermi. Aveva le labbra leggermente incurvate verso l’altro come in un sorriso, e i capelli spettinati gli andavano un po’ sulla fronte.
«Sei bellissimo» mormorai.
Lui aprì gli occhi del tutto. Nonostante fosse praticamente tutto buio li vidi luccicare.
«Tu sei bellissimo» replicò e posò la sua bocca sulla mia riprendendomi a baciare.
Io ripresi ad accarezzargli la schiena e sollevai la leggera maglia del pigiama per accarezzare la pelle nuda  e liscia. Lo sentii rabbrividire. Frank si staccò dal bacio e poggiò la testa sul mio petto, esattamente dove c’era il cuore.
«Ti sento battere il cuore» disse piano, come se non volesse spezzare la bellezza di quel momento.
«Menomale» osservai, «altrimenti sarei morto.»
Frank rise per poi sollevarsi di nuovo facendo combaciare la sua fronte con la mia.
Gli alzai il mento e lo baciai, gli accarezzai la schiena e anche lui cominciò a fare lo stesso.
Riprese a baciarmi e ogni tanto io mi staccavo per lasciargli qualche bacio sul collo.
«Frank» lo chiamai dopo un po’. «Posso chiederti una cosa? Una promessa.»
Lui si appoggiò a me e annuì. «Mhmh.»
«Voglio che passiamo questa notte come se fosse l’ultima.»
Pensai per un momento che la mia richiesta potesse risultare assurda, dopotutto lui non pensava sarebbe stata l’ultima, ma io sapevo che era così.
Tuttavia non fece domande e mi diede un bacio sul cuore. «Te lo giuro» affermò. «e sarà così per sempre.»
Lo abbracciai e facendo attenzione che non mi vedesse lasciai che una lacrima mi scendesse sulla guancia.


 

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Capitolo 20
*** L’ultimo bagliore del sole ***


 
 
 

20

L’ultimo bagliore del sole





 
 
«Sei pronto?» mi chiese Ed.
«No» scossi la testa, «come potrei?”
«Gerard» disse comprensivo, «lo so che è dura, ma ce la devi fare.»
Mi abbandonai sul divano e chiusi gli occhi. Era da tutta la mattina che un atroce dolore alla testa mi impediva persino di pensare razionalmente. Ed mi aveva detto che era normale poco prima di un salto nel tempo, ma questo non voleva dire che lo accettassi più volentieri.
Appena mi ero svegliato, avevo visto Frank accanto a me. Le labbra sue erano leggermente socchiuse.
Lo avevo baciato piano, e lui si era voltato bruscamente per continuare a dormire. Così l’avevo abbracciato e lo avevo coperto fino sopra alle spalle per non fargli prendere freddo.
«Hai dormite bene?» gli avevo chiesto.
Alla fine si era voltato verso di me, senza sciogliersi dall’abbraccio e mi aveva baciato.
«Benissimo» aveva sussurrato sorridendo.
Appena eravamo scesi per fare colazione, Ed aveva detto che io e lui saremmo dovuti andare via per il pomeriggio perché aveva saputo che una sua carissima amica aveva partorito e aveva piacere ad andare con me a vedere il bambino.
Avevo subito ringraziato Ed mentalmente perché mi aveva evitato di inventare una scusa a Frank, che in ogni caso non sarebbe risultata credibile.
E in quel momento mi trovavo seduto su quel divano, nel tentativo di trovare il coraggio e la forza di volontà per alzarmi e dire a Ed che finalmente ero pronto.
Non avevo nemmeno salutato Rachel, Jimmy, Victoria e Anthony. Avevo visto per l’ultima volta i primi due la Vigilia e gli altri per Natale. Ma quando li avevo salutati non l’avevo fatto con la consapevolezza che non li avrei più rivisti. Forse, però, alla fine era meglio così: avrei solo rischiato di mettermi a piangere mentre se ne andavano, e non mi sembrava per nulla il caso.
Tuttavia, quando era andato via Frank, non avevo pianto, il dolore e la tristezze erano troppo forti, non riuscivo nemmeno a far uscire una lacrima, e forse avrei voluto, mi sarei sfogato, e avrei buttato fuori tutte le emozioni negative che provavo, ma non c’era nulla da fare.
«Hai tempo solo un’altra ora» mi ripeté Ed per l’ennesima volta. Era da circa due ore che mi faceva il conto alla rovescia al termine del quale, volente o nolente, sarei tornato indietro nel tempo. L’alternativa era che mi decidessi ad andare di mia spontanea volontà, forse sarebbe stato meno traumatizzante.
«Ti devi solo concentrare» mi spiegò. «Concentrati e pensa intensamente e quello che devi fare. Tu devi tornare a poco prima che avvenga la tua morte e evitarla: tutto qui. Ma lo devi volere.»
Sospirai, una rabbia cieca mi stava salendo nel petto. «Tu credi che sia così facile lasciare tutto questo?»  gridai. «Lasciare le persona che ho conosciuto, a cui mi sono affezionato. Lasciare Frank! Tu lo sia che io lo amo, non ce la faccio.»
Ed si sedette accanto a me sul divano e io seppellii il mio viso fra le mani. «Puoi sempre scegliere di fare la Guida.»
«Non voglio fare quello che fai tu!» esclamai convinto. «Non voglio vedere la gente che soffre per tutta la vita.»
«Per più di tutta la vita» precisò Ed.
Lo guardai confuso. «In che senso?»
«Le Guide sono immortali» spiegò.
«Non me l’avevi mai detto.» Non ero molto stupito, da quando mi ero svegliato in quel luogo bianco, niente era in grado di stupirmi, eccetto Frank.
Ed alzò le spalle con noncuranza. «Vuoi che ti ripeta cosa accadrà fra poco?» chiese. E senza aspettare una risposta fece quello che aveva detto. «Sarai trasportato indietro, fino a poco prima la tua morte. Non so esattamente quanto prima, almeno un’ora o due, se non di più. Questo tempo ti servirà essenzialmente per ricordare come sei morto, se non lo sai già, e per riflettere su come evitare di morire. Non sempre le persone che hanno avuto una seconda possibilità lo capiscono, e ricadono nella trappola. Molto spesso sono sottoposti a delle prove, diciamo, e la loro morte è stata causata solo dai salti nel tempo. Sono più pericolosi di quanto immagini. La seconda possibilità viene anche concessa per far capire che le occasioni vanno colte, e anche un secondo in più o in meno ci può cambiare per sempre la vita.»
Sbuffai impaziente, mi aveva ripetuto quelle parole circa cinquanta volte, solo le ultime frasi cambiavano. Non che avessi ascoltato davvero tutte le volte la sua cantilena.
Andai in cucina e presi un bicchiere d’acqua. Lo bevvi in un unico sorso e poi mi sciacquai il viso. Tornai in salotto da Ed.
«Tu cosa farai dopo che sarò andato?» gli chiesi curioso.
Alzò le spalle di nuovo. «Mi sarò assegnato qualcun altro, se c’è un qualcun altro. Altrimenti tornerò alla mia casa finché non riceverò un altro incarico. Non sono molte le seconde occasioni che danno di questi tempi. Mi hanno raccontato che anni fa ero molti di più quelli che venivano portati nel luogo bianco per aiutare le persone e tornare a vivere. Penso per due motivi. Prima di tutto perché la gente moriva più spesso, e poi le persone da aiutare erano di più. Oggi sono tutti troppo superficiali per farsi dare una mano.»
Mi infilai le mani in tasca e presi un respiro. «Sono pronto» annunciai all’improvviso.
«Davvero?» fece Ed stupito. «Bene. Chiudi gli occhi.» Obbedii. «E pensa intensamente solo alla tua missione. Devi arrivare a poco prima la tua morte, questa è l’unica cosa che conta, okay?»
Mi concentrai più che potevo e feci quello che mi aveva detto Ed.
Strinsi gli occhi fino a quando mi fecero male. Non avevo il coraggio di aprirli, ma poi sentii una folata di vento freddo sulla nuca e spalancai gli occhi sconcertato.
Ero in uno stretto vicolo sporco, molto probabilmente della città in cui abitavo. Ero in piedi, con le mani in tasca, proprio come lo ero un secondo prima. Solamente non mi trovavo nella casa di Ed, quella che era diventata la mia, e in quel momento ero in un vicolo pieno di topi e di bidoni della spazzatura. Uscii da lì e mi affacciai per strada. Chissà quale era la via per arrivare a casa mia. Improvvisamente un percorso chiaro e definito mi si aprì nella mente. Inoltre, quando pensai alla parola casa mi si formò nella mente la chiara immagine di un edificio, poi di scale e di una porta che dava su un salotto. Sul divano erano seduti mio fratello, mia mamma e sulla poltrona mia nonna.
Capii che avevo recuperato completamente la memoria della mia vita passata. Ricordi della mia scuola, di vecchi amici, gite, feste di compleanno che mi si accumularono in mente e mi dovetti appoggiare a un muro per non cadere. Le visioni che avevo avuto erano solo un assaggio della mia vita, che non si poteva definire esattamente felice, non avevo nemmeno un padre.
Presi a camminare senza una meta, per quelle strade che adesso mi erano terribilmente familiari. Mi sembrava quasi di camminare in un sogno, anzi, in un incubo.
Sentii il vento gelido che mi penetrava nelle ossa, non era molto freddo a dire la verità, ma io avevo addosso solo la felpa.
Sfilai le mani dalle tasche dei pantaloni e le infilai in quelle della felpa, che erano decisamente più calde e morbide.
Mi passò accanto un ragazzo che appena mi vide mi fece un cenno di saluto con la mano, non ricambiai e continuai a camminare.
Svoltai un angolo e la luce del sole mi colpì gli occhi. Era ancora giorno, e io ero morto solo al tramonto, avevo ancora tempo.
Cominciai a pensare a Frank. In quell’esatto momento si era già dimenticato tutto, non aveva il minimo ricordo di me, ero stato rimosso dalla sua mente per sempre.
Una lacrima mi scese sulla guancia e non l’asciugai, non ce n’era motivo.
Frank, Frank, Frank.
Era l’unico pensiero che riusciva ad attraversarmi in quel momento e calde lacrime cominciarono a scendermi più numerose sul viso. Volevo abbracciarlo, volevo baciarlo, non desideravo altro, ma non potevo.
Cominciai a respirare più affannosamente e l’aria che espellevo dalla bocca si condensava in piccole nuvolette. Mi era sempre piaciuto vedere il vapore che usciva a ogni respiro, spesso mi incantavo nel farlo. Mi rendevo conto che forse era una cosa stupida, ma mi piaceva.
Respirai più forte di proposito, e un’altra nuvola si condensò davanti ai miei occhi, creando volute fino a scomparire. Concentrandomi solo su quello riuscii a smettere di piangere.
Un pensiero mi attraversò come un treno in corsa. Ed aveva detto che nessuno di quelli a cui era stata data una seconda possibilità aveva in qualche modo incontrato di nuovo chi aveva aiutato, ma non pensavo ci fosse una legge che vietasse di rivedere una certa persona. Tuttavia nessuno l’aveva mai fatto e un motivo c’era, l’avevo capito.
Ero terrorizzato all’idea di vedere come era Frank, se il mio aiuto aveva davvero funzionato. Se era ancora amico di Rachel e Jimmy, se con suo padre andava tutto bene. Non avevo ben capito come funzionava la storia dei salti nel tempo, era abbastanza complicata come cosa, ma sapevo che del periodo che avevo passato con Frank, lui aveva dimenticato solo me, quindi queste persona facevano ancora necessariamente parte della sua vita.
Corsi alla stazione e quasi involontariamente controllai le partenze. C’era un treno dopo cinque minuti per andare da Frank, volevo solo vederlo un’ultima volta, poi, quello che sarebbe successo dopo, l’avrei deciso, o forse l’avrebbe deciso il destino.
Non comprai nemmeno un biglietto, che senso avrebbe avuto? Mi diressi al binario e quando il treno arrivò, salii sopra velocemente. Non sapevo esattamente quanto tempo ci sarebbe voluto per arrivare da Frank, ma non m’importava.
Mi sedetti vicino al finestrino e fissai fuori. Appena lasciata la stazione, una periferia degradata si stagliò davanti ai miei occhi.
Pensai che dopotutto avevo passato i tre mesi più belli della mia vita, e anche se dopo sarebbe successo il peggio, li avrei sempre portati con me, sempre, non avrei avuto il modo o la possibilità di dimenticare.
Il treno si fermò con uno stridio dopo circa un’ora e io scesi di corsa dal vagone, facendo quasi cadere una signora che mi intralciava il passaggio.
Quando eravamo andati dal padre di Frank, dalla stazione a casa sua in macchina ci avevamo impiegato circa cinque minuti. Io non avevo altra scelta se non quella di andare a piedi.
Cominciai a camminare, non conoscevo bene la strada. Per fortuna non era molto trafficata e c’erano dei cartelli.
Scalciai un sassolino e lo feci rotolare in mezzo alla strada. Alzai lo sguardo al cielo, il sole stava calando, ma mancava almeno un’ora e mezzo, se non di più, al tramonto.
Cominciai a intravedere le case che mi erano diventate molto familiari in quei mesi. La casetta blu con il giardino enorme, quella gialla con sempre almeno tre macchine parcheggiate davanti.
Continuai a camminare, sempre con le mani nelle tasche della felpa. Passai davanti alla casa dove avevo vissuto tutto quel tempo e abbassai subito lo sguardo con un groppo alla gola. Ancora cinque minuti e sarei arrivato a casa di Frank.
Furono i cinque minuti più lunghi della mia vita, e in quel tempo cercai di trattenere le lacrime.
Non avevo intenzione di parlargli, volevo solo vederlo, per l’ultima volta, anche da lontano, non importava avvicinarmi troppo, conoscevo ogni dettaglio del suo viso a memoria, ogni sua espressione.
La sua casa mi si stagliò davanti come un miraggio, per un momento pensai di stare sognando.
La macchina di Victoria non c’era, come sempre, le luci erano tutte spente, evidentemente nemmeno Frank era in casa. Una cosa mi colpì: Sam stava correndo in giardino. Mi avvicinai al piccolo cancelletto e Sam cominciò a scodinzolare dietro a questo. Provai a vedere se riuscivo a far passare la mano attraverso le sbarre, e fortunatamente ce la feci. Accarezzai la testa del piccolo cagnolino, e mi chiesi se lui si ricordasse di me. Non ero così convinto che per lui fosse come per tutte le persona, secondo me poteva riconoscermi, e le sue feste non facevano altro che confermarlo. E poi è risaputo che i cani hanno un sesto senso.
A malincuore dovetti salutarlo per andare a cercare Frank anche se non sapevo esattamente dove potevo trovarlo.
Decisi di cominciare dalla piazza della biblioteca.
Mi incamminai verso la destinazione prefissata e quando vi giunsi cominciai a guardarmi intorno. Feci un giro in biblioteca per vedere se non fosse per caso lì, a studiare, ma non c’era. Allora cominciai a girovagare per la piazza, entrando in qualche negozio o bar dove avrei potuto trovarlo.
Non era nel negozio di dischi e nemmeno al bar in cui una volta avevamo preso la cioccolata. Perlustrai tutta la piazzo ma non lo vidi.
Così decisi di incamminarmi verso il parco, o era lì, o non avevo idea di dove potesse essere.
Durante il breve tragitto sentii l’ansia che mi montava in petto, la paura stava salendo, e non c’era nemmeno un vero motivo.
Appena arrivai al parco notai che il sole era ancora in una parte del cielo che mi avrebbe concesso abbastanza tempo, così cominciai a camminare per il parco.
Ad un certo punto sentii qualcuno che parlava. Era una voce femminile, ma non riuscivo a capire se mi fosse familiare o no. Seguii il suono e dopo poco anche una voce maschile mi soggiunse alle orecchie: Frank. L’avevo trovato, e la ragazza era Rachel, sicuramente c’era anche Jimmy.
Mi avvicinai ancora e li vidi su una panchina che parlavano allegramente. Non riuscivo bene a capire il discorso, riconoscevo solo qualche parola. Mi nascosi dietro un albero, non volevo che mi vedessero.
Frank rideva, era felice, davvero tanto felice, ce l’avevo fatta e capii una cosa che non avrei mai voluto capire.
Gli ultimi sprazzi di tristezza che aveva avuto erano causa mia, io lo facevo soffrire. L’avevo aiutato, era vero, ma l’avevo anche fatto stare male. Lui non se lo meritava. Forse sarebbe stato meglio non averlo mai conosciuto.
La consapevolezza di ciò mi assalì e ricominciai a piangere silenziosamente, per non farmi sentire da loro tre.
Sentivo che il cuore mi sarebbe potuto scoppiare da un momento all’altro e in quel momento avevo solo voglia di farla finita.
Sarei dovuto essere felice per Frank, e da una parte lo ero, ma ero anche un fottuto egoista che non si faceva una ragione del fatto che fosse finita. Questa storia poteva essere semplificata con poco: era come se in un certo senso io e Frank ci fossimo lasciati, non stavamo più insieme. Se avessi affrontato questo fatto con quello spirito forse non avrei avuto una reazione così negativa. Ma non ci eravamo semplicemente lasciati, ero stato rimosso dalla sua mente nello stesso modo in cui si può gettare un vecchio oggetto.
Stavo male, psicologicamente e fisicamente. Non riuscivo a reggermi in piedi e mi faceva male lo stomaco.
Li guardai per un ultima volta e mi voltai.
Il parco non era molto grande e decisi di andarmene da lì, avrebbero potuto vedermi, e non volevo. Intravidi un piccolo viottolo che scendeva e lo imboccai, volevo stare da solo, per sempre. La piccola strada era quasi immersa nel bosco, era sterrata, forse mi piacevano le strade sterrate perché erano come me: spoglie.
Continuai a camminare, ma forse erano i piedi che mi mandavano avanti, non ero io che decidevo questo. Sentii il gorgoglio dell’acque, forse c’era un ruscello. Decisi di seguire il rumore, era abbastanza piacevole, ma in un certo senso mi metteva uno strano senso d’inquietudine, sembrava quasi un orologio che stava segnando i minuti mancanti alla mia fine. Perché quella era davvero la fine. Avevo perso Frank, per sempre.
Inciampai su un ramo che sporgeva dal terreno, ma non caddi, riuscii ad aggrapparmi ad un albero e riacquistai l’equilibrio.
Sentii il canto degli uccelli e mi fermai un attimo a pensare.
Non volevo più stare con la mia famiglia. Non vivevo con loro da molto tempo e mi sentivo come se non fossero più davvero la mia famiglia. Per troppo il mio punto di riferimento era stato Ed, era stato un po’ come un padre, insomma, litigavamo, mi sfogavo con lui, aveva sempre un consiglio pronto. Dopotutto anche Victoria era stata importante, nonostante fosse una mamma distratta e poco attenta alla famiglia, era una brava donna. Con Anthony avevo passato davvero poco tempo, ma speravo che sarebbe potuto essere un padre per Frank. Poi c’era stato Ray, non riuscivo ancora a perdonarmi per la sua morte, mi sentivo terribilmente colpevole, ero stato io la causa di tutto, potevano dirmi quello che volevano, ma la colpa rimaneva la mia. Era stato davvero un buon amico, era sempre disposto a fare due chiacchiere con me e si era lasciato aiutare e, come ho sempre pensato, non è una cosa anche fanno in molti.
Rachel e Jimmy mi avevano fatto capire che gli amici non ti giudicano mai, ti accettano per quello che sei, altrimenti non sono tali. Avevamo passato molto tempo insieme e avevo scoperto molti lati di loro. Jimmy, nonostante sembrasse molto introverso, si apriva con chi si sentiva al sicuro e ti faceva sempre sentire e casa ovunque tu fossi. Rachel, invece, era una ragazza gentilissima, sempre disponibile, sensibile, sapeva sempre come farmi ridere anche se ero triste. Non mi sarei mai scordato quella volta in cui, dopo che avevo litigato con Frank, mi aveva regalato tantissimo tempo. Si era presa cura di me, mi aveva parlato e mi aveva fatto comprendere la verità: Frank mi avrebbe amato incondizionatamente, e il fatto che avessimo litigato non significava nulla. Tutti litigano.
Infine c’era lui: Frank. Non sapevo cosa pensare. Avevo fatto talmente tanti pensieri su di lui che in quel momento sembrarono esaurirsi. Solo due parole mi si stagliarono nella mente, ed erano rivolte a lui: ti amo.
Lui mi aveva amato, e io lo amavo, e questo non sarebbe mai cambiato.
Mi riscossi dai miei pensieri quando intravvidi un ponte malandato: il ponte.
Lo raggiunsi e passai una mano sul legno vecchio. Scavalcai il parapetto e mi sedetti con le gambe ciondoloni verso il vuoto. C’era solo acqua. Dondolai le gambe come fanno i bambini mentre giocano, ma quello non ero un gioco, era la cruda e vera realtà.
Mi voltai, c’era in tramonto, era bellissimo. Le tonalità dell’arancio e dell’azzurro si confondevano creando giochi di colore fra le foglie e sull’acqua.
Guardai di sotto e poi di nuovo il sole, mancava poco e sarebbe scomparso dietro l’orizzonte. Pensai che non c’era cosa più bella di quello spettacolo. Un senso di pace e tranquillità mi attraversò, e pensai che forse tutti si sentono così poco prima di morire.
Un formicolio alla schiena mi spinse a guardare un ultima volta il sole. Alla fine tramontò e vidi il suo ultimo bagliore. Era quello il segnale, lo sapevo, feci per lasciarmi andare, quando sentii una mano che mi teneva.
«Cosa stai facendo?» ansimava, aveva corso.
Vi voltai di scatto e quasi pesi l’equilibrio. Mi stabilizzai e tornai al sicuro, in piedi sul ponte.
Davanti a me c’era Frank. Era come l’ultima volta che l’avevo visto. Bellissimo, con i capelli scuri spettinati sulla fronte, la pelle chiara. Pensai che sarei potuto vivere per sempre solo guardandolo.
Non riuscii a rispondere, ero incantato. Mi guardò con aria interrogativa.
«Io...» cominciai.
Lui mi sorrise e fece un gesto di noncuranza con la mano. «Non mi devi spiegazioni» disse. «Ma non penso che buttarsi da un ponte sia la soluzione migliore »
«Come hai fatto a trovarmi?»
«Ti ho visto al parco» spiegò, «mi sembravi distrutto e sei corso verso qua, e ho pensavo che avessi bisogno di una mano.»
Non riuscii a trattenere una lacrima e questa mi scese per il viso. Ma non era una lacrima di tristezza, era una lacrima di gioia. Frank era lì con me, e anche se non sapeva nemmeno il mio nome, non mi importava, gliel’avrei detto.
Lui se ne accorse e mi posò una mano sulla spalla. «Ehi» fece comprensivo, «non ti devi preoccupare, è tutto okay.»
Mi asciugai la lacrima e gli sorrisi. Non riuscii a trattenermi e lo abbracciai. Per un momento rimase immobile, poi ricambiò l’abbraccio. Ripresi a piangere e a singhiozzare, non trattenni nemmeno una lacrima, non avrebbe avuto senso, lui era lì con me e con lui potevo esprimere tutto quello che provavo.
Mi sfogai, e quando ebbi finito sciolsi l’abbraccio e notai che era un po’ impacciato.
«È tutto okay adesso?» mi domandò premuroso.
Io annuii tirando su col naso. Gli sorrisi di nuovo per dargli la conferma che quello che avevo detto era vero.
«Vuoi che ti accompagni a casa?» propose. «Altrimenti io e un paio amici andiamo a mangiare una pizza, magari ti va di venire con noi.»
Sorrisi per l’ennesima volta. «Grazie, ma preferisco rimanere un po’ da solo.»
«Solo se mi prometti che non tenterai di buttarti giù da un palazzo» disse con leggerezza.
«Lo prometto» dissi ridendo.
«Allora posso andare?» chiese conferma. «Sei sicuro?»
«Davvero» annuii, «sto molto meglio. Grazie mille.»
«Bene» sorrise. «Allora io vado.»
«Mi dispiace per la pizza» mi rammaricai. «Sarà per un'altra volta.»
«Certo» affermò, «io abito in questa città, se anche tu sei di qui ci vedremo sicuramente in giro.»
Annuii e lo salutai con una mano. Poi lui si girò e fece la strada all’indietro.
Che cosa avevo fatto? L’avevo appena mandato via, aveva sprecato un’occasione. Le lacrime stavano per riempirmi di nuovo gli occhi, quando sentii il rumore di foglie calpestate. Qualcuno stava arrivando.
Si stava facendo sempre più buio, ma riconobbi subito la figura che mi stava venendo incontro.
Frank si fermò a pochi passi da me, era tornato indietro.
Mi guardò con gli occhi sbarrati. «Gee…» mormorò con le lacrime agli occhi.
Mi saltò addosso e mi abbracciò, scoppiando a piangere. «Ti amo.»
La prima volta l’ultimo raggio del sole, prima che questo calasse del tutto, era stato la causa della mia morte, ma era stato anche il motivo per cui avevo incontrato Frank e me ne ero innamorato.
La seconda volta mi aveva quasi ucciso, come la prima, ma mi aveva anche salvato vita, Frank mi aveva salvato la vita. Promisi a me stesso che il giorno dopo avrei guardato il tramonto con Frank, e avrei ringraziato quell’ultimo bellissimo bagliore del sole.

 



Fine

 

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