Judgement Day, a second chance di Fink (/viewuser.php?uid=206983)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Il signor Oshimaida ***
Capitolo 3: *** Le persone cambiano ***
Capitolo 4: *** Ritorno in città ***
Capitolo 5: *** Effetti collaterali ***
Capitolo 6: *** Capire ***
Capitolo 7: *** Epilogo (prima parte) ***
Capitolo 8: *** Epilogo (seconda parte) ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Vi ricordate la mia prima long (libri e misteri)? bene, dimenticatela. O meglio consideratela una storia a sè, senza alcun sviluppo successivo.
Questa che vi propongo è una premessa alternativa a "Conosci te stesso"... ovviamente il finale, come potrete immaginare sarà un po' scontato dato il sequel, però spero che lo svolgimento vi incuriosisca lo stesso...
Disclaimer: i personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà si D. P. Bellisario e di D. McGill che ne detengono tutti i diritti.
JUDGEMENT DAY, A SECOND CHANCE
CAPITOLO PRIMO. Prologo
12 Maggio. Ore 16.15
Washington D.C.– Casa di Gibbs
Gibbs era
seduto al
buio nella sua cantina accanto alla barca ancora in costruzione, in una
mano
teneva uno dei proiettili della sua pistola e nell’atra la
foto di quello
estratto dal corpo “della Rana”, coincidevano
perfettamente.
La
realtà
dell’accaduto gli si presentava davanti in modo palese e
immediato: ricordava
benissimo quando, poche settimane prima, aveva appoggiato il proprio
caricatore
sul tavolo nello studio in penombra che era stato del padre di Jen.
Ricordava
anche come lei glielo avesse restituito, completo di tutti i proiettili.
Eppure ogni
indizio
era lì davanti a lui, e non c’era
possibilità di errore: ricordava lo sguardo
mesto di Jen mentre posava il caricatore sulla sua scrivania,
ringraziandolo.
Era ancora la stessa Jen eppure qualcosa era cambiato, come mai non se
ne era
accorto? Rigirò tra le dita il proiettile appena preso dal
caricatore e lo
confrontò per l’ennesima volta con quello della
foto: erano identici. Bevve un
sorso di bourbon e si appoggiò allo schienale della sedia.
Perché non ci aveva
pensato? Perché lei non aveva chiesto il suo aiuto,
perché poi avrebbe dovuto.
La conosceva abbastanza da sapere quanto fosse orgogliosa e testarda e
quanto
difficilmente accettasse l’aiuto di qualcuno, compreso il
suo. Ma come poteva
biasimarla. Lui stesso si era vendicato, lui stesso aveva rincorso
l’assassino
della sua famiglia fino in Messico, nessuno a quel tempo avrebbe potuto
fargli
cambiare idea, era accecato dalla vendetta e dall’odio.
Sapeva che se mai la
cosa fosse stata scoperta avrebbe potuto compromettere la sua carriera,
ma era
disposto a correre questo rischio. Gibbs prese uno dei fogli di carta
vetrata
che era sul tavolo e si avvicinò allo scafo della barca e
cominciò a levigare
lo scafo, seguendo attentamente le venature del legno, continuando a
pensare al
direttore.
Jen aveva
fatto
esattamente la stessa cosa, aveva dato la caccia
all’assassino del padre per
anni e quando le si era presentata l’occasione buona aveva
portato a termine la
sua vendetta a costo di rimetterci la carriera. La C.I.A. sembrava aver
addossato la colpa del delitto ad un concorrente, ma per quanto la cosa
sarebbe
rimasta celata? Lui sembrava essere l’unico a conosce la
verità, almeno per
ora. Forse era proprio quello che Jen sperava, forse nel restituire il
caricatore era celata una silenziosa richiesta di aiuto. Leon Vance si
sarebbe
aggrappato a qualsiasi cavillo, Jen era un ottimo direttore, non
meritava
questo.
Prese il
cellulare
che aveva distrattamente appoggiato su uno dei ripiani e compose il
numero
della Shepard.
∂∂∂
12 Maggio. Ore 17.00
Los Angeles – Deserto
Tony e Ziva
aprirono la porta della tavola calda ed entrarono con le pistole
spianate:
l’aria era impregnata dall’odore della polvere da
sparo e quattro corpi
giacevano a terra ormai privi di vita, affogati nel loro stesso sangue,
c’erano
bossoli ovunque: sembrava si fosse svolta una piccola guerriglia. Un
gemito
soffocato proveniente da dietro il bancone attirò la loro
attenzione e i due
agenti avanzarono piano con le armi ancora strette in pugno. Jen era
seduta a
terra, la schiena appoggiata alla parete, la bella camicia azzurra era
impregnata di sangue, aveva gli occhi chiusi e il viso terreo. Tony e
Ziva si
guardarono con gli occhi terrorizzati poi Tony prese coraggio e le si
avvicinò
per sentire il battito.
“È
solo svenuta.”
Disse una voce roca alle loro spalle.
Mike Franks
si
avvicinò a loro, la camicia strappata, il volto tirato e
imperlato di sudore,
mentre un rivolo scarlatto scendeva dalla fronte lungo la guancia
ispida.
“Mike…ma…?”chiese
Ziva preoccupata.
“Un
colpo di
rimbalzo, è solo un graffio.”
“Il
direttore?”
“Ho
fermato
l’emorragia con la camicia” disse indicando i lembi
di stoffa legati attorno alla
vita di Jen “un colpo di striscio le ha colpito il braccio,
ma uno dei
proiettili temo abbia fatto qualche danno in più
… ho già chiamato
l’ambulanza.”
“Cosa
è successo?”
chiese Tony.
“Non
qui DiNozzo…
aspettiamo l’ambulanza.”
In quello
stesso
istante il cellulare di Jen squillò, Tony lo prese tra le
mani e lesse sul
display il nome di Gibbs.
Spero di essere riuscita ad incuriosirvi almeno un pochino con questo brevissimo inizio... se vi va fatemi sapere cosa ne pensate.
Un abbraccio
Fink
|
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Capitolo 2 *** Il signor Oshimaida ***
Disclaimer: i personaggi sono di proprietà di D. P. Bellisario e D. McGill che ne detengono tutti i diritti. Tutto ciò che invece esula dalla trama originale della serie è attribuibile a me.
CAPITOLO
SECONDO. Il
signor Oshimaida
13 Maggio. Ore 8.00
Los Angeles - Deserto
L’auto
si fermò con
una brusca frenata, sollevando una nube di polvere sottile che si
posò sulla
vettura, imbiancando la carrozzeria.
“Vi
avevo chiesto
di aspettare.” Sbottò Gibbs rivolgendosi ai due
agenti che stavano trasportando
alcuni scatoloni su un pick-up scuro.
“Ma
io non potevo.”rispose
una voce maschile dalla soglia.
“Leon!”
“Tu
hai chiamato il
Secnav e loro hanno chiamato me. Ai piani alti sono un
po’nervosi. Prima il
direttore viene sospeso perché si teme un coinvolgimento
nell’omicidio di un
trafficante d’armi e ora, a tre giorni dal suo reintegro,
è coinvolta in una
sparatoria in mezzo al deserto.”
“Un
bel ginepraio
eh? Hanno mandato te a ripulire la stalla?” concluse
l’agente anziano con una
nota ironica.
“Non
scherzare con
me Gibbs.” Vance spostò lo stuzzicadenti da un
lato all’altro della bocca e si
voltò per entrare nella tavola calda, seguito a poca
distanza dall’agente.
Alcuni
cartellini
numerati erano disposti a terra, segnando il punto di giacitura dei
bossoli e
dei cadaveri; poco oltre il bancone, un foglietto di carta indicava
dove si
trovava il corpo del direttore. Gibbs guardò la pozza di
sangue raggrumato,
immaginando la figura inerme di Jen distesa a terra e sentì
un improvviso
conato salirgli alla bocca dello stomaco, che cercò di
ricacciare con la stessa
rapidità con cui si era presentato. Si girò verso
il vicedirettore, che stava
tentando di ricostruire la dinamica dell’accaduto
“erano in quattro, due sono
entrati dalla porta d’ingresso, gli altri due dal lato. Ha
aperto il fuoco
contro il primo, che si è accasciato qui, poi si
è rivolta verso il secondo. Il
terzo e il quarto le sono arrivati alle spalle…Mike Franks
è entrato dalla
porta sul retro.”
“Deve
aver colpito
l’uomo alle spalle.”
“È
così che i tuoi
uomini proteggono il direttore di un’agenzia federale Gibbs!?
Dovrei sospenderli.”
“I
miei uomini non
hanno commesso nessun errore.”
“Sei
pronto a
garantire per loro?”
“È
il mio
distintivo che vuoi Leon? O punti al posto di direttore?”
Vance
incassò il
colpo “Tu resti qui a sovrintendere la mia indagine. Voglio
sapere cosa è
successo qui dentro.”
“Quando
lo saprò te
lo dirò Leon.” Rispose l’agente e
uscì.
“Capo…”
DiNozzo si
fermò davanti a Gibbs con in mano uno degli scatoloni colmi
di reperti, poteva
leggergli l’apprensione e il senso di colpa sul viso.
“Non
è colpa tua
Tony, hai eseguito gli ordini.”
“Franks
è con il
direttore.” Lo informò Ziva: cerva di nasconderlo,
ma la sua postura e la sua
voce tradivano una certa apprensione.
“Lo
so. Voglio che
voi ritorniate a Washington con i corpi e tutto il resto. Tony, tu
condurrai
l’indagine da Washington fino al mio ritorno.”
“Tu
dove vai?”
“A
parlare con
Mike.” Tuonò Gibbs prima di incamminarsi verso
l’auto e comporre il numero di
Ducky.
Tony e Ziva
lo
guardarono allontanarsi lungo la statale, poi si rivolsero al
vicedirettore
Vance “qui abbiamo quasi finito, signore.”
“Bene.
Mi aspetto
un rapporto dettagliato dell’accaduto, appena sarete
rientrati.” Concluse prima
di sparire nel pick-up e mettere in moto.
“Non
sei l’unico ad
averla lasciata da sola Tony.” Bisbigliò Ziva
mentre raccoglieva la macchina
fotografica.
“Sono
l’agente più
anziano. La responsabilità era mia.”
Affermò gettando con rabbia lo zaino sul
sedile posteriore dell’auto.
∂∂∂
13 Maggio. Ore 18.30
Los Angeles - California
Hospital Medica Center
Gibbs
varcò la
soglia del pronto soccorso e si avvicinò alla caposala
“Jennifer Shepard. È
stata ricoverata ieri con ferite d’arma da fuoco.”
“Lei
è un parente?”
“Agente
speciale
Gibbs, sono…un amico.” Rispose mostrando il
distintivo del NCIS.
La donna
digitò il
nome al computer e avviò la ricerca “il suo
direttore si trova al secondo
piano, stanza 72” indicò l’ascensore, ma
poco dopo lo vide salire le scale, due
gradini alla volta.
Mentre
copriva la
distanza che lo separava da Jen, si guardò attorno alla
ricerca di Mike Franks:
era sicuro che si trovasse ancora lì, non solo
perché glielo aveva detto Ziva,
ma perché lo conosceva abbastanza per sapere che non avrebbe
lasciato da sola
Jen, nonostante le molte lamentele sulla presenza di un direttore
donna.
La porta a
vetri si
aprì automaticamente quando passò davanti alla
fotocellula: un medico era in
piedi accanto al letto e stava controllando le medicazioni.
“Come
sta?”
bisbigliò cogliendo di sorpresa l’uomo.
“Ha
superato bene
l’operazione. Il proiettile è entrato e uscito, ha
perso una discreta quantità
di sangue me se la caverà. Lei è un
parente?”
“Un
amico.” Rispose
senza esitazione.
“Le
ho
somministrato degli analgesici, ora sta dormendo, ma se vuole
può restare qui
per un po’.” Lo avvisò prima di uscire e
lasciarlo da solo, nella stanza in
penombra.
Jethro sì
avvicinò piano al letto, fermandosi
a poca distanza da Jen. Il viso, incorniciato dai lunghi capelli rossi
era
pallido, ma il respiro era regolare e gli sembrò
così fragile avvolta nelle
lenzuola bianche e asettiche, che sentì il bisogno di
sfiorarle la fronte,
quasi a trasmetterle un po’del proprio calore.
“È
una donna forte.”
Franks era comparso sulla soglia con in mano un pacchetto di sigarette
e un
vistoso cerotto sulla fronte.
Gibbs
indugiò
ancora un poco accanto a Jen, prima di raggiungere il suo ex capo e
guardarlo
con espressione interrogativa.
“Usciamo
da qui
Pivello, ho bisogno di una sigaretta.” Asserì
Franks e lo precedette verso
l’ascensore, premendo il pulsante del pian terreno.
“E
io di un caffè.”
I due
uomini
camminarono in silenzio per qualche minuto, attraversando uno dei
giardini
davanti all’ospedale, lambiti dai caldi raggi del sole di
maggio, ormai
prossimo al tramonto.
“Ti
ascolto Mike.”
L’uomo
prese una
lunga boccata di fumo prima di cominciare “mi ha chiamato due
giorni fa, dopo
il funerale di Deker, dicendo di volermi parlare. Aveva bisogno
dell’aiuto di
qualcuno che fosse esterno all’agenzia.”
“Ti
ha detto
perché?”
“Ha
parlato di una
vostra missione in Europa.”
“Ho
passato molto
tempo in Europa, Mike.”
“Al
funerale di
Deker ha detto di aver sentito che qualcuno cercava il signor Oshimaida
e che quello
era il termine da usare se la vostra copertura fosse
saltata.”
“A
Parigi.” Sospirò
Gibbs, mentre la mente tornava a quel lontano 1999.
“Che
cosa ti ho
sempre detto riguardo alle faccende in sospeso.”
“Ne
siamo usciti
puliti, tutti e tre.”
“
Eppure lei e
Deker erano a conoscenza di qualcosa che tu non sapevi.”
Franks prese un ultima
boccata di fumo, prima di spegnere la sigaretta e gettarla in uno dei
cestini “la
copertura di Deker era saltata, ma invece di fare i vostri nomi, vi ha
dato un
avvertimento, lasciandoci un po’ di tempo.”
“Che
cosa è
successo?” chiese portando il bicchiere alle labbra.
“Deker
aveva
lasciato una polizza assicurativa, codificata nelle foto. Tranquillo,
Pivello,
le carte sono uscite dalla finestra due giorni.”
“Mike.
Che cosa è
successo laggiù.” Incalzò nuovamente.
“Ero
uscito a
prendere dell’acqua quando li ho visti entrare: due dalla
porta principale e
due dal retro. Jen ha sparato due colpi in rapida successione contro il
primo,
non ha nemmeno avuto il tempo di reagire. È stata colpita al
braccio e ha
risposto con tre colpi. I due che le sono arrivati di lato hanno aperto
il
fuoco, un proiettile le ha colpito il fianco, si è girata e
ha sparato. Io sono
entrato in quel momento.”
“Ma
non sei
riuscito a coprirle le spalle.” Aveva l’aria truce,
ma Mike continuò senza
dargli ascolto “ha colpito il terzo alla gamba e si
è rivolta verso il quarto. L’uomo
a terra si è rialzato, uno dei proiettili mi ha preso di
rimbalzo prima che io
riuscissi a fermarlo.”
Camminarono
in
silenzio per quasi mezz’ora, ciascuno immerso nei propri
pensieri, accarezzati
dalla calda brezza che accompagnava il tramonto.
“Sai Pivello, sono
poche le persone che ho
visto sparare così, e di sicuro mai una donna.
L’hai addestrata bene!” affermò
infine, rompendo il silenzio.
A Gibbs
scappò un
sorriso e una serie di immagini dal passato gli passarono davanti:
rivide sé stesso
assieme a Jen al poligono di tiro, intento a migliorarne la postura o a
scommettere su chi facesse il maggior numero di centri.
“Già,
ma non c’ero
neanche questa volta.” Sussurrò a sé
stesso guardando verso l’edificio grigio
in cemento armato, prima di tornare su suoi passi, con Franks al suo
fianco.
∂∂∂
13 Maggio. Ore
20.15
Washington D.C. – Sede NCIS
Il
laboratorio di
Abby era stranamente silenzioso, mancava qualcosa, mancava la musica, quel frastuono assordante
che ti accoglieva e
ti frantumava i timpani non appena uscivi dall’ascensore.
“Niente
Materia cerebrale o Plastic
death?” Chiese DiNozzo entrando in quel momento
assieme a
McGee e appoggiando un bicchiere di Caf-Pow sul tavolino.
“Tonyyy!”
la
scienziata gli gettò le braccia la collo “Sei
vivo! Ziva è ancora intera? Oh
mio Dio, ero così in pensiero per voi. È
terribile quello che è successo al
direttore… perché? Chi? E Gibbs?
Dov’è Gib…”
“Abby,
frena!
Stiamo tutti bene. Il direttore è ferito, ma se la
caverà. Gibbs è rimasto con
lei.”
“Oh…”Voglio
che mi
identifichi gli uomini delle foto.” Chiese porgendole una microdrive.
La ragazza
inserì
la scheda di memoria e qualche istante dopo sul monitor apparvero le
immagini
di quattro persone.
“Viggo
Drantyev.”
McGee riconobbe uno degli uomini.
“E
tu come fai a
conoscerlo Pivello?”
“Il
direttore mi
aveva mandato alcune istantanee scattate durante il funerale di Deker e
mi
aveva chiesto di identificare l’uomo.” Intervenne
Abby in soccorso al suo
collega.
“Che
cosa sappiamo
su di lui?”
“È
arrivato tre
giorni fa con un volo da Mosca, ha noleggiato un’auto e si
è registrato
all’Hotel Excelsior… ha fatto il chek out questa
mattina.”
“Queste
non sono
informazioni.”
“È
tutto quello che
abbiamo, ho detto la stessa cosa al direttore.”
“Identità
bruciata. E gli altri tre?”
La ragazza
passò
all’identificazione facciale “Killer
professionisti, ricercati dalla polizia di
San Diego.”
“Reclutati
sul
posto.” Asserì McGee ma Tony sembrava non
ascoltarlo, la sua attenzione si era
rivolta verso due scope, improvvisate come manichini, sulle quali la
scienziata
aveva incollato le facce sua e di Ziva.
“E
quello?” indicò
i due vistosi baffi disegnati a pennarello sul suo volto
“È opera tua, non è
vero?” chiese rivolgendosi a McGee.
“Ti
da un tocco di
classe, quasi come i baffi di Gibbs.”
DiNozzo lo
fulminò
con lo sguardo “reclutati sul posto? Ottima
intuizione… andiamo McPicasso,
dobbiamo scoprire chi li ha assoldati.”
∂∂∂
14 Maggio. Ore 8.30
Los Angeles - California
Hospital Medica Center
Jennifer
Shepard
stava ancora dormendo quando Gibbs rientrò nella sua stanza
e si sedette
accanto al letto, osservandola: le accarezzò il dorso della
mano prima di
prenderla tra le sue.
Non riusciva a stare lontano
da lei, ne era
attirato come il ferro da una calamita e questo a volte, quasi lo
spaventava.
Non era solo per la sua bellezza fisica, per i lunghi capelli rossi e
per
quegli occhi color smeraldo che spesso riuscivano a leggergli
l’anima. Era
affascinato dal suo carattere, dalla sua determinazione sul lavoro e
nella
vita, era una donna caparbia che allo stesso tempo riusciva ad essere
di una
dolcezza e di una sensualità disarmanti, e di questo aveva
avuto moltissime
prove in passato.
Lo aveva
respinto
ma alla fine era riuscita ad ottenere ciò che desiderava e
lui non poteva non
ammirarla per questo, era riuscita a tenere l’agenzia
nonostante le numerose
vicende avverse, dimostrandosi un ottimo direttore e tenendogli testa
in modo
magistrale.
Teneva
ancora la
sua mano stratta tra le sue quando sentì che si stava
svegliando: la stanza era
in penombra, l’unica luce era quella proveniente dal
corridoio esterno e Jen dovette
sbattere più volte le palpebre per mettere a fuoco il suo
volto.
“Jet…Jethro?
Jethro, che cosa ci fai tu qui?” chiese con voce impastata
cercando di
sollevarsi, ma una fitta al fianco le strappò una smorfia di
dolore e la
costrinse a riappoggiarsi al cuscino.
“Non
ti sforzare.”
“Cosa
ci fai tu
qui?” lo rincalzò.
“Tu
che cosa
credi?”
Jen lo
guardò
dritto negli occhi e provò una stretta al cuore, possibile
che si stesse
preoccupando per lei? O era solo compassione? Non poteva dimostrarsi
più
vulnerabile di quanto già apparisse in quello stato, con
nessuno e tanto meno
con lui.
“Non
dovresti
essere qui.” Fece ricorso a tutte le sue forse cercando di
imprimere autorità
nelle parole, Jethro se ne accorse.
“Non
voglio
litigare, Jen.”
Si sentiva
debole e
stanca a causa dei medicinali“Allora non immischiarti,
Jethro. Non sono affari
tuoi.” Riuscì a controbattere prima di
abbandonarsi nuovamente al sonno.
“Non
posso non
immischiarmi Jen, come non posso fare a meno di preoccuparmi per
te.” Le
sussurrò anche se ormai non poteva più sentirlo.
Si
alzò, aveva
bisogno di sgranchirsi le gambe e di bere un caffè: quando
arrivò al bar intero
dell’ospedale, trovò il suo ex capo seduto ad uno
dei tavolini a sorseggiare
del tè.
“Pensavo
te ne
fossi andato, Mike.”
“E
lasciarti tutto
il divertimento? Non ci penso proprio.”
Gibbs gli
rivolse
un’occhiata di gratitudine.
“Che
cosa pensi di
fare?” gli chiese Franks.
“I
medici hanno
detto che potrà essere dimessa tra qualche giorno e
ritornare a Washington.
Fino ad allora resterò qui.”
“Pensi
che possano
riprovarci?”
“Ne
sono convinto,
anche se per il momento è probabile che, chiunque siano, la
credano morta e
questo ci dà un po’ di tempo.”
“Ma non vuoi
correre rischi.”
“Non
voglio
lasciarla sola, Mike.”
Franks lo
scrutò
attentamente: era preoccupato e sofferente. Si era accorto da tempo che
tra
Jethro e il direttore c’era un legame profondo, che andava
ben oltre il
rapporto di lavoro e l’amicizia; lo aveva intuito in Messico
e ne aveva avuto
conferma dalle poche battute scambiate con Jen alla tavola calda, prima
dell’agguato.
Ma
conosceva Gibbs
e le sue regola, molte gliele aveva insegnate lui, perciò si
limitò a portare
la tazza di tè alle labbra e sorseggiare il liquido caldo.
“Non
puoi
proteggerla da solo, Pivello.”
“Mi
stai offrendo
il tuo aiuto Mike?” Chiese Gibbs prendendo il cellulare.
“Chi stai
chiamando?”
“Qualcuno
che mi
deve un favore.” Rispose mentre componeva un numero di Los
Angeles.
ANGOLINO AUTRICE:
- Alcune delle conversazioni sono ispirate a quelle della serie, anche se mi sono permessa a volte di cambiare gli interlocutori e la dinamica degli eventi in cui si svolgono.
- Inoltre ci tengo a precisare che non ho nulla contro Leon Vance, anche se so che qui apparirà un po'antipatico. In realtà l'ho molto rivalutato nelle ultime serie... però non potrà mai prendere il posto di Jen, almeno per me.
- Nel prossimo capitolo ci sarà la presenza di un personaggio che abbiamo visto nella sesta serie... non vi dico altro, voglio tenervi un po'sulle spine.
Non posso far altro che ringraziare tutti quelli che sono arrivati a leggere fino alla fine di questo capitolo e quelli che avranno voglia di lasciare un commentino...
Un abbraccio a tutte/i
Alla prossima
Fink |
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Capitolo 3 *** Le persone cambiano ***
Disclaimer: i personaggi sono di proprietà di D. P. Bellisario e D. McGill che ne detengono tutti i diritti. Tutto ciò che invece esula dalla trama originale della serie è attribuibile a me.
Cerco un centro di gravità permanente
che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose sulla gente
(Centro di gravità permanente - F. Battiato)
CAPITOLO TERZO Le
persone cambiano
14 Maggio.
Ore 6.15
Washington
D.C. – Sede NCIS
“JENNY!”
il suo
nome gli uscì dalle labbra a bassa voce, ma abbastanza
nitidamente da essere
sentito da chiunque si fosse trovato lì vicino; la testa era
ancora appoggiata
al supporto metallico sul quale si era addormentato. Era stato un
incubo, solo
un incubo per fortuna. Si passò entrambe le mani sul volto e
si stiracchiò
sulla sedia.
“Da quando
sogni il
direttore?” chiese la voce di McGee che in quel momento se ne
stava fermo
davanti alla sua scrivania e lo fissava con un sopracciglio alzato.
Tony gli rispose con
espressione indecifrabile, tra il seccato e il preoccupato.
“Non ho
sognato il
direttore”
“La chiamavi
nel
sonno.”
“McGee ha
ragione.”
Gli fece eco Ziva mentre appoggiava
la
sua tazza di te sulla scrivania.
“Che
cos’hai lì,
Pivello.”
McGee
spostò gli
occhi sull’oggetto che aveva nella mano sinistra
“il nastro con i video di
sorveglianza dell’aeroporto. Le stavo portando da
Abby.”
“Allora cosa
ci fai
ancora qui!?”
“Smettila di
imitare Gibbs… Perché sognavi il direttore
Shepard?” il tono malizioso non
lasciava dubbi, chissà in che veste aveva immaginato Jen o,
trattandosi di
DiNozzo, sicuramente l’aveva immaginata senza alcun vestito.
Tony non rispose,
si alzò bruscamente spostando la sedia che andò a
sbattere contro lo scaffale
alle sue spalle, producendo un acuto suono metallico “Vado a
prendermi un
caffè.”
“Tony…
Tony dai, io
non…” la voce del collega lo raggiunse ma lui si
limitò ad alzare una mano come
a voler scacciare un fastidioso insetto che gli ronzava accanto
all’orecchio.
“Scendo a
portare
il nastro ad Abby, magari scopriamo qualcosa.” Concluse
rivolto verso Ziva, ma
la sua collega non lo stava ascoltando, fissava il punto in cui Tony
era
sparito, inghiottito dalle porte di acciaio dell’ascensore,
sembrava
preoccupata. Forse avrebbe dovuto esserlo anche lui. Ricordava cosa
significava
essere oppressi dai sensi di colpa, l’aveva provato quando
aveva sparato a quel
poliziotto, forse non era stato lui ad averlo ucciso, ma il suo ricordo
continuava a presentarsi di tanto in tanto nella sua mente. L’aveva provato
quando quel giovane barista psicopatico
aveva iniziato ad uccidere marinai seguendo la trama del suo libro. Il
suo
libro. Aveva convissuto con quel senso di colpa, abbandonando
addirittura la
stesura del romanzo per un tempo che gli era sembrato infinito.
Scacciò
quel
ricordo scrollando la testa, non era il momento per pensare a queste
cose, qualcuno
se ne andava in giro a reclutare dei killer, c’era in gioco
la vita del
direttore Shepard e forse non solo quella. Doveva andare da Abby, anche
perché,
ne era sicuro, Gibbs non avrebbe tardato a chiamare chiedendo di
aggiornarlo su
eventuali sviluppi.
∂∂∂
14 Maggio. Ore 8.30
Washington
D.C. – Sede NCIS
Tony
appoggiò le
mani sulla lastra di marmo e chiuse gli occhi.
Sangue.
Le sue mani erano coperte di sangue.
Aprì il
rubinetto e
lasciò che l’acqua fresca gli scorresse sui palmi
bianchi, li strofinò uno
contro l’altro cercando di lavare via quella
vischiosità scarlatta che nella
sua mente gli avvolgeva le dita e sembrava non voler sparire.
Il
viso pallido con due smeraldi opachi sotto
alla frangia ramata. Gli occhi di Gibbs che lo guardavano con profonda
delusione, mentre sollevava il corpo esanime di Jen tra le braccia.
Si passò
l’acqua
fredda sul viso e sugli occhi nel vano tentativo di togliersi
quell’immagine.
La porta si
aprì e
un inconfondibile profumo di muschio bianco lo investì,
pizzicandogli le
narici “Se non l’hai notato questo è
ancora il bagno degli uomini.”
Ziva si chiuse la
porta alle spalle e avanzò di qualche passo fino ad arrivare
a brave distanza
da Tony, appoggiandosi al piano di marmo nel quale erano incassati i
lavandini.
“Mi avevano
offerto
di dirigere una squadra tutta mia…a Rota, in
Spagna.”
La donna
annuì. Lo
sapeva. Jen glielo aveva comunicato una sera, davanti ad una tazza di
té, poco
dopo il reintegro definitivo di Gibbs.
“Forse avrei
dovuto
accettare. Che ore saranno lì, sicuramente sera. Sai quante
belle donne ci sono
in Spagna che avrebbero potuto conoscere Tony DiNozzo.” Prese
un asciugamano di
carta e si asciugò le mani, mentre un falso sorriso comparve
sul suo viso, era
preoccupato, ma non sarebbe stato Tony se non avesse cercato di
sdrammatizzare
la cosa, pensò lei.
“Abby non te
lo
avrebbe mai perdonato.” Rispose Ziva ma lo vide subito
incupirsi di nuovo “Non
hai fatto nulla di sbagliato Tony.”
“Credi che
Gibbs
l’avrebbe lasciata girovagare per Los Angeles da
sola?” gettò la carta
appallottolata dell’asciugamano nel cestino.
No, Gibbs no
l’avrebbe mai fatto, da chiunque fosse giunto
l’ordine. E di sicuro avrebbe
riconosciuto la voce di Franks in sottofondo. Aveva avuto il compito di
proteggere il suo direttore, una donna che aveva imparato a stimare e
con la
quale aveva affrontato momenti difficili, sia dopo la partenza di
Gibbs, sia
dopo il suo ritorno. Lei si era fidata e lui aveva preferito andarsene
in giro
con Ziva a farle foto in costume, intenta a prendere il sole.
“Hai
eseguito gli
ordini, non hai nulla da rimproverarti.”
“Sei venuta
perché
avevi qualcosa da dirmi, David?”
Aveva i capelli
spettinati e una goccia d’acqua gli scendeva dalla fronte
lungo la guancia,
un’espressione risoluta gli si dipinse in volto: aveva
imparato molto da Gibbs.
La conversazione per il momento era conclusa.
“Abby ha
qualcosa.”
Rispose e uscì dal bagno seguita dal collega.
∂∂∂
14 Maggio. Ore 11.00
Los
Angeles- California Hospital
Medica Center
Mike Franks si
accostò al letto di Jen per rimboccarle le coperte, sembrava
dormire serena;
c’era una poltroncina accanto alla finestra, Franks vi prese
posto ed iniziò a
frugarsi nelle tasche alla ricerca del pacchetto di sigarette.
“Lo sa che
non puoi
fumare all’interno dell’ospedale.” La
voce di Jen gli giunse debole alle
orecchie.
“Motivo in
più per
tornarmene in Messico il prima possibile. Come sta,
direttore?”
“Sono stata
meglio.”
“Dovrebbe
mangiare
qualcosa.” Suggerì, guardando il vassoio della
colazione ancora pieno.
“Non
l’ho ancora ringraziata.”
“Non
è ancora
finita.” Prese il L.A. Times che qualcuno, di sicuro
l’infermiere, aveva
appoggiato sul comodino assieme al vassoio e iniziò a
sfogliare le pagine.
Jen
abbandonò la
testa sul cuscino, rivolta verso la porta, quasi ad aspettare
l’arrivo di
qualcuno. Si era svegliata con l’infantile speranza di
trovare Jethro accanto
al suo letto e aveva cercato di mascherare la cocente delusione quando
al suo
posto vi aveva visto Franks con l’immancabile pacchetto di
sigarette in mano;
che sciocca. Si era accertato che fosse ancora viva e che stesse bene
ed era
sicuramente già tornato a Washington.
Dannazione! Avrebbe
avviato un’indagine e non era questo che doveva accadere, lui
doveva restarne
fuori. Lei era responsabile di quel casino, come lo era per la morte di
Deker.
Non poteva permettere che lo stesso accadesse a Gibbs. Uno stupido
errore di
dieci anni prima. Avrebbe dovuto parlargli, spiegargli come stavano le
cose. Come
se fosse stato semplice. Non appena avesse saputo chi c’era
dietro a tutto
questo, si sarebbe infuriato perchè lei glielo aveva tenuto
nascosto. Poco
importava la gerarchia di comando, ricordava benissimo la sua reazione
quando
aveva scoperto de la Grenouille.
“Novità
dal
giornale?” chiese vedendolo sfogliare il quotidiano con
scarso interesse.
“L’Iran
si prepara
al post elezioni, mentre il papa organizza il Giubileo Paolino e si
prepara ad
accogliere i giovani in Australia. Il prezzo dell’oro
è salito e… le tavole
calde nel deserto sembrano ancora dei posti sicuri.”
“Bene.”
A quanto
pare la notizia della sparatoria non era trapelata, evidentemente non
volevano
scandali prima di sapere come erano andati i fatti. Aveva tempo.
Mentre la mente
ricominciava a vagare alle ricerca di possibili soluzioni, gli occhi
continuavano a restare fissi sull’ingresso e Franks non
poté non notare come
trattenesse il respiro ogniqualvolta un’ombra passava davanti
alla camera.
“Gibbs
è sceso a
prendersi un caffè.” Le disse pensando di intuire
i suoi pensieri.
Jen si girò
nella
sua direzione visibilmente sorpresa. Quindi era ancora lì,
due sentimenti
opposti si scontrarono, la gioia di saperlo ancora
nell’edificio e rabbia per
aver di nuovo disubbidito ai suoi ordini, prevalse la seconda.
“Pensavo di
essermi
espressa chiaramente, quando gli ho detto che non erano affari
suoi.” Lo disse
più rivolta a sé stessa che non a Franks.
“Credo che
lei lo
conosca abbastanza da sapere che non mollerà così
facilmente.”
“Che cosa
diavolo
pensa di fare?”
“Chi erano
gli
uomini della tavola calda?” evitò la risposta
ponendole una nuova domanda.
“Non
è tenuto a
saperlo. La ringrazio del suo aiuto, ma credo che lei ora possa
andare.” La
ferita al fianco iniziava a bruciare, istintivamente portò
una mano sopra la
fasciatura e chiudendo gli occhi prese un profondo respiro.
Mike
increspò le
labbra in una smorfia, incredibile, era in un letto
d’ospedale eppure si
comportava come se fosse seduta alla scrivania del suo ufficio.
“Ho
ordine di farle da scorta” affermò rivolgendole
un eloquente sorriso.
Per il momento la
conversazione sembrava conclusa e a conferma di ciò le porte
a vetri si
aprirono con un leggero sbuffo.
“Scusi ma
dobbiamo
controllare la medicazione e fare un paio di esami.”
Un’infermiere dall’aria
gioviale entrò in quel momento seguito da una ragazza molto
giovane con una
lunga treccia di capelli castani e due occhi attenti e curiosi, con
molta
probabilità una studentessa.
Rivolse un sorriso
alla ragazza e dopo aver salutato Jenny uscì dalla stanza,
aspettando che
arrivasse Jethro a dagli il cambio.
∂∂∂
14 Maggio. Ore 11.20
Gibbs
sorseggiò il
caffè, comodamente seduto su una panchina poco fuori
l’ospedale. Osservava con
attenta curiosità chiunque si aggirasse nei dintorni e solo
due piccoli segni
scuri attorno agli occhi indicavano la sua quasi totale mancanza di
sonno. Aveva
passato tutta la notte appollaiato sulla poltroncina accanto a Jen,
vigile
anche nel sonno, percependo ogni suo più piccolo movimento o
cambiamento di
respiro.
Si soffermò
rivolto
verso una figura che incedeva con passo calmo nella sua direzione. Era
una
donna. I lunghi capelli biondi erano lasciati sciolti ad incorniciare
il
profilo elegante del viso, nel quale spiccavano due occhi chiari.
Gibbs la
guardò
avvicinarsi sollevando un sopracciglio e aggrottando un po’
la fronte.
“Sembra
sorpreso di
vedermi agente Gibbs?”
“Diciamo che
mi
aspettavo qualcun altro.”
“Sta
lavorando
sotto copertura. Mi ha avvertita dopo la tua telefonata. Comunque sono
anche io
contenta di rivederti Jethro. Non sei cambiato affatto.”
“Hai
il fascicolo con te?” Chiese con un moto
di disappunto.
“Come sta il
direttore Shepard?”
“Se la
caverà”
rispose continuando a fissare la donna in attesa di una risposata alla
domanda
iniziale.
“Lo sai che
di
norma c’è una procedura da seguire.”
“Significa
no?”
“Significa
che avresti dovuto inoltrare una
richiesta scritta e attendere la risposta; tuttavia visto che me lo ha
chiesto
Callen e poiché si tratta di Jen…ecco
qui.” La
donna estrasse una busta color senape dalla
borsa e la diede all’agente “Posso chiederti a che
cosa ti serve il fascicolo
di William Deker?”
“Ancora non
lo so.
”
“Continui a
non
avere fiducia in me, vero.”
Gibbs prese il
fascicolo e sorrise sarcastico prima di avviarsi verso
l’ospedale concludendo
la conversazione, ma a quanto pareva la donna non era dello stesso
avviso
perché con un paio di falcate si portò a lato
dell’agente.
“La gente
cambia. Lei
non ha mai commesso errori, agente Gibbs?” aveva usato di
proposito un tono
formale.
Jethro la
osservò con
più attenzione, c’era qualcosa di diverso
dall’ultima volta in cui si erano
visti e poco centrava con il fatto che fossero passati più
di quindici anni.
“C’è
altro che
vuole dirmi?”
“Posso
incaricare
due miei agenti per un turno di sorveglianza. Così potrete
darvi il cambio per
il tempo che il direttore resterà qui.”
Raggiunsero il
piano in cui si trovava la stanza del direttore: Mike era seduto su una
delle
sedie a muro del corridoio.
“Credevo che
l’agente Franks fosse in pensione.”
“È
venuto a trovare
un’amica.”
La bionda
annuì
poco convinta, ma per ora poteva lasciar correre, perciò
rivolse nuovamente la
sua attenzione verso l’uomo al suo fianco attendendo una
qualche risposta alla
sua proposta.
“Devo
mettermi in
contatto con la mia squadra.”
“Abbiamo una
sala
videoconferenze niente male al OSP.”
Gibbs le rivolse un
mezzo sorriso, poi gli occhi caddero su un piccolo mazzo di fiori che
teneva
nella mano destra e che fino a quel momento gli era sfuggito;
alzò un
sopracciglio interrogativo.
“Pensavo di
darli
al direttore.” Rispose e si avviò verso la stanza
di Jen. Quando passò davanti
a Franks gli rivolse un cenno con la testa e lui non nascose la propria
sorpresa nel vederla.
“Quella non
è Lara
Macy, Pivello?”
“Aha.
Sì.”
“Cosa
diavolo ci fa
qui?”
“La gente
cambia,
Mike.”
∂∂∂
14 Maggio. Ore 16.00
Washington
D.C. – Los Angeles
“Gibbs
ci vuole tutti in sala videoconferenze.
Anche tu Abby.” Disse McGee rivolto alla scienziata.
“Perché
il capo ha
chiamato te, Pivello. Sono io l’agente più
anziano.” Tony un po’infastidito premette
il pulsante del piano desiderato.
“Lo ha
fatto.”
“No. Io non
ho
sentito nul…eheh devo aver inserito per errore il
silenzioso.” Disse con
noncuranza guardando il display su cui era comparso l’avviso
di due chiamate
perse.
Entrarono nella
sala in penombra, Gibbs era già apparso sullo schermo e li
stava guardando
impaziente.
“Ciao Gibbs.
Quando
torni? Tony si è dimenticato di portarmi il caffè
stamattina, tu non te lo
dimentichi mai.”
“Ti trovo
bene capo.
Credo che l’aria della California ti
giovi…” Disse l’agente più
anziano
“DiNozzo!”
“Ehm
sì giusto
capo. Uno dei killer si chiamava Viggo Drantyev, russo, era arrivato
quattro giorni
fa con un volo da Mosca, e si era registrato all’Hotel
Excelsior. Gli altri tre
sono James Baxter, Horatio Parker e Ronald Nielsen, tutti e tre killer
professionisti ricercati dalla polizia di San Diego. Sono stati
reclutati sul
posto.”
“Da
Drantyev?”
“Forse. Ma
non ne
siamo sicuri.”
Gibbs
guardò i suoi
agenti con aria truce “cosa vuol dire non ne siete
sicuri?”
“Non avevano
alcun
effetto personale con sé, niente cellulare, nulla. Siamo
risaliti a loro grazie
all’identificazione facciale.”
“L’unico
ad avere
con sé il cellulare era Drantyev.”
Specificò Ziva “Ma…”
“Ma
cosa!?”
“Ma
è stato colpito
in pieno da un proiettile del direttore e non ci si può fare
più niente.” Disse
Abby intervenendo nella conversazione. “Ma tu dove sei? Non
credevo che in ospedale
avessero degli schermi per…”
“Abby!”
“Hai
ragione, non
ti ho neanche chiesto del direttore, allora, come sta?”
“Quindi non
avete
niente?”
“Niente non
direi
capo. McGee si è fatto dare i nastri delle telecamere
dell’aeroporto, si vede
Drantyev che sale in auto con una donna.”
Gibbs lo
guardò in
attesa che continuasse.
“Pivello,
fai
partire il nastro.” Disse rivolto al collega che si trovava
accanto alla
console di comando.
Sullo schermo
apparvero le immagini di un uomo e una donna che salivano su un taxi
posteggiato all’uscita dell’aeroporto.
“Crediamo
sia la
stessa donna che ha fotografato il direttore al funerale di Deker, si
chiama Natasha
Lenkov.”
“McGee,
le foto.”
“Subito
capo”
“Purtroppo
finora
non sappiamo nulla sulla Lenkov. Nulla prima del 1999.”
Sullo schermo
comparve il profilo di una donna dai capelli biondi, gli occhi coperti
dalle
lenti degli occhiali da sole, ma Gibbs non ebbe dubbi, era di sicuro
lei.
“Provate con
Svetlana Chernitskaya.” Disse e
pose fine
alla conversazione lasciando i suoi uomini ammutoliti a fissare uno
schermo
nero.
La porta alle loro
spalle si aprì rivelando la figura di Vance “Ci
sono novità sul caso?” chiese
il vicedirettore.
“No. No signore.” Rispose Tony anticipando i
colleghi.
“Allora cosa ci fate qui? E perchè Gibbs era in
videoconferenza?”
“Ci informavamo sulle condizioni del direttore.”
Rispose Abby con un sorriso e
si apprestò a seguire i suoi colleghi all’uscita.
∂∂∂
17 Maggio. Ore
15.10
Messico
– Stazione di polizia di un piccolo paesino.
Mike
Franks entrò nella stazione di
polizia, attraversò l’unica stanza presente,
salutando i due uomini
affaccendati con alcune scartoffie ed entrò in una porta
laterale che conduceva
all’ufficio dello sceriffo.
“L’avete
trovata?” chiese rivolto all’uomo
che alzò la testa, sbucando dal cassetto in cui stava
frugando alla ricerca di
qualcosa.
“Sì,
questa mattina. Era a casa sua.”
“Avete
trovato niente?”
Lo
sceriffo scosse la testa in senso di
diniego “nulla di rilevante, non sembra abbiano preso nulla e
non ci sono stati
segni di effrazione.”
“Il medico legale che si è occupa
dell’autopsia è sempre Rogers?” chiese
Franks.
“Sì.”
“Bene,
gli devo parlare.”
“Non
sarà un bello spettacolo, era passata
più di una settimana prima che la trovassero.”
“Lo
so. Grazie sceriffo.” Rispose Mike
prima di salutarlo ed uscire per riprendere l’auto
ANGOLINO AUTRICE:
Ce l'ho fatta, sono riuscita a postare un altro capitolo.
- Come avrete notato il personaggio misterioso è Lara Macy, ho voluto inserire lei perchè non essendo presente nella serie NCIS L-A. non veniva a crearsi il rischio di una cross-over che in questo caso non era mia intenzione scrivere. In più perchè per vari motivi non riesco quasi mai a seguire la serie perciò rischierei di non rappresentare bene i personaggi non conoscendoli. Infine seppur un piccolo ruolo, la Macy comparirà di tanto in tanto...vedrete perchè.
Spero che un pochino vi sia piaciuto, vi ringrazio per la pazienza nell'attesa e ringrazio tutti coloro che sono arrivati alla fine di questo terzo capitoletto e che vorranno lasciarmi un commentino.
A tutti auguro una BUONA PASQUA
Besos
Fink |
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Capitolo 4 *** Ritorno in città ***
Disclaimer: i
personaggi sono di proprietà di D.P: Bellisario e D. McGill
che ne detengono tutti i diritti.
Sono
in ritardo, lo so, vi chiedo perdono e spero che il capitolo valga
l'attesa. Buona lettura
CAPITOLO
QUARTO
Los
Angeles
“Le
persone
cambiano. Davvero gli hai
risposto così?” il giovane agente si
passò una mano tra i capelli,
ravvivandoli.
“Non
pensi
sia il caso di tagliarli?”
chiese l’altro sedendosi più comodamente sulla
panchina e accavallando le
gambe.
“Non
posso…fa parte della copertura.”
“Ti
spacci
per un barbone? Alzò dubbioso
un sopracciglio prima di continuare “Perché la
Macy?
“Cosa
vuoi
dire?”
“Avanti
Callen, sai bene a cosa mi
riferisco. Avevo chiesto a te il fascicolo su Deker.”
“Stavo
lavorando…A dire il vero anche
questo incontro è rischioso per la mia copertura.”
“Perché
non hai chiesto a qualcun altro?” Chiese
Gibbs, fissando il suo interlocutore. Callen fece vagare lo sguardo in
direzione della distesa d’acqua di fronte a loro. Il mare era
calmo e il sole
vi si rifletteva con migliaia di scintillii argentei.
Era
ancora molto presto
e la spiaggia di
sabbia bianca era calpestata solo dai pochi volenterosi che si alzavano
all’alba a fare jogging. Un cane ciondolava accanto al
proprio padrone,
scodinzolando e rivolgendogli un guaiti soddisfatti.
“Si
è offerta lei di portarti il fascicolo
su Deker… Jethro, non credi sia venuto il momento di
seppellire l’ascia?”
chiese il giovane ma l’altro non rispose,
dando a Callen la possibilità di proseguire
“Vuoi saperne di più
sull’agente Macy? Allora leggi il fascicolo che ti ho
portato.” Fece
accennando con il capo al plico sulle ginocchia del collega.
Gibbs
fissò
il nome in grassetto, scritto
a mano sulla cartellina gialla.
Quella
donna gli aveva
quasi rovinato la
vita diciasette anni prima. Aveva appena perso la sua famiglia e lei
non
faceva
che interrogarlo, accusarlo e metterlo alle strette, senza nemmeno
dargli modo
di piangere la sua
perdita. Tutto per
scoprire qualcosa sulla morte di un trafficante messicano di nome Pedro
Hernandèz.
Lo
stesso uomo
responsabile della morte di
Shannon e di Kelly.
Lo
stesso Pedro
Hernandèz che lui aveva
rincorso in Messico.
Lo
stesso trafficante
che lui stesso aveva
ucciso con un unico, preciso colpo, mentre guidava verso casa, seduto
in un
pic-up azzurro.
Di
questo lo stava
accusando. Di omicidio.
Ebbene,
avrebbe pagato.
Avrebbe scontato
il resto della sua vita in un sudicio e freddo carcere. Non gli
importava.
Aveva
vendicato la sua
famiglia. Era soddisfatto.
Ma
chiedeva una sola
cosa ancora,
piangere.
Piangere
per gli occhi
di Shannon, che non
avrebbe mai più rivisto.
Piangere
per la risata
di Kelly,
soddisfatta per aver pescato un pesce. Un suono che non avrebbe mai
più sentito.
Voleva
solo salutarle
un’ultima volta, ma l’allora
sergente Lara Messi non sembrava dello stesso avviso e aveva continuato
imperterrita nell’interrogatorio, strappandogli le poche ore
di sonno inquieto
che aveva.
Poi,
come per miracolo,
la faccenda era
stata archiviata, le accuse erano cadute e lui era libero.
Libero
di continuare a
vivere prigioniero
nel proprio dolore.
“Jethro.”
La voce di Callen lo riscosse. “se
sei ancora così sospettoso, perché
l’hai quasi difesa con Franks?”
Era
uno dei pochi
agenti ai quali
consentiva di rivolgersi a lui in un modo tanto confidenziale. Forse
per
l’amicizia che li legava, o perché, in qualche
modo, Callen capiva il suo
dolore.
“Non
è la donna che ti ricordi. Come hai
detto le persona cambiano e lei sa di aver commesso un
errore… a modo suo ha
cercato di rimediare. Perché credi che siano improvvisamente
cadute le accuse
nei tuoi confronti…”
Gibbs
lo
guardò interrogativo, senza dire
nulla.
“Portarti
il
fascicolo di Deker è stato un
modo per farti capire che è dalla tua parte”
proseguì il giovane.
Jethro
soppesò le parole del agente per
qualche istante, cercando il modo di rispondere, ma venne interrotto
dal trillo
del cellulare.
“Sì,
Gibbs.” rispose senza indugio, dopo
essersi portato l’apparecchio all’orecchio.
“Signor
Gibbs. Sono il dott. Larson. La volevo informare che la signora Shepard
verrà
dimessa oggi pomeriggio. Dato che lei è l’unico
conoscente nelle vicinanze…
potrebbe venire in ospedale, avrei alcune comunicazioni da
darle… sul periodo
di riposo della paziente.”
“Arrivo
subito. La ringrazio.” Riagganciò
e infilò il cellulare nella custodia che teneva legata alla
cintura, poi si
voltò verso Callen.
“Era
l’ospedale… il direttore sarà dimesso
oggi pomeriggio.”
“Mi
fa
piacere. Finalmente una buona
notizia.”
Gibbs
storse il naso.
“Non
ne sembri felice.” Chiese sorpreso.
“Non
sarà facile convincerla a restare in
convalescenza fuori dall’ospedale.”
“Mi
ricorda
qualcuno.” Scherzò lui.
“Beh,
Callen
è stato un piacere
rivederti.” Disse alzandosi in piedi.
“Anche
per
me. Stammi bene.” Lo abbracciò,
dandogli una pacca sulla spalla.
“Sì,
anche tu.”
“E
salutami il direttore e anche Franks, a proposito
dov’è?”
Gibbs
sciolse
l’abbraccio “Mike è tornato a
Washington, doveva sbrigare alcune faccende” rispose e dopo
un ultimo saluto si
avviò verso il parcheggio.
Callen
lo
seguì con gli occhi finchè non
salì in auto, poi distrattamente lo posò sulla
panchina accanto a lui.
La
cartellina gialla
era lì, abbandonata
sulle assi di legno.
Un
sorriso si
formò sulle labbra
dell’agente.
∂∂∂
Svetlana Chernitskaya,
ora nota come
Natasha Lenkov, era pigramente seduta sul morbido letto nella sua
stanza
d’albergo. Aveva i capelli biondi ancora avvolti in un
asciugamano umido e
sfogliava distrattamente una rivista.
Sbuffò
sonoramente. Aveva caldo,
troppo caldo.
Nonostante
fosse uscita
da poco
dall’ennesima doccia, l’abito di stoffa leggera le
si era incollato al corpo e
delle piccole goccioline di sudore le imperlavano la fronte.
Chiuse
la rivista e la
fece ondeggiare
davanti al viso, sperando in un poco di refrigerio.
Detestava
quel clima
afoso. Era la metà di
marzo e già boccheggiava alla ricerca d’aria
ogniqualvolta si ritrovava a
camminare lungo le affollate vie di Los Angeles.
Rimpiangeva
l’aria fredda che le
accarezzava la pelle mentre, seduta in qualche caffetteria, osservava
il lago
di Ilmes, bevendo una tazza fumante di tea.
Lei
e il suo compagno
avevano acquistato un
appartamento a Novgorod, una città a metà strada
tra Sanpietroburgo e Mosca.
Non era molto
grande o lussuoso, non
che non avessero abbastanza soldi per permettersela, la loro
professione di
killer rendeva bene, ma avevano preferito mettere da parte il denaro
per quando
si fossero ritirati.
Magari
con il tempo
avrebbero acquistato
una bella casa in riva al lago, avrebbero messo su famiglia, dei figli;
Alatoly
li avrebbe portati a pesca. Lui adorava pescare.
Ma
tutti i suoi sogni
erano svaniti nove
anni prima, proprio quando avevano deciso di smettere. Quando si erano
detti
che quella sarebbe stata la loro ultima missione. Un ultimo lavoro e
poi
sarebbero usciti di scena.
Un
vicolo buio di
Parigi e tre proiettili,
sparati a distanza ravvicinata, le avevano portato via l’uomo
che amava.
Strinse
i pugni al
pensiero del corpo
senza vita di Zukov e le pagine della rivista, che ancora stringeva in
mano, si
accartocciarono in seguito alla pressione.
Non
aveva neppure
potuto dirgli addio,
perché quando il corpo era stato trovato, lei era in fuga
verso Mosca con una
ferita, medicata frettolosamente.
Chiuse
gli occhi e
appoggiò la testa allo
schienale del letto, ripensando a quel lontano giorno. Alatoly non era
stato
l’unico ad essere stato ucciso quella notte;
l’altro complice, un russo con cui
dovevano portare a termine il lavoro, era stato anche lui freddato con
tre colpi
a bruciapelo, in un vicolo alla periferia di Parigi.
Qualcuno,
una donna,
era venuto anche nel
suo appartamento con lo scopo di ucciderla, ma aveva fallito; qualcosa
non era
andato secondo i piani.
La
donna aveva esitato,
dandole il tempo
di scattare verso l’arma che aveva accanto e solo allora la
rossa, con mano
tremante, aveva premuto il grilletto e un proiettile l’aveva
colpita di
striscio alla fronte. Lei era caduta cozzando sul tavolino ed era
finita a
terra, priva di sensi.
Dopo
un tempo che le
era parso infinito,
si era svegliata, con un forte dolore alla spalla e il volto coperto di
sangue
rappreso. Era viva, miracolosamente. Si era lavata il viso e aveva
controllato
la ferita alla testa. Fortunatamente era solo un graffio, ma non poteva
dire
altrettanto della spalla sinistra. Il braccio ciondolava, come inerte,
lungo il
corpo, fortunatamente si era solo lussato.
Era
tornata in camera,
aveva preso lo
stretto indispensabile ed era uscita, consapevole che di lì
a breve qualcuno
sarebbe tornato. Poi era sparita e in qualche modo era riuscita a fare
ritorno
in Russia.
Per
nove
anni aveva covato il suo odio, giurando
di vendicarsi di coloro che le avevo portato via la sua vita.
La
rabbia le
montò dentro con un’ondata
improvvisa. Scagliò sul letto la rivista che si
aprì sulla pagina della
pubblicità di un raduno d’auto d’epoca.
Li
avrebbe vendicati.
Tutti e due.
Dopo
anni era riuscita
a scovare un certo
Deker, un ex agente del NCIS, che dopo la pensione si era ritirato a
Los
Angeles con la sua compagna. Aveva assodato dei killer, ma purtroppo Deker non le era
stato di molto
aiuto, non aveva detto molto, limitandosi ad un nome, un certo signor
Oshimaida.
E con queste poche informazioni si erano recati a funerale, sperando di
ottenere qualcosa. Nulla. stava perdendo le speranze, quando,
finalmente, poco
prima di venire uccisa, la compagna di Deker aveva nominato una tavola
calda
nel deserto, di un uomo e di una donna dai capelli rossi che le avevano
fatto
visita poco dopo il funerale.
Era
lei, doveva essere
lei; la stessa
donna che anni prima l’aveva quasi uccisa.
Povera
sciocca, sarebbe
stato meglio per
lei constatarne la morte e portare a termine il lavoro.
Questo
inconveniente
nel deserto, non
aveva fatto altro che acuire il suo odio e la sua determinazione di
trovarla e
fargliela pagare.
Stava
solo ritardando
l’inevitabile e,
questa volta, avrebbe agito personalmente, sarebbe stata lei a premere
il
grilletto.
Il
telefono sul
comodino iniziò a trillare
riportandola alla realtà.
“Signora
Lenkov?” chiese la voce di una donna
all’altro capo del filo.
“Sì,
sono io.”
“Sono
Caroline Phelps della reception. Signora, c’è un
signore che ha chiesto di lei.”
“Ha
lasciato
il suo nome?”
“Sì…signor
Patterson. Johnatan Patterson. Mi ha chiesto di dirle che la aspetta al
bar
dell’hotel.”
“La
ringrazio” rispose
Natasha “gli dica che scenderò tra quindici
minuti.
Riagganciò
e
finì di prepararsi, prima di
scendere raggiungere il bar.
∂∂∂
Washington
D.C. – Aeroporto Nazionale Ronald Regan
L’aereo
atterrò rullando sulla pista,
illuminata a giorno da una centinaio di luci bianche.
Due
uomini e una donna,
in piedi dietro
alle grandi vetrate dell’aeroporto, stavano osservando con
attenzione la fase
di atterraggio e i passeggeri che si avviavano verso le uscite.
“Sono
in
perfetto orario” constatò McGee
guardando l’orologio.
“Cosa
ti
aspettavi Pivello. Con il capo a
bordo, non potevano che arrivare in orario. Scommetto che
avrà lanciato ai piloti
una delle sue solite occhiate per farli arrivare in orario, facendoli
anche rabbrividire.”
“Sssh
Tony.
Non gridare, potrebbe
sentirti.” Lo redarguì Ziva, in piedi accanto a
lui.
“Di
cosa hai
paura, non ha mica l’udito di
Superman”
“Ne
sei
così sicuro DiNozzo?” lo raggiunse
una voce alle sue spalle.
Tony
notò le
facce dei suoi colleghi e si
voltò di scatto solo per trovarsi davanti lo sguardo
intimidatorio di Gibbs.
“Salve
capo.” Lo salutò con un sorriso stampato
sul volto, prima di rivolgersi alla donna accanto a lui. Jen era seduta
su una
sedia a rotelle, i medici le avevano consigliato non muoversi troppo,
per
evitare di far saltare i punti di sutura. “Direttore.
È bello rivederla.” La
voce un poco incrinata e lo sguardo basso, vederla su quella sedia per
colpa
sua non lo aiutava a liberarsi dei sensi di colpa.
Jen
parve intuirlo,
ormai conosceva la
squadra di Gibbs molto bene e Tony in particolar modo, durante il
periodo di
tempo in cui ne era diventato il capo, avevano instaurato un buon
rapporto di
amicizia e collaborazione.
“Grazie…
ma… posso chiedervi che cosa ci
fate tutti e tre qui?”
“Eseguiamo
gli ordini.” Rispose Ziva.
McGee
fece un passo
avanti “Abby si scusa
per non essere venuta a salutarla, ma ha detto che passerà
domani.”
“Vi
ha
mandati il direttore Vance?” chiese
Jen, senza dare molto peso alle parole dell’agente.
“No…
a dire il vero è stato...il capo.”
Lei
alzò un
sopracciglio interrogativa e
osservò l’uomo che aveva accanto.
“Posso
sapere
il perché di questa scorta?
Perché è di questo che si tratta, non
è così, agente Gibbs?”
Jethro
non rispose, si
limitò ad ordinare
a Ziva e McGee di ritirare i pochi bagagli, che da diversi minuti
stavano ormai
girando solitari sul nastro trasportatore, e spinse la carrozzina verso
l’uscita.
“Non
ho
bisogno della scorta.”
“DiNozzo.
McGee. Voi farete il primo turno
domani mattina, dalle 7.00 alle 19.00.”
“Va
bene
capo.” Risposero i due
all’unisono.
“Gibbs,
ti ho
appena detto che non voglio
una scorta.” Ribattè Jen
“Ziva,
tu ed
io copriamo il secondo turno
dalle 19.00 alle 7.00” continuò l’agente
senza dare ascolto alle parole del
direttore.
“Certo
capo.”
“Per
stasera
andate pure a dormire.”
“Fermi
voi tre!...Agente
Gibbs!” Jen alzò il tono, ma senza
alcun risultato.
I
tre lo guardarono
esitanti.
“Su,
andate.
Non ammetto ritardi per
domani mattina.” ribadì il capo.
Gli
agenti si
soffermarono ancora un istante,
poi salutarono sia Gibbs sia il direttore e si allontanarono verso le
auto,
mentre Jethro si apprestava a fermare un taxi.
“Jethro
ti ho
appena detto che…ma mi stai
ascoltando?”
“No.”
Rispose secco “riesci ad alzarti da
sola e salire sul taxi? O preferisci che ti prenda in
braccio?”
Per
tutta risposta, lei
si alzò in piedi e
con cautela, pian piano, si accomodò sul sedile posteriore
del taxi. La
tentazione di dire all’autista di partire senza aspettare
Gibbs era forte, ma
sapeva che non sarebbe servita a molto, lui sapeva dove abitava e
l’avrebbe
raggiunta in pochi minuti, perciò attese che salisse, prima
di comunicare
all’autista l’indirizzo di destinazione.
La
vettura procedette
per una mezz’oretta
tra il traffico di Washington e per tutto il tempo, i due passeggeri
non si
scambiarono nemmeno una parola, Jen sembrava furente, mentre Gibbs, al
contrario, appariva del tutto indifferente davanti al suo comportamento.
Quindi
il taxi si
fermò e dopo aver pagato
e preso i pochi bagagli, i due entrarono. La casa era buia e molto
silenziosa, Jethro
si stupì che la domestica non fosse venuta ad accogliere la
padrona di casa, ed
espresse il suo disappunto.
“Avevo
dato a
Noemi due settimane di permesso.”
Rispose lei.
“Beh,
certo,
nelle tue condizioni mi
sembra proprio la decisione più saggia.”
“Beh,
non
pensavo certo di ritrovarmi in
queste condizioni e comunque posso cavarmela anche senza Noemi per un
paio di
settimane.”
Gibbs
si
fermò all’ingresso e appoggiò a
terra la valigia di Jen, prima di prendere la carrozzina piegata e
portarla all’interno.
“Certo.
Come
te la sei cavata a Los
Angeles? Perché non hai chiesto il mio aiuto, Jen?”
“La
cosa non
ti riguarda.”
“Invece
credo
proprio che mi riguardi,
visto che si tratta di Parigi e di Svetlana.”
Jen
lo
guardò sorpresa. Lo sapeva. Certo che
lo sapeva. Cosa si aspettava? Che lui se ne restasse buono buono in un
angolo. Ormai
doveva conoscerlo.
“Oh,
non fare
quella faccia sorpresa Jen. Pensavi
che sarei rimasto a guardare mentre Vance prendeva il tuo posto e uno
dei miei
agenti si tormentava per i sensi di colpa, rischiando di perdere il
posto.”
“Forse
è per questo che ho chiesto aiuto a Franks e non a te, lui
non è più un agente,
non rischia più la carriera. E ora, agente Gibbs, se non le
dispiace, può anche
lasciarmi sola. La ringrazio per avermi accompagnata, ma può
andare.”
Gibbs
le rivolse un
sorriso beffardo “non
credo visto che farò il primo turno di
sorveglianza.” poi prese la valigia “questa
dove te la porto?” chiese.
Jen
lo
guardò esasperata e gli fece un
cenno verso le scale, sarebbe stata una lunga nottata.
∂∂∂
Los
Angeles
Il bar
dell’hotel era poco affollato a
quell’ora e la donna individuò subito la persona
che cercava. Patterson era
seduto al bancone a sorseggiare una birra scura e le dava le spalle, ma
la sua corporatura
massiccia e i lunghi capelli corvini, legati in una coda di cavallo,
erano
inconfondibili. Gli si avvicinò
e ordinò un margarita al
cameriere.
“Signora
Lenkov, che piacere vederla” la
salutò prendendole la mano per posarvi un delicato bacio, in
un gesto molto
galante.
“Un
vero
piacere, signor Patterson. Che cosa
la porta da queste parti?”
“Sono
qui per
affari e…”
Il
cameriere le
servì il margarita e Patterson
si interruppe per un attimo.
“Perché
non ci sediamo… lasci, offro io.” Le
disse vedendo che metteva mano al portafogli per pagare il drink.
Presero
le rispettive
bevande e si
accomodarono ad uno dei tavolini più isolati.
“Allora
signor Patterson, quali novità mi
porta?”
“Buone
notizie, sono riuscito a trovare la
donna che sta cercando. Sfruttando le giuste conoscenze, sono risalito
al nome, si chiama Jennifer Shepard, ed è
l’attuale direttore del NCIS.”
“La
cosa non
mi stupisce affatto.” Rispose
lei. Anche Deker era un agente del NCIS, probabilmente era stata
quell’agenzia
federale a dar loro la caccia. Non si sarebbe stupita
nell’apprendere che anche
il terzo uomo era un agente federale.
“Molto
bene,
dove si trova?”
“Era
stata
ricoverata al California Hospital Medica
Center.”
“Era?”
“Sì,
l’hanno dimessa oggi.”
Il
volto della donna si
rabbuiò e la
rabbia cominciò a salirle di nuovo, possibile che riuscisse
sempre a sfuggirle.
“E
queste le
sembrano buone notizie?”
“No,
ma… mi lasci finire. Quando ho
chiesto della donna in ospedale e mi hanno detto che era stata dimessa,
ho
contattato alcuni informatori. Shepard vive a Washington, nella casa
paterna,
in un quartiere residenziale.”
Natasha
lo
guardò con rinnovato interesse.
“Questo
è il suo indirizzo.” Disse lui
facendo scivolare un foglietto verso la sua mano.
“Bene,
molto
bene.” La donna lesse il nome
della via e sollevò gli occhi verso il proprio interlocutore
“Le devo chiedere
ancora un favore signor Patterson. Ma non si preoccupi,
verrà ben ricompensato.”
“Oh,
di
questo ne sono certo. Che cosa
posso fare per lei.”
“Ho
bisogno
che mi metta in contatto con
alcuni uomini a Washington.”
“Lo
consideri
già fatto, signora. Le darò
mie notizie tra un paio di giorni. Ora, se mi vuole scusare, ho del
lavoro da
fare.” Si inchinò verso di lei e la
salutò con galanteria prima di abbandonare
la sala.
Natasha
lo
guardò avviarsi all’uscita
prima di fare un cenno al cameriere e ordinare un secondo drink, forse
le cose
stavano andando per il verso giusto, questa volta.
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Capitolo 5 *** Effetti collaterali ***
Imperdonabile, lo so, sono davvero imperdoanbile
per questo ritardo. Spero non siate fuggiti tutti e non vi siano venuti
i capelli bianchi per l'attesa.
Come sempre spero che il capitolo vi piaccia un pochino e beh, se ci
sono critiche non esitate a farle.
Buona lettura
CAPITOLO
QUINTO. Effetti collaterali
Washington
D.C. – Casa del direttore Shepard
“Non
posso non immischiarmi Jen, come non
posso fare a meno di preoccuparmi per te.” Le parole che
Gibbs le aveva
sussurrato quando pensava che stesse già dormendo le
tornarono in mente vivide,
come se fossero passati solo pochi istanti e non diversi giorni.
Jen
si
rigirò
inquieta nel letto, i punti le davano fastidio e la ferita non smetteva
di
bruciare, ogni volta che chiudeva gli occhi rivedeva davanti a se gli
uomini di
Svetlana e riviveva la sparatoria. Era un miracolo che fosse uscita
quasi
illesa da quell’inferno, se non ci fosse stato Mike Franks a
quest’ora sarebbe
tre metri sotto terra e non nel suo comodo letto, non aveva ancora
avuto
occasione per ringraziarlo.
Tony
aveva
quasi
rischiato il posto per lei ed era sicura che si stesse ancora
tormentando per i
sensi di colpa.
Per
la
prima volta
sentì di non meritare il posto che occupava, nonostante gli
sforzi che aveva
fatto per arrivare a quel punto, forse non ne era
all’altezza. La conversazione
avuta molto tempo prima con Gibbs le tornò alla mente, come
un boomerang che
ritorna indietro, con maggior forza di quella con cui era stato
lanciato “…però
sei un direttore novizio*…”.
Già,
un direttore
novizio. Nonostante gli anni passati a volte si sentiva ancora una
pivella,
soprattutto con lui.
Gibbs.
Forse
questa volta
aveva ragione – e quando mai non ne ha, pensò
mentre un sorriso le increspava
le labbra – avrebbe dovuto dirgli la verità, fin
dall’inizio.
Ma
con lui
era così
dannatamente complicato.
Non
era mai
stata
fiera delle scelte che aveva fatto nei suoi confronti, era scappata
lasciandolo
da solo, gli aveva nascosto un’infinità di cose,
aveva chiesto ad un suo agente
di tenergli nascoste delle informazioni.
Risolvere
da sola
il problema di Svetlana le era sembrata l’unica cosa sensata
da fare, per farsi
perdonare, non importava se ciò significava morire,
l’avrebbe fatto volentieri
se fosse servito a dare a Jethro una possibilità in
più, un po’ di tempo in più
per risolvere l’ennesimo pasticcio che lei aveva causato.
Ma
nemmeno
questa
volta le cose erano andate come ava sperato, lei era ancora viva e lo era
anche Svetlana, nemmeno questa volta aveva
risolto il problema e ora Gibbs sapeva.
Forse
era
venuto il
momento di raccontargli come stavano le cose.
Scivolò
giù dal letto,
prese la vestaglia che era piegata sulla sedia e scese le scale.
∂∂∂
L’agente
Gibbs appoggiò il fascicolo su
Deker sul tavolino basso accanto a sé e si
stropicciò gli occhi.
Aveva
letto
e riletto i fogli per quasi
un’ora cercando un qualsiasi indizio che lo portasse a capire
come erano
riusciti ad arrivare a William. Aveva addirittura messo i fogli in
controluce,
uno per uno, per scorgere qualche parola al di sotto della
cancellatura, ma
senza alcun risultato.
Ricordava
benissimo che, dopo la missione
a Parigi, sia Deker sia l’agente infiltrato avevano cambiato
identità e per un
periodo si erano dovuti nascondere in qualche sperduta
località del sud
America.
Erano
state
prese tutte le precauzioni
necessarie, era impossibile scoprire la loro identità,
l’unica opzione
plausibile era che qualcuno avesse cantato e che la notizia fosse
trapelata per
questo motivo.
Ma
il come
fossero arrivati a lui e chi
fosse il responsabile della soffiata non era il suo unico problema
anzi, al
momento ne aveva uno ben più urgente: Svetlana.
La
donna
era ancora viva e questo
significava che qualcosa non era andato secondo i piani.
Ma
perché Jen non gliene aveva mai parlato?
Perché
aveva lasciato credere a tutti di
aver portato a termine il lavoro, ben sapendo quali sarebbero potute
essere le
conseguenze?
Perché
aveva cercato Mike e non lui?
Temeva
forse che si sarebbe arrabbiato? I
pivelli sbagliano e lei a quel tempo era alle prime armi, era stata
gettata
nella mischia senza alcuna esperienza. Ma se non aveva ucciso Svetlana,
come
aveva fatto lei a scampare ad una killer professionista quella notte?
Troppe
domande si mescolavano nella sua mente
e per nessuna aveva una risposta definitiva, solo vaghe supposizioni.
Portò
le mani dietro la testa e si
massaggiò la nuca, arruffando i capelli. Doveva parlare con
Jen e affrontare il
discorso, ma doveva cercare un approccio pacato e soprattutto doveva
far si che
fosse lei a dirglielo, di sua spontanea volontà o non
avrebbe ottenuto nulla.
Ma
prima di
tutto c’era una cosa più
importante, doveva farsi un caffè.
Prese
la
tazza vuota che era appoggiata
sul tavolino accanto al fascicolo e si diresse in cucina.
Sciacquò la tazza e
dopo averla posato sul ripiano di granito iniziò ad aprire
alcune ante alla
ricerca del caffè.
“Non
è molto educato ficcanasare in casa
d’altri.” La voce un poco assonnata di Jen gli
giunse alle spalle.
“Stavo
cercando del caffè, non riuscivo a
dormire.” Ripose voltandosi per guardarla mentre attraversava
la cucina e si
fermava accanto a lui.
“Certo,
si sa che la caffeina è il miglior
rimedio per l’insonnia.” Sorrise ironica.
“alla tua sinistra, sul secondo
scaffale, il barattolo rosso.”
“Dovresti
prendere l’abitudine a rimettere
le cose in ordine e sempre allo stesso posto.”
“Sono
in ordine e allo stesso posto.”
“No.
Una volta il caffè era su questo
ripiano qui.” disse lui indicando un punto alla sua destra.
“È
passato molto tempo da allora e ci sono
stati dei cambiamenti.”
Si
guardarono per un istante, consci della
doppia valenza di quella frase poi entrambi distolsero lo sguardo,
concentrandosi su un’altra occupazione.
“Come
mai sei ancora sveglia?” chiese lui
posando la moka sui fornelli e accendendo il gas.
“La
ferita mi da un po’ di noia.”
“Dovresti
essere a letto allora e non
gironzolare per casa.” la ammonì, cercando di
mantenere un tono di voce pacato,
nonostante il disappunto per quel suo gesto.
“Sono
stata peggio e poi il medico non ha
detto che devo stare immobile a letto, ma solo di non fare sforzi per
evitare
che i punti si strappino.” Puntualizzò per non
dargli il tempo di ribattere.
“Potevi
chiamarmi, ti avrei aiutata.”
“A
fare cosa? Scendere una rampa di scale?
Non essere ridicolo Jethro, so cavarmela da sola.”
“Oh
lo so. So benissimo che sai cavartela
da sola, l’ho notato.” Non le era sfuggito il tono
eccessivamente mellifluo e
ironico con cui aveva pronunciato le ultime parole.
“Si
può sapere di che cosa stai parlando?”
“Non
fingere di non saperlo Jen.”
“Sei
ancora in collera perché ho chiamato
Franks anziché te? O perché ho ordinato ai miei
-
calcò di proposito su quella parola - uomini di
prendersi una giornata
libera e di lasciarmi sola a Los Angeles?”
“Perché
non mi hai detto che Svetlana era
ancora viva?” chiese mentre spegneva la fiamma.
“Non
potevo.”
“Perché?”
Lei
scosse
impercettibilmente la testa, se
avesse risposto sapeva che a quella domanda ne sarebbero seguite altre,
una più
complessa e più dolorosa dell’altra. La vide
andare verso la credenza e
prendere una seconda tazza che avvicinò alla sua. Jethro si
versò metà del
contenuto della moka e lasciò il resto a Jen.
“Non
sapevo che fosse ancora viva, non
subito almeno.” Rispose prendendo un sorso di
caffè e appoggiandosi con la
schiena ad uno dei mobili della cucina.
Jethro
la
guardò in silenzio, aveva deciso
di parlare, qualcosa, qualsiasi cosa fosse, le aveva fatto cambiare
idea ed era
fermamente deciso ad ascoltarla, senza metterle alcuna fretta, anche se
questo
significava contravvenire alle normali abitudini.
∂∂∂
Messico
Mike
Franks
entrò nella stazione di
polizia, attraversò l’unica stanza presente,
salutando i due uomini affaccendati
con alcune scartoffie ed entrò in una porta laterale che
conduceva all’ufficio
dello sceriffo.
“L’avete
trovata?” chiese rivolto all’uomo
che alzò la testa, sbucando dal cassetto in cui stava
frugando alla ricerca di
qualcosa.
“Sì,
questa mattina. Era a casa sua.”
“Avete
trovato niente?”
Lo
sceriffo
scosse la testa in senso di
diniego “nulla di rilevante, non sembra abbiano preso nulla e
non ci sono stati
segni di effrazione.”
“Il
medico legale che si è occupa dell’autopsia
è sempre Rogers?” chiese Franks.
“Sì.”
“Bene,
gli devo parlare.”
“Non
sarà un bello spettacolo, era passata
più di una settimana prima che la trovassero.”
“Lo
so. Grazie sceriffo.” Rispose Mike
prima di salutarlo ed uscire per riprendere l’auto.
∂∂∂
Washington
D.C. – casa del direttore Shepard
Seduto accanto a lei sul divano del
salotto Gibbs aveva ascoltato il racconto di Jen senza proferire
parola, poteva
sentire il senso di colpa che opprimeva la donna, come se gravasse su
di lui.
Sentiva
il
desiderio di prenderle la mano
per farle sentire la sua presenza e darle un poco di conforto, come
aveva fatto
in ospedale, ma sapeva che lei lo avrebbe respinto.
“Perché
non me lo hai mai detto.” Chiese resistendo
al desiderio di stringerla a sé.
“Non
pensavo si sarebbe fatta viva. Solo qualche giorno dopo, e
solo dopo la
tua partenza, ho scoperto che non era morta… che avevo
fallito.
Averi
dovuto accertarmi della sua morte,
ma non l’ho fatto. Non ho nemmeno avuto il coraggio di
spararle…”
“Ma
l’hai fatto.”
“Solo
perché le avevo dato il tempo di
prendere l’arma e allora era diventata legittima difesa.
Avrei dovuto dirtelo Jethro.
“Sì
avresti dovuto, soprattutto dopo la
morte di Deker.”
“No,
avrei dovuto dirtelo quando eri ancora
il mio capo, ora non lo sei più. Non sono più
tenuta a fare rapporto a lei
agente Gibbs.”
“Perché
non vuoi mai farti
aiutare.” il suo tono era di nuovo irritato.
“Mi
sono fatta aiutare da Franks.”
“Ma
non da me, perché?” il volto sembrava
impassibile, ma lei riuscì a scorgere un accenno di
delusione in quegli occhi
cristallini che ora la stavano fissando in attesa di una risposta.
Abbassò
il capo, era stanca, il fianco le
doleva, la testa aveva iniziato a girarle per l’eccessivo
sforzo e continuava a
sentire gli occhi di Jethro su di sé.
“Perché
ti volevo proteggere” le
disse una voce fastidiosa
nella sua testa “perché era
una faccenda personale e dovevo sbrigarmela da sola.”
Risposero le sue labbra.
“Come
hai fatto con la Grenouille? Un
ottimo lavoro davvero.” disse
beffardo
Colpita.
“Badi
a come parla agente Gibbs.” Lo ammonì.
Perché
dovevano sempre discutere, perché ogni
conversazione finiva con un litigio. Si
alzò
infastidita e si diresse verso le la propria camera, Gibbs la raggiunse
a metà
scalinata.
“No
direttore,
questa volta non te ne andrai così, voglio sapere, ho il
diritto di saperlo.”
“Dannazione
Jethro! Perché non puoi mai accettare
che me la cavi da sola. Perché devi
sempre…”
Non
le
lasciò completare la frase. La sua
bocca raggiunse quella di Jen, catturandola con un bacio.
Sentì la punta della sua
lingua sfiorarle il labbro inferiore prima di chiederle il permesso di
entrare.
Chiuse gli occhi e si lasciò trasportare dalle sensazioni di
quel bacio, ritornando
in una terra selvaggia che non aveva mai completamente abbandonato e
dimenticato.
“Ti
è sufficiente come risposta?” chiese
allontanandosi un poco ma senza distogliere gli occhi dai suoi.
La
vide
sorridere impercettibilmente prima
che il suo cellulare iniziasse a squillare.
“So come
hanno fatto a trovarvi.” Disse la
voce di Franks all’altro capo.
NdA:
* la frase è ripresa dalla puntata della terza stagione
"Pivello" durante una discussione tra Gibbs e Jen nell'ufficio di
quest'ultima.
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Capitolo 6 *** Capire ***
Siamo alle
battute finali di
questa storia, manca davvero poco ormai.
CAPITOLO SESTO. Capire
Washington
– pub di periferia.
Era notte
inoltrata
quando Gibbs bussò
alla porta del pub in cui Franks gli aveva dato appuntamento, un locale
di periferia
con un’insegna luminosa che avrebbe fatto invidia ad un
centro commerciale, ma
ora inevitabilmente spenta.
“Siamo
chiusi.” Urlò una voce maschile
dall’interno, “non sapete leggere?”
“Cerco
Mike
Franks.”
Una cassa di
bottiglie
venne poggiata a
terra rumorosamente e poco dopo si udì lo scatto della
serratura. Il
proprietario doveva un favore a Franks ed era solo per questo motivo
che aveva
accettato di aprirgli il locale nel giorno di chiusura. Aveva il viso
assonnato
e la barba incolta di chi era stato buttato giù dal letto
contro la propria
volontà.
“Da
quella
parte.” Disse indicando
l’angolo più lontano,“Se avete bisogno
di me sono nel retro.” Aspettò che
entrassero e dopo aver richiuso la porta sparì nel retro
borbottando.
Franks era seduto
ad
uno dei tavoli tondi
di ferro con un boccale di birra tra le mani. Aveva gli occhi arrossati
e il
viso pallido, doveva aver preso il primo volo disponibile per
Washington e
averlo chiamato appena aveva messo piede in città.
Lo sguardo di
Franks
corse veloce su Gibbs
e poi si fermò sulla persona al suo fianco.
“Glielo
hai
detto.” Prese un sorso di
birra e si pulì i baffi dalla schiuma, “ meglio
così. Non dovrò dilungarmi in
inutili giustificazioni.”
“Allora,
Mike. Siamo tutt’orecchi.” Jen
prese una sedia e la avvicinò al tavolo, mentre Gibbs le si
sedeva accanto.
“Prima
devo
capire quanto ne sa il
Pivello.”
“So
tutto.” Ribatté Gibbs deciso.
Mike si
fermò ad osservare Jen. In quella
tavola calda, quando era certa che i suoi giorni sarebbero finiti su
quel
pavimento in mezzo alla polvere del deserto, lei gli aveva rivelato
molto più
del dovuto, gli aveva confessato i suoi sentimenti per Jethro. Lui si
era
limitato ad ascoltare e a commentare senza sbilanciasi troppo. Non
conosceva i
reali sentimenti dell’uomo anche se in più di
un’occasione aveva intuito che provasse
una forte attrazione fisica per il direttore, ma credeva si limitasse a
questo.
Non voleva dare alla donna vane speranze e allo stesso tempo non se la
sentiva
di sgretolare quel sentimento che le aveva visto nascosto nel cuore.
Solo
quando aveva visto Gibbs
accanto a Jen all’ospedale
aveva compreso che anche l’uomo provava qualcosa di molto
più profondo.
Il direttore
Shepard
ricambiò lo sguardo
di Franks con un cenno del capo a confermare che Jethro sapeva. Tutto.
“Cora
Wayne.” Disse Mike solennemente. “Non vi dice
niente?”
Jen rispose con
prontezza. “Il quarto agente
di Parigi, sì. Ma dalle ultime notizie, so che è
in Messico.”
“Era.”
Precisò Franks. “Ora è in viaggio
per l’obitorio del NCIS di Washington.”
A Franks non
sfuggì la sorpresa che
comparve sui volti dei due agenti. “Forse è meglio
se prima ordiniamo qualcosa.
John!” chiamò.
La testa
dell’uomo comparve da dietro una
tendina colorata.
“Tre
birre
scure.”
“Grazie,
Mike, ma io prenderò un caffè.” Lo
corresse Jen.
“Allora
due
birre e un caffè.”
Il barista
scomparve
nel retro e poco dopo
ritornò con due bottiglie di birra e una tazza di
caffè fumante. Appoggiò le
tre bevande sul tavolo con scarsa delicatezza e poi scomparve
nuovamente dietro
la tenda.
Franks prese un
lungo
sorso di birra, si
pulì i baffi e prosguì: “Dopo Parigi
Wayne e Deker, che erano i maggiori
coinvolti in quell’operazione, sono stati costretti a
lasciare gli Sati Uniti.
Sono andati in Messico con una nuova identità e hanno
cominciato una nuova
vita, indipendenti l’uno dall’altro, ma rimanendo
in contatto.
“Deker,
come
ben sapete, si è trovato una
compagna e dopo qualche anno, quando le acque si erano calmate,si
è trasferito
a Los Angeles e pian piano a ripreso la sua identità e il
suo lavoro, ma per
Wayne le cose sono andate diversamente. A Parigi non aveva lasciato
solo un
cadavere.”
“A
quanto
pare ti sei dato da fare mentre
eri in Messico.” Lo interruppe Gibbs.
“C’è
chi lavora e chi si diverte a fare
l’infermiere a domicilio.” Lo schernì
Franks, ricevendo in cambio uno sguardo
di rimprovero da parte di Jen. “Comunque,”
proseguì, “Cora Wayne si era
invaghita di un uomo, Johnathan Patterson. Non so molto di lui, solo
ciò che
sono riuscito a scoprire parlando con le conoscenti di Cora. Diceva che
faceva
il giornalista.
“Arrivata
in
Messico la Wayne ha cercato
di mettersi in contatto con Patterson, ma a quanto pare non
è mai riuscita a
rintracciarlo, finchè un paio di mesi fa è stato
lui a trovarla.”
Da quando Franks
aveva
iniziato a parlare
Gibbs non aveva mai smesso di spostare lo sguardo da lui al direttore.
Jen era
pallida, la ferita doveva farle male perché ogni tanto
contraeva la mascella
trattenendo una smorfia di dolore. Ascoltava Mike senza perdere una
sillaba ed
era sicuro che anche la sua mente stesse formulando le stesse
conclusioni.
“Non
era un
giornalista, vero?”
Franks prese un
altro
sorso di birra. I
bicchieri di Jethro e la tazza di Jen erano ancora colmi.
“Il suo
vero
nome è Aleksiej Levin
Patterson, russo per parte di madre e inglese di padre. A diciassette
anni ha
commesso il suo primo omicidio su commissione. Nel 1999 era a Parigi
con lo scopo
di assassinare un giudice. È meticoloso, non lascia nulla al
caso e non lascia
tracce. ”
“E
ora lavora per Svetlana,” Jen sospirò con
rassegnazione. “ Ha ottenuto dalla
Wayne le informazioni che voleva e poi si è sbarazzato di
lei.”
“Da
quanto
è morta?” Chiese Gibbs.
“Una
settimana, o poco più.”
“Come
sei
riuscito ad ottenere il
trasferimento del corpo?”
“Non ho
chiesto aiuto al direttore Vance,
se è questo che vuoi sapere Pivello. Il medico legale della
contea è un mio
vecchio amico e ho ancora qualche contatto qui a Washington che mi
permette di
agire liberamente.”
Gibbs gli
regalò un sorriso sornione,
conosceva il contatto di cui si era servito Mike, l’aveva
conosciuta una volta.
Una donna piccolina dai capelli scuri e il sorriso invitante.
“Deker
è morto più o meno nello stesso
periodo.” Cominciò a dire Gibbs, ma Franks lo
interruppe con un’occhiata. John,
il cameriere stava venendo al loro tavolo.
“Sentite,”
cominciò a dire John, “io tra
tre ore riapro il locale. Sono rimasto in piedi tutta la notte e non mi
farebbero schifo un paio di ore di sonno.” Spostò
lo sguardo alla finestra: il
cielo si stava tingendo dei chiari colori dell’alba.
“Ancora
cinque minuti, John.” Disse
Franks, “poi ce ne andiamo.”
Il barista
annuì con il capo e se ne andò borbottando
qualcosa che assomigliava a “con questo considera pagato il
mio debito.”
Attesero
finchè non sentirono il rumori
nel retro, poi Gibbs riprese a parlare: “Patterson non ha
perso tempo, una
volta scoperto dove si trovava Deker”
“Dopo
quello
che è successo a Los Angeles
Svetlana sarà ancora più determinata, non ci
metterà molto ad arrivare a
Washington.” Disse Jen.
Gibbs
posò
una mano sulla sua, voleva
farle capire che questa volta lui ci sarebbe stato, se lei glielo
avesse
permesso. Jen sorrise impercettibilmente.
“Credo
sia
ora di svegliare DiNozzo e gli
altri, dobbiamo far controllare tutti gli aeroporti e le
dogane.”
Prese il
cellulare e
compose il numero. La
voce dell’agente risuonò assonnata
all’altro capo “Pronto?”
“La
sorveglianza è sospesa, DiNozzo” disse
Gibbs, “abbiamo altre
priorità…”
Los
Angeles – in un condominio affacciato sul mare
Il monolocale si
trovava all’ultimo piano
di un grattacielo affacciato sulla spiaggia. Sottili spirali di fumo si
alzavano da un posacenere di vetro blu nel quale era stato bruciato un
bigliettino di carta.
L’odore
acre
di un sigaro acceso da poco si
mescolava a quello dolciastro del sangue. Nella vasca da bagno, immerso
fino
alla vita nell’acqua schiumosa e rossastra, giaceva il
cadavere di un uomo. La
testa ciondolava di lato, quasi recisa dal collo e i lunghi capelli
corvini
ricadevano sparsi. Un sigaro gli era sfuggito dalle dita e ora giaceva
consunto
sul pavimento del bagno. Il volto contratto in un’espressione
di sorpresa.
“A
quanto
pare non se lo aspettava.”
L’agente Lara Macy si rivolse ad uno dei colleghi
“mi raccomando documentate
tutto.”
Da quando Gibbs
se ne
era andato da Los
Angeles aveva deciso di seguire il suo istinto e condurre
un’indagine parallela
su ciò che aveva appreso della sparatoria nel deserto.
Ricordandosi di alcune
conversazioni avute a suo tempo con Deker e grazie ad alcuni agganci
all’ NCIS
di Washington era riuscita a risalire a Natasha Lenkov, da qui a
scoprire il
suo vero nome il passo era stato breve. Qualche colloquio con i
dipendenti
dell’hotel in cui alloggiava la Lenkov le era bastato per
avere la descrizione
di Patterson e scoprire il suo indirizzo.
Sperava di
riuscire a
precedere Svetlana,
ma a quanto pare lei aveva ottenuto le informazioni che le servivano,
non aveva
più bisogno di lui.
“Agente
Macy.” La chiamò un’agente
porgendole un bigliettino mezzo bruciato, “lo abbiamo trovato
nel caminetto.”
Macy prese il
biglietto e lesse le poche
righe rimaste. Devo avvertire Gibbs, pensò e la sua mano
scattò verso il cellulare.
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Capitolo 7 *** Epilogo (prima parte) ***
CAPITOLO
SETTIMO. Epilogo (prima parte)
Washington
“Jenny!” Il grido precedette di
poco lo
sparo, dando all’uomo il tempo di vedere il volto della donna
che si girava
verso di lui. Poi scattò il grilletto. Un boato
echeggiò sospeso nella stanza,
rendendo irreale il silenzio che ne seguì.
L’abito si squarciò come se
fosse stato di
carta velina e una macchia scarlatta comparve poco sopra il cuore. La
pallida
pelle si era lacerata un’ultima volta.
La donna barcollò verso Gibbs, lo
fissò
per un infinito istante con un sorriso sulle labbra e si
lasciò cadere a terra.
L’agente le corse incontro, nel tentativo
di sorreggerla, ma il corpo finì a terra con un ultimo
spasmo. Gli si
inginocchiò accanto e spostò una ciocca di
capelli ramati che le coprivano il
viso. Una mano corse lungo il collo esile per tastare la giugulare con
dita
tremanti.
Nessun battito.
Tenne le dita premute ancora per un poco,
per accertarsi di non essersi sbagliato, ma non ottenne la risposta che
stava
cercando.
“È morta.”
Confermò, infine, alzando la
testa.
Due giorni prima...
Nota dell'autrice:
Ho deciso di
dividere l'epilogo in due parti, giusto per essere un pochino perfida e
lasciarvi ancora un poco con un senso di attesa. Nel frattempo io sto
finendo di scrivere la seconda parte dell'epilogo, per dare senso a
queste poche righe qui inserite...
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Capitolo 8 *** Epilogo (seconda parte) ***
Tre
anni e mezzo, questo il tempo trascorso dall'ultima pubblicazione di
questa storia... accidenti. Ma alla fine l'ho terminata, con numerose
variazioni, ripensamenti e correzioni.
Chiedo
scusa a coloro che hanno letto e avevano perso le speranze.
Due
settimane prima
29 giugno.
Ore 7.40
Washington
– sede NCIS
Quando
entrò nell’open-space
l’umore di Gibbs era nero quanto le nubi che da giorni
coprivano il cielo di
Washington. Tony, Ziva e Tim non lo vedevano così da quando
Ari aveva sparato a
Kate e nemmeno allora aveva quell’espressione corrucciata e
rabbiosa. Pareva
una belva braccata senza via d’uscita.
«Ci
sono novità?» La sua voce
sembrava un ringhio.
I tre agenti in quel momento
erano in piedi
davanti al monitor e stavano osservando una cartina sulla quale erano
indicati
gli spostamenti compiuti da Svetalana durante le ultime settimane. Ci
era
voluto un po’ di tempo e il prezioso aiuto della squadra di
Los Angeles per
ricostruire tutti i suoi movimenti, ma alla fine erano riusciti a
tracciare il
suo percorso. Almeno fino al giorno in cui era sparita definitivamente,
lasciandosi dietro il cadavere di Patterson e alcuni fogli
bruciacchiati. In
uno di essi – quello rinvenuto nell’appartamento di
Los Angeles dagli uomini di
Lara Macy – era segnato l’indirizzo di casa della
Shepard. La Macy aveva
prontamente avvertito Gibbs con una telefonata e subito era scattata
una caccia
all’uomo, che però non aveva ancora prodotto
risultati. Fosse stato per lui
avrebbe messo un posto di blocco lungo qualsiasi strada principale,
sentiero o
mulattiera, ma ovviamente questo non era possibile.
«Mi
state dicendo che non ci sono
state segnalazioni nelle ultime ventiquattro ore? Spero che Abby abbia
notizie
migliori delle vostre.»
«Ehm
capo?» DiNozzo fece un passo
verso Gibbs, «come sta il direttore?»
«Vuole
che questa storia finisca
il prima possibile. E lo voglio anche io, perciò al
lavoro.»
«Sarà
stato saggio lasciarla da
sola, visto quel che rischia?» McGee si rese conto troppo
tardi di ciò che
aveva detto, quando il capo si voltò verso di lui, rabbioso.
«Ehm, volevo dire
che…beh, so che non è sola, intendevo agenti che
non siamo noi…la sua
incolumità… sì,
ecco…»
«Franks
è con lei.»
«Mike
è qui?»
«Sì,
DiNozzo. Proprio dietro di
te.» la voce di Franks gli arrivò alle spalle,
facendo sussultare l’agente. Jen
gli era accanto e si teneva al suo braccio.
Si
erano organizzati con una
sorveglianza maggiore e di tanto in tanto spostavano il direttore di
alloggio:
a volte a casa di Gibbs, altre di DiNozzo o dell’agente
David. Se non altro il tempo
trascorso aveva permesso alla ferita di Jen di rimarginarsi piuttosto
bene,
tuttavia i frequenti spostamenti iniziavano a stancare il direttore che
appariva piuttosto provata e irritata.
«Non dovresti
essere qui.» Gibbs guardò il
direttore con disappunto.
«Ci
sono novità?» chiese Jen
rivolta agli agenti.
«Non
ancora, direttore.» Ziva fu
la prima a rispondere.
«Bene.
Informatemi appena avrete
qualche notizia.» Poi si girò verso Gibbs.
«Io sarò nel mio ufficio.»
Jen
lasciò il braccio di Franks e
salì i gradini che portavano al piano di
sopra.
Mike Franks
si limitò ad una
alzata di spalle «è
una donna testarda,
Pivello.»
«Tornate
al lavoro. Quando torno
voglio dei risultati.» Gibbs squadrò gli agenti e
poi salì i gradini a due a
due.
«Dannazione,
Jen! Si può sapere
che cosa ti è saltato in mente? Dovevi restare a casa con
Franks e gli agenti
di sorveglianza.» La
porta dello studio
si richiuse alle spalle con un tonfo sordo.
La donna
andò a sedersi sul
divanetto in fondo alla stanza, non era pronta per uno scontro. Non
questa
volta. Non dormiva bene da mesi e per quanto le ferite si fossero
rimarginate,
non aveva ancora riacquistato completamente le forze. «Ti
prego, Jethro, non
ora. Non ho le forze necessarie per tenerti testa. E
poi…sono stanca.»
«Ottimo,
così la finiremo prima.
Prendi le tue cose e torna a casa con Mike. Sei molto più al
sicuro lì.»
«No,
Jethro. Sono stanca di
nascondermi. È ora di mettere fine a questa cosa.»
Aveva
ragione, Gibbs lo sapeva,
la situazione stava diventando pesante per tutti. Nemmeno lui riusciva
a
chiudere occhio la notte. Quando era addetto al turno di sorveglianza
trangugiava litri di caffè con il risultato che al mattino
era più scorbutico
del solito. E se erano altri addetti al turno, non faceva che chiamarli
ogni
mezz’ora per controllare che tutto filasse liscio.
Prese un
profondo respiro e si
sedette accanto al direttore. «E cosa proporresti di fare,
Jen, sentiamo.»
«Lo
sai bene, ne abbiamo discusso
molte volte.»
«Non
se ne parla. Non questa
volta.»
«Sai
bene che l’unica soluzione,
la più logica. Tutti gli altri tentativi sono
falliti.»
«Non
farai ancora da esca.» La
sua voce si addolcì «Hai visto cosa è
successo l’ultima volta, ne stai ancora
pagando le conseguenze.» Il suo sguardo cadde sul corpo di
Jen, dove i colpi
dei killer solo pochi mesi prima avevano lasciato cicatrici indelebili.
Le
accarezzò una guancia e le sollevò il mento
avvicinando le sue labbra, erano
così vicini che Jen non potè fare a meno di
tremare. Era
trascorso quasi un mese da quel loro
unico bacio e da allora non si erano più trovati in una
situazione intima. Non
avevano nemmeno più parlato di quel bacio e nonostante
sapesse bene che le
priorità erano altre, che catturare Svetlana fosse al primo
posto, non riusciva
a non pensare a quella notte e alle parole che Gibbs le aveva detto.
Era
incredibile come da sempre quell’uomo riuscisse ad avere un
tale potere sulle
sue emozioni.
«No.»
Jen lo respinse
delicatamente ma con decisone. «Non cambierò idea,
non questa volta.»
Jethro
abbassò la testa e
sospirò, non era d’accordo con la decisone di Jen,
ma la capiva, in fondo anche
lui avrebbe agito allo stesso modo. «Va bene, faremo a modo
tuo. Ma almeno
promettimi che indosserai il giubbotto antiproiettile.»
«Sai
che non servirà a nulla,
Svetlana è una professionista, mirerà alla testa
per essere sicura.»
«Lo
so, ma tu indossalo lo
stesso.»
Jen sorrise
e annuì. Quando Gibbs
si alzò per andare alla porta, Jen non potè fare
a meno di pensare a quante
volte lo avesse deluso e respinto e che nonostante tutto lui fosse
sempre lì,
accanto a lei nel momento del bisogno. Lo chiamò prima che
varcasse la soglia.
«Jethro…
Grazie.»
12 luglio. Ore 19.00
Washington
D.C. – Casa del direttore Shepard.
Due
settimane, questo il tempo necessario
per organizzare tutto. Jethro dal canto suo continuava a non essere
d’accordo
con la decisione di Jen, ma si era rassegnato. Se volevano porre fine a
questa
storia dovevano agire.
Dopo aver
messo a punto il piano
in ufficio, Jen era rientrata a casa e lì era rimasta. I
primi giorni la
sorveglianza era stata organizzata come di consueto, tre o quattro
agenti con
turni di otto ore, in questo modo se uno o due uscivano per fare delle
commissioni per il direttore, Jen non sarebbe comunque mai rimasta
sola. Poi
a mano che
passavano i giorni gli agenti
erano diminuiti e l’unico agente rimasto di tanto in tanto si
allontanava,
lasciando il direttore da sola. Questo almeno era ciò che
sembrava.
Jethro e i
suoi agenti erano
sicuri che Svetlana sorvegliasse la casa e tutti i loro movimenti e
Gibbs aveva
faticato ad introdursi in casa del direttore senza essere visto, ma
c’era
riuscito. L’occasione si era presentata in occasione di una
piccola fiera di
quartiere, che si teneva ogni anno in quel periodo. Approfittando della
confusione era riuscito ad entrare a casa di Jen e non ne era mai
uscito. Si
era tenuto lontano dalle finestre e quando accedeva alla camera degli
ospiti
che Jen gli aveva riservato non accendeva mai la luce per evitare di
attirare
l’attenzione o essere visto.
Tuttavia i
giorni passavano senza
che accadesse nulla e dopo quasi due settimane di
“reclusione”, Gibbs iniziava
a dare i primi segni di impazienza.
«Se
Svatlana non fa qualcosa
saremo costretti a spostarti, Jen» Jethro era seduto al
tavolo della cucina, in
una stanza in penombra. Le temperature esterne erano piuttosto elevate
e per
evitare il caldo Jen aveva accostato i balconi, un’idea
saggia che permetteva
di non essere visti dall’esterno.
«No.
Resterò qui.» Ribattè Jen,
posando la moka di caffè sui fornelli.
«Inizierà
ad insospettirsi, non
sei mai rimasta in un posto troppo a lungo.»
«Non
vuoi che si faccia a modo
mio, è questo che non accetti. Hai rimosso quasi tutti gli
agenti. Svetlana
penserà che abbiamo abbassato la guardia, che dopo tutti
questi mesi di
inattività da parte sua ci sentiamo sicuri. È per
questo che non voglio essere
spostata.»
Il
caffè era pronto e Jen ne
versò una dose abbondante a Jethro, riservandone una
più contenuta per sé, mise
un cucchiaio di zucchero nella propria tazza e porse quello amaro
all’uomo.
Gibbs la
guardò con rassegnata
ammirazione. Era una donna forte, passionale e amorevole, come aveva
avuto modo
di constatare durante la loro relazione, ma era dannatamente testarda,
molto
più di lui. Alla fine, ancora una volta, cedette alla
volontà di Jen e non
riuscì a trattenere un sorriso.
«E
adesso che c’è?» Chiese il
direttore.
«Ci
atterremo al tuo piano.»
«Grazie.»
«È
la seconda volta che mi
ringrazi in meno di un mese.»
Jen
sorrise.
12
luglio. Ore 19.50
Washington
D.C. – Casa del direttore Shepard.
La porta
d’ingresso si aprì silenziosamente,
i cardini non cigolarono. La donna entrò con circospezione.
Si era tinta i
capelli di un caldo colore ramato che portava sciolti sulle spalle e
indossava
un lungo impermeabile beige sotto al quale aveva nascosto
l’arma, una revolver
di piccolo calibro che ora era stratta nella destra, adagiata lungo il
fianco. Alla
fine del corridoio c’era una porta aperta dalla quale
filtrava una luce calda.
Svetlana vi si diresse a passo sicuro, certa di trovarci Jen.
Aprì la porta, ma
oltre la grande scrivania in rovere notò con sorpresa che ad
attenderla c’era
un uomo. Gibbs le dava le spalle, lo sguardo rivolto al viale alberato
oltre la
vetrata, in mano un bicchiere di Bourbon..
«Ciao Natasha*.» La
salutò senza voltarsi, osservando il suo riflesso nella
finestra. «O preferisci che ti
chiami…Svetlana».
Lei non
parve affatto sorpresa,
si limitò a studiarlo. Aveva spalle larghe e un fisico
atletico e a discapito dei
capelli grigi doveva essere ancora giovane..
Gibbs
si girò e Svetlana ebbe conferma delle suo ipotesi, aveva
poco più di quarant’anni.
«Niente
affari, è una cosa personale.» Era vero,
non si trattava di lavoro, la vita
di Jen non era una priorità dell’agenzia, era una
sua priorità. Se ne era reso
conto in quei mesi, quando in qualche modo si erano riavvicinati.
Svetlana
era rimasta sorpresa nel trovarselo davanti,
si aspettava la donna, ma si rese conto che dovevano averla trasferita
in qualche
modo. «Sei stato tu ad uccidere
Alatoly?»
Andò dritta al punto, quello era un regolamento di conti.
L’occasione le si
presentava in modo così semplice. Aveva notato che Gibbs era
disarmato, la pistola
era appoggiata sulla scrivania ed un palmo dall’uomo, ma non
sarebbe comunque
stato abbastanza rapido a prenderla. Avrebbe eliminato lui e poi
sarebbe andata
a cercare la donna. Non doveva essere molto lontana.
«Che
cos’era per te?»
«Tutto.» Per un attimo a
Svetlana tremò
la voce, ma non si fece distrarre, ricacciò le lacrime al
pensiero del suo
amato.
«Perché
ora?»
«Perché solo ora sono riuscita a trovarti.»
Mentì, ma che importava, li avrebbe uccisi entrambi,
vendicando Alatoly e
riprendendosi la sua vita. Alzò la pistola, puntando la
canna verso Gibbs.
«La notte in cui è morto una donna era
venuta
per ucciderti… che cosa è successo?»
Jethro voleva capire, non riusciva a
credere che Jen non fosse riuscita a portare a termine la missione. Per
quanto
a quel tempo fosse stata ancora giovane e inesperta, non aveva mai
fallito.
«Non ha potuto farlo.» Un ghigno
beffardo
comparve sulle labbra di Svetlana.
«Ma
ora posso.» La voce arrivò dalla sua destra.
Dietro alla credenza che conteneva
i liquori c’era un’apertura a volta che Svetlana
non aveva notato fino a quel
momento. Jen le si parò davanti con la pistola puntata
contro di lei.
I
grilletti furono premuti all’unisono
e il boato che ne seguì parve assordante. Gibbs non
poté fare a meno di gridare
il nome di Jen, mentre questa, colpita in pieno petto,
oscillò scivolando a
terra. L’agente guardò Svetlana. La camicia
candida era squarciata, il volto
pallido e un sorriso di scherno sulle labbra. Crollò a terra
con un ultimo sussulto.
Gibbs le andò vicino, tastando la carotide, non
c’era battito. «È morta.»
Ancora
a terra, Jen aprì gli
occhi e si tastò il petto. La camicia si era strappata, lo
sterno le doleva un
poco per via del contraccolpo, ma il giubbotto antiproiettile aveva
fatto il
suo dovere. Per la seconda volta quella sera sorrise a Gibbs.
«Stai
per ringraziarmi ancora una
volta?» Chiese Jethro aiutandola ad alzarsi.
«Sì,
ma non farci l’abitudine» Si
alzò in punta di piedi e lo baciò.
*
I dialoghi in corsivo sono tratti dall'episodio 5x19
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