Judgement Day, a second chance

di Fink
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Il signor Oshimaida ***
Capitolo 3: *** Le persone cambiano ***
Capitolo 4: *** Ritorno in città ***
Capitolo 5: *** Effetti collaterali ***
Capitolo 6: *** Capire ***
Capitolo 7: *** Epilogo (prima parte) ***
Capitolo 8: *** Epilogo (seconda parte) ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Vi ricordate la mia prima long (libri e misteri)? bene, dimenticatela. O meglio consideratela una storia a sè, senza alcun sviluppo successivo.
Questa che vi propongo è una premessa alternativa a "Conosci te stesso"... ovviamente il finale, come potrete immaginare sarà un po' scontato dato il sequel, però spero che lo svolgimento vi incuriosisca lo stesso...



Disclaimer: i personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà si D. P. Bellisario e di D. McGill che ne detengono tutti i diritti.




JUDGEMENT DAY, A SECOND CHANCE

 

CAPITOLO PRIMO. Prologo

 

12 Maggio. Ore 16.15

 

Washington D.C.– Casa di Gibbs

 

Gibbs era seduto al buio nella sua cantina accanto alla barca ancora in costruzione, in una mano teneva uno dei proiettili della sua pistola e nell’atra la foto di quello estratto dal corpo “della Rana”, coincidevano perfettamente.

La realtà dell’accaduto gli si presentava davanti in modo palese e immediato: ricordava benissimo quando, poche settimane prima, aveva appoggiato il proprio caricatore sul tavolo nello studio in penombra che era stato del padre di Jen. Ricordava anche come lei glielo avesse restituito, completo di tutti i proiettili.

Eppure ogni indizio era lì davanti a lui, e non c’era possibilità di errore: ricordava lo sguardo mesto di Jen mentre posava il caricatore sulla sua scrivania, ringraziandolo. Era ancora la stessa Jen eppure qualcosa era cambiato, come mai non se ne era accorto? Rigirò tra le dita il proiettile appena preso dal caricatore e lo confrontò per l’ennesima volta con quello della foto: erano identici. Bevve un sorso di bourbon e si appoggiò allo schienale della sedia. Perché non ci aveva pensato? Perché lei non aveva chiesto il suo aiuto, perché poi avrebbe dovuto. La conosceva abbastanza da sapere quanto fosse orgogliosa e testarda e quanto difficilmente accettasse l’aiuto di qualcuno, compreso il suo. Ma come poteva biasimarla. Lui stesso si era vendicato, lui stesso aveva rincorso l’assassino della sua famiglia fino in Messico, nessuno a quel tempo avrebbe potuto fargli cambiare idea, era accecato dalla vendetta e dall’odio. Sapeva che se mai la cosa fosse stata scoperta avrebbe potuto compromettere la sua carriera, ma era disposto a correre questo rischio. Gibbs prese uno dei fogli di carta vetrata che era sul tavolo e si avvicinò allo scafo della barca e cominciò a levigare lo scafo, seguendo attentamente le venature del legno, continuando a pensare al direttore.

Jen aveva fatto esattamente la stessa cosa, aveva dato la caccia all’assassino del padre per anni e quando le si era presentata l’occasione buona aveva portato a termine la sua vendetta a costo di rimetterci la carriera. La C.I.A. sembrava aver addossato la colpa del delitto ad un concorrente, ma per quanto la cosa sarebbe rimasta celata? Lui sembrava essere l’unico a conosce la verità, almeno per ora. Forse era proprio quello che Jen sperava, forse nel restituire il caricatore era celata una silenziosa richiesta di aiuto. Leon Vance si sarebbe aggrappato a qualsiasi cavillo, Jen era un ottimo direttore, non meritava questo.

Prese il cellulare che aveva distrattamente appoggiato su uno dei ripiani e compose il numero della Shepard.

 

∂∂∂

 

12 Maggio. Ore 17.00

 

Los Angeles – Deserto

 

Tony e Ziva aprirono la porta della tavola calda ed entrarono con le pistole spianate: l’aria era impregnata dall’odore della polvere da sparo e quattro corpi giacevano a terra ormai privi di vita, affogati nel loro stesso sangue, c’erano bossoli ovunque: sembrava si fosse svolta una piccola guerriglia. Un gemito soffocato proveniente da dietro il bancone attirò la loro attenzione e i due agenti avanzarono piano con le armi ancora strette in pugno. Jen era seduta a terra, la schiena appoggiata alla parete, la bella camicia azzurra era impregnata di sangue, aveva gli occhi chiusi e il viso terreo. Tony e Ziva si guardarono con gli occhi terrorizzati poi Tony prese coraggio e le si avvicinò per sentire il battito.

“È solo svenuta.” Disse una voce roca alle loro spalle.

Mike Franks si avvicinò a loro, la camicia strappata, il volto tirato e imperlato di sudore, mentre un rivolo scarlatto scendeva dalla fronte lungo la guancia ispida.

“Mike…ma…?”chiese Ziva preoccupata.

“Un colpo di rimbalzo, è solo un graffio.”

“Il direttore?”

“Ho fermato l’emorragia con la camicia” disse indicando i lembi di stoffa legati attorno alla vita di Jen “un colpo di striscio le ha colpito il braccio, ma uno dei proiettili temo abbia fatto qualche danno in più … ho già chiamato l’ambulanza.”

“Cosa è successo?” chiese Tony.

“Non qui DiNozzo… aspettiamo l’ambulanza.”

In quello stesso istante il cellulare di Jen squillò, Tony lo prese tra le mani e lesse sul display il nome di Gibbs.



Spero di essere riuscita ad incuriosirvi almeno un pochino con questo brevissimo inizio... se vi va fatemi sapere cosa ne pensate.

Un abbraccio
Fink

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Capitolo 2
*** Il signor Oshimaida ***


Disclaimer: i personaggi sono di proprietà di D. P. Bellisario e D. McGill che ne detengono tutti i diritti. Tutto ciò che invece esula dalla trama originale della serie è attribuibile a me.



CAPITOLO SECONDO. Il signor Oshimaida

 

 

13 Maggio. Ore 8.00

 

Los Angeles - Deserto

 

L’auto si fermò con una brusca frenata, sollevando una nube di polvere sottile che si posò sulla vettura, imbiancando la carrozzeria.

“Vi avevo chiesto di aspettare.” Sbottò Gibbs rivolgendosi ai due agenti che stavano trasportando alcuni scatoloni su un pick-up scuro.

“Ma io non potevo.”rispose una voce maschile dalla soglia.

“Leon!”

“Tu hai chiamato il Secnav e loro hanno chiamato me. Ai piani alti sono un po’nervosi. Prima il direttore viene sospeso perché si teme un coinvolgimento nell’omicidio di un trafficante d’armi e ora, a tre giorni dal suo reintegro, è coinvolta in una sparatoria in mezzo al deserto.”

“Un bel ginepraio eh? Hanno mandato te a ripulire la stalla?” concluse l’agente anziano con una nota ironica.

“Non scherzare con me Gibbs.” Vance spostò lo stuzzicadenti da un lato all’altro della bocca e si voltò per entrare nella tavola calda, seguito a poca distanza dall’agente.

Alcuni cartellini numerati erano disposti a terra, segnando il punto di giacitura dei bossoli e dei cadaveri; poco oltre il bancone, un foglietto di carta indicava dove si trovava il corpo del direttore. Gibbs guardò la pozza di sangue raggrumato, immaginando la figura inerme di Jen distesa a terra e sentì un improvviso conato salirgli alla bocca dello stomaco, che cercò di ricacciare con la stessa rapidità con cui si era presentato. Si girò verso il vicedirettore, che stava tentando di ricostruire la dinamica dell’accaduto “erano in quattro, due sono entrati dalla porta d’ingresso, gli altri due dal lato. Ha aperto il fuoco contro il primo, che si è accasciato qui, poi si è rivolta verso il secondo. Il terzo e il quarto le sono arrivati alle spalle…Mike Franks è entrato dalla porta sul retro.”

“Deve aver colpito l’uomo alle spalle.”

“È così che i tuoi uomini proteggono il direttore di un’agenzia federale Gibbs!? Dovrei sospenderli.”  

“I miei uomini non hanno commesso nessun errore.”

“Sei pronto a garantire per loro?”

“È il mio distintivo che vuoi Leon? O punti al posto di direttore?”

Vance incassò il colpo “Tu resti qui a sovrintendere la mia indagine. Voglio sapere cosa è successo qui dentro.”

“Quando lo saprò te lo dirò Leon.” Rispose l’agente e uscì.  

“Capo…” DiNozzo si fermò davanti a Gibbs con in mano uno degli scatoloni colmi di reperti, poteva leggergli l’apprensione e il senso di colpa sul viso.

“Non è colpa tua Tony, hai eseguito gli ordini.”

“Franks è con il direttore.” Lo informò Ziva: cerva di nasconderlo, ma la sua postura e la sua voce tradivano una certa apprensione.

“Lo so. Voglio che voi ritorniate a Washington con i corpi e tutto il resto. Tony, tu condurrai l’indagine da Washington fino al mio ritorno.”

“Tu dove vai?”

“A parlare con Mike.” Tuonò Gibbs prima di incamminarsi verso l’auto e comporre il numero di Ducky.

Tony e Ziva lo guardarono allontanarsi lungo la statale, poi si rivolsero al vicedirettore Vance “qui abbiamo quasi finito, signore.”

“Bene. Mi aspetto un rapporto dettagliato dell’accaduto, appena sarete rientrati.” Concluse prima di sparire nel pick-up e mettere in moto.

“Non sei l’unico ad averla lasciata da sola Tony.” Bisbigliò Ziva mentre raccoglieva la macchina fotografica.

“Sono l’agente più anziano. La responsabilità era mia.” Affermò gettando con rabbia lo zaino sul sedile posteriore dell’auto.

 

∂∂∂

 

13 Maggio. Ore 18.30

 

Los Angeles - California Hospital Medica Center

 

Gibbs varcò la soglia del pronto soccorso e si avvicinò alla caposala “Jennifer Shepard. È stata ricoverata ieri con ferite d’arma da fuoco.”

“Lei è un parente?”

“Agente speciale Gibbs, sono…un amico.” Rispose mostrando il distintivo del NCIS.

La donna digitò il nome al computer e avviò la ricerca “il suo direttore si trova al secondo piano, stanza 72” indicò l’ascensore, ma poco dopo lo vide salire le scale, due gradini alla volta.

Mentre copriva la distanza che lo separava da Jen, si guardò attorno alla ricerca di Mike Franks: era sicuro che si trovasse ancora lì, non solo perché glielo aveva detto Ziva, ma perché lo conosceva abbastanza per sapere che non avrebbe lasciato da sola Jen, nonostante le molte lamentele sulla presenza di un direttore donna.

La porta a vetri si aprì automaticamente quando passò davanti alla fotocellula: un medico era in piedi accanto al letto e stava controllando le medicazioni.

“Come sta?” bisbigliò cogliendo di sorpresa l’uomo.

“Ha superato bene l’operazione. Il proiettile è entrato e uscito, ha perso una discreta quantità di sangue me se la caverà. Lei è un parente?”

“Un amico.” Rispose senza esitazione.

“Le ho somministrato degli analgesici, ora sta dormendo, ma se vuole può restare qui per un po’.” Lo avvisò prima di uscire e lasciarlo da solo, nella stanza in penombra.

 Jethro sì avvicinò piano al letto, fermandosi a poca distanza da Jen. Il viso, incorniciato dai lunghi capelli rossi era pallido, ma il respiro era regolare e gli sembrò così fragile avvolta nelle lenzuola bianche e asettiche, che sentì il bisogno di sfiorarle la fronte, quasi a trasmetterle un po’del proprio calore.

“È una donna forte.” Franks era comparso sulla soglia con in mano un pacchetto di sigarette e un vistoso cerotto sulla fronte.

Gibbs indugiò ancora un poco accanto a Jen, prima di raggiungere il suo ex capo e guardarlo con espressione interrogativa.

“Usciamo da qui Pivello, ho bisogno di una sigaretta.” Asserì Franks e lo precedette verso l’ascensore, premendo il pulsante del pian terreno.

“E io di un caffè.”

I due uomini camminarono in silenzio per qualche minuto, attraversando uno dei giardini davanti all’ospedale, lambiti dai caldi raggi del sole di maggio, ormai prossimo al tramonto.

“Ti ascolto Mike.”

L’uomo prese una lunga boccata di fumo prima di cominciare “mi ha chiamato due giorni fa, dopo il funerale di Deker, dicendo di volermi parlare. Aveva bisogno dell’aiuto di qualcuno che fosse esterno all’agenzia.”

“Ti ha detto perché?”

“Ha parlato di una vostra missione in Europa.”

“Ho passato molto tempo in Europa, Mike.”

“Al funerale di Deker ha detto di aver sentito che qualcuno cercava il signor Oshimaida e che quello era il termine da usare se la vostra copertura fosse saltata.”

“A Parigi.” Sospirò Gibbs, mentre la mente tornava a quel lontano 1999.

“Che cosa ti ho sempre detto riguardo alle faccende in sospeso.”

“Ne siamo usciti puliti, tutti e tre.”

“ Eppure lei e Deker erano a conoscenza di qualcosa che tu non sapevi.” Franks prese un ultima boccata di fumo, prima di spegnere la sigaretta e gettarla in uno dei cestini “la copertura di Deker era saltata, ma invece di fare i vostri nomi, vi ha dato un avvertimento, lasciandoci un po’ di tempo.”

“Che cosa è successo?” chiese portando il bicchiere alle labbra.

“Deker aveva lasciato una polizza assicurativa, codificata nelle foto. Tranquillo, Pivello, le carte sono uscite dalla finestra due giorni.”

“Mike. Che cosa è successo laggiù.” Incalzò nuovamente.

“Ero uscito a prendere dell’acqua quando li ho visti entrare: due dalla porta principale e due dal retro. Jen ha sparato due colpi in rapida successione contro il primo, non ha nemmeno avuto il tempo di reagire. È stata colpita al braccio e ha risposto con tre colpi. I due che le sono arrivati di lato hanno aperto il fuoco, un proiettile le ha colpito il fianco, si è girata e ha sparato. Io sono entrato in quel momento.”

“Ma non sei riuscito a coprirle le spalle.” Aveva l’aria truce, ma Mike continuò senza dargli ascolto “ha colpito il terzo alla gamba e si è rivolta verso il quarto. L’uomo a terra si è rialzato, uno dei proiettili mi ha preso di rimbalzo prima che io riuscissi a fermarlo.”

Camminarono in silenzio per quasi mezz’ora, ciascuno immerso nei propri pensieri, accarezzati dalla calda brezza che accompagnava il tramonto.

 “Sai Pivello, sono poche le persone che ho visto sparare così, e di sicuro mai una donna. L’hai addestrata bene!” affermò infine, rompendo il silenzio.

A Gibbs scappò un sorriso e una serie di immagini dal passato gli passarono davanti: rivide sé stesso assieme a Jen al poligono di tiro, intento a migliorarne la postura o a scommettere su chi facesse il maggior numero di centri.

“Già, ma non c’ero neanche questa volta.” Sussurrò a sé stesso guardando verso l’edificio grigio in cemento armato, prima di tornare su suoi passi, con Franks al suo fianco.

 

∂∂∂

 

13 Maggio. Ore 20.15

Washington D.C. – Sede NCIS

 

Il laboratorio di Abby era stranamente silenzioso, mancava qualcosa, mancava la musica,  quel frastuono assordante che ti accoglieva e ti frantumava i timpani non appena uscivi dall’ascensore.

“Niente Materia cerebrale o Plastic death?” Chiese DiNozzo entrando in quel momento assieme a McGee e appoggiando un bicchiere di Caf-Pow sul tavolino.

“Tonyyy!” la scienziata gli gettò le braccia la collo “Sei vivo! Ziva è ancora intera? Oh mio Dio, ero così in pensiero per voi. È terribile quello che è successo al direttore… perché? Chi? E Gibbs? Dov’è Gib…”

“Abby, frena! Stiamo tutti bene. Il direttore è ferito, ma se la caverà. Gibbs è rimasto con lei.”   

“Oh…”Voglio che mi identifichi gli uomini delle foto.” Chiese porgendole una microdrive.

La ragazza inserì la scheda di memoria e qualche istante dopo sul monitor apparvero le immagini di quattro persone.

“Viggo Drantyev.” McGee riconobbe uno degli uomini.

“E tu come fai a conoscerlo Pivello?”

“Il direttore mi aveva mandato alcune istantanee scattate durante il funerale di Deker e mi aveva chiesto di identificare l’uomo.” Intervenne Abby in soccorso al suo collega.

“Che cosa sappiamo su di lui?”

“È arrivato tre giorni fa con un volo da Mosca, ha noleggiato un’auto e si è registrato all’Hotel Excelsior… ha fatto il chek out questa mattina.”

“Queste non sono informazioni.”

“È tutto quello che abbiamo, ho detto la stessa cosa al direttore.”

 “Identità bruciata. E gli altri tre?”

La ragazza passò all’identificazione facciale “Killer professionisti, ricercati dalla polizia di San Diego.”

“Reclutati sul posto.” Asserì McGee ma Tony sembrava non ascoltarlo, la sua attenzione si era rivolta verso due scope, improvvisate come manichini, sulle quali la scienziata aveva incollato le facce sua e di Ziva.

“E quello?” indicò i due vistosi baffi disegnati a pennarello sul suo volto “È opera tua, non è vero?” chiese rivolgendosi a McGee.

“Ti da un tocco di classe, quasi come i baffi di Gibbs.”

DiNozzo lo fulminò con lo sguardo “reclutati sul posto? Ottima intuizione… andiamo McPicasso, dobbiamo scoprire chi li ha assoldati.”

 

∂∂∂

 

14 Maggio. Ore 8.30

 

Los Angeles - California Hospital Medica Center

 

Jennifer Shepard stava ancora dormendo quando Gibbs rientrò nella sua stanza e si sedette accanto al letto, osservandola: le accarezzò il dorso della mano prima di prenderla tra le sue.

 Non riusciva a stare lontano da lei, ne era attirato come il ferro da una calamita e questo a volte, quasi lo spaventava. Non era solo per la sua bellezza fisica, per i lunghi capelli rossi e per quegli occhi color smeraldo che spesso riuscivano a leggergli l’anima. Era affascinato dal suo carattere, dalla sua determinazione sul lavoro e nella vita, era una donna caparbia che allo stesso tempo riusciva ad essere di una dolcezza e di una sensualità disarmanti, e di questo aveva avuto moltissime prove in passato.

Lo aveva respinto ma alla fine era riuscita ad ottenere ciò che desiderava e lui non poteva non ammirarla per questo, era riuscita a tenere l’agenzia nonostante le numerose vicende avverse, dimostrandosi un ottimo direttore e tenendogli testa in modo magistrale.

Teneva ancora la sua mano stratta tra le sue quando sentì che si stava svegliando: la stanza era in penombra, l’unica luce era quella proveniente dal corridoio esterno e Jen dovette sbattere più volte le palpebre per mettere a fuoco il suo volto.

“Jet…Jethro? Jethro, che cosa ci fai tu qui?” chiese con voce impastata cercando di sollevarsi, ma una fitta al fianco le strappò una smorfia di dolore e la costrinse a riappoggiarsi al cuscino.

“Non ti sforzare.”

“Cosa ci fai tu qui?” lo rincalzò.

“Tu che cosa credi?”

Jen lo guardò dritto negli occhi e provò una stretta al cuore, possibile che si stesse preoccupando per lei? O era solo compassione? Non poteva dimostrarsi più vulnerabile di quanto già apparisse in quello stato, con nessuno e tanto meno con lui.

“Non dovresti essere qui.” Fece ricorso a tutte le sue forse cercando di imprimere autorità nelle parole, Jethro se ne accorse.

“Non voglio litigare, Jen.”

Si sentiva debole e stanca a causa dei medicinali“Allora non immischiarti, Jethro. Non sono affari tuoi.” Riuscì a controbattere prima di abbandonarsi nuovamente al sonno.

“Non posso non immischiarmi Jen, come non posso fare a meno di preoccuparmi per te.” Le sussurrò anche se ormai non poteva più sentirlo.

Si alzò, aveva bisogno di sgranchirsi le gambe e di bere un caffè: quando arrivò al bar intero dell’ospedale, trovò il suo ex capo seduto ad uno dei tavolini a sorseggiare del tè.

“Pensavo te ne fossi andato, Mike.”

“E lasciarti tutto il divertimento? Non ci penso proprio.”

Gibbs gli rivolse un’occhiata di gratitudine.

“Che cosa pensi di fare?” gli chiese Franks.

“I medici hanno detto che potrà essere dimessa tra qualche giorno e ritornare a Washington. Fino ad allora resterò qui.”

“Pensi che possano riprovarci?”

“Ne sono convinto, anche se per il momento è probabile che, chiunque siano, la credano morta e questo ci dà un po’ di tempo.”

 “Ma non vuoi correre rischi.”

“Non voglio lasciarla sola, Mike.”

Franks lo scrutò attentamente: era preoccupato e sofferente. Si era accorto da tempo che tra Jethro e il direttore c’era un legame profondo, che andava ben oltre il rapporto di lavoro e l’amicizia; lo aveva intuito in Messico e ne aveva avuto conferma dalle poche battute scambiate con Jen alla tavola calda, prima dell’agguato.

Ma conosceva Gibbs e le sue regola, molte gliele aveva insegnate lui, perciò si limitò a portare la tazza di tè alle labbra e sorseggiare il liquido caldo.

“Non puoi proteggerla da solo, Pivello.”

“Mi stai offrendo il tuo aiuto Mike?” Chiese Gibbs prendendo il cellulare.

 “Chi stai chiamando?”

“Qualcuno che mi deve un favore.” Rispose mentre componeva un numero di Los Angeles.






ANGOLINO AUTRICE:

- Alcune delle conversazioni sono ispirate a quelle della serie, anche se mi sono permessa a volte di cambiare gli interlocutori e la dinamica degli eventi in cui si svolgono.
- Inoltre ci tengo a precisare che non ho nulla contro Leon Vance, anche se so che qui apparirà un po'antipatico. In realtà l'ho molto rivalutato nelle ultime serie... però non potrà mai prendere il posto di Jen, almeno per me.
- Nel prossimo capitolo ci sarà la presenza di un personaggio che abbiamo visto nella sesta serie... non vi dico altro, voglio tenervi un po'sulle spine.


Non posso far altro che ringraziare tutti quelli che sono arrivati a leggere fino alla fine di questo capitolo e quelli che avranno voglia di lasciare un commentino...
Un abbraccio a tutte/i
Alla prossima

Fink

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Capitolo 3
*** Le persone cambiano ***


Disclaimer: i personaggi sono di proprietà di D. P. Bellisario e D. McGill che ne detengono tutti i diritti. Tutto ciò che invece esula dalla trama originale della serie è attribuibile a me.


Cerco un centro di gravità permanente
che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose sulla gente
(Centro di gravità permanente - F. Battiato)




CAPITOLO TERZO Le persone cambiano

 

14  Maggio. Ore 6.15

 

Washington D.C. – Sede NCIS

 

“JENNY!” il suo nome gli uscì dalle labbra a bassa voce, ma abbastanza nitidamente da essere sentito da chiunque si fosse trovato lì vicino; la testa era ancora appoggiata al supporto metallico sul quale si era addormentato. Era stato un incubo, solo un incubo per fortuna. Si passò entrambe le mani sul volto e si stiracchiò sulla sedia.

“Da quando sogni il direttore?” chiese la voce di McGee che in quel momento se ne stava fermo davanti alla sua scrivania e lo fissava con un sopracciglio alzato.

Tony gli rispose con espressione indecifrabile, tra il seccato e il preoccupato.

“Non ho sognato il direttore”

“La chiamavi nel sonno.”

“McGee ha ragione.” Gli fece eco Ziva mentre appoggiava  la sua tazza di te sulla scrivania.

“Che cos’hai lì, Pivello.”

McGee spostò gli occhi sull’oggetto che aveva nella mano sinistra “il nastro con i video di sorveglianza dell’aeroporto. Le stavo portando da Abby.”

“Allora cosa ci fai ancora qui!?”

“Smettila di imitare Gibbs… Perché sognavi il direttore Shepard?” il tono malizioso non lasciava dubbi, chissà in che veste aveva immaginato Jen o, trattandosi di DiNozzo, sicuramente l’aveva immaginata senza alcun vestito.

Tony non rispose, si alzò bruscamente spostando la sedia che andò a sbattere contro lo scaffale alle sue spalle, producendo un acuto suono metallico “Vado a prendermi un caffè.”

“Tony… Tony dai, io non…” la voce del collega lo raggiunse ma lui si limitò ad alzare una mano come a voler scacciare un fastidioso insetto che gli ronzava accanto all’orecchio.

“Scendo a portare il nastro ad Abby, magari scopriamo qualcosa.” Concluse rivolto verso Ziva, ma la sua collega non lo stava ascoltando, fissava il punto in cui Tony era sparito, inghiottito dalle porte di acciaio dell’ascensore, sembrava preoccupata. Forse avrebbe dovuto esserlo anche lui. Ricordava cosa significava essere oppressi dai sensi di colpa, l’aveva provato quando aveva sparato a quel poliziotto, forse non era stato lui ad averlo ucciso, ma il suo ricordo continuava a presentarsi di tanto in tanto nella sua mente.  L’aveva provato quando quel giovane barista psicopatico aveva iniziato ad uccidere marinai seguendo la trama del suo libro. Il suo libro. Aveva convissuto con quel senso di colpa, abbandonando addirittura la stesura del romanzo per un tempo che gli era sembrato infinito.

Scacciò quel ricordo scrollando la testa, non era il momento per pensare a queste cose, qualcuno se ne andava in giro a reclutare dei killer, c’era in gioco la vita del direttore Shepard e forse non solo quella. Doveva andare da Abby, anche perché, ne era sicuro, Gibbs non avrebbe tardato a chiamare chiedendo di aggiornarlo su eventuali sviluppi.

 

∂∂∂

 

14 Maggio. Ore 8.30

 

Washington D.C. – Sede NCIS

 

Tony appoggiò le mani sulla lastra di marmo e chiuse gli occhi.

Sangue. Le sue mani erano coperte di sangue.

Aprì il rubinetto e lasciò che l’acqua fresca gli scorresse sui palmi bianchi, li strofinò uno contro l’altro cercando di lavare via quella vischiosità scarlatta che nella sua mente gli avvolgeva le dita e sembrava non voler sparire.

Il viso pallido con due smeraldi opachi sotto alla frangia ramata. Gli occhi di Gibbs che lo guardavano con profonda delusione, mentre sollevava il corpo esanime di Jen tra le braccia.

Si passò l’acqua fredda sul viso e sugli occhi nel vano tentativo di togliersi quell’immagine.

La porta si aprì e un inconfondibile profumo di muschio bianco lo investì, pizzicandogli  le narici “Se non l’hai notato questo è ancora il bagno degli uomini.”

Ziva si chiuse la porta alle spalle e avanzò di qualche passo fino ad arrivare a brave distanza da Tony, appoggiandosi al piano di marmo nel quale erano incassati i lavandini.

“Mi avevano offerto di dirigere una squadra tutta mia…a Rota, in Spagna.”

La donna annuì. Lo sapeva. Jen glielo aveva comunicato una sera, davanti ad una tazza di té, poco dopo il reintegro definitivo di Gibbs.

“Forse avrei dovuto accettare. Che ore saranno lì, sicuramente sera. Sai quante belle donne ci sono in Spagna che avrebbero potuto conoscere Tony DiNozzo.” Prese un asciugamano di carta e si asciugò le mani, mentre un falso sorriso comparve sul suo viso, era preoccupato, ma non sarebbe stato Tony se non avesse cercato di sdrammatizzare la cosa, pensò lei.

“Abby non te lo avrebbe mai perdonato.” Rispose Ziva ma lo vide subito incupirsi di nuovo “Non hai fatto nulla di sbagliato Tony.”

“Credi che Gibbs l’avrebbe lasciata girovagare per Los Angeles da sola?” gettò la carta appallottolata dell’asciugamano nel cestino.

No, Gibbs no l’avrebbe mai fatto, da chiunque fosse giunto l’ordine. E di sicuro avrebbe riconosciuto la voce di Franks in sottofondo. Aveva avuto il compito di proteggere il suo direttore, una donna che aveva imparato a stimare e con la quale aveva affrontato momenti difficili, sia dopo la partenza di Gibbs, sia dopo il suo ritorno. Lei si era fidata e lui aveva preferito andarsene in giro con Ziva a farle foto in costume, intenta a prendere il sole.

“Hai eseguito gli ordini, non hai nulla da rimproverarti.”

“Sei venuta perché avevi qualcosa da dirmi, David?”

Aveva i capelli spettinati e una goccia d’acqua gli scendeva dalla fronte lungo la guancia, un’espressione risoluta gli si dipinse in volto: aveva imparato molto da Gibbs. La conversazione per il momento era conclusa.

“Abby ha qualcosa.” Rispose e uscì dal bagno seguita dal collega.

 

∂∂∂

 

 

14 Maggio. Ore 11.00

 

 

 

 

Los Angeles- California Hospital Medica Center

 

Mike Franks si accostò al letto di Jen per rimboccarle le coperte, sembrava dormire serena; c’era una poltroncina accanto alla finestra, Franks vi prese posto ed iniziò a frugarsi nelle tasche alla ricerca del pacchetto di sigarette.

“Lo sa che non puoi fumare all’interno dell’ospedale.” La voce di Jen gli giunse debole alle orecchie.

“Motivo in più per tornarmene in Messico il prima possibile. Come sta, direttore?”

“Sono stata meglio.”

“Dovrebbe mangiare qualcosa.” Suggerì, guardando il vassoio della colazione ancora pieno.

“Non l’ho ancora ringraziata.”

“Non è ancora finita.” Prese il L.A. Times che qualcuno, di sicuro l’infermiere, aveva appoggiato sul comodino assieme al vassoio e iniziò a sfogliare le pagine.

Jen abbandonò la testa sul cuscino, rivolta verso la porta, quasi ad aspettare l’arrivo di qualcuno. Si era svegliata con l’infantile speranza di trovare Jethro accanto al suo letto e aveva cercato di mascherare la cocente delusione quando al suo posto vi aveva visto Franks con l’immancabile pacchetto di sigarette in mano; che sciocca. Si era accertato che fosse ancora viva e che stesse bene ed era sicuramente già tornato a Washington.

Dannazione! Avrebbe avviato un’indagine e non era questo che doveva accadere, lui doveva restarne fuori. Lei era responsabile di quel casino, come lo era per la morte di Deker. Non poteva permettere che lo stesso accadesse a Gibbs. Uno stupido errore di dieci anni prima. Avrebbe dovuto parlargli, spiegargli come stavano le cose. Come se fosse stato semplice. Non appena avesse saputo chi c’era dietro a tutto questo, si sarebbe infuriato perchè lei glielo aveva tenuto nascosto. Poco importava la gerarchia di comando, ricordava benissimo la sua reazione quando aveva scoperto de la Grenouille.

“Novità dal giornale?” chiese vedendolo sfogliare il quotidiano con scarso interesse.

“L’Iran si prepara al post elezioni, mentre il papa organizza il Giubileo Paolino e si prepara ad accogliere i giovani in Australia. Il prezzo dell’oro è salito e… le tavole calde nel deserto sembrano ancora dei posti sicuri.”

“Bene.” A quanto pare la notizia della sparatoria non era trapelata, evidentemente non volevano scandali prima di sapere come erano andati i fatti. Aveva tempo.

Mentre la mente ricominciava a vagare alle ricerca di possibili soluzioni, gli occhi continuavano a restare fissi sull’ingresso e Franks non poté non notare come trattenesse il respiro ogniqualvolta un’ombra passava davanti alla camera.

“Gibbs è sceso a prendersi un caffè.” Le disse pensando di intuire i suoi pensieri.

Jen si girò nella sua direzione visibilmente sorpresa. Quindi era ancora lì, due sentimenti opposti si scontrarono, la gioia di saperlo ancora nell’edificio e rabbia per aver di nuovo disubbidito ai suoi ordini, prevalse la seconda.

“Pensavo di essermi espressa chiaramente, quando gli ho detto che non erano affari suoi.” Lo disse più rivolta a sé stessa che non a Franks.

“Credo che lei lo conosca abbastanza da sapere che non mollerà così facilmente.”

“Che cosa diavolo pensa di fare?”

“Chi erano gli uomini della tavola calda?” evitò la risposta ponendole una nuova domanda.

“Non è tenuto a saperlo. La ringrazio del suo aiuto, ma credo che lei ora possa andare.” La ferita al fianco iniziava a bruciare, istintivamente portò una mano sopra la fasciatura e chiudendo gli occhi prese un profondo respiro.

Mike increspò le labbra in una smorfia, incredibile, era in un letto d’ospedale eppure si comportava come se fosse seduta alla scrivania del suo ufficio.

 “Ho ordine di farle da scorta” affermò rivolgendole un eloquente sorriso.

Per il momento la conversazione sembrava conclusa e a conferma di ciò le porte a vetri si aprirono con un leggero sbuffo.

“Scusi ma dobbiamo controllare la medicazione e fare un paio di esami.” Un’infermiere dall’aria gioviale entrò in quel momento seguito da una ragazza molto giovane con una lunga treccia di capelli castani e due occhi attenti e curiosi, con molta probabilità una studentessa.

Rivolse un sorriso alla ragazza e dopo aver salutato Jenny uscì dalla stanza, aspettando che arrivasse Jethro a dagli il cambio.

 

∂∂∂

 

14 Maggio. Ore 11.20

 

Gibbs sorseggiò il caffè, comodamente seduto su una panchina poco fuori l’ospedale. Osservava con attenta curiosità chiunque si aggirasse nei dintorni e solo due piccoli segni scuri attorno agli occhi indicavano la sua quasi totale mancanza di sonno. Aveva passato tutta la notte appollaiato sulla poltroncina accanto a Jen, vigile anche nel sonno, percependo ogni suo più piccolo movimento o cambiamento di respiro.

Si soffermò rivolto verso una figura che incedeva con passo calmo nella sua direzione. Era una donna. I lunghi capelli biondi erano lasciati sciolti ad incorniciare il profilo elegante del viso, nel quale spiccavano due occhi chiari.

Gibbs la guardò avvicinarsi sollevando un sopracciglio e aggrottando un po’ la fronte.

“Sembra sorpreso di vedermi agente Gibbs?”

“Diciamo che mi aspettavo qualcun altro.”

“Sta lavorando sotto copertura. Mi ha avvertita dopo la tua telefonata. Comunque sono anche io contenta di rivederti Jethro. Non sei cambiato affatto.”

 “Hai il fascicolo con te?” Chiese con un moto di disappunto.

“Come sta il direttore Shepard?”

“Se la caverà” rispose continuando a fissare la donna in attesa di una risposata alla domanda iniziale.

“Lo sai che di norma c’è una procedura da seguire.”

“Significa no?”

 “Significa che avresti dovuto inoltrare una richiesta scritta e attendere la risposta; tuttavia visto che me lo ha chiesto Callen e poiché si tratta di Jen…ecco qui.”  La donna estrasse una busta color senape dalla borsa e la diede all’agente “Posso chiederti a che cosa ti serve il fascicolo di William Deker?”

“Ancora non lo so. ”

“Continui a non avere fiducia in me, vero.”

Gibbs prese il fascicolo e sorrise sarcastico prima di avviarsi verso l’ospedale concludendo la conversazione, ma a quanto pareva la donna non era dello stesso avviso perché con un paio di falcate si portò a lato dell’agente.

“La gente cambia. Lei non ha mai commesso errori, agente Gibbs?” aveva usato di proposito un tono formale.

Jethro la osservò con più attenzione, c’era qualcosa di diverso dall’ultima volta in cui si erano visti e poco centrava con il fatto che fossero passati più di quindici anni.

“C’è altro che vuole dirmi?”

“Posso incaricare due miei agenti per un turno di sorveglianza. Così potrete darvi il cambio per il tempo che il direttore resterà qui.”

Raggiunsero il piano in cui si trovava la stanza del direttore: Mike era seduto su una delle sedie a muro del corridoio.

“Credevo che l’agente Franks fosse in pensione.”

“È venuto a trovare un’amica.”

La bionda annuì poco convinta, ma per ora poteva lasciar correre, perciò rivolse nuovamente la sua attenzione verso l’uomo al suo fianco attendendo una qualche risposta alla sua proposta.

“Devo mettermi in contatto con la mia squadra.”

“Abbiamo una sala videoconferenze niente male al OSP.”

Gibbs le rivolse un mezzo sorriso, poi gli occhi caddero su un piccolo mazzo di fiori che teneva nella mano destra e che fino a quel momento gli era sfuggito; alzò un sopracciglio interrogativo.

“Pensavo di darli al direttore.” Rispose e si avviò verso la stanza di Jen. Quando passò davanti a Franks gli rivolse un cenno con la testa e lui non nascose la propria sorpresa nel vederla.

“Quella non è Lara Macy, Pivello?”

“Aha. Sì.”

“Cosa diavolo ci fa qui?”

“La gente cambia, Mike.”

 

∂∂∂

14 Maggio. Ore 16.00

 

Washington D.C. – Los Angeles

 

 “Gibbs ci vuole tutti in sala videoconferenze. Anche tu Abby.” Disse McGee rivolto alla scienziata.

“Perché il capo ha chiamato te, Pivello. Sono io l’agente più anziano.” Tony un po’infastidito premette il pulsante del piano desiderato.

“Lo ha fatto.”

“No. Io non ho sentito nul…eheh devo aver inserito per errore il silenzioso.” Disse con noncuranza guardando il display su cui era comparso l’avviso di due chiamate perse.

Entrarono nella sala in penombra, Gibbs era già apparso sullo schermo e li stava guardando impaziente.

“Ciao Gibbs. Quando torni? Tony si è dimenticato di portarmi il caffè stamattina, tu non te lo dimentichi mai.”

“Ti trovo bene capo. Credo che l’aria della California ti giovi…” Disse l’agente più anziano

“DiNozzo!”

“Ehm sì giusto capo. Uno dei killer si chiamava Viggo Drantyev, russo, era arrivato quattro giorni fa con un volo da Mosca, e si era registrato all’Hotel Excelsior. Gli altri tre sono James Baxter, Horatio Parker e Ronald Nielsen, tutti e tre killer professionisti ricercati dalla polizia di San Diego. Sono stati reclutati sul posto.”

“Da Drantyev?”

“Forse. Ma non ne siamo sicuri.”

Gibbs guardò i suoi agenti con aria truce “cosa vuol dire non ne siete sicuri?”

“Non avevano alcun effetto personale con sé, niente cellulare, nulla. Siamo risaliti a loro grazie all’identificazione facciale.”

“L’unico ad avere con sé il cellulare era Drantyev.” Specificò Ziva “Ma…”

“Ma cosa!?”

“Ma è stato colpito in pieno da un proiettile del direttore e non ci si può fare più niente.” Disse Abby intervenendo nella conversazione. “Ma tu dove sei? Non credevo che in ospedale avessero degli schermi per…”

“Abby!”

“Hai ragione, non ti ho neanche chiesto del direttore, allora, come sta?”

“Quindi non avete niente?”

“Niente non direi capo. McGee si è fatto dare i nastri delle telecamere dell’aeroporto, si vede Drantyev che sale in auto con una donna.”

Gibbs lo guardò in attesa che continuasse.

“Pivello, fai partire il nastro.” Disse rivolto al collega che si trovava accanto alla console di comando.

Sullo schermo apparvero le immagini di un uomo e una donna che salivano su un taxi posteggiato all’uscita dell’aeroporto.

“Crediamo sia la stessa donna che ha fotografato il direttore al funerale di Deker, si chiama Natasha Lenkov.”

“McGee, le foto.”

“Subito capo”

“Purtroppo finora non sappiamo nulla sulla Lenkov. Nulla prima del 1999.”

Sullo schermo comparve il profilo di una donna dai capelli biondi, gli occhi coperti dalle lenti degli occhiali da sole, ma Gibbs non ebbe dubbi, era di sicuro lei.

“Provate con Svetlana Chernitskaya.” Disse e pose fine alla conversazione lasciando i suoi uomini ammutoliti a fissare uno schermo nero.

La porta alle loro spalle si aprì rivelando la figura di Vance “Ci sono novità sul caso?” chiese il vicedirettore.
“No. No signore.” Rispose Tony anticipando i colleghi.
“Allora cosa ci fate qui? E perchè Gibbs era in videoconferenza?”
“Ci informavamo sulle condizioni del direttore.” Rispose Abby con un sorriso e si apprestò a seguire i suoi colleghi all’uscita.

 

 

∂∂∂

 

 

17 Maggio. Ore 15.10

 

Messico – Stazione di polizia di un piccolo paesino.

 

Mike Franks entrò nella stazione di polizia, attraversò l’unica stanza presente, salutando i due uomini affaccendati con alcune scartoffie ed entrò in una porta laterale che conduceva all’ufficio dello sceriffo.

“L’avete trovata?” chiese rivolto all’uomo che alzò la testa, sbucando dal cassetto in cui stava frugando alla ricerca di qualcosa.

“Sì, questa mattina. Era a casa sua.”

“Avete trovato niente?”

Lo sceriffo scosse la testa in senso di diniego “nulla di rilevante, non sembra abbiano preso nulla e non ci sono stati segni di effrazione.”

  “Il medico legale che si è occupa dell’autopsia è sempre Rogers?” chiese Franks.

“Sì.”

“Bene, gli devo parlare.”

“Non sarà un bello spettacolo, era passata più di una settimana prima che la trovassero.”

“Lo so. Grazie sceriffo.” Rispose Mike prima di salutarlo ed uscire per riprendere l’auto







ANGOLINO AUTRICE:

Ce l'ho fatta, sono riuscita a postare un altro capitolo.
- Come avrete notato il personaggio misterioso è Lara Macy, ho voluto inserire lei perchè non essendo presente nella serie NCIS L-A. non veniva a crearsi il rischio di una cross-over che in questo caso non era mia intenzione scrivere. In più perchè per vari motivi non riesco quasi mai a seguire la serie perciò rischierei di non rappresentare bene i personaggi non conoscendoli. Infine seppur un piccolo ruolo, la Macy comparirà di tanto in tanto...vedrete perchè.
Spero che un pochino vi sia piaciuto, vi ringrazio per la pazienza nell'attesa e ringrazio tutti coloro che sono arrivati alla fine di questo terzo capitoletto e che vorranno lasciarmi un commentino.
A tutti auguro una BUONA PASQUA
Besos
Fink

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Capitolo 4
*** Ritorno in città ***


Disclaimer: i personaggi sono di proprietà di D.P: Bellisario e D. McGill che ne detengono tutti i diritti.


Sono in ritardo, lo so, vi chiedo perdono e spero che il capitolo valga l'attesa. Buona lettura


CAPITOLO QUARTO


Los Angeles

“Le persone cambiano. Davvero gli hai risposto così?” il giovane agente si passò una mano tra i capelli, ravvivandoli.
“Non pensi sia il caso di tagliarli?” chiese l’altro sedendosi più comodamente sulla panchina e accavallando le gambe.
“Non posso…fa parte della copertura.”
“Ti spacci per un barbone? Alzò dubbioso un sopracciglio prima di continuare “Perché la Macy?
“Cosa vuoi dire?”
“Avanti Callen, sai bene a cosa mi riferisco. Avevo chiesto a te il fascicolo su Deker.”
“Stavo lavorando…A dire il vero anche questo incontro è rischioso per la mia copertura.”
“Perché non hai chiesto a qualcun altro?” Chiese Gibbs, fissando il suo interlocutore. Callen fece vagare lo sguardo in direzione della distesa d’acqua di fronte a loro. Il mare era calmo e il sole vi si rifletteva con migliaia di scintillii argentei.
Era ancora molto presto e la spiaggia di sabbia bianca era calpestata solo dai pochi volenterosi che si alzavano all’alba a fare jogging. Un cane ciondolava accanto al proprio padrone, scodinzolando e rivolgendogli un guaiti soddisfatti.
“Si è offerta lei di portarti il fascicolo su Deker… Jethro, non credi sia venuto il momento di seppellire l’ascia?” chiese il giovane ma l’altro non rispose, dando a Callen la possibilità di proseguire “Vuoi saperne di più sull’agente Macy? Allora leggi il fascicolo che ti ho portato.” Fece accennando con il capo al plico sulle ginocchia del collega.
Gibbs fissò il nome in grassetto, scritto a mano sulla cartellina gialla.
Quella donna gli aveva quasi rovinato la vita diciasette anni prima. Aveva appena perso la sua famiglia e lei non faceva che interrogarlo, accusarlo e metterlo alle strette, senza nemmeno dargli modo di piangere la sua perdita. Tutto per scoprire qualcosa sulla morte di un trafficante messicano di nome Pedro Hernandèz.
Lo stesso uomo responsabile della morte di Shannon e di Kelly.
Lo stesso Pedro Hernandèz che lui aveva rincorso in Messico.
Lo stesso trafficante che lui stesso aveva ucciso con un unico, preciso colpo, mentre guidava verso casa, seduto in un pic-up azzurro.
Di questo lo stava accusando. Di omicidio.
Ebbene, avrebbe pagato. Avrebbe scontato il resto della sua vita in un sudicio e freddo carcere. Non gli importava.
Aveva vendicato la sua famiglia. Era soddisfatto.
Ma chiedeva una sola cosa ancora, piangere.
Piangere per gli occhi di Shannon, che non avrebbe mai più rivisto.
Piangere per la risata di Kelly, soddisfatta per aver pescato un pesce. Un suono che non avrebbe mai più sentito.
Voleva solo salutarle un’ultima volta, ma l’allora sergente Lara Messi non sembrava dello stesso avviso e aveva continuato imperterrita nell’interrogatorio, strappandogli le poche ore di sonno inquieto che aveva.
Poi, come per miracolo, la faccenda era stata archiviata, le accuse erano cadute e lui era libero.
Libero di continuare a vivere prigioniero nel proprio dolore.
“Jethro.” La voce di Callen lo riscosse. “se sei ancora così sospettoso, perché l’hai quasi difesa con Franks?”
Era uno dei pochi agenti ai quali consentiva di rivolgersi a lui in un modo tanto confidenziale. Forse per l’amicizia che li legava, o perché, in qualche modo, Callen capiva il suo dolore.
“Non è la donna che ti ricordi. Come hai detto le persona cambiano e lei sa di aver commesso un errore… a modo suo ha cercato di rimediare. Perché credi che siano improvvisamente cadute le accuse nei tuoi confronti…”
Gibbs lo guardò interrogativo, senza dire nulla.
“Portarti il fascicolo di Deker è stato un modo per farti capire che è dalla tua parte” proseguì il giovane.
Jethro soppesò le parole del agente per qualche istante, cercando il modo di rispondere, ma venne interrotto dal trillo del cellulare.
“Sì, Gibbs.” rispose senza indugio, dopo essersi portato l’apparecchio all’orecchio.
Signor Gibbs. Sono il dott. Larson. La volevo informare che la signora Shepard verrà dimessa oggi pomeriggio. Dato che lei è l’unico conoscente nelle vicinanze… potrebbe venire in ospedale, avrei alcune comunicazioni da darle… sul periodo di riposo della paziente.”
“Arrivo subito. La ringrazio.” Riagganciò e infilò il cellulare nella custodia che teneva legata alla cintura, poi si voltò verso Callen.
“Era l’ospedale… il direttore sarà dimesso oggi pomeriggio.”
“Mi fa piacere. Finalmente una buona notizia.”
Gibbs storse il naso.
“Non ne sembri felice.” Chiese sorpreso.
“Non sarà facile convincerla a restare in convalescenza fuori dall’ospedale.”
“Mi ricorda qualcuno.” Scherzò lui.
“Beh, Callen è stato un piacere rivederti.” Disse alzandosi in piedi.
“Anche per me. Stammi bene.” Lo abbracciò, dandogli una pacca sulla spalla.
“Sì, anche tu.”
“E salutami il direttore e anche Franks, a proposito dov’è?”
Gibbs sciolse l’abbraccio “Mike è tornato a Washington, doveva sbrigare alcune faccende” rispose e dopo un ultimo saluto si avviò verso il parcheggio.
Callen lo seguì con gli occhi finchè non salì in auto, poi distrattamente lo posò sulla panchina accanto a lui.
La cartellina gialla era lì, abbandonata sulle assi di legno.
Un sorriso si formò sulle labbra dell’agente.



∂∂∂

Svetlana Chernitskaya, ora nota come Natasha Lenkov, era pigramente seduta sul morbido letto nella sua stanza d’albergo. Aveva i capelli biondi ancora avvolti in un asciugamano umido e sfogliava distrattamente una rivista.
Sbuffò sonoramente. Aveva caldo, troppo caldo.
Nonostante fosse uscita da poco dall’ennesima doccia, l’abito di stoffa leggera le si era incollato al corpo e delle piccole goccioline di sudore le imperlavano la fronte.
Chiuse la rivista e la fece ondeggiare davanti al viso, sperando in un poco di refrigerio.
Detestava quel clima afoso. Era la metà di marzo e già boccheggiava alla ricerca d’aria ogniqualvolta si ritrovava a camminare lungo le affollate vie di Los Angeles.
Rimpiangeva l’aria fredda che le accarezzava la pelle mentre, seduta in qualche caffetteria, osservava il lago di Ilmes, bevendo una tazza fumante di tea.
Lei e il suo compagno avevano acquistato un appartamento a Novgorod, una città a metà strada tra Sanpietroburgo e Mosca. Non era molto grande o lussuoso, non che non avessero abbastanza soldi per permettersela, la loro professione di killer rendeva bene, ma avevano preferito mettere da parte il denaro per quando si fossero ritirati.
Magari con il tempo avrebbero acquistato una bella casa in riva al lago, avrebbero messo su famiglia, dei figli; Alatoly li avrebbe portati a pesca. Lui adorava pescare.
Ma tutti i suoi sogni erano svaniti nove anni prima, proprio quando avevano deciso di smettere. Quando si erano detti che quella sarebbe stata la loro ultima missione. Un ultimo lavoro e poi sarebbero usciti di scena.
Un vicolo buio di Parigi e tre proiettili, sparati a distanza ravvicinata, le avevano portato via l’uomo che amava.
Strinse i pugni al pensiero del corpo senza vita di Zukov e le pagine della rivista, che ancora stringeva in mano, si accartocciarono in seguito alla pressione.
Non aveva neppure potuto dirgli addio, perché quando il corpo era stato trovato, lei era in fuga verso Mosca con una ferita, medicata frettolosamente.
Chiuse gli occhi e appoggiò la testa allo schienale del letto, ripensando a quel lontano giorno. Alatoly non era stato l’unico ad essere stato ucciso quella notte; l’altro complice, un russo con cui dovevano portare a termine il lavoro, era stato anche lui freddato con tre colpi a bruciapelo, in un vicolo alla periferia di Parigi.
Qualcuno, una donna, era venuto anche nel suo appartamento con lo scopo di ucciderla, ma aveva fallito; qualcosa non era andato secondo i piani.
La donna aveva esitato, dandole il tempo di scattare verso l’arma che aveva accanto e solo allora la rossa, con mano tremante, aveva premuto il grilletto e un proiettile l’aveva colpita di striscio alla fronte. Lei era caduta cozzando sul tavolino ed era finita a terra, priva di sensi.
Dopo un tempo che le era parso infinito, si era svegliata, con un forte dolore alla spalla e il volto coperto di sangue rappreso. Era viva, miracolosamente. Si era lavata il viso e aveva controllato la ferita alla testa. Fortunatamente era solo un graffio, ma non poteva dire altrettanto della spalla sinistra. Il braccio ciondolava, come inerte, lungo il corpo, fortunatamente si era solo lussato.
Era tornata in camera, aveva preso lo stretto indispensabile ed era uscita, consapevole che di lì a breve qualcuno sarebbe tornato. Poi era sparita e in qualche modo era riuscita a fare ritorno in Russia.
Per nove anni aveva covato il suo odio, giurando di vendicarsi di coloro che le avevo portato via la sua vita.
La rabbia le montò dentro con un’ondata improvvisa. Scagliò sul letto la rivista che si aprì sulla pagina della pubblicità di un raduno d’auto d’epoca.
Li avrebbe vendicati. Tutti e due.
Dopo anni era riuscita a scovare un certo Deker, un ex agente del NCIS, che dopo la pensione si era ritirato a Los Angeles con la sua compagna. Aveva assodato dei killer, ma purtroppo Deker non le era stato di molto aiuto, non aveva detto molto, limitandosi ad un nome, un certo signor Oshimaida. E con queste poche informazioni si erano recati a funerale, sperando di ottenere qualcosa. Nulla. stava perdendo le speranze, quando, finalmente, poco prima di venire uccisa, la compagna di Deker aveva nominato una tavola calda nel deserto, di un uomo e di una donna dai capelli rossi che le avevano fatto visita poco dopo il funerale.
Era lei, doveva essere lei; la stessa donna che anni prima l’aveva quasi uccisa.
Povera sciocca, sarebbe stato meglio per lei constatarne la morte e portare a termine il lavoro.
Questo inconveniente nel deserto, non aveva fatto altro che acuire il suo odio e la sua determinazione di trovarla e fargliela pagare.
Stava solo ritardando l’inevitabile e, questa volta, avrebbe agito personalmente, sarebbe stata lei a premere il grilletto.
Il telefono sul comodino iniziò a trillare riportandola alla realtà.
Signora Lenkov?” chiese la voce di una donna all’altro capo del filo.
“Sì, sono io.”
“Sono Caroline Phelps della reception. Signora, c’è un signore che ha chiesto di lei.”
“Ha lasciato il suo nome?”
“Sì…signor Patterson. Johnatan Patterson. Mi ha chiesto di dirle che la aspetta al bar dell’hotel.”
“La ringrazio” rispose Natasha “gli dica che scenderò tra quindici minuti.
Riagganciò e finì di prepararsi, prima di scendere raggiungere il bar.
∂∂∂



Washington D.C. – Aeroporto Nazionale Ronald Regan

L’aereo atterrò rullando sulla pista, illuminata a giorno da una centinaio di luci bianche.
Due uomini e una donna, in piedi dietro alle grandi vetrate dell’aeroporto, stavano osservando con attenzione la fase di atterraggio e i passeggeri che si avviavano verso le uscite.
“Sono in perfetto orario” constatò McGee guardando l’orologio.
“Cosa ti aspettavi Pivello. Con il capo a bordo, non potevano che arrivare in orario. Scommetto che avrà lanciato ai piloti una delle sue solite occhiate per farli arrivare in orario, facendoli anche rabbrividire.”
“Sssh Tony. Non gridare, potrebbe sentirti.” Lo redarguì Ziva, in piedi accanto a lui.
“Di cosa hai paura, non ha mica l’udito di Superman”
“Ne sei così sicuro DiNozzo?” lo raggiunse una voce alle sue spalle.
Tony notò le facce dei suoi colleghi e si voltò di scatto solo per trovarsi davanti lo sguardo intimidatorio di Gibbs.
“Salve capo.” Lo salutò con un sorriso stampato sul volto, prima di rivolgersi alla donna accanto a lui. Jen era seduta su una sedia a rotelle, i medici le avevano consigliato non muoversi troppo, per evitare di far saltare i punti di sutura. “Direttore. È bello rivederla.” La voce un poco incrinata e lo sguardo basso, vederla su quella sedia per colpa sua non lo aiutava a liberarsi dei sensi di colpa.
Jen parve intuirlo, ormai conosceva la squadra di Gibbs molto bene e Tony in particolar modo, durante il periodo di tempo in cui ne era diventato il capo, avevano instaurato un buon rapporto di amicizia e collaborazione.
“Grazie… ma… posso chiedervi che cosa ci fate tutti e tre qui?”
“Eseguiamo gli ordini.” Rispose Ziva.
McGee fece un passo avanti “Abby si scusa per non essere venuta a salutarla, ma ha detto che passerà domani.”
“Vi ha mandati il direttore Vance?” chiese Jen, senza dare molto peso alle parole dell’agente.
“No… a dire il vero è stato...il capo.”
Lei alzò un sopracciglio interrogativa e osservò l’uomo che aveva accanto.
“Posso sapere il perché di questa scorta? Perché è di questo che si tratta, non è così, agente Gibbs?”
Jethro non rispose, si limitò ad ordinare a Ziva e McGee di ritirare i pochi bagagli, che da diversi minuti stavano ormai girando solitari sul nastro trasportatore, e spinse la carrozzina verso l’uscita.
“Non ho bisogno della scorta.”
“DiNozzo. McGee. Voi farete il primo turno domani mattina, dalle 7.00 alle 19.00.”
“Va bene capo.” Risposero i due all’unisono.
“Gibbs, ti ho appena detto che non voglio una scorta.” Ribattè Jen
“Ziva, tu ed io copriamo il secondo turno dalle 19.00 alle 7.00” continuò l’agente senza dare ascolto alle parole del direttore.
“Certo capo.”
“Per stasera andate pure a dormire.”
“Fermi voi tre!...Agente Gibbs!” Jen alzò il tono, ma senza alcun risultato.
I tre lo guardarono esitanti.
“Su, andate. Non ammetto ritardi per domani mattina.” ribadì il capo.
Gli agenti si soffermarono ancora un istante, poi salutarono sia Gibbs sia il direttore e si allontanarono verso le auto, mentre Jethro si apprestava a fermare un taxi.
“Jethro ti ho appena detto che…ma mi stai ascoltando?”
“No.” Rispose secco “riesci ad alzarti da sola e salire sul taxi? O preferisci che ti prenda in braccio?”
Per tutta risposta, lei si alzò in piedi e con cautela, pian piano, si accomodò sul sedile posteriore del taxi. La tentazione di dire all’autista di partire senza aspettare Gibbs era forte, ma sapeva che non sarebbe servita a molto, lui sapeva dove abitava e l’avrebbe raggiunta in pochi minuti, perciò attese che salisse, prima di comunicare all’autista l’indirizzo di destinazione.
La vettura procedette per una mezz’oretta tra il traffico di Washington e per tutto il tempo, i due passeggeri non si scambiarono nemmeno una parola, Jen sembrava furente, mentre Gibbs, al contrario, appariva del tutto indifferente davanti al suo comportamento.
Quindi il taxi si fermò e dopo aver pagato e preso i pochi bagagli, i due entrarono. La casa era buia e molto silenziosa, Jethro si stupì che la domestica non fosse venuta ad accogliere la padrona di casa, ed espresse il suo disappunto.
“Avevo dato a Noemi due settimane di permesso.” Rispose lei.
“Beh, certo, nelle tue condizioni mi sembra proprio la decisione più saggia.”
“Beh, non pensavo certo di ritrovarmi in queste condizioni e comunque posso cavarmela anche senza Noemi per un paio di settimane.”
Gibbs si fermò all’ingresso e appoggiò a terra la valigia di Jen, prima di prendere la carrozzina piegata e portarla all’interno.
“Certo. Come te la sei cavata a Los Angeles? Perché non hai chiesto il mio aiuto, Jen?”
“La cosa non ti riguarda.”
“Invece credo proprio che mi riguardi, visto che si tratta di Parigi e di Svetlana.”
Jen lo guardò sorpresa. Lo sapeva. Certo che lo sapeva. Cosa si aspettava? Che lui se ne restasse buono buono in un angolo. Ormai doveva conoscerlo.
“Oh, non fare quella faccia sorpresa Jen. Pensavi che sarei rimasto a guardare mentre Vance prendeva il tuo posto e uno dei miei agenti si tormentava per i sensi di colpa, rischiando di perdere il posto.”
“Forse è per questo che ho chiesto aiuto a Franks e non a te, lui non è più un agente, non rischia più la carriera. E ora, agente Gibbs, se non le dispiace, può anche lasciarmi sola. La ringrazio per avermi accompagnata, ma può andare.”
Gibbs le rivolse un sorriso beffardo “non credo visto che farò il primo turno di sorveglianza.” poi prese la valigia “questa dove te la porto?” chiese.
Jen lo guardò esasperata e gli fece un cenno verso le scale, sarebbe stata una lunga nottata.






∂∂∂
Los Angeles

Il bar dell’hotel era poco affollato a quell’ora e la donna individuò subito la persona che cercava. Patterson era seduto al bancone a sorseggiare una birra scura e le dava le spalle, ma la sua corporatura massiccia e i lunghi capelli corvini, legati in una coda di cavallo, erano inconfondibili. Gli si avvicinò e ordinò un margarita al cameriere.
“Signora Lenkov, che piacere vederla” la salutò prendendole la mano per posarvi un delicato bacio, in un gesto molto galante.
“Un vero piacere, signor Patterson. Che cosa la porta da queste parti?”
“Sono qui per affari e…”
Il cameriere le servì il margarita e Patterson si interruppe per un attimo.
“Perché non ci sediamo… lasci, offro io.” Le disse vedendo che metteva mano al portafogli per pagare il drink.
Presero le rispettive bevande e si accomodarono ad uno dei tavolini più isolati.
“Allora signor Patterson, quali novità mi porta?”
“Buone notizie, sono riuscito a trovare la donna che sta cercando. Sfruttando le giuste conoscenze, sono risalito al nome, si chiama Jennifer Shepard, ed è l’attuale direttore del NCIS.”
“La cosa non mi stupisce affatto.” Rispose lei. Anche Deker era un agente del NCIS, probabilmente era stata quell’agenzia federale a dar loro la caccia. Non si sarebbe stupita nell’apprendere che anche il terzo uomo era un agente federale.
“Molto bene, dove si trova?”
“Era stata ricoverata al California Hospital Medica Center.”
“Era?”
“Sì, l’hanno dimessa oggi.”
Il volto della donna si rabbuiò e la rabbia cominciò a salirle di nuovo, possibile che riuscisse sempre a sfuggirle.
“E queste le sembrano buone notizie?”
“No, ma… mi lasci finire. Quando ho chiesto della donna in ospedale e mi hanno detto che era stata dimessa, ho contattato alcuni informatori. Shepard vive a Washington, nella casa paterna, in un quartiere residenziale.”
Natasha lo guardò con rinnovato interesse.
“Questo è il suo indirizzo.” Disse lui facendo scivolare un foglietto verso la sua mano.
“Bene, molto bene.” La donna lesse il nome della via e sollevò gli occhi verso il proprio interlocutore “Le devo chiedere ancora un favore signor Patterson. Ma non si preoccupi, verrà ben ricompensato.”
“Oh, di questo ne sono certo. Che cosa posso fare per lei.”
“Ho bisogno che mi metta in contatto con alcuni uomini a Washington.”
“Lo consideri già fatto, signora. Le darò mie notizie tra un paio di giorni. Ora, se mi vuole scusare, ho del lavoro da fare.” Si inchinò verso di lei e la salutò con galanteria prima di abbandonare la sala.
Natasha lo guardò avviarsi all’uscita prima di fare un cenno al cameriere e ordinare un secondo drink, forse le cose stavano andando per il verso giusto, questa volta.

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Capitolo 5
*** Effetti collaterali ***


Imperdonabile, lo so, sono davvero imperdoanbile per questo ritardo. Spero non siate fuggiti tutti e non vi siano venuti i capelli bianchi per l'attesa.
Come sempre spero che il capitolo vi piaccia un pochino e beh, se ci sono critiche non esitate a farle.
Buona lettura






CAPITOLO QUINTO. Effetti collaterali





Washington D.C. – Casa del direttore Shepard


“Non posso non immischiarmi Jen, come non posso fare a meno di preoccuparmi per te.” Le parole che Gibbs le aveva sussurrato quando pensava che stesse già dormendo le tornarono in mente vivide, come se fossero passati solo pochi istanti e non diversi giorni.
Jen si rigirò inquieta nel letto, i punti le davano fastidio e la ferita non smetteva di bruciare, ogni volta che chiudeva gli occhi rivedeva davanti a se gli uomini di Svetlana e riviveva la sparatoria. Era un miracolo che fosse uscita quasi illesa da quell’inferno, se non ci fosse stato Mike Franks a quest’ora sarebbe tre metri sotto terra e non nel suo comodo letto, non aveva ancora avuto occasione per ringraziarlo.
Tony aveva quasi rischiato il posto per lei ed era sicura che si stesse ancora tormentando per i sensi di colpa.
Per la prima volta sentì di non meritare il posto che occupava, nonostante gli sforzi che aveva fatto per arrivare a quel punto, forse non ne era all’altezza. La conversazione avuta molto tempo prima con Gibbs le tornò alla mente, come un boomerang che ritorna indietro, con maggior forza di quella con cui era stato lanciato “…però sei un direttore novizio*…”.
Già, un direttore novizio. Nonostante gli anni passati a volte si sentiva ancora una pivella, soprattutto con lui.
Gibbs.
Forse questa volta aveva ragione – e quando mai non ne ha, pensò mentre un sorriso le increspava le labbra – avrebbe dovuto dirgli la verità, fin dall’inizio.
Ma con lui era così dannatamente complicato.
Non era mai stata fiera delle scelte che aveva fatto nei suoi confronti, era scappata lasciandolo da solo, gli aveva nascosto un’infinità di cose, aveva chiesto ad un suo agente di tenergli nascoste delle informazioni.
Risolvere da sola il problema di Svetlana le era sembrata l’unica cosa sensata da fare, per farsi perdonare, non importava se ciò significava morire, l’avrebbe fatto volentieri se fosse servito a dare a Jethro una possibilità in più, un po’ di tempo in più per risolvere l’ennesimo pasticcio che lei aveva causato.
Ma nemmeno questa volta le cose erano andate come ava sperato, lei era ancora viva e lo era anche Svetlana, nemmeno questa volta aveva risolto il problema e ora Gibbs sapeva.
Forse era venuto il momento di raccontargli come stavano le cose.
Scivolò giù dal letto, prese la vestaglia che era piegata sulla sedia e scese le scale.



∂∂∂



L’agente Gibbs appoggiò il fascicolo su Deker sul tavolino basso accanto a sé e si stropicciò gli occhi.
Aveva letto e riletto i fogli per quasi un’ora cercando un qualsiasi indizio che lo portasse a capire come erano riusciti ad arrivare a William. Aveva addirittura messo i fogli in controluce, uno per uno, per scorgere qualche parola al di sotto della cancellatura, ma senza alcun risultato.
Ricordava benissimo che, dopo la missione a Parigi, sia Deker sia l’agente infiltrato avevano cambiato identità e per un periodo si erano dovuti nascondere in qualche sperduta località del sud America.
Erano state prese tutte le precauzioni necessarie, era impossibile scoprire la loro identità, l’unica opzione plausibile era che qualcuno avesse cantato e che la notizia fosse trapelata per questo motivo.
Ma il come fossero arrivati a lui e chi fosse il responsabile della soffiata non era il suo unico problema anzi, al momento ne aveva uno ben più urgente: Svetlana.
La donna era ancora viva e questo significava che qualcosa non era andato secondo i piani.
Ma perché Jen non gliene aveva mai parlato?
Perché aveva lasciato credere a tutti di aver portato a termine il lavoro, ben sapendo quali sarebbero potute essere le conseguenze?
Perché aveva cercato Mike e non lui?
Temeva forse che si sarebbe arrabbiato? I pivelli sbagliano e lei a quel tempo era alle prime armi, era stata gettata nella mischia senza alcuna esperienza. Ma se non aveva ucciso Svetlana, come aveva fatto lei a scampare ad una killer professionista quella notte?
Troppe domande si mescolavano nella sua mente e per nessuna aveva una risposta definitiva, solo vaghe supposizioni.
Portò le mani dietro la testa e si massaggiò la nuca, arruffando i capelli. Doveva parlare con Jen e affrontare il discorso, ma doveva cercare un approccio pacato e soprattutto doveva far si che fosse lei a dirglielo, di sua spontanea volontà o non avrebbe ottenuto nulla.
Ma prima di tutto c’era una cosa più importante, doveva farsi un caffè.
Prese la tazza vuota che era appoggiata sul tavolino accanto al fascicolo e si diresse in cucina. Sciacquò la tazza e dopo averla posato sul ripiano di granito iniziò ad aprire alcune ante alla ricerca del caffè.
“Non è molto educato ficcanasare in casa d’altri.” La voce un poco assonnata di Jen gli giunse alle spalle.
“Stavo cercando del caffè, non riuscivo a dormire.” Ripose voltandosi per guardarla mentre attraversava la cucina e si fermava accanto a lui.
“Certo, si sa che la caffeina è il miglior rimedio per l’insonnia.” Sorrise ironica. “alla tua sinistra, sul secondo scaffale, il barattolo rosso.”
“Dovresti prendere l’abitudine a rimettere le cose in ordine e sempre allo stesso posto.”
“Sono in ordine e allo stesso posto.”
“No. Una volta il caffè era su questo ripiano qui.” disse lui indicando un punto alla sua destra.
“È passato molto tempo da allora e ci sono stati dei cambiamenti.”
Si guardarono per un istante, consci della doppia valenza di quella frase poi entrambi distolsero lo sguardo, concentrandosi su un’altra occupazione.
“Come mai sei ancora sveglia?” chiese lui posando la moka sui fornelli e accendendo il gas.
“La ferita mi da un po’ di noia.”
“Dovresti essere a letto allora e non gironzolare per casa.” la ammonì, cercando di mantenere un tono di voce pacato, nonostante il disappunto per quel suo gesto.
“Sono stata peggio e poi il medico non ha detto che devo stare immobile a letto, ma solo di non fare sforzi per evitare che i punti si strappino.” Puntualizzò per non dargli il tempo di ribattere.
“Potevi chiamarmi, ti avrei aiutata.”
“A fare cosa? Scendere una rampa di scale? Non essere ridicolo Jethro, so cavarmela da sola.”
“Oh lo so. So benissimo che sai cavartela da sola, l’ho notato.” Non le era sfuggito il tono eccessivamente mellifluo e ironico con cui aveva pronunciato le ultime parole.
“Si può sapere di che cosa stai parlando?”
“Non fingere di non saperlo Jen.”
“Sei ancora in collera perché ho chiamato Franks anziché te? O perché ho ordinato ai miei - calcò di proposito su quella parola - uomini di prendersi una giornata libera e di lasciarmi sola a Los Angeles?”
“Perché non mi hai detto che Svetlana era ancora viva?” chiese mentre spegneva la fiamma.
“Non potevo.”
“Perché?”
Lei scosse impercettibilmente la testa, se avesse risposto sapeva che a quella domanda ne sarebbero seguite altre, una più complessa e più dolorosa dell’altra. La vide andare verso la credenza e prendere una seconda tazza che avvicinò alla sua. Jethro si versò metà del contenuto della moka e lasciò il resto a Jen.
“Non sapevo che fosse ancora viva, non subito almeno.” Rispose prendendo un sorso di caffè e appoggiandosi con la schiena ad uno dei mobili della cucina.
Jethro la guardò in silenzio, aveva deciso di parlare, qualcosa, qualsiasi cosa fosse, le aveva fatto cambiare idea ed era fermamente deciso ad ascoltarla, senza metterle alcuna fretta, anche se questo significava contravvenire alle normali abitudini.



∂∂∂



Messico


Mike Franks entrò nella stazione di polizia, attraversò l’unica stanza presente, salutando i due uomini affaccendati con alcune scartoffie ed entrò in una porta laterale che conduceva all’ufficio dello sceriffo.
“L’avete trovata?” chiese rivolto all’uomo che alzò la testa, sbucando dal cassetto in cui stava frugando alla ricerca di qualcosa.
“Sì, questa mattina. Era a casa sua.”
“Avete trovato niente?”
Lo sceriffo scosse la testa in senso di diniego “nulla di rilevante, non sembra abbiano preso nulla e non ci sono stati segni di effrazione.”
“Il medico legale che si è occupa dell’autopsia è sempre Rogers?” chiese Franks.
“Sì.”
“Bene, gli devo parlare.”
“Non sarà un bello spettacolo, era passata più di una settimana prima che la trovassero.”
“Lo so. Grazie sceriffo.” Rispose Mike prima di salutarlo ed uscire per riprendere l’auto.



∂∂∂



Washington D.C. – casa del direttore Shepard


Seduto accanto a lei sul divano del salotto Gibbs aveva ascoltato il racconto di Jen senza proferire parola, poteva sentire il senso di colpa che opprimeva la donna, come se gravasse su di lui.
Sentiva il desiderio di prenderle la mano per farle sentire la sua presenza e darle un poco di conforto, come aveva fatto in ospedale, ma sapeva che lei lo avrebbe respinto.
“Perché non me lo hai mai detto.” Chiese resistendo al desiderio di stringerla a sé.
“Non pensavo si sarebbe fatta viva. Solo qualche giorno dopo, e solo dopo la tua partenza, ho scoperto che non era morta… che avevo fallito.
Averi dovuto accertarmi della sua morte, ma non l’ho fatto. Non ho nemmeno avuto il coraggio di spararle…”
“Ma l’hai fatto.”
“Solo perché le avevo dato il tempo di prendere l’arma e allora era diventata legittima difesa. Avrei dovuto dirtelo Jethro.
“Sì avresti dovuto, soprattutto dopo la morte di Deker.”
“No, avrei dovuto dirtelo quando eri ancora il mio capo, ora non lo sei più. Non sono più tenuta a fare rapporto a lei agente Gibbs.”
“Perché non vuoi mai farti aiutare.” il suo tono era di nuovo irritato.
“Mi sono fatta aiutare da Franks.”
“Ma non da me, perché?” il volto sembrava impassibile, ma lei riuscì a scorgere un accenno di delusione in quegli occhi cristallini che ora la stavano fissando in attesa di una risposta.
Abbassò il capo, era stanca, il fianco le doleva, la testa aveva iniziato a girarle per l’eccessivo sforzo e continuava a sentire gli occhi di Jethro su di sé.
Perché ti volevo proteggere” le disse una voce fastidiosa nella sua testa “perché era una faccenda personale e dovevo sbrigarmela da sola.” Risposero le sue labbra.
“Come hai fatto con la Grenouille? Un ottimo lavoro davvero.” disse beffardo
Colpita.
“Badi a come parla agente Gibbs.” Lo ammonì.
Perché dovevano sempre discutere, perché ogni conversazione finiva con un litigio. Si alzò infastidita e si diresse verso le la propria camera, Gibbs la raggiunse a metà scalinata.
“No direttore, questa volta non te ne andrai così, voglio sapere, ho il diritto di saperlo.”
“Dannazione Jethro! Perché non puoi mai accettare che me la cavi da sola. Perché devi sempre…”
Non le lasciò completare la frase. La sua bocca raggiunse quella di Jen, catturandola con un bacio. Sentì la punta della sua lingua sfiorarle il labbro inferiore prima di chiederle il permesso di entrare. Chiuse gli occhi e si lasciò trasportare dalle sensazioni di quel bacio, ritornando in una terra selvaggia che non aveva mai completamente abbandonato e dimenticato.
“Ti è sufficiente come risposta?” chiese allontanandosi un poco ma senza distogliere gli occhi dai suoi.
La vide sorridere impercettibilmente prima che il suo cellulare iniziasse a squillare.
“So come hanno fatto a trovarvi.” Disse la voce di Franks all’altro capo.











NdA:


* la frase è ripresa dalla puntata della terza stagione "Pivello" durante una discussione tra Gibbs e Jen nell'ufficio di quest'ultima.

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Capitolo 6
*** Capire ***


Siamo alle battute finali di questa storia, manca davvero poco ormai.





CAPITOLO SESTO. Capire




Washington – pub di periferia.


Era notte inoltrata quando Gibbs bussò alla porta del pub in cui Franks gli aveva dato appuntamento, un locale di periferia con un’insegna luminosa che avrebbe fatto invidia ad un centro commerciale, ma ora inevitabilmente spenta.
“Siamo chiusi.” Urlò una voce maschile dall’interno, “non sapete leggere?”
“Cerco Mike Franks.”
Una cassa di bottiglie venne poggiata a terra rumorosamente e poco dopo si udì lo scatto della serratura. Il proprietario doveva un favore a Franks ed era solo per questo motivo che aveva accettato di aprirgli il locale nel giorno di chiusura. Aveva il viso assonnato e la barba incolta di chi era stato buttato giù dal letto contro la propria volontà.
“Da quella parte.” Disse indicando l’angolo più lontano,“Se avete bisogno di me sono nel retro.” Aspettò che entrassero e dopo aver richiuso la porta sparì nel retro borbottando.
Franks era seduto ad uno dei tavoli tondi di ferro con un boccale di birra tra le mani. Aveva gli occhi arrossati e il viso pallido, doveva aver preso il primo volo disponibile per Washington e averlo chiamato appena aveva messo piede in città.
Lo sguardo di Franks corse veloce su Gibbs e poi si fermò sulla persona al suo fianco.
“Glielo hai detto.” Prese un sorso di birra e si pulì i baffi dalla schiuma, “ meglio così. Non dovrò dilungarmi in inutili giustificazioni.”
“Allora, Mike. Siamo tutt’orecchi.” Jen prese una sedia e la avvicinò al tavolo, mentre Gibbs le si sedeva accanto.
“Prima devo capire quanto ne sa il Pivello.”
“So tutto.” Ribatté Gibbs deciso.
Mike si fermò ad osservare Jen. In quella tavola calda, quando era certa che i suoi giorni sarebbero finiti su quel pavimento in mezzo alla polvere del deserto, lei gli aveva rivelato molto più del dovuto, gli aveva confessato i suoi sentimenti per Jethro. Lui si era limitato ad ascoltare e a commentare senza sbilanciasi troppo. Non conosceva i reali sentimenti dell’uomo anche se in più di un’occasione aveva intuito che provasse una forte attrazione fisica per il direttore, ma credeva si limitasse a questo. Non voleva dare alla donna vane speranze e allo stesso tempo non se la sentiva di sgretolare quel sentimento che le aveva visto nascosto nel cuore. Solo quando aveva visto Gibbs accanto a Jen all’ospedale aveva compreso che anche l’uomo provava qualcosa di molto più profondo.
Il direttore Shepard ricambiò lo sguardo di Franks con un cenno del capo a confermare che Jethro sapeva. Tutto.
“Cora Wayne.” Disse Mike solennemente. “Non vi dice niente?”
Jen rispose con prontezza. “Il quarto agente di Parigi, sì. Ma dalle ultime notizie, so che è in Messico.”
“Era.” Precisò Franks. “Ora è in viaggio per l’obitorio del NCIS di Washington.”
A Franks non sfuggì la sorpresa che comparve sui volti dei due agenti. “Forse è meglio se prima ordiniamo qualcosa. John!” chiamò.
La testa dell’uomo comparve da dietro una tendina colorata.
“Tre birre scure.”
“Grazie, Mike, ma io prenderò un caffè.” Lo corresse Jen.
“Allora due birre e un caffè.”
Il barista scomparve nel retro e poco dopo ritornò con due bottiglie di birra e una tazza di caffè fumante. Appoggiò le tre bevande sul tavolo con scarsa delicatezza e poi scomparve nuovamente dietro la tenda.
Franks prese un lungo sorso di birra, si pulì i baffi e prosguì: “Dopo Parigi Wayne e Deker, che erano i maggiori coinvolti in quell’operazione, sono stati costretti a lasciare gli Sati Uniti. Sono andati in Messico con una nuova identità e hanno cominciato una nuova vita, indipendenti l’uno dall’altro, ma rimanendo in contatto.
“Deker, come ben sapete, si è trovato una compagna e dopo qualche anno, quando le acque si erano calmate,si è trasferito a Los Angeles e pian piano a ripreso la sua identità e il suo lavoro, ma per Wayne le cose sono andate diversamente. A Parigi non aveva lasciato solo un cadavere.”
“A quanto pare ti sei dato da fare mentre eri in Messico.” Lo interruppe Gibbs.
“C’è chi lavora e chi si diverte a fare l’infermiere a domicilio.” Lo schernì Franks, ricevendo in cambio uno sguardo di rimprovero da parte di Jen. “Comunque,” proseguì, “Cora Wayne si era invaghita di un uomo, Johnathan Patterson. Non so molto di lui, solo ciò che sono riuscito a scoprire parlando con le conoscenti di Cora. Diceva che faceva il giornalista.
“Arrivata in Messico la Wayne ha cercato di mettersi in contatto con Patterson, ma a quanto pare non è mai riuscita a rintracciarlo, finchè un paio di mesi fa è stato lui a trovarla.”
Da quando Franks aveva iniziato a parlare Gibbs non aveva mai smesso di spostare lo sguardo da lui al direttore. Jen era pallida, la ferita doveva farle male perché ogni tanto contraeva la mascella trattenendo una smorfia di dolore. Ascoltava Mike senza perdere una sillaba ed era sicuro che anche la sua mente stesse formulando le stesse conclusioni.
“Non era un giornalista, vero?”
Franks prese un altro sorso di birra. I bicchieri di Jethro e la tazza di Jen erano ancora colmi.
“Il suo vero nome è Aleksiej Levin Patterson, russo per parte di madre e inglese di padre. A diciassette anni ha commesso il suo primo omicidio su commissione. Nel 1999 era a Parigi con lo scopo di assassinare un giudice. È meticoloso, non lascia nulla al caso e non lascia tracce. ”
“E ora lavora per Svetlana,” Jen sospirò con rassegnazione. “ Ha ottenuto dalla Wayne le informazioni che voleva e poi si è sbarazzato di lei.”
“Da quanto è morta?” Chiese Gibbs.
“Una settimana, o poco più.”
“Come sei riuscito ad ottenere il trasferimento del corpo?”
“Non ho chiesto aiuto al direttore Vance, se è questo che vuoi sapere Pivello. Il medico legale della contea è un mio vecchio amico e ho ancora qualche contatto qui a Washington che mi permette di agire liberamente.”
Gibbs gli regalò un sorriso sornione, conosceva il contatto di cui si era servito Mike, l’aveva conosciuta una volta. Una donna piccolina dai capelli scuri e il sorriso invitante.
“Deker è morto più o meno nello stesso periodo.” Cominciò a dire Gibbs, ma Franks lo interruppe con un’occhiata. John, il cameriere stava venendo al loro tavolo.
“Sentite,” cominciò a dire John, “io tra tre ore riapro il locale. Sono rimasto in piedi tutta la notte e non mi farebbero schifo un paio di ore di sonno.” Spostò lo sguardo alla finestra: il cielo si stava tingendo dei chiari colori dell’alba.
“Ancora cinque minuti, John.” Disse Franks, “poi ce ne andiamo.”
Il barista annuì con il capo e se ne andò borbottando qualcosa che assomigliava a “con questo considera pagato il mio debito.”
Attesero finchè non sentirono il rumori nel retro, poi Gibbs riprese a parlare: “Patterson non ha perso tempo, una volta scoperto dove si trovava Deker”
“Dopo quello che è successo a Los Angeles Svetlana sarà ancora più determinata, non ci metterà molto ad arrivare a Washington.” Disse Jen.
Gibbs posò una mano sulla sua, voleva farle capire che questa volta lui ci sarebbe stato, se lei glielo avesse permesso. Jen sorrise impercettibilmente.
“Credo sia ora di svegliare DiNozzo e gli altri, dobbiamo far controllare tutti gli aeroporti e le dogane.”
Prese il cellulare e compose il numero. La voce dell’agente risuonò assonnata all’altro capo “Pronto?”
“La sorveglianza è sospesa, DiNozzo” disse Gibbs, “abbiamo altre priorità…”







Los Angeles – in un condominio affacciato sul mare

Il monolocale si trovava all’ultimo piano di un grattacielo affacciato sulla spiaggia. Sottili spirali di fumo si alzavano da un posacenere di vetro blu nel quale era stato bruciato un bigliettino di carta.
L’odore acre di un sigaro acceso da poco si mescolava a quello dolciastro del sangue. Nella vasca da bagno, immerso fino alla vita nell’acqua schiumosa e rossastra, giaceva il cadavere di un uomo. La testa ciondolava di lato, quasi recisa dal collo e i lunghi capelli corvini ricadevano sparsi. Un sigaro gli era sfuggito dalle dita e ora giaceva consunto sul pavimento del bagno. Il volto contratto in un’espressione di sorpresa.
“A quanto pare non se lo aspettava.” L’agente Lara Macy si rivolse ad uno dei colleghi “mi raccomando documentate tutto.”
Da quando Gibbs se ne era andato da Los Angeles aveva deciso di seguire il suo istinto e condurre un’indagine parallela su ciò che aveva appreso della sparatoria nel deserto. Ricordandosi di alcune conversazioni avute a suo tempo con Deker e grazie ad alcuni agganci all’ NCIS di Washington era riuscita a risalire a Natasha Lenkov, da qui a scoprire il suo vero nome il passo era stato breve. Qualche colloquio con i dipendenti dell’hotel in cui alloggiava la Lenkov le era bastato per avere la descrizione di Patterson e scoprire il suo indirizzo.
Sperava di riuscire a precedere Svetlana, ma a quanto pare lei aveva ottenuto le informazioni che le servivano, non aveva più bisogno di lui.
“Agente Macy.” La chiamò un’agente porgendole un bigliettino mezzo bruciato, “lo abbiamo trovato nel caminetto.”
Macy prese il biglietto e lesse le poche righe rimaste. Devo avvertire Gibbs, pensò e la sua mano scattò verso il cellulare.

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Capitolo 7
*** Epilogo (prima parte) ***


CAPITOLO SETTIMO. Epilogo (prima parte)

 

Washington

 

“Jenny!” Il grido precedette di poco lo sparo, dando all’uomo il tempo di vedere il volto della donna che si girava verso di lui. Poi scattò il grilletto. Un boato echeggiò sospeso nella stanza, rendendo irreale il silenzio che ne seguì.

L’abito si squarciò come se fosse stato di carta velina e una macchia scarlatta comparve poco sopra il cuore. La pallida pelle si era lacerata un’ultima volta.

La donna barcollò verso Gibbs, lo fissò per un infinito istante con un sorriso sulle labbra e si lasciò cadere a terra.

L’agente le corse incontro, nel tentativo di sorreggerla, ma il corpo finì a terra con un ultimo spasmo. Gli si inginocchiò accanto e spostò una ciocca di capelli ramati che le coprivano il viso. Una mano corse lungo il collo esile per tastare la giugulare con dita tremanti.

Nessun battito.

Tenne le dita premute ancora per un poco, per accertarsi di non essersi sbagliato, ma non ottenne la risposta che stava cercando.

“È morta.” Confermò, infine, alzando la testa.

 

 

Due giorni prima...



Nota dell'autrice:


Ho deciso di dividere l'epilogo in due parti, giusto per essere un pochino perfida e lasciarvi ancora un poco con un senso di attesa. Nel frattempo io sto finendo di scrivere la seconda parte dell'epilogo, per dare senso a queste poche righe qui inserite...
 

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Capitolo 8
*** Epilogo (seconda parte) ***


Tre anni e mezzo, questo il tempo trascorso dall'ultima pubblicazione di questa storia... accidenti. Ma alla fine l'ho terminata, con numerose variazioni, ripensamenti e correzioni. 
Chiedo scusa a coloro che hanno letto e avevano perso le speranze.

Due settimane prima

 

 

29 giugno.  Ore 7.40

 

Washington – sede NCIS

 

Quando entrò nell’open-space l’umore di Gibbs era nero quanto le nubi che da giorni coprivano il cielo di Washington. Tony, Ziva e Tim non lo vedevano così da quando Ari aveva sparato a Kate e nemmeno allora aveva quell’espressione corrucciata e rabbiosa. Pareva una belva braccata senza via d’uscita.

«Ci sono novità?»­ La sua voce sembrava un ringhio.

 I tre agenti in quel momento erano in piedi davanti al monitor e stavano osservando una cartina sulla quale erano indicati gli spostamenti compiuti da Svetalana durante le ultime settimane. Ci era voluto un po’ di tempo e il prezioso aiuto della squadra di Los Angeles per ricostruire tutti i suoi movimenti, ma alla fine erano riusciti a tracciare il suo percorso. Almeno fino al giorno in cui era sparita definitivamente, lasciandosi dietro il cadavere di Patterson e alcuni fogli bruciacchiati. In uno di essi – quello rinvenuto nell’appartamento di Los Angeles dagli uomini di Lara Macy – era segnato l’indirizzo di casa della Shepard. La Macy aveva prontamente avvertito Gibbs con una telefonata e subito era scattata una caccia all’uomo, che però non aveva ancora prodotto risultati. Fosse stato per lui avrebbe messo un posto di blocco lungo qualsiasi strada principale, sentiero o mulattiera, ma ovviamente questo non era possibile.

«Mi state dicendo che non ci sono state segnalazioni nelle ultime ventiquattro ore? Spero che Abby abbia notizie migliori delle vostre.»

«Ehm capo?» DiNozzo fece un passo verso Gibbs, «come sta il direttore?»

«Vuole che questa storia finisca il prima possibile. E lo voglio anche io, perciò al lavoro.»

«Sarà stato saggio lasciarla da sola, visto quel che rischia?» McGee si rese conto troppo tardi di ciò che aveva detto, quando il capo si voltò verso di lui, rabbioso. «Ehm, volevo dire che…beh, so che non è sola, intendevo agenti che non siamo noi…la sua incolumità… sì, ecco…»

«Franks è con lei.»

«Mike è qui?»

«Sì, DiNozzo. Proprio dietro di te.» la voce di Franks gli arrivò alle spalle, facendo sussultare l’agente. Jen gli era accanto e si teneva al suo braccio.

Si erano organizzati con una sorveglianza maggiore e di tanto in tanto spostavano il direttore di alloggio: a volte a casa di Gibbs, altre di DiNozzo o dell’agente David. Se non altro il tempo trascorso aveva permesso alla ferita di Jen di rimarginarsi piuttosto bene, tuttavia i frequenti spostamenti iniziavano a stancare il direttore che appariva piuttosto provata e irritata.

 «Non dovresti essere qui.» Gibbs guardò il direttore con disappunto.

«Ci sono novità?» chiese Jen rivolta agli agenti.

«Non ancora, direttore.» Ziva fu la prima a rispondere.

«Bene. Informatemi appena avrete qualche notizia.» Poi si girò verso Gibbs. «Io sarò nel mio ufficio.»

Jen lasciò il braccio di Franks  e salì i gradini che portavano al piano di sopra.

Mike Franks si limitò ad una alzata di spalle  «è una donna testarda, Pivello.»

«Tornate al lavoro. Quando torno voglio dei risultati.» Gibbs squadrò gli agenti e poi salì i gradini a due a due.

«Dannazione, Jen! Si può sapere che cosa ti è saltato in mente? Dovevi restare a casa con Franks e gli agenti di sorveglianza.»  La porta dello studio si richiuse alle spalle con un tonfo sordo.

La donna andò a sedersi sul divanetto in fondo alla stanza, non era pronta per uno scontro. Non questa volta. Non dormiva bene da mesi e per quanto le ferite si fossero rimarginate, non aveva ancora riacquistato completamente le forze. «Ti prego, Jethro, non ora. Non ho le forze necessarie per tenerti testa. E poi…sono stanca.»

«Ottimo, così la finiremo prima. Prendi le tue cose e torna a casa con Mike. Sei molto più al sicuro lì.»

«No, Jethro. Sono stanca di nascondermi. È ora di mettere fine a questa cosa.»

Aveva ragione, Gibbs lo sapeva, la situazione stava diventando pesante per tutti. Nemmeno lui riusciva a chiudere occhio la notte. Quando era addetto al turno di sorveglianza trangugiava litri di caffè con il risultato che al mattino era più scorbutico del solito. E se erano altri addetti al turno, non faceva che chiamarli ogni mezz’ora per controllare che tutto filasse liscio.

Prese un profondo respiro e si sedette accanto al direttore. «E cosa proporresti di fare, Jen, sentiamo.»

«Lo sai bene, ne abbiamo discusso molte volte.»

«Non se ne parla. Non questa volta.»

«Sai bene che l’unica soluzione, la più logica. Tutti gli altri tentativi sono falliti.»

«Non farai ancora da esca.» La sua voce si addolcì «Hai visto cosa è successo l’ultima volta, ne stai ancora pagando le conseguenze.» Il suo sguardo cadde sul corpo di Jen, dove i colpi dei killer solo pochi mesi prima avevano lasciato cicatrici indelebili. Le accarezzò una guancia e le sollevò il mento avvicinando le sue labbra, erano così vicini che Jen non potè fare a meno di tremare.  Era trascorso quasi un mese da quel loro unico bacio e da allora non si erano più trovati in una situazione intima. Non avevano nemmeno più parlato di quel bacio e nonostante sapesse bene che le priorità erano altre, che catturare Svetlana fosse al primo posto, non riusciva a non pensare a quella notte e alle parole che Gibbs le aveva detto. Era incredibile come da sempre quell’uomo riuscisse ad avere un tale potere sulle sue emozioni.

«No.» Jen lo respinse delicatamente ma con decisone. «Non cambierò idea, non questa volta.»

Jethro abbassò la testa e sospirò, non era d’accordo con la decisone di Jen, ma la capiva, in fondo anche lui avrebbe agito allo stesso modo. «Va bene, faremo a modo tuo. Ma almeno promettimi che indosserai il giubbotto antiproiettile.»

«Sai che non servirà a nulla, Svetlana è una professionista, mirerà alla testa per essere sicura.»

«Lo so, ma tu indossalo lo stesso.»

Jen sorrise e annuì. Quando Gibbs si alzò per andare alla porta, Jen non potè fare a meno di pensare a quante volte lo avesse deluso e respinto e che nonostante tutto lui fosse sempre lì, accanto a lei nel momento del bisogno. Lo chiamò prima che varcasse la soglia.

«Jethro… Grazie.»

 

 

 

 

12 luglio. Ore 19.00

 

Washington D.C. – Casa del direttore Shepard.

 

Due settimane, questo il tempo necessario per organizzare tutto. Jethro dal canto suo continuava a non essere d’accordo con la decisione di Jen, ma si era rassegnato. Se volevano porre fine a questa storia dovevano agire.

Dopo aver messo a punto il piano in ufficio, Jen era rientrata a casa e lì era rimasta. I primi giorni la sorveglianza era stata organizzata come di consueto, tre o quattro agenti con turni di otto ore, in questo modo se uno o due uscivano per fare delle commissioni per il direttore, Jen non sarebbe comunque mai rimasta sola. Poi a  mano che passavano i giorni gli agenti erano diminuiti e l’unico agente rimasto di tanto in tanto si allontanava, lasciando il direttore da sola. Questo almeno era ciò che sembrava.

Jethro e i suoi agenti erano sicuri che Svetlana sorvegliasse la casa e tutti i loro movimenti e Gibbs aveva faticato ad introdursi in casa del direttore senza essere visto, ma c’era riuscito. L’occasione si era presentata in occasione di una piccola fiera di quartiere, che si teneva ogni anno in quel periodo. Approfittando della confusione era riuscito ad entrare a casa di Jen e non ne era mai uscito. Si era tenuto lontano dalle finestre e quando accedeva alla camera degli ospiti che Jen gli aveva riservato non accendeva mai la luce per evitare di attirare l’attenzione o essere visto.

Tuttavia i giorni passavano senza che accadesse nulla e dopo quasi due settimane di “reclusione”, Gibbs iniziava a dare i primi segni di impazienza.

«Se Svatlana non fa qualcosa saremo costretti a spostarti, Jen» Jethro era seduto al tavolo della cucina, in una stanza in penombra. Le temperature esterne erano piuttosto elevate e per evitare il caldo Jen aveva accostato i balconi, un’idea saggia che permetteva di non essere visti dall’esterno.

«No. Resterò qui.» Ribattè Jen, posando la moka di caffè sui fornelli.

«Inizierà ad insospettirsi, non sei mai rimasta in un posto troppo a lungo.»

«Non vuoi che si faccia a modo mio, è questo che non accetti. Hai rimosso quasi tutti gli agenti. Svetlana penserà che abbiamo abbassato la guardia, che dopo tutti questi mesi di inattività da parte sua ci sentiamo sicuri. È per questo che non voglio essere spostata.»

Il caffè era pronto e Jen ne versò una dose abbondante a Jethro, riservandone una più contenuta per sé, mise un cucchiaio di zucchero nella propria tazza e porse quello amaro all’uomo.

Gibbs la guardò con rassegnata ammirazione. Era una donna forte, passionale e amorevole, come aveva avuto modo di constatare durante la loro relazione, ma era dannatamente testarda, molto più di lui. Alla fine, ancora una volta, cedette alla volontà di Jen e non riuscì a trattenere un sorriso.

«E adesso che c’è?» Chiese il direttore.

«Ci atterremo al tuo piano.»

«Grazie.»

«È la seconda volta che mi ringrazi in meno di un mese.»

Jen sorrise.

 

 

 

 12 luglio. Ore 19.50

 

Washington D.C. – Casa del direttore Shepard.

 

La porta d’ingresso si aprì silenziosamente, i cardini non cigolarono. La donna entrò con circospezione. Si era tinta i capelli di un caldo colore ramato che portava sciolti sulle spalle e indossava un lungo impermeabile beige sotto al quale aveva nascosto l’arma, una revolver di piccolo calibro che ora era stratta nella destra, adagiata lungo il fianco. Alla fine del corridoio c’era una porta aperta dalla quale filtrava una luce calda. Svetlana vi si diresse a passo sicuro, certa di trovarci Jen. Aprì la porta, ma oltre la grande scrivania in rovere notò con sorpresa che ad attenderla c’era un uomo. Gibbs le dava le spalle, lo sguardo rivolto al viale alberato oltre la vetrata, in mano un bicchiere di Bourbon..

«Ciao Natasha*.» La salutò senza voltarsi, osservando il suo riflesso nella finestra. «O preferisci che ti chiami…Svetlana».

Lei non parve affatto sorpresa, si limitò a studiarlo. Aveva spalle larghe e un fisico atletico e a discapito dei capelli grigi doveva essere ancora giovane..

Gibbs si girò e Svetlana ebbe conferma delle suo ipotesi, aveva poco più di quarant’anni.

 «Niente affari, è una cosa personale.» Era vero, non si trattava di lavoro, la vita di Jen non era una priorità dell’agenzia, era una sua priorità. Se ne era reso conto in quei mesi, quando in qualche modo si erano riavvicinati.

 Svetlana era rimasta sorpresa nel trovarselo davanti, si aspettava la donna, ma si rese conto che dovevano averla trasferita in qualche modo. «Sei stato tu ad uccidere Alatoly?» Andò dritta al punto, quello era un regolamento di conti. L’occasione le si presentava in modo così semplice. Aveva notato che Gibbs era disarmato, la pistola era appoggiata sulla scrivania ed un palmo dall’uomo, ma non sarebbe comunque stato abbastanza rapido a prenderla. Avrebbe eliminato lui e poi sarebbe andata a cercare la donna. Non doveva essere molto lontana.

 «Che cos’era per te?»

«Tutto.» Per un attimo a Svetlana tremò la voce, ma non si fece distrarre, ricacciò le lacrime al pensiero del suo amato.

 «Perché ora

«Perché solo ora sono riuscita a trovarti.» Mentì, ma che importava, li avrebbe uccisi entrambi, vendicando Alatoly e riprendendosi la sua vita. Alzò la pistola, puntando la canna verso Gibbs.

«La notte in cui è morto una donna era venuta per ucciderti… che cosa è successo?» Jethro voleva capire, non riusciva a credere che Jen non fosse riuscita a portare a termine la missione. Per quanto a quel tempo fosse stata ancora giovane e inesperta, non aveva mai fallito.

«Non ha potuto farlo.» Un ghigno beffardo comparve sulle labbra di Svetlana.

«Ma ora posso.» La voce arrivò dalla sua destra. Dietro alla credenza che conteneva i liquori c’era un’apertura a volta che Svetlana non aveva notato fino a quel momento. Jen le si parò davanti con la pistola puntata contro di lei.

I grilletti furono premuti all’unisono e il boato che ne seguì parve assordante. Gibbs non poté fare a meno di gridare il nome di Jen, mentre questa, colpita in pieno petto, oscillò scivolando a terra. L’agente guardò Svetlana. La camicia candida era squarciata, il volto pallido e un sorriso di scherno sulle labbra. Crollò a terra con un ultimo sussulto. Gibbs le andò vicino, tastando la carotide, non c’era battito. «È morta.»

Ancora a terra, Jen aprì gli occhi e si tastò il petto. La camicia si era strappata, lo sterno le doleva un poco per via del contraccolpo, ma il giubbotto antiproiettile aveva fatto il suo dovere. Per la seconda volta quella sera sorrise a Gibbs.

«Stai per ringraziarmi ancora una volta?» Chiese Jethro aiutandola ad alzarsi.

«Sì, ma non farci l’abitudine» Si alzò in punta di piedi e lo baciò.


* I dialoghi in corsivo sono tratti dall'episodio 5x19

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