Between the Hungry

di writinglove
(/viewuser.php?uid=648617)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quotidianità ***
Capitolo 2: *** Tra sangue e caos ***
Capitolo 3: *** Quasi morti ***
Capitolo 4: *** Sottosopra ***
Capitolo 5: *** Gelo ***
Capitolo 6: *** In viaggio verso il sole ***
Capitolo 7: *** Il tunnel dell'orrore ***
Capitolo 8: *** Numero nove ***
Capitolo 9: *** La fine e l'inizio ***
Capitolo 10: *** Vermont ***
Capitolo 11: *** Incubi voraci ***
Capitolo 12: *** Britt ***
Capitolo 13: *** La spedizione ***
Capitolo 14: *** Regole e realtà ***
Capitolo 15: *** L'inchino della fine ***
Capitolo 16: *** Sprazzi di vita ***
Capitolo 17: *** Alessandra Monroe ***
Capitolo 18: *** L'Eroe silenzioso ***
Capitolo 19: *** Il Buio ***
Capitolo 20: *** Sopravvissuti ***



Capitolo 1
*** Quotidianità ***


Quotidianità

«Non so come ripetertelo Santana,ma in questo posto siete in troppi. Mia nipote si è appena diplomata e presto verrà a lavorare qui. Ho te,Mandy,Josh,Simon,e presto verrà lei. Mi dispiace davvero,ma non ho mai avuto intenzione di assumere tutto questo personale e tu sei l’ultima arrivata. Capisci quello che sto cercando di dirti?»

Guardai Carl dritto negli occhi,con l’odio che aveva trasformato il mio viso in una maschera terrificante. Che maledetto vecchiaccio figlio di puttana! pensai furiosa. Non poteva liberarsi di me,non in quel modo,non poteva farlo! I clienti mi adoravano,soprattutto i ragazzi che venivano in quel posto per lanciarmi occhiate degne del più rozzo e disgustoso maniaco. Diciamo che ero una sorta di “attrazione” per i clienti di sesso maschile,ma diciamo pure che il mio interesse per le loro battutine o per i loro sguardi affamati (e non del cibo scritto sul menù) era pari a zero. Facevo il mio lavoro,era quel che avevo sempre fatto,più o meno. Certo, la Lima’s House non era altro che una bettola malconcia piena di alcolizzati privi di patente e minorenni sregolati che approfittavano dei bagni per fumare un po’ di erba,ma il posto mi era sempre stato più che bene,così come anche la misera paga. Se solo i miei genitori avessero avuto qualche soldo in più da parte,o se solo fossi stata così in gamba da ottenere una borsa di studio,avrei potuto frequentare una bella università nel Kentucky o giù di lì.

«Ho lavorato qui per sette schifosissimi mesi!Ho servito a quei dementi la tua merda di cibo e tu mi cacci via così?!»

Carl socchiuse leggermente gli occhi,furioso, e il suo viso pieni di rughe si colorò di rosso. Era arrabbiato,ma sapevo che non avrebbe cambiato idea in alcun modo,per cui…

«Sei una maledetta impertinente,ragazzina!Come osi rivolgerti a me con quel tono?La tua famiglia stava morendo di fame quando sei venuta qui disperata in cerca di un lavoro,ed io ti ho dato di che mangiare. Dovresti portarmi rispetto!» esclamò il vecchio ancora rosso in viso.

«Fottiti!» sputai tra i denti.

Girai i tacchi e uscii dall’ufficio nera di rabbia. Mandy mi lanciò un’occhiata incuriosita e capii che presto sarebbe corsa a chiedere spiegazioni,ma non avevo alcuna voglia di parlare. Mi tolsi alla svelta quell’orrido grembiule sporco di olio e lo lanciai con disprezzo dietro il bancone.

«Ehi,ragazzina!Sparisci da questo posto e non farti più vedere,mi hai sentito?» urlò il vecchio,affacciandosi dal suo sudicio ufficio «sei solo una sporca mocciosa che prima o poi riceverà una bella lezione dalla vita!»

Tutti gli sguardi erano su di me,sia quelli dei clienti che quelli del personale. Mandy abbandonò rapidamente il suo vassoio sul bancone e fece per raggiungermi,ma qualcosa glielo impedì.

«Tu,si dico a te!Non azzardarti ad andare da lei,hai capito?!» sbraitò Carl,guardandola furioso.

Lanciai un’ultima occhiata alla ragazza dai capelli rossi,e lei mi rispose con un’altra sinceramente dispiaciuta,ma non si mosse di un millimetro. Stralunai gli occhi,borbottai un “al diavolo”, e uscì alla velocità della luce da quel posto la cui puzza di fritto mi aveva stordita per la bellezza di interi mesi.

                                                                                                *

Quel maledetto bastardo aveva mandato tutto a puttane!Come sarei tornata dai miei a quell’ora,sapendo che sarei dovuta essere in tutt’altro luogo?Cos’avrei detto a loro,che soltanto da poco avevano ritrovato un minimo di stabilità economica?Un anno prima mio padre era stato licenziato da una fabbrica di carta,e da lì la situazione era diventata abbastanza pericolosa. Avevamo rischiato di perdere la casa,poi però quel vecchiaccio di Carl aveva deciso di assumermi,ed io,che avevo rinunciato già da un pezzo ad i miei sogni universitari,avevo cercato di aiutare come meglio potevo. Anche mio fratello,più piccolo di qualche anno,aveva trovato un lavoretto part time,ma per l’appunto era part time, e quindi ben poco retribuito. Sì,beh,la mia vita potrà sembrarvi uno schifo,ma non la odiavo pur non avendola mai amata particolarmente. In quel disastro c’era pur sempre qualcosa di bello.

«Così quello stronzo ti ha licenziata,eh?» mi chiese Josh con un assurdo sorrisetto sulle labbra.

«Sì!Proprio per questo non dovresti sorridere in quel modo…»

Il ragazzo dai capelli neri come l’ebano e gli occhi blu mi sorrise di nuovo e mi venne voglia di prenderlo a schiaffi. Diamine,però,se era bello. L’avevo conosciuto durante l’ultimo anno a scuola. Lui era il belloccio col fisico palestrato e le innumerevoli vittorie di basket che aveva regalato al liceo,ed io ero la cheerleader popolare che girava per i corridoi con indosso uno striminzito gonnellino e l’aria da “non fissarmi troppo a lungo altrimenti sono botte”. Una storia banale potreste dire : la bella cheerleader che sta con il campione della scuola,ma la verità era che non importava lo sport,la popolarità,o le uniformi indossate dall’ “elite” ; non era mai importato. Io lo amavo e lui amava me,indipendentemente da tutto e da tutti,dal resto del mondo.

«Scusa,è solo che sono contento di non dovermi più preoccupare di tutti quei cinquantenni che ti divoravano con gli occhi» disse quasi entusiasta.

Eppure non m’infastidiva il fatto che fosse (in parte) felice del mio licenziamento,anzi. Era bello che qualcuno pensasse in quel modo a me,che qualcuno fosse geloso,che qualcuno tenesse fino all’inverosimile alla mia persona.

«Già,» cominciai sorridendo «avresti dovuto vedere la faccia di quei disgraziati quando Carl ha urlato di andarmene»

Josh rise.

«Ci credo!»

Mi diede un piccolo e delicato bacio sulle labbra,lì,sotto il sole cocente che ci faceva compagnia e teneva caldi i nostri corpi,dandoci un inevitabile sollievo. L’erba era di un verde chiaro,quasi misto al giallo,ma era morbida ed accogliente. Feci un tiro di Camel ed aspirai senza indugi,con naturalezza e piacere. Josh mi guardava serio,con i suoi occhi intensi e luminosi per via dei raggi caldi,e sembrava volesse dire qualcosa come “ti amo” o “sei la mia vita” ; sì,aveva il classico sguardo del babbeo stracotto di qualcuno,ma io l’amavo,l’amavo anche per quello.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Tra sangue e caos ***



Between the Hungry


  Tra sangue e caos

Aprii gli occhi a fatica,con il sole ancora tiepido di metà mattina che filtrava dalle tende socchiuse. Avvertii il lenzuolo avvolto sulla pelle nuda e mi girai verso lui,che dormiva con quell’aria di pace e serenità sul volto. C’era un clima così calmo e piacevole,era come se il mondo intero ci avesse escluso per un momento da quella folle corsa,come se il tempo ci avesse concesso una pausa. Accarezzai i capelli neri ed arruffati di Josh e lui aprì appena appena gli occhi. Mi guardò,sorrise,e riaffondò la testa nel cuscino.

«Che ore sono?» biascicò contro la federa.

Gettai un’occhiata alla sveglia sul comodino.

«Le 9 : 30. Sarebbe ora di alzarsi».

Josh si lasciò scappare un lamento.

Facemmo colazione con del caffè,qualche toast e delle uova strapazzate,poi lui si fece una doccia,si preparò e scappò nell’officina dello zio. Io mi buttai a peso morto sul letto,ancora stanca,priva di forze,priva di cose da fare. Non avevo più un lavoro e ,di conseguenza, più nulla che mi tenesse occupata. Mandy mi aveva fatto un paio di chiamate il pomeriggio precedente,ma non avevo risposto e dopo un po’ si era stancata di tentare. L’avrei fatto anch’io : avrei smesso anch’io di chiamare perché in fondo avrei saputo di non aver proprio nulla di cui scusarmi. Se avessi avuto l’occasione di tenermi stretto quello schifosissimo impiego,non l’avrei di sicuro sprecata e a Mandy serviva,così come era servito anche a me. Ci avevo pensato a lungo quella notte,prima di riuscire a prendere sonno : di cosa nella mia vita sarei andata fiera?Cos’era mio?Quali erano le certezze di cui non avrei mai dubitato?Era un argomento piuttosto impegnativo,e forse proprio per quel motivo avevo impiegato così tanto ad addormentarmi. Ma era lecito chiederselo,no?Ero stata appena licenziata e mi ritrovavo senza nulla…senza obbiettivi,senza sogni,senza niente da fare se non oziare su un divano mangiando patatine e guardando la tv. Non era quella la vita che volevo ; cavolo,io ero Santana Lopez!La regina del McKinley,ex capitano delle cheerios,ex studentessa non proprio modello,ma temuta ed invidiata da tutti. Era quella la fine che una tipa tosta come me meritava?Uno squallido impiego poi perso piuttosto in fretta,una vita monotona e un senso di insoddisfazione che metteva il magone?No,non ci stavo! Forse il licenziamento era stato un segno,un indizio che mi avrebbe condotta a qualcosa o a qualcuno che avrebbe fatto parte del mio destino. Così avevo preso una decisione : presto avrei lasciato Lima,magari anche l’Ohio. Sarei andata in posti come New York o Los Angeles e avrei tentato la fortuna,anche se chissà con quali soldi. Insomma,ero una brava cantante,una ballerina accettabile,e una bella ragazza. Avrei potuto provare a recitare,mi sembrava una gran bella idea. Avrei portato Josh con me,ci saremmo ambientati e avremmo vissuto come una vera e propria coppia di innamorati. Non potevo continuare a restare lì,in quella merda di situazione,impassibile,aspettando che un nuovo e disgustoso lavoro mi cadesse dal cielo,e continuare la mia vita in quel modo. Avevo diciannove anni,porca miseria! Diciannove anni ed una vita noiosa come quella di un vecchio di settanta. Mi ci sentivo un po’ come una vecchia,un po’ ….un po’ morta,spenta,inattiva. Non era quello che volevo e sapevo che non era quello che volevano i miei genitori per me. Ce l’avrei fatta,certo che ce l’avrei fatta!Sarei andata a New York e avrei intrapreso una professione che potesse esser chiamata tale ; avrei ricominciato a vivere e avrei continuato ad avere al mio fianco una delle persone più importanti della mia vita : Josh.

                                                                                                                         *

«Sto tornando. Che c’è?» chiesi scocciata a mia madre,continuando a tenere gli occhi fissi sulla strada.

«Tuo fratello,ecco che c’è!» urlò lei esasperata.

«Cos’è successo?»

Ero allarmata. La voce di mia madre mi allarmava,così come la sua chiamata. Lei non era una tipa particolarmente tecnologica,se si escludeva l’uso del suo amato televisore. Se poteva evitare di adoperare un aggeggio come il cellulare,l’avrebbe fatto.

«Mi hanno chiamata dalla scuola,si è lussato una spalla giocando a basket!»

«Merda» borbottai.

«Puoi andare a prenderlo e portarlo in ospedale?Io vi raggiungo lì» .

«Certo,nessun problema».

Riagganciai e frenai di colpo effettuando poi una delle mie inversioni ad U un po’ folli. Lucas non riusciva a tenersi fuori dai guai,non c’era mai riuscito. A sette anni si era spaccato un incisivo giocando a calcio,a nove si era rotto un dito litigando con un altro ragazzino più grande di lui,ad undici si era procurato un taglio sulla mano da tre punti cercando di rompere un pezzo di vetro con un pugno,poi a quindici si era slogato una caviglia,e infine quello. Un ragazzino molto fortunato,mi dissi tra me e me. Il vero problema era che non riusciva a stare fermo,non riusciva a riposare come ero stata costretta a fare io in quei giorni,non riusciva a stare chiuso in casa. Dire che fosse iperattivo sarebbe stato minimizzare.

 

Nel giro di cinque minuti raggiunsi il Lima Hospital,ma c’era qualcosa di strano : era pieno di macchine. Non avevo mai visto quel parcheggio così colmo prima di allora ; era come se la metà degli abitanti di Lima si fosse recata lì per una qualche urgenza. Allucinante,era a dir poco allucinante. Continuavo a girare in cerca di un parcheggio con mio fratello che dolorante si lamentava al mio fianco,ma di posto non ce n’era neppure volendolo. Girai a vuoto a lungo,avevo fretta,cominciavo ad entrare nel panico.

«Dio,come fa male!» esclamò singhiozzando Lucas.

«Sta’ tranquillo,» lo rassicurai «presto ti sistemeranno la spalla».

«Sbrigati,maledizione…è dolorosissimo!»

Gli occhi impazzivano alla ricerca di uno spiazzo vuoto,ma sembrava impossibile trovarlo. Dopo qualche altro minuto,e un ultimo sofferente lamento di mio fratello,decisi di lasciare la macchina dove capitasse. Quanto ci sarebbe voluto per sistemare una lussazione?Non potevo continuare a girare a vuoto. Lasciai l’auto dietro ad una BMW dall’aspetto lussuoso e curato,e scesi alla svelta.

«Muoviamoci!»

Camminavamo quasi correndo,inseguiti da una sorta di agitazione inspiegabile,di ansia,di paura. Tutte quelle macchine,i lamenti di mio fratello…c’era un’atmosfera tetra,strana. D’un tratto i miei pensieri corsero a mia madre ; chissà se era riuscita a trovare un parcheggio,chissà se era già là. Avevo impiegato più tempo per cercare una piazza vuota,che per andare a riprendere mio fratello da scuola e portarlo in ospedale. Forse era dentro che ci aspettava ansiosa,chiedendosi dove fossimo finiti.

Aprii la porta dell’edificio con mio fratello al seguito che piangeva tenendosi una mano sulla spalla sinistra.

«Resisti,adesso chiamo un dottore» dissi,cercando di tranquillizzarlo.

Era fatta,ormai mancava poco e la situazione si sarebbe risolta. Accompagnai Lucas in sala d’attesa e mi accorsi che era piena di gente. Forse c’erano quaranta persone,forse anche cinquanta ; non c’era spazio per sedere e probabilmente neppure per respirare. Che diavolo stava succedendo?! Si sentiva solo il suono del tossire,di pianti disperati,urla,lamenti,cose che facevano accapponare la pelle. La visione era molto peggio : alcune persone erano sedute sul pavimento,con il busto poggiato al muro,la pelle diafana e velata da gocce di sudore,le occhiaie marcate e la bocca aperta,come se stessero cercando disperatamente di respirare.

«Mi ha morso!» urlava una signora pallida,agitandosi verso un altro gruppetto di persone «Il mio vicino mi ha morso!»

Sbarrai gli occhi. Non capivo il senso delle sue parole,non capivo il senso di quel “mi ha morso”.

«Santana,dove sono i dottori?Perché c’è tutta questa gente qui?» mi chiese mio fratello,con un filo di voce rauca e disperata,che aveva perso improvvisamente il colorito.

Avrei voluto rispondergli qualcosa di sensato,ma non sapevo cosa dire,non sapevo darmi spiegazioni. Avevo solo un gran brutto presentimento,uno di quelli che ti esplodono dentro e che spingono le gambe a muoversi veloci,velocissime per aiutarti a sopravvivere.

«Non lo so».

Tutto quel groviglio di gente mi inquietava,mi metteva una gran paura e non potevo fare a meno di gettare una qualche occhiata disperata ai bambini che stringevano le mani dei propri genitori moribondi a terra,o agli anziani che stringevano un pezzo di stoffa insanguinata attorno ad un braccio o ad una gamba. C’era però una cosa che tutti avevano in comune : delle ferite. Presi in mano il cellulare e composi il numero di mia madre.

«E’ tutto ok?Sto arrivando. Come sta Lucas?»

«No!» esclamai immediatamente «Torna a casa,mi hai capita?!»

«Santana,che succede?» domandò con la voce preoccupata come non l’avevo mai ascoltata.

«Non venire qui!E’ pieno di gente,pieno come non puoi nemmeno immaginare. Ci penso io,ok?Torna a casa e aspettaci lì».

«Non se ne parla!» rispose lei alterata.

Respirai a fondo,ma la mia mano stringeva il telefono così forte che avrebbe potuto romperlo. Volsi lo sguardo a Lucas che con gli occhi pieni di lacrime mi guardava sofferente,preoccupato,pieno di paura.

«Non ti azzardare a venire!» urlai con rabbia,sopraffacendo in parte i lamenti rumorosi che assediavano la sala «Non devi venire!Hai sentito?Non devi venire» ripetei furiosa, scandendo bene le parole.

Seguirono alcuni secondi di silenzio,e allora mi preoccupai ancora di più.

«Va bene» rispose la donna arresa «vi aspetto a casa».

Era rimasta senza parole. Avevo alzato la voce in modo esagerato,ma la rabbia mi era esplosa in gola,incontrollabile e devastante. Forse non era rabbia,forse era…forse era disperazione,paura. Lucas piangeva appoggiato al muro del corridoio adiacente alla sala d’attesa,ed i suoi occhi mi chiedevano aiuto ; stava soffrendo.

«Si puoi sapere dove cazzo sono i dottori?!Si può sapere che diavolo succede?!» strillai con quanta più forza avessi.

Le persone meno malandate e sofferenti si voltarono verso di me,e la cosa strana fu che mi compatirono con lo sguardo. Loro compativano me,quando sarebbe dovuto essere il contrario. Una donna con le lacrime agli occhi,ma priva di ferite,mi si avvicinò con l’aria afflitta ed una mano sul petto.

«Io e mio marito siamo qui da due ore» mi disse,aspettandosi che facessi la domanda giusta.

«Che cosa è successo?» la mia voce tremava,era debole,così come le mie gambe.

«Eddy è stato aggredito a lavoro.» rispose piangendo e portandosi le mani sui capelli biondi ed arruffati «lo ha morso un uomo!Gli ha staccato parte del polpaccio e nessuno ci assiste!Sta morendo…mio marito sta morendo e nessuno ci assiste!» urlò tra i singhiozzi e la disperazione.

Dio,mi sentivo male. Mi sentii girare la testa e mancare le forze. Ero impietrita.

«L-l-lo ha m-morso?»

Mi fece cenno di sì con la testa.

«Tutti qui sono stati morsi,ed ora hanno la febbre. Mio marito dice che non sono dei veri uomini,ma che sono una specie di mostri e che hanno cercato di divorarlo. Lui ha provato a difendersi,ma sarebbe morto se non fosse intervenuto un suo collega. Dice che gli ha sparato un paio di colpi di pistola sulla schiena,ma quella cosa non moriva,così ha iniziato a prenderlo a pugni sul cranio e l’ha allontanata da Eddy».

Scossi la testa scioccata «n-non è po-possibile».

«Perché dovrei mentire?» mi chiese lei piangendo,con la voce acuta ed interrotta dai singhiozzi «Presto morirà!Presto morirà!» urlò gettandosi con le ginocchia a terra, impazzendo dal dolore.

Spostai gli occhi dalla donna ; quello era l’unico movimento che ero in grado di fare. Sentivo i pianti,le urla,tutto creava un gran frastuono,un caos nocivo che faceva tremare le gambe,che trasformava le ossa in gelatina. Il cuore mi scoppiava nel petto,le tempie mi pulsavano,mi faceva male lo stomaco. Ma fu un attimo prima che il vero disastro avvenisse,un piccolissimo e terribile attimo.

«E’ morto!O mio Dio!Qualcuno mi aiuti!Qualcuno mi aiuti!» gridò una voce femminile alla mia sinistra,accanto il muro.

Mi voltai di scatto verso Lucas,che continuava a piangere forse più per la paura che per il dolore,e gli ordinai severamente di non muoversi di lì. Poi trovai la forza,non so come,di avvicinarmi a quella voce la cui fonte era coperta da un gruppo di persone. I piedi neppure volevano muoversi,così come le gambe. Sudavo,sudavo freddo e pensavo al mio cuore dai battiti impazziti. Con cautela mi feci avanti e trovai uno spazietto in cui infilarmi per dare un’occhiata. C’era una donna dai capelli rossi che piangeva sul corpo di un signore che era privo di vita. Il petto dell’uomo non si muoveva,la pelle era morta,spenta e gli occhi erano chiusi.

«Aiutatemi!» gridò ancora la ragazza,scuotendo il cadavere inerme «Qualcuno faccia qualcosa!»

Soltanto dopo che la rossa si voltò in cerca di uno sguardo rassicurante,disposto ad assecondare la sua follia,mi accorsi di chi si trattasse : era Mandy. In quel momento il mio cuore si strinse e le lacrime cominciarono ad uscire,come se avessero avuto bisogno,dopo tanto,di tornare ad avere vita propria. Provai a gridare il nome della ragazza una volta,poi una seconda,ma la voce risuonava sorda e priva di consistenza. Quando decisi di avvicinarmi per parlarle,vidi qualcosa che mi raggelò il sangue nelle vene,qualcosa di mostruoso,di disumano. L’uomo aprì gli occhi vitrei,sembrò scrutare il sorriso umido della figlia,poi le afferrò un braccio e si portò la carne alla bocca. Affondò i denti e ne staccò una grossa porzione con la stessa facilità con quale si taglia il burro. Le urla si levarono,il sangue cominciò ad uscire a fiotti,e in breve l’uomo fu sopra la ragazza e continuò a divorare il braccio,indisturbato. Cercai di respirare più e più volte,ma l’ossigeno pareva essersi rarefatto e il mio cervello era andato in tilt. Ero ferma,immobile,ed osservavo il mostro divorare quella che forse era stata la mia unica amica da dopo il diploma. Non la fissavo perché volessi fissarla,ma perché non ero in grado di spostare lo sguardo,di muovermi,e quindi ero in trappola. Non sentivo nemmeno i rumori ; forse c’erano urla,la gente correva,scappava,pur sapendo in fondo che non esisteva fuga. Io fissavo quel che restava di Mandy,ma intanto la situazione degenerava.

«Dobbiamo andarcene!Andiamocene Santana!» gridava mio fratello disperato,scuotendomi per un braccio.

Ma io non riuscivo a muovermi,non potevo muovermi.

«Dall’ingresso stanno arrivando altre di quelle cose!Ti prego!Andiamocene!»

La sua paura fu l’unica cosa che riuscì a sbloccarmi. Lo guardai per qualche secondo,mentre tornavo a prendere coscienza del resto del mondo,battei le palpebre un paio di volte e feci a stento qualche passo,trascinata per il braccio. Mentre percorrevamo il corridoio mi voltai indietro una sola volta,e quella bastò. C’erano delle sagome in fondo che camminavano trascinandosi,e i loro lamenti annientavano la poca lucidità che mi era rimasta. Erano forse in cinque,o di più,non avevo neppure la capacità di contarli ; erano lenti,con parti di carne mancanti,gli occhi vitrei e la pelle dello stesso colore del marcio,ma cosa più importante : erano affamati,erano davvero affamati.


Salve a tutti!

Vi chiedo scusa se non mi sono presentata nello scorso capitolo,ma ho pensato che forse sarebbe stato meglio farlo in questo (è stupido,lo so). Sono "writinglove" e ho finalmente deciso dopo tempo di dar vita ad un qualcosa che potesse essere frutto di una folle ispirazione. 'Beetween the Hungry" nasce da una mia grande passione per le serie televise,in particolare quelle di The Walking Dead e Glee,e quella invece per la scrittura. Dunque,con questo mix un po' azzardato, mi presento a tutti voi lettori assieme alla viva speranza che questo piccolo lavoro di una piccola persona possa essere di vostro gradimento.

Dopo questo palloso discorso (è vero,sono pesante) vi dico solo un'ultima cosa : al prossimo capitolo! (spero)

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Quasi morti ***


Between the hungry

Quasi morti

«Corri!» gridai,voltandomi verso Lucas.

Varcammo la porta dell’ospedale con una velocità impressionante. Mi ci ero buttata addosso per la fretta e mi faceva male la parte destra del busto. Mi guardai indietro,Lucas cominciava a rallentare,gli faceva male il braccio. Aveva il viso umido di lacrime,l’espressione contratta ed ansimava. L’adrenalina scorreva veloce,alimentava i corpi di energia,ma in ugual modo li danneggiava con lo stesso ritmo della nostra folle corsa. Lo percepivo distintamente in ogni fibra del mio corpo,quell’istinto,quello che al momento giusto mi avrebbe trasformata in un’assassina di assassini,quello che avrebbe scatenato la bestia assopita all’interno di ogni sopravvissuto. Mi faceva male lo stomaco e non sentivo le gambe. Continuavo a rivedere la carne di Mandy divorata in quel modo brutale,sconcertante. Era pazzesco,ma non avevo tempo per cercare una spiegazione. Dovevamo andarcene di lì,ed andarcene alla svelta.

«Accelera il passo!»

Mi voltai per controllare quanto indietro fosse Lucas,e lo vidi fermo,in ginocchio,con una mano sulla spalla dolorante e senza fiato. Merda. Si era fermato.

«Lucas,devi alzarti!»

«Fa male!» urlò lui di rimando,strofinandosi il dorso della mano sul viso.

«Andiamo!»

Mi avvicinai e lo aiutai ad alzarsi da terra,poi la corsa continuò. Vedevamo la Volksvagen grigia in lontananza,ma sembrava che la distanza continuasse ad aumentare anziché diminuire. Lucas cominciava a rallentare,così come ero costretta a fare io per trascinarlo con me.

«O mio Dio!No!» gridò qualcuno poco distante da lì.

«Continua a correre verso la macchina e non fermarti,torno subito!»

 Cambiai improvvisamente direzione e mi infilai tra due vetture scure e polverose all’inseguimento di quelle grida che non si affievolivano neppure un po'. Fui veloce,strisciai lungo le automobili di fianco fino a che non mi ritrovai di fronte ad uno spettacolo di cui avrei preferito fare a meno. Le urla erano cessate,ora si udivano solo lamenti,versi animali e mostruosi,il rumore della carne che si staccava di netto dalle ossa. La donna era a terra e di nuovo la scena di poco prima si ripeteva. Lui,o forse lei,le divorava il petto. Le interiora erano sull’asfalto,viscide e piene di sangue.

«Cristo!»

Altre urla,più numerose,più disperate,smorzate ancora più velocemente di quelle precedenti. Quel parcheggio era ormai la terra che ospitava la strage,il massacro. Mi veniva da vomitare e tossii un paio di volte in preda ai conati. Respirai a fondo,chiusi gli occhi e tornai a correre rapida tra le automobili nel parcheggio. Vidi la Volksvagen,vidi mio fratello e avrei potuto giurare che stava tremando. La colonna sonora dell’inizio della fine erano le grida angoscianti delle povere vittime.

«Stai bene?»

Lucas non rispondeva.

«Stai bene?!» ripetei ancora una volta,preoccupata.

I suoi occhi erano pieni di terrore,poi alzò il braccio destro e puntò l’indice esattamente dietro di me. Mi voltai. Erano almeno in dieci. Infilai la chiave nella serratura,ma questa non girò,era come bloccata. La tolsi e riprovai di nuovo,ma il problema si ripeté.

«Santana!» urlò mio fratello in preda al panico.

«Dios,por favor!»

La chiave non ruotava,era vincolata nella serratura. Mi girai e per un istante mi fermai ad osservare quei corpi che si avvicinavano lentamente,emettendo versi terribili,come se per una qualche correttezza,che però non possedevano,fossero stati costretti ad avvisare del loro arrivo. Li contai alla svelta ; erano undici,ma ne potevo vedere altri poco distanti dal loro gruppo. Avevano la pelle bianca,tendente al verdastro,ed un aspetto terrificante. Gli indumenti che indossavano erano sporchi di sangue,così come i loro volti,così come la carne che gli penzolava dalle braccia o quella mancante sul viso. Che esseri erano mai quelli?Da quale inferno erano saltati fuori? Lucas mi guardò con gli occhi sbarrati come a dire : “ed ora cosa facciamo?”. Mi guardai attorno,i lamenti si facevano più forti e la mia disperazione aumentava. Stavamo per morire,io e Lucas stavamo per morire. Le nostri brevi vite avrebbero visto probabilmente la peggiore delle fini su quella terra : saremmo stati dilaniati. Mi portai una mano sul viso,guardai all’interno dell’auto attraverso il finestrino,e poi decisi. Non avevo tempo per pensare,non avevo tempo da sprecare e non avevo nient’altro in mente. Loro si avvicinavano,sempre più numerosi,le persone scappavano tra le grida e il panico regnava.

«Stai indietro!» ordinai a Lucas.

Presi un minimo di rincorsa : quella poca che non mi permetteva di finire tra le braccia dei morti,e diedi un calcio al finestrino. Non si ruppe.

«Ci uccideranno!» strillò mio fratello.

Niente rincorsa,tirai un calcio con tutta la forza che avevo,con tutta la rabbia e la paura che avvertivo nelle vene. Il vetro si frantumò in tanti piccoli pezzi. Strisciai dentro e aprì lo sportello a Lucas che si buttò sul sedile alla svelta. Infilai la chiave,accesi il motore,e quando il primo morto tocco il cofano con una delle sue sudice mani,io schizzai via come un razzo.

 

                                                                                                                           *

Nelle strade regnava il caos. Il tragitto dall’ospedale a casa fu probabilmente il più lungo di tutta la mia vita. Le persone urlavano in strada,correvano inseguite da quegli schifosi mostri,o caricavano le macchine pronte a fuggire. I morti attaccavano le vetture e circondavano le case sempre più numerosi. Le strade di Lima erano intasate,tutti fuggivano,ma loro erano dovunque.

«Stai bene?» chiesi a mio fratello che ansimava sonoramente e aveva la fronte velata dal sudore.

Non rispose immediatamente ; forse era impegnato ad osservare i morti che avevano circondato una delle macchine che avevamo di fronte o ad ascoltare i clacson impazziti.

«Certo,» rispose con la voce che tremava «ho soltanto una spalla lussata e ho appena assistito a dei mostri divorare delle persone vive. No,sul serio,è tutto ok».

Il suo sarcasmo era quasi confortante,ma neppure quello serviva a sdrammatizzare la situazione. La verità era che ero troppo sconvolta per provare a rassicurarlo di fronte all’evidente inferno che si stava scatenando. Ancora non avevo preso completamente coscienza dei fatti,forse ci sarebbero volute ore. Ero concentrata sulla situazione alquanto complicata : noi due bloccati in una macchina con un finestrino rotto,in una città piena di morti che per qualche assurdo motivo si erano rialzati ed avevano cominciato a divorare la gente.

«Merda» borbottai quando una di quelle cose si girò al suono del clacson.

Prima uno,poi due,poi tre si voltarono verso la nostra automobile. Restarono qualche secondo fermi,poi le loro maledette gambe molli cominciarono a muoversi con l’evidente intenzione di aggredirci. La coppia dietro di noi uscì rapidamente dalla vettura e cominciò a correre,forse in previsione della brutta fine che avrebbero fatto se fossero rimasti lì dentro. Per noi era ancora più pericoloso : con quel maledettissimo finestrino rotto alla mia sinistra,eravamo dei bersagli decisamente facili da divorare. Ma che cosa dovevo fare?Che cosa potevo fare in quella situazione a dir poco surreale?Avevo lo stomaco sottosopra,la testa che mi scoppiava,e il cuore che aveva preso ormai da tempo un ritmo inverosimile. Sentivo ancora l’adrenalina nelle vene,così come probabilmente la sentiva Lucas. I due giovani che avevano optato per la fuga a piedi furono rapidamente braccati dalle creature e divorati di fronte ai miei occhi e a quelli di mio fratello.

«Aiuto!» fu l’ultimo grido acuto della ragazza,prima che uno di loro le mordesse il collo e l’atterrasse così come era successo al ragazzo.

«Non guardare» sussurrai a mio fratello,deglutendo a fatica.

Di nuovo i clacson a far compagnia alle urla,e allora si scatenò il disastro. Tre morti si avvicinarono allo sportello di Lucas e cominciarono a colpire il vetro goffamente,posando il viso sfigurato sulla superficie opaca del finestrino.

«Santana!» gridò Lucas,scattando verso di me.

Bloccati. La morte ci inseguiva ancora e la mia speranza non faceva altro che vacillare. Mi tremava ogni singolo muscolo,la vista si era improvvisamente offuscata e l’adrenalina era aumentata così come la velocità con la quale il sangue mi pulsava nelle vene. Stavamo per morire,era giunto il momento. Uno di quei mostri aggirò la macchina e si avvicinò dalla mia parte ; gli altri continuavano a colpire lo sportello destro,con quella loro sorta di ringhio,di verso che faceva venire la pelle d’oca.

«Ti voglio bene Lucas» dissi,stringendo la sua testa al mio petto.

Era la fine. Quelle sarebbero state le mie ultime parole,le uniche di cui non mi sarei mai pentita. Chiusi gli occhi,i lamenti si avvicinavano,rimbombavano nella testa,assorbivano ogni pensiero a sé e lo inglobavano,annullandolo del tutto. Quando già immaginavo il contatto dei denti sulla mia pelle o le unghie a graffiarla,sentii il rumore sordo di più colpi susseguirsi. Sette,forse otto colpi,ma non erano di una pistola. Niente più lamenti vicini,per un istante avvertii il silenzio e non fui mai grata come in quel momento di quella fugace illusione piena di pace.

«Andiamo!Uscite dalla macchina» esclamò qualcuno.

Aprii gli occhi leggermente,pronta a richiuderli se fosse stato necessario. C’era un ragazzo con una mazza da baseball insanguinata in mano,gli occhi sgranati e la bocca aperta per prendere quanto più fiato i suoi polmoni fossero in grado di accogliere. Si era piazzato esattamente di fronte alla vettura e ci guardava aspettandosi una qualche reazione che il nostro shock non ci permetteva di compiere. Lo scrutai meglio,mi era familiare. Era robusto,con spalle larghe,bicipiti sviluppati e degli strani capelli neri con un taglio da moicano. Il resto non riuscivo ad individuarlo con nitidezza,ma quello fu sufficiente per permettermi di riconoscerlo.

«Noah Puckerman?» domandai a bocca aperta.

Il ragazzo scosse la testa scocciato e stralunò gli occhi «vogliamo andare o aspettiamo che un’orda di quei mostri ci divori tutti?Faremo dopo le presentazioni!»

Lucas mi guardò meravigliato e poi aprì lo sportello. I morti erano a terra,con il cranio fracassato,e finalmente privi di vita. Ce n’erano altri poco più in là e le urla non accennavano a smettere.

«Seguitemi!» ordinò sicuro il ragazzo.

Ero confusa.

«Dove?Devo riuscire a tornare a casa…mia madre sarà preoccupatissima».

Lui mi guardò e scosse la testa.

«Non se ne parla!Vi faranno a pezzi prima di arrivare. Abito qui vicino,ma dobbiamo sbrigarci!»

Lo guardai sconvolta. Dovevo raggiungere mia madre!Dovevo farlo!

«Nostra madre è sola in casa,potrebbe essere in pericolo!» esclamò mio fratello.

Lucas aveva ragione. Dio,l’improvviso pensiero di quelle cose che cercavano di entrare,di divorarla…

«Dobbiamo tornare a casa!»

La preoccupazione mi stava corrodendo ogni cellula del corpo,ogni singola emozione era come un acido corrosivo e letale. Il ragazzo impugnò saldamente la mazza in mano e colpi alla testa uno di quei morti che si era avvicinato. Era una scena disgustosa,il sangue era schizzato fin sulla mia maglietta e il cranio era stato fracassato.

«Buona fortuna allora!» esclamò il tipo,cominciando ad incamminarsi.

Guardai Lucas disperata,alla ricerca di un suggerimento sul suo viso,ma l’unica cosa che riuscii a notare fu la sua paura.

«Aspetta!» strillai al ragazzo che si era allontanato fin troppo velocemente.

Lui si girò e mi guardò con fare interrogativo.

«Veniamo con te!»

«Santana!» esclamò sorpreso Lucas.

«Abbiamo bisogno di lui.» sussurrai un po’ troppo ad alta voce «Ha ragione : da soli non riusciremo mai a raggiungere casa».

«Seguitemi,veloci!»

Corremmo fin dove si era fermato e poi proseguimmo per un centinaio di metri fino alla sua abitazione. Lo spettacolo era pazzesco : sembrava un film,uno di quelli con gli effetti speciali e tutto il resto. Non riuscivo ad alzare la testa,continuavo a fissare i miei piedi,a fissare l’asfalto o l’erba,forse perché sapevo che non avrei retto ancora a lungo se avessi continuato ad assistere a quelle scene mostruose.


Salve gente!Come va?

Dovete scusarmi per il ritardo nella pubblicazione,ma ultimamente il tempo sembra passare un po' troppo in fretta e a malapena mi lascia modo di respirare. Comunque,bando alle ciance... la situazione che abbiamo visto nello scorso capitolo si è evoluta e la povera Santana ha rischiato diverse volte di finire tra i denti di quegli schifosissimi zombie,ma...sorpresa delle sorprese : Noah Puckerman la salva da una morte inevitabile. Ci credete se vi dico che è solo l'inizio e che presto coinvolgerò personaggi a noi molto familiari?

Beh,con la speranza che questo capitolo via sia piaciuto,mi auguro che continuiate a seguire la storia.

P.S. Se ne avete voglia,fatemi sapere come vi è parsa la storia finora...sono curiosa di leggere i vostri pareri! :)

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Sottosopra ***


Between the hungry

Sottosopra

«Noah Puckerman» affermai,dando un’occhiata rapida alla donna che ci teneva un fucile puntato addosso.

«Santana Lopez» rispose lui,con un sorrisetto canzonatorio.

Lucas fissava la signora dall’aspetto sciatto che continuava a squadrarci sospettosamente. Doveva essere la madre del ragazzo,e sembrava pronta a ficcare ad entrambi una pallottola nel cervello.

«Puoi abbassare il fucile,mamma» disse il ragazzo,facendo un cenno con la mano.

La donna obbedì.

«Sono normali?» chiese la signora Puckerman continuando ad osservarci.

Io e Lucas annuimmo istintivamente.

«Sì mamma,tranquilla. Stavano per essere fatti a pezzi da quelle cose e li ho portati con me».

Un brivido mi scosse a quel pensiero. Eravamo stati fortunati,ma le urla di coloro che venivano divorati erano ancora assordanti,e mi ricordarono di dover mostrare gratitudine al ragazzo che avevamo di fronte.

«Grazie» risposi,cercando di non sembrare troppo forzata «se non fossi intervenuto a quest’ora probabilmente starebbero masticando la nostra carne».

Dio,quant’era stato strano pronunciare quella frase. Un brivido mi scosse di nuovo.

«Figurati» disse lui,posando a terra la mazza piena di sangue scuro e denso «è stato il minimo che potessi fare. Lì fuori è un inferno ; non capisco cosa diavolo stia succedendo. Ho visto il primo di quei cosi mentre ero a casa di un mio amico. In lontananza sembrava solo un vecchio ubriaco,ma poi…» si guardò attorno,scuotendo la testa «poi si è avvicinato e lo ha divorato davanti ai miei occhi. Ho provato ad ucciderlo,» continuò come se stesse cercando di giustificarsi a se stesso «ma i calci ed i pugni lo lasciavano illeso. Quando gli ho sfondato il cranio con un rastrello,era troppo tardi. Andrew era morto,ma non del tutto».

I suoi occhi vagavano in cerca di un appiglio sicuro,di qualcosa di bello su cui soffermarsi,e continuavano a girare stanchi,lucidi e pieni di sofferenza.

Deglutii rumorosamente e sentii l’improvviso bisogno di sedermi. Mi buttai sul divano in pelle rattoppato qua e là,e mi portai le mani sulla fronte. Dannazione,rivedevo ancora Mandy fatta a brandelli,divorata in una pozza di sangue,con l’osso del braccio ripulito,privato dei muscoli,di ogni cosa. Il respiro cominciò a bloccarmisi in gola,sudavo freddo,mi girava la testa. Mi veniva da vomitare,ed un conato mi sovrastò. Mi alzai di scatto dalla superficie morbida e mi portai una mano alla bocca.

«Ti porto in bagno» disse Noah,afferrandomi tempestivamente per un braccio.

Raggiunsi la stanza dalle piastrelle bianche e la muffa sul soffitto,poi il ragazzo sollevò la tavolozza del water e rigettai anche l’anima.

«Lo so,» cominciò Noah guardandomi con compassione «è sconvolgente e dopo tutto quello schifo hai lo stomaco sottosopra».

Mi sedetti sul pavimento e mi passai il dorso della mano sulla bocca. Sentivo freddo,così tanto freddo che sembrava che le mie ossa si sarebbero frantumate da un momento all'altro,congelate. Quando appoggiai la nuca alle piastrelle,la nausea tornò a farsi sentire e fui costretta ad alzarmi di nuovo per raggiungere il water. Noah mi spostò i capelli dal viso ed osservò senza il benché minimo disgusto la scena.

«San» mi chiamò Lucas con le lacrime agli occhi sulla soglia del bagno «stai bene?»

Mi feci forza e mi sollevai da terra. Ero debole,e avevo i muscoli che tremavano come gelatina,per non parlare del pallore che mi faceva assomigliare ad uno di quei malati nella sala d’attesa dell’ospedale. Mi avvicinai al mio fratellino e gli accarezzai una guancia per rassicurarlo. Lui stringeva i denti e continuava a tenere la mano destra sulla spalla lussata. Stava soffrendo ; le sue emozioni erano così palesi,eppure sapevo che cercava di non piangere,pur non riuscendoci,e che cercava di restare forte per me,perché se ne sentiva in dovere.

«Troveremo un modo per sistemare la spalla. Ti fa tanto male?»

Annuì e si morse il labbro superiore in una smorfia di dolore.

«Cos’ha fatto?» chiese Noah preoccupato,dando un’occhiata ansiosa al braccio smorto e penzolante.

«Ha una spalla lussata. Eravamo in ospedale per farla risistemare,quando è scoppiato il casino».

Lucas strinse di nuovo i denti.

«Posso rimettergliela a posto,lo so fare» affermò sicuro il ragazzo dall’insolita cresta.

Lo guardai sorpresa,e dentro di me sentii la gratitudine verso di lui aumentare.

«Puoi?Sei sicuro?»

«L’ho già fatto in passato ad Andr…» si bloccò e prese un grosso respiro «ad un mio amico. Posso farlo,sul serio,ma farà parecchio male».

Guardai Lucas e lui mi fece cenno di sì con la testa.

Lo seguimmo fino in cucina,poi ripulì il tavolo da alcune cianfrusaglie che vi erano sopra,e disse a mio fratello di allungarsi lì.

«Metti questo in bocca» ordinò,passandogli un coltello dal manico di legno preso da un cassetto.

Lucas mi guardò un’ultima volta,e poi obbedì,stringendo tra i denti l'impugnatura dell'oggetto. Era spaventato a morte e le lacrime ricadevano fin sopra la superficie sulla quale si era adagiato.

«Pronto?» chiese Noah,afferrandogli il polso sinistro.

L’altro strizzò forte gli occhi,si lasciò scappare qualche lamento ed io corsi a stringergli la mano del braccio illeso.

«Vado» avvisò il ragazzo.

Alzò il bracciò prima lentamente,ignorando i “no,no,no” di mio fratello,e poi,senza indugi,lo tirò a sé con forza. Lucas urlò qualche imprecazione,forse una bestemmia,e poi si sentì un TAC.

«Fatto!» esclamò Noah mollandogli il polso.

Tolsi il pezzo di legno dalla bocca di mio fratello e lui si morse forte il labbro,asciugandosi le lacrime che gli bagnavano le guance.

«Cos’è che hai detto prima?» chiesi con un’espressione dura.

«Niente!» disse toccandosi la spalla «Non ho detto niente!» continuò a giustificarsi irritato.

Puckerman ridacchiò.

«Vado a prenderti una sciarpa e del ghiaccio. Avrai bisogno di una fasciatura».

Annuimmo entrambi.

«Grazie di nuovo» gli dissi,sforzandomi di sorridere appena.

Lui si limitò a piegare leggermente gli angoli della bocca e a fare un cenno con la testa,poi corse di sopra per prendere l’occorrente.

Lucas mi guardò ancora dolorante e mi cinse le spalle con il braccio buono «San,una volta fatta la fasciatura dovremmo tornare dalla mamma».

Annuii «Sì,hai ragione,ma penso che avremmo bisogno di un piano».

«Quale piano?» chiese Noah di ritorno.

Lo guardai seria,e quello bastò a farmi capire. Lui fece un’espressione arresa,ma nei suoi occhi non c’era un reale disappunto. L’avrebbe fatto anche lui,ne ero certa. In quel disastro che ancora non aveva nome,il pensiero di chiunque sarebbe stato quello di raggiungere i propri cari. Forse era per quello che le persone in strada morivano,così come i loro tentativi e le loro speranze,ma la mia no,non sarebbe morta,così come non saremmo morti noi tre. Era giunto il momento di mettere da parte paura e confusione,di ritrovare la lucidità in quell’abisso colmo di veleno,e di lottare per qualcosa chiamata sopravvivenza.

                                                                              *

«Siete pronti?» chiese Noah,accendendo il motore del fuoristrada.

Guardai prima lui,poi Lucas,ed annuii decisa.

Sapevo che era rischioso avventurarsi lì fuori,anzi,forse era un vero e proprio suicidio,ma dovevamo farlo. Io e Noah avevamo ideato una sorta di piano,anche se probabilmente era carente delle strategie necessarie per restare vivi. Era più che altro una follia,una di quelle che fai perché non hai altra scelta. Ottocento metri,forse qualcosa di più,ed io e Lucas ci saremmo ritrovati di nuovo a casa. Noah aveva portato con sé il fucile e tre coltelli che speravo non sarebbe stato necessario usare.

«Prendete» disse passandomi le due armi dalla lama appuntita «non so se riusciremo ad arrivare fino in fondo alla strada,per cui teneteli belli stretti e ricordate di conficcarli nel cranio ; credo sia l’unico modo per ucciderli».

«Ehi,» dissi sfiorandogli un braccio ed incrociando il suo sguardo tenace e concentrato «non devi farlo per forza. Stai rischiando la vita,lo sai?»

Lui sorrise e rispose «queste sono cose che capitano solo nei videogiochi,tanto vale approfittarne,no?»

Cercava di nascondersi dietro quella leggera ironia,ma i suoi occhi erano in contrasto con il resto del viso. Aveva visto il suo migliore amico morire,ed aveva assistito proprio come me a delle scene inverosimili . Non era felice e probabilmente nemmeno abbastanza pronto a quello che avremmo incontrato là fuori.

La macchina uscì dal garage. Strinsi forte il manico del coltello e chiusi del tutto il finestrino.

Non sarei in grado di descrivere esattamente il caos fuori di lì,e forse neppure me ne rendevo del tutto conto. Le strade erano invase : ce n’erano dappertutto. Sangue sull’asfalto e cadaveri circondati da quelle cose che li divoravano,cibandosene disgustosamente e tornando a scatenare in me quel senso di nausea che in fondo non mi aveva mai abbandonata. Le case,come quella di Puckerman,erano circondate. Loro colpivano goffamente le porte,ringhiando,agitandosi in quella fame che li logorava e li rendeva peggio delle bestie. Lucas mi strinse la mano dal sedile posteriore e Noah mi guardò preoccupato.

«Dammi il coltello» disse deciso.

Lo guardai perplessa «che vuoi fare?»

«Quel gruppetto sfonderà la porta,se non li fermo» affermò,indicando la sua abitazione «mia madre è lì dentro e senza fucile».

Presi un grande respiro e lo assecondai. Lo avrei fatto anch’io.

Noah si richiuse lo sportello alle sue spalle e raggiunse velocemente l’entrata della villetta. Quelle cose smisero improvvisamente di colpire la superficie in legno e si voltarono verso di lui. Erano in cinque,orribili esattamente come tutte le altre che erano in strada. Notai che tremava,che tentennò per un istante,forse ingannato dal fatto che quei mostri un tempo erano stati i cittadini del suo stesso paese,o che indossavano abiti umani,pur non comportandosi come tali. Questione di pochi secondi e si ritrovò circondato,allora sentii la presa di Lucas farsi decisamente più forte.

«Maledizione» biascicai con gli occhi puntati sulla scena.

Mollai la mano di mio fratello e lui mi toccò una spalla «San,che cavolo hai intenzione di fare?»

«Non lo vedi?Lo uccideranno!Devo andare ad aiutarlo».

Noah diede un calcio aprendosi un’uscita dal mucchio e indietreggiò,ma alle sue spalle ne arrivavano altri,e lui non lo immaginava,concentrato com’era a liberarsi di quelli di fronte a sé. Afferrai d’istinto il fucile poggiato sul sedile del guidatore e mi chiesi perché diavolo non si fosse portato con sé quello,anziché un coltello da cucina. Ricordai all’improvviso che c’era un problema : non sapevo sparare. Mi agitai sul sedile chiedendomi cosa diavolo potessi fare. Ero impaurita,scioccata,sì,ma decisa ad aiutare il ragazzo che ci aveva salvato la vita.

«Passami il coltello» ordinai.

«No!» esclamò Lucas isterico.

«Ti ho detto di passarmi il coltello!»

«No!Non voglio che tu muoia!» rispose lui,urlando.

Mi girai di scatto e lo guardai seria,cercando di cancellare ogni debolezza dai miei occhi. Continuavano ad essere lucidi,ed era inevitabile. Lucas resse il mio sguardo per qualche secondo,poi,arreso,mi passò il coltello. Uscii dalla macchina ; ogni secondo era di vitale importanza. Noah ne aveva uccisi due,ma gli altri tre continuavano ad avvicinarsi e lui indietreggiava,inconsapevole che stava per finire in una trappola mortale. Cominciai a correre verso di lui,e quando mi vide sgranò di colpo gli occhi.

«Sta’ attento!» lo avvertii «dietro di te ne stanno arrivando altri!»

Si girò e si immobilizzò,improvvisamente nel panico. Quando fui abbastanza vicina,rallentai. Volevo intervenire,ma non sapevo se sarei stata in grado. Avrei potuto peggiorare la situazione,anziché migliorarla. L’adrenalina mi scorreva nelle vene,mi faceva sentire pronta,ma pronta per cosa? Quella sostanza nel corpo di un uomo non era probabilmente all’altezza di aiutare in una situazione del genere. Il respiro mi si mozzava in gola,il cuore batteva forte,le gambe si muovevano senza che io ne avessi consapevolezza. Una di quelle cose si voltò verso di me e cominciò ad avvicinarsi,allontanandosi da Puckerman. No,forse non ero pronta,forse non lo sarei mai stata. Potevo uccidere? Ne avrei avuto il coraggio? La risposta era semplice : uccidi o verrai ucciso.

«Mandalo a terra e colpiscilo!» mi gridò Noah,mentre conficcava il coltello nel cranio di una di quelle cose.

Non sapevo farlo!Maledizione,io non sapevo uccidere. Panico,solo panico e troppo poco ossigeno che mi annebbiava la vista,che rendeva tutto come in un sogno : sfumato e indefinito. La creatura era vicina,dovevo agire. Strinsi i denti e d’impulso aumentai la presa sul coltello. Uccidere o essere uccisa. Uccidere o essere uccisa,mi ripetei come fosse stato un mantra. Presi un minimo di rincorsa e spinsi a terra il morto con un calcio esplosivo. Erano più deboli di quanto avessi mai immaginato. Non avevano lo stesso equilibrio di un umano,né la stessa forza o la stessa velocità,ma in gruppo sarebbero stati letali. Misi un piede sul petto dell’essere disgustoso che si agitava ed alzava,per quanto gli era possibile,la testa. Mi guardava con quegli occhi velati e quell’espressione inumana,e qualcosa in quella mi spinse ad agire com’era giusto fare. Mi piegai su di lui senza togliere il piede,presi il coltello con due mani,e lo conficcai nella fronte. Il sangue mi schizzò addosso,ma la creatura era morta,morta una seconda volta. Osservai con disgusto la scena,e tolsi il coltello dal cranio dell’essere. Mi tremava ogni singola parte del corpo,e mi costrinsi a respirare a fondo.

«Torniamo in macchina!» ordinò Noah,raggiungendomi ed afferrandomi per un braccio. Gettai un’occhiata al vialetto dell’abitazione e notai i cadaveri inermi a terra. Ce l’avevamo fatta.

Rientrammo nella vettura ed avvertii lo sguardo di Lucas addosso. Forse si chiedeva dove avessi trovato il coraggio di uccidere,come avessi fatto a non farmi sopraffare dalla paura o dal panico,o forse si chiedeva com’era stato infilare la punta del coltello nel cervello di un morto. Forse tutto ciò.

«Sei stata brava» disse Puckerman,premendo sull’acceleratore «per un attimo ho temuto che ti saresti fatta uccidere».

Lo guardai di sbieco «non posso ancora permettermelo».

Le strade erano un disastro. I morti camminavano indisturbati alla ricerca di prede,o di cadaveri già a terra,pronti per essere divorati. Ce n’erano a decine,molti di più delle poche persone che si intravedevano qua e là,nel vano tentativo di restare vivi. Mi chiedevo come avremmo fatto a passare,se quelle creature creavano una sorta di blocco in mezzo alla strada,ma evidentemente Puckerman aveva qualcosa in mente.

«Tenetevi» avvisò,affondando il piede nell’acceleratore.

Il fuoristrada acquistò velocità in un attimo,e cominciammo a mettere sotto quelle cose una alla volta. Lucas sussultò quando la prima finì sul nostro parabrezza,e tornò a stringermi la mano.

«Crepate,luridi bastardi!» esclamò Noah,schiacciando ancora di più il pedale.

Forse avevamo fatto trecento metri,eravamo quasi vicini. All’improvvisò sentii la speranza riaffiorare,e capii di averne davvero bisogno. Mettemmo sotto tre o quattro morti,e allora il parabrezza si crepò. Noah imprecò,ma non rallentò nemmeno per un istante.

«Dovreste dare un’occhiata qui dietro…» disse Lucas con un filo di voce.

«Che c’è?»

Mi voltai e li vidi. Cazzo. Ci stavano seguendo! Erano attratti dalla macchina in movimento. Si allontanavano dalle abitazioni che avevano assediato e si mettevano sulla scia di cadaveri che la vettura lasciava. Per un istante pensai che si fossero arrabbiati,poi abbandonai quella stupida idea e pensai che eravamo fottuti.

«Stanno seguendo la macchina!»

«Cristo…» biascicò Noah allarmato,gettando un’occhiata allo specchietto retrovisore.

«Che facciamo?»

«Ci siamo quasi. Una voltai entrati in casa saremo al sicuro».

Annuii,pur non essendone troppo convinta.

Cominciavo a vedere in lontananza la villetta e notai che davanti alla porta non c’era neppure un morto. Strano,forse sarebbe stato più facile di quanto avessimo pensato. Parcheggiammo di fronte al vialetto in pietra e poi scendemmo. Stringevo ancora saldamente il coltello dall’impugnatura insanguinata,così come faceva Noah mentre sottobraccio teneva il fucile. Ci guardammo attorno : solo creature dappertutto,niente più grida,niente più persone impegnate in delle folli fughe. Sul marciapiede dall’altra parte della strada c’erano quattro di quelle cose che divoravano quel che rimaneva di Cris Armstrong : un ragazzo con la quale avevo trascorso gran parte della mia infanzia costruendo castelli di carte e organizzando gare con le nostre macchinine. Mi venne un groppo in gola che non riuscii a mandare giù. Mi avviai verso la porta e poi bussai un paio di volte con il pugno della mano.

«Mamma,apri. Siamo tornati».

Aspettai qualche secondo,e poi bussai di nuovo.

«Apri,por favor!»

Silenzio. Nessuna risposta.

Bussai forte prima con la mano,poi cominciai a tirare calci con la punta del piede,ma di nuovo nessuno aprì. Mi voltai verso Lucas e mi accorsi che era tornato ad esser pallido come in ospedale ; aveva gli occhi lucidi e la fronte corrugata.

«Spostati» mi ordinò Puckerman.

Prese la rincorsa ed andò addosso alla porta con la parte destra del corpo,ma inutilmente. Strinse i denti,forse per il dolore,e tornò a fare lo stesso. Guardai indietro e li vidi,così come li vedevo anche davanti,avvicinarsi lentamente e numerosi. Dopo qualche altro tentativo e qualche gemito di dolore goffamente soffocato,Noah riuscì a sfondare la porta.

«Svelti,entrate».

Guardai in cucina,in bagno,nella sala da pranzo con Lucas al mio fianco.

«Mamma!» strillai.

Lei non c’era. Salii le scale velocissimamente,con il respiro che mi si bloccava in gola e il cuore che non avrebbe perso presto quel ritmo folle.

«Mamma!» la chiamai di nuovo.

Doveva rispondere,doveva!Immaginavo che sarebbe sbucata dalla sua camera o dalla nostra e che ci avrebbe riabbracciati con le lacrime agli occhi per la felicità di rivederci. Immaginavo tante cose,ma il semplice immaginarle non era abbastanza. Non c’era. Lei non c’era,non era lì.

«No,no,no,no…» dissi disperata,scuotendo forte la testa.

Lei non c’era,e quella era l’unica consapevolezza in grado di risvegliarmi del tutto da quell’incubo mostruoso. Sentii le gambe cedere,la vista annebbiarsi di nuovo,e la testa girare e girare e girare… e poi BUM…nero,tutto nero.


Salve gente!Credevate che vi avessi abbandonata?Ebbene no,non esattamente. Mi prostro umilmente dinanzi alle vostre figure,vi bacio (virtualmente) i piedi, e vi chiedo scusa fino a che la mia bocca non sarà più in grado di articolare una singola parola. Davvero,scherzi a parte...sono incasinata da morire in questo periodo e ho trascurato un po' EFP e la fan fiction. Sperando che mi abbiate perdonata ( ho le mani congiunte come in preghiera in questo momento) , vi faccio una domanda  : che ne pensate? La storia si è sviluppata piuttosto velocemente dall'ultimo capitolo e mi viene spontaneo chiedervi se state apprezzando i capitoli,oppure c'è qualcosa che non vi va giù. Sono ben accetti consigli,pareri,qualsiasi tipo di affermazione costruttiva che possa aiutarmi a portare avanti questa storia nel migliore dei modi...

Beh,detto questo, mi resta solo da dirvi un'ultima cosa : alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Gelo ***


Between the hungry

Gelo.

«Santana!» urlò una voce familiare «Santana!»

Sentii delle mani fredde sul viso e mi costrinsi ad aprire gli occhi,pur sapendo che sarebbe stato meglio tenerli chiusi. Era stato un sogno,ne ero certa. Era stato solo uno stupido sogno dovuto ad una terribile ingozzata della sera prima. Lo era per forza,perché cose del genere non potevano di certo accadere. Chinato su di me c’era Lucas con una fasciatura improvvisata al braccio,poi piegai leggermente la testa e vidi Noah Puckerman con una t-shirt grigia piena di macchie rosse e scure che sembravano più simili al fango che a del sangue. No. No. No.

«Vi prego,ditemi che ho solo sognato. Ho sognato,non è così?»

Lucas scosse la testa sconsolato e mi offrì una mano per sollevarmi da terra.

«Tutto quel che ricordi purtroppo è vero» disse Noah,mentre mollavo la presa di mio fratello e mi mettevo a sedere.

No. Mi guardai intorno confusa,disorientata,colma solo di disperazione,di un dolore inspiegabile che mi faceva a pezzi ogni singolo organo vitale. Disgusto,amarezza,sofferenza ; poi sentii il salato delle lacrime sulle mie labbra e mi accorsi che stavo piangendo.

«No» mi limitai a dire,scuotendo la testa per rafforzare quell’unica e fondamentale parola.

Cercai di alzarmi dal pavimento un paio di volte,ma continuavo a ricadere a terra priva di forze e del sostegno degli arti.

«Devi stare calma,ok?Non facciamoci prendere dal panico. Sei svenuta,sei senza forze e sei sotto shock. Tieni,bevi questo» disse porgendomi un bicchiere d’acqua «c’è dello zucchero,ti aiuterà».

Scossi la testa «dov’è la mamma?»

Lucas mi guardò per un istante e poi spostò gli occhi dal mio viso,come se per qualche ragione ne fosse stato intimorito.

«Dov’è la mamma?» chiesi di nuovo,dando un tono più duro alla voce tremolante.

Noah tornò a mettermi il bicchiere davanti il viso. Lo presi e lo gettai via con violenza. Il vetro si ruppe in mille pezzi qualche metro più in là.

«Ma che cazzo fai?!» urlò il ragazzo furioso.

Tornai a guardare Lucas e vidi che piangeva,passandosi le dita sugli zigomi umidi.

«Non c’è,dico bene?Non è qui» affermai continuando ad osservare la disperazione sul viso di mio fratello.

«No» rispose lui,passandosi una mano tra i capelli neri «non c’è».

Tornai a tremare l’istante successivo alle sue parole. Sentivo di nuovo la testa girare e sentii il bisogno di tornare a stendermi sul pavimento. Non era possibile. No,non era possibile. Avevo voglia di urlare,di gridare,di imprecare ferocemente,di maledire Dio,il mondo,ogni essere vivente. Mia madre non c’era. Mia madre era uscita là fuori ; lei era morta. Mi portai le mani sul viso,cercando di asciugare le milioni di lacrime silenziose che mi solleticavano le guance e che poi deviavano il loro percorso e finivano per bagnarmi i capelli. Non riuscivo a parlare e a stento respiravo. Mia madre era morta,era morta perché era uscita a cercarci,perché non mi aveva ascoltata. Mi alzai di scatto,sentendo una nuova forza che proveniva da una dalle emozioni più potenti. Irradiava ogni muscolo,ogni cellula,annebbiava ogni cosa.

«Dove stai andando?»

Scesi le scale di corsa,ignorando i giramenti di testa. Andai in cucina,aprii il cassetto delle posate e presi due coltelli usati per tagliare la carne. Cercai di uscire,ma Noah mi bloccò il passaggio.

«Nemmeno per idea. Non andrai là fuori».

Mi mossi a destra,ma lui mi spinse via.

«Togliti» sputai fredda.

Non rispose e non si mosse di un solo centimetro.

«Levati di fronte a me o ti giuro che…»

«Che mi giuri,eh?» mi interruppe furioso «Che cosa mi giuri?Che mi ucciderai e che uscirai a farti ammazzare e lascerai tuo fratello senza l’unica persona che gli è rimasta della sua famiglia?» mi guardò serio per qualche secondo «Se è quello che vuoi,va’ pure».

Strinsi i denti per la rabbia. Maledizione,aveva ragione. Gettai un’occhiata a Lucas che se ne stava singhiozzando dietro Noah,e capii che forse era meglio posare i coltelli e tornare a pensare.

«C’è un’ultima cosa che devo fare e avrò bisogno del tuo aiuto…» dissi al ragazzo che mi guardava con l’espressione contratta.

«Cosa?» chiese lui inarcando le sopracciglia.

«Devo raggiungere la casa del mio ragazzo. E’ a pochi passi da qui,possiamo farcela».

Lui scosse la testa e si portò una mano sulla fronte «non credo sia una buona idea. Hai appena saputo che tua mad…» si bloccò di colpo e si morse un labbro.

Non gli diedi nemmeno modo di riformulare la frase o di pensare,che già ero di fronte alla porta,pronta a spostare il divano da questa. Rabbia. C’era ancora troppa rabbia dentro di me,e sapevo che era un nemico ancor più pericoloso dei mostri che ci aspettavano lì fuori.

3 GIORNI DOPO…

Come si fa a perdere tutto in poco meno di un’ora?Come si fa?Solo la morte avrebbe reso possibile una simile cosa. Era questo quel che ci era successo?Eravamo forse morti?

Aveva già fatto buio da almeno un’ora. Cosa importava?Neppure quella notte avrei dormito,neppure quella notte avrei concesso ai miei occhi il lusso di chiudersi per farmi sprofondare in incubi tremendi. Stanchezza,avvertivo solo una profonda stanchezza,ma il mio intero corpo,la mente,e forse anche il cuore,erano come sotto una potente anestesia. Era quello l’effetto di uno shock?Forse sì,o forse mi ero rintanata in una sorta di dimensione parallela munita da delle grosse e spesse mura. Le mie emozioni sbattevano contro queste,si infrangevano inutilmente contro quell’impenetrabile strato di mattoni, ed io non reclamavo perché non volevo ammetterle più dentro di me. Non sapevo per quanto  avrebbe retto quel gioco contorto o quell’insensibilità,ma speravo il più a lungo possibile. Lanciai un’occhiata verso Noah che se ne stava sul pavimento del salotto con lo sguardo perso nel nulla,poi una alla donna che beveva un bicchiere di latte gironzolando nervosamente avanti e indietro,e poi dedicai un pensiero a Lucas che invece dormiva al piano di sopra. Era l’unico che riusciva a dormire,e in fondo provavo invidia. Io avevo lo spessore del mio muro,e lui aveva il sonno : l’unica dimensione nella quale era riuscito a trovare pace. Ero seduta a terra anch’io,buttata a peso morto contro la parete bianca della stanza,con in mano una collana che continuavo ad arrotolare e srotolare attorno alle dita. Nella penombra che una piccola abat-jour creava,immaginavo la S incisa sul pezzo d’argento a forma di cuore che non avevo mai mollato da allora. Sì,l’avevo trovato. Sospirai allontanando con il semplice fiato quel brutto pensiero. Il muro non sarebbe crollato lo stesso,ma forse era meglio non metterlo a dura prova.

«Non potremo restare per sempre qui» affermò Noah,posando finalmente gli occhi sul mio viso.

Scossi la testa. Non avevo voglia di parlare.

«Mi hai sentito?Sto parlando con te»

Lo guardai «sì,ti ho sentito» risposi fredda.

Lui si alzò da terra faticosamente «vado a prendere qualcosa da bere».

Tornò poco dopo con due bicchieri di pepsi in mano,e si avvicinò per porgermi il mio.

«Tieni» disse cordiale.

Alzai la testa,osservai il vetro colmo del liquido scuro,e poi lo afferrai. Bevvi tutto d’uno sorso. Avevo sete da un bel po',ma non avevo avuto voglia di alzarmi o di sprecare fiato per chiedere un sorso d’acqua. Posai il bicchiere a terra,Noah posò il suo e si sedette al mio fianco. Stralunai gli occhi.

«C’è silenzio là fuori…» sussurrò osservando la porta bloccata dal divano e il tavolino.

Non volevo parlare,eppure le parole mi vennero fuori lo stesso «sono morti tutti,ecco perché c’è silenzio».

La mia voce era parsa strana persino alle mie orecchie. Sembrava avesse parlato qualcun altro,non io di certo.

Noah guardò il mio viso cercandovi chissà cosa,e poi puntò di nuovo gli occhi a terra,come aveva fatto per quasi tutta la giornata. Smisi di srotolare la collana e la strinsi saldamente nella mano.

«Senti,» cominciò serio il ragazzo «lo so,ok?E’ successo tutto così in fretta ed è stato come vivere in un incubo terrificante. E’..E’ pazzesco e inverosimile…ma non possiamo lasciarci andare,non possiamo».

Lo guardai svogliatamente,e tornai ad arrotolare la collana attorno all’indice. Lui sospirò arreso.

«Mi dispiace Santana,mi dispiace davvero. Conoscevo Josh come quasi tutti a Lim…»

«Non parlare di lui» lo interruppi severa.

Un altro sospiro riempì la stanza ; forse il mio,o forse il suo,poi il ragazzo si alzò e tornò a sedere dov’era stato sino a poco prima. Sentivo il suo sguardo addosso mentre mi infilavo tra le labbra l’ultima sigaretta,e potevo quasi ascoltare la voce dei suoi rumorosi pensieri. Mi odiava?Mi compativa?Cosa diavolo provava?Buttai fuori il fumo un poco alla volta,senza fretta,e poi le mie labbra riaccolsero di nuovo la Camel che probabilmente sarebbe stata l’ultima della mia vita.

«Cosa ne sarà di noi?» chiese Puckerman con lo sguardo triste alla ricerca dei miei occhi.

Feci un altro tiro di sigaretta e smisi di ignorare il suo viso. L’osservai per una decina di secondi senza proferire parola e lui fece una smorfia di rassegnazione.

«Non lo so.» la mia voce parve ravvivare il viso del ragazzo «Potremmo morire domani,come tra un mese,come tra dieci anni,ma ci aspetta la stessa identica fine».

Lui tossì un paio di volte e si strinse le ginocchia al petto.

«Perché pensi che non potremmo farcela?» mi chiese serio.

Inspirai il fumo,poi le mie labbra si schiusero e riempirono la stanza di quella lieve coltre piena di astratti ghirigori bianchi.

«Perché questo non è più il nostro mondo.» risposi guardandolo dritto negli occhi,come se per qualche assurda ragione avessi avuto voglia di ferirlo  «Non c’è più niente di quel che c’è stato fino a tre giorni fa. Niente. Persone,vite…tutto portato via. Sai,» iniziai poi con un mezzo sorriso amaro e innaturale «non ho mai creduto a quella storia del paradiso e dell’inferno,ma ora…beh,credo che l’inferno si sia appena trasferito su questa terra».

Lui non rispose più,abbassò la testa e chiuse gli occhi inutilmente. Avevo come l’impressione che avesse avuto voglia di scordare le mie parole,eppure ero certa che quelle vorticavano nervosamente nella sua testa,esattamente come succedeva a me.

Osservai di nuovo il ciondolo,come facevo ormai da giorni,ed i respiri caldi si mischiarono al freddo dei ricordi. Maledizione,il muro stava crollando.

Quei lamenti insistenti fuori dalla porta di quella che fino a poco prima io e Lucas chiamavamo “casa”,il rumore delle mani insanguinate che colpivano la superficie per entrare…poi,non so come,eravamo usciti in strada da una finestra sul retro,ingannando quei disgustosi esseri che stupidamente erano rimasti a picchiare la porta pretendendoci,pretendendo la nostra carne. Noah aveva imbracciato il fucile saldamente,e noi avevamo impugnato i nostri coltelli.

«Perché non hai usato il fucile,prima?» avevo chiesto,sforzandomi di aprire la bocca per parlare.

«Credo siano attratti dal rumore.» aveva risposto lui,osservando l’arma che teneva tra le mani «Quando ero in strada ho visto quelle cose avvicinarsi alle macchine che suonavano il clacson. E poi avvicinarsi alle persone che urlavano,ignorando del tutto quelle che invece correvano in silenzio nelle proprie case. Non sono sicuro,voglio dire…di cosa si può essere sicuri in una situazione come questa?»

Avevo semplicemente annuito e poi aumentato il passo,continuando a tenere d’occhio mio fratello. La villetta di Josh era sempre stata lì,ed i miei occhi avevano acquisito uno strano luccichio quando l’avevo vista. Corremmo tutti e tre,e il mio respiro si era fatto improvvisamente più corto. Avevo avuto una tale paura,che i muscoli ancora tremano a quel ricordo. Poi,come se qualche disgraziata divinità avesse voluto distruggere l’ultimo briciolo di speranza e di tenacia che avevo dentro,l’avevo visto. L’avevo visto,ma non nel modo in cui avrei voluto. Riconobbi i vestiti : la stessa t-shirt bianca di quella mattina,le stesse Air Max nere,lo stesso paio di jeans strappati sulle ginocchia. Neppure il tempo di mettere piede in quella maledetta casa,che i miei occhi erano rimasti folgorati da quella scena. Il mondo mi era crollato addosso. Era in mezzo alla strada che camminava assieme ad altre due creature,e si avvicinava con il loro stesso passo,con la loro stessa andatura,emettendo i loro stessi lamenti.

«Sbrigati!» mi aveva urlato Noah,già di fronte alla porta con Lucas affianco. Poi,seguito il mio sguardo pieno di disgusto e di orrore,mi aveva urlato qualcos’altro che non ero riuscita a capire. Pietrificata,senza neppure le lacrime agli occhi. Immobile come una statua,come un pezzo di vetro pronto a schiantarsi a terra in mille e minuscoli pezzi. I muscoli fermi e rigidi,le labbra tese in una smorfia inespressiva,gli occhi pieni di dolore,e la testa che avrebbe voluto muoversi come durante una crisi epilettica,ma che invece non poteva. La consistenza di quell’immagine andava lentamente vanificandosi,così come la mia intera vita. Forse era anche meno consistente di un sogno,ma dolorosa come mille coltellate al cuore. Si avvicinava,così come si avvicinavano gli altri che lentamente ed inconsapevolmente cominciavano a mettermi in trappola.

«No» avevo poi sussurrato tra me e me,con chissà quale forza.

Il mio sguardo non trovava deviazione,non trovava nient’altro che fosse più importante della cosa che continuavo a fissare con l’inutile speranza che il cervello si fosse sbagliato. Era lui ; nessuno sbaglio,era lui. Gli occhi,infine, colsero il dettaglio che fece crollare l’assurdità del dubbio che continuava ad insinuarsi : la collana con il ciondolo di un cuore a metà con la mia iniziale sopra. Poi Noah mi si era parato davanti ed aveva sparato cinque colpi,uno nella testa di Josh,gli altri due ai mostri accanto a lui,e gli ultimi si erano conficcati inutilmente al petto dei primi.

«Sali in macchina!» aveva ordinato con la voce piena di panico.

Il gruppetto di cose davanti alla mia porta e le altre sparse qua e là avevano sentito il rumore degli spari e si  erano avvicinate con quella loro andatura goffa e lenta. Ricordo di aver chiuso gli occhi per un istante,che le mie gambe si erano mosse senza che io me ne fossi resa conto,e che mi ero piegata sul cadavere di Josh,osservando il buco che aveva nel cranio.

«Santana!» mi aveva richiamata Puckerman,tirandomi via per un braccio.

Mi ero opposta alla sua forza,avevo strappato la collana dal collo bianco e massacrato di Josh,e poi ero stata trascinata,quasi trasportata,perché le mie gambe avevano decisamente smesso di essere funzionanti.

Mi portai entrambe le mani sul viso,avvertendo il bagnato sulla pelle e sui polpastrelli. Avevo ancora la catenina arrotolata attorno all’indice,e il ciondolo mi toccava uno zigomo delicatamente. Mossi lentamente la mano su e giù,lasciandomi sfiorare dal contatto freddo del metallo. Quella era la carezza fredda di Josh. La mia pelle desiderava spasmodicamente il calore della sua mano sul viso,ma non riceveva altro che gelo. Era questo che riempiva il mio petto : gelo,soltanto misero gelo.


Ed eccomi di nuovo tra voi con un nuovo capitolo!Beh,il primo pensiero che mi passa per la testa nel leggerlo è : povera Santana. Immaginatevi di trovarvi nei suoi panni ; avete perso quasi tutto : famiglia,amore,un'intera vita...non vi resta che attaccarvi a quei piccoli ricordi che riaccendono assieme al dolore la gioia nell'averli vissuti. Ho deciso di creare questo capitolo perché mi sembrava giusto esporvi al lato emotivo di questa povera ragazza che è nel bel mezzo di una castrofe apocalittica. Un capitolo un po' statico,lo so,ma credetemi se vi dico che per le vicende movimentate c'è tutto il tempo di questo mondo!Non siamo mica rincorsi da un gruppo di zombie,no?

Comunque,per quanto riguarda le future comparse di personaggi che ci riguarderanno in modo moolto,ma molto diretto,vi rassicuro immediatamente : a breve ce li ritroveremo sbattuti in faccia con storie ed ambientazioni a dir poco inverosimili. Pazienza,serve solo un po' di pazienza!Nel frattempo incrociamo le dita per la povera San che è stata appena catapultata nella più inquetante trama che un fumettista avesse mai potuto creare. Detto questo,ricorre sempre e solo un'unica domanda : che ve ne pare?Insomma gente,fatemi sapere qual è stato il vostro pensiero nell'aver concluso di leggere questo capitolo...fatemi sapere quali sono le vostre idee in merito,ditemi che cosa vi è piaciuto e che cosa non avete mandato giù...ogni cosa!Non aspetto altro che i vostri pareri,sul serio!

Carissimi,alla prossima con un viaggio : "il viaggio"!

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** In viaggio verso il sole ***


Between the hungry

In viaggio verso il sole .

Viaggiavamo ormai da ore e la notte cominciava a calare. Eravamo circondati da un paesaggio a dir poco inverosimile e non c’era un’anima che avessimo incontrato in quello schifo di strada. La maggior parte delle macchine erano state abbandonate nella corsia principale e per alcuni tratti eravamo stati costretti a viaggiare in quella opposta,sempre veloci,con la paura di chi stava fuggendo da qualcosa o da qualcuno. Noah mi aveva convinta,o meglio,aveva insistito talmente tanto che non avevo avuto neppure la forza per opporre resistenza. Forse era stata la cosa giusta. Restare lì,bloccati in una casa con qualche mobile e una sottile porta a dividerci da quelle cose,sarebbe stato pericoloso. Non avevamo più nulla,nessun motivo,neppure una persona che ci tenesse ancora legati a quel posto,e la cosa faceva male,ma male da morire.Faceva male il semplice pensiero che poco distante da quell’abitazione si trovasse il quartiere nel quale ero cresciuta,la casa per la quale ero finita a lavorare in una misera bettola o le persone che conoscevo da una vita e che ogni mattina mi salutavano amichevoli raccontandomi i loro problemi o ogni tipo di novità…la mia vecchia scuola,il bar dei Ross dove facevamo colazione io e Josh,la chiesa nella quale si recavano ogni domenica mia madre e mio padre,il supermarket poco distante da lì nel quale Lucas faceva la spesa in cambio di qualche soldo da mia madre…tutto morto,tutto ridotto in misera polvere. Era questa la cosa che faceva più male : la consapevolezza che tutto quel che avevamo vissuto fino a quel momento,che la nostra realtà,che le nostre intere vite erano ormai distrutte,distrutte da qualcosa di inimmaginabile. Avevo così tanta rabbia dentro,che la tentazione di fermare la corsa di Noah,ed andare in strada a caccia di quelle cose,era stata tanta e a stento ero riuscita a controllarla. Ero anche schifata,disgustata ed attanagliata da un senso di nausea che da giorni non andava via. Ero stanca,eppure non mi riusciva di chiudere gli occhi per più di qualche ora. Mi ero osservata allo specchietto della macchina e non avevo visto altro che due occhi scuri ed arrossati e delle grosse occhiaie bluastre a marcare la pelle con prepotenza. Non facevo una doccia da due giorni ormai,e mi sentivo sudicia in quei vestiti sudati che non avevo avuto voglia di cambiare prima della partenza. Sì,ero disgustosa come non lo ero mai stata nella mia vita,ma quando in testa non hai altro che l’immagine del tuo ragazzo che vaga in cerca di carne umana,quella della tua migliore amica divorata da suo padre,o immagini quella dei tuoi genitori che circondati ed impotenti crollano sotto la debole forza di quelle cose,lavarti e cambiarti è l’ultimo dei tuoi problemi. Forse se l’avessi fatto,se mi fossi ripulita dallo schifo che avevo addosso,sarei tornata a sentirmi “umana”,ma ultimamente mi sfuggiva parecchio il concetto di umanità. Così me ne stavo buttata addosso allo sportello dell’auto con il finestrino abbassato,il mio disgusto,la mia rabbia,e l’immancabile senso di nausea. Non parlavo,tenevo gli occhi chiusi e continuavo ad immaginare che tutto quello non fosse altro che un sogno.

«Lucas sta dormendo» mi disse Noah,lanciando un’occhiata allo specchietto retrovisore.

Annuii debolmente.

La cosa che mi infastidiva di più era il fatto che la mia preoccupazione non riusciva a prendere il sopravvento sulla rabbia. Me ne stavo lì,a covare rancore per il mondo,quando mio fratello non apriva bocca da almeno un giorno e non faceva altro che dormire. A volte avevo il sospetto che fingesse di dormire per non essere costretto a parlarci. Non potevo fare a meno di sentire riecheggiare dentro di me la frase :” che razza di sorella sei?”. Probabilmente non avevo abbastanza forza per tutti e due…probabilmente ero così debole che a malapena avevo la forza necessaria per continuare a vivere quell’assurdo incubo senza prendere il fucile e spararmi un colpo alla testa.

«Quando si sveglia dovresti parlargli».

Lanciai un’occhiataccia al ragazzo «per dirgli cosa?Eh?Caro fratellino siamo in viaggio da ore verso una cazzo di città e non si sa se domani saremo ancora vivi perché le persone sono diventate dei mostri affamati di carne umana?»

Noah mi guardò e scosse la testa pieno di disappunto. Era chiaro quanto io e lui avessimo reagito diversamente alla cosa. Lui pareva farsi forza,in qualche modo,per andare avanti e trovare la speranza che non gli permettesse di abbandonarsi a se stesso. Io,invece,non vedevo alcuna speranza,alcun domani…niente di niente,se non la miseria e lo schifo nel quale eravamo. Invidiavo quella sua forza,ma non potevo fare a meno di pensare che quel briciolo di speranza che gli era rimasta fosse legata al fatto che in quel mondo non avesse perso tutto. Sua madre era seduta dietro,appisolata anche lei,con il fucile stretto tra le gambe.

«Dovresti dargli il buon esempio,Sant…»

«Cazzo!» strillai furiosa,interrompendolo «Non dirmi cosa devo fare,ok?Non ti azzardare!Apri gli occhi Puckerman!Cristo santo,che cosa pensi che succederà,eh?E’ tutto finito!E’ tutto finito!Come pensi che riusciremo a sopravvivere,come?!»

Noah mi guardò con gli occhi sgranati e l’espressione dura e la bocca serrata,poi si riprese dal suo stupore e cominciò ad ignorare la strada,fulminandomi con lo sguardo.

«’Fanculo!» sbottai,spostando lo sguardo dal suo viso.

La macchina si fermò di colpo. Guardai la strada,ma era pulita,non c’erano gli affamati e neppure macchine a bloccare il passaggio,e allora perché si era fermato?

«Scendi» disse serio il ragazzo.

Lo guardai piena di stupore «cosa?!»

«Scendi» ripeté lui con una calma da far gelare il sangue nelle vene.

Non sapevo cosa dire…ero spiazzata,senza parole. Scossi la testa.

«Ti ho detto di scendere da questa cazzo di macchina!» urlò pieno di rabbia,con il viso che era diventato una maschera terrificante «Vuoi farti ammazzare?!E allora scendi!»

Ero del tutto basita ed impaurita da quella sua reazione improvvisa.

«Non ho detto che voglio farmi ammazzare!» strillai di rimando.

Lui continuò a guardarmi nero in viso,con le labbra serrate e gli occhi lucidi a tradirlo appena.

«Se non credi che possiamo sopravvivere,se non credi che in quella fottutissima città possa trovare il mio amico ancora vivo,se non credi che questa situazione possa risolversi,scendi!» si avvicinò al mio viso con fare minaccioso,ma fu facile capire che la sua rabbia stava decrescendo lentamente «Vuoi andare a fare la stronza in mezzo a quelle cose,eh?!Vuoi andare ad ammazzarle tutte?E’ questo che vuoi?Prendi quel cazzo di fucile e vai allora,nessuno ti costringe a restare qui a perdere tempo con noi,ma non ti permetterò di mettere in pericolo gli altri perché tu hai deciso che la tua vita sia già finita».

Dio…ero di nuovo senza parole. Scossi la testa. Come facevano male quelle maledette parole,mi stavano distruggendo dentro,e la prova di quel dolore interno furono le lacrime che in un attimo cominciarono ad inumidirmi il viso.

«Sei incazzata con il mondo,sei incazzata con te stessa perché tua madre è andata a cercarti in quel casino,sei incazzata con quelle cose perché ti hanno portato via la persona che amavi,sei incazzata con Dio,ma no…non permetterti di sfogare la tua rabbia su di me e su quel che sto cercando di fare!Ok?Vi ho salvato il culo in quella strada,e pretendo almeno un minimo di rispetto. Soltanto perché non mi piango addosso e non me ne sto con il fucile puntato alla tempia,non vuol dire che debba essere aggredito da te!Sto reagendo,sto cercando di sopravvivere e di far sopravvivere voi altri,ed è esattamente quello che dovresti fare tu. Abbiamo perso tutti qualcosa,tutti!Pensi che io sia felice,eh?!Pensi che lo sia?Sono stato al fresco per quasi un anno,e quando torno mi ritrovo in una situazione inimmaginabile…mi ritrovo il mio migliore amico divorato sotto gli occhi e l’intera città che nel giro di un’ora impazzisce. Non è difficile solo per te!Non sei l’unica al mondo a soffrire e ad avere perso le persone che amavi,perciò non fare la stronza!»

Noah mi guardava pieno di rabbia,ma nascondeva però una grande fragilità. Era sul punto di piangere,lo vedevo,eppure non lo avrebbe permesso. Io,invece,scuotevo la testa tra i singhiozzi e cercavo inutilmente di evitare il suo sguardo. Sapevo che aveva ragione,ma l’ammetterlo a me stessa faceva troppo male. Tremavo,mi sentivo male. Non capivo se fossero i singhiozzi a scuotermi in quel modo,oppure i brividi di freddo che percepivo in tutto il corpo. La nausea che avevo provato per giorni interi era aumentata improvvisamente,e sentivo di stare per vomitare. Mi passai le mani sul viso ad asciugarmi le lacrime,con il respiro che diventava sempre più affannoso. Mi portai una mano sul petto ed avvertii il battito del mio cuore impazzito,poi cominciai a sudare freddo,e a provare un senso di…un panico incredibile,una paura che mi immobilizzava così come immobilizzava il petto che mi faceva male nel momento in cui respiravo.

«Stai bene?!» chiese Puckerman preoccupato «Dio,sei sbiancata Santana».

Scossi la testa. Le lacrime scendevano veloci,ed io ansimavo senza avere la minima capacità di parlare. Spalancai la bocca e nonostante quel maledetto dolore al petto,mi costrinsi a respirare. Il cuore batteva velocissimo,e per un attimo pensai che sarebbe esploso. Mi sembrava di stare per soffocare,di stare per morire…tutto era offuscato e avevo paura perché il mio corpo continuava a tremare e ad avvertire freddo,senza che io potessi fare niente. Cercai di deglutire,ma la saliva non scendeva giù. Stavo morendo…stavo morendo soffocata.

Noah scese velocemente dalla macchina,così come fece sua madre e corsero entrambi ad aprirmi lo sportello.

«Cos’hai San?» mi chiese mio fratello,che doveva essersi svegliato dopo tutte quelle grida.

Noah aveva la fronte corrugata,e mi toccò con il dorso della mano una guancia.

«Credo sia un attacco di panico» affermò il ragazzo continuando ad osservarmi pieno di apprensione «respira Santana,calmati. E’ tutto ok,stringimi la mano».

Afferrai la sua mano,ma non avevo la forza per stringerla bene. Stavo morendo…non c’era dubbio,stavo morendo. Sentivo le pulsazioni esplodermi in gola,e ansimavo,perché sentivo che l’aria non era abbastanza…no…soffocavo.

«Guardami» mi disse Noah,chinato,poco distante dal mio viso «shhh…è tutto ok,è tutto ok. Chiudi gli occhi e immagina il posto più bello che ti vieni in mente. Ci sei?» domandò poco dopo.

Annuii senza osservarlo. Era una radura meravigliosa,con l’erba di un verde incantevole e tanti piccoli fiorellini rosa che spuntavano qua e là,dando un tocco di colore a quella perfezione. Davanti a me c’era una cascata rumorosa con dell’acqua limpidissima e apparentemente fresca,invitante,che ricadeva delicata in un laghetto da cui si intravedeva il fondo. C’era il sole,un gran sole a baciare la mia pelle e ad illuminare quello spettacolo di natura.

«Tu sei lì,e tieni per mano Josh. State camminando,tu gli sorridi e lui ti sussurra che ti ama».

Lo vidi nitidamente nella mia testa. Quei capelli scuri un po’ disordinati,la sua bocca che mi sfiora l’orecchio e il suo fiato sul collo mentre mi dice quelle parole sincere e piene d’amore. Poi io rido,gli rispondo che lo amo,e le nostre labbra si toccano.

Presi un grosso respiro,con gli occhi ancora chiusi e le ciglia fradice,e sentii che tutto quel dolore stava passando. Avevo smesso di tremare,non sudavo più,ma sentivo ancora freddo. Il petto faceva ancora male,ma non come prima.

«Come ti senti?» mi chiese il ragazzo che ancora mi stringeva la mano.

Aprii gli occhi «sta passando» risposi con un filo di voce.

Singhiozzai,mi stropicciai gli occhi,e poi tornai a respirare normalmente. Era finito. Lucas mi toccò una spalla da dietro,io mi voltai e gli sorrisi. Noah mi osservò un’ultima volta,poi tornò in macchina e lo stesso fece sua madre. Era buio,e quell’oscurità non faceva altro che accentuare  la stanchezza che avvertivo in ogni fibra del corpo. Era come se il mio petto fosse stato svuotato e la debolezza si fosse mischiata al sollievo. Sentivo che avrei anche potuto dormire,che forse quella notte ci sarei riuscita.

«Fermiamoci qui» disse Puckerman «domani mattina proseguiremo. Dovremmo raggiungere New York per mezzo giorno».

Mi sforzai di annuire.

«Tutto passato?» chiese il ragazzo voltandosi verso di me.

«Sì» risposi piano.

«Mi dispiace di averti urlato in quel modo…sono stato un pezzo di merda».

Io sorrisi «lo sei stato,ma avevi ragione».

Anche lui sorrise «resterò io di guarda stanotte, tu cerca di dormire».

«Grazie».

Il ragazzo afferrò il fucile,aprì lo sportello ed uscì. Io gli lanciai un’ultima occhiata,ringraziandolo di nuovo mentalmente,poi sfiorai il ciondolo della collana che indossavo ed appoggiai la testa allo sportello. Chiusi gli occhi,feci un ultimo e profondo respiro,e mi ritrovai di nuovo in quella radura. Le mie labbra toccavano le sue,lui teneva le mani attorno alla mia vita,e il sole non smetteva di brillare. Avevo bisogno del sole,avevo bisogno che i raggi mi sfiorassero come facevano quelli candidamente,e invece c’era il buio. Forse presto avrei ritrovato il mio sole,forse New York mi avrebbe riservato un po’ del calore che credevo non avrei mai più conosciuto. Da quel momento in poi avrei tenuto bene a mente quel singolo pensiero. Forse quel viaggio ci avrebbe regalato qualcosa...la vita non poteva solo privare e mai concedere,no?

Ti prego sole,baciami.


Ed eccoci alla fine di un altro capitolo. Ma quanto è difficile sopravvivere in un mondo infestato da zombie?Non si parla solo di una difficoltà di tipo pratico,ma anche delle problematiche che la persona (in questo caso Santana) si porta poi con sè. La nostra povera Santana si è ritrovata a lottare con uno dei più pericolosi mali : il panico. Beh,questo è soltanto l'inizio del viaggio che i nostri protagonisti hanno intrapreso,ma ancora molto dovrà succedere...

Per gli amanti del Brittana mi sento in dovere di suggerire una cosa : leggente attentamente la parte finale del capitolo. A buon intenditor poche parole...

Alla prossima gente!Scrivetemi le vostre impressioni nelle recensioni,vi aspetto lì ed ovviamente nel prossimo capitolo ...a presto!

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Il tunnel dell'orrore ***


Between the hungry

Il tunnel dell'orrore .


Correvo veloce,nonostante di tanto in tanto avvertissi le gambe cedere. Sentivo l’aria spostarmi i capelli e colpirmi il viso delicatamente. Il sangue pompava veloce nelle vene,mentre invano mi guardavo attorno,nervosamente,cercando una via di uscita. Era New York quella? Il cielo tetro,nascosto sotto uno strato di nuvole spesso e angosciante,si rispecchiava sulle vie di quella città immensa,che aveva un qualcosa di spettrale e profondamente scoraggiante. Ero sola. Il vento trasportava pezzi di carta che svolazzavano qua e là,simili a degli uccelli goffi ed incapaci. Camminavo tra le strade grigie e malconce,infilandomi tra le macchine abbandonate in strada. Mi inseguivano e non avevo neppure una misera arma con me,niente…ero sola e abbandonata ad un unico destino. Niente voci,né il suono dello scorrere delle macchine o quello del traffico che una città come quella avrebbe dovuto avere. L’unico rumore che mi inseguiva rompendo quel silenzio che sapeva di morte,era quello degli affamati. D’un tratto smisi di correre e mi fermai davanti un grattacielo,pronta a voltarmi per rendermi conto di quanti ne avessi dietro. Mi girai e fermai l’impulso di chiudere gli occhi. Ce n’erano a decine. Ero pronta per tornare a correre,perché fuggire era l’unica cosa che potessi fare,ma qualcosa mi bloccò. Sentii un peso violento sullo stomaco e una scarica di pugni mi si scatenò sul petto,fermandomi per qualche secondo il respiro. In prima fila scorsi delle ciocche rosse su un viso irriconoscibile : bianco cadaverico,con un pezzo di zigomo mancante. Ma era lei : era Mandy. La osservavo con gli occhi sgranati per il terrore,come se il mio cervello avesse già deciso che sarei morta per mano sua. Si avvicinava,ed io pietrificata continuavo ad osservarla,con la speranza che quella ragazza simpatica e solare,che avevo conosciuto durante il primo giorno di lavoro,sarebbe tornata in sé. Ma lei mi guardava non come un’amica avrebbe dovuto fare,no…lei mi guardava e vedeva davanti a sé una sola cosa : cibo.

Mi svegliai di soprassalto col fiatone,immersa in un bagno di lacrime. Mi guardai attorno e grazie al cielo capii di trovarmi nell’abitacolo del fuoristrada. Me ne stavo buttata a peso morto sul sedile,e quando provai a staccare la schiena da lì,avvertii un dolore alla spalla e uno altrettanto fastidioso al collo. Dio,sarebbe stato meglio dormire sull’asfalto…quel sonno malsano mi aveva resa una specie di catorcio. Mi girai per dare un’occhiata dietro : Lucas dormiva profondamente con la testa appoggiata alla spalla della signora Puckerman. Sorrisi e poi,ancora stordita dal sonno e turbata da quello schifosissimo sogno,aprii lo sportello dell’auto e uscii fuori. Mi stiracchiai e lasciai andare i ricordi di quella realtà distorta in uno sbadiglio. Il sole spezzava l’oscurità della notte e si levava lento nel cielo. Forse erano le sei,forse le sei e qualcosa.  

«Buongiorno» mi disse Noah con un sorriso dal tettuccio della vettura.

Se ne stava seduto con le gambe incrociate ed il fucile poco distante da lui,sulla superficie metallica nera.

«Dio,hai un aspetto terribile!» esclamai osservando le occhiaie bluastre sul suo viso.

«Oh,ti ringrazio…anche tu sembri una rosa questa mattina» rispose ridacchiando.

Scossi la testa sorridendo.

«Tra massimo una mezz’ora ripartiremo,» mi informò il ragazzo «così finalmente potrò chiudere un po’ gli occhi».

Annuii. Non doveva essere stato piacevole passare un’intera notte sveglio,con un fucile tra le mani,e il sonno come nemico. Da lì fino a New York avrei guidato io,era scontato.

«Ne hai vista qualcuna di quelle cose?» chiesi,issandomi sul cofano della vettura per raggiungerlo.

«Tre o quattro,ma erano soli…li ho fatti fuori con il coltello».

Mi sedetti al suo fianco e notai qualche cadavere al lato della strada. Noah mi guardò,con ancora un briciolo di apprensione sul viso,ed io continuai a guardare il sole,cercando di ignorare i suoi occhi che continuavano a ricordarmi quel che era successo il giorno prima.

«Come facevi a sapere che era un attacco di panico,ieri?» ruppi il silenzio.

Sentii il suo sospiro,e così mi voltai. Aveva lo sguardo basso,e sembrava essersi rattristato. Poi gettò gli occhi verso il bosco che si diradava ai lati della strada,e tornò di nuovo ad osservare la vettura sotto di sé.

«Quando passi un anno dentro,impari tante cose che non vorresti imparare…» si limitò a dire con un mezzo sorriso amaro.

Ricordai cos’aveva detto la sera prima,quando mi aveva urlato contro ; aveva detto di essere stato in prigione,e soltanto allora mi tornava in mente quel fatto.

«Perché ci sei finito?» domandai,improvvisamente curiosa.

Lui mi guardò e scosse la testa,come se avesse voluto cancellare qualche brutto ricordo.

«Furto d’auto» rispose,toccandosi la nuca rasata «e anche perché sono un coglione…»

Dedussi dal suo tono di voce che non doveva essere stata una bella esperienza. Il buon senso mi imponeva di chiudere la bocca,ma la curiosità prendeva il sopravvento. Parlare mi distraeva,ed era proprio quello di cui avevo bisogno.

«Hai…hai avuto degli attacchi di panico lì dentro?»

Noah scosse la testa «non io,il mio compagno di cella. Era un incubo.» disse ormai perso nei ricordi pieni di immagini «Ogni notte si svegliava all’improvviso e cominciava ad urlare di volere che sua madre lo perdonasse…ne soffriva ed era un miracolo se riuscivo a chiudere gli occhi per più di tre ore».

«Cos’aveva fatto?»

I suoi occhi divennero ancora più bui.

«Aveva picchiato sua madre fino a mandarla in coma».

Rabbrividii e poi tornò il silenzio. Eravamo soltanto io,Noah,ed i nostri pensieri. Qualcosa all’orizzonte destò la mia attenzione.

«Lì giù» dissi a Puckerman indicando l’affamato con un dito.

Noah annuì,si sfilò il coltello dalla cintura dei jeans e fece per saltare giù dalla macchina.

«Fermo!» esclamai afferrandolo per un lembo della maglia «Ci penso io».

Lui mi guardò interdetto,sorpreso,con la fronte aggrottata e solcata da qualche ruga «sicura?»

Annuii decisa.

Presi il coltello e scesi dalla macchina con un balzo. Avevo le ossa doloranti…ero tutta dolorante. Sentivo ancora una debolezza indescrivibile,ma sapevo che era necessario avere sangue freddo ed avere quanta più esperienza nell’affrontare quelle cose,per cui era giusto che lo uccidessi io. Mi incamminai piano,aspettando quasi che si avvicinasse. Era orrendo come tutti gli altri. Impugnai il coltello saldamente e feci qualche altro passo in avanti. Lo tenevo d’occhio come una tigre pronta a saltare addosso alla sua preda. Era mio,era tutto mio. I muscoli del braccio destro si irrigidivano e poi tornavano a rilassarsi in maniera quasi ritmica. Era inquietante da dire,ma morivo dalla voglia di ammazzarlo.

«Figlio di puttana» bofonchiai tra me e me.

Lo stavo aspettando,ero pronta. I versi di quel mostro erano sempre più rumorosi e vicini.

«Avvicinati,andiamo..»

Feci un altro passo avanti e gli afferrai un lembo della camicia logora all’altezza del petto,lo guardai dritto in quegli occhi morti,e piantai il coltello nel cranio con quanta più forza avessi. Gli schizzi di quel sangue denso e disgustoso mi finirono sul viso e sulla mano. L’affamato cadde a terra privo di vita,e con tutte e due le mani tirai fuori la punta metallica dal suo cervello. Mi voltai a guardare Noah e lui mi fece un gran sorriso,mostrandomi il pollice alzato.

                                                                                                                           *

C'eravamo quasi,New York era vicina. Guidavo da ormai quattro ore buone,ed avevo fatto solamente due soste dall’inizio del viaggio. La prima era stata per un’esigenza "fisiologica",la seconda per riposare un po’ la testa e riempire lo stomaco con del pane e burro di arachidi. Noah dormiva profondamente,come tutti gli altri,e le uniche cose a riempire l’abitacolo di quella grossa e imponente macchina erano i miei pensieri ed il silenzio. Non avevamo incontrato morti durante il tragitto,né avevamo avuto problemi con la strada,ma l’angoscia,la mia angoscia,era forte e vivida come un pugno dritto in pieno viso. Il silenzio e la macchina,che faceva il suo lavoro quasi automaticamente,avevano dato uno spazio ampio ed indesiderato ai miei pensieri. Fluttuavano liberi,intrecciandosi,mischiandosi in astratti ed oscuri disegni,e rendevano l’aria irrespirabile. Cosa ne sarebbe stato di noi?Era giusto andare in una città grande come New York?Perché Noah aveva deciso di rischiare tutto per andare da un suo amico?Cos’erano quelle cose?Sarebbero arrivati dei soccorsi a staccarci dalla melma scura e appiccicosa nella quale eravamo impantanati?Pensavo ad ogni singola domanda ; la formulavo,la riformulavo,allontanavo le parole e le affiancavo nuovamente dando loro un altro senso,ma quella era l’unica cosa che potessi fare. Mi concentravo sulle domande perché non avevo risposte,e quella grossa mancanza era colmata dal vorticare delle mille parole assieme ad altrettanti punti interrogativi. Era strano,ma per la prima volta da quando quell’incubo era iniziato,sentivo un briciolo di forza tornarmi indietro,come un boomerang lanciato goffamente. Tornai a guardare la strada,pur non avendo spostando gli occhi per un secondo dall’asfalto,e mi balenò un ultimo pensiero in mente : New York = meta.

                                                                                

«Siamo vicini» avvisai Noah in un sussurro.

Lui mi guardò ancora stordito,con gli occhi socchiusi per il sonno,e poi annuì.

«Come ci muoveremo in una città come quella?E’ grande,dispersiva…non stiamo parlando di Lima e dei suoi quarantamila abitanti. Penso che New York sarà un bel casino» affermai,voltandomi verso di lui.

Forse avevo parlato un po’ troppo in fretta,perché mi pareva che a malapena avesse capito quel che avevo detto. Era troppo frastornato per rispondermi,e uno sbadiglio gli sfuggì improvvisamente. Si stropicciò gli occhi come un bambino fa appena sveglio,poi sbatté qualche volta le palpebre e rimase a guardarmi. Stavo aspettando una risposta.

«Ce la caveremo,tranquilla. Sarà impossibile muoverci con la macchina,e il casino in strada ci rallenterebbe. Ci muoveremo a piedi ; saremo veloci e silenziosi».

Chissà perché quel suo discorso,intriso di una speranza quasi forzata,mi aveva tirato fuori un grosso sospiro. Troppa incertezza. Sguazzavamo nel dubbio e nella forza innaturale che un pizzico di speranza ci concedeva,ma per me non era sufficiente. Continuai a guardare la strada perché sapevo che se mi fossi concessa la libertà di parlare,sarei finita con lo scatenare un’altra lite.

Nell’ultimo tratto di strada Puckerman aveva deciso di darmi il cambio,perché si era detto che insonnolito com’era non sarebbe stato di alcun aiuto tra le strade della grande mela. Guidare avrebbe forzato la sua concentrazione e si sarebbe ripreso da quella sorta di trance che lo teneva stretto in una morsa a dir poco asfissiante. Io non avevo opposto resistenza : avevo fermato la macchina,avevo abbandonato il posto del guidatore,e mi ero seduta alla sua destra. Avrei impiegato quegli ultimi minuti ad osservare il cielo oscurarsi sopra le nostre teste,ed avrei recitato silenziosamente una qualche preghiera,pur sapendo che nessun Dio ci avrebbe mai aiutati. Il problema dell’avvicinarsi ad una città grande e caotica come New York,era che avevamo abbandonato definitivamente i boschi che ci avevano accompagnato dolcemente sino a poco prima,e avevamo cominciato a vedere all’orizzonte una fila infinita di macchine ferme. Come immaginavo,la strada era impraticabile.

«Che si fa?» domandai a Noah,che aveva rallentato sino quasi a fermarsi.

Il suo viso era contratto ed i suoi occhi studiavano quel che gli si trovava davanti. La fronte corrugata non si rilassò nemmeno per un istante,nemmeno quando i miei occhi si soffermarono per lunghi secondi sulle pieghe di pelle che rendevano il suo viso simile ad un pezzo di carta accartocciato e poi riaperto.

«Non ne ho idea» rispose debolmente,con gli occhi sgranati.

«Potremmo abbandonare la macchina qui e proseguire a piedi,ma sarebbe da incoscienti. Oppure potremmo proseguire nell’altra corsia fino a che la strada ce lo permetta».

«No,» disse scuotendo la testa «non lasceremo la macchina qui. Non se ne parla. Saranno più di dieci chilometri e impiegheremmo troppo tempo camminando. E’ troppo rischioso e mia madre non ce la farebbe».

«Parla per te!» rispose la donna tempestivamente,sentitasi offesa.

Io e Noah sorridemmo.

«Fino a che possiamo,procederemo nell’altra corsia,» continuò subito dopo «poi ci penso io. Cominciate a scaldarvi i muscoli delle gambe,ci aspetta un bel casino».

Sentii una vampata di agitazione scatenarmisi nel petto ed agitarmi lo stomaco in un vortice pieno di preoccupazione. Respirai profondamente,chiusi gli occhi,e cercai di azzittire le domande in merito a quel “ci penso io”.

                                                                                                                          *

«Vedi a che serve saper rubare una macchina,mamma?» disse il ragazzo con un mezzo sorriso,sfregando di nuovo i fili elettrici tra di loro.

«Ma guarda tu che delinquente di un figlio che mi è toccato!» rispose la donna con tono ironico,osservando il figlio all’opera.

«Un delinquente che sa essere utile» ribatté il ragazzo,facendole teatralmente l’occhiolino.

Avevamo proseguito per qualche altro chilometro nell’altra corsia senza avere problemi,poi,però,eravamo rimasti bloccati in un ingorgo che chiudeva completamente la strada. Eravamo scesi,ci eravamo messi sulle spalle i tre zaini colmi di beni primari,ed avevamo impugnato le nostre armi. Avevamo abbandonato la macchina,ma non era nostra intenzione raggiungere la città con la sola forza delle nostre gambe. Avevamo seguito la fila della corsia di ritorno (l’unica che poteva esser definita praticabile),sino a che non avevamo trovato una fine a quel susseguirsi di vetture polverose,sul quale metallo si rispecchiavano i nostri riflessi luminosi. Durante quella corsa angosciante e silenziosa avevamo incontrato ben cinque mostri che gironzolavano in strada in cerca di cibo,per non parlare di tutti quelli che erano rimasti bloccati nelle auto,tenuti a freno solamente da delle cinture di sicurezza. Stupidi. Non avevano la capacità di movimento necessaria per liberarsi e se ne stavano sui sedili,lamentandosi,agitando le braccia cadaveriche,con quel pezzo di stoffa nera che li teneva lontani da noi. Giunti in capo alla fila,dopo aver percorso diverse centinaia di metri,Noah aveva adocchiato una bmw nera e luccicante,che pareva esser perfetta per noi. Lo sportello dalla parte del guidatore era spalancato e quindi non era stato necessario neppure spaccare il finestrino.

«Non è il mio genere,ma andrà più che bene» affermò Noah con un sorrisetto soddisfatto non appena partì il motore.

«Sta’ zitto,che sennò ti do un ceffone!» lo rimproverò la madre, con una finta occhiataccia e gli angoli della bocca piegati all’insù.

Era bello sapere che in quella brutta situazione c’era ancora un motivo per ridere o sorridere,ma non c’era tempo da perdere. Salimmo tutti in macchina,Puckerman al posto del guidatore ed io al suo fianco,come sempre. Non era facile guidare in quel disastro : perdevamo tempo a superare vetture lasciate in mezzo alla strada,e di tanto in tanto gli affamati spuntavano dal nulla e noi li osservavamo attraverso il vetro scuro dell’automobile. Non erano un pericolo finché la macchina era in movimento,ed era quello il vero problema : evitare che si fermasse. Percorremmo un altro chilometro,poi un altro,poi un altro ancora. Per un bel tratto di strada avemmo vita semplice,e dentro di me pregavo che quel sollievo non svanisse e non fosse rimpiazzato di nuovo dalla paura o dal panico.

«Tutto ok,Lucas?» chiesi a mio fratello,voltandomi verso di lui.

Aveva ancora la fasciatura improvvisata a sorreggergli il braccio,ma il dolore andava diminuendo con il passare del tempo. La fronte era velata dal sudore che quell’aria umida e calda creava con facilità. Gli occhi verde scuro erano seri e leggermente socchiusi,i capelli corti e ricci incorniciavano quel viso dall’espressione rigida,quasi severa. Restai per un attimo a guardarlo : Dio,in quel modo sembrava un uomo,non un ragazzo. Lui ricambiò il mio sguardo,accennò un debole sorriso e sospirò.

«Tutto ok» disse con voce ferma.

Analizzai per un istante la sua espressione,i piccoli movimenti del volto,e decisi che forse non stava mentendo. Era tutto ok,per quanto potesse esserlo…

«Ci siamo quasi,ma c’è un problema» avvisò Noah,costringendomi a voltarmi davanti.

Guardai dritto di fronte a me. Sì,c’era un problema. Dall’Holland Tunnel traboccava un groviglio di macchine che non ci avrebbe permesso di proseguire. Chiusi gli occhi ed inspirai ; quell’immagine aveva aumentato consistentemente l’angoscia che avevo provato per l’ultima parte del viaggio.

«Che si fa?»

Puckerman storse la bocca e mi guardò. Aveva in mente qualcosa,ma dalla sua espressione dedussi che non dovesse essere la cosa più sicura del mondo.

«Andiamo a dare un’occhiata io e te,a piedi. Lasciamo l’auto qui e vediamo se è possibile fare la stessa cosa di prima. Ci stai?» mi chiese deciso,guardandomi negli occhi.

Avevo forse scelta?

Scesi dalla vettura con il coltello in mano e la stessa cosa fece Noah ; lasciammo il fucile a sua madre. Ci incamminammo nel tunnel,ed immediatamente avvertii il panico salire dallo stomaco fino ad espandersi alle gambe,le braccia,le mani,e poi salire su fino a prendere il possesso dell’elemento più importante : la testa. Tremavo un po'. Io e Puckerman camminammo per qualche metro sull’asfalto buio,toccando con il busto le macchine per la quale ci trovavamo lì,in quel momento. Le luci della galleria erano spente e l’unico bagliore che entrava era quello all'inizio e alla fine di quella lunga costruzione di cemento.

«Se sono nei dintorni dovre…»

«Shhh!» mi azzittì Noah,portandosi un dito sulla bocca.

Tenevo il coltello saldamente,il braccio teso e pronto ad ogni tipo di scatto rapido ed improvviso,e l’immancabile adrenalina a farmi compagnia. Sangue freddo,mi ripetei cercando di scorgere nel buio che si faceva a mano a mano sempre più fitto. Sentivo il respiro affannoso di Noah davanti a me e intravedevo le sue spalle e la sua nuca che erano illuminate dal debole riflesso della luce del giorno. Era pericoloso ; non riuscivo a togliermi quella parola dalla testa. Pericoloso. Pericoloso. Pericoloso.

«Cazzo!» sbottò Noah,sussultando.

Un lamento si scatenò da sotto una delle vetture affianco alla quale era Puckerman. Il mio cuore aveva preso a battere con la stessa velocità dello sbattere delle ali di un uccellino,e il respiro si era fatto corto,se non quasi inesistente.

«Questo stronzo se ne stava in silenzio e mi ha afferrato la caviglia».

I lamenti si levavano e riempivano quel silenzio che misto al buio creava un’atmosfera a dir poco lugubre. Strinsi la presa sul coltello e mi chinai affianco alla vettura.

«Ci pensi tu?» chiese Noah,osservando le braccia che si agitavano innaturalmente.

«Sì!»

Riempii i polmoni d’aria,e lasciai che i muscoli già tesi del braccio, entrassero in funzione. Aspettavano solo quello ; erano rapidi e pronti ad eseguire un gesto che stranamente sentivo già familiare. La converse sul petto dell’affamato,poi un altro respiro,un altro ancora,trattenni il fiato ed infilai il coltello in un occhio del mostro.

«Gli ho preso un occhio…che schifo!»

Ci fu di nuovo silenzio.

«Se pensi che quell’occhio gli sarebbe servito per guardarci e farci a pezzi,forse proveresti un senso di soddisfazione maggiore,mmh?» disse sarcastico in un sussurro.

«Fa ugualmente schifo!»

Qualche altro metro e la vista divenne un senso decisamente inutile in quel buio pesto. La cosa mi spaventava davvero. E se c’erano dei mostri che non avrebbero emesso alcun lamento?Saremmo potuti essere sbranati da un momento all’altro. Continuavamo a camminare,ignorando la nostra paura,ignorando la voce della sopravvivenza che ci ordinava di tornare indietro,e mano a mano ci addentravamo sempre di più in quel tunnel infinito. Eravamo alla ricerca della macchina all’inizio della fila,ma se la fila non fosse finita lì,ma chilometri più avanti?Un altro pensiero che si presentava costantemente nella mia testa era quello di Lucas e la signora Puckerman soli in quella macchina. E se fossimo stati noi quelli al sicuro,e loro quelli in pericolo?No,quella situazione non mi piaceva.

«Troveremo un altro modo,dai. Torniamo indietro» dissi a Noah un po’ troppo ad alta voce.

«Forse è il caso».

Giusto il tempo di voltarci e poi...

«Hai sentito?» chiese Noah in un sussurro.

Persino il mio respiro si fece meno rumoroso ; mi immobilizzai e tesi le orecchie ad ascoltare. Dei lamenti improvvisi e rumorosi si scatenarono all’unisono,tutti con lo stesso tono denso e graffiante a riempire le pareti nella quale eravamo intrappolati. Socchiusi gli occhi nel tentativo di scorgere nel buio,ma non vedevo nulla. Senza che me ne fossi resa conto,ero tornata a sentire il suono del mio respiro e quello di Noah.

«Via,via!» esclamò Puckerman,cominciando a correre.

Seguivamo il sentiero immaginario che i nostri occhi creavano nell’oscurità. Il passo era veloce,simile ad una corsa che si muniva di un unico senso : il tatto. Sfioravo le macchine con i palmi delle mani e sentivo la polvere incollarsi sulla mia pelle sudata. I versi erano presenti,ma mano a mano sempre più lontani. Quando la luce tornò ad illuminarci,sentii i miei polmoni tornare a riempirsi. Non mi ero accorta che stessi trattenendo il fiato. Strizzai gli occhi per un po’ ; la luce solare mi dava fastidio. Il suono di quelle creature non era cessato e continuava ad avvicinarsi,spingendoci a correre di nuovo,in direzione della macchina.

«Dobbiamo andare via!» urlai a Noah,quando la prima di quelle teste cadaveriche spuntò fuori dal tunnel.

Prima una,poi la seconda,poi la terza,la quinta,la decima,la…persi il conto. Ce ne erano a decine e il mio sguardo si perdeva sui loro corpi in movimento,mentre il cuore cominciava a battere all’impazzata. Forse era la mia impressione,ma per un momento mi sembrò che il loro passo cominciasse ad aumentare. Forse non era la mia impressione e le loro gambe avevano preso ad accelerare perché finalmente avevano trovato qualcosa per cui valesse la pena camminare : cibo. Quando Noah aprì lo sportello e s’infilò dentro la macchina,io ancora stavo addosso al metallo freddo della bmw ad osservare la scena. Non era la prima volta che mi fermavo nella speranza che il tempo si fermasse ; era come se la mia mente ed ogni fibra del mio corpo avesse il bisogno di accertarsi che la vista non si stesse sbagliando. Non sarebbero scomparsi improvvisamente,eppure continuavo a guardarli,restando meravigliata ad ogni loro movimento del fatto che quell’incubo fosse reale.

«Muoviti,entra!» mi gridò Puckerman.

Mi distolsi da quella sorta di trance e filai dentro la vettura,spostando gli occhi da quella massa goffa e mostruosa che si faceva sempre più vicina.

«Rigiriamo ed andiamo via» suggerii al ragazzo con la voce piena di panico.

Lui scosse la testa «non c’è spazio per fare manovra. Siamo circondati».

Quando osservai attraverso i vetri scuri,capii che aveva ragione. Noah fece retromarcia velocemente e guadagnammo una decina di metri,che piano piano venivano strappati dal nostro possesso. Eravamo in trappola.

«Continua la retromarcia!» urlò mio fratello.

Il viso preoccupato di Puckerman si fece ancora più serio e rigido. L’auto indietreggio di un paio di metri,e poi il suo piede affondò sull’acceleratore. Il tonfo dei corpi sotto alla vettura mi fecero sussultare di volta in volta e allo stesso tempo tirare un sospiro di sollievo. Ma erano troppi e nel momento in cui la macchina cercò di farsi spazio sull’asfalto,quelli cominciarono a picchiare sui finestrini e sul cofano,assordendoci con i loro lamenti soffocanti. Il viso sfigurato di una creatura si incollò al vetro scuro alla mia destra,e così fecero altri tre che mi scrutavano con quel loro sguardo famelico. Forse erano venti,forse di più o anche di meno. L’unica cosa che ero in grado di vedere era la nostra fine che si presentava imminente,picchiando su una bmw rubata.

«Romperanno i vetri!» gridai con il cuore in gola.

Mi voltai verso Noah e notai qualcosa di diverso nel suo viso : si era arreso. Non aveva più quel pizzico di determinazione che non l’aveva mai abbandonato dal momento del nostro incontro,né il barlume di speranza misto alla tristezza che aveva accompagnato da sempre il suo sguardo. Scuoteva semplicemente la testa,con il piede fermo sul pedale,e stringeva i denti come se qualcuno stesse attuando una tortura interiore su di lui. Mi voltai verso Lucas e strinsi la sua mano tremolante nella mia che non trovava la forza per avvolgerla a dovere. Accarezzai il dorso di questa con il pollice,e sussurrai un «andrà tutto bene»,pur sapendo che fosse una bugia.

«Stiamo per morire,non è così?» mi chiese mio fratello mentre una lacrima scendeva giù.

Scossi la testa. Come potevo mentire,se il parabrezza della vettura si frantumava lentamente sotto i colpi di quei mostri?Come potevo mentirgli se a poco meno di un metro una creatura urlava la sua fame pretendendoci?Volevo che la sua speranza non sarebbe morta con lui,e che lui non sarebbe morto privo di speranza. Eravamo sopravvissuti tre giorni,giorni in cui avevamo pianto e convissuto con la nostra sofferenza che aveva avuto il sapore delle lacrime. Giorni che non erano bastati a colmare quella che sarebbe dovuta essere una vita intera,giorni che non potevano cancellare il rimpianto del vissuto. L’amaro sulla lingua assieme al salato,la mente persa nei ricordi e nelle immagini fatte di fantasia che alimentavano le ferite nel petto. Ma tutto quello,tutto quello non poteva finire così miseramente. Saremmo stati i tanti fatti a pezzi da quell’incubo,ma non saremmo stati fatti a pezzi senza aver desiderato di continuare a vivere. Io volevo continuare a vivere,anche se mi ero ripetuta che non c’era più vita che valesse la pena di respirare. Avevo ancora bisogno di lottare per un qualcosa,avevo bisogno di vedere mio fratello tornare a sorridere.

«Ehi,basta piangere.» sussurrai sul viso bagnato e contratto di Lucas «Me lo fai un sorriso,mmh?»

Mio fratello mi guardò sorpreso «ma come..»

«Shh» lo interruppi «fammi solo un sorriso,per favore».

Quando quelle labbra scure si schiusero a forza,le mie lacrime cominciarono a scendere ininterrottamente. Mi voltai prima che Lucas potesse vedere un’altra lacrima gocciare a terra,e prima che la mia espressione si perdesse nel dolore che provavo in quel momento.

«Mamma,il fucile» disse Noah,continuando a guardare i pugni che si infrangevano contro il vetro.

«Che vuoi fare?» chiese la donna con un filo di voce.

Noah sospirò,ma nemmeno il suo sospiro colmo di disperazione sarebbe stato in grado di sovrastare i lamenti dei mostri lì fuori.

«E’ arrivato il momento» disse semplicemente,con una finta calma.

Sgranai gli occhi. Avevo capito.

«Non se ne parla!» esclamai immediatamente.

Un altro pugno aumentò la crepa sul vetro.

Noah si girò e mi guardò con le lacrime agli occhi «non sarò divorato mentre sono ancora vivo!Non gli permetterò di torturarmi lentamente!Non lo farò!»

Un’altra lacrima mi colò lungo lo zigomo,fino a carezzarmi la mascella. Che cosa potevo fare?

«No…» biascicai disperata.

Qualcosa distolse all’improvviso il mio sguardo dagli occhi di Puckerman. Un rumore : il rumore di uno sportello aprirsi.

«Ferma!» strillò Lucas con la voce così piena di panico da non sembrare nemmeno la sua.

«Mamma!» gridò Noah con gli occhi talmente sgranati,da assomigliare a due biglie di vetro dalla forma perfettamente rotonda.

La donna era già fuori,sull’asfalto,sovrastata da quelle decine di esseri che la divoravano e le facevano esplodere le più terribili urla dalla gola.

«No!No!No!Mamma!» strillò Puckerman in lacrime,disperato,colpendo il volante ripetutamente.

Ero scioccata. Era successo tutto così velocemente,che nemmeno sembrava reale. Era tutto così assurdo,che persino i più terribili incubi fatti in vita mia,sembravano l’immagine del più dolce paradiso. La donna si era sacrificata per noi. Continuavo a ripetermelo,eppure non riuscivo a metabolizzare l’accaduto o a smuovermi da quella paralisi che presto mi avrebbe potuta portare alla morte.

«Dobbiamo uscire dalla macchina e andarcene!»

Noah non si muoveva.

«Dobbiamo andarcene!» urlai di nuovo,scuotendolo per un braccio.

«No…» biascicò lui.

«Vuoi che tua madre si sia sacrificata per niente?!Vuoi che abbia rinunciato alla sua vita per vederti morire straziato?!»

Scosse un’ultima volta la testa,tra le lacrime,poi aprì lo sportello ed io lo seguì,così come lo seguì Lucas che non proferiva più parola. Gli affamati erano tutti sul cadavere della signora Puckerman e di fronte a noi tornava ad esserci quel tunnel scuro,questa volta vuoto.

Io e Lucas,che impugnava il fucile,correvamo per immergerci nell’oscurità,ma Noah camminava con lo sguardo vuoto.

«Tieni» disse mio fratello porgendo l’arma al ragazzo.

Lui la prese silenziosamente,ed in un attimo fummo inglobati da quelle mura claustrofobiche e chissà quanto infinitamente lunghe. Mentre il buio mi si appiccicava sulla pelle con prepotenza,una domanda si fece spazio nella mia mente,acquisendo una priorità assoluta. La domanda era : fin dove possiamo spingerci per proteggere le persone che amiamo? Posi una mano sulla spalla di Lucas,e lui mi circondò con un braccio. La mia risposta era : lontano,molto lontano. Avrei fatto di tutto per proteggerlo,avrei fatto di tutto per proteggere quella che ormai era la mia nuova famiglia.


Salve gente!Ed eccoci qui con un nuovo ed intenso capitolo. Comincio innanzitutto ringraziandovi,ringraziando tutti coloro che hanno deciso di seguire la storia e di recensirla. Davvero,la vostra fiducia in me è una cosa che mi rende particolarmente entusiasta e felice. Poi,passo a commentare brevemente questo capitolo che probabilmente è il più lungo che abbia mai pubblicato sino ad ora.

Si sa che prima che il sole sorga,il cielo è avvolto dall'oscurità. Il tunnel dell'orrore , è la nostra oscurità. Quando per i nostri tre protagonisti le cose sembrano mettersi per il meglio,si scatena una catastrofe. La povera signora Puckerman ha dato la sua vita per salvare suo figlio e i fratelli Lopez,e questo le fa onore. Povera... 

Comunque vi avviso : il prossimo capitolo sarà davvero,ma davvero lungo ed impegnativo. Mi si è fuso il cervello nello scriverlo,ed è "quel capitolo". Non so se avete capito cosa intendo...beh,spero di si.

Dunque,con la speranza che abbiate gradito questa mia piccola creazione,vi aspetto nelle recensioni per rispondere a delle vostre eventuali domande,o per leggere semplicemente i vostri pareri. Ditemi tutto,non aspetto altro! 

Alla prossima,gente!E quella "prossima" sarà ricca di novità...

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Numero nove ***


BETWEEN THE HUNGRY

Numero nove .

«Ehi…come va?» chiesi al ragazzo che camminava a passo svelto,con lo sguardo dritto di fronte a sé.

L’oscurità ci accompagnava ormai da lunghi ed interminabili minuti. In quell’aria afosa e irrespirabile,il senso di essere intrappolati in una lunga e stretta gabbia di cemento non faceva altro che crescere. Forse avevamo percorso poco più di un paio di chilometri,e seppur non fosse molto che i nostri piedi si muovessero su quell’asfalto buio,sentivo già che la vista cominciava ad abituarsi all’invisibilità delle cose che si mostravano solamente grazie al tatto. Lucas ed io ci tenevamo mano nella mano. Era un modo per non perderci,ma anche un modo per rassicurarci con il semplice contatto. Noah invece camminava solitario. Dal rumore dei passi forse distava qualche metro da noi,e avrei giurato che stesse piangendo dal suono strozzato dei suoi respiri.

«Noah,» lo chiamai con la vaga speranza che si sarebbe fermato «come va?» ripetei.

Il rumore dei passi non cessò neppure un istante,né ricevetti alcuna risposta.

Strinsi la presa sulla mano di Lucas ed aumentai il passo per raggiungere il ragazzo che ci stava di fronte. Quando mi ritrovai al suo fianco,con la sua stessa andatura,gli poggiai una mano sulla spalla.

«Vuoi rispondermi?!» sbottai alterata.

Finalmente si fermò.

Non potevamo guardarci negli occhi,né studiare le nostre espressioni a vicenda. Il buio annullava anche la capacità di intuire gli stati d’animo altrui. Avevo bisogno di capire se quegli occhi verdi fossero freddi e decisi,oppure pieni di lacrime e socchiusi da un’incontenibile tristezza. Ce ne restammo lì,fermi,per una decina di secondi,ad assaporare l’odore dell’aria densa e carica di un’elettricità che sapeva di morte. Feci un grosso respiro,qualche passo verso quella figura di cui non vedevo neppure la sagoma,e poi chiusi gli occhi. Sentivo il dolore di Noah mischiarsi col mio ; lo sentivo riempirmi il cuore e venire pompato nelle vene come fosse stato il veleno micidiale del morso di un serpente. Quel dolore mordeva,divorava,e il suono del mio respiro si faceva mano a mano più sonoro. Quando riaprii gli occhi mi accorsi che stavo ansimando,e mi portai una mano sulla fronte ad asciugare una goccia di sudore.

«Tua madre è stata la donna più coraggiosa che io abbia mai conosciuto.» sussurrai mentre una lacrima percorreva lenta il mio viso «Ci ha salvati…ha salvato tutti noi. So quanto fa male,lo so bene…ma per andare avanti devi lasciare che le emozioni ti scivolino addosso. Devi…devi ignorare quel dolore,devi cancellare la sua immagine,dimenticare il suono della sua voce,perché se non lo fai…allora il dolore e la rabbia ti renderanno suo schiavo e ti distruggeranno senza che tu nemmeno te ne accorga.» altre lacrime a mischiarsi al sudore sul viso,ed un vago ricordo che lentamente si faceva spazio nella mia mente «Sei forte Noah,e questo lo sai,ma adesso devi concentrarti sull’uscita di questo tunnel. Avrai tempo per piangere tua madre,ma ora…ora dobbiamo uscire di qui,ad ogni costo».

La mano di Lucas si strinse meglio attorno alla mia,come se silenziosamente avesse voluto elogiarmi per le mie parole o avesse voluto dimostrare il suo rispetto verso la mia persona. In un attimo sentii solo i singhiozzi di Noah,e mi concentrai su questi. Forse avrebbe voluto rispondermi,magari ringraziarmi,ma tutto quel che riusciva a fare in quel momento era piangere,lasciare che quelle emozioni e quel brutto ricordo scivolassero via con quelle lacrime piene di sofferenza. Lo capivo…Dio,se lo capivo. In tre giorni pareva avessimo vissuto un’altra vita,e lentamente ogni punto di forza alla quale da sempre ci eravamo aggrappati,ci abbandonava per lasciarci soli a noi stessi. Rivolevo anch’io mia madre,la rivolevo con ogni parte del mio corpo,così come rivolevo mio padre e Josh. Rivolevo i sorrisi della prima,gli abbracci del secondo,e i baci del terzo. Li rivolevo con me perché era giusto che ci fossero,perché l’unica ingiustizia in quel nuovo mondo era quella finta vita mostruosa che ci strappava lentamente ogni briciola di umanità. Li rivolevo perché non ero mai stata pronta per dirgli addio,perché non era stato giusto il modo in cui se ne erano andati e il modo in cui mi avevano lasciata. Li rivolevo per proteggerli e li rivolevo per lasciarmi rassicurare dai loro gesti semplici nei momenti in cui avrei voluto smettere di lottare e abbandonarmi alla follia di quella nuova vita. Li rivolevo,li rivolevo ad ogni costo,eppure sapevo che non c’era più spazio per loro in quel disastro. Le loro figure buone e dolci,la loro essenza pura e ormai vana,sarebbe stata inadeguata in quel feroce sogno dai versi graffianti,simili a quei gemiti che si erano stampati nella mia mente. Li rivolevo con me così tanto

Quando Lucas mi strattonò a sé,e tornai ad ascoltare e a camminare,capii che il momento delle emozioni era appena terminato. Noah aveva ricominciato a camminare,e così anche noi. Dovevo lasciarmi alle spalle immagini e ricordi e , senza neppure rendermene conto , era quel che stavo facendo. Ad ogni passo,un ricordo vivace ed asfissiante scivolava dietro le mie spalle senza neppure reclamare. Era giusto così. Non mi restava altro che camminare,camminare e stringere più forte la mano di mio fratello.

                                                                                                                            *

Non era facile restare concentrati quando attorno a te non c’è altro che l’incertezza del buio o quando qualunque rumore ti fa sussultare e ti ferma un respiro in gola. I minuti passavano veloci,incontrollati e furiosi nel silenzio. Quanto ancora avevamo da percorrere?Quanto altro tempo saremmo rimasti bloccati in quel tunnel angosciante?Sentivo la tensione scorrermi nelle vene,ed i nervi che fino ad allora erano stati saldi,cedere lentamente per la stanchezza. Non sapevo quanto altro tempo avrei resistito,ma sentivo il momento della mia resa sempre più vicino.

«San,» mi chiamò mio fratello con un filo di voce «possiamo fermarci?»

Istintivamente i miei piedi smisero di muoversi .

«Noah?»

«Solo un paio di minuti» rispose lui con apparente distacco.

Aveva la voce ferma,quasi gelida. Sembrava quella di un soldato alla quale era stata affidata una missione di vitale importanza e che non aveva alcuna intenzione di farsi trascinare al fallimento da distrazioni varie. Era concentrato,concentrato nel modo in cui sarei dovuta essere anch’io.

«D’accordo. Lucas,sediamoci a terra».

L’asfalto freddo sembrò nei primi secondi darmi una sensazione simile al sollievo. Se quel buio non avesse potuto nascondere dei pericoli,l’atmosfera sarebbe potuta essere piacevolmente rilassante. Avrei chiuso gli occhi,inspirato profondamente,immaginando di non essere intrappolata all’interno di delle mura,e mi sarei concentrata sul calore che andava svanendo grazie al cemento che mi rinfrescava la pelle. Mi passai una mano sulla fronte ed avvertii qualche goccia di sudore spandersi sui miei polpastrelli. Sudavo sia per il caldo asfissiante,sia per tutta l’agitazione che quella situazione aveva creato. Stavo per chiudere gli occhi,ero tentata…ma poi una luce fioca attirò la mia attenzione. Da dietro la fiamma intravedevo i lineamenti di Noah…ero confusa…era un accendino?Teneva in mano un accendino?

Scattai da terra in una frazione di secondo,a denti stretti. Corsi verso la fonte della fiamma,e mi fermai a poche centimetri da quel debole calore.

«Avevi un accendino con te e hai deciso di usarlo solo ora?!» sbottai alterata.

I suoi occhi arrossati si socchiusero.

«Pensi che se l’avessi acceso prima,il gas avrebbe retto per l’intero tunnel?» rispose lui duro,con le sopracciglia aggrottate e il viso contratto.

«Avresti almeno potuto dirlo,no?»

«Non necessariamente» controbatté lui secco.

Scossi la testa contrariata e bofonchiai un “stronzo”. Mi rendevo conto che avesse appena perso sua madre,che fosse arrabbiato,triste,disperato e che magari non avesse avuto tutti i torti sul fatto dell’accendino,ma il suo comportamento cominciava a darmi sui nervi.

Lui si voltò,mi diede le spalle e si allontanò diretto verso chissà dove.

«Dove vai?» chiesi all’oscurità.

«Cerco una macchina,fareste meglio a seguirmi».

Storsi la bocca per il disappunto,poi tirai su mio fratello con una mano,e sempre stringendola,ci rincamminammo dietro quel bagliore fioco che si allontanava velocemente.

«Ma non potrebbe rallentare?» mi chiese mio fratello.

Scossi semplicemente la testa. Lucas sapeva quanto fossi in disaccordo con il modo di fare che Noah aveva adottato,e sapeva anche il motivo del mio silenzio. Era meglio seguirlo senza fare troppe domande o rimbeccargli aspetti del suo comportamento. Quando avemmo percorso qualche centinaia di metri,finalmente la luce si fermò.

«Trovato qualcosa?» chiesi,nella speranza di una risposta positiva.

Noah non rispose. Si sentì il rumore di uno scatto,e poi un cigolio. La fiamma illuminò lo sportello aperto di una vettura abbandonata,e Noah si voltò a guardarmi.

«Forse sì. Vieni a darmi una mano,provo a far funzionare questa vecchia Mercedes».

Obbedii all’istante.

«Tieni la fiamma sotto il volante» mi disse,tirando fuori il coltello dalla cinta dei pantaloni.

Afferrai l’accendino ed eseguii i suoi ordini. Forse era arrivato il momento di uscire da quell’inferno…

«Abbassalo un pochino» mi suggerì.

 Porsi la fiamma più in basso di una decina di centimetri.

«Perfetto» disse,osservando i fili fuoriusciti dal cuore della vettura.

Pochi secondi ed il rumore del motore ruppe il silenzio che si era creato. Subito una risata mi esplose dalla gola ed un sorriso illuminò il viso di Noah.

«Sì!» esclamò felice mio fratello.

«E bravo Puckermann!» mi complimentai,ancora sorridendo.

Il ragazzo si sedette sul sedile del guidatore,e poi disse «Tutti a bordo!Vediamo di uscire da questo schifo di tunnel...non so voi,ma io mi sono stancato di questo buio!»

Senza farcelo ripetere due volte,io e Lucas salimmo in macchina. Noah accese i fari,schiacciò sul pedale dell’acceleratore,e finalmente quell’oscurità venne spezzata. Non avremmo impiegato molto ad uscire da quel tunnel con la macchina. Ce l’avremmo fatta. New York ci stava aspettando.

                                                                                                                       *

Quando vidi un cerchio di luce all’orizzonte lasciar penetrare qualche debole raggio all’interno del tunnel,mi venne da ridere. Vedere un semplice bagliore naturale dopo la bellezza di mezz’ora trascorsa nell’oscurità,mi diede un sollievo mai provato. Stavamo uscendo,stavamo uscendo! Non riuscivo quasi a crederci. La vettura fu inondata in breve da un calore che mi pervase fin dentro le ossa,lentamente. Chiusi gli occhi,inspirai l’aria che entrava dalla fessura del finestrino,e schiusi le labbra in un sorriso spontaneo e sincero. Quando riaprii gli occhi per la fretta di tornare  a vedere,rimasi per un istante accecata. I miei occhi si erano abituati alla tenebra e quell’improvviso bagliore mi costrinse,per i primi secondi, a socchiuderli controvoglia. Non importava se mi bruciassero gli occhi o se a stento fossi in grado di tenerli aperti in due minuscole fessure. Non importava nient’altro che non fosse l’uscita da quel tunnel dell’orrore.

«Siamo fuori!» esclamò Noah con euforia.

«Ce l’abbiamo fatta!Qual è il prossimo passo?»

Finalmente tornai a vedere nitidamente. Una lacrima mi colò dall’occhio sinistro,e la portai via con l’indice. Sentivo una strana sensazione pervadermi…era forse un pizzico di felicità?Tentennavo all’ammettere a me stessa di provare un’emozione di entusiasmo,ma era così. Gettai lo sguardo fuori dal finestrino,e mi lasciai trascinare lontano da quella città che poco prima del caos avevo sognato di raggiungere. C’erano dei grandi e grigi palazzi,qualche grattacielo qua e là che solleticava l’azzurro terso e cristallino,e insegne di ogni tipo ad avvisare degli incredibili negozi di cui il posto aveva vanto. Era la città dei sogni,la città dei ricchi,dei figli di papà che se la spassavano con le loro paghette abbondanti nei locali più in voga del momento. Era la città in cui anche per andare a fare la spesa bisogna sfoggiare vestiti dai grandi marchi,oppure fingere che un abito mediocre fosse stato pagato tanto quanto un affitto di mesi a Lima. Era sì la città della superficialità,ma anche la città dello spettacolo,o almeno era questo quel che avevo appreso dai film e telefilm che durante le mie serate passate in casa avevo guardato. Eppure,se andavo oltre quelle insegne o quei grattacieli che attiravano la mia attenzione,tutto quel che riuscivo a vedere erano le strade bloccate da un groviglio di automobili,l’asfalto chiazzato qua e là da del sangue scuro e secco,fogli svolazzanti a terra,vetrine distrutte dalla parte anteriore di una macchina schiantatasi dentro il negozio,affamati senza arti che si trascinavano gemendo sui marciapiedi segnati di rosso,o altri che giravano nei loro vestiti ridotti a brandelli in cerca di cibo nella loro città. A guardarlo meglio,il cielo non era affatto terso e cristallino,ma di un grigio malato,come se un vortice distruttore l’avesse risucchiato assieme alla luce che da sempre l’aveva illuminato.

«Raggiungere la 5th Ave…il mio amico abita in uno di quei palazzi. Non è molta strada,forse sono un paio di chilometri da dove siamo ora. Possiamo farcela» affermò poi,con sicurezza.

Lo pensavo anch’io. Potevamo farcela ; non tutto era perduto. Eravamo partiti un giorno prima da una città dell’Ohio ed avevamo percorso la bellezza di novecentocinquantatre chilometri in macchina,anzi,nelle macchine. Eravamo sfuggiti all’orda di affamati che si aggirava per i quartieri di Lima in cerca di cibo,eravamo sopravvissuti all’intero viaggio durato parecchio ore,ed eravamo scampati ad un’altra orda all’entrata dell’Holland Tunnel. Certo,era pur vero che avevamo affrontato tutto ciò non senza incorrere in pericoli,o senza perdere persone a noi care,ma ce l’avevamo fatta e percepivo quello strambo traguardo come un’assurda pretesa del destino. Non era ancora il momento per dirci addio,me lo sentivo. Trovato il ragazzo che cercava Noah,ce ne saremmo andati da quella città,che ormai non era altro che l’esempio della fine del mondo a noi familiare, e avremmo pensato a dove rifugiarci per continuare a sopravvivere.

«Faremmo meglio a sbrigarci» suggerì mio fratello con la voce smossa dalla preoccupazione.

Smisi di sognare e guardai dritto di fronte a me. Nel bel mezzo della strada c’era un incidente. Tre macchine,l’una schiacciata contro l’altra, bloccavano la strada e creavano un ingorgo di vetture ferme,abbandonate nella fila. Ma non era quello il problema peggiore,no di certo. Decine di affamati si muovevano con quel loro equilibrio instabile,all’inseguimento di qualcosa che quel groviglio di lamiere non mi permetteva di vedere.

«Cazzo» sbottai allarmata «e adesso?»

Noah mi guardò con quello sguardo serio e determinato,che ormai avevo imparato a conoscere,e con voce ferma disse un semplice «ci sposteremo a piedi».

Aprì lo sportello lentamente,lo richiuse,prese dalla sua cintura il coltello sporco di sangue,ed agganciò saldamente il fucile con un braccio. Noi lo seguimmo a ruota,sempre attenti a non fare troppo rumore.

«Sembrano attratti da qualcosa» sussurrò Puckermann «ma da qui non riesco a capire cosa. Forse è una persona o…o un animale. Comunque sono distratti,cerchiamo strade alternative e vediamo di raggiungere quel maledetto palazzo».

Io e Lucas annuimmo.

«Statemi dietro e non fate rumore».

Annuimmo di nuovo.

Nel momento stesso in cui cominciammo ad incamminarci,sentimmo delle grida in lontanza.

«No!Per favore!Qualcuno mi aiuti!Aiuto!»

Noah si voltò a guardarmi,ed io incrociai i suoi occhi per un istante. Era quella la distrazione : un ragazzino, la voce di un ragazzino fragile ed indifeso che avrà avuto al massimo diciassette anni. Sarebbe potuto essere mio fratello…mi si strinse il cuore a quel pensiero.

«Dobbiamo andare ad aiutarlo» dissi a Puckermann,che ancora mi guardava.

Lui scosse immediatamente la testa «non se ne parla!Come pensi che ci riusciremmo?Lo stanno inseguendo almeno cinquanta affamati!»

Strinsi il pugno «ma non possiamo lasciarlo morire così!» obbiettai disperata.

«Preferisci che ci sia tuo fratello a morire con lui?O me e te?Non possiamo salvarlo,Santana!Potrebbe essere stato morso o ferito,sarebbe solo d’intralcio…è la nostra distrazione!Se possiamo spostarci per qualche minuto senza doverci guardare le spalle è solo perché lui sta fuggendo…lo capisci?»

Lo guardai con gli occhi pieni di lacrime,spenti,e allo stesso tempo colmi di angoscia. Lui se ne stava freddo a guardarmi,impassibile e intoccabile dalle emozioni,proprio come quel soldato che mi aveva ricordato all’interno del tunnel. Liberai la mano dal pugno e guardai a terra,forse per paura del suo sguardo o perché non volevo vedere oltre nei suoi occhi. Quel ragazzo sarebbe morto…mio fratello avrebbe potuto trovarsi al posto suo,e sarebbe morto.

«E’ questa la realtà adesso. Lo so che ti sembrerò disgustosamente cinico,ma è così che vanno le cose. Se hai fortuna e non hai paura di uccidere,sopravvivi,altrimenti…»

Alzai lo sguardo,ignorando una lacrima «altrimenti vieni fatto a pezzi e nessuno si curerà della tua vita».

Lui scosse la testa,sembrò voler dire qualcosa,forse una giustificazione,ma poi semplicemente si voltò e si rincamminò. Era concentrato sull’obbiettivo,il soldato aveva un solo ed unico obbiettivo.

                                                                                     

Mentre i nostri passi svelti e silenziosi ci portavano all’interno di un vicolo,non potevo fare a meno di continuare a pensare a quel ragazzo. Perché la vita aveva deciso di punirlo così?Perché io e Noah non riuscivamo a trovare accordo nei nostri modi di fare?Più lo guardavo e più mi veniva da pensare che qualcosa lo avesse cambiato. Era attento,pronto a qualunque cosa pur di raggiungere il suo scopo,ma una domanda mi sorgeva spontanea : qual era realmente il suo scopo?Io non avevo fatto molte domande sul suo amico di New York,né me ne ero interessata più di tanto. Mi era bastato andarmene da quella città ormai distrutta e piena di ricordi,e la validità del motivo per cui ci eravamo messi in viaggio non mi aveva mai preoccupata più di tanto. Era Noah,era un bravo ragazzo che avevo avuto modo di conoscere piuttosto bene al liceo…poi le nostre strade si erano separate,i nostri futuri si erano allontanati,e per qualche strano motivo si erano incrociati di nuovo. Ero sicura che non avesse avuto una vita facile dopo il diploma al McKinley ; non ne ero sicura,ne ero certa. Sapevo il fatto della prigione,e quella era già una conoscenza sufficiente a lasciarmi fare una simile considerazione,ma c’era sicuramente altro…altro che nei nostri giorni insieme avrei avuto modo di farmi raccontare.

«Quanto manca?» chiesi sempre sottovoce.

«Forse poco meno di un chilometro,ma non ne sono sicuro…è la mia prima visita a New York e non sono molto pratico di queste grandi città piene di casino».

Aggrottai la fronte e le mie sopracciglia fecero un balzo «ma non sei già stato da lui?»

Noah si girò improvvisamente preoccupato,e scosse la testa.

«So che è brutto sentirselo dire,ma…» sospirai «sai che potrebbe anche essere…»

«Lo so» m’interruppe lui tempestivamente «ma so anche che è un tipo forte,quindi ci sono buone probabilità che in questo momento sia barricato in casa».

Annuii pur non essendone troppo convinta «devi volergli molto bene se ti sei fatto tutta questa strada per venire da lui».

Aspettai una risposta,ma non ci fu.

«Sì,infatti» disse secco una decina di secondi dopo.

Quando il vicolo finì,sbucammo in una delle strade principali. A tratti c’erano macchine qua e là,e tutto sommato la strada era abbastanza pulita. Qualche metro più avanti,sul marciapiede sul quale stavamo,c’erano tre affamati che si dirigevano verso di noi. Nemmeno il tempo di pensare,che io Noah stringemmo più saldamente i coltelli e ci lanciammo verso il gruppo. Io colpii il primo con un calcio al petto,questo indietreggiò,inciampicò sui suoi piedi e finì steso a terra. Gli diedi un calcio alla nuca,poi mi chinai velocemente e gli piantai il coltello in testa. Quando mi rialzai,vidi Noah piantare il coltello nella testa del terzo,mentre il secondo era già privo di vita sull’asfalto.

«Dovreste dare un’occhiata qui intorno…» suggerì mio fratello con la voce che tremava.

«Che c’è?»

Dio…quella era una brutta situazione. Ne stavano sbucando da tutte le parti,e i loro lamenti cominciavano lentamente ad assordirmi. Ci stavano circondando,e ce n’erano a dozzine.

«Correte!» esclamò Noah,scattando rapidamente.

Nemmeno il tempo di farcelo ripetere,che io e Lucas cominciammo a muoverci. Noah era davvero veloce,un fulmine,e noi stavamo poco dietro di lui,senza rischiare di perderlo di vista. Ad ogni metro che percorrevamo,altri affamati si destavano dalle loro postazioni e dal loro falso sonno,e cominciavano ad agitarsi e ad incamminarsi sulla nostra scia.

«Cazzo!» esclamai,ansimando.

Puckermann si fermò di colpo,e si girò verso di noi,con il fiatone,la fronte velata di sudore,e gli occhi sbarrati. Di fronte a noi altre decine di affamati ci bloccavano la strada,emettendo quei loro lamenti terrificanti.

«E adesso?» chiesi attraversata da un brivido di paura.

Noah si passò una mano sulla nuca rasata,indietreggiando a quella massa che si avvicinava. Si guardò attorno,disperato,e poi indicò un ristorante alla nostra destra «lì dentro!»

                                                                                                                             

«Venite a darmi una mano!» ordinò Puckermann.

Poggiò una sedia di legno a terra,mise un piede sullo schienale,e con l’altro diede un calcio secco verso il basso ad una gamba che si staccò di netto. Afferrò il pezzo di legno velocemente e con altrettanta velocità lo pose tra le maniglie della porta d’entrata.

«Aiutatemi a mettere quel tavolo qui davanti».

Io afferrai un lato,lui quello opposto e poi lo appoggiammo davanti la porta in vetro. Non era sufficiente,lo sapevano entrambi. La parte del ristorante che dava sulla strada era fatta interamente in vetro,e gli affamati l’avrebbero fatta a pezzi. Avevamo scelto un pessimo posto per fuggire. Dal centro della sala principale dell’edificio,puntai gli occhi su quelle vetrine. Gli affamati si stavano sparpagliando sulla superficie e cominciavano a picchiare,lamentandosi vivacemente.

Sbuffai sonoramente e cominciai a camminare avanti e indietro,con nervosismo. Mi passai una mano tra i capelli,staccai una pellicina dal dito medio,e mi asciugai con il polso il sudore sulla fronte. Ero agitata,quella situazione non mi piaceva affatto.

«Dobbiamo mettere qualcos’altro qui davanti» affermò Puckermann,guardandomi attentamente.

Mi voltai ad osservarlo. Se ne stava accovacciato,con il viso sporco ed imperlato di sudore,e gli occhi verdi attenti che scrutavano la mia persona. Voleva che dicessi qualcosa,che dessi un qualche suggerimento,ma la cosa che mi veniva più naturale da fare era osservare quelle mani sporche di sangue picchiare sulla vetrata,ed ascoltare i lamenti di quei mostri affamati.

«Non è il caso di perdere tempo con la vetrata. Prima o poi la romperanno. Tutti gli affamati in zona si stanno radunando su questo cazzo di edificio,e siamo in trappola» dissi fredda,come se la cosa non mi avesse riguardata.

«E allora che suggerisci di fare?Restare qui ed aspettare che crepino il vetro lentamente?»

Scossi la testa,ma Noah continuò a guardarmi.

«Usciremo da una finestra che sia il più lontano possibile da questa vetrata».

Puckermann annuii lentamente,come se ci stesse riflettendo su,e poi disse «ottimo piano,può funzionare!»

La vetrata cominciava a cedere. Avevo spostato lo sguardo per pochi secondi,e quando lo avevo posato di nuovo sull’ammasso di affamati,erano notevolmente aumentati. Sul vetro s’incominciavano ad intravedere le prime crepe,e la gamba di legno veniva spostata avanti e indietro,continuamente messa alla prova dalle spinte di quei corpi disgustosamente divorati.

«Andiamo sul retro alla ricerca della finestra».

Altre spinte,altri colpi,un’altra crepa. L’agitazione si faceva mano a mano sempre più palpabile,mi si appiccicava addosso come melma collosa e viscida. Corremmo in cucina,ma nessuna finestra. Poi in un’altra sala da pranzo,e finalmente la vedemmo. Era grande,larga,spaziosa e rendeva la stanza luminosa. C’erano un paio di affamati che colpivano il vetro,ma li avremmo uccisi senza troppa difficoltà. Quando Noah stava per girare la maniglia,un rumore ci fece bloccare di colpo. Spari. Ci guardammo tutti e tre con aria interrogativa,tutti e tre con le stesse rughe di perplessità sulla fronte.

«Ma che…»

Altri tre colpi secchi,precisi,ma questa volta vicini,molto vicini ed una voce femminile. Un altro rumore mi fece sussultare : un bussare,qualcuno stava bussando alla finestra. Tutti e tre ci voltammo a guardare e restammo immediatamente a bocca aperta. Non c’erano più affamati,ma una ragazza che colpiva violentemente la superficie in vetro,facendoci segni e gridando qualcosa di incomprensibile.

«E’ viva!» fu quello che esclamò mio fratello dopo lunghi secondi di silenzio e di sorpresa.

Senza starci tanto a pensare,mi gettai sulla maniglia che Noah aveva lasciato,ed aprii la finestra.

«Era ora!Ma che cavolo dovevo fare per farmi aprire?» disse la ragazza con voce acuta e movenze quasi teatrali «Forza,venite fuori!Mio fratello è in una jeep fuori da questo vicolo…vi aiuteremo!»

Puckermann ed io ci guardammo per un momento,entrambi preoccupati,e poi scavalcammo,balzando all'esterno dall'edificio. La finestra dava su un ulteriore vicolo,e alla fine di questo,in lontananza,si vedeva una vettura ferma e si sentiva il rombo di un motore. Non appena uscimmo,notammo che le decine di affamati che fino a poco prima si erano attaccati come forsennati alla vetrata del ristorante,si erano spostati e si stavano avvicinando.

«Merda,ce li abbiamo dietro» borbottai tra me e me.

«Sbrigatevi!»

La ragazza,di cui ancora non conoscevamo il nome,cominciò a correre per raggiungere il fratello e noi la seguimmo. Raggiunta la fine del vicolo,ci ritrovammo di fronte ad una Wrangler  rosso di dimensioni spropositate. Lo guardai per una frazione di secondo,e poi salimmo tutti e quattro.

«Dove siete diretti?» chiese il ragazzo alla guida.

La sorella si voltò verso di noi. Era una ragazza dal viso davvero bello ; la pelle chiara,limpida e perfetta. Due occhi da cerbiatta intensi e magnetici ,le sopracciglia scure e delineate,il naso greco con un piercing metallico ad anello,ed una bocca carnosa dalla colorazione di un rosato pallido,molto delicato. Se l’avessi guardata in un giorno qualsiasi,in una situazione di normalità,ne sarei comunque rimasta colpita. La sua immagine era una di quelle che ti si stampavano nella testa e che ore dopo l’incontro continuavano a ritornarti in mente in momenti disparati,quasi come in un tormento. Era una mia coetanea,forse anche più piccola…senza il piercing o il trucco scuro attorno agli occhi,avrebbe avuto senz’alcun dubbio l’aspetto di una ragazzina. I lunghi capelli scuri e lisci le incorniciavano il viso,ed anche quelli erano impeccabili.

«Sto cercando un mio amico che ha un appartamento sulla 5th Ave,ma non sono di queste parti e in questo momento non saprei orientarmi molto bene…» rispose Noah, torturandosi un labbro.

«Non preoccuparti,» disse il ragazzo con tono gentile «io ed Alex siamo di queste parti. Sappiamo muoverci in queste strade».

La ragazza sorrise ed annuì,sempre voltata verso di noi.

«Grazie per averci aiutati!Ci state dando una grande mano…non potete nemmeno capire quanto siate utili in questa situazione!» dissi,accennando un lieve sorriso sincero.

Neppure mi rendevo conto di quanta gratitudine provassi verso quelle due figure sbucate misteriosamente. Ma non si trattava neppure di semplice gratitudine per quel soccorso,era qualcosa che andava oltre…non c’avrei giurato,ma vedere dei volti nuovi e vivi dopo quattro giorni in cui i nostri occhi avevano scorto solo morte,dava un’emozione incontenibile e sorprendentemente piacevole.

«Sì,davvero!E’ bello vedere facce di altri sopravvissuti. Ultimamente non abbiamo visto altro che affamati divorare persone o impazzire per la voglia di masticarci» ammise Noah con un pizzico di ironia.

«Affamati?» chiese la ragazza dallo sguardo magnetico.

«Sì,quei mostri…» spiegò Lucas subito dopo.

Lei ridacchio un po’ «è un nome fico!Gli affamati…» ripeté poco dopo,portandosi un dito sulla bocca «mi piace come li avete chiamati!Io e Steve non li abbiamo mai nominati…a volte li chiamavamo "cose" o…o "mostri",ma penso che da oggi sia ufficiale : quei cosi saranno gli "affamati"!» affermò in tono compiaciuto,annuendo.

Noah forzò un sorriso,ed io sollevai un sopracciglio assieme agli angoli della bocca. Sapevo esattamente cosa stava pensando Puckermann in quel momento : ma chi cavolo è questa pazza?

«A proposito di nomi,» cominciò mio fratello serio «io sono Lucas,suo fratello» ammise accennando a me con la testa,e stringendo la mano alla ragazza.

«Piacere di conoscervi,io sono Santana» continuai,accennando un debole sorriso.

«Noah. Noah Puckermann».

La ragazza sfoderò un bel sorriso luminoso e disse «io sono Alex Monroe e questo è mio fratello Steven».

«Il piacere è tutto nostro» concluse il fratello,continuando a tenere gli occhi sulla strada.

Anche il ragazzo pareva avere un aspetto discreto,ma la sorella era di gran lunga più attraente. Da seduta non avrei potuto esserne certa,ma sembrava un “ragazzone”. Era muscoloso e forse sfiorava il metro e novanta,ed i bicipiti in bella mostra facevano paura. I lineamenti erano marcati,decisi,per non dire severi. Gli occhi erano più grandi e rotondi di quelli della ragazza,ma della stessa colorazione. Il naso piccolo e un po’ all’insù,e la bocca sottile e rosea. Il pizzetto gli conferiva un’aria seriosa e matura,ed i capelli, fissati sulla nuca in un codino,lasciavano scoperta la rasatura che altrimenti non si sarebbe notata. Avrebbe potuto avere venticinque anni,forse ventisette,ma non di più.

«Ci siamo quasi» avvisò Noah dopo pochi minuti «dovrebbe essere quello lì giù».

«D’accordo» rispose Steven,rallentando «io ed Alex vi accompagneremo sino a dentro,in caso avreste problemi di qualche tipo,e poi ci allontaneremo dalla città».

«Grazie» dissi assieme a Puckermann.

Quando la vettura si fermò,scendemmo molto rapidamente e sempre ben armati. Non mi ero sbagliata sul conto del ragazzo : era enorme,sembrava un sollevatore di pesi. Aveva con sé una pistola,la stessa che impugnava anche la sorella,ma la cosa che mi stupì davvero fu il mondo in cui la tipa impugnava l’arma : la ragazza sapeva sparare,e c’avrei scommesso che non fosse proprio una novellina. Due newyorkesi addestrati,pensai,questa sì che è bella.

Non appena Steven aprì la porta di ingresso e lo seguimmo,subito balzarono agli occhi i due affamati che si trascinavano sotto le scale dell’edificio. Il primo sembrava essere senza occhi,con la pelle che sembrava ricoperta da una patina grigiastra,spenta come la morte. Il secondo invece era una femmina,con indosso una gonna che forse era appartenuta ad una donna d’affari,ed una camicetta sporca di sangue a ricoprire le braccia marce e rigonfie,dalla pelle bianca e maleodorante. Si avvicinavano lamentandosi,ma in un istante Steven li fermò. Fu un razzo ; neppure capii se me lo fossi immaginato,o se fosse successo veramente. Si tirò fuori dall’anfibio nero un coltello da cacciatore,e nella stessa frazione di secondo lo piantò dritto nell’occhio della donna con un gesto rapidissimo,deciso,e sì,era strano a dirlo,ma quasi elegante. Al secondo,ridotto quasi uno scheletro,sfondò il cranio da sopra,con lo stesso coltello. Fu come vedere un bambino giocare con delle macchinine o costruire un puzzle. Tutto quello era stato un gioco da ragazzi per lui,una vera e propria passeggiata,come se l’avesse fatto da sempre.

«Cavolo…sei veloce» affermò mio fratello.

Il ragazzo si girò,fece spallucce,e si ripulì il coltello con un lembo della maglietta. Subito si incamminò sulle scale,sempre con la stessa decisione,alla guida del gruppo. Se Noah poco prima mi era parso un soldato,quello era niente al confronto…metteva quasi paura.

«Che numero?»

«E’ al nono appartamento. Primo piano».

I nostri passi si fecero più svelti,ma sempre silenziosi. Poi,senza neppure rendercene conto,ci ritrovammo di fronte la porta giusta. Ci guardammo a vicenda,per un istante. Noah mi fissò per qualche secondo,e capii subito che ci fosse qualcosa di strano nella sua espressione. Non era felice come quando si spera di rivedere un amico,non era felice affatto. Aveva stampato in viso una strana preoccupazione mista all’indecisione ; sudava,ma non credo per il caldo soffocante.

«Siamo ancora in tempo per andarcene,Puckermann» dissi,tenendo gli occhi fissi sui suoi.

Sì,c’era qualcosa di strano.

«Certo,come no…» rispose lui scuotendo la testa « e aver fatto tutta questa strada per niente?No,non se ne parla».

Mise la mano per bussare,ma poi si fermò. Prese un grosso respiro,si passò l’avambraccio ad asciugare il sudore,e infine colpì con poca decisione la superficie in legno con sopra scritto 9. Tornammo subito a guardarci a vicenda ; c’era una tensione palpabile,e non l’avvertivo solo io. Steve se ne stava guardingo,fermo con quella sua aria sospettosa ed attenta,pronto al necessario,Alex fissava la porta,mordendosi un labbro,ed ogni tanto sospirava, e mio fratello invece se ne stava in silenzio,toccandosi i capelli nervosamente ed ascoltando le centinaia di pensieri che lo assorbivano di tanto in tanto,estraniandolo dalla realtà. C’eravamo tutti,ed eravamo tutti pronti a scoprire chi si nascondesse dietro quella porta. Io restavo ferma nella mia convinzione : in tutto ciò,qualcosa non quadrava.

Si sentirono prima dei passi,poi il rumore della sicura della porta togliersi,e poi,infine,con una lentezza quasi straziante,un cigolio.

«Cercate qualcuno?» chiese una ragazza bionda con voce sommessa.

Rimasi di sasso,ma il bello doveva ancora venire.

«Jake Puckermann…s-sono suo fr-fratello Noah» balbettò l’altro insicuro.

La ragazza sussultò per lo stupore e si portò una mano alla bocca,con gli occhi sgranati che non smettevano di saltare di viso in viso.

«Entrate,lì fuori è pericoloso. A proposito» cominciò poi,sforzandosi di sollevare gli angoli della bocca per mascherare l’imminente tristezza «mi chiamo Brittany,Brittany Pierce».

Avrei dovuto dire qualcosa,forse il mio nome,ma non ero più sicura di quale fosse. C’era qualcosa di…di strano in quell’appartamento,ma non era legato alle mura o alla situazione,no…era qualcosa di diverso e di incredibilmente indefinibile. Una sensazione,un’emozione che oltre alla sorpresa si faceva spazio al mio interno,lottando,radicandosi fin dentro le ossa. Guardai quella ragazza con il viso stanco ed i capelli arruffati,e lei mi guardò aspettandosi che pronunciassi il mio nome. Ma quel nome non era necessario che venisse pronunciato ; eravamo la stessa cosa : spaventate,confuse e tristi.

«Sono Santana Lopez,piacere di conoscerti» biascicai,incrociando i suoi occhi color cielo.

E allora,le nostre mani si strinsero.


Carissimi lettori,ed eccoci qui!E' giunto finalmente il momento che tanto avete aspettato e che avevo promesso. I nostri protagonisti hanno patito le pene dell'inferno per raggiungere quell'appartamento,e ad aprirgli la porta è una biondina dall'aria spaventata e sopresa. Diciamo che in questo capitolo si chiariscono diversi dubbi e si vanno a creare delle situazioni nuove,che lentamente ci porteranno ad un'evoluzione della storia. Beh,senza dilungarmi più di tanto,adesso lascio a voi la parola. Questo capitolo è il vero inizio della storia ; adesso ha inizio" BETWEEN THE HUNGRY " . Forza gente,vi aspetto in tanti nelle recensioni per leggere i vostri pareri e farmi un'idea di quel che pensate su questa folle fanfiction.

Con la speranza che il capitolo vi sia piaciuto e che i nuovi personaggi abbiano acceso in voi un pizzico di curiosità,vi dico : "alla prossima" ! 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** La fine e l'inizio ***


between the hungry

La Fine e l'Inizio .

«Dov’è mio fratello?» chiese Noah,ancora una volta,con nervosismo.

 La  ragazza bionda si sedé sul divano e fece un grande respiro «dovrò spiegarti alcune cose,come ad esempio chi io sia...»

Puckermann annuì vivacemente «Sì,ad esempio» rispose con particolare enfasi.

Era nervoso ed agitato ; glielo leggevo in viso,così come leggevo un certo disagio su quello dell’altra ragazza. Noah la stava mettendo in difficoltà.

«Perché non ti siedi?» le domandò gentilmente la bionda.

«Non ce n’è bisogno» rispose l’altro secco.

La ragazza si morse il labbro superiore e si arrotolò una ciocca di capelli scompigliata attorno ad un dito. Più la osservavo,e più continuavo ad osservarla,incuriosita dalle sue espressioni o da quello che avrebbe detto. Era alta,più alta di me ; forse superava il metro e settanta ed aveva un fisico snello e slanciato. Il viso ovale era piuttosto attraente e due occhi a mandorla di un meraviglioso azzurro intenso regnavano incontrastati. Il naso era lungo e stretto e le labbra sottili e di un rosa chiaro. Era una bella ragazza,possedeva un’aria dolce ed ingenua,come fosse stata una bambina. Se mi voltavo dall’altra parte della stanza,notavo Alex,una bellezza totalmente opposta a quella della bionda che sino a poco prima avevo osservato. Gli occhi di Brittany erano privi di trucco,completamente nudi,mentre quelli scuri dell’altra erano abbelliti da un insistente nero,che non faceva altro che darle uno sguardo ancora più intenso,quasi da pelle d’oca.

«E va bene. Come ho già detto mi chiamo Brittany».

«E questo già lo so» la interruppe Puckermann.

«Noah!» lo rimproverai,lanciandogli un’occhiataccia.

«Sì,beh…sono un’amica di Jake,la sua coinquilina per l’esattezza. Quando mi sono iscritta alla Columbia per diventare una giornalista,ho avuto problemi con una ragazza ai dormitori. Diciamo che c’è mancato poco che ci cacciassero per uno spettacolo di wrestling che abbiamo fatto nel bel mezzo di una lezione. Ho fatto diverse richieste per cambiare stanza ; ne ho fatte talmente tante che speravo sarei stata accontentata per esasperazione,ma niente da fare. Tuo fratello ed io avevamo dei corsi in comune,ed aveva assistito a tutto. In breve diventammo amici : io lo accompagnavo alle sue lezioni e quando lui poteva mi accompagnava alle mie. Quando una delle sue coinquiline ha mollato New York per tornarsene nel New Jersey,mi ha subito proposto di andare a vivere assieme al suo gruppo. L’affitto era caro anche diviso,certo,ma i miei non avrebbero rischiato che fossi cacciata da un college della Ivy League per una pazza nella mia stessa stanza,così ho accettato. Poco tempo fa mi ha confessato di aver scoperto di avere un fratello : stesso padre,ma madre diversa. Ci è stato male per un po’,soprattutto perché la madre gliel’ha tenuto nascosto per tutti questi anni,ma poi si è deciso a cercarlo ed ha scoperto che si trovava in carcere. Non sapeva che aspetto avesse,non era certo dell’età,ma era deciso a riallacciare i rapporti e così gli ha spedito una lettera in prigione. Gli aveva scritto tutta la sua storia,anche di quando da bambino chiedeva a sua madre un fratellino che gli facesse compagnia,e finiva dicendogli che lo avrebbe aspettato a New York in questo appartamento,per un incontro. I giorni passarono,ma alla sua lettera non ci fu mai risposta,né vide mai il fratello che tanto aspettava. Ci era stato male di nuovo,ma poi se n’era fatto una ragione ed era andato avanti,dimenticandosi di lui.» la ragazza fece una pausa ed inspirò,spostando gli occhi verso il pavimento «Quando pochi giorni fa è scoppiata la fine del mondo,io ero a casa con un brutto raffreddore,sotto le coperte. Jake si è alzato,mi ha portato un thé caldo e … e poi è andato a lezione,senza fare più ritorno».

La ragazza si portò entrambe le mani sul viso,sconvolta,e rimase in silenzio,meditando sulla perdita di cui forse ancora non aveva totale coscienza.

«Ignorarlo è stato lo sbaglio più grande che io abbia mai fatto…» disse Noah singhiozzando e passandosi le dita sugli occhi rossi «credevo che non avrebbe mai voluto conoscere un tale incapace,un carcerato. E poi ero così arrabbiato con mio padre,con mia madre…con tutti!Quando a Lima quelle cose sono iniziate a sbucare,facendo una strage,mi sono promesso che se proprio sarei dovuto morire,prima avrei dovuto conoscere il ragazzo della lettera,mio fratello. Avrei voluto parlare con lui di quanto stronzo sia stato nostro padre,o…o di ragazze carine,e magari saremmo andati a fare un giro in qualche posto fico di New York. Ma avevo troppa paura,ero terrorizzato dall’idea di trovarmi faccia a faccia con lui,e così ho deciso di lasciar perdere. C’ho pensato troppo tardi…» disse sconsolato,passandosi il polso prima su un occhio e poi sull’altro «e adesso è tutto finito».

La ragazza alzò gli occhi,incrociò quelli rossi di Noah,e poi gli prese una mano e sussurrò un semplice «mi dispiace».

Tutti guardavamo quel ragazzo che non faceva altro che scuotere la testa e camminare avanti ed indietro,continuando a piangere,o tenendosi la testa tra le mani. Era sconvolto e dovevo fare qualcosa. Ancora non riuscivo a credere a tutto quel che avevo sentito,non l’avevo ancora metabolizzato. Noah ci aveva tenuto all’oscuro di tutto e i miei sospetti erano stati fondati. Non capivo perché avessi la pretesa di conoscere quel ragazzo così bene come credevo : ci eravamo rivisti tre giorni prima dopo un anno e al liceo non eravamo mai stati migliori amici. Continuava a confermarsi un mio pensiero : quei tre giorni erano stati un’altra vita,una vita nuova che aveva spazzato come un uragano tutto quello che l’aveva preceduta. Noah faceva parte di quella nuova vita,e per questo sentivo la necessità di conoscerlo tanto bene quanto conoscevo mio fratello.

Mi alzai dalla sedia e lo raggiunsi con passo svelto e deciso,poi gli posai una mano sulla spalla,e fermai quel suo movimento irrazionale.

«Puckermann,guardami.» gli dissi seria «Jake era senz’alcun dubbio un bravo ragazzo,e tu saresti stato un bravo fratello. Sei arrivato fin qui nel bel mezzo di una catastrofe soltanto per lui,e questo dimostra che cuore hai. Mai guardati attorno» feci una pausa,aspettando che obbedisse «questa stanza è piena di persone,di sopravvissuti come noi che…»

«E’ stato tutto inutile» biascicò con un filo di voce «ho perso tutto. Tutto».

Sospirai,cercando di restare concentrata su di lui,ma quelle parole facevano male anche a me e diverse ferite si riaprivano,bruciando vivacemente.

«E’ vero,hai perso tanto,ma come tutti noi. Hai ancora qualcosa per cui continuare a respirare. Hai me,hai te stesso,hai la speranza che un giorno questo mondo possa tornare come l’abbiamo vissuto sino a poco fa».

Lui scosse la testa,mentre un respiro strozzato lo scuoteva «mia madre è morta a causa di questo viaggio. E’ soltanto colpa mia. Se fossi rimasto a Lima,lei…»

«No!» lo interruppi «se fossimo rimasti a Lima,a quest’ora saremmo tutti morti. Tutti!Hai capito?E non avremmo trovato queste persone. Raggiungere New York è stata la cosa giusta da fare,e in fondo lo sai!»

Non rispose più. Andò in cucina con lo sguardo basso,prese una bottiglia d’acqua,e poi sparì in una camera da letto,richiudendosi la porta alle spalle.

«Non so se siamo degli ospiti graditi qui dentro,ma magari…» esordii verso la ragazza bionda che mi guardava con gli occhi tristi.

«Restate quanto ne avete bisogno!» m’interruppe lei immediatamente «Fate come se foste a casa vostra. Immagino che avrete fame o sete,che avrete voglia di farvi una doccia. Non dev’essere stato un viaggio facile e sarete sconvolti. Davvero,mettetevi a vostro agio. Ho passato tre giorni infernali ed aver trovato delle persone con cui poter parlare,mi sembra ancora incredibile».

«Grazie» risposi con un sorriso dolce.

La ragazza ci condusse in cucina e preparò quattro toast,con delle uova strapazzate. Tutti noi divorammo all’istante quel cibo,senza preoccuparci delle buone maniere,e quando avemmo finito,ci preparò delle pizze prese dal congelatore. Non mi sembrava vero che il mio stomaco si fosse azzittito per un momento. Le nostre provviste erano andate a farsi benedire con la macchina all’entrata dell’Holland Tunnel,ma erano fatte principalmente da scatolame. Mangiare uova,aveva riattivato il mio appetito nell’immediato,e riattivato il senso del gusto che pensavo avesse smesso di esistere per via della sua inutilità.

«Siete fortunati» disse la ragazza,osservandoci «prima di tutto questo casino avevamo fatto una bella spesa. In quattro si mangia bene» concluse con una debole risata.

Risposi a quel suono dolce con un sorriso fatto a bocca piena,e lei in tutta risposta tornò a ridere più vivacemente di prima.

«Sei una ragazza molto gentile. Io e mia sorella ti siamo grati per l’ospitalità,davvero» affermò Steven,con quel suo tono serio.

«Ma figurati. Di dove siete?» chiese lei,mettendosi a sedere affianco a Lucas.

«Io,mio fratello e Noah veniamo da Lima. Ohio» spiegai subito dopo.

La ragazza sgranò gli occhi «dall’Ohio?!Ma quanta strada avete fatto?!»

Annuii,smettendo di ingurgitare una fetta di pizza «parecchia,direi».

«E voi?Non siete tutti un gruppo?» domandò ad Alex e Steven.

«No,no. Ci siamo beccati per strada. Io e Steve stavamo andando via e abbiamo visto un ammasso di affamati addosso ad un ristorante,e così ci siamo detti che dovessero esserci dei sopravvissuti lì dentro. Gli abbiamo dato una mano,era giusto farlo.» disse Alex,osservando me e mio fratello «Noi due siamo newyorkesi,ma in realtà siamo arrivati fin qui da città del Messico».

Spalancai la bocca così tanto,che mi fece male la mandibola. Brittany si portò una mano sulla fronte e mimò un “o mio Dio”.

«Messico?» chiesi sbalordita.

«Sì» rispose il fratello «è una storia un tantino complicata,ma cercherò di farvela breve. Io e mia sorella eravamo lì in “vacanza”,diciamo,e saremmo rimasti lì se nostra madre non avesse “preteso” la nostra presenza per parlarci. Così quattro giorni fa ci siamo messi in viaggio,in auto. Mia sorella ha la fobia degli aerei» spiegò calmo,subito dopo «ma mentre eravamo in viaggio,nelle città stava scoppiando un putiferio. Nemmeno ricordo quanti incidenti stradali terrificanti abbiamo incontrato,o quanti affamati abbiamo visto divorare intere famiglie,ma la situazione non faceva altro che motivarci a raggiungere New York il prima possibile. Così arriviamo qui,affrontiamo altri duemila casini,e andiamo nell’attico dei signori Monroe,ma non c’è un’anima. Rigiriamo,decisi ad andarcene il prima possibile da questo schifo di città,e per la strada vediamo questo ammasso di affamati schiacciati contro la vetrata di un edificio,con voi dentro. E poi…il resto della storia la conoscete».

Ancora a bocca aperta,mi limitai ad annuire e ritornai a mangiare la mia pizza. Erano forse dei supereroi quei due?Incredibile…incredibile.

«E dove andrete una volta lasciata New York?» domandò Brittany.

«Ancora non lo sappiamo» rispose Alex «ma cercheremo un posto il più lontano possibile dalla città. Più abitanti = più affamati».

Aveva senso.

«E voi?Avete una qualche idea di dove vi sposterete?» chiese poi la ragazza a me.

Scossi la testa,di nuovo con la bocca piena «dovremmo rifletterci su,ma adesso siamo stremati e…beh,Noah è sconvolto».

Lei annuii,ma dalla sua espressione intuii che ci fosse altro che volesse dire o chiedere.

«E tu te ne starai qui,tutta sola?Non è per niente sicuro…il cibo prima o poi finirà,questo lo sai,vero?» chiesi sinceramente interessata alla risposta.

Lei sospirò,chiudendo gli occhi «lo so,lo so. Ho forse altra scelta?Non ho più nessuno…»

Mi morsi un labbro. Quella ragazza mi faceva tanta tenerezza. Scossi un po’ la testa e poi dissi «verrai con noi. Ti va?»

I suoi occhi si illuminarono all'istante «se non è un problema,mi farebbe davvero piacere».

«Nessun problema» risposi sorridendo.

Lucas mi mimò con le labbra il nome di “Noah”,e il mio improvviso entusiasmo si spense. Già,dovevamo ancora farlo presente a Puckermann. Alex sussurrò qualcosa all’orecchio del fratello,poi i due si alzarono e cominciarono a parlottare a bassa voce in un angoletto.

«Dobbiamo dirlo a Noah,ma sono certa che non ci sarà alcun problema» aggiunsi,tornando a sorridere cordiale.

Lei annuii e ricambiò il sorriso con un altro ancora più gentile del mio. Nel frattempo la ragazza dai capelli neri e la pelle diafana si riavvicinò al tavolo,si morse un labbro,sempre guardandoci,e poi venne raggiunta dal fratello.

«Possiamo unirci tutti. Fare un gruppo» affermò secco il ragazzo «possiamo studiare un posto dove andare,e stare lì fino a che qualcosa non cambi. Saremo sei persone e insieme potremmo sopravvivere,organizzarci,trovare un modo per  riuscire in tutto questo. Io sono un ex marine, potrei addestrarvi a sparare,a difendervi da quelle cose…insomma,in situazioni come queste serve un aiuto reciproco,non siete d’accordo?» chiese infine,guardandoci speranzoso.

Il mio primo sguardo corse a Lucas,che con lo stupore stampato sul viso,mi guardava aspettando che rispondessi a quell’invito. Dovevamo accettare?Era la cosa giusta da fare?Diedi un altro occhiata ai due fratelli,e mi venne naturale rispondermi con un “sì”. “L’unione fa la forza”,e in quella situazione,ne serviva davvero tanta. Pur essendo favorevole a quella proposta,avrei dovuto parlare con Noah. In un certo senso era lui che gestiva il nostro piccolo gruppo,era una sorta di “caposquadra”.

Annuii pensierosa,con un mezzo sorriso «ci sto. Devo parlarne con Puckermann,ma credo sia un’ottima idea. Insieme possiamo farcela» affermai poi,sicura.

Guardai Brittany che giocava con una ciocca di capelli,poi mio fratello che invece mi osservava pensieroso,poi il ragazzo nerboruto che con le mani appoggiate al tavolo ci guardava felice,e infine la ragazza dai capelli scuri che già sorrideva radiosa. Mancava Noah,ma sì,eravamo un gruppo. Avrei imparato presto a conoscere quelle facce,a svegliarmi con le loro chiacchere o a stare di guardia in compagnia di qualcuno di loro. Avevamo bisogno di sopravvivere,avevamo bisogno di non sentirci soli,in un mondo ormai pieno di creature che si cibavano di quella stessa solitudine.

«Allora è fatta!» esclamò Steven euforico «Anche in mezzo agli affamati,riusciremo a vivere. A vivere,e ad essere vivi».

Un grosso sorriso mi schiuse le labbra con naturalezza. Ogni volta che li guardavo,mi sentivo un po’ meno sola,un po’ meno sofferente. Perché l’uomo, per quanto se ne illuda , non è in grado di restare solo. Non può camminare da eremita nella nebbia senza rischiare di perdersi. Semplicemente non può. Nasciamo soli e moriamo soli , ma nel mezzo?


Lettori , eccoci alla fine di un altro capitolo. Allora , che ne pensate? Come il titolo suggerisce , questo capitolo porta alla fine di qualcosa , ma anche all'inizio di qualcos'altro. Il viaggio a New York che Noah aveva intrapreso con la speranza di raggiungere il fratello mai conosciuto , non si è concluso come era stato immaginato. In questo caso , la fine fa riferimento alle speranze del povero Noah che nel giro di poche ore ha perso le ultime persone che gli erano rimaste al mondo, e l' inizio invece... beh , secondo voi? 

Niente va mai come pensiamo o vorremmo , e questo è un dato di fatto.

Sembra che presto conosceremo meglio i due nuovi personaggi , e sono certa che sarete felici di sapere che nei prossimi capitoli avremo uno "scenario" un po' diverso. Basta caos , viaggi estremi in città pieni di pericolosi affamati o folli fughe a dir poco impossibili ; la situazione si stabilizzerà , e , senza svelarvi troppo , questa farà in modo che la psicologia e i rapporti interpersonali tra i personaggi si facciano interessanti (spero). Tenete bene a mente , però , che durante l'apocalisse non esiste la noia , e non si è mai realmente lontani dalla
morte . Detto questo , non mi resta che concludere con la solita frase : " alla prossima" ! . Mi raccomando , recensite recensite e recensite!Non aspetto altro che leggere le vostre considerazioni.
Un saluto da writinglove.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Vermont ***



BETWEEN THE HUNGRY

Vermont .

Steven ci guardò seri. «Vermont» annunciò poi secco.

Io e Noah ci guardammo. Lui strizzò gli occhi,giocò con le pellicine di un dito,poi alzò la testa e incrociò lo sguardo del ragazzo.

«Quanto dista?» chiese pensieroso.

«Cinque ore. Possiamo trovare un posto in periferia,lontano dalla città,ma non troppo. Avremo bisogno di viveri,e per quei viveri serviranno dei negozi».

Annuii,ripetendo a me stessa che avesse ragione. Era un tipo piuttosto pratico ed intelligente Steven,mi piaceva. Con la sua aria da bravo soldato dedito al dovere e quel suo atteggiamento protettivo,mi ispirava quasi un senso di sicurezza. Una cosa però era certa : non me lo sarei mai voluto ritrovare contro.

«E dove dormiremo,o mangeremo o…o faremo qualsiasi cosa?» chiese Brittany,torturandosi le mani.

Steven inclinò un poco la testa,si avvicinò con il busto,e rispose «mai sentito parlare di tende?» .

Storsi la bocca al suono dell’ultima parola. Tende. Era così che avrei definito la mia casa da adesso in poi : con la parola "tenda".

«Lo so quello che state pensando» intervenne Alex,portandosi una sigaretta tra le labbra «tende?Ma saranno scomode,ma farà freddo e bla bla bla…gente,vi ricordo che siamo in una situazione davvero pericolosa. Siamo già fortunati di poter respirare e non mi sembra il caso di metterci a lagnare per la questione degli alloggi. Attrezzeremo un bel campo,contateci. Già immagino la nostra vita per le fredde colline del Vermont,tagliando alberi con delle camicie di flanella ed un’accetta improvvisata,o uccidendo scoiattoli e litigare per averne la parte più gustosa : gli occhi».

Tutti gli sguardi finirono sulla ragazza. Lei scosse la testa sghignazzando,e si accese la sigaretta.

«Ma che stai blaterando?» domandò la bionda con un sopracciglio sollevato.

Alex la guardò per qualche secondo,si alzò dalla sua sedia,e disse «sto solo scherzando,biondina»,mentre una nuvoletta di fumo invadeva il viso dell’altra ragazza.

Al pensiero di quel suo strambo discorso,trattenni a stento l’impulso di ridere. Quella ragazza sembrava fuori di testa,ma era buffa nelle sue uscite senza senso e il tono della sua voce era così caldo e suadente,che le sarebbe bastato pronunciare anche solo una parolaccia,e tutti si sarebbero comunque voltati nella sua direzione. Sembrava una ribelle non solo per l’aspetto,ma anche per il suo modo di comportarsi. Una ribelle,una provocatrice,era così che nella mia testa l’avevo etichettata da qualche ora.

Brittany tossi un po’e scacciò la nuvoletta facendo vento con la mano «avevo capito che stessi scherzando!» controbatté l’altra con un accenno di broncio «Ma qui stiamo parlando di una questione seria,se ancora non ti è chiaro».

Alex fece un altro tiro di sigaretta,poi sputacchiò il fumo con calma dalla bocca e dal naso,e disse «mi è chiaro». Chiuse gli occhi,fece un altro tiro e,forse,con consapevolezza,rispedì il fumo in direzione della bionda,che sbuffò,agitandosi.

«Posso chiederti una sigaretta?» le domandai.

Lucas mi lanciò un’occhiataccia e lei annuì vivacemente,facendo svolazzare la cenere su e giù per via del movimento della testa. Si alzò dalla sedia sulla quale si era riaccomodata,prese svogliatamente uno zainetto poggiato sul divano,poi lo lanciò vicino il tavolo,e tornò a sedersi.

«Prendi tutte quelle che ti servono» mi disse,facendo un cenno con la testa allo zaino di pezza che avevo vicino la gamba.

Lo aprii,e immediatamente sgranai gli occhi. Dentro c'erano forse trenta pacchetti da venti di Marlboro rosse,poi c’era una bottiglia di vodka,una decina di scatole di munizioni,e due pistole perfettamente identiche. Afferrai il pacchetto scartato e mi misi in bocca la sigaretta tirata fuori. La ragazza si sporse dalla sedia e,tempestivamente, l’accese.

«Grazie!» esclamai sorpresa da tutta quella cordialità.

«Beni primari» bofonchiò lei,ridacchiando.

Steven si schiarì la voce,ed inspirò profondamente «siete tutti d’accordo?Andremo in Vermont?»

«Facciamo a votazioni!» esclamò la sorella.

Tempo tre secondi,e le mani di tutti si sollevarono,senza esitazioni.

«E che Vermont sia!» annunciò entusiasta il ragazzo.

 

                       Una settimana dopo…

Un brivido mi scosse tutta : avevo i piedi scoperti. Diedi un calcio ad un lembo della coperta e quell’improvviso freddo fastidioso sparì. Inspirai a fondo,sempre con gli occhi chiusi,nel vano tentativo di riaddormentarmi. Un gomito mi colpì in pieno viso e mi lamentai,strofinandomi lo zigomo con la mano.

«Oi!» esclamai,continuando a sfregare il punto dolorante.

Una chioma bionda spuntò fuori dalla coperta,e due occhietti si aprirono,mostrando il loro azzurro intenso,ancora assonnati e socchiusi. La ragazza si passò una mano sul viso,si strofinò il naso con il polso,e poi mi guardò confusa.

«C-che succe…che succede?» chiese spaesata,con un filo di voce.

Io risi «mi hai dato una gomitata in faccia!» risposi,ancora ridacchiando.

Lei alzò entrambe le sopracciglia,sollevò gli angoli della bocca,e richiuse gli occhi.

«Scusa» biascicò,rituffandosi sul cuscino.

La guardai per qualche secondo,sempre con la testa sollevata,poi sorrisi di nuovo,e mi stesi a pancia in giù. Un brivido mi percorse la schiena,un altro le gambe e un altro le braccia. L’aria del Vermont pizzicava un po’,soprattutto di prima mattina.

«Dormi?» chiesi,dando un colpetto sulla spalla della ragazza.

«Mmmh…» mugolò lei.

Sbuffai. Fuori era ancora buio,ma i primi raggi del mattino cominciavano a rischiarare il cielo,rendendolo di quel colore stupendo che tanto amavo. Avevo perso sonno ormai,e Brittany sembrava non aver voglia di ascoltarmi. Mi scoprii,scesi dal materasso,e quando stavo per infilarmi una felpa sopra la canottiera,qualcuno tirò giù la zip della tenda. Mi voltai di scatto.

«Ma che..?»

«Ehi,sceme!» esclamò Alex con aria pimpante «Mio fratello mi manda a svegliarvi. Aveva paura che foste nude,a dirla tutta…e quindi non si fidava ad andare lui stesso. Comunque,dice che oggi inizia l’addestramento e che dovremmo fare le votazioni per il capogruppo,per cui smettetela di poltrire e venite fuori».

«Votazioni?» chiesi confusa.

«Cara,abituati all’idea che non berrai più caffè,quindi sveglia!» disse ridacchiando «Serve qualcuno che ci guidi,e faremo delle votazioni. Ah,a proposito!» continuò poi,con quel suo tono vivace «Vi avviso : mio fratello è uno stronzo e vi massacrerà. Spero che nella vostra vita abbiate praticato almeno un minimo di sport,altrimenti siete fottute…» poi,con nonchalance,richiuse la tenda e se ne andò.

Aveva parlato così velocemente e di così tante cose,che continuavo a fissare la porta della tenda,con una manica della felpa ciondolante,e lo sguardo perso. Che aveva detto?Non poteva sparare a raffica a quell’ora del mattino!Non ero concentrata…

Mi finii di infilare la felpa,mi misi i soliti pantaloni neri e sporchi di una tuta raccattata qualche giorno prima,e poi gli stivaletti marroni,ugualmente raccattati. Mi avvicinai a quel groviglio di coperte,e mi piegai sulle ginocchia,osservando quella figura nascosta dalla stoffa. Una cosa però dovevo ammetterla : Brittany era una piacevole compagna di tenda. All’inizio si erano create delle discussioni perché non eravamo riusciti a trovare un accordo per la notte. Alex aveva insistito per dormire con suo fratello,e Lucas era stato costretto a dormire con Noah,che di certo non avrebbe potuto dormire con Brittany. C’erano tre tende abbastanza spaziose,ed un gazebo con un tavolino,provviste,e tutto l’occorrente per sopravvivere. Sì : avevamo svaligiato un negozio di articoli sportivi. Avevamo piantato le tende in un enorme campo verde sperduto,lontano dalla civiltà,ma allo stesso tempo sufficientemente vicino per rifornirci del necessario. Avevamo fatto diverse spedizioni quella settimana,tutte abbastanza stancanti. Dovevamo attrezzarci con tutto l’occorrente,ma recuperarlo non era stato facile e c’era stato bisogno che tutte le braccia del gruppo collaborassero. Comunque,ce l’avevamo fatta e alla fine di tutte quelle stressanti operazioni,ci eravamo gonfiati di un gran senso di soddisfazione,che per un istante ci aveva resi felici.

«Brittany…» sussurrai dolcemente,piegata sulla sua figura «odio essere rompipalle e lo so che sei stanca,ma devi alzarti. Oggi inizia “l’addestramento”».

Lei si rigirò nelle coperte «ammazza quel pazzo,per favore!» mi supplicò in un lamento.

Scossi la testa ridendo.

«Eddai,magari potrebbe essere divertente. Che senso ha starsene tutto il giorno a letto?»

«Ha il senso del riposo» mi rispose lei,scoprendosi il viso dalla coperta «conosci questa strana parola? R i p o s o» ripeté,scandendo lettera per lettera.

Risi ancora. Quanto era buffa!

«Fa’ come vuoi!» esclamai arresa «Io voglio imparare a sparare».

«Mmmh…»

La guardai un’ultima volta,e poi uscii dalla tenda. Avevo imparato tre cose di Brittany in quella settimana : la prima,era che aveva tatuato un colibrì poco più sopra dell’inguine. Me ne ero accorta perché le mutande lasciavano scoperte un paio di ali,e allora incuriosita avevo iniziato a fare domande. La seconda,era che era una tipa particolarmente goffa. Quando stavamo montando le tende,si era data un paio di volte il martello sull’indice,finendo poi per piagnucolare. La terza,era che quando aveva sonno,aveva sonno e basta.

Appena uscita,sentii l’aria pizzicarmi sulla pelle,e mi tirai su il cappuccio. Misi una mano nella tasca della tuta,tirai fuori un pacchetto di Marlboro,e m’infilai una sigaretta tra le labbra. Erano quasi tutti fuori dalle proprie tende. Mio fratello si toccava i capelli e sfregava le mani sugli occhi stanchi,sbadigliando. Alex era già piena di energia e fumava una sigaretta saltellando incontrollatamente,e il fratello era nel gazebo,che disponeva le armi sul tavolino. C’eravamo tutti,tutti tranne Noah e Brittany. Mentre la ragazza era solo molto stanca,per Puckermann la questione era un tantino differente. Da dopo il viaggio a New York,il suo atteggiamento era notevolmente cambiato : non era più lo stesso. Mangiava il minimo indispensabile,spesso regalando le sue razioni a mio fratello e trascorreva la maggior parte del tempo chiuso in tenda,oppure con la scusa di una passeggiata,se ne stava le ore in giro per quell’immenso campo,tenendoci tutti con il fiato sospeso. Non aveva voglia di parlare,di fare niente…era apatico,e mio fratello mi aveva riferito che la situazione era,in realtà,più preoccupante di quanto sembrasse. Non sapevo più come comportarmi con lui. Avevo provato a parlargli,ma con la scusa di essere stanco mi aveva allontanata. Avevo davvero paura che si sarebbe abbandonato al dolore e sapevo che,se l’avesse fatto,in qualche modo ne sarebbe rimasto ucciso.

«Siamo solo noi?» chiese Steven,guardandosi attorno.

«Sì!» rispose la sorella «La bionda non vuole alzarsi,e l’altro…beh,lo sai» concluse,facendo spallucce.

«E va bene,per oggi passa. Dunque,cominceremo facendo un po’ di stretching,poi ci concentreremo su addominali e flessioni».

Storsi la bocca. Non facevo più attività fisica da…da quando ero stata una cheerleader al McKinley. Il ricordo di Sue Sylvester che urlava con il suo megafono,ancora mi terrorizzava.

«Non si spara,oggi?» chiese mio fratello,stendendo la gamba destra.

Steven scosse la testa «una cosa alla volta. So quanto sia urgente imparare a maneggiare un’arma,ma per oggi credo che dovremmo concentrarci su una preparazione un po’ più generica».

Storsi la bocca,di nuovo.

La mattinata trascorse poi velocemente. Facemmo la bellezza di cento addominali e quaranta flessioni. Mi sentivo la pancia completamente dolorante,e le braccia prive di forza,deboli come se non avessero avuto delle ossa a sostenerle. Ma non era finita qui. Steven aveva poi preteso che allenassimo anche i muscoli delle gambe e così avevamo corso per mezz’ora,senza mai fermarci,avanti e indietro per quel campo dalla terra irregolare e distruttiva. Quando sua sorella,che si era accesa quattro sigarette durante la corsa,aveva invocato pietà,quasi strisciando per terra,il grande “capo” aveva ceduto. Era ora di pranzare,ma di Noah e Brittany ancora non vi era traccia.

«San» mi chiamò mio fratello,tutto sudato «potresti andare a dire a Noah che esca a mangiare?»

Sospirai,guardando verso il basso «certo» risposi,con dello sconforto nella voce.

Mi avviai alla tenda ancora chiusa,e diedi alcuni colpi alla tela. Nessuna risposta.

«Puckermann,è ora di pranzo. Perché non esci e non vieni a mangiare con noi altri?»

«Non ne ho voglia» rispose una voce spenta,appena percettibile.

Scossi la testa «vuoi che ti porti la tua razione?»

Silenzio per alcuni secondi.

«Dalla a chi ha più fame. Prendila tu,se vuoi…»

Sbuffai,stremata. Non ce la faceva a vederlo e sentirlo in quel modo,era una cosa che mi distruggeva. Mi aveva salvato la vita,gli volevo bene…ma lui era rimasto devastato dalla serie di cose che gli erano accadute. Se non fosse stato per la storia di suo fratello,ero sicura che avrebbe digerito senza troppi problemi la fine della madre. Era il rimpianto a devastarlo,il rimpianto di aver avuto paura e di non esser mai riuscito ad incontrare il ragazzo della lettera. Era da capirlo. Se avessi vissuto quello che aveva vissuto lui,forse sarei stata anche io male in quel modo. In fin dei conti,però,stavamo tutti male,bastava solo non darlo a vedere.

Mi allontanai dalla tenda e mi avviai alla mia,poi aprii la zip che la teneva chiusa. Lei era ancora lì,sotto le coperte,nel bel mezzo di un sonno profondo.

«Ma quanto dormi?!Forza,è ora di mangiare!»

«Mmmh..?»

Sbuffai,ed entrai. Afferrai saldamente un lembo della coperta e la tirai via in uno scatto violento. La ragazza si lamentò,sempre tenendo gli occhi chiusi.

«Ma ti svegli?!Nemmeno a dire che sei stata di guardia…Alex si è fatta tutta la nottata!»

«E quindi?Falle un applauso da parte mia» rispose secca.

Le diedi uno scossone.

«Mettiamola così : se non esci adesso,la tua razione va a farsi benedire».

I suoi occhi si spalancarono all’improvviso e,senza emettere un altro suono,si alzò dal materasso e cominciò a frugare nel mucchietto di panni disposti all’angolo della tenda. Se ne stava in mutande,con una t-shirt nera a guardarmi con quella sua aria da sopravvissuta ad una sbornia epica,chiedendosi chissà che cosa.

«Ma non vai a mangiare?» mi chiese un po’ sorpresa «Che fai,mi aspetti?».

Io rimasi interdetta. Non mi ero accorta che fossi rimasta a guardarla come un’idiota. Forse avrei dovuto cominciare ad avviarmi al gazebo.

«S-Sì,certo!Volevo solo assicurarmi che non ti rimettessi sotto le coperte» risposi un po’ incerta.

Lei mi guardò e sorrise «sei molto premurosa Santana,ma non sono una bambina» concluse facendomi l’occhiolino.

Abbassai immediatamente gli occhi e bofonchiai un «giusto».

Uscii dalla tenda senza neppure richiuderla,e m’incamminai verso il gazebo da cui già s’intravedevano delle porzioni di riso fumanti,che aspettavano solo di essere divorate da degli stomaci affamati. Steven mi fece un sorriso e poi cominciò ad ingurgitare il riso.

«Davvero una genialata prendere un tavolo e non delle sedie» affermai,affondando il cucchiaio in quell’ammasso colloso di cibo.

Alex  e Lucas si misero a ridere.

«Sì,beh,diciamo che non ci avevo pensato…» si giustificò il ragazzo.

Quando anche Brittany ci raggiunse,Steven si schiarì la voce e capii da subito che volesse dire qualcosa di particolarmente serio.

«Sentite,» esordì con quel suo tono di voce importante «più tardi voglio fare delle votazioni per eleggere un capogruppo. Voi siete favorevoli a quest'idea?Io penso che debba esserci qualcuno che sia in grado di guidarci e di fare delle scelte…capite cosa intendo?»

Io e Brittany ci guardammo a vicenda.

«Dillo e basta che vuoi essere capogruppo!» esclamò la sorella.

«Alex» la richiamò lui.

«Per me va bene» disse Brittany.

«Anche per me» dichiarò Lucas.

«Sì,credo sia giusto» aggiunsi io.

Steven annuì ed accennò un sorriso «bene!Quando sarà il momento,se sarete nelle tende,vi verrò a chiamare!»

                                                                                                

Mi misi a sedere sul materasso. Ero stanca,ma sapevo che se avessi provato a dormire,non ci sarei comunque riuscita. Brittany mi fece un sorrisetto simpatico,da seduta anche lei,e poi sbuffai. La cosa che mi dava più fastidio in quella tenda e,in generale,della vita all’accampamento,era l’aver spesso troppo tempo per pensare. Quando te ne stavi in silenzio,a girarti i pollici,allora i ricordi,le voci,le immagini e tutto quel che portavano con sé,cominciavano a tormentarti.

«Sei passata da Noah?» mi chiese Brittany «Sta sempre uguale?»

Annuii rattristata «non c’è verso di farlo uscire dalla tenda. Deve ancora metabolizzare il tutto. E' distrutto».

La bionda annuì e si morse un labbro «volevo davvero tanto bene a suo fratello. Era una di quelle persone che sanno farti spuntare il sorriso quando sei triste,che si fanno in quattro per te e che ti danno tutto il loro cuore. Mi manca un sacco...» affermò scuotendo la testa,con gli occhi lucidi.

«Un po’ come il fratello».

«Voi come vi siete conosciuti?» mi chiese lei,improvvisamente curiosa.

«Andavamo allo stesso liceo. Lui un giocatore di football un po’ stronzo,ed io una cheerleader pettegola e cattiva» risposi,accusando immediatamente una fitta piena di malinconia.

Lei sorrise «tu eri una cheerleader?»

«Assolutamente sì!» risposi ridacchiando «E non una delle cheerleader qualsiasi,ma “capo cheerleader”. Avevo una coach che non riusciresti nemmeno ad immaginare».

«Perché?»

«Ti giuro che è stata la persona più folle che io abbia mai conosciuto. E’ sempre stata incredibilmente spietata e rigida con noi,ma tutte sapevamo quanto bene ci volesse in realtà. Quando ha saputo che non sarei andata al college,ha fatto di tutto per cercare di aiutarmi,ma in quel momento non potevo davvero allontanarmi da casa».

La ragazza smise di fissare un punto della tenda,e puntò gli occhi sul mio viso «niente college,eh?I miei mi hanno praticamente costretta ad iscrivermi alla Columbia» disse con un'ironia un po' amara.

«Ah,sì?»

«Ma scherzi?!Un newyorkese che non va ad un college di prestigio,che razza di newyorkese è?Sarebbe un “colpo basso” fatto da una ragazzina che avrebbe voglia di inseguire dei sogni irraggiungibili,che porterebbero ad un fallimento e ad una cattiva immagine per l’intera famiglia».

«Wow!» esclamai esterrefatta «Ragionavano così i tuoi?»

Si morse un labbro ed annuii.

«E quale sarebbero stati i sogni irraggiungibili di quella ragazzina?» chiesi curiosa.

Lei sorrise,ma i suoi occhi divennero improvvisamente tristi «ballare. Ho sempre amato la danza. Ho passato la mia intera vita a ballare,credendo un giorno di poter fare la ballerina,e poi semplicemente hanno distrutto tutto,come se avessero soffiato su un castello di carte».

Abbozzai un sorriso per cercare di rassicurarla,ma quello che sentivo era solo una grande tristezza. Avvertivo la sua stessa tristezza,gliela leggevo negli occhi. Non riuscivo a smettere di pensare che eravamo entrambe vittime della vita ; io perché non avevo avuto la possibilità di realizzare i miei sogni,e lei perché invece le erano stati distrutti dalle figure che avrebbero dovuto incoraggiarla a seguirli.

«Beh,non pensarci…i ricordi sono armi pericolose» affermai,con amarezza.

«Già» rispose lei,annuendo.

La osservai per un po’,mentre era sovrappensiero. Sempre con quella sua aria triste,con quell’ingenuità che si mischiava all’azzurro dei suoi occhi,e quelle labbra screpolate e mangiucchiate per il nervosismo. Aveva un viso dolce,sì…era bella. Per un attimo me la immaginai ballare. Vidi nella mia testa quel corpo slanciato muoversi,girare,e i lunghi capelli biondi assecondare quegli stessi movimenti. Chissà come era graziosa mentre ballava,chissà se quella sua goffaggine che mi faceva tanto ridere,svaniva e si abbandonava alle note della melodia che avrebbero smosso il suo corpo. Mentre studiavo il profilo del suo collo chiaro,lei si girò.

«C’è una cosa che devo dirti» ammise seria,sguardo nello sguardo.

«Cosa?»

«Sono contenta di averti come compagna di stanza».

Continuai a guardarla,non potevo cedere.

«Anch’io. Sei una ragazza interessante Brittany Pierce,e mi divertirò a scoprire ogni tua sfaccettatura».

Lei sorrise e si morse un labbro,con aria timida «allora buona fortuna Santana Lopez. Sarebbe più facile uccidere ogni singolo affamato su questo pianeta,ma se proprio ci tieni,provaci…»

Sorrisi ed annuii «Non solo ci proverò,ma ci riuscirò!»

Lei scosse la testa ridendo e poi si stese,avvolgendosi nella coperta. In quel momento,non so perché,avrei voluto stringerla o essere stretta. Ancora mi risuonava l’eccitazione di quella sfida lanciata implicitamente,e ancora rivedevo il suo sguardo timido, provocarmi. Mi stesi anch’io,nella sua stessa direzione,con la testa di fronte alla sua nuca e le gambe quasi a sfiorare le sue. Sorrisi ripensando alle sue parole e chiusi gli occhi,rivedendo ancora la sua pelle. Avevo sempre avuto un problema ed era forse per quello che la coach Sylvester mi aveva sempre adorata : le sfide erano state da sempre la mia passione. Buona fortuna Santana Lopez,riascoltai nella mia mente. Sì,buona fortuna.


Salve gente!

Comincio con il dirvi che ahimé in questi giorni sono particolarmente impegnata,e che lo sarò probabilmente per un bel periodo. Questa vita è piena di "casini" e a volte avrei voglia di vivere perennemente estraniata dal resto del mondo,scrivendo e non avendo nient'altro da fare. Beh,tralasciando le fantasie,mi viene spontaneo chiedervi che cosa ve ne pare di questo nuovo capitolo,che segna l'inizio di un'evoluzione all'interno della storia. Insomma,questo Vermont vi piace oppure no?

Dai,dai...senza che mi dilunghi troppo,annoiandovi,aspetto con ansia di leggere i vostri pareri nelle recensioni!

Alla prossima!E state pronti...

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Incubi voraci ***


BETWEEN THE HUNGRY

Incubi voraci .

Mi guardai attorno per l’ennesima volta. Quelle strade grigie avevano assorbito lo stesso colore di quel cielo che,oscuro,inveiva silenziosamente,osservandomi come un predatore che aspetta di saltare con un guizzo felino sulla preda. C’era del vento,ma era quel tipo divento debole e costante,che freddo ti sferza il viso e ti tortura sino a che la tua pelle non grida aiuto. Forse avrebbe piovuto : l’aria era umida e pungente e le nuvole grigie di quel groviglio scomposto,sembravano pronte a scaricare ogni singola goccia di acqua,come se avessero avuto la necessità di sfogarsi in un pianto liberatorio. Non so perché,ma era quello che avrei voluto fare anch’io. Sentivo il bisogno di piangere,ma i miei occhi non versavano lacrima e solo il respiro tradiva la mia immagine fredda e insofferente. Quel paesaggio mi era familiare,quelle strade…quei fogli che simili ad uccelli si levavano di poco dall’asfalto,per poi ricadere a terra,incapaci. All’improvviso capii : mi trovavo a New York. Il grattacielo imponente all’orizzonte era un chiaro punto di riferimento,era lo stesso che avevo visto settimane prima,chiedendomi il motivo per cui il suo colore si mischiasse a quello del cielo,quasi avaro di mostrare le sue reali sembianze. Dovevo correre? Non c’era neppure un affamato in giro ; la città era vuota e silenziosa,ed era strano. Qualcosa di duro e freddo mi sbatté contro la caviglia,dandomi fastidio. Infilai la mano nello stivale e tirai fuori un coltello. Ecco cos’era. Lo rigirai nella mano più e più volte e soltanto dopo diversi secondi mi accorsi che era pieno di sangue fresco e rosso vivido,come quello di una persona. L’avevo notato sin da subito : il sangue degli affamati e quello degli umani era diverso. Quello degli affamati era quasi denso,più scuro,con delle tonalità simili al marrone miste al rosso. Quello degli umani,beh,era quello degli umani…il sangue che tutti hanno visto almeno una volta nella vita,quello liquido e di quel rosso vivo,che se lo fissi a lungo colare,dimentichi persino il dolore. Perché il coltello era pieno di sangue?Non c’era un’anima attorno a me,eppure più fissavo quell’oggetto metallico da cui gocciavano delle chiazze rosse,infrangendosi sull’asfalto,e più sentivo accrescermi nel petto una strana sensazione,una paura che mi irrigidiva ogni singolo muscolo e che rendeva il mio respiro sempre più veloce ed insoddisfacente. Ora era furioso,veloce,l’ossigeno adirato che mi percorreva e mi schiaffeggiava insolente,sempre più doloroso. Il dolore al petto,i muscoli duri come pietra,gli occhi impazziti,le mani che tremavano,le gambe che lentamente cedevano sotto il peso inesorabile della sofferenza. Non capivo. Era successo qualcosa,o stava per succedere qualcosa?Continuavo a guardare il coltello che sussultava nella mano impazzita,che ad ogni balzo mi sporcava la pelle di quel sangue. E più lo guardavo,più ne ero certa : era umano. All’improvviso sentii l’ossigeno fermarsi in gola,e bruciare. Il mio intero corpo tremava,aspettando qualcosa per cui tutta quella pena avesse finalmente senso. Dopo secondi in cui il mio unico pensiero fu quello di accasciarmi a terra,priva di forze,apparve lui,dalla fine della strada.

«Ciao amore mio» disse una voce dolce.

«Josh?» chiesi con le lacrime agli occhi.

Quell’immagine era inconfondibile : era proprio lui. Aveva i capelli più folti dell’ultima volta che l’avevo visto,ed erano disordinati. Gli occhi azzurri si socchiusero delicatamente,con dolcezza,e le labbra rosse si aprirono in un sorriso grazioso.

«Non mi riconosci?» mi domandò ancora sorridendo.

Le mie labbra si schiusero lentamente,e scossi la testa incredula.

«Posso abbracciarti?»

In tutta risposta,spalancò le braccia ed annuì.

Prima ancora che me ne rendessi conto,le mie gambe cominciarono a muoversi velocissime. La voglia di gettarmi tra quelle braccia,aveva preso il sopravvento sui tremori,e all’improvviso quello che era iniziato come un incubo,sembrava aver preso un’altra strada.

«Mi manchi tantissimo» sussurrò una voce,quando due braccia mi si chiusero attorno,con una forza dolce.

Le mie lacrime si attaccavano alla stoffa di quella maglietta bianca,ed il mio viso non voleva scostarsi dall’incavo della spalla. Sentivo il suo odore vivido nelle narici,e quell’immagine era così reale,così piena di consistenza,che non riuscivo a capire se l’avessi raggiunto dovunque ora si trovasse.

«Mi manchi tanto anche tu!» esclamai,con voce strozzata.

Quelle braccia che fino a poco prima mi avevano stretto,all’improvviso mi allontanarono. Rimasi perplessa. Josh mi guardò accigliato,con le labbra tese in una linea inespressiva,e gli occhi improvvisamente spenti e lucidi.

«E allora perché mi hai fatto questo?» chiese pieno di disappunto,scuotendo appena la testa.

Spalancai gli occhi. Cosa? Non capivo. Sentivo solo una fitta allo stomaco al ricordo del tono di voce che avevo appena ascoltato. Lui si portò una mano sul petto e,quando la tolse,apparve un’enorme chiazza rossa che lentamente si espandeva,inumidendo la stoffa bianca.

Guardai il sangue espandersi,a bocca aperta. Un’altra fitta mi strinse lo stomaco in una morsa e all’improvviso il respiro mi mancò,definitivamente. Guardai il coltello che ancora tenevo nella mano e lo lasciai cadere a terra,sconvolta.

«Perché mi hai fatto questo?» chiese ancora una volta Josh,con una mano sopra la chiazza di sangue.

Io scossi la testa,a bocca aperta «no…no» biascicai.

Lui annuì,poi afferrò i due lembi della maglia,e se la tolse. Sulla pelle,esattamente sopra il cuore,c’era incisa una S. Il sangue sgorgava dalla lettera tracciata imprecisamente,e quell’intero corpo che avevo stretto quanto più avevo potuto,era ricoperto dal rosso che inquinava la purezza di quella pelle.

«No» ripetei,accasciandomi a terra,inerme.

Mi portai le mani sul viso,sentendo le lacrime accarezzare con violenza i polpastrelli,ed una mano si pose sulla mia spalla.

«Ti amo lo stesso» sussurrò quella voce ormai irriconoscibile «ti amerò per sempre».

Stavo per rispondergli di perdonarmi,ma qualcosa in quello scenario lugubre cambiò.

«Santana!Svegliati,è soltanto un incubo!» mi urlò una voce familiare,mentre qualcosa mi scuoteva da una spalla.

«No!» urlai di rimando,tra le lacrime «Devo chiedergli di perdonarmi!Devo farlo!»

Una mano fredda mi accarezzo la guancia fradicia di lacrime «è stato solo un sogno. Non c’è niente che tu debba fare,ok? E’ stato solo un sogno» sussurrò quella voce,vicina al mio viso.

Mi misi seduta di scatto e aprii leggermente gli occhi. Sentivo caldo in tutto il corpo,ma non era un calore piacevole,era un calore invadente ed asfissiante,che soffocava la pelle. Mi portai una mano sul viso e mi accorsi che era bagnato,completamente bagnato. Stavo ancora piangendo,e mi stropicciai gli occhi. Ero confusa e agitata e…ansimavo,scuotendo ancora la testa.

«Calmati,» sussurrò ancora quella voce,piena di una dolcezza disarmante «ci sono io qui. Va tutto bene» di nuovo quelle dita a toccare l’umido sulle mie guance bollenti «va tutto bene Santana. Dimentica qualunque cosa tu abbia sognato,ora sei al sicuro».

Spalancai gli occhi e la vidi. C’era Brittany con me. Aveva i capelli biondi avvolti da un capellino nero di lana e mi guardava preoccupata,continuando ad accarezzarmi una guancia come avrebbe fatto una madre con il proprio figlio. Singhiozzai un’ultima volta,ancora confusa da quel sogno,e poi la guardai,perdendomi nell’azzurro di quelle iridi.

«Ehi…» sussurrai.

«Ehi…» sussurrò lei,sorridendomi.

Inspirai a fondo e un brivido mi percorse al contatto di quelle dita fredde sulla mia pelle bollente.

«Sei di turno,non è vero?» le chiesi con un filo di voce.

Mi guardò ancora negli occhi e poi,all’improvviso,spostò le dita dalla mia guancia,come se solo allora si fosse resa conto di averle lasciate sul mio viso.

«Sì,sì…ti ho sentita lamentarti e allora sono corsa a vedere. C’erano degli affamati nel tuo sogno?» mi chiese sempre con quel suo tono impregnato di preoccupazione.

Spostai lo sguardo dal suo viso e mi morsi un labbro «una specie…»

Lei annuì lentamente e guardò fuori dalla tenda «devo tornare fuori. Se mi dici che è tutto ok,vado,altrimenti resto un altro po’ qui con te».

Mi guardai attorno ancora disorientata. La luce di una lampada illuminava l’interno della tenda,ma solo in parte. Sul viso di Brittany sostava un angolo di penombra,che le oscurava in parte uno zigomo e la parte destra del busto.

«Vengo con te» affermai,guardandola «non riuscirei mai a riaddormentarmi. Faccio la guardia assieme a te,se non è un problema».

Lei mi scrutò con attenzione per un momento e poi schiuse le labbra in un sorriso radioso.

«Nessun problema!» esclamò contenta.

Sbattei le palpebre un paio di volte,forzandole ad aprirsi il più possibile,e poi mi tolsi di dosso la coperta nella quale ero avvolta. Brittany corse all’angolo della tenda e prese in mano la mia felpa,assieme agli stivaletti.

«Tieni» disse posandoli di fianco il materasso.

Le sorrisi in segno di ringraziamento. Mi alzai controvoglia,con i muscoli stanchi e tremolanti,sbadigliai e poi mi rivestii. Quando ebbi infilato lo stivaletto sinistro,gettai un’occhiata all’entrata della tenda ed inspirai,sopraffacendo uno sbadiglio. Mi sentivo la testa ovattata,ero stordita e confusa e … ansimante. Avevo ancora caldo in tutto il corpo,ma quando misi il primo piede fuori dalla tenda,una ventata d’aria fredda mi colpì in pieno viso,ed i miei sensi cominciarono a riattivarsi lentamente,come se mi avessero dato un paio di schiaffi sulle guance. Un fuoco smorto illuminava la tenebra della notte fiocamente,scoppiettando con irregolarità,in un lamento che sapeva di …casa. Brittany si sedé a terra,attorno a quel cerchio il cui calore andava svanendo, ed afferrò la coperta che aveva lasciato a terra. Mi guardò,mentre camminavo per raggiungerla,facendo attenzione a non inciampare in qualche sasso nascosto dai ciuffi d’erba.

«Vieni» mi disse,con un sorriso rassicurante, allargando la coperta.

Velocizzai il mio passo e mi sedetti al suo fianco,a gambe incrociate. Lei mi avvolse immediatamente nella coperta,portandosi con una mano il tessuto a coprirle la schiena. Per qualche assurda ed umana ragione,quell’incubo mi sembrò subito più distante. Cominciai a fissare il fuoco morente,mi concentrai prima sul mio respiro,e poi aspettai che il prossimo scoppiettio si facesse vivo.

«Vuoi parlarne?» chiese la bionda,avvicinandosi con il corpo.

La guardai e sospirai con pesantezza «forse…non lo so» sussurrai insicura.

Lei annuì con la testa e fece spallucce.

«Conobbi Josh al liceo.» cominciai con un filo di voce tremolante,incrociando immediatamente il suo sguardo « Lui era…beh,era semplicemente Josh. Quarterback,popolare,bellissimo. Sai quel tipo di ragazzi che sono una specie di mito?Quelli che sembrano perfetti e dietro cui tutti sbavano?»

Lei si limitò ad annuire.

«Josh era uno di quelli. Quando gli rivolsi la parola per la prima volta gli dissi una sola e semplice frase : “ vai al diavolo”. Carino,no? Mi aveva fregato l’ultimo budino ed erano giorni che non ne mangiavo uno perché la coach Sylvester ce l’aveva severamente vietato. Lui,in tutta risposta,mi guardò,mi fece un sorrisetto sfacciato,e sfilò via come se niente fosse con il suo bel budino alla vaniglia.» feci una pausa,e mi preparai mentalmente al peggio «Prima per me le cose erano diverse,molto diverse. Andavo in giro per i corridoi e scatenavo l’inferno contro chi mi stava sulle scatole o aveva una media più alta della mia,non che ci volesse poi molto».

«Una bulla!» affermò lei,con un mezzo sorriso divertito.

«Io preferivo definirmi stronza e basta» risposi facendo spallucce «pensavo che la parola bulla facesse un po’ troppo stereotipo da scuola superiore. Il mio modo di salutare le persone era mandandole a quel paese,gridandogli di fottersi,di levarsi dai piedi o insultandole. E il mio modo di relazionarmi con le persone era …beh,sì,era…"facendomele"» ammisi un po’ imbarazzata.

«Oh!» esclamò Brittany sorpresa e più divertita di prima «Eri proprio una ragazzaccia!»

«Sì,» ridacchiai «lo ero! Quando un’altra cheerleader mi rubò il ragazzo che avevo puntato ad una festa,le tirai uno schiaffo davanti a tutta la scuola. Inutile dire che scoppiò una rissa assurda e che se rimasi in quella scuola fu solo grazie alla coach. Comunque,» continuai con un sorriso amaro stampato sulle labbra «Josh mi piaceva. Ma non parlo di piacero nel senso di … piacere,ma…»

«Volevi fartelo!» m’interruppe Brittany,togliendomi le parole di bocca.

«Esattamente!» affermai ridacchiando «Mi eccitava il fatto che fosse l’unico a tenermi testa in quella scuola. Ogni volta,puntualmente,mi rubava l’ultimo budino o l’ultima mela,o l’ultima porzione di crocchette di pollo…insomma,stava diventando un incubo e sempre puntualmente,me lo ritrovavo di fronte con un sorrisetto beffardo stampato sulla faccia. Odioso! Avevo voglia di prenderlo a pugni o tirargli addosso il mio frullato alla fragola».

Brittany rise.

«Un giorno,finita la penultima partita del campionato di football,gettai a terra i miei pon pon e corsi in campo. Gli tolsi il casco,lo strattonai per un lembo della maglietta,e lo baciai con rabbia. Lui mi guardò confuso,tra il divertito ed il sorpreso,e mi disse : “perché l’hai fatto?” e io gli risposi : “ perché spero che così la smetterai di fregarmi quel fottutissimo budino!”. Da quel momento cambiò ogni cosa. Capii che Josh non era solo il ragazzo dall’immagine perfetta,ma anche il ragazzo che aveva perso il padre all’età di otto anni per overdose. Capii che era un ragazzo tanto bello quanto insicuro,e spesso tormentato. Capii che era il ragazzo che non parlava più con la madre da quando non era nient’altro che un bambino,e che era il ragazzo con uno zio in prigione con l’accusa di rapina a mano armata. Aveva una vita incasinata,come la mia. Mentre tutti se lo immaginavano a spassarsela con le più belle ragazze della scuola,lui in realtà se ne stava chiuso in camera ad ascoltare i cd di suo padre,per soffocare i rumori dei singhiozzi» mi interruppi,e mi asciugai una lacrima. «mi innamorai di lui quasi subito. Era diverso,con lui era tutto diverso. Facemmo l’amore dopo sei mesi che stavamo insieme,e per me era un vero record. All’improvviso smisi di fare a botte,di prendere in giro gli studenti che non mi andavano a genio,di rispondere solo con le parolacce,e di incasinarmi la vita più di quanto non lo fosse già. Sentivo di non avere più bisogno di quella serie di cavolate,e infatti era così. Quando io e Josh ci guardammo per la prima volta negli occhi,capimmo che non eravamo soltanto il ragazzo bello e la cheerleader stronza. Capimmo di essere simili,di essere in grado di completarci. Era la mia metà» dissi singhiozzando,e stringendo tra le mie mani la collana che avevo al collo «ed è per questo che adesso mi sento così…maledettamente sola».

Fu allora che Brittany mi guardò,scuotendo la testa tra delle lacrime incessanti,e si sforzò di sorridermi.

«Mi dispiace tantissimo» biascicò,smossa dai singhiozzi «scusa» disse infine,sfregandosi la coperta sul viso.

«Tranquilla. Scusami tu. Non volevo intristirti con tutto questo».

Si scoprì il viso dalla stoffa e mi buttò le braccia al collo.

«Mi dispiace tanto» sussurrò disperata al mio orecchio «mi dispiace».

Sentivo il bagnato delle sue lacrime sul profilo del collo. Singhiozzava in preda ad un pianto angosciante e liberatorio,molto più intenso del mio. Di lacrime,io,ne avevo versate troppe,e quelle che venivano fuori,erano pacate e tanto dolci quanto corrosive. Brittany forse si era immedesimata in me,o forse la mia storia era stata il pretesto per lasciarsi andare come non aveva mai fatto dall’inizio del caos. Forse non piangeva pensando realmente a me e Josh,ma pensando a tutto quel che aveva perso. Mi sentii in dovere di stringerla forte,così come aveva fatto lei. Ricambiai l’abbraccio e le sussurrai di stare tranquilla.

«E’ tutto uno schifo» biascicò lei con il viso sulla mia pelle.

Feci in modo che il mio corpo aderisse al suo il più possibile,ed improvvisamente avvertii il suo calore mischiarsi col mio. Provavo tre cose in quel momento : freddo,per le lacrime sulle quali il vento soffiava. Dolore,perché i ricordi mi stavano divorando dell’interno. E caldo,perché…perché Brittany mi riscaldava con il fuoco che le divampava dentro. Era uno strano mix,eppure l’unica cosa che mi venne spontanea di fare,fu accarezzarle i capelli. Singhiozzò ancora una volta sull’incavo del mio collo,e allora presi a sfiorarle dolcemente la schiena,con i polpastrelli. Lei alzò un poco il viso e mi diede un piccolo e delicato bacio sulla guancia. Si allontanò,e mi guardò per un attimo con quegli occhi arrossati e pieni di lacrime. Era bella anche in quel modo,anche quando aveva stampato sul viso l’immagine della sofferenza. L’azzurro si mischiò al nero per un istante interminabile,e quel nero non era l’oscurità della notte nella quale eravamo entrambe avvolte. Io non la stavo guardando,e lei non mi stava guardando. La verità? La verità era che in quell’istante fermo nel tempo,che in quell’attimo pieno d’infinito e di emozioni,noi stavamo leggendo. Quegli occhi,quelle lacrime,quel dolore…era tutto così…vivo e intenso,e reale. Sentivo di respirare,eppure scordavo il modo di farlo. Sapevo di poter parlare,eppure non ero in grado di aprire bocca. Ero certa che fosse notte,eppure mi bruciavano gli occhi per la troppa luce. Prima ancora che potessi capire altro,che un’ennesima certezza mi sfuggisse di mano,smisi di leggere. Ed era troppo quel che avevo visto,era tutto troppo…ogni cosa sapeva di una piacevole ed allettante esagerazione. Ma c’era una cosa che non mi scivolò via dalle mani come fosse semplice fumo,un’unica certezza imprescindibile : in quell’attimo la mia esistenza aveva ripreso ad esistere,ed il mio cuore a battere.

Due anime rese misere dall’ingordigia della vita,si erano ritrovate faccia a faccia,occhi negli occhi. Si erano sfiorate,e allora l’elettricità aveva scosso ogni fibra di quelle tristi creature. Poi il rumore della notte le aveva inglobate,ma il desiderio di esser vive l’aveva pretese.


Salve gente!Ed eccoci con questo capitolo abbastanza importante.

Avete mai avuto la sensazione,perdendovi in uno sguardo,di aver trovato qualcuno?Sì,beh,insomma...quella sensazione che vi fa accelerare il battito all'improvviso e vi ferma il respiro,vi fa girare la testa e vi cattura a sè con prepotenza? Ecco,è con questo che finisce il capitolo : un'unica sensazione impressa a fuoco nell'animo di due persone. Molte cose devono ancora accadere,e state pronti!Nel frattempo,vi aspetto nelle recensioni per sapere se questo capitolo,che ho scritto provando davvero una forte emozione,vi sia piaciuto o meno.

Alla prossima,gente!Il bello deve ancora venire...

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Britt ***


BETWEEN THE HUNGRY

Britt .

Quando aprii gli occhi quella mattina,Brittany era ancora al mio fianco.

Le prime luci di quel debole sole che penetrava a stento le nubi,mi accarezzava il viso,quasi con affetto. Non mi ero accorta di essermi addormentata. Non avevo mai pensato potesse essere possibile. Eppure,era successo. La punta degli stivali sfiorava quel che rimaneva della legna che la sera prima mi aveva regalato il dolce rumore dello scoppiettio. Ero avvolta in una pesante coperta,con la testa sull’erba e il calore di un braccio sulla schiena. Dormivo da più di una settimana con Brittany,eppure quella mattina avvertii qualcosa di diverso nel contatto tra i nostri corpi stanchi. Mi voltai lentamente,per non svegliarla,ma il suo braccio finì bruscamente sul terreno ricoperto d’erba,e allora lei aprì gli occhi.

«Scusa» biascicai mortificata «non volevo svegliarti».

Lei,in tutta risposta,sbadigliò sul mio viso e si stampò sulle labbra un sorrisetto compiaciuto.

«Buongiorno» mi disse,sollevando il busto e strizzando forte gli occhi.

«Buongiorno a te» risposi,sorridendo dolcemente.

Lei ricambiò il sorriso.

Oltre ai nostri due corpi che si nascondevano goffamente nella coperta,stesi sull’erba,non c’era nessun altro al di fuori delle proprie tende. Era ancora presto e neppure il nostro capogruppo si era alzato con l’assurda pretesa di “addestrarci”. Quel giorno Steven avrebbe dovuto insegnarci a sparare,e a quel pensiero sentivo una perversa sensazione di entusiasmo pervadermi.

L’aria era maledettamente gelida e mi si stampava sulla pelle come una serie di cazzotti in pieno viso. Forse aiutava a svegliarci,ma mi sentivo completamente intirizzita e ancor più frastornata. Io e Brittany ci eravamo addormentate forse qualche ora prima,e,in conclusione,quella notte non avevo chiuso occhio. Avrei avvertito i postumi di quell’insonnia dovuta all’incubo,ne ero certa.

«Andiamo in tenda?» chiesi alla ragazza che si stropicciava gli occhi.

Lei mi guardò e sbadigliò di nuovo. «In teoria non potrei lasciare la postazione sino a che qualcun altro non si svegli…» mi rispose lei,storcendo la bocca.

«Credo che tra poco si alzerà Steven. E poi se dovesse venire qualche affamato,con questo silenzio lo sentiremmo avvicinarsi. Qui fuori si gela» affermai,stringendomi nelle braccia.

«D’accordo» rispose lei convinta.

Non appena misi un piede sul materiale verde e inamidato della tenda,mi sentii immediatamente al riparo da quel freddo fastidioso. Ovviamente era solo una mia impressione,perché in quel fragile ammasso di sottile tela,sorretto da uno scheletro alquanto instabile,faceva freddo esattamente come fuori. Eppure,quello stupido ammasso,era ormai una casa per me. Quando guardavo quella tenda,dall’esterno,non vedevo una semplice tenda,ma un “rifugio” ricoperto dall’illusione della sicurezza. In quel campo non solo stavamo cercando di ricostruire una vita,ma anche la speranza di riuscire a vivere. Sensazioni,emozioni,desideri,pensieri,angoscia e sofferenza erano concentrate in quella distesa verde,che tutto aveva meno che l’immagine delle nostre vecchie città.

«Come ti senti?» mi chiese Brittany,sedendosi sul materasso e avvolgendosi nella coperta.

Guardai a terra e sospirai «sto bene,credo».

Quando alzai gli occhi ed incrociai i suoi,notai qualcosa di diverso nel suo viso. Osservai bene le labbra pallide per il freddo,le guance chiare e morbide,poi il naso,gli occhi che ancora assonnati mi guardavano a loro volta,la fronte,i capelli…ma niente. Allora mi allontanai un po’ e la guardai per intero,mi stampai la sua figura nella testa,per potervi riflettere senza metterla a disagio. Forse era già tardi,perché lei sorrideva divertita,scuotendo la testa e poi infilandola  sotto l’ammasso di lana.

«Dai,smettila di guardarmi e vieni qui» mi ordinò con il viso nascosto.

Mi avviai lentamente,non so perché. Poi mi tolsi gli stivaletti e mi sedetti sul materasso,con il suo corpo affianco al mio,completamente nascosto,come quello di una bambina che non vuol farsi trovare. Presi un lembo della coperta,lo sollevai e mi coprii le gambe. Lei si scoprì il viso e avvicinò le sue alle mie,lasciando che i nostri calori ci scaldassero reciprocamente. Un brivido mi percorse immediatamente.

«Perché mi guardavi prima?» mi chiese con un sorrisetto sulle labbra.

Spostai lo sguardo dal suo viso e sorrisi a mia volta. Perché la guardavo…perché la guardavo?

«Io…i-io…non so,hai qualcosa di diverso questa mattina».

Lei socchiuse leggermente gli occhi «può darsi».

Scossi la testa e sorrisi.

Mi guardò così a lungo,che cominciavo quasi a sentirmi a disagio. I suoi occhi erano così limpidi,che sentirli sul mio viso mi faceva provare uno strano senso di timore. Non volevo che mi guardasse con così tanta insistenza,forse perché in quel momento non sarei stata in grado di reggere la potenza di quello sguardo con il mio. Lei si avvicinò di più col corpo,e allora un altro brivido mi percorse con prepotenza. Era strano,Dio,se era strano…così strano,che quando spostai i miei occhi sul suo viso,mi si accorciò il respiro e tremai per un istante.

«Sono contenta che ti sia confidata con me» mi sussurrò troppo vicina.

«Perché piangevi?» le chiesi,non smettendo di guardarla.

«Perché ero triste» si limitò a dire lei,con sincerità.

Non so perché,ma in quel momento le accarezzai la guancia con il dorso della mano,delicatamente. Sentii la sua pelle morbida e liscia sulla mia,e lei sorrise.

«Non devi piangere per me. Io posso farcela,sono forte» dissi,con la voce debole.

Lei si morse un labbro,spostò gli occhi dal mio viso,e poi li riportò nei miei.

«Piangevo per tutto. Essere umani,adesso,non è un peccato…è un privilegio» sussurrò lei in risposta.

Accennai un mezzo sorriso ed annuii «già».

All’improvviso la zip della tenda si aprì,e noi sussultammo.

«Dovresti essere lì fuori» affermò una voce maschile,severa «che diavolo ci fai qui,Brittany?»

Steven ci guardava con un misto di stanchezza e disappunto sul viso. Aveva due grandi occhiaie bluastre al di sotto degli occhi,le labbra serrate e l’aspetto disordinato. Il pizzetto che aveva dal momento in cui l’avevamo incontrato per la prima volta,si confondeva con il resto della barba,e lo invecchiava di parecchio.

«Sì,hai ragione…scusami!Mi sono allontanata dieci minuti fa perché avevo freddo» rispose la ragazza,ormai lontana dal mio corpo.

Steven chiuse gli occhi per un istante e scosse un poco la testa.

«E’ stata colpa mia» aggiunsi io «questa notte ho avuto gli incubi e lei si è preoccupata per me. Mi ha trovata sveglia e mi ha chiesto come stavo,tutto qui».

Brittany mi diede un calcio da sotto le coperte.

«D’accordo,ma la prossima volta che sei di turno sarebbe meglio che non ti allontanassi» affermò il ragazzo passandosi una mano sul viso.

«Ok».

«Questa mattina niente colazione» aggiunse prima di uscire «il cibo sta finendo e presto dovremo andare in spedizione. Andremo avanti per qualche altro giorno,giusto il tempo che impariate ad usare una pistola per difendervi,e poi organizzeremo un gruppo».

Richiuse la tenda alle sue spalle e uscì con uno sbadiglio. L’idea di una spedizione cominciava ad agitarmi. Era tranquillo lì,in quel campo freddo,ma in città non era lo stesso.

«Perfetto,» disse Brittany sospirando ed alzandosi di scatto dal letto «presto saremo tutti di nuovo là fuori in quella merda».

«E’ necessario» aggiunsi io.

«Lo è,» rispose lei,infilandosi le scarpe bruscamente «ma c’è sempre il rischio che qualcuno di noi venga ammazzato».

                                                                                   

«Avete capito tutti?» domandò Steven,alzando la pistola sopra la sua testa ed agitandola un po’.

Nonostante il vento freddo al mio risveglio,dalle nuvole si era destato un sole caldo ed accogliente che mitigava l’aria,rendendola piacevole. Ci eravamo allontanati dal campo di un bel po’,per non rischiare che il rumore degli spari avvicinasse gli affamati all’accampamento. Persino Noah,dopo suppliche e discussioni varie,aveva deciso di venire con noi. Non sarebbe stato saggio lasciarlo solo in quella tenda,né sarebbe stato umano da parte nostra. Era parte integrante del gruppo,che lo volesse o no,ed era giunto il momento che si risvegliasse da quel dolore che lo teneva stretto in una morsa. Lo guardai per un istante,mentre imbracciava il fucile ed osservava Steven muoversi e spiegare ancora una volta come si ricaricasse una pistola. Se ne stava immobile,rigido come una statua,e gli occhi persi in chissà quale altra dimensione. Forse rivedeva sua madre morire,o forse riascoltava le parole di quella lettera che teneva ancora con sé. Lucas mi aveva raccontato che ogni notte,prima di addormentarsi,accendeva una torcia e puntava la luce su quel pezzo di carta scritto dal fratello. Jake aveva allegato una foto alla lettera in cui sorrideva e stringeva un braccio attorno alle spalle della madre. Mi aveva raccontato che spesso,a notte fonda,veniva svegliato dal rumore di alcuni singhiozzi,e che richiudeva gli occhi fingendo di dormire. Noah era un tipo orgoglioso e Lucas sapeva bene che non gli gradiva affatto mostrarsi debole di fronte ad altri occhi. Era una brutta situazione la sua. C’era chi preferiva reagire,attivandosi in qualche modo come Steven. C’era chi fingeva di esser felice e menefreghista come Alex. C’era chi la notte si svegliava fradicio di lacrime,come me. E c’era chi invece veniva così sopraffatto dal dolore,che non aveva nemmeno più la forza di parlare o di mangiare,come Puckerman. Avrei voluto fare qualcosa per tirarlo sù di morale,qualsiasi cosa. Ma sapevo che per aiutarlo in qualche modo,avrei dovuto avere la capacità di leggergli nel pensiero. Non mi parlava,non parlava con nessuno. Di tanto in tanto usciva dalla tenda,si guardava attorno,prendeva la sua razione di cibo,e poi tornava nel suo piccolo e fragile rifugio,estraniandosi da tutto e tutti. Nel mondo normale,in quello in cui la civiltà esiste ed è fondamentale,qualcuno l’avrebbe definito “depresso”. Non era così che volevo definirlo io,non era la parola giusta. Io lo definivo “sconfitto”,sconfitto da tutto,sconfitto dalla vita…per il momento.

«Alex» la chiamò il fratello «passa la tua pistola a Lucas. Proverete uno per volta,così potrò guardarvi come si deve».

«Ai tuoi ordini fratellone!»

Da due aste di legno,conficcate nella terra,da cui pendeva un filo legato alle due estremità,con tre bottiglie di plastica attaccate. Steven,poche ore prima,aveva preso tutto il necessario ed era giunto in quel posto per prepararlo al nostro addestramento. Si impegnava davvero molto,questo bisognava concederglielo.

Lucas impugnò l’arma,la scrutò per bene,l’agitò un po’ per soppesarla,e poi si avvicinò un poco ai bersagli. Era preoccupato,potevo leggerglielo nel viso.

«Tienila come ti ho fatto vedere prima» suggerì Steven «così colpirai verso il basso. Devi impugnarla come si deve per sperare di beccare i bersagli».

Mio fratello strizzò appena gli occhi,si asciugò il sudore sulla fronte e strinse l’arma con tutte e due le mani,ponendo le braccia perpendicolari al busto.

«Ora va bene. Manda indietro il carrello».

Lucas obbedì.

«Mira e spara» disse ancora Steven.

Lucas guardò attentamente le bottiglie,socchiuse gli occhi per l’eccessiva concentrazione,e poi sparò. Mancato.

«Prova ancora».

Fece un grande respiro,ricaricò l’arma,mirò e sparò di nuovo.

Immediatamente mi scappò un sorriso e cominciai a battergli le mani,assieme agli altri. Aveva preso in pieno la seconda bottiglia.

«Bravo ragazzo!Hai sparato un bel colpo» lo elogiò Steven,dandogli una pacca sulla spalla.

«E’ un Lopez!» esclamai,ridendo «è bravo in tutto».

Lui mi sorrise e si lasciò abbracciare,con una punta di imbarazzo sul viso.

Riprovò altre tre volte,di cui due colpi andarono a buon fine,poi fu il turno di Noah.

«Sei sicuro di voler sparare con il fucile?Penso che dovresti provare con la pistola» gli disse Steven.

Puckerman non lo guardò nemmeno in viso. Si allontanò di una quindicina di metri e cominciò a fissare,con quella sua espressione dura,la prima bottiglia. Caricò,imbracciò il fucile a dovere,e poi sparò. Presa in pieno. Nessuno di noi parlò. Caricò,imbracciò il fucile,guardò la seconda bottiglia e sparò. Presa in pieno,anche quella. Fece lo stesso e sparò alla terza. Presa in pieno.

«Wow» biascicò Brittany stupita,al mio fianco.

La guardai ed annuii,ma non c’era stupore dentro di me,bensì preoccupazione.

«Complimenti,amico» si congratulò Steven,guardandolo con ammirazione «non sei niente male».

Puckerman annuì,non rispose,e si sedette a terra,a braccia conserte.

Poi fu il mio turno. Quando Lucas mi passò la pistola e sentii il suo peso,uno strano brivido mi si scatenò dentro. Fu come se qualcuno mi avesse dato un cazzotto allo stomaco e poi mi avesse fatto una carezza. Desideravo ardentemente sparare,ma allo stesso tempo mi tremavano le gambe nell’impugnare l’arma.

«Non la stai impugnando correttamente» disse Steven con aria di rimprovero,avvicinandosi.

Aggrottai le sopracciglia e continuai a fissare la pistola. Cosa stavo sbagliando?

«Questa devi metterla così» mi suggerì il ragazzo,spostandomi la mano sinistra sotto l’arma «devi tenerla saldamente» continuò,stringendo le sue mani attorno alle mie da dietro la mia schiena. Potevo vedere i bicipiti tendersi e i muscoli ingrossarsi. Il suo viso era di fianco al mio,e il suo respiro soffiava sulla pelle del collo. Era vicino,troppo vicino.

«Ok» dissi secca.

Lui si staccò,ed io fissai i suoi grandi occhi,interdetta.

«Adesso prova» mi disse,tenendo improvvisamente lo sguardo basso.

Sì,ero confusa. Era attrazione quella che avevo scorto in quelle iridi?

Caricai l’arma,tirai indietro il carrello,mirai e sparai. Sbagliato.

«Riprova» mi incitò Steven.

Mi irrigidii. Tirai indietro il carrello e sparai di nuovo. Sbagliato anche quello.

«Avanti,concentrati!» insisté il ragazzo che continuava ad osservarmi. Tutti mi osservavano.

Feci un grande respiro. Tirai indietro il carrello dell’arma,mirai e sparai. Niente.

«Cazzo!» sbottai lanciando la pistola a terra.

Brittany si avvicinò immediatamente,così come Steven «ehi,è tutto ok. Non fa niente. E’ la prima volta,farò schifo anch’io» mi disse la ragazza con una mano sulla spalla.

«Lo so,lo so!» risposi dura.

«E allora qual è il problema?» mi chiese con quella dolcezza nella voce.

Non risposi e mi allontanai.

«Va tutto bene?» domandò Steven che mi guardava preoccupato «Non c’è bisogno di innervosirsi. Alex c’ha messo mesi solo per imparare a caricarla».

«'Fanculo» borbottò la ragazza seduta a terra,mentre fumava.

«Sì,sì…è tutto ok. Devo solo…devo» inspirai a fondo,chiudendo gli occhi.

Merda.

«Stai bene?» mi chiese lui,mentre ancora tenevo gli occhi chiusi.

Annuii,perché non sarei stata in grado di parlare. Lo sentivo,di nuovo. Aprii gli occhi e cominciai a camminare,allontanandomi.

«Dove vai?»

Maledizione. Sentivo il sole soffocarmi la pelle,impedirmi di respirare. Cocente inveiva sulla nuca e silenzioso rideva di me. Guardavo fisso per terra e vedevo i miei piedi muoversi e all’improvviso incrociarsi,sino a che non sentii l’erba sulla mia pelle. Mi portai le mani sul viso,poi le spostai sul petto,ma lo sentivo comunque. Stavo soffocando,non riuscivo a respirare e il cuore batteva così veloce che pensavo sarebbe scappato via,abbandonandomi. Tutto si fece improvvisamente sfocato,lontano,come se non mi appartenesse. All’improvviso,ne fui certa : stavo morendo.

«Che cos’ha?» chiese mio fratello,mentre ansimavo a terra «San!»

Vedevo i loro volti,ma non li vedevo veramente. Erano avvolti dalla luce di quel sole che mi stava uccidendo e parevano sfocati come fossero stati le figure di un sogno,o angeli immaginari. Vidi Brittany che si mordeva un labbro preoccupata,osservandomi. Poi c’era Alex al fianco di Steven,e poi ancora Lucas che si agitava in preda al panico.

Contrassi il viso in una smorfia di dolore e chiusi gli occhi. Non respiravo. Non respiravo e stavo morendo. Mi girava la testa,mi veniva da vomitare,ma la cosa peggiore era l’angoscia che avvertivo dentro. Ero così debole…così vulnerabile e così ….stavo morendo.

Steven mi prese da terra e provò a sollevarmi,ma io scossi la testa e piangendo,gli dissi di lasciarmi stare. Erano tutti attorno a me,tutti mi guardavano,ma io non guardavo loro. Vedevo altro…vedevo niente,ascoltavo soltanto il battito impazzito e il respiro che mi si strozzava in gola. Mi portai una mano sul petto,faceva male.

«Levatevi!» esclamò una voce familiare.

Noah si fece spazio nel cerchiò e ordinò agli altri di allontanarsi. Era lui. Si mise in ginocchio e mi guardò attentamente,sempre con quell’espressione dura. Mi mise una mano sotto il mento e lo sollevo,sino a che i miei occhi non si ritrovarono nei suoi. Erano così vuoti,così spenti…sentivo quell’angoscia crescere anziché diminuire.

«Ascoltami,Santana» cominciò con un filo di voce dolce e calda,in contrasto con la sua espressione «va tutto bene. Va tutto bene. Non c’è niente di cui aver paura,non c’è niente che tu debba temere. Sei al sicuro,ci sono io qui con te».

Scossi la testa e un’altra lacrima scese giù velocissima. Soffocavo,soffocavo!

«Guardami!» continuò lui. Obbedii. «Adesso chiudi gli occhi. Ricordi quel posto bellissimo?Torna lì e respira. Respira,lentamente. Tu sei viva,senti la pace…la senti?»

Annuii.

Ero lì di nuovo,ma tutto era diverso. Non c’erano più fiori e la cascata aveva smesso di scendere giù,cristallina e piacevolmente rumorosa. I contorni del lago si facevano lentamente più indefiniti,fino a scomparire. Quando sentii un’altra fitta impadronirsi di me,allora lo vidi. Non era rimasto nient’altro che un campo : il campo.

Aprii gli occhi di scatto e mi portai le mani sul viso. Non era ancora finita,insisteva a divorarmi e farmi sua.

«Posso provare?» chiese una voce dolce,vicino a Noah.

«Questa volta è più forte» affermò il ragazzo,facendo spazio a Brittany.

«Non è la prima volta che le succede?»

Noah scosse la testa.

Brittany si chinò al mio fianco e mi prese il viso con entrambe le mani. Non disse nulla,mi guardò soltanto ed io guardai lei. Quegli occhi,quella pelle,quelle labbra. Ci fissammo per un po',poi lei mi sorprese dandomi un bacio sulla fronte.

«Tranquilla» mi sussurrò,portandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio  «sta passando. Passa tutto,prima o poi. Torna da me,non lasciare che s’impadronisca di te».

La guardai e la guardai e la guardai e…mi resi conto di esser tornata a respirare con regolarità. Singhiozzai ancora e Brittany mi asciugò le lacrime con il dorso della mano. Avrei voluto fare una cosa in quel momento,ma…non potevo. Non potevo perché…non potevo e basta. Quando mi rialzai da terra,aiutata da Puckerman e Brittany,non ero ancora del tutto lucida. Mi sentivo debole e inerme,come se mi avessero svuotata di ogni cosa. Era successo di nuovo,ma quella volta era stato peggio.

«Grazie» biascicai,rivolgendomi ad entrambi.

Brittany mi sorrise triste e Noah si limitò ad annuire. Il sole splendeva alto nel cielo e fu in quel momento che capii di aver solo immaginato quel calore soffocante. Se ne stava lì,in mezzo a quelle nuvole,quasi a dire :” esisto ancora”. Sentivo qualcosa dentro di me,di inverosimile. Lo sentivo,ma non volevo sentirlo. Era strano,diverso,potente…si stava presentando,ma non volevo ascoltare il suo nome.

«Britt» sussurrai debolmente.

Lei si voltò con un gran sorriso «come mi hai chiamata?»

«Britt» ripetei,sforzandomi di sorridere.

«Che c’è?» mi chiese,sempre sorridendo.

 «Niente» risposi,tenendo gli occhi fissi sul suo viso.

Mentivo. Se fossi stata sincera,le avrei detto : “ Sto solo ripetendo il nome che sento nella mia testa”.

Britt .


Carissimi,eccoci qui. Con questo nuovo capitolo spero di aver fatto breccia nel vostro cuore almeno un po'. La storia si evolve,le vicende si evolvono,il brittana si evolve...

ATTENZIONE : presto assistere ad un qualcosa...non specifico cosa,ma lascio alla vostra immaginazione l'elaborazione di questa frase criptica. 

Non abbandonatemi,mi raccomando!Ogni mia promessa verra' mantenuta.

Allora,che ne pensate?

Sembra che santana sia sempre piu' affezionata alla nostra cara Brittany. Nel frattempo Steven va avanti con la sua idea di addestramento,ma la nostra protagonista viene sopraffatta da un altro attacco di panico. E' chiaro : l'apocalisse non lascia illeso nessuno. Si riprendera' noah? Povero...mi fa molta tristezza.

Come al solito lascio a voi il piacere di esaminare questa mia piccola creazione e di rendenermi partecipe con i vostri pareri. Carissimi,alla prossima!Preparatevi...

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** La spedizione ***


Between the hungry

La spedizione .

Quella notte,dopo giorni più o meno sereni,sognai di nuovo. Ma fu diverso. Camminavo in un bosco. L’odore della corteccia e del muschio s’ infilava prepotentemente nelle mie narici. Gli unici colori che i miei occhi scorgevano erano il verde ed il marrone. Le fronde degli alberi coprivano il cielo,ma lasciavano lo spazio sufficiente a far sì che la luce risplendesse chiara e limpida su ogni cosa,avvolgendola delicatamente. Qualche goccia d’acqua scivolava giù da alcune foglie e luccicava a contatto con i raggi solari. Era un paesaggio ed un atmosfera così incantevole,che m'infondeva nell’animo gentilezza,sciogliendo i muscoli perennemente rigidi e lasciando il respiro tranquillo,senza intaccare il suo ritmo lento e sereno. Mi sentivo bene lì in mezzo. La natura era una sicurezza,una sorta di ampolla di vetro nella quale ero racchiusa e protetta da tutto quel che c’era all’esterno. Non smettevo di camminare,però. Non potevo farlo e non sapevo il perché. Come al solito,non c’era mai troppa certezza in quelle breve ed intense visioni nelle quali mi perdevo. Erano belle,erano brutte,ma troppo spesso ignote. Scavalcai un tronco che m’intralciava il cammino ; aveva un forte odore di terra fresca ed era ricoperto dal muschio. Poi,osservando i miei piedi,mi accorsi di percorrere un sentiero. Non c’era erba sulla quale poggiavano le suole dei miei stivali,ma terra di un marrone vivo,tendente al rossastro,ben definito in mezzo a quel verde che lo accompagnava con delicatezza. Sì,mi sentivo bene. Non avevo coltelli nelle scarpe,non c’erano affamati,né visi impressi nella memoria e divorati dal tempo. Solo natura,solo l’infinità del verde e la carezza della luce. Quando smisi di guardarmi i piedi,mi accorsi che il bosco stava finendo. Potevo vedere gli alberi fare spazio a dell’erba verde,ed il sentiero cessare. C’era un enorme prato al di fuori di lì ed era proprio la destinazione di quel sentiero. Dovevo preoccuparmi? No,non potevo. Accelerai il passo,improvvisamente curiosa. Quando sfiorai la corteccia dell’ultimo albero,lo vidi. Un’enorme distesa verde si estendeva dinanzi a me,chiara e vivida. Ma i miei occhi furono catturati da qualcos’altro : un lago. I raggi del sole sbattevano sul pelo cristallino dell’acqua e rimbalzavano regalando dei magnifici bagliori a decorare l’aria. Dio,era meraviglioso. Più guardavo quell’enorme bacino limpido,più avevo voglia di tuffarmi e fare una nuotata. Dovevo farlo,diamine,dovevo! Cominciai a correre e quando giunsi sulla riva,mi chinai ed immersi la mano nell’acqua. Non era fredda,ma neppure calda. Era così bella…riuscivo a vedere il fondo e sembrava che mi stesse pregando di tuffarmi.

«E va bene» dissi,sorridente.

Mi tolsi gli stivali,poi i calzini e poi feci scivolare giù i pantaloni di quella tuta logora. L’aria era meravigliosamente tiepida ; mi ricordava un po’ la primavera dell’Ohio. Quando toccò il momento di togliermi la felpa,una figura mi lasciò interdetta.

«Brittany?» chiesi stupita.

Lei sorrise e si avvicinò alla sponda del lago. Da dove era sbucata?

«Non dovrebbe essere troppa fredda» disse,accennando all’acqua.

«Che ci fai qui?» chiesi ancora confusa.

Lei mi guardò e sorrise di nuovo,incurante «pensi che questo posto sia solo il tuo?Non fare la prepotente,San» mi rimbeccò,scherzosa.

Socchiusi appena gli occhi e cominciai a fissarla. Era raggiante. Si avvicinava con quel suo passo svelto e leggero,come quello di una bambina felice di rivedere qualcuno. Quando mi raggiunse,sorrise di nuovo.

«Sai che giorno è oggi?» mi domandò con quell’aria sbarazzina.

La guardai accigliata «che giorno è?»

«Lo scoprirai» rispose,facendo spalluce.

Si tolse le scarpe e si tirò giù i pantaloni prima ancora che me ne rendessi conto. Poi mi guardò,sempre sorridente,e si avvicinò. Era diversa,ne ero convinta. Mi concessi per un istante il lusso di guardare le sue gambe chiare e chilometriche,e allora accade qualcosa che mi costrinse a spostare gli occhi da lì.

«Non fa freddo» affermò,togliendosi rapidamente il maglioncino bianco «che aspetti a spogliarti?»

«D’accordo» dissi,afferrando i due lembi di stoffa.

I suoi occhi si fermarono sul mio corpo e all’improvviso sentii le guance colorarsi. Era imbarazzo quel che provavo?Perché mai avrei dovuto provare imbarazzo?

«Hai un bellissimo corpo,Santana» affermò,continuando a guardarmi.

Fu allora,che anch’io la guardai. La pelle era così chiara,così morbida e liscia…così invitante. Il reggiseno nero le avvolgeva delicatamente il seno e lo sollevava,quasi stesse mostrandomelo. L’addome tonico,dal colore candido e delle sottili linee che ne tracciavano la consistenza. Poi quell’ombellico e quel piccolo disegno che spuntava da sotto la stoffa delle mutandine in pizzo…e quelle gambe,di nuovo. Avrei dovuto dire qualcosa,avrei dovuto farlo,ma non volevo. C’era qualcosa di così perfetto in quel silenzio che sapeva di curiosità ed eccitazione,e le parole lo avrebbero sporcato. Brittany si avvicinò,e allora i miei occhi tornarono sui suoi seni,inevitabilmente. Guardai le gambe,e si avvicinò ancora. Guardai il profilo del collo,e si avvicinò di nuovo,sino a che non sentii il suo respiro sul mio viso.

«Non resistermi» sussurrò seducente contro la mia pelle «lo sai che mi desideri» aggiunse poco dopo.

Quando allontanò il viso,la guardai ancora. Bellissima,ma troppo vicina. Un brivido mi percorse la schiena velocissimo,e allora mi morsi un labbro. Brittany avvicinò le sue labbra alle mie e ,nel momento in cui le toccò,non ci staccammo più.

                                                                                                               *

Corsi al gazebo e mi sciacquai la faccia nella bacinella piena d’acqua. Maledizione,era gelida! Sollevai il viso e soffiai via le gocce che mi ricoprivano le labbra. Sbattei un paio di volte gli occhi e poi li richiusi,inspirando.

«Cazzo…cazzo…cazzo!» borbottai tra me e me,proibendomi severamente di aprire gli occhi «E’ tutto ok. E’ tutto ok. Cristo…»

Spalancai gli occhi di scatto e sospirai. Era stato solo un sogno,un maledettissimo sogno come quelli che ormai facevo abitualmente : quelli strani e senza senso. No,quello però era diverso. Troppo diverso. Insomma,era comunque e solo un sogno,ma allora perché mi sentivo in quel modo?Era paura quella che provavo,o confusione?Era eccitazione,o desiderio?Cosa diavolo era?!

Quando decisi di esser sufficientemente calma e pronta per tornare in tenda,qualcosa catturò il mio sguardo.

«Ehi,Lopez» mi salutò Alex,facendo un cenno con la mano.

Il sole sorgeva in quel momento ed ero convinta che non ci fosse nessun’altro sveglio,oltre a me. Che ci faceva in piedi a quell’ora?

«Ehi!Già in piedi?»

Lei fece spallucce «non sono abituata a dormire molto» si limitò a dire.

Estrasse un pacchetto di Marlboro dalla tasca e si accese una sigaretta.

«Ne vuoi una?» mi chiese,cordiale.

Scossi la testa «più tardi,grazie».

«Come vuoi» rispose,facendo ancora spallucce.

Si avvicinò un po’ e mi guardò. Non aveva affatto una bella cera. Aveva due occhiaie scure sotto gli occhi dall’aspetto stanco,il viso pallido ed imperlato da qualche goccia di sudore. Si passò una mano sulla fronte e fece un tiro di sigaretta. Era cambiata dal momento in cui l’avevamo conosciuta a New York,e non avrei saputo dire se il suo fosse stato un cambiamento unicamente estetico,o…o anche interiore. Era più trascurata,nonostante i suoi occhi continuassero ad esser decorati da quei tratti scuri e decisi di matita. Era sempre affascinante,ma i suoi capelli erano quasi sempre in disordine e la sua pelle ultimamente appariva spesso diafana e sofferente,così come la sua espressione. Avrei potuto giurare che ci fosse qualcosa che non andasse,ma magari mi sbagliavo. Magari soffriva anche lei come tutti gli altri,solo che non gradiva darlo a vedere. Non poteva essere la ragazza impassibile e menefreghista che sembrava,indossava certamente una maschera.

 «Senti…» cominciò poi,improvvisamente seria «mi dispiace di non averti chiesto come stavi quando,sì,beh,quando hai avuto quella “cosa”».

Mi lasciò stupita. Quella non me l’aspettavo.

«Oh,ma no…non preoccuparti. Non ce n’era bisogno».

Lei sorrise appena,ma parve triste «so bene cosa sembro. Se mi guardassi da fuori,mi definirei una stronza insensibile e menefreghista. Sì,insomma» continuò guardando verso il basso «me ne sto lì a fumare tutto il tempo,a lanciare frecciatine,ma sappi che mi interessa davvero di questo gruppo».

Le feci un sorriso sincero e le misi una mano sulla spalla «tranquilla,davvero».

La capivo bene. Un tempo ero stata anch’io come lei,ero stata anch’io la stronza impassibile che non riusciva a darsi pace. La guardai per un istante negli occhi e quella volta li trovai spenti e vuoti,persi chissà dove.

Lei annuì,frenando l’impulso di sussurrare un grazie e andò via,dritta in tenda. Forse non mi sbagliavo.

                                                                                                               *

Guardai ancora una volta quei cinque volti come facevo ormai da lunghi minuti. Steven guardava le armi poste sopra il tavolo,le sollevava,le rimetteva a posto e controllava più e più volte che fossero cariche. Era un tipo minuzioso. Alex,invece,si guardava attorno con lo stesso sguardo perso di quella mattina,fumando la sua sigaretta. Lucas appariva visibilmente stanco,forse aveva dormito poco. Dormivamo tutti poco quando giungeva il momento. A volte,mentre tenevo gli occhi chiusi,fingendo di dormire,li potevo sentire uscire dalla tenda e lamentarsi,camminando avanti e indietro sull’erba umida. L’ansia diventava una sorta di rituale inevitabile,che ti catturava sino al momento in cui potevi tirare un sospiro di sollievo. Non era ancora ora e per questo la sentivo viva dentro di me ; più viva di qualunque altra cosa. Anche Noah era con noi quel pomeriggio. Non parlava,non guardava nessuno con gli occhi,e forse non era nemmeno così presente. Brittany,invece, si mangiava le unghie o si mordeva le labbra sino a farsi uscire il sangue. Quello era il suo rituale e,nonostante più volte l’avessi rimproverata di fermarsi,non c’era stato verso di impedirle che quella sua agitazione trovasse sfogo in quel modo. Eravamo tutti agitati,lo eravamo sempre. Ormai vedevo le spedizioni come una sorta di prova,come una sfida. Non potevamo restare troppo a lungo nella tranquillità,ci avrebbe nociuto. Ma più li guardavo,più guardavo i loro volti,e più sentivo quell’ansia crescere sino a sfociare nella paura. La tensione era palpabile e quando abbassai lo sguardo,mi feci scrocchiare le dita.

«Sarà come al solito» disse Steven,passando gli occhi su ognuno di noi «abbiamo bisogno di quanto più scatolame è possibile prendere e di molta acqua. Questa volta sarà veloce,prenderemo solo cose primarie. Dei vestiti ed altre sciocchezze di questo genere ci occuperemo nella prossima spedizione. Visiteremo il supermarket della scorsa volta e poi torneremo il più rapidamente possibile dritti al campo».

Inspirai a fondo,osservando il ragazzo che parlava.

«Tutto chiaro?»

Annuimmo.

                                                                                               

Quando salimmo sul Wrangler rosso e ci lasciammo l’accampamento alle spalle,provai il solito senso di malinconia. Era come se ogni volta,con lo sguardo,gli sussurrasi un addio. Se mi fossi soffermata a lungo a pensarci,avrei trovato che fosse una cosa assolutamente patetica. Come si può dire addio a qualcosa che non è realmente tuo?A qualcosa a cui non tieni? Forse era quello il punto : quel campo era casa mia,che lo volessi o no. Brittany mi guardò un momento e scosse la testa sconsolata.

«Non devi preoccuparti. Andrà tutto bene,questa volta sarà facile» le dissi,con una convinzione che lasciava abbastanza a desiderare.

Lei in tutta risposta si passò le mani sul visoe,quando le lasciò ricadere sul sedile,le presi la mano sinistra. Mi guardò.

«Non ci succederà niente,vedrai».

Girò la mano,senza rispondere,ed intrecciò le dita alle mie. Il mio cuore accelerò il battito.

Si voltò e mi sorrise «lo spero».

Quando gettai lo sguardo verso il finestrino,incontrai gli occhi di Lucas. Mi guardava,guardava le mani strette l’una all’altra,con un’espressione indecifrabile e non so perché,ma d’impulso lasciai le dita di Brittany e mi riportai la mano sulla coscia. Lucas continuò a guardarmi,si sforzò di addolcire il viso,ma l’unica cosa che riuscivo a leggere su quel volto di un adolescente costretto a crescere troppo in fretta,era l’angoscia.

Raggiungemmo la piccola città di Rochester poco dopo. Percorremmo le strade vuote rapidamente e poi il fuoristrada si fermò davanti al supermarket dall’aspetto non proprio accogliente. Quel piccolo agglomerato di case,fornito solo del necessario per sopravvivere e vivere come se fossero stati al di fuori del mondo,non doveva essere particolarmente grazioso neppure prima dell’apocalisse. Puckerman ed Alex scesero per primi,poi seguirono Steven e poi noi tre. Non appena misi un piede sull’asfalto,sentii un brivido freddo percorrermi rapidamente la schiena e lo stomaco venire sopraffatto da una tremenda agitazione. Steven estrasse un borsone dall’auto e tirò fuori le armi. Diede il fucile a Noah,la pistola alla sorella e l’altra a Lucas. Poi s’infilò un coltello nell’anfibio,un altro nella cinta dei pantaloni e lo stesso facemmo io e Brittany.

«Presto cercheremo un’armeria dove poter recuperare altre armi» affermò,guardando me e la bionda «per adesso facciamoci bastare queste. Tenete gli occhi aperti,mi raccomando».

Prendemmo delle borse vuote ciascuno e,con passo svelto ma silenzioso,entrammo dalla vetrina rotta. Quando misi i piedi sui frammenti di vetro,sentii uno scricchiolio soffocato sotto la suola dello stivale e Brittany si voltò a guardarmi. Alzai le spalle ed allargai le braccia e lei mi guardò con un’eloquace espressione. Avanzammo lentamente ed una volta entrati ci guardammo attorno. Non c’erano rumori strani,era tutto silenzioso,anche troppo. Steven camminava in testa al gruppo,con il coltello in mano,scrutando in ogni direzione. Poi si girò e mimò un «dividiamoci».

Io,Brittany e Noah ci dirigemmo in una direzione e gli altri tre in un'altra. Finimmo subito nel reparto delle bevande. Noah prese sei bottiglie d’acqua e le infilò nella sacca spaziosa. Io ne presi altre cinque e Brittany prese del latte. Poi,sempre camminando velocemente e senza fiatare,finimmo nel reparto alimentari. Infilai quanti più pacchi di pasta fui in grado di far entrare nella sacca,ma dovevo ammettere che cominciava a pesare. Brittany prese scatolame di ogni tipo e,senza neppure rendercene conto,avevamo finito.

«Forza,usciamo» sussurrò Noah quel tanto che bastasse a farsi ascoltare.

Avevo il braccio indolenzito per il peso della sacca e fui costretta a passarla a quello sinistro. Era meno forte ed avvertii subito lo sforzo dei muscoli. Era finita. Stranamente,era finita. Uscimmo rapidamente dal supermarket e calpestai di nuovo i vetri,ma quella volta Brittany non si voltò. Noah aprì il portabagagli del Wrangler e posammo le sacche lì dentro.

«Perché gli altri non sono già fuori?» chiesi,rivolgendomi a Puckerman.

Lui mi guardò e scosse la testa «staranno recuperando più roba».

Tornò il silenzio subito dopo e non so come,ma io e Brittany finimmo per guardarci a vicenda. Avevo voglia di sorriderle,ma il momento non era dei migliori. Proibivo al mio intero corpo il lusso di rilassarsi. I suoi occhi azzurri scrutarono attentamente il mio viso e sembrarono dolci. Ricambiai lo sguardo ; era il minimo che potessi fare. Indossava una maglietta grigia a manica corta con una scollatura a V e dei pantacollant neri. I capelli,sciolti,ricadevano morbidi sulle linee chiare del collo. Quel collo era…bellissimo. Il collo…il sogno. Spostai gli occhi immediatamente,ma quando lo feci,lei mi sfiorò la mano di proposito e allora tornai a guardarla.

«C’è qualcosa che non quadra» disse Puckerman,camminando nervosamente avanti e indietro.

Mi concentrai a malincuore sulla figura di Noah.

«Pensi sia normale che ci stiano mettendo tutto questo tempo?»

Neppure mi guardò.

«Vado dentro a dare un’occhiata. Restate qui» disse,prima di entrare a passo spedito nell’edificio.

Allora l’ansia tornò prepotente ad irrigidirmi e non potei farei a meno di guardare la figura di Puckerman varcare la soglia del supermarket. C’era mio fratello lì dentro,maledizione! Era lì e percepivo una sensazione spiacevole. Sì,qualcosa non quadrava. Ma cosa?

Scossi la testa preoccupata «non possiamo restare qui. Dobbiamo andare dentro anche noi».

Brittany mi guardò e le bastò un secondo per osservare l’agitazione sul mio viso.

«Va bene» rispose,prima di mordersi nuovamente le labbra.

Poi,prima ancora che le mie gambe cominciassero a muoversi,il rumore di uno sparo si levò nell’aria. Secco e deciso,infrangendo ogni cosa. Il cuore accelerò il battito rapidamente e allora tutto divenne surreale. Non mi abituavo mai a quella sensazione,alla percezione del pericolo e al sapore che avvertivo sulla lingua. L’amaro mischiato alla saliva,i muscoli pronti a scattare,la mente attenta ad individuare il pericolo.

Corsi sui vetri e questi scrocchiarono di nuovo sotto il mio peso. Ma non c’era tempo per concentrarsi sull’inutilità di quel suono e,quando entrai,il sangue affluì veloce alla testa,ed avvertii in ogni centimetro dell’organismo un semplice messaggio : “pericolo”.

«Ma che cav…»

Quando percorsi l’entrata e mi ritrovai nell’ingresso principale,trovai il caos. Brittany sfoderò immediatamente il coltello,ma io non ero ancora pronta per farlo. Tutto roteava nella mia mente così velocemente,che il cervello ed i muscoli non avevano il tempo per reagire simultaneamente. L’unica cosa che capii,fu che c’erano degli affamati. Forse cinque,forse sei,forse quattro. Il loro verso,che per un momento avevo dimenticato,tornò prepotente a risuonarmi nella testa.

«Togliti da lì!» urlò Noah.

Un istante dopo,Brittany gridò e quel grido mi risvegliò improvvisamente dalla trance.

Un affamato,che si trascinava a terra,l’aveva afferrato per la caviglia. La teneva stretta tra quelle sue mani scheletriche e si divincolava per morderle la carne. Rimasi paralizzata. Forse fu una frazione di secondo,forse un secondo intero,ma quell’attimo bastò a farmi tremare sino all’inverosimile. Scattai immediatamente verso di lei,che ancora teneva il coltello tra le dita e spaventata a morte tirava dei calci per farsi lasciare.

«Fa’ qualcosa!» mi urlò Noah,mentre spaccava il cranio a un altro affamato.

Fu tutto così rapido…troppo rapido. Strappai il coltello dalle mani di Brittany e lo piantai dritto nella fronte dell’affamato nel momento stesso in cui le sue mandibole stavano per chiudersi sulla carne della ragazza. Feci forza per staccarlo dal cranio disgustoso dell’essere e poi mi rialzai. Cos’era successo? Avevo il fiatone.

«Tutto ok?» chiesi a Brittany con la voce ridotta ad un sussurro.

Lei mi guardò,con gli occhi ancora sgranati,ed annuì.

Avrei voluto tranquillizzarla,ma prima mi concentrai sul resto. Erano tutti lì. Steven aveva la maglia sporca di sangue e la fronte velata di sudore. Alex stringeva ancora la pistola e il suo viso era ancor più pallido di quella mattina : aveva lo stesso colore di un foglio di carta. Lucas ansimava e mi guardava fisso e Noah scuoteva la testa. Era finito? Mi guardai attorno ancora una volta. C’erano tre cadaveri di affamati,abbandonati sul pavimento e il solo suono dei nostri respiri. Cos’era successo?

«Ma che cazzo ti è saltato in mente?!» urlò Steven alla sorella,afferrandola per un braccio.

La ragazza abbassò lo sguardo e scosse la testa «lasciami» biascicò priva di forze.

Il ragazzo la scosse ancora per il braccio e allora Alex gli diede una spinta.

«Smettila!» intervenne Noah,fulminandolo con lo sguardo.

Steven mollò la presa e si passò le mani sul viso,agitato.

«Che cazzo volevi fare,eh?!» urlò furioso.

Alex lo guardò,ma non aveva neppure la forza di ammonirlo con lo sguardo. Io ero confusa. Aveva davvero un pessimo aspetto ; era inguardabile. Le occhiaie che avevo notato quella mattina erano notevolmente aumentate. La pelle pallida,il viso appariva più scarno ed era velato dal sudore. I capelli disordinati e la matita attorno agli occhi sbafata. Abbassò lo sguardo e si passò il dorso della mano a strofinare il naso,poi alzò gli occhi al cielo,e il suo viso sofferente venne rigato da una lacrima.

«Mi spiegate cos’è successo?» chiesi,distraendo Steven da quel suo sguardo terribile.

«Fatti i cazzi tuoi,messicana!» mi urlò la ragazza,avviandosi poi verso l’uscita.

La guardai di sbieco e per un istante pensai di prenderla a schiaffi. Ancora non capivo.

Steven camminò avanti e indietro,non mi rispose,e poi corse dalla sorella con quella sua aria schifata e allo stesso tempo adirata.

«Ehi!» urlò Noah,all’altro.

Steven non rispose e continuò a correre.

«Alex ha aperto una porta nel magazzino del negozio e sono venuti fuori gli affamati» mi rispose Lucas,ancora con il fiatone «a quanto pare qualcuno li aveva chiusi lì dentro e…lei li ha fatti uscire».

Noah si avviò vero l’uscita,con l’aria preoccupata.

Annuii. Guardai mio fratello,guardai gli affamati e guardai Brittany ; solo allora mi accorsi che piangeva.

«Vai dagli altri» dissi a Lucas «vi raggiungiamo subito».

Era rimasta immobile nella sua posizione e guardava fisso il pavimento. Non si asciugava neppure le lacrime,paralizzata e scioccata com’era. Aveva visto la morte in faccia,ed io avevo visto la sua. Se solo ripensavo a quell’attimo,se solo ripensavo a quello che sarebbe potuto succedere,se solo…

«Stavo per morire» biascicò tra un crescendo di singhiozzi.

Fu allora che l’abbracciai. L’abbraccia stretta stretta e quasi potevo sentire il suono del suo cuore che se non fosse stato incastrato nel petto,sarebbe volato via. Mi staccai un attimo e le accarezzai una guancia,poi le portai via una lacrima con il pollice e le accarezzai uno zigomo. Ci guardammo fisse negli occhi. Lessi la paura nella sua anima,lessi il terrore nei suoi occhi e il panico che ancora scorreva assieme al sangue. Muoveva le labbra screpolate,se le mordeva. Le asciugai un’altra lacrima delicatamente,quasi avendo paura di ferirla. Le misi un braccio dietro la schiena,poi spostai le mani sulla sua vita e la cinsi. Non volevo allontanarmi da lei. Non volevo e non potevo lasciarla. Io…io…maledizione. Era così bella e delicata,troppo per quel mondo che ancora non riusciva a trasformarla in una creatura senz’anima. Non potevo lasciare che la sua luce si spegnesse,non potevo. Sentivo di avere un ruolo in tutto ciò : dovevo tenerla in vita. Appoggiai la fronte sulla sua e allora respirammo a vicenda il calore dei nostri corpi e sentimmo gli odori fondersi. Il suo fiato sulle mie labbra,sulla mia pelle. Lei era mia. Lei era mia,ed era così vera quella frase,così concreta,che ogni cosa perdeva consistenza mentre la ripetevo nella mia mente. Non l’avrei mai lasciata,non potevo lasciarla,perché lei mi apparteneva.

«E’ finito tutto» le sussurrai sul viso,spostandole una ciocca di capelli.

Scosse la testa impercettibilmente e un’altra lacrime le percorse una guancia. L’asciugai,di nuovo.

«Non posso farcela» rispose in un tremolio «morirò prima ancora di poter dire di aver vissuto».

Avvertii un groppo in gola. 

«Non ti azzardare a dirlo».

Alzò la testa e la scosse ancora,questa volta più forte.

«Santana,io…» replicò lei.

«Shhh…» l'azzittii portandole un dito sulle labbra «non parlare» sussurrai dolcemente.

Mi avvicinai a quel viso e presto la distanza divenne poco meno che nulla.

Lei era mia. Maledizione,era mia!

«Non c’è bisogno che tu dica niente» aggiunsi.

«Grazie» rispose in un fremito.

Il suo odore,la sua voce. Un brivido mi attraversò veloce e furioso,come una scarica di energia inverosimile e meravigliosa che risvegliava i sensi. A quel punto,ne fui certa : volevo quella ragazza. La volevo con tutta me stessa. Le mie labbra si avvicinarono alle sue,mentre le tenevo la mano,e le diedi un piccolo bacio all’angolo della bocca : delicato e straziante. Il cuore batté forte,troppo forte,ed avvertii un calore nel petto.

«Non morirai mai» respirai sulla sua pelle «mai».


Salve gente! Ed eccoci qui con un altro capitolo di "Beteween the hungry". 

Come avete potuto leggere,i nostri protagonisti sono alle prese con il problema chiamato : "sopravvivenza". Ma vogliamo parlare dei sogni di Santana?Secondo voi sono indicativi di qualcosa? Vi accenno soltanto una cosa : questo capitolo sarà davvero importante per i futuri scenari della ff...sto cominciando a lasciare in giro indizi per una situazione che tra non molto vedrete sbucare fuori.

Abbiate un po' di pazienza,vi assicuro che non ve ne pentirete. E' una promessa!

Alla prossima cari lettori,vi aspetto nelle recensioni!

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Regole e realtà ***


BETWEEN THE HUNGRY

Regole e Realtà .

Quella mattina mi svegliai di soprassalto. Aprii gli occhi all’improvviso e mi sollevai di scatto dal materasso. Forse avevo sognato…forse. Mi stropicciai gli occhi e respirai profondamente e piano,perché stavo ansimando. Avevo gli occhi umidi e il battito veloce come quando…come quando la paura mi catturava a sé,prepotente. Quando sospirai sonoramente e mi scoprii dalla coperta,ricordai un’immagine : quella di una pistola. Avevo di certo sognato,ma ero grata di non ricordare esattamente cosa. Dal tessuto della tenda non filtrava neppure un raggio di sole. L’oscurità inglobava ogni cosa,ogni centimetro di vissuto,ogni centimetro di quel campo disperso nel Vermont. Decisi di alzarmi,ma lo feci con una lentezza indescrivibile. Brittany dormiva al mio fianco serena,e l’ultima cosa che avevo in mente di fare era svegliarla. C’era qualcosa di più,però. Non volevo che mi vedesse in quel modo,non volevo che per l’ennesima volta scorgesse nei miei occhi del dolore. Non sapevo spiegarmi esattamente il perché,sapevo solo che non volevo mi leggesse l’angoscia che mi si agitava dentro. Quella era un’altra cosa che odiavo del campo : lì dentro ogni tua paura,ogni piccola emozione,era alla portata di tutti. Così come con Noah era evidente la sofferenza che provava e l’apatia che questa gli comportava, anche per me erano evidenti le conseguenze di quel che avevo vissuto. A volte mi sembrava quasi di dimenticare tutto quel che era successo,tutto quel che avevo perso,tutto quel che avevo maledettamente provato. Capitava raramente,spesso quando ero in compagnia di Brittany o mi perdevo nell’osservarla. Allora,in quei momenti,mi chiedevo perché diavolo fosse così buona o perché diavolo l’avrei stretta a me per sempre. E poi la guardavo ancora,e mi chiedevo perché fosse così bella e avessi sempre voglia di farle una carezza dolce e leggera. Poi,quando mi distraevo dalla sua figura,quando guardavo mio fratello con i capelli folti e disordinati,o osservavo le sue labbra screpolate,o il suo viso ormai privo di ingenuità,tutto mi tornava alla mente. Ancora non capivo cosa mi succedesse nei momenti in cui il mio cuore entrava in contrasto con il respiro. Sapevo solo che all’improvviso ogni cosa,ogni piccola cosa,si allontanava dal mio sguardo ed io mi allontanavo dalla vita per un attimo. La parola morte risuonava impetuosa,ed io ero costretta ad assecondarla,fragile ed impotente.

Mentre infilavo le braccia nella felpa nera,sospirai. Guardai un’ultima volta la figura di Brittany,ed uscii da lì,entrando nell’oscurità della notte. Avevo scordato che Noah fosse di guardia quella sera. Il suo viso era illuminato dalla luce del fuoco,ed il suo sguardo perso in esso.

«Ciao» lo salutai cordiale,avvicinandomi.

Lui mi guardò,apparentemente sorpreso,e fece un cenno con la testa «hai deciso di darmi il cambio o non riesci a dormire?»

Scossi la testa «La seconda».

Lui annuì,come se conoscesse bene quel di cui parlavo.

Mi sedetti al suo fianco in silenzio e lui non mi guardò,né si allontanò. Era già un qualcosa. Mi aspettavo che si sarebbe alzato e sarebbe rientrato in tenda,e invece no. Forse aveva voglia di parlare,forse ne aveva bisogno così come ne avevo io.

«Come vanno le cose Puckerman?Dico sul serio…»

Si girò appena,giusto quel che bastava per darmi una veloce occhiata,e poi sospirò.

«Come pensi che vadano?Vivo poco meglio di un barbone con degli sconosciuti ed ogni giorno potrei morire,senza neppure sapere per mano di chi o..di cosa».

Lo guardai seria. Aveva ragione.

«Non è di questo che parlavo» affermai con voce ferma,continuando a guardarlo in viso.

Lui si passò una mano sulle guance dalla barba che con il passare del tempo si faceva sempre più consistente,e finalmente spostò i suoi occhi nei miei. Ci fu silenzio per un istante.

«Non mi perdonerò mai,Santana» disse con voce roca,senza spostare lo sguardo.

Tremai.

«N-non hai colpe. Non hai niente di cui rimproverarti,Noah. Tu ci hai salvato la vita».

La mia voce si era ridotta ad un debole sussurro. Non spostava lo sguardo.

«Ho lasciato che mia madre morisse e ho perduto un fratello senza neppure conoscerlo. Di colpe ne ho anche troppe,e tu lo sai».

Scossi la testa,ma non fui convincente «alcune volte non possiamo evitare che delle cose accadano,possiamo solo guardarle accadere. Devi tornare ad amarti,Puckerman. Non è facile per nessuno di noi,ma dobbiamo trovare la forza per evitare di perdere le ultime cose che ci restano. Quelle poche briciole,i ricordi,noi stessi. Non possiamo perderci,non possiamo permettere al vento che ci spazzi via. Siamo l’ultima cosa che ci resta al mondo,Noah» mi tremò la voce «ed anche se ogni giorno rischiamo la vita,questo non vuol dire che non valga la pena di viverla,credendola perduta in partenza».

Noah si asciugò una lacrima ed annuì. In fondo era così fragile,così umano e vero.

«A quanto pare la cheerleader stronza nasconde un animo profondo» disse ironico il ragazzo.

Risi e a quel punto lo abbracciai.

«Non scordarti mai che io ci sono per te,capito?»

Mugolò un sì,tra le mie braccia.

                                                                             

Eravamo di nuovo lì,di nuovo a guardare Steven con la pistola in mano ed il vento tiepido che ci sferzava il viso. Fissavo quelle tre bottiglie e mi chiedevo se ce l’avrei fatta a colpirne almeno una. La mia risposta fu : probabilmente no. Brittany era lì,che osservava il ragazzo e di tanto in tanto mi guardava con la coda dell’occhio. Io la ignoravo. Era da tutta la mattinata che mi comportavo in quel modo con lei,e non sapevo il perché,o meglio,non volevo saperlo. Sentivo il suono della verità muoversi contortamente dentro di me,ma lo soffocavo con altro. Non volevo guardarla. Non volevo parlarle. Non volevo più toccarla. I suoi sguardi mi facevano male perché avrei voluto sorriderle o sfiorarle il braccio,ed invece impedivo a me stessa di farlo. Non potevo e basta. Ogni volta che mi era vicina,ogni notte,avrei voluto…Dio,no. No e basta. Sbuffai.

«Cominceremo da Brittany» annunciò Steven,facendole un cenno con la testa.

La ragazza sospirò,si passò le mani sul viso,e raggiunse Steven con aria preoccupata. Il ragazzo le diede la pistola e lei la prese tra le mani tentennante. Si guardò intorno,si avvicinò ai bersagli e poi caricò l’arma. Bastava guardarla per capire che non fosse pratica e non amasse quel genere di cose. Sospirò ancora,tirò indietro il carrello dell’arma,la guardò,e poi fissò una delle bottiglie.

«Ce la puoi fare» la incoraggiò Steven.

La ragazza si concentrò,ci fu silenzio,e poi il colpo partì. Aveva sbagliato. Scosse la testa e sbuffò come una ragazzina.

«Senti Steven,sono negata. E’ inutile che continui a farmi provare,faccio schifo!» biascicò affranta,muovendosi agitata sul posto.

Steven le si avvicinò e le mise una mano sulla spalla. Mi irrigidii e mi schiarii la voce rumorosamente. Lucas ed Alex si voltarono verso di me,ma io li ignorai.

«Puoi farcela» affermò deciso il ragazzo «devi farcela e ce la farai».

Brittany annuì poco convinta. Steven si allontanò,ma i i miei muscoli erano ancora rigidi. Strinsi il pugno e mi morsi le labbra nervosamente.

«D’accordo» rispose tornando a guardare i bersagli.

Fece qualche passo avanti,poi impugnò con più decisione l’arma e dopo alcuni secondi sparò. Il rumore ruppe il silenzio assieme alle sue grida di gioia. Centro. Un gran sorriso mi si stampò sulla faccia. Stavo per correre ad abbracciarla,ma qualcuno mi anticipò,ricordandomi che non avrei comunque dovuto farlo.

«Lo vedi?» disse Steven cingendola con le sue braccia muscolose «Ti avevo detto che ce l’avresti fatta!Non devi mai dubitare di te stessa».

Brittany ricambiò l’abbraccio e i due rimasero in quel modo per qualche secondo. Mi schiarii la voce di nuovo e i due si staccarono. Cazzo. Le nocche della mia mano destra erano sul punto di bucare la pelle e le unghie segnavano con prepotenza l'interno della mano. Spostai gli occhi dalla nuca della bionda. Se avessi continuato a guardarla,mi sarei resa conto della ragione della mia rabbia. Lei si voltò versò di me e mi lanciò un’occhiataccia. Rimasi interdetta un istante. L’aveva fatto apposta?Maledizione!

«Merda» borbottai tra i denti.

La bionda sparò altre due volte,ma centrò il bersaglio soltanto una.

«E’ il tuo turno» mi avvisò Steven,guardandomi.

Lo fulminai con lo sguardo e lui parve confuso.

Brittany mi raggiunse per consegnarmi la pistola,ed io la fissai dritta negli occhi,con il viso contratto in una smorfia dura e mesta. Lei rispose al mio sguardo con uno che sapeva quasi di sfida. Era come se mi stesse dicendo :”vediamo che sai fare tu!”. Fu ovvio : raccolsi la sfida. Quando mi fu a pochi centimetri di distanza,le strappai l’arma dalla mano.

«Forza,Santana!» mi incitò Steven «Anche tu puoi farcela».

Annuii «Ti dispiacerebbe mostrarmi di nuovo come si impugna?Credo di averlo dimenticato».

Quando il ragazzo si avvicinò,spostando la sua massa muscolosa,sorrisi interiormente. Steven mi raggiunse ed aspettò che gli porgessi la pistola. Scossi la testa.

«Come devo mettere le mani?» gli chiesi con quella finta ignoranza.

Dovevo essere più diretta,così gli sorrisi. Lui afferrò le mie mani e le posizionò sull’arma.

«Così…» disse guardandomi in viso.

«Grazie,Steven» risposi con un tono di voce basso e seducente.

A quel punto,mi voltai verso Brittany e le restituii lo sguardo di sfida. Lei mi rivolse un’occhiata truce e poi spostò gli occhi dal mio viso,infastidita o alterata. Non capivo ancora cosa stesse succedendo tra di noi,ma sapevo che ero stata io a dare inizio a tutto quello. Era cominciato tutto dal momento del suo risveglio. L’avevo guardata a lungo dormire,sognando e …desiderando,e poi,all’improvviso,avevo capito. Avevo capito quanto sbagliato fosse guardarla con le palpitazioni ed il respiro corto,o lasciando l’immaginazione volare lontano e lontano e … mi ero detta che non potevo farlo. Non potevo più essere impulsiva,non in quella situazione,non rischiando tutto di nuovo. Perché sapevo per certo che se avessi assecondato i desideri ed accettato le emozioni,per me sarebbe iniziata,ma anche finita.

«Non c’è di che» disse il ragazzo,sorridendomi con ancora la confusione sul viso.

Inspirai profondamente l’aria tiepida e guardai le bottiglie. Avrei fatto centro ; ne ero certa. Tirai indietro il carrello dell’arma e poi la puntai contro l’ultima bottiglia. Inspirai di nuovo e chiusi gli occhi per un istante. Basta pensare,quella bottiglia era mia. Premetti il grilletto e il rumore della plastica che veniva attraversata dal proiettile mi fece sussultare.

«Sì!» esclamai felice «Ce l’ho fatta!»

Con ancora un sorriso sincero sul viso,corsi verso Steven. Lui allargò le braccia,felice,e mi accolse tra le sue. Lo strinsi forte e lui ricambiò con molta meno forza. Quando ci staccammo,guardai Brittany. Non era più arrabbiata,pareva triste. Aveva gli occhi lucidi e si mangiava le unghie,come era suo solito. E allora mi chiesi perché,perché non potessi andare lì e stringerla forte a me,respirando sulla sua pelle. La risposta arrivò chiara e tonda non appena incontrai quelle iridi celesti affacciarsi dentro l'infinito con curiosità. No,non potevo. Spostai lo sguardo.

                                                                                   

Quando rientrai in tenda,Brittany era già lì,ed imprecai mentalmente. Era seduta sul materasso e guardava dritto di fronte a sé,con lo sguardo perso e gli occhi tristi. Dovevo andarmene di lì ed al più presto. Mi voltai per tornare fuori,ma la sua voce mi bloccò.

«Perché?» si limitò a chiedermi con la voce dura e ferita.

Rimasi in silenzio,senza voltarmi per guardarla. Spostai lo sguardo a terra. Mi tremavano le gambe. Al suono della sua voce,il mio cuore aveva preso a battere più veloce.

«Perché ti comporti così,Santana?E’ per quello che è successo al supermarket?E’ per…»

Mi voltai di scatto «per cosa,Brittany?!» le chiesi con la voce piena di rabbia,avvicinandomi lentamente «Per cosa?!Non è successo niente al supermarket,niente!Mettitelo bene in testa».

Lei scosse la testa,mordendosi un labbro,e capii che stava per piangere.

«Non voglio niente da te!» le urlai,continuando ad avvicinarmi «Tu non sei niente per me!Non conterai mai niente,mi hai capita?»

Avevo i muscoli rigidi e mi sentivo…arabbiata. Ero così furiosa,maledizione!Così furiosa che avrei fatto a pezzi quella tenda. Il cuore mi esplodeva nel petto e gli occhi sprizzavano ira. Non volevo niente da lei!Non volevo niente. Io…io…no!Non potevo,non potevo,non potevo e non potevo. Lei non era mia,non lo sarebbe mai stata. In quel momento,mi sarei presa a schiaffi. L’avevo ferita,avevo dovuto farlo. Ma la verità era ben altra,era così lontana da quella realtà dura e rigida…la verità era che non potevo permettermi di guardarla più negli occhi,anche se era già tardi. Io la volevo,la volevo per me!Volevo le sue labbra sulle mie,volevo la sua bocca sul mio corpo,volevo il suono della sua voce melodiosa sussurrare il mio nome all’orecchio,volevo le sue carezze dolci sulla mia pelle diventare bollenti. Io provavo troppo,io provavo tanto,ma non potevo niente. Se avessi permesso al mio corpo di vivere,anche solo per un istante,se l’avessi letta,sarei tornata di nuovo in quell’oscurità chiamata paura. Nella mia testa risuonò una frase,anzi,una regola : non innamorarti.

«E allora vattene,Santana!» mi urlò in lacrime «Non c’è alcun motivo per cui tu stia qui!Vattene!» urlò ancora,portandosi le mani sul viso.

Se mi fossi concentrata su qualcos’altro che non fosse stata la rabbia,forse sarei caduta a terra,priva di forze. Io l’avevo ferita e le sue lacrime erano solo colpa mia. Ma doveva odiarmi,doveva farlo,perché altrimenti…

Uscii da quella tenda,tremando. Guardai l’erba sotto i miei piedi,e cominciò a girare e girare. Il mio cuore batteva troppo in fretta,ed i miei occhi umidi avrebbero voluto liberarsi di tutto quanto,avrebbero voluto lasciarsi andare,violando ogni regola. Ma non era permesso violare le regole,non a me. Sarebbe bastato un errore,anche piccolo,e allora sarebbe stata morte. Ingoiai ogni cosa,ogni emozione,e a quel punto fui sopraffatta soltanto dalla rabbia. Ero arrabbiata con me stessa. Estrassi il pacchetto di Marlboro dalla tasca della tuta e mi accesi una sigaretta. Era l’unica cosa che avrei potuto fare in quel momento,l’unico gesto “normale”. Poi,senza rendermene conto,cominciai a camminare. I miei piedi si muovevano svelti e nella testa risuonava quel “vattene”. Ero stata disgustosa,io…mi disgustavo,anzi,mi odiavo. Odiavo me stessa,odiavo i miei sentimenti,odiavo anche lei. Odiavo quel campo,odiavo quella stupida e fottutissima tenda,odiavo il fuoco che la sera combatteva l’oscurità ed odiavo anche lei. Odiavo gli affamati,odiavo Josh,odiavo mia madre e mio padre,ed odiavo anche lei. Ma io odiavo me,soprattutto. Odiavo quel che avevo dentro,odiavo la paura,l’amore e l’odio. Odiavo amare,ma amavo odiare. Perché se odi non ami,ma per me non era così. Ogni cosa era lì,in bilico su di un filo,che aspettava solo di esser spinta giù. Ma io non l’avrei mai posta su quel filo,no. Non potevo farlo. Non potevo guardarla o toccarla,perché allora lei sarebbe stata viva,reale e tangibile. Non doveva esserlo in alcun modo,altrimenti sarebbe caduta impotente da quel filo. Eppure la volevo…mio Dio,se la volevo!Al supermarket avevo realizzato una cosa,ma avevo paura di dirla ad alta voce e più semplicemente di pensarla. E camminavo,camminavo e camminavo. Via da lì,via da ogni cosa. 

«Santana!» mi chiamò Steven «Dove diavolo vai?»

Non mi girai e non risposi,semplicemente camminai. Fuggivo dalla consapevolezza,fuggivo dall’amore,dritta verso le fauci della notte e della miseria.

«Aspettami!» gridò il ragazzo.

Gli alberi immensi della foresta stavano quasi per ingoiarmi,ma nel frattempo Steven accelerò il passo e il calpestio dell’erba si fece più vivace.

«Ehi!» mi disse,afferrandomi per un braccio «cos’è successo?»

Quando mi voltai,piansi. Non mi ero allontanata granché dal campo,forse fu per questo che le mie lacrime cominciarono a scendere.

«Lasciami andare,ok?» biascicai stremata.

Avevo infranto la regola.

«Non posso!» i suoi occhi brillavano «E’ troppo pericoloso» si giustificò.

Mi asciugai le lacrime,ma ben presto ne scesero altre. Avevo sbagliato tutto. Avevo ferito la mia persona,avevo ferito me stessa. Stavo per infrangere ogni regola,ma in quel momento mi pareva inevitabile.

«Lasciami!» gridai,arrabbiata.

Steven mi mollò il braccio,mortificato,ed abbassò lo sguardo. Fu in quel momento che capii di voler tentare un’ultima cosa.

«Non posso lasciarti andare nella foresta,è pericoloso…» tornò a spiegarsi,avvicinandosi.

Mi avvicinai anch’io,lui si chinò su di me,e lo baciai. Lo baciai come meglio potei. Le sue mani sulla mia vita,la sua lingua contro la mia,la mia mano sulla sua nuca. Quando i baci divennero rapidi e cominciarono a togliermi il respiro e le sue mani scesero sino al mio fondoschiena,decisi di sì : decisi che valesse la pena provare. Mi staccai da quel bacio,guardai i suoi occhi che brillavano di desiderio,e gli slacciai i pantaloni. Li tirai giù e lui tornò a baciarmi più appassionatamente di prima. Poi mi afferrò dalla vita,mi tirò su,ed io lo cinsi con le gambe. Improvvisamente ci ritrovammo sull’erba,allungati l' uno sopra l’altro. Steven mi tirò giù i pantaloni della tuta,mi  tolse le mutandine,e tornò a baciarmi.

All’improvviso realizzai : stavo facendo sesso con Steven. Soffocai un gemito,dovevo farlo. Neppure quello sarebbe dovuto essere reale,non lo meritava. Ma quando il ragazzo spinse con decisione,mi sfuggì. Era successo : era reale. Quando tutto sarebbe finito,avrei pianto. Avrei pianto perché quello era reale,tranne me e lei.


Lo so,lo so. In questo momento mi state odiando come non avete mai fatto con nessuno in vita vostra. Vi capisco perfettamente. Il primo motivo per cui mi odiate è probabilmente perché sono sparita,ed il secondo perché questo capitolo non è probabilmente quello che vi aspettavate. Ma lasciatemi giustificare almeno un po'. Questi giorni sono stata via e non avevo con me nè il pc,nè una connessione wifi che sopportasse le mie folli navigazioni in internet. In compenso,ho preso il portatile di un amico e mi sono messa a lavoro,pensandovi. Per il resto,so bene che forse sarete delusi e probabilmente avete ragione,ma vi posso solo dire una cosa : fidatevi. Fatelo,e sono certa che non vi pentirete di aver seguito questa folle "scrittrice" da strapazzo. 

Come al solito,quasi niente fila perfettamente liscio. Santana comincia a rendersi conto dei suoi sentimenti per Brittany,specialmente dopo l'ultimo accaduto al supermarket. Aver sentito concretamente la possibilità di perderla,l'ha mandata in confusione e diversi dubbi le si agitano dentro. Ha paura,paura di innamorsi perché sa per certo che in un mondo così pericoloso,potrebbe perderla in un batter d'occhio. Questo è un capitolo fatto dalla contrapposizione di due parti del personaggio : la paura e il desiderio d'amare. Santana non è un robot,è umana e per renderla tale,mi sembrava giusto scrivere un capitolo come questo,che si avvicinasse il più possibile al reale. Il tutto si conclude con Santana che,mentre cerca di fuggire via dall'immagine di Brittany e dalle sue parole,viene fermata da Steven. Ma quando la regola più importante viene infranta,Santana decide di mandare tutto al diavolo e di infrangerle tutte. Steven è la sua ultima possibilità per essere strappata via dalla paura e della confusione,ma non appena si rende conto di quel che è successo,avrebbe voglia di piangere. Ormai,non ha più possibilità,ma nemmeno regole da infrangere.

Beh,gente,sperando che il vostro odio sia evaporato un pochino con il passare del tempo e con il leggere le mie parole,vi lascio ad un'anticipazione. Il prossimo capitolo,sarà "il capitolo". Ho già detto troppo,ma voglio proprio farmi perdonare. Continuate a seguirmi perché prossimamente ne vedremo delle belle e sono certa che alcuni capitoli verranno apprezzati in particolar modo. Comunque ancora molto deve succedere,e tenetevi pronti perché non potete neppure immaginare come si evolverà la storia. In breve,le cose cambieranno bruscamente (sotto tutti i punti di vista) ed abbandoneremo la staticità che mi ha permesso di elaborare alcune cosette...

Allora vi aspetto nelle recensioni,come al solito,e nel prossimo capitolo!Fatemi sapere quel che ne pensate e ...fidatevi di me!

Grazie a tutti per aver letto un altro capitolo di questa follia e per aver scelto di seguire o recensire. Siete preziosi,davvero. 

P.S. Da adesso in poi,pubblicherò ogni cinque giorni.

P.P.S. Vi aspetto sabato!Non mancate ;)

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** L'inchino della fine ***


between the hungry

L'inchino della fine .

L’erba sapeva ancora dei nostri odori fusi ed accoglieva una sagoma indefinita a rovinarla,quasi avesse voluto dire qualcosa. Forse perché era così : avevamo rovinato ogni cosa,o meglio,io avevo rovinato ogni cosa. La speranza che il contatto con un altro corpo mi avrebbe fatto provare quello che le carezze di Brittany scatenavano in me,era svanita non appena Steven aveva osservato la mia vulnerabilità,accecato dal desiderio. E all’improvviso mi ero resa conto che era tardi per fermarlo,così mi ero aggrappata ad un’ultima e sfocata speranza,che ormai mi pareva soltanto remota e disperatamente immaginata. Osservai ancora l’erba deformata dal peso dei nostri corpi avvinghiati,e decisi che fosse giunto il momento di allontanarmi da lì,perché osservarla non faceva altro che darmi il volta stomaco. Mi sollevai con le mani,a fatica,ed inspirai profondamente : l’aria cominciava a pizzicare. Guardai alle mie spalle e vidi quelle tre maledette tende osservarmi,quasi con aria torva. Avevo la sensazione che persino gli oggetti si fossero resi conto dello sbaglio che avevo commesso e di con quanta facilità fossi in grado di ferire le persone. Non potevo tornare lì,non subito. Come avrei fatto con Brittany nella mia stessa tenda?Non volevo incontrare il suo viso sofferente,né riascoltare la sua voce straziata dai singhiozzi. Non ce l’avrei fatta : sarebbe stato come essere pugnalata allo stomaco più e più volte. E per di più ero stanca, mi sarebbe mancata la forza necessaria per sostenere il suo sguardo silenzioso. Osservai dritto di fronte a me,costringendomi a calmare il respiro inquieto,e non vidi altro che alberi. La foresta mi guardava,ma pur essendo stata spettatrice,non mi giudicava. Se ne stava lì,calma e premurosa,con il respiro che  aveva lo stesso suono del vento. Prima ancora che me ne rendessi conto,cominciai a camminare.

Per lunghi minuti i miei occhi non fecero altro che fissare il suolo,quasi incapaci di sollevarsi,per stanchezza o timore. Guardare dritto di fronte a me ; ultimamente,mi restava difficile. Avrei quasi giurato che non fosse colpa mia,non del tutto,per lo meno. Era colpa di quel mondo. Era colpa di tutto quel che c’era dentro ed al di fuori di quel campo,e allo stesso tempo di nessuno. Ero certa che se non fosse successo tutto quello,che se non fossimo stati costretti a fuggire dalle nostre vite ormai distrutte e terribilmente divorate,non sarei mai stata così codarda. Eppure sapevo che nella stessa codardia,c’era del coraggio. Era per mezzo della paura che lottavo contro l’inevitabile desiderio. Dovevo farlo,dovevo oppormi in qualche modo. Ma non ricordavo che amare,significasse lottare. Non ricordavo che amare,significasse morire. Forse perché prima non era così.

Ricordavo com’era stato semplice con Josh. Non semplice,ma naturale. Accettare quello che provavo,di fronte alla schiettezza dei miei sentimenti,era stato quasi un obbligo,un dovere ed un esigenza. Come avrei potuto voltarmi di fronte ai suoi occhi,negando quel che vi avevo scorto?E per la prima volta in tutta la mia vita,mi ero sentita vulnerabile,fragile come un fuscello che aspettava di spezzarsi sotto il peso incurante di un vagabondo. Allora,però,non mi ero curata del fatto che quel fuscello avrebbe potuto spezzarsi con un tale semplicità ; avevo invece pensato che se ne sarebbe rimasto lì,sino a che non sarebbe diventato terra stessa,e poi ancora vita. Il fremito che provavo quando l’osservavo dalla finestra della mia stanza mentre mi aspettava sotto casa,il sussulto che avevo quando mi stringeva la mano,intento a non lasciarla…i suoi baci dolci che non mi avrebbero mai stancata…tutto quello mi faceva sentire viva come non lo ero mai stata in vita mia. Eppure,forse,non ero pronta per essere innamorata,forse non lo ero mai stata. Ero soltanto una ragazzina che scappava dalla sua vita rifugiandosi nelle frivolezze,nascosta dietro una maschera. Ma la verità era che eravamo due fuggiaschi tremanti di fatica e sofferenza,e che insieme avevamo trovato la salvezza,sotto i nostri sguardi increduli. E così ero cresciuta,amando ed amandomi. Perché ogni cosa scoloriva di fronte a quel che avevo dentro,di fronte a lui. Perdeva sapore,perdeva interesse,diventava superflua. Così,quando per la prima volta incontrai gli sguardi sereni degli altri studenti che avevano smesso di nascondersi o di squadrarmi,avevo sorriso interiormente e mi ero ripetuta che sì : ce l’avevo fatta.

Respirai ancora l’odore pacifico della natura,e mi passai una mano tra i capelli. Poi,quando guardai di fronte a me,decisi che fosse giunto il momento di fermarmi. Mi avvicinai ad un grosso albero dal tronco robusto,e mi sedetti a terra,appoggiandomi a questo con la schiena. Chiusi gli occhi un istante. Sentivo l’umidità penetrarmi fin dentro le ossa,ma non mi importava. Non m’importava di niente,di niente se non di lei. Ma perché?Perché all’improvviso avevo iniziato a guardarla in quel modo ed a sognarla in quel modo?Perché proprio lei?Perché non avrei potuto continuare quella vita in silenzio,a testa bassa,prestando attenzione a dove pestassi i piedi?Ero di nuovo un fuscello,ma nella mia testa non sentivo nient’altro che quel CRACK netto e deciso,fermo nel tempo,come un maledetto allarme. Era arrivato il momento di chiudere gli occhi per un po’. Ero stanca,avevo dormito poco e per di più avevo sprecato le mie ultime energie nella maniera più…più sbagliata che conoscessi. Accoccolata all’albero e respirando l’essenza stessa della foresta,cullata dai suoi sussurri premurosi,ogni cosa divenne lontana. Io ero lontana,protetta in un’ampolla che d’un tratto mi parve familiare.

                                                                           

«Lopez?» disse una voce incredula poco distante da me.

Mi costrinsi ad aprire gli occhi controvoglia.

Quando misi bene a fuoco quella figura scura,mi accorsi che si trattasse di Alex.

«Che diavolo ci fai tu qui?» chiese ancora incredula.

Sbattei un paio di volte le palpebre,ancora assonnata,e mi schiarii la voce.

«Che diavolo ci fai tu!Ero venuta a fare una passeggiata e mi sono appisolata».

La ragazza,pallida in viso come lo era ormai da giorni, sembrò non avere una risposta già pronta ed abbassò lo sguardo,come fa chi ha commesso qualcosa ed ha paura di essere scoperto.

«Cammino spesso qui» rispose poco decisa,continuando a fissare il terreno rossastro sotto i suoi piedi «che tu ci creda o meno,mi rilassa».

«Già».

Allora si guardò le unghie e si staccò una pellicina,improvvisamente nervosa. Qualcosa non andava. Quella ragazza stava mentendo,lo avvertivo con ogni fibra del mio corpo. Sapevo leggere il linguaggio del corpo piuttosto bene,ed Alex non me la raccontava giusta. Era solo una sensazione,ma risuonava vivida dentro di me,come un messaggio d’allerta.

«Va tutto bene,Alex?» chiesi,cercando di sembrare il più tranquilla possibile per non destare sospetti.

Lei mi guardò improvvisamente confusa e preoccupata e si asciugò le gocce di sudore sulla fronte «che intendi dire?»

Quel giorno non faceva caldo. Tutt’altro.

«Intendo dire se stai bene. Sei piuttosto pallida ultimamente. Sai,se soffri di insonnia o…»

«Sto benissimo!» m’interruppe lei,scuotendo la testa «Va tutto alla grande,davvero!»

Annuii poco convinta. La pace che mi aveva rasserenata per quei pochi minuti era improvvisamente sparita e capii che fosse giunto il momento di tornare all’accampamento. Una terribile fitta allo stomaco mi tolse il respiro e fui costretta a chiudere gli occhi.

«Mi avvio al campo…buona passeggiata,allora» biascicai,portandomi una mano sulla fronte.

Quando raggiunsi quel silenzioso spazio familiare,mi accorsi che in pochi erano fuori dalle proprie tende. Brittany non c’era, e quella consapevolezza mi scombussolò ancor di più lo stomaco. Lucas era fuori,affianco alla sua tenda,sdraiato sull’erba a leggere un libro e Steven beveva un bicchiere d’acqua sotto il gazebo. Steven. Forse stavo per vomitare. Aumentai velocemente il passo per evitare che mi fermasse con qualche strana intenzione,ma all’improvviso la sua voce mi bloccò.

«Santana!» mi chiamò con aria felice,credendo che non l’avessi visto.

Neppure mi voltai. Accelerai ancora il passo,dritta verso le fauci di un altro pericolo. Ma cos’altro avrei potuto fare?Guardai la tela verde della tenda e feci un grande respiro. Mi tremarono le gambe.

«Ehi,Santana!»

Mi morsi il labbro e scossi la testa. Non potevo. Dio mio…non potevo. Nel giro di pochi istanti,non fui altro che un ammasso di carne ed ossa tremolanti e deboli come gelatina. Non potevo farcela,non potevo affrontarla. Non ero pronta. Non…non potevo. Scossi di nuovo la testa ed aprii la zip. Non appena respirai quell’aria,non appena la guardai,tutto quel che avevo ignorato tornò vivido a strozzarmi. Chiusi gli occhi,presa a pugni dalle emozioni,e mi costrinsi a camminare,incredula di saperlo fare.

 

Avevo le lacrime agli occhi,così come lei. La guardai,dall’altro lato della tenda,e spostai lo sguardo rapidamente. Lei si alzò,e si avvicinò. Tremai. Aveva capito tutto,come non avrebbe potuto? Mi aveva guardata dritta al cuore,per un istante che si era fermato nel tempo,mi aveva guardata lì. 

Noi piangevamo.

«Era quello che volevi?» mi chiese,con la voce che tremava,avvicinandosi lentamente per paura o chissà cosa.

Il mio viso rigato dalle lacrime si contrasse. Mi irrigidii e scossi la testa.

«Perché,Santana?Dimmi solo il perché e ti lascerò in pace. Ti giuro che smetterò di guardarti e di parlar…» .

«Shh!» singhiozzai,portandomi un dito alle labbra «Sta’ zitta,per favore».

Tremai dentro,di nuovo. E non potevo fare a meno di tremare,perché quegli occhi mi bucavano l’anima e quella voce mi pugnalava lo stomaco. Come avrei fatto a non guardarla?Come avrei fatto ad ignorare la ragione che mi avrebbe regalato la vita senza chiedere niente in cambio? Le sue lacrime,così simili alle mie,erano acido su quella pelle d’Angelo. Ma non potevo permettere che il volto dell’angelo più puro venisse sfigurato per causa mia. Quanto egoista sarei potuta essere? Non sarei stata in grado di mentirle,ma neppure di evitarla. Lo sapevo,era così ovvio…il suo viso attraeva i miei occhi a sé con una tale forza giusta e naturale,che tutto il resto pareva artificioso e vacuo. Il resto era vacuo,ma noi eravamo tutto.

«Non posso» sussurrò,specchiandosi nei miei occhi umidi « dimmelo che non mi vuoi!Dimmelo e la smetterò. La smetterò di cercarti,di guardarti,di sfiorarti... mi limiterò a sussurrarti il buongiorno e la buonanotte,ma dimmelo,per favore!Mi arrenderò all’idea che non ci sarà più amore nella mia vita,mi arrenderò all’idea che questo mondo ha divorato tutto. Basterebbe che tu me lo dicessi,anche urlandolo…e allora tornerei ad esser quel che sono : il niente che cammina,che sfiora la terra con i suoi passi,senza lasciare impronte. E non ascolterei più il mondo né sentirei delle briciole di vita scorrermi nelle vene. Dimmelo e sarò quel che sono!Sarà impossibile ignorare quel che ho dentro,ma sopporterò ogni istante il pensiero di non poter avere nulla,di non poter avere te».

Scossi la testa,sopraffatta dai singhiozzi «mi dispiace» biascicai,asciugandomi una lacrima con il dorso della mano.

«No» rispose lei,decisa. Mi prese il mento e lo sollevò «Santana,dillo. Dillo o morirò».

Le sue parole penetrarono dentro di me e danneggiarono ogni organo con la stessa velocità di un fulmine che si scaglia al suolo. La sua voce straziante,le sue lacrime,il suo viso umido di verità…furono un pugno al petto capace quasi di fermare il cuore. E si sarebbe fermato se non gli avessi impedito di farlo,se l’amore non l’avesse alimentato con una tale forza da esser in grado di consumarmi. Le circondai il polso con le mie dita ed allontanai la sua mano dalla mia pelle. Non poteva toccarmi,non doveva farlo.

«Non posso» risposi con la voce appena udibile,in un tremolio.

In quel momento,le parole mi esplodevano nel petto. Ero stanca,lo ero davvero. Ero stanca di continuare a lottare. Ma più di ogni altra cosa al mondo la desideravo,perché era la mia luce,perché era la mia stella,perché era l’unica cosa in grado di rendere la mia vita vita. Voltare lo sguardo ancora,significava morire. Anche guardarla, forse,significava morire ; ma in quel momento sapevo che la vita di cui le parlava sarebbe stata nelle mie vene e che si sarebbe diffusa come sangue,sino ad arrivare al cuore. Poi,forse,sarei morta,ma per un attimo avrei vissuto. Aveva forse senso continuare a fingere,continuare a recitare l’ironica commedia della mia vita?Ero una pessima attrice e la mia maschera prima o poi sarebbe scivolata via dal mio viso così lentamente,da scoprire ogni centimetro di pelle. Quando sarebbe giunta agli occhi,le mie lacrime sarebbero state esposte al mondo intero. E allora forse avrei urlato,avrei urlato un un’unica frase che in quel momento pareva tanto giusta quanto sbagliata : “non sono più un’attrice!”.

Lei scosse la testa e mi fece una carezza con una tale fragilità che sarebbe stata in grado di uccidermi,se l’avesse voluto. Io singhiozzai,di nuovo,ed abbassai lo sguardo. Una fitta allo stomaco mi prese alla sprovvista,e rimasi in silenzio chiedendomi il perché.

«Dillo ed ogni cosa cambierà. Io ti guardo dentro,Santana. Non puoi scappare dai tuoi sentimenti. A dispetto di ogni cosa in questo mondo,tu sei ancora umana».

Scossi la testa e mi portai le mani sul viso,disperata. Non potevo continuare a guardarla,era troppo vicina. Se avessi permesso di nuovo a quelle iridi color cielo di penetrarmi,allora ogni mia difesa sarebbe crollata. Dovevo resistere,dovevo aggrapparmi con tutte le forze a quel sentimento chiamato paura,oppure le porte si sarebbero spalancate e sarei rimasta accecata dalla più incredibile luce. Sarei morta e l’avrei trascinata con me nella tenebra. 

«Io…i-io non…»

Ero stremata.

«Dillo!» ordinò lei,tremando sulle mie labbra.

Alzai gli occhi e singhiozzai ancora. Lei mi prese il viso tra le mani e sentii il suo respiro sulla mia pelle. Nel momento stesso in cui l’azzurrò attraversò l’oscurità che portava il nome di paura,il mio intero mondo crollò. Crollai io,come se fossi fatta di creta. Bruciarono le mie mura,come fossero fatte di paia.

«Io ti amo,Brittany» sussurrai,singhiozzando «io ti amo» ripetei.

Fu allora che chiusi gli occhi e respirai il suo odore. Lo respirai così a fondo che cominciò a girarmi la testa. Improvvisamente capii che quello stesso odore sarebbe diventato il mio ossigeno,e che i suoi baci sarebbero diventati la mia felicità.

Lei sorrise,mentre una lacrima le solleticava una guancia e portò le sue labbra sulle mie. Era l’amore. Era lei. Mi diede un piccolo e delicato bacio,come quello che si danno i bambini che scoprono di saper amare,poi si allontanò per guardarmi negli occhi.

«Ti amo anch’io,Santana» disse sorridendo.

Le misi una mano dietro la nuca e con l’altra le accarezzai il braccio delicatamente. Lei mi cinse la vita con le braccia e ci baciammo davvero. Quando le nostre lingue si toccarono,capii che tutto quel che avevo pensato,che la paura che aveva oscurato il mio cuore in quegli istanti,era solo inutile marciume che non meritava di scorrere impunito assieme al mio sangue. Ogni cosa aveva preso senso nel momento stesso in cui una scarica di energia bianca e pura mi aveva attraversata senza preavviso,con la stessa concretezza di un sogno sfumato. L’unica cosa che sapevo era che lei era mia e che lo era sempre stata. Da quel momento in poi,non l’avrei mai più lasciata andare.

Le sue mani bollenti mi accarezzarono la schiena,segnandomi la pelle con quel calore che sapeva di desiderio,e le mie si infilarono insidiose tra le sue ciocche di capelli biondi. Le mie labbra la desideravano,la mia pelle la desiderava,ogni parte di me la desiderava. E lei era lì.

«Ti amo» sussurrai sulle sue labbra,ancora.

Lei rise sulle mie. La strinsi a me con forza,mentre le nostre lingue si cercavano ansiose di incontrarsi,ed avanzammo verso il soffice materasso nascosto dalle coperte. Quando mi resi conto di quello che stava per succedere,le gambe cominciarono a tremarmi come fossero state fatte di gelatina. Ma io la volevo così tanto...

«Wow» biascicò lei,ansimante,osservando il desiderio nei miei occhi.

Eravamo entrambe senza fiato.

«Già,wow» ammisi stupita,osservandola a mia volta.

Lei sorrise e allora le chiesi il permesso di toglierle la maglietta «posso?» le domandai,stringendo con la mano sinistra un lembo di quella stoffa grigia.

Lei rise e disse «non c’è bisogno che tu mi chieda il permesso».

Mi prese l'altra mano e la portò sull'altro lembo di stoffa. La guardai un’ultima volta,chiedendole implicitamente il consenso,e poi gliela sfilai. Mi allontanai un po’,per osservarla. Il suo seno meraviglioso era racchiuso da un reggiseno nero con i pois rosa e quella pelle…Dio mio,quella pelle quanto era bella ed invitante. Più la guardavo,e più cresceva in me il desiderio di farla mia. Senza rendercene conto,ci ritrovammo su quel vecchio materasso,desiderandoci reciprocamente. Lei si muoveva esperta,io desiderosa di imparare. Passammo tutta la notte a fare l’amore,e quando il primo raggio di sole spuntò all’orizzonte,scoppiammo a ridere. La verità era che la paura non era abbastanza forte da impedirmi di amarla. La verità era che da quel momento in poi,lei sarebbe stata la mia stessa vita. Ma io l’amavo,l’amavo così tanto che quando quella mattina incontrai per la prima volta le sue iridi celesti,non potei fare a meno di sussurrarglielo,baciandola instancabilmente.

Si diceva che le commedie avessero sempre un lieto fine e che tutti avrebbero applaudito. Io,forse, avrei pianto. Ma quello che desideravo più di ogni altra cosa al mondo,era inchinarmi al pubblico e godermi quel momento di gloria.


Non vi avevo forse detto di fidarvi di me?Beh,spero che non siate rimasti delusi! "L'inchino della fine" è probabilmente il capitolo che stavate aspettando  da tanto. Vi mentirei se vi dicessi che l'ho scritto con facilità. Volevo che tutto fosse perfetto,tutto!Sono stata giorni a  scriverlo,e poi ancora a riscriverlo,a modificarlo,correggerlo...stavo diventando isterica!Adesso,dire da parte mia che è perfetto,sarebbe a dir  poco presuntuoso e poco credibile data la mia eccessiva (è un eufemismo) criticità,però spero vivamente che nonostante tutto l'abbiate gradito e che non siate rimasti delusi. 

Ok,adesso lasciatemelo dire : E' TEMPO DI BRITTANA!!!

Com'è giusto che sia sempre,l'amore ha vinto sulla paura. Tenetevi pronti perché ho ancora molto (anche questo è un eufemismo!) da scrivere e ancora molto dovrà succedere...diverse situazioni si svilupperanno,ed alcune saranno piacevoli,mentre altre...

Vi aspetto con ansia nelle recensioni,come al solito,per confrontarci e discutere della storia...mi raccomando,non mancate!

E come al solito : al prossimo capitolo! (Ok,mi sto gasando perché da adesso in poi potrò finalmente lasciar emergere la mia immaginazione tutta "Brittana")

P.S. Ho scritto la parte Brittana del capitolo,ascoltando "Say something" di Christina Aguilera e A Great Big World. Generalmente mi piace scrivere nel più totale silenzio,ma questa volta ho fatto un'eccezione. Mi piaceva molto la melodia triste della canzone adattata alla scena altrettanto triste del capitolo,ed ho pensato che ascoltarla mi avrebbe aiutata ad entrare ancora di più nel "pezzo"...ok,mi sto dilungando,ma per farla breve volevo solamente consigliarvi di accompagnare la lettura con la canzone. Aspetta,adesso che ci penso avete già letto il capitolo...ok,forse avrei dovuto inserire questo "consiglio" all'inizio...ops! Vabè, chiudiamola con un : vi aspetto!

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Sprazzi di vita ***


BETWEEN THE HUNGRY

Sprazzi di vita .

Quando avvertii il rumore dei passi,sussultai. Aprii gli occhi e la vidi. Sapevo che sarebbe venuta,eravamo d’accordo,ma non ero mai troppo rilassata ed i nervi già tesi di primo pomeriggio,provvedevano a rendermi suscettibile ad ogni tipo di rumore.

«Scusi,per il bagno dove si va?» mi chiese Brittany con quel sorrisetto che le illuminava il viso.

Era raggiante come non l’avevo mai vista,e così lo ero anch’io. Era trascorsa un’altra settimana da quella notte,ed in ogni istante in cui i respiri nutrivano il mio corpo,non potevo fare a meno di ricordarla,sempre vivida come se l’avessi appena vissuta.

«Signorina,credo che stia sbagliando direzione.» dissi,sorridendo a mia volta «Per il bagno si va dall’altra parte».

Me ne stavo buttata a peso morto contro la corteccia di un albero,a gambe incrociate sull’umidità di quella foresta tranquilla. Le fronde di quell’enorme sequoia si diradavano abilmente sopra la mia testa,creando un tetto naturale che soltanto a spizzichi qua e là lasciavano trapelare i raggi del sole.

«Per quanto ancora dovremo comportarci come due quindicenni che si vedono in segreto?»

Sospirai e mi sollevai da terra per raggiungerla. Le diedi un piccolo bacio all’angolo della bocca e le accarezzai il braccio scoperto.

«Non è ancora arrivato il momento,Britt.» ammisi a malincuore «Lo sai,è successa quella cosa con Steven e…e non so mio fratello come potrebbe prenderla».

Lei storse la bocca e il suo viso si rabbuiò «pensi che potrebbe essere un problema il fatto che io sia una ragazza?»

Scossi la testa «non lo so» affermai,mordendomi un labbro.

Lei sbuffò e mi scansò una ciocca di capelli dal viso,poi mi prese per mano.

«Però è buffo,non trovi?» disse,tornando a sorridere.

«Cosa?» chiesi confusa.

«Che anche dopo la fine del mondo ci si debba curare di cose come queste. Voglio dire…l’umanità è stata sterminata da quelle “cose” e noi siamo ancora qui a preoccuparci di cosa potrebbe pensare la gente di noi due».

Annuii e mi sforzai di sorridere «lo sai che non è solo per questo…»

Lei alzò gli occhi al cielo e sospirò «già,c’è Steven».

«E’ solo che non voglio ferirlo,capisci?E’ stata tutta colpa mia se è successo quel che è successo».

Brittany si irrigidì e smise di parlare. Lo faceva ogni qual volta che veniva fuori l’argomento.

«Ehi,» dissi ad un soffio dal suo viso,dolcemente «lo sai che è solo acqua passata. Non serve che ogni volta torniamo a discuterne,ok?Non c’è niente da dire».

«D’accordo,» rispose lei,tornando a guardarmi in viso «ma penso che dovrai chiarire la situazione prima o poi…sarà confuso».

«Lo farò» risposi,annuendo.

Il vento fece ballare le fronde della sequoia a suo piacimento e allora un raggio di sole illuminò il viso di Brittany. Gli occhi celesti che ormai sognavo e nel quale mi perdevo,divennero ancor più chiari e allora mi scappò un sorriso.

«Che c’è?» chiese lei,guardandomi,leggermente accigliata. Sapevo a che pensava.

«E’ che….non riesco a credere di averti trovata» risposi,osservandola intensamente.

Lei sorrise,lusingata con quel suo finto imbarazzo,ed aumentò la presa tra le nostre mani.

«Nemmeno io riesco a credere di aver trovato te».

Chiusi gli occhi ed a poggiai le mie labbra sulle sue,morbide e dal sapore di miele. Le diedi un piccolissimo bacio,poi mi allontanai lentamente e la guardai sorridere. Lei mi accarezzò una guancia,con dolcezza,e i nostri occhi si specchiarono gli uni negli altri. Azzerammo di nuovo la distanza e giocammo con le nostre lingue senza fretta,come se avessimo avuto il bisogno di vivere a pieno ogni singolo istante,per paura di perderlo.

 

«E’ tranquillo qui,mi piace» disse guardandosi intorno.

Annuii «è un buon posto per pensare. Sembra che niente sia stato intaccato,che sia tutto come prima».

Lei sorrise «Sì,è vero».

Avevamo camminato un po’,senza allontanarci troppo,ed avevamo trovato un tronco sul quale sederci. Le nostre mani ancora unite,adagiate sul muschio ruvido che di tanto in tanto ci solleticava la pelle.

«Che tipa eri prima di tutto questo?»

Lei mi guardò con un’espressione mista tra il divertito ed il sorpreso «che tipa ero?»

«Sì,» risposi convinta «com’eri tu e com’era la tua vita. Voglio sapere tutto di te : ogni minimo dettaglio».

Lei mi guardò ancora incuriosita da quella domanda inaspettata,e si schiarì la voce.

«Ero un po’ esaurita,a dire il vero».

Risi «esaurita?»

Lei annuì «sempre affaccendata,senza mai un attimo di respiro per rendermi veramente conto di come fosse la mia vita. Alle superiori ero piuttosto invisibile,portavo un paio di occhialoni in celluloide rossa,l’apparecchio ed ero…beh,sì,ero molto meno formosa».

Risi ancora «stai cercando di dire che adesso sei formosa?»

Lei mi diede una gomitata nelle costole e scoppiò a ridere «non ho detto questo!Dico solo che sembravo una tavola da surf,ecco».

«Come no…» risposi ironica.

«Ehi,niente interruzioni!» mi rimproverò con finta serietà.

Feci segno di chiudermi la bocca.

«Passai quattro anni infernali,i peggiori della mia vita. Ogni giorno era una tortura,ogni mattina quando aprivo gli occhi avevo soltanto voglia di piangere. Hai presente quell’angoscia che ti intorpidisce?»

Annuii. Sapevo bene di cosa stesse parlando.

«Beh,quella era la mia unica amica. Piuttosto triste,no?» fece una pausa e sospirò,improvvisamente presa dai ricordi. «I miei mi avevano istruita in un certo modo. Il loro motto era : “Lo studio porta al successo”. Così tutti i pomeriggi trascorrevo ore intere sui libri,mentre i miei compagni di classe si sballavano fumando marijuana o andando a ballare in discoteca. Ero una secchiona!Una di quelle che tutti prendevano in giro e che riempivano di scherzi sino a portare all’esasperazione».

«Probabilmente ti avrei presa in giro anch’io se tu fossi stata nella mia stessa scuola…» ammisi con amarezza.

Lei mi sorrise «senz’alcun dubbio. Avevo un’unica grande passione : la danza. L’ho sempre amata più di ogni altra cosa,da quando avevo cinque anni. Nonostante fossi abbastanza goffa,ero piuttosto brava. Finito il liceo mi ero illusa che tutto il mio impegno avrebbe convinto i miei genitori a permettermi di realizzare i miei sogni,ma presto mi resi conto che non c’era verso di cambiarli. Sarà brutto dirlo dopo averli persi,» ammise con tristezza «ma ho passato un’intera vita ad essere oppressa da loro. Obbedivo e basta,senza riuscire a vivere realmente. In quattro anni non ho fatto altro che studiare e studiare e studiare. Non avevo mai baciato nessuno,non ero mai andata ad un ballo di fine anno,non avevo mai neppure avuto una vera amica».

«Cavolo» la interruppi «è triste…la mia adolescenza al confronto sembrerebbe la vita di Lindsay Lohan!»

Brittany rise «lo immagino.» fece una pausa,e poi tornò a raccontare «Quando i miei mi costrinsero a seguire giornalismo alla Columbia,nonostante la tristezza,iniziò la mia vera vita. Durante l’estate precedente ero cambiata : avevo tolto l’apparecchio,avevo messo su qualche chilo,e avevo tolto anche gli occhiali».

«In poche parole sei diventata una figa!» esclamai,sorridendo.

Brittany scoppiò in una fragorosa risata. Quel suono melodioso si unì al cinguettio degli uccellini,quasi fossero un tutt’uno.

«In poche parole sì.» ammise ancora sorridendo «Stando lontana da casa imparai ad essere più sciolta,meno impacciata,e tutta quella insicurezza sparì non appena capii di essere circondata da delle persone che mi apprezzavano. Non mi sentii mai libera come allora,mai. Per l’ennesima volta avevo obbedito ai miei,ma in un certo senso diventai autonoma,finalmente».

Le sue parole risuonavano ancora nella mia mente,quando ebbi voglia di farle un’altra domanda. Il desiderio di conoscerla era così forte,che avrei passato l’intera giornata a scoprirla e a studiarla,con un solo pensiero nella testa : la amo.

«Così non hai avuto una grande vita amorosa,eh?»

Lei mi guardò e scosse la testa,sorridendo della mia curiosità.

«Quando hai scoperto che…»

«Che mi piacciono anche le ragazze?» mi interruppe,togliendomi le parole di bocca «Non saprei dirlo con precisione…però c’è stato un momento in cui ne presi pienamente coscienza».

Vedendo che taceva,con lo sguardo basso come fosse imbarazzata e un sorrisetto timido stampato sulle labbra,non potei fare a meno di incitarla a parlare «Racconta!»

Lei scosse la testa e sempre sorridendo,si portò le mani sul viso. Vederla in quel modo mi faceva venire voglia di abbracciarla forte forte o strizzarle teneramente le guance. Sembrava un innocente e tenerissimo cucciolo.

«Ti prego» la supplicai,congiungendo le mani come in preghiera.

Lei sbuffò,fingendo di essere contrariata e cedette «e va bene!»

Risi.

«C’era questa ragazza che frequentava il mio stesso corso di biologia,si chiamava Kate Danko. Aveva delle lunghe gambe chiare e una cascata di capelli neri che le incorniciava il viso. Ma quel che mi piaceva di più di lei,erano i suoi occhi : di un marrone cioccolato con delle lunghe ciglia nere».

«Gli occhi,certo…»

Un’altra gomitata mi colpì alle costole e soffocai una risata.

«Si era appena trasferita dal Canada ed era diventata da subito l’attrazione della scuola. Sai,i newyorkesi sono abbastanza chiacchieroni. Parlano di ogni cosa che non riguardi i fatti loro,e Kate era un’indiscutibile novità. Passavo le ore a guardarla. Biologia divenne il mio corso preferito ed ogni volta che incrociavo i suoi occhi,mi batteva il cuore all’impazzata. Mi ero presa una cotta bella e buona,ma all’inizio credevo fosse soltanto ammirazione. Pensavo di desiderare di essere come lei e pensavo che fosse normale che una persona così bella avesse un simile effetto su di me.» fece una pausa e sorrise,come a voler dire povera illusa «il bello venne quando ci ritrovammo per puro caso nella stessa ora di educazione fisica. Io,che come un’ebete me ne stavo in disparte a fissarla mentre giocava a pallavolo,non riuscii a rivolgere nemmeno una volta la parola. Quando negli spogliatoi si cambiò,mi ritrovai a fissarla provando una strana sensazione che arrivava dal basso ventre sino alla bocca dello stomaco. Tornai a casa e cominciai a fare due più due e alla fine rimasi sconcertata. Nemmeno immagini quante paranoie mi sia fatta o quanto abbia sofferto per quella situazione. Non avevo nessuno con cui parlarne e sapevo che i miei genitori non l’avrebbero mai accettato. Ero…ero a pezzi».

Osservai i suoi occhi tristi e le ripresi la mano,poi le baciai una guancia.

«Arrivata al college conobbi una ragazza. Frequentava buona parte dei miei stessi corsi e a dirla tutta era molto amica di Jake. Era di origini italiane ed era molto,ma molto bella. Mi chiese di uscire quasi subito,mi corteggiò,ed io sempre impacciata e timida non mi spiegavo come una ragazza così bella desiderasse uscire con me. Restammo quattro mesi insieme,poi finii per vari motivi. Fu con lei che persi la verginità,fu a lei che diedi il mio primo bacio. Intanto i miei genitori si chiedevano per quale diavolo di motivo fossi così felice ogni volta che andavo a trovarli. Mi facevano battutine e mia madre mi faceva l’interrogatorio ogni volta che la chiamavo. Un giorno,mentre eravamo a pranzo,dissi semplicemente :” ma’,pa’…sto con una ragazza!”. Mio padre cominciò a tossire e per poco non si sentì male. Mia madre mi disse semplicemente di non azzardarmi più a dire certe cose a tavola perché rischiavo di farli soffocare con il cibo.» si fermò e rise,scuotendo la testa «Da quel momento non ne riparlammo più ed io fui libera di vivere la mia vita».

«Wow» ammisi,sorridendo «certo che sei una tipa interessante,eh?»

Lei fece spallucce con disinvoltura.

«Sei stata anche con dei ragazzi?»

Brittany mi guardò ed annuì «Poco dopo Sara ho incontrato Brian,ma è durata un mesetto scarso. Non ero realmente innamorata e dopo un po’ l’infatuazione sparì. Non faceva altro che bere e bestemmiare…Dio,era disgustoso» ammise facendo una smorfia «ancora non capisco come abbia fatto a mettermi con lui. C’era una differenza abissale tra Sara e Brian».

«Del tipo?» chiesi,curiosa.

«Sara era una persona fantastica. C’era intesa tra di noi,ci capivamo con uno sguardo e poi…» si fermò,con un sorrisetto malizioso «a letto era tutta un’altra storia».

Risi compiaciuta da quella sua affermazione «ah sì?»

Lei si avvicinò con il viso,annuendo «senza alcun dubbio».

«Vieni qui» le sussurrai,avvicinandomi a mia volta.

Le nostre labbra si incontrarono,così come le nostre lingue. Quel bacio però prese una piega immediatamente diversa. Non era più tenero come quello di poco prima,ma disinibito,sfacciato…eccitante. Brittany adagiò le sue mani sulla mia schiena e poi scese,sino ad infilarle nel pantalone della tuta,e poi ancora nelle mutandine. A quel punto avvertii il desiderio impellente di possederla in quel modo,e le mie mani si insinuarono nella sua maglietta. Le accarezzai la pelle vellutata,i fianchi,ma non era abbastanza. Salii sino ad incontrare i suoi seni e allora strinsi tra le mie mani le coppe del reggiseno. Lei gemette sulle mie labbra. La baciai con più passione di prima,avvertendo quel desiderio che mi scaldava come un fuoco perenne ed avvolgente al basso ventre,e allora lei strinse il tessuto della mia maglietta tra le dita,e lo sollevò. Gettò come fosse uno straccio quell’inutile pezzo di stoffa e prese a baciarmi il collo. Baciò la mia pelle,la morse,la succhiò,poi mi slacciò il reggiseno e scese ancora.

«Britt…» biascicai,posseduta dal piacere e dall’eccitazione.

Lei non rispose. Si limitò a scendere tracciando la mia pelle con la lingua.

«Sei mia,Santana» disse con voce seducente.

Allora tremai.

«Sono tua» risposi mentre la sua bocca si faceva a mano a mano sempre più audace.

Divorò ogni mio centimetro di pelle. Lo conquistò secondo dopo secondo,senza paura. Dapprima il seno,a cui dedicò particolare attenzione,stuzzicandolo con labbra,denti e lingua. Poi scese ancora e…ancora e mi calò rapidamente i pantaloni con un gesto istantaneo e brusco,costringendomi a sollevarmi dal tronco. Osservò la mia eccitazione dalla stoffa delle mutandine nere,e baciò il tessuto mentre morivo di desiderio.

«Dios mios» sussarrai,mordendomi le labbra.

Afferrò la stoffa nera tra i denti e,aiutandosi con le mani,scoprì l’ultima parte di me. Il fuoco si nascondeva proprio lì,e lei era sia benzina che acqua.

«Mi desideri,non è vero?» chiese,come fosse un diavolo tentatore venuto dritto dall’inferno per provocarmi.

Annuii,perché non avrei potuto parlare.

«Voglio sentire la tua voce».

«S-sì!Ti desid…ti desidero».

«Bene» disse secca.

Non appena pronunciò quell’unica parola,la sua lingua si trasformò nel più abile strumento in grado di regalare piacere. Le infilai le mani tra i capelli biondi mentre mi mordevo le labbra incontrollatamente,tra i respiri rapidi ed insoddisfacenti,e li spostai dal suo viso. Ma l’eccitazione cresceva assieme al piacere,ed ogni parte di me avrebbe voluto urlare quanto diavolo stessi bruciando di desiderio.

«Oh,merda» fu l’ultima cosa che riuscii a dire.

Il suono della natura venne sovrastato da un unico grido liberatorio,che non ero sicura fosse mio. Distesi la schiena sopra il tronco,avvertendo la corteccia ruvida graffiarmi la pelle,e mi portai le mani sul viso. Brittany percorse la distanza tra lo stomaco e il collo con la lingua,rapidamente,e ricongiunse le sue labbra con le mie.

«O mio... Dio» biascicai,ancora sovrastata da quel piacere intenso che mi aveva strappato via ogni traccia di lucidità.

Brittany rise e disse «te l’avevo detto!Le donne sono le migliori».

Mi sollevai appena per guardare quel suo sorrisino sfacciato,e poi ricaddi a peso morto sul tronco,ridendo.


Lettori e lettrici,buonasera (o buongiorno o buon pomeriggio)!

Come avete potuto notare,questo è un capitolo interamente dedicato al "Brittana" e mi auguro con tutta me stessa che vi sia piaciuto. E' molto semplice,ed è come se le due protagoniste siano avvolte da un velo protettivo che le isola da tutto quel che hanno intorno. Era questo il mio scopo : fare una pausa dal mondo brutale nel quale la vicenda si svolge,e dedicarmi a quest'amore in piena nascita,molto protettente. Dunque,senza annoiarvi troppo,vi chiedo come al solito di scrivermi nelle recensioni tutto quel che pensate,senza alcun timore o freno. Non vi mangio mica,eh!

ATTENZIONE : dal prossimo capitolo vedremo delle evoluzioni fondamentali per la storia. Qualcosa di grosso succederà,e spero che voi continuiate a farmi compagnia sempre presi e incuriositi come mi auguro che siate. 

Beh,allora non mancate!Ringrazio tutti coloro che hanno deciso di seguire questa folle storia e coloro che decideranno di seguirla. Un grazie speciale va alle meravigliose persone che mi hanno supportata sino ad oggi recensendo,e spingendomi di capitolo in capitolo nel cercare di migliorare,sempre con passione.

Alla prossima!Vi aspetto...

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Alessandra Monroe ***


capitolo

BETWEEN THE HUNGRY

Alessandra Monroe

Camminavamo nella foresta mano nella mano. I nostri pensieri vagabondavano in un silenzio composto solo dal cinguettio degli uccellini e dal rumore delle fronde degli alberi smosse dal vento. Era arrivato il momento di tornare al campo e a malincuore camminavamo,con la mente ancora ferma in una fotografia che sapeva di felicità nascosta. Io e Brittany avevamo fatto l'amore,di nuovo. La terra umida del nostro piccolo nido sapeva ancora dei nostri odori fusi,delle nostre labbra congiunte,e dei nostri sospiri fugaci. Ogni volta che la sfioravo,ogni volta che toccavo quelle labbra morbide o assaporavo la sua pelle,sentivo nel petto tutto l'amore che provavo. Non c'era niente di più giusto in quel mondo che non ci meritava.

Le accarezzai il dorso della mano con il pollice,lei mi guardò e sorrise.

«Sono felice» disse,continuando a guardarmi con quell'aria estasiata.

Smisi di camminare e le baciai una guancia,poi lei mi attirò a sé con delicatezza,e poggiò le sue labbra sulle mie.

«Ti amo. Sei tutto quello che ho,adesso».

Mi spostò una ciocca di capelli ed i nostri occhi si incontrarono «ti amo» rispose lei,accarezzandomi una guancia «e sei tutto quello che ho».

Ci baciammo a lungo,sebbene fossero ore ormai che eravamo lontane dal campo. Gli altri cominciavano sicuramente a preoccuparsi della nostra assenza,così ricominciammo a camminare a passo svelto. Il tetto naturale sopra le nostre teste finì,e i nostri occhi si spostarono sulle tende poste in quell'immenso prato verde.

«I nostri bisogni durano ore» disse lei,ridendo.

Risi anch'io «colpa di quello schifo di cibo».

Mentre ancora scrutavo il nostro piccolo accampamento,mi accorsi di una cosa : il wrangler non era più lì. Controllai più e più volte,sotto lo sguardo confuso di Brittany,e poi conclusi che non ve n'era traccia. Sentii il cuore balzarmi in gola e poi,in uno scatto improvviso,le mie gambe cominciarono a muoversi rapidissime,in preda ad una paura tremenda ed improvvisa. Brittany corse con me,senza fare domande,e prima ancora che potessi realizzare qualsiasi altra cosa,ci ritrovammo di fronte il gazebo,dove tutti erano radunati. Non proprio tutti.

«Merda!Non ci posso credere...non ci credo!» urlò Steven disperato agitandosi davanti il tavolino,con le mani sul viso.

Il ragazzo neppure si era reso conto della nostra presenza,anzi,a dire il vero non se n'era reso conto nessuno. Tutti guardavano Steven aspettandosi qualcosa,ma non vedevano altro che la rabbia e il panico che lo facevano muovere convulsamente,soffocato dalla preoccupazione. Io e Brittany ci guardammo in faccia,con la stessa espressione confusa e il respiro affannato,e ci avvicinammo di più al gruppo.

«Siete qui!» esclamò Steven,sorpreso.

«Dov'è il Wrangler?»

Il ragazzo scosse la testa e battè forte la mano sul tavolo,in un impeto d'ira. Le pistole sobbalzarono.

«Mia sorella...» disse,facendosi scrocchiare le dita e stringendo il pugno con forza.

Guardai quei volti di nuovo. C'erano Lucas,Noah e Steven. Soltanto tre...

«Alex?» domandai accigliata.

Steven annuì con forza e si passò di nuovo una mano sul viso «mi ha fregato le chiavi!» urlò,colpendo di nuovo il tavolino.

Lucas si allontanò dal ragazzo e si avvicinò a me. Gli presi la mano.

«Che gli hai detto,eh?!» urlò Noah,furioso,avvicinandosi minacciosamente all'altro «scommetto che l'hai sfinita con quella storia del supermarket e adesso è piena di sensi di colpa» si avvicinò ancora. Era nero in viso,ed i suoi occhi erano iniettati di sangue. «Se tutta questa storia è colpa tua,io..»

Steven scosse la testa,disperato «tu non capisci!Non sai di cosa stai parlando».

La rabbia sul viso di Noah si spense improvvisamente e guardò il ragazzo confuso «che intendi dire?»

Steven si allontanò dal tavolo e cominciò a camminare avanti e indietro,torturandosi le mani. «Voi non sapete chi sia Alex,nemmeno immaginate...» si interruppe e continuò a scuotere la testa,come un folle «non capite..non sapete niente» blaterò tra sé e sé.

Aumentai la presa sulla mano di Lucas.

«Cosa?!Cos'è che non sappiamo,Steven?!» gridò Noah,furioso.

Il ragazzo smise di camminare,si voltò e ci guardò. Sul suo viso c'era dolore,disperazione,preoccupazione,paura,panico...ma fu quando mi concentrai sui suoi occhi pieni di lacrime che avvertii quelle sue stesse emozioni assalirmi in un mix devastante.

«Alex è un'ex tossicodipendente. Mia sorella è un'ex drogata e adesso è andata in cerca della sua dose» disse con un filo di voce.



ALEX


Mi sentivo male. Ogni singolo muscolo del mio corpo tremava. Non riuscivo a tenere le mani sul volante e di tanto la macchina mi scappava a destra o a sinistra,senza che lo volessi. Mi asciugai il sudore sulla fronte e tornai a concentrarmi sulla strada. Non riuscivo neppure a respirare,non riuscivo a stare ferma,ma ogni volta che mi muovevo,avvertivo una fitta allo stomaco e ricominciavo a battere i denti per il freddo. Non sapevo dove stessi andando,non sapevo...non ero abbastanza concentrata. La strada pareva muoversi davanti i miei occhi,ed io non riuscivo a tenere la macchina dritta,senza che sbandassi. Un affamato apparve in lontananza,vicino ad una di quelle villette colorate,che stonavano in mezzo al grigio nelle quali erano immerse. Battei i denti di nuovo e feci un respiro profondo. Guardai il volante e le mie mani. Il tremore era aumentato. Mi sentivo male. Perché ero lì? Scossi la testa quando quella domanda mi folgorò. Qualsiasi cosa sarebbe andata bene,qualsiasi!Antidepressivi,Ecstasy,Ketamina,Cocaina...qualunque cosa. Poi,mentre osservavo quell'affamato divenire sempre più vicino e allo stesso tempo più sfocato,ricordai.


Tutto era cominciato quando ancora guardavo il mondo con gli occhi ingenui di una ragazzina. Mio padre mi ripeteva sempre che New York era pericolosa. Peccato che non fosse mai presente nel momento in cui avevo bisogno di sentire quelle parole. Era un famoso avvocato,il più famoso divorzista di tutta New York e,come tale,si ritrovava spesso a viaggiare ed era totalmente assorto dal lavoro. Mia madre,invece,aveva ereditato una fortuna dal suo precedente divorzio durato solo pochi mesi quando ancora era una donna dalla bellezza vivida e naturale,e non faceva altro che spendere e spendere,e ancora spendere,per vivere nella più completa agiatezza. Andava dal chirurgo,organizzava viaggi alle Spa con le sue amiche sposate con importanti imprenditori,e poi partecipava a brunch,feste,inaugurazioni...a tutto,meno che alla mia vita. Spesso usciva di casa ed io neppure sapevo il motivo,non che mi interessasse in fondo. Dall'età di quattordici anni avevo imparato a cavarmela da sola. Mio fratello si era arruolato come marine non appena aveva compiuto vent'anni,insoddisfatto della vita al college,e così ero rimasta sola. Sola in un attico enorme,sola con la mia solitudine ed un senso incolmabile di vuoto. Non appena iniziai il liceo,molte cose cambiarono piuttosto rapidamente. Mi resi conto di aver messo piede in un mondo completamente diverso da quello che conoscevo. Il liceo,infatti,era un mondo a sé stante,un universo parallelo tanto allettante,quanto pericoloso. Imparai che cose come la popolarità,la moda ed i ragazzi erano di primaria importanza. Imparai che per sopravvivere,bisognava annullare la personalità e cedere all'omologazione. Imparai che il tuo cognome era un marchio,un timbro,un biglietto di entrata. Ogni cosa era sbagliata,me ne rendevo conto,ma ben presto l'istinto di sopravvivenza ebbe la meglio e lentamente le cose mi sfuggirono di mano,mentre ero ancora convinta di avere il pieno controllo della mia vita. Quando conobbi Carly,che mi salutò per la prima volta complimentandosi per il mio modo di vestire,credetti che da quel momento in poi non sarei più rimasta sola. Nel mio attico c'era posto anche per lei e la sua gente,ed il mio cuore aveva immediato bisogno di essere curato.

Cominciammo ad uscire. I ragazzi più ricchi e popolari della città ci invitavano a delle feste favolose. In una di quelle conobbi Ryan. Era il figlio di un petroliere,ed aveva i capelli ricci e di un biondo cenere che portava ribelli,ad incorniciare il viso su cui spiccavano due grandi occhi verdi. Quella sera Carly mi ripeté più volte che Ryan mi aveva puntato e che non potevo farmelo scappare. Era l'ennesimo biglietto di entrata in quella società malsana,così,quando lui mi guardò con quei suoi occhioni intensi e mi sorrise,fui costretta a sorridere a mia volta. Parlammo della scuola,parlammo dello sport,delle feste,dei nostri genitori e poi bevemmo. Bevvi una bud,e tre shot di tequila. La vista divenne improvvisamente offuscata,i rumori distanti,ed i suoi baci insistenti. Mi trascinò in una camera al piano di sopra,e poi lo facemmo. Persi la verginità a quattordici anni,con la confusione che mescolava i miei pensieri incoerenti,e l'alcool che scorreva impetuoso nelle mie vene. Quando tornai a casa alle quattro del mattino e guardai il cellulare,mi accorsi di non aver ricevuto neppure una chiamata. Mia madre non era nel suo letto,mio padre era in viaggio chissà dove e con chi,ed il mio letto era freddo,gelido come il mio cuore. Mi obbligai a non piangere,mi costrinsi a vedere il lato positivo delle cose,ma il groppo che avevo in gola non aveva intenzione di lasciarmi respirare e mi riaddormentai nella più completa solitudine,cercando di ricordare degli sprazzi di quella serata. Brian neppure mi guardò quando tornammo a scuola il lunedì successivo,e non aveva intenzione di farlo. Io lo osservavo di sottecchi,mentre scherzava con i suoi amici,ed avvertivo un peso opprimente al petto. Cosa gli sarebbe costato salutarmi,o scambiare due chiacchere come fossimo buoni amici?Me lo chiesi spesso,ma smisi non appena capii che non valesse la pena concentrarmi su una cosa così inutile. Capii che era così che funzionavano le cose. Carly mi disse che comunque fosse andata,mi ero portata a letto un invidiabile bocconcino,uno dei ragazzi più desiderabili di tutto l'istituto. Fui costretta ad arrendermi a quell'idea e,soltanto un mese dopo,mi ritrovai ad un'ennesima festa,con diversi occhi puntati addosso e sorrisi rivolti con una malizia disarmante. Quella sera bevvi più del solito. Mio padre mi aveva chiamata qualche ora prima e mi aveva detto che non sarebbe tornato per il fine settimana perché era troppo impegnato con un caso di divorzio che valeva milioni di dollari. Mandai giù diversi shot di vodka alla pesca,poi qualche Manhattan ed altri cocktail di cui non ricordai neppure il nome. Mi voltai dal bancone del bar,e vidi Alan Harryson che mi fissava con due piccoli occhi arrossati. Era così fatto,che a stento riusciva a reggersi in piedi. Lui mi raggiunse,con quell'aspetto disorientato,e dopo qualche chiacchera malriuscita me ne andai via sulla sua limousine,per continuare la festa nella sua villa da ultra milionario. Quando tornai a casa alle nove del mattino,dopo aver vomitato anche l'anima in quel lussuoso water,mia madre era in piedi.

«Ciao» mi disse,sorridente «dove sei stata?»

Io la guardai con un'espressione fredda e le risposi «ho dormito da un'amica».

Lei continuò a guardarmi,persa chissà in quale futile pensiero,e mi rispose semplicemente «hai un aspetto terribile. Perché non vai a farti una doccia e non prendi un paio di aspirine?»

Neppure le risposi. Corsi un camera mia e mi chiusi dentro,aspettando che Carly mi chiamasse per programmare la nostra prossima serata.

Poi,però,le cose degenerarono.

Le feste divennero sempre più frequenti al crescere della nostra popolarità e l'alcol divenne senz'alcun dubbio il mio migliore amico. Cominciavano a non bastarmi le sbronze in compagnia di qualche ragazzo e senza che me ne rendessi conto,il sesso divenne l'unico sfogo che avessi. Ma a nessuno importava di come usassi il tempo libero,a nessuno interessava quanto bevessi o a che ora tornassi. L'importante era avere un bell'aspetto,conversare come una donna matura con le amiche della mamma,e sorridere fingendo di stare bene. Con mio padre sorridevo sempre. Ogni volta che raccontava com'era andato il suo ultimo divorzio,io sorridevo e mi complimentavo. E quando si chiudeva nel suo ufficio per parlare al telefono o usciva di casa avvisando di avere un importante impegno da sbrigare,correvo nel suo ufficio e bevevo whisky fino a che non mi girava la testa. Sapevo che era sbagliato,lo sapevo,ma faceva male. Faceva male respirare,sorridere o parlare. Faceva male baciare un ragazzo che neppure ricordava il mio nome,faceva male la mattina dopo quando mi svegliavo in qualche casa sconosciuta,con la testa che mi lampava. Ma a nessuno importava chi fosse realmente Alessandra Monroe o quale fosse la sua vita. A nessuno importava cosa provasse o cosa pensasse. Alex era una ragazza popolare,la figlia di Nathan Monroe,il più famoso e ricco avvocato divorzista.

Una sera,mentre tenevo tra le mani una bottiglia fredda di champagne ed osservavo gli altri ragazzi ballare,Carly mi presentò Troy. Era all'ultimo anno e quando passava per i corridoi della scuola,tutti,ma proprio tutti,lo salutavano. Carly mi disse che quella sera Troy ci avrebbe fatte divertire. Io pensai che avremmo fatto sesso con lui,e invece la serata volse diversamente. Mentre bevevo lo champagne direttamente dalla bottiglia,Troy tirò fuori una busta con delle pasticche.

«Che roba è?» chiesi improvvisamente allarmata,sforzandomi di mettere a fuoco la sua immagine.

Carly mi sorrise e mi disse di stare tranquilla e che quella sera ce la saremmo spassata come non mai.

«Ecstasy» rispose il ragazzo tirando fuori dalla busta tre pasticche «è roba buona,credimi. Ne hai mai provata una?»

Scossi la testa,guardandolo confusa.

«Sono ottime per godersi la serata. Sono innocue,credimi. Ti sgombrano la mente e ti sballano di brutto» mi rassicurò lui con tranquillità,come se stesse spiegando gli ingredienti di una torta.

Poi capii : Troy era un pusher. Lo guardai un'ultima volta,guardai Carly che mi incitava con lo sguardo,e ingoiai la pasticca con lo champagne,senza pensarci più.

Lentamente,senza rendermene conto,quel mondo malsano inglobò la mia vita a sé. Divenne parte costituente,fondamentale ed insostituibile. Sesso,droga e alcol. Sesso,droga e alcol. E poi ancora : sesso,droga e alcol.

Una mattina,quando tornai a casa dopo aver passato la notte a fumare marijuana,fatta di ecstasy e su di giri per l'alcol,mi madre mi bloccò sulla soglia d'entrata.

«Dove sei stata?» mi chiese,accigliata.

Mi passai le mani sul viso dall'aspetto cadaverico,e mi sforzai di ignorare la nausea che mi metteva in subbuglio lo stomaco.

«Da Carly» risposi fredda.

Lei esaminò il mio viso con apparente cura,ed indurì l'espressione «non mi piace come ti comporti ultimamente,Alessandra».

La guardai sconvolta. Era mia madre o una sosia?

«Hai rovinato la festa di bentornato che avevo organizzato per Lydia».

Poi ricordai,con un sorriso amaro ed ebbi la risposta alla mia domanda. Io,Carly,Tracy,Troy e Wren avevamo preso tutte le bottiglie di champagne e ce l'eravamo svignata,lasciando la festa priva dell'elemento più importante.

«Non succederà più» risposi secca.

Lei mi sorrise,con quell'aria da svampita,ed io salii in camera mia.

Le cose,ogni cosa,continuava imperterrita a portare dolore nella mia vita. La solitudine non spariva né con le amicizie,né con il sesso. Mio fratello,il mio migliore amico,non c'era e nulla,ma proprio nulla riusciva a colmare il vuoto nel mio petto. Così,una mattina,prima di andare a scuola,con un'ansia crescente che si impadroniva del mio corpo,decisi.


Troy mi guardò ancora una volta,prima di sganciare la busta che teneva in mano.

«Sta' tranquillo!» tentai di rassicurarlo «lo sai che non esagererò. Quante volte devo ripetertelo?»

Lui continuò ad osservarmi,accigliato,ed alzò gli occhi al cielo «non mi piace che tu usi questa roba. Conosco delle persone che sono finite male. Che ne dici se ti do quelle pasticche che hai provato al Webster?Sono ottime. Oppure ho anche quel...»

«Ma che cazzo!» esclamai stufa «La smetti di comportarti come se fossi il mio ragazzo?Ho i soldi. Dammi quella roba e facciamola finita».

Lui sbuffò «Alex...»

«No».

Mi porse la busta arancione controvoglia,e quando feci per prenderla,lui continuò a fare resistenza.

«Troy!» esclamai alterata «Molla questa cazzo di busta!»

Sbuffò di nuovo e poi obbedì.

Presi la busta,la infilai alla svelta nello zaino,e ne presi un'altra.

«Ecco i tuoi soldi» dissi secca,lanciandogliela addosso.

Mi voltai e rincominciai a camminare.

«Alex!» mi chiamò lui.

Non mi voltai.

«Fa' attenzione!»


Quando tornai a casa,mi accorsi che era vuota,di nuovo. Salii in camera mia e mi sedetti sul letto,con la busta tra le mani. Non potevo finire di complicarmi la vita in quel modo,eppure,allo stesso tempo, sapevo che sarebbe diventata ancora più semplice. Non provare niente,non sentire alcuna emozione,se non l'euforia che la droga o l'alcol mi davano,limitava la mia vita,ed in fondo era quello che volevo. Non ero altro che un involucro triste e vuoto,privo di sentimenti,con un cuore gelido e un petto scavato. Quando stavo per mettere via la busta,il telefono squillò. Lessi il nome sul display,con la speranza che fosse mio padre,ed invece vidi il nome di Sam Bukley. Il mondo mi crollò addosso,per l'ennesima volta. A scuola si era diffusa la voce che fossi una facile e,in men che non si dica,i ragazzi cominciarono a provarci spudoratamente con me,in ogni situazione,soltanto per portarmi a letto. Sam era uno di quelli,e non era mio padre. Con l'amaro in bocca spensi il display del cellulare e mi portai le mani sul viso. Sam non era mio padre. Mia madre non c'era,mio fratello nemmeno. Fu nella solitudine che mi aveva accompagnata sino ad allora,come una morsa soffocante e un peso opprimente sul petto,che sniffai la mia prima striscia di cocaina. I granelli di polvere guizzarono rapidi come un fulmine su per la narice,e,nel momento stesso in cui mi resi conto di esser semplice carne priva di vita ed animata solo dalla disperazione,piansi.


Scossi la testa per scacciare via quegli stupidi ricordi. Non importava chi ero o quale fosse la mia storia. In quel momento,avevo un solo pensiero nella testa : devo trovarla. Fermai il wrangler di fronte ad una di quelle villette e le mie mani tremolanti spensero il motore. Mi guardai allo specchietto e non vidi altro che un viso pallido e bianco come il latte,la pelle al di sotto degli occhi livida ed incavata,e numerose gocce di sudore sulla fronte. Battei i denti. Dovevo trovarla. Aprii lo sportello a fatica,e sentii i muscoli delle braccia cedere,privi di forze. Richiusi lo sportello e mi guardai intorno. Avevo la sensazione che sarebbe finita male. Avvertivo quel velo di oscuro avvolgermi,come se fosse stato un avviso sussurrato nel silenzio della morte. Chiusi gli occhi e respirai a pieni polmoni. Tremai di nuovo. Dovevo trovarla. Quando li riaprii,il cuore mi balzò nel petto.

«Sono morta...» biascicai,con le parole che mi si strozzarono in gola.

Dalla fine della strada,stavano arrivando. Decine di teste ricoperte da una pelle grigiastra e marcia,apparvero all'orizzonte,accompagnate dall'indistinguibile suono della fine. Avrei dovuto smetterla di complicarmi la vita. Avrei dovuto finirla,eppure niente risultava più astratto nella mia mente. Sarei morta per la seconda volta,per mano dello stesso assassino. Per la seconda volta,sarei morta da sola.

«O mio Dio».

Ed eccoci qui,di nuovo. Vi chiedo davvero scusa per il ritardo,ma i temporali estivi sono micidiali e mi hanno mandato il modem K.O. Spero davvero di non avervi deluso,ma mi sembrava necessario un capitolo che spiegasse la storia di Alex,che è probabilmente il personaggio più misterioso della fanfiction. Era giusto darle spessore,ed era giusto farvi leggere un pezzetto di lei. Forse è stato azzardato,forse no. E' un personaggio a cui tengo particolarmente e capirete in futuro il perché. Adesso diverse cose si spiegano,come il suo aspetto particolarmente preoccupante che aveva notato Santana,i suoi atteggiamenti,ma anche la storia del supermarket che verrà ripresa nel prossimo capitolo. Beh,che dirvi?Il prossimo capitolo sarà molto molto intenso e particolarmente impegnativo. State pronti,perchè succederà qualcosa di importante (è un eufemismo) per lo svolgimento della storia.

Con la speranza che abbiate gradito questo mio ultimo lavoro,vi aspetto nelle recensioni,come sempre. Vi ringrazio per il vostro supporto costante e per la carica che mi date.

Alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** L'Eroe silenzioso ***


BETWEEN THE HUNGRY

L'Eroe silenzioso .

Non avevo mai pensato che una ragazza come Alex potesse portare sulle spalle una storia con un simile peso. Steven,con l'aria ancora palesemente sconvolta,cominciò a raccontare ed ogni singolo sguardo era rivolto verso di lui,attento,mentre ascoltavamo le sue parole.

«New York era una città pericolosa.» iniziò,con la voce triste e malinconica «Non come adesso,ma ugualmente pericolosa. Mio padre era un famoso avvocato divorzista e mia madre una donna che per tutta la vita ha finto di non vedere i problemi della nostra famiglia.» fece una pausa,amareggiato. «Crescemmo nel lusso. Frequentammo entrambi delle scuole private,ed i nostri genitori avevano già stabilito il nostro futuro dal momento in cui eravamo stati messi al mondo.» Brittany annuì rattristata come se sapesse di cosa stava parlando. «Finito il liceo,i miei decisero di iscrivermi alla Brown. Rimasi in silenzio per tre anni. Se avessi resistito un ultimo anno,mi sarei laureato. Ma quello non era il mio ambiente,non era il mio sogno,e così un giorno tornai a casa e dissi ai miei che la mia vita al college finiva lì. Alex mi stringeva la mano mentre raccontavo quale fosse il mio vero sogno,e dopo poco i miei smisero di guardarmi in faccia. Avevo quasi ventun'anni,e potevo scegliere da solo il mio futuro. Mi arruolai nei Marines pochi mesi dopo,nonostante la disapprovazione dei miei genitori,e da lì cominciò la mia vera vita. Era quello che avevo sempre desiderato,era l'ambiente che amavo ed era giusto per me. Fui egoista,adesso lo so,perché trascurai un dettaglio : Alex. Il nostro rapporto è sempre stato molto affiatato : eravamo fratelli e migliori amici. Era l'unica persona al mondo con cui fossi mai riuscito ad aprirmi completamente. Le raccontavo ogni pensiero,ogni emozione,ogni piccolo dettaglio della mia vita,ma quando me ne andai per cominciare l'addestramento,lei restò sola. Ogni volta che la chiamavo,non faceva altro che ripetermi che per lei le cose andavano alla grande. Mi raccontava di come si fosse inserita bene in un ambiente come il liceo,o di come fossero fantastici i suoi amici,o dei ragazzi per cui aveva una cotta. Tutte bugie. Quando tornai a casa il Natale di due anni dopo,scoprii tutta la verità. Quel giorno Alex era strana,ed io pensai che fosse un po' su di giri per via dello champagne che la mamma aveva messo a tavola. Ai miei occhi appariva come un'estranea. Aveva perso diversi chili,ed il suo viso era pallido ed ossuto. Le chiesi se fosse tutto ok e lei mi rispose di sì,sorridendo. A quel punto capii che c'era qualcosa che non andava,qualcosa di sbagliato. Mia sorella è sempre stato un libro aperto per me,e dalla sua espressione mi insospettii. Mentre parlava al telefono,corsi in camera sua e cominciai a frugare tra i vestiti nell'armadio,in ogni mobile,sotto il letto,però non trovai nulla. Quando ero sul punto di andarmene,adocchiai la sua borsa appoggiata sulla scrivania. Cominciai a frugare anche lì dentro e,in una tasca interna,trovai una busta piena di cocaina. Mi mancò il fiato. Mi sentivo male. Mia sorella,la persona più importante della mia vita,si drogava. Tornai in cucina con la busta in mano,mentre ancora parlava al telefono,e tirai un calcio alla sedia. Ero furioso. Potreste pensare che fossi furioso per lo sbaglio che stava commettendo,ma in verità lo ero perché lei mi aveva tenuto allo scuro di tutto. Io ero il suo confidente,il suo migliore amico,e lei mi aveva ingannato. Alex si voltò a guardare la sedia che era stata sbalzata in aria,e poi mi guardò,confusa. Quando mi osservò meglio,si accorse che stringevo tra le mani la bustina. Le cadde il telefono di mano e sgranò gli occhi,sconvolta. Non si aspettava che qualcuno l'avrebbe scoperta. I miei ancora si chiedevano che cosa stesse succedendo,così,senza aver detto ancora una parola,lanciai la busta sul tavolo. Sapete cosa disse mia madre?Le disse : “scommetto che non è tua,vero cara?”. 

Mi presi una pausa dal servizio per starle vicino,e la convinsi ad andare in un centro di riabilitazione. Ci stette per sei mesi,perdendo la scuola ed ogni amicizia che aveva avuto sino ad allora. Aveva solo sedici anni,maledizione!Non potevo pensarci,non potevo soffermarmi su quel dettaglio,perché mi sarei sentito male. Quando uscì,le cose sembrarono essersi sistemate. Io tornai al mio lavoro e lei ricominciò la sua vita da zero,lontana da ogni tentazione. Quando si diplomò,i miei cercarono di spedirla alla Cornell,ma lei,come me,non voleva andare al college,così fece un patto con loro. Se le avessero concesso un anno sabbatico,con un bel viaggio in Messico,lei si sarebbe iscritta l'anno successivo. I miei accettarono. Partì per il Messico con Meredith,una ragazza di Brooklyn che spese tutti i suoi risparmi per quel viaggio,anziché per andare al college. Alex mi disse che era una brava ragazza e che non dovevo preoccuparmi,perché erano passati anni da quell'accaduto e che adesso stava bene. Mi lasciai convincere. Pochi mesi dopo,Alex mi chiamò. Mi chiese se avessi quarantamila dollari da prestarle e mi disse che me li avrebbe restituiti. Capii che si era cacciata un'altra volta nei guai e mollai tutto per andare a prenderla. Lei e Meredith si erano incasinate con dei trafficanti di droga del posto,e avevano bisogno di soldi. Sapevo che sarebbe successo,prima o poi. Avevo sempre avuto dentro quella brutta sensazione,ma mi ero costretto ad ignorarla. Diedi i soldi a quei tizi e trascinai Alex via da lì. Meredith non ebbe intenzione di seguirci. Chiamai mio padre e gli dissi che Alex ci era ricaduta di nuovo,ed eravamo d'accordo per rispedirla in rehab. Poco dopo mia madre mi chiamò e mi disse che non fosse necessario,che Alex sarebbe tornata a casa e si sarebbe iscritta alla Cornell,come lei aveva deciso. Rimanevo sempre sconvolto per il menefreghismo dei miei,ma quella volta era troppo. Era giunto il momento di mettere le cose in chiaro,e di sbattere in faccia a mia madre lo stato cadaverico di mia sorella. Possibile che non si accorgesse di quanto fosse grave la situazione?Possibile che non si rendesse conto di che razza di madre era?Possibile che non capisse che mia sorella,a soli sedici anni,era finita in riabilitazione,e che stava per tornarci?Ero stufo. Ero stufo di quella situazione,ero stufo di vedere mia sorella ridotta uno straccio dopo aver trascorso mesi ad autodistruggersi,ed ero stufo di vedere mia madre sorriderle,evitando di guardarla negli occhi. Volevo raggiungere New York per farla finita. Io ed Alex ci saremmo staccati da quella famiglia,e da quel momento in poi mia sorella sarebbe rimasta sotto il mio controllo,ed avrebbe obbedito alle mie decisioni. Come ben sapete,durante il viaggio di ritorno accadde quel che accadde. Io avevo portato con me una pistola,intuendo il tipo di pasticci nei quali Alex si era cacciata,e lei se l'era procurata sul posto,preoccupata per la sua incolumità. All'improvviso il problema della droga passò in secondo piano. Per le strade cominciavano a spuntare quelle cose e cominciarono a fare una strage. Promisi ad Alex che saremmo riusciti a raggiungere New York e che saremmo rimasti insieme ad ogni costo. Lei mi guardò negli occhi e mi disse che la droga non avrebbe più fatto parte della sua vita. Con quella situazione che si stava scatenando,fui costretto a crederle. Mi sembrava lucida,normale come quella di un tempo. Ma credo che fino ad oggi abbia continuato a far uso di cocaina,che se la sia procurata da qualche parte durante il nostro viaggio o che addirittura se la sia portata dal Messico. Io...io non riesco a credere di non essermi reso conto di niente» disse disperato,mentre la prima lacrima prendeva a rigargli il viso «gli affamati potrebbero averla già uccisa o potrebbe essere in pericolo. Potrebbe non essere lucida e ...e...ed io devo ritrovarla. E' mia sorella».

Guardai quel ragazzo,con gli occhi pieni di lacrime. Provavo sensi di colpa per averlo usato e tristezza per la storia che avevo appena ascoltato. Avevo sempre pensato che la mia vita fosse stata incasinata,avevo sempre pensato che nella vita delle persone si celasse sempre un briciolo di sofferenza,ma quando immaginavo quella di Alex,quando immaginavo la sua sofferenza,quella che credevo facesse parte di ogni singola vita,non mi sembrava altro che serenità,al confronto con la sua. Brittany scosse la testa,asciugandosi le lacrime,e Lucas non mi mollava la mano.

«Sistemeremo ogni cosa.» disse Noah,deciso. «La ritroveremo. Non permetterò che nessuno muoia».

Fu in quel momento che capii che il vecchio Puckerman era tornato e ci avrebbe prestato un po' della sua forza.

«Alex è tutta la mia vita» disse Steven,tra i singhiozzi «è l'unica cosa che conta,per me».

Mentre guardavo il ragazzo,asciugarsi le lacrime,disperato,capii fino in fondo le sue parole. Mi voltai verso Lucas e gli accarezzai un braccio,poi verso Brittany,che strinsi tra le mie braccia con affetto.

«Amico,la ritroveremo» affermò Noah con convinzione «dovesse essere l'ultima cosa che faccio».

Infilai

stivale,e   Infilai il coltello nello stivale e mi costrinsi a respirare. Era pericoloso e non riuscivo a togliermi quel pensiero dalla testa. Alex aveva preso una delle pistole,così eravamo parecchio a corto di armi. Noah impugnava il fucile,pronto ad incamminarsi,e Steven stringeva tra le mani l'unica pistola,con lo sguardo fermo e deciso di chi ha intenzione di portare a termine la sua missione. Ci saremmo incamminati a piedi,tra i pericoli di quella piccola cittadina,alla ricerca di quella ragazza persa in chissà quanta disperazione. Nonostante cercassi di soffocarla,non riuscivo ad evitare che una sensazione negativa si appropriasse della mia mente. Mi chiedevo come avremmo fatto a ritrovarla in quella vecchia città in piena distruzione,con gli affamati che vagabondavano per le strade,alla ricerca di cibo. Non eravamo abbastanza armati ed ero convinta che la sola speranza non ci avrebbe salvati da una morte certa. Alex sarebbe potuta essere già morta,ed avrebbe potuto vagare per le strade,minacciandoci con le sue grida di fame. Scossi la testa per eliminare quel pensiero. Dovevo essere pronta. Dovevamo esserlo tutti.

«Sarà diretta verso il centro abitato» disse Steven,guardandoci «è l'unico posto dove possa trovare della droga. Sarà costretta a guardare nelle abitazioni e probabilmente sarà più pericoloso di quanto pensiate» fece una pausa «non siete costretti a seguirmi. Non lo è nessuno di voi. Non voglio che la vostra vita venga messa a repentaglio per colpa dei miei errori. Se non deciderete di seguirmi,vi capirò» concluse guardandoci serio.

Scossi la testa «non devi neppure dirlo. Non siamo forse un gruppo?»

Steven annuì «Grazie» rispose lui,spostando lo sguardo sulla pistola.

«Santana ha ragione. Io ci sto» disse Brittany.

«Non mi rimangio le promesse. Quando do la mia parola,resta quella».

«Ci sto anch'io».

Nel silenzio composto da numerosi pensieri,ci incamminammo. Attraversammo il campo che si estendeva per un paio di chilometri,forse anche di più,e poi ci ritrovammo sulla strada. Nell'osservare l'asfalto,mi pentii di non aver chiesto a Lucas e Brittany di restare all'accampamento. Sapevo che la mia paura sarebbe rimasta costante all'interno della mia persona,era inevitabile. Allo stesso tempo,però,sapevo di non poter permettere che succedesse qualcosa a nessuno di loro. Come per Steven,sua sorella era la sua vita,per me loro erano la mia. Restavamo l'uno vicino all'altro,controllando persino il rumore dei nostri respiri,camminando a passo svelto e pronti a sfoderare i nostri coltelli o le nostre pistole. La strada principale che percorrevamo,circondata dalla natura viva del bosco,portava dritta a Rochester. Ma dovevamo muoverci. La città distava un chilometro e mezzo,ed intanto il tempo volava svelto e quello della fuga di Alex fino a quel momento aumentava. A metà strada tre affamati sbucarono dalla vegetazione e si posero davanti a noi,bloccandoci la via. Si muovevano lentamente,protendendo le braccia per afferrarci,e ringhiando la loro fame. Noah posò il fucile a terra e sfoderò il coltello dalla cinta dei pantaloni,e lo stesso fece Steven. Io avanzai per aiutarli,ma prima ancora che sfoderassi il coltello dallo stivale,i due avevano trapassato il cranio degli affamati,lasciandoli accasciati a terra. Steven era una furia. Aveva colpito il primo affamato con un calcio allo stomaco,mentre Noah aveva tirato a sé il secondo,afferrandolo per il collo. Per un attimo credetti che sarebbe stato morso,invece tenne ferma la mano attorno alla gola della creatura e poi con un gesto felino gli piantò il coltello nel cranio. Steven aveva fatto perdere l'equilibrio all'affamato, poi,senza neppure usare l'arma dalla lama appuntita,gli aveva spaccato il cranio con un paio di calci. Una scena disgustosa. Il terzo affamato aveva stretto le mani attorno il braccio di Steven,Noah era intervenuto e l'aveva scaraventato a terra con la forza,e gli aveva piantato il coltello in mezzo agli occhi. I due si guardarono in faccia,riprendendo fiato,si voltarono per guardare se stessimo bene,e poi,sempre in silenzio,come se non fosse successo niente di nuovo o di eccezionale,riprendemmo a camminare a passo svelto. Con l'avvicinarsi alla città,aumentò la mia agitazione. Mi guardavo intorno,sempre allerta,preoccupata che potessimo finire in una trappola bella e buona dalla quale non saremmo potuti sfuggire. Guardavo Brittany,che ogni tanto mi fissava,ed odiavo il fatto che non potessi tenerla per mano. Quella storia non sarebbe durata ancora molto,ne ero già stufa. L'avrei stretta tutte le volte che ne avevo voglia,l'avrei baciata ogni qual volta che ne avessi sentito il desiderio,l'avrei tenuta per mano tutte le volte che i nostri occhi si fossero incrociati,spaventati. Perché di vita ce n'era una sola,e neppure sapevamo quando sarebbe terminata o in che modo. Potevamo morire tra solo un quarto d'ora o cinque minuti. Sarebbero potuti sbucare decine di affamati dalla città o dalla foresta,o da tutt'e due contemporaneamente,e allora sarebbe stata la fine. Immaginavo una di quelle cose aggredirmi alle spalle,e poi un'altra e un'altra ancora,sino a che il loro peso non mi avrebbe fatta accasciare a terra. Poi avrebbero cominciato a divorarmi,mentre con gli occhi osservavo Brittany fare la stessa fine. Rabbrividii e sentii l'immediato bisogno di rifugiarmi nel suo abbraccio. Le sfiorai la mano di proposito,e lei mi sorrise.

«Ti amo» le mimai,per non farmi sentire da Lucas poco distante «qualunque cosa accada».

Gli angoli della bocca le si piegarono all'insù,e si morse un labbro. Potevo scorgere nei suoi occhi il desiderio di baciarmi,lo stesso desiderio che avevo anch'io.

Raggiungemmo la città pochi minuti dopo e mi accorsi soltanto allora che il passo di Steven,con il passare del tempo,non faceva altro che aumentare. Fummo costretti ad accelerare anche noi e,quando vidi il primo edificio grigiastro affiancare la strada,avvertii un peso sullo stomaco. Noah si voltò e ci sussurrò di seguirlo. Nel frattempo le nuvole si addensavano sopra le nostre teste,sempre più grigie,sempre più cariche d'acqua. Steven si guardava intorno,attento,agitato...preoccupato. Abbandonammo la strada che avevamo percorso sino ad allora e ne prendemmo un'altra,secondaria,sulla sinistra. Il cuore mi batteva rapido nel petto e controllavo dove mettessi i piedi,per evitare di fare rumore. Poi,verso la fine della strada,li sentimmo. Sbucarono dall'incrocio guardandoci con quegli occhi vitrei ed accelerarono il passo,aumentando allo stesso tempo l'intensità dei loro versi. Ne spuntarono cinque,poi sette,otto,dieci,dodici. Mi voltai e ne vidi altri nella direzione opposta. Quella era una delle trappole di cui parlavo. Eravamo circondati. Eravamo in cinque e loro il triplo. Il mio respiro divenne corto,il cuore mi esplodeva nel petto,la paura mi divorava e mi ovattava la testa,come fosse un velo trasparente dal quale filtravo ogni cosa. Lo scatto all'indietro del carrello di una pistola mi fece sussultare. Guardai Brittany. Guardai Lucas. Poi ancora Brittany,poi ancora Lucas. Che cosa dovevamo fare?Come potevamo uscire da quella situazione?

Noah e Steven indietreggiarono per guadagnare terreno,ma allo stesso tempo dall'altro lato della strada ne stavano arrivando altri. Quando vidi spuntare altre teste da dietro l'angolo,il mio corpo cominciò a tremare. Presi la mano di Brittany e la strinsi forte tra le mie dita. Non volevo lasciarla.

«Cazzo» borbottò Noah,con il viso contratto in una smorfia dura ed i muscoli rigidi come il legno.

Steven cominciò a sparare alle nostre spalle. Colpì tre affamati alla nuca,che caddero a terra,poi continuò a sparare. Noah impugnò il fucile saldamente,nonostante gli tremassero le mani,e sparò a due affamati,mancandoli alla testa. Avevo paura. In quell'esatto istante,sapevo che saremmo morti tutti. Sfoderai il coltello dallo stivale e Brittany fece lo stesso,Lucas ce l'aveva già in mano. Se volevamo sopravvivere,dovevamo lottare. In quel momento li guardai,e fui pronta a farlo.

«Ci penso io qui dietro!» avvisò Steven,rivolto a Noah «tu mira a quelli davanti».

Così fecero. Il rumore dei colpi sparati,uno dietro l'altro,misto a quello dei versi,era assordante. Sentivo il frastuono entrarmi nelle orecchie ed esplodermi nelle tempie. Impugnai il coltello in mano e,quando il primo affamato mise le mani su Noah,che era intento a sparare agli altri,lo afferrai dalla maglia logora e lo scaraventai a terra con uno sgambetto. Gli conficcai il coltello nella fronte con un gesto pieno di rabbia e mi rialzai. Noah mi ringraziò con uno sguardo piuttosto distratto,mentre era intento a mirare alla testa gli affamati che continuavano ad avvicinarsi. Continuavano ad arrivare,uno dopo l'altro,attratti dal rumore. Quella strada era diventato l'inferno sulla terra. Era l'inferno per ognuno di noi. Brittany e Lucas stavano aiutando Steven a ripulire l'inizio della strada,quella alle nostre spalle,in modo che potessimo fuggire da lì ed allontanarci da quel putiferio. Noah ed io badavamo a quelli davanti,ma quando il fucile finì le cartucce,ci rendemmo conto entrambi che non c'era abbastanza tempo per ricaricare.

«Steven!» gridò Noah,nel panico.

Tirò fuori il coltello dalla cinta dei pantaloni e si preparò a fronteggiare il gruppo. Non potevamo farcela,in due non era possibile. Steven accorse da noi e guardò dritto di fronte a sé,con gli occhi sgranati.

«Sono troppi. Sto finendo le munizioni. Dobbiamo andarcene,ora!»

Steven cominciò a sparare,mentre noi altri indietreggiavamo a mano a mano che Brittany e Lucas liberavano la strada alle nostre spalle. Camminavamo troppo lentamente,però,e quell'orda ci avrebbe inglobati da un momento all'altro. Scossi la testa,sconvolta. Mi voltai verso Brittany,che mi guardava a distanza di qualche metro,e notai la disperazione sul suo viso. Non poteva finire in quel modo,non era giusto. Le nostre vite,ogni nostro pensiero,ogni nostro desiderio,ogni nostra emozione o paura...non potevamo morire lì,come tante vittime sacrificali,dilaniati da quei mostri. Tutto quello che avevamo vissuto,tutto quello che avevamo passato,le nostre storie. La mia storia,quella di Brittany,quella di mio fratello,quella di Alex,quella di Steven...nessuno avrebbe ricordato le nostre vite,nessuno avrebbe ricordato i nostri volti o chi eravamo stati. Tutto sarebbe finito lì,in quella strada grigia,sotto una coltre di nuvole minacciose,tra grida di disperazione e speranza che moriva. Gli occhi azzurri di Brittany mi fissavano,penetrando la paura che si mischiava nell'aria. Accolsi quello sguardo nel cuore,e pensai che sarebbe stato l'ultimo che avrei mai visto.

«Ti amo» le mimai,ancora una volta,con un sorriso triste.

Avevo voglia di piangere,e forse presto l'avrei fatto. Ma non ero ancora pronta a lasciar scivolare la vita dalle mie mani,non era giunto il momento. Contai gli affamati che avevamo davanti : ne erano rimasti otto.

«Affrontiamoli!» gridai agli altri.

Continuammo ad indietreggiare.

«Ho finito le munizioni!» esclamò Steven,disperato.

Quando ero convinta che sarebbe finita,Noah si gettò nella mischia. Aveva il fucile sorretto in orizzontale in una mano e il coltello nell'altra. Io e Steven ci guardammo in faccia,sconvolti. Noah impugnò il fucile per la canna,come con una mazza da baseball. Due affamati lo accerchiarono e Steven corse in suo soccorso. Noah colpì la testa di uno dei due con il fucile talmente forte,da frantumargli il cranio. Steven gli tolse di dosso l'altro essere e gli piantò il coltello nella nuca. Poi corse da un altro,gli chiuse entrambe le mani attorno al collo e lo sollevò come fosse fatto di gomma piuma. Lo scaraventò a terra con una rabbia mostruosa,e gli spaccò la testa con una piedata. Quando però le cose sembravano mettersi per il meglio,davanti ai nostri occhi increduli e sconvolti,Noah venne preso alle spalle da un affamato. Fu preso di sorpresa e cadde a terra, perdendo l'equilibrio.

«Noah!» gridai con il cuore in gola,pronta ad accorrere in suo aiuto.

Lui mise il fucile in orizzontale e spinse via l'affamato,per poi colpirlo. Lo gettò a terra e lo massacrò di colpi con la base dell'arma,fino a fracassargli la testa. Mi guardò,mi fece un gesto d'assenso,e tornò nella mischia. Dietro di noi,non ne arrivavano più. Giusto qualcuno di rado che Brittany e Lucas,collaborando,riuscivano ad eliminare. L'asfalto era pieno di cadaveri e camminarvici sopra,diventava quasi impossibile.

Poi,un urlo mi fermò il cuore. Era glaciale,pieno di sofferenza.

«Cristo!»

Steven era a terra,a carponi,con una mano sopra il braccio. Sull'asfalto si trascinava un affamato,avvicinandosi pericolosamente al ragazzo. Noah si voltò verso di lui e spaccò il cranio dell'affamato con il fucile.

«Cos'è successo?» chiese Puckerman,con il viso pieno di gocce di sudore.

Steven,ancora a terra,scosse la testa «mi ha morso!» esclamò,mentre il sangue sgorgava incontrollatamente dalla ferita.

«Non mi sono accorto di niente. E' sbucato all'improvviso e si è attaccato al mio braccio. Dio...mi ha staccato il muscolo!» gridò,portandosi una mano tra i denti,per il dolore.

Noah lo guardò ancora incredulo e lo sollevò da terra «fammi vedere» disse.

Steven si scoprì la ferita e potei vedere anch'io,nitidamente,come fosse stato dilaniato. Il sangue gli aveva macchiato tutta la maglietta e scendeva,copiosamente,sino ad intingere anche i pantaloni verde militare.

«Aspetta» disse Noah. Si strappo un pezzo di stoffa dalla maglietta e glielo diede «legaglielo intorno e tieni premuta la mano».

«D'accordo» rispose Steven,stringendo i denti,bianco in viso.

Non c'era più neppure un affamato in quella strada e Brittany e Lucas si avvicinarono agli altri due,assieme a me.

«Cos'è successo?» chiese Lucas sconvolto.

«Mi ha morso!» rispose Steven.

«Amico,che cosa hai intenzione di fare?» chiese Noah all'altro. Lui lo guardò confuso. «Torniamo al campo o cerchiamo Alex?»

Steven strinse identi,di nuovo «Alex» biascicò.

Ci rincamminammo tutti e cinque,ma più lentamente. Raggiungemmo la fine della strada e svoltammo l'angolo,questa volta senza problemi. Steven continuava a piangere per il dolore ed il pezzo di stoffa,che teneva avvolto attorno alla ferita,era intinto di sangue e gocciava a terra,lasciando una scia sull'asfalto.

«Sei stato bravo» dissi a mio fratello,quando tornò al mio fianco assieme a Brittany.

Lui scosse la testa «ti ricordi all'ospedale,quando si è scatenato tutto?» mi disse.

Annuii.

«Il padre della tua amica» affermò semplicemente,con quell'aria preoccupata.

Impiegai qualche secondo per rendermi conto di cosa stesse cercando di dirmi. Mandy. Suo padre. Era morto e poi era diventato...

«Sì,mi ricordo».

Ci capimmo con uno sguardo. Ricordavo bene quell'immagine ferma nel tempo. Quel corpo che si era sollevato ed aveva divorato la propria figlia. Come dimenticarlo?Avevo il ricordo di Mandy impresso nel cuore. Rivedevo la sua immagine ogni qual volta che un affamato compariva e rivivevo lo stesso stupore e terrore al ricordo di suo padre.

«Dovremmo informarlo?» mi chiese lui.

Ci pensai qualche secondo e scossi la testa «sarebbe una distrazione adesso,Lucas. Non sappiamo cosa succederà. Steven ha riportato una ferita grave,ma potrebbe sopravvivere».

Mi sembrava la cosa più giusta. Non eravamo certi di niente,ed una tale notizia,avrebbe potuto creare ancor più caos di quello nel quale sguazzavamo.

Lui si limitò ad annuire,ancora pensieroso.

Camminammo per qualche altro minuto e ci ritrovammo di fronte a delle villette a schiera dall'aspetto grazioso. Come fosse stato un fulmine a ciel sereno,lo vidi.

«Il Wrangler!» esclamai con un guizzo al cuore.

Tutti portarono lo sguardo sul fuoristrada rosso in lontananza. Steven,con espressione dolorante,cominciò a correre in direzione della macchina e noi lo seguimmo. Il ragazzo aprì lo sportello dell'auto,ma all'interno non vi era nessuno. Lo richiuse,si guardò intorno,e poi si asciugò il sudore sulla fronte. Cominciava ad esser pallido,ed il suo viso era velato da qualche goccia di sudore. Per alcuni versi,mi ricordava un po' quello di Alex nei giorni precedenti.

«Non può essere lontana» affermò Noah,osservando l'espressione delusa del ragazzo.

Restammo per qualche istante in silenzio,domandandoci cosa fare.

«Zitti!» intimò Brittany,concentrata «Lo sentite?»

Avrei potuto ascoltare il battito del mio cuore in quel silenzio,invece,prestando attenzione,avrei giurato di riuscire ad udire i versi degli affamati. Era un suono distorto,lontano,addirittura metallico...sembrava quasi immaginario,ma c'era.

«Dev'essere lei!» esclamai «Forse la stanno seguendo».

Steven annuì «i versi sembrano provenire da in fondo alla strada!»

In men che non si dica,cominciammo a correre,alimentati da un briciolo di speranza nel petto. Noah ricaricò il fucile e si mise in testa al gruppo assieme a Steven. Facemmo cento metri,forse,e poi vedemmo il gruppo di affamati addossati alla porta del garage dell'ennesima villetta. Colpivano la superficie di metallo goffamente,emettendo quel suono soffocato e spaventoso con tutta la loro forza.

«Alex è lì dentro!» esclamò Steven,con un filo di voce sofferente.

Non appena aprì bocca,alcuni degli affamati si voltarono. Forse erano una ventina e,uno per volta,si girarono incuriositi dal suono che avevano udito.

«Merda» bofonchiò Noah,allarmato.

Gli affamati cominciarono ad avvicinarsi e noi ad indietreggiare. Erano in troppi,ed avevamo una sola arma a disposizione. La situazione si ripeteva,di nuovo.

«Ho un'idea!» disse Brittany «Corriamo fino al Wrangler,tu sali sul tettuccio della macchina e li fai fuori uno per uno da lontano. Saremo abbastanza distanti e potremo allontanarci con facilità. Si può fare?»

Noah la guardò,ci pensò su un istante,ed annuì.

Di corsa,tornammo a fare lo stesso tragitto di prima,al contrario. Ci separavano almeno settanta metri da loro,e Noah salì sul tettuccio del Wrangler,alla svelta. Prese un grande respiro,impugnò il fucile a dovere,e sparò il primo colpo che mancò del tutto l'affamato. Sparò ancora,e ancora,e ancora,fino a che non persi il conto dei proiettili che erano partiti dall'arma. Uno per uno,gli affamati caddero a terra,inermi. Ne rimasero soltanto tre,ormai abbastanza vicini,e Noah li fece fuori con una facilità disarmante,allo stesso modo degli altri.

«Andiamo a prenderla» disse Puckerman,pronto a tornare di fronte alla villetta «dobbiamo muoverci. Il rumore ne attirerà altri. A breve potremmo ritrovarci circondati da tutti gli affamati di questa cittadina».

Steven si portò una mano sul viso cadaverico,si asciugò il sudore e tossì con fatica. Le gocce sul viso gli colavano dalla fronte,sino agli occhi,e poi ancora dal naso,sulla bocca. La sua situazione si stava aggravando,e ormai il pezzo di stoffa che teneva legato attorno alla ferita,non era altro che pregno di sangue sino a risultare pesante per via del liquido assorbito,e completamente inutile.

«Andiamo» disse stringendo i denti,in una smorfia di dolore.

Soffrivo nel vederlo in quel modo. Il pensiero che mi aveva instillato Lucas,non faceva altro che ritornarmi in mente e tormentarmi. Non volevo pensare ad una sua possibile morte,ma se fosse successo? Non poteva morire. Non poteva e basta. Era il più forte lì,il più coraggioso,il capo gruppo,e se la sarebbe cavata. Se la sarebbe cavata per forza. Quando un ricordo che tenevo da giorni lontano dalla mente riaffiorò,scossi la testa per scacciarlo via. Non era il momento per cedere ai sensi di colpa.

Ripercorremmo i metri che ci separavano dalla villetta,e quando ci dirigemmo verso la porta del garage,questa si aprì,lentamente,quasi con timore.

«Vi chiedo scusa» biascicò Alex,in lacrime,con le parole che le si strozzavano in gola.

La ragazza era irriconoscibile. Il suo viso non aveva un semplice colorito pallido,sintomo di malessere,ma bensì grigiastro. Le occhiaie sotto il suo viso non erano più bluastre,ma scure e ben definite,come dopo aver preso un pugno in un occhio. I suoi capelli erano sporchi ed incollati,i suoi occhi gonfi e stanchi,le sue labbra violacee e screpolate,ed il suo viso era avvolto da un fitto velo di sudore. Le lacrime che le rigavano il viso si mischiavano alla sostanza che il suo malessere produceva,e il risultato dell'insieme di quei particolari,era un aspetto malsano,sofferente...irriconoscibile.

«Alex!» urlò il fratello con un bagliore negli occhi.

La ragazza batté i denti,cercando di tenere a bada il tremolio nelle mani,e si avvicinò al fratello,inizialmente timorosa «ti prego,non essere arrabbiato. Ho sbagliato,lo so» disse con un filo di voce spezzata dai singhiozzi.

Quando poi guardò meglio il ragazzo,sgranò gli occhi e si portò una mano sulla bocca « che ti è successo?» gli chiese basita.

Steven scosse la testa e si sforzò di sorridere. Teneva ancora la mano sulla spalla,su quella fasciatura che ormai serviva solo per nascondere agli occhi la gravità della sua situazione.

«Mi ha morso un affamato,ma non è niente. Sta' tranquilla. Ricuciremo la ferita al campo,prenderò qualche antibiotico e sarò nuovo come prima».

«O mio Dio...fammi vedere!»

«No!» esclamò il ragazzo deciso,scuotendo la testa «adesso torniamo al campo. Abbiamo fatto parecchio rumore per ammazzare quei bastardi».

Alex annuì,sconvolta.


Il ritorno fu alquanto traumatico. Gli affamati non furono un problema,ma Alex e Steven sì. Entrambi stavano soffrendo,chi per un motivo,chi per un altro. Durante il tragitto,Alex cominciò a rimettere e dentro la macchina si era diffuso l'odore acre e familiare del vomito. Steven invece,continuava a stare sempre peggio e tutti noi cominciavamo a preoccuparci sul serio. Il suo viso diventava sempre più pallido ed i suoi occhi sempre più stanchi. La ferita continuava a perdere sangue incessantemente,e la sua fronte scottava come un tizzone ardente. Quando raggiungemmo il campo,tirai un inutile sospiro di sollievo. La prima fase era terminata,adesso iniziava la seconda.


Noah trasportò Steven,che cominciava a perdere i sensi,nel gazebo,e lo adagiò sul tavolo. Lo costrinse ad ingoiare degli antibiotici con dell'acqua,e poi chiese la cassetta del pronto soccorso. Quando levò la benda,lo sentii imprecare a bassa voce. Io e Brittany ci avvicinammo per guardare la ferita,ed Alex ci seguì,barcollante.

«Steven...» mormorò la ragazza,scioccata,continuando a piangere. Si portò una mano alla bocca,ricominciò a vomitare.

Buona parte del muscolo del braccio era stato mangiato,e s'intravedeva il bianco dell'osso. Non riuscii a fissarla troppo a lungo. Persino dopo aver spaccato crani a dei morti viventi,la vista di una simile cosa,mi metteva sottosopra lo stomaco.

«Datemi un accendino» ordinò Noah,con voce ferma.

Teneva in una mano un ago,e nell'altra del filo. Mi misi una mano in tasca e diedi l'oggetto a Noah,rapidamente. Il ragazzo passò la punta dell'ago sulla fiamma,per sterilizzarla,e poi infilò il filo. Guardò con attenzione la ferita,e cominciò a ricucirla,con le mani che gli tremavano.

«Ce la farà?» chiese Alex,guardando Noah.

Il ragazzo non rispose,continuò a ricucire.

Steven stava sempre più male. Tossiva,si agitava,mentre le lacrime gli rigavano il viso. Quando gli toccai la fronte,fui costretta a togliere la mano all'istante per l'eccessivo calore.

«Portatemi una benda bagnata di acqua fredda!» ordinai.

Poco dopo Brittany tornò,stringendo tra le mani una sua maglietta fradicia. L'adagiai sulla fronte sudata del ragazzo,e premetti la mia mano contro questa. Poi,non so perché,gli strinsi la mano. Glielo dovevo. Era qualcosa che sentivo di dover fare,e quando il mio sguardo incrociò quello di Brittany,lei annuì,in un gesto d'assenso.

«Steven,mi dispiace» disse Alex,sopraffatta da dei violenti singhiozzi «perdonami,ti prego. E' soltanto colpa mia...è tutta colpa mia. Ti prego,resta con me. Sei tutto quel che mi è rimasto. Sei tutto quel che ho!»

In quel momento il ragazzo aprì gli occhi,a fatica,e la guardò «non...n-non potr...ei mai avercela c-con te. S-sei la mia sorel...sorellina,ricordi?» biascicò a fatica,con un sorriso spento.

Avvertii una fitta al petto. Non potevo fare a meno di immaginare quella situazione riversata su di me e Lucas. E se l'avessi perso?E se lui avesse perso me?

Alex sorrise,mentre un fiume di lacrime le inondò il viso «ti prego...» lo supplicò disperata,accarezzandogli le guance «devi restare con me. Sei l'unica persona che ho,sei l'unica persona che abbia mai avuto».

Steven la guardò negli occhi e sussurrò,stanco «sarò sempre con te. S-stare..staremo in...insiem-me ad ogni c-costo. Come...come pr...omesso».

Alex gli baciò la fronte ed adagiò la sua su quella della ragazzo,bagnandogli la pelle con le sue lacrime. Steven chiuse gli occhi,e quando Noah finì di ricucire la ferita,era già tardi. Adagiai le dita sul collo del ragazzo,ma non c'era battito. Steven era morto.

«No!» urlò Alex,accasciandosi a terra,sulle ginocchia «No!Steven...Steven!Ti prego...torna da me!Non puoi lasciarmi!L'avevi promesso!L'avevi promesso...» sussurrò,con le mani sul viso.

Restammo in silenzio. Guardavamo tutti il suo viso,tutti,tranne Alex. La nostra tristezza,divenne un tutt'uno straripante,che colmava il nostro petto. Non riuscivo a crederci. Non poteva essere vero. Non doveva! Non era giusto...non era...no!Scossi la testa,e pochi secondi dopo sentii esplodere il nodo in gola in un pianto liberatorio. Mollai la mano del ragazzo,che ancora stringevo,e mi allontanai da lì. Non riuscivo a respirare,non riuscivo a guardarlo. Feci qualche passo,con le gambe che mi tremavano,e poi sentii il calpestio dell'erba alle mie spalle. Mi voltai,era Brittany che mi veniva incontro,asciugandosi le lacrime.

«Ehi» disse con la voce triste e debole.

Scossi la testa di nuovo e allora lei corse ad abbracciarmi. Mi strinse forte tra le sue braccia,ma potevo avvertire che persino la sua forza fosse triste e stanca,debole come la mia. Appoggiai il viso sulla sua spalla,e continuai a piangere,ascoltando solo il rumore del suo respiro e quello dei miei singhiozzi.

«Non doveva finire così» biascicai contro la sua maglietta.

Lei mi accarezzò la schiena e mi baciò la fronte «lo so,Santana. Lo so».

«Non è giusto...non» un altro singhiozzo mi assalì,bruscamente.

Lei mi cinse con ancora più forza «Non,non è giusto» disse con la voce improvvisamente ferma «Non è giusto più niente ormai. E' successo,è successo e basta. Con chi vuoi prendertela?A chi vuoi attribuire la colpa?Steven era un guerriero,ha resistito sino all'ultimo soltanto per fare un sorriso alla sorella. Dobbiamo ricordarlo così,com'è giusto che sia».

Le sue parole mi tranquillizzarono,e la frequenza dei miei singhiozzi diminuì «non gli ho mai chiesto scusa per averlo coinvolto nei miei problemi. Non ci siamo mai chiariti,io avrei...»

Brittany si staccò e si allontanò giusto quel poco che bastasse per fermare i suoi occhi nei miei,con intensità «tu cosa?» mi chiese seria,ad un soffio dal mio viso «Non azzardarti a farlo,Santana. Non azzardarti a provare colpa per qualcosa di cui non sei tu la responsabile. Questo mondo è bastardo. Le cose sono andate come sono andate. Steven era un ragazzo intelligente ; sono sicura che senza che tu gli avessi detto niente,lui aveva già capito tutto».

Riflettei un attimo ed annuii. Brittany mi asciugò la lacrime con il dorso della sua mano,e mi baciò la guancia,dolcemente,come una madre premurosa.

«Ti amo» mi sussurrò,tornando a stringermi «adesso più che mai».

«Ti amo anch'io».

Nel momento stesso in cui avevo visto uno di noi morire,mentre un nodo alla gola mi soffocava,mi ero resa conto di quanto fosse breve la vita,e di come potesse essere spezzata con facilità. La paura di perdere gli unici affetti che avevo era forte,mostruosa,ma la voglia di amare ancora più forte. Non avrei permesso neppure per un singolo istante al mio corpo di ignorare l'amore. Amore fraterno o amore tra anime complementari. Ogni singolo istante era fondamentale. Per ogni singolo istante della mia vita,avrei amato l'Amore.

So che forse molti di voi hanno odiato il personaggio di Steven,come biasimarvi?Dopo il capitolo nel quale è andato a letto con Santana,la cosa mi sembra più che legittima. Forse l'ho odiato anch'io,e vi chiedere come sia possibile odiare un personaggio che io stessa ho creato. Eppure,dopo questo capitolo,spero che come me siate tornati a provare stima verso di lui. Steven era l'eroe silenzioso della vita,un ragazzo che ha avuto il coraggio di lottare per i suoi sogni e che ha amato e si è sacrificato fino alla fine per la sorella. La forza,nel mondo di "Between the hungry", non è sufficiente,non basta per sopravvivere. Ed è di questo che il gruppo si rende conto : che ogni cosa è vana di fronte all'imperturbabile uragano del mondo,ogni cosa,tranne l'amore. L'amore fa morire e vivere,l'amore ci rende viventi nel momento stesso in cui i nostri occhi si chiudono stanchi,per sempre. Steven è morto da vivo,è morto da eroe. Chiudo questo capitolo con la speranza che,nonostante la terribile fine,l'abbiate gradito. Ancora molto dovrà succedere e vi aspetto come al solito nelle recensioni per discutere assieme di quest'altro mio piccolo lavoro. Alla prossima,gente!Mi auguro che anche voi siate o sarete gli eroi silenziosi della vita...

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Il Buio ***


BETWEEN THE HUNGRY

   Il Buio  .

Brittany mi teneva ancora per mano,ma nessuno ci guardava. Ogni singolo sguardo era concentrato su quel corpo,disteso sopra il tavolo,con le braccia a penzoloni ormai prive della vita che un tempo le aveva animate. Il cadavere pallido aveva gli occhi chiusi ed aveva perso l'immagine della vitalità così improvvisamente,da incutere timore. Steven era morto. Non riuscivo ancora a crederci,non riuscivo...non riuscivo ancora a metabolizzare la cosa. Quando i miei occhi finivano su quel volto senza vita,una sensazione che si agitava dalla bocca dello stomaco,mi costringeva a spostarli. Ma non potevo ignorare quel che era successo,non potevo continuare a starmene in silenzio,assorbendo un po' di forza da quella stretta di mano ed ascoltando i singhiozzi incessanti di Alex. Da quando il ragazzo aveva chiuso gli occhi per sempre,lei si era persa in un pianto disperato,distrutta dal dolore. Non riuscivo neppure ad immaginare che cosa avrei fatto io,se avessi perso Lucas. Osservando quell'amore fraterno esser stato spazzato via così improvvisamente,non riuscivo a fare a meno di provare un'angoscia che si estendeva lentamente,divorandomi dall'interno. Forse avevamo sottovalutato la situazione,forse per via della serenità che avevamo provato negli ultimi giorni al campo,ci eravamo illusi di essere al sicuro. Ma il campo non era la città,non era il mondo,non era la realtà. Era una tana fatta di illusione mista a speranza,ormai diventata semplice disperazione mista ad incredulità. Ne avevamo perso uno. Dopo solo quattro settimane,ne avevamo perso uno. Quanti ancora ne avremmo persi?E,soprattutto,quali?

Noah guardò Alex,un'ultima volta,e si incamminò per sollevarla da terra. La ragazza,che aveva lo stesso colorito del fratello disteso sul tavolo,afferrò la mano del ragazzo con la sua tremolante.

«G-grazie...» biascicò,con un filo di voce singhiozzante.

Noah accennò un debole sorriso e non le lasciò la mano.

Alex tremava ancora. Forse per il fratello,forse per la droga. Riuscivo a leggerle,su quel viso irriconoscibile,il desiderio smanioso di stringere tra le mani quella sostanza e,allo stesso tempo, di stringere tra le braccia il fratello.

Batté forte i denti,tirando su col naso,e poi disse «ho freddo».

Noah annuì «vado a prenderti una coperta».

La ragazza si sedé a terra,incapace di stare in piedi con le sue sole forze. Era così sconvolta...guardandola avrei potuto immedesimarmi in lei,ed era per questo che evitavo di farlo.

Scossi la testa «tutto questo mi sta uccidendo».

Brittany mi guardò con apprensione e sospirò «vorrei fare qualcosa per lei» rispose,accennando alla ragazza.

Ci guardammo negli occhi per qualche secondo e capimmo che fosse giunto il momento di avvicinarci a lei,per cercare di alleviare la sua sofferenza. Ma come potevamo sperare di farlo?Come si può alleviare la sofferenza di qualcuno che ha perso tutto il suo mondo?Sapevo già che saremmo state sconfitte in partenza,ma,con l'ultimo briciolo di forza che ci era rimasta,decidemmo di provarci comunque.

«Alex,io...» cominciai esitante. Lei alzò lo sguardo a fatica e,quando i miei occhi incontrarono i suoi,sentii di stare per soffocare. Non riuscivo a parlare e spostai lo sguardo,intimorita.

«Ci dispiace tantissimo» continuò Brittany,vedendo la mia difficoltà. «So che non possiamo capire quanto tu stia soffrendo in questo momento,ma sappi che ti siamo vicine. Steven era il migliore qui in mezzo,era il nostro leader...abbiamo perso tutti una persona speciale».

Alex continuò a guardarla,sbattendo le palpebre,come se non avesse capito neppure una parola. Chiuse un istante gli occhi,li spostò sul mio viso e lo fissò,poi annuì debolmente.

«Lo sentite anche voi?» chiese con quel filo di voce rauca.

La guardai confusa «cosa?»

Lei continuò a guardarmi con quei suoi occhi gonfi. Non piangeva più,ma anziché sentirmi rassicurata,la mia ansia crebbe e sentii dei brividi percorrermi le braccia.

«Il freddo» disse secca «uno per uno sentiremo freddo. Uno per uno...prima o poi» continuò a blaterare.

Spostai di scatto lo sguardo dal suo viso ed afferrai la mano di Brittany. Alex mi faceva paura,sembrava...impazzita.

«Britt,» dissi agitata «non ce la faccio» affermai con il cuore che batteva all'impazzata.

Lei mi guardò ed annuì,intuendo il mio stato d'animo. Aumentò la presa tra le nostre mani,e mi portò via da lì. Sapevo che sarebbe tornato,se non mi fossi allontanata da quell'atmosfera carica di follia e sofferenza. Sarebbe tornato ad impossessarsi della mia mente e del mio corpo,immobilizzandomi con prepotenza sul posto. Il battito impazzito era uno dei sintomi che avevo imparato a riconoscere,poi seguiva il respiro corto ed affannoso,poi il panico,poi...

«Santana» mi disse Brittany,osservandomi con intensità «devi stare tranquilla».

Inspirai a fondo.

«Non puoi permetterlo» continuò,seria «andrà tutto bene. Vedrai».

Mi concentrai sul suono delle sue parole che aleggiavano ancora nell'aria,e poi sui suoi occhi. Respirai a pieni polmoni e poi buttai fuori l'aria in uno sbuffo rumoroso. Ce l'avrei fatta,adesso lo sapevo.

«Va' meglio?» mi chiese Brittany.

Anuii.

Nel frattempo Noah era tornato con la coperta ed aveva avvolto Alex,che continuava a giacere a terra,priva di forza. I suoi occhi non versavano più lacrime,esausti,ma lei continuava a blaterare tra sé e sé,completamente sconvolta.

«Ehi,» le disse Noah dolcemente,afferrandole il mento. Lui non ne aveva paura. «supererai anche questo. E te lo dice uno che ne ha passate tante».

Alex la guardò,con quel suo sguardo perso e disorientato e gli disse con un filo di voce «l'aveva promesso».

Noah gli scostò i capelli dal viso «lo so. Le persone promettono sempre quel che non possono mantenere».

In breve tempo tornammo tutti attorno al corpo di Steven. Era il nostro modo di onorarlo. Un modo strano,ma comunque un modo. I pensieri di ogni singola persona vorticavano pericolosamente nell'aria,librandosi come farfalle dalle nostre menti. Che cosa dovevamo fare?Non poteva lasciarlo su quel tavolo come una bestia uccisa dal suo macellaio.

«Dovremmo seppellirlo» esordii,spezzando il silenzio «non possiamo lasciarlo marcire qui sopra. Dovremmo farlo...»

Noah,ancora affianco ad Alex,mi guardò ed annuì «hai ragione».

«Che senso avrebbe?» disse Alex,fredda «E' morto!»

Nessuno di noi le rispose e tornò il silenzio. Eravamo tutti troppo sconvolti. Nessuno si sarebbe aspettato una morte così improvvisa,meno che mai quella di Steven : il più forte tra di noi. Era qualcosa che aveva congelato,in una frazione di secondo ferma nel tempo,i nostri cuori senza preavviso. Sarebbe potuto accadere a chiunque,ed il pensiero del mio corpo immobile su quel tavolo,era ormai un tormento incessante che straziava un'illusione di pace. Non volevo perdere nessuno,ma se fosse successo?Chi mi avrebbe dato la forza necessaria per continuare a vivere senza cercare di porre fine alle mie pene?Continuavo a chiedermi che senso avesse una vita così. Continuavo a chiedermi se quella situazione sarebbe mai cambiata,se una mattina ci saremmo risvegliati ognuno nel proprio letto,ricordando l'incubo che ci aveva tormentati nella notte. Avremmo ricordato visi sconosciuti,avremmo ricordato gli affetti persi,l'amore provato e ormai astratto come solo in un sogno può essere,e la lotta per la sopravvivenza. Poi ci saremmo alzati dal letto,avremmo sbadigliato spalancando la bocca e ci saremmo guardati allo specchio ripetendoci che era stato solo un brutto sogno. E allora tutto sarebbe ricominciato dall'istante in cui era stato interrotto. Ci saremmo persi a vicenda,ma avremmo mantenuto il ricordo fino alla fine,perché un sogno così vivido non può essere dimenticato.

Osservavo ancora quel corpo,persa nei pensieri,quando notai qualcosa che mi pietrificò all'istante. Il sangue mi pulsò rapido ed incessante come un acido che corrodeva le vene,e smisi per un istante di respirare. No,non era possibile!

«Ma che diavolo...»

Le dita di Steven si strinsero in un pugno,sotto i nostri occhi increduli.

«Steven!» esclamò Alex con gli occhi sgranati «Steven!» ripeté sollevandosi da terra ed avvicinandosi al corpo del fratello.

«Alex,no!» esclamò Lucas,correndo verso di lei.

Gli occhi del ragazzo si aprirono,ma erano vitrei e pieni di sangue. Steven si sollevò con il busto dal tavolo ed agitò le braccia,poi il suo verso ci attraversò in un istante,folgorandoci improvvisamente. Alex stava per stringere la mano di Steven,presa dalla felicità,quando Lucas la spinse via e sparò al ragazzo un colpo di pistola dritto alla nuca. Gli schizzi di sangue macchiarono il suo viso e lui strinse ancora di più la pistola,impassibile.

«Che cosa hai fatto?!» urlò Alex a terra,tra le lacrime.

Noah corse da lei,ancora scioccato,e le strinse la mano,bloccandola per tenerla ferma.

«Hai ammazzato mio fratello!» gridò furiosa,agitandosi tra le braccia di Noah «Era tornato per me!»

Lucas scosse la testa. Non si era neppure tolto gli schizzi di sangue dalla faccia. Guardava il buco nella fronte di Steven,con quell'espressione fredda e distante. Per un attimo,mi parve di avere di fronte un'altra persona.

«Quello non era Steven!» urlò lui,avvicinandosi alla ragazza «Quello era un affamato!»

A bocca aperta,mi sforzai di mettere insieme delle lettere esistenti «Lucas» biascicai nel vano tentativo di richiamarlo.

«No!» rispose lui,fulminandomi con lo sguardo «Te l'avevo detto Santana!Te l'avevo detto!Avremmo dovuto avvisarli. Sapevamo che sarebbe successo!»

Tutti gli sguardi furono su di me,persino quello di Brittany. Io,ormai,ero senza parole. Il cuore mi esplodeva nel petto,impazzito,ed i miei occhi vagavano sui visi altrui,in cerca di un'emozione che non sembrasse ostile.

«Se ancora non l'aveste capito,il morso porta alla morte!Non c'è scampo. Il morso ci trasforma!»

L'unica cosa che ricordai,dopo quell'ultimo grido esasperato,fu il silenzio. Era un silenzio inconsistente,spazzato via da parole non dette,pregno di preoccupazione,rabbia e disperazione. Mio fratello aveva ragione : avremmo dovuto dirlo. Quando me ne resi conto,capii che fosse troppo tardi.

*

Il rumore della pala,conficcarsi nel terreno,risuonava nitido nella mia testa. Era costante,ritmico,ed era l'unica cosa su cui riuscissi a concentrarmi. Noah scavava ininterrottamente da qualche decina di minuti,sotto il sole che calava lentamente dietro le montagne,scaricando la sua rabbia sul terreno. Aveva il respiro affannoso ed il viso imperlato di sudore,sporco di terra così come la sua maglietta. Ancora un ultimo sforzo e la buca sarebbe terminata per ospitare il corpo morto di Steven. Eravamo tutti lì,tutti,tranne Lucas. Ancora sporco di sangue e nero in viso,si era rifugiato nella sua tenda,alla ricerca del silenzio,forse per pensare. Dovevo andare a parlargli. Erano ormai minuti che mi imponevo di farlo,ma quando facevo qualche passo per allontanarmi da lì,il mio corpo si paralizzava,impedendomi di camminare oltre. Avevo paura di lui. In quel momento avevo solo paura. Avevo paura di affrontarlo,avevo paura di guardare Alex o di ascoltarne le parole che farneticava stremata,fumando la sua sigaretta. Avevo paura della morte,avevo paura anche di Brittany e di osservare il suo viso marcato da un'espressione delusa che mi limitavo ad immaginare. Eppure lei era lì,a meno di un metro dal mio corpo,con lo sguardo fisso sul mio viso. Non mi voltavo. Sarebbe stato un colpo troppo duro.

«Santana» mi chiamò lei «guardami».

Mi morsi il labbro inferiore.

«Guardami!» insisté lei.

Mi voltai. Aveva gli occhi lucidi e le linee del suo viso erano morbide,al contrario di come l'avevo immaginate. Continuava a fissarmi con apprensione,e tirai un sospiro di sollievo quando dopo aver analizzato il suo viso,fui convinta di non scorgere tracce di delusione. La mia paura svanì,improvvisamente.

«Non puoi tormentarti in questo modo» mi disse,avvicinando le sue dita al mio braccio «non ce la faccio a vederti in questo stato. Devi smetterla».

Sospirai rumorosamente ed abbassai lo sguardo. Le sue dita si adagiarono sulla mia pelle,delicatamente,e un brivido mi percorse la schiena. Sentii il bisogno di tornare a guardarla.

«A Lucas passerà,vedrai. E' solo molto stressato e spaventato come tutti noi. Aveva bisogno di sfogarsi,ma sei sua sorella e non può avercela con te ; non dopo tutto questo».

Scossi la testa «aveva ragione,Brittany. Avrei dovuto avvisare Steven di quello a cui stava andando incontro,e invece...»

«E che cosa sarebbe cambiato?» m'interruppe lei «Eravamo tutti preoccupati per Alex e le cose sarebbero andate così come sono andate ora» fece una pausa e le sue dita sfiorarono la mia pelle lentamente «Pensi che non lo sapesse?Pensi che non sapesse che stava morendo?Aveva capito che sarebbe successo dal momento in cui l'affamato gli aveva messo i denti sulla carne. Lo sapeva,ma aveva bisogno di vedere sua sorella un'ultima volta e di saperla al sicuro».

La guardai ed annuii «forse hai ragione. E' quello che avrei fatto anch'io con Lucas».

Lucas...quando pronunciai quel nome,fu come ricevere un pugno allo stomaco.

«Nessuno ce l'ha con te» continuò lei «ti stai perdendo in delle paranoie inutili».

«Dovrei andare a parlare con Lucas» annunciai,torturandomi le mani «ma ho paura di quello che potrebbe dirmi».

Lei mi accarezzò una guancia con il dorso della mano e disse «ci sono io qui con te,non devi avere paura di niente».

In quel momento,mi sentii fortunata. Nonostante tutto,sapevo di esserlo. Avevo trovato una persona speciale come Brittany,una persona che riusciva a leggermi dentro con un semplice sguardo,e che era in grado pronunciare sempre le parole giuste. Era la mia ancora di salvezza,era l'enorme cerotto sulla ferita impressa nel cuore,ed era la mano che stringendo la mia,riusciva a strapparmi via dall'oscurità. Seppure avessi perso tutto,allo stesso tempo avevo trovato qualcuno. Avevo trovato lei. Pensai ad Alex,ed immaginai di nuovo di trovarmi al suo posto. Aveva perso l'unica cosa che gli era rimasta,l'unico affetto che l'aveva tenuta ancorata alla sua vita,e che l'aveva rassicurata nei momenti di disperazione. Lei aveva perso il suo cerotto,ed il suo corpo stava morendo dissanguato per la ferita al cuore. Una fitta mi prese improvvisa,come l'ennesimo pugno allo stomaco. Guardai la ragazza che sedeva a terra ed osservava Noah scavare,e mi sentii male. Non conoscevo quella ragazza bene così come conoscevo gli altri. Era sempre rimasta avvolta da un velo oscuro fatto di mistero. Si celava dietro quel velo,nascondendo il suo corpo pieno di cicatrici. In quel momento,mi sentivo lei. In quel momento,mi pareva di conoscerla abbastanza bene da poter piangere per lei,immaginando ogni sua singola pena,immaginando la debolezza che la teneva bloccata a terra,incapace di reagire a qualsiasi stimolo esterno. Alex non era me,ma in quel momento io ero Alex. Fu un momento brevissimo,uno sprazzo di tempo infinito,che mi restò dentro,indelebile.

Quando mi voltai di nuovo verso Brittany,mi sentii pronta. Lei annuii,come se mi avesse letta nel pensiero,tolse la mano dal mio viso,ed i miei piedi cominciarono a muoversi. Tenni lo sguardo basso sino a che non mi ritrovai di fronte quella tenda. La zip era serrata sino a giù,segno che non fosse propenso a vedere nessuno. Voleva stare solo ed io lo capivo,ma ciò non cambiava la situazione.

Con il cuore che mi martellava nel petto,presi un grosso respiro «Lucas» sussurrai con la voce che pareva il frutto di un sottofondo appena udibile «sono io. Posso entrare?»

Silenzio e nessuna risposta.

«Ti prego,ho bisogno di parlarti».

Dopo alcuni secondi,la zip cominciò ad aprirsi lentamente. La testa riccioluta di mio fratello sbucò dopo poco,ed i suoi occhi incrociarono i miei. Erano stanchi,vuoti...così tristi che avrei avuto voglia di scoppiare a piangere. Che razza di sorella ero?Perché non riuscivo a proteggerlo da tutto quello?

«Che cosa vuoi?» mi chiese brusco,mettendo il primo piede fuori dalla tenda.

Sentii il sangue pulsarmi alle tempie e fui costretta ad inspirare profondamente «voglio chiederti scusa».

Il suo sguardo si ammorbidì un po' «per cosa?»

«Avevi ragione» ammisi,sforzandomi di respirare a pieni polmoni «avevi ragione su ogni cosa. Sapevamo entrambi che sarebbe successo e non ti ho ascoltato. Sono stata una stupida a pensare che le cose si sarebbero risolte» feci una pausa. Tremavo. «ma dovevo sperarci. Dovevo farlo,anche se voleva dire ignorare la verità,voltandogli le spalle».

I suoi occhi si intristirono,ma il suo viso era ancora rigido e contratto. Sentii di dover continuare.

«Io...io non lo so se moriremo tutti. Non so più quel che è giusto e quel che è sbagliato. Non riesco ancora a credere che Steven sia morto e non riesco a...a credere a quello che tu sei stato costretto a fare. Non era questa la vita che speravo tu avessi,Lucas» annunciai seria,con la voce che mano a mano si riduceva ad un sussurro smorzato «non voglio che tu debba vivere tutto questo,ma allo stesso tempo non so come fare. Sin dal primo istante,mi sono promessa che ti avrei protetto a costo della mia stessa vita. Ma come posso proteggere te,se neppure ho la forza per proteggere me stessa? Non voglio mentirti,non voglio più dirti che le cose andranno bene,perché so che non è così. Potresti morire,potrei morire io,potremmo morire entrambi o tutti quanti. Potresti restare solo,un giorno,ed io non sarò al tuo fianco a stringerti la mano o a mentirti con poca convinzione. Ma anche se so tutto questo,anche se so che il bene che ti voglio non sarà sufficiente a proteggerti da questo mondo,sappi che sarà l'unica cosa che potrò mai offrirti. E' tutto quel che mi resta da darti,è l'unica verità che potrei mai dirti in mezzo a tante menzogne. E non voglio pensare di poterti perderti senza dirti quanto bene ti voglio,perché non basterebbe una vita per perdonarmi. Sei parte di me,Lucas,ed io ti voglio bene».

L'ultimo briciolo di rabbia che avevo intravisto nei suoi occhi,sparì. Era tornato il mio fratellino,era tornata la persona che avevo sempre avuto accanto. Una lacrima gli rigò la guancia,e allora corse a stringermi tra le sue braccia.

«Ti voglio bene anch'io» sussurrò lui,affiancando il suo viso al mio.

In quell'esatto istante,un altro peso si tolse dal mio cuore e ritornai lentamente a respirare. Lucas mi teneva stretta nel suo abbraccio e mi resi conto di quanto fosse cresciuto dalla nostra partenza da Lima. Presto sarebbe stato un uomo e,probabilmente, ancor prima di quanto avrei immaginato.

*

Quando la pala si conficcò nel terreno per l'ultima volta,su di noi calò un inesorabile silenzio. Era lì,che aleggiava come fosse una foglia che svolazzava mossa dalla furia del vento,e si schiantava come una scheggia impazzita sui nostri visi. La buca era terminata. Steven era pronto per essere sepolto. La notte si apprestava a calare. Noi eravamo in silenzio. Mi sembravano quelle le cose fondamentali su cui concentrarmi,ripetendomi di tenerle bene a mente,ma vagavo da tutt'altra parte,vittima di nuovo di un'ansia responsabile dei miei respiri corti. Sarebbe successo di nuovo. La paura della morte si agitava nel mio petto,ed ero sicura che avrebbe fatto scatenare un'altra di quelle maledette crisi respiratorie. Ne ero terrorizzata e mi sembrava di inspirare un ossigeno malsano e devastante che lentamente mi avrebbe messa K.O.

Noah,sporco di terra dalla testa ai piedi e pieno di sudore,si voltò verso Lucas «aiutami a prendere il corpo» disse con un filo di voce stanca.

I due afferrarono Steven dai polsi e dalle caviglie e,dopo averlo fatto dondolare un istante sopra la fossa,lo lasciarono andare in un tonfo angosciante.

Noah,senza proferire altra parola,riprese in mano la pala e si preparò a ricoprire il tutto con la terra già smossa,ma mio fratello lo fermò «ci penso io».

Si guardarono in viso l'uno con l'altro,Puckerman si asciugò una goccia di sudore ed annuì.

Fu allora che Alex si alzò da terra,smettendo di blaterare follie,e si avviò a passo svelto verso la sua tenda. Teneva lo sguardo fisso a terra. Sembrava che qualcosa spingesse il suo corpo verso il basso,come se la forza di gravità fosse improvvisamente aumentata e la stesse trascinando lentamente sul suolo,privandola di forze. C'era un'altra forza che agiva su quel corpo : il dolore. La chioma nera e disordinata le copriva il viso e,per un attimo,mi chiesi se stesse piangendo o se avesse ancora la forza per farlo. Sapevo che non sarebbe sparita quell'agonia che la sovrastava così violentemente. Lo sapevo perché l'avevo affrontata,o meglio,l'avevo lasciata distruggermi. Quando avevo visto Josh in quel modo,quando Noah aveva ucciso quell'estraneo che non aveva più neppure gli stessi occhi del ragazzo che avevo amato,ero rimasta in uno stato d' incoscienza per un po'. Tutto quel che mi era intorno,non mi era intorno. Tutto quel che ascoltavo,non l'ascoltavo veramente. E i miei respiri erano frutto di un inutile abitudine che non stava di certo a significare che fossi viva. Io non ero viva,in quei momenti,e neppure volevo esserlo. Avevo il mio muro a proteggermi,sorretto a difendermi da tutto quel che mi circondava,da tutto quel che si abbatteva sulla mia fragile figura. Era durato per un po',giusto il tempo di lasciare la mia mente vuota e il mio cuore morto. Poi,all'improvviso,il primo battito mi aveva scosso l'anima,ed ero stata costretta a sopravvivere soltanto per Lucas. Ma Alex non pareva avere una difesa,non pareva avere un muro. Forse era la sua temporanea follia,ma ero convinta che non fosse sufficiente. Quella follia era il frutto del dolore e,pensandoci meglio,voleva dire che non era riuscita ad isolarlo e a buttarlo fuori. Conclusione : niente muro.

La ragazza sparì rapidamente dalla mia visuale e da quella degli altri. Guardai Lucas continuare a buttare terra sul cadavere,Noah asciugarsi il viso con un lembo di quella maglietta logora,e Brittany osservare la stessa scena. Pensai a qualcosa,però. Che cosa avrei fatto se non avessi avuto un muro e neppure mio fratello,all'inizio?Se non avessi avuto più alcun motivo per vivere? La risposta mi attraversò veloce come una scarica elettrica. Sgranai gli occhi. Mio Dio. Mi sarei uccisa. Mi sarei uccisa.

«Lucas,dove hai lasciato la pistola?»

Lucas mi guardò interdetto «è nella mia tenda...»

Mi portai una mano alla bocca con gli occhi sbarrati «Alex.»

Noah sembrò pensieroso qualche altro secondo,poi cominciò a correre con il panico impresso sul viso. Lucas lasciò cadere la pala dalle sue mani,e lo seguì. Sarei rimasta immobile,forse. Ero stanca persino di correre,ma l'idea che Alex potessi essere io,continuava a torturarmi. Dovevo fare qualcosa. Strinsi la mano di Brittany e seguii gli altri,con le gambe svelte e mosse da una strana e potente forza.

Noah correva agile giù da quella collina,e quando mise il primo piede in prossimità del campo,Lucas lo raggiunse. Scendemmo anche noi due,ma nel frattempo gli altri avevano quasi raggiunto la tenda di Alex. Fui pronta a tirare un sospiro di sollievo,ma una strana sensazione me lo impedii. Quando Puckerman entrò,riuscii solo a sentire un «Alex!»

Si era uccisa?

La nostra corsa si fece rapidissima,nonostante mi mancasse l'aria. Quando il telo verde si parò davanti le nostre gambe,ci fermammo di scatto,rischiando quasi di cadere.

«No!» sentii urlare la ragazza dalla voce irriconoscibile.

Entrammo e la vedemmo. Stringeva la pistola nella mano destra tremolante e la teneva puntata alla tempia con il dito fermo sul grilletto. L'arma le aderiva sulla pelle,quasi come le stesse imprimendo addosso la sua forma. Alex stava piangendo. Aveva ancora la forza per farlo,e forse aveva anche la forza sufficiente a fare altro. Il suo viso non era altro che una spaventosa maschera di dolore. La matita nera si mischiava alle lacrime e le colava sugli zigomi,macchiando sgraziatamente quella pelle bianca e cadaverica che la facevano assomigliare ad un clown mostruoso. Tremava e piangeva. Strizzava forte gli occhi e scuoteva la testa. I capelli scuri incollati alle guance che si muovevano impercettibilmente ad ogni scatto della testa.

«Alex,lascia quella pistola a terra» le sussurrai,avvicinandomi. Brittany si irrigidii e mi mollò la mano.

La ragazza strinse l'impugnatura dell'arma e scosse la testa «sono già morta» disse con un filo di voce roca,singhiozzando «sono già morta» ripeté,come se stesse prendendo coscienza di ciò.

Noah si avvicinò. Lei strizzò gli occhi e le puntò la pistola contro. Mi irrigidii. «vai via!» gli urlò.

Noah fece un altro passo,questa volta più lentamente. Aveva ancora l'arma puntata contro.

«Non mi farai del male,lo so» disse con un tono di voce calmo e controllato. «So anche che cosa provi,Alex...»

«No!» gridò lei. La pistola le tremò nella mano. «Nessuno di voi lo sa!Nessuno!»

«E invece sì» rispose Noah,tranquillo «la sensazione che tutto il dolore ti ingoi,che ti privi di ogni cosa,che ti lasci senza battito e senza respiro...il senso di colpa che ti distrugge da dentro,come mille coltellate al cuore...l'idea che la tua vita sia ormai finita e che tu non abbia più niente per cui vivere».

La ragazza fu scossa violentemente da un altro singhiozzo e tornò a puntarsi la pistola alla tempia,strizzando di nuovo gli occhi in una smorfia di dolore.

«So quello che provi,Alex» continuò Noah «Ti mentirei se ti dicessi che passerà. Ma io non voglio essere un bugiardo,voglio solo evitare che tu faccia qualcosa di maledettamente stupido di cui non potresti più pentirti» fece una pausa. La ragazza continuava a guardarlo con gli occhi gonfi. «Vedi tutto nero,Alex. Vedi solo l'oscurità,ma dopo esserci passato anch'io,posso solo dirti che non sarà buio per sempre. Qualche spiraglio di luce,qualche misero bagliore filtrerà dalla nebbia nera sino ad accarezzarti il viso. Non sarà un calore violento,né chissà quanto piacevole. Lo avvertirai appena sulla pelle e sospirerai,ma posso dirti che sarà sufficiente affinché tu abbia la forza per continuare ad affrontare il buio,giorno dopo giorno. Avrai quel ricordo impresso nella mente,e sarà l'unica cosa a contare».

Ero senza fiato. Alex sembrò sforzarsi di respirare,mentre affogava tra le lacrime e resisteva ai violenti singhiozzi. Scosse ancora una volta la testa,e fissò Noah.

«Bellissimo discorso» biascicò «ma non voglio nè il buio,né un fottuto spiraglio di luce».

Strinse l'impugnatura della pistola e Noah la guardò confuso e sorpreso. Non era quello che si aspettava.

«No!» gridò il ragazzo.

Mentre il cuore mi esplodeva nel petto,e le lacrime cominciavano a scivolare lente sul mio viso,chiusi gli occhi. Il rumore di uno sparo vibrò nell'aria. Brittany urlò. Non potevo guardare. Quando il rumore di un pianto disperato si levò in quell'atmosfera mesta e sofferente,riaprii le palpebre lentamente.

«Alex» sussurrai tra me e me,con le lacrime agli occhi.

Era ancora lì in piedi,era ancora viva. Lasciò scivolare la pistola dalle sue dita e quella cadde a terra in un rumore sordo.

«Dio» disse Brittany,asciugandosi le lacrime.

La ragazza singhiozzò e tremò un'ultima volta,poi stramazzò a terra sfinita. Il proiettile aveva perforato il tessuto della tenda in alto,quasi sopra la sua testa. La luce entrava da quella piccola fessura,accarezzando la chioma scura della ragazza. E' un segno,pensai. Poi però,ricordai che non esistevano più né segni e né sogni.

«Alex!» urlò Noah,con un mezzo sorriso sul viso. Gli corse in contro e le strinse la mano. La ragazza aprì gli occhi a fatica,lo guardò,e per un attimo mi sembrò di sentirla sussurrare «grazie».

Richiuse gli occhi ed un'ultima lacrima le scivolò lungo la guancia,in un percorso infinitamente breve,quanto infinitamente pregno di dolore.

Non si era uccisa. Era l'unica cosa a cui riuscissi a pensare. Non si era uccisa. Non avevamo perso un altro dei nostri,anche se avevamo rischiato sino all'ultimo secondo. D'impulso strinsi Brittany tra le mie braccia,e mi ripetei che era finita.

«Hai fatto la cosa giusta» sussurrò Noah,sul viso della ragazza ancora a terra.

Ero pronta a stendermi sul materasso,con gli occhi rivolti verso l'alto e a fare il resoconto di tutto quel che era successo in poche ore,stringendo tra le mie dita quelle di Brittany. Ero pronta a tirare quel maledetto sospiro di sollievo. Ma quando i singhiozzi cessarono,e credemmo di tornare a sprofondare in un silenzio solenne,la colonna sonora della fine sovrastò ogni cosa. Era un turbine impazzito che non aveva coscienza e né scopo. Le mie gambe stanche si mossero sino all'entrata della tenda. Sporsi la testa fuori,e rimasi paralizzata.

«C'è un'orda di affamati!»

No,non era affatto finita.


Salve gente!Prima di iniziare un qualsiasi tipo di 'discorso',mi sento in dovere di ringraziarvi. Grazie per aver letto,grazie per aver scelto di seguire,grazie per aver recensito e per avermi fatta credere ancor di più in questa storia che era iniziata come un esperimento o un percorso privo di meta.

Come avete potuto notare,la morte di Steven sta avendo delle dure conseguenze su tutto il gruppo ed in particolare su Alex. Sinceramente,al posto della ragazza ed in una simile situazione,non so se avrei avuto il coraggio di premere il grilletto o di abbandonare la pistola. Specialmente nei momenti di dolore,abbiamo tutti bisogno di tenerci aggrappati a qualcuno. Forse questo avvenimento segnerà una coesione ancora maggiore all'interno del gruppo,o forse agirà in modo contrario. Che altro dire? Vi aspetto nelle recensioni per leggere le vostre opinioni o chiarire degli eventuali dubbi. 

AVVISO : c'è una cosa che devo comunicarvi,e lo faccio davvero a malincuore. Sarò assente per un po' dal sito e non so dirvi con precisione quando avverrà la prossima pubblicazione. Spesso vorrei vivere in una piacevole storia di quelle che immagini,che vedi nei film,o che leggi. Ma la vita non è una storia,e sono costretta a prendermi una pausa per via di un periodo un po' 'particolare' che non mi da il tempo neppure di ricordare quale sia il mio nome. Vi chiedo scusa,davvero. Non ho affatto intenzione di abbandonarvi,nè di lasciare la fanfiction incompleta. Spero di tornare presto con un nuovo capitolo in grado di farvi emozionare e scritto con più energia degli altri. 

Tornerò,ve lo assicuro,nel frattempo mi sembra giusto lasciarvi con un : "alla prossima!"

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Sopravvissuti ***


BETWEEN THE HUNGRY

Sopravvissuti .

Sapevo due cose in quel momento,sapevo due cose che forse non erano sufficienti a farmi sentire umana,a farmi sentire viva : correvo,e correvo per sopravvivere. I piedi si accavallavano,di tanto in tanto,e sentivo l'equilibrio mancarmi e la terra divenire sempre più vicina al mio volto. Quando mi sembrava di desiderare di giacere a terra,una mano spuntava dall'oscurità tetra di quella notte malsana e mi afferrava con una forza fragile che sapeva di Amore. Persino nella corsa per la sopravvivenza,persino nella corsa che non aveva senso,non aveva meta,non aveva uno scopo sinceramente concreto,lei era lì. Lei era lì sempre,pronta ad afferrarmi quando le mani viscide della morte sembravano avermi già afferrata saldamente. Come fai a non amare la figura onnisciente al tuo fianco?Come fai a non amare l'unico Dio in un universo senza fine e senza pietà?Lei era il mio Dio. L'unico essere che avrebbe mai potuto giudicare la mia esistenza a testa alta,senza rimorsi,perché cosciente di meritare la mia approvazione a qualunque destino avesse deciso di assegnarmi. Ma non esisteva destino se non quello di quell'infinita corsa tra la fitta natura illuminata dalla luna.

«Non smettere di correre!» urlò Noah ad Alex.

Correva pure lei. Correva pure la ragazza che aveva appena perso il suo ultimo mondo,l'ultimo centimetro di terra che le era rimasto sotto i piedi,pronta a gettarsi nel baratro senza guardarsi attorno. La stimavo per quel motivo,ma stimavo ancor di più Noah che,come Brittany avrebbe fatto con me,era pronto ad afferrarla e tirarla a sé quando avrebbe inciampato.

Alex non rispose. Saltò un sottile tronco che si trovò prima sotto i suoi piedi,poi sotto i miei,ed ansimante mantenne il suo passo svelto,tenendosi al fianco di Noah.

«Per quanto ancora dovremo correre?» chiese Lucas,con le parole che gli si fermavano in gola per la poca aria che aveva in corpo.

«Raggiungeremo la strada!»

Lentamente,la natura che mi era parsa sfocata per tutto il tragitto,si allontanò dalla mia vista e apparve un fascio di asfalto baciato dalla candida luce di una luna eterna. Quando misi il primo piede su quel grigio scolorito,il mio corpo sentì la necessità di fermare la sua corsa. Non finisci mai di stupirti di quanto l'istinto di sopravvivenza dell'uomo riesca a condizionare ogni fibra della tua persona. Sentivo la necessità di correre,di scappare via e lontano,ma sapevo che non c'era più un posto in quel mondo pronto ad accogliermi e proteggermi.

«Stai bene?» mi voltai verso Brittany.

Aveva i capelli biondi scompigliati,come quelli di un bambino il cui padre ha sfregato la mano sulla nuca. Le guance arrossate,la pelle madida di sudore che rifletteva i raggi di quell'enorme luna piena. Forse delle persone,mesi prima,o vite prima,avrebbero potuto trovare quella figura trasandata e decisamente poco attraente. Ma ora,in quell'esatto momento,io sapevo con certezza che lei era bella,bellissima e meravigliosa. I suoi occhi erano sempre dell'azzurro vivace che mi faceva guizzare il cuore,le sue labbra sempre gonfie e desiderose di essere amate,ed i suoi lineamenti belli come quelli di un angelo. Chi se ne fregava se era sudata,forse sporca,e sicuramente in disordine. In un mondo in cui non c'era più bellezza che gli occhi riuscivano a cogliere,ti accorgervi ed apprezzavi ogni singolo barlume di questa,indipendemente da tutto il resto.

Mi fece un cenno stanco con la testa e mi regalò un tiepido sorriso sghembo.

«Che si fa adesso?» chiese mio fratello,asciugandosi il sudore della fronte con un lembo della camicia a quadri.

Noah si girò e ci guardò uno per uno,accigliato. «Dobbiamo trovare un posto per la notte. Siamo completamente senza provviste,senza acqua,senza niente» scosse la testa,nervoso «Porca puttana!» inspirò a fondo «Ma tu guarda che schifo!»

Mi schiarii la voce «cerchiamo di restare calmi,ok?Ci serve subito un posto dove stare,un posto qualsiasi...momentaneo. Alex non è ancora completamente lucida e siamo tutti troppo stanchi per avventurarci chissà dove».

«Che proponi di fare,Santana?»

Sbuffai «non ci resta altro da fare che trovare riparo in una casa in città. Domani mattina ci alzeremo presto,faremo scorte di tutto il necessario,e ripartiremo per sistemarci come abbiamo fatto in passato».

La fronte di Noah si distese dopo pochi secondi,ed i suoi occhi verdi persero parte della durezza che avevano assunto.

«Santana ha ragione» disse Brittany.

Lucas scosse la testa «in città?Di notte?E' troppo rischioso. Non abbiamo armi per difenderci,se non una pistola con pochissime pallottole. Sarebbe come pregare di farsi ammazzare. Abbiamo già visto cosa succede se si finisce in quel casino pieno di morti viventi...».

Forse aveva ragione. Forse quell'uomo dal viso giovane e i tratti del volto simili ai miei,aveva più ragione di me. Non sapevo cosa dire. Nessuno sapeva cosa fare.

«Voglio bere» disse Alex con un filo di voce. «Ho sete»

Noah la guardò triste «non abbiamo acqua,Alex»

«Lo so» rispose lei,le corde vocali che si sforzavano di far uscire un suono comprensibile all'udito «ma ho sete».

Poi,restammo in silenzio. Era come se fossimo in attesa di qualcosa,forse della fine,forse di una soluzione che apparisse accettabile e priva di rischi. Impossibile non correre rischi. Impossibile sperare di non morire. Tirai fuori dalla tasca un pacchetto di Marlboro,e mi sentii quasi colpevole di aver interrotto la mia fragile immobilità con quel gesto. La sigaretta scivolò tra le mie labbra e la debole fiamma dell'accendino l'accese. Inspirai a fondo il fumo. Chiusi gli occhi e assaporai il sapore del tabacco mischiarsi al nulla sulla mia lingua. Forse la nicotina avrebbe placato la mia agitazione,forse l'avrebbe fatta sembrare più umana e più vera. Alex si voltò verso di me e guardò il bagliore rosso che spiccava nell'oscurità. Riestrassi il pacchetto dalla tasca e le porsi una sigaretta,poi gliela accesi. Lei annuì debolmente,mostrandomi una leggera gratitudine.

«Che si fa?» chiese Brittany,rompendo il silenzio fatto di gesti appena accennati.

La guardai : era accigliata.

«Niente città. Ci rifugeremo nel bosco,uno di noi starà di guardia,e appena sorgerà il sole ripartiremo».

Non mi sentii in grado di contestare le parole di Puckerman. Per qualche assurdo motivo,sentivo che quel che aveva detto era giusto e sensato,anche se non del tutto.

«Ripartiremo con cosa?Siamo sprovvisti di tutto. Non abbiamo una macchina,non abbiamo cibo,non abbiamo acqu...»

Noah indurì l'espressione «e allora che cosa pensi che dovremmo fare?» la interruppe severo «ce ne restiamo sul ciglio della strada a disperarci per la situazione,aspettando che qualche affamato sbuchi dal nulla,o ci nascondiamo nel bosco,ignorando la fame e la sete,sperando che domani mattina ci cada una soluzione dal cielo?»

Brittany non rispose. Si morse il labbro inferiore,alzò gli occhi al cielo,ed implicitamente lasciò a Puckerman la responsabilità di decidere per la sua vita e per quella delle altre persone.

«Forza,cerchiamo un riparo per la notte».

I nostri piedi ripartirono e la cicca di sigaretta cadde sull'asfalto,abbandonata alla desolazione e alla solitudine. L'ultimo gesto di umanità che si perdeva nel nulla. Non c'era niente di più simbolico di quello.



Quando dopo un'altra mezz'ora di cammino vedemmo l'entrata di una piccola grotta,evanescente nella penombra, i nostri occhi si illuminarono. Sembrava il posto ideale dove trascorrere la notte. Come se una qualche entità ci avesse regalato l'ultimo miracolo prima di sparire nel nulla della tenebra.

«Sistemiamoci qui» disse Noah,scrutando attentamente l'entrata di quel piccolo insieme roccioso «per questa notte va bene. All'alba ripartiremo».

«Va bene».

«Chi resta di guardia?»

Ci guardammo l'uno con l'altro,gli occhi stanchi che si sforzavano di mettere a fuoco gli inutili dettagli dei visi smorti. Nessuno di noi avrebbe voluto rimanere un'altra notte sveglio. Nessuno di noi aveva la forza sufficiente o una lucidità tale da vantare la giusta concentrazione e determinazione per sentirsi responsabile delle vite altrui. Eravamo stremati. Soltanto poche ore prima ci eravamo imbattuti in una città piena di voraci creature alla ricerca di vite da spegnere,e ce l'eravamo vista brutta. Avevamo perso un compagno,un capo gruppo,un fratello ed un amico. Era tutto troppo per una sola giornata,o per una singola vita. Eppure di nuovo l'istinto di sopravvivenza aveva la meglio. Niente pena per i volti stanchi,niente comprensione,niente superficiali convinzioni in grado di sovrapporsi a necessità più grandi. Qualcuno,seppur stanco,doveva restare di guardia.

«Resto io» affermò,dopo un lungo silenzio mio,fratello.

La sua voce mi prese di sorpresa.

Scossi la testa «non se ne parla. Resto io».

Brittany mi sfiorò un braccio e mi guardò preoccupata «no,Santana».

Aveva paura per me. Tutti avevano paura. La morte di Steven era stato l'avvenimento che aveva risvegliato i più terribili incubi. Era come se quel che era successo,ci avesse ridestato da una pace leggera,onirica ed irreale,costringendoci ad aprire gli occhi,assieme ad un urlo straziante di paura.

«Britt» la richiamai con voce dolce «devo farlo».

I suoi occhi s'inumidirono all'istante.

«Devo» ripetei.

Ci guardammo per qualche secondo,perdendoci nell'infinità di un singolo sguardo,e ci capimmo come solo noi potevamo fare. Senza che avesse aperto bocca,sapevo che si era arresa all'idea che dovessi farlo. Ed ero altrettanto certa che senza che io avessi aperto bocca,lei avesse capito il perché avessi deciso che fosse una mia responsabilità.

«Sono in grado di farlo» ribattè Lucas,distogliendomi da quelle iridi azzurre.

«Non mi importa se sei in grado. Tu non ci starai di guardia questa notte,lo farò io».

«Sei a pezzi» insistè mio fratello «stai crollando e ti si legge in faccia. Sono sicuro che ho più energie di tutti in questo momento e devi lasciarmelo fare».

Sì,era vero,stavo crollando. Non avevo più forze,non avevo più niente. Ero soltanto un misero involucro svuotato di ogni briciolo di umanità,che agiva soltanto per il dovere di farlo. Ma non l'avrei lasciato lì fuori,da solo,con una pistola quasi scarica nella mano,e la stanchezza pronta a giocargli qualche brutto scherzo.

«Ho detto di no,e la questione si chiude qui. Fai come ti dico e vattene a dormire. Tra poche ore sarà l'alba» ordinai dura,con voce autorevole.

Lucas mi guardò l'ultima volta in viso,fulminandomi con lo sguardo,mi lanciò la pistola che teneva in mano,e nell'esatto istante in cui i miei riflessi agivano per afferrare l'oggetto al volo,lui si voltò e venne inghiottito nell'oscurità della grotta. Mio fratello non era più il ragazzino dolce con cui mangiavo popcorn il mercoledì sera,stesa sul divano. Lo sapevo,ma non riuscivo ancora a farmene una ragione. Quanto in fretta può cambiare una persona,condizionata da fattori esterni di importanza vitale?Troppo. All'improvviso capii che forse anche io,esattamente come lui,ero stata modellata da quell'insipido universo. Tutti,esattamente come la creta,non erano altro che un'inverosimile sostanza in attesa di assumere la forma che ci sarebbe stata assegnata dal tempo.

«Sta' attenta» si raccomandò una voce dolce alle mie spalle.

Mi voltai verso di lei e mi sforzai di tirare fuori il più rassicurante dei sorrisi.

Osservavo la luna da ore. Quell'enorme figura sferica luminosa attirava il mio sguardo a sé come se fosse dotata di uno strano potere. A volte,nelle notte in cui il cielo era limpido e non faceva il prepotente,decidendo di nascondere le sue stelle,io e Josh ci sedevamo sotto il portico di casa e restavamo minuti interminabili ad osservare le nobili creature dell'universo. Parlavamo di ogni cosa,sotto il chiarore innocente della luna. Parlavamo delle nostre vite,dei nostri desideri,dei sogni,delle speranze infrante e dei dispiaceri ingoiati assieme all'amaro delle lacrime. Eravamo noi,spogli di un'apparenza forzata,nudi come le nostre anime che esposte si guardavano a vicenda,amandosi in ogni sfumatura. E adesso,qui,la luna era la stessa,ed io lo sapevo. Immutabile e meravigliosa come fosse un'immagine creata dal disperato desiderio di pace,lei guardava un'altra persona,un'anima un po' persa e ferita che ricordava se stessa,chiedendosi cosa fosse reale e cosa fosse implicito sogno. Amavo la luna,ma forse lei non amava più me. Forse non amava più nessuno di noi. E il freddo sbatteva sulla mia pelle senza chieder scusa,senza piegarsi al mio cospetto,deciso a divorare il respiro troppo calmo che spariva in una nebbiolina chiara,nuotando nell'insensibilità dell'aria. La pistola impugnata debolmente dalla mia mano,scossa a volte dal tremolio impercettibile di un corpo che avrebbe desiderato spegnersi per i pochi istanti indispensabile a dimenticare. Chissà cosa c'avrebbe riservato il domani,quando il sole sarebbe sorto ed avrebbe sconfitto le tenebre come ormai era solito fare. C'era un'alta probabilità di morire,ma chissà perché la cosa non mi sconvolgeva più di tanto. La morte che fino a qualche ora prima era apparsa sotto forma di parola ricorrente nei pensieri,continuava ad aleggiare sopra le nostre teste,come in attesa del momento in cui il destino ci avrebbe riservato una triste fine.

Con una lentezza straziante,mentre lottavo disperatamente contro il sonno,contro il freddo,contro la fame e contro la sete,il cielo si colorò di arancione dietro le montagne,e i raggi di sole che sussurravano un buongiorno silenzioso,colpirono il mio viso delicati ed irraggiungibili.

Dovevo andare a svegliare gli altri. Entrai nella grotta e li vidi. Puckerman dormiva con la schiena adagiata alla parete rocciosa e la testa china sopra il busto,priva di forze. Lucas era sdraiato a terra,con la testa adagiata sull'avambraccio sinistro. Brittany se ne stava buttata a pancia in su,a bocca aperta,in una posizione che se non avessi saputo che stava dormendo,mi avrebbe paralizzata dalla paura. Alex...Alex non dormiva. Era affianco a Noah,nella stessa posizione del ragazzo,ma i suoi occhi erano ridotti a due fessure arrossate e stanche e tra le labbra teneva una sigaretta. La guardai per qualche secondo,poi,presa da uno strano istinto,mi misi seduta al suo fianco.

«Immagino che tu non abbia dormito...» le dissi a bassa voce,non ancora pronta a svegliare il resto del gruppo.

Lei continuò a fissare l'entrata della grotta ed inspirò una boccata di fumo «immagini bene» rispose con la voce roca ed irriconoscibile.

Rimasi in silenzio,contemplando con lo sguardo la stessa immagine che i suoi occhi scrutavano : la natura illuminata dalla luce che acquistava forza con il passare del tempo.

«Sai,» iniziò con un tono di voce che mi mise i brividi «continuo ad immaginare che lui ci raggiungerà» fece una pausa ed aspirò un altro tiro di sigaretta «lo vedo entrare,con la luce che gli illumina il viso e gli fa sembrare i capelli più chiari. D'estate col sole gli si schiarivano sempre i capelli,diventavano di un castano chiaro bellissimo. Da piccolo aveva un taglio a caschetto davvero osceno» continuò,aprendo la bocca in un grande sorriso triste «mio padre lo prendeva sempre in giro,ma mia madre continuava a dire al barbiere di fargli quel taglio. Pure allora era una testa di cazzo quella donna» sorrise ancora «a me faceva tagliare i capelli ogni volta che superavano la lunghezza delle spalle. Diceva sempre che altrimenti erano in disordine e che sembravo uno di quei cani randagi che si aggiravano per la strada. Stronza. Se li vedesse ora chissà che faccia farebbe».

Diversi centimetri di cenere caddero sul suo ginocchio sinistro e una lacrima le scivolò sulla guancia così lentamente,che mi sembrò le stesse straziando la pelle. Mi faceva tenerezza. Il suo dolore era così reale e tangibile,che creava attorno alla sua figura una sorta di aura mistica,un'ampolla che anziché proteggerla,avrebbe finito per distruggerla. Che cosa potevo fare per aiutarla?Cosa avrebbe potuto aiutarla?Non c'erano distrazioni,se non situazioni catastrofiche in cui saremmo stati costretti a fuggire o saremmo semplicemente morti. Certo era,però,che niente era uguagliabile al dolore,ed io lo sapevo bene.

«Ci sono passata Alex,» affermai con la voce ridotta ad un ennesimo sussurro «so bene cosa si prova a perdere una delle persone più importanti della tua vita».

Lei annuì debolmente e si asciugò una lacrima «non riesco nemmeno a respirare. Voglio morire. Voglio solo morire».

La guardai fare l'ultimo tiro di sigaretta,e sentii immediatamente una fitta al petto e l'inspiegabile desiderio di piangere al suo fianco. Il dolore,a volte,è contagioso.

«Non vuoi morire,Alex. Se l'avessi voluto veramente,a quest'ora non saresti dentro questa grotta».

Allora,la contemplazione del nulla finì,ed i suoi occhi scuri si fissarono sul mio viso intensi e penetranti come pochi.

«Sai perché non l'ho fatto?» chiese poco dopo.

«No. Perchè?»

Volevo saperlo per davvero.

La ragazza chiuse gli occhi per qualche secondo,e quando li riaprì un'altra lacrima scese lenta e dolorosa «avevo pensato che sarebbe stato facile. A New York si sentivano di continuo le notizie di persone disperate che avevano deciso di togliersi la vita. Una ragazza nella mia scuola l'aveva fatto. Il padre e la madre avevano divorziato e sua sorella era morta pochi anni prima per un incidente stradale. Quando la notizia apparve al telegiornale,mentre mangiavo un panino e bevevo una bottiglia di gin,rimasi sconvolta. Il giornalista disse che si era tagliata le vene e che aveva sofferto,da dopo la morte della sorella,di depressione ed anoressia. Quando senti questo tipo di cose,non pensi che possano mai toccarti veramente...capisci cosa intendo dire?»

Annuii,seppur debolmente.

«Ti sembrano così tragiche,così distanti e disperate...e tu ti senti estraniato da qualunque cosa non ti riguardi. Pensi che le persone muoiono tutti i giorni,pensi che gli incidenti accadono,pensi che le malattie esistano,ma che tu per qualche assurda ragione ne sia immune. La verità è che non siamo immortali,non siamo destinati a vivere in eterno e nessuno ci assicura di essere al riparo dal male» fece una pausa e sospirò «pensavo che sarebbe stato facile. Pensavo che avrei fatto una lieve pressione sul grilletto e me ne sarei andata all'altro mondo,e invece ho scoperto che non è così. Ci vuole più coraggio a morire che a vivere. Per vivere basta respirare,basta trascinarsi anche a fatica su di un pavimento,basta fingere di sorridere anche se muori dentro e ti senti gli organi divorati giorno dopo un giorno da un mostro che è senza nome. Per morire,invece,devi sentirti pronta. Devi essere capace di buttarti in una voragine senza fine,pensando che non avrai né un passato,né un presente e né un domani. E non basterà più sorridere,non basterà più respirare,non basterà più trascinarsi,perché non potrai più cullarti neppure nel dolore. Mi sono buttata tutta la vita in cose che pensavo sarebbero state più grandi di me,ripetendomi che ero stata coraggiosa. Questa volta,invece,ho preferito essere codarda e continuare a strisciare come un verme,già marcia dentro».


Silenzio.


Alex si stropicciò gli occhi cerchiati da delle grandi occhiaie e sfilò l'ultima sigaretta dal pacchetto da venti di Marlboro. Nessuna di noi due osava rompere quel silenzio. Se non ci fosse stata quell'assurda regola,stampata come a caratteri cubitali su di enorme cartello immaginario,forse avrei pianto. Giusto quel poco che mi avrebbe permesso di tirare fuori tutte le parole che avevo assorbito pochi minuti prima. Come una spugna,era gonfia di un dolore che non mi apparteneva,ma che per qualche ragione aveva un sapore familiare.

«Finirà mai?» chiese all'improvviso,costringendomi a ridestarmi da quella specie di trance.

La guardai «che cosa?»

«Il dolore che ti frantuma le viscere».

Chiusi gli occhi «no,non finirà mai. Sarà una componente della tua persona e il tempo non cancellerà niente : renderà solo l'inferno un abitudine senza uguali».



Ce ne stavamo seduti in cerchio,con il sole ormai alto nel cielo che trapelava dalle fitte foglie degli alberi e raggiungeva buona parte della grotta,come per invitarci ad uscire. Saremmo dovuti partire già da un pezzo,e invece le nostre facce stanche erano ancora lì,in attesa di un ordine o una soluzione che non riusciva a venire fuori. Avevo sete e avevo fame. Non bevevo da più di dodici ore,ormai,ed avevo la gola secca e le labbra che mi supplicavano di essere bagnate. Deglutivo a fatica la saliva e mi inumidivo la bocca con questa. Lo stomaco brontolava,si contraeva,e la stanchezza governava ogni mio singolo muscolo. Senza che me ne accorgessi,di tanto in tanto,mi si chiudevano gli occhi e mi cedeva la testa che si adagiava col mento sul busto. Allora Brittany mi dava un colpetto sulla spalla,guardandomi preoccupata,mi ripeteva che non sarei dovuta restare di guardia,ed io guizzavo come un'anguilla con gli occhi completamente sbarrati. Non era piacevole sentirsi fuori uso,non in grado neppure di camminare. Ero sporca e puzzavo di sudore,di terra e di morto. Un odore simile a quello di un cadavere che si appresta a putrefarsi,esattamente identico a quello degli altri,che fingevamo distrattamente di ignorare. Un animale sarebbe stato in condizioni migliori delle nostre,se ne esistevano ancora...

«Abbiamo bisogno di acqua,Noah» disse Brittany rompendo quel velo di inafferabile silenzio «non possiamo incamminarci senza cose primarie come cibo e acqua,o senza armi».

Noah si accigliò «non possiamo neppure avventurarci in città in queste condizioni e con una pistola quasi scarica. Guardaci,Brittany : pensi che saremmo in grado di affrontare una dozzina di affamati quando a stento potremmo reggerci in piedi?»

Non c'era soluzione,non esisteva una scappatoia che non comprendesse dei rischi. Per questo,da ore,ce ne stavamo lì un po' per svogliatezza e un po' per le inconcludenti decisioni del gruppo. Forse,se ci fosse stato Steven...

«Dobbiamo andare in città,non c'è altra scelta» annunciai,sforzandomi di guardare il viso distrutto di Noah «ci serve dell'acqua».

Forse era la sete a parlare,o forse la disperazione. Volevo solamente uscire da quella grotta e bere un'immensa sorsata di acqua fresca. Non chiedevo altro : acqua.

Puckerman mi guardò serio e poi si alzò di scatto da terra,lasciandomi perplessa per un istante.

«Dove diavolo vai?» chiese Lucas,anticipandomi.

«Prenderò dell'acqua e del cibo in scatola e tornerò il più velocemente possibile qui. Se ci riesco,ruberò una macchina e poi ci rimetteremo in viaggio» annunciò serio.

Scossi la testa «spero che tu stia scherzando!Vuoi farti uccidere,Puckerman?»

Lui inspirò e si passò una mano sulla nuca ormai piena di capelli castani «Mi muoverò veloce,posso farcela».

Mi sollevai da terra,e Lucas si alzò con me «no» risposi a brutto muso.

«Vengo con te» disse mio fratello.

Sgrani gli occhi e il mio sguardo corse sul suo viso.

«San,possiamo farcela» mi disse lui con una voce quasi disperata,che supplicava la mia approvazione «so usare bene la pisto...»

«Ma che vi siete messi in mente?!Siete impazziti?!» sbottai furiosa «Vi uccideranno!Vi uccideranno ed io sarò costretta a restare qui a piangere per voi,soffrendo come un cane!Nessuno va' in città,ok?Nessuno si muove da qui o giuro su Dio che,se uscite da questa grotta,io mi farò ammazzare con voi!»

Brittany mi sfiorò il braccio con la mano «San,calmati...» sussurrò dolce «va' tutto bene».

«No!» urlai «Non va bene un cazzo!Non bevo e non mangio da un'eternità,sono stanca e sporca e mio fratello mi sta pregando di andare a farsi uccidere. Ma state scherzando?!Tu non vai da nessuna parte!Non ti muovi da qui,hai capito?!Non ti muovi da qui!»

Lucas mi guardò serio e scosse la testa con disapprovazione «ma perché fai così?» mi chiese con la fronte aggrottata e la voce che sembrava quella di un uomo adulto.

«Perché non voglio perderti!» riuscii a dire prima che i singhiozzi mi scuotessero il petto.

Passarono alcuni minuti prima che Noah ricominciò a parlare «E' arrivato il momento di partire. Ci incammineremo lungo la strada,diretti dalla parte opposta della città e spereremo di trovare qualche casa durante il tragitto».

L'aveva fatto per me,lo sapevo. Noah aveva deciso così soltanto per me. Sapeva che se fosse andato,mio fratello avrebbe insisto per seguirlo e che io non li avrei mai e poi mai lasciati andare. Da una parte lo ringraziavo,dall'altra la mia gola supplicava di ingoiare qualcosa di fresco.


Con ancora le lacrime agli occhi e il sapore salato sulla lingua,ricominciai a camminare assieme agli altri. Percorremmo il bosco e raggiungemmo la strada principale,poi,sotto il sole che picchiava sopra le nostre teste,ci incamminammo lentamente verso una meta sconosciuta,passo dopo passo sul ciglio della strada. Col passare del tempo la vista mi si sfocava sempre di più ed i piedi si muovevano a zig zag. La stanchezza giocava brutti scherzi e,in quell'esatto istante,mi sembrava di camminare in un cocente deserto senza fine. Acqua. Acqua. Acqua. Non riuscivo a far altro che pensare a dell'acqua. Era il mio pensiero primario,che come fosse pieno di un'assurda mania di protagonismo,occupava la mia intera mente. Non mi curavo più neppure di Brittany,che era costretta a rallentare il suo passo per restarmi al fianco. Ogni tanto mi parlava,per non far calare la mia attenzione,ma la sua voce era come un inutile ronzio nella mia testa e non afferravo con esattezza le sue parole.

«Dobbiamo fermarci!» riuscii a sentirle dire «Credo che Santana non ce la faccia più».

Scossi la testa ed ingoiai della saliva inesistente «sto..sto bene!» biascicai esausta.

Brittany mi fermò per un braccio «No,non stai bene. Siediti un po' o rischierai di svenire. Non hai dormito questa notte e non hai un briciolo di forze...sei pallida,San».

Non risposi e mi lasciai andare a terra,con le gambe che mi cedevano per il tremolio nei muscoli «ce la faccio,sto bene».

Brittany non badò alle mie parole e si sedé al mio fianco. Mi accarezzo una guancia lentamente e mi prese il viso tra le mani «ti amo,ma non fare la testa calda» sussurrò sulla mia pelle.

Sorrisi «la mia testa non è calda,ma bollente»

Lei ridacchiò amaramente «lo so amore,lo so».

Restai seduta una decina di minuti,con lo sguardo fisso sul viso di Brittany. Non riuscivo a guardare altro. Lei era il mio faro. All'improvviso,però,sentii qualcosa : un rumore. Credevo che fosse un allucinazione causata dalla stanchezza e dalla sete e,invece,quando la vidi in lontananza,scattai in piedi come un felino.

«Cazzo!» urlò Noah,sbalordito «è una macchina!»

Non l'avevo immaginato!Quel suono era il rumore del motore di una macchina. Era reale. Una macchina.

«O mio Dio» biascicò Brittany.

«Dobbiamo fermarla!»

La vettura schizzava svelta come un fulmine sulla strada completamente vuota. Quando si trovò a qualche centinaio di metri di distanza da noi,iniziammo ad agitare le braccia,a saltare e a gridare.Eravamo disperati ed avevamo bisogno di aiuto. Se quella persona possedeva o era in grado di procurarsi una macchina,di sicuro aveva scorte di acqua e di cibo e un riparo sicuro dove stare. Dio,mi sembrava un miracolo.

«Aiutateci!» gridai con l'ultimo filo di voce che avevo,agitando le braccia assieme agli altri.

La macchina ci aveva quasi raggiunti ormai,ma non si apprestava a fermarsi. Non capivo,e all'improvviso smisi di urlare e di saltare. Perché non rallentava?

«Ma che succede?» chiese mio fratello.

«Brutta testa di cazzo» bofonchiò Alex.

Guardavo ancora il fuoristrada nero avvicinarsi veloce,pronto a schizzare via,quando all'improvviso Noah si gettò in mezzo alla strada.

«Puckerman!» gridai terrorizzata assieme agli altri.

Cinquanta metri. Trenta metri. Venti metri. Non potevo guardare.

«Noah!»

Lo stridio dei freni sforzarsi sino all'inverosimile e l'odore della gomma bruciata,mi costrinsero ad aprire gli occhi. Noah era immobile,tutt'intero,e il muso della macchina distava qualche decina di centimetri dalle sue ginocchia. Mi vennero i brividi.

«Puckerman,stai bene?» gridò Lucas.

Noah non rispose,continuava a fissare dritto di fronte a sé,attraverso il vetro scuro che nascondeva un altro raro essere umano. Quando Lucas camminò per raggiungerlo,noi altre lo seguimmo,curiose. Affiancammo Noah e,pochi secondi dopo,lo sportello dell'auto si spalancò con violenza.

«Ma ti ha dato di volta il cervello?!» urlò una ragazza,con un grosso fucile in mano «Cosa sei,un pazzo?!» continuò furiosa.

La canna del fucile si sollevo e la ragazza mirò alla testa di Puckerman. Eravamo tutti allibiti. Ma che stava succedendo?Prima ancora che potessi trovare una risposta,la portiera dalla parte del passeggero si spalancò improvvisamente. C'era qualcun altro dentro la macchina.

«Quinn,andiamo...» la richiamò un uomo dai capelli lunghi e biondi,con un forte accento inglese «non cominciare a dare di matto!» disse il tipo,con un'aria decisamente canzonatoria.

La ragazza stralunò gli occhi e lo guardò «e va bene» rispose arresa,abbassando il fucile «voi chi diavolo siete?»

Fissai un'ultima volta i due tizi e poi,come se fossi stata troppo esausta per giungere ad un'altra conclusione,decisi che ci avrebbero salvato la vita.

«Siamo un gruppo di sopravvissuti...» disse Noah,rompendo il silenzio che si era creato.

«Cavolo!» rispose la ragazza,sgranando gli occhi con finta sorpresa «Credevo che foste un branco di cervi che attraversava la strada!»

Allora,mi scappò un sorriso. Eravamo salvi. Per il momento,eravamo salvi e non riuscivo a pensare ad altro.


E rieccomi qui!Pensavate che vi avrei lasciati immaginare il resto della storia?Ebbene no! Si riparte,e si parte alla grande. Innanzitutto mi scuso con voi per questa pausa che ha inevitabilmente segnato la mia assenza dal sito. Spero,però,che siate contenti di riavermi di nuovo qui tra voi e,soprattutto,che questo capitolo vi sia piaciuto. Gente,abbiamo due nuovi ingressi nella storia,ed uno dei due personaggi possiamo dire di conoscerlo come le nostre tasche...ovvio è,però,che la Quinn che conosceremo nei prossimi capitoli è molto diversa da quella di Glee. La Quinn di 'Between the Hungry' è una Quinn che viene da un passato difficile e vive in un presente ancora più difficile ; se facciamo due più due,possiamo dire di conoscerne il risultato. Al suo fianco troviamo un altro personaggio che in questo capitolo resta nell'ombra,ma che conosceremo molto molto presto. Che altro dirvi,se non le solite cose? Fatemi sapere tutto quel che pensate,senza avere timore!Sono sempre curiosa di leggere i vostri pareri e di sapere se avete gradito o meno il capitolo. 

Alla prossima!Ci becchiamo nelle recensioni.

P.S. Ho deciso di interrompere la pausa,ma dovrete perdonarmi se non pubblicherò i capitoli a breve distanza l'uno dall'altro. Purtroppo per via di impegni ed un accavallarsi di situazioni,sono rimasta un po' indietro con la storia e devo rimettermi a lavorarci un po' su. Fatto sta che non mi dimenticherò certo di voi,e che ci ritroveremo in un prossimo capitolo.


Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2499604