Prove di convivenza

di shimichan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Trasloco ***
Capitolo 2: *** Scatoloni ***
Capitolo 3: *** Risveglio ***
Capitolo 4: *** Cinema ***
Capitolo 5: *** Gelosia ***
Capitolo 6: *** Detective Boys ***
Capitolo 7: *** Amici ***
Capitolo 8: *** Agasa ***
Capitolo 9: *** Esperimento ***



Capitolo 1
*** Trasloco ***


 
#1. Trasloco
[ovvero quando la distanza non conta]
 
 
In fondo erano pochi metri, quindici passi appena. Anche se si fosse dimenticata un maglione, perfino il suo preferito, quello che gli era costato intere giornate di perquisizioni nei negozi della città perché «è un pezzo unico, Kudo», non avrebbe avuto nemmeno il tempo di starnutire nel percorrerli, figuriamoci prendersi il raffreddore!
«Shiho, ne hai ancora per molto?» sbuffò, volgendo uno sguardo affranto alla pila di scatoloni che occupava l’ingresso. Ne contò sette, ma, a giudicare dal rumore del nastro adesivo proveniente dal piano superiore, il numero era destinato a crescere.
Così, armandosi di tutta la pazienza che possedeva e in mancanza di una risposta degna di essere chiamata tale, si sedette su un gradino, raccogliendosi il mento tra le mani e fissando un punto indefinito del salone, lontano da pacchi e pacchettini che, a detta della sua dolce metà, sarebbero dovuti essere solo un paio.
Mentre calcolava quanti giri avrebbe dovuto compiere per trasportare tutto nella casa accanto e la perdita di tempo che ne sarebbe scaturita, dei passi lo distrassero. Ruotò appena la testa e sillabò un «Era ora» diretto alle gambe della ragazza, giacché il resto si trovava dietro ad un enorme sacco nero che teneva abbracciato quasi fosse un tesoro d’inestimabile valore.
«Questo è l’ultimo».
Shinichi dilatò le narici e si lasciò sfuggire un sospiro. «Bene. Ora possiamo andare?».
Come di consueto quando si trattava di evidenziare l’ovvio, Shiho non sprecò fiato, ma gli indicò uno scatolone e lo superò per aprire la porta.
«Diamine quanto pesa! Che c’è dentro?».
«Libri. Dai Kudo, non fare la vittima! In fondo sei stato tu a proporti di aiutarmi con i carichi più gravi».
Vero, ma il detective aveva mostrato una simile disponibilità solo perché la distanza tra la vecchia residenza di Shiho e quella nuova era, a suo modo di vedere, tanto irrisoria da convincerlo che il trasloco sarebbe stato una passeggiata.
Mai calcolo si rivelò più errato! pensò accasciandosi a terra, una volta giunto a destinazione.
Rosso e sfinito per lo sforzo, riuscì a nascondere, o almeno così si convinse, il proprio stato d’animo alla compagna, che, al contrario, sembrava sprizzare energia da tutti i pori.
«Su, non dirmi che sei già stanco» lo stuzzicò, squadrandolo dall’alto dello scalino con la mano tesa per invitarlo ad alzarsi.
In un eccesso di mascolino orgoglio, lui non solo l’accettò, ma rincarò la dose.
«No. Sono solo libri».
«Appunto…».
La voce di Shiho, melliflua ed insinuante, fece scattare nel detective il campanello d’allarme, quello che solitamente lo metteva in guardia sulle subdole tattiche persuasive da lei adottate per raggirarlo e indurlo a fare quanto gli veniva richiesto. «Un altro paio e avrai finito!».
 


 «un altro paio» dopo un arrancante Shinichi sfilava per la strada con l’ennesimo scatolone tra le braccia, il volto congestionato dalla fatica e la schiena a pezzi, appuntandosi mentalmente di controllare nel dizionario di Shiho, se mai ne possedesse uno, l’intrinseco significato di paio.

 
 
 
 
 
Angolo Autrice
 
Salve a tutti! Innanzitutto, come sempre in questo spazio, mi scuso per la mia lunga assenza e la conseguente mancanza di aggiornamenti delle mie fic. E vi avviso che questo non è un ritorno, ma piuttosto un breve saluto perché sto lavorando alla tesi e quindi almeno fino a fine settembre (primi di ottobre) non avrò tempo per dedicarmi alla long e alla raccolta che ho in sospeso.
E voi vi chiederete “perché allora pubblichi una nuova storia?”. Giusta osservazione.
Diciamo che presa da un momento di sconforto, ho dato alito all’ispirazione e mi è uscita questa idea: una raccolta di flash ShinShiho incentrata sulla quotidianità di una loro (im)possibile convivenza (amorosa, ci tengo a specificarlo).
Ci saranno episodi casalinghi, ma anche attimi vissuti all’esterno, momenti semicomici e istanti seri (oserei dire tristi….e chi ha già letto qualcosa di mio, ha ben presente quanto ami l’introspettiva dei personaggi) ecc…
Posto il primo capitolo solo per vedere quanto interesse potrebbe suscitare, per decidere poi se vale la pena impegolarmi in un nuovo lavoro (che, comunque, vista la mia più che forte intenzione di imparare a pubblicare con costanza, partirà presumibilmente a dicembre) oppure lasciar perdere…come si dice: sondo il mercato, prima di investire…XD
Spero, perciò, in una vostra gentilezza nel lasciarmi un’opinione (anche del tipo “Si, può andare” oppure “No, fa schifo”).

Con la promessa di ringraziare singolarmente, appena avrò un attimo di tempo, tutti coloro che hanno recensito le mie storie e ringraziando fin da ora chi le leggerà in seguito, vi saluto!
 
besos
 
ps: la citazione nella presentazione della fic è di Giovanni Soriano.

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Capitolo 2
*** Scatoloni ***


#2. Scatoloni
[il segreto di una relazione sta nel compromesso]

 
 
 
«E questo?» chiese, cercando di aggiustare la voce affinché non apparisse troppo chiaro il crescente nervosismo che quella situazione stava montando in lei.
Mancavano solo quegli scatoloni da svuotare e Shiho era del tutto intenzionata a non impiegare l'intera mattinata in quel modo, nonostante l'ostracismo del fidanzato.
Solo così infatti si poteva definire l'atteggiamento con cui Shinichi, comodamente seduto su una delle poltrone della biblioteca, aveva bocciato, una dopo l'altra, le sue proposte.
«Sei impazzita?! È una rara edizione di Uno studio in rosso!».
«Ma qui ne hai un'altra copia!».
«Quella - e la indicò con un'enfasi quasi feroce - mi serve, nel caso in cui un giorno volessi rileggere Uno studio in rosso!».
Silenzio.
Shiho avvertì una strana sensazione morderle lo stomaco e da lì risalire su, fino alla gola, alle labbra, dove opportunamente si arrestò. Doveva essere superiore.
Doveva ingoiare l'improperio che l'ossessione di Shinichi meritava e ragionare con logica freddezza. Freddezza che vacillò di nuovo e pericolosamente all'ennesimo no.
«Akagawa?».
«È ancora in attività e odio non completare una collezione».
«Simenon?».
«Ha uno stile originale. Potrebbe mancarmi».
«Christie?».
«La leggevo da bambino. È un ricordo della mia infanzia».
Età che potrei farti rivivere a breve, pensò, affilando lo sguardo contro l'espressione annoiata e vagamente indispettita del detective, che si reggeva la testa con un gomito puntato sul poggiolo in attesa di sentire una soluzione accettabile.
«Insomma Kudo» esordì rassegnata e insieme volenterosa di porre fine a quell’inutile perdita di tempo «la tua mente geniale ha per caso elaborato qualche alternativa per far spazio in biblioteca ai miei libri?».
Shinichi si alzò e, con un sorriso che ben esprimeva la sua soddisfazione personale, le strinse le spalle. Un gesto rassicurante e fin troppo sospetto ai suoi occhi: preannunciava qualcosa di molto sgradito.
«Senti, perché intanto non li lasciamo negli scatoloni? Troveremo con calma una soluzione».
Lo sguardo le si ritrasse ancor più diffidente sotto le ciglia, mentre quello di Shinichi ostentava un’irritante sicurezza.
Quando aveva accettato di condividere lo stesso tetto, decisione che per inciso aveva richiesto un periodo di riflessione moderatamente lungo, Shiho era ricorsa ad una frase: ci ho pensato e si, accetto. A patto che tu sia disposto a scendere a compromessi.
Ora, Shinichi, dopo aver atteso ventisette giorni e mezzo, non aveva prestato particolare attenzione alle parole che avevano seguito quel si, anzi si era lasciato sfuggire un tutto quello che vuoi, la cui paternità gli era sembrata dubbia fin da subito.
Forse aveva esagerato, ma in quel momento le braccia di Shiho attorno al suo collo avevano funto da narcotico impedendo al suo cervello di elucubrare qualche scusa in grado di smorzare quella promessa.
Era stato il suo primo errore.
Perché compromesso significa accordo in cui ciascuna delle parti rinuncia a qualcosa, definizione che sottintende l’avanzamento di alcune pretese.
Rinnovare il salone, cambiare camera, liberare il garage, aiutare nelle pulizie di ogni singolo angolo della casa, scrostare i cancelli. Bazzecole insomma!
Sapeva che sarebbe stata questione di giorni prima che toccasse alla biblioteca, per questo aveva consentito a comprare un armadio più grande.
Adesso era Shiho a dover incassare.
E lo fece. Con invidiabile aplomb.
«Sai che ti dico? Hai ragione» e ripose i libri negli scatoloni.
Il rumore del nastro adesivo equivaleva al trionfo. Shinichi doveva solo suggerire la soffitta come prossima destinazione e poi avrebbe potuto baciarsi allo specchio tanto lo inorgogliva la riuscita della sua strategia.
«Ti aiuto a portarli di sopra…» buttò lì, allungando le braccia per afferrare due lembi di cartone.
«Di sopra?».
«Si, pensavo che per il momento potremmo incastrarli…».
«…nel vecchio studio di tuo padre!».
In soffitta.
L’aria gli si ritirò in gola rapida a tal punto che faticò a chiederle: «Che…cosa?».
«Si. Nello studio di tuo padre. È un’ottima idea. Così potrò lavorare senza disturbarti».
Shinichi si ritrovò a lottare contro l’afflizione che invitava le sue braccia a stendersi lungo i fianchi. «Ma…ma credevo fossimo d’accordo. Lo studio l’avrei usato io».
«Certo. Però, vedi, come hai fatto giustamente notare tu, la biblioteca non può ospitare i miei libri e si dà il caso che a me servano parecchio. In fondo sono sicura che ti troverai benissimo qui! Potrai contare anche sull’aiuto di Maigret, Poirot, Miss Marple e come non citare il buon vecchio Holmes!» e sorrise.
Non un sorriso qualsiasi, di quelli che allargano le labbra fino a formare due fossette sulle guance, no. Shiho stava ridendo anche con lo sguardo, acceso di quella certezza che hanno i criminali prima di farla franca. In quell’istante la consapevolezza lo folgorò. Lei sapeva.
Evitò di perdere tempo dietro a macchinosi ragionamenti che lo portassero a capire dove aveva sbagliato o in che cosa si fosse tradito, cercando di racimolare fiato per dar modo al suo masochismo, qualità che purtroppo ignorava di possedere e di cui quindi non conosceva alcun freno, di manifestarsi.
«E che ne è di tutta la storia del compromesso? Mi sembra di aver esaudito i desideri del tuo guardaroba, dunque spetta a me scegliere dove mettere i libri. E io dico che…».
Shiho si voltò, trafiggendolo con un battito di ciglia. «Kudo, se non sbaglio tu – e marcò sul pronome – ti sei già pronunciato a sfavore della biblioteca…».
«Ma…».
«…e poi…» aggiunse modulando la voce come la più navigata delle seduttrici. «…dividiamo lo stesso letto. Come lo chiami questo se non compromesso?».
 
 
 







Angolo Autrice
Ciao a tutti! Piccola sopresina (in anticipo visto che avevo parlato di dicembre) per dimostravi che sono viva e non mi sono dimenticata di voi! ^///^
Per chi se lo stesse chiedendo si, questo significa che la raccolta procederà (e ci tengo a specificare non sempre su questi toni)!
Basta, il sonno comincia a farsi sentire, quindi vi lascio. A presto!

 

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Capitolo 3
*** Risveglio ***


#3. Risveglio
[nota: mai lasciare una copia di chiavi ai vecchi proprietari]
 

Domenica, efferati crimini permettendo, era il giorno votato alla pigrizia.
O meglio lo era stato finché non erano comparsi scatoloni da svuotare, armadi da ripulire e mobili la cui disposizione andava assolutamente rivista.
Per un intero mese Shinichi aveva sopportato tutto questo, trillo della sveglia puntata alle otto spaccate compreso, con ammirevole pazienza, aggrappandosi alla certezza che, prima o poi, quel maledetto trasloco sarebbe finito. E lo è davvero, pensò stiracchiandosi sotto le coperte.
Al suo fianco si levò un piccolo verso di protesta che divenne sospiro quando il lenzuolo le avvolse nuovamente le spalle.
«’giorno» biascicò, osservandola poi accendersi in un sorriso e mugolare in risposta qualche parola rubata al sonno.
«Pensavo avessi intenzione di fare un’unica tirata fino a stasera».
Lo «spiritosa» del detective finì inghiottito da uno sbadiglio, mentre, aggiustandosi il cuscino, annunciava risoluto che quel giorno non avrebbe mosso un muscolo, perché non esisteva nulla, assolutamente nulla, in grado di distoglierlo dalla volontà di trascorrere la giornata a poltrire nel caldo ristoro del letto e crogiolarsi nel dormiveglia. Nulla.
«Neanche uno?».
Infierì sui propri incisivi, premendoci contro la lingua nel tentativo di mantenere le palpebre serrate e ignorare quella voce vellutata, così impropria al carattere della persona cui apparteneva, usata deliberatamente come uno strumento: molle e accattivante.
Ma fu tutto inutile. Quando si decise a voltarsi, Shiho lo guardava dall’alto col mento appoggiato sul palmo aperto e le dita strette sulle labbra, pronte a nascondere quella malizia che i suoi occhi non celavano altrettanto bene.
Rise. «Dipende da quanto sarà buono il caffè».
Un verso indispettito fece eco alla sua richiesta, ma non anticipò alcun rifiuto. Difatti, dopo alcuni sguardi lasciati cadere sul mobilio della camera, Shiho si alzò, dimostrandogli, una volta di più, quell’insospettabile mancanza di pudore che, all’inizio della loro relazione, lo aveva piacevolmente spiazzato.
«Ti conviene infilarti almeno la vestaglia. Da qui si vede che hai freddo» suggerì strafottente.
«E a te conviene tenermi il posto al caldo!» la sentì urlare da fuori.
Sorrise fino a sentir male alle guance.
Forse era Shiho ad essere dannatamente brava a circuirlo o forse era lui a non possedere abbastanza determinazione per dirle di no, ma di sicuro quel giorno prometteva di ripagarlo per i raggiri che avrebbe subito in futuro, per i grazie non pronunciati e le scuse che, sapeva bene, non sarebbero mai state il punto forte della ragazza.
Più o meno come la notte era stata riscatto di quelli passati.
Almeno fino ad oggi pomeriggio nessuno ci disturberà, pensò spegnendo in via precauzionale il cellulare.
Era un atteggiamento antiprofessionale e vagamente egoista, ne era consapevole, ma non avrebbe permesso mai e poi mai che uno dei rari, rarissimi (!), momenti in cui Shiho si comportava come un’amorevole fidanzata fosse guastato dalla sua suoneria.Senza contare che erano state proprio le continue emergenze a protrarre quel trasloco tanto a lungo.
Me lo deve, ispettore! e gettò il cellulare sul comodino, rotolando sul lato sinistro del letto, dove il profumo di Shiho permeava ancora le lenzuola, in tutta la sua pungente intensità. Inebriante.
Trascorsero alcuni minuti, dieci o un paio non avrebbe saputo dirlo, che udì alcuni passi salire le scale. Lo scricchiolio del quinto scalino era inconfondibile.
Così agguantò il cuscino, chiuse gli occhi e attese paziente che Shiho entrasse, curioso di sapere quale sarebbe stata la sua reazione nel constatare quanto alla lettera avesse preso i suoi ordini. L’unico suono che proruppe nella stanza fu, però, il cigolio della porta.
«Sai, Shiho, riguardo a quanto detto prima, pensavo, che si…insomma…il discorso iniziato stanotte merita di essere concluso, non credi?».
Strascicò debolmente le parole per infondergli quel tono di lascivia che lei avrebbe di certo percepito e – tutto faceva ben sperare – ricambiato, invece non parlò.
Si limitò a soffiare dalle narici come quando si ride in silenzio e ad avanzare verso il letto per sedervisi, poi, sopra.
La sentì respirare a fondo e…
«Shin-chan! Penso tu abbia sbagliato persona. Sono più di quindici giorni che non ci degni nemmeno di una telefonata!».
…fu panico.
«Ma-mamma!?».
Scattò su, arraffando qua e là le lenzuola nel tentativo di coprirsi il più in fretta possibile, sotto lo sguardo brillante di divertimento di Yukiko.
L’imbarazzo corse a congestionargli le orecchie, ma fu la rabbia ad alterargli la voce.
«Che ci fai qui? Come sei entrata? Come…come…» ragliò, faticando ad articolare bene le frasi.
Aveva una gran voglia di urlare.
Facendo fondo alle sue doti teatrali, la donna si mise in piedi e, la bocca storta in una smorfia, proruppe in un versetto acuto, reso poco comico solo dal profondo aggrottamento delle sopracciglia che le si erano raccolte in mezzo agli occhi.
«Cosa mi tocca sentire! Shin-chan sarebbe questo il modo di accogliere i tuoi genitori?».
«No, ma....ma….non ho sentito alcun campanello suonare!».
«Per forza! Non volevo disturbare Shiho-chan, così ho usato le chiavi di riserva, anzi ero proprio venuta a portartele».
Non.
Voleva.
Disturbare.
Shiho-chan.
Era incerto se lodare le tenere premure che riservava alla sua fidanzata oppure incriminarla per invadenza abusiva.
«Potevi chiamare!».
«C’ho provato, ma avevi il cellulare spento!».
«Yukiko, te lo avevo detto: non era una buona idea».
Suo padre doveva averne passate di cotte e di crude a causa dell’impulsività della moglie, perché il rimprovero con cui li interruppe, avanzando oltre la soglia massaggiandosi le tempie, non aveva nulla dell’ammonimento. Ricordava più la rassegnazione.
«Io volevo solo sapere come stava il mio bambino…» lamentò e in modo tanto convincente che Shinichi si persuase a lasciar correre per una volta l’ostinata insistenza dell’occhio materno, determinato nel vederlo sempre e solo come un bambino.
L’avvilimento che traspariva dal suo volto, infatti, era quasi toccante e le dita premute sugli zigomi ad asciugare lacrime inesistenti conferivano un tono tragico alla sua interpretazione.
Da applausi, si sarebbe detto se nell’arco di pochi secondi quell’espressione non si fosse contratta in un ghigno furbesco.
«…ma, da quanto ho capito, Shiho-chan se ne sta prendendo cura egregiamente!» e scoccò un occhiolino alle spalle di Yusako, dove  si udì un crepitio di ceramiche.
Il giovane Kudo non abbisognò di ricorrere al suo proverbiale intuito per immaginare, una volta scorto il volto livido di Shiho e la straordinaria veemenza con cui stringeva il vassoio, che quel famoso discorso non sarebbe stato ripreso né quel giorno né, con ogni probabilità - e tutto faceva mal sperare -, i successivi, così afferrò il cellulare, lo accese e iniziò a pregare che l’umanità dimostrasse ancora una volta le proprie oscure bieche.
Una scenata di gelosia, una vendetta, bastava anche una semplice rapina.
 
«Shin-chan, spero tu prenda precauzioni».
«MAMMA!».
 
Ma doveva farlo in fretta.









 

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Capitolo 4
*** Cinema ***


#4. Cinema
[ovvero mai fidarsi dei poliziotti felicemente sposati]
 

Quando, con un leggero sfarfallio le luci si riaccesero nella sala, Shinichi rimase immobile a fissare lo schermo su cui sfilava, in ordine di comparsa, l’elenco degli interpreti.
Non che gl’interessasse particolarmente conoscere i nomi di prefetti sconosciuti, solo lo preferiva ai volti di altrettanti estranei congestionati dalla commozione.
Già, perché della cinquantina di persone che lo circondavano, buona parte era composta da esemplari di sesso femminile intente a strofinarsi gli occhi lucidi o, in alternativa, a strofinarsi contro i propri partner in cerca di supporto visto «il finale più romantico mai realizzato» come aveva singhiozzato una ragazza alle sue spalle.
Del più noioso film mai prodotto, appuntò mentalmente, cedendo alla tentazione di gettare una rapida occhiata all’uscita, dove coppie di fidanzati se ne stavano in fila, avvinghiati come polipi. Un tipo, in particolare, attirò il suo sguardo perché gli rivolse un sorriso d’intesa, indicando con un cenno del capo Shiho, mentre faceva abilmente scorrere un braccio attorno al collo della sua accompagnatrice. Shinichi ricambiò per educazione, poi tornò a fissare lo schermo ormai spento davanti a sé, incerto se volgere gli occhi al suo fianco, dove lei sedeva ancora immobile e muta. Che non avesse già emesso uno dei suoi taglienti giudizi era preoccupante, eppure il detective temeva di più il momento in cui avrebbe parlato.
«Perché mi hai portato a vedere questo film?».
Appunto.
Shinichi ritrasse le mani nelle tasche, torcendosele e cercando di valutare in fretta quale risposta sarebbe parsa plausibile.
Rivelarle semplicemente la verità era fuori questione.
Se Shiho, infatti, fosse venuta a sapere che erano stati Takagi e Shiratori a suggerirgli quel film perché «due ore di melenso spettacolo sono sempre meglio di altrettanti minuti di litigi sui continui ritardi, le cene mancate e le notti trascorse in ufficio», con tutta probabilità gli avrebbe riso in faccia. O peggio.
Perciò ricorse al vocabolario dell’ovvio pur di colmare quegli interminabili, quanto insensati, secondi di silenzio. «Così. Per cambiare».
Shiho si voltò tanto lentamente che poté giurare di aver sentito lo scricchiolio del suo collo.
«Per cambiare?». Gli occhi increduli, le labbra arricciate: dire che fosse poco convinta è un eufemismo.
«G-già».
La mancanza di repliche gli diede abbastanza coraggio da alzarsi e proporle di continuare la serata da qualche altra parte, ma lei non si mosse.
«Scordatelo. Ormai siamo qui, tanto vale approfittarne» e frugò nella borsa alla ricerca del programma per studiarlo poi un paio di minuti ed emettere un verso acuto e soddisfatto. «Alle ventidue e trenta proiettano un thriller su uno scienziato che scopre la formula per l’invisibilità. Sembra interessante. Se corri a prendere i biglietti, potremmo farcela prima che inizino i titoli di testa!».
Shinichi, a quel punto, ricordò il discorso dei due poliziotti riguardo alle donne e al romanticismo, a quanto i film strappalacrime le facciano sentire fragili e bisognose d’affetto e si diede dello sciocco. Non era un mistero che a Sato piacessero i lieto fine e la maestra Kobayashi leggeva favole anche ai suoi alunni delle elementari, le statistiche stesse confermavano che la popolazione femminile prediligeva le grandi storie d’amore, forse per la naturale inclinazione a credere di poterne vivere una nella realtà, ma il detective aveva commesso un piccolo errore di calcolo: Shiho non era Sato, né la Kobayashi e gli interessi delle ragazze comuni rappresentavano per lei un termine di paragone del tutto inadeguato.
Shiho era semplicemente Shiho.
Così sorrise della sua espressione tendente, con le dovute distanze, al supplichevole e annuì, scortandola verso l’uscita.
 
Mentre cercavano la sala giusta, le sue sopracciglia improvvisamente aggrottate gli fecero temere un possibile ripensamento.
«Due amici, convinti di amarsi fin dall’infanzia e costretti ad una lunga separazione, s’incontrano, però ormai è troppo tardi perché lui ha capito, nel frattempo, di essersi innamorato di un’altra persona…» mormorò tra sé e sé «…è una storia del tutto irrealistica!».
Shinichi concordò. In quell’istante s’imbatterono nello stesso tipo che aveva scorto in precedenza e che, il detective non mancò di notarlo, contrasse le mascelle in un moto d’invidia quando Shiho indicò la porta su cui capeggiava il neon con il titolo del thriller, fiondandosi all’interno.
Non gli rimase che seguirla, stringendosi le spalle e borbottando, forte abbastanza da farsi sentire, un compiaciuto: «Lei è fatta così!».
 






Angolo Autrice
Scusate l'immenso ritardo. Ho passato gli ultimi tre mesi a seguire un progetto universitario che mi ha letteralmente sfinita ed il tempo per scrivere si è ridotto miserevolmente, tanto che sono riuscita a ritagliarmi solo ora (mancano dieci minuti a l'una) una decina di minuti per aggiornare -.-
Approfitterò di alcuni giorni di riposo per mandare avanti questa raccolta però, quindi aspettatevi un nuovo capitolo già a fine settimana!
Ringraziando chi di voi ha recensito, letto, messo la fic tra i preferiti, con la promessa che prima o poi risponderò alle recensioni, vi saluto (e vi auguro buona notte...non si sa mai)

besos

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Capitolo 5
*** Gelosia ***


#5. Gelosia
[di diete, tradimenti e bruciante passione]
 

«Quindi, secondo te, è stata lei?» chiese, porgendogli una tazza, sotto lo sguardo per nulla sorpreso di Shinichi.
Una delle note liete del convivere con un’ex criminale interessata alla tossicologia era, infatti, quella di poter iniziare tranquillamente la giornata senza che la parola «omicidio», e dati inerenti, rischiasse di interrompere, in maniera non del tutto pacifica, la colazione.
«Beh, la signora Sasaki ha un movente piuttosto valido e nessuno che possa confermare l’alibi che ci ha fornito» sospirò, accettando di buon grado il caffè.
«Grazie. Ci hai messo il latte?».
«Si».
«Non lo zucchero però!» lamentò in una smorfia, appena finito di deglutire la bevanda calda, forte e molto molto amara che Shiho gustava in piedi, alle sue spalle, motivando quella che era una mancanza voluta, e non una sbadataggine, con l’intenzione di fargli seguire una dieta più sana.
«Assumere meno zuccheri riduce il colesterolo, i rischi di demenza e aumenta la concentrazione, un aspetto che ritengo piuttosto rilevante nel tuo lavoro, Kudo. E poi…». «Vero» la interruppe. «Ma si da il caso che il sottoscritto sia in perfetta forma. Quindi, se non ti spiace, puoi passarmi lo zucchero?» e allungò la mano verso la confezione, riuscendo a vincere la debole resistenza che lei oppose. Ne versò due cucchiaini abbondanti e, mentre valutava la possibilità di aggiungerne un terzo, Shiho si sporse per curiosare le foto del cadavere sparse sul tavolo, incurante del fatto che si trovassero tra i cereali e i muffin. «…credevo ti fosse bastato lo zucchero di stanotte».
Shinichi trasalì. Poteva sopportare la vista di un morto a colazione, ma le battutine maliziose di Shiho…beh, per quelle non esisteva rimedio in nessun’ora del giorno. Ricacciò il cucchiaio colmo nel sacchetto in uno sbuffo seccato. Meglio non rischiare, troppo zucchero poteva davvero nuocergli alla salute; le lanciò comunque un’occhiata torva che si perse nel vuoto, perché Shiho stava ormai rivolgendo la propria attenzione alla vittima.
«Chi era?».
«Sayuri Miura, ventotto anni. Lavorava per lo studio dell’avvocato Sasaki, marito di Emi Sasaki, nonché suo amante» borbottò, tra un sorso di caffè, ora già più bevibile, e l’altro.
«È per questo che ritieni colpevole la Sasaki? Gelosia? Non è un cliché abbastanza…scontato?».
La fissò un istante stingere le labbra per assaporare tutta l’amarezza di quel concentrato di caffeina che tanto adorava – e poi era lui a doversi preoccupare della pressione? –, poi prese un profondo respiro. «I moventi d’amore non passano mai di moda, temo».
«Potrebbe essere stato lui. Magari la Miura minacciava di lasciarlo, oppure di raccontare tutto alla moglie. Scoppia un litigio e…che c’è?».
Le sopracciglia di Shinichi avevano assunto una piega innaturale e la bocca si era contratta in un sorrisetto impertinente nel sentire le sue ipotesi, un’espressione che preannunciava sempre qualche sarcastica battuta. «E tu dici che la gelosia è un cliché? Mpf!».
Rimasero in silenzio per alcuni minuti, ognuno perso nei propri pensieri.
Shinichi sfogliava gli incartamenti del caso, convinto che il suo intuito non avesse fallito nell’individuare il colpevole, anche se non c’erano prove materiali che lo accertassero, masticando controvoglia i cereali, ricchi di fibre, come indicato dalla scatola; Shiho, dall’altro canto, continuava a studiare le foto del crimine, indecisa tra i muffin ai mirtilli e quelli al cioccolato. Optò per i secondi.
«Ehi! Che ne è della dieta e del mangiare sano?».
«Sono senza glutine, Kudo» lo zittì, iniziando a piluccarne la punta. «Certo, è triste».
Increspò la fronte, preso alla sprovvista. Capitava di rado che Shiho provasse compassione verso qualcuno, per uno sconosciuto, poi, non era mai successo, eppure il suo cipiglio contrito sembrava sincero.
«Perché?» azzardò, quasi in imbarazzo, terminando il proprio caffè.
«Come sarebbe ‘perché’? Trovi giusto che a rimetterci sia l’amante? Insomma, era l’avvocato Sasaki ad essere sposato, non lei!».
Shinichi si passò un tovagliolo sulla bocca per celare un ghigno tra lo sconfortato ed il sollevato. Era solo contrariata dal fatto che le responsabilità del tradimento fossero ricadute esclusivamente sull’altra donna, dunque. «…e io che pensavo di dover aprire in un’indagine per scoprire dove fosse finito il tuo cinismo!».
Lo sguardo colmo di disapprovazione di lei, per una volta, fu del tutto meritato.
«Francamente trovo tristi tutte le morti sopraggiunte per cause non naturali».
Shiho soffiò dalle narici, spazientita.
«Intendevo dire che, se fossi stata nei panni di Emi Sasaki, e ciò non significa che tu abbia ragione, non mi sarei mai vendicata della segretaria!».
«Ah no?».
«No».
«E cosa avresti fatto?».
«Beh, non lo so». Chinò la testa di lato, osservando un angolo del soffitto come se stesse rincorrendo un pensiero, che, evidentemente, le sfuggì visto che un attimo dopo denegò il capo e prese a riassettare la cucina. «Diciamo che, nell’eventualità mi tradissi, la colpa sarebbe al cento per cento tua».
Questa era la cosa più vicina ad una dichiarazione d’amore che le avesse mai sentito pronunciare! Il significato recondito di quelle parole, infatti, poteva essere ‘ci tengo a te, quindi non farmi soffrire’ e rappresentava uno spiraglio aperto sulla corazza dietro cui lei celava abitualmente ogni sua emozione.
Avrebbe dovuto sprecare un abbraccio solo per questo motivo, ma essendo digiuno di atti d’affetto spontanei, si limitò a sorridere, complice una certa dose di narcisismo.
«Temi la concorrenza, Miyano?».
Quando l’apostrofava in quel modo e con quella voce graffiante, Shiho aveva la conferma di aver commesso un errore, perciò strinse il bordo del lavello e puntò gli occhi sulle piastrelle anti schizzi per un lasso di tempo tale da permettere al suo colorito di evaporare e al suo volto di ricomporsi nella consueta impassibilità.
«Ti prego, Kudo. Di quale concorrenza parli?».
Shinichi non abboccò. «Guarda che non c’è nulla di male nel provare gelosia».
«Finché non ti uccide».
«È per caso un’ammissione quella che sento?».
Shiho schiuse le labbra per ribattere, accorgendosi, però, di non trovare nulla di più sagace del «vai al diavolo» che le premeva sulla lingua, ma non intendeva abbassarsi a repliche tanto scadenti, nonostante la posa trionfante, che lui aveva assunto accanto ai fornelli accesi, potesse giustificare qualsiasi volgarità.
«Oh, avanti. È chiaro che bruci per me, tesoro!» infierì in tono fintamente stucchevole.
«L’unica cosa a bruciare qui dentro è la tua camicia».
«Questa è passione malcelata».
«No. Questa è la tua camicia che sta andando a fuoco, Kudo!» e gl’indicò l’angolo di stoffa vicino alle fiamme ormai bruciacchiato e fumante, trattenendo a stento la risata che poco dopo riempì la stanza.
«Accidenti!».
«Chi è che brucia adesso, tesoro?».









Angolo Autrice
Si, non è un'allucinazione! Sono tornata.
Tralascio i motivi di questa lontanza forzata per far spazio ai ringraziamenti che si meritano tutti coloro che seguono le mie storie, che attendono, che devono portar pazienza, che (a volte) bistratto con trame...ecco...non troppo felici! (ogni riferimento ad un'opera precisa della sottoscritta non è puramente casuale! ^^)
Perciò GRAZIE a tutti, a quelli che ci sono già e a quelli che verranno!
Spero di non far passare troppo tempo per un prossimo aggiornamento, anzi mi metto subito al lavoro!
Alla prossima!

 

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Capitolo 6
*** Detective Boys ***


#6. Detective Boys
[di innocenti rancori e indiscrete curiosità]
 

La vita di coppia si era rivelata ricca di molteplici sfaccettature. Piccole manie, sfumature di carattere, gusti ignorati fino a quando l’amicizia non aveva invaso i limiti imposti dalla consueta famigliarità. Una cosa, però, era rimasta immutata, ovvero la naturale quanto irritante inclinazione di Shiho di prendere decisioni senza prima consultarlo.
Vero che si trattava di prese di posizione irrilevanti per la loro relazione, Shinichi questo non lo contestava, ma, in un modo o nell’altro, quelle scelte finivano sempre col incidere negativamente sul suo umore. Come quel giorno.
Shiho rientrò insolitamente presto con due borse della spesa enormi se paragonate a quelle abituali, chiedendogli, o meglio ordinandogli, di seguirla in cucina.
«Ehi, hai forse intenzione di sfamare l’intero quartiere?» ironizzò, spulciando il contenuto: carote, patate e quelle che sembravano due libbre di carne rossa.
«No. Ho solo invitato i ragazzi a cena».
Ora, Shinichi doveva ammettere di essersi affezionato a quei tre mocciosi, di trovarli in gamba, ma credeva di aver ampiamente esaurito le sue responsabilità nei loro confronti tra i banchi delle elementari, perciò la notizia lo colse alla sprovvista e soprattutto lo vide contrariato.
«Cosa? Perché? Quando?».
Domande lecite accompagnate da un profondo aggrottamento delle sopracciglia che avrebbe espresso bene il suo assoluto rifiuto se solo Shiho si fosse posta il problema di conoscere il pensiero del detective a proposito. Ma ciò non avvenne.
«Stasera» rispose con noncuranza, aumentandone il disaccordo, che non ebbe comunque modo di manifestare perché quel «in fin dei conti sono stati i nostri soli amici» smosse la sua coscienza e contro la coscienza non si può opporre alcun no.
Sbuffò, allora, aprendo una confezione di biscotti, addentandone poi uno: chissà che il cacao, rigorosamente magro, non potesse addolcire la sconfitta. 
«Non fare quella faccia, Kudo. Sono maturati molto in questi anni e potrebbero anche sorprenderti».
L’unica cosa che lo sorprese, in realtà, fu la straordinaria puntualità con cui, alle diciannove e trenta spaccate, il campanello prese a suonare, seguito da un attimo di panico risolto dal perentorio «vai tu» che udì alle sue spalle.
Tutti e tre attendevano impazienti al cancello, cercando di sbirciare oltre le inferiate quel poco che la loro altezza, spinta al massimo dalle punte dei piedi, permetteva e, quando aprì, nel vederli varcare il vialetto con entusiasmo, Shinichi non riuscì ad impedirsi di provare un pizzico di nostalgia. Fu, tuttavia, una debolezza passeggera che si esaurì nell’esatto istante in cui Ayumi pronunciò, concitata, «Conan-kun!», correndo ad abbracciarlo.
Fortunatamente il saluto di Genta e soprattutto di Mitshuiko fu più composto e ciò gli permise di invitarli all’interno, dove le loro bocche disegnarono un ovale perfetto. La casa disabitata che era stata sempre scenario perfetto di lugubri fantasie nelle notti di Halloween, appariva ora calda e accogliente, completamente diversa rispetto a quella della loro immaginazione, come Genta non mancò ingenuamente di far notare. Ma a suscitare maggior fervore fu la comparsa di Shiho.
«Ai-chan!» urlarono all’unisono, chiudendola in una stretta di gruppo.
Shinichi osservò la scena, gustandosi l’evidente difficoltà con cui lei, sempre impacciata quando si trattava di avere a che fare con dimostrazioni di affetto, tentava goffamente di contraccambiare quello dei bambini.
«Piano. Piano altrimenti mi fate cadere».
Il rimprovero bonario sortì il suo effetto solo dopo qualche secondo.
«Ayumi è molto felice di essere qui» ammise la piccola incrociando il suo sguardo. Arrossì.
Le erano sempre piaciuti gli occhi di Ai. Quegli occhi malinconici non perché fosse triste, ma perché la tristezza aveva dato forma ai suoi connotati, la loro forma, il colore, la profondità tale da rendere impossibile capire se quel verde avesse davvero fine.
Le piacevano si, ma mai quanto a Mitshuiko, che sentì il corpo scaldarsi di un grado e il sangue concentrarsi sulle guance, mentre Shiho s’informava dei suoi progressi scolastici. Evitò l’errore di Ayumi e posò lo sguardo su un punto indefinito davanti a sé, cercando di misurare il proprio respiro perché non gli giocasse brutti scherzi, ma, quando fu pronto e sollevò il capo, gli occhi di Shiho si erano già spostati. Non occorreva studiarne la direzione per intuire verso chi.
C’era solo una persona in grado di farli illuminare in quel modo che continuava a fargli male, solo una capace di scuoterli dalla loro impassibilità e indurli a tradire un senso di smarrimento che non faceva paura, perché in buona compagnia. L’aveva letto su un testo, a scuola, “…dove si perde l’occhio anche il cuore resta invischiato”.
«La cena non è ancora pronta. Kudo, mostragli la casa intanto».
L’apostrofarlo con quel nome segnò per Mitshuiko una piccola rivincita, come l’espressione corrucciata del detective che evaporò contro l’eloquente alzata di sopracciglia di Shiho.
«Venite…qui c’è la biblioteca…».
 
 
«…e questa, infine, è la camera da letto» spiegò, tastando la parete alla ricerca dell’interruttore.
Accesa, la luce rivelò un’ampia stanza. L’antica toletta, nell’angolo opposto all’ingresso, catturò immediatamente l’attenzione di Ayumi, così come il matrimoniale quella di Genta. Mitshuiko, invece, rimase immobile, ad un passo dallo stipite. Era tipico della sua maturità non seguire i propri slanci e porsi un minimo di autocontrollo, un aspetto che Shinichi aveva sempre gradito.
«Che bella foto» esclamò con scarso entusiasmo, afferrando la cornice sopra il comodino, dal lato di Shiho.
Era un autoscatto che li ritraeva insieme: lei strizzava l’occhio più divertita che infastidita da qualcosa che lui le stava mormorando all’orecchio e che in quel momento non si ricordava.  
«Già. Eravamo ad Okinawa, o forse a Hokkaido. O a Goto» e si strinse le spalle in un gesto di superficialità che infastidì non poco il giovane Tsuburaya. «E tu dove dormi?».
«Eh?».
Mitshuiko illustrò la deduzione che aveva portato a quella domanda tanto brillantemente e in maniera così precisa da sbalordire il migliore dei detective. In effetti l’ordine, la toletta, il colore chiaro delle pareti e il profumo per ambiente alla gardenia dimostravano il tocco di una mano femminile, al contrario la sua presenza poteva essere testimoniata solo dal cassetto della biancheria, che però era chiuso, e dal suo comodino, il cui contenuto doveva rimanere assolutamente segreto.
A peggiorare ulteriormente la situazione ci si mise, poi, Genta, che occupato il letto senza permesso (!), recitò uno dei soliti insegnamenti impartitigli dai genitori.
«Mia mamma dice che non sta bene che due persone dormano insieme senza essere sposate».
Shinichi cominciò ad iperventilare. Cosa serviva vivere nel terzo millennio se si proveniva da una famiglia tradizionalista come i Kojima?!
«Che? Ah, no…noi…cioè io…». Si bloccò, complice il formicolio che gli salì alle tempie, impedendogli di pensare ad un piano per togliersi da quell’impiccio, ed il respiro trattenuto nei polmoni. Fortunatamente, prima che diventasse cianotico, Ayumi, esclusa dalla conversazione, fece notare che quella non era l’ultima stanza del secondo piano poiché in fondo al corridoio vi era un’altra camera.
«È la mia!» mentì e, un secondo dopo, la voce di Shiho riecheggiò dalla tromba delle scale, annunciando la cena.
 

Stava andando tutto bene.
Shiho garantiva argomenti alla conversazione, senza bisogno del suo aiuto, e la giusta dose d’imbarazzo perché Mitshuiko non richiedesse spiegazioni ai dubbi che palesemente l’attanagliavano. Mai si sarebbe azzardato, infatti, a manifestarli davanti alla diretta interessata. Di tanto in tanto Shinichi interveniva con delucidazioni sul suo lavoro di consulente alla centrale di polizia, che, secondo le previsioni, suscitò curiosità e interesse.
Al momento del dolce, una vera torta alla crema come non se ne vedevano più da tempo a villa Kudo, il discorso verteva ormai completamente sull’alto livello di criminalità raggiunto da Tokyo, motivo che lo costringeva ad assentarsi da casa per lunghi periodi o a passar fuori la notte.
«Quindi sei spesso sola qui? Non hai paura?» si preoccupò Ayumi, terrorizzata dall’idea di dover trascorrere una nottata intera senza compagnia.
«Ci sono abituata».
Sorrise per tranquillizzarla, scoccando poi un’occhiata di rimprovero al fidanzato, il quale non ebbe comunque modo di difendersi in quanto i tre fecero un cenno d’intesa che non prometteva nulla di buono.
«Ci stiamo noi con te!». E no, non era una proposta.
Rischiò il secondo arresto cardiaco nel giro di un’ora. «C-cosa?».
Opporsi non sortì alcun effetto. Avevano già deciso, forti dell’accondiscendenza di Shiho, il cui lato materno si palesava sempre in netto contrasto con i suoi pensieri.
«Sarà come i vecchi tempi!» commentò, allegra, raccogliendo i piatti, mentre l’opera di convincimento messa in atto dai piccoli detective, il sorriso innocente di Ayumi e un crescente mal di testa toglievano a Shinichi la forza di protestare.
Avrebbero dormito tutti insieme, tutti eccetto lui.
«È casa nostra!» ragliò in bagno, una volta soli, schiacciando con foga eccessiva il tubetto del dentifricio per poi ficcarsi in bocca lo spazzolino. Shiho si portò l’indice alle labbra nel chiaro intento di fargli abbassare la voce.
«Dai non essere il solito brontolone» lo pregò simulando un tono amorevole che non le apparteneva e che s’incrinò subito. «Quante volte ti devo ripetere di non premere il dentifricio al centro ma alla base?».
«Non camfiare discorfo» ribatté, sciacquandosi. «Non intendo dormire nella mia vecchia stanza!».
Lo sguardo di lei si ritrasse indispettito sotto le ciglia. «Non sono stata io a dir loro che quella era la tua camera. E comunque, se sei fortunato, un killer potrebbe decidere di mettersi in azione proprio questa notte, no?».
Al detective bastò la parte di viso non coperta dall’asciugamano per farle capire che il suo sarcasmo era del tutto fuori luogo. Shiho lo trovò buffo e si aprì in un sorriso capace di sciogliere in un istante la sua stoica opposizione.
«Solo stanotte» asserì, vinto, cercando e trovando le sue mani come ogni dopo litigio, quando parole piene di rancore lasciavano spazio a ciò che di vero c’era tra loro. Shinichi le rivolse il primo vero sorriso della serata, pensando a quale rapporto dovesse intercorrere tra la propria felicità e la lunghezza delle labbra di Shiho. Decise di scoprirlo in quell’istante.
«I nostri genitori hanno detto che possiamo rimanere!».
L’urlo gioioso di Genta proruppe dalla porta spalancata e sul volto di entrambi comparve un’espressione increspata dalla frustrazione di veder svanire il preludio di un bacio perfetto.
«Ho interrotto qualcosa?».
Shiho si coprì le labbra con la mano, Shinichi, invece, uscì visibilmente scocciato, lasciando al suo biascicato «’notte» l’onere di parlare per lui.
 
 
La sua buona stella non doveva essere in gran forma.
Il letto in cui aveva dormito durante la sua intera, o quasi, adolescenza era diventato inspiegabilmente scomodo e la lampadina dell’abatjour fulminata non gli permise nemmeno di conciliarsi il sonno con una lettura. Come se non bastasse, l’ultima volta che aveva controllato, la radio sveglia segnava le tre e diciannove, il che significava che gli rimanevano circa quattro ore di riposo da trascorrere presumibilmente con gli occhi chiusi ad ascoltare i rumori che tenevano viva la casa: l’orologio a pendolo in biblioteca, lo scricchiolio del vecchio controsoffitto in legno, il cigolio della porta che lui, però, aveva chiuso.
Si voltò senza sollevare le palpebre, venendo toccato dal cono luminoso disegnato dalla fessura che era stata aperta. Aveva la sfuriata già pronta e incentrata su tre parole: ‘scuola’, ‘tardi’ e ‘lavoro’.
«Ti ho svegliato?».
«Non ne sono sicuro» mormorò, sorpreso, sfregandosi gli occhi per riabituarli alla luce.
Shiho stava sotto lo stipite, immobile, dentro un pigiama che, nonostante l’oscurità, riconobbe come proprio. Gli parve di scorgere una strana smorfia sul suo volto. «Ayumi scalcia, Genta russa e Mitshuiko parla nel sonno. Sono venuta a chiedere asilo».
Shinichi accarezzò, per un attimo, l’idea di rifiutarglielo, ma era troppo stanco per qualsiasi macchinosa elucubrazione, così si limitò a scostare le coperte e ad accoglierla come meglio poteva in quello spazio striminzito. Lei aderì la schiena al suo petto, tirando un angolo del cuscino in un sospiro sollevato.
«Dichiarazioni d’amore?» scherzò, ignorando di proposito il tono spossato di quella confessione. Shiho giudicò la domanda di cattivo gusto e perciò indegna di risposta.
«Invece di fare lo spiritoso, passami la sveglia».
Obbedì, rischiando di mettere in allarme l’intero vicinato quando scorse l’ora da lei impostata.
«Le cinque e mezzo?!? È uno scherzo spero!»
«Non gridare!» lo rimproverò «Domani il signor Kojima passa a prenderli di buon’ora per portarli a casa e poi voglio farmi trovare nel loro letto quando si sveglieranno».
«Nostro» chiarì stizzito «Nostro letto. E perché?».
Al buio non poté vedere il moto rotatorio compiuto dai suoi occhi, ma sentì lo sbuffo, scocciato come al solito se si trattava di evidenziare l’ovvio. «Perché non voglio deluderli».
«Sei qui!».
«Si certo. Questo però non lo sanno, quindi ti prego, Kudo, dormiamo».
Shinichi dilatò le narici ed espirò forte, un po’ per rassegnazione, un po’ per allontanare i capelli che gli solleticavano il naso: quella che gli si prospettava davanti prometteva di essere l’ora e mezza più lunga della sua vita.
 

 
«Kudo, togli la mano da lì»
«Non è colpa mia. Questo letto è così piccolo!»
«Fingerò di crederti. Ora, toglila!»
 
«Kudo…cosa stai…?»
«…»
«Sh-Shinichi
«Mi…mi dispiace….è una cosa involontaria, te lo assicuro…»
«Sei un pervertito!»

 
«Nessun disturbo, davvero! Arrivederci!». Il suo saluto fu coperto dal rombo dell’auto del signor Kojima che usciva dal vialetto. Shiho attese di vedere la polvere depositarsi al suolo, poi si chiuse la porta alle spalle, adagiandovi la schiena.
«Se ne sono andati» annunciò in un sussurro che tradiva le apparenze.
Con un po’ di trucco e grazie alla vasta esperienza di notti trascorse davanti al computer era riuscita a mascherare la propria stanchezza. Stessa cosa non poteva dirsi, invece, per Shinichi che comparve dalla cucina strascicando i piedi e sbadigliando sonoramente. «La prossima volta che vuoi fare una rimpatriata organizzala dal dottor Agasa. Ti prego!».
Sospirò, astenendosi dalle repliche, e lo seguì.
Sul tavolo c’erano ancora i rimasugli della colazione, durante la quale i bambini, rinvigoriti da un sonno ristoratore, non avevano fatto altro che lodare la comodità del letto, aumentando la frustrazione del suo proprietario, e chiederle quali erano i suoi programmi per la giornata, liberando acuti versetti di ammirazione ad ogni risposta.
«Le aspirine sono sul ripiano in alto a destra» disse, sedendosi, mentre lui trafficava con gli armadietti.
«Prendine due» suggerì poi.
Shinichi le lanciò uno sguardo interrogativo e, nonostante fosse poco reattivo quella mattina, scorse l’aria colpevole che aveva assunto. «Perché?». Tremò nel chiederlo.
Shiho si massaggiò la fronte, preda di una fastidiosa emicrania e di cattivi pensieri, e tirò un angolo della bocca nel sorriso tipico di chi si pente prima ancora di parlare.
«Da uno a dieci, quanto ti arrabbi se ti nomino il campeggio…?».










Angolo Autrice
Come sono stata brava stavolta! Ho aggiornato in tempi, per me, supersonici! *^* 
Autolodazioni a parte, volevo approfittare di questo spazio per ringraziare tutti coloro che stanno seguendo la raccolta e assicurare (alcuni l'hanno accennato nelle recensioni, cui risponderò con calma) che ci saranno episodi romantici, ovviamente in pieno stile ShiShiho, e (forse) un confronto tra....eh, eh no, non ve lo dico! Ma ci sto lavorando! Se volete scoprirlo mi troverete qui!
Come sempre, alla prossima!
 

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Capitolo 7
*** Amici ***


#7. Amici
[metti una sera, a cena…]

 
 
«Sei sicura?».
Shiho si voltò e sul suo sguardo lampeggiò, per un istante, il riflesso luminoso della città, rendendo impossibile prevederne la risposta, che in ogni caso, spesso e volentieri, non coincideva con il suo pensiero.
«Per l’ennesima volta, si» disse, leggermente seccata, e per quanto Shinichi sapesse che l’irritazione la faceva diventare sempre sincera, ciò non bastò a tranquillizzarlo.
«No, perché, se non vuoi, possiamo sempre…».
«Kudo!» lo interruppe. «La vuoi piantare?!».
Ora il nervosismo aveva raggiunto la sua forma completa e a Shinichi non rimase altro che pagare il tassista e osservare la sua ultima possibilità di fuga immettersi nel traffico.
Sentì lo stomaco avvitarsi su se stesso.
Si chiese se anche Shiho provasse qualcosa di simile, ma, sbirciando alla propria destra, notò solamente l’espressione concentrata con cui studiava la coda formatasi fuori dal ristorante.
«Fortuna che abbiamo avuto il buon senso di prenotare!». Una voce alle sue spalle.
Heiji Hattori sfoggiava un sorriso tutto denti, una capigliatura gelata che avrebbe tenuto più o meno fino all’antipasto e, soprattutto, un’aria giovale in netto contrasto con quella del collega. Shinichi drizzò la schiena e cacciò le mani nelle tasche dei pantaloni per soffocare la sferzata d’invidia che lo trapassò da parte a parte nel constatare come il collo di Heiji fosse libero a differenza del suo, stretto da una cravatta di raso blu. Odiava le cravatte, ma Shiho era stata inamovibile e, prima di uscire, gliel’aveva aggiustata con un nodo degno di un lupo di mare. «Prova a toglierla» aveva detto. E si, suonava minacciosa.
«Uhm. Siete già qui».
«Ehi! Ti sembra questo il modo di salutare un vecchio amico?».
Il suo volto si contrasse un istante, ma non c’era reale acredine nelle sue parole; infatti poco dopo Shinichi si ritrovò un braccio attorno al collo. «Dimmi, Shiho, questo qui è sempre così?».
«Non saprei. Io credevo che il broncio fosse un tratto caratteristico di voi detective, ma guardando te, devo ricredermi» ribatté lei dentro un ghigno, in vena di amabili cospirazioni come sempre se l’oggetto di tali mire era il proprio fidanzato.
Una passione che condivideva in particolare con Heiji: oh, quanto si divertivano quei due!
Shinichi approfittò della risata mal trattenuta da entrambi per liberarsi della presa e rivolgere un saluto alle spalle di Hattori, dove Kazuha aveva assistito in silenzio a quel vivace scambio di battute. Aveva lo sguardo di chi è abituato ad  essere bersaglio della medesima ironia e, per una frazione di secondo, s’illuse di aver scovato un’inattesa alleata. Ma fu costretto a ricredersi in fretta, ricordando a se stesso alcuni piccoli, insignificanti dettagli.
In primo luogo Kazuha non aveva ancora del tutto digerito il trattamento riservato alla sua amica durante le indagini sull’Organizzazione e, nello specifico, l’averle taciuto la vera identità di Conan, cosa che ai suoi occhi appariva come una mancanza di rispetto verso i sacri vincoli dell’amicizia. Imperdonabile era poi la fine della relazione con la stessa: lo reputava, infatti, responsabile di non aver lottato abbastanza per la loro storia e, stando a quanto gli aveva riferito Heiji, di «essersi dimenticato le sofferenze patite da Ran» nel periodo sopracitato.
Ed infine c’era Shiho, cui Kazuha non imputava particolari colpe, anche se non aveva mai abbandonato il sospetto che, nelle vesti di Ai Haibara, il suo contributo si fosse spinto ben più in là di una semplice collaborazione investigativa.
Shinichi le vide scambiarsi un breve cenno, prima che Hattori lo strappasse dall’anarchico flusso dei suoi pensieri.
«Ho fame. Andiamo?».
 

L’interno del locale era arredato con drappi color porpora e luci soffuse, che conferivano all’ambiente un tocco deliziosamente retrò, valorizzato dalle candele accese, poste al centro di ogni tavolo. Lussuoso e immerso in un’atmosfera ovattata, non era difficile intuire fossero quelli i motivi della ressa all’ingresso: un ristorante del genere, a Tokyo, era una rarità.
Furono accomodati nel mezzo dell’ampia sala da un cameriere con dei curiosi baffetti a punta che, dopo aver depositato i cappotti nel guardaroba, porse loro i menù.
«Sei sicuro di potertelo permettere?» sussurrò, riferito ai prezzi esorbitanti delle portate.
Heiji s’illuminò in un sorriso furbo.
«Il proprietario è un mio cliente. Siamo suoi ospiti».
Shinichi non mancò di notare la cadenza arrogante della sua voce.
«Sai che il baratto è una forma di pagamento antiquata? Il lavoro va così male, Hattori?».
Quelle punzecchiature facevano parte del loro lessico famigliare, pertanto Heiji era pronto a controbattere, ma Shiho s’intromise nella conversazione, pacata, senza smettere di scorrere l’elenco delle pietanze.
«Non mi ricordo nemmeno l’ultima volta che mi hai portato fuori a cena, Kudo. Non ti conviene iniziare a parlare di casi, misteri e quant’altro» e fletté le sopracciglia in un modo autoritario che non lasciava spazio a molte interpretazioni.
«Qualcuno è tenuto a guinzaglio, eh?».
«Heiji, vale anche per te!».
«Da che pulpito» soffiò, pensando che almeno le due ragazze avevano trovato qualcosa che le accomunava. Poi rifletté.
Il punto di raccordo consisteva nel non voler ascoltare i loro racconti da detective navigati, ergo rimanevano pochi temi da cui trarre discussione, forse il tempo.
«Mi scusi. Può dirmi cos’è il boeuf bourguignon?».
Sfruttò la spiegazione del piatto, e la conseguente disattenzione di Kazuha, per sporgersi verso Heiji e bisbigliargli se le avesse fatto accenno della convivenza tra lui e Shiho, come d’accordo, al fine di evitare reazioni eccessive nel caso l’argomento fosse stato toccato durante la cena.
«Io…beh…ho cer-».
«E i signori desiderano?». Il cameriere li fissava impettito.
Ordinò velocemente una pietanza francese, sperando fosse commestibile, e una bottiglia di vino, per riallacciare il discorso che l’altro sembrava deciso ad abbandonare del tutto.
«Kudo, dietro di te, al bar. La donna bionda».
L'interesse di tutti s’indirizzò, allora, verso una coppia, seduta sugl’alti sgabelli del bancone, intenta a chiacchierare.
Kazuha gettò al fidanzato un’occhiata confusa, ma questo le fece segno di attendere.
Al contrario, il detective dell’est capì subito a cosa si riferisse.
«Sull’annullare sinistro la pelle è più chiara, segno che ha portato per lungo tempo un anello, probabilmente una fede nuziale. Il portamento è elegante e i vestiti di alta sartoria. Lui, invece, si tocca di continuo il nodo della cravatta perché non è abituato a portarla e tiene il drink alla base del bicchiere, sebbene sia appoggiato al bancone. È nervoso. Non per colpa della donna, ma del lusso cui non è avvezzo. Perciò….dico che lei è ricca di famiglia, ha un matrimonio fallito alle spalle e sta cercando di rifarsi una vita con un uomo ordinario» commentò. «Pagherà lei».
Infatti poco dopo la donna estrasse dal portafoglio la carta di credito e la porse al barman.
Hattori batté le mani piano, non tanto per farsi sentire ma per complimentarsi.
«Avevamo detto niente lavoro!».
«Almeno, per una volta, usano il loro intuito su qualcosa di vivo».
Fu il sagace commento di Shiho ad anticipare ogni loro scusa, provocando una punta di risentimento in entrambi i detective, che dimostrarono di non gradire affatto l’uso del sarcasmo come strumento per denigrare il loro talento investigativo, mentre Kazuha gonfiò le guance per trattenere una risata divertita e si disse d’accordo.
«Dai, Kazu, prova tu».
La scelta della ragazza ricadde su una donna e un ragazzo, appena entrati, che un cameriere provvide a sistemare due tavoli dietro al loro. Heiji li studiò attentamente, stringendo le palpebre e accarezzandosi la porzione di pelle tra il naso e la bocca, prima di esporre la sua deduzione. «Gigolò e cliente».
Il sangue si concentrò prima sulle guance di Shinichi, poi su quelle di Kazuha, che emise un versetto strozzato nel tentativo di richiamarlo. Erano due forme d’imbarazzo molto diverse.
Il detective, infatti, ridacchiò divertito da quella conclusione schietta e del tutto plausibile, mentre lei rimase interdetta: non sapeva se prenderlo sul serio oppure se fosse solo l’ennesimo scherzo a proprio scapito.
«Ti sbagli».
Heiji la squadrò al di sotto di due sopracciglia contratte e una fronte corrugata, mentre Shiho si gustava l’ottimo vino con il mento posato sul pugno chiuso e un’espressione impassibile, come se quell’osservazione le fosse sfuggita dalle labbra senza che se ne rendesse conto.
«Un intervento di lifting e una rinoplastica non possono modificare completamente i lineamenti genetici caratteristici di una persona. E l’apertura larga del setto nasale, l’ovale del viso e la leggera stempiatura, che quella donna cerca di nascondere, sono tratti che il figlio ha ereditato».
C’era invero una lievissima somiglianza tra i due.
«Oh andiamo! Nessun figlio di quell’età accetterebbe mai una carezza della propria madre in pubblico e nessun uomo penderebbe dalle labbra di una donna in quel modo se non dietro compenso».
Il ragionamento di Hattori aveva una certa logica e, per quanto poco ortodosso, anche Shinichi dovette ammettere fosse piuttosto attendibile. Shiho, però, lo contradisse di nuovo.
«Non è lui a pendere dalle sue labbra, ma lei a dipendere dal suo sguardo. Inoltre, quando la donna gli ha allungato quella carezza, lui ha poggiato una mano sopra la sua, anziché bacirla come ci si aspetterebbe da un amante».
Parlò con calma, dosando le pause e sottolineando le parole più importanti con uno sguardo molto serio, tanto che Heiji schiuse la bocca alla ricerca di una risposta incalzante, senza tuttavia trovarla. L’arrivo delle portate pose fine al discorso.
E al mistero.
Il cameriere, infatti, scusandosi per aver origliato parte della conversazione, confermò la tesi di Shiho, conquistandosi la sua simpatia, come suggeriva la leggera fossetta apparsa sulla sua guancia: riusciva sempre a creare un’immediata complicità con chi avvalorava le sue posizioni, tanto che lui azzardò un impercettibile scatto della testa per farle notare le mascelle serrate più del necessario con cui il ragazzo addentava ogni boccone. Evidentemente la sconfitta patita nell’ambito di sua specialità bruciava, anche se la ferita peggiore doveva essere quella inflitta al suo orgoglio.
Shiho scosse il capo, ma mostrò comunque un accenno di sorriso prima che le labbra si aprissero per far spazio alla forchetta.
«Signori, bon appetit».

 
«Quello non è Benjiro Takeda?».
«Già. Della Takeda Pharmaceutical. Non è sotto processo?».
«A quanto pare…».
Heiji lasciò la frase in sospeso come se stesse mettendo a fuoco un ricordo, poi si portò una mano tra i capelli, leggermente rammaricato. Nei suoi occhi Shinichi lesse il desiderio di aggiungere altro, che capì essere, troppo tardi, un «mi dispiace».
«Ran dice che anche a Tsukuba si producono rifiuti tossici e per inserirli tra i capi d’accusa è stato chiesto un rinvio» spiegò Kazuha.
Quel nome vibrò nell’aria come una nota stonata.
Nel sentirlo pronunciare, il pezzo di carne che stava masticando gli scivolò in gola, fermandosi all’altezza del nodo della cravatta. Per non rischiare di soffocarsi, Shinichi fu costretto ad allentarlo e a deglutire più volte.
Insieme al boccone inghiottì anche la propria voce, perché la sua replica, un mesto «ah si», venne accolta da Kazuha come un invito a continuare.
Raccontò della passione di Ran per i diritti umanitari, della sua intenzione di abbandonare lo studio della madre e della nuova vita che stava conducendo ad Osaka. Forse accennò anche ad un fidanzato, ma Shinichi era talmente assorto nella contemplazione del suo piatto da non accorgersene.
«Sembri corrucciato» esclamò Shiho alla sua sinistra. «Qualcosa non va? Non è buono?»
«Cos..? No…no…è ottimo» rispose, per poi avvicinarsi il bicchiere alle labbra.
Capitava, a volte, che lei si estraniasse dalla conversazione e non vi prestasse particolare attenzione; gli venne dunque da chiedersi se fosse davvero una di quelle volte, oppure se stesse solo cercando di celare…
«Forse è preoccupato che questi discorsi t’infastidiscano».
Appunto.
Il tono di Kazuha era lo stesso di poco prima, rigato da un’alterigia che si arrotolava fiera attorno ad ogni parola.
Sembrava pronta a compiacersi del «si» che l’argomento prometteva, ma la scienziata appariva confusa, non disturbata; infatti dalla sua reazione emerse solo una certa sorpresa per essere stata trascinata così, all’improvviso, al centro dell’interesse.
«Perché dovrebbero?» e addentò con nonchalance degli asparagi verdi, ricoperti da una densa crema al limone.
Per la seconda volta nel corso della serata, Shinichi si sentì profondamente vicino a Kazuha e alla sua espressione, di certo non la più intelligente del repertorio. «Beh…io…ecco…» boccheggiò.
Shiho attese fino a quando non fu chiaro che non sarebbe mai riuscita ad articolare la frase, quindi intervenne, dicendole ciò, che aveva ormai capito, voleva sapere. «Ran è sempre stata gentile con me. Non ho ragione di non contraccambiare».
Era un ragionamento mirabilmente equilibrato e asciutto, tipico di una mente fredda, precisa e analitica come la sua e, sebbene fosse a conoscenza delle sue idee in proposito, anche Shinichi rimase stupito dal fatto che fosse capace di trattare i sentimenti, specie i propri, parimenti nozioni scientifiche. Poi, però, la vide aggrottare le sopracciglia nel mezzo, come se qualcosa avesse disturbato l’ingranaggio lineare del suo pensiero, e giudicò quindi saggio allontanare la saliera. Non era sicuro che sale e pepe costituissero un pericolo, ma Shiho aveva creato un veleno in grado di rimpicciolire le persone e la prudenza, si sa, non è mai troppa.
«Anche se…» esordì – e lui spostò l’olio – «…avrei preferito insegnasse a questo qui come tenere in ordine i calzini».
La mano con cui reggeva il coltello compì un’elegante parabola, indicando il posto accanto a sè.
La coppia di Osaka si scambiò un’occhiata smarrita, dimostrando di non seguire il filo logico del discorso, mentre il diretto interessato terminava il proprio pasto ferocemente, irritato sia dall’epiteto sia da quella rivelazione troppo intima.
«Oh. E perché?» chiese timidamente la ragazza.
«Perché ogni volta che devo sistemare il bucato, mi tocca anche riordinargli i cassetti».
Kazuha continuava a non capire. Fissò prima il volto accaldato di Shinichi, poi quello imperturbabile di Shiho e ripeté l’azione tre volte finché non spalancò la bocca. 
Il detective dell’est tremò. Conosceva quello sguardo, l’aveva visto sorgere mille volte negli occhi di Ran.
«N-non dirmi che…voi…voi due vivete insieme?!?».
«Si».
Ci fu qualche secondo di silenzio, in cui Heiji si mise a sghignazzare, guadagnandosi una gomitata dal collega.
«E…si può sapere come hai fatto?».
Aveva sentito bene?
L’universo femminile era senza dubbio un campo di difficile comprensione perché, tra tutte le cose che Shinichi si sarebbe aspettato, quella…beh, non rientrava nemmeno nell’elenco!
Ma a quel punto gli parve inutile tergiversare sull’argomento per godersi lo sgomento della fidanzata, vittima del suo stesso sarcasmo, e quello di Heiji, il quale vide avverarsi i suoi peggiori incubi, dal momento che Kazuha non si sarebbe più accontenta delle solite scialbe scuse per imprimere una svolta al loro rapporto.
«Kudo, puoi darmi una mano?» lo pregò, in evidente difficoltà.
«Te lo sogni» rispose l’altro con sufficienza.
«Questa me la paghi, sappilo».
«Chi è vittima del proprio mal, pianga se ste-».
«Dottoressa Miyano?».
Si voltò per vedere a chi appartenesse la voce, soggiuntagli improvvisamente alle spalle, e con grande meraviglia si ritrovò di fronte Benjiro Takeba, che lo scavalcò per portarsi sul lato libero del tavolo.
Shiho finì di svuotare il bicchiere, si passò il tovagliolo sulle labbra e infine si alzò, premurandosi al contempo di stirare le pieghe del vestito. «Signor Takeba» disse con tono gioviale e assolutamente falso.
Dovette accorgersene perfino l’uomo che aumentò la stretta attorno alla sua mano abbastanza da farla vacillare sui tacchi.
C’era una leggerissima tensione tra i due, di cui nessuno, neanche Shinichi, sapeva spiegarsi il motivo.
D’altronde Shiho si era astenuta dal rendere nota una simile conoscenza.
«Ha riflettuto sulla mia proposta?».
«Non mi sembra il momento adatto per riprendere la questione. Come vede sono in compagnia» sospirò, tralasciando le presentazioni. E quando ciò accadeva, quando Shiho dimenticava le buone regole dell’educazione, era per scampare da un impiccio.
«Quale momento migliore di un incontro fortuito?».
«La fortuna dipende dalle prospettive, signor Takeda».
L’uomo rise cogliendo perfettamente l’ironia, ma l’istante successivo ritrasse lo sguardo sotto le ciglia e divenne serio, quasi minaccioso. «Le consiglio di valutarla. Non mi capita spesso di concedere altre possibilità».
«E a me non capita mai di cambiare idea» soffiò, per poi aggiungere un «indipendentemente dal numero di zeri su un assegno» che pose fine al discorso.
Takeda scioccò la lingua contro il palato. «Allora le auguro buon proseguimento».
«Altrettanto».
Non appena Shiho si riaccomodò al suo posto, la domanda scattò fuori dalle labbra di Heiji, sebbene gli altri ne conservassero una uguale sulla punta della lingua. «Come mai lo conosci?».
Neppure il cipiglio interrogativo di Shinichi riuscì a strapparle qualcosa in più rispetto all’inappagante e criptico «lavoro».
 
 
Si lasciarono alle spalle il ristorante e un’agguerrita Kazuha che prometteva di tormentare Heiji fino all’alba, avviandosi verso il loro quartiere.
Avevano entrambi voglia di camminare.
«È stata una bella serata».
Shiho reclinò il capo e scorse una stella in un ritaglio di nuvole. «Discreta».
«Hai battuto Heiji ad una gara di deduzione».
«Si».
«E lo hai messo nei guai».
«Si» confermò di nuovo, scoppiando in una risatina silenziosa.
«E sei».
«Kudo» lo interruppe «c’ero anch’io, perciò smettila di girarci intorno e chiedimelo».
Shinichi si fermò senza preavviso e lei se ne accorse solo dopo un paio di metri.
A quella distanza potevano guardarsi negl’occhi e tradire la propria amarezza, quella di chi è deluso e quella di chi è nel giusto anche se è il solo a pensarlo.
«Perché non mi hai detto che la Takeda Pharmaceutical ti aveva proposto un lavoro?» chiese, afflitto. «Non eravamo forse d’accordo di dirci tutto?».
«Tutto ciò che è importante» precisò lei.
«A me sembrava importante».
«Era solo un lavoro».
«Avrei comunque preferito saperlo. Di che si trattava?».
Sospirò. Affrontare qualcosa di così futile la metteva inspiegabilmente a disagio e tale disagio aumentava il suo imbarazzo.
«Mi aveva offerto di dirigere uno dei suoi centri».
Fece per complimentarsi, ma si fermò. Il volto di Shiho parlava chiaro e anche il sorriso apparso tra le sue labbra sparì, quasi colpevole per la fretta istintiva.
«Mi pare sia un’ottima posizione. Perché non hai accettato?».
«Perché il centro è in America».
Osservò l’espressione di Shinichi trasformarsi, divenire triste e scivolargli sulla pelle come un’ombra. Quando la vide stabilizzarsi dentro gli angoli abbassati della bocca, decise di raggiungerlo. C’erano cose che andavano dette faccia a faccia, perché nessun’altro potesse sentirle.
«E poi mi avevi appena chiesto di venire a vivere con te».
«Stai dicendo che hai rifiutato a causa mia?».
«No» rispose, senza esitazione. Shinichi ebbe l’impressione che fosse arrossita. «Ho pensato seriamente di accettare, però la distanza era troppa. E quando ho capito che non potevo starti così lontano, ho deciso che tanto valeva starti così vicino».
Si sollevò sulle punte per baciarlo, poi si ritrasse con un sorriso furbesco che divenne un ghigno davanti all’aria vagamente ebete di lui.
«Mi…mi hai appena baciato?» balbettò. «In pubblico?».
Rise. «Si, ma non farci l’abitudine, Kudo».
 








Angolo Autrice
Buondì!!!
Torno dopo un discreto periodo di tempo e spero che questa shot, ricca di episodi interessanti, aiuti a farmi perdonare.
Avrò iniziato come minimo sette/otto flash (una ero certa di riuscirla a postare per Natale), senza concluderne una....e poi è arrivata questa. Che dire? Alcuni di voi si erano interrogati sulla fine di Ran ecc...e questa è la mia (parziale) risposta! ^^
Come sempre alla prossima!

Grazie a tutti!

 

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Capitolo 8
*** Agasa ***


#8. Agasa
[di abitudini da perdere e di abitudini da prendere]
 
 
I minacciosi borbottii del bollitore si spensero nell’aria quando Agasa ne schiacciò il tasto alla base, afferrando la tazza con le bustine di thè già aperte per versarci dentro un’esigua quantità d’acqua. Lo voleva forte per renderlo un degno surrogato della caffeina cui Shiho l’aveva costretto a rinunciare. «Motivi di salute» aveva detto, squadrandolo con uno sguardo tanto serio che sembrava essergli rimasto appiccicato addosso.
Si girò di scatto, come ad assicurarsi di essere solo, e sospirò alla vista degli sgabelli desolatamente vuoti.
Era strano scendere le scale, la mattina, e non trovarla in cucina, intenta a sfogliare una rivista con la classica espressione imbronciata e l’immancabile tazza di caffè sotto il naso, ma, allo stesso tempo, questo gli permetteva di farla franca e bere l’infuso nero e corposo di ben due (!) bustine. Shiho, infatti, che aveva accettato quel nuovo metodo controvoglia perché riteneva l’infusione più salutare, non glielo avrebbe mai concesso.
«Professore, sa che il 30% delle morti naturali avviene perché si trascura la pressione alta?» mormorò tra sé e sé, dentro un sorrisetto soddisfatto, che mantenne più o meno tre secondi, il tempo impiegato dall’eco di quella scialba imitazione ad esaurirsi.
Si sentì triste all’improvviso. La verità era che, per quanto l’assenza di Shiho avesse i suoi risvolti positivi, ad Agasa mancava qualcuno di cui occuparsi e che si occupasse di lui a sua volta. Scosse la testa per scacciare quei ridicoli pensieri.
Aveva sempre rifiutato l’idea di diventare un vecchio piagnucolone; e poi il rimedio ai propri malumori era a portata di mano, o meglio di occhio. Gli bastò, infatti, volgere lo sguardo al lato visibile villetta confinante per avvertire una risatina divertita salirli in gola.
Le tende del secondo piano era già scostate e questo significava che la pazienza di Shiho sarebbe durata ancora quanto un fiammifero acceso. Non occorreva compiere un grande sforzo di fantasia per immaginare che, dopo svariati tentativi di far alzare il fidanzato dal letto, la ragazza sarebbe ricorsa a metodi più drastici. Infatti, poco più tardi, la finestra si aprì e, seppur attenuato dalla distanza, Agasa udì distintamente l’urlo di Shinichi.
Non cambierà mai, pensò mortificato dall’idea che, nonostante un’intelligenza superiore alla media, il giovane detective non avesse ancora imparato come evitare i risvegli violenti, cui Shiho era costretta a ricorrere per impedire ad entrambi di arrivare in ritardo a lavoro.
Questo gli ricordò che anche lui aveva le proprie mansioni da sbrigare.
Da buon abitudinario, quindi, terminò la colazione e indossò una vecchia giacca, logora, ma perfetta per il compito che doveva assolvere: proteggerlo dalla fastidiosa aria mattutina mentre abbeverava i fiori. Il giardinaggio era un hobby imposto perché Shiho aveva insistito nel voler piantare dei fiori lungo il vialetto al fine di rendere quella casa meno fatiscente, promettendogli che se ne sarebbe presa cura lei stessa. Poi, però, si era trasferita e, sebbene gli avesse rinnovato le sue buone intenzione, alla fine gli impegni le impedivano di assolverle.
Tuttavia Agasa doveva ammettere di non trovare affatto gravoso quel compito, anzi: passare un’oretta all’aperto gli metteva allegria e giovava anche alla sua schiena . 
Uscì, quindi, dal retro, riempì l’innaffiatoio e si avviò verso il vialetto giusto in tempo per incrociarla.
«Buongiorno».
«Buongiorno, profess-» s’interruppe nel vederlo dar acqua alla bordonata e contrasse il volto in un’espressione rammaricata. «Ma non deve…ci avrei pensato io questa sera».
Agasa inarcò le sopracciglia in una forma tale da renderle eloquenti. Ciò non sarebbe accaduto, lo sapevano tutti e due, e Shiho, che per sua natura non amava essere di peso agli altri, si crucciò ancor di più. Il dottore si sentì in dovere di rassicurarla.
«A me non dispiace e poi c’è molto altro da fare qui».
Shiho sospirò, non trovando nulla da obiettare davanti ad una motivazione tanto semplice quanto inattaccabile.
«Se ha bisogno, comunque…».
«…non esiti a chiamare» terminò Shinichi, comparendo alle sue spalle.
Uno sbuffo dal naso, la mano serrata attorno le stringhe della borsa, il modo di acconciarsi i capelli dietro un orecchio: una sequenza di piccole manifestazioni d’irritazione che Shiho mise in atto, forse involontariamente, di cui il professore si accorse a differenza del detective.
Shinichi, infatti, era troppo concentrato a sistemarsi la camicia, che nella fretta aveva abbottonato male, per notare anche l’occhiataccia rivoltagli da Shiho.
«Dormito bene?».
«Splendidamente. Peccato non possa dire di aver avuto un risveglio altrettanto dolce».
«Non hai gradito la brezza mattutina?».
Ridusse gli occhi a due fessure e li puntò in quelli di lei, sempre difficili da sfidare indipendentemente da cosa ci vedeva bruciare dentro. Stava sorridendo, un sorriso furbo che le occupava metà della bocca ed era destinato a non completarsi mai.
«Magari ci sarei riuscito se mi avessi lasciato almeno il lenzuolo!».
«Senti se-».
«Ragazzi!».
Entrambi si voltarono verso il professore che, vistosi costretto ad alzare la voce per placare quel rapido scambio di battute, aveva abbandonato l’annaffiatoio a terra e teneva le mani protese in avanti come se potesse afferrare la tensione e spezzarla. Sorpreso dal esser riuscito ad attirare la loro attenzione, Agasa si ritrovò a fissarli in silenzio, preoccupato al contempo di venir coinvolto nella discussione.
Fu Shiho a rompere gli indugi. «Meglio che vada. Si è fatto tardi» sentenziò, salutando con un cenno del capo il dottore e ignorando del tutto il fidanzato, cui suggerì solamente di allacciarsi le scarpe.
«Non vorrai che i criminali ti sfuggano perché inciampi sui lacci, vero Kudo?».
Shinichi trasse un profondo respiro, preparandosi a replicare, ma il professore tossicchiò denegando il capo, in un tacito consiglio a lasciar perdere, così si limitò a premere un dito sotto l’orbita e a tirare la pelle dello zigomo verso il basso, mostrando la lingua, mentre la figura di Shiho si dileguava dal quartiere.
Agasa lo fissò, accigliato da quella prova d’immaturità. «Shinichi, dovresti essere più accondiscendente nei suoi confronti».
«Io?!» ribatté, ferito dall’ennesimo alleato che gli voltava le spalle e lo colpevolizzava di essere causa dei malumori della compagna.
«Se la smettessi di passare intere notti sui casi, invece di riposare, la mattina non avresti difficoltà a svegliarti» suggerì, massaggiandosi le tempie, esasperato dalla scarsa propensione del giovane a comprendere non solo la psicologia femminile, ma anche l’intero ecosistema lavorativo. La reazione di Shinichi fu inattesa.
Si limitò, infatti, ad appiattire labbra e sopracciglia poiché il vecchio aveva completamente frainteso.
«Guardi che non è sempre colpa dei casi se non dormo la notte».
Ecco. La spiegazione che Agasa non si aspettava e di cui avrebbe preferito non esser reso partecipe. Per il professore lui era sempre il piccolo Shinichi, che si presentava puntualmente al suo cancello con le ginocchia sbucciate a chiedere indietro il pallone finito sulle sue aiuole, e Shiho era sempre la piccola Ai, che teneva sotto controllo la sua dieta e gli avvolgeva le spalle in una coperta quando si addormentava davanti al computer. E nella sua mente, il piccolo Shinichi e la piccola Ai si addormentavano presto e su letti rigorosamente separati.
«Si sente bene?».
Agasa annuì distratto, consapevole che il colorito del viso fosse evaporato e avesse fatto spazio ad un rosso acceso.
«Io…beh…è…è meglio che rientri».





 

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Capitolo 9
*** Esperimento ***


#9. Esperimento
[pronto a tornare cavia, Kudo?]
 
 
Sembrò sinceramente sorpresa dal suo rifiuto come testimoniavano la bocca dischiusa e l’arcuatura innaturale delle sopracciglia che si aggrottarono all’improvviso, conferendo alla sua espressione incredula una nota di delusione del tutto inopportuna. Ma Shiho Miyano non era un tipo facile alla resa, perciò, assumendo il tono più ingenuo di cui era capace, si accertò della categoricità della sua decisione. «No?».
«No e poi no!» esclamò risoluto, suscitando in lei uno sbuffo di disaccordo che sfociò nel plateale movimento di spalle con cui aderì allo schienale della panca e nei pugni che, sebbene nascosti dal tavolo, Shinichi sospettò tenesse tesi sulle gambe. «Perché no?!».
Si trattenne dal risponderle d’istinto, limitandosi ad osservarla quasi stesse assistendo ad un fenomeno paranormale. Di normale, in effetti, la richiesta di Shiho, e la sua conseguente incredulità, aveva poco. Insomma quella che avrebbe dovuto essere la sua fidanzata – si, gli riusciva davvero difficile considerarla tale in certi momenti – appariva seccata perché lui continuava a rifiutarsi di farle da cavia!
Prese un respiro profondo, cercando di mantenere i nervi saldi per tentare un approccio più morbido, ma, quando vide lo sguardo obliquo di Shiho, quello che assumeva di solito attendendo delle spiegazioni convincenti, sbottò.
«Perché? Perché?! Ma ti rendi conto di quello che mi stai chiedendo?!».
«Oh, quanto la fai lunga Kudo! Ti ho già detto che le pillole sono prive del principio attivo, ergo assumeresti degli innocui enzimi. Non c’è alcun rischio».
«Perdonami, cara, ma, visto i trascorsi, ho delle riserve sul tuo concetto di rischio!» ribatté, riducendo gli occhi a due fessure per enfatizzare l’ironia allusiva che si arrotolava fiera ad ogni parola e che Shiho colse senza farsene minimamente toccare. Sapeva, infatti, che, appena cominciava a surriscaldarsi, il suo fidanzato – si, lo considerava sempre tale nonostante la scelta si rivelasse infelice in determinanti momenti  – tendeva a scadere nel banale.
«Ti ricordo che quell’errore ti ha salvato la vita».
Shinichi impose a se stesso di ignorare la provocazione e di concentrarsi nel trovare tesi che supportassero la sua scelta.
«Se sono tanto innocue, perché non le prendi tu queste pillole?».
«Da contratto non posso sottoporre né me stessa, né i miei collaboratori ad alcun esperimento».
«Usa i tirocinanti».
«Sono ancora troppo inesperti. Si farebbero prendere dalla competizione e falserebbero i risultati».
«Allora ferma qualcuno per strada e proponigli di farti da cavia! Io me ne tiro fuori!».
Non replicò. Rimase in silenzio, con uno sguardo pensieroso lasciato scivolare sulla formica del tavolino il tempo necessario da instillare in lui la preoccupazione di aver appena messo a repentaglio la salute di uno sconosciuto. Poi scosse la testa.
«No. Dev’essere una persona con la quale ho contatti quotidiani e di cui conosco le abitudini».
«Visti gli ultimi tempi mi pare di non rientrare molto nella categoria».
Si pentì subito della fretta istintiva della risposta perché nell’espressione di Shiho dardeggiò il ricordo furente della loro recente discussione al riguardo.
«Ed è colpa mia, vero?».
Sbuffò. L’utilizzo della retorica era sempre un segnale d’allarme: indicava, infatti, che dall’irritazione si passava alla collera, e lui non aveva alcuna voglia di ricominciare a litigare.
«Non cambiare discorso».
«Allora tu smettila di essere così testardo!» e gli passò un foglio.
«Cos’è?».
«La lista degli effetti collaterali riscontrati nei pazienti che si sono sottoposti alla cura».
«Ovvero ciò che impedisce la messa in commercio del farmaco».
Strinse appena le labbra, forse infastidita da quella deduzione: Shinichi aveva colto perfettamente nel segno.
«Già, ma potrei ridurli con il tuo aiuto. Vedi, penso che la maggior parte di questi effetti sia dovuta non alla composizione del farmaco, ma alla sua interazione con altri composti. Quindi se solo tu mi asc-».
«E l’università cosa pensa? Sperimentare un farmaco, seppur privo del proprio principio attivo, su un individuo sano non è anti-etico?».
Shiho fece schioccare la lingua contro il palato e digrignò i denti, eludendo lo sguardo attendista del detective, che iniziò ad insospettirsi. «Perché l’università sa di questa tua idea, vero?».
Ciondolò la testa e soffiò sulla propria tazza di the, come se si trattasse di un aspetto del tutto trascurabile. 
«Non ho ritenuto necessario informarla».
La sua imperturbabilità era stupefacente, oltre ad essere fonte, per lui, di fastidiose emicranie.
«Quindi» proseguì, prendendo a massaggiarsi la fronte aggrottata «giusto per capire: tu vorresti farmi assumere un farmaco sperimentale, senza avvertire i tuoi superiori e, di conseguenza, senza alcuna copertura assicurativa nel caso di danni permanenti, alla luce di una semplice…intuizione?».
Aveva modulato la voce, scandendo ogni sillaba nella speranza che si rendesse conto di quanto davvero assurda fosse la sua richiesta, ma il sarcasmo di quelle parole ebbe l’unico pregio di indisporla ulteriormente.
«Mi credi così subdola da somministrarti un farmaco scadente?».
C’era qualcosa di severo nel suo sguardo che lo intimorì.
«Beh…no» ammise a disagio, sfregandosi la punta del naso per poi concentrare l’attenzione sul foglio, dove si elencavano: inappetenza, lievi vertigini, diarrea, stati febbrili di media intensità e altre conseguenze spiacevoli, ma comunque sopportabili.
Fu all’ultima voce, però, che il rischio di una crisi isterica tornò prepotentemente a palesarsi all’orizzonte, nonostante gli svariati tentativi di mantenere il proprio autocontrollo. «I-Impotenza?!».
Lei roteò gli occhi, preparata alla ramanzina che il viso arrossato e contratto di lui prometteva.
«Temporanea impotenza» lo corresse. «E abbassa il tono».
«Oh se è solo temporanea allora…».
S’illuminò speranzosa, ma ottenne un nuovo e definitivo «no» che pose fine alla questione.
Il detective, infatti, finì il caffè in un’unica sorsata e, accusando di essere in ritardo, cosa che lei sottolineò, ironica, non essere una novità, si avviò verso l’uscita.
«Pensa che va anche a tuo vantaggio» lo sentì dire, prima di sbattere la porta, suscitando il riso di un cliente, il quale aveva probabilmente afferrato solo l’ultimo frangente della loro conversazione.
Shiho soffiò dalle narici ed emise un versetto contrariato, abbandonando il capo sulla spalla e un’occhiata sconfitta sul tavolo, dove i segni della tazza sporca si stavano asciugando, ingiallendo anche parte dello scontrino.
Shinichi non aveva nemmeno pagato il conto.
 
 
Takagi lo accolse allargando le braccia, rassegnato.
«Lo so, lo so. Sono in ritardo» esclamò, anticipando ogni rimprovero. «Novità?».
«Si, ma non buone».
Shinichi seguì lo sguardo dell’uomo lungo la facciata dell’hotel, mentre veniva ragguagliato sulla situazione. Pessima era l’unico aggettivo in grado di descriverla.
«E dire che ci basterebbe sapere il numero della stanza…» concluse con un sospiro che ben esprimeva la sua frustrazione, visibile comunque nel modo in cui aveva serrato la bocca attorno ai denti. Era abbattuto.
«Vieni. Ti offro il pranzo» propose il detective nel tentativo di risollevargli il morale, salvo poi tradire una certa immobilità e iniziare a tastarsi freneticamente la giacca.
«Che c’è?».
«Dannazione! Ho dimenticato…».
«…il portafoglio» s’intromise una voce alle sue spalle.
Shiho lo fissava con cipiglio impaziente ed il capo reclinato all’indietro che conferiva al suo sguardo affilato una piega altezzosa, in netto contrasto con il suo sorriso. Gli stava porgendo il portafoglio e lui l’afferrò, borbottando dei ringraziamenti come se, in realtà, non ne avvertisse il bisogno.
«Meno male ci sei tu, Shiho. Qualcuno stava giusto per offrirmi il pranzo. Vuoi aggiungerti a noi?» chiese Takagi, che, non avendo percepito la sottilissima tensione tra i due, si stupì quando Shinichi prese parola al posto della diretta interessata.
«No, l’aspettano a lavoro».
Shiho gli scoccò un’occhiata colma di disapprovazione e rifiutò a sua volta l’invito con maggior garbo.
E poi sarete impegnati nel caso Hori» aggiunse.
«Se così si può definire un punto morto, allora si, siamo molto impegnati».
«Pensavo aveste fatto dei progressi».
«Oh, si. Purtroppo però quel maledetto ha trasformato la sua stanza in un vero bunker, affittando un intero piano dell’hotel Imperial e ordinando di essere servito solo dai suoi collaboratori».
Sulla fronte di lei si disegnò una ruga verticale. «Ma con un mandato…».
Shinichi, rimasto in silenzio fino a quel momento, trasalì e tentò di bloccare Takagi dallo spifferare tutto, ma non ne ebbe il tempo. Così Shiho venne a sapere che non potevano procurarsi un mandato perché quella non era un’indagine ufficiale, e schiuse le labbra, mostrando il dorso della lingua premuta sugl’incisivi. 

«Indagare senza il benestare dei superiori non è anti-etico?».
La domanda conteneva un’allusione che naturalmente fu colta dal detective cui era destinata, il quale incassò il colpo con una smorfia, cacciandosi il nervosismo delle mani nelle tasche e la testa tra scapole. A chi mai aveva pestato i piedi per meritarsi un simile fardello?
Mentre Shinichi era assorto in queste segrete meditazioni, Takagi aveva aggiornato senza lesina di dettagli la scienziata, che ora lo fissava in tralice, carezzandosi ripetutamente la porzione di pelle tra il naso e le labbra.
«Quindi tutto ciò che vi serve è il numero della stanza…» commentò infine, provocando il basimento del poliziotto, in evidente difficoltà nel sostenere il suo sguardo e quel sopracciglio arcuato all’insù con cui sembrava minimizzare, se non addirittura banalizzare, le problematiche del caso.
«Ehm…si» balbettò confuso, cercando appoggio visivo in Shinichi, che, dal canto suo, conosceva la propria compagna abbastanza da indovinarne le intenzioni e si sentì perciò in obbligo di farla desistere. «Credi sul serio di riuscire dove un’intera squadra ha fallito?!».
Non era l’atteggiamento migliore da adottare in simili circostanze, ma per quel giorno poteva dire di averne fin sopra i capelli della sua irragionevolezza.
Shiho si limitò ad una scrollata di spalle e allungò un passo verso la strada, lasciando ben intendere quanto poco le importasse dei fallimenti altrui.
Solo quando la vide varcare la hall dell’hotel, Wataru, che non aveva ancora compreso del tutto cosa stesse accadendo, azzardò a palesare i propri dubbi, studiando con la coda dell’occhio il marcato cambiamento d’espressione di Shinichi, sempre più cupo.
«Pensi…pensi che…».
«Tsk! Figuriamoci!». Insomma i trucchetti di Shiho potevano avere effetto su di lui di tanto in tanto, ma non c’era la ben che minima possibilità funzionassero con un concierge pagato profumatamente!
Forte delle sue convinzioni, Shinichi prese ad attendere sereno l’esito di quella missione – che in termini tecnici si sarebbe potuta definire tranquillamente suicida. Anzi, certo com’era della propria previsione, iniziò in anticipo a sorriderne, tanto che, non appena la sua fidanzata fece ritorno e ancor prima avesse modo di parlare, esalò un «Te lo avevo detto» colmo di falsa partecipazione. Guardandolo nella sua espressione tronfia, con gli angoli della bocca già scossi dall’irresistibile voglia di scoppiare in una risata di maligna soddisfazione, Shiho abbassò le palpebre, riducendo gli occhi a due fessure verdi, rese ancor più intese dalle ciglia scure.
«Ce l’ho» disse, gustandosi l’esatto istante in cui la brillante mente del detective registrò la risposta e impose ai muscoli del viso di rilassarsi fino a sciogliere la sua smorfia soddisfatta e, a conti fatti, fuori luogo. Gongolò ancor di più quando, passato lo stupore iniziale, Shinichi schiuse le labbra e le mantenne spalancate e rigide in mancanza di repliche.
Nel frattempo Takagi, che forse aveva sottovalutato le sue capacità persuasive, ma non si era azzardato a darla per vinta con tanta facilità, aveva sfilato dalla giacca il proprio taccuino e aspettava impaziente, la penna già premuta su una pagina linda.
«Allora?» proruppe, incapace ormai di contenere la propria frenesia, che impattò contro l’espressione concentrata di lei. Sembrava indecisa. Poi, d’un tratto, i suoi lineamenti si distesero in un sorriso appena accennato.
«Te lo dirò ad una condizione» e indirizzò a Shinichi un’occhiata interpretabile in un solo ed unico senso.
«Questo è un ricatto!».
«Direi piuttosto uno scambio di favori».
Era certa, infatti, che i saldi principi morali del fidanzato non avrebbero mai permesso ad un trafficante di droga di sfuggire alla giustizia; e così fu.
«E va bene!» grugnì, decretando la propria sconfitta e prendendo controvoglia il flacone arancione che Shiho gli stava agitando davanti al naso. «Ricorda. Due volte al giorno a stomaco pieno. La stanza è la seicento quattordici, vi serve anche il numero di telefono per caso?».
I due detective si squadrarono a vicenda. E se Shinichi interpretò quell’acuto finale come una chiara frecciatina, Takagi vi sorvolò, preferendo non interrogarsi su quanto aveva assistito.
«Mi domando come tu abbia fatto…» disse, quasi sopra pensiero, il capo denegato più volte con ammirazione. «…considerando che i nostri tentativi di infiltrare degli agenti sono stati un buco nell’acqua».
Lo stupore di Shiho nel sentirsi porre un simile quesito fu pari alla semplicità, quasi ovvia, della risposta. «Si chiamano tette».
E li lasciò lì, inermi, con l’imbarazzo dell’uno che andava a compensare il malumore dell’altro.
«Certo che Shiho è proprio…».
«Ti prego, Takagi. Stai zitto».
 
 
Un mese più tardi, quando ormai Hori era stato confinato in un carcere di massima sicurezza a meditare sugli ergastoli che doveva scontare e sul fatto sarebbe uscito di prigione solo dentro una bara, nella propria cucina Shinichi Kudo si accingeva a ingoiare l’ultima pillola del flacone, dicendo addio, stavolta per sempre, alla sua carriera di cavia da laboratorio.
«E con questa puoi considerare il tuo esperimento concluso» annunciò a gran voce, venendo subito ripreso da Shiho.
«Non così in fretta».
«Che?? Cosa vuoi adesso? Vivisezionarmi?».
Sorrise della piccola ruga comparsa tra le sopracciglia di lui, che gli dava l’espressione di un bambino imbronciato, e indicò la cartellina rossa sul ripiano opposto al tavolo con la punta del mento, usando invece il dorso della mano bagnata per scostarsi i capelli dalla fronte.
Non commise l’errore di voler conoscere in anticipo il contenuto. Si limitò a trascinarla verso di sé, aprirla e capire, con un involontario sospiro, che si trattava di un semplice questionario.
«Niente di cui essere nervosi, come vedi».
Fu il commento sardonico e scherzoso di Shiho, alla quale non era sfuggito il verso sollevato del fidanzato, che le restituì un’occhiata truce e che lei non vide, presa com’era dalle pulizie. Shinichi fissò un attimo il movimento meccanico delle sue spalle e quello più dolce dei fianchi, che oscillavano appena dietro la spinta delle gambe, tese e in bilico sulla punta dei piedi per raggiungere angoli altrimenti inarrivabili.
«Hai fatto?» soffiò in leggero affanno, dopo essere riuscita ad eliminare una ragnatela in fondo alla nappa, costringendolo a riportare in fretta l’attenzione sui fogli.
«Quasi» e tolse il cappuccio alla penna, iniziando a cerchiare i disturbi sofferti in quei trenta giorni e a barrare quelli che, invece, non lo avevano interessato.
Alla fine brandì la cartellina, si alzò e le mostrò i risultati, attendendo l’inconfondibile segnale del suo dissenso.
Anche lui, infatti, aveva un orecchio allenato e gli era stato impossibile non avvertire la leggera ansia della sua voce nel porre quella domanda.
«Ma non è completo!» gemette. «L’ultima…!».
Il rimprovero le morì in gola perché Shinichi le cinse il bacino e lo trascinò verso il suo in abbraccio che valeva più di mille parole. «Compilala tu» suggerì, sentendo il corpo di Shiho irrigidirsi nella sua presa e i lievi palpiti del suo collo contro la guancia, mentre liberava respiri brevi e profondi per abituarsi a quel repentino cambio d’atmosfera.
Quell’attimo di assoluta immobilità si risolse solo quando lei ruotò su se stessa, in maniera un po’ goffa, visto lo scarso spazio a disposizione, guardò il punto in cui avrebbero dovuto esserci i suoi piedi e scoppiò a ridere.
«Felice di aver dato il tuo contributo alla scienza, eh?».






Angolo Autrice
Con un enorme, quasi odisseico (passatemi il termine), ritardo torno ad aggiornare e, spero, a strappare qualche sorriso.
Visto il poco tempo a disposizione e considerata la connessione internet non eccelsa, mi limito a questo rapito saluto e alla promessa di rispondere al più presto alle recesioni....non mi sono dimenticata di voi, tranquilli!!!! XD
Alla prossima!

 

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