A Thousand Miles

di cliffection
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Haven't met you yet ***
Capitolo 3: *** Do I Wanna Know? ***
Capitolo 4: *** Can't take my eyes off of you ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


A Thousand Miles 0

Mia mamma, tempo fa, mi disse che piangere senza alcun motivo significa avere troppo per cui farlo. Significa essersi trattenuti troppo a lungo, aver tenuto dentro un oceano di lacrime che prima o poi doveva uscire.
Mi disse persino che noi tutti siamo come dei grossi contenitori che giorno dopo giorno si riempiono, sopportano, sopportano e patiscono, ma come si sa, a tutto c’è un limite. Anche i contenitori forti e massicci possiedono un orlo e, purtroppo, arrivati ad esso non ce la fanno più a tenersi dentro tutto.

Esplodono.

Sono all'ordine del giorno, d'altronde non mi sono mai piaciute le storie tristi, tanto meno i finali: mi ricordano tanti aerei che viaggiano alla velocità della luce, in cerca di una meta precisa ma senza dei punti di atterraggio. Questa si può definire la mia vita, in un certo senso.
"Passaporto prego." Distrattamente, sfilai dalla tasca laterale della borsa passaporto e biglietto, aspettando che mia sorella Alexis si muovesse a trovare i suoi; non me ne sorpresi, d'altra parte è sempre stata lei quella strana, essendo la maggiore doveva, al contrario, dimostrare una certa maturità, ma era veramente più forte di lei. Alexis era il mio punto di riferimento, lei era forte, forte come il mare in tempesta, come un uragano.
Se potessi affidare a qualcuno la mia stessa vita, sceglierei sempre e in ogni caso lei, quella stessa ragazza che, dopo anni, arrossisce ancora se il suo ragazzo le scrive un messaggio, le manda dei fiori, quella ragazza che farebbe di tutto per riavere la sua famiglia al completo, una ragazza ordinaria, ma con poche pretese.
C’era un sole pigro quella mattina, come se percepisse parte della nostra nostalgia. Fiumi di persone correvano, alcuni con bambini in braccio e tre valigie in una mano, altri, addirittura, ancora con la colazione in ballo, frettolose e impazienti di arrivare in tempo al rispettivo gate.

“E’ possibile che non fai altro che stare davanti a quel telefono? Saluta Calum e digli che potete sentirvi anche dopo, ah, e tranquillizzalo, non moriremo per 20 ore di aereo.” Disse Alexis, con un'espressione piatta che mi annoiò maggiormente.
Mi sarebbe piaciuto scrivere di Calum, un giorno, di tutto quello che è riuscito a darmi senza nemmeno rendersene conto, ma non mi considero una di quelle persone che vede tutto quanto a forma di cuore, anzi; penso di essere innamorata, certo, ma non ne faccio né un dramma, né mi considero la ragazza più fortunata del mondo: ci siamo conosciuti in terza superiore, quando mi sono trasferita nella nuova scuola della calda Sidney. E’ stato, sin dall’inizio, l’unica persona capace di dimostrare qualcosa di diverso rispetto a tutti gli altri ragazzi, come se ci appartenessimo da una vita.
Lasciare Calum a casa in Australia, per tre lunghi mesi d’estate, significava per me tanto, di questo ne ero completamente certa, ma ero sicura che sarei sopravvissuta; ovviamente, non era lo stesso per Alexis.
Del resto era risaputo, per Luke e Alexis separarsi anche per poche ore risultava l’impresa più difficile del mondo.
Mia sorella e il mio migliore amico. All’inizio non mi andava giù del tutto, ma poi ci si fa il callo e ora, a dirla tutta, sono i miei preferiti.

Quel viaggio in America, se si può chiamare così, fu per me una svolta, un modo per scoprire di più di quello che mi era stato tolto, un motivo per passare del tempo con mia sorella, considerata da me anche come la mia migliore amica, come la mamma che in parte non ho mai avuto, e, soprattutto, per trovare un lavoro estivo, così da poter aiutare papà.
Vorrei ricordare ogni singolo minuto per non cancellare nulla dalla memoria, scattando foto, scrivendo il più possibile, ma soprattutto, memorizzare tutto ciò che non è stato possibile fare precedentemente.  


“Susie, Alexis, venite a salutare la mamma.”

Papà è fatto così, tiene a certe piccolezze più di quanto tenga a dimostrare il proprio affetto; è un uomo di tante parole e pochi fatti, ma è davvero impossibile non volergli bene.
Siamo soliti a trascorrere poco tempo tutti e quattro insieme perché, si sa, il lavoro è il lavoro, come piace tanto dire a papà.
Ad essere sinceri, né io né Alexis abbiamo ben capito che lavoro faccia la mamma, probabilmente perché non appena qualcuno cerca di spiegarcelo, rinunciamo a capire e finiamo quasi tutte le volte per fingere ed annuire.

La mamma.

Un uragano di energia, sempre pronta a tutto, la mamma.
Ogni giorno che passa, la guardo, la studio e rimane la donna più bella che io abbia mai visto; non ci sono dubbi, quando sarei finalmente cresciuta avrei voluto diventare proprio come lei.
Certo, non dovrei avere pretese, avendo solo 7 anni di vita, ma non mi sono mai distinta per pazienza. Vorrei essere subito come mamma, per assomigliare, in un modo o nell’altro, ad una di quelle regine dei miei libri.

Senza di lei, la casa diventa, nel vero senso della parola, un deserto; credo che una delle cose che faccia più male sia quando si vedono gli altri andare avanti e continuare a rimanere lì, al punto di partenza.

Anche Alexis, con i suoi sorrisi a trentadue denti, non è riuscita a trattenere e lacrime. Probabilmente per lei deve essere più difficile, con i suoi quattordici anni, rimanere senza la propria figura materna per troppo tempo, ma lei dice che certe cose non le capisco, quindi cercherò di non farci caso.
“Sai qual è il bello di ogni partenza? Sapere che tornerai.” Papà abbozza sempre una delle sue frasi da film alla mamma, come se ogni giorno fosse innamorato sempre di più della donna che ha sposato.


E invece, quella, fu l’ultima volta che vidi la mamma.

 






WELCOME PEOPLE!
Eccomi qui, o forse dovrei dire eccoci qui, con la prima ff.
Io e xbierestra abbiamo finalmente deciso di scrivere questo cross-over tra i 5SOS e Justin Bieber, un’accoppiata vincente direi, mettendo in una sola fanfiction i nostri più grandi cuori.
Questo è solo l'inizio, la storia vera e propria inizierà dal prossimo capitolo, ma spero di aver dato già un’idea di quello che sarà il seguito: dunque abbiamo due sorelle, l’una l’opposto dell’altra, ma che evidentemente si completano, tutte e due, a quanto pare, innamoratissime, ma sarà lo stesso dopo i tre mesi in America?
Poi c’è la mamma e il flashback, ma di lei si saprà qualcosa più avanti.
Perché “A Thousand Miles”? C’è una motivazione dietro al titolo, ma verrà da sé col proseguire dei capitoli.
Mi spiace aver scritto poco sui protagonisti e aver dato poco spazio ai 5SOS e zero a Justin, ma a quest’ultimo ci penserà più avanti la mia amica.
A voi i commenti, se vi va, lasciate una recensione :)

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Capitolo 2
*** Haven't met you yet ***


A Thousand Miles 1 MODIFICA
You'll make me work, so we can work to work it out
And I promise you, kid, I give so much more than I get
I just haven't met you yet.
- Michael Bublè



Alexis POV

"Stiamo per atterrare all'Aeroporto Internazionale di Los Angeles, vi preghiamo di allacciare le cinture."

L'inespressiva voce femminile proveniente dagli altoparlanti mi risvegliò, e altrettanto dovetti fare io con Susie, immersa in chissà quale mondo nelle sue amate ed inseparabili cuffie. Non me ne sorpresi.
Misi da parte il mio libro e l'iPod, controllando nervosamente che la cintura fosse ben allacciata, e così, chiusi gli occhi.
Odiavo prendere l'aereo: ecco, l'idea di essere sospesa a migliaia di chilometri dal terreno saldo e sicuro non mi allettava minimamente, a dirla tutta, mi spaventava a morte. D'altro canto amo gli aeroporti, le stazioni, amo quei luoghi in cui le persone si rivedono dopo tanto tempo.
Quelle stesse persone che mollano valigie in mezzo alla strada e corrono, corrono, a volte fino a cadere, per abbracciare le persone che amano.
Sono i luoghi dove le persone si amano e non smettono di farlo, i luoghi dove ci si ritrova; ma quella volta, nessuno era lì ad aspettarci, tanto meno la mamma.
Adesso capisco perché mi diceva sempre che una bugia può cambiarti la vita.
Aveva ragione, le bugie creano dipendenza, come la droga, dopo che hai provato una volta non riesci a smettere, entri in un circolo vizioso senza via d’uscita.
Era vero, mentivo… mentivo a tutti, ma non avevo scelta, Susie aveva solo sei anni, era così piccola che non le bastava soltanto una figura paterna, aveva bisogno certamente di una mamma.

A quattordici anni si è abbastanza grandi per assumersi le prime responsabilità, ma non di certo il peso di prendere il posto di una mamma nella vita di una bambina ancora così piccina.

Dentro di me c’era uno stato di confusione a livelli massimi, non riuscivo a capacitarmi della sparizione di mia mamma, ero così devastata, tanto da continuare a ripetere di star bene e, alla fine, me ne ero convita. Le mie bugie erano diventate la mia realtà.
A scuola, i compagni e gli insegnanti iniziarono a trattarmi diversamente, le voci si erano sparse ed io ero diventata “quella senza mamma”, tutti erano improvvisamente carini con me, ma io non lo ero altrettanto con loro. Iniziai a vivere chiusa nella mia bolla che mi faceva da scudo con tutte le persone che tentavano invano di allacciare un rapporto con me, li allontanavo, li respingevo.
Una cosa era certa: non volevo la loro compassione.
Neanche con mio padre ho più lo stesso rapporto di prima, da quando mamma se ne è andata; non riesco neanche a cominciare un discorso con lui, lo evito, semplicemente.
L’ho sempre ritenuto colpevole di nasconderci qualcosa e l’ho escluso dalla mia bolla, ma Susie non mi capisce.
L’80% degli adolescenti che subisce una perdita grave come la mia, cadono in depressione, ma io no, anzi. Nella mia vita prese parte un periodo di apatia e freddezza che ancora non è finito.
Luke, il mio ragazzo, dice che ne sono diventata schiava, che ormai non comando più i miei sentimenti e che nemmeno voglio provarci, io mi limito ad alzare le spalle e cambiare discorso.

“Ah, quindi hai quattordici anni?” Rimasi di stucco, forse, in effetti, avrebbe dovuto saperlo subito.
“Ehm, già, tu quanti ne hai?” Farfugliai, con la mano davanti alla bocca.
“Diciotto, e credimi se ti dico che non ne dimostri così pochi.”
“Che vuol dire?”
“Che se avessi saputo prima che avevi solo quattordici anni, probabilmente non ti avrei chiesto di uscire.”

Eccoci.

Sbiancai, tirandomi di nascosto un piccolo pizzicotto, forse perché non credevo alle mie orecchie, non poteva averlo detto veramente.
Evidentemente Luke si accorse della mia reazione scioccata, e sorridendo in modo buffo, continuò il discorso.
“Ma sono seriamente contento di averlo fatto!” Lui era fatto così, avrei dovuto capirlo. 
Tirai un sospiro di sollievo e senza pensarci, aprii bocca.
“Quindi non sei pentito di essere qui?”
“Se fossi pentito di certo non farei questo…”
Così mi baciò, rimasi ferma. Era il mio primo bacio, ma poi ricambiai, e accidenti! Solo Dio sa cosa ho provato. Un’emozione così forte da chiudermi lo stomaco solamente pensandoci.
I brividi mi percorrevano per tutta la lunghezza della schiena, per non parlare della pelle d’oca che mi aveva rivestito le braccia e le gambe. Sarei voluta restare lì per sempre, tra le sue braccia, come se niente potesse ferirmi perché mi sentivo indistruttibile.
Ma come tutte le belle cose, dovetti staccarmi e tornare a casa. Aprii la porta, ancora con la testa tra le nuvole per ciò che era appena successo, ma nessuno sapeva cosa mi stesse aspettando.

“Greg lo sai che devo farlo per te e per le bambine.”
“Ma sono ancora cosi piccole, Evelyn, non puoi farti dare ancora qualche anno?”
“Alexis sei tornata!” mia madre mi aveva vista. Ero nascosta dietro la porta ad origliare; non ero solita a farlo, ma quella volta qualcosa nelle loro voci proprio non andava.
“Suppongo di sì, sono qua, cioè… insomma ci siamo capiti” mia padre mi guardò stranito mentre mia madre sorrise come se avesse letto nella mia mente cosa stessi pensando.
“Vedi Greg, io e tua figlia dobbiamo fare un bel discorsetto, da donna a donna, vero Alexis?” 

Annuii; le mamme spesso sanno le cose prima di chiunque altro.
“Bene, allora io vado a prendere Susie al compleanno di Ashton, a dopo amore.” dette un bacio a stampo a mia madre e uno sulla guancia a me, dunque uscì di casa.
“Allora Alex, com’è andata la tua uscita con Meredith?”
“Ecco, ti volevo dire, insomma, che... sonouscitaconLuke” dissi la fine della frase tutta di un fiato. Mamma scoppiò a ridere come se lo sapesse già, o forse lo sapeva davvero?
“Amore le puoi dire queste cose alla mamma, i messaggi sul tuo telefono parlano chiaro!”
“Come fai a saperlo? Hai letto i miei messaggi?” Era impossibile essere arrabbiati con lei, quindi il tono che in quel momento venne fuori era letteralmente finto, ma infastidito.
“No Alexis, me l’hai detto tu!”
“Ah bene, ho i miei dubbi in ogni caso… ah e, mamma, vorrei dirti un’altra cosa”
“Dimmi”
“Io e Luke ci siamo, insomma, baciati.” La mamma mi abbracciò, era esattamente ciò che volevo, un abbraccio, nessun commento, nessun discorso, ma un abbraccio che valeva più di mille parole.
“E’ una delle esperienze più importanti della vita, vorrei poter esserci per le prossime che verranno.”
“E ci sarai!” dissi spontaneamente, fino ad abbracciarla.
Mamma stava piangendo.

All’aeroporto la gente si muoveva a blocchi creando un clima così dispersivo da far girare la testa. Rischiai di inciampare più volte in qualche valigia tirata a seguito, cercando una via d’uscita da quel caos totale. Finalmente una di quelle porte automatiche si aprì davanti ai miei occhi, lasciandomi inebriare da quell’aria fresca, unita all’odore di gas dei taxi, dei pullman. Diversi uomini in giacca e cravatta tendevano la mano che sorreggeva un cartello bianco con i rispettivi nomi delle agenzie e dei clienti.
Io e Susie ci appoggiammo ad un muretto, così da aspettare la chiamata del nostro vicino che ci avvertisse del suo arrivo.
Bingo.
Dopo pochi minuti per l’appunto lo schermo del mio vecchio iPhone, un catorcio, posso giurare, iniziò ad illuminarsi mostrando la scritta “Sconosciuto”. 
Sbloccai immediatamente il telefono e risposi.

“Si?” Una voce roca rispose dall’altra parte della cornetta.
“Sono davanti all’entrata del gate della US Airlines, muovetevi.” Riattaccò.
Fortunatamente eravamo vicine e in men che mai arrivammo davanti ad una Ferrari leopardata; il ragazzo all’interno indossava un paio di Rayban neri, ed improvvisamente tirò giù il finestrino.
“Ciao, sono Justin.” Allungai la mano per presentarmi a mia volta, ma chiuse nuovamente il finestrino. Io e Susie ci guardammo perplesse, chiedendoci se fosse uno scherzo. Se lo era, beh, era proprio di cattivo gusto.
Abbassò nuovamente il finestrino: “Avete intenzione di rimanere lì impalate, o caricate i bagagli e ci muoviamo ad andare a casa?”
Il maleducato di turno non poteva che capitare a noi, pensai, conseguentemente lasciai perdere e caricai anche la valigia di Susie, montando su quella macchina al dir poco appariscente.  
Dopo 10 minuti di pieno silenzio, Justin si degnò di aprire bocca, ma era evidente che avrebbe fatto meglio a tenerla chiusa.
“Sapete, sono venuto a prendervi soltanto perché mio padre è il padrone dell’intera cooperativa, non fatevi strane idee”.
Solo Dio sa quanto odio quell’ultima frase, non so realmente perché, ma solo a sentirla sclero: se mi sono fatta un’idea che secondo una persona è strana è perché questa mi ha dato motivo di farlo. Continuai a pensare tra me e me, fino a quando la macchina non si fermò davanti ad un’enorme casa con un giardino talmente grande da poter sembrare un parco naturale senza alcun tipo di problema.
“Bene, questa è casa mia e quella accanto è la vostra” Abbozzò Justin.

Mi voltai leggermente per vedere dove saremmo finite io e Susie per il resto dell’estate; la casa che mi si mostrò era sicuramente molto più piccola di quella del moccioso maleducato e figlio di papà seduto davanti a noi, ma superava di gran lunga le mie aspettative.

Due piani, mura color rosa chiaro, cinque finestre che davano sull’ampio giardino, riuscivo persino ad intravedere un terrazzo sul retro, e forse, qualche altra finestra. Da quello che mi aveva accennato l’agenzia immobiliare, la casa al piano di sotto doveva essere composta da una cucina, un piano bar, ottimale per le feste, la sala pranzo e il salotto; passando al primo piano ci sarebbero state due stanze e una sala giochi, che avrei immediatamente trasformato in uno studio.
Sicuramente una famiglia numerosa ci aveva precedute, e solo il pensiero della famigliola felice mi fece riaffiorare i ricordi, così scossi la testa per ritornare sulla terra.
Come d’incanto mi scontrai con due occhi color miele e il mio stomaco trasalì. Suppongo fossero di Justin, che si era tolto gli occhiali ed inconsciamente non ci avevo fatto caso.
Due occhi così profondi che se fossero stati blu avrebbero sicuramente fatto invidia all’oceano, ma quel color miele gli donava, ci avrei messo la mano sul fuoco, li rendeva misteriosi, un po’ come l’anima della persona a cui appartenevano.
Dopotutto, per l’appunto, gli occhi sono lo specchio dell’anima e quelli di Justin la dicevano lunga su di lui, erano occhi spenti e freddi, che cercavano di nascondere i sentimenti invano e io lo sapevo bene, forse perché erano proprio come i miei.
Le conseguenze di una sofferenza così grande portano via la vivacità dell’anima, quindi la luminosità degli occhi; ma erano così belli, i suoi occhi, che sarei stata ore a guardarli. Raccontavano una storia, la storia della sua vita, della vita di Justin.
Lui rimase lì impalato, proprio come me, a fissarmi, il ghigno che aveva sulla faccia scomparì, rilassando il volto.
Una voce femminile ci fece tornare dal mondo delle favole.
Una ragazza sui vent’anni cotonata e simile ad una barbie era arrivata davanti a casa di Justin e continuava a chiamarlo cercando di fare una voce più sexy possibile, ma che secondo me assomigliava di più ad una lagna.

“Ora puoi anche scendere eh!” mi disse Justin scocciato
Un attimo prima era completamente intento a fissarmi, e subito dopo se ne esce così? E’ proprio vero che gli uomini vengono da un altro pianeta.
La portiera era già aperta, Susie era scesa e mi aveva preceduta con i bagagli.
“Stavi pensando a mamma quando ti sei incantata vero?”
“Sì.” Risposi.
Avevo mentito di nuovo, ma non volevo dare spiegazioni. Di certo non mi sarei messa a fare una descrizione dettagliata degli occhi di Justin, oltretutto perché avrei rivelato quanto stessi male a mia sorella, ma anche a me stessa; ed ecco che, nonappena intravediamo l'auto avviarsi verso casa, mi vibrò insistente il cellulare.
Cosa vorrà ancora quel maleducato? Avevo sicuramente dimenticato qualcosa in macchina, e chi lo avrebbe sentito più, poi.

Ciao amore, spero sia andato bene il viaggio.
Un giorno senza di te, e mi manchi di già. x
-Luke

Piccolo particolare, mi ero completamente dimenticata di Luke. Dove avevo la testa? Esistono sette miliardi di esseri umani al mondo. Sette miliardi di anime, sette miliardi di storie, sette miliardi di volti. Eppure a volte una singola persona è capace di far dimenticare dell’esistenza di tutti gli altri.
Ma che andavo pensando, quella persona non poteva essere un tale sgarbato; no, infatti sicuramente mi sbagliavo.
Entrammo in casa e mi sentii ghiacciare le vene, la casa era completamente vuota e anche se faceva un caldo assurdo, sentivo quasi il bisogno di coprirmi dal freddo. C’era bisogno del mio zampino!
Io e Susie ci guardammo con complicità.
“Chiamiamo un taxi, andiamo ad un noleggio auto e poi all’Ikea?”
“Aggiungerei una fermata al McDonald’s” disse Susie.
In riposta le battei il cinque scoppiando a ridere.
Sarebbe stata una lunga estate.

 

 

 

Rieccoci qui!
Ebbene sì, siamo al primo capitolo solo dopo un giorno, ma io e xbierestra non abbiamo potuto fare a meno di scrivere; innanzitutto volevamo ringraziare chiunque abbia recensito il prologo, leggere suggerimenti e apprezzamenti è ciò che amiamo di più.
Arrivando al dunque, cos’abbiamo qui? Finalmente le due sorelle sono arrivate in California, e, ancora finalmente, ecco la prima presentazione di Justin.
Niente accenni su Michael, per ora, ma anche lui arriverà presto, abbiate pazienza.
Alla prossima? Speriamo!

Susie e Alexis

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Capitolo 3
*** Do I Wanna Know? ***


A Thousand Miles 2 MODIFICA
How many secrets can you keep?
Cause there’s this tune I found that makes me think of you somehow
And I play it on repeat

Until I fall asleep
Spilling drinks on my settee.
- Arctic Monkeys


Alexis POV


Fu una lunga giornata, quasi infinita, piena di affanni e senza riposo. La casa era sicuramente più accogliente di prima, ma mancava senz'altro ancora qualche lavoretto per finire di sistemarla.

Finalmente mi sedetti sul letto, complice del fatto che finalmente avrei potuto godere del mio più che meritato riposo; mi spogliai e mi infilai sotto le coperte, dopo aver preso dal comodino il cellulare.

Digitai velocemente quel numero, l’unico numero che sapevo a memoria: bip, bip, bip.

Uno squillo, due, tre.

“Ehi, amore.” Tirai un sospiro di sollievo, una voce un po’ assonnata mi rispose. Probabilmente Luke, o più che sicuramente, si era appena svegliato, gli ci voleva sempre almeno qualche ora prima di riprendersi e salutare il mondo dei sogni.
“Mi manchi.” le parole mi uscirono da sole, senza il bisogno di pensarci. Pentita o meno, era vero, mi mancava, mi mancava passare le giornate con lui, mi mancavano le sue barzellette dopo i litigi, mi mancava tutto di lui, ma soprattutto mi mancavano i suoi baci, le sue carezze e i suoi abbracci che mi davano la forza di andare avanti, di combattere i fantasmi del passato e di vivere la normale vita di un adolescente.
“Ti amo.” aggiunsi, ed era vero, lo amavo. Certo, amavo la sua bellezza e il suo modo di fare, ma non prendiamoci in giro, più di ogni altra cosa amavo il fatto che tutte le mie prime volte le avevo passate con lui. Il primo bacio, il primo concerto, il primo appuntamento e, se qualcuno se lo fosse mai chiesto, la risposta è sì, anche la prima volta che feci l’amore, e adesso, mi sentivo come se lo avessi tradito: il mio primo viaggio con lui a mille miglia da me.
Sentivo la tristezza nella sua voce e la consapevolezza del fatto che non potesse venire. “Volere è potere”, si direbbe in questi casi, ma ahimè, non questa volta; lui non era mai stato ricco, tanto da lavorare mattina e sera per guadagnarsi da vivere. Non avevo mai avuto nessun tipo di problema finanziario perciò avevo cercato più volte di aiutarlo, ma categoricamente si rifiutava e mi sentivo in colpa in quanto tutto quello che guadagnava lo spendeva per me.

 “Non pensiamoci, questi tre mesi passeranno veloci, ti verrò a prendere all’aeroporto, e...” la sua voce fu interrotta da qualche gemito, non ne avevo la certezza, ma ero quasi consapevole di aver sentito qualche singhiozzo.
“Luke, vorrei restare a parlare, lo sai, ma…” ecco altre parole spezzate, rotte del tutto. “Devo andare, tra poco inizia il mio turno. Attacca il telefono prima che inizi a diventare una conversazione troppo deprimente.”
“Certo, amore, non ti preoccupare.” Riagganciò.
Stava male, ne ero sicura; Luke non ha paura delle proprie emozioni. Forse non sempre vuole mostrarle agli altri, ma di certo non le nascondeva a se stesso e per questo lo stimavo dal momento che io, da tempo, non ne ero più capace.
Le sue lacrime erano l’ennesima dimostrazione che il nostro amore non era uguale agli altri. Era quel tipo di amore che cambia la vita, che rende migliori. Quell’amore per cui si combatte. Un grande amore, un amore senza fine; e allora, perché sembrava che ne stesse dubitando?
Mamma, un giorno, mi disse che nella vita ci sono solo due grandi amori, è l’unica volta che probabilmente sbagliò. Non potrei considerare un secondo grande amore, almeno non io.
Stavo per mettermi a dormire quando un’improvvisa voglia di fumare mi invase.
Presi la vestaglia e uscii di casa; il fumo non era per me un vizio, a volte sentivo il bisogno di "rubarle" a Susie e basta. Mi rilassava, e dopo la telefonata di Luke, era necessario.
Cercavo un po’ di quiete, ma come misi piedi in giardino sentii una voce provenire dal retro del giardino/parco nazionale di Justin: sono sempre stata una curiosona, ma non sopportavo origliare le discussioni altrui. Peccato che, in quel momento, paroloni e discorsi poco promettenti mi spinsero ad avvicinarmi per sentire meglio la telefonata di Justin. Giurai di aver sentito Justin chiamare quella persona, "boss".

A mio sfavore, o vantaggio, arrivai in ritardo e il moccioso chiuse la telefonata. Abbastanza delusa e scocciata per non essere riuscita a rilassarmi, rientrai in casa e mi buttai a peso morto sul divano finalmente decisa a riposare la mente.
Stavo quasi per addormentarmi quando Susie entrò tutta pimpante in salotto.
“Vamos a bailar!” urlò. “Che cosa?!” risposi a voce bassa. “Non sei neanche un po’ stanca?”
“Io? No, per niente.” non me ne sorpresi.
“Io si, Susie, andiamo a letto.” dissi, sbadigliando.
Ma che le era preso? 
“Ti prego, è tanto che non usciamo un po’ io e te, da sole, stai sempre con Luke e ti sei praticamente dimenticata della mia esistenza, sei una menefreghista.”
“Adesso basta. Ho detto che sono stanca e non permetterti più, ho passato la mia vita a crescerti, a consolarti quando dicevi che ti mancava la mamma. Che ne sai te della mamma? Avevi solo sette anni e la conoscevi a malapena!”

Mi resi conto troppo tardi che le parole che mi erano uscite di bocca erano come lame taglienti scagliate contro mia sorella. Delle stupide frasi che nemmeno pensavo potessero ferire Susie più di ogni altra cosa. Mi stava fissando, aveva gli occhi lucidi e pieni di lacrime, non riuscii neanche ad aprire bocca in quell'istante che già era corsa fuori di casa; feci per rincorrerla, ma la lontananza che ci divideva era infinita.
Dannazione.
Mi incamminai per tornare verso casa, ma niente da fare, non era proprio la mia serata: avevo chiuso la porta e, come se non bastasse, non avevo le chiavi. Mi accasciai sulla porta, sorreggendomi la testa con le mani. Sembrava di essere in un film, come poteva essere possibile?
Aspettai, aspettai ed aspettai, ma di Susie neanche una traccia, il cielo si scuriva minuto per minuto ed era necessario trovare una soluzione, anche la più tragica. Mi alzai del tutto insicura di quello che stavo per fare, e mi diressi verso casa di Justin: non lo avessi mai fatto.
Dovetti aspettare più o meno 10 minuti prima che un Justin bagnato e in accappatoio venisse ad aprirmi.
“Che cosa vuoi?” Fece una di quelle apparizioni "geniali", con il solito tono scontroso.
Rimasi scioccata per la visione che mi apparve davanti agli occhi, rimaneva un moccioso scontroso, ma sicuramente non potevo negare che era incredibilmente sexy. Eliminai tutti quei pensieri poco adatti alla situazione dalla mia testa e risposi. “Sono rimasta chiusa fuori casa, ti prego di non fare commenti e di indicarmi un posto dove stare fino al ritorno di mia sorella.” mantenni un tono più calmo possibile, probabilmente perché Justin mi metteva un po’ in soggezione.
Un ghigno poco rassicurante apparve sulla sua faccia e parlò.
“Forza, forza, seguimi.”
Uscì di casa e si diresse sul retro, aprì il garage indicandomi un sacco a pelo e qualche coperta sopra uno scaffale. “Puoi dormire qui” continuò con quel ghigno perennemente presente, mostrandomi un piccolo spazio accanto alla sua esuberante macchina.
Scioccata annuii, o lì, o fuori al freddo, non avevo una seconda scelta.


Susie POV


Notai che era tempo di non decidere più niente. Volevo lasciare che le cose andassero come dovevano andare, ma soprattutto vedere cosa sarebbe successo e forse, finalmente, qualcosa sarebbe andato al posto giusto. Non mi capacitai delle pesanti parole di Alexis, e così, mi ritrovai da sola.
Sì, ero miserabilmente sola, tanto da trovarmi in mezzo ad un fiume di gente, in attesa del rispettivo drink.
Dove, quando, ma soprattutto, come? 

Non ero brilla, neanche ubriaca, ho bevuto certo, non molto, non tanto, poco e niente.
Stavo sognando? Buio, tutto poi divenne buio. Secondi, minuti, forse ore e poi qualcuno mi avrebbe svegliata.
Non mi importava se ci fossero cose più importanti da fare, non mi importava se la casa fosse un disastro o se quell'incubo di estate fosse solo iniziato, dovevo piangere, dovevo sfogarmi, dovevo far in modo che tutti i pensieri uscissero dalla mia testa; ma quello che successe dopo, è un’altra storia.
"Questa ragazza ha bisogno di una mano."
Sentivo voci, percepivo il pavimento, ma solo di un particolare riuscivo a ricordarmi: due occhi, due grandi occhi verdi. Verde smeraldo.
Non è questione di averli azzurri, verdi o castani…se in essi non vi è nulla scaturito direttamente dall’anima, non potranno mai essere belli.

Ma quelli, Dio. Quelli erano bellissimi.

"Ehi, bionda, ti serve aiuto?" Tese la mano verso il pavimento, o meglio, verso di me, e mi aiutò ad alzarmi. Non avevo la mente lucida, ma sapevo bene di essere mora; era un gioco per confondermi ancora di più?
Mi scoppiava la testa.
Anche se quel giorno non ci fossimo incontrati, tutto sarebbe andato nello stesso modo; quindi, chi era quel ragazzo? Ma più di tutto, perchè non si stava facendo gli affari suoi?
Ci incontrammo perché doveva succedere, naturalmente ciò non si fondava su niente, ma era quello che sentivo, e ciò che sentivo era che quegli occhi verdi, purtroppo, non li avrei più ritrovati da nessun'altra parte. I pensieri di un'ubriaca non devono essere il massimo per un sobrio.
"Sono un disastro, un disastro, capisci?" Balbettai. Stavo seriamente parlando ad uno sconosciuto, mentre questo non faceva altro che fissarmi, anzi, probabilmente mi rispose anche.
Credo al caso. Credo nelle cose che si fanno senza un senso e cambiano la vita, negli occhi delle persone, alla puntualità del destino, ma all'amore, proprio no. 
Calum mi passò in mente, come un pensiero fantasma che, in un istante, svanì.


Eccoci qua! Con un po' di ritardo, ma siamo sempre qui.
Scusate per non aver dato spazio al Susie POV, e di esserci dilungate precedentemente, ma l'intento era proprio quello di far apparire il "ragazzo misterioso" dagli occhi verdi nel prossimo capitolo ;)
Ma Justin cosa fa? Spero di trovarvi in tante a recensire...
Beh, che dire, a voi i commenti. Fanno sempre piacere!
Susie e Alexis

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Capitolo 4
*** Can't take my eyes off of you ***


A Thousand Miles 3 MODIFICA
You're just too good to be true
Can't take my eyes off of you
You'd be like heaven to touch
I wanna hold you so much.
- Gloria Gaynor


Mi rigirai con un movimento brusco nel gelido sacco a pelo che Justin si era degnato di concedermi, rannicchiandomi quasi fino a sentirmi intrappolata in un vicolo cieco, senza via d'uscita; ciò che successe poche ore prima mi aveva resa ancora più debole di quanto io non lo fossi già. Bisogna saper cogliere le occasioni; se il treno parte alle 8:25 e ci si sveglia alle 8:20, è già troppo tardi. Ma è possibile correre, correre veloce per raggiungerlo, correre tanto forte da farsi mancare il respiro.

Dovevo prendere quel treno, un treno senza ritorno, dritto al cuore della sorella che amavo più al mondo, ma alla quale mi stavo allontanando minuto per minuto.
Giustamente, proprio l'unica notte fredda gelida di tutta l'estate dovevo avere la fortuna di passarla in un garage. La pelle d'oca mi aveva coperto tutte le braccia nude e continuavo a battere i denti.

Non riuscivo a dormire e davo la colpa al freddo, ma sapevo che era il pensiero di Susie che continuava a tormentarmi. Continuavo a rigirarmi e rigirarmi in quel minuscolo sacco a pelo quando il rumore di un porta che si stava aprendo mi distrasse.
Era Justin e decisi di fingermi addormentata socchiudendo gli occhi, ma lasciando una piccola fessura aperta per curiosare per quale motivo fosse venuto nel garage a metà della notte.

Sbadata come sempre, non mi resi conto che aveva con sé una coperta.

Mi chiesi perché se la fosse portata dietro, iniziai a fare qualche ipotesi, ma di certo non mi sarei immaginata quello che stesse per fare: si avvicinò a me, decisamente troppo per i miei gusti, mi accarezzò il braccio e la pelle d'oca non fece che aumentare e poi ecco l'inaspettato, prese la coperta e me l'adagiò addosso; probabilmente si era reso conto del freddo.
Riuscii a scorgere il suo viso mentre lo faceva, speravo che la sua espressione mi avrebbe permesso di capire di più su quella situazione, ma niente era uguale a sempre, stessi occhi freddi e distaccati e stesso ghigno in faccia.
Poi uscì come se non fosse successo niente, sperai che la mattina seguente mi avrebbe dato una spiegazione, ma non ci speravo... Non conoscevo Bieber, ma era come se sapessi già tutto di lui.



Susie POV


Dicono che i libri, l’arte, l’alcool, e perché no, anche fare l'amore, siano i modi migliori per scrollarsi di dosso la realtà. Ci si immerge in situazioni e momenti estremi, o di estrema calma, per cercare di dimenticare, nonostante ognuno di noi sia consapevole che dimenticare è impossibile.
Mi alzai dal letto con cento, mille domande alle quali non avrei mai saputo rispondere, ma più di tutto, con un fastidiosissimo mal di testa; allargai le braccia a pugni stretti fino a stiracchiarmi, per poi finire nuovamente distesa sul materasso. Perché non ne ero sorpresa?
Svegliata di soprassalto e con il fiato corto mi convinsi che, come un incantesimo, il suo volto era bloccato nella mia testa.
Sì, me lo ricordavo. Senza ombra di dubbio il volto di quello sconosciuto che poche ore fa si era preso responsabilmente la briga di starmi accanto, in un modo o nell'altro, mi tormentò per l'intera notte da incubo.

Un volto annebbiato, innominato.

Non chiedevo tanto, avevo bisogno solo di conforto, contatto, ed i suoi occhi, quella sera, mi bastarono; forse era la sbronza, anzi, ne ero sicura, o forse c'era semplicemente qualcosa che non andava dentro la mia testa, dal momento che ciò che successe la sera precedente, per me, rimase un mistero.

"Dai, vieni, ti porto a casa. Non ti lascio tornare da sola."

Aveva gli occhi verdi, forse, probabilmente azzurri, ma non ne ero certa. Dannazione, era una pazzia, una pazzia bella e grossa continuare a rimuginare tanto a lungo su qualcosa, o meglio, su qualcuno che probabilmente non avrei più rivisto, ma era più forte di me.

"No... Ehm, sto bene, ce la faccio..." non feci in tempo a dirlo che caddi a terra, almeno, è quello che mi ricordo.
Ad una persona quale sono io, che crede profondamente al caso, in ciò che si fa senza un senso e cambia radicalmente la vita, alla puntualità del destino e agli appuntamenti che non è possibile mancare, piace pensare che se le nostre strade si sono incrociate, un motivo c'è.

“Non è un peso, per me, aiutarti. Piacere, sono M…” niente, nessun’immagine o parola mi era chiara.
Pensai che mi sarebbe piaciuto semplicemente scambiarci due parole, riderci sopra, poter conoscere quel ragazzo premuroso e dal sorriso gentile, semmai lo avessi rivisto.
Mi ricordai però di essere frustrata.
Odio. Provavo solo odio, un odio profondo verso quelle parole che Alexis mi aveva scagliato contro, parole così pungenti da farmi scordare completamente della motivazione per la quale, quei mesi, mi trovato lì; il lavoro estivo doveva essere un pretesto per scoprire di più sulla mamma, ma era come se me ne stessi dimenticando.
Stupida ragazza, insensibile.
Strinsi le palpebre fra loro, nonostante il cuscino mi impedisse di vedere qualsiasi cosa all’infuori del nero.
Non riuscivo a concepire del tutto cosa mi fosse passato per la testa il giorno prima, cercavo di trovare una spiegazione per la quale io mi fossi spinta così oltre, ma nulla; bando alle ciance, era tempo di andare a lavoro.

Parcheggiai l'auto all'angolo della strada, sfiorando pericolosamente il marciapiede; con i miei diciotto anni, d’altra parte, mi sentivo come se una parte di me stesse iniziando a diventare autonoma, ma non lo ero per nulla. Io e Alexis decidemmo giorni prima, con esitazione, che avremmo lavorato nello stesso posto, o meglio, lei avrebbe continuato i suoi studi da specializzanda in chirurgia, mentre io probabilmente avrei fatto da spalla al bar dell’ospedale; mi presentò al proprietario e gli promise infinita diligenza da parte mia. Era simpatico, ma mai dare troppa confidenza ai propri superiori.

L’idea non mi allettava, ma dovevo farlo per papà, e, ovviamente, per guadagnarci da vivere.
Afferrai la borsa e fissai la mia immagine riflessa sul vetro della macchina, intenta a sistemarmi i capelli; scoccai un ultima occhiata alla scritta “California Hospital Medical Center”, in attesa di finire l’ultima sigaretta del pacchetto.
Distolsi lo sguardo, messa a disagio da quel semplice nome che portava con sé molto più timore di quanto non ne avessi io: non mi erano mai piaciuti, gli ospedali, quest’ultimo era per l’appunto un altro ostacolo sulla mia strada, ed ero costretta a preoccuparmene mentre proseguivo, o iniziavo, le ricerche su mamma.

Quella mattina, con o senza Alexis, sarei stata, ancora una volta, sola, ma percepivo comunque una sensazione speciale; da brava lavoratrice, entrai dalla porta sul retro e feci la mia entrata ancora per metà addormentata.
Quanta gente. Troppa.
Decisi di cercare il direttore in modo da farmi dare qualche dritta, evidentemente ero troppo ingenua da capire che non erano tutti a disposizione per una novellina, perciò, incerta, mi fermai a chiedere consiglio ad una ragazza in divisa.

“Ciao, scusa, sono nuova qui. Ehm, non so bene come… ecco, come muovermi, e pensavo che…” non riuscii nemmeno a finire la frase, se era possibile chiamarla tale, che si mostrò prontamente un sorriso a trentadue denti sul suo viso, così spontaneo, sincero.
Tirai un sospiro. “Non devi nemmeno preoccuparti, ti seguirò io se avrai bisogno, per oggi. Sono Sarah, anche io sono qui da poco.” Era una di quelle ragazze vispe, sempre attente a tutto, a quanto pare; mi piaceva, in fin dei conti non sarebbe stata una giornata pesante, con lei.

“Io sono Susie.” le avvicinai la mano, e nel momento in cui ci stavamo presentando mi diede, all’istante, nell’occhio il braccialetto che portava con così tanta grazia; aveva inciso una "M" in corsivo, doveva essere abbastanza costoso. Mi piaceva, da morire, un giorno ne avrei desiderato uno anche io, pensai.

Il primo giorno di lavoro è in genere quello più duro, dicono. Ci si deve abituare ai ritmi, capire cosa si deve fare e come lo si debba fare. Se ci si sente carichi, presumibilmente ci si sbaglia.
“Senti, ti dirò, qua sono tutti così sgarbati e sono felice di saperti vicina, ma per oggi dovrai fare un’eccezione. Ti va? Dovrai darmi il cambio. Devo occuparmi di mio fratello, e me n’ero completamente scordata.” Perfetto, i miei piani non erano proprio questi; costatai che in fin dei conti non mi sarebbe costato nulla. Mi sarebbe piaciuto conoscerla, Sarah. Bionda, alta, magra, una ragazza da copertina, pensai, doveva di certo essere una di quelle ragazze che non si scordano.

“Se per te va bene, dovresti servire ai tavoli riservati esclusivamente all’ospedale, quelli laggiù infondo.” La guardai distrattamente, immersa a pensare che forse, quella era la parte riservata ai parenti, familiari o amici dei pazienti, ma non ne avevo la certezza. “Se c’è qualche problema chiamami, ti lascio il mio numero!” Disse, dandomi un colpetto sulla spalla.

In fin dei conti, se ci si pensa, noi lavoriamo, scriviamo, troviamo distrazioni perché non abbiamo il coraggio di urlare. Scrivere è l’urlo dei silenziosi, scriviamo per sfogarci, per tirar fuori i nostri sentimenti e tramutarli in lettere. Per me, d’altro canto, lavorare doveva tramutarsi in energia da trasmettere esattamente a me stessa, energia finalizzata a farmi pensare che, in fin dei conti, sarei riuscita a rendere qualcuno fiero di me.

Primo tavolo, secondo, terzo; servi a questo, a quell’altro, riporta indietro il drink sbagliato e cambia di nuovo le posate. Non feci in tempo a riportare indietro l’ordinazione sbagliata, che sentii una voce chiamarmi.

Una voce profonda. Gentile.

“Scusi, signorina, mi porterebbe un caffè? Ah, e dello zucchero.” Era giovane, sembrava avere più o meno la mia età, ma non mi guardava in faccia. Aveva l’aria malinconica, era intento a leggere dei moduli, così mi limitai ad annuire.
Portava i capelli corti, un po’ spettinati e biondi. Un biondo platino, sicuramente tinti.
Temporeggiai, facendo la finta esperta del locale, quando non sapevo esattamente nulla: mi avvicinai al ragazzo dalla pettinatura strana e gli servii ciò che aveva chiesto, mise i moduli da parte e alzò lo sguardo.

“Grazie mill…” Mi fissò a bocca aperta. Feci cadere, senza farlo apposta, addosso a lui il contenitore di zucchero e, nel momento in cui ricambiai lo sguardo, mi resi conto di guardare due occhi grandissimi, verdi come il fondo dell’oceano. Non poteva essere lui, non in quelle circostanze.

“Scusami, è il mio primo giorno e già combino danni.” Balbettai, non sapendo a che vetro appendermi; avete mai provato l’imbarazzo di guardare una persona, e sorridere contemporaneamente?

“Sto veramente pensando di essere perseguitato da te, a questo punto.” Mi piaceva la sua ironia, ma non per questo gli era concessa di usarla su di me. Feci finta di nulla e mi girai dall’altra parte, fingendo di non capire.

Era lui.

Era bellissimo, così bello e diverso dagli altri che riusciva a mettere in imbarazzo persino se stesso; feci andare via quei pensieri inadeguati, dal momento in cui mi accorsi che era ancora intento a guardarmi.
“Comunque io sono Michael. Non ti preoccupare per l’altra sera, sono una persona affidabile. Penso.”

Michael.

“Ah, beh…Ehm, piacere. Susie.”
Forse è proprio vero che certi occhi colpiscono sempre, marroni o azzurri che siano. Gli occhi della persona che ci tormenta, o che ci ha semplicemente tormentato per una sera, non si dimenticano mai. Nel preciso istante quando i nostri sguardi si incrociarono, mi tese la mano per stringermela e notai un braccialetto, questa volta, con una "S" incisa.
Avevo visto bene?






WELCOME BACK, con infinito ritardo.
Finalmente abbiamo aggiornato, immerse dai compiti fatti all'ultimo; come avrete notato, abbiamo dato poco spazio ad Alexis e Justin dal momento in cui non ne avevamo dato a Susie, ma si saprà anche qualcosa in più su di loro, molto presto. Bene, avete scoperto finalmente chi fosse il famoso ragazzo dagli occhi verdi, e a quanto pare, anche Susie.
Ah, e poi c'è Sarah. Chi sarà?
A voi i commenti, come sempre numerose, speriamo?
Susie e Alexis :)

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