L'uomo che ricordava

di Gnana
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** A (not) good meeting ***
Capitolo 3: *** Non prendermi in giro ***
Capitolo 4: *** Attrazione fatale ***
Capitolo 5: *** Zona Verde ***
Capitolo 6: *** E' troppo tardi per rimediare. ***
Capitolo 7: *** Pain Generator. ***
Capitolo 8: *** La fuga. ***
Capitolo 9: *** Sinonimo di Oscurità. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Voci ovattate; tutto sussulta. Mi sento sospeso… Debole, ma stranamente confortato da questa specie di illusione. E’ umido e tiepido; è comodo. Ma tutto sta cambiando e mutando, come se fosse vivo. E non sono piu’ al sicuro. Questa sensazione mi assale e mi dispera e improvvisamente ho terrore di quello che potrebbe succedere. E’ questa la realtà; è questo quello che mi aspetta veramente. D’un tratto si apre uno squarcio e tutto si svuota. Si sta sciogliendo, sgretolando, sta svanendo. E’ arrivata la fine, lo sento. Sono avvolto da una luce abbagliante che non ha provenienza, sembra eterna. E sento tanto freddo che fa male. Solo adesso mi accorgo del dolore che ho al petto. Mi comprime; è insopportabile. E allora piango lacrime di disperazione, di amara consapevolezza. Non posso piu’ raggiungere lo stato precedente. E mi illudo di fuggire dalla prigionia con le urla, sperando che qualcuno mi salvi. Ma nessuna delle mani che mi tocca mi dà la sicurezza che tanto agogno, né le voci che sento mi fanno sentire al caldo. Il nulla mi accoglieva, ma se esso svanisce, al suo posto cosa c’é?

 

“Ecco. Questo è quello che ho provato.”

Disse con voce pacata, consegnando il foglio.
Dopo aver letto con attenzione quello che c’era scritto, il criminologo lo guardò negli occhi con aria severa.

“E’ come me lo ero immaginato e come lo può immaginare chiunque. Ti rendi conto di cosa significa, no?”

“Certo: come al solito non mi crederà nessuno. Te l’avevo detto che era inutile.”
”Il mio intento non era quello di convincere gli altri, ma di convincere te. Scrivendolo su carta ti sarai reso conto, spero, che non puoi prenderci in giro.”

Il criminologo rimase con il fiato sospeso, in attesa della reazione, sperando di non essere incappato in una falla nel profilo psicologico di Alexander. Ma quello che ottenne fu:
“Mi complimento con te.”

“Tu che fai i complimenti a me?”

“Si, lo so, è strano. Per questo sto preoccupandomi della mia salute mentale.” Sorrise, ironico.

Si trovava lì da anni, sotto controllo, in una specie di clinica per pazzi criminali. Mentre riceveva le sue cure e affrontava le terapie, scontava la pena che il giudice gli aveva dato: Ergastolo. Lo stesso giudice lo aveva affidato a quella faccia con la bocca sottile che Alexander odiava tanto, solo perché le loro strade in passato si erano incrociate. E quella bocca meschina, da quel giorno, si fiondava nella stanza delle visite con periodicità e puntualità disarmanti.

Si sentiva continuamente sotto esame, braccato da ogni punto di vista, trattato come un pazzo.

Lo era.

Era quello il prezzo che doveva pagare per la serie di omicidi che aveva commesso nel corso della sua vita. Ma nonostante questo, si sentiva importante: era il piu’ odiato, ma anche il piu’ temuto dell’ istituto. La sua fama usciva addirittura da quei confini, la sua storia e il suo nome erano conosciuti in tutto il mondo.

Era l’unico umano sulla Terra a ricordare la propria nascita.

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Capitolo 2
*** A (not) good meeting ***


Capitolo 1.
 


Quando era giovane veniva spesso chiamato assatanato o mostro, ma lui non si sentiva così, anche se sapeva che in qualche modo era fuori dal comune. Una persona qualunque direbbe: “Uccidere è sbagliato e non lo farò” e non ammetterebbe mai, neanche a se stesso, di desiderarlo davvero in molte occasioni. Il più delle volte l’uomo non uccide perché é la morale che lo impone e le persone normali vivono di morale. Lui non era una persona normale, non voleva assolutamente esserlo. Per lui uccidere era la soluzione e spesso non la usava come ultima scelta.
Era un tipo fuori dagli schemi, ribelle, vedeva tutto come una partita in cui giocare le carte migliori e usare pedine, se necessario, e il suo trucchetto era familiarizzare sempre con la preda o con il nemico, come stava facendo adesso.
Non gli dispiaceva poi così tanto sedersi davanti a Bill, quasi ogni giorno, e intraprendere il solito botta e risposta. In tutti quegli anni aveva imparato a guardare il lato positivo e decise di vedere quelle sedute come un allenamento per la sua intelligenza, inoltre alimentava il suo ego. E poi si divertiva a vederlo sempre più frustrato dalla sua tenacia. D’altra parte, però, spesso si sentiva frustrato a sua volta perché quel suo passatempo non perdeva occasione per rendergli i minuti e le ore che passavano insieme difficili.
Bill scavava dentro come nessun’altro aveva mai fatto prima, sapeva capire le cose più piccole e frivole, scoprire tutte le sfaccettature e le sfumature quasi invisibili del suo modo di ragionare e, un pizzichino alla volta, lo stava rivoltando come un calzino. Lo studiava e ci metteva un sacco di determinazione, forse più di quanto poteva sopportare. Sembrava ossessionato, un malato di mente anche lui.
Alcune volte lo poteva sorprendere mentre lo fissava e sorridere. Non voleva ammetterlo, ma era inquietante. Era un uomo tutto d’un pezzo, con la testa sulle spalle e tutti pensavano, probabilmente, che questo derivasse dal fatto che fosse al servizio della giustizia; in realtà, anche Alexander, dotato di grande intelligenza e spirito di osservazione, aveva conosciuto abbastanza a fondo il suo strizza-cervelli e sapeva che c’era qualcosa di meschino e malvagio.
Percepiva la sua anima oscillare tra la vita e l’inferno. Gli ricordava se stesso.
Gli ricordava la sua non più tanto vicina gioventù, quando ancora era immaturo e impulsivo.
Viveva con quello che trovava, alla giornata. Rubava, rapinava e ingannava le persone per entrare nelle loro case e avere il lusso di dormire su un letto caldo o farsi una doccia.
Quando non aveva questi privilegi, era un vagabondo, ma non amava definirsi tale, né senzatetto. Era solo un nomade che cercava fortuna e nel suo bagaglio portava solo odio e presunzione.
Come quasi ogni intellettuale odiava gli uomini in generale, la stupidità umana, i costumi, le convenzioni sociali, le menti chiuse che popolavano gran parte della Terra e che, cosa peggiore, la avvelenavano. Con gli anni aveva imparato ad accettare la sua esistenza, a trovare il suo posto e a scovare persone abbastanza accettabili. Aveva imparato anche che l’odio poteva essere covato, accudito, fino a quando non diventava una specie di sciroppo che scivolava tra le vene; in questo modo poteva controllarsi e raggiungere più obiettivi, rendere freddo il suo sangue, insomma.
Era diventato l’uomo che sedeva ora su quella sedia e guardava gli occhi così azzurri che gli stavano di fronte. Era diventato più saggio, più calcolatore e aveva imparato a stare lontano dai guai.
Solo che non si poteva cancellare il passato, così un giorno la polizia lo trovò e lo trascinò lontano dal suo rifugio sotto un ponte, fatto di coperte e qualche scatola di fagioli che durante l’arresto rotolarono fino al fiume. Lo avevano preso, ammanettato e addirittura imbavagliato, come se la sua voce potesse essere un pericolo. Non si era ribellato, si rendeva conto che la sua vita prendeva sempre una piega diversa da quella che immaginava e così decise di affrontare quello che gli sarebbe capitato senza paura.
Gli occhi che stava osservando, quelli di Bill, sembravano una voragine sul suo passato. Poteva intravedere l’odio, la sofferenza e anche un po’ di paura. Ed era proprio quella che gli impediva di ridere di lui. Non si sentiva un uomo di cui avere paura: lui faceva male soltanto a chi doveva e a chi voleva. E lui non gli interessava. Probabilmente, però, sarebbe stato incomprensibile a chiunque non vivesse nella sua testa. E’ difficile capire e fidarsi di un famoso killer dalla fama mondiale.
Bill aveva una carnagione lattiginosa, capelli di un biondo talmente chiaro da sembrare quelli di un albino; sembrava tanto fragile, ma Alexander sapeva che nascondeva una iena dentro di sé. Continuava, però, a sbattergli in faccia la sua sicurezza, senza fargli capire che almeno un po’ lo stimava.
I suoi capelli biondi erano diventati un po’ più scuri e radi della prima volta in cui si erano visti, le sue mani più tremolanti e le sue occhiaie più profonde. Non gli interessava la sua salute, ma continuava a chiedersi perché sembrasse tanto ossessionato da una persona ormai in trappola e completamente innocua.
Il processo legale é stato lungo e abbastanza noioso, durante il quale non aveva dimostrato il minimo interessamento o partecipazione, aveva lasciato carta bianca al suo avvocato, che non aveva potuto fare molto per lui. Aveva avuto la sua dose di ramanzine, facce dure, sguardi spaventati, ma poi si era risolto tutto. Lui era confinato lì, in una prigione per pazzi, e ci sarebbe rimasto per tutta la vita, quindi perché darsi tanto da fare per continuare a indagare su cose di cui la legge non importava affatto?
Poteva capire che in una persona debole certe azioni possono trasformarsi in traumi irreversibili, ma Bill non lo era. Quindi c’era qualcos’altro sotto quella corazza, magari un segreto, ed era disposto a scavare per trovare delle risposte. Tanto ce n’era di tempo. Aveva ancora tutta la vita da passare lì.
Alexander interruppe i suoi pensieri quando si accorse che Bill lo guardava accigliato.
“Terra chiama Alex.”
Alexander colse subito l’occasione per prenderlo in giro. Alzò l’indice posandolo sulle labbra, mise l’altra mano attorno all’orecchio e bisbigliò: “Non lo senti anche tu?”
Bill si accigliò ancora di più.
“Che cosa c’é?”
“C’é una voce roca e inquietante.”
Fece una pausa guardandosi attorno con aria sospetta, poi puntò gli occhi su Bill e la sua espressione diventò delusa e annoiata.
“Oh, scusa, sei solo tu.”
Bill distolse lo sguardo indignato.
Alexander si ricompose e si stampò il solito sorriso enigmatico in faccia. Bill non sembrava molto contento, ma stava cercando di tornare al suo ruolo autoritario, senza riuscirci granché.
“Maledetto quel giorno.” Mormorò Bill tra i denti.
Qualcun altro non avrebbe fatto caso a quelle parole, ma Alexander sapeva di cosa stava parlando. Quel giorno era il giorno in cui la sua vita cominciò a cambiare piano, in cui vide se stesso come se fosse la prima volta e in cui vide un altro se stesso parlargli e odiarlo.

Il finestrino di una macchina gli rimandava un’immagine niente male: capelli neri, corti e spettinati; il viso era privo d’imperfezioni, con una leggera barba, ma la cosa che più gli piaceva erano gli occhi: grandi e azzurri come il cielo.
Se avesse voluto spostare lo sguardo più in là, invece, avrebbe visto uno sbruffone. Se avesse voluto spostare lo sguardo più a fondo, invece, avrebbe visto un pazzo. Gli venne da ridere e continuò a camminare.

Era sera e stava su un marciapiede logoro e sporco, dove finivano sempre i poveri senzatetto e i cani moribondi, ma non gli importava. Continuava a camminare a testa bassa e ad analizzare ogni dettaglio dell’asfalto e della sporcizia, lo prendeva come un nodo al fazzoletto: gli ricordava che ormai la sua vita non poteva chiamarsi tale, stava male e doveva scoprire dove sbagliava, altrimenti sarebbe finito morto anche lui su quel marciapiede come un cane.
Forse erano le relazioni umane il problema alla radice di tutto? O forse era la relazione con se stesso? Decise di lasciare le riflessioni importanti ad un altro momento, perché il suo stomaco gorgogliava e non aveva soldi con sé. Setacciò con lo sguardo ogni locale o bar della strada e lo vide. Era seduto, vicino alla vetrina e sembrava stesse discutendo con qualcuno al telefono. Decise che sarebbe stata la sua prossima preda perché sembrava ricco.
Al diavolo le relazioni umane.

Si sedette ad un tavolo alle sue spalle, in modo da osservarlo senza essere scoperto. Stava parlando al telefono con la sua fidanzata.
“Si, amore, non preoccuparti, non farò tardi, lo sai che il lavoro mi tiene occupato... Va bene, ti amo anch’io, ciao.” Chiuse la chiamata e sbuffò.

“Ah, le donne. Petulanti, molte volte, ma sempre nostre compagne di vita.”
Il ragazzo biondo platino si girò di scatto, sorpreso. Alexander gli sorrise, fingendo di voler essere gentile. Si alzò e con calma si andò a sedere al suo stesso tavolo, proprio di fronte a lui. Il ragazzo biondo platino sussultò leggermente, come se non si fosse accorto della sua presenza fino a quel momento. Vedendoselo lì davanti, indifeso, gli ricordava qualcuno.

“Mi chiamo Alexander.” Disse con un sorriso. “Ma puoi chiamarmi Alex.”
“Bill, molto piacere.” Fece con aria un po’ perplessa.
“Scusami se ti sembro invadente, volevo solo un po’ di compagnia.”
“Meglio così: ho ordinato dieci minuti fa, ma ancora nessuno mi si é avvicinato.”
“Beh, mi sono avvicinato io, no?”
Parlò con disinvoltura, come se Bill fosse un fratello.
“Quanti anni hai?” Disse Alexander, per rompere il ghiaccio. “Scommetto che sei più piccolo di quanto immagino.”
“Lo devo prendere come un complimento?”
Alexander non rispose, ma era contento che il ragazzo si stesse sciogliendo.
“Tu quanti me ne dai?” chiese Bill, interessato.
“Trenta.”
“Wow, troppi.” Fece Bill con un sorriso. Evidentemente lo prendeva come un complimento.
“Beh, a volte il mio intuito fa cilecca. Però un tempo ero molto bravo a indovinare le cose.”
“Parli come se fossi già vecchio.”
“Mi sento già vecchio, infatti.”
Alexander gli mostrò un sorriso triste e senza inganno. Era l’unica verità che aveva pronunciato. Bill sembrò essere colpito da quelle parole e si rintanò per una manciata di secondi nei suoi pensieri, poi ritornò vigile.
“Perché non andiamo a mangiare da un’altra parte?”

 
Passeggiarono per un po’ mentre la conversazione si interrompeva in più punti, perché Bill era ancora un po’ imbarazzato. Entrarono in una pizzeria italiana che Bill aveva consigliato perché c’erano pizze di tutte le forme. Per trovare posto dovettero aspettare un po’, ma alla fine un cameriere si avvicinò e li fece accomodare ad un tavolo già prenotato, ma poi disdetto all’ultimo minuto.
Dopo un paio di pizze e un paio di birre cominciarono a parlare di più.
“Quella a telefono era tua moglie?” gli chiese Alexander.
“No, per carità! Mi fa ribrezzo.”
Alexander fece spuntare un ghigno di scherno sulla sua faccia.

“E allora perché le hai detto ti amo?”
“Mi vergogno un po’ a dirlo a un estraneo, ma… organizzo truffe. E questa è una di quelle che mi porterà tanti bei soldi nella mia un po’ consumata tasca.”
Alexander si sentiva a disagio. Pensava di abbordare un tipo insicuro e facile da gestire.
Poco tempo prima era così, infatti, poi è cambiato completamente diventando spavaldo e sicuro di sé. Diede la colpa alle birre. Quasi gli piaceva.

“Quindi le stai spillando solo i soldi.”
“Esatto. Al momento opportuno la manderò a quel paese e farò sparire le mie tracce, come faccio di solito.”
Arrivarono altre due birre e Bill parlava, parlava e parlava.
“…era talmente ubriaco che mi rispose che non potevano esistere i vulcani al nord perché faceva troppo freddo!”
Cominciò a ridere a crepapelle e aveva le guance rosse, probabilmente aveva bevuto troppo. Alexander non ne poteva più e decise di agire.

“Ti va se mi accompagni a casa?”
Bill lo guardò perplesso e Alexander si rese conto di averlo interrotto mentre stava cominciando un altro racconto.
“Oh, scusami. Troppa birra mi da alla testa e non riesco a connettere.”
Finse un sorriso timido e Bill ci cascò.

Uscirono dal ristorante e camminarono per un paio di isolati e Alexander si accorse che il suo compagno aveva riassunto il carattere di quando gli aveva parlato al bar. Perciò non erano le birre, ma era lui che faceva di tutto per sembrare l’uomo più forte d’America. Cercò di attaccare bottone, ma ogni domanda, ogni tentativo veniva respinto da una risposta superficiale. Si rese conto che quello che aveva visto all’inizio, non era timidezza o imbarazzo, ma diffidenza, quasi paura. La stessa che vedeva anche in quell’istante e non poteva fare a meno di domandarsi che cosa stesse succedendo e perché nel ristorante aveva finto il contrario.
Questa situazione puzza quasi quanto me.

“Bill, da questa parte.”
Indicò un vicoletto buio in mezzo a due palazzi dalle scale antincendio ammaccate. Era notte e in quella strada non passava mai nessuno, non c’era pericolo di essere scoperti.
“Davvero abiti qui?”
Vide negli occhi di Bill un guizzo e decise di agire subito. Improvvisamente la sua natura tranquilla e amichevole si trasformò in quella di un mostro. L’espressione si fece cupa e guardò con occhi gelidi Bill, mentre sfoderava un pugnale.

“Mi sono accorto che ti sono rimasti parecchi soldoni nel portafogli. Hai voglia di darmeli?”
Bill cercò di scappare, ma Alexander fu più veloce e lo immobilizzò cingendogli il collo con il braccio e minacciandolo con l’arma da taglio. Bill riuscì a bloccare la mano che manteneva il pugnale e la morse, contemporaneamente riuscì con il tallone a colpirgli lo stinco. Una volta liberatosi del braccio intorno al collo, si voltò, ma Alexander, nonostante il morso, aveva tenuto stretto il pugnale e con esso gli ferì il braccio. Bill, ignorando il dolore, diede un calcio alla mano facendo finalmente cadere l’arma, dopodiché gli diede un pugno ben assestato al volto che lo fece cadere a terra. Si avventò su di lui e cominciò una raffica di pugni che impedirono ad Alexander di reagire, finché non svenne. 


NdA
Questo, credo, é il primo capitolo definitivo. Ho revisionato tante volte quasi tutti i capitoli, ho stravolto la storia e ho caratterizzato meglio i personaggi ma non sono ancora soddisfatta, probabilmente non lo sarò mai, perciò... recensite, ditemi se vi piace, se devo cambiare qualcosa, anche se fa schifo, non mi offendo! C:

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Capitolo 3
*** Non prendermi in giro ***


ATTENZIONE: i capitoli sono in via di revisione quindi se magari trovate qualcosa che stona vuol dire che devo ancora sistemare gli eventi in modo decente

“Ora perché non mi parli un po’ del tuo modus operandi?”

“Bill, smettila di chiamarlo così. Mi irrita.”

“Parlamene lo stesso.”

“Vuoi farmi scrivere anche questo cosicché vedendolo su carta aumenti la mortificazione?”

Il sentimento di odio era reciproco.

Prese coraggio: “Allora facciamo in questo modo: io leggo i rapporti dei tuoi omicidi e tu mi dici cosa è vero e cosa è falso.”

La risposta fu il silenzio.

“Cominciamo con il caso n. 1; 1995: Adele Wood, 21 anni, originaria degli USA, madre brasiliana e padre statunitense. Vita mediocre, studentessa… Oh, ma guarda! Ragazza madre!”

Bill notò sott’occhio un movimento strano da parte di Alexander, quasi un sussulto. Decise di andare avanti.

“E’ morta annegata in un liquido amniotico artificiale. Del bambino te ne eri accorto visto che hai eseguito un aborto prima di ucciderla. Le foto, credimi, sono raccapriccianti. Come mai tutta questa violenza?”

“Non è stata violenza, ero calmo.”

“Assassinio a sangue freddo, quindi. Lavoro pulito. Passiamo al caso n. 5; 2003: Marie Powell, 28 anni, Massachusetts. Vita movimentata grazie alla droga, arrestata un paio di volte per spaccio di erba, orfana all’età di 17 anni è stata in orfanotrofio fino alla maggiore età, dopodiché si è sistemata, fino a quando non ha trovato te. Bello, vero?”

Un grugnito.

“Wow. Tortura dell’acqua.”
“Come?”

“Tortura dell’acqua. Si usava nel Medioevo. Le hai fatto ingurgitare una tale quantità d’acqua da fargli ingrossare l’addome. A mò di donna incinta. La pressione dell’acqua le ha fatto comprimere gli altri organi e infine le ha lacerato lo stomaco.”

Nel silenzio Bill lo guardava negli occhi, ma lui non si mosse. Aveva un’espressione dura.

“Caso n.8 – l’ultimo – 2012: Albert Scott, 40 anni, avvocato, famiglia numerosa, rispettato da tutti. Viene accusato di pedofilia, ma non si riesce a condannarlo e quando esce dal processo ci sei tu che lo aspetti. E’ il caso piu’ truce di tutti, te lo ricordi? L’hai spogliato, l’hai rinchiuso in una cella frigorifera, l’hai legato ad un palo. Hai rotto un tubo dell’acqua in modo che spruzzasse sulla sua faccia, hai abbassato la temperatura della cella al minimo e sei scappato. Probabilmente con le sue urla nelle orecchie. Scommetto che non sai se é morto annegato o congelato. Beh, è annegato.”

Altro silenzio. Bill posò la cartellina sul tavolo e lo guardò.

Alexander parlò: “Già finito?”

“Si, avevo intenzione di dirti solo questi tre.”

“E come mai?”

“Ho una teoria. Questi omicidi hanno un significato, segnano un passaggio da una fase all’altra della tua vita, segnano un cambio di pensiero che porta a comportarti in modo diverso.”
L’espressione di Alexander era crucciata.

“Ora arrivano i vero o falso piu’ importanti: secondo me il caso n. 1 non è stato un omicidio premeditato, anche se i fatti lo dimostrano. Adele Wood era la tua fidanzata…”

Mentre pronunciò queste parole vide gli occhi di Alexander spalancarsi. Aveva fatto centro: nessuno indagando si era accorto che quello era il suo primo amore e che era il punto di partenza. Era l’unico non premeditato, ma il risultato lo ha spinto a uccidere ancora e con piu’ criterio.

“…e la amavi tanto. Scoperto che era incinta non riuscivi ad accettare il fatto che tuo figlio avrebbe avuto il tuo stesso trauma ed eri arrabbiato con lei perché aveva osato dare la vita, che per te non è un dono. E’ nato tutto da un momento di ira. Niente premeditazione. Vero o Falso?”

“…Vero.” Disse con voce tremante di rabbia.

Bill sperò con tutto se stesso che non scoppiasse, doveva arrivare fino in fondo.

“ Da quell’omicidio hai cominciato a prendere di mira le donne incinte e il caso n.5, mio caro, è l’unica non incinta. Tutti sostengono che tu abbia sbagliato persona, ma io non ci credo. Dimmi la verità.”

“Non vale, eravamo d’accordo sul vero o falso.”

“Andiamo avanti. L’ultimo caso è l’unico maschio ed il fatto che sia pedofilo mi fa pensare che sia stata la causa della sua morte. I miei colleghi mi dicono che questo omicidio non c’entra niente con gli altri, io gli rispondo che invece è perfettamente coerente. A te fanno pena i bambini, fa rabbia sapere che soffrano. Per questo li hai uccisi prima che nascessero e per questo hai ucciso Albert: affinché faccia male a nessun’altro bambino.”

Bill si accorse che Alexander si era calmato. Come previsto non aveva preso male le sue parole, poiché il suo egocentrismo gli diceva che quello che aveva fatto era un atto caritatevole ed era giusto nonostante qualsiasi parere.

“Vero o falso?”

“Vero.”
Disse con uno strano sorriso. Era soddisfatto di quello che aveva commesso.

Ora posso dargli il colpo di grazia.

“Ora farai tu un vero o falso a me.”

Alexander inarcò il sopracciglio.

“Tu adesso mi dici se pensi che io creda al foglio che mi hai consegnato prima, oppure no. E io ti dico se è vero o falso.”

“Ovvio che non mi credi. Vero o Falso?”

Sta al gioco…Bene.

“Ti rispondo dopo che mi hai detto del caso n.5.”

“Bastardo.”

 

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Capitolo 4
*** Attrazione fatale ***


Quel giorno era cupo. Il solito giorno invernale. A Marie piaceva tanto l’inverno.

E anche i giorni cupi.

Proprio questa indole la portò a drogarsi. Non tanto per il divertimento che procura l’erba, ma lo stato in cui entrava una volta passato l’effetto: si incupiva.
Non aveva un motivo, oppure aveva tanti di quei motivi che il suo cervello non sapeva scegliere.
Si era sempre distinta dai suoi compagni, eppure era legata ad ognuno di loro. L’orfanotrofio le aveva insegnato il lavoro di squadra, l’amore, la famiglia.
Quella che aveva non era di grande esempio, ma non biasimava i suoi genitori. Avevano provato a comportarsi bene, semplicemente i caratteri erano completamente incompatibili.
Anche loro drogati, di droghe pesanti, per questo sono morti.

Ma oltre l’erba c’era qualcos’altro che la incupiva: i ricordi.
Quale giorno migliore di questo per ricordare? Pensò.
Il ricordo piu’ cupo risaliva a poco piu’ di un mese prima, quando assistette a uno spettacolo agghiacciante: un omicidio.

Era quasi l’una di notte. Il cielo era limpido quindi qua e là si potevano scorgere delle stelle, cosa rara per via della tanta illuminazione che c’era in città. Con calma era andata via dal suo appartamento, indossando il suo cappotto preferito e portando con sé la sua borsa speciale, sempre piena di “roba”. Dieci minuti di cammino ed era arrivata a destinazione. Il parco a quell’ora era ovviamente chiuso, ma lei si intrufolava spesso per fare una passeggiata notturna all’interno. Telecamere non ce n’erano e la disposizione della grata del cancello verde scuro le dava la possibilità di scavalcare facilmente.
Con un balzo arrivò dall’altra parte e cominciò a dirigersi verso una panchina. Si sedette e prese la sua “roba”. Mentre fumava tranquilla sentì qualcosa di strano, dei gemiti provenivano da qualche parte.

Possibile che qualcuno venga a fare sesso qui dentro?

Il parco era poco sicuro e poco curato, si chiese a quale malato di mente era venuta questa idea.
Non voleva farci caso e fumare la sua canna in santa pace, ma c’era qualcosa in quella voce che non andava. Era soffocata e non sembravano gemiti di piacere, poi ad un tratto si fermò di colpo.
Marie preoccupata ogni secondo di piu’ si alzò e andò verso dove proveniva la voce. Si era ricordata che c’era una specie di baracca abbandonata lì vicino, tempo prima doveva essere adibita a bagno. Era lì che era diretta, e dove credeva provenisse la voce, ma era fuori al parco, così dovette scavalcare di nuovo la cancellata verde.
Si mosse con velocità, ma con cautela, decisa a scoprire cosa stesse succedendo.

Proseguì sul marciapiede, poi svoltò in un vicolo nel retro del parco, sorpassò alcuni alberi e cespugli. Ormai era vicina.
Sentì dei passi avvicinarsi, non fece in tempo a girarsi e a correre che subito un uomo la bloccò con le sue possenti braccia e le mise una mano sulla bocca. Marie voleva gridargli di lasciarla andare, ma riuscì a biascicare solo poche sillabe.
L’uomo parlò in fretta:

“Senti, carina, non so cosa tu ci faccia qui, ma non mi fa per niente piacere.”
Disse seccato, poi cambiò tono.
“Ti prego, non avere paura, non ti farò del male, quella donna lì a terra è solo svenuta. Per rapinarla l’ho addormentata con l’acohol. Tutto qui, non è successo niente. Niente violenza, niente stupri, niente omicidi. Volevo solo un po’ di soldi per mangiare, non ho nulla neanche io, quindi per favore… Adesso ti libero, ma non urlare e non scappare. Ti prego.”
Marie si era immobilizzata, non si ribellava piu’. Piano, piano sentì la pressione sulla bocca allentare e anche la morsa delle braccia. Quando fu totalmente libera prese un bel respiro e lo guardò. Aveva un aspetto trasandato, era della sua età, forse.

Cosa ci fa uno così giovane in mezzo alla strada, senza cibo e senza un soldo?

Non ci badò, stava pensando alla fuga.
Con uno scatto andò nella direzione opposta, verso la strada. Sotto l’occhio delle persone che passavano, grazie al cielo anche a quell’ora, non le avrebbe potuto fare niente.
Lo sconosciuto la richiamò:

“No! Ti prego, non andare via! Mi sento solo!”

Marie smise di correre e per un bel po’ di secondi rimase lì immobile a guardare lo sbocco che dava sulla strada, incerta sul da farsi. Un altro richiamo la costrinse a girarsi.

“Ti prego.” Disse il ragazzo con voce flebile.

Dannazione.
Lentamente si voltò. Il suo viso era contratto in un’espressione dura. Stava combattendo con sé stessa per non fare stupidaggini, ma quella era la sua natura.
“ Senti, carino, non so cosa tu ci faccia qui, ma non mi piace per niente.”

Disse, imitando la voce dello sconosciuto. Fecero entrambi un sorriso amaro, poi Marie riprese:

“Posso farti compagnia e posso darti un posto dove stare. Ma guai a te se mi derubi o mi fai del male!”

“No di certo! Non farei del male a chi mi ha salvato la vita.” Rispose con un sorriso smagliante.

Marie si rese conto di quanto fosse bello.
Entrambi camminarono fianco a fianco, diretti all’appartamento della ragazza.
Marie non si accorse che il corpo della donna aggredita era immerso in una pozza di sangue.
 
Ora, Marie, si trovava nel suo bagno a piangere sul latte versato, cosa che non faceva piu’ da quando aveva conosciuto i suoi compagni dell’orfanotrofio. L’incontro con Alexander non le aveva gioviato, anzi, l’aveva riportata ai tempi bui di quando spacciava.
Si dice che le prigioni sono state inventate per punire e per rettificare il comportamento, ma a lei è servito solo a essere sempre piu’ consapevole del fatto che fosse una merda. Era una fallita, nessuno l’amava, i suoi genitori non la ascoltavano.

Lo specchio le rimandava il viso di una ventottenne stanca, aveva gli occhi infossati e spenti.
Ma doveva fare una cosa, prima di far riposare la sua mente e la sua anima. Quella sera si sarebbe liberata del peso che portava.
Alexander bussò alla porta del bagno.
“Marie, non vorrei disturbare. Ma puoi mettere a tacere la tua vanità e fare in fretta?”
“Si, arrivo.” Rispose con voce stanca.

Diede un ultima occhiata allo specchio, poi uscì.
“Alex, ti aspetto in cucina, devo dirti una cosa importante.”
Alexander le rivolse uno sguardo incerto e fece un cenno di assenso prima di chiudere la porta.
Marie si sedette sulla sedia in cucina, spense la Tv che le dava fastidio e si voltò verso la porta-finestra che dava sul terrazzino.
Il tramonto le era sempre piaciuto, la incupiva.

Pensò a quanto era sfortunata. Ventotto anni e gli unici anni felici erano quelli dell’orfanotrofio.
Prima di quegli anni, l’unico ricordo felice, una vacanza col suo adorato fratellone.
Una fitta al cuore.

La sedia di fronte si mosse. Alexander si era seduto, aveva i gomiti sul tavolo e le mani incrociate, come se stesse pregando. Sembrava preoccupato.
“Allora?”
“Alex… Voglio che tu sappia che sono ancora disposta a darti una mano, ma c’è una cosa che non mi fa dormire serena.”
Fece una pausa per riordinare le idee.
“Dal primo momento che ti ho visto, anche se avevo terrore di te, ho provato attrazione nei tuoi confronti.” Vide un sorrisetto sul volto che gli stava di fronte. 

“Quando mi hai tenuta stretta e mi hai parlato di quella donna, io ti ho creduto ciecamente.”

Per la prima volta i loro sguardi si incrociarono, fu in quel momento che Marie prese coraggio.

“Alex, io so dell’omicidio.”

Alexander scoppiò a ridere. Poi sbuffò e assunse un’aria triste, infine disse:
“Ci credi davvero? Pensavo mi avessi creduto ciecamente.”

“Non fare come se stessi delirando!”

“Ma tu stai delirando!” Esclamò.

“Il giorno dopo, il notiziario ha annunciato la morte di una donna proprio nel vicoletto in cui ti ho visto! E’ stata ritrovata per terra in una pozza di sangue! Ora non azzardarti a dire che è una coincidenza, altrimenti ti tiro un pugno sul naso!”

Ci fu un momento di silenzio che parve un’ eternità. Poi i due, che si erano scomposti a causa dell’agitazione, si rimisero in una posizione tranquilla e si guardarono negli occhi.
 Alexander socchiuse le labbra, con l’intenzione di parlare, ma non lo fece; posò le mani sul tavolo e con calma si alzò dalla sedia, poi fece per andarsene ma fu trattenuto dalla voce tremante della ragazza. 

“Mi hai preso in giro per un mese… Un fottutissimo mese!” 

Si vedeva che Alexander stava soppesando per bene la situazione, per trovare una via d’uscita, stava cercando di trovare la strada giusta.

“Non è stato difficile prenderti in giro! Sei così ingenua. Mi meraviglio che solo dopo un mese hai deciso di dirmelo, ti facevo piu’ debole. Ma ormai è fatta. Tanto vale che me ne vada.” 

Dicendo queste parole sbattè la sedia al suo posto e fece per andare in camera. Aveva intenzione di preparare tutta la sua roba in una borsa e scappare il piu’ lontano possibile da lì.
Venne bloccato sulla soglia della porta da una mano piccola e fredda, ma forte che lo costrinse a girarsi. 

La rabbia dei buoni, pensò Alexander.

“Io non ho finito con te! Adesso rimani qui mentre io chiamo la polizia.”
Fu allora che Alexander si accorse del cellulare che aveva appoggiato all’orecchio.
 Non ci pensò due volte e le diede un pugno nello stomaco, lei cadde rovinosamente assieme al telefono, che si ruppe. Marie aprì la bocca per urlare, ma Alexander già gli aveva dato un calcio al cranio che la fece perdere i sensi; dopodiché la trascinò in bagno e la chiuse all’interno da fuori. 

Asciugatosi dalle gocce di sudore, si avviò tranquillamente verso la sua stanza.

“Stupida.

  vvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvv

Riuscite a dire Raxacoricofallapatorius per dieci volte?

 

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Capitolo 5
*** Zona Verde ***


“Dammi almeno un buon motivo per dirtelo.”
“Semplice, amico. Quello che mi dirai non ti nuocerà, non graverà sulla tua situazione: è solo un approfondimento. Oppure prendila come una mia curiosità. In effetti sono fottutamente curioso!”
Pronunciò l’ultima frase accompagnandola con una risata quasi isterica.
Alexander pensò che forse i pazzi lì dentro ne erano due.
“Senti, Bill, mi farebbe tanto piacere continuare a parlare con te e magari prenderci anche un tè, ma l’orario delle visite è finito.” Disse frettoloso e ironico.
“Come fai a saper..”
“Professor Simon.” Lo interruppe una voce autoritaria ma gentile. “Il tempo è scaduto, la accompagno?”
“ No, John, grazie.”
Disse con tono annoiato alla guardia a cui non degnò nemmeno uno sguardo, perché era impegnato a studiare l’uomo seduto davanti a lui.
Alexander aveva un sorrisetto di scherno che irritò molto Bill, il quale prima di dirigersi verso la porta gli rivolse un’occhiataccia.
Bocca-meschina scomparve e Alexander sentì due forti braccia che lo aiutavano ad alzarsi dalla sedia, poiché le manette ai polsi e alle caviglie non gli permettevano movimenti fluidi.
Iniziò la camminata nel corridoio che piu’ odiava, anche se lo conosceva a memoria.
Lo faceva quasi tutti i giorni. Dalla sua cella alla stanza e viceversa.
La “galleria”, lo chiamavano, perché era lunghissimo e scuro e il soffitto era molto alto.
Era l’unico passaggio che divideva le celle dalla zona amministrativa. Ai detenuti era permesso attraversarlo solo per andare in sala visite. Perfino la mensa e il cortile si trovavano al lato opposto, nel retro dell’istituto.
Nonostante le manette, le tuniche arancioni contrassegnate da numeri e le sbarre, quel posto non sembrava una prigione. Le celle erano abbastanza larghe ed ospitali, con un cucinotto e uno o piu’ letti con materassi comodi e lenzuola sempre pulite. Anche i bagni erano in ottime condizioni, a parte qualche volta in cui in tutto il piano si sentiva una puzza insopportabile.
Era Bobby, il povero stitico che non andava spesso in bagno, ma quando ci andava lo dovevano sapere tutti.
Alexander si trovava bene lì, forse non era mai stato meglio. L’ambiente non era dei migliori: tutti erano pazzi, chi piu’ chi meno. E lui era uno di quelli.
Si volevano tutti bene in fondo. Anche il personale di sorveglianza e quello di pulizia andavano d’accordo con quasi tutti i detenuti, pur mantenendo un atteggiamento autoritario e distaccato.
Non sembrava una prigione perché non era quella la vera prigione.
Lì c’erano tutti i casi meno gravi, i criminali meno pericolosi. Ma c’era una zona dell’istituto che veniva vista con terrore e raccontata come se fosse una leggenda. In effetti quello che succedeva lì era un mistero. Era una zona completamente a parte, divisa dal resto dell’edificio.
Lì c’erano le celle di isolamento, le sale in cui legavano i pazienti impazziti ai letti e dove iniettavano nelle vene sostanze che i detenuti della “zona verde” non volevano neanche immaginare. Tutti avevano paura di quel posto, ma nessuno aveva paura che potesse andarci. Appunto, pazzi.
“Si dice che facciano anche degli esperimenti lì giù!”  Disse Bobby lo stitico, intento a spiegare ad un nuovo arrivato della cella di fronte  l’esistenza della “zona morte”.
“Ma stai zitto! Non dire stupidaggini, è solo un ragazzo.” Esclamò Ian in una cella poco distante dalla sua.
In effetti Alexander aveva notato che il ragazzo era impressionato, ma decise di non intervenire. Si divertiva a sentire quei due che bisticciavano.
Andò a stendersi sul suo letto a riflettere sul discorso che gli aveva fatto Bill.
Aveva ragione, aveva perfettamente ragione.
Non si spiegava come aveva fatto a scoprire della sua vecchia fiamma o come era arrivato a quelle conclusioni, fatto sta che aveva indovinato tutto. Aveva fatto in tempo, però, a salvare almeno due dei suoi segreti: il perché uccideva e Marie.
Sapeva, però, che era questione di tempo e Bill avrebbe continuato a spremerlo.
Si era sempre chiesto come mai, nonostante fosse condannato e per tutto il mondo fosse un mostro, lui doveva ancora subire quelle torture.
Non cambiava niente se quella che aveva ucciso era la sua fidanzata oppure no, eppure Bill lo voleva sapere. Talmente tanto che aveva perso qualche nottata per indagare, l’aveva capito dalle grosse occhiaie.
Possibile che lo faccia per vendicarsi di quella notte? Possibile che sia così immaturo?
Un rumore di chiavi gli fece spostare gli occhi dal soffitto alla porta a grate. Un agente di turno alto e robusto stava aprendo la cella per fare spazio a un uomo.
Bassino per la sua età – 34 anni – con capelli lunghi e neri che sembravano sempre unti, e forse lo erano davvero. Era muscoloso e con un ossatura grossa, un tipo col quale dovevi stare attento a non fare a botte, avrebbe potuto stendere Alexander con uno schiaffo. Ma non era per quello che se l’era fatto amico, tra l’altro era l’unico che aveva lì dentro.
“Harry, ti vedo soprappensiero.” Disse Alexander, curioso di sapere dove Harry era stato.
“Ehi, io non ti rompo le palle ogni volta che entri in cella.” Rispose con calma, restando in soprappensiero. Si sedette sul letto, dall’altra parte della stanza.
Alexander sorrise, se lo aspettava. Quello che gli piaceva di lui era proprio il fatto che sapesse rispondere sempre per le rime a chiunque ed era l’unico che non aveva paura di lui.
Harry non aveva paura di nessuno.
“Ok, ho capito, resto zitto.” Disse Alexander girandosi verso il muro.
“Dai, girati, idiota. Non fare l’offeso.”
Alexander sorrideva, mentre guardava il muro. Sapeva che di lì a poco Harry gli avrebbe raccontato tutto.
Nessuno se n’era accorto lì dentro, ma Alexander aveva il sospetto che il suo compagno avesse un debole per lui. Non gli dispiaceva per niente, amava sentirsi desiderato. Ma non si concedeva a nessuno.
“Alex, io e te ci conosciamo da tanto…” Esitò per un po’, nessuna risposta.
“Sei… la persona con cui mi sono trovato meglio qui dentro. Hai il passato piu’ tenebroso di tutti, ma nonostante questo non ho mai avuto paura di te, perché mi sei sembrato il piu’ sano di mente.”
Fece un sorriso, poi continuò:
“Ho riflettuto molto a come dovevo confessarmi, quali parole usare e tutte quelle cazzate varie. Vedi… Vorrei che tu fossi piu’ che un compagno di cella.”
Si fermò per far si che il suo compagno assimilasse il significato di quelle parole.
Alexander era su di giri, ma non voleva ancora girarsi, si sarebbe sentito molto piu’ a suo agio non guardandolo in faccia.
Sentì Harry alzarsi dal letto, evidentemente voleva avvicinarsi, ma si fermò al centro della stanza.
“Alex…io…Vorrei che fossi il mio compagno di fuga.”
Alexander si alzò di scatto e si bloccò, perforandolo col suo sguardo sconcertato.
“IO COSA? MA SEI IMPAZZITO?”
Si portò subito la mano alla bocca, mentre sentì un rumore provenire dalle sbarre. L’agente vi aveva sbattuto il suo manganello, per calmarli.
“Alex, cosa urli?” Disse Harry, sussurando, mentre si avvicinava per mettergli una mano sulla spalla.
Alexander si scostò subito, stizzito. Era arrabbiato con lui. Arrabbiato perché si era illuso, arrabbiato perché si sentiva preso in giro, ma soprattutto arrabbiato perché Harry non capiva la fortuna che avevano. Lanciando ogni tanto uno sguardo fuori per vedere se c’erano agenti in giro, buttò tutta la rabbia su Harry.
“Harry non capisci che qui siamo in salvo? Stiamo bene, ci trattano quasi come persone normali. E’ vero, facciamo una vita da detenuti e pur di non deprimerci in cella sopportiamo le ore di esercizio fisico. Scusa, ma io non mi sognerei mai di uscire da qui. E poi dove potresti andare?”
“Dalla mia fidanzata.”
Rispose Harry, come se fosse la cosa piu’ ovvia del mondo.
Il cuore di Alexander saltò un battito.
Cosa? Pensò.
“Cosa?” Disse.
“Hei, calma!” Disse Harry ridendo. “Stavo scherzando!”
Harry tornò a sedersi sul letto e cominciò a raccontare cosa aveva scoperto in quelle settimane e perché era necessario scappare il piu’ possibile da lì.
“Ho sentito dalle mie fonti che stanno succedendo cose strane…” si fermò prima di pronunciare le ultime parole con espressione disgustata “…li giù.”
“Fonti? Quali fonti? Sembrano le parole di un visionario.
 La giù non succede niente! Credevo fossi d’accordo con me a deridere tutti gli altri come Bobby.”
“Alex, la ‘zona morte’ è un aggettivo molto appropriato.”

“Mi stai dicendo che lì la gente muore davvero?”
“Se è così, di preciso non lo so… Ma, credimi, molti detenuti sono letteralmente scomparsi.”
“Harry, non dire stronzate. Siamo al sicuro!” Alexander alzò di nuovo la voce senza accorgersene e questo scaturì la reazione immediata di un’altra delle guardie di passaggio:
“Ragazzi, allora?” 
Il suo tono era come quello di un padre che non ha voglia di fare la predica. Poi aggiunse sussurrando, senza farsi sentire dagli altri, con fare preoccupato:
“Mi dite perché litigate? Non vi siete mai comportati così.”
“Juan, nada de nada.” Rispose Harry, divertito. Juan era il soprannome della guardia che aveva due baffoni neri da messicano. 

“Se non vuoi che ti tenga chiuso qui nell’orario della mensa, stai zitto.” Disse un po’ offeso, ma non lo diede a vedere. Con questo si girò e fece per andarsene, ma Alexander lo richiamò.
“Aspetta, Phil!”
La guardia si girò.
 “Stavamo discutendo animatamente sulla zona morte. “
Harry, non piu’ sorridente, lo fulminò con lo sguardo.
“Ancora con questa storia? Andiamo, ragazzi, io avrei piu’ paura degli alieni. Noi che male vi potremmo fare?”

“Ti ringrazio Phil.” Continuò Alexander. “Ma vorrei sapere tu da chi l’hai sentita questa storia.”
“Beh, da voi, ovvio. Bobby è il primo che ne parla come un ossesso.”

“E tra di voi?” Alexander stava rallentando di proposito la cadenza di voce, per risultare inquisitorio.
“Noi ci ridiamo su.”

“C’è qualcuno che ne è completamente indifferente?”

“Si, ma pochi. E’ troppo divertente.” Rispose Phil con un sorriso, ma quando vide l’espressione seria di Alexander si fermò di colpo.
“Tu ci sei mai andato lì?” disse rallentando ancora, impercettibilmente.

“Non sono autorizzato.” Cominciava ad inquietarsi.
“Scommetto che quelli che fanno gli indifferenti fanno parte del personale autorizzato.”
Phil lo guardò incerto, poi spostò lo sguardò, evidentemente per pensarci su. Poi rispose:
“Si.”

“E scommetto anche che solo quelli che ne fanno parte ne sono indifferenti.”
Gli occhi ormai erano due fessure e Phil era palesemente spaventato.
“Si.” Rispose con voce tremante.
Alexander in un secondo cambiò espressione e divenne raggiante.
Con un largo e caloroso sorriso disse:
“Grazie Phil.”
Poi si girò e andò a sedersi.
Gli sguardi di Alexander e Harry si incrociarono, ma non si dissero una parola, stavano aspettando che Phil se ne andasse.

Phil si allontanò molto confuso da quell’avvenimento. La voce e gli occhi di Alexander erano così ipnotici che non fu in grado di reagire. Preferì andarsene e far finta di niente.
Nella cella fu Harry a rompere il silenzio. Questa volta era lui ad essere arrabbiato.
“Si può sapere che cosa ti è saltato in mente?”

“Ehi, calma, non è successo nulla.” Rispose mentre tornava a stendersi sul letto.
“Ora so che gli unici che fanno finta di niente sono proprio quelli che lavorano lì. E’ abbastanza evidente che nascondono qualcosa. Quindi… Ora ho un dubbio anch’io.”

“Alex, io non ho dubbi, lo so per certo! Lì è pericoloso!”

“Ma si può sapere che fonti hai? Sembra che parlo con un investigatore privato!”
“Se solo tu stessi zitto e aprissi le orecchie, ti spiegherei per filo e per segno, cazzo!”
Alexander divenne docile, abbassando lo sguardo e sciogliendo le spalle.
Si calmò anche Harry e iniziò a raccontare.
“Lavoravo in polizia, avevo molte conoscenze perché anch’io ero molto conosciuto. Rispettato anche come uomo, tutti volevano il mio aiuto. Ho salvato la vita a molta gente e per questo mi sono fatti molti nemici. Ho delle conoscenze qui dentro, uomini che morirebbero per me, che tengono d’occhio il direttore di questo istituto.
 E’ un mio acerrimo nemico, ha cercato di uccidermi molte volte, ma non ci è mai riuscito. Alla fine mi ha incastrato ed è riuscito a rinchiudermi qui dentro rovinando la mia carriera, la mia reputazione e la mia famiglia. Fortunatamente non ho perso alcuni seguaci.”
“Lo sapevo che eri diverso da tutti gli altri.” Disse Alexander con un sorriso. Harry rispose al gesto arrossendo e continuò il suo racconto.

“Questi…seguaci non si basano su voci. Tengono d’occhio il direttore per davvero. Sono partiti col mettere delle telecamere nascoste nel suo ufficio, poi sono passati alle intercettazioni e quando hanno sentito delle conversazioni inquietanti riguardanti la zona morte hanno deciso di hackerare le telecamere di sicurezza. 
Ma, indovina? Lì non ci sono telecamere. Così ne hanno piazzata una ben nascosta e sono talmente bravi che riescono a cambiare anche le batterie. Ah, i miei ragazzi.” Disse orgoglioso.
“Mesi di sorveglianza hanno portato a delle conclusioni inquietanti. Hanno visto piu’ di una volta due persone in camice bianco trascinare per il corridoio un corpo inanime, poi entrare sempre nella stessa stanza e uscirne ore dopo. Senza il corpo. E poi ancora e ancora.”

“I corpi che entrano non ne escono piu’?”
“Esatto. Stanno tentando di scoprire cosa succede, ma perfino per loro che sono così bravi è difficile.”
“E come fate a comunicare?”

“Questo non ha importanza. Il punto è che dalle immagini hanno scoperto che quelli che finiscono lì hanno tutti una cosa in comune.”

“Cioé?” domandò Alexander preoccupato.

“Riprendendo le loro facce e facendo delle indagini hanno scoperto che sono detenuti che hanno superato un certo numero di anni di detenzione. Credono, quindi, che per evitare l’affollamento se ne sbarazzino. Solo che non sappiamo come lo facciano.”

“Potrebbero scortarli in un altro edificio collegato, o addirittura in una prigione sotterranea. Noi non sappiamo l’intera mappa, sarebbe sciocco e inutile.”
“Noi non lo sappiamo, ma i miei ragazzi si. Non c’è nessun edificio collegato e non credo abbiano indagato per una prigione sotterranea, ma riferirò. Il punto è che è perfettamente inutile far perdere coscienza a una persona per poi scortarla nel… nulla.”

“Hai ragione. Se fosse per l’affollamento ci sposterebbero e basta, senza segreti.”
“Esatto. Quindi tramano qualcosa. Sei d’accordo con me?”

“Si.”

Si diedero il cinque.
Alexander però aveva ancora un dubbio.
“In media qual è il numero di anni di detenzione superati?”
“Quindici, circa. Perché?”

“Siamo qui da due anni, perché vuoi andartene adesso?”
Harry alzò gli occhi al cielo.

“Alex, io non voglio scappare per salvarmi la pelle, voglio scappare per salvare la pelle agli altri!”
Anche Alexander alzò gli occhi al cielo.

“Maledetto altruismo.” Disse annoiato.

Harry gli diede un buffetto dietro il collo, poi risero.
Harry sapeva che, nonostante Alexander fosse così egoista, l’avrebbe seguito in capo al mondo.
 

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''...''- cit. L'Ordine del Silenzio.

 

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Capitolo 6
*** E' troppo tardi per rimediare. ***


Dopo la visita, Bill era salito in macchina e stava proseguendo a tutta velocità verso casa, dove l’aspettava una moglie infuriata e dei bambini tristi perché il padre non era andato a vedere il loro saggio di danza. Tentò di mandare un messaggio a sua moglie, ma il traffico era mobile, non voleva rischiare che un motorino gli si parasse davanti mentre era distratto. Ormai il saggio doveva essere già finito da un pezzo, quindi doveva rassegnarsi al bentornato molto poco caloroso. Rinunciò al messaggio e abbandonò il cellulare sul sedile di fianco. 

Pensando alla giornata appena trascorsa, ma non del tutto finita, non poté fare a meno di pensare che era da tempo che non si sentiva felice. 
L’ultima volta era stato quando la moglie l’aveva sposato, ma il periodo piu’ felice della sua vita era stata la vacanza che aveva trascorso con sua sorella.
Sentì la rabbia ribollire. Decise di distrarsi, ne aveva avuto abbastanza di rabbia per quel giorno. 
Guardò la foto dei suoi bambini sul cruscotto e si sentì subito in colpa.
Era così preso da quella faccenda, da quel flagello che si portava da sempre che non riusciva a rendere felici le persone che amava e che lo amavano a loro volta. 
I suoi bambini glielo dimostravano ogni giorno, mentre lui? 

Sono un buono a nulla.

Si asciugò la lacrima che gli stava facendo solletico alla guancia e prese a stringere di piu’ il volante, per concentrarsi, ma qualcosa catturò il suo sguardo.
Un bellissimo tramonto dai colori caldi che gli strappò un sorriso. 
A sua sorella piacevano tanto i tramonti.
In quel momento seppe cosa fare.

Poco tempo dopo varcò la porta di casa con le braccia ingombre di buste. 
Aveva comprato sushi per lui e la sua adorata Betty, pollo fritto per i bambini e legati ai polsi aveva una miriade di palloncini colorati e in bocca, bloccata dai denti una rosa blu. 
Era deciso a passare una serata fantastica con la sua famiglia, come non aveva mai fatto e divertirsi così tanto da piangere dalle risate. 
“Sono a casa!” Gridò.
Due bambini, un maschietto e una femminuccia, si precipitarono per le scale. 
“Papà!” Gridarono all’unisono e aspettarono che il padre appoggiasse tutta quella roba sul tavolo per prendere la rincorsa e aggrapparsi al suo collo.
Questo è quello che avrebbe dovuto succedere. 
In realtà per le scale sentì il rumore di un passo lento e pesante. Sua moglie se la stava prendendo comoda per squadrarlo da capo a piedi, come faceva di solito, mentre andava verso di lui. 
Lui sconcertato dalla vista non si accorse di aver fatto cadere tutto a terra. Sua moglie si fermò e spostò il suo sguardo gelido sul pavimento, lui raccolse le buste e le portò sul tavolo.
Ancora poco convinto, prese in mano la rosa blu e la porse a Betty.
“Mi dispiace.” Disse con tono sincero.
“I bambini sono sopra.”
“Volevo vedere anche te.” Disse Bill con voce incerta. Quel botta e risposta suonava come se non fosse a casa sua. In un certo senso, non c’era quasi mai.
“Ma io non voglio vedere te.” Il tono gelido come i suoi occhi. 
Ma Bill si accorse che stava cedendo, perché da quegli stessi occhi stava scendendo una lacrima.
“Ho detto che mi dispiace. Non sono stato presente al saggio e ora i bambini saranno arrabbiati con me… e anche tu. Sono stato imbottigliato nel traffico e per farmi perdonare sono andato a comprare questa roba.” Indicò con un gesto il tavolo.


“E’ questo il problema Bill. Non credere di levarti un peso dalla coscienza con questo stupido gesto.”
“Stupido gesto? Cosa? Io non…” Le parole si dispersero nella sua bocca, ormai era troppo tardi. 
“I bambini non sono arrabbiati con te, comunque. Gli ho raccontato una balla.”
Bill sorrise. “Grazie.”
“Non lo faccio per te, lo faccio per loro.”

Bill le porse di nuovo la rosa. Betty la prese, visibilmente meravigliata. Poi si girò e gridò per farsi sentire dai bambini.
“Bambini! Siete pronti?”
“Pronti? Per che cosa?” Domandò Bill molto preoccupato.

Due bambini si precipitarono per le scale, ma non gridarono il suo nome e nemmeno presero la rincorsa per abbracciarlo. Andarono a posizionarsi di fretta e in silenzio al fianco della mamma.
“Bill, noi partiamo.”


Vide dalla finestra la macchina di Betty andarsene, portandosi via le sue gioie. Sperò che almeno i bambini si girassero per guardare per l’ultima volta il loro papà, ma non fu così.
Il freddo lo attanagliò anche se aveva ancora addosso il giubbotto. 
Lo mise sull’attaccapanni e decise di entrare nella doccia e lavarsi con acqua bollente. 

Il getto dell’acqua riportò alla memoria vecchi ricordi riguardo sua sorella. 
Aumentò la temperatura per scottarsi e non pensarci piu’.
Dopo essersi vestito e essersi spalmato una pomata per le scottature, andò in cucina e scartò il contenitore con il pollo fritto diventato ormai freddo. Pensò che magari sotto il getto di acqua bollente … Ma che dico?
Lo mangiò nel giro di venti secondi. Non aveva mangiato per tutto il giorno e ora si sentiva in paradiso, poi ricordò gli avvenimenti di poco prima e ritornò nel suo stato di inerzia.
Si accasciò sul divano e accese la tv, tenendo ben salda una bottiglia di birra che si scolò in poco tempo. E poi un’altra e un’altra ancora. 

I pensieri e i ricordi di sua sorella si ripetevano e si intrecciavano e lui non ne poteva piu’, pensava che bevendo avrebbe dimenticato, invece era sempre peggio. 
Si alzò dal divano e cominciò a vagare per casa senza uno scopo, sperando che la nebbia nel cervello sparisse, ma a ogni passo si sentiva sempre piu’ disperato e arrabbiato. 

Voltandosi per andare nel corridoio, per sbaglio urtò un vaso che cadde a terra rompendosi in mille pezzi e facendo un rumore assordante. 
Bill spalancò gli occhi e rimase a fissare immobile i cocci e l’acqua sul pavimento, poi la rabbia lo pervase completamente. 
Impazzì e prese a rompere qualsiasi cosa gli si parasse davanti. Prese a calci mobili, a pugni i muri, scaraventò a terra il televisore e qualsiasi altro vaso con dei fiori che gli ricordavano lei. Ruppe il vetro della credenza scaraventandogli contro un telefono e ruppe una finestra buttando via un cassetto che andò a scagliarsi nei cespugli rovesciando tutto il contenuto.
Calmatosi e sedutosi a terra pensò che d’ora in poi non doveva piu’ occuparsi di nessuno, tanto lo avevano abbandonato tutti e si sentì piu’ libero perché ormai non aveva piu’ niente da perdere. 

Rise. 

Una risata da pazzo, lunga e profonda che allontanava ogni malessere ma che allo stesso tempo faceva entrare l’oscurità. In quel momento giurò a se stesso che si sarebbe vendicato, che sarebbe andato sulla stessa strada che aveva intrapreso: la strada dell’ossessione. Ma ora non aveva paura e non si sentiva in colpa. Si lasciò abbandonare alla sua natura e si rialzò, e continuando a ridere, urlò. A se stesso, all’universo, a Dio, questo non lo sapeva. Ma sapeva per certo una cosa.

“Alexander , io ti renderò la vita un inferno! Ahahahahah!”

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''Allons-y Alonso.''


Se avete dei dubbi è perché alcuni capitoli son stati modificati. Potete rileggerli velocemente oppure farmi delle domande nelle vostre recensioni.
 
Che Doctor Who ci protegga. -Gnana.

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Capitolo 7
*** Pain Generator. ***


Bussarono alla porta.

“Si, chi è?”

Una figura femminile con un camice bianco entrò nell’ufficio.

“Signor Yana, mi ha fatto chiamare.”
“Si, Laura. Volevo notizie sull’ultimo paziente.”
“Sta durando più del previsto, signore. O è più forte o semplicemente non gli facciamo abbastanza male.”
“Dovete dargli la dose di dolore esatta. Non dimenticarlo.”
“Certo, signore. La macchina sta facendo progressi, comunque. Gli esperti stanno facendo un ottimo lavoro.”
“Perfetto. Ora può andare. E ricordi…”
“Dose di dolore esatta.” La donna sorrise e si congedò.

Si affrettò a scendere le scale verso il laboratorio. Non voleva perdersi niente di quello che accadeva lì dentro, ovviamente quando era operativo.
Se fosse stato un lavoro normale, non sarebbe stata così in ansia. Ultimamente prendeva calmanti e eccitanti come se fossero caramelle. Doveva essere al massimo della forma, doveva avere la mente vigile.
Il signor Yana le aveva affidato la direzione del laboratorio alcuni anni prima, ma era adibito alla creazione di farmaci per le terapie, perfettamente legali e autorizzati dallo stato. Il personale era altamente qualificato e spendevano molto meno fabbricando che comprando, anche perché comprando i medicinali “speciali” rischiavano di incappare in qualche fasullo e non avevano intenzione di avere qualche morto sulla coscienza.
Ora, invece, il laboratorio era adibito ad una cosa ben piu’ importante.

Circolavano voci e sospetti e loro facevano di tutto per reprimerle dichiarando che fossero infondati, ma non era sicura che ci fossero riusciti. Anzi, fare gli indifferenti sembrava alimentare i sospetti.
Non poteva preoccuparsi di questo, adesso. Doveva pensare solo ed esclusivamente ai pazienti e cercare che non morissero, cosa che avevano fatto tutti quelli che avevano prelevato.
La signorina Annika Salander era un rinomato medico e una scienziata brillante, almeno per il suo capo, nonché la donna piu’ sexy dell’edificio.
Aveva molto a cuore quel caso o meglio quell’esperimento. 
Era mortificata per la morte di quei poveri bestioni pieni di muscoli che fischiavano ogni volta che la vedevano camminare per i corridoi. Viscidi, stupidi e squallidi uomini senza cervello. Però erano pur sempre persone.
La mamma le diceva sempre che era troppo buona e comprensiva, che non doveva perdonare qualsiasi cosa. Annika non ci poteva fare niente, era fatta così.
Inserì la password azionandola con il riconoscimento facciale e con un suono soffocato ma netto, la porta blindata si aprì. Fece un sospiro ed entrò assumendo la sua solita aria determinata e non facendo complimenti impartì un po’ di ordini qua e là.

Camminò velocemente verso un’altra porta che portava dentro un’altra area del laboratorio.

L’area X.

Entrando, vide l’unico addetto all’area indaffarato e il povero Daniel privo di sensi.

Era legato ad una sedia con cinture di cuoio ai polsi, alle caviglie e alle spalle. Aveva sulla testa quello che una comune persona poteva benissimamente definire come ‘casco metallico’, da esso partiva un cavo molto spesso che andava verso l’alto e si collegava ad una macchina attaccata al soffitto.
Essa incarnava la rivoluzione informatica, poteva essere motivo di timore o rabbia all’interno di cerchie esclusive; era tutto quello che l’uomo poteva immaginare, ma anche quello che non poteva immaginare.
Era un invenzione straordinaria, nata da una mente straordinaria che aveva dedicato tutta la sua vita alla creazione e allo sviluppo di quel progetto. 
Era Yana Klava, il suo capo. Il capo dell’intero istituto.

L’aveva spinto ad andare avanti la sua sete di giustizia, ma lui aveva una visione estrema di essa. Non si era mai fidato dei sistemi giuridici, per lui valeva il modo di dire “occhio per occhio, dente per dente”, ma anche la visione di quello era estrema.
Lui pensava, anzi, era convinto che la punizione perfetta per un uomo fosse mettersi nei panni di una vittima. Un uomo o una donna che infliggono torture, sia psichiche, sia fisiche, non ha bisogno di detenzione. Non capirebbe mai fino in fondo lo sbaglio commesso,  a meno che non lo subisca sulla propria pelle.
Il suo progetto avrebbe rivoluzionato il sistema. Non sarebbero piu’ serviti carceri o manicomi o istituti riabilitativi. Il criminale o il pazzo sarebbe stato sottoposto a una breve terapia che lo avrebbe cambiato nel profondo e gli avrebbe fatto cambiare strada.

Il progetto era un computer all’avanguardia, creato pezzo per pezzo da esperti di informatica e hacker di tutto il mondo.  Al suo interno c’erano processori che elaboravano dati alquanto insoliti per uno scopo altrettanto insolito. Faceva vivere al paziente uno scenario virtuale che fosse simile alla violenza compiuta. Per esempio, Daniel sotto effetto di una massiccia dose di droga e sotto minaccia aveva spellato una bambina. Il computer, in quei giorni gli stava proiettando nel cervello una scena simile, dove lui veniva spellato vivo da un assassino spietato con gli occhi rossi. Purtroppo aveva un effetto collaterale.
 
Era ancora in fase di sperimentazione e il numero di trattamenti variava da persona a persona. Dopo ogni trattamento venivano effettuati dei test per accertarsi se il paziente non era piu’ in grado, effettivamente, di commettere crimini in futuro e capitava spesso che non rispondessero ai test con esito positivo. In tal caso aggiungevano un nuovo elemento: il dolore. Veniva trasmesso al cervello tramite un indicatore di potenza, gli addetti dovevano solamente sintonizzare la potenza giusta in coerenza con lo scenario. Dovevano ripetere il trattamento fino a quando non avessero avuto un buon risultato. O fino a quando non crepavano a causa di un infarto.
 
Pain Generator era in grado di far morire di dolore i pazienti. Letteralmente.
Prima di Daniel ce ne sono stati molti altri. Tutti morti.
I problemi quindi erano due, già troppi per Annika la quale era impaziente di annunciare a tutto il mondo PG.
Il primo era che il trattamento veniva ripetuto, cosa alquanto strana.
Avevano intuito da tempo che qualcosa non andava: era impossibile che dopo un trauma una persona fosse ancora in grado di essere convinta che il male che aveva commesso fosse giustificabile o addirittura giusto. Qualcuno aveva proposto che forse i pazienti non avevano memoria di quanto PG gli aveva inferto. 
Il secondo problema, il quale era piu’ che altro la conseguenza del primo, erano i decessi.
Gli esperti si stavano mettendo al lavoro per perfezionare il tutto, ma continuavano a vedere i pazienti accasciarsi sulla sedia, il che poteva portare ad un punto morto e il progetto poteva fallire da un momento all’altro.
Il fatto che migliorasse, però - seppur molto lentamente -  li spingeva ad andare avanti.

Ma il signor Yana aveva ordinato la sospensione della sperimentazione sugli umani se avessero superato le cinquanta vittime, altrimenti il computer sarebbe diventato un omicida piu’ che un giustiziere. Gli esperti avrebbero continuato a lavorare fino a quando non avessero visto una svolta imminente.
Annika era d’accordo, ma era preoccupata del fatto che senza la sperimentazione sugli umani il computer non sarebbe migliorato e sarebbero passati anni prima di poterlo usare di nuovo. Per quanto prendessero tutte le precauzioni possibili, la gente continuava a parlare, si erano spinti troppo oltre. 

Prelevavano pazienti che avessero superato un certo numero di anni di detenzione e dicevano loro che dovevano essere trasferiti oppure scagionati e un mucchio di altre sciocchezze. In questo modo non destavano sospetti nei loro compagni che non li avrebbero visti piu’.
Infatti dopo il trattamento sarebbero stati riportati a casa… salvo complicazioni.
Poi entrati nell’area protetta li facevano perdere i sensi, affinché non facessero resistenza una volta capito che dovevano essere imprigionati per un po’.
Annika e Yana sentivano il peso di quel progetto: oltre alle voci che giravano e il PG che non stava sviluppando come voluto, dovevano anche preoccuparsi del fatto che i pochi dipendenti coinvolti stavano cominciando a lamentarsi.
Yana le diceva sempre che camminare a testa alta e avere fiducia in se stessi è l’unica soluzione, ma lei non poteva smettere di avere un brutto presentimento.
Sentiva che qualcosa di brutto stava per succedere.

Chiese al suo inferiore di prendere un bicchiere d’acqua e si avvicinò lentamente a Daniel. Quando l’addetto uscì dalla porta, Annika cominciò a parlare. Era abituata a fare così quando un paziente rimaneva incosciente per tanto tempo, le piaceva pensare che si sentissero meno soli. Gli accarezzò una guancia e sorrise.
“Mi dispiace, piccolo… E’ per il bene della scienza.”
“Me ne strafotto della scienza, troia!”
Annika sussultò e fece un paio di passi indietro mentre Daniel si sistemava sulla sedia.
“Perché mi stai facendo questo?”
Daniel era furioso, nonostante fossero passate settimane dal prelevamento non si era rassegnato come facevano gli altri. Era un osso duro e Annika lo sapeva bene.
“Amore, ma io non ho colpa. Devi fare uno sforzo. Dobbiamo fare tutti uno sforzo.”
“Non chiamarmi amore e l’unico sforzo che farò è quello di liberarmi per poter mettere le mie mani intorno al tuo fottutissimo collo!”
Annika rinunciò a farlo ragionare e corse via sconvolta.

Possibile che l’amore della sua vita fosse così ottuso al cambiamento? Che fosse così contrario allo sviluppo? Lei avrebbe donato la sua vita per la scienza senza esitare, pensava e sperava che anche il suo amato avesse le sue stesse idee e i suoi stessi principi. Prima di quel casino la sosteneva in tutto e per tutto, in quei giorni invece la trattava come l’essere piu’ ripugnante del pianeta Terra.

Si erano conosciuti un po’ di mesi prima ed erano riusciti a portare avanti una specie di relazione, anche se segreta. Si erano amati, ma visto le pieghe degli eventi lo amava molto di piu’ lei.

L’addetto all’area X la incrociò fuori il laboratorio.

“Signorina Annika, le è successo qualcosa?”

Annika non lo degnò di uno sguardo. Strappò il bicchiere dalla sua mano e bevve avidamente l’acqua, poi lo rimise al suo posto con tutta la forza che aveva e andò via a passo veloce.

Ignara della telecamera che la stava riprendendo.
 

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Capitolo 8
*** La fuga. ***


Roger e i suoi colleghi si erano divisi i compiti affinché l’operazione andasse a buon fine, erano organizzati e pronti ad ogni evenienza. Grazie alle loro conoscenze e al loro spirito si erano rivelati dei compagni di squadra leali e pronti a tutto. La causa era giusta e li faceva andare avanti con coraggio e senza rimpianti.
Era al pc e guardava le immagini che provenivano dalla telecamera nascosta nell’istituto. 
Una donna usciva dal laboratorio e andava via a passo veloce. 

Il suo turno di sorveglianza stava per finire, ma non la sua giornata di lavoro. 

Quel giorno era il gran giorno e non si sarebbe tirato indietro, anche se aveva un intera nottata in bianco alle spalle. La determinazione gli avrebbe dato abbastanza forza.
Harry aveva comunicato che avevano un amico in piu’ in questa storia che avrebbe potuto dare una mano. Un suo vecchio amico, aveva detto. Aveva dato anche istruzioni su cosa fare una volta scappati e li aveva incoraggiati, come faceva suo solito.
Roger era felice e speranzoso, finalmente Harry sarebbe stato libero. Ma si sentiva anche molto preoccupato perché quella non era un operazione semplice, anzi, era una doppia operazione. Oltre ad organizzare una fuga, che poteva rivelarsi semplice, dovevano immischiarsi nei loschi affari di Yana Klava. L’uomo piu’ potente che conoscesse.

Si ricordò che doveva fare ancora una cosa prima di potersi dire pronto. Una voce glielo ricordò.

“Allora Roger, tutto pronto?” Gracchiò la radio che aveva alla cintura.
“Tutto pronto, Jeremia. Vengo a prenderti tra pochi minuti nel luogo prestabilito. Ah, salutami tua moglie.” 
“Non fare lo spiritoso e concentrati, pivello.”
“Si, signor capitano.” 
Sorridendo, Roger azionò il motore e si affrettò a immettersi nella strada principale.

Jeremia aspettava ormai da troppi minuti. Roger era solito fare tardi, diceva che le persone interessanti fanno sempre così.
Proprio quando stava per imprecare per la decima volta, un furgone catturò la sua attenzione. Era nero lucente con una striscia rossa sulla fiancata e stava attraversando a tutta velocità. Si fermò proprio di fronte a lui con uno stridio di ruote, la portiera si aprì e ne uscì la faccia da ebete di Roger.

“Dai, salta su!”

Jeremia rimase esterrefatto. Si guardò attorno e vide che parecchie persone li stavano guardando male e infuriandosi urlò contro il suo partner.
“Avevo detto non appariscente!” 
“Non ho trovato altro. Su, sbrigati che ci aspettano!”
Jeremia si mise a sedere e non fece in tempo a chiudere la portiera che il pazzo che gli era seduto di fianco fece partire il mezzo a tutta velocità.

“Sei pronto?” Chiese Harry, mentre faceva esercizio.
“Se lo sei tu, si.”
“Certo che sono pronto! Sarà la giornata piu’ bella della mia vita! La piu’ bella successiva sarà quando Yana Klava andrà all’inferno. Magari ci andremo insieme… non credi?”
“Sono preoccupato…”
“Che vada all’inferno?” Fece Harry con tono sarcastico.

“Harry, è pericoloso. Non lo sarebbe se dopo essertene andato sparissi dalla faccia della terra, ma tu non vuoi! Vuoi ficcare il naso e lo sai che i ficcanaso non piacciono a nessuno.”
“Mi piace il pericolo.” Disse Harry ridendo.

Alexander sbuffò e continuò a leggere il suo libro.
“Alex, è il grande giorno e tu ti metti a leggere?”

“Hai detto di aspettare il segnale e io aspetto.”
Harry guardò fuori dalla finestra, pensieroso.
“Dovrebbe essere ora…” Mormorò.

Una sirena echeggiò in tutto l’istituto: l’allarme antincendio.

Harry sorrise mentre tutte le celle si aprirono automaticamente, prese per mano Alex e corsero via.
Un gruppo di agenti li aspettarono lungo tutto il corridoio che portava all’uscita sul cortile, nel retro. Misero ordine e minacciarono un paio di persone con i manganelli. Una volta usciti fuori, Harry si accorse che erano tutti dello stesso piano. Una cosa che lo mise a disagio, poiché meno ne erano e piu’ era probabile che gli agenti li vedessero scappare. 

Ma in quel momento, come se gli avessero letto il pensiero, tutti gli agenti che giravano per il cortile si piegarono i due portandosi le mani alle orecchie. 
I suoi scagnozzi avevano messo fuori uso gli auricolari.
Ne approfittò per trascinare Alexander di fianco l’istituto, in uno stretto passaggio tra l’edificio e le mura di cinta. Trovarono un furgone nero parcheggiato proprio all’uscita del passaggio con i portelloni anteriori spalancati.

Vi entrarono e Harry diede due forti colpi dal lato del guidatore, qualcuno chiuse le porte e salì al lato del passeggero, dopodiché il furgone partì. Dopo trenta secondi che sembravano durare in eterno, la tensione lasciò spazio a grasse risate che neanche Alexander, così freddo, poteva trattenersi. Harry lo abbracciò così forte che temette di perdere un polmone.
Dopo averlo stritolato per benino e aver ripreso fiato dalla lunga risata di liberazione, riuscì a parlare.
“Ragazzi, siete stati grandi! Vi avevo detto che sarebbe stato più divertente se non avessi saputo niente.”
Jeremia si girò per aprire il piccolo sportello che dava sul retro del furgone, ma fu Roger, il solito sbruffone, a parlare.
“E’ stato facilissimo capo: quel fottuto cancello è sempre aperto. Abbiamo distratto il portiere con una finta chiamata alla radio, dopo abbiamo quasi fatto esplodere il cervello di quei poveretti mettendo fuori uso gli auricolari e poi é toccato alle telecamere: abbiamo messo in loop un pezzo di registrazione, poi ci siamo posizionati e vi abbiamo aspettato. Il tutto in meno di trenta secondi, cazzo!” Un’altra risata.

Jeremia si innervosì come al solito.

“Non è stato tutto merito nostro, Roger, smettila.”
“Ma io mi vanto solo di essere in una squadra magnifica, composta da persone splendide come te, amico mio.” Fece Roger con un sorriso sornione.
Jeremia rispose con un grugnito che Alexander non poté non condividere.
“Comunque, si, è vero.” Continuò Roger. “Le telecamere sono toccate agli altri della base e quello che abbiamo eseguito erano solo ordini del capo.”
“A proposito, come sta?” Chiese Harry.
“Non si è fatto né vedere né sentire. Si dice sia caduto in depressione. Ha fatto in tempo a darci gli ordini, poi si è dileguato, infatti non c’è stato nessuno a sorvegliare l’operazione.”- rispose Jeremia.

Alexander trovò stonante quella conversazione.
“Ma non eri tu il capo, Harry?” Disse.
“Sono piu’ il motivo per cui lavorano, il capo è un altro. Anche perché non potevo comandare tutto da dentro a un carcere, ti pare?” Rispose Harry.  Alexander assentì.
Harry si rivolse di nuovo ai due.

“Depressione? Perché?”
“Si dice che lo abbia lasciato la moglie.” Rispose Roger.
“Non credo sia un buon motivo per cadere in depressione, anzi!” Ridacchiarono tutti tranne Alexander.
“Comunque vi presento il mio amico, Alexander.”
Roger e Jeremia risposero in coro. “Ciao, Alex.”
Alexander fece un sorrisino, giusto per non essere maleducato, anche se non potevano vederlo. Odiava essere chiamato così, tranne da Harry, ovvio.
“Harry, i fatti sono questi: il capo ci ha ordinato di sgombrare la base a Orange County e di trasferirci dove siamo, appunto, diretti. Ma prima dobbiamo fare una sosta a mezz’ora di macchina da qui e prenderci un altro furgone con il pieno appena fatto. Un mio amico ci terrà nascosto questo qui perché è troppo appariscente per i gusti di Jeremia.”

“Ho ragione, non negarlo.” Rispose Jeremia senza tono.
“Trasferiamo tutta la roba elettronica che c’è lì dietro nel nuovo furgone e partiamo a razzo verso il confine. Non dovremmo avere problemi con i posti di blocco e con i caselli.”
Alexander solo in quel momento aveva notato tutta l’attrezzatura che ingombrava gran parte del retro.
“Ah, si? Quali documenti mostriamo? E non so se lo sai, ma io e il mio amico qui siamo vestiti in arancione. Dico, in arancione!”
“Calmati boss. Vi abbiamo procurato dei documenti falsi che sono custoditi nel mitico marsupio di Jeremia e ci sono dei vestiti lì con voi. Cambiatevi, che siamo quasi arrivati.”
Alexander posò gli occhi sulla piccola pila di vestiti che erano stati messi in un angolo.

Scelse un jeans un po’ stracciato, una canottiera grigia e una camicia a quadri, rossa e nera e degli anfibi marroncini. Harry aveva i suoi stessi anfibi, ma era vestito con dei bermuda di jeans che mettevano in mostra le gambe muscolose, una cintura in cuoio e una maglietta abbastanza larga con una scritta cinese. Stranamente quei vestiti, anche se malconci e sbiaditi, gli stavano bene. Molto probabilmente gli stava bene qualsiasi cosa, pensò.

“Wow. Sembri venuto dal Texas.” Harry non lo aveva mai guardato in quel modo, lo squadrava da capo a piedi e solo quando rispose si decise a guardarlo in faccia.
“E tu sembri uno zingaro che quando ruba vestiti non sa neanche sceglierli.”

Harry sorrise e si sedette con un sonoro sospiro. Vestirsi in un furgone in movimento era una cosa difficilissima. Anche Alexander, infine, si sedette.
“E poi sono Texano per davvero.”
Harry si girò e lo guardò strabuzzando gli occhi, poi fece un grande sorriso.
“Ci ho azzeccato!”
“Tu, invece, di dove sei? Non te l’ho mai chiesto.”
“Non preoccuparti, ti perdono, piccolo.” Disse ironico. “Sono della California.”
“Questo spiega molte cose.” Disse Alexander guardando a terra sorridendo.
“Che vuoi dire?” Chiese Harry, sinceramente incuriosito.
“Lì passa il peggio d’America, tipi loschi che nessuno vorrebbe incontrare.”
“La sai, la mia storia, idiota. Mi hanno incastrato.”
“Hai ragione, scusa.” Rispose, ancora sorridente.

Restarono in silenzio per un po’ di secondi e Harry, non ancora soddisfatto, domandò:
“E poi chi sarebbero questi tipi loschi?”
“Per cominciare: Charles Manson. Abbiamo molte cose in comune sai?”
“Hai ragione, molte cose.  Criminale e fan dei Beatles.” Poi scoppiò a ridere.
Alexander non lo seguì, lo scrutò seriamente e ribadì il concetto.
“Sul serio, Harry. Molte cose.”

Il sorriso si tramutò lentamente in un espressione sconcertata e confusa. Stava per chiedergli cosa significasse, ma Roger li avvisò che erano arrivati.
“Vi va di darci una mano?” Fece con un sorriso gentile.
Subito dopo si spalancarono le porte e un signore un po’ sorpreso li guardò. Subito gli venne Roger dietro che gli diede una pacca sulla spalla.
“Niente paura, Max. Sono qui per darci una mano.”
Max fece un cenno col capo per salutare.

Gli occhi di Alexander puntarono sulle tute arancioni che erano lì per terra, Roger, parve accorgersene perché la sua espressione si fece dura. Lui ed Harry si guardarono negli occhi e tutti e tre pregarono che Max non se ne accorgesse. Tutti fecero come nulla fosse e al momento opportuno Roger ficcò le tute in uno scatolone e lo caricò sull’altro furgone che questa volta era di un colore anonimo. Perfetto per l’occasione poiché dovevano rimanere anonimi il piu’ possibile. Una volta caricato tutto, salutarono Max, e Roger partì di nuovo a razzo con il sollievo dei passeggeri.

“Come ha fatto a non vedere quel colore acceso, non saprei, temo che il diabete gli faccia brutti scherzi.” La vocazione di Roger era sdrammatizzare, in qualunque situazione.
Nuovo furgone, nuova targa, nuovi vestiti, nuovo stato. Ma quale, poi? Sembrò che Harry gli leggesse il pensiero perché disse: “Ma si può sapere dove stiamo andando?”
“Oh, non ve l’ho ancora detto? Stiamo andando in Mexico!” Urlò l’ultima parola prolungando la ‘o’ finale. Jeremia fece una smorfia. Alexander pensò che molto probabilmente gli sarebbe stato simpatico.
Rimasero a lungo senza fiatare. Erano stanchi, avevano saltato tutti il pranzo e ora l’adrenalina stava lasciando il sangue perché ormai il viaggio si stava rivelando estremamente tranquillo.  Forse fin troppo.

“Cazzo!” La voce di Roger fece sobbalzare Harry dal sonnellino.
“Che cazzo ti urli Roger?”

“Ragazzi, non vorrei mettervi paura, ma abbiamo fatto male i calcoli. C’è un posto di blocco proprio qui di fronte.''

vvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvvv

Mi dispiace che tra un aggiornamento e l'altro passi molto tempo, però sto facendo del mio meglio. Scusate se modifico in continuazione i capitoli.
Mi raccomando, recensite. Voglio sapere cosa ne pensate.

-Gnana.



 

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Capitolo 9
*** Sinonimo di Oscurità. ***


Alexander sentì Jeremia imprecare sottovoce ed era quello che voleva fare anche lui, ma subito i polmoni gli si strinsero dall’angoscia e dalla paura. 
Aveva sempre creduto che fosse meglio vivere in istituto che fuori, e non gli dispiaceva affatto starsene tranquillo, per i fatti suoi, a leggere in una cella per ore. Certo, aveva le manette e quelle stupide maniglie d’acciaio alle caviglie che non servivano a un bel niente, però non si lamentava. L’unica scocciatura a cui doveva pensare era Bill. 

Ma in quel momento tutto cambiò, sentì un desiderio bruciante dentro di sé, il desiderio di scappare. Aveva seguito Harry solo per dargli una mano, per sostenerlo, ma ora si sentiva implicato in quella causa fino al collo. Non voleva tornare in quel posto e non voleva essere punito con altri anni che fino a poco tempo prima non gli sarebbero dispiaciuti. Gli dispiaceva per Roger e Jeremia che avevano faticato per arrivare fino a lì e gli dispiaceva anche per tutti i loro colleghi di cui non sapeva neanche il numero o i nomi, ma soprattutto gli dispiaceva per Harry. Se quei fottuti poliziotti avessero capito che loro erano i fuggitivi, tutti i sogni e gli obbiettivi di Harry sarebbero crollati davanti ai suoi occhi in un paio di secondi.

“Ci sono dei baffi finti da qualche parte, presto!” Disse loro Roger.
“Oh, che cazzo! Ce lo potevi dire prima!” Urlò Harry.
Sentirono il furgone rallentare, probabilmente uno dei poliziotti aveva fatto cenno di fermarsi.
Una voce estranea chiese i documenti.
“Ecco, agente.”

Il poliziotto diede un’ occhiata rapida, poi chiese di poter vedere l’interno. Jeremia si girò e disse loro di uscire.
Alexander e Harry avevano trovato i baffi e lentamente aprirono le porte e scesero trovandosi davanti un agente che li guardava con sguardo indagatore. 
“Salve.” Disse Harry.
“Salve.” Disse Alexander.

L’agente posò lo sguardo attento all’interno del furgone per un tempo che sembrava interminabile.
“Posso vedere il documento di trasporto?”
Roger aggrottò la fronte, l’unico che sembrò capire era Jeremia.
“Non ce l’abbiamo agente, sono beni privati. Li stiamo solo trasportando da un nostro amico, che è anche un tecnico, per esaminarli e vedere se…”
“Posso dare un occhiata, allora?”
Tutti deglutirono silenziosamente, si ricordavano delle tute arancioni. Roger sperò con tutto se stesso di averle nascoste bene.
“C-certo… f-faccia pure.” Intervenne Harry.

L’agente salì con un balzo e si mosse lentamente, si guardò intorno, ma fortunatamente fu solo un occhiata veloce perché subito balzò fuori e fece un segno al suo collega che rientrò in macchina. Sfoggiò un sorriso amabile ai presenti e li tranquillizzò.
“Non preoccupatevi, non avrei perquisito, mi serve un mandato. E’ solo un controllo di routine. Lo stiamo riservando a tutti i furgoni che passano su questa strada.” 
Pronunciò l’ultima frase con un tono e un’espressione strana, poi schioccò un altro sorriso splendente. 
“Potete andare, grazie per la disponibilità.” 

“Non c’è di che!” Rispose Roger, falsamente felice.
Rientrarono e Roger ripartì, questa volta piu’ lentamente.
Harry e Alexander fecero un respiro profondo dopo essersi strappati i baffi.

Superata la volante Roger fece una risata nervosa, mentre gli altri erano perfettamente in silenzio. Poi Jeremia se la prese, come al solito, con Roger.
“Sei un fottuto idiota, io l’ho sempre detto. Non dovevi assolutamente prendere quel fottuto furgone appariscente, abbiamo perso tempo a traslocare quella roba e ci ha sorpassato una fottuta volante di polizia!”
“Jeremia, sono sempre pronto a sopportare i tuoi scatti di ira perché ti voglio bene, ma ora se non stai zitto fermo il furgone e ti do una bella lezione!”
“Ah, si? Fammi vedere, decerebrato!”

“Smettetela, cazzo!” Alexander non credette a quello che aveva appena ascoltato, ma ora si rendeva conto che quell’urlo proveniva da sé stesso. Harry era sbalordito, tanto che lo guardava strabuzzando gli occhi. Non aveva mai urlato, Harry non l’aveva mai visto arrabbiato. Fortunatamente.
Anche Roger e Jeremia si sorpresero, infatti si ammutolirono. Ma dopo un po’ cominciarono a bisticciare a voce piu’ bassa e questa volta fu Harry che li calmò.
“Ora basta. E’ inutile prendercela per cose che avrebbero potuto succedere. Non ci hanno beccato, siamo felici di questo, no?”
“Ora ci tocca cambiare furgone.” Disse Jeremia.

“Ci risiamo, il solito paranoico!” Roger stringeva il volante con forza.
“Jeremia ha ragione.” Prese parola Alexander. “L’avete vista quella faccia, era inquietante. Si saranno segnati come minimo il numero di targa.”
“Allora cambiamo targa.” 
“No, Roger.” Disse Harry. “Costa piu’ una targa nuova che un furgone nuovo.
“Beh, comunque ci penseremo una volta passati il confine. Tra cinque minuti saremo ai caselli.”

Nell’ora successiva rimasero in silenzio, fino a quando il furgone si fermò e Roger disse loro che erano arrivati.
Alexander notò che faceva piu’ caldo fuori che dentro e c’era un’atmosfera alquanto familiare. Era pomeriggio inoltrato e il sole coceva. Roger parlò in fretta.
“Questi sono i vostri documenti e i vostri soldi.” Disse piazzandoli distrattamente nelle mani dei proprietari. “Entrate nel motel, mangiate qualcosa e aspettatemi.”
“Dove vai?” Chiese Jeremia, allarmato.
“A rimediare il guaio.” Rispose guardandolo negli occhi.
“Dai, ti accompagno.”

“No, amico. Io ho fatto uno sbaglio e io vi devo rimediare. Ci vediamo tra un po’.”
Sorrise e saltò su, mise in moto e sfrecciò sulla strada accidentata.
I tre si guardarono e fecero spallucce. Sistemarono soldi e documenti in tasca e si diressero verso l’entrata del motel. 
Era una struttura molto… Una struttura, ecco. Né bella, né brutta, passava inosservata. 
Jeremia si mise subito al comando.

“Bene, io prenoto due stanze a nome mio. Voi intanto fatevi una fumata.”
Porse una sigaretta a ciascuno e diede loro un accendino.
“Meno vi vedono e meglio é.” 

Così facendo, li lasciò soli ed entrò.
Erano anni che Alexander non fumava, aveva smesso ancor prima di essere catturato e ora quella sigaretta sapeva di libertà. Prese una grande boccata e sorrise a Harry, un sorriso sincero, pieno di gioia. Harry ricambiò.
“Ah, Alex, quanto ti voglio bene!”
E lo abbracciò. Alexander cercò di ricambiare, ma quelle cose non erano mai state il suo forte.
“Mamma, come sei moscio.” Protestò Harry.
“Non quanto il tuo.”
“Vuoi provare?”
Alexander trasalì. Sbagliava o il tono era serio?
“Ehi! Scherzavo!” Disse d’un tratto Harry.

“Grazie al cielo.” Disse Alexander rilassandosi, ma dopo non poté non sentire una vaga delusione.
“Alex, perché non mi hai mai voluto dire i tuoi crimini?”
Trasalì di nuovo. Sembrava una donna con le mestruazioni con tutti quegli sbalzi d’umore.
“Harry, un giorno di questi mi farai venire un infarto.”
Il compagno non rispose e non lo guardava, stava aspettando.
“Perché fanno parte di me. Non è successo e basta, l’ho voluto.”
Harry continuava a stare in silenzio, voleva di piu’.
“Sono troppo… oscuri.”
“Alex, io ho trattato con i criminali di peggior specie e non c’è niente di oscuro in te.”
“Tu credi?” 

Harry si girò e si guardarono.

“Nei tuoi occhi c’è solo tanta disperazione. E non è sinonimo di oscurità.”
Alex sostenne lo sguardo, ma fu Harry il primo a distoglierlo per prendere un’altra boccata di fumo.
“Un giorno me li dirai?” Harry sorrise, gentilmente, tornando a guardarlo.
“Forse stanotte.”
“Stanotte?” Fece Harry ridendo.

“Si, di notte sono piu’ coraggioso. Forse è perché nessuno mi può vedere.”

“Beh, accenderò la luce.”

“Perché sei così crudele, Harry?” disse sorridendo.

“Voglio che affronti le tue paure. E poi non hai scampo neanche di notte, i tuoi occhi brillano al buio.” Arrossirono, ma entrambi non se ne accorsero. 

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